Francesco Perri

Emigranti



PARTE PRIMA

Cap.I

Quella volta i Panduresi, o Pandurioti - come si  chiamano  più  propriamente,  con  una denominazione che ha tutto il profumo antico delle colonie ioniche - erano risoluti di  farne  una,  che rimanesse veramente memorabile negli annali della Calabria.

Li chiamavano  «Pandurioti  senza  sangue»,  perché  avevano  fama  di  essere  gente  pacifica, modesta, frugale, e un pochino anche povera di spirito, ma i Pandurioti senza sangue,  una  volta  tanto avrebbero insegnato a tutti come si fa a farsi rendere giustizia, anche dal  Governo;  e  avrebbero impartita una lezione memorabile ai galantuomini. I quali, in  definitiva,  non  erano  neppure  del  loro paese. Grossi proprietari di Platì, di S. Ilario e di Siderno erano, che avevano,  in  altri  tempi,  con l’inganno, la violenza, e valendosi delle  magistrature  e  delle  influenze  politiche,  usurpate  quasi  tutte  le terre demaniali del Comune, e per colmo del dispetto si servivano ora di braccia  forestiere  per coltivarle.

Ancone, il Carruso, i piani di Angelica, Flavia, i Baronali:  tutta  terra  usurpata,  sangue  dei poveri, beni collettivi del Comune, che poteva essere il  più  ricco  della  provincia  e  invece era tra i più poveri, e doveva mandare i suoi figli in America, in un altro mondo, a procacciarsi un tozzo di pane.

Il paese, chiuso in un cerchio di ferro da quei vasti latifondi, passati, non si sapeva come, nelle mani dei signori forestieri, non respirava se non per quel tanto che piacesse ai padroni di farlo respirare. Per far legna, per pascolare, per coltivare un po’ d’ortaglia, per seminare un pugno di grano bisognava passare il lustrissimo ai signori, i quali si davano l’aria di proteggere e beneficare il Comune, mentre si nutrivano del suo sangue e si godevano i suoi beni. E ciò senza contare  qualche  acconto  in  natura, prelevato di quando in quando tra le ragazze più belle del paese.

Altre  volte  si  era  tentato  di  rivendicare  quei  benedetti  terreni  demaniali,  e  molti  erano  stati  gli

agenti delegati a risolvere l’annosa quistione; ma alla resa dei  conti  non  si  era  mai  concluso  nulla.  I signori avevano sempre trovato il modo di eludere la legge, se pure qualcuno si era  mai  proposto veramente  di  applicarla:  perché,  a  guardarci  bene  in  fondo,  tutti  quei  magistrati  che  venivano  da lontano, e dimostravano, a parole, tante buone intenzioni verso gli interessi del popolo, erano  poi d’accordo con gli usurpatori per gabbarlo. E il Governo, beato lui! teneva mano.

Quella volta però la cosa era impostata diversamente. Prima di tutto alla testa del popolo vi era il Sindaco, un avvocato giovane, che sapeva dove mettere le mani, e insieme a lui vi  era  il  maestro elementare, Don Michelino Fazzolari, un giovanotto anche  lui  che  aveva  studiato  a  Messina  quattro anni, e sapeva leggere e scrivere come un padreterno. Erano loro questa volta che avevano presa l’iniziativa, e avevano scovato  nell’archivio  municipale  dei  documenti  veramente  definitivi.  In  quei documenti i diritti del Comune vi  erano  esposti  chiaramente,  come  in  un  testamento  scritto  dal  notaio. Don Michelino aveva copiato, in un  foglio  di  carta  protocollo,  con  la  sua  bella  calligrafia  a  svolazzi,  i passi più importanti di quei documenti, e li andava leggendo  a  tutti,  perché  si  persuadessero  e s’incoraggiassero ad agire. Non tutti i documenti erano stati ritrovati, veramente. I più antichi  e importanti  erano  stati  distrutti  dai  vecchi  amministratori,   pagati   dai   galantuomini   forestieri. Mancavano,  per  esempio,  quelli  relativi  alle  operazioni  demaniali  eseguite  dal   generale   Colletta,   lo storico. Ciò non di meno quelli che erano stati ritrovati, bastavano a provare i diritti del Comune.

Ascoltate,  -  diceva  il  maestro  Fazzolari,  cacciandosi  con  un  gesto  rapido  la  paglietta  sulla

nuca, - questi sono documenti, non li ho mica inventati io «L’anno 1853 alli 28 del mese di ottobre, in questo Comune di Pandore, volendo proseguire l’operazione incominciata ieri in compagnia delle persone annotate, ecc., ci siamo recati nella tenuta comunale chiamata Forestola ossia Macrolis, confinante col feudo An cone, ecc. Noi quindi in presenza dell’interessato signor ***, abbiamo ordinato e ordiniamo ai periti Macrì e Romeo di apprezzare tutta la suddetta parte del fondo Ancone e aggregarla alla foresta comunale. Abbiamo quindi dichiarato al signor Sindaco qui presente, massaro Rosario Zito, che tutti detti prezzi passavano da oggi nel libero possesso del Comune, - sentite? - e che rimaneva a lui il carico di edificare delle colonnette di fabbrica, in modo da non venire più alterati i termini».

È chiaro?

Ah! per chiaro è chiaro come l’ambra. Ma perché non ha  mantenuto  il  possesso,  il  massaro Rosario Zito?

Perché? perché da Siderno gli hanno mandata una pesa di maccheroni.

E  questo  è  uno, -  seguitava Don Michelino infervorato -  questo è il primo. Sentite  quest’altro:

«L’anno 1889, il 17 giugno nel territorio del Comune di Pandore. In esecuzione dell’ordinanza dell’Ill.mo signor Prefetto della Provincia di Reggio, commissario per gli  affari  demaniali,  in  data quattro corrente. Noi Giovanni Bosurgi, agente delegato in detta operazione, ecc., assistiti, ecc., abbiamo constatate le occupazioni esistenti nonché la loro estensione, la natura del terreno, e infine i nomi degli illegittimi proprietari, tra i quali figura il signor *** che ha occupato terreni come dal quadro sinottico appresso segnato:

«Seminatorio con gelsi e fichi, ettari 400; frattoso e boscoso ettari 250; frattoso, boscoso e parte aratorio 100».

Insomma, le carte parlavano chiaro, i documenti c’erano, ma, come le gride  manzoniane,  non avevano mai prodotto alcun effetto concreto. Ora il Sindaco e la nuova amministrazione erano  risoluti d’andare a fondo, a qualunque costo,  e  nella  ultima  seduta  consiliare  avevano  approvata  una deliberazione veramente coi fiocchi, e l’avevano spedita al Prefetto.

Anche la conclusione di quella deliberazione aveva trascritta Don Michelino e la leggeva, specialmente alle donne; le quali, all’idea di mandare in America i loro uomini, diventavano furibonde.

«Il Comune - diceva la deliberazione - non mai cessò di reclamare quanto le benefiche leggi eversive, abolitive della feudalità, avevano concesso a beneficio e sollievo dei suoi cittadini. Il presente conato sarà l’ultimo. Al Comune si parano davanti due sole vie: o le reintegre demaniali, e così tirare avanti l’esistenza e sostenere la povera famiglia, o disertare il paese imprecando ed emigrando in America, in cerca di quel pane che il proprio paese gli nega».

Non gli avete detto, però, che saremmo andati a prendercele, le terre, se lor signori non  ci renderanno giustizia; non glielo avete detto? - facevano le donne  con  gli  occhi  minacciosi,  i  bimbi  in braccio seminudi, sporchi di moccio e di terra. - Bisognava dirglielo.

Quelle  cose  si  fanno  e  non  si  dicono.  Del  resto  vedremo  quanti  sarete  a  venire,  se  la  cosa dovesse risolversi così.

Quanti saremo? tutti... anche le galline verranno. Se qualcuno rimarrà a casa lo squarteremo, per il Signore, vedrete.

Per tutta l’estate non si parlò d’altro a Pandore che della rivendica dei terreni demaniali, e della possibilità di una occupazione violenta, se  l’Autorità  avesse  fatto  come  per  il  passato.  Si  discorreva nelle botteghe, sulle piazze, sulle aie, durante la scarsa e magra  trebbiatura  di  quell’anno  disgraziato;  si parlava la domenica prima, dopo e qualche volta durante la messa. Si pesava il  pro  e  il  contro,  si ragionava  sulla  importanza  dei  documenti,  che  parlavano   chiaro   come   una   sillammatica;   si affacciavano i dubbii sulla riuscita, sui pericoli di una siffatta avventura: ma alla fine tutti  erano d’accordo che bisognava agire.

Valeva proprio la pena! Sarebbero diventati tutti piccoli proprietari.

Il conto era subito fatto. Erano 200 tomolate ad Ancone, circa 700 al Carruso;  a  poi  il  Prato, Angelica, Flavia, i Baronali! in tutto oltre duemila tomolate. La  popolazione  del  Comune  contava appena 1500 abitanti. Distribuita la terra per capi di famiglia, sarebbe toccata una  bella  porzione  a ciascuno; e tutta terra eccellente da far grano come sabbia.

Tale era l’interesse che aveva suscitato nella popolazione quell’affare delle terre e tante  le speranze, che molti giovani avevano rimandata la loro partenza per l’America, e le donne che avevano i mariti emigrati, avevano scritto loro che  si  tenessero  preparati  a  rimpatriare,  perché  quanto  prima  le terre del Comune sarebbero state rivendicate e distribuite  alla  popolazione,  e  l’America  l’avrebbero avuta in casa.

L’annata  era  stata  pessima  per  i  seminati  a  causa  della  siccità,  e  peggiore  si  annunciava l’autunno per la raccolta delle olive. Durante il mese di agosto due volte era apparsa sul mare la lupa, la terribile nebbia dello scirocco che viene dalle spiagge africane; e le  olive  chiazzate  di  rosso,  corrose  e disfatte cadevano dall’albero a ogni soffio di vento. Che fare in quella terra arida e maledetta, soggetta a tutte le intemperie? L’unica risorsa era emigrare, e più di quaranta uomini atti al lavoro si erano fatti rilasciare i passaporti.

L’emigrazione in America, specialmente da parte  dei  Pandurioti,  fino  allora  era  stata scarsissima. In maggioranza contadini, quasi tutti analfabeti che non avevano messo mai il naso fuori dell’uscio, un po’ timidi per natura, attaccati alla loro terra e ai loro affetti,  erano  presi,  all’idea  di emigrare, da una specie di terrore misterioso.  Qualche  operaio  che  vi  si  era  arrisicato  non  aveva  fatto gran che fortuna, mentre dai paesi vicini, dove l’emigrazione era  stata  più  larga,  giungevano  spesso notizie che facevano perdere la voglia di avventurarsi.  Un  tale  di  Platì  era  stato  ucciso  da  quelli  della Mano Nera; un altro di Bovalino aveva perduta una gamba sotto un treno. Di qualcuno non si avevano più notizie. Gli animi rimanevano perplessi, i cuori sospesi e incerti. Perciò la notizia  che  il  Comune intendeva promuovere seriamente la rivendica dei terreni demaniali, era stata per  tutti  una  specie  di pretesto per non tentare l’ignoto. In attesa che il Prefetto desse evasione - come diceva Don Gialormo il capo guardia  - alla  deliberazione  consiliare,  si  era  arrivati  alla  metà  di  settembre,  ma  il  Prefetto  taceva dignitosamente. Gli animi erano eccitati e si attendeva un ordine dal Sindaco.  Don  Michelino,  col cappello sulla nuca e l’estratto dei documenti demaniali in aria, soffiava nel fuoco.

Il Sindaco ha paura, quanto è vero Dio, è un pulcino.

Ha paura? e allora non faccia il Sindaco - gridava digrignando i denti il Galeoto ; e batteva il pugno sul  pancone,  facendo  tintinnire  il  vassoio  coi  bicchierini  allineati,  tutti  umidi  dell’anice tracannato dai frequentatori.

La bottega di Porzia Papandrea era uno dei luoghi dove le discussioni diventavano più accese e prendevano, per così dire, un tono  corale.  Vi  convenivano  abitualmente,  per  acquistare  un  soldo  d’erba santa  o  un  sigaro  napoletano,  Don  Gianni  Cúfari,  cassiere  del  Comune,  Don  Gialormo  il  capo  guardia, il Galeoto - un manuale che aveva scontati 16 anni di galera per omicidio, ed era ritornato in paese con una edizione illustrata della Battaglia di Benevento -, cosa  che  gli  aveva  acquistato  fama  di  uomo  di lettere; Rosario Cosenza - un altro che aveva imparato a leggere in prigione,  e  che  chiamavano l’avvocato, perché andava in giro con una edizione tascabile dei Cinque Codici - e  Don  Michelino Fazzolari. I primi, tra una discussione e l’altra, centellinavano saporitamente, schioccando la lingua, dei bicchierini  di  anice.  Don  Michelino  non  beveva:  fumava  invece  delle  sigarette  Macedonia,  rompendole a metà per economia, e dissipava le obiezioni con un’aria da Gesù tra i dottori.

Nella bottega piccola e buia, per metà occupata da un grosso pancone annerito sul quale si dondolavano le bilance del sale, si spandeva, col  profumo  dei  tabacchi,  un  forte  odore  di  acciughe salate, e quello più pesante e nauseabondo di un mastello di stoccafisso messo ad ammollare. In mezzo era posato un lume ad acetilene, che insieme a una luce bianca, a volte abbagliante, spandeva anch’esso intorno un suo odore acre e penetrante come quello dell’aglio.

Dietro il banco Porzia Papandrea, con la sua larga faccia butterata, incorniciata da capelli ancora

nerissimi, l’enorme petto afflosciato e pendente sul ventre come una  doppia  vescica  di  liquido,  una collana di vetro a grossi acini gialli, serviva con indolenza pesante  e  rassegnata  qualche  cliente;  e  di quando in quando scostava inquieta una tendina verde calata nel vano d’una porta che dava nel retrobottega, donde giungeva a tratti,  tra  il  bisbiglio  sommesso  d’una  conversazione  molto  familiare,  il riso squillante della figlia Vittoria.

Voi  dite  che  il  Sindaco  ha  paura, -  diceva  Cosenza,  mettendo  fuori  da  una  saccoccia  interna

della giacca i Cinque Codici, - ha ragione di  avere  paura.  Io  quelle  leggi  diversive  delle  proprietà feudali non le trovo qua dentro.

Don Michelino stralunava gli occhi: - Diversive? che cosa sono coteste leggi diversive?

Lo domando a voi, io...

A me? E chi ha parlato di leggi diversive?

Voi, santo  diavolo,  proprio  voi.  In  quella  carta  che  andate  leggendo  a  tutti,  dice  proprio  così:

«benefiche leggi diversive» in un punto. In un altro punto dice: «benefiche leggi bollitive». Nel Codice quelle leggi non ci sono. Ecco qua, guardate voi stesso.

Ignorante! - gli gridava in viso Don Michelino - ignorante! - Nella carta dice eversive e non diversive. E in un altro punto dice: abolitive. Se  non  lo  sai  sono  le  leggi  emanate da Re Gioacchino, quello che ammazzarono a Pizzo.

Cosenza rimaneva male. Don Gianni Cúfari si teneva la pancia per il gran ridere.

Ah! Ah! bollitive!... che dici, Cosenza?

Bollitive o abolitive fa lo  stesso,  -  insisteva  Cosenza,  riprendendo  coraggio.  - Sono leggi che non valgono più nulla, altrimenti si troverebbero nel Codice.

Insomma, - interrompeva furibondo Don Michelino - tu vuoi mettere in  dubbio  che  le  terre appartengono al Comune?

Niente affatto; ma dico che l’articolo non è quello che citate voi. Con la legge non si scherza, caro Don  Michelino, e  se non  facciamo le cose con le regole e le controregole ce ne andremo tutti in galera.

Sentiamo un po’ l’opinione di Guerrazzi, -  disse  Don  Gialormo,  schizzando  sul  pavimento  un lungo getto di saliva, - sentiamo il parere di Guerrazzi. E ammiccava verso il Galeoto.

Vuoi sapere il parere di Guerrazzi?  te  lo  do  subito  -  rispose  quello,  stralunando  i  suoi  occhi gialli come quelli dei gatti selvatici. - Il mio parere è che da oltre  cinquant’anni  queste  ranocchie  di Pandurioti tentano di riavere i loro beni, e non sono mai riusciti a trarre un ragno dal buco. Ora a me pare sia giunto il tempo di fare sul serio.

E tu pensi che questa sia la buona? - domandò con un riso beffardo Don Gianni Cúfari.

Se siamo cristiani con due dita di battesimo, questa sarà la buona.

Ascolta, - riprese il vecchio  - io ci vivo da oltre trent’anni nel Comune, e di coteste operazioni demaniali ne ho viste iniziate almeno una diecina. Credimi, caro mio,  non  è  affar  nostro.  È  morto nessuno per lasciartele quelle terre in eredità? No? e allora non ci pensare, anzi,  non  ci  pensiamo. Mettiamo tutti il cuore in pace, e chi deve andare in America  vada pure, ché le terre demaniali rimarranno a chi le possiede.

Ecco... ecco... quelli che hanno rovinato  il  Comune!  -  urlava  Don  Michelino,  con gli  occhi fuori dell’orbite, congestionato, scuotendo le mani in alto,  con  un  atto  di  comica  deprecazione.  -  Sono questi vecchi uomini che hanno rovinato il nostro  Comune.  Sempre  pronti  a  curvare  la  schiena  e  a calare le brache.

Vedremo quello che farete voi, novello messia del popolo ebreo.

Don Michelino avrebbe voluto rispondere, ma la conversazione fu interrotta da un  fragore  di stoviglie nel retrobottega, a cui seguì un acuto strillo di Vittoria.

Porzia balzò in piedi con tutta la  velocità  che  le  consentiva la sua vasta mole di donna disfatta dalla pinguedine e dalla pigrizia, e sollevata la tenda cominciò a urlare con la sua voce da orca:

Per il Padreterno, vi taglio la testa a tutt’e due. E scomparve dietro la tenda.

Musica! - fece Don Gialormo guardandosi intorno.

Che succede?

Porzia è gelosa - spiegò a bassa voce il capo guardia.

Porzia Papandrea, ai suoi tempi, era stata una delle più belle donne del paese; bella,  per intenderci, di  quella  bellezza  vigorosa,  quasi  barbarica,  fatta di  carne,  di  sangue,  di  ardori  insaziabili  e di elementi essenziali, che caratterizza gli amori e i gusti della gente popolana.  Rimasta  vedova  ancor giovane, con una bambina, con l’esercizio di  una  bettola  e  della  privativa  che  la  mettevano continuamente in contatto con ogni specie di persone, era stata l’amante  di  quasi  tutti  gli  uomini gagliardi e un  po’  in  vista  del  paese.  Quando  gli  ardori  della  giovinezza  cominciarono  ad  affievolirsi,  e gli  spiriti  battaglieri  dell’amore  inclinavano  a  cedere  il   campo   alle   considerazioni   pratiche,   Porzia scelse tra i suoi amanti superstiti quello che le garantiva di esserle più fedele, e  che  contempora- neamente, per le sue condizioni economiche,  rappresentava  una  fondata  speranza  per  l’avvenire  di  sua figlia Vittoria; una ragazza che cresceva con le ore, piena di una giovinezza prepotente e impetuosa più di quella di sua madre.

La  scelta  era  caduta  sopra  Bruno  Ceravolo,  un  massaro  ricco,  vedovo  anche  lui  e  senza  eredi

diretti, che consumava le  sue  rendite  nelle  bettole  e  nei  suoi  numerosi  amori  vedovili,  ed  era  uno  dei più assidui frequentatori della bottega di  Porzia.  Ma  questa,  valicati  i  quarant’anni,  invecchiò rapidamente, diventò una massa  informe  di  grasso  e  di  accidia,  e  dell’antica  bellezza  non  le  rimasero che  i  capelli,  sempre  neri,  lucidi  come  l’ala  del  corvo,  che  con  il  loro  splendore  intatto  accentuavano nell’osservatore la disgustosa impressione che produceva la vista  del  progressivo  disfacimento  di  quel corpo, che una volta aveva fatto girare la testa a tutto il paese. Delle sue relazioni con Bruno Ceravolo a poco a poco non rimase che l’abitudine, un’abitudine stracca e piena di querele e di  crucci.  La giovinezza che fuggiva da lei  pareva trasferirsi e moltiplicarsi nella  figlia Vittoria, una specie di gigantessa, che della madre aveva non solo gl’istinti e la tendenza al godimento pieno e turbinoso,  ma dimostrava di avere anche il senso pratico, e l’attitudine al calcolo in tutte le cose, non  escluse  quelle dell’amore.

Naturalmente  i  giovani  che  la  volevano sposare erano molti in paese, ma essa, mentre dimenava la coda con tutti, accarezzava un progetto ambizioso  che  conosceva  lei  sola,  e  che  aveva  naturalmente messa la guerra in famiglia.

Massaro Bruno, a furia di accarezzare e di vedersi girar  davanti tutto il giorno quella splendida ragazza piena di sangue e di salute, dai fianchi poderosi, con un petto che pareva le schiantasse il busto, si sentiva intorbidare gli occhi.

Egli era  uno  di  quegli  uomini  duri,  asciutti,  con  una  complessione  segaligna  e  perfetta,  i  quali, in fatto di amore, a cinquant’anni, si domandano se la giovinezza è ancora  da  passare.  A  vederlo  tutto sbarbato, con un volto secco, quasi tagliente, segnato da  qualche  ruga  profonda  che  dava un’impressione più di energia che di vecchiezza; vestito di un fustagno casalingo  tessuto  con  un  filo ricavato da cascami di seta, giacca e pantaloni corti, calzettoni  di  lana  al  ginocchio,  scarpe  alte  di vitello, con guarnizioni ad arabesco intorno all’allacciatura;  agile,  vigoroso,  rapido  nei  movimenti,  le mani ruvide e nervose, cosparse da un pelame rossastro, sembrava un organismo in ferro battuto.

Vittoria non tardò ad accorgersi che certe carezze di quell’uomo erano troppo audaci e insistenti per essere carezze paterne, e concepì subito il suo piano di battaglia. Sua mamma invecchiava e lei ne avrebbe preso il posto, ma non come amante, come moglie.

Quella sera massaro Bruno era nel retrobottega, mentre Vittoria lavava i piatti, e come al solito le ronzava attorno, le passava la mano sulla schiena, come si fa  con  una  bella  cavalla,  e  quando  gli riusciva, le scoccava di sorpresa qualche bacio.

Quando s’udì il fragore di stoviglie massaro Bruno aveva afferrata la ragazza, e aveva tentato di baciarla in bocca. Vittoria, divincolandosi, aveva dato del gomito in una pila di piatti,  che  erano precipitati sul pavimento. Quando Porzia sbucò da dietro la tenda  verde,  massaro  Bruno,  con  gli  occhi torbidi, le mani protese, cercava trattenere la  ragazza,  mentre  questa  lo  respingeva  puntandogli  sul volto uno straccio tutto gocciolante dell’acqua sporca della rigovernatura.

Successe un putiferio. Accuse, grida, urli, imprecazioni, e finalmente  il  pianto  flebile  e  stanco  di Porzia che si era accasciata in un angolo e si lamentava come una mucca malata. Gli avventori a uno a uno uscirono sulla piazza commentando.

In  bottega  rimase  uno  solo,  un  giovanottone  grande  e  grosso  dall’espressione  cavallina,  che

seduto in un angolo scuro, sopra un barile vuoto di aringhe, non aveva preso parte affatto alla discussione delle terre.  Guardava  invece  con  un  cipiglio  cupo  verso  la  tenda  verde,  donde  veniva  il  riso di Vittoria, e quel chiacchiericcìo familiare che aveva fruscìo di baci e sentore di carezze.

Ascoltava e si consumava in silenzio.

Cap. II

Ma la discussione delle terre, troncata nella bottega  di  Porzia  Papandrea,  continuava  in  altra parte del paese.

In  quelle  piacevoli  e  miti  sere  settembrine,  dopo  consumata  la  cena,  i  contadini   solevano radunarsi in crocchi numerosi e lì, seduti sulle scale esterne delle piccole case di gesso, tutte screpolate dai  terremoti  e  dall’umidità  dello  scirocco,  i  giovani  amoreggiavano  con  le  ragazze,  le  anziane  filavano e cicalavano del più e del meno, e gli uomini maturi  discorrevano  del  raccolto,  delle  annate  che  erano scarse, della semina futura, dei pochi emigrati che  facevano  fortuna,  e  qualche  volta  dicevano  male  di quelli del Comune.

La  luna,  sospesa  sopra  il  mare  come  un  immenso  globo  d’argento,  illuminava  gli  orti,  dai  quali

giungeva, ora prossimo ora lontano, il canto dell’ultimo assiolo.

Il luogo dove  queste  riunioni  erano  più  numerose,  e  le  discussioni  più  appassionate,  era  la  scala di Rocco Blèfari, in fondo alla Ruga Grande.

Era una scala esterna in pietra e gesso, che guardava al mare. Davanti si allargava una specie di piazzetta - il Murello - e un orto  abbandonato,  circondato  da  macee  mezzo  cadenti,  che  servivano  da sedile per coloro che non trovavano posto sul minuscolo  anfiteatro  dei  gradini.  In  alto  sedevano  le donne, in basso gli uomini: in mezzo, tra l’una e l’altra rampa della  scala,  sopra  una  piccola  sedia ricoperta di sala, sedeva Rocco Blèfari come un patriarca antico.

Scalzo, in maniche di camicia, le lunghe  gambe  secche  come  di  busso  brunito,  mezzo  nascoste nelle mutande di tela, che sbucavano di sotto i calzoni corti  di  orbace,  sul  capo  un  fazzoletto  a  quadri azzurri, annodato ai lati per le cocche, simulanti  sugli  angoli  della  fronte  due  piccole  corna  faunesche, Rocco guidava la discussione fino a tarda notte.

Non  aveva  mai  portato  scarpe  in  vita  sua,  e  quando  narrava  quello  che  aveva  sofferto  la  sola

volta che si era messo un paio di scarpe per due ore, faceva smascellare dalle risa tutto il paese. Era stato in occasione delle sue nozze. - Credevo di morire - diceva - e al pranzo di nozze era andato scalzo. Dopo quel giorno i suoi piedi non avevano mai  più  calzata  una  scarpa,  ed  erano  diventati  celebri  nel paese, citati a esempio. Dicevano che con quei piedi egli  passasse  sulle  pale  dei  ficodindia,  senza neppur avvertire le spine.

A portare il berretto gli veniva l’emicrania, e per non andare in giro sotto il sole col suo grosso testone ovale, levigato come uno di  quei  ciottoloni  che  si  trovano  nei  greti,  con  una  corona  di  capelli grigi corti e ispidi come spine intorno alla nuca, portava  quel  fazzoletto  a  quadri,  annodato  per  le cocche sulle tempia, che gli dava un po’ l’aria di un alienato scappato da un manicomio.

All’alba,  quando  cantavano  i  galli,  Rocco  era  già  in  giro  per  il  paese  a  raccattar  concime.  Da

una mano una cesta di  canna,  dall’altra  una  piccola  zappa,  girava  per  tutte  le  vie,  raccoglieva  davanti alle stalle il fimo degli asini, davanti alle porte delle case quello dei maiali, e lo cacciava nella cesta delicatamente,  come  se  si  fosse  trattato  di  frittelle  dolci,  mormorando: -  Questo è pane, questa è grazia di Dio.

Aveva  quattro  figli,  due  maschi  e  due  femmine,  la  maggiore  delle  quali,  Giusa,  faceva  da

mamma perché la sua povera moglie era morta da  oltre  dieci  anni.  Dei  due  figli  maschi,  il  maggiore, Pietro, un diavolone grande come S. Cristoforo,  testardo,  un  vero  bue  da  lavoro,  era  perduto  dietro  la figlia di Porzia Papandrea, e ora voleva  andare  in  America  per  mettere  da  parte  qualche  biglietto  da mille e sposarla. L’altro, Giosofatto, che in casa  chiamavano  Gèsu,  un  ragazzo  intelligente,  avrebbe avuto una grande vocazione per farsi prete; ma come  fare  a  mantenerlo  in  seminario?  mancavano  i mezzi. Perciò il  povero  ragazzo  aveva  dovuto  rassegnarsi  e  imparare,  prima  a  tirare  il  mantice dell’organo, poi a servire la messa, e ora cantava a  vespro  il  Dixit  dominus,  e  il  Kyrie  alla  messa cantata, meglio di un prete.

Ma anche Gèsu si era fidanzato, con una orfanella loro vicina di casa,  adottata  da  due  vecchi contadini discretamente agiati, e voleva andare anche lui in America,  per  non  fare  brutta  figura  coi parenti della ragazza, che gliela davano mal volentieri, perché quella aveva una bella dote e lui era povero.

Quell’affare dell’America per Rocco era una spina nel cuore.

Non  essendo  mai  salito  sopra  un  treno,  all’idea  che  i  suoi figlioli dovessero viaggiare per mare, andare in terre lontane, sconosciute, tra gente che parlava un’altra lingua, si sentiva gelare il sangue. Perciò quando nel paese si parlò della rivendica dei beni demaniali, Rocco credette di avere trovato l’argomento  capitale  per dissuadere i figlioli dall’emigrare.

Le  carte  parlavano  chiaro,  le  terre  erano  del  Comune.  Bisognava  farsi  rendere  giustizia.  Ma

l’avrebbero  resa  cotesta  giustizia  i  magistrati?  E  con  la  parola  magistrati  egli  intendeva  tutti  quelli  che avevano una funzione pubblica.

Lì stava il busillis.

Ne ho viste troppe, - diceva Rocco, seduto davanti alla scala, versandosi sulla palma un po’ di tabacco da una sua speciale tabacchiera ricavata dalla scorza di un  bergamotto,  -  ne ho viste tante di codeste operazioni demaniali. Tutte le volte che i signori si beccavano tra loro, o  che  cambiava Governo, o era indetta una nuova elezione,  veniva  da  Reggio  uno  di  quei  succhia-inchiostro  che stanno negli  uffici,  chiamava  gli esperti,  gli  uomini  più  vecchi  del paese, e si recava nei demanii per eseguire le misurazioni. Canne, corde,  livelli!  sembrava  il  Padreterno  che  volesse  fabbricare  di  nuovo  il  mondo. Poi i galantuomini lo prendevano, se lo portavano in  casa,  lo  gonfiavano  di  polli  e  di  pezzi  di  dodici carlini e l’operazione finiva così. Per i poveri la giustizia è una cosa seria!  L’avete  vista  mai  voi  la Giustizia? Io sì...

E dove? - domandava Passarelli, uno della brigata.

In Tribunale - rispondeva Rocco, serio serio. - Fui una volta a Gerace Marina, ma per rendere testimonianza veh!, perché, in grazia di Dio, non ho mai avuto a che fare con la legge. Quando entrai nell’aula dove c’era la Corte, vidi in alto, appeso al muro, un crocefisso. Questo va bene - dissi tra me  - è Nostro Signore Gesù Cristo, oggi e sempre sia lodato, e se giuri il falso,  te  ne  vai  al  paese  di Maometto diritto come un fuso. Ma sopra al crocefisso vi era dipinta sul muro una bella donna. Oh, per bella era bella veramente!  aveva  un  paio  di  poppe  che  sembravano  quelle  di  Porzia  Papandrea quando era verde. Non ci credete? Ve lo dico sul serio. Teneva in una mano una spada e nell’altra una bilancia. Mi hanno detto ch’era la Giustizia. Allora io compresi tante cose di questo mondo! Ditemi un po’: chi è che  tiene  la  bilancia?  i  bottega i, quelli che vendono. La Giustizia, dunque, è una bottega, e quando c’è la bottega per lo mezzo, cari amici miei, i poveri hanno sempre torto.

È proprio così!  -  disse Varvaro, un vecchio segaligno e vigoroso, lo zio della fidanzata  di Gèsu

Blèfari.  -  E poi i signori con cui combattiamo sono troppo potenti. Sono tutto loro, magistrati, sindaci e primi-eletti, e hanno il Governo nella manica.

Non è quello, diceva Rocco - non è quello il segreto. Il segreto ve lo dico io qual è. È che quando quei signori vogliono ottenere qualche  cosa  sanno  come  fare  per  ottenerla.  Fanno  viaggiare  i muli carichi  di formaggi  e di  caciocavalli. E  sapete come  dice  il proverbio?  «Il regalo  entra dalla  porta e il diavolo esce dalla finestra».

Insomma, tu ci verrai o no se andremo a occupare le terre? - domandò Cataldo, un contadino nero come un sudanese; - perché, cari miei, è inutile fare della filasofia. Se si va bisogna andare tutti, vecchi e giovani, uomini, donne e ragazzi, e chi manca, per il Signore, cacciarlo fuori di casa col fuoco, come le volpi dalla tana.

Per venire ci vengo, - rispose Rocco - ma so come andrà a finire.

Sentiamo, - disse Passarelli.

Te lo dico subito: andremo tutti in prigione.

Parla il profeta Bacuk - fece Rosa, la figlia minore di Rocco Blèfari, che stava seduta in fondo alla prima rampa della scala, di fronte a suo padre; e per timore che questi non le allungasse, come al solito, una manata sulla schiena, facendosi largo, scese di corsa nella strada.

Tutti  si  misero  a  ridere.  La  Rosa,  a  cui  nella  corsa  si  erano  sciolte  sulla  schiena  due  grosse

trecce color castagno, si teneva i fianchi barcollando come ubriaca.

Era una ragazza gagliarda, con un volto bruno dalla espressione aquilina, la fronte piccola, e due occhi screziati nelle iridi che addolcivano voluttuosamente l’arditezza  del  viso.  Sulla  guancia  sinistra aveva, tonda e lucida come un  soldino  di  rame,  la  cicatrice  di  una  pustola  che  le  avevano  curato  col ferro rovente; ma quel segno deturpante,  se  guastava  in  un  certo  modo  la  bellezza  del  volto,  le  dava nello stesso tempo un non so che di esotico e di saporoso. A vederla così piena di salute, con gli occhi brillanti, le labbra accese, il petto rotondo, e  quel  viso  ardito  dal  profilo  di  uccello,  faceva  pensare  a quelle  belle  pollastre  giovani,  che  sui  primi  dell’autunno  vengono  portate   dalla   campagna,   e   coi bargigli accesi, la cresta sulle ventitrè, si offrono con orgogliosa alterigia ai galli della contrada.

Hai  fatto  bene  a  scappare,  - diceva Rocco ridendo sotto i baffi -  hai fatto bene!  altrimenti  ti

avrei misurato a dovere coteste spalle da giumenta.

Diavolo!  -  diceva  Rosa  rimessasi  dal  gran  ridere -  se voialtri uomini avete paura di venire ci andremo noi donne a prenderle le terre. I peperoni ai Baronali sono maturi.

Per la malogna, se sono maturi! l’orto rosseggia tutto come un campo di papaveri.

Gèsu, che fino allora aveva guardato con gli occhi imbambolati ora la luna, ora la fidanzata che filava in cima alla scala, disse anche la sua:

Andate pure, prendete pure possesso delle terre e dei peperoni dei Baronali. Io non ci vengo.

E  perché,  -  domandò Mariuzza, la sua fidanzata, puntando il fuso sul ginocchio, -  perché non volete venire?

Perché io ho altro per la testa. Voglio andare in America io...

Ah! quell’America, che disperazione! - esclamò la ragazza indispettita.

Sì, voglio andarmene, - riprese Gèsu - in questa terra maledetta non ci voglio stare più.

Anch’io me ne andrò - fece il figlio di Cataldo, un giovanottone nero e grosso anche lui come suo padre.

Lasciateli  andare,  lasciateli  andare!  -  gridava  Rocco  - questi giovanotti credono che  l’America

sia  alla  Marina  di  Bovalino,  e  che  i  danari  in  quei  paesi  si  trovino  in  terra  come  i  ciottoli  nei  torrenti. Avete paglia nella testa, ragazzi miei, paglia d’orzo...

Questa è una terra maledetta, - ripeteva Gèsu - maledetta da Dio e dai santi...

Rocco s’irritò: - Maledetta? come, maledetta!... Ma non sai che questa è  la  più  bella  terra  del mondo? Qui  abbiamo  tutto,  ogni  bene  e  ogni  grazia  di  Dio.  Cominciamo  dalla  primavera.  In  aprile  hai la lattuga, in maggio la fava e il pisello, in giugno la ciliegia, la nespola e il fico fiore; hai anche l’orzo e il grano già maturo. In luglio hai la pera,  la  mela,  la  pesca  e  il  ficodindia;  in  agosto  hai  la mela granata e il fico, in settembre l’uva, la noce, la mela e la pera invernale. In ottobre comincia l’olivo, e sulle montagne hai la  castagna. Si può dire  che non vi è  mese in cui il  Signore non ci dia  un frutto. Dove lo trovi tu un paese  come  questo? Ricordatevi ragazzi miei, che la terra non è mai maledetta; la terra è di Dio...

Tutti tacquero.

In fondo alla strada si udì un suono di chitarra. Erano mastro Genio, Peppe Liano e Nino Sperlì, un  barbiere,  quest’ultimo,  ritornato  da  poco  dall’America,  che  stava  in  giro  tutto  il  giorno  vestito  di nuovo con un bel paio di scarpe gialle, e una catena d’oro placcato, per farsi ammirare, e per raccontare le meraviglie di quei paesi.

Prima di giungere davanti alla scala di Rocco Blèfari si fermarono.

Ragazzi, salutiamo alla maniera americana, - disse Nino Sperlì.

E come? - domandò Liano.

Ecco; voi dite così: cunnaiti! Significa, buona notte. Quandogiunserodavantiallabrigatasalutaronoincoro:

- Cunnaiti, cunnaiti...

Oh, mastro Nino, - fece Rocco Blèfari - ben venuto. E ditemi un po’: la luna dell’America è come quella del nostro paese?

Vi pare di avere detta una cosa spiritosa, - rispose Sperlì serio serio - e invece avete dette un’asineria, scusate, compare  Rocco.  La  luna  di  qui  non  può  essere  come  quella  dell’America  perché, se non lo sapete, quando qui è notte là è giorno.

Rocco, di fronte a questa risposta così  sicura,  rimase  come  un  allocco;  gli  s’ingarbugliarono  le idee, e si persuase senz’altro che la luna di America fosse un’altra.

Ih! figlio di Dio! - esclamò goffamente il giovane Cataldo - che paese è  dunque  questa America? Quanto lontana è, allora?

Deve  essere  veramente  ai  confini  della  Terra,  -  disse  Rocco  - perché nostro   Signore la luna

l’ha creata per illuminare tutto il mondo in una volta. Invece in America a quest’ora è giorno.

Le donne si guardarono a  bocca  aperta  per  la  meraviglia.  Rocco  domandò  ancora:  -  Ditemi un po’ mastro Nino, voi che siete stato in tanti paesi,  il  mondo  da  quale  parte  è  più  grande,  dalla  parte d’onde nasce il sole o dalla parte dove  tramonta?  A  me  pare  che  il  mondo  più  grande  sia  da  quella parte. - E accennava a settentrione.

Avete ragione, - fece Sperlì - il mondo più grande è da quella parte; ma l’America non è di là. I bastimenti per andarci seguono il sole, e dopo otto giorni vi arrivano.

E il mare d’America è più grande di questo?

Questo? ma questo, scusate il termine, è un’acqua di cavallo  di  fronte  a  quello  dell’America. Questo è il mare piccolo. Quello che  si  attraversa  per  andare  in  America  non  finisce  mai,  con  delle onde alte come montagne! Per otto giorni non si vede altro che acqua e cielo, cielo e acqua, che ti viene la vertigine solamente a pensarci.

Mastro Genio, la chitarra sulla pancia, le  gambe  aperte,  guardava  con  oc chi teneri la Rosa, alla quale parlava da qualche mese. Quel pezzo di galera del Liano era andato a sedersi in cima alla scala, vicino alla Giusa, e ogni tanto le mormorava all’orecchio: - Ho bisogno di parlarti.

La Giusa diventava di mille colori perché temeva che i vicini se ne accorgessero,  e  bisbigliava sottovoce: - Per l’amor di Dio, state zitto, ché mio padre m’ammazza.

La Rosa, ardita com’era, e animata dalla presenza del suo fidanzato, fece anche lei  delle domande.

In America si sta bene, mastro Nino,... possiamo andarci noialtre donne?

In America le donne comandano, - rispose Sperlì - sono loro le padrone.

Le donne comandano? - fece Rocco con la faccia stralunata - e che paese è quello?

È un paese così. Il Governo in America non è come il nostro. Là è  repubblica,  e  dov’è  la repubblica comanda la donna; tanto è vero che le donne in America si chiamano uomini [woman].

Uomini? si domandavano le ragazze con grandi scoppi di risa.

Che cassio dici, Sperlì, - fece Passarelli - com’è possibile che la  donna  si  chiami  uomo?  E l’uomo allora come si chiama?

Non ci credete? Quanto è vero Dio! Domandate a chi c’è stato. La donna si chiama uomo, e l’uomo si chiama  menne  [man].  Quando  uno  è  ricco  lo  chiamano riccimenne, quando è commerciante lo chiamano bissinisi menne [businesman].

Tutti stavano con la bocca aperta, ad  ascoltare  le  strane  notizie  di  quell’America  misteriosa, dove  i  rapporti  sociali  erano  così  diversi  da  quelli  del  loro  paese,  dove  le  donne  si  chiamavano  uomini, e comandavano loro.

Mastro   Nino   si   dondolava   su   le   scarpe   gialle   di   pelle   bulgara,   che   aveva   comperato   a

Namaiorca, in una grande strada che si chiamava  Morbiri-stritti  [Mulberry-Street]. La Rosa, più vivace di tutti, incalzava nelle domande.

Allora, mastro Nino, le ragazze in America si chiamano uomini?

Non  confondiamo,  -  fece  Sperlì  -  le  donne  si  chiamano  uomini,  ma  le  ragazze  si  chiamano

ghelle [girls].

Un urlo di risa squillanti si levò dalla scala. Le donne strillavano come oche.

Ghelle? e che significa ghelle?

Ghelle significa ragazze. Perché ridete? - faceva  Sperlì.  -  E le ragazze d’America non sono mica come le nostre, che hanno paura di uscir di casa. Quelle vanno sole in capo al mondo, e nessuno le tocca.

Saranno brutte - osservò Liano dall’alto della scala.

Brutte? chi non va in America non sa cosa siano le donne belle. Le  ragazze  americane sembrano impastate di sangue e latte. Mezze nude, con quelle vesticciole di seta che è  come  se  non l’avessero, il naso in aria, il bastoncino in mano la sigaretta in bocca.

Oh, grandissimo diavolo, - fece Mariuzza scandalizzata - fumano anche, le streghe?

Si capisce che fumano, e vanno a cavallo, e tirano dei ffait - e faceva l’atto di dare un pugno - che vi fanno restare a bocca aperta per due ore. Se gli piacete, commi, vi prendono sotto braccio e via negli stori [trattorie], a teatro. E pagano loro. Se non gli piacete chiamano un pulisi e vi fanno mettere dentro. Bisogna vedere che gambe, che petto!  altro  che  quelli  della  gnura  Rosa!  -  E  accennava alla figlia di Blèfari.

Ah! mala pasqua! - fece questa quasi offesa, - cosa c’entro io con le donne americane?

Dico per dire, - rispose ridendo Sperlì - non siete forse un  bel  pezzo  di ghella ?  - E poiché sapeva che la Rosa era un po’ manesca, protese le sue in atto di difesa. Difatti la ragazza, raccolti i ferri e la calza in una mano, gli volò addosso, e gli assestò due pugni formidabili in mezzo alle spalle.

Andate al diavolo voi e le ghelle americane.

Le  donne  strillavano  arrovesciandosi  sui  gradini  per  il  gran  ridere;  gli  uomini  si  tenevano  i

fianchi.

Ohe! ohe!  - gridava Sperlì con un riso sibilante che gli veniva su dalla pancetta rotonda come

da un soffietto - mi volete ammazzare?

Intervenne mastro Genio, al quale non parve vero di poter palpeggiare un po’ di contrabbando la sua promessa. L’afferrò per un braccio e l’attirava a sé con gli occhi imbambolati.

Anche voi lo difendente? - strillò la Rosa rivoltandosi come una vipera - aspettate un po’.

E lanciata la calza in terra lo abbrancò per le spalle.

Mastro Genio ebbe appena il tempo di porgere la chitarra a Sperlì, che fece un giro su se stesso e andò a stramazzare come un cencio in mezzo alle gambe di Passarelli.

E che sei pazza? per la malogna, - gridava Rocco - non senti scorno?

Mi avete preso all’improvviso, -  diceva mastro Genio tutto rosso e impolverato, con uno sterco di gallina attaccato alle natiche, - se volete che la facciamo sul serio la facciamo.  - E si avvicinava di nuovo.

Ma la Rosa tutta ansante, accesa in volto e orgogliosa di avere atterrato un uomo, non  gli  badava,  e continuava a raccogliersi sul capo le trecce,  che  le  si  erano  sciolte.  Quando  le  risa  si  furono  chetate, Gèsu domandò:

Dimmi un po’ Sperlì, tu che lavoro facevi in America, il barbiere?

Eh! caro mio! per fare il barbiere in America  ci  va  una  mano  molto  più  fina  della  mia.  Io facevo il reboia.

Reboia! cos’era mai quel lavoro?

Reboia, - spiegò Sperlì - significa quello che porta l’acqua. Ecco: noi lavoravamo  in  una sciarpa; ogni sciarpa ha un bosso e tanti uomini. Naturalmente gli uomini che lavorano hanno sete, e in campagna non ci sono mica le fontane ad ogni passo.  Allora  il  bosso  prende  uno  degli  operai  e  lo destina a quel lavoro: portare l’acqua. Quello è il reboia.

E stavi bene? - domandò Gèsu...

Io stavo benissimo! avevo due pezza al giorno e non facevo niente.

- Sì, ma intanto siete ritornato a Pandore...- disseRocco.

È vero - fece Sperlì, con un volto diventato subito malinconico. - Cosa  volete che vi dica? Io quando sono qui vorrei essere in America, e quando ero in America tutte le notti sognavo la mia casa. Questa terra bruciata  ci perseguita  e non ci  lascia dormire  fino in capo  al mondo.  Cosa avevo  lasciato qui io? miseria! eppure queste  brutte  strade  sporche,  queste  case,  questi  orti  li  avevo  sempre  davanti agli occhi. Mangiavo maccheroni  e  bevevo  birra,  e  intanto  pensavo  alla  bottega  di  Porzia  Papandrea. Mi pareva che senza di me l’odore dello stoccafisso  andasse  perduto.  Quando  ero  a  Billesbille [Illesville] dormivo in una baracca, e siccome facevo il reboia mi  alzavo  un  po’  più  tardi  la  mattina. Quando mi svegliavo e mi guardavo intorno, e non vedevo che quelle pareti di tavole affumicate, e non udivo che il brontolare e lo scalpiccìo degli uomini che andavano  al  lavoro,  o  rissavano  davanti  al lavatoio, mi veniva da piangere come un bambino.  Mi  ricordavo  del  tempo  in  cui  dormivo  nella  mia vigna, a Mirto, sopra un letto di ginestre. La  mattina  mi  svegliavano  le  allodole,  o  il  mio  gallo  che veniva a gorgogliarmi davanti, battendo i suoi speroni arcuati, come fosse un cavaliere  dei  Reali  di Francia. Io aprivo gli occhi e vedevo il mare, e le nuvole sull’acqua, tutte screpolate dall’alba; e intanto le cicale cominciavano a cantare. Ah! vi dico ch’è una cosa seria dimenticarlo questo paese!

Diventarono tutti pensierosi, conquistati da una strana malinconia.

La notte era dolcissima. La luna pendeva sugli orti  e  sulle  case  limpida,  luminosa,  come  una grande patèna  d’argento.  Dalla  campagna,  insieme  allo  stridere delle cavallette, veniva un cantare malinconico di rospi, come ripercosso da  un’eco  multipla  ai  quattro  angoli  dell’orizzonte;  una  specie  di voce astrale, che discendesse dai gorghi profondi del cielo. Sul mare che brulicava,  tutto  barbagli,  si delineava col suo profilo nero, il bel  campanile  di  Bovalino,  che  sembrava  un  cipresso,  in  mezzo  alla selva di olivi che circondavano il paese. Bony sembrava emergere nel lume lunare come un’isola.

Un contadino alle Gabelle accordava la zampogna.

Che cosa aveva, dunque, in sé quella terra per conquistare il cuore, per essere  ricordata  e rimpianta in ogni angolo del mondo, dove si trovavano  errabondi  i  suoi  figli  in  cerca  di  lavoro  e  di pane?

Nessuno l’avrebbe saputo dire, se non forse il cuore.

Paese strano e diverso, tutto accidentato, a balzi e burroni, dove la costa  arida  e  scoscesa  si alternava con il pantano e l’oliveto; la sodaglia invasa dal ginerio e  dal  lentisco  si  stendeva  accanto  al canneto, circondato dal giunco e dal capelvenere; l’agave e la marruca fiorivano accanto  al  frassino montano. Sembrava tanto  secco  e  pietroso,  eppure  ogni  acquazzone  faceva  germogliare  l’erbe  in  tutti gli  angoli,  su  tutti  i  sentieri.  La  sua  vegetazione  era  scarsa,  eppure  portava  le  ricchezze  di  tutte  le stagioni; i suoi frutti avevano tutti i profumi e tutti i sapori, e  vi  erano  tutti  i  frutti  come  nel  paradiso terrestre. E c’era il mare a pochi passi, e la montagna di contro, l’alta montagna col castagno, l’abete, il pino: le selve in cui meriggiava il lupo e grugniva il cignale.

Su ognuno di quei poggi si  vedevano  vecchie  mura  diroccate,  navate  di  antiche  chiese abbandonate. Erano ruderi di paesi distrutti dal terremoto in  diverse  epoche.  Eppure  accanto  a  quelle rovine altre case erano sorte, altre chiese, altri campanili: i superstiti, seppelliti i loro  morti,  avevano riedificato, come le formiche,  quasi  sulle  tombe;  avevano  riassettati  i  terreni  sconvolti,  li  avevano riscattati dalle frane e dalle alluvioni, ed avevano fondato su esse le loro fatiche e le loro speranze.

In  quella  terra  così  varia  e  pittoresca,  piena  di  contrasti,  apparentemente  povera  e  intimamente

ricca, saporosa, grave e soave, c’era una certa rispondenza con la vita e l’anima dei suoi abitanti.

Anch’essa, l’anima calabrese, è piena di contrasti. Profondamente, e quasi  direi  violentemente buona,  ha  delle  singolari  aridità.  Tutti  i  buoni  frutti  del  cuore,  dalla  ospitalità  alla  fedeltà,   dalla devozione al sentimento della famiglia, dalla resistenza al dolore all’abnegazione, all’eroismo, in essa fioriscono spesso con un profumo di poesia soavissimo. Eppure la vita  dei  Calabresi  è  triste,  dolorosa, angusta, come il paesaggio che, pur avendo tanti elementi di bellezza, non sembra bello, o la sua grazia vela di una profonda e dolorosa malinconia.

Andiamo a letto, - disse Rocco Blèfari, guardando il cielo, - i Bastoni sono alti e la Pullara è a mezzo cielo. Buona sera a tutti.

Buona sera...

Buona sera...

Rientrarono tutti nelle case, mentre mastro Genio, Liano e Sperlì scesero verso il Murello canticchiando.

CAP. III

Alla fine di settembre il Prefetto non aveva risposto ancora alla richiesta del Comune.

Al Sindaco, recatosi a sollecitarlo personalmente, aveva contate un mondo  di  chiacchiere, ammonendolo di star bene attento, a non  favorire  pronunciamenti,  azioni  sediziose.  Il  Governo  in  tal caso non avrebbe potuto fare a meno d’intervenire con la forza.  L’agente  demaniale  sarebbe  stato inviato, ma non poteva precisare quando, e  intanto  lui,  il  Prefetto,  desiderava  non  occuparsi  più della cosa, avendo delegato a occuparsene il Sottoprefetto di Gerace Marina, per ragioni di competenza territoriale.

Quando queste  notizie  si  sparsero  per  il  paese  suscitarono  un  fermento  incredibile.  Don Michelino Fazzolari, con l’estratto dei documenti demaniali, aveva dato a ogni contadino la psicologia dell’erede frodato.  I  propositi  e  le  proteste  erano  dovunque  furibondi.  Ad  accrescere  la  naturale eccitazione degli animi contribuivano le notizie più  disparate:  il  Prefetto  voleva  far  giustizia,  ma  era stato minacciato dal deputato, interessato nella faccenda per via  del  fratello,  che  deteneva  alcuni  dei terreni in contestazione. Il  Sottoprefetto di Gerace era  un mangione, un siciliano  carico di figli, che non gli sarebbe bastato il pozzo della stella. Affidarsi a lui era  come  affidare  la  pecora  al  lupo.  Come avrebbe potuto far giustizia se tutte le mattine aveva davanti al portone due muli carichi di roba che gli mandavano i proprietari? E intanto loro erano allo sbaraglio, non avevano un palmo  di  terra  da coltivare, perché i signori, avvertiti delle intenzioni del Comune di voler risolvere la questione delle rivendiche, avevano esclusi i Pandurioti da ogni concessione.

Dal momento che i magistrati non volevano far giustizia, se la sarebbero fatta da  sé,  per  la malogna, e guai a chi fosse rimasto assente! Ma accanto ai propositi bellicosi si affacciavano i dubbi, le perplessità suggerite dalle vecchie esperienze. I passati  tentativi  di  rivendiche  demaniali  erano  riusciti vani; sarebbe stato così anche di  questo.  Li  riprendeva  lo  scoramento,  la  sfiducia  contro  tutto  e  contro tutti, quell’orribile  stato  di  animo  in  cui  il  cittadino  non  ha  più  fede  nella  giustizia  sociale,  e  considera lo Stato come una mostruosa macchina armata ai suoi danni. E poiché non ha forza  alcuna  per opporglisi,  si  corrompe  intimamente,  diventa  vile,  servile,  profittatore,  scherano  di  questa organizzazione di ingiustizia, o ribelle ai danni della società e ai suoi danni.

Se  la  rivendica  dei  beni  era  impossibile  non  c’era  dunque  che  emigrare,  cercare  altrove,  tra

gente lontana, quel pane che il proprio paese negava ai suoi figli.

Si presentavano alla loro mente gli esempi di quelli che,  avendo  emigrato,  avevano  migliorate  le proprie condizioni, specialmente nei paesi vicini. Ma anche a Pandore ce n’era  qualcuno.  Vincenzo Mantica aveva riattata la casa, messi i  pavimenti  con  mattonelle  di  cemento,  i  balconi  di  ferro  con  gli anelli agli angoli per i vasi di fiori; Ciccio Musolino, che era  partito  povero  come  Giobbe,  si  era  fatta costruire una  casa, con  una bella  loggetta  dipinta in  giallo, e  aveva sul  tavolo  della cucina  una tovaglia di tela cerata, grande, con il ponte di Broccolino (Brooklin) dipinto sopra, e in  mezzo  una  specie  di Madonna che gli Americani chiamavano Libertà.

E   mille   altre   comodità   avevano   in   casa   gli   Americani:   tanti   attrezzi   domestici   inusitati   -

cavaturaccioli meccanici, specchi molati, stivali di gomma,  trapani,  segacci  dal  manico  ben  tornito, rasoi e  arnesi  da  toletta  lucenti  come  l’argento.  Uno  aveva  portato un frulla-uova, un altro la macchina da fabbricare maccheroni.

Quelli  che  venivano  dall’America  davano  l’impressione  di  saper  vivere  una  vita  diversa  dalla

loro, più comoda, più allegra; una vita in cui l’uomo fosse qualche cosa di più che una bestia da lavoro affannata tutto l’anno sopra la terra, dietro un’asina,  o  una  mucca,  per  strappare  un’esistenza  grama, senza gioie, senza  soddisfazioni,  aduggiata  dalla  invincibile  povertà  di  un  ambiente  che  non  aveva  nulla di consolante, se non il sole del buon Dio, e la grazia della natura circostante.

Ma non  erano  tutte  rose!  Qualcuno  degli  emigranti  era  tornato  malato,  di  certe  malattie misteriose che non si erano mai viste nel paese. Qualche altro  era  rimasto  stroncato  e  non  aveva neppure ottenuto il  premio  d’assicurazione.  Perfino  il  Console  lo  aveva  tradito.  Peppe  Cúfari,  per  tutte le dita della mano destra, aveva avuto solo duemila lire. Cosa potevano fare loro, poveri  contadini analfabeti, che non erano capaci di scrivere neppure due righe alle proprie famiglie? Tutti ci  gua- dagnavano sulla loro pelle.

Qualche  altro  ancora  era  morto,  morto  lontano  in  quelle  terre  misteriose,  in  paesi  ignoti,  dai

nomi strani, tra gente sconosciuta, senza un conforto, senza un parente o un paesano, forse anche senza sepoltura cristiana.  Questo  pensiero  li  atterriva.  Essi  che  erano  abituati  a  vivere  nel  loro  villaggio  come in una grande famiglia, dove la gioia e il lutto erano sempre un po’ comuni, e trovavano il loro epilogo nella dolce casa di  tutti,  la  chiesetta  protopapale, all’idea di morire lungi dalla loro terra erano presi da una specie di terrore religioso. Non vi era nulla che li  atterrisse  di  più  che  questa  paura  di  morire lontani, senza conforti, senza una persona cara, e soprattutto senza il pianto triste  e  consolante  delle  loro campane.

E poi contro il divisamento di emigrare che si faceva strada negli uomini, premuti dal bisogno e

dalle  cattive  annate,  combattevano  le  donne  accanitamente.  L’America  per  queste  significava  il distacco dai loro  mariti,  l’angoscia  continua  dell’attesa,  lo  spavento  dell’ignoto,  forse  l’abbandono definitivo, la  vedovanza.  Forse  anche  quella  vedovanza  più  tormentosa,  della  donna  abbandonata,  che sa il suo uomo vivo e sano, godersi in braccio alla donna straniera, all’avventuriera della città. L’affetto coniugale  si  complicava  con  la  gelosia,  e  le  donne  diventavano  furie.  Si  scagliavano  contro  i  magistrati, e qualche volta anche contro il Padreterno che permetteva tante ingiustizie nel mondo.

Nella  perplessità  generale  erano  quelle  che  più di  tutti soffiavano  nel fuoco,  incitavano gli  animi e proponevano le cose più ardite. Bisognava dar fuoco al  municipio,  al  Prefetto,  uccidere  l’esattore. Andare a Gerace dal Sottoprefetto, infilzarlo sopra una  pertica,  e  portarlo  in  giro  come  la  pelle dei lupi uccisi sulle montagne. Il consiglio più mite era quello di armarsi tutti,  uomini  e  donne,  e  andare  a prendere possesso delle terre, a dispetto delle autorità. Si sarebbe visto quel che  avrebbe  fatto  il Prefetto.

Ma la cosa era più presto detta  che fatta. I Pandurioti erano gente d’ordine, come tutti, del resto,

in Calabria. La Calabria è il paese classico dei briganti, ma  in  nessuna  regione  d’Italia  si  ha  tanto rispetto, o almeno tanta paura, dei poteri costituiti. Il Sindaco, un giovane  avvocato  fresco  di  studi, animato da una grande buona volontà, ma  timido,  senza  esperienza,  e  di  una  onestà  spirituale assolutamente inadatta al realismo delle faccende politiche, con un concetto della giustizia sociale tutto filosofico e idealistico, vistasi sfuggire la possibilità di  condurre  in  porto  la  cosa  con  i  procedimenti legali, davanti alla eventualità di una occupazione violenta, s’impuntava come un cavallo cui si presenti all’improvviso un ostacolo troppo alto, per il quale non ha preso lo slancio.  Egli  che  era  un  uomo d’ordine,  proveniente  da  quella  borghesia  agiata  che  ha  la  sua  ricchezza  nella  terra,  non  poteva  sottrarsi a una specie di disagio davanti all’idea  di  violare  la  proprietà  altrui,  anche  se  era  sicuro  della  giustizia della causa. Intanto tutti rimanevano incerti, ma bramosi di agire in qualsiasi modo.

In  questo  incrociarsi  di  discussioni,  di  pareri  e  di  propositi  agitati  e  contrastanti,  bisognava

trovare una formula che tranquillizzasse il Sindaco nei suoi scrupoli legalitari,  e  desse  sfogo  agli  spiriti bellicosi della popolazione, che non potevano più lungamente essere contenuti.

Dopo molte, lunghe e laboriose elucubrazioni, e  dopo  molte,  fiere  discussioni  tra  il  Sindaco  e Don Michelino, che voleva partire come un razzo, la formula fu  trovata. Si sarebbe andati, ma con la bandiera nazionale in testa e coi ritratti del Re e della Regina.

La formula ottenne un successo strepitoso. Non ci  voleva  altro  per  accendere  maggiormente  gli animi già accesi e incoraggiare gli incerti. Andare coi ritratti del Re e della Regina, per i Pandurioti, era come se i reali in persona avessero preso parte alla spedizione. Si ritenevano forti e invulnerabili contro tutti e soprattutto contro le possibili reazioni del Governo. «Non è il Re che fa le leggi? Certamente! E le leggi chi le fa rispettare? I carabinieri! E i carabinieri non dipendono dal Re? Precisamente». E allora erano a posto. Sarebbe stato bello vedere i carabinieri  mandati,  magari,  dal  Prefetto,  o  dal  deputato, restare con un palmo di naso, quando in mezzo alla folla avessero visti i ritratti delle Loro Maestà.

Qui non c’è niente da fare - avrebbero detto, e se ne sarebbero andati con la coda tra le gambe.

Gli  uomini  ritenevano  sufficiente  il  ritratto  del  Re  solamente.  La  Regina  esce  così  poco  di  casa, e non va certo in campagna. Ma  le  donne  volevano  la  Regina,  la  montenegrina  bruna  come  loro,  coi begli occhi lucenti come le  more  lavate  dalla  pioggia.  Giacché  andavano  loro  alla  spedizione  era  giusto che vi andasse anche la Regina: sarebbe stata la protettrice dell’elemento femminile.

E bisognava affrettare perché ottobre era alle porte, e  con  ottobre  sarebbero  venute  le  prime piogge e si aveva fretta di aprire i maggesi.

Il tempo ancora si manteneva bello. Due o tre acquazzoni,  verso  la  metà di settembre, avevano appena ammorbidita l’arsura delle campagne;  ma  le  vere  prime  piogge,  le  piogge  torrenziali dell’autunno, che rinfrescano l’aria definitivamente, inzuppano le zolle, macerano le foglie  e  le  stoppie, destano  le  lumachine  scure  dal  loro letargo, e preparano la terra per l’aratura; quelle piogge che lavano il cielo, il  bel  cielo  d’autunno  così  limpido,  verdolino  sulla  terra  malinconica,  non  erano  ancora  venute. Al mattino e alla sera, sui confini lontani del mare, erano  armati i castelli - come dicevano i contadini  - si scorgevano, cioè, alzati nell’aria, quei cumuli di nuvole  ora  fosche,  ora  candide,  legate  in  fila  come catene di montagne fantastiche, tutte a volute, a coni, a balze, a picchi, a precipizii, a terrazze sospese sull’abisso; ora illuminate dal sole e rese abbaglianti, ora velate  dalla  calura  meridiana  in  una  foschia violetta, con dei riflessi lividi, come l’atmosfera di un deserto battuto dal Simun, ora infiammate dal tramontocomecittadelleinvestitedaunincendiocolossale.

Quelle nuvole erano le avanguardie dei prossimi temporali.  Da  un  momento  all’altro,  dietro  un cenno del Signore che regola le stagioni,  si  sarebbero  sparse  per  il  cielo  lampeggiando,  fragorose  di tuoni da scuotere le montagne, e avrebbero rovesciato sulla campagna arida e polverosa,  quegli  ac- quazzoni neri neri, fumosi, che velano l’aria, gonfiano i torrenti e portano via i ponti della ferrovia.

Una volta cominciate le piogge non si sapeva come sarebbe andata a finire; perché in Calabria, o il tempo è secco, e allora bisogna mettere fuori tutti i Santi delle chiese per vedere un po’ d’acqua; o piove, e specialmente quando piove con lo scirocco, non la finisce più.

Si   era   dunque   stabilito   che   l’invasione   avrebbe   avuto   luogo   la   vigilia   della   Madonna  del

Rosario, il primo sabato di ottobre.

La sera del venerdì Don Michelino, dopo una capatina alla bottega di Porzia Papandrea, dove si era abboccato col Galeoto e con Cosenza, girò tutto il paese, entrò in ogni casa e lesse a mezzo mondo, per  la  ennesima  volta,  gli  estratti  dei  documenti  demaniali,   incoraggiando,   ammonendo,   dissipando dubbi, e soprattutto smontando quella diffidenza, quella specie  di  fatalismo  che  prende  sempre  gli animi dei meridionali davanti a tutto ciò che sa di cosa pubblica, retaggio funesto dei  vecchi,  ed esperienza dolorosa dei nuovi regimi.

Quella sera il tempo era magnifico. Un vento fresco, nel pomeriggio, aveva spazzato il cielo, lasciandolo  trasparente  come  un  cristallo.  Le  stelle  numerose,  limpide,  tutte  tremolanti  nell’infinito, parevano uscite allora allora dalle mani luminose del Signore. La giornata all’indomani  sarebbe  stata superba.

Iddio ci aiuta;  -  dicevano  i  contadini  -  questa  invasione,  questo  atto  di  forza  contro l’ingiustizia, lo vuole anche lui ch’è il Dio della giustizia.

Ma guardate combinazione! La mattina  invece  il  tempo  era  diventato  minaccioso  e  la  minaccia era tanto più temibile, in quanto non veniva dal mare, ma da tramontana. Sopra il bosco di Verraro che sovrastava come un baluardo, con la sua rocca scoscesa a picco, al fianco del paese, il tempo era nero. Una enorme nuvola si stendeva come una macchia  gigantesca  sul  cielo  incerto  e  grigio,  da  Bony  alla piana  della  Marchesina.  Aspromonte,  col  suo  cocuzzolo  acuto,  profilato  nel  chiarore   incerto   del mattino, sembrava un po’ preoccupato di  quella  minaccia,  che  gli  prometteva  un  cappuccio  di  neve,  da non levarselo più sino all’aprile dell’anno venturo. I contorni di quel nuvolone  erano,  sì,  illuminati  dal chiarore dell’alba, e ciò poteva significare che la minaccia era circoscritta; ma  quando  le  nuvole venivano da Verraro, e quello che le maneggiava  era  il  vento  di  tramontana,  se  non  si  levava  il  mae- strale per combatterlo, era pioggia sicura.

Rocco Blèfari si affacciò su l’uscio di casa sua, e guardò con un certo dispetto la minaccia del

tempo.

L’alba  cinerina  si  apriva  sul  mare.  Una  striscia  bassa  di  nuvole  scure,  con  riflessi  come  quelli

della ferrugine, distesa vicino al filo estremo dell’acqua, era tutta sgretolata da un color di fuoco vivo, abbagliante, come il residuo di un incendio lontanissimo, che  avesse  incenerita  una  foresta.  Sopra quelle nuvole la stella del mattino brillava tutta rorida  e  celestiale,  in  un  azzurro  grigiastro  e  un  po’ opaco come d’ardesia.

Rocco si segnò, tracciando col pollice tra la fronte e la ciglia una piccola croce, e il rombo delle campane irruppe nell’aria come una diana guerresca.

Era il segnale della raccolta.

Dappertutto nel  paese  fu  uno  sbattere  d’usci,  uno  spalancar  di  finestre,  un  chiamare,  un rispondere da su le scale, dai  pianerottoli,  dalla  strada.  I  maiali  destati  cominciavano  a  grugnire  davanti alle porte; le galline scendevano dalle pertiche e pipilavano per la casa in cerca di cibo; i galli da su le soglie salutavano l’alba. Gli uomini in  maniche  di  camicia,  scarruffati  e  insonnoliti,  si  facevano  sugli usci, chiamavano i  vicini,  mentre  le  donne  rabbonivano  i  bimbi,  li  vestivano,  mettevano  loro  un  tozzo di pane in mano, e li cacciavano nella strada. Qualcuno, tenendo stretto tra le cosce un orcio di acqua, si versava sulle mani aperte a giumella il liquido, e si risciacquava la  faccia;  qualche  altro,  con l’appetito  sano  e  mattiniero  degli  uomini  di  campagna,  addentava  qualche   cosa,  mentre  finiva  di vestirsi. Altri strillavano con le  mogli,  altri  bestemmiavano:  chi  sbatteva  una  cassa,  chi  il  battente  di una finestra. Alcune donne raccomandavano i bambini a qualche  vecchia  vicina;  altre  chiamavano  le galline per chiuderle in casa.

Gèsu  si  allacciava  le  scarpe,  e  cantava  il  Magnificat  contento  come  un  fanciullo,  in  mezzo  a

tutto quel tramestìo.

Come ebbe finito, uscì sul pianerottolo della scala e chiamò:

Zia Caterina.

La  moglie  di  Varvaro  venne  all’uscio  accanto,  tutta  vispa  e  giuliva,  pettinata  di  fresco,  coi capelli tirati sulle tempia e il viso magro di vecchia rubizza, che la faceva somigliare a una faraona.

Andiamo dunque?

Andiamo tutti. Zio Bruno non viene?

Vengo sì - gridò Varvaro da dentro la casa.

E Mariuzza?

Accanto  alla  zia  si  affacciò  sull’uscio  Mariuzza  pallida,  col  suo  viso di Madonna che si sarebbe detto esangue se le labbra non l’avessero un po’ animato di un loro tenue colore.

Io non vengo, - disse Mariuzza - la mia parte di terre me la prenderà mio zio.

Intanto la Ruga Grande sembrava una fucina: grida, urli, bestemmie, schiamazzi, pianto  di bambini, grugnìo di maiali. Alcuni erano già partiti verso la  piazza,  altri  erano  in  istrada  pronti  a partire. Dal Murello passava continuamente  gente  che  veniva  dalla  Guardia;  chi  portava  un  sacco,  chi una paniera, chi una bisaccia d’orbace. Gli uomini avevano anche bastoni, scuri, roncigli, non  con  la intenzione vera e propria di venire armati, ma  un  po’  per  abitudine,  e  un  po’  per  preveggenza. Non si sapeva mai quel che sarebbe potuto avvenire.

I   due   Cataldo,   padre   e   figlio,   e   Passarelli,   ritti   sotto   la   scala   di   Rocco,   chiamarono   a squarciagola:

Rocco, o Rocco, tu ti muovi sì o no, sangue di Dio, o vuoi fare il vigliacco?

Vengo, vengo - urlò Rocco uscendo sulla scala.

In breve i Blèfari, i Varvaro, i Cataldo furono in strada pronti a partire.

Questa è la volta che dovresti metterti le scarpe, Rocco, - fece Cataldo - vuoi presentarti scalzo davanti a Sua Maestà il Re?

Tu scherzi, - rispose Rocco - piuttosto rinuncerei a tutti i Baronali.

E  Pietro,  dov’è  Pietro?  -  domandò  Passarelli,  vedendo  che  nella  compagnia  mancava  il  figlio maggiore di Blèfari.

E che so io! - rispose Rocco desolato - è più di un mese che dorme fuori di casa.

Pietro veniva su dal Murello, con la sua andatura cascante di cavallo stanco, un mano e la giubba di traverso sopra una spalla.

Eccolo che viene, San Gialormo! - fece Rocco additandolo. - Dove sei stato?

Sarà stato a scaldare i ginocchi a Vittoria Papandrea - fece Passarelli ridendo. - La poverina ha freddo, non ha sangue.

Pietro bofonchiò tra sé qualche parola, e si mise in coda. Partirono.

Se quel ragazzo non mette la testa a partito è meglio che se ne vada veramente in  America  -

diceva  Rocco,  cacciando  avanti  i  suoi  piedoni  enormi,  alla  testa  della  brigata.  -  È  diventato  uno scimunito dietro quella figlia di mala femmina, e non capisce che quella ha altro per la testa.

E per le mani - aggiunse Passarelli, tra una grande risata generale.

Volete star zitto, sì o no, sangue di... - ringhiò Pietro,  con  una  voce  fessa  come  quella  dei ragazzi all’inizio della pubertà. - Se vado in America non vi scrivo neppure, quanto è vera la Madonna.

E tu non scrivere, e buon pro ti faccia - disse Rocco. - Io sono vecchio, ma il mio pane me lo guadagno.

Gèsu,   per   troncare   la   palinodìa   di   suo   padre,   che   quando   cominciava   era   peggio   di   un

predicatore, si mise a cantare il Dixit dominus.

Quando il gruppo di Rocco Blèfari sbucò  sulla  piazza  la  chiesetta  era  aperta,  e  nel  vano  della porta si scorgeva da lontano, sul lato sinistro dell’altare, la fiammella gialla e smorta della lampada del Sacramento. Le campane tempestavano nell’aria inquieta  della  mattina.  Da  ogni  parte  affluiva  gente, dalla Ruga Grande, dal Ricuso, dalla  Timpa,  dal  Valloncello:  contadini  dalle  facce  scabre  e  bieche,  o tristi e dimesse, tutte con i segni  di  una  sofferenza  abituale  e  rassegnata;  alcuni  con  le  barbe  ispide,  i volti segnati da rughe profonde come ferite. Qualcuno aveva la palpebra inferiore arrovesciata e sanguinosa per il tracoma; molti portavano su una guancia o sopra una tempia il marchio di fuoco della pustola  carbonchiosa.  Vestivano  calzoni  corti  di  orbace,  portanti  ai  ginocchi  o  nel  fondo   toppe numerose e irregolari, che davano l’impressione di una estrema e penosa povertà; altri  vestivano  di fustagno, con bottoni d’acciaio di un bel colore azzurro.

Numerose erano le donne: giovani alcune e fiorenti di quella fioritura improvvisa,  breve  e violenta come quella delle agavi e delle piante tropicali,  che  nel  mezzogiorno  trasforma,  in  un  paio d’anni, una monella di strada in una  magnifica  ragazza  da  marito.  Altre,  giovani  anch’esse,  apparivano patite  e  disfatte  dalla  prima  figliolanza.  Altre  erano  vecchie  dure,  segaligne,  aduste  dal  lavoro;  altre  alte e ossute come alfane, dai grandi  stinchi ignudi e dalle lunghe facce rugose e sdentate,  che  sembravano frutti mostruosi vuotati dalla putredine. Qualcuna portava, sotto una bazza  arcigna  e  aggressiva,  un piccolo gozzo lucente e quasi iridato, come la buccia  di  un  frutto  di  melograno.  E  in  mezzo  a  tutti quegli adulti una ragazzaglia brulicante, lacera, cenciosa, scalza, tutta sbrendoli, senza  giacca  o  senza camicia, con i capelli biondastri scarruffati, i visi rigati da  rivoli  di  lordura,  da  chiazze  di  terra,  le bocche maculate  del  giallo  dei  fichidindia  rubacchiati  negli  orti:  un  turbinìo  di  demonii  che  si cacciavano tra le gambe, correvano,  schiamazzavano,  si  arrampicavano  sulle  bugne,  urlavano,  si aggredivano avidi di disordine, di bottino, di farla a  sassate,  di  rovesciarsi  su  qualche  cosa  come  uno stormo di cavallette, e distruggerla.

Don Michelino Fazzolari, che per l’occasione aveva inalberata una svolazzante cravatta alla  La Vallière, era già davanti alla bottega di mastro Genio, accigliato,  con  l’aria  di  un  condottiero  che  veda disporsi in ordine le  proprie  truppe  sul  campo  di  battaglia.  Perché  il  condottiero  era  lui.  Il  Sindaco  non era che una braca molla, che non si sapeva neppure dove si fosse cacciato. Vicino a lui era il Galeoto, che parlava difficile con Cosenza, discutendo sulle leggi diversive.

Buon giorno, don Michelino...

Buon giorno, professore...

I contadini si avvicinavano,  lo  esaminavano  salutando,  e  sotto  quel  suo  fare  impettito  e contegnoso, vedevano la tranquillità dell’uomo che sa di lettera, ed è sicurodelfattosuo.

I Blèfari s’avvicinarono anch’essi.

Si va dunque, professore? - domandò Rocco.

A me lo dici...

Come a voi, per la malogna! non siete voi che ci avete consigliati?

Ed io non sono qui?...

Il Sindaco dov’è?

Dorme ancora...

È una vergogna! chiamate il Sindaco.

Rosa, col suo sacco sotto il grembiule, diede un’occhiata nella bottega di mastro Genio. Sopra una parete vi  era  attaccato  un  cartellone  con  due  figurini  dell’ultima  moda  maschile, un uomo in redingote e tuba, e uno in giacchetta e bastoncino. Vicino  ai  figurini  era  appesa  la  chitarra,  che  la  ragazza  aveva  tante volte udita di notte, sotto la sua casa, accompagnare le dolci canzoni malinconiche dedicate a lei. Sopra un’altra parete, in mezzo a una rosa di cartoline illustrate,  vi  era  la  figura  di  una  donna  dormiente baciata da un amorino.

Sulla piazza la folla tumultuava. Volevano il Sindaco.

Improvvisamente, dall’angolo della piazza, all’imbocco  della  strada  che  menava  al  Ricuso,  si udì un fragoroso rullo di tamburo, e subito dopo uno squillo di tromba. Il Sindaco  arrivava  dal Municipio, seguito da Don Gialormo  il  capo  guardia,  che  portava  la  bandiera  del  Comune,  mentre  le altre due guardie venivano dietro, coi ritratti del Re  e  della  Regina  inchiodati  sopra  due  lunghi  pali. Avanti a tutti era Fronte di Rocca col tamburo e una vecchia tromba di cavalleria a tracolla.

Viva il re, viva la Regina; vogliamo le terre!...

Come  un’onda  gigantesca  tutti  si  riversarono  verso  il  Sindaco.  I  ragazzi  strillavano  come macachi. Il suono del tamburo, lo  squillo  della  tromba,  la  bandiera,  e  quei  due  quadri  portati  in  alto sulla folla, davanti alla chiesa, tra  lo  scampanìo  festoso,  accesero  gli  animi  e  le  fantasie  senza  ritegno. Una specie di fanatismo religioso invase la folla davanti a quei simboli.

Si levarono tutti i berretti, come se il Re e la Regina fossero veramente apparsi in persona su la

piazza; li sventolavano urlando, con le facce congestionate, gli occhi iniettati di sangue.

Viva il Re, viva la Regina; vogliamo le terre!...

Qualcuno rotava in alto minacciosamente il bastone, altri alzavano le scuri che luccicavano sinistramente nell’aria grigia della mattina. Il Sindaco un po’ assonnato, un po’  perplesso,  irresoluto com’era di sua natura, quando vide che una gran parte dei  presenti  si  erano  muniti  di  sacchi  e  di paniere, disse tra sé: «Ci siamo! quella di oggi sarà una razzia fenomenale!». E vide sfumare la serietà dell’impresa. Se avesse potuto l’avrebbe  rimandata;  ma  a  proporre  una  cosa  simile  in  quel  momento, con l’eccitazione che vi era negli animi, e  la  presenza  di  quei  benedetti  quadri,  c’era  da  farsi  linciare come niente.

Le grida s’incrociavano da ogni parte: - Via il Re, viva la Regina! - Le donne strillavano come gazze, mandavano all’indirizzo della regina saluti, baci, parole  dolci;  si  picchiavano  il  petto  con  la punta delle dita giunte a mazzetto mormorando: - Grazia, grazia... - come davanti  a  una  immagine religiosa, senza sapere precisamente cosa chiedessero.

Cara mia! com’è bella...

È la Montenegrina questa?

La Montenegrina...

Sentite un po’! cos’ha sulla testa?

La corona ha. È o non è la regina?

Cara mia! lei ci protegge. Se sapesse le cose lei verrebbe a Pandore e farebbe giustizia.

Ah! se le sapesse...

Anche il Re è bello, con la fascia... e quel berlocco al collo...

È vestito da soldato! Che ha fatto anche lui il soldato?

Toh! lui è nato soldato. È il generale in capo lui.

Si  stringevano  nelle  spalle.  Non  riuscivano  a  persuadersi  che  al  servizio  militare,  che  per loro era un peso, dovesse soggiacere anche il Re.

I  quadri  e  la  bandiera  ondeggiavano  nell’aria  mossa  da  un  vento  fresco  di  tramontana,  che

portava il rombo degli olivi da gli orti circostanti, come il soffio di una risacca.

Cittadini... - disse il Sindaco, alzando la mano per imporre silenzio.

Salite sul sagrato, - consigliò Don Gialormo il capo guardia - così vi vedranno tutti. Fu portato quasi di peso sul sagrato.

Cittadini...  non  so  se  volete  andare...  -  disse  esitante,  volgendo  intorno  i  suoi  grossi  occhi azzurri da ragazzone buono - ...il tempo minaccia...

A quelle parole un silenzio perplesso si produsse nella folla, un silenzio  d’ira  e  di  sgomento.  Se volevano andare? Ma il Sindaco era impazzito!... Don Michelino Fazzolari prese la palla al balzo, e sventolando il cappello cominciò a gridare come un energumeno:

Signori, il Sindaco ha paura.

Zitto, bestia - gli mormorò il Sindaco afferrandolo per il braccio.

Se ha paura andiamo da noi!

E di che cosa ha paura?  -  Si gridava da cento parti con ira, le voci rauche, rabbiose,  le scuri

alzate.

Di che cosa ha paura se abbiamo con noi il Re e la Regina?

Signori  miei,  -  gridò  il  Galeoto , balzando sopra una grossa macea addossata a un muro della

casa di Don Gianni Cúfari - io ho letto un libro...

Parla Guerrazzi, - disse Don Gialormo.

Un libro dove si parlava del Re Idippo.

Don Michelino Fazzolari inferocito voleva andarsene.

Il Sindaco, interdetto, impacciato, tentava dominare il tumulto. Comprendeva che ormai era impossibile arrestare quella folla, e farla rinunziare al  suo  proposito.  Oramai  il  dado  era  tratto.  Fece cenno a Fronte di Rocca che facesse squillare la tromba, e quando ottenne un po’ di  silenzio  disse, ostentando molto coraggio:

Volete che andiamo? Andiamo. Io sarò il primo.

Un urlo di gioia seguì a queste parole: - Viva il Re, viva la Regina!

Ma prima di partire, continuò il Sindaco, debbo farvi una raccomandazione. Badate che non si va a fare razzia. Non bisogna toccar niente nei terreni dove passiamo.

Non toccar niente? evidentemente il Sindaco dormicchiava ancora quella mattina! Bisognava prendere possesso sì o no delle terre contestate? E per prendere possesso bisognava raccogliere i frutti. Così stava scritto nel Codice. Cosenza lo aveva in mano e sbraitava contro il Sindaco che si dimostrava un avvocato del cassio, che non conosceva la legge. Le donne che si erano tutte munite di una paniera o di un sacco schiamazzavano inquiete.

La  parola  giusta  la  disse  Don  Michelino  Fazzolari.  Quando  il  Sindaco  tacque,  fra  il  crescente

mormorio  della  folla,  Don  Michelino  prese  la  parola!  Si  scarmagliò  convenientemente  i  capelli  con  una

manata,  infilò  il  pollice  della  mano  destra  nel  vano  della  manica  del  gilè,  e  improvvisò  una  concione spettacolosa.

Pandurioti, mi dispiace, ma  il  Sindaco  ha  paura.  Noi  andiamo  a  prendere  possesso  delle  terre del Comune, le terre che le benefiche leggi eversive  delle  proprietà  feudali  ci  hanno  concesso  fin  dal tempo di Re Gioacchino buonanima, salute a voi tutti.

Salute e vita. Viva Re Gioacchino.

Chi era cotesto Re Gioacchino? - domandò Rocco Blèfari al Galeoto che gli stava vicino.

Re Gioacchino è quello che ammazzarono a Pizzo.

L’ammazzarono? e perché l’ammazzarono?

Perché? perché aveva distribuite le terre ai poveri.

Canaglie - fece Rocco tra i denti; e si ricordò di quella bella donna, con le grosse poppe e la bilancia in mano che aveva vista a Gerace Marina, dipinta in  un’aula  del  Tribunale:  «Neanche  i  Re  si salvano da quella bagascia».

Don Michelino continuava:  aveva  estratto  il  suo  foglio  di  carta  protocollo  e  lo  sventolava  come un drappo rosso davanti a un toro:

Questi terreni sono nostri; ce li ha riconosciuti il generale Colletta,  poi  l’agente  Grillo,  poi l’agente Macrì, poi l’agente Bosurgi. Qua ci sono i documenti.  Io  non  dico  chiacchiere.  Carta  canta. Intanto non  abbiamo  mai  potuto  godere  di  questi  beni,  e  i  nostri  contadini  debbono  andare  in  America, in un altro mondo, a soffrire, a morire, lontani dalle loro famiglie. - Qui il povero  ragazzo  s’era commosso.

Nella folla scoppiarono singhiozzi. Le donne si asciugavano gli occhi e il naso con le cocche del grembiule. Chi aveva un parente in America si sentiva accendere d’odio contro coloro che lo avevano costretto a emigrare. Quelli che volevano andarci, o che avevano parenti pronti a lasciare la patria, addossavano  la  colpa  delle  loro  angustie,  dei  loro  timori  e  delle  loro  trepidazioni  ai   proprietari usurpatori.

È vero, - borbottava Rocco Blèfari -  i miei poveri ragazzi dovrebbero andar tanto lontano, fra tanti pericoli! Dice  bene Don Michelino,  benedetta la mamma  che gli ha dato  il  latte.  Viva   il professore!

Don   Michelino   continuava:  -   Noi  dunque  dobbiamo  andare  oggi  a  prendere  possesso  senza

paura.

Che paura, se andiamo col Re!... La folla ormai esaltata si mosse.

Precedeva  Fronte  di  Rocca  rullando  come  un  indemoniato.  Dietro  a  lui  era  il  Sindaco  con

accanto  Don  Gialormo  il  capo  guardia  che  portava  la  bandiera;  seguivano  i  ritratti  del  Re,  e  dietro  un fiume di popolaglia urlante: - Viva il Re, Viva la Regina; vogliamo le terre!

Attraversavano il paese tumultuando, accavallandosi, e a mano a mano  che  avanzavano  la schiera ingrossava. Gli ultimi timidi, alla vista dei due  quadri  ondeggianti,  sbucavano  di  casa  e s’imbarcavano, trascinati come foglie da un risucchio. Dove si vedeva un  uscio  aperto  otto  o  dieci persone si precipitavano dentro, spingevano sulla strada qualche riottoso, lo cacciavano nella carovana minacciando. Davanti al corteo le galline  si  disperdevano  starnazzando  a  stormi.  I  maiali  si raccoglievano a  branchi,  rizzavano  le  orecchie,  fiutavano  il  vento  davanti  a  quel  tumulto  avanzante,  poi si lanciavano a fuga precipitosa attraverso le vie, con degli uh! uh! di spavento. Intanto le  campane suonavano a distesa, mentre gli olivi negli  orti  sbiancavano  sotto  il  vento  che  veniva  a  tratti  incerto, quasi inquieto.

Il nuvolone disteso sul bosco di Verraro rimaneva immoto e  minaccioso,  ma  nessuno  più badava a lui.

Quando i Pandurioti sbucarono sul Colle della Guardia e  videro,  oltre  il  greto  larghissimo  del fiume, tutte le terre che andavano a conquistare, fu un urlo di gioia e di tenerezza. Il  Carruso,  tutto accidentato, a gobbe,  a  valloni,  rigato  dagli  scoli  disordinati  dell’acqua,  sparso  di  macchie  di  lentischi  e di peri selvatici, saliva fino alle propaggini delle montagne,  dove  crescevano  le  querce  e  su,  verso Natile, le macchie e i castagneti. Poi Macrolis, Angelica, Ancone a sinistra con  gli  olivi  in  fila, spiccanti sulla terra biancastra. Qualche striscia di maggese scuro rompeva il giallo riarso delle stoppie. Qualche coppia di buoi arava, e sembrava  le  bestie  stessero  immote.  Gli  orti  dei  Baronali,  tra  il  largo greto del fiume e le pendici prime del Carruso, si distendevano segnati dal verde cupo del granoturco, e dalla fioritura rossa dei peperoni e dei pomodori.

Ecco la terra promessa, la buona terra che avrebbe dato loro il pane, la libertà! Ognuno accarezzava con l’occhio una quota, un angolo che sarebbe diventato suo  e  sul  quale  avrebbe  potuto lavorare senza soggezione, senza dover dividere col padrone i prodotti del suo lavoro.

Alla  testa  del  corteo  era  passata  la  ragazzaglia  portando  in  mano  rami  di  olivo,  di  melograno  e

di sambuco. Avanzavano riempiendo l’aria di  alte  strida,  scavalcando  pietroni,  tempestando  di  sassi  le pale di ficodindia negli orti. Davanti ai ragazzi apriva la marcia un gruppo di  cani  del  paese,  che balzavano di gioia, uggiolavano, si azzuffavano, e a ogni urlo  della  folla  rompevano  in  un  latrato furioso, a cui rispondevano a distesa tutti i cani della campagna.

Era   uno   spettacolo   indescrivibile:   sembrava   una   di   quelle   migrazioni   primitive,   dei   popoli

nomadi, o un esodo tumultuoso davanti a un cataclisma.

Cap. IV

Quando giunsero sul greto del  fiume,  e  tra  le  alte  verghe  fiorite  degli  oleandri scorsero gli orti dei Baronali, il corteo si ruppe. I ragazzi furono i primi. Si lanciarono urlando di corsa tra gli arbusti, attraversarono in un attimo un filo d’acqua, che  rigava  il  greto  immenso,  sparso  di  ciottoloni  screziati come uova di uccelli mostruosi, e scomparvero tra le tamerici.

Seguirono le donne. Si sollevarono le gonne fino al ginocchio  per  non  bagnarsi,  e  mettendo  in mostra le caviglie poderose, attraversarono anch’esse la piccola corrente, seguite dagli uomini.

Il Sindaco si precipitò avanti, smaniando, agitando le braccia, tentando con ogni mezzo di trattenerli, ma nessuno lo  ascoltava.  Perfino  Fronte  di  Rocca  col  suo  tamburo  arrovesciato sulla schiena era scomparso tra gli oleandri.

Rimasti  da  questa  parte  dell’acqua,  il  Sindaco,  Don  Michelino  Fazzolari  e  le  guardie  con  le

bandiere e i quadri inalberati sui pali, si guardarono un po’ perplessi.

Lo sapevo io che sarebbe andata a finire così! - disse il Sindaco desolato...

Io approvo, - fece Don Michelino accendendo una sigaretta - è roba loro alla fine dei conti.

Il Sindaco gli lanciò uno sguardo che aveva  tutta  la  ferocia  di  cui  erano  capaci  quei  suoi  due occhi grossi da ragazzone buono, e per non dargli ancora una volta della bestia gli voltò le spalle.

E adesso noi  cosa  facciamo?  -  domandò Don Girolamo, un po’ seccato di aver dovuto  prendere parte a

quell’impresa.

Ci sediamo - disse il Sindaco, e sedette sopra un grosso macigno nel greto.

Intanto dall’altra parte giungeva un brusìo, un rovinìo,  un  tempestare  sinistro.  Pareva  che  una turba  di  energumeni  si  fosse  abbattuta  sugli  orti  con  lo  scopo  di  distruggerli.  Come  uno  stormo  di cavallette i contadini si rovesciarono sulle piantagioni, urlando di gioia. I primi a  giungere,  per  la cupidigia di arraffare subito, si arrestavano  alle  prime  piante:  i  sopravvenienti  li  incalzavano,  li sospingevano bestemmiando, urtando, rovesciando. Da per tutto era un crepitìo  di  canne  infrante,  di arbusti calpestati e un rissare rabbioso. Le donne  si  incoccavano  le  gonne  alla  cintola, e vi cacciavano dentro a furia, peperoni, pomodori, melanzane, pannocchie di granturco; ma  venivano  urtate  e  sospinte; alcune perdevano  l’equilibrio,  ruzzolavano  imprecando,  schiantavano  le  piante,  calpestavano  le  frutta; le gonne si scioglievano, il già raccolto  precipitava  al  suolo;  era  arraffato,  pestato,  conteso rabbiosamente coi denti digrignati, i pugni sul viso. Era  più  la  roba  che  andava  perduta  che  quella  che veniva salvata dalla distruzione. E così per tutto il campo. Chi rompeva le canne  di  granturco  e insaccava le  lunghe  pannocchie  incartocciate,  chi  passava  di  corsa,  tempestando,  da  un  filare  a  un  altro e strappava le frutta rosse con tutto il tralcio. Chi si cacciava in collo una  enorme  zucca  gialla,  e  poi trovandola ingombrante, la scagliava al suolo. I ragazzi  andavano  in  cerca   di  piccoli  melloni  da rosicare, e quando non ne trovavano, si godevano infinitamente a tempestarsi tra loro di pomodori e  di melanzane. In meno di mezz’ora l’orto immenso, che copriva per circa un chilometro tutto un lato della sponda del fiume, fu ridotto a una rovina. Non una pianta  più  in  piedi!  e  dappertutto  una  poltiglia rossastra di peperoni schiacciati, di pomodori disfatti, di zucche sventrate, di foglie, di  rami  divelti;  un groviglio informe di arbusti, di pali e  di  canne  di  granturco,  come  dopo  il  passaggio  di  un  uragano. Sulla  immensa  distruzione,  tra  la  folla  formicolante  e  vociante,  scoppiavano  risse   improvvise,   gridi rabbiosi di donne che con le gonne piene rimboccate alla  cintola,  difendevano  la  loro  preda.  Alcuni uomini avevano riempiti dei sacchi e delle paniere,  e  se  le  portavano  sotto  il  braccio  o  su  una  spalla; quelli che, meno previdenti, erano venuti con le sole mani, avevano legate  con  una  verga  di  salcio  le maniche della giacca in fondo, e vi avevano cacciato dentro quanto vi entrava di ortaggi e  di pannocchie di granturco.

Rocco Blèfari era uno di questi.

Improvvisamente il cielo parve diventare più scuro. Un brusìo immenso scendeva dalla  parte  di Verraro, un crepitìo minuto, un soffio come di vento lontano, e con quello una specie di fumo s’avanzava, velando l’aria. Prima che si rendessero conto della natura di quel rumore, la nebbia coperse il greto, e uno scroscio improvviso, violento di goccioloni grossi,  obliqui,  luccicanti  nel  chiarore  del giorno, si abbattè sull’orto disfatto e sulla folla sparsa.

Il Sindaco si era riparato sotto un olivo, e affinché i ritratti non avessero a sciuparsi, aveva dato

ordine che venissero tolti dai pali, addossati l’uno all’altro, e riparati contro un tronco. Intanto una voce si sparse fulminea per il greto e nell’orto:  «I  carabinieri!...».  Si  fece  un  silenzio  improvviso,  rotto  dal brusìo  diffuso  dell’acqua  che  cadeva  fitta;  poi  s’udì  avanzare,  dalla  parte  di  Ancone,  un  doppio  scalpito e improvvisamente, da dietro gli oleandri sbucarono minacciose le lucerne di due carabinieri a cavallo. Guardarono un  po’ incerti  da  ogni lato  quella  folla sparpagliata  sul greto,  o  riparata sotto  gli  alberi, poi uno di essi che aveva i galloni  di  maresciallo,  estratta  dalla fondina una grossa rivoltella a tamburo, la puntò verso il gruppo dov’era il Sindaco con la bandiera, intimando: - Fermi tutti, in nome della legge.

Poi scese da cavallo seguito dal suo compagno.

L’arrivo di quei carabinieri produsse nella folla sparpagliata  l’effetto  che  produce  un  colpo  di fucile a pallini in uno stormo  fitto  di  passeri:  a  terra  rimangono  morti  o  svolazzanti,  con  le  ali  ferite, quei quattro o cinque che i pallini raggiunsero in una parte vitale; gli altri  con  un  frullo  volano  via pigolando.

Il  Sindaco,  Don  Michelino,  le  guardie,  che  si  trovavano  sotto  l’olivo,  a  portata  della  rivoltella

dei carabinieri, non  si  mossero.  Gli  altri,  specialmente  le  donne,  col  cuore  in  gola,  senza  fiato, sgattaiolando  tra  gli  alberi,  nascondendosi  dietro le  piante  di  oleandro,  in  mezzo  ai  pietroni  enormi  del greto, in punta di piedi,  raccomandandosi  l’anima  a  tutti  i  Santi,  tentavano  dileguarsi.  I  ragazzi  come una torma di scimmie scomparvero  tra  i  sassi  e  le  tamerici.  Alcune  donne,  impedite  dai  grossi  carichi che tenevano nelle sottane rimboccate, ne versavano una metà sul greto, e scappavano col resto da ogni banda. Altre più ostinate e più cupide arrancavano con  la  lingua  fuori,  trascinandosi  dietro  le  gonne gonfie come pance di idropici, piene di pomodori e di  peperoni,  che  scappavano  da  ogni  parte.  Alcuni uomini presero il largo fuggendo verso il  bosco  di  Angelica,  altri  verso  il  Mulino  Nuovo,  seguendo  il corso principale del torrente.

Il Galeoto e Cosenza, come gente che aveva una certa familiarità coi carabinieri, e che rappresentava una  specie  di  aristocrazia  intellettuale  in  mezzo  a  quella  turba  scamiciata,  si  accostarono al gruppo dov’era il Sindaco. Rocco  Blèfari  anche  lui  si  avvicinò,  tranquillo  come  una  Pasqua,  forte della protezione del Re, con le maniche della giacca legate in fondo, e piene di ortaggi. Non sospettava neppure per ipotesi, che quello che aveva compiuto non fosse un suo sacrosanto diritto.

Poiché il  Galeoto  e Cosenza più  pratici e più  ammaliziati nelle cose della giustizia, non avevano

niente addosso, il primo a essere agguantato fu lui. Scalzo com’era, con il suo  testone  coperto  dal fazzoletto a quadri, le due piccole corna su le tempia, e la giacca gonfia di preda, era il vero tipo del ladruncolo di campagna.

Fermo voi, - intimò il maresciallo afferrandolo per il braccio - cos’avete qua dentro?

Gli strappò di su le spalle la giacca e ficcate le mani  nelle  maniche  trasse  fuori  due  grossi peperoni gialli.

Cos’è questa roba, dove l’avete rubata?

Rubata io? ma voi siete pazzo...

Fate silenzio, scalzacane, e badate come parlate con un sottufficiale dell’Arma.

Signor brigadiere, - diceva Rocco, non rendendosi conto del grado del suo interlocutore, - signor brigadiere,ionon ho rubato, quello è atto di possesso, domandatelo al Sindaco.

Fate silenzio.

Sissignore, atto di possesso, io non rubo, il Sindaco mi conosce, domandatelo a lui.

Fate silenzio, dico, e datemi il vostro nome; ...come vi chiamate?

Io mi chiamo come mi ha chiamato mio padre, - gridava Rocco Blèfari eccitato e spaventato insieme - questo è atto di possesso!

Il maresciallo si rivolse al suo subalterno che gli stava vicino e gli ordinò: - Mettigli i ferri.

I ferri a me? Ma, signor brigadiere, questo è atto di possesso,  le  terre  demaniali. Qui c’è il Sindaco, lui sa tutto. Don Michelino, mettete fuori quella carta, fatela  vedere  al  signor  brigadiere,  lui  sa leggere, le terre sono del Comune.

Voi siete in  arresto, - gli gridò in viso il maresciallo adirato - perché sorpreso in flagrante con addosso la refurtiva. Avete capito? Voi siete uno dei capi, mi pare.

Io? Ma signor brigadiere - continuava,  Rocco  esasperato.  Ma  l’altro  si  era  rivolto  al  Sindaco con tono  autoritario.  Le  guardie,  quasi  per  proteggersi  contro  i  rigori  della  legge,  che appariva in tutta la sua severità, avevano spiegato la bandiera nazionale, messi in  mostra  i  ritratti  dei  Reali,  e  si stringevano intorno  al  Sindaco.  Don  Michelino  rimuginava  in  testa  una  di  quelle  risposte  che rimangono nella storia, come quella  di  Muzio  Scevola  a  Porsenna.  Ma  il  maresciallo  non  lo  degnò  di uno sguardo. Parlò col Sindaco.

Cosa fanno lor signori con  quella  bandiera? -  E  allungò  la  mano  per  impadronirsene,  mentre altri quattro carabinieri sopraggiunti si erano lanciati all’inseguimento lungo il greto.

Il Sindaco, che per quanto fosse timido, aveva ritrovata un po’ di energia nella autorità della sua funzione, s’interpose, afferrò la bandiera e allontanò con gesto amabile ma dignitoso il sottufficiale.

Prego... questa è la bandiera del Comune, e io sono il Sindaco. - Così dicendo si sbottonò la giacca, e fece vedere la fascia tricolore. - Se avete bisogno di  spiegazioni  domandatele,  ma  tenete presente che parlate col rappresentante del Re nel paese.

Il maresciallo che aveva  avuto  ordini  severi  contro  i  dimostranti,  ebbe  la  tentazione  di  reagire; ma il tono con cui parlò il Sindaco, pacato e sicuro e quella qualità di rappresentante del Re, buttata lì come una dignità misteriosa che egli non aveva né il tempo né la competenza di controllare, lo intimorirono. Volle rispondere, ma s’impappinò e finì  col  dire:  -  Io  ho  degli  ordini,  signor  Sindaco, degli ordini di arrestare tutti i dimostranti.

- Chivihadatoquell’ordinestupido? - chieseilSindaco.

Prego, signor Sindaco, gli ordini vengono dal signor capitano, comandante la compagnia.

Ebbene, quell’ordine è stupido, ditelo pure al  vostro  capitano  e  al  Sottoprefetto.  I  dimostranti sono tutta una popolazione. Se vi è qualcuno d’arrestare questo qualcuno sono io che ha diretta  e consigliata la dimostrazione. Arrestatemi e lasciate andare quel contadino.

Io non ho ordine d’arrestarla, -  rispose  il  maresciallo -  ma  questo  contadino  che  ho  sorpreso con addosso la refurtiva lo trattengo.

Non ho nessun mezzo per farvi capire che commettete una sciocchezza. Dov’è il vostro capitano?

Il  capitano,  col  grosso  dei  carabinieri,  era  rimasto  ad  Ancone,  dove  i  terreni  contestati,  essendo

di proprietà di un fratello del deputato, premevano di più all’autorità politica.

Intanto i carabinieri, lanciati all’inseguimento, avevano acciuffati altri tre e li accompagnavano ammanettati: Fronte di Rocca col tamburo sulla schiena e una salvietta  colma  di  peperoni,  il  Liano,  e Cataldo con un sacco più grosso di lui.

Come il maresciallo s’accorse che  Cosenza il  Galeoto parlavano tra loro animatamente, a bassa voce, pensò di perquisirli.

Anche voi due siete dimostranti?

Signor maresciallo, - disse Cosenza - noi siamo cittadini che siamo venuti a prendere possesso delle terre  del  Comune,  secondo  l’articolo  delle  leggi diversive  della feudalità. Qui nel mio Codice non ci sono - e trasse di tasca il codice - ma il professore, Don Michelino, sa dove si trovano. - Poi si rivolse come un energumeno al maestro Fazzolari.

Don   Michele,   avete   perduta   la  parola?   Sangue  di  Maometto,  tiratele  fuori  le  vostre  leggi

bollitive.

Va... va... stupido, va, - faceva Don Michelino tutto confuso - che bollitive d’Egitto mi vai cantando?

Come, per la malogna, dov’è quella carta? Mettetela fuori... noi abbiamo diritto; ci sono i documenti.

Sicuro,  -  incalzava  il  Galeoto  -  fate  vedere  i  documenti...  questo  è  un  tradimento,  per  la

malogna.

La conclusione fu che anche Cosenza  e  il  Galeoto  furono  arrestati  come  sediziosi,  e  condotti tutti a Pandore.

Rocco Blèfari legato - diceva lui -  come Gesù Cristo, e innocente come lui, con sulle spalle la giacca dalle maniche rigonfie che gli penzolavano e gli  sbattevano  sui  fianchi,  in  mezzo  ai  carabinieri armati, avanzava come a tentoni, annichilito.

Le  tracolle  bianche,  le  giberne,  le  strisce  rosse  dei  pantaloni,  i  grandi  cappelli  a  due  corni,  i

sottogola,  gli  facevano  ricordare  le  figure  dei  giudei,  di  quei  soldati  romani  intorati  e  muscolosi,  che venivano  esposti  la  settimana  santa  nel  Sepolcro,  ai  lati  del  piccolo  Cristo  livido  e  sanguinante.  Come

quel Cristo egli veniva condotto davanti ai Tribunali!  E  la  Giustizia?  Ah!  quella  bella  signora  dalle poppe prosperose e dalla bilancia! - L’ho detto io, che era una bottegaia... una specie di Porzia Papandrea!...

Cap. V

La rivendica delle terre demaniali era andata a finire così, in una razzia di pomodori e  di pannocchie di granturco, e nell’arresto di dieci contadini del paese. I carabinieri,  da  Ancone  salirono  a Pandore. Erano ottanta con alla testa un capitano grosso, biondo, con una faccia apoplettica di monaco feroce, e un’aria da far tremare le case.

Quella povera gente, che aveva creduto di esercitare un diritto, si spaventò talmente alla vista di tutta quella forza armata, che  aveva  occupato  il  municipio,  le  strade  e  spesso  perquisiva  le  case,  che non si udiva più una voce nel paese.  Si  sarebbe  detto  deserto  se  di  quando  in  quando,  sul  rombo  del vento e lo scrosciar dell’acqua sui tetti, non si fosse levato un filo di fumo, o il pianto di un bambino, o il grugnito lamentoso di qualche maiale. Si era  messo  a  piovere  a  dirotto,  con  un  tempo  di  scirocco denso e greve. La tramontana si era combattuta tutto il giorno col grecale, ma verso sera aveva ceduto. Contro il grosso nuvolone che si librava sopra Verraro si  avanzarono  dal  mare  altre  nuvole  basse, soffici,  grigie,  dalle  quali  si  staccavano  cortine  di  nebbia  spessa  come  bambagia,  che  radeva  gli  oliveti, i tetti, i poggi intorno, le grandi querce, e velava tutto in un  turbinìo  di  pioggia  minuta,  insistente, scagliata a raffiche dal cielo, come da una tramoggia gigantesca. Il vento che ora  sollevava  ora abbassava le cortine di nebbia,  rombava  negli  alberi  come  un  mare  in  tempesta  circondando  il  paese  di uno scroscio continuo, legato, ricorrente come quello dei flutti. I tetti grondavano, grondavano le vie limacciose, coperte di escrementi di maiale, di residui di  cucina,  di  bucce,  di  spazzature,  di  tutto  il tritume che riversano sulla via le case povere. In fondo, verso Ancone, il fiume diviso in  due  correnti, limaccioso, sul greto immenso e desolato, riempiva la valle del suo mugghìo iterato,  a  cui  si  univa  il brontolìo del mare che si spandeva nella notte veniente, come una minaccia dell’invisibile.

Nelle  povere  case,  oppresse  sotto  quei  tetti  aggobbiti,  screziati  di  licheni,  non  si  osava  neppure

lamentarsi. Don Michelino Fazzolari era scomparso con tutti i suoi documenti e  le  leggi  diversive.  Il Sindaco, che per poco non era stato arrestato anche lui, ora si era tappato in casa come un topo pauroso, e non si faceva vedere per nessuna ragione al mondo. La bottega di Porzia Papandrea, per timore dei carabinieri, era deserta. Vittoria al banco distribuiva sigarette, bicchierini di cognac e sorrisi a qualche sottufficiale dell’Arma, che s’indugiava volentieri a scambiar qualche chiacchiera con quel  pezzo  di ragazza ardita e fiorente, che sembrava disposta a sfidare tutta la compagnia.

La bottega di mastro Genio era sbarrata.

Gli arrestati erano  stati  chiusi  nella  sala  consiliare  del  municipio  con  i  corpi  di  reato.  Sul banco del Consiglio, disposto a ferro di cavallo, sopra  uno  zoccolo  di  legno  che  teneva  la  metà  della  sala, erano stati deposti il sacco pieno di ortaggi  sequestrato  a  Cataldo,  alcune  paniere,  e  in  un  mucchio  a parte, i peperoni trovati nelle maniche della giacca di Rocco Blèfari.

Una lucerna a petrolio, con un tubo  tutto  affumicato,  rischiarava  debolmente  l’ambiente.  Sui muri erano stati riattaccati i ritratti del Re e  della  Regina,  e  la  bandiera  appoggiata  a  un  angolo,  tutta ancora inzuppata di pioggia, sembrava il vessillo di un esercito sconfitto.

Fuori l’acqua infuriava senza posa.

Tra il rombo ininterrotto del vento, s’udiva il crepitìo delle raffiche che passavano  sui  tetti rabbiose, suscitando nei solai, attraverso gli usci, sui  comignoli,  delle  voci  lunghe  e  lamentose  come guaiti di animali sofferenti.

Nelle pause, il ruscellar delle  grondaie,  monotono,  accidioso,  si  univa  al  clamore  dei  torrenti  e alla voce lontana del mare che riempiva tutta la notte.

Seduti sulle sedie a foggia curule, gli arrestati si guardavano  in  viso  sgomenti,  dubitosi  quasi  di quanto era  avvenuto,  tanto  sembrava  loro  enorme.  Vi  ragionavano  sopra,  a  bassa  voce  però,  perché  di là erano i carabinieri.

Rocco,  seduto  al  posto  centrale,  con  in  testa  il  suo  fazzoletto  a  quadri  e  i  larghi  piedoni  tutti

infangati sullo sgabello sindacale, un po’ discorreva coi  compagni  di  sventura,  un  po’  rimuginava dentro di sé.

«Mi hanno arrestato per ladro! Guardate Maometto come mi tenta! Dovevo proprio arrivare a sessant’anni per  farmi  arrestare come ladro! Gesù, Giuseppe e Maria! Ladro e caporione io? ma io non ci volevo neppure andare io, perché so che cosa è capace di combinare quella  buona  donna  della Giustizia. Se non fosse stato per quegli scapestrati dei miei figlioli, che a ogni fiato minacciavano d’andarsene in America, io non mi sarei mosso. Ho un pezzo d’orto ch’è mio e mi basta. Io ladro? io ho sempre lavorato, e so che il Signore voleva parlare di  me  quando  disse:  Ti  procaccerai  il  pane  col sudore della tua fronte». Ma quello che lo esasperava di più era  il  fatto  che  i  carabinieri  lo  avevano arrestato senza tener conto delle sue ragioni. L’atto di possesso, le leggi eversive e abolitive di Re Gioacchino, i documenti del maestro Fazzolari: tutte cose  inutili.  Il  maresciallo  sembrava  sordo.  E  che uomo quel maresciallo! Al Re e alla Regina quivi presenti non aveva prestata la minima attenzione.

Ma  che  i  documenti  fossero  falsi,  e  che  il  Sindaco  e  il  professore  avessero  ingannato  il  paese

intero?  E  se  i  documenti  erano  validi  come mai i magistrati avevano mandata tanta forza per impedire ai cittadini di esercitare i loro diritti? I pensieri gli s’ingarbugliavano, dubitava di tutto, della giustizia, dell’autorità, del Governo: tutto gli sembrava falso, precario,  inutile,  e  si  vedeva  ingannato  da  ogni parte, lui povero contadino ignorante, che non sapeva farsi le  proprie  ragioni,  perché  non  sapeva leggere e scrivere. Un grande sconforto lo invadeva, lo  sconforto  dell’uomo  davanti  all’ingiustizia.  Si sentiva  oppresso  da  una  paurosa  solitudine,  la  solitudine  dell’ignorante  che  in  ogni  potere   vede un’insidia e odia tutti i poteri.

Il  Galeoto  digrignava  i  denti,  minacciando  di  bucare  la  pancia  al  Sindaco  e  al  professore  che,

secondo lui, erano i responsabili di tutto.

Cosenza sdraiato sul  tavolo,  vicino  al  lume,  sfogliava  affannosamente  il  Codice  e,  nello  sforzo di leggere, faceva con la bocca le smorfie  più  strane.  Ogni  tanto  alzava  la  testa  ispida,  si  grattava  la barba sotto il mento, e mormorava:

Io gliel’avevo detto, l’articolo non era quello!...

Il giorno dopo,  sebbene  l’acqua  non  avesse  cessato  un  minuto  e  il  vento  imperversasse, sbiancando gli olivi che fumavano come marosi e sibilando sui tetti rabbiosamente,  gli  arrestati  furono condotti via. Alcuni di essi per ripararsi avevano avuto dei  sacchi  dalle  loro  famiglie,  o  una  di  quelle coperte tessute con l’ordito di fil di ginestra e la trama di stracci, che in Calabria chiamano pezzare. A Rocco Blèfari la figlia Giusa aveva portato una schiavina. Rosa col fratello Gèsu  si  era  rifugiata  a Grappidà in una piccola terra di proprietà dei Varvaro. Pietro si era dato alla macchia, per paura anche lui dei carabinieri. Giusa, rimasta sola a piagnucolare, ci andò per portargli la coperta e qualche cosa da mangiare,  sebbene  avesse  tanta  soggezione  dei  carabinieri.  Giunta  davanti  alla  casa  comunale,   si avvicinò a uno dei due militi che stavano di guardia sotto l’arco della porta, per ripararsi dall’acqua che imperversava.

Il carabiniere la guardò con certi occhi dolci che le misero  addosso  una  paura  strana.  Essa portava la sottana di fustagno verde sollevata sulla testa  a  mo’  di  cappuccio,  e  tenendo  stretti  sotto  il mento i lembi con una mano umida di pioggia, mostrava  il  suo  viso  affilato,  un  po’  sofferente,  coi pomelli di un leggero incarnato, gli occhi miti,  verdognoli  con  riflessi  di  erba,  e  i  grossi  denti  bianchi come quelli delle beduine.

Vorrei consegnare questa coperta a mio padre.

Volentieri, bella ragazza, - disse il carabiniere accarezzandola con  lo  sguardo  -  datela  a  me. Come si chiama vostro padre?

Rocco Blèfari, si chiama...

Datela a me, datela a me.

E io non lo posso vedere? - chiese la ragazza con la voce velata dalle lacrime...

Mi dispiace, ma non abbiamo ordini, signorina...

È che io vorrei dargli anche qualche cosa da mangiare per il viaggio. -  E  fece  vedere  un tovagliolo in cui aveva messo due uova sode, un pane e un pezzo di cacio pecorino.

Date a me... date a me... glielo porto io.

Quando lo conducete via?

A momenti...

Allora io aspetto, voglio vederlo - fece la ragazza abbassando gli occhi, rassegnata. Discese la scaletta e si andò a rincantucciare sotto l’arco dell’ufficio postale.

Quivi  altre  donne  stavano  ad  aspettare  piagnucolando:  la  moglie  del  Galeoto  con  certi  occhi

selvaggi che bestemmiava come una turca, la moglie di  Cataldo,  la  Cosenza,  una  povera  scema  che basiva tutta gocciolante di pioggia e di lacrime.

Quando gli arrestati vennero fuori in fila, tutti scarruffati, con le barbe da radere, gli occhi pesti perché su  quelle  panche  del  municipio  non  avevano  dormito,  le  manette  ai  polsi,  le  donne  scoppiarono in un pianto dirotto.

Giusa si avvicinò al padre, e avrebbe voluto abbracciarlo; ma non osò per paura che i carabinieri la ricacciassero indietro malamente, e le impedissero di consegnargli la coperta.

Pa’  o  pa’...,  fatevi  coraggio,  -  disse  la  ragazza  singhiozzando,  e  gli  cacciò  sulle  spalle  la

schiavina. Poi gli porse in mano il tovagliolo, e lo guardò a  lungo  mentre  si  allontanava  tra  gli  altri arrestati, curvo, coi suoi grandi piedi nudi, guazzanti nel fango, sotto l’acqua fumosa, sbattuta  obli- quamente dal vento e velante la contrada.

Sotto la schiavina si vedevano ondeggiare gonfie le maniche della giacca, nelle quali erano stati cacciati ancora gli  ortaggi dei Baronali, l’atto di possesso del cittadino Rocco Blèfari sulle  terre demaniali del suo Comune.

VI

Per due settimane piovve a dirotto, con uno scirocco impetuoso che veniva dal mare, e che  si combatteva tutto il giorno con un vento di ponente. Acqua a  non  finire.  Una  raffica  andava  e  una veniva, scrosciando tra gli alberi, con un sibilo diffuso, crepitando sui tetti che grondavano  con  un ruscellare monotono e accidioso. L’aria era corsa da nuvole  basse,  da  cortine  di  nebbia  soffice,  spessa, calda, che  galoppava  trasportata  dal  vento,  si  sfilacciava  sulle  cime  degli  alberi,  avvolgeva  il campanile, poi dileguava nel rombo formidabile della campagna. Nessuno usciva di  casa.  Nelle  vie deserte  passava  di  corsa  qualche  donna  incappucciata,  qualche  maiale  col  pelo  irto,  intirizzito,  grugniva lamentosamente  davanti  a  un  uscio.  Su  gli  orti  malinconici,  coi  loro  olivi  sempre  in  moto,  sbiancati  e arruffati  dalle  raffiche,  i  fichidindia allineati in fila lungo le macee come spettri, le siepi di sambuco già tutte  verdi  di  polloni  caduchi,  passavano,  nelle  pause  dell’acqua,  stormi  di  cardellini.  Si  posavano  un istante su le verghe delle siepi e poi rivolavano via, pigolando, col loro caratteristico volo a scatti.

A volte l’orizzonte si allargava, la nebbia pareva  nascondersi nelle fratte, e una specie di chiarìa

velata si diffondeva su tutta la campagna fino al mare. Un’isola di sole appariva su le acque, come un sorriso lontano, in mezzo alla fioritura dei marosi che si sfioccavano al largo. Le nuvole color  cenere prendevano riflessi di rosa pallido, e parevano muoversi lente  verso  ovest,  come  un  esercito  che  porti altrove la sua minaccia. In quella intermittenza  di  chiarore  diffuso  emergevano  limpidi  i  poggi,  pallidi, rigati di valloni, scabri di sassi e di cespugli, con qualche albero di pero dalle  chiome  gialle,  come  un gigantesco mazzo di fiori  sbocciato  improvvisamente  nella  solitudine  della  campagna.  Appariva  qua  e là, bruno e distinto, tra l’aridità delle stoppie,  qualche  rettangolo  di  maggese,  o  qualche  orto  ancor verde.  Il  cupo  delle  querce  si  alternava  col  grigio  cangiante,  argenteo  degli  olivi,  che  s’inalbavano  sotto il vento come marosi.

E  tutto  grondava  malinconico,  triste,  con  riflessi  azzurrini,  tendenti  al  violetto,  come  un  color  di

morte  in  quei  primi  giorni  d’autunno,  tra  un  mormorio  diffuso  di  sgocciolìi,  di  cascate,  e  la  voce  greve dei torrenti.

In  fondo  alla  valle  mugghiava  il  fiume,  gonfio,  limaccioso,  che  aveva  nella  voce  come  un

rotolìo di sassi.

Dove esso si gettava nel mare, l’acqua per qualche chilometro era di un colore d’ocra.

Oltre il  fiume  si  vedevano  tranquille,  lavate  dalla  pioggia,  e  un  po’  intristite,  le  terre  demaniali. A destra, sopra Natile, dove la montagna, coperta di elci e di  castagni  prendeva  un  color  d’indaco, appariva distinta Pietra di Febo, Castello Atì con  la  sua  punta  aguzza,  Pietra  Longa;  e  oltre  quelle, sopra uno sfondo di cielo color tempesta, si profilavano le  cime  dell’Appennino:  Farnia,  tutta  pallida  di stoppie e di  eriche,  Scaparrone  e  più  alto  di  tutti  Aspromonte, col suo cappuccio tutto bianco di neve. Le nubi pareva viaggiassero verso i monti, in una immensa migrazione.

Ma erano piccole tregue dello scirocco.

A poco a poco dalle forre, da su l’orlo dei burroni, dalle valli,  salivano  lente  nell’aria  delle nuvolette di nebbia; altre si formavano spontaneamente sopra le chiome dei querceti, come un fiato gigantesco  rappreso.  Salivano  da  principio  tenui,  si  spandevano,  si  sfioccavano,  si  moltiplicavano  e  poi si univano in una nuvola spessa che velava a un tratto l’orizzonte. La luce  si  affievoliva,  il  cielo  si chiudeva, ritornava il vento impetuoso, e col suo rombo ricorrente arrivava l’acqua,  minuta,  insistente, scagliata contro le facciate delle case, i vetri dei balconi, le chiome degli alberi.

Le gronde ricominciavano a ruscellare, e i cuori si serravano come l’orizzonte.

Una  notte,  fra  il  tramoggiare  furioso  dello  scirocco,  si  udirono  intorno  al  paese  dei  rombi  sordi come di frane.

I  Varvaro  e  Mariuzza,  che  dopo  l’episodio  dell’occupazione  si  erano  rifugiati  a  Grappidà,  quella sera erano al focolare, davanti a un grosso ceppo di lentisco, e recitavano il rosario.

Lo  conduceva  Caterina  e,  secondo  l’uso  del  paese,  invece  dei  consueti  misteri,  recitava  certe composizioni poetiche d’invenzione popolare:

Vi saluto monachissa

di Gesù figghiola e matri chi piacisti all’eterno patri e vi fici principissa,

vi saluto monachissa.

Dio vi salvi a voi Regina, o Maria, Rosa divina.

Pater noster.

Bruno e  Mariuzza  rispondevano  con  un  bisbiglio  sommesso,  questa  facendo  scorrere  lentamente le avemarie del suo rosario di vetro corallino, l’altro con le mani secche e nervose, tese verso la fiamma che vacillava a ogni soffio, facendo ondeggiare sulle pareti nude le loro ombre.

Il vento quella notte soffiava con una  violenza  inaudita.  Alcune  querce,  a  una  cinquantina  di passi dalla casa,  si  contorcevano  e  rombavano  minacciose,  come  investite  dalle  fiamme  di  un  incendio. La casa aveva scricchiolii sinistri, e tra le tegole, sul tetto, si producevano rumori strani come se l’impalcatura si spostasse lentamente sotto una pressione misteriosa.

Si era al terzo mistero quando un rombo sordo, sotterraneo scosse la  casa.  A  esso  seguì  uno schianto formidabile, un rovinìo, un crepitìo di rami. La porta  fu  spalancata  con  violenza  e  quasi divelta. Il vento entrando improvviso, umido di un polverio  di  pioggia,  spense  il  lume  e  investì  gli oranti.

Maria Santissima!...

Balzarono in piedi senza fiato, e si aggrapparono l’uno all’altro, con gli occhi sbarrati.

Dalla porta aperta videro confusamente la campagna livida, con chiome d’alberi agitate dalla tempesta, e un cielo cupo, corso da nuvoli neri, mostruosi. Di quando  in  quando,  in  quella  immensità ruggente, si aprivano dei lampi rapidi, lontanissimi, di cui non si udiva il tuono.

- Cos’è,zio?- domandòMariuzzabiancacomeuncencio.

Non so, - fece Bruno Varvaro - credo sia caduta una quercia. - Si avvicinò alla soglia. Una massa nera, fluttuante era distesa a pochi passi dalla casa. La quercia più grossa era stata sbarbicata dal vento e rovesciata. Una parte dei rami sotto il peso della mole immensa, si erano schiantati e giacevano al suolo in un groviglio sinistro; gli altri si dimenavano ancora disperatamente nel vento.

È caduta la quercia grande  - disse Varvaro; ma all’invito angoscioso delle donne che rientrasse e chiudesse la porta, rispose con un mugolìo che le fece agghiacciare.

Varvaro  guardava  intorno,  in  quella  oscurità  rotta  da  un  chiarore  debolissimo  che  veniva  da

dietro le nubi addensate, e non credeva quasi ai suoi occhi.  Qualche  cosa  di  misterioso  avveniva intorno, e pareva  cambiasse  lentamente  la  disposizione  delle  cose.  Quel  paesaggio  che  egli  conosceva in ogni arbusto, quasi in ogni sasso, nel quale si sarebbe mosso a occhi chiusi, si trasformava. Un’altra quercia accanto a  quella caduta si era inclinata sopra un fianco e cigolava sinistramente come una barca sul punto di affondare. E intorno a quella altri alberi sembrava s’incurvassero a terra, perdendo la loro disposizione verticale. Di alcuni i rami toccavano il suolo. Una macea che si trovava parallela alla casa, ora appariva spostata a sinistra, e tutta a gobbe.

Varvaro si tropicciava gli occhi: - Cosa mai  succede,  Vergine  Santissima?  Sono  io  ubriaco  di fumo, o questo è il diluvio universale? - Poiché in quel punto la campagna era tutta sparsa di case e di capanne, si udivano  giungere  col  vento  delle  voci  concitate,  delle  grida  lunghe  di  spavento,  dei  pianti,  e nel buio si vedevano muoversi luci rossastre, come di tizzoni agitati!  Poi  si  cominciarono  a  udire muggiti, e un abbaìo lungo di cani, che si rispondevano e si eccitavano nella notte, da ogni angolo della contrada.

«Gesù Maria! cosa succede stanotte», stava per dire  Varvaro,  quando  s’udì  dietro  la  casa  un grido acuto, una voce giovanile:

- Focu meu!...

Immediatamente  balzò  davanti  alla  casa  un  ragazzo  scapigliato,  con  in  mano  un  tizzone fumante, quasi spento dall’acqua.

Varvaro, o Varvaro... dove siete?

Qua sono, cosa è successo... Tu chi sei?...

Sono il figlio della vedova Rocca, ci è caduta la casa; venite a vedere... per carità, venite a vedere...

E com’è caduta, col vento... È crollato il tetto?

Non... no... - faceva il ragazzo ansante - si è aperta nei muri e pare che cammini...

Anche la casa di Varvaro sembrava che camminasse; e si sprofondava: il terreno  davanti all’uscio, che normalmente era all’altezza della soglia, ora era di  un  buon  palmo  più  alto.  E  intanto  il crepitìo del tetto diventava sempre più frequente.

A un tratto il vecchio ebbe la sensazione di un pericolo immediato, quella specie di inquietudine istintiva per la quale le bestie avvertono i cataclismi. Afferrò le donne e con impeto le spinse fuori.

Caterina, Mariuzza... fuori... la casa crolla...

Ebbero appena il tempo di varcare la soglia, che uno scricchiolìo potente investì la casa, e i muri si aprirono, come un frutto di melograno troppo pieno di chicchi, ingoiando il tetto.

Focu meu... Focu meu - gridavano le donne piangendo ad alta voce, piene del terrore dell’invisibile. - Vergine Maria, Madonna di Polsi... perdono e pietà!...

Il ragazzo della vedova Rocca  si mise a strillare paurosamente,  stralunato, tutto  inzuppato d’acqua, con il tizzone spento nelle  mani.  Dal  buio  rispondeva  sempre  più  vasto  e  sinistro  l’ululare  dei cani.

Dove andare? Nel terreno inzuppato d’acqua si affondava fino al polpaccio.

Varvaro continuava a segnarsi, senza riuscire a  rendersi  conto  di  ciò  che  avveniva  in  quella notte tempestosa, con quel vento che pareva volesse scardinare le montagne.

La campagna intorno si vedeva assai poco e confusamente. Non si udiva che uno  scroscio immenso, confuso di acque e di torrenti  in  piena,  e  in  mezzo  a  quel  rovinìo  si  percepiva  qualche  cosa come un  movimento  strano  della terra,  come  se  si  spostasse, e  venisse  trascinata in giù da quel rombo tempestoso, con tutti i suoi alberi, le case, le strade, in un caos finale.

Venite da mia madre, - piagnucolava il ragazzo - venite, per carità.

Le donne si rivoltarono le sottane sulla testa, per ripararsi dall’acqua e seguirono,  senza  fiato, recitando preghiere, Bruno e il ragazzo.

Andando verso la casa della vedova Rocca, col fango fino al ginocchio, tenendosi per mano, inciampando a ogni  passo,  vedevano  più  chiari  e  paurosi  i  segni  del  cataclisma  che  trasformava  intorno la disposizione del paesaggio. Le macee che servivano  da  termini  erano  o  crollate  o  contorte;  degli alberi alcuni erano affondati nel terreno sul posto, immergendovisi fino a  metà  del  tronco,  altri s’inchinavano come trasportati da una corrente di fango. Una straducola che passava in mezzo ai campi era scomparsa in parte, in parte aveva cambiato posizione. Tutte queste cose  viste  confusamente,  al bagliore dei lampi, e rilevate soprattutto per la gran pratica che aveva nel terreno, mettevano nell’animo del Varvaro un terrore folle; il terrore dell’uomo di  fronte  all’inconoscibile,  alla  misteriosa  forza  della natura che egli non sa dominare, mentre si sente da essa dominato e schiacciato.

Nel  buio  intanto  si  faceva  più  frequente  l’occhieggiare  delle  luci,  e da ogni parte, dove era una

casa, giungevano lamentosi i muggiti dei buoi, e l’uggiolìo sinistro dei cani.

Trovarono la vedova davanti all’entrata di un pagliaio di frasche, vicino alla  casa.  Sembrava inebetita dallo spavento. In braccio aveva un bambino di tre  anni,  avvolto  in  una  vecchia  giacca  del marito morto.  Il bimbo, dopo  avere pianto a lungo,  calmato e riscaldato dal  tepore, si era riaddormentato. Altri  due  ragazzetti,  rannicchiati  al  buio  nell’interno  del  pagliaio,  piagnucolavano  battendo  i  denti. A qualche passo era la casa coi muri spaccati da enormi fenditure,  e  il  tetto  sfondato.  Sull’aia  alcune mucche, rimaste anch’esse senza ricovero, aspiravano inquiete  il  vento,  si  sferzavano  i  fianchi  con  la coda, e di quando in quando levavano il muso  verso  il  cielo  lampeggiante,  e  lanciavano  dei  muggiti lunghi, sinistri, che mettevano freddo nel sangue.

O Varvaro, - fece la vedova lacrimando - cos’è questo flagello? Siamo alla fine del mondo?

Non so, cara mia, non so, - rispose il vecchio - anche la mia casa è crollata.

Venite qua dentro, venite... - disse ancora la vedova - almeno questo non ci crollerà addosso.

Entrarono tutti nel pagliaio. I due bimbi continuavano a piagnucolare al buio, con un uggiolìo sommesso. Mariuzza li cercò brancolando con le mani nell’oscurità, dimentica del proprio spavento. Rinvenne i visetti lacrimosi, li attirò a sé, in dolce atto materno, e se li strinse sul petto, col pensiero a una persona lontana.

Quando venne l’alba il cielo prometteva sereno.

Le nubi diradate e diafane, abbandonavano lentamente la linea del mare. A  mano  a  mano  che cresceva la  luce  si  andavano  allargando,  facevano  apparire  qua  e  là  delle  occhiate  di  azzurro. Finalmente il sole, non ancora apparso, le incendiò,  le  ruppe  in  grandi  isole  vaganti,  le  ricacciò  oltre  i monti.

Una  mattina  smagliante,  con  un  sole  d’oro,  illuminando  la  campagna,  scoprì  uno  spettacolo

desolante e insieme grandioso. Tutte le case di campagna, in un raggio di cinque chilometri, i frantoi, le capanne erano crollati o  affondati  nel  terreno,  con  le  imposte  divelte  e  i  tetti  precipitati  o  pericolanti. Gli alberi o erano stati travolti dalla furia del vento o affondati nella terra. Tutto  il  terreno  era sconvolto, qui rovesciato nei torrenti, li screpolato o  aperto  in  frane  improvvise;  i  termini  sovvertiti,  le strade spostate o scomparse, i valloni inghiottiti, le piantagioni sommerse.

Dai piedi della rocca di Verraro si era staccata una frana immensa, dell’ampiezza di circa cinque chilometri. Il terreno impregnato d’acqua,  aveva  slittato  sopra  un  fondo  roccioso,  e  aveva  trascinato con sé, per alcuni metri, tutto il paesaggio, sconvolgendolo e devastandolo.

Altro dolore e altre rovine.

La povera cara terra dei Pandurioti non dava pane! Come un formicaio posto sull’orlo di una via carraia, continuamente calpestato dai cavalli, dalle ruote,  dai  monelli,  costringeva  i  suoi  abitatori  a rifare periodicamente il loro nido, a sistemare a  ogni  stagione  i  loro  campi,  incerta  nel  suolo  e  nelle opere che vi edificava l’uomo, come era incerta nelle correnti dell’aria.

Bisognava lasciarla, cercare altrove i mezzi per una vita meno dolorante e affannata. Bisognava emigrare.

VII

Dopo la disillusione subita nell’affare delle terre demaniali, quella  rovina  della  frana  aveva messo un grande sconforto nell’animo dei Pandurioti.

Circa cinquanta famiglie che abitavano nelle campagne dove si era prodotta la frana, erano state cacciate dal disastro verso il paese, senza pane e senza tetto.

Intanto il  periodo della semina stava per passare, e i Pandurioti non avevano seminato un pugno di grano. I proprietari dei beni demaniali contestati non avevano voluto  ricevere  i  cittadini  del  Comune, neppure per un atto di sottomissione. Un signore di Platì aveva preso a calci un povero diavolo, che era andato  a  chiedergli  perdono.  Le  terre  erano  state  concesse  per  la  semina  a  gente  di  San  Luca,  di Benestare  e  di  altri  paesi  vicini,  e  i  guardiani  avevano  l’ordine  di impedire ai Pandurioti anche il passaggio nei terreni contestati.

Era una situazione insostenibile. Si cominciò a riparlare  dell’America.  Coi  primi  di  novembre, mercé l’interessamento del Sindaco, i dieci arrestati furono rimandati  alle  loro  case,  e  quando  Rocco Blèfari ritornò in famiglia, trovò che i figli avevano  già  compiuti  tutti  i  preparativi per emigrare. Non si oppose più. Oramai anche il buon Dio con i suoi castighi, pareva spingere la gente ad abbandonare quel povero paese.

Sarà quel che vorrà il Signore, - diceva Rocco col cuore grosso - raccomandiamoci a lui.

Erano più di quaranta che partivano questa volta: una  vera migrazione in massa: i Blèfari, i Cataldo padre e figlio, Peppe Liano, mastro Genio il sarto, il figlio di Passarelli, il Galeoto e tanti altri. Anche la vedova Rocca mandava il suo ragazzo; un bambino quasi che, sebbene avesse compiuti i sedici anni sembrava ne avesse dodici, tanto era minuscolo e mingherlino.

Mastro Genio, prima di partire, volle sposare la Rosa.

Il matrimonio si celebrò alla vigilia della partenza.

Non sono infrequenti questi matrimoni un po’ barbarici e un po’  eroici  in  Calabria.  Gli  sposi  si giurano fede, passano una notte  insieme,  sanciscono  col  rito  intimo  e  cruento  la  unione  delle  anime  e dei corpi, e all’indomani, come nelle favole antiche, nelle favole  degli  eroi  e  dei  cavalieri  erranti, l’uomo parte, qualche volta per non più ritornare, verso la ricerca di un pane, verso la fronte immensa e lampeggiante del lavoro; la donna rimane sola, col ricordo e  il  brivido  di  una  felicità  appena  intravista, appena gustata, sull’orlo della tazza della gioventù.

Sebbene mastro Genio  si  fosse  sforzato  di  fare  le  cose  in  grande,  la  cerimonia  dello  sposalizio fu malinconica.

Solo alla sera i giovani che partivano avevano  voluto  ballare  e  cantare  a  lungo  sulle  zampogne, come per stordirsi, per annegare e mortificare le inquietudini che metteva loro in cuore il pensiero della partenza verso l’ignoto.

Quando fu notte, mentre il ballo ferveva ancora, Peppe Liano, che era stato il più allegro di tutti, prese Giusa per il braccio e la trascinò  fuori,  sotto  il muro  di  una  vecchia  chiesa  demolita,  a  qualche passo dalla casa.

Cosa volete? - domandò Giusa, sempre spaventata dell’arditezza di quell’uomo,  che  essa amava di un amore pieno di soggezione e di inquietudini.

Stasera tu sarai sola, - le disse sul volto, col fiato caldo e  pieno di  un odor acre  di vino,  il Liano, - ti verrò a trovare.

- Come... dove?... - chiesesmarritaGiusa. - Siete pazzo?...

Zitta pulcino - fece Liano, e dopo avere dato uno sguardo rapido intorno, la baciò stretto sulla bocca. - Non parlare, aspettami, lasciami l’uscio aperto, l’uscio piccolo dietro la casa.

No... no... non voglio... - mormorava smarrita  Giusa;  e  poiché  quello,  dominandola  coi  suoi begli occhi selvatici, accennava ad andarsene, lo prese per la giacca.

Il Liano l’afferrò per le braccia, e serrandogliele come in una morsa, la baciò ancora forte.

- Verrò, aspettami... - Erientrònellacasadovesiballava.

La Giusa rimase sola, senza fiato, appoggiata al muro, mentre dalla casa, a pianterreno, veniva il canto della zampogna e il tintinnìo del tamburello basco, che segnava il ritmo della danza.

L’aria era già bruna, e qualche pipistrello rigava col suo volo irregolare il crepuscolo.

Una gran luce era rimasta in alto, verso occidente. Il cielo, d’onde il sole era scomparso da un pezzo, aveva preso un color verde-oro che  sopra  il  profilo  dei  monti  diventava  abbagliante.  Pochissime stelle   tremolavano   a   sommo   dell’orizzonte,   come   corolle   di   ninfee   sopra   una   correntìa   d’acque tranquille. Negli  orti  erano  cessate  le  risse  dei  passeri;  solo  gli  olivi  bisbigliavano  ancora  appena  sotto la brezza, biancicando a ogni soffio, come se volessero trattenere sulle loro foglie un po’ della luce crespuscolare.

All’indomani, quando schiarì il giorno, squillarono le campane, per annunziare la messa degli emigranti. I partenti e le loro famiglie avevano voluto invocare  da  Dio  la  benedizione  sul  loro  viaggio, affidare a lui le loro fortune, confidargli i loro timori.

La vecchia chiesetta protopapale si andava riempiendo a poco a poco di popolo. Da quattro alte

finestre che guardavano verso oriente entrava, nella  parte  superiore  della  navata  centrale,  la  sola  che fosse illuminata, la luce ancora incerta e pallida di un mattino uggioso. Sui vecchi quadri del soffitto, in più punti rotti e accartocciati, si cominciavano a scorgere  le  figure  dipinte.  In  uno,  rappresentante  la Strage degli innocenti, si vedeva la caliga di un soldato che premeva sul volto di un lattante scagliato al suolo; il  braccio  e  il  pugnale  di  un  altro,  alzato  sopra  un  groviglio  di  corpi  femminili;  il  viso  inferocito di una donna afferrata da un altro soldato per  la  lunga  chioma  bionda.  Quella  difendeva  il  proprio bimbo  cacciando  le  unghie  negli  occhi  dell’assalitore.  Nell’altro  era  rappresentato   lo   sposalizio   di Maria: in alto sulla scala del tempio il gran sacerdote, con la mitria lunata,  e  in  fondo  alla  scala  la Madonna, di cui non si vedevano che le spalle e una bella testa bionda, coi capelli annodati sulla nuca.

Dalle pareti della navata, guardavano i quattro evangelisti dipinti di un pittore primitivo.

In fondo, sotto la cupola a pan di zucchero, nella quale alcune finestrette rotonde appena apparivano rivelate da un fioco barlume, si  ergeva  il  bell’altare  di  marmo,  un  altare  che  sarebbe  stato bello anche per una grande chiesa; coi candelieri di ottone, e certa specie  di  flabelli  di  fiori  artificiali, metallici, che mettevano tra una candela e l’altra un luccichìo mistico, come di una fioritura perenne e graziosa, quale si conveniva all’orto e all’altare del Signore.

A destra brillava, tenue e velata, la lampada del Sacramento.

Mentre mastro Ciccio il sagrestano passava davanti all’altare per mettere il leggìo,  aprire  il messale, portare le ampolline, le donne entravano silenziose,  coi  rosarii  annodati  alle  dita,  le  mani brulle sul seno. Scostavano i panchetti o le sedie per  raggiungere  il  loro  posto  che,  su  per  giù,  era sempre lo  stesso,  s’inginocchiavano  segnandosi  in  fretta,  e  cominciavano  a  bisbigliare  le  loro  preghiere. A poco a poco la grande navata di sinistra fu piena di donne di ogni età. Alcune più giovani portavano già sul capo i fazzoletti di laniglia a fiorami; ma molte, specie tra le  anziane  e  le  giovani  del  ceto contadino, portavano le tovaglie aggiustate intorno al capo e al  volto,  con  una foggia  bellissima  che  in dialetto chiamano ‘ndirosu. La tovaglia lunga un  paio  di  metri,  candida,  o  nera  se  la  donna  portava  il lutto, era foggiata con piegature semplici e graziose, in modo da chiudere il volto  in  una  specie  di rettangolo, i cui lati si allargavano sulle spalle e sui fianchi, coprendo la schiena fino alle anche.

Quando suonò la terza campana, la chiesa  era  tutta  biancheggiante  di  queste  tovaglie,  sotto  le quali luccicavano occhi dolorosi e ardenti, quegli occhi dalle pupille nere  e  dalle  iridi  screziate  che rendono affascinanti le donne meridionali, anche quando non sono belle.

E le giovani e belle non erano molte. La gioventù è una troppo breve stagione per le donne calabresi! Molti di quei visi giovanili  apparivano  appassiti  e  disfatti,  quasi  direi  macerati;  perché  la  bellezza  in essi era ancora molta e palese, ma si velava di sofferenza e di dolore; di quel dolore e, di quella sofferenza cotidiani che derivano dal  lavoro  intenso  e  servile,  dalla  povertà  e  dalla  incessante  fatica  della generazione. Molte erano le donne giovani, i cui mariti emigravano, e  si  riconoscevano  dagli  occhi insonni, lacrimosi, e dai visi alterati da una acerba angoscia.  Qualcuna  aveva  in  braccio  un  bimbo  tutto vestito a festa, come per rallegrare la partenza del suo papà con un aspetto giocondo di letizia; qualche altra lo teneva attaccato al petto come un’offerta di amore e di dolore a Dio.

In mezzo al gruppo delle donne erano le figlie di Blèfari. Alla Rosa, vestita con  gli  abiti  dello sposalizio, era stata portata una sedia, ed essa si stava tutta triste e piangente tra la sorella Giusa e la futura cognata, Mariuzza. La Giusa, inginocchiata, aveva le  pupille  arse,  gli  occhi  profondi,  spaventati, come se temessero a ogni istante di essere sorpresi in fallo.

Dall’altro  lato,  accanto  a  Rosa,  s’era  inginocchiata  Mariuzza, tutta esile e bianca, con le labbra

graziose tinte di un rosa pallido, e il collo sottile, che spiccava come uno stelo nel bianco della tovaglia, e pareva sostenesse a stento quella gran corona di trecce che le girava intorno alla testa.

Giusa cercava con gli occhi,  in  mezzo  al  gruppo  degli  emigranti,  il  Liano;  ma  questi,  ardito,  un po’ cupo, col ciuffo su gli occhi, il vestito nuovo di velluto, e l’aria di un lupo che abbia divorata la sua preda, entrò nella chiesa quando già mastro Genio aveva intonato il Kirie.

In fondo, vicino al fonte battesimale, in mezzo a molte donne vecchie, vestita di cenci, si era inginocchiata  la  vedova  Rocca.  Teneva  il  bambino  più  piccolo  in  braccio,  e  accanto,  sopra   un panchetto, le si erano seduti gli altri due  figlioli  minori,  infagottati  in  certe  giacche  grandi,  piene  di toppe e di strappi in ogni parte. Pregava con quel suo volto  sparuto,  aguzzo,  con  una  curva  ancora giovanile sulle guance, sparse di piccoli  nei,  e  gli  occhi  corrosi  dalle  lacrime.  Il  suo  ragazzo,  a  sedici anni appena, emigrava anche lui. Un bambino, al quale doveva  ancora  lavare  le  orecchie  e  ravviare  i capelli! «Che farà così solo nel mondo, in quei paesi sconosciuti,  tra  gente  estranea?».  Il pensiero  le metteva addosso una tale ambascia, che non era capace neppure di piangere. Invocava l’anima del suo povero marito perché accompagnasse  il  figlio,  lo  sorreggesse  nei  paesi  lontani,  e  glielo  raccomandava con una fede ardente, come se quello fosse stato vivo, e la potesse udire.

Intanto nell’altra navata vicino al pulpito, sotto l’organo, accanto alla pila dell’acqua santa, si andavano adunando gli uomini. Rocco entrò  tra  i  primi,  si  segnò,  e  si  mise  in  ginocchio  accanto  alla pila.

Quando squillò la campanella,  per  annunziare  che  s’iniziava  la  messa,  entrarono  in  gruppo,  con un grande scalpiccìo di scarpe nuove, i quaranta emigranti, e si andarono a inginocchiare tra il pulpito e il coro, davanti a un grosso armadio, nel quale era chiusa la statua di S. Vito.

Vestivano tutti abiti nuovi di fustagno o di panno volgare, dal taglio goffo e angoloso, rialzati e gonfi sul petto come corazze. Alcuni portavano cravatte di cotone  a  nodo  fisso,  i  cui  gancetti  uscivano  fuori, dietro la nuca, oltre il collo della giacca. Molti avevano la semplice camicia, dal colletto rivoltato  e  fermato  sul petto con due bottoncini di vetro; e sullo sparato mostravano dei ricami: ramoscelli, raggere, piccoli fiori con un forellino in mezzo e i petali intorno, simulanti quelli della margherita. Erano i ricami  delle  fidanzate. Parecchie di quelle camicie erano quelle del giorno di nozze. E tutti quegli ornamenti singolari, e quegli abiti nuovi, stirati di fresco, angolosi, non ancora aderenti alla persona, con la rigidezza delle colle originarie, avevanoperledonneelefamigliedi quegli emigranti la bellezza e la austerità di un assetto di guerra.

I  volti  di  quegli  uomini,  anche  dei  più  giovani,  erano  angolosi,  dai  tratti  fortemente  marcati,

come per una vecchiezza precoce; i capelli ruvidi, arruffati nei contadini, pettinati a  ciuffo  in  qualche artigiano, con un cipiglio un po’ lugubre; e  tutti  gli  occhi  adusati  al  dolore  e  al  patimento  cotidiano come alla luce del giorno.

Il parroco uscì dalla  sagrestia  e  si  avanzò, col calice nelle mani, verso l’altare; fece un inchino, poi salì rapidamente; lo depose, sfogliò il messale un istante, e ridiscese per iniziare la messa.

Un  sibilo  si  produsse  allora  sull’altare.  Una  tenda  azzurra  che  copriva  una  nicchia  nel  centro  si

mosse, si raccolse sopra un lato, e improvvisamente, in mezzo ai ceri accesi e ai  flabelli  di  fiori splendenti, apparve bella, serena, misercorde una Madonna,  la  Madonna  di  Pandore,  col  Bambino  ritto sulle ginocchia.

Fu  un  bisbiglio  di  gemiti,  di  sospiri,  di  preghiere,  presto   interrotto   dal   suono   dell’organo. Mastro Genio con la sua vocetta agra, esile come quella di un galletto, intonò il Kirie. Alla sua si unì immediatamente la voce di Gèsu Blèfari, una bella voce tenorile, con inflessioni  malinconiche,  tutta svolazzi, acciaccature e variazioni, come se volesse adornare  il  canto  religioso  di  tutte  le  grazie  di  un canto di amore.

Nell’udirlo Mariuzza appoggiò le mani alla spalliera  di  una  sedia  che  le  stava  davanti,  chinò  la testa sulle mani e pians e.

Nonostante la letizia del canto, nella chiesetta gravava un senso tragico di attesa, il senso tragico delle grandi calamità. Speranze e timori, lacrime e preghiere, invocazioni segrete e voti ardenti si confondevano e  si  elevavano  a  Dio.  I  Pandurioti si erano raccolti in quella chiesetta che ricordava loro le date più belle, le più gaie e le più tristi della loro vita, come in un luogo di pace e di speranza. Essa rappresentava per quei contadini il solo luogo di elevazione spirituale, il posto dove  la vita  bestiale  e dolorosa di tutti  i  giorni  trovava  una  tregua  nella  preghiera  e  nel  canto;  dove  il  loro  cuore  guardava  in se stesso, vedeva le sue piaghe, e con accorata fiducia le mostrava a Dio.

La  pena  cotidiana  dei  corpi  e  delle  anime  trovava  conforto  in  quelle  quattro  mura,  tra  quelle

immagini venerabili di Santi e altari, che parlavano di un’altra esistenza, e legavano le cose della terra a quanto di bello e di poetico le circondava: il cielo coi suoi aspetti di grandezza infinita e di grazia, e il sole, e le nubi e i venti e le stelle, e tutte le cose  più  vicine  a  Dio.  A  quella  si  ricorreva  nei  dolori domestici, quando sulle famiglie si abbattevano le sciagure, quando tremava la  terra  minacciosa,  e quando la temperie si svolgeva impropizia ai raccolti. Si andava a implorare il pane del corpo e inconsapevolmente si rinveniva il pane dell’anima.  Con  quanta  fede  e  quanta  speranza  vi  ricorrevano ora, dopo una triste delusione, dopo un disastro che aveva distrutti tanti beni e lasciate senza tetto tante famiglie; ora che i propri figli, i mariti, i fratelli, la  loro  carne  viva,  era  sul  punto  di  partire,  di  andar lontano, in un paese sconosciuto, per cercare  lavoro  e  pane!  Non  era  il  Signore  che  voleva  quello? Tutto procedeva da Lui, e a Lui ricorrevano per affidarglisi interamente.

Finita la messa il parroco volle recitare anche la  litania  dei  Santi:  poi  benedisse  i  partenti  e rientrò in sagrestia.

Allora la Palamara, una vecchia contadina dalla voce formidabile, intonò la Salve Regina.

L’intermediario era scomparso. Il  popolo  parlava  direttamente  con  Dio,  invocava  la  protettrice dei poveri e degli afflitti.

Dio vi salvi, o Regina, siete matre universale; per vostro amor si sale in Paradiso.

Alla  voce  della  vecchia  seguirono  quelle  squillanti  delle  donne  più  giovani,  poi  quelle  gravi

degli uomini, e un coro perfetto con accordi di terza e di quinta riempì la chiesa.

I primi due versetti erano cantati in fretta, con una specie di recitativo sommesso, saliente, una invocazione appassionata. Al terzo il canto si allargava, come  un  volo  di  colombe  che  abbiano  preso quota, e piegava con accordi semitonali, lenti, accorati nell’ultimo emisticchio, pieni di una malinconia consapevole, forte e rassegnata.

La  voce  delle  giovani  si  spiegava  piena,  limpida,  dal  petto,  come  uno  zampillo  d’acqua  sorgiva:

le più attempate cantavano in tono minore. Qualcuna lacrimava cantando, col cuore pieno d’angoscia.

In alto i finestroni, scossi dalle raffiche di un vento di ponente che  si  era  levato  all’improvviso, facevano  tintinnire  i  loro  vetri,  dietro  i  quali  si  vedevano  passare  nel  cielo  mattinale  delle  nuvole, incessantemente.  Sull’altare  erano  state  spente  tutte  le  candele.  Solo  la  lampada  in  cornu  epistulae splendeva col suo lumicino giallo.

Voi siete gioia e riso di tutti i tribolati, di tutti i disperati unica speme.

Quanto dolore e quanta rassegnazione  in  quel  canto!  Il  cuore  vi  si  abbandonava  con  la  voluttà con cui ci si abbandona all’impeto delle lacrime, per sfogarsi,  assaporandone  l’amaro  aroma.  Quaranta uomini erano pronti ad abbandonare le loro case, le  mogli,  le  fidanzate,  i  figliuoli,  per  recarsi  in  un paese lontano e sconosciuto, fra gente che parlava un’altra lingua, in cerca  di  lavoro  e  di  pane.  Il bisogno, la povertà della loro terra,  li  cacciava  verso  l’esilio  forzato,  come  le  prime  nevi  sulla montagna avevano cacciati verso il piano i pettirossi e le capinere, quei teneri uccellini che  pigolavano, scivolando tra  le  siepi,  su  le  cime  degli  alberi  spogli,  con  quei  piccoli  gridi  lamentosi  che  accrescevano la tristezza dell’inverno veniente. Qualcuno di quelli che partivano non sarebbe  ritornato  più  tra  i  suoi parenti, sarebbe caduto lontano, nella lotta per l’esistenza, sepolto in qualche miniera,  o  stroncato  dai congegni terribili delle grandi officine. Il bacio che avrebbe dato alla sua  donna  piangente,  ai  suoi bambini, meravigliati di vederlo  allontanarsi  in  una  maniera  insolita,  sarebbe  stato  l’ultimo,  e  il  giorno dei morti i suoi cari, per ricordarlo, avrebbero guardate le lontananze misteriose dell’orizzonte.

E quanti sarebbero ritornati integri nelle membra  e  nell’anima?  Quanti  avrebbero  trovato  il pane, quanti avrebbero fatto fortuna? E nelle loro famiglie cosa sarebbe avvenuto durante il loro  esilio? Avrebbero,  al  loro  ritorno,  ritrovati  quelli  che  lasciavano  nella  loro  casa;  la  loro  donna   avrebbe mantenuta la sua fedeltà; e la fidanzata  li  avrebbe  attesi  con  la  dolce  trepidazione  dell’amore  costante? Tutto era affidato alla speranza e alla fede in quel Dio  a  cui  ubbidiscono  i  venti  e  le  tempeste; che governa, come fa delle stagioni, i cuori e gli affetti degli uomini, e presiede alle loro fortune.

Ma in quel canto non era solo la tristezza del forzato esilio, il dolore di dover lasciare i propri cari, o quello di vederli partire lontano, versopaesimisteriosi,versooscuripericoli.

Prostrata nella preghiera, quella folla dimenticava a poco a poco, insensibilmente, le difficoltà contingenti, le  avversità  della  vita  cotidiana,  i  bisogni,  le  miserie  che  inviliscono  l’anima.  Il  suo  dolore si allargava e si approfondiva.

Come  in  un’acqua  tranquilla,  dal  punto  dove  cade  un  sasso  e  la  turba,  si  partono  dei  cerchi

concentrici,  che  si  allargano  fino  ad  abbracciare  tutta  la  superficie,  così  dall’angustia  della  loro  vita  il dolore si allargava, abbracciava un poco del dolore di tutti gli uomini, assumeva un senso universale.

A voi sospira e geme,

il nostro afflitto cuore in un mare di dolore e di amarezza.

Ah, sì! non solo la loro esistenza era travagliata, ma  tutta  la  vita  del  mondo  era  un  mare  di dolore,  in  ogni  condizione,  in  ogni  angolo  della  terra.  Su  tutto  l’essere  gravava  quella   tristezza misteriosa che ne costituisce l’essenza più intima, e che più direttamente pare proceda da Dio.

Il canto diventava accorato e solenne. Molti di  quegli  uomini che solevano cantare per abitudine quella invocazione piena di abbandono alla Vergine,  sentivano  ora  che  essa  diventava  un  vero  e  proprio grido del cuore, e un supremo conforto dissipava a poco a poco la loro amarezza, una calma serena si apriva davanti alle loro anime come un’aurora.

Rocco Blèfari, appoggiato alla pila  dell’acqua  santa,  prendeva  parte  a  quel  coro  a  bassa  voce, con  gli  occhi  gonfi  di  pianto,  per  non  dare  un  tono  di  angosciosa  desolazione  al  canto  del  popolo orante. Egli aveva un cuore nero nero! Esso gli diceva che i suoi figli non avrebbero avuto fortuna, che sarebbero stati vinti nella lotta intrapresa. Non sapeva rendersi conto del  perché  quella  voce  lugubre  gli parlasse dentro, ma essa parlava come una voce di naufrago nella tempesta, e nel mare del dolore e dell’amarezza egli si sentiva naufragare. Perciò rivolgeva all’immagine  della  Madonna,  che  guardava serena dalla nicchia, i suoi occhi umili e supplichevoli, occhi pieni di lacrime, di dolorose esperienze, e mormorava: - Madonna benedetta, aiutateli voi.

Quando il coro intonò l’ultimo versetto:

Noi siamo figli vostri, a noi date vittoria,

tutti i  giovani  emigranti  che stavano  in  ginocchio,  come guerrieri  che  odano  lo squillo  di  una  tromba, si levarono in piedi, e la fiducia si leggeva  nei  loro  occhi  animati  dalla  speranza.  Lasciarono  la  chiesa quasi a malincuore,  segnandosi  con  piccole  croci  tracciate  sulla  fronte  con  il  pollice  destro,  mandarono un bacio devoto alla Madonna nella nicchia, e sciamarono via verso le loro case.

Cap.VIII

Pietro Blèfari entrò nella bottega di Porzia. Non aveva mai osato manifestare a parole la sua passione per la bella Vittoria, ma ora,  al  momento  di  partire  per  un  viaggio,  tanto lontano, di cui l’unico obiettivo era quel suo cocente amore, si fece coraggio improvvisamente, con la sua goffaggine dei timidi.

Al  banco  stava  Vittoria,  tutta  fresca  e  rubiconda.  In  fondo  sedeva  massaro  Bruno  Ceravolo,

fumando una pipetta di terra.

Che  c’è,  Pietro?  -  disse  Vittoria  allegra  vedendolo  entrare.  -  Come  siete  bello  vestito  da

galantuomo .

Pietro diventò rosso e si guardò il vestito e le scarpe, impacciato. Il suo gran corpo  di cavallaccio ossuto, infagottato malamente in quel vestito  di  fustagno  bigio,  tutto  rigonfio  e  sonante  sul petto e sulle maniche, sembrava  uno  di  quegli  spaventapasseri  che  i  contadini  usano  nei  campi  di  lino, per tener lontani gli uccelli.

Pfu!  -  disse, passandosi una mano rapidamente sul davanti, - mi vestirò meglio quando sarò in America.

Partite dunque?...

Sì, parto... son venuto a salutarvi. State bene  - e le porse la mano grande e nodosa come quella d’un gigante.

Fate buon viaggio, Pietro, e ricordatevi qualche volta di noi...

Pietro si sentì il freddo alla radice dei capelli, respirò forte, poi disse:

Io?... io mi ricorderò certamente di voi... ma!... Vorrei dirvi una cosa... Dov’è vostra madre? la dirò a lei...

Ditela  a  me,  Pietro  -  faceva  ridendo  la  ragazza,  tutta  felice  di  vederlo  così  impacciato  e balbettante.

No, vado da vostra madre.  - E poiché nel retrobottega Porzia ruttava come una  cateratta, Pietro

girò intorno al banco e s’avvio verso la tenda verde. Massaro Bruno, quando quello fu entrato, diede un’occhiata scura a Vittoria.

Ti diverti eh! ti diverti... grandissima strega!...

E voi cosa volete? - fece Vittoria col suo sorriso umido e provocatore.

Io lo avevo sullo stomaco da un pezzo, quel maccherone senza buco; o credi che non me n’ero accorto? Tutte le sere accoccolato su quel barile come un montone, con gli occhi spalancati come quelli di uno spiritato. Meno male che va via...

È più giovane di voi... - disse con un tono di provocazione Vittoria. Massaro Bruno ebbe uno scatto.

Io vi fumo te e lui, capisci?

Si levò d’impeto ed entrò anche lui nel retrobottega.

Pietro  aveva trovata Porzia tutta discinta, senza busto, mezza sdraiata sopra una sedia, abbattuta dall’isterico.

- Sonvenutoasalutarvi - disse il giovane, tutto eccitato.

Ah!  parti  anche  tu,  figlio  benedetto?...  -  fece  Porzia,  ed  emise  un  altro  rutto  formidabile.  - Anche tu vai in America? Con la benedizione di Dio!... che la Madonna ti accompagni e ti dia fortuna.

Io  volevo...  -  riprese  Pietro  balbettando  -  volevo...  dirvi  una  cosa.  Io  desidero  per  moglie  la

gnura Vittoria... se posso avere tanto onore.

Ah! figlio mio, onore e piacere... onore e piacere... Ma perché non è venuto tuo padre? Queste domande le fanno  i  grandi,  figlio.  Del  resto  io  sono  contenta,  se  lei  ti  vuole,  io  sono  contenta.  Procura di far fortuna in America, e quando ritornerai...

Poi si mise a chiamare: - Vittoria... Vittoria... vieni un po’ qua.

Vittoria entrò: - Qua sono, mamma...

Senti cosa dice Pietro? Mi ha fatta una domanda di matrimonio per te... Tu cosa rispondi?

Vittoria  non  smetteva  quel  suo  sorriso  beffardo  e  sicuro,  anche  perché  contava  di  eccitare  la gelosia di massaro Bruno.

Io  sono  contenta,  -  disse  la  ragazza,  dondolandosi  sui  fianchi,  -  purché  vada  in  America  e faccia fortuna.

Datemi la fede  - fece Pietro, tendendo ancora la sua grossa mano, rosso in viso, col cuore che gli faceva dei capitomboli nel petto.

La  ragazza  allungò  la  sua  senza  sapere  precisamente  se  prendeva  un  impegno,  o  elargiva  una delle sue perfide lusinghe. Pietro gliela prese, la strinse, rudemente, sconvolto, ed uscì.

Pietro,  o  Pietro,  -  fece Vittoria andandogli dietro - vi voglio dare un ricordo. Prendete  -  e gli porse un pacchetto di Macedonia. - Quando le fumerete ricordatevi di me.

Pietro  avrebbe  voluto  dirle  che  lui  non  fumava  sigarette,  ma  la  gioia  del  dono  gli  aveva  tolto ogni volontà.

Addio,  addio... -  disse;  prese  il  tabacco  e  uscì  nella  strada.  Quando  svoltò  la  piazza,  udì  un

passo affrettato dietro di lui. Si fermò e massaro Bruno, accigliato, lo raggiunse.

Senti, -  gli  disse  -  quello che hai detto a Porzia sia come non detto. Va pure in America, e dimentica di avere parlato, come hai parlato. Quella ragazza non è per te.

Cosa volete voi, - rispose il giovane eccitato - è forse vostra figlia?...

Son cose che non ti riguardano!... ti dico ancora una volta che quella ragazza non è per te.

Si guardarono un istante, come due galli sul punto di azzuffarsi. Poi si lasciarono con una muta minaccia.

Intanto Gèsu salutava la sua fidanzata.

La  zia  Caterina  Varvaro  gli  aveva  preparato  un  fagottino  di  roba  da  mangiare:  un  pezzo  di capicollo, una cullurella (ciambella) impastata con la sugna, due grosse melegranate.

Questo lo mangerai nel treno - gli aveva detto Caterina.

Gèsu era contento.  Con  la  sua  buona  faccia  da  seminarista,  appena  adombrata  sulle  mascelle  e sul labbro superiore da  una  pelurie  bruna,  gli  occhi  color  nocciola,  grande  di  corpo,  e  un  po’ dinoccolato, aveva l’aria di un sagrestano.

Abbracciò e baciò con trasporto lo zio Bruno Varvaro e la zia Caterina, poi si  rivolse  a Mariuzza.

Questa aveva ancora addosso il vestito che aveva portato  alla  messa;  una  camicetta  di  laniglia chiara con una guarnizione a cuore davanti al petto, di un raso  di  cotone  azzurro,  una  sottana  di mussola a lunghe pieghe minute, stretta alla cintola e allargata a campana in fondo. Il petto piccolo era rilevato dalla stecca, una lista di legno  dolce,  ricurvo,  che  s’introduceva  in  una  guaina,  davanti,  nella parte centrale del busto, e che spesso era incisa dal donatore. Al collo portava appesa a un cordoncino nero una crocetta di oro a filigrana, e  alle  orecchie  due  rosette  con  una  pietra  di  granata.  Il  bel  viso ovale, quasi infantile, sembrava esangue, e in esso brillavano  due  grandi  occhi  chiari,  d’un  colore  che faceva ricordare la ghiaia marina  appena  coperta  da  un  velo  d’acqua. Anche lei aveva sotto la tempia una piccola cicatrice di pustola, curata col fuoco.

Addio  -  fece  Gèsu  tenendole  la  mano,  ché  l’usanza  del  paese  non  permetteva  di  più.  - State

bene. Se Iddio mi darà salute e fortuna ci rivedremo... se no...

Mariuzza sentì che due grosse lacrime le scendevano dagli occhi, ma non si scompose. Col viso leggermenteimporporato sui pomelli, la mano che le tremava in quella di Gèsu.

Buon viaggio, - disse - il Signore e la Madonna vi accompagnino,  e  vi  diano  fortuna,  come desidera il mio cuore. - Poi soggiunse, reclinando un po’ il collo sopra una spalla: - Scrivete presto, ricordatevi...

Tenendosi   ancora   per   mano   stettero   un   istante   silenziosi,   commossi,   guardando   in   terra.

Nell’uno era un desiderio e nell’altra una speranza che non osavano manifestare.

Baciala, - disse con impeto Bruno Varvaro - e che Iddio vi benedica.

Gèsu  allargò  le  braccia  e  strinse  con  dolcezza  la  giovane,  baciandola  come  una  sorella  sulle

guance.

Lei    gli    restituì    il    bacio    imporporandosi   in    viso.    Si    fissarono   ancora   con   uno   sguardo

appassionato;  poi  Gèsu  scese  rapidamente  sulla  via,  dove  lo  attendevano  i  suoi  compagni  emigranti della Ruga Grande.

Qualche minuto dopo tutta la carovana era sulla Strada Nuova in viaggio.

Il cielo si era coperto di nuvole grigie, e il solito vento di ponente rombava negli oliveti degli orti.

Gli emigranti portavano tutti un sacco  di  tela  con  dentro  qualche  oggetto  di  biancheria,  e  della roba da mangiare. Seguivano molte donne e uomini delle famiglie. Alcuni  portavano  il  carico  del  loro partente in una bisaccia di orbace. Vi  erano  delle  spose  che  portavano  i  sacchi  dei  loro  mariti  sulla testa, mentre quelli tenevano  in  braccio  un  bambino  che  baciucchiavano  continuamente.  Dei  ragazzetti più grandicelli, scalzi, stracciati, sgambettavano accanto ai genitori, meravigliati di quella partenza, e tentavano di rendersene conto facendo mille domande curiose.

Tra le altre donne vi era Rosa Blèfari, che volle  accompagnare  il  marito  fino  alla  stazione. Anche Rocco  volle andare a Bovalino, sebbene la strada fosse lunga, e per non farli portare ai figlioli, si era caricati sulle spalle i fagotti delle loro robe. Peppe Liano era il più allegro di tutti.  Sonava un’armonica a bocca, e faceva ridere i suoi vicini.

Sapete  come cantava Pietro?  -  diceva il Liano a Sperlì e al figlio di Cataldo - noi  cantavamo

tutti:

A noi date vittoria lui, pensava a sé. L’ho udito io che cantava: «A me date la gnura Vittoria...».

Tutti si sganasciavano dalle risa, e anche Pietro rideva. Giunti sopra il ponte della Fontanella si voltarono tutti a guardare e salutare ancora una volta il paese, quel mucchietto di case sopra un poggio in mezzo  agli  orti  e  agli  olivi, nello  sfondo  della  montagna  azzurra  e  candida. Ognuno  ricercò  e  ritrovò la sua,  rivide le piccole finestre aperte a metà, con un vaso di origano, o una pianta di zenzero sopra il davanzale, una pala di ficodindia con i frutti invernali, appesa ai lati, una brocca di terracotta attaccata a un chiodo, nel vano d’un balcone. Ah le loro povere case, come le avrebbero ricordate anche in capo al mondo!...

A Guidace la Strada Nuova faceva un lungo giro intorno ai  poggi  di  Bony.  Gli  emigranti presero una scorciatoia e si disposero a salutare i parenti.

Fu una scesa pietosa! Le donne si attaccavano al collo dei mariti,  singhiozzando;  altre  coi bambini in braccio, inondate di lacrime, li porgevano continuamente al bacio dei loro  uomini  che avevano gli occhi gonfi e rossi. Alcuni ragazzetti si attaccavano alle gambe dei genitori e strillavano perdutamente. La moglie di Cosenza si era seduta sopra un paracarro, e si lamentava con una cantilena funebre, come se piangesse un morto.

«Addio...»,  «Scrivete...»,  «Date  notizie...»,  «Caro  mio...»,  «Figlio  mio...»  erano  le  parole  che  si

udivano tra i singhiozzi.

Giusa Blèfari abbracciò i suoi fratelli e cercò con gli occhi il Liano. Quello,  era  già  lontano suonando la sua armonica. La povera ragazza si sentì mancare le gambe.

«Disgraziata me, che cuore ha quell’uomo, - disse tra sé - che cuore!...».

All’ultimo  momento  giunse  correndo  il  figlio  della  vedova  Rocca,  un   ragazzetto   addirittura, magro, con due occhi dolci e un bel viso ardito, sparso di piccoli nèi bruni, come quello di sua madre. Seguivano, ansando, la vedova col piccolo in braccio, e  due  altri  bambini,  uno  sui  sette  e  l’altro  sui cinque anni. Il maggiore dei due  aveva addosso una grossa giacca del padre che gli sventolava intorno, tutta a toppe e a sbrendoli.

Aspettatemi, aspettatemi - diceva il piccolo emigrante, tenendo stretto sotto  il  braccio  il  suo fagotto di robe entro una fodera di cuscino. Dalla tasca della giacca gli spuntava un mezzo pane bianco.

Gli emigranti si fermarono.

Avanti, reboia, - faceva Nino Sperlì - in America bisogna essere svelti.

Quando il ragazzo abbracciò la madre si mise a piangere come un bimbo, e le cacciò la testa disperatamente sul petto, come quando si ha tanta paura.

Figlio mio, figlio mio  benedetto!...  -  andava  ripetendo  la  vedova  baciandolo  e  carezzandolo  su gli occhi, sul viso, sulla bocca, e bagnandolo di lacrime, - che l’anima  di  tuo  padre  ti  accompagni. Compare Nino, voi che siete pratico dell’America, ve lo raccomando, per l’anima  dei  vostri  morti.  Voi, compare Gèsu, scrivetegli le lettere... Povero orfanello mio...  Benedetto  figlio,  benedetto  per  quante gocce di latte ti ho dato... Il Signore e la Madonna ti accompagnino.

Su, su..., - facevano gli emigranti - avanti,  reboia, coraggio. Voi, comare, state tranquilla, sarà come un figliolo per noi... non ci pensate...

I fratellini non si volevano staccare.

Vieni presto, Nando... - diceva il più grandicello,  agitando la sua enorme giacca sbrindellata  - torna presto a casa... per Natale...

Sì, sì, - rispondeva il piccolo emigrante - ti porterò le nocciole e il torrone.

Andarono.

Quando entrarono nell’oliveto di Guidace, si levò una canzone. Si udivano  nel  coro  la  voce robusta di Peppe Liano, quella agra  ed  esile  di  mastro  Genio,  e  quella  più  dolce  di  Gèsu  Blèfari.  Era una canzone d’amore.

O chi spartenza dolurusa e amara, chi pianginu li petri di la via.

PARTE SECONDA

Cap. I

Partiti i suoi figli per l’America, Rocco Blèfari non volle più rimanere a Pandore. Il paesello gli sembrava deserto, funebre. Quasi in ogni casa vi era un emigrato, e in ogni ora che si fossero incontrati dei  vicini  erano  domande,  sospiri,  lacrime.  «Vi  ha  scritto  il  vostro,...  saranno  arrivati,...  dove  si troveranno a quest’ora... in alto mare, e il mare sarà calmo?». La testa era sempre lì, sperduta nel vuoto infinito e misterioso di quel viaggio,  di  cui  ignoravano  anche  la  direzione.  Verso  quale  angolo dell’orizzonte bisognava mandare il cuore e i pensieri perché accompagnassero la loro carne che viaggiava lontano verso una ignota fortuna?

E tanto più angoscioso era quel pensare  costante,  implacabile,  come  un  tarlo,  quanto  più  vaghe erano le cognizioni e le  idee  che  quei  poveri  rurali  avevano  dell’America,  del  mare,  delle  lontananze, dei bastimenti, del lavoro che avrebbero fatto i loro cari e degli  uomini  che  li  avrebbero  circondati. Dov’era quest’America, questo paese sterminato, nel quale  per  arrivarvi  bisognava  stare  otto  giorni  tra cielo e mare; questo paese dalle favolose distanze, con città grandi quanto una provincia,  con  case immense, con un porto che non aveva mai fine, dove vi era un ponte che chiamavano il ponte Broccolino, sul quale passavano in aria i treni, e  sotto  i  bastimenti,  e  vi  era una  gran  piazza, con  in mezzo la statua di una Madonna alta come un abete, che si chiamava Libertà?

Dove era dunque cotesto mondo favoloso, da quale parte dell’orizzonte si trovava?

Per quanto guardasse intorno  Rocco  Blèfari  non  riusciva  a  farsene  un’idea.  Intorno  a  lui  tutto era piccolo, bello, magari un po’ arido e triste in certi luoghi, ma tutto illuminato da un sole splendente, sotto un cielo di paradiso, che pareva dipinto, in certe ore del giorno.

Il mare grande, infinito, tempestoso, con delle onde alte come montagne, egli non riusciva a immaginarselo. Il suo mare, quella striscia azzurra,  sospesa  tra  capo  Zefirio  e  la  punta  di  Roccella, come una meravigliosa cortina di raso luccicante, ora increspata e variata qua e là da piccole fioriture bianche di spuma, ora rigata da bei marezzi color di lacca; quel  mare  così  bello,  così  calmo,  definito, familiare con le sue voci, con le sue collere, con le sue nubi; quel mare che in certi pomeriggi di agosto, sotto il cielo solenne e sgombro da ogni vapore, prendeva  il  colore  della  viola  e  la  morbidezza  del velluto, non era  certo  fatto  per  suscitargli  l’idea  dell’infinito e del tempestoso. L’idea del mare era per lui un’idea familiare, di una forza tranquilla, solenne, quasi religiosa; era, col cielo, il posto dove Dio passeggiava, mandava le sue tempeste, la  temperie  che  favoriva  o  rovinava  i  raccolti,  ma  non  aveva nulla di quella idea d’immenso e di minaccioso di  cui  parlavano  gli  emigranti  riferendosi  all’oceano. Anche i bastimenti che lo attraversavano erano piccoli. Da sulla porta della sua capanna di macee e di frasche a Bony egli aveva tante volte visti i bastimenti, i vapori che attraversavano il mare. Sembravano giocattoli! Non erano che dei piccoli rettangoli, delle lineette brune  nell’immenso  barbaglio  dell’acqua, appena rilevati nel centro dal quadratino dei fumaioli, alti come una di quelle tacche che egli faceva sul legno per computare le giornate di lavoro. Si movevano appena, come  un  bruco  sopra  una  foglia, qualche volta sormontati da un pennacchio di  fumo,  che  dileguava  lentamente  nell’azzurro  dell’acqua. Altre  volte  erano  delle  barche  a  vela,  di  cui  si  vedeva  appena  la  chiglia,  e  alta  la  grande  vela triangolare. Altra volta le barche navigavano con tutte le vele gonfie, spiegate, che nelle ore serali prendevano sotto la luce del tramonto una tinta leggermente  aranciata,  e  parevano  delle  grandi  farfalle posate sopra un prato di fieno.

Quello era il mare per lui, un mare diverso non lo concepiva.

Così fantasticando passava gran parte della giornata. seduto  davanti  alla  sua  capanna,  con  l’aria ebete, le mani sui ginocchi, gli occhi sperduti nelle lontananze dell’orizzonte.

L’inverno  era  venuto,  i peri  avevano  perduto  interamente  le  loro  foglie  gialle.  Nessun  albero  più

era vestito, se non gli olivi che smagliavano al sole. Aspromonte era bianco di neve.  Le  terre  arate nericavano per tutte le pendici, e qua e là qualche orto, con  i  suoi  alberi  di  arancio  carichi  di  frutti, rompeva la monotonia della campagna. Le giornate,  nelle  ore  in  cui  mancava  il  vento,  erano  tepide, quasi primaverili, e si udivano per le siepi spittinire i  pettirossi.  Qualche  grosso  calabrone  ronzava intorno alle pale di ficodindia. Una calma immensa e  serena  era  dappertutto.  In  determinate  ore  del giorno la calma era rotta da un fischio acuto, lontano, a cui seguiva un rombo sordo, che si ripercuoteva a lungo nella valle. Era il treno che passava sul ponte, a Bovalino.

Rocco lo  vedeva  avanzare  lentamente,  anche  esso  come  un  bruco  sopra  una  foglia,  lo  seguiva

quando imboccava il ponte, quando usciva, finché non  lo  vedeva  rintanarsi,  nella  galleria  lontana,  a Capo Spartivento. Quel treno che andava, che viaggiava anche lui, gli dava un senso di misteriose lontananze.

Qualche volta nella notte, dopo  un  temporale,  un  cumulo  di  nuvole  scure  si  addensavano lontanissime sul mare, e dietro quelle nuvole  si  produceva  un  palpitare  di  lampi  continuo,  incessante.  A tratti il cielo, tutto  pieno  di  stelle  purissime,  era  illuminato  da  bagliori  immensi,  che  accendevano  come una deflagrazione colossale tutto il vasto cortinaggio delle nubi; o i  cumuli  foschi  erano  rigati  da  lunghi zig-zag  di fiamma azzurra, come sferze di fuoco agitate da una falange di dèmoni sopra il mare e tutta la scena, tutto quel lampeggiamento legato, dava l’immagine  del  lavoro  di  una  fucina  titanica,  nella quale una compagnia  di  ciclopi  battessero  con  magli  giganteschi  su  metalli  incandescenti,  per fabbricare le porte dell’aurora o i balconi d’oro del tramonto.

Rocco Blèfari pensava ai suoi figlioli lontani, e li  vedeva  quasi  dietro  quelle  nubi,  ansanti, sudati, circondati dalle scintille  e  dal  fragore,  battere  anch’essi  ferro  incandescente,  alimentare  fornaci che ruggivano come il mare.

Allora gli  venivano  le  lacrime  agli occhi  ma  non  scendevano;  un nodo  gli  serrava  la  gola,  come

se vi fosse rimasto in mezzo un grosso boccone di pane di granturco, e non andasse né su né  giù. Un’angoscia che non cercava di superare, ma assaporava a  lungo,  perché  gli  sembrava  che quell’amarezza gli facesse bene.

Una sera, mentre stava governando la vecchia asina, in quella specie di rifugio, fatto di canne e di rami di tamerici che le aveva allestito accanto alla sua capanna, udì  nel  cielo come il cigolìo di una carrucola colossale, lontanissima; una carrucola situata in alto, in alto, dove passavano le nuvole. Tese l’orecchio e levò la testa per  vedere  di  che  cosa  si  trattasse.  Il  cielo  era  limpido  come  un  cristallo,  di quel colore azzurro che rendono le acque profonde, ma da maestro alcune nuvole candide, soffici, avanzavano lente, come isole abbandonate a una corrente.  Il  vespero  era  calmo  ma  rigido.  Qualche soffio di vento improvviso agitava gli olivi, suscitando un rombo diffuso, che moriva nel silenzio della campagna.

Quel canto remoto, e lamentoso come un clangore,  veniva  dall’alto.  Egli  lo  aveva  altre  volte udito, ma non si sovveniva ora né dove né quando. E spiava il  cielo  per  vedere  da  che  cosa  fosse prodotto.

Finalmente da dietro una di quelle nuvole apparve la  punta  di  un  triangolo  nero,  disegnato limpido e preciso nell’azzurro, come una  figura  geometrica.  Avanzava  lentamente,  si  liberava  a  poco  a poco dalla nuvola, e infine si profilò tutto. A quello seguiva un altro, e a qualche distanza da questo, di qua dalla nuvola, una lunga fila indiana, nera, e precisa anch’essa come tracciata su la carta.

Erano le gru.

Avanzavano ordinate,  solenni,  conservando  una  simmetria  perfetta,  e  gittando  nell’aria  limpida il loro grido lugubre che pareva accrescere all’infinito la  malinconia  e  le  lontananze.  Di  quando  in quando si notava un piccolo movimento alla  testa  del  triangolo:  l’uccello  di  punta  cedeva  il  posto  a  un altro, e la marcia proseguiva verso l’infinito azzurro dell’orizzonte.

Erano gli uccelli migratori cacciati  dal  freddo,  da  paesi  sconosciuti,  verso  altri  paesi sconosciuti! Forse non trovavano più cibo, nel loro paese, forse i loro nidi  erano  stati  devastati  dalla tempesta;  perciò  si  erano  adunati,  avevano  spiato  il  cielo,  si  erano levati a volo, altissimi, per orientarsi, e ora viaggiavano, lamentandosi, verso il loro destino, sotto quella limpida immensità, dietro cui Dio  li confortava e li guidava ad altri lidi.

Come i miei figlioli, - diceva Rocco lacrimando - come i miei figlioli!

La nuvola si divise in alto, si sfioccò, si tinse di rosa, poi dileguò in una trama sottile di vapori tenui come fili di ragno. I due triangoli e la fila delle gru si allontanavano col loro clangore rattristante. A mano a mano che procedevano verso la linea dei monti la distanza  tra  l’uno  e  l’altro  diventava indistinta, e il clangore si affievoliva, sino a che non furono più che dei piccoli segmenti  nello  spazio sterminato.  A  poco  a  poco,  lentamente,  insensibilmente  disparvero,  mentre  Rocco,  con   gli   occhi sbarrati, credeva di vederli ancora.

Cap. II

Verso la metà di dicembre cominciarono a giungere le prime notizie dall’America.

Da molti giorni, all’ora della posta, i parenti degli emigrati si affollavano davanti allo sportello dell’ufficio, in attesa. Finalmente una sera lo  sportello  si  aprì  e  la  supplente  porse,  con  un  sorriso,  a Rosa Blèfari che attendeva, una  lettera  bislunga,  gialla,  con  impresso  in  alto  il  pentagramma serpeggiante della macchina bollatrice.

Tutte le donne le si affollarono intorno.

Gnura Rosa, per piacere, apritela - supplicavano in coro, ansiose di sapere qualche notizia dei loro cari lontani - vediamo se parla dei nostri, se li nomina almeno.

Siete pazze? - disse la Rosa, cacciandosi la lettera in seno - questa deve aprirla Don Michelino.

Rosa si era subito scelto come segretario il professore  Fazzolari,  che  era  tanto  amico  di  mastro Genio, e secondo l’uso del paese, avrebbe creduto di fare  un  grave  torto  al  suo  confidente  se  avesse ricorso ad altri per farsi leggere la lettera. Tra il segretario e la  famiglia  dell’emigrato  si  stabilisce  in Calabria una  specie  di  rapporto  di  fiducia,  per  cui  lo  scrivano  diventa  il  depositario  dei  segreti  familiari, e guai a sostituirlo, anche provvisoriamente!

Ecco, lei ha ricevuto...  -  mormoravano le donne corrucciate. - Suo marito sa scrivere... mentre i nostri uomini, per comunicare con le loro famiglie, debbono cercarsi uno scrivano, e magari pagarlo.

Poiché per il rifiuto di Rosa si andava producendo una specie di protesta tumultuosa  nelle aspettanti, l’ufficiale postale, un  vecchio  maresciallo  dei  carabinieri,  gridò  da  entro  l’ufficio:  -  Ce  n’è per tutti, Sant’Annaspa, ce n’è per tutti. Ecco: Garreffa Anna, Carrà Domenico, Linarello Rosa -  e distribuiva le lettere tra le lagrime e i ringraziamenti.

«Dio vi benedica». «Dio vi rimuneri...».

E quello continuava: - Cataldo Francesca, Mantica Giuseppe, Blèfari  Rocco.  -  Per  Blèfari  era venuta la Giusa. Allungò la mano, ritirò la lettera e attese  ancora.  Vicino  a  lei  stava  ad  aspettare  la vecchia zia del suo fidanzato, quella che lo aveva allevato, poiché era rimasto orfano da bambino.

Liano Serafina - chiamò l’ufficiale postale, e porse la solita busta gialla.

Giusa ebbe un sussulto al cuore; istintivamente allungò  la  mano  anche  lei,  diventando  rossa come la fiamma. Poi si avvicinò alla vecchia e le chiese tremando: - Vi ha scritto?

Sì, sì, mi ha scritto - rispose la vecchia, e con uno sguardo ostile nascose la busta nel petto, e s’incamminò curva alla ricerca di qualcuno che gliela leggesse.

La sera quando annottò scese Rocco Blèfari da Bony, e nella sua casa, accanto al fuoco, presenti i Varvaro e Mariuzza, fu letta la lettera di Gèsu.

Essa diceva:

«Caro padre e care sorelle,

«Vi scrivo questa mia lettera per farvi conoscere l’ottimo stato della mia buona salute, con l’aiuto di Dio, come anche di mio fratello e di tutti i paesani che siamo tutti anavia (insieme) e abbiamo subito trovato lavoro. Dunque, caro padre e care sorelle, noi lavoriamo in una grande sciarpa, e siamo in una grande campagna a fare una ferrovia, e abbiamo trovati alcuni amici della Calabria, di Bovalino e di Natile, e il nostro bosso è uno di Ardore che si chiama Màrando, ed è una bravissima persona. Dunque, caro padre e care sorelle, non pensate male per noi, che noi stiamo bene con l’aiuto di Dio e della Vergine  di  Polsi,  che quest’anno voglio che andiate a portarle cinquanta lire da  parte  mia  e  di  mio  fratello  Pietro, perché siamo arrivati in salvamento in quest’altro mondo. Dunque, caro padre, noi  non  ci  troviamo  a  Namaiorca,  ché appena siamo sbarcati alla botteria  ci  hanno  presi  e  ci  hanno accompagnati in questa campagna, ch’è lontana due giornate di treno  dalla città;  e voi  scrivete con  la busta  che vi  mando, perché  le lettere  va nno alla Banca Tocci, ch’è una bona banca taliana, e quella che le manda per dove siamo col lavoro.

«Dunque, caro padre e care sorelle, noi nulla possiamo dire di questo paese, perché siamo  in campagna, e la biancheria  ce  la  laviamo  noi  la  domenica,  e  non possiamo andare in città. Solo vi dico che l’America è un paese grande  che  voi  non  potete  farvi  un’idea,  ed  è  un  paese  diverso  dal  nostro, dove ci sono grandi ricchezze, ma quando uno non trova lavoro sono guai. Qui in America, caro padre, non ci sono i fichi o i ficodindia di Bony: qui chi non lavora muore di fame, e l’oro corre come l’acqua al nostro paese, quando piove con lo scirocco.

«Dunque, caro  padre  e care  sorelle,  noi  siamo lasciata la nostra patria per venire a fare fortuna in questo paese, con l’aiuto di Dio, e ci siamo messi subito al lavoro; ma il nostro cuore è sempre al nostro paese, e se Dio ci dà salute, quando avremo guadagnato un poco di danaro, ritorneremo a casa nostra, ché ogni uccello tende al suo nido.

«E vi dico, caro padre mio, che questi paesi sono assai lontani, e noi ci troviamo come sperduti

pensando alle nostre case e alle  nostre  care  famiglie  e  fidanzate,  che  salutiamo  di  vero  core.  Dunque, caro padre, vi faccio sapere  che  mio  cognato  Genio  non  si  trova  con  noi,  perché  lui si è impiegato in uno storo (trattoria), e sta benissimo e guadagna più di noi. E vi faccio anche sapere che il fidanzato di mia sorella Giusa, Peppe Liano, non si trova neppure lui con noi, e non sappiamo dove si trova, perché voi lo sapete che quello è stato sempre un po’ ciaravellitico (cervellotico).

«Ora vi dico che per Natale speriamo di potervi mandare un poco di moneta per fare le feste del

Santo Bambino in allegria.

«Ora, caro  padre,  passo  alli  saluti. E saluto prima di tutti la mia fidanzata Mariuzza, e la saluto di vero core, con suo zio e sua zia, e le dite che presto le scriverò una lunga lettera, e le dite che si ricordi della sua promessa che io mi ricordo sempre di lei, e anche quando lavoro la penso sempre, che mi pare d’averla davanti a  gli occhi ‘mpusibili  (visibile), e spero con l’aiuto di Dio di venire a farla mia sposa.

«Mio fratello Pietro saluta la gnura Vittoria Papandrea e anche la sua mamma Porzia, e vi prega di portare voi i suoi saluti di persona».

Seguiva  una  lunga  lista  di  saluti  per  tutti  gli  amici  del  paese,  elencati  con  nome  e  cognome

come in un atto notarile, poi conchiudeva: «Dunque, caro padre, vi  prego  che  mi  facciate  una  pronta risposta, e mi facciate sapere una di tutto. Ditemi come vanno li seminati, se il pero selvatico che ho innestato io a Bony  ha  attecchito,  e  se  quest’anno  avete  ancora  intenzione  di  potare  le  viti  americane del vivaio, e ditemi anche come sta la nostra povera  vecchia  asina.  Infine  salutiamo  le  nostre  care sorelle, con mille e mille abbracci, e a voi, caro padre, baciamo la mano, e vi domandiamo la santa benedizione».

Come Mariuzza sapeva leggere un pochino, perché era andata a scuola un paio di anni, la lettera la leggeva lei, arrancando, smozzicando le parole, delle quali, dopo ogni punto, si faceva un lungo commento, e una larga interpretazione.

Al  fuoco  bruciava  un  grosso  ceppo  di  quercia.  Una  lumiera,  di  quelle  che  foggiano  gli  zingari

con rottami di ferro, faceva  luce,  appoggiata  sopra  una  tavoletta  infissa  nel  muro.  Rocco  Blèfari  coi suoi larghi piedi scalzi, screpolati  e  chiazzati  di  fango  giallo,  le  mani  tese  verso  la  fiamma,  ascoltava con il cuore che si apriva e si chiudeva a ogni frase come un fiore di sensitiva.

Mariuzza compitava tutta accesa in volto, contenta come una bambina.

Quando la lettera  fu tutta  letta, gli occhi  erano pieni  di lacrime. Solo  Giusa non  pianse. Rimase stralunata, inebetita. Del suo fidanzato non sapeva che una povera notizia, e non lieta: egli aveva abbandonato tutti i paesani, ed era andato a cercar del lavoro solo, in preda al suo spirito avventuroso e aggressivo. Dov’era, cosa faceva, si ricordava di lei?...

Insomma erano tutti a posto. Chi lavorava come sterratore, chi in  officina,  chi  ad  abbattere foreste; uno faceva perfino il guardiano di oche. Di  quello  che  faceva  mastro  Genio,  tutto  ciò  che  si seppe fu che lavorava e guadagnava. Rosa non aveva voluto fare la minima confidenza a nessuno.

Per Natale parecchi mandarono dei soldi.

Poi si seppe che il Liano lavorava in  una  miniera  di  carbone  del Massachusetts. Scriveva poco anche a sua zia. A Giusa aveva scritto verso i  primi  di  gennaio  una  letterina  secca,  breve,  in  cui  le diceva, con una certa spavalderia, che lui era solo, che guadagnava molto, e ogni tanto ricordava i cari amici. In questa frase sibillina, superficiale, era tutto  il  ricordo  che  quell’uomo  conservava  di  lei.  Il cuore le scoppiava per l’angoscia, sebbene di fuori non facesse segno ad alcuno. E  lo  sforzo  di trattenere costantemente le lacrime, di dissimulare la  trepidazione  interna,  quel  fare  violenza  sopra  se stessa in  permanenza,  quel  comprimersi  costante,  davano  al  suo  volto  una  espressione  strana  e concitata.

Passò l’inverno e venne la Pasqua che  quell’anno  cadde  verso  i  primi  di  aprile.  Le  famiglie degli emigrati erano tranquille,  ricevevano  regolarmente  le  lettere  ogni  quindici  giorni.  Molti  avevano già mandate parecchie centinaia di lire, e anche il ragazzo della vedova Rocca ne aveva spedite quattrocento in una volta, guadagnate facendo il reboia.

Il  tempo  era  già  bello,  il  tepore  della  primavera  confortava  e  rinnovava  tutte  le  cose.  Le

campagne erano coperte di una verdura rigogliosa e  fiorita;  negli  orti  occhieggiavano  le  fave;  le  macee erano piene di ortiche, di nepitelle, di vilucchi, di soffioni; nei grani, che pareva crescessero con l’ondeggiar del vento, si aprivano i  papaveri  fiammanti,  e  i  bei  gigli  rosei  dei  gladioli.  Tutte  le  strade,  i cigli  dei  fossi,  i  margini  delle  vie,  i  sentieri,  gli  embrici,  le  gronde,  le  rovine  delle  vecchie  case,  il cornicione  della  chiesa,  la  sommità  del  campanile  si  coprivano  di  margheritine  dorate,  di  violacciocche e dei fiori gialli del soffione.

Tutto, sotto quel sole caldo  e  fortificante,  acquistava  una  dolcezza  nuova,  una  particolare trasparenza. Un odor di gioventù e un senso di letizia si  spandeva  pei  campi,  profumava  l’aria  e  la rendeva inebriante.

Il  giorno  di  Pasqua  era  trascorso  in  allegria,  quando  verso  sera  si  sparse  rapidamente  la  mala

nuova.

Il Liano era morto. Era rimasto schiacciato in una galleria di carbone.

La  letizia pasquale fu rotta da alte grida, da pianti, dal corrotto lamentoso di tutto il paese. Chi

aveva una persona in America piangeva come se il morto fosse stato  suo;  quelli  che  non  avevano emigrati si facevano sulle vie, si riunivano in crocchio attorno a una lacrimante, la redarguivano, adducevano mille ragioni per calmarla. Le piangenti  si  colpivano  il  viso,  rigandolo  di  sangue  con  le mani  adunche,  battendo  con  le  palme  sulle  ginocchia,  e  levando  una  cantilena  triste,  in  cui  lamentavano il destino dei loro uomini, forzati dalla necessità ad abbandonare la  casa  per  dar  da  mangiare  ai  propri figliuoli.

Sventura mia, che io glielo dicevo!... glielo dicevo di non partire che Iddio ci avrebbe aiutati lo stesso. Volle partire, per l’amore dei figlioli volle partire! per dare del  pane  a  questi  innocenti.  Poveri orfanelli miei...

Ma  che  siete  pazza,  -  dicevano in coro le donne che ascoltavano, con le mani brulle, tese in atto di minaccia. - Volete finirla ch’è malaugurio? Volete piangerlo vivo, scombinata che siete?

I  bimbi  vedendo  piangere  la  mamma  si  mettevano  a  strillare  anch’essi,  sbocconcellando  dei pezzi di pane.

La vecchia zia di Peppe Liano quando apprese la notizia barcollò come ebra, poi si cacciò nella forgia del nipote, si accosciò in terra e cominciò a battere la testa contro il muro.

Essa  non  aveva  altri  al  mondo.  Quel  ragazzo  rimasto  orfano piccolino lo aveva allevato lei, e ora quello la campava.

Figlio, figlio mio!... - mormorava senza voce - ...mio povero orfanello - e si strappava  i capelli. Si lacerava il viso avvizzito e rugoso, guardando intorno con quei suoi occhi tristi, velati dalle lacrime e dalla vecchiaia.

Com’è morto? caro mio Dio, com’è morto? - domandavano le donne - cosa dice la lettera?

È morto schiacciato, povero orfano, sotto una miniera di carbone.

Cosa sono coteste miniere di carbone?

Sono delle montagne...

E lui perché è andato a cacciarsi sotto?...

Lavorava, disgraziato figlio di mamma, e gli è caduta sopra la montagna.

È morto come i topi, sotto la pietra, schiacciato...

Forse non l’hanno potuto tirar fuori neppure! è rimasto nella terra come un verme.

Nessuno l’ha assistito, meschino! Solo, senza neppure un requiem è andato al mondo di là.

Tacete,  tacete...  l’hanno  assistito  sua  madre  e  suo  padre. Il Signore l’avrà mandati a chiudergli gli occhi.

Glieli ha chiusi la terra, gli occhi, povero giovane! Che brutta morte! che brutta morte!

Qualcuno avendo sentito parlare del lavoro nelle miniere di carbone, correggeva e spiegava:

Sapete  cosa  sono  le  miniere  di  carbone?  sono  dei  pozzi  sotto  terra,  e  delle  volte  prendono fuoco e scoppiano.

Le donne guardavano  esterrefatte.  Le  immaginazioni  tentavano  raffigurarsi  la  scena,  la  visione di quella morte orrenda, nelle viscere della terra, in mezzo al fuoco come i dannati.

Giusa quando ebbe la notizia rimase come fulminata.

Le si inaridirono gli occhi e la gola, un cerchio di ferro le serrò la fronte, e dentro quel cerchio pareva che il cervello si fosse  arroventato.  Per  tutto  il  resto  del  giorno  rimase  come  inebetita, muovendosi macchinalmente nella casa, sotto gli occhi inquieti  di  suo  padre,  che  pensava  ai  figlioli  col cuore grosso.

Ma quando fu notte, allentata un poco la tensione dei nervi, quel suo terribile dolore si sciolse in lacrime, ed ella pianse a lungo disperatamente, con piccoli lamenti, come un fanciullo  battuto,  piena  di spavento, annientata, senza curarsi neppure di suo padre,  con  un  irresistibile  bisogno  di  liberare  il cuore, di sgombrarlo di un’angoscia che, se fosse stata ancora compressa, lo avrebbe schiantato.

La finisci o no, - le diceva suo padre - non hai vergogna? Era forse tuo marito? È morto? pace all’anima sua. Tanto non era gran cosa. Buon ragazzo, lavoratore prezioso;  ma...  una  testa!...  Non  se  l’è  voluta lui quella morte? Se l’è andata proprio a cercare lui. Perché non è rimasto coi tuoi fratelli? Nossignore, lui vuol andar solo, lasciare  i  paesani,  mettersi  in  una  miniera  di  carbone.  Il  carbone...  ma  si  scherza? Col carbone si fa la polvere, dunque è una cosa pericolosa. Quando scoppia, le montagne saltano in aria come zolle. La morte se l’è cercata lui. Tu ora sta zitta. Hai pianto un poco... gli volevi bene!... io non dico... è naturale! Il Signore l’ha fatto così il mondo. Ma ora basta, ché non è decoro che la gente ti veda piangere come se fosse stato tuo marito. Hai capito? e non mi far perdere la pazienza, altrimenti, per la malogna, mi alzo e ti appiano ben bene le costole col dorso della scure.

Giusa, a quelle parole minacciose, attenuava un po’ il suo lamento, ma poi lo riprendeva senza accorgersene, irresistibilmente, tratta a lamentarsi  dalla  disperazione  angosciosa  del  cuore.  Poteva  essa dire a suo padre la vera cagione per cui si disperava? Un freddo alle reni l’afferrava a questo pensiero, un desiderio di scomparire, di morire, di annientarsi prima che la verità fosse rivelata.

Rocco Blèfari presto si addormentò, sdraiato, secondo il solito,  sopra  una  stuoia  di  stracci, distesa sul muretto vicino al focolare. Giusa rimase al buio nella sua stanzetta, seduta sopra una cassa.

Fuori c’era la luna, una luna crescente dopo il primo quarto, e dalle fessure della piccola finestra e della porticina che dava sulla via, si vedeva il chiarore pallido che illuminava la contrada. La notte era tranquilla, una notte di aprile tiepida, solenne. L’assiolo cantava già su gli  olivi,  e  il  suo  grido,  breve, morbido, come la nota di un piffero di canna, addolciva la immensa serenità lunare.

Giusa ricordava. Era stata la sera delle nozze di sua sorella Rosa. I suoi fratelli cantavano su le zampogne in fondo al paese; il padre un po’ avvinazzato, russava rumorosamente  sul  murello.  Essa tremava, seduta su la cassa come ora, col cuore gonfio di desiderio e di spavento. Quel  suono  delle zampogne, e un certo profumo di nozze che era  rimasto  nella  casa,  dove  ancora  errava  l’odor  della cucina speciale, e quello dei rosolii e dei dolciumi, e il pensiero della sorella che, più fortunata di lei, a quell’ora posava la testa sul cuore di suo marito,  la  turbavano  fino  al  delirio. Ella non  avrebbe voluto lasciar la porta socchiusa, ma aveva ceduto a una tentazione strana, alla seduzione di tutte quelle circostanze che la turbavano, e le affocavano il viso. Ma Iddio le era testimone che non aveva pensato di far male. Egli sarebbe arrivato; come al solito l’avrebbe abbracciata, l’avrebbe stretta sul cuore, con quelle braccia forti, nelle quali ella si abbandonava con tanta trepidazione, e poi sarebbe andato via, lasciandola tutta sconvolta, palpitante e stanca. Stanca e felice.

Invece...

Riudiva ora il rumore appena sensibile dei passi, il soffio di una porticina scostata, e il respiro di lui, Rivedeva gli occhi accesi nell’ombra, come  quelli  di  un  lupo  che  viola  un  ovile.  Si  erano  seduti sulla  cassa  tremanti,  tenendosi  per  mano,  baciandosi  senza  parole,  attenti  al  battito  dei  loro  cuori  che pareva riempisse la stanza e producesse una specie di  rombo.  Vicino  era  il  letto.  Oh  Vergine  Santa! perché vi si erano appoggiati?  Egli  che  prima  l’accarezzava  con  dolcezza  l’aveva  stretta  ora brutalmente, eccitato, col  fiato  che  sentiva  di  vino  e  di  tabacco.  La  poverina  sconcertata  aveva  tentato di difendersi, di respingerlo, ma le mani  le  ricadevano  inerti,  non  aveva  più  forza.  Aveva  una  paura folle di far rumore,  perfino  del  respirare  concitato  di  lui,  quel  respirare  pieno  di  un’ansia  sconcertante, che la stancava come un veleno soffiato nella sua bocca...

Quando si ritrovò sola, convulsa, si abbattè sul letto come un uccello ferito. Non aveva più forza

neppure di alzare una mano.

Nella  sua  carne  era  l’irreparabile.  Una  suprema  gioia  e  un  supremo  spavento  le  agitavano  il cuore. Se fosse morta in quel momento non avrebbe avuto un rimpianto.

Se l’amore non fosse più forte della morte la vita finirebbe rapidamente.

Cap. III

Quando   Rocco  si   alzò   all’alba,   la   Giusa   piangeva   ancora   col   suo   piccolo   lamento   fioco, sommesso, come una invocazione infantile: - O mamma... mamma mia!...

Aprì  la  porta  brontolando,  diede  un’occhiata  al  cielo,  già  tutto  invaso  dai  bagliori  del  giorno,  poi si affacciò infuriatosull’usciodellastanzadoveGiusapiagnucolava,eleintimò:

Alzati.

Giusa  seduta  sopra  la  cassa,  quasi  raggomitolata  su  se  stessa,  sollevò  un  istante  la  sua  faccia stravolta, ma non si mosse.

Rocco le si lanciò addosso, l’afferrò per le braccia, e la scosse violentemente, minaccioso.

Svergognata... lo piangi come se fossi stata la sua ganza! ma non hai dunque rossore? - e alzò la mano per colpirla. Giusa cadde in ginocchio, e alzando in viso a suo padre due occhi disperati, gonfi per le lacrime, mormorò:

Perdonatemi, padre mio, perdonatemi e beneditemi; io sono perduta.

Rocco Blèfari fece un passo indietro, sconvolto, esterrefatto dalle parole di sua figlia.

Non sapeva perché, ma egli avvertiva in esse un senso misterioso e nuovo, la voce di un dolore diverso da quello che egli pensava.

Che sei diventata pazza questa mattina? - mormorava.

Disgraziata, cos’hai nel cervello? Io ti taglio la testa, quanto è vero il sole di Dio. Io ti scanno come una pecora.

E  invaso  da  un  tremendo  furore,  non  per  colpirla,  ma  per  darle  il  senso  della  sua  terribile  ira

paterna, afferrò la scure che era deposta  in  un  angolo  vicino  alla  porta  e  la  brandì  con  cipiglio  feroce sulla testa della ragazza.

Che  non  ci  sono  più  uomini  nel  mondo,  disgraziata...  che  tu  debba  piangere  per  un  estraneo, come se fossi andata a letto con lui?

Ah padre mio!  -  fece  Giusa,  con la  voce  roca  per  l’ambascia interna,  - non piango solamente per lui. - E gli occhi le si riempirono di spavento e di vergogna.

Perché  piangi,  allora...  perché?  - urlò il vecchio col presentimento terribile di ciò che stava per udire - perché piangi, svergognata?..

Perché piango? - mormorò la ragazza rizzandosi rapidamente  sulle  ginocchia,  e  sporgendo  in avanti il petto e il ventre, con un misto di vergogna e di furore, quasi irritata contro suo padre, che la costringeva a rivelare ciò che avrebbe dovuto vedere da sé. - Perché piango? non vedete come sono?...

Rocco Blèfari gittò la scure e credette che la terra gli si aprisse sotto i piedi. Avrebbe voluto dir qualche cosa, ma non riusciva, e con le mani sotto la gola, come per aiutarsi contro quella soffocazione, andava in giro per la casa, emettendo un suono lugubre, come il rantolo di una bestia ferita: - Oh! Oh!... Oh!... - Poi il furore lo vinse.

Balzò vicino alla figlia, raccattò la scure, la brandì con un atto terribile e risoluto.

Bene, - gridò - nella mia casa mancava il pane, ma non è mai mancato l’onore. - La voce gli si velò e ruppe in pianto: - Tu hai disonorata la  mia  casa,  tu  mi  hai  gittata  la  vergogna  in  faccia,  sulla faccia di tuo padre, povero vecchio! che aveva sofferto tanto per allevarvi  tutti,  che  i  piedi  gli  sono diventati duri come il bronzo a correre per le contrade. Tu hai fatto questo, nella mia casa, hai gittata la vergogna in faccia ai tuoi fratelli,  che  non  oseranno  più  ritornare  neppure  al  loro  paese,  per  non  farsi rider dietro dalla gente. Bene, io ti ammazzo. Chiedi perdono a Dio, or ora... per te e per quella creatura che porti con te, e incrocia pure le braccia al petto. Io ti ammazzo.

Giusa ascoltava quelle parole terribili con gli occhi dilatati e pieni di terrore.

Sì... sì... ammazzatemi, avete ragione - mormorava accosciata  in  terra,  rassegnata  a  tutto.  - Iddio abbia misericordia di me e  di questa creatura. Ma prima, padre mio, beneditemi. Non sono degna della vostra benedizione,  ma  come  volete  che  il  Signore  mi  perdoni,  se  vado  all’altro  mondo  maledetta da mio padre?

Rocco Blèfari al colmo del furore, con gli occhi  grondanti  di  lacrime,  le  terribili  disperate lacrime dei vecchi, aveva alzata la scure nell’atto di colpire, quando su l’uscio apparve la figura esile e pallida di Mariuzza, che gettò un grido:

Misericordia! cosa fate?

Rocco,  sconcertato,  girò  la  testa:  -  Vattene,  vattene,  -  diceva  - lasciami solo. Va fuori di casa

mia...

Le si era avvicinato e la spingeva verso la porta.

Mariuzza, con un coraggio di cui non si credeva capace, reagì, sebbene il cuore le battesse come

se volesse scapparle dal petto.

Io dico che voi  siete  pazzo, - disse energicamente  - mettete giù quella scure.  -  E avvicinatosi gli afferrò l’arma per il manico.

Lasciami... debbo ammazzarla.

Attratta dal tramestìo entrò nella casa Caterina Varvaro, e  vedendo  la  nipote  alle  prese  con Rocco attorno alla scure, gittò un grido.

Giusa era in terra rannicchiata, con la testa curva sulle mani, singhiozzante.

Mariuzza, Rocco, cosa fate?

Mariuzza con una energia sovrumana aveva intanto strappata la scure dalle mani di Rocco, e si era inginocchiata vicino alla piangente con una accorata tenerezza, cercando di sollevarle la testa.

Rocco con le braccia penzoloni, la bocca aperta come uno stralunato,  si  andò  a  sedere  sul murello, vicino al focolare, e piangendo, asciugandosi di quando in quando gli occhi col dorso della mano, narròaCaterinaladisgraziadellafiglia.

La mia famiglia è perduta, siamo rovinati! possiamo andare a nasconderci tutti... Almeno fosse vivo, quell’infame; avrebbe potuto riparare, lo avrei costretto  io a riparare, anche vecchio come sono.  È morto! chi la prende più questa ragazza con un figlio? Iddio ha castigato lui, facendolo morire come un topo, sperduto, senza neanche un requiemeterna. Ma noi, non siamo castigati anche noi?

O Dio che disgrazia!... o Dio che disgrazia, - andava ripetendo Caterina.

Io la mando via di casa, - riprese  Rocco  -  vada via per il mondo, lontana dagli occhi miei. Ch’io non mi veda più davanti la  mia  vergogna.  Va...  va...  fuori  di  casa  mia... - urlava minaccioso - ch’io non senta più neppure pronunziare il tuo nome... fuori... fuori di casa mia.

Mariuzza  aveva  appresa  da  Giusa,  tra  i  singhiozzi,  la  terribile  verità  ed  era  rimasta  allibita.  Le

sembrava una cosa mostruosa, e in un primo tempo  sentì  come  una  specie  di  ripugnanza  verso  la  sua amica. Ma  contro questo sentimento insorse subito un altro più profondo e acuto, una specie di pietà e di solidarietà verso quella maternità dolorosa, che veniva minacciata dell’estremo abbandono.

Io  dico,  grandissimo  diavolo,  che  voi  non  la  manderete  via,  -  disse  Mariuzza,  con  la  gola

serrata dalla commozione, - che è vostra  figlia,  ed  è  più  disgraziata  che  colpevole.  Dove  volete  che vada in queste condizioni?

Rocco smaniava, si dava dei pugni nella testa, sospirava e ripeteva come un ritornello:

Povera casa mia disonorata!... povera casa. I miei  figliuoli  non  ritorneranno  più  a  Pandore. Cosa verrebbero a fare? a vedere la loro vergogna? Una sorella che la tenevano come il fiore nel vaso! Non verranno più in questa casa; io, se Iddio mi ascolta, morrò, e l’erba crescerà davanti alla mia porta. Oh! Oh!... povero me!

Caterina guardava qua e là incerta, turbata, inquieta, come chi ha qualche cosa da dire e non la dice, vuol proporre un rimedio e teme sia peggiore del male. Ma poiché Rocco continuava a smaniare e a lamentare l’onore della sua casa perduto, non si ritenne più.

Insomma, non è questa che ha portato il disonore peggiore in casa vostra.

E chi dunque lo ha portato? - domandò Rocco come istupidito dall’angoscia.

Tutti lo sanno... voi solo non lo sapete. Il disonore peggiore ve lo ha portato l’altra, l’ingrata!... che ha il marito in America, e lei si chiude tutti i giorni col professore in casa a scrivere lettere, come se avesse la corrispondenza del vescovo...

Cosa dite?... - domandò ancora Rocco - di chi intendete parlare?

Di vostra figlia, intendo parlare, di quella che marcia con scarpe e calzette, e va in giro con gli anelli sulla pancia. Voi siete tutto il giorno  in  campagna,  non  parlate  con  nessuno,  ma  lo  sanno  tutti,  il paese è pieno...

Anche quella? - disse  Rocco  inebetito, annientato  dal  dolore, - anche quella?... - e brancolando sul muretto, vi puntò sopra le mani per non cadere.

Ecco che l’America portava i suoi frutti! Egli ne aveva avuto il presentimento. Due figlie, quelle che egli chiamava le bandiere della sua casa, erano perdute. Ora sarebbe venuta la volta dei maschi.

Al furore primitivo era  subentrata  nel  suo  animo  una  specie  di  fredda  e  tragica  rassegnazione. La sua casa crollava dalle fondamenta. L’onore, la  sola  ricchezza   dei  Blèfari,   tramandata  nelle generazioni da padre in figlio,  santa  e  solenne  come  il  ricordo  degli  avi  e  gli  arnesi  domestici,  l’onore che era stato l’ornamento migliore delle donne che portavano il suo  nome,  ora  non  esisteva  più,  e  il destino aveva disposte le cose in modo da rendere impossibile  la  riparazione,  e  quella  tradizionale vendetta che lavava nel sangue l’onta non riparata e riabilitava l’offeso.

Cap. IV

La notizia dello scandalo di Giusa Blèfari si propagò in un lampo per  il  paese.  Molte  lettere partirono per l’America, e più d’una era già partita all’indirizzo di mastro Genio,  per  informarlo  della condotta di sua moglie, sulla quale correvano già i commenti più animati.

Quando i figli di Rocco appresero le  due  tristi  nuove,  abbandonarono  immediatamente  il  lavoro dove si trovavano impiegati, e partirono senza mèta per  andar  lontano,  in  un  luogo  dove  non  ci  fosse alcuno del loro paese.

La  prima  sera  che  si  ritrovarono  soli  in  un  villaggio  della  Pennsylvania,  si  chiusero  in  una

stanza per scrivere al padre, e lì, con  la  carta  davanti  e  il  pensiero  alla  famiglia,  si  guardarono  negli occhi in silenzio, e piansero come fanciulli. Poi Gèsu scrisse una lettera che stringeva il cuore. Si rammaricavano col padre della sventura che aveva colpito la loro casa, nella più gelosa  delle  loro ricchezze: l’onore. Gli raccomandavano però di non abbandonare  la  sorella  maggiore,  Giusa,  quella  che aveva fatto un po’ da mamma a tutti loro, perché, la poverina, doveva ritenersi più  disgraziata  che colpevole. Dell’altra sorella non volevano avere più notizie.  La  vendetta  oramai  non  spettava  a  loro: quella aveva il marito, al quale essi l’avevano consegnata come un fiore. Ci pensasse lui. Per conto loro la cancellavano anche dalla loro memoria, e se anche fosse morta, essi non intendevano  esserne informati.

E siccome anche sulla condotta di mastro Genio correvano  nell’elemento  degli  emigranti  delle notizie poco simpatiche, Pietro si recò dal  cognato,  un  po’  per  accertarsi  di  persona  della  consistenza delle dicerie che lo riguardavano, un po’ per incitarlo a ritornare in Italia e punire la colpevole.

Lo trovò in una specie di locanda tenuta da una calabrese attempata, di Catanzaro; una di quelle

locande-ristoranti che gli emigrati chiamano storo, dove si dà da mangiare  a  da  dormire  ai  lavoratori italiani. Era diventato grasso come un cappone nella stia, con la faccia  ripugnante  del  fannullone.  In principio vi si era impiegato come cameriere, poi era diventato l’amante della padrona, che lo teneva da conto come il  verme  nel  formaggio.  La  sola  sua  occupazione  era  quella  di  strimpellare  la  chitarra  per far divertire gli avventori, e accompagnare le loro canzoni.

Difatti Pietro lo trovò seduto dietro il banco,  accanto  alla  padrona:  suonava  e  canticchiava.  Lo storo era in una specie di baraccamento, con un salone pieno  di  piccoli  tavoli  di  ferro,  e  qualcuno  di marmo. I tavoli in parte erano occupati da operai che bevevano birra: qualcuno  anche  mangiava.  La padrona, una donna sui cinquant’anni, energica, bruna, con un viso angoloso e sparso di piccole macchioline scure, simili a quelle chiazze di licheni che  si  formano  sui  sassi  esposti  all’umidità,  le  mani magre d’arpia, segnate da grosse vene violette, carica d’oro al collo e ai polsi come una regina barbara, lo ascoltava con un’aria accorata e insieme contegnosa.

Quando  mastro  Genio  lo  vide  entrare,  tentò  dissimulare  il  disappunto  che  gli  procurava  quella

visita. Si alzò, gli tese la mano e lo accompagnò a un tavolinetto di marmo in un angolo.

Siedi -  gli disse. Poi andò al banco, depose in un angolo la chitarra, e ritornò al tavolo dov’era Pietro con una bottiglia di birra e due bicchieri.

Pietro rifiutò il bere, e cominciò  a  parlare  al  cognato  di  quanto  l’interessava,  col  suo  cipiglio duro  e  ingenuo  di  ragazzone che prende tutto sul tragico. Infine lo invitò senz’altro a ritornare in Italia e a fare le sue vendette senza pietà. Se non aveva i denari per il viaggio glieli avrebbe dati lui. Mastro Genio tentennò un po’ il capo, poi rispose seccamente che lui stava troppo bene dove si trovava, e che non aveva nessuna intenzione di ritornare in Italia, dove non aveva lasciato nessun feudo da sfruttare.

Hai lasciato mia sorella che è tua moglie - fece Pietro stringendo le mascelle, come se avesse voluto stritolarlo dentro. - Cosa intendi fare di mia sorella?

Tua sorella? non so cosa farmene.

Ma noi te l’abbiamo data con l’onore...

Si vede il bel genere che mi avete dato! Me l’avete data per una notte, mi sono servito: ve la restituisco.

Pietro che era gonfio d’ira, per averlo trovato grasso e tranquillo, nonostante  l’atroce  offesa ricevuta, non vide più dagli occhi. Afferrò con le sue enormi mani la lastra di marmo del  tavolino, rovesciando bottiglia e bicchieri, e lo  avrebbe  certamente  finito  se  un  nugolo  di  operai  presenti,  attratti dalle grida della padrona, non lo avessero accerchiato e disarmato.

La padrona strillava come un’aquila: - Accorrete, la polizia, chiamate i pulisi... Assassino...

Si produsse un tramestio d’inferno.

Miserabile! - ruggiva Pietro divincolandosi come un gigante, con degli scossoni  che  facevano rotolare due operai per volta sul pavimento.  -  Miserabile!  di  mia  sorella  dici  di  essertene  servito?  che forse era venuta dalla ruota come te, che non sai neppure di chi sei figlio?

Mastro Genio, bianco come un cencio di bucato, tremante, con le labbra livide dalla  paura,  si asciugava la fronte, madida di sudor freddo, e si nascondeva dietro un gruppo di operai, come un bimbo davanti a un mastino che ringhi minaccioso.

Che c’è, cos’è stato? - domandarono gli emigranti che non conoscevano la cagione della rissa.

Niente... niente... - faceva  Pietro  soffiando  come un  toro - lasciate che gli torca il collo a quel miserabile... che gli mangi il cuore.

Uno  dei  presenti,  molto  robusto,  con  un  aspetto  da  bravaccio,  si  avvicinò  e  prese  Pietro  per  i

lembi della giacca, sul petto.

Paesano, - gli sussurrò scuotendolo - parlate con me. Lo storo è sotto la mia protezione... - poi pronunciò alcune parole del gergo camorristico che Pietro non comprese.

Io  non  vi  conosco, -  rispose  il  giovane  allontanandosi -  e non intendo conoscervi.  Anzi se mi

rivolgete ancora la parola vi pianto un pugno nello stomaco che ve lo sfondo.

Lascialo stare, - gridavano gli operai da ogni parte - ha  ragione,  per  Dio,  si  tratta  di  sua sorella... Venite, paesano, andiamo fuori, raccontateci; vi aiuteremo noi a vendicarvi.

E lo trascinarono fuori, mentre mastro Genio, spinto per le spalle dalla padrona dello storo, piagnucolante, si nascondeva in cucina.

Cap. V

Quando Pietro ritornò da suo fratello per narrargli quanto gli era accaduto  nella  sua  visita  al cognato, un’altra terribile nuova lo attendeva.

Un  nuovo  clamoroso  scandalo  si  era  prodotto  a  Pandore, e la notizia era giunta in America con

una incredibile rapidità.

Una mattina di domenica, la gente  che  si  recava  alla  messa  mattutina,  contrariamente  al  solito, vide  la  bottega  di  Porzia  Papandrea  sbarrata.  Alcuni  contadini  che  solevano  acquistare in quel giorno e a quell’ora la loro provvista di tabacco settimanale, ritrovandosi in crocchio davanti alla porta chiusa, si misero a bussare con i piedi, o con la punta dei bastoni di pruno.

Porzia, senza busto, disfatta, grugnendo e ruttando, venne ad aprire. Aveva la faccia rigata dalle

lacrime e da graffiature sanguinose.

Oh! Oh! amarezza mia, sventura mia!... sono morta... mi hanno ammazzata! Mia figlia... il mio sangue, mi ha uccisa. Fuoco grande ti colga, figlia, che tu non possa godere la tua giovinezza, ti diventi acqua  nelle  vene  il  sangue  che  t’ho  dato,  la  carne  che  hai  succhiato  dal  mio  petto  ti  cada  a  brandelli come le foglie degli alberi in autunno.

Queste terribili bestemmie dette con una voce maschia, da orca,  e  il  pianto  che  le  bagnava  le guance  rigate  da  segni  sanguinosi,  e  i  rutti  profondi, lunghi come tuoni, davano una espressione lugubre a quel dolore materno.

Che c’è, Porzia, cosa avete questa mattina?

Mi ha tradita... mia figlia mi ha tradita, mi ha piantato un coltello nel cuore. Se ne sono andati questa notte alla Gnura Duvica...

La Gnura Duvica era una terra di proprietà di Bruno Ceravolo.

Col massaro, è scappata, - continuava Porzia - col massaro. Me l’ha portata via come il lupo, lo scellerato. Ha ancora il gusto della carne giovane, l’anima dannata, e  dopo  la  madre  ha  voluto divorarsi la figlia. Sventura colga anche lui, lo rinvengano nel suo letto  divorato  dai  vermi  come  le carogne nei fossi; i corvi gli strappino gli  occhi.  Possa  morire  in  un  fondo  di  galera  con  la  catena  al piede, non vi sia al mondo chi  gli  porga  un sorso d’acqua, l’erba e le ortiche nascano davanti alla sua porta!

In un attimo la notizia si sparse sulla piazza e in chiesa. Le donne la commentavano con grandi gesti di terrore; gli uomini si affollavano sulla porta della bottega.

Bene,  bene...  Porzia,  non  vi  affannate,  -  diceva  qualche  anziano  ridendo  sotto  i  baffi  -  noi

siamo vecchi, ora tocca ai giovani...

Porzia si era seduta dietro il banco, e si lamentava come una malata.

A un trattò balzò in piedi, spalancò gli occhi e le braccia, con aria tragica e solenne.

O Vergine Santissima, - gridò - ora che i celesti (i cardini del cielo) sono aperti, ascoltatemi!

Uscì d’impeto dalla bottega, salì il sagrato, e come un bolide entrò in chiesa. A destra si apriva una porticina che dava  nel  campanile; vi entrò. Nel vano umido pendevano le corde delle tre campane con un leggero dondolìo. Porzia ne afferrò una e diede alcune  strappate:  due  o  tre  tocchi  disordinati scesero dall’alto come una voce umana di collera. Porzia ebbe un brivido di spavento nel suo furore, e ritornò come inseguita sul sagrato.

Le   donne   mormoravano,   indignate   di   tutto   quel   chiasso   fatto   intorno   a   quello   scandalo

vergognoso.

La misera si scoprì il petto, un petto enorme, flaccido come un duplice frutto inficozzato, e con un volto terribile, lanciò la sua maledizione al cospetto del popolo.

In nome di Dio, amen!... ti maledico, figlia, per i nove mesi che ti ho portata nel ventre, per il dolore che soffrii mettendoti al mondo, per tutte  le  gocce  di  latte  che  ti  ho  dato,  per le ansie che ho patite nell’allevarti, per il pane con cui ti ho nutricata. Che la tua giovinezza se ne vada come un uccel- lo di passaggio, che i tuoi occhi non vedano la tua via, e non vi sia chi ti pianga e ti assista nell’ora della morte.

La scena era terribile! Quella donna levata sul sagrato della chiesa, lacrimante, col viso ferito e sanguinoso,  la  braccia  alzate  nell’atto  della  maledizione,  invocante  i  dolori  sacri  della  maternità  contro il proprio sangue, aveva un non so che di tragico e di ripugnante insieme.  La  sua  voce  rauca  e mascolina prendeva nella lugubre invocazione una risonanza di tomba, e nello stesso tempo una maestà sacerdotale.

Gli  uomini,  dopo  averla  circondata  curiosi,  si  erano  dispersi  come  atterriti.  Le  donne  si coprivano le orecchie per non udire. La Palamara, con la sua tovaglia nera sulla testa e la lunga faccia rugosa, si era fatta sulla porta della chiesa gridando:

Sciagurata, sciagurata!... il Signore ti castiga.

Porzia continuava singhiozzante, colpendosi con delle grandi manate il petto,  come  se  volesse punirlo di avere nutricato una figlia che le procurava ora quella terribile ambascia.

Intanto Bruno Ceravolo alla Gnura Duvica, con l’intervento del notaio venuto appositamente da Bovalino, faceva donazione di tutti i suoi beni a Vittoria Papandrea.

Il  colpo  era  fatto.  Vittoria  aveva  portato  a  compimento  il  suo  piano;  il  matrimonio  non  era  più

necessario.

Quando, nel pomeriggio, le venne riferita la  notizia  che  sua  madre  l’aveva  maledetta,  essa  stava nella vigna. Era giugno e le ciliegie  erano  mature.  Quattro  grandi  alberi  in  mezzo  ai  filari  frusciavano sotto un vento caldo, agitando una miriade di bei grappoli lucenti come  rubini.  Il  notaro  era  già  partito. Ceravolo stanco dalle emozioni della notte, e appesantito dal  cibo,  si  era  sdraiato  sopra  una  specie  di amaca sotto un carrubo, per fare un pisolino.

Vittoria aveva  le  mani  piene di  ciliegie,  e  ogni tanto  si  portava una ciocchetta alla bocca, spicciolandole conlelabbra.

Ah, mi ha maledetta? - disse sputando degli ossi che parevano tinti di sangue - diventerò più grassa. - E diede un’occhiata di compiacenza a quella bella terra che oramai le apparteneva.

Oltre la vigna era un campo di grano che ondeggiava luccicando al sole. La messe si increspava sotto il vento con la leggiadria e la  volubilità  delle  acque.  Miriadi  di  cicale  riempivano  l’aria  di  un frinire immenso, che pareva scendesse dal cielo.

Diventerò più grassa, - ripeteva Vittoria, sentendosi piena di forza e  di  salute,  -  e  lei  avrà bisogno di me.

Pietro, sebbene fosse tanto lontano da tutti i paesani in quel  villaggio  della  Pennsylvania, apprese rapidamente la fuga di Vittoria, e lo scandalo che ne era seguito a Pandore.

Per qualche giorno rimase sbalordito, come uno che riceva una mazzata in  fronte  e  perda  il controllo di sé.

Il primo pensiero fu quello di venire in Italia  e  uccidere.  Poi  decise  di  non  ritornarci  più  in patria. Si sarebbe  sperduto  in  quell’immenso  continente  straniero,  perché  nel  luogo  dove  la  donna  da lui tanto desiderata si godeva in braccio di un altro uomo, non giungesse più neppure il ricordo del suo nome.

I primi furono  giorni  di  spasimo,  terribili.  Il  povero  ragazzo  non  riusciva  a  darsi  pace;  prendeva in mano il pacchetto di sigarette che Vittoria gli aveva regalato mentre partiva per l’America, lo contemplava, e l’immagine di lei gli si presentava davanti vivida,  precisa,  ossessionante,  come  una visione d’allucinato. La rivedeva alta, sorridente, con il petto pieno, il collo robusto e delicato nella morbidezza delle linee, la bocca carnosa, sempre umida, e gli occhi neri che pareano sprizzare scintille.

Come in tutti gli esseri in cui la vita spirituale è poco sviluppata,  quasi  direi  latente,  quella  sua ambascia gli si trasformava in un dolore fisico: si sentiva un peso al  cuore,  come  una  specie  di difficoltà di respiro, una bocca amara, una inquietudine da bestia malata.

Dopo qualche tempo sentì il bisogno di distaccarsi da  tutto  quanto  gli  ricordava  il  suo  paese. Anche la vicinanza di suo fratello gli era diventata insopportabile.

Partì alla ventura, come un lupo cacciato dalla tana, lavorando una settimana in un posto, e una in un altro, inquieto, mandando a casa tutti i suoi risparmi con quattro righe di saluti.

Qualche volta scriveva due parole anche a suo fratello, ma questo accadeva assai raramente.

Cap. VI

Rosa Blèfari non era colpevole, non aveva peccato contro la fedeltà coniugale se non venialmente.  La voce pubblica l’accusava, e la voce pubblica,  giusta  il  proverbio,  è  voce  di  Dio. Ma può la voce di Dio essere menzognera? In questo caso sarebbe stata proprio tale, perché Rosa Blèfari non aveva peccato. Essa, anzi il suo corpo fresco e gagliardo, la  sua  bella giovinezza iniziati all’amore avevano desiderato l’amore, il dolce amore terribile come la morte,inebriantecomeilvino.

Rosa  Blèfari  amava  suo  marito,  come  in  genere  le  donne  calabresi  amano  i  loro  uomini:  di  un

amore quasi comandato e necessario.

La vita delle nostre donne è sempre senza autonomia; è difficile perciò che nasca e si alimenti in esse un amore di pura elezione, nutrito di simpatia e di comprensione reciproca. Esse non hanno che raramente la facoltà di eleggere; sono invece le elette, e sono quindi grate all’uomo, chiunque esso sia, che leva su di loro gli occhi, e offre col suo nome la gioia dell’amore e quella della maternità. E poiché queste due gioie sono le più sante e potenti della vita, l’amore delle nostre donne diventa santo e potente nel talamo nuziale. Là veramente i corpi e le anime si legano per un’altra opera comune, con una passione che manca certo di squisitezze cerebrali, ma s’incorona di sacrificio, spesso di eroismo nella battaglia della vita.

Non è forse eroico acconsentire di diventar la sposa  di  un  uomo  che  parte  all’indomani  delle nozze, per la fronte di battaglia o per la fronte immensa del lavoro?

Rosa  Blèfari  era  rimasta  sola,  piangente,  all’indomani  delle  nozze,  nel  nido  dove  tutto  sembrava

preparato per assistere a una lunga e desiderata felicità.

Nei primi giorni essa girava per la casa come una colomba a cui il falco abbia portato  via  il compagno: sperduta, inquieta di una particolare inquietudine, che si spandeva come una bruma sul crepuscolo dei sensi illanguiditi. Le giornate erano brevi  e  tristi,  le  notti  fredde  non  passavano  mai. Rosa, che non conosceva l’insonnia, ora passava delle notti insonni, sospirando, con un ricordo che  le accendeva il sangue e le accelerava il ritmo del cuore.

Le ore gocciavano tristi, segnate dal  canto  dei  galli,  come  da  un  misterioso  orologio  vivente. Essa ascoltava quei  canti che si rispondevano di casa in casa, e come le suggerivano un senso  di lontananza, pensava a suo marito, alle pocheorepassateconlui,egliocchilesigonfiavanodilacrime.

Si  sentiva  come  oppressa  da  un  malessere  fisico,  da  un  peso  alla  testa,  da  un’agitazione

irresistibile.

Il giorno si chiudeva nella bottega e cuciva, in mezzo alle cose che gli ricordavano il marito, e spesso guardando quella stampa sul muro, che rappresentava una donna con gli occhi socchiusi baciata da un amorino, si turbava sino allo spasimo.

Nei  giorni  in  cui  vi  era  un  po’  di  sole,  la  bottega  rimaneva  aperta.  Nel  pomeriggio  vi  passava

Don Michelino Fazzolari, dava un’occhiata, salutava e domandava notizie di mastro Genio.

Ancora non ha scritto - diceva Rosa sospirando.

Don Michelino non era un  seduttore,  ma  provvedeva  alle  sue  necessità  amorose  come provvedono al vitto quei piccoli cani bastardi che non hanno padrone fisso, e girano di casa in casa, di porta in porta fiutando, uggiolando; e qua raccattano un osso,  là rubano un residuo di minestra avanzata al gatto, e in un angolo rinvengono un intestino di coniglio, e in un altro un piede di pollo.

Le mogli degli Americani  erano  come  delle  case  abbandonate  per  lui.  Rosa  Blèfari  era addirittura una tavola imbandita, dalla quale mancavano i commensali.

«Qui ci sarà qualche cosa da fare», disse Don Michelino, «e ne vale la pena. Una donna giovanissima, sana e saporosacomeunapesca,chehaappenaintravistoilparadiso».

Come amico di mastro Genio, Don Michelino diventò il confidente della moglie.

Sapeva scrivere così bene,  indovinava  il  pensiero  di  Rosa  a  meraviglia,  e  compilava  delle  lettere che contenevano tutto il cuore e l’ardore della giovane sposa.

Quando scrivevano le lettere a mastro Genio,  si  chiudevano  nella  bottega,  soli,  e  da  parte  di Rosa proprio senza malizia.

Il  tempo  era  freddo,  spesso  pioveva  a  dirotto,  con  quel  vento  interminabile  che  rombava  come

un immenso mulino. Rosa preparava un braciere e lì, coi piedi vicino al fuoco, i gomiti sul tavolo, l’una di fronte all’altro collaboravano.

Ditegli questo, - diceva la giovane - ditegli quest’altro; e per il resto voi sapete...

Per il resto Don Michelino impiegava tutto il materiale romantico delle sue letture, tutti i ricordi stecchettiani e dannunziani della sua cultura, e scriveva delle lettere  ardenti,  piene  di  frasi  amorose,  di sospiri, di desideri accennati appena, ma pur  tuttavia  fervidi  che  facevano  diventare  di  fuoco  il  viso  di Rosa. Quelle cose ella  le  sentiva  confusamente,  ma  non  avrebbe  osato  esprimerle  neppure  nel  segreto del talamo a suo marito, in quella forma  così  precisa  e  sfacciata.  Si  turbava  ascoltandole,  ma  tremava anche di gioia. Suo  marito avrebbe avuto  il senso del  suo grande amore, del  suo desiderio di abbracciarlo, anche lontano dov’era; era  la  sua  anima  che  Don  Michelino  metteva  in  quelle  lettere,  e che partiva verso l’America lontana.

Il professore scandiva a una a una le parole amorose, con  una  inflessione  simile  a  quella  dei ragazzi che recitano una poesia mandata a memoria, e intanto spiava con gli occhi ambigui l’effetto che producevano sul volto di Rosa. E vedendola  turbata,  quasi  ansante,  domandava  con  un  sorrisetto:  - Va bene così? - Rosa non osava neppure rispondere, accennava di sì con la testa e deglutiva per l’emozione che le metteva un tremito alle labbra. «Povera me», diceva Rosa in cuor suo «come  fa  quest’uomo  a indovinare i miei pensieri, e i miei  desiderii?».  Questa  consuetudine  cominciò  a  esercitare  sull’animo della giovane una certa seduzione, e presto diventòunbisognoincoercibile,ilsolomododisfogarsiperlei.

Rosa cominciò a farsi scrivere delle lettere che non spediva mai, perché le mancavano le buste della Banca Tocci; pur non di meno le faceva scrivere, per il  bisogno  di  ascoltare  quelle  belle  frasi amorose  che  vi  cacciava  dentro  Don  Michelino. Questi se ne accorse subito dell’effetto che produceva la  sua  lenta  seduzione,  e  favorì  l’ingenua  manovra  di  Rosa.  Tre,  quattro  volte  la  settimana  si chiudevano in bottega e vi stavano a lungo soli, accanto al tepore del braciere, col vento che mulinava nell’aria, la pioggia che batteva sui vetri come una mano discreta. La gente mormorava e cominciò a sorvegliare. Fu così che un giorno la Rosa ebbe un momento di debolezza che la perdette  davanti all’opinione pubblica.

Era una giornata grigia di nebbia e di  vento.  Nella  bottega  era  un  tepore  d’alcova.  Sulla  brace, Rosa, per profumare l’aria, aveva sminuzzato un pezzo di buccia di arancio, e un  fumo  tenue  con  un finissimo aroma si levava dal braciere  nel  silenzio.  Rosa  era  turbata,  Don  Michelino  leggeva  a  bassa voce le  frasi ardenti  e  a un  tratto,  quasi per  farle  assaporare meglio  a  Rosa si  alzò, si  curvò  sopra le spalle della giovane, spiegandole davanti il foglietto scritto,  e  parlandole  quasi  all’orecchio,  continuò  la lettura con enfasi, come se quelle parola fosse lui che le sussurrasse alla persona amata.

Rosa avvertì con un grande sgomento il senso nuovo che  avevano  le  parole  del  professore,  e poiché quello si chinava sempre più verso  il  suo  viso  infuocato,  soffiandole  nel  collo  il  suo  respiro,  si voltò con gli occhi torbidi che quasi chiedevano  pietà,  per  guardarlo,  e  Don  Michelino,  mettendole  una mano sotto il mento, la baciò sulla bocca.

No... no... - mormorò Rosa quasi senza fiato, inchiodata sulla sedia dal desiderio, -  lasciatemi, per l’anima vostra.

In quel momento, una donna che spiava dietro i  vetri  della  finestra,  vide  la  scena,  e  così  si sparse la voce dell’infedeltà di Rosa Blèfari alla fede coniugale.

A quel bacio, subìto sotto l’influenza di una sottile seduzione, si arrestò la sua infedeltà. Ma ormai la voce pubblica l’accusava, e non vi era rimedio.

La povera giovane, quando ebbe notizia di quella voce calunniosa si ribellò, ricorse a suo padre protestando la sua innocenza, e suo padre la scacciò con furore. Il marito non le scrisse più, e secondo quanto si diceva in paese, l’aveva abbandonata per un’altra donna. Pregò, supplicò,  si  lacerò  il  viso: nessuno le credette. Essa era la cagna rognosa, la perfida che aveva tradito il marito lontano. Contro di lei si esercitava  più  spietata  che  mai  l’animosità  delle  mogli  degli  emigranti,  le  quali  pareva  mettessero in miglior luce la loro fedeltà accusando la povera Rosa.

A  un  certo  punto  la  giovane  sposa  si  trovò  perduta,  tutto le crollava intorno; anche sua sorella,

la  povera  Giusa,  che  viveva  già  sola  nel  suo  stambugio,  scacciata  dal  padre,  non  credette  alla  sua onestà.

Col suo carattere impetuoso e appassionato Rosa si votò alla morte.

Una notte, dopo molte lacrime, si vestì con i suoi abiti di nozze, si mise addosso tutto l’oro dello sposalizio, come nel giorno che si era presentata all’altare, uscì di casa, e si recò dietro la Timpa - un burrone scosceso, quasi a picco, sul quale era elevato il paese, e che strapiomba va nella valle, sopra un oliveto.

La  notte  era  tiepida  ma  triste,  una  notte  di  fine  maggio  con  una  falce  di  luna  calante,  che pendeva  sopra  Aspromonte.  Il  burrone  s’incurvava  ripido,  verso  la  valle,  poi  strapiombava.  Era  tutto sparso  di  ginerii  e  di  finocchi  selvatici;  a  metà  costa  una  piccola  quercia  era  nata  sul  precipizio  e stormiva al vento leggero. Le stelle in cielo erano rare e brillanti, in un azzurro pallido: la luna toccava la    cima    dell’Appennino.    Tutto    s’immergeva    nell’ombra,    diventava    indistinto,    silenzioso;    anche gl’insetti   nei   cespugli   pareva   si   zittissero   tra   loro   nell’imminenza   del   tramonto   lunare.   Un’intensa malinconia scendeva sul mondo.

Rosa piangeva al pensiero di morire, e mormorava guardando il cielo:

Io perdo la mia bella gioventù!

Ripensò alla sua unica notte di amore, e a uno a uno rivisse, con sgomento, tutti i minuti di essa, tutte le parole, le confidenze, i pudori, i baci e le lacrime di gioia.

Io perdo la mia bella gioventù! - ripeteva tra i singhiozzi - io perdo la mia bella gioventù.

Un terribile sconforto l’invase.  Pure  essa  non  poteva  più  vivere.  Si  mise  in  ginocchio  sull’orlo del precipizio, alzò le mani al cielo e disse, quasi ad alta voce: - Signore, voi che vedete nel cuore degli uomini, conoscete la mia innocenza;  perdonatemi,  voi  che  siete  nel  cielo,  dal  momento  che  gli  uomini non mi vogliono credere.

La luna era sparita. Una civetta tra i rami della quercia, in mezzo al burrone, gittò il suo strillo

lugubre. Rosa, atterrita, si arrestò un momento, poi si precipitò giù con furore.

Nei  primi  istanti  il  senso  irresistibile  di  conservazione  la  spinse  a  aggrapparsi  a  gli  steli  taglienti del ginerio: poi nella discesa precipitosa si abbandonò e perdette i sensi.

Il  corpo  bellissimo  fece  un  tonfo  nel  fondo  pietroso  dell’oliveto,  e andò ad  arrestarsi ai piedi di un grosso cespo di lentisco.

Quando fu l’alba la povera suicida agonizzante aprì un minuto gli occhi.  Le  sue  membra  erano spezzate,  e  il  corpo  rimaneva  immobile.  Gli  occhi  velati  di   sangue   videro   un   cielo   lontanissimo, scialbo, nel quale la luce ancora non aveva del tutto scacciato il crepuscolo. Alcune nuvole color d’oro, come immensi petali di fiori, navigavano lente verso le  montagne.  Nell’oliveto  si  erano  destati  gli uccelli che pigolavano a centinaia: due forme alate, grandi come colombe, passarono sul suo  capo  e andarono a posarsi sopra un  olivo,  iniziando  un  singulto  morbido,  simile  al  tubare  dei  piccioni.  Erano due tortore in amore.

Oh! io ho perduta la mia bella gioventù - mormorò la morente, e chiuse gli occhi per sempre.

Solo la sua povera sorella la pianse, in segreto, e fu portata al camposanto senza il suono delle campane.







Cap. VII





Gèsu, rimasto solo a lavorare in una fonderia, per un certo tempo scrisse regolarmente al padre e alla fidanzata due volte al  mese.  Poi  improvvisamente  interruppe  la  regola  epistolare,  e  per  due  mesi non mandò più sue notizie.

Quando riscrisse comunicò che era stato malato, e che solo da qualche giorno si era rimesso al lavoro stentatamente.

Dopo quest’ultima, le sue lettere, d’ordinario così cordiali, minuziose e serene, pur nella  loro nostalgia, presero un tono cupo e reticente. Invariabilmente diceva che  stava  poco  bene,  che  dopo  la sofferta malattia non si era più riavuto, e che lavorava solo per mangiare, perché non poteva fare di più. La nostalgia per il paese e per i suoi cari diventava un po’ funebre; le esclamazioni di  tristezza  e  di rammarico, per avere abbandonata la sua casa e la sua terra, formavano la sostanza delle sue corrispondenze.

Rocco, accasciato da tutti quei dolori che gli precipitavano addosso, era preoccupato.  Mariuzza insisteva presso i suoi zii perché gli scrivessero di rimpatriare.

La fortuna non gli dice, - faceva la ragazza - non importa. Ora è inutile insistere. Se è malato come volete che faccia profitto? se ne morrà in cotesto mondo lontano.  L’unico  rimedio  è  farlo ritornare all’aria nativa, che potrà ridargli la salute.

I Varvaro, con la cupidigia naturale dei contadini, esitavano. Ma infine, verso ottobre,  dietro  le insistenze di Mariuzza, gli scrissero una lettera,  nella  quale  lo  invitavano  senz’altro  a  rimpatriare, perché loro erano vecchi e volevano  accasare  la  loro  pupilla,  per  potersene  andare  tranquilli,  quando Dio li avesse chiamati a sé.

Gèsu  fece  il  suo  bilancio.  In  circa  un  anno  di  lavoro  aveva  mandato  a  suo  padre  mille  lire,  e

duemila aveva depositate alla banca. L’anno non era stato perduto.

Scrisse a suo padre e a Mariuzza che per Natale sarebbe stato a casa di ritorno.

I Varvaro e Mariuzza vollero andare con Rocco Blèfari ad attendere Gèsu alla  stazione  di Bovalino.

La giornata era rigida e secca, e il cielo aveva la lucentezza del metallo. Sui margini delle vie,

nelle cunette della strada carrozzabile, dove scorreva un filo o era raccolta una pozza d’acqua, essa era coperta  da  un  finissimo  velo  di  ghiaccio.  Sulla  campagna  intirizzita  passavano  a  volo  dei   tordi; fumavano i  comignoli  dei  frantoi  tra  gli  oliveti,  d’onde  veniva  a  volte,  con  un  ritmo  largo  e malinconico, il canto delle donne che raccoglievano le olive.

Gèsu non aveva potuto precisare l’ora del suo arrivo, perciò  dalle  nove  del  mattino  tutti  e quattro si erano messi davanti alla stazione presso un cancelletto di  ferro,  e  a  ogni  treno  che  passava, venisse da Reggio o da Catanzaro, si addossavano al cancello e spiavano a uno a uno i passeggeri.

Poiché   a   mezzogiorno   non   era   ancora   arrivato,   pensarono   d’andarsi   a   rifocillare   un   poco.

Entrarono nella bettola di Due Nasi, un marinaio chiamato così perché aveva una narice spaccata,  e ordinarono qualche cosa da mangiare. Il bettoliere li fece sedere a  un  tavolo,  tutto  nero  di  unto  e  di polvere rappresa, vi distese sopra una tovaglia di tela casalinga, e  portò  loro,  in  un  unico  piatto,  una pietanza di pesce stocco con cipolline e olive.

Caterina Varvaro aveva portato in un tovagliolo pane, cacio pecorino e pere. Si misero  a mangiare, inzuppando in quel brodo rosso come sangue delle fette di pane  infilate  sulla  punta  di  certe forchette aguzze di ferro. Lo stufato di stoccafisso era preparato con una abbondante dose di zenzero fortissimo, che aveva un piccante assai favorevole al vino.

Niente da bere, paesani? - domandò Due Nasi -.

Portate un litro, ma buono - fece Varvaro.

Vino d’Ardore, - disse Due Nasi - migliore del marsala.

Mentre Due Nasi posava sulla tavola una bottiglia di vetro verde e un bicchiere, s’udì un fischio acuto, il caratteristico fischio della locomotiva, e subito dopo il  rullìo  e  l’anfanare  del  convoglio  che entrava in stazione.

Rocco trasalì.

Che treno è questo?

Il treno della mezza, - rispose Due Nasi - viene da Catanzaro.

Vado a vedere - fece Rocco forbendosi la bocca col palmo della mano. - Non verrà con questo treno, ma... non si sa mai...

Quando giunse davanti alla stazione i passeggeri sciamavano già verso l’uscita.  L’ultimo  era  un giovane pallido, alto, vestito di blu, con una grossa  valigia  di  cartone  sulle  spalle.  Rocco  ebbe  una stretta al cuore. Era quello suo figlio? Il giovane, oltrepassato il cancello, cacciò in terra rapidamente la valigia e gli si buttò al collo.

Come state, padre?

Figlio... figlio mio benedetto! - borbottava il vecchio tremante per l’emozione,  baciandolo  con impeto, - non ti riconoscevo più. - E lo palpava sul petto e sulle spalle, e si scostava per guardarlo un po’ a distanza.

Come va che sei così sciupato? sei malato ancora? Maledetta l’America e chi l’ha inventata.

Ora sto meglio - disse Gèsu con la sua voce che pareva diventata più dolce e malinconica.

Non ti giovava l’aria?

Non mi giovava - rispose il giovane imbarazzato. Poi chiese:

Siete solo?

No. I Varvaro e Mariuzza ti aspettano qui da Due Nasi. Tu  hai  mangiato?  Mangerai  un boccone con noi.

E Giusa come sta?

Padre e figlio si guardarono imbarazzati,  quasi  vergognosi.  Chinarono  gli  occhi  a  terra. L’immagine dell’altra sorella, della morta così tragicamente,  s’interpose  tra  di  loro  come  per  dire:  «Ci sono anch’io».

Sta bene  - disse Rocco senza rialzare gli occhi.  - Ha avuto un bambino, un bel bambino. Io non

l’ho abbandonata... Mah! castighi di Dio!

Si avviarono silenziosi. Nella bottega fu una festa. Varvaro e Caterina lo abbracciarono come un figlio. Mariuzza, quando lo vide così pallido, scoppiò a piangere. -  Maledetta  l’America,  -  ripeteva  la ragazza tra le lacrime - maledetta l’America. Per quattro soldi se ne va la vita.

Rocco Blèfari chiamò Due Nasi.

Sentite, principale, non avreste per caso un po’ di  salsicciotti?  Mio  figlio  viene  dall’America, voglio fargli festa, per la malogna.

Qualche  minuto  dopo  i  salsicciotti  si  rosolavano  allo  spiedo,  spandendo  nella  bottega  un  fumo

sapido e un odore appetitoso di spezie e di grasso.

Di questi in America non ne hai mangiati - diceva allegro Rocco trinciando sopra un  pane inzuppato di grasso i salsicciotti rosolati. - La roba  dell’America  non  è  buona  come  quella  del  nostro paese.

Oh no!... in America si mangia gran carne d’asino e di cane nella salsiccia, e si paga il doppio.

Eh! figlio mio. Ti ricordi prima di partire? dicevi che questa terra è maledetta. Ora non lo dirai

Gèsu chinò il capo sospirando.

Col calore del fuoco e delle vivande, e con la vicinanza di tante persone care, si era rianimato un

pochino. Un leggero colorito gli arrossava i pomelli, gli occhi erano più  vivaci,  e  mangiava  con appetito, rispondendo alle  numerose  e  curiose  domande  che  gli  rivolgevano  un  po’  tutti  i  suoi  compagni di tavola.

Finita la colazione partirono per il paese.

Rocco aveva menata a Bovalino la vecchia asina con sul  basto  un  cuscino  pieno  di  stoppa, perché il figlio potesse venire a cavallo, ma Gèsu preferì salire a piedi, e l’asina fu caricata della valigia e di alcune provviste che i Varvaro e Rocco vollero acquistare per le feste natalizie.

Quella sera alla casa dei Blèfari fu una vera processione di tutto il paese. Gèsu era il primo che ritornava  dall’America,  dei  quaranta  partiti  l’anno  avanti,  perciò  tutte  le  famiglie  che   avevano   un emigrato accorrevano per avere qualche notizia dei loro cari.  Ma  Gèsu  non  sapeva  nulla  di  nessuno, perché si era allontanato da tutti i compaesani.

A  prendere  notizie  era  stata  anche  la  vedova  Rocca  col  bambino  in  braccio,  paonazzo  per  il

freddo. Voleva sapere come stava il suo ragazzo.

Quando vide Gèsu così sciupato, pallido, con gli occhi stanchi, le labbra  scolorite,  si  sentì stringere il cuore in un pugno.

Avete visto il mio ragazzo, compare Gèsu?...

No,  comare,  io  ero  solo  da  oltre  sei  mesi.  Lo  lasciai  che  lavorava  in  una sciarpa;  faceva il

reboia e stava bene...

E chi lo lava, chi lo rattoppa, povero orfanello? Ci sono delle donne in quel paese che rendono questi servizi? Pagando s’intende, ché fuori di qui si pagano anche i sospiri.

Ognuno si lava e si rattoppa da sé, comare; la domenica è giorno di bucato per tutti.

Oh, Gesù mio! chi sa che lavaggi, e che punti nei calzoni!... - Tutti ridevano. Finalmente rimasero soli Rocco e il figlio.

Padre - disse Gèsu - io vorrei rivedere mia sorella Giusa. Rocco si sentì un nodo alla gola.

Andiamo, - disse - il sangue non è acqua.

Giusa abitava un basso, in una casa dei Perri. Rocco che,  come  diceva  lui,  per  l’onore  del mondo non l’aveva più voluta presso di sé,  andava  a  trovarla  tutte  le  sere,  e  non  andava  mai  con  le mani vuote: ora era un frutto, ora un po’ di verdura, ora una mezza ala di pesce stocco. Tendeva per lei le pànie e le portava spesso delle mezze dozzine di pettirossi.

La porta di Giusa era chiusa, ma attraverso una finestrella a petto d’uomo, senza vetri e riparata dall’aria con un intreccio di verghe e di canne, si vedeva una debole luce.

Bussarono.

Chi è - domandò Giusa, con la voce alterata.

Apri, sono io - disse Rocco.

Entrarono. Il vano rettangolare con un soffitto basso a volta, era  pieno  di  fumo,  perché  il focolare non aveva camino. In mezzo era un grosso pagliericcio, con sopra una coperta di lana a strisce bianche e nere. Vicino al letto una cassa,  a  qualche  passo  ancora  un  mucchio  di  legna  e  delle  grosse radici di lentisco. Al muro era appesa una paniera di canne, nella quale Giusa teneva il poco pane che buscava o si guadagnava, e qualche cipolla.

In mezzo a quello squallore la ragazza era invece più bella del solito. Il volto reso più bianco e più gentile era luminoso, quasi, sotto l’aureola della maternità; il petto pieno, dava un’impressione  di freschezza e di grazia,  e  gli  occhi  spiravano  quella  dolcezza accorata che si vede brillare nello sguardo dei diseredati, davanti al bene inesauribile della vita.

E questa è tra le più mirabili cose della Provvidenza. Quando l’uomo è caduto nel fondo d’ogni miseria, e pare che tutto gli  manchi  e  tutto  crolli  di fronte a lui, non appena egli ha fatto rinuncia dei beni perduti, ecco che dentro di sé e  intorno  mille  altri  beni  si  presentano  al  suo  sguardo;  quello  che aveva un giorno disprezzato o trascurato diventa  prezioso,  e  una  dolcezza  nuova,  una  fiducia  soave  e santa lo riconcilia con le cose e con l’esistenza.

Giusa  vestiva  di  nero.  Era  la  sola  che  portasse  il  lutto  alla  povera  Rosa.  Quando  vide  Gèsu  si

coprì il volto con le mani e scoppiò in singhiozzi, quello le si fece dappresso col cuore grosso, e si abbracciarono forte, a lungo, piangendo tutt’e due  come  bimbi,  senza  dire  una  parola,  vinti  dalla  piena degli affetti tumultuosi.

Pensa come mi hai lasciata e come mi ritrovi - disse Giusa rompendo il silenzio.

Beh! così  ha comandato  Dio, - fece Gèsu -  non ci pensiamo più. Dimmi piuttosto come stati, dove hai il figliolo?

È qua - disse Giusa, a cui si era illuminato il volto di una grande gioia udendo  accennare al suo

piccino; e preso per mano il fratello lo accompagnò vicino al letto. Quivi, entro una grande canestra di castagna, tenuta sospesa a una corda attaccata al muro, dormiva il piccolo.

Giusa corse al focolare e prese il lume.

Guardalo, com’è bello, povero innocente... rimasto senza padre prima di nascere! La voce le si velava di lacrime crudeli al ricordo.

Nella culla la miseria tetra della casa spariva. Il bambino nelle fasce, col suo visino rosso, quasi congestionato, dormiva tranquillo come il bocciolo di un fiore  misterioso.  Le  fasce  erano  bianchissime, bianco il cuscino; sulla testina  aveva  una  cuffia  di  lana  fatta  all’uncinetto,  con  due  fiocchetti  azzurri alle tempie, e tenuta stretta sotto il collo  da  un  nastro  di  seta.  Tutto  in  quella  culla  spirava  freschezza, grazia e benedizione; il bimbo sembrava uno  di  quei  cespi  di  fiori di  prato  che  nascono  in  mezzo  al fimo sui campi, o sui margini delle siepi, dalla putrefazione delle foglie.

Gèsu sospirò, ma una gioia intima e religiosa gli aveva allargato il cuore. Davanti a quella culla dimenticava la vergogna, il disonore e  tutte  le  necessarie  convenzioni  del  mondo,  per  adorare  la  bontà della vita che si perpetua in ogni tempo, col suo profumo d’eternità e con la sua irresistibile grazia. Si sedettero al focolare allegri, di un’allegria misteriosa: la  visione  di  quel  bimbo,  anche  se  nato  dalla colpa, aveva raddolcito i loro cuori e spianati i volti.

Giusa s’informò della salute di Gèsu, dell’altro fratello Pietro; poi  parlarono  di  mille  altre  cose vaghe, con la preoccupazione di non toccare un argomento che li opprimeva tutti.

Finalmente Giusa esitando lo affrontò.

Questa notte passata - disse - ho sognata la sorella, la nostra povera Rosa. Forse era il presagio del tuo ritorno in famiglia. Non la  giudicar  male,  fratello,  essa  era  innocente.  Mi  apparve  bella  come  il sole, con due grandi  orecchini,  un  berlocco  al  collo,  e  una  veste  tutta  d’oro.  «Dammi  il  tuo  bambino», mi disse, e me lo prese dalle braccia. Io  glielo  diedi  volentieri,  ma  quando  mi  sovvenni  che  essa  era morta, siccome  pareva  volesse  portarlo  con  sé,  l’afferrai  per  la  veste  e  le  dissi:  «Ridammelo, ridammelo,  tu  sei  morta...  e  non  voglio  che  porti  con  te  il  mio  bambino».  «Eccotelo»  mi  rispose sorridendo «ma io non sono morta. Mi trovo in un bel giardino e aspetto». «Cosa aspetti?» le domandai io. «Aspetto che passino tanti anni quanti  furono  i  minuti  che  ho  trascorsi  con  mio  marito  nella  notte delle mie nozze,  perché  tutti  io  li  ho  ricordati  nel  momento  in  cui  morivo,  e  il  Signore  non  voleva  che io li  ricordassi».  «E  quando  saranno  passati  quegli  anni?».  «Andrò  in  paradiso» mi disse; e sparì come un raggio.

Rimasero  tutti  e  tre  turbati  come  se  avessero  visto  veramente  dileguare  nella  luce  la  povera

morta.

Cap. VIII

Poiché le feste natalizie erano imminenti, e un’aria di giocondità  era  in  tutte  le  cose,  Gèsu  si sentiva di giorno in giorno più riposato e rinvigorito.

Nessuno potrebbe ridire la gioia di quel cuore semplice che era passato sull’Oceano e sul continente americano come in un sogno, senza capire e quasi senza vedere nulla di  quel  paese immenso, tumultuoso, pur  nel  suo  ordine  mirabile,  lavorando  meccanicamente  come  una  bestia aggiogata, ora che si ritrovava davanti allo  spettacolo  della  sua  terra,  dei  suoi  monti,  del  suo  piccolo mare.  Gli  orti,  i  poggi  coronati  di  begli  olivi  a  ombrella,  i  valloni  pietrosi, le coste salmastre, bianchicce o rosee di arenarie, sparse di lentischi o di tamerici, i  macigni  accanto  alle  vie  di  campagna:  tutto  gli balzava davanti  sereno,  limpido,  familiare,  nel  sole  mite  di  quelle  giornate  decembrine  piene  di  silenzio e di calma, dal monte al mare.

Riconosceva gli alberi a uno a  uno,  come  fossero  stati  uomini.  Quell’enorme  macigno  a  guglie ritto in mezzo alla costa di Macrolis, le case dipinte del Carruso, Pietra di Febo in mezzo al verde cupo dei boschi isolata, rossastra, come un bolide gigantesco caduto dal cielo; e più in su Castello Atì, Pietra Longa, col suo cono scosceso, sparso di ilici e di mirti, e poi la linea dei monti candida, serena nel cielo verdognolo, per l’oro diffuso nell’aria: tutto gli faceva balzare il cuore di una gioia intima e commossa.

Rientrava nel suo elemento, il povero emigrante; l’aria della sua terra, arida e pur tanto bella, gli

penetrava nei polmoni, gli alitava sul viso  come  una  nota  carezza,  e  portava  quegli  odori  a  lui  noti  di orto, di verdura, di cucina, di terra bagnata e di foglie  morte;  gli  odori  sgradevoli,  anche,  a  cui  era abituato fin da bambino, e che gli ridavano ora l’impressione di avere i piedi ben saldi sulla terra, e di non avere null’altro a temere che non fosse la volontà del Signore.

E comparava quegli odori e le voci dolci, cordiali del suo paese, con quelli dell’America.

Esalazioni pestilenziali di officine che sembravano emanare da una forgia diabolica dove si costruissero di nuovo i cardini del mondo; fumaioli alti e paurosi come campanili, rombo di macchine assordante, fragore di congegni minacciosi,  corsa  fantastica  di  treni!  Tutta  quella  umanità  tumultuosa che sciamava incessantemente per le strade, con quell’allegria ignota e  sgargiante,  tutto  quel  lusso appena intravisto, quel danaro che non si sapeva d’onde venisse,  a  quelle  donne  sfaccendate,  a  quegli uomini dalle mani lucenti; e su tutto una atmosfera di  guerra  e  di  tempesta,  un’attività  tremenda,  tur- binosa, in cui il cuore e il cervello non posavano mai, e  pareva non si avesse più neppure il tempo di guardare il sole del buon Dio per goderlo un poco. Fino la terra di quei paesi aveva una struttura e un odore diverso.

Rivedendo  la  terra  del  suo  orto  a  Bony,  sparsa  di  arenarie  e  di  foglie  morte,  coi  suoi  alberelli

che sembravano dipinti tanto erano belli, e le viti che si levavano di tra i solchi con la grazia nervosa e viva  di  membra  caprine,  gli  sembrava  di  rivedere  il  volto  di  sua  madre.  La  toccava,  ne  sbriciolava  le zolle con la voluttà di chi accarezza un’amante, e sentiva che  una  corrispondenza  intima,  segreta, cordiale si stabiliva tra lui e quella terra. I peri e le viti, e tutte le piante dell’orto pareva lo guardassero con occhi amorosi e gli dicessero: «Ben venuto... ben venuto, povero figliuolo;  noi  ti  guariremo,  noi ridaremo freschezza al tuo sangue e uccideremo i tristi germi che la civiltà vi ha deposto passandoti sul capo come un turbine. Noi ti ridaremo la salute e la pace».

Gèsu dunque rifioriva, sebbene ciò avvenisse lentamente.

Il Natale lo trascorsero insieme coi Varvaro facendo una tavola unica, perché  i  Blèfari  non avevano donna in casa.

Caterina e Mariuzza avevano lavorato una settimana di seguito per preparare le diverse specie di

fritture d’uso in quella ricorrenza: le nacatole impastate  con  l’uovo  e  lo  zucchero,  le  zippole  morbide come pane di Spagna, e le sammartine, certe focacce d’uva passa, fichi secchi triturati,  noci  e mandorle, che si facevano cuocere poi al forno. Rocco aveva portato  in  tavola  un  piatto  enorme  di Faenza, colmo di  ogni  specie  di  frutta:  noci,  mandorle,  nocciole,  castagne,  arance,  mandarini, fichidindia e in mezzo un enorme cedro odoroso che sembrava una zucca.

La notte di Natale tutti i frutti debbono essere in tavola, - diceva Rocco, levando il piatto come

un’offerta votiva da presentare a Dio, - tutto deve essere messo sulla tovaglia dove c’è il pane che è la grazia del Signore, ed è vegliato  dall’angelo. Iddio il bene lo ha  creato per la vita dell’uomo, e  l’uomo deve ringraziarlo nelle giornate solenni.

Gèsu andò in chiesa e cantò il «Dormi e non piangere» meglio di un sacerdote, sebbene avesse un incomodo noioso.

Gli sbocciavano sul collo e sulle braccia una specie di foruncoli duri, pallidi, indolori quasi, che scomparivano lasciando sulla pelle delle chiazze bianchicce.

Ti si rinnova il sangue  - diceva Varvaro, e gli batteva sulla spalla sorridendo e  accarezzandolo.

Mangia, per la malogna, mangia e bevi. Pane e vino, vita d’uomo. Il mangiare spegne sette mali, e più di sette non ve n’è al mondo. Tutti gli altri li inventano i medici per fare quattrini.

Così pensate voi, zio Bruno? - domandò Gèsu, come se quella  affermazione  gli  avesse allargato il cuore.

Si  capisce!  Non  dare  mai  retta  ai  medici.  Mangia,  bevi  e  lavora,  che  il  lavoro  è  anche  una

medicina per la vita dell’uomo.

Mariuzza,  vestita  a  festa,  passava  dal  fuoco  alla  tavola  con  le  guance  animate,  gli  occhi  brillanti e la sua gran corona di capelli in testa, attorcigliati a  doppio  giro,  sorridente,  allegra  come  una  sposa novella. Era felice, ringraziava il Signore con tutta l’anima, e avrebbe diviso il suo cuore tra le creature come un tozzo di pane.

All’atto di mettersi a tavola Caterina e  Mariuzza  cominciarono  a  farsi  dei  segni  tra  di  loro,  un poco imbarazzate.

Che c’è? - domandò Rocco, che aveva già notato una certa manovra nella cucina.

C’è che qua manca qualcuno, - disse Mariuzza tutta rossa in viso - questa  è  una  serata benedetta, bisogna dimenticare. - Tutti si tacquero commossi. Gèsu si  alzò,  entrò  in  cucina  e  dopo  un istante rientrò con Giusa al braccio.

Gli occhi erano pieni di lacrime.

Cap. IX

Dopo Natale i Varvaro aspettavano che Gèsu fissasse l’epoca del matrimonio, ma questi non si pronunziava.

Il tempo era diventato pessimo. Tutto il gennaio aveva piovuto con lo  scirocco,  e  le  rare giornate belle erano rigide, con un sole smorto che metteva il rezzo.

Gèsu  era  ricaduto  nella  stanchezza  e  nella  malinconia  più  nera.  Non  sapeva  neppure  bene

cos’avesse. Un languore costante gli teneva le membra e lo inchiodava a Bony entro la capanna, con le mani penzoloni in mezzo  ai  ginocchi  e  la  testa  pesante,  come  di  piombo.  L’umidità  lo  irritava,  il  vento gli dava l’insonnia. Le ossa gli dolevano,  specialmente  nelle  giunture;  di  quando  in  quando  avvertiva delle fitte acute al cranio, lancinanti, che gli facevano stringere i denti per lo spasimo.

Allora si chiudeva in sé, cupo, sospettoso, solo, come se temesse che suo  padre  e  la  sua fidanzata potessero leggergli negli occhi il segreto terribile che nascondeva.

Delle volte si svegliava a notte alta e non si riaddormentava più.

Si girava e rigirava continuamente nel letto; un leggero  sudor  freddo  gli  inumidiva  il  petto  e  la fronte, e tutte le sue membra parevano sciogliersi e fluire in una  corrente.  Gli  sembrava  che  gli scorresse nelle vene un sangue malsano e acquoso, dal quale come fiori  malefici  germogliassero  quei foruncoli per tutta la vita. Gli si presentavano allora davanti due immagini che per due diverse vie lo conturbavano fino al delirio. L’immagine della sua fidanzata così buona, soave,  pura,  che  pareva volesse ringiovanirlo con il lume dei suoi begli occhi amorosi; e  un’altra  immagine  di  donna,  una visione di angelo tentatore, bella d’una bellezza diversa, artefatta ed infernale, odorosa di un profumo inquietante e irresistibile come quello di un fiore velenoso.

Davanti a quella visione tutte le potenze del suo essere  venivano  scosse  come  da  una  vertigine davanti a un precipizio. Si cacciava i pugni su gli occhi, si rannicchiava  sotto  le  coltri  come  un  bimbo impaurito e batteva i denti, non sapeva se  per  desiderio  o  per  spavento.  E  intanto  deperiva  sotto  gli occhi inquieti del padre che non sapeva rendersene ragione.

Passarono così gennaio e febbraio.  Era  arrivata  la  quaresima.  I  Varvaro  cominciavano  a mormorare. Che quel ragazzo avesse un altro  progetto  per  la  testa?  Che  avesse  portati  dall’America molti danari e si proponesse ora di fare un matrimonio più conveniente?

Un giorno Bruno ne parlò francamente a Rocco invitandolo a decidere.

Mia nipote non ha paura di non trovare un altro partito. Ha la sua bella dote, ed è una ragazza che, in grazia di Dio, è citata a esempio in tutto il paese. Noi abbiamo acconsentito per accontentar lei che, così gattina silenziosa com’è in apparenza, si è incapricciata. Non discutiamo il giovane:  buono, laborioso, serio e timorato di Dio! Ma se le cose si debbono fare si facciano. Perché attendere ancora? Noi siamo vecchi e prima di chiudere gli occhi vorremmo vederla accasata, questa orfanella.

Rocco un po’ mortificato scusò il figlio, attribuendo il suo silenzio  a  ragioni  di  salute;  ma promise di parlargliene francamente.

Difatti la sera stessa, mentre si trovavano davanti al fuoco, il vecchio  introdusse  abilmente  il discorso sull’argomento del matrimonio, così in modo vago, come  se  ci  fosse  pervenuto  a  caso.  Gèsu taceva, col capo basso, tracciando e cancellando con uno spiedo dei segni disordinati sulla cenere.

Ora che sei tornato in salvamento - diceva il vecchio - io voglio che ti accasi. Sei il solo dei miei figlioli che non mi abbia dati dei dispiaceri. Le tue sorelle sai bene come sono andate a finire. Tuo fratello è disperso per il mondo. Scrive... Sì... scrive qualche  volta,  mi  manda  anche  dei  denari.  Ho quattro mila lire delle sue dentro un fazzoletto in fondo a quella cassa, perché io non tocco un soldo di quelli che guadagnano i miei figlioli. A me il denaro  non  giova,  io  sono  vecchio.  Il  mio  sangue  io voglio, ma il mio sangue è lontano. Non mi rimani che tu; che almeno abbia la consolazione di vederti a posto prima che muoia.

Gèsu non rispondeva. Sembrava un montone, col viso cupo, gli occhi ostinatamente abbassati.

Rocco s’irritò: - Perché non rispondi? - fece scuotendolo. - Con te parlo. Hai qualche cosa per la testa? Oh, Vergine santissima! Figlioli piccoli guai piccoli, figlioli grandi guai grandi!

Gèsu alzò gli occhi tristi, come per parlare, ma li riabbassò subito, ed emise un sospiro profondo pieno di sgomento.

Tu hai qualche cosa sul cuore -  fece Rocco preoccupato -  ed è per questo che ti distruggi come la serpe alla siepe. Parla, sangue della malogna, confidati con tuo padre, non  mi  dare  dei dispiaceri anche tu, che ne ho avuti abbastanza.

Padre,  -  disse  Gèsu  di  scatto  -  vi  dirò  tutto  perché  ho  bisogno  che  mi  consigliate.  Io  soffro

troppo. Padre, non so se potrò sposarmi.

Perché non sai? - domandò Rocco stupefatto, non sospettando neppur lontanamente il senso recondito di quelle parole.

Non so!... Se fosse vero quello che mi ha detto un medico in America non potrei più sposarmi.

Che storia è questa, santa Vergine Maria, che storia è questa? - andava ripetendo Rocco; e si batteva le palme sulle ginocchia. - Che cosa ti hanno detto i medici? Sei dunque tanto malato?

Vi dirò tutto, - mormorò Gèsu - è necessario che vi dica tutto. Voi siete vecchio e potrete consigliarmi. Perdonatemi per quello che vi dico, padre mio; - e a queste parole un  sùbito  rossore malaticcio gl’imporporò le guance pallide - ma cosa volete! Iddio così lo ha fatto il mondo, e siete stato giovane anche voi.

Ebbe   una   pausa;   poi   cominciò   la   sua   narrazione   con   un   fil   di   voce,   come   un   fanciullo

vergognoso che si confessi.

«In America io conobbi una donna. Due o tre volte la vidi e fui con lei, perché era una di quelle che girano il mondo,  e  come  le  stelle  comete  portano  peste  e  perdizione. Era una  germanese.  Quando mi trovavo solo nella Pennsylvania, dopo  la  partenza  di  mio  fratello,  siccome  a  me  piace  cantare,  la sera, per far passare il tempo, frequentavo uno storo. Si beveva una scioppo di birra, e si cantava sull’armonica. Veniva un operaio di Sinopoli che la suonava come un organo.

«Una sera vediamo entrare tre donne, tre di  quelle  ghelle  che vanno in giro, col bastoncino in mano e la sigaretta in bocca. Si siedono in mezzo a noi, ordinano della birra per tutti e dicono: «Cantate e suonate per noi fino all’alba». Erano belle tutt’e tre, con quella pelle bianca che sembra impastata di sangue e latte; ma una, una di quelle, salvo  il  peccato,  era  bella  come  la  Madonna  Immacolata  della nostra chiesa. Una bocca rossa come  un  fior  di  melograno,  dei capelli che sembravano oro filato e un paio d’occhi, padre mio, un paio d’occhi  che  quelli  del  demonio  prima  di  essere  maledetto  da  Dio  non erano certo più belli! Grandi, così grandi come io non ne ho visti mai: lunghi e verdi come due foglie di limone. Cantarono tutti e cantai anch’io alcune  canzoni  del  nostro  paese.  La  mia  voce  piacque  a  quella dagli occhi grandi ed essa mi prese con sé».

Si arrestò come sgomentato dal ricordo, e si asciugò la fronte con la  palma  della mano che gli tremava.

«Vi giuro, padre, che io non seppi mai neppure il suo nome. Credo fosse  il  demonio  in cammino, una mala tentazione, il peccato mortale vestito da donna. Mi tenne tre sere con sé, e quando mi lasciò io non ero più un uomo. Uscendo dall’albergo quella mattina,  io  temevo  che  il  vento  mi soffiasse via; non avevo più midolle nelle ossa, non avevo  gambe;  la  testa  era  vuota  come  un  guscio d’uovo succhiato dalla serpe. Mi pareva che la mia vita se la fosse bevuta tutta quella donna con quella bocca che sembrava tinta di sangue. Tutto è perverso nel mondo grande, padre, anche l’amore.

«Nei primi giorni credetti di morire.

«Vi giuro che prima di allora io non avevo mai conosciuta una donna. Perciò il ricordo di quella mi dava le vertigini. Aveva addosso un odore perverso, che gonfiava le vene e faceva venire  il batticuore. Se ci penso ancora mi viene freddo.

«Dopo quel giorno io non mi sentii più bene. La stanchezza, quel senso di vuoto nelle ossa che mi aveva lasciato quella donna, non mi abbandonarono più, e il sangue mi si corrompeva e inveleniva.

«Mi venne uno sfogo strano per tutto il corpo e alla mattina mi doleva forte la schiena.

«Dopo circa un mese andai dal medico.

«Mi fece spogliare, mi esaminò due o tre foruncoletti che avevo sul petto, mi tastò con le mani sotto le ascelle e sul collo, sotto le orecchie, poi mi disse sorridendo:  «Sei  conciato  per  le  feste».  Mi domandò se avevo moglie, e siccome io  gli  dissi  che  ero  fidanzato  e  che  intendevo  sposarmi non ap- pena ritornato in Patria, quello mi stralunò in viso due occhi terribili.  «Guardati  bene  dal  prender moglie» mi disse «prima di esserti curato a lungo. Tu sei molto malato».

«Mi  ordinò  delle  iniezioni  che  io  mi  facevo  fare  in  un  ambulatorio  per  operai,  e  che  mi

producevano    sotto    la    pelle    dei    gonfiori    legnosi,    grossi    come    galle    di    quercia.    Mi    stancai,    e all’ambulatorio non ci andai più. Quelle iniezioni non mi facevano né bene né male.

«Ebbi qualche febbre, poi  mi  rimisi  al  lavoro,  ma  nel  sangue  mi è rimasto come un veleno che mi corrode, e tutte le volte che penso a quella donna mi pare di spenzolarmi sopra un precipizio.

Disgraziato figlio, - fece Rocco - tu ti sei innamorato di quella straniera!

«Innamorato no, padre, non l’ho vista più, non la vedrò più. Io voglio bene a Mariuzza, e vorrei sposarla con la benedizione di Dio; ma temo che quella  donna  mi  abbia  messo  nel  sangue  qualche veleno, mi abbia combinato qualche  malefizio.  Quando  stavamo  insieme  mi  faceva  fumare  un  tabacco che stroncava le gambe, e faceva venire un sonno mortale. E in quel sonno, mentre  quella  donna  mi sussurrava delle parole strane, una notte io vidi tutto il mio paese, tutti voi, come se mi foste davanti. Io temo che fosse una strega, uno strumento del demonio, che mi abbia dato uno di quei morbi che fanno marcire il sangue. Sono donne che girano il mondo, e hanno addosso i sette vizi capitali.

«Vi ho detto tutto, padre, come a un confessore: ditemi voi cosa debbo fare. Io vi ubbidirò».

Cosa devi fare? - disse Rocco che si era rasserenato  - sposarti. Tu non sei malato. Quella che tu hai addosso è una grande debolezza; non dare retta ai medici. La donna, figlio  mio,  è  una  malattia dell’uomo,  qualche  volta  la  più  brutta:  le  donne  di  città  poi,  Dio  ne  liberi,  sono  peggio della perniciosa. Il sangue dell’uomo lo bevono come le sanguisughe, che per staccarle bisogna tagliarle  con  le  forbici. Potrebbe anche darsi che quella strega ti abbia affatturato. Domani  andremo  in sieme  da  Mico  del  Re: quello, Dio liberi, parla anche col diavolo: se  sei  affatturato  ti  leverà  la  fattura  come  una  spina  dal piede.

Cap. X

Il giorno dopo, di buon’ora, padre e figlio erano davanti alla casa di Mico del Re.

Era questi un contadino furbo e accorto, che dichiarava di parlare coi morti e di essi portava per le case le notizie, accattando. Sapeva scongiurare il malocchio, rimettere a posto le membra slogate, esorcizzare i vermini ai bambini, e  faceva  con  un’occhiata  diventar  lunatici  i  polli.  Rintracciava  anche  i ladri di bestiame, e ne faceva vedere i volti specchiati in un catino d’acqua.

Abitava in campagna con la moglie e un nugolo di figlioli, ma viveva più dei proventi di queste sue cerimonie magiche che di lavoro. I  Blèfari  lo  trovarono  che  tagliava  delle  pale  di  ficodindia  per darle da mangiare a una mucca che aveva in una capanna. La moglie, una donna lunga e sporca come un fruciandolo,  con  un  viso  brullo  e  dei  denti  che  sembravano  quelli  di  un  rastrello,  raccoglieva  le  pale staccate dalla pianta e le cacciava in una cesta di vimini tutta sporca di sterco della mucca.

Buon giorno, compare Mico, - fece Rocco - lavoriamo?

Che fare, compare, -  rispose l’altro interrompendo la bisogna - è il nostro destino. E voi come mai da queste parti a quest’ora?

Son venuto col mio ragazzo per parlarvi d’una faccenda - fece Rocco.

È quello che avevate in America?

Li avevo tutt’e due in America. Questo è ritornato un paio di mesi fa.

Mico  comprese  che  si  trattava  di  una  consultazione  e  lasciò  il  lavoro,  accompagnando  i  due Blèfari in casa.

Nella  cucinetta  angusta  e  fumosa  il  fuoco  era  acceso  e  due  ragazzi  ancora  tutti  assonnati  vi  si scaldavano.

Il padre li mise fuori come fossero stati due cani, e socchiuse la porta.

In che cosa vi posso servire, compare Rocco?...

Rocco  gli  narrò la storia della donna americana, riferì i giudizi del medico di laggiù, i timori del figlio e il desiderio che aveva di accasarlo.

Mico del Re sorrise: - I  medici?  non  sanno  niente.  Il  medico  grande  è  Dio.  Una  volta,  quando tutti cotesti  medici  non  c’erano,  le  malattie  dell’uomo  si  contavano  sulla  punta  delle  dita:  la  polmonia, la puntura, la quartana, l’isterico, la pustola e tutto era lì. Ora invece, secondo i medici, l’uomo avrebbe più morbi di quanti ha capelli in testa. Caro compare mio, ognuno deve vivere: s’ingegnano anche loro. Io non ho studiato, non so neppure leggere e scrivere, e con l’aiuto di Dio, guarisco i malati meglio di loro, perché il medico grande è Lui. Giusto quello che mi dite, vostro figlio non è malato: quella donna lo ha succhiato come un osso,  e  gli  ha  lasciato  addosso  una  grande  debolezza.  Se  non  c’è  fattura,  io dico che non è malato, se c’è la vediamo subito.

Si fece solennemente un gran segno  di  croce,  poi  aprì  una  cassa  e  trasse  fuori  un  involtino  di carta blu.  Lo aperse: dentro c’erano dei grani d’incenso, delle scolature e dei moccoli di una cera bruna, di quella cera che usano accendere nelle chiese per l’ufficio delle Tenebre durante  la  settimana  di passione; e poi corolle di fiori secchi, urnette di papavero, e altre erbe di campo. Staccò dal muro un mazzetto di palma secca e di ramoscelli d’olivo, e  cominciò  a  tagliuzzarli.  Nel  mucchietto  vi  mise alcuni grani di sale, e quel miscuglio poi lo versò sopra una mezza tegola con su della brace.

Inginocchiatevi,  comparuccio  -  disse  a  Gèsu.  -  Se non mi sbaglio voi siete quello che cantate così bene in Chiesa.

Sì, sono quello - rispose il giovane esterrefatto davanti a quella cerimonia mistica.

Padre e figlio s’inginocchiarono tremanti, come presi dal terrore di  una  presenza  invisibile, mentre Mico del Re, con la mezza tegola in mano, fumante come un tripode, si mise a girare intorno al giovane prostrato borbottando:

Queste sono le dieci parole della verità:

«Uno: un solo Dio regna.

«Due: i due luminari del mondo: il sole e la luna.

«Tre: le tre persone della Santissima Trinità.

«Quattro: i quattro evangelisti.

«Cinque: le cinque piaghe del Nostro Signore Jesu Cristi.

«Sei: le tre e tre ora di agonia.

«Sette: le sette spade della Vergine Maria.

«Otto: gli otto candelabri ardenti.

«Nove: i nove cori degli angeli.

«Dieci: i dieci comandamenti».

Nella piccola stanza  affumicata,  dove  appena  un  pallido  riflesso  del  mattino  s’insinuava, attraverso la porta semiaperta, la cera e l’incenso, bruciando con un  leggero  sfrigolìo,  avevano  sparso nell’aria un fumo violetto, leggermente profumato. Rocco e Gèsu prostrati, col  cuore  che  batteva appena,  trattenendo  il  respiro,  ascoltavano  quelle  parole  solenni,  compresi  da  un  profondo   terrore religioso.

Quando Mico del Re ebbe finito, versò la brace sul fuoco esclamando:

Dio sia lodato! Non c’è fattura, compare Rocco, non c’è fattura.

Gèsu e Rocco rimanevano in ginocchio, seguendo  allibiti  i  movimenti  del  fattucchiere,  come fosse stato un sacerdote sull’altare.

Alzatevi - fece Mico -  e state allegri. Ve l’ho detto, fattura non c’è. Avete visto come tutto è bruciato tranquillo? Quando c’è maleficio il sale scoppia, e la brace salta come se ci fossero dentro dei diavoli. Voi dunque, comparuccio, non avete nulla. Un po’ di debolezza e per quello la  medicina l’abbiamo. Brodo di gallina e sciroppo di cantina. Il mangiare spegne  sette  mali.  Per  farvi  venire appetito prendete ogni mattina, per una quindicina di giorni, un decotto di erba d’assenzio: la trovate dappertutto.

Posso dunque farlo sposare? - chiese Rocco tutto contento e commosso.

Sì, fatelo sposare. Alle malattie delle donne io non  credo;  ma  se  anche  quella  megera  gli avesse lasciato qualche malattia, il matrimonio lo guarirà. Sangue di donna vergine guarisce tutto.

Allegro, allegro, giovanotto, - continuò Mico,  battendo  sulla  spalla  a  Gèsu -  e  non  date  mai retta ai medici. Quelli se la intendono coi farmacisti per tormentare il prossimo e cavargli quattrini.

I Blèfari gli misero nelle mani un biglietto da cinque lire e s’incamminarono verso il paese.

Gèsu contento come un bambino sgambettava e si stropicciava le mani un po’ intirizzite.  Gli sembrava che tutti i dolori e i mali di cui  soffriva  fossero  scomparsi  come  per  incanto;  ritornava  la fiducia, la freschezza del suo sangue, la gioia di vivere. Non aveva nel corpo nessun malore, ma se pure qualche cosa avesse avuto, ne lo avrebbe guarito il matrimonio. Pensava a Mariuzza e il suo cuore gli si gonfiava nel petto: poteva sposarla ormai la soave fidanzata, buona, modesta  e  casalinga,  che  gli avrebbe addolcita la vita  col  suo  affetto  semplice,  sottomesso,  e  lo  avrebbe  aiutato  nel  lavoro. L’immagine della donna fatale  dileguava  nella  memoria  come  un  turbine  luminoso  di  lampi. Respirando quell’aria fresca della mattina, piena di sentori umidi, di odori di orto e  di  erba  crescente, ricordava gli odori inebrianti, caldi di  quella  carne  torbida,  rosea  come  un  fiore  mostruoso,  nato  dal sole e dalla putredine, e si rinfrancava. Era nel suo paese oramai!  Quel  profumo  non  lo  avrebbe respirato più, quella donna dai grandi occhi barbarici non l’avrebbe più  vista,  la  sua  salute  sarebbe rifiorita, e dal suo amore sano e paesano sarebbe nata una famigliola fiorente, che lo avrebbe confortato e aiutato nella sua vecchiaia.

Signore, vi  ringrazio, - diceva Rocco guardando il sole che si era alzato sul mare e illuminava di una luce calda tutta la vallata fino ai monti lontani - Signore, vi ringrazio. Voi date la piaga ma date anche l’unguento.

Poi si rivolse a Gèsu: - Ora che siamo tranquilli ti sposerai e presto. Che ne dici?

Sì, - rispose Gèsu - parlate pure a Varvaro e prepariamo le robe: dopo Pasqua mi sposerò.

Negli orti fiorivano già i mandorli,  e  come  qualche  fringuello  si  posava  o  passava  a  volo  sui rami candidi di corolle delicate, piovevano nell’aria lentamente come fiocchi di neve i petali argentei. E quell’albero fiorito in mezzo a  la  campagna  ancora  morta  e  intirizzita,  era  come  un  presagio  propizio, una promessa dolce di bel tempo prossimo, del rinnovarsi dell’anno.

Si sarebbe così rinnovata anche la sua vita e la sua salute.

Cap. XI

Una settimana dopo Pasqua Gèsu prese moglie.

Sebbene i  Blèfari  fossero  stati  colpiti  l’anno  avanti  da  tante  sventure  domestiche  e  non  avessero il cuore del tutto preparato a festeggiare, pure i Varvaro  vollero  che  la  cerimonia  nuziale  fosse,  per quanto era possibile, ricca e solenne.  Quei  due  vecchietti,  senza  figlioli,  avevano  dedicata  tutta  la  loro vita a Mariuzza, e ora che  la  vedevano  a  posto, maritata a un bravo giovane di loro fiducia, volevano dare la dimostrazione della loro grande letizia, con un festeggiamento che fosse segnalato dai paesani.

I danari c’erano, perché Varvaro aveva messe da parte molte carte da cento che nessuno  gli conosceva, e che egli teneva aggruppate in un fazzoletto di seta, dentro il pagliericcio.

Gèsu da parte sua, rinfrancato in salute e fiducioso  che  quel  matrimonio  lo  avrebbe definitivamente liberato da ogni infermità  del  corpo  e  dello  spirito,  spese  una  buona  metà  dei  risparmi che aveva ammucchiati in America per comprare l’oro e le vesti alla  sposa.  Sapeva  che  Mariuzza, sebbene fosse timida e modesta, in fatto di ornamenti aveva, come tutte le donne, le  sue  piccole ambizioni, e volle accontentarla pienamente. I vestiti furono  confezionati  a  Benestare,  da  una  sarta  che aveva imparata l’arte a Reggio, e si era specializzata in quella specie di confezioni nuziali.

Il giorno degli sponsali, - un  giorno  d’aprile  splendido,  con  un  sole  d’oro  -  quando  Mariuzza uscì di casa al braccio dello zio Varvaro, alla testa del corteo, sembrava una Ma donnina che va  in processione. Portava un  vestito  tutto  di  seta:  la  sottana  di  organzino  di  un  azzurro  pallido,  la  camicetta di raso color tortora, con guarnizioni rosa, e un  pizzo  alle  maniche  e  alla  gorgiera.  Alle  orecchie  due rosette con granatine, e due  anelli  con  pietre  alle  dita.  Al  collo,  appesa  a  una  catenina d’oro, portava una crocetta dello stesso metallo, e sulla testa un fazzoletto di seta damascata a grossi fiorami dai colori vivaci, che le nascondeva a stento il doppio giro di trecce intorno  al  capo.  Il  suo  bel  viso  un  po’ infantile, sempre pallido,  aveva  in  quel  giorno  un’animazione  e  una  espressione  particolare  di  allegrez- za e di timore insieme, quella espressione dolce e trepidante di colui che si appressa al suo sogno e lo vede diventato realtà.

Rocco, in onore della sposa e per amore del figlio, aveva fatto il supremo dei sacrifizi per lui, si era messe le scarpe, un vecchio paio di scarpe scovate in un solaio, e che erano diventate dure come il legno dell’olmo. Le aveva inumidite  e  ammorbidite  alla  meglio,  spalmandole  per  tre  giorni  di  seguito con una miscela di acqua e olio sbattuto,  e  ora  le  portava  ai  piedi,  arrancando  malamente  nel  corteo, come un forzato che si trascini una catena.

Si andò prima al municipio e poi alla chiesa, d’onde si uscì che erano quasi le dieci.

Davanti alla piazzetta un nugolo di monelli stavano ad attendere tumultuando la  manna  dei confetti. Rocco e Varvaro che se ne erano riempite le tasche, quando uscirono sul  sagrato,  vi affondarono le mani, e cominciarono a lanciarli verso gli angoli della piazza, con getti rapidi come si fa col grano alla semina. I monelli vi si precipitarono  a  raccoglierli  urlando  e  rotolandosi  nella  polvere, mentre il piccolo corteo passava silenzioso e sereno.

Lungo il percorso verso casa molte mogli di emigrati,  dalle  finestre,  lanciarono  del  grano  sugli sposi, in segno di letizia e per  augurio  di  prosperità  e  di  numerosa  figliolanza.  Mariuzza  teneva il capo basso, dolce e timida come una colomba. Gèsu, un po’ pallido ma allegro, sorrideva a tutti.

Il sole tiepido e luminoso inondava l’aria e i tetti,  su  cui  saltellavano  a  centinaia  i  passeri  in amore, e le lucertole si scaldavano pigre tra i ciuffi di erba cresciuta su le gronde. Giunti a casa, furono offerti agl’invitati i dolci e i rosolii; ai ragazzi e ai poveri fu distribuito pane e cacio in abbondanza: poi verso mezzogiorno si andò a pranzo.

Varvaro  per  l’occasione  aveva  fatto  macellare  una  pecora, e a preparare il pranzo di nozze era

stato chiamato Cuscunà, un muratore che aveva imparato a far da cucina durante il servizio militare. Si mangiò e si bevve abbondantemente, con letizia, poi Cuscunà già un po’ allegro per  il  vino  tracannato, imbracciò una chitarra, e improvvisò un subisso di versi in onore e a lode della sposa. Quando sei nata tu, rosa marina, - dicevano i versi - fecero gran festa il sole e la luna; fecero gran festa Napoli e Messina, e fosti battezzata al fonte di San Pietro in Ro ma, la tua madrina fu la regina e il tuo padrino la sacra corona.

In una serie di lasse pindariche il poeta cantò poi le lodi di tutti i commensali, a uno  a  uno, rilevandone, con qualche punta d’ironia, i caratteri più salienti.

A ogni lassa beveva, e i commensali battevano i bicchieri in segno di giubilo, e tracannavano in onore del decantato. Poi  si passò  ai contrasti,  alle gare  poetiche. Cuscunà,  con gli  occhi piccini, i  baffi gocciolanti del buon vino rosso e saporoso,  chiamò  tutti  i  commensali  a  tenzonare con lui. L’argomento della tenzone era questo: a chi  la  inventava  più  grossa.  Il  poeta  incominciò  dondolandosi  sulle  gambe esili, la testa inclinata sopra una spalla:

‘Nu vecchiu fusu di ‘na vecchia vitti, non era ruttu ma pocu tenia;

di la metà mi fici tri saitti

‘na chianca grandi pe’ ‘na gucceria,

e poi cu scagghi, scagghioli e scagghitti fici un vascello e lu mandai in Turchia.

(Vidi un fuso vecchio di una vecchia, non era rotto ma teneva appena; dalla metà trassi tre alberi da mulino, un grosso pancone per una macelleria, dopo, con i trucioli che mi rimasero, costruii  un bastimento e lo mandai in Turchia).

Un coro di meraviglia e di approvazione si levò dalla tavola. Mariuzza sorrideva ilare, come una bambina.

Avanti, avanti - diceva Cuscunà - ho fatto la mia proposta; chi è bravo  mi  risponda. -  E pizzicava con le mani già cascanti le corde della chitarra.

Avanti, Bruno, -  disse Rocco rivolgendosi a Varvaro - tu una volta eri poeta: ti sei  dimenticato

di tutto, per la malogna?

Era il primo ai suoi tempi, - diceva tutta allegra Caterina  riferendosi  al  marito - a inventare canzoni sulle zampogne non v’era chi lo arrivasse in tutti questi paesi.

Bruno, coraggio!

Varvaro si alzò. Il mento rugoso, quadrato e duro, come sagomato con l’ascia, era tutto lucido di unto, e gli occhietti grigi gli brillavano come due fiori di smalto.  Col  bicchiere  nella  mano,  che  gli tremava leggermente, la vocetta acuta, modulata in falsetto, improvvisò la sua trovata:

Ed eu vitti l’ancinu di ‘ssa ‘ngacchia

attru non c’è per fari la parigghia. Sette vommari fici di sta tagghia, quattro ‘ncujni grossi e ‘na manigghia. E dopu mi restau puru ‘na scagghiafici ‘na ferruvia di cento migghia.

(Io vidi l’uncino del tuo fuso, altro non c’è per fare il paio. Ne ho tratti sette vomeri grandi così, quattro grosse incudini e una maniglia. Di un pezzo che dopo  questo  me  n’è  rimasto,  ho  costruita  una ferrovia di cento miglia).

Cuscunà era sconfitto: i bicchieri si alzarono, in un coro tumultuoso di approvazioni.

Evviva Varvaro, hai vinto, hai vinto!... Viva Varvaro!...

Era già notte. Gli sposi si congedarono e si ritirarono entro una stanza loro assegnata nella casa degli zii, mentre a tavola si beveva e si tenzonava ancora poeticamente.

Cap. XII

Mariuzza entrò nella stanza nuziale con l’anima trepidante  della  giovinetta  che  vuol  conoscere  e teme, oppressa già dalla dolcezza sognata e misteriosa, che ha in sé il profumo dell’amore e il presagio sano della maternità; ma Gèsu vi entrò come si entra nell’aula di un tribunale, o in una chiesa con un terribile peccato su la coscienza.

Davanti a quel letto alto e vasto fragrante di lino casalingo e sonoro di materia agreste come un angolo  di  prato,  e  con  la  vicinanza  di  quella  donna  giovane,  nel  cui  tremore egli indovinava il desiderio e l’orgasmo dell’amplesso, gli si affacciarono alla memoria in  un  lampo,  e  brulicarono  nella  carne,  i ricordi terribili di un altro amplesso, il primo! di un altro amore, perverso. Il ricordo  della  sua iniziazione al fremito misterioso del possesso femminile si  risvegliò  in  lui  brutalmente;  rivisse  in  un attimo i pochi  giorni  di  spasimo  turbinoso  che  lo  avevano  estenuato,  lasciandogli  in  tutto  l’essere  come un senso di vuoto e di vertigine; rievocò con una precisione allucinatoria  la  carne  insaziabile  della straniera, il morbido  contatto  di  quelle  membra,  il  profumo  di  quel  corpo,  conturbante  come  quello  di un fiore mostruoso; lo stralunare di quegli occhi grandi e verdi come quelli dei serpenti, tutti i pervertimenti della bestia concupiscente; e preso da un  desiderio  subitaneo,  afferrò  la  sposa  per  le mani, e le ricercò avidamente la bocca. Ma su  quella  bocca  silenziosa,  davanti  a  quel  corpo  un  po’ rigido, esalante un profumo sano di lino e di carne giovane, si arrestò come smarrito e quasi deluso.

Quell’atto di desiderio torbido gli parve una profanazione.

Gli si affacciarono allora alla mente tutti i  timori  sulla  integrità  della  sua  salute,  le  terribili parole del medico che in America gli aveva detto di non sposarsi  prima  di  essersi  curato convenientemente. Con il profondo  e  delicato  amore  per  quella  ragazza  buona,  docile,  inconsapevole, che si abbandonava a lui come una colomba, gli gonfiò il cuore un senso di pietà profondo e accorato. Qualche cosa come il timore di una cattiva azione, di una brama incestuosa lo respinse. Sentì il bisogno irresistibile di confessare tutto,  di  rivelare  quei  timori  alla  sua  donna  non  ancora  sua,  perché  gli  pareva che quella gli avrebbe detto una parola d’angelo, la parola infallibile della bontà e della verità.

Mariuzza, - disse - ho bisogno di parlarti.

La prese per mano e la trasse presso la finestra, una piccola finestra a davanzale che guardava verso occidente.

Sotto il davanzale, all’interno, era una cassa, piena di oggetti di corredo. Vi  si  sedettero tenendosi per mano. Mariuzza tremava felice e rassegnata.

Ho bisogno di farti una confessione, di rivelarti un segreto.

Dite, dite - fece la ragazza con un leggero turbamento.

Gèsu si arrestò un istante, e si passò una mano sulla fronte.

Ecco... ti voglio dire... Ascoltami... io... in America... ho conosciuta una donna. Mariuzza ebbe un fremito nelle mani.

E perché lo dite a me, in questo momento? Io non vi chiedo nulla, non voglio sapere. - E si abbandonò sgomenta sulla spalla di lui.

No, ascoltami... - continuò Gèsu come esaltato - ...tu mi devi ascoltare. Non te lo  dico  per ingelosirti, per farti piangere. Per un’altra cosa te lo dico. Ho conosciuto una donna che in tre giorni ha divorato tutta la mia gioventù.

La ricordate dunque ancora, il suo pensiero vi perseguita. E allora perché mi avete sposata?...

La ricordo, ma non per amore, per paura...

Paura di che? - chiese la ragazza quasi indispettita.

Una terribile paura, cuore mio, una terribile paura! Temo che mi  abbia  dato  una  brutta malattia.

Mariuzza ebbe l’impressione  di  ripulsa  e  di  ribrezzo  di  chi  improvvisamente,  camminando  per la campagna, si vede davanti una carogna brulicante.

Una brutta malattia voi? O Santa Vergine! E come? Cos’avete, cosa vi sentite?

Niente, non ti spaventare, non mi sento che un po’ stanco. Solo un poco stanco. Ma tuttavia ho paura. È per questo che ho ritardato fino a oggi a celebrare le nozze.

Ma cosa avete, cosa vi sentite? - domandava tutta confusa e  sgomenta  la  ragazza,  che  non riusciva a rendersi conto di che cosa fosse quella malattia misteriosa. - Ma ora state bene; perché nutrite ancora di quei timori? Oh! povera me!

Non piangere, ascoltami - riprese Gèsu.  - Quando son giunto in paese stavo più  male d’adesso,

mi sentivo debole e vuoto come una canna. Ho rivelato a mio padre i miei timori, ed egli mi consigliò di ricorrere a Mico del Re, sai quello che sa di magìa. Mio padre temeva si  trattasse  di  una  fattura. Andammo. Fattura  non  c’era.  «Se  avete qualche malattia,» disse Mico del Re «il matrimonio vi guarirà. Sangue di donna vergine guarisce ogni male di  donna».  Tu  dunque  mi  potrai  guarire.  Vuoi  guarirmi, cuore mio?...

Io?  -  chiese  la  ragazza  sforzandosi  di  guardarlo  negli  occhi,  in  quella  ombra  rischiarata  dai

riflessi di un cielo notturno di un mirabile azzurro  d’ardesia,  -  io  vi  posso  guarire?  E  come?  Ditemi come: io lo farò. Ma voi tremate, avete le mani fredde, eppure la notte è tiepida. Perché tremate così? Perché avete tanti timori?

No, non tremo! Se tu  mi  vorrai  guarire  io  non  tremo  più,  piccolina  mia!  Vuoi  tu  guarirmi  col tuo sangue?

Sì, io voglio, sono qui per questo - singhiozzava Mariuzza. - Se il mio sangue è  sufficiente prendetelo pure, sono  pura  come  un  angelo  perché  mai  nessun uomo mi mise una mano addosso. Ma voi non avete niente, sono idee, o piuttosto... è il ricordo di  quella  donna  straniera,  di  quella  strega perversa che vi perseguita. Ditemi, non è quello? Giuratemi che non è.

No, Mariuzza, - fece Gèsu con un tono di grande sincerità - non è quello. Te lo giuro. Io temo per te, piccolina mia!... Ma tu vuoi guarirmi, tu mi guarirai, non è vero che mi guarirai?

Sì, caro - fece Mariuzza, - e con un dolce atto materno lo accarezzò sulla guancia. Tacquero abbracciati.

La notte di aprile era dolce, tiepida, trasparente, piena di  uno  scorrere  remoto  d’acque  e  del sospiro lieve del mare. Voci fievoli, sussurri,  crepitii  d’ali  si  producevano  e  si  spegnevano  nel  silenzio della campagna; l’aria era impregnata di un odore d’erbe. Dalla  rocca  vicina  uno  stormire  fugace  di fronde  si  produceva  a  tratti,  e  dei  rumori  di  terra  smossa,  per  il  passaggio  sotto  i  cespugli  di  piccoli animali  notturni.  Negli  orti  cantava  l’assiolo,  il  malinconico  poeta  delle  notti  meridionali,  e  la  sua  voce, ora vicina ora lontana, era dolce come la nota di un piffero di canna.

Oppressi  dalla  dolcezza  dell’ora,  riconfortati,  desiderosi  di  sperare  e  di  credere   nella   loro felicità,  tenendosi  per  mano  guardarono  verso  le  montagne.  Aspromonte  con  le  cime   adiacenti, profilato in un cielo verdognolo coi riflessi opalini,  prendeva  un  colore  di  viola  intenso,  e  sembrava  in quello sfondo luminoso il confine  di  un  paese  paradisiaco,  nel  quale  gli  angeli  camminassero  sopra  una terra coperta di verde e di fiori. Sotto quella montagna, in  una  valle  ridente,  tra  selve  di  noci  e  di castagni centenarii, ai piedi di un  fiume,  la  Madonna  di  Polsi  aveva  il  suo  Santuario;  e  come  dal  piede della montagna sgorgava la vena perenne del fiume,  così  da  quel  Santuario,  per  tutta  la  provincia,  e anche oltre, sgorgava una fontana perenne di grazie sugli afflitti, i poveri, i malati di ogni genere.

Perché non facciamo un voto? - disse Mariuzza, con una sùbita gioia. - Rivolgiamoci alla Madonna, essa ci farà la grazia.

Facciamolo,  -  rispose  Gèsu,  stringendola  a  sé,  -  prometti tu alla Madonna quello che  credi, io

accetto, e che essa ci faccia la grazia.

Lasciatemi - disse Mariuzza.

Si svincolò, e messasi in ginocchio davanti alla finestra, con gli occhi e  l’anima  protesi  verso il Santuario lontano, pregò: - O Vergine della Montagna, ridate voi la salute a mio marito, voi che siete la fontana di tutte le grazie, e io vi prometto di venire quest’anno con lui, e  di  portarvi  tutto  l’oro  dello sposalizio.  Guaritelo  voi,  Madonna  benedetta,  e  fategli  dimenticare  quella  donna  straniera,  quella donna... quella donna... - E ruppe in singhiozzi appoggiando la testa su la cassa.

Gèsu, commosso e triste per quella rievocazione inquietante, la sollevò per le braccia e l’attirò a sé silenziosamente.

Poi si alzarono e chiusero la finestra.

Cap. XIII

E così venne maggio.

Non un angolo di prato, o il margine di una via di campagna, o  la  sporgenza  di  un  muro diroccato, o la gronda di un  tetto  era  senza  il  suo  fiore,  il  suo  ciuffo  d’erba  o il suo nido. Aprile era stato umido, con quei giorni di pioggia mite, uniforme,  che  cade  dal  cielo  cinereo,  in  un’aria  tiepida  e molle: quei giorni già lunghi, un po’ accidiosi che conciliano il  sonno,  accarezzano  i  fermenti  del sangue, risvegliano i desiderii e  rendono  trasparenti  i  pensieri:  quella  pioggia  che  bruisce  sulle  erbe  già alte, sulle fave fiorite negli orti, abbevera i grani e li spinge in su con il lieve ondeggiamento dei venti, e sgocciola quieta dai petali rosei del pesco e  del  melo,  ed  apre  nel  verde  smeraldino  delle  messi  le corolle dei papaveri, e inturgida le viti che piangono sui poggi, coronati  di  nuvole  chiare,  lucenti  come meteore. Il  proverbio  calabrese  dice:  «A  marzo  ogni  lentisco  è  un  addiaccio,  ogni  cespuglio  un materasso».

E davvero le siepi erano rigogliose in  quell’anno,  morbide  e  molli  come  giacigli  per  l’amore  di deità boscherecce.

I roveti, i lentischi, i peri, le euforbie, i biancospini, le tamerici,  tutto  era  riboccante  di  un fogliame lucido e  rigoglioso.  Dai  muri  e  dalle  gronde  pendevano  festoni  di  violacciocche  e  di campanule; sotto ogni sasso,  entro  ogni  pietraia  spuntavano  ciuffi  d’erba:  margheritine  dorate,  narcisi, pan  di  cuculi,  giacinti;  i  bianchi  corimbi  dell’ornitogallo,  le  clave  violette  del  gigaro,  e  dovunque  i  fiori gialli del ranuncolo, lucenti come di smalto, o quelli violacei  della  borrana.  Coprivano  i  sentieri  e  le macee, i botri e i margini dei campi, i cocuzzoli dell’arenaria e i prati destinati al pascolo.

Le giornate erano miti, soavi. Pareva che nell’aria si respirasse un odore di miele selvatico e di latte; un tepore sano come un fermento vegetale entrava nel sangue, e lo faceva formicolare.

Gli sposi erano felici.

Gèsu aveva riacquistato l’appetito, la fiducia e quella allegria un po’ sentimentale ch’era nel suo carattere timido e buono. Dei suoi incomodi non gli rimaneva che un po’ di stanchezza, e quella era da attribuirsi alla stagione.

Qualche  volta  era  andato  nell’aprile  in  campagna  con  sua  moglie  a  rincalzare  le  fave  o  a

mondare il grano; ma più spesso rimaneva a casa a riposare, a godersi la  gustosa  accidia  di  quella primavera luminosa, e i buoni manicaretti che gli preparava Mariuzza.  Questa  diventava  colorita  e perfino un po’ grassa ogni giorno di più; le guance le si  tingevano  di un leggero incarnato, e gli occhi avevano acquistato uno splendore nuovo, un’espressione più franca e più ardita. Accanto al  marito diventava pigra anche lei; e poi era tanto  dolce stargli vicino, in quei  primi giorni di luna di miele, con tutti quegli uccelli sui tetti che si rincorrevano garrendo, e  quel  pigolìo  sommesso  dei  nidi  sotto  le gronde.

D’ordinario si recavano a Bony, e lassù seduti  sotto  un  pero,  l’uno  accanto  all’altra,  con  le spalle appoggiate al tronco, gli occhi imbambolati, si  godevano  il  paesaggio  sempre  bello  e  nuovo, anche  ai  loro  occhi  assuefatti  a  quello  spettacolo.  Rocco  nell’orto  mondava  le  fave   dalle   piante parassite del succiamele, o dalle ortiche; l’asina legata sotto un albero, con le orecchie spelacchiate continuamente in moto, i larghi guidaleschi rosei coperti da un nugolo di mosche, li guardava con i suoi grandi umidi occhi di vecchia rassegnata, soffiando di quando in quando nelle froge.

I grani rigogliosi facevano già l’onda larga sotto il minimo soffio; i campi di erba tutti fioriti sembravano tappeti purpurei, quelli dell’orzo che aveva già messa la  spiga  luccicavano  al  sole,  con riflessi come di oro verde. Intorno ai peri e ai meli che legavano i frutti ronzavano miriadi di api selva- tiche, di vespe dalle lunghe gambe gialle come il torlo dell’uovo, e di grossi calabroni pelosi,  i  quali spiccandosi  a  volo  dai  fiori  appassiti,  facevano  cadere  le  corolle  smorte,  come  spoglie  di  larve  animali. I passeri, le cince, i cardellini, i merli nidificavano a migliaia su gli olivi, nelle siepi,  su  gli  olmi, incrociando  miriadi  di  voli  per  tutto  il  giorno.  A  volte,  nella  calma  meridiana,  dei   grandi   corvi passavano sulla campagna, con volo alto e solenne, gittando  il  loro  crocidare  rauco.  Ruotavano  alti  sui poggi, fogavano un istante raccogliendo le ali, poi si  risollevavano  con  ampi  giri.  Nelle  evoluzioni  le penne luccicavano al sole come fossero di un metallo azzurro.

Come  si  sta  bene! -  diceva  Gèsu  accarezzando  la  moglie sui capelli - è proprio vero  dunque

che mi hai guarito definitivamente? Io mi sento tranquillo, che mi pare il mio sangue sia diventato latte.

La Madonna ti ha guarito, - rispondeva Mariuzza - la Madonna di Polsi, la Beata Vergine della Montagna. Ricordati del voto; quest’anno dovremo andare insieme a ringraziarla.

Andremo, - diceva Gèsu - io ho accettato il tuo voto, ma l’oro te lo voglio riscattare.

Sotto il cocuzzolo d’Aspromonte si scorgeva appena,  velata  dalla  calma  meridiana,  la  valle dove era il Santuario miracoloso di Polsi.

Un  giorno  mentre  meriggiavano  tranquilli,  da  una  siepe  vicina  giunse  improvviso  il   canto beffardo e morbido del cuculo.

Cucù... cucù... cucù... - Gittò tre note, poi tacque.

Aspetta, - disse Mariuzza -  adesso  gli  faccio  una  domanda;  vediamo  cosa  risponde:  «Cucco mio pulito, fra quanti anni mi marito?».

L’uccello tacque un istante; poi riprese con le sue tre note consuete: - Cucù... cucù... cucù...

Stupido di un uccello, - fece ridendo allegramente Mariuzza - non sa nemmeno che mi  sono sposata!...

E come vuoi che lo sappia? Non gli hai mica mandati i confetti.

Ma gli uccelli sanno tutto, essi parlano con gli angeli  ancora  come  nel  Paradiso  terrestre. Adesso gli domando un’altra cosa.

Cucco mio pulito, quanti anni mi godrò con mio marito? Il cuculo rispose ancora con tre note.

Oh! mala Pasqua ti colga, - fece Mariuzza irata - tre anni?

Vorrà dire trenta - fece Gèsu ridendo.

E fosse anche trenta, cosa sono trent’anni? Siamo giovani e possiamo goderci molto di più.

Cosa credi che sappia? risponde sempre in un modo.

Va bene, ma qualche volta indovina. Quando noi due cominciavano a volerci bene,  io  a Grappidà  domandavo  quasi  tutti  i  giorni  a  un  bel  cuculo  che  veniva  a  posarsi  sulla  quercia  grande:

«Cucco mio pulito, fra quanti anni mi marito?». E lui rispondeva con tre note. Di fatti dopo tre anni mi sono maritata e con te.

Aspetta, - disse Gèsu - ora gli domando io  una  cosa.  -  E  ad  alta  voce  chiese  all’uccello: - Cucco mio d’oro, fra quanti anni moro?

Il cuculo spiccò il volo e gittando un cucù spaurito, dileguò tra i peri e le siepi di ficodindia.

I due sposi si guardarono negli occhi perplessi.

Un anno? - fece Mariuzza corrucciata  - ti colga una schioppettata nelle ali, malvagio uccello!  - E abbracciò teneramente suo marito, coprendolo col petto, come per difenderlo dal cattivo augurio.

Cap. XIV

Coi primi di giugno, durante la mietitura dell’orzo, Mariuzza ebbe  delle  febbri  fortissime;  tre  o quattro che la lasciarono sfinita. Si pensò a un colpo di sole, anche perché la giovane, per il gran caldo, aveva lavorato qualche mezz’ora  senza  fazzoletto  in  capo.  Caterina  sul  lavoro  portava  sempre  in  testa un gran cappello di paglia,  ma  a  Mariuzza  nessun  cappello  si  adattava,  a  causa  di  quelle  grandi  trecce che le incoronavano la testa. E perciò aveva lavorato a  capo  scoperto.  Da  ciò,  pensavano  Gèsu  e  i parenti, le erano venute quelle febbri: per un colpo di sole.

Le febbri erano accompagnate da terribili fitte al capo, e da un dolore di testa spasmodico che la

lasciavano  intontita.  Le  somministrarono  del  chinino,  e  un  brodo  di  erbe  purgative  che  Rocco  Blèfari aveva raccolte nel suo orto a Bony.

Le febbri scomparvero, ma il  dolore  di  testa  rimase,  e  specialmente  nelle  ore  notturne  diventava così violento che la povera Mariuzza  credeva  d’impazzire.  Sembrava  che  il  cervello  glielo  tagliassero  a fette, e che sul cranio un trapano diabolico le producesse or qua or là dei buchi profondi.

All’indomani la povera malata si trovava come intorpidita, inerte, senza fiato, incapace anche  di articolare le parole, con una sonnolenza malaticcia che le annebbiava i pensieri.  Gli  occhi  indolenziti  si aprivano appena, e sembrava si stancassero a guardare, anche per un istante, le cose.

Il tempo diventava  torrido.  Era  venuta  l’estate,  la  terribile  estate  arida,  sitibonda, polverosa che dà a tutta la terra e alla verdura un colore giallastro, e opprime il cuore. Le messi erano già bionde, e in alcuni punti della campagna le spighe  prendevano  un  colore  rossastro  come  di  ruggine.  Le  erbe  erano tutte  secche,  i  campi  desolati, con mucchi di gambi di fave anneriti dal sole, sparsi qua e là pei solchi.

Qualche ciuffo  di  verdura  tenace,  o  il  fiore  azzurrino  della  cicoria,  stellato,  delicatissimo,  accrescevano la malinconia degli orti. Nei letti dei  torrenti  risecchi  i  ciottoloni  e  i  macigni  fumavano  al  sole  come  il pane nel forno. L’aria era morta, il cielo giallastro, il mare  violetto.  Verso  il  meriggio  l’afa  mozzava  il respiro.

A  guardare  nelle  ore  meridiane  le  campagne  si  era  assaliti da una specie d’inquietudine panica:

pareva che la terra dovesse prendere fuoco e bruciare lentamente come bambagia aspersa di un liquore alcolico. Le lontananze si velavano di un alone torbido di luce e di vapori polverosi; gli alberi, le grandi querce, i peri, i meli tutti sonori  di  cicale,  restavano  immoti  sotto  la  sferza  cocente;  gli  olivi  con  le foglie smorte e polverose davano una impressione quasi funeraria.

Dei grandi corvi passavano in cielo, a stormi per  tutto  il  giorno,  crocidando,  librandosi  con larghe ruote sui burroni, in cerca di carogne, le carogne dei cani  rabbiosi  o  dei  buoi  morti  di carbonchio. Mariuzza non andava più in  campagna.  Il  mal  di  testa  l’abbatteva,  la  stordiva,  e  la  lasciava delle intere  giornate  inerte,  gli  occhi  torbidi,  socchiusi,  la  mente  vana.  Le  giornate  le  passava accoccolata davanti all’uscio  di  casa  ad  ascoltare  il  pigolìo  dei  nidi  sotto  le  gronde,  o  il  ronzare delle api selvatiche che appendevano i bugni sotto le travi del tetto, o allo spiovente della gronda.

Poiché la ragazza accennava anche a delle nausee, la zia Caterina, con subita gioia, pensò a una gravidanza, e si rallegrò di quelle sofferenze come d’una rosea promessa. Ne parlò alla nipote, prendendola un po’ in giro con tono affettuoso.

Non lo sapevi tu che da quella via ti toccava passare? Dovevi pensarlo. È un  passaggio obbligato. Beata te che hai la fortuna di soffrire così, per avere un frutto delle tue carni. Vedi me? Io non l’ebbi quella fortuna, io non soffrii né nausee né dolori  di  testa  né  altri  malanni,  ma  muoio  senza lasciare una goccia del mio sangue in questo mondo. Se non avessimo presa te che eri nostra parente e sei rimasta orfanella, saremmo morti senza una mano che ci chiudesse gli occhi.

Voi credete sia quello, zia? - faceva Mariuzza con un lampo di gioia nei begli occhi stanchi. - Oh! Io sarei contenta. Ma soffro troppo! Sapete che qualche mattina non ci vedo neppure? Mi sembra di avere un velo davanti agli occhi. Oh povera me! E quanto dura questo affare?

Fatti coraggio, figlia mia, dura a lungo.

Mariuzza si sconfortava, sebbene fosse felice e spiasse entro di sé qualche segno rivelatore della sua maternità.

Rocco, quando ebbe la confidenza da Caterina, non capiva nella pelle per la contentezza.

Quando ritornava  la  sera  dalla  mietitura,  nero,  bruciato  dal  sole,  con  la  consueta  calma rassegnata sul grosso viso diventato del colore del bronzo, la prima cosa che faceva era quella di andare dalla nuora, a portarle la buona frutta che le aveva procurato in giro o raccolta nel suo orto. L’accarezzava con gli occhi, gli sembrava quasi  che,  a  toccarla,  dovesse  rompere  il  ritmo  di  quella felice maternità incipiente; e la contemplava con le mani alzate,  come  si  contempla  un  nido,  in  cui  le piccole uova riposano nel lettuccio soffice di piume o di spore di soffione.

Ebbene, come va... Mariuzza? - le diceva sorridendo;  e  intanto  sollevava  delicatamente  da sopra un cestino di vimini una foglia di fico o qualche pampino di vite. - Guarda cosa ti ho portato! - Una sera erano fichi fiori di quelli schiavi, lunghi  e  iridati  come una melanzana; un’altra sera erano le piccole pere di San Vito o le moscatelle, fragranti come un dolciume; un’altra, le ciliegie.

Mangiane una, ti passerà il mal di testa.

Mettetele là, - faceva Mariuzza tentando un sorriso malinconico - non ho voglia adesso.

Come non hai voglia? Se le guardi ti vien  subito  la  voglia.  Le  donne  nelle  tue  condizioni hanno tutte le voglie, e sai perché? Perché quelle piccole anime che hanno dentro vengono dal Paradiso terrestre,  dove  ci  sono  tutti  i  frutti  del  mondo, e quindi sono abituate a mangiarne a sazietà. La sai la storia del padre guardiano? Ah! non la sai? Te la racconto, ti faccio ridere un poco.

E cominciava a narrare  di  una  donna  incinta,  che  vedendo  passare  tutti  i  giorni  davanti  a  casa sua il guardiano d’un convento, finì con  l’avere  voglia  di  mangiare  un  pezzetto di guancia del frate. Il frate, quando ebbe notizia della voglia della donna, inarcò le ciglia e rispose: «No, non posso, qui ci va di mezzo l’onore  del  mento».  Ma  poi  pensando  che  una  piccola anima di Dio sarebbe andata al limbo se egli non avesse acconsentito a fare quel sacrificio, si recò dalla donna e le disse: «Bene, ho pensato di accontentarti; avvicinati e staccane con la tua bocca un pezzo dove vuoi tu».

Il frate era roseo, grasso e prosperoso, e la donna lo addentò subito con voluttà, ma non affondò

il morso. Rimase così con la sua bocca vicino a quella del frate, e la voglia le passò.

Mariuzza rideva: - Gesù, Gesù... non mi fate ridere che non ho voglia.

Mangia, per la malogna, e dimmi se hai desiderio di qualche cosa, dillo a me. Hai capito? Non mi fare qualche pasticcio, non mi scodellare l’uovo prima del tempo.

Ma nella casa vi era uno che non partecipava alla gioia comune, che non credeva alla gravidanza di Mariuzza, e la vedeva soffrire con un turbamento che gli divorava il cuore. Era Gèsu.

Siccome i lavori nella campagna erano pressanti,  in  quel  periodo  della  mietitura,  Gèsu  era  via tutto il giorno, sebbene le fitte nelle ossa e la stanchezza lo avessero ripreso.

Mieteva accanto a suo padre e allo zio Varvaro. Tutti erano allegri, loquaci, cantavano a tenzone con le spigolatrici, mangiavano robustamente, e i più arditi narravano delle avventure  salaci,  facendo scappare le ragazze che raccoglievano i covoni. Gèsu, che pur aveva una bella voce, non cantava mai. Lavorava con furore, sempre primo nella fila, col suo sospetto tragico e tormentoso  nel  cuore,  col pensiero fisso come un chiodo alla moglie e alla sua malattia. La sera tornava a casa spossato, triste, col cuore pesante. Qualche volta la notte,  mentre  Mariuzza  spasimava,  con  una  pezzuola  inzuppata  d’aceto sulla fronte, egli accendeva il lume e stava a lungo a contemplarla, con in  gola  un  nodo  che  lo strozzava. Una mano sotto la guancia sul cuscino, il collo abbandonato e  proteso  come  quello  di  una colomba ferita, la bocca semiaperta e le trecce, le belle e lunghe trecce attorcigliate sul guanciale come due grosse serpi in amore, Mariuzza si lamentava, e con l’altra mano cercava quella del marito, brancolando, come per un aiuto e un appoggio.

Cosa ti senti, cara, - le chiedeva Gèsu baciandola sulle guance - ti senti tanto male?

La donna si lagnava con un lamentìo sommesso, come una ubriaca, incapace di aprire gli occhi.

Gèsu si sentiva esasperare fino al delirio. Sua moglie lo aveva guarito, ma forse il terribile male era passato in lei. Il germe putrido  dell’amore  randagio,  il  veleno  del  peccato,  il  polline  corrotto  del fiore velenoso, il fermento mortale emigrato  dalle  grandi  città  tentacolari,  generato  nei  lupanari,  sulle cale dei porti, nell’atmosfera estuosa delle vie babiloniche; il  polline  corrotto  si  era  posato  sulla  carne fresca e inconsapevole della giovinetta sposa, e la corrompeva.

«Perdono, perdono...! diceva Gèsu entro di sé smarrito, disperato, «perdono, mia  povera  piccola moglie, io ti ho avvelenata, io ti ho uccisa! Il morbo misterioso e terribile è passato in te, la tua fresca carne cadrà putrefatta, io ti ho avvelenata! Perdono, perdono!».

Gli balenavano in mente i progetti più tristi  e  disordinati;  avrebbe  voluto  punirsi  con  le  sue mani, torturarsi freddamente,  come  un  giudice  spietato  che  eseguisce  la  propria  condanna.  Poi  pensava di fuggire lontano, come un pazzo, col sacco in ispalla e il bastone in mano, errando di porta in porta, di paese in  paese: come  quei miseri che  non hanno né  casa né affetti  né nome  né giaciglio, e  mangiano tozzi di pane accattati, rimasugli di cucina; e dormono sui cigli dei fossi, sul sagrato delle chiese, sotto i portici  dei  vecchi  conventi  abbandonati;  e  muoiono in  un angolo, entro la  striscia d’ombra gittata da un muro  solitario,  mentre  una  lucertola  li  guarda  coi  piccoli  occhi  misteriosi,  nei  quali  è  la  suprema indifferenza della Natura madre.

Non osava chiamare il medico per paura di sentirsi confermare  il  dubbio  angoscioso,  e  intanto tentava con un lavorìo della mente, senza posa, di farsi un’idea  di  che  cosa  fosse  quella  terribile malattia che non aveva forme precise, definite,  appariscenti,  e  logorava  la  vita  e  avvelenava  il  sangue come una maledizione dell’Altissimo. Ricordava di  avere  sentito  qualche  volta  parlare  dei  terribili effetti di certe malattie che facevano marcire le  membra,  sconvolgevano  la  ragione,  annebbiavano  gli occhi, aprivano delle  grandi  piaghe  fetide,  che  non  guarivano  mai.  Il  pensiero  che  quel  male  proveniva da un contatto impuro, dalla funzione  del  peccato  originario,  dava  agli  effetti  di  quello  una significazione mistica, di castigo supremo, irreparabile, che lo sgomentava.

Intanto giugno passò e giunse luglio più torrido e desolato del consueto. Da un paio di mesi non si vedeva più una nuvola in cielo. All’alba o al tramonto certe striature di  nuvole  rosse  dileguavano incenerite nelle fornaci del crepuscolo. I fichi  maturavano  e  bisognava  curarli.  I  Varvaro  avevano  una vigna con ficaie, e ai primi del mese vi si trasferirono con Gèsu e Mariuzza.

Era  opinione  della  zia  Caterina  che  l’aria  della  campagna  avrebbe  giovato  alla  giovane,  che

maturava  dolorosamente  il  suo  frutto.  Per  Caterina  non  vi  era  dubbio,  la  ragazza  era  madre,  e  tutte quelle bizzarrie della salute turbata, non erano che effetti di quel suo particolare stato di grazia.

La campagna dove si erano trasferiti guardava il mare ed era bella, nonostante tutto fosse brullo

e risecchito. La vigna prometteva bene e già i grappoli invaiolavano.

Nei primi giorni Mariuzza sembrò godere di una certa tregua nel  suo  male.  La  testa  le  doleva ancora,  di  quando  in  quando,  ma  meno  violentemente:  quel  che  la  preoccupava  era  una   grande debolezza agli occhi. Quelle terribili emicranie le  avevano  lasciata  la  vista  annebbiata;  essa  vedeva tutto come sotto un  velo,  come  se  avesse  avuto  davanti  agli  occhi  uno  di  quei  finissimi  stacci  di  seta, coi quali si cerne la farina.

E un’altra cosa le metteva  addosso  delle  inquietudini.  Sulle  braccia  e  sul  petto  le  scoppiavano qua e là dei piccoli sfoghi, dei focolai di foruncoli pallidi, duri, quasi indolori  che  scomparivano lasciando sulla pelle una chiazza bianca, un poco simile a  quella  di  una  scottatura.  Una  grossa  empe- tiggine le aveva invaso il collo sotto l’orecchio sinistro,  con  un  senso  di  prurito  fastidioso.  Caterina  le aveva ordinato  di  bagnarla  con  la  saliva  al  mattino  mentre  era  digiuna,  perché  la  saliva  era  miracolosa in quei casi.

Poi ritornarono più violente che mai le emicranie.

Varvaro consigliò l’applicazione di due mignatte alle tempie, ma l’applicazione produsse effetti disastrosi. La vista di Mariuzza si indebolì talmente, che non si potè fare a meno di ricorrere al medico.

Verso gli ultimi  di  luglio  Gèsu  caricò  Mariuzza  sull’asina,  perché  essa  non  era  già  più  in  grado di far la sua via, e si recò a Bovalino Marina dove era da poco arrivato  da  Roma,  per  i  bagni,  il professore La Cava.

Prese con sé due galletti e un panierino di frutta, perché dal medico e dall’avvocato in Calabria non si va mai con le mani vuote.

Il dottore, un uomo sui  quarantacinque  anni,  affabilissimo,  bruno,  tutto  sbarbato,  con  un  naso fine e  delle  piccole  mani  quasi  femminee,  li  introdusse  in  una  specie  di  gabinetto,  ai  piedi  di  una  scala di cemento con ringhiera.

Sono venuto da voi, - disse Gèsu, col viso pallido come quello di un colpevole, - perché mia moglie sta per perdere la vista.

Siedi - ordinò il medico a Mariuzza senza badare a quel che diceva suo marito; e dopo averle arrovesciate   le   palpebre   ed   esaminati   gli   occhi,   diede   uno   sguardo   severo   alla   empitiggine   sotto





l’orecchio e a uno di quei piccoli foruncoli pallidi, che  la  donna  aveva  sopra  il  collo,  quasi  entro  i capelli. Lo palpò, poi le passò le dita sotto le mascelle e  diede  una  occhiata  terribile  a  Gèsu,  senza proferire una sillaba.

Che   sia   la   gravidanza,   signor   dottore?   -   disse  Mariuzza,  con  la  voce  fievole  e  quasi vergognosa.

Dio non voglia - rispose il medico, e continuò nel suo esame.

Perché, signor dottore? - chiese smarrita la donna.

Una grande speranza dileguava, la dolce  speranza  che  quei  dolori  fossero  dovuti  alla preparazione di un essere nuovo, di un figlio delle sue viscere.  Quell’idea  fino  allora  l’aveva  fatta soffrire rassegnata e quasi contenta. Senza di essa il male sarebbe stato più atroce e insopportabile.

Il  medico  la  invitò  a  spogliarsi.  La  povera  ragazza  piangeva  per  la  vergogna,  perché  non  si  era mai sognata di farsi vedere ignuda da un uomo che non fosse suo marito.

Il  medico,  accigliato,  la  redarguì:  davanti  a  quello  spettacolo  miserando  di  una  carne  giovane

invasa dal terribile male, aveva perduta anche lui la sua bella calma socratica.

Il  ventre  e  il  petto  erano  in  parte  chiazzati  da  focolai  di  piccole  ulcere  e  di  macchie  color  del

vino.

Il medico la contemplò un istante, poi le ordinò di vestirsi.

Tu sei stato in America? - domandò il dottore a Gèsu.

Sì, signor dottore...

Da quanto tempo ti sei sposato?

Dal mese di aprile...

Sei stato malato mai in America?

Qualche tempo un anno fa. Poi mi rimisi completamente.

Non hai fatta nessuna cura?

No, signor dottore; adesso sto bene.

Già!  -  fece il dottore, con un sorriso ironico, - stai bene tu e tua moglie. Quando avrò finite le

visite passa da me, nel mio studio, ti darò la ricetta per la malata. - E li mise fuori dal gabinetto.

Qualche ora dopo, quando Gèsu usciva dallo studio del dottore aveva  la  faccia  cadaverica. Andava avanti come un ubriaco, avvilito, disfatto, senza il  coraggio  di  alzare  neppure  gli  occhi dal suolo. Il  medico  lo  aveva  investito  con  rimproveri  atroci,  facendogli  un  quadro  terribile  delle condizioni sue e di sua moglie, specialmente di quest’ultima in cui il male aveva preso  delle  forme galoppanti.

Gli  aveva  ordinato  per  lui  e  per  lei  delle  gocce  e  delle  iniezioni  da  fare  con  la  maggiore

sollecitudine   e   con   continuità.   Verso   mezzogiorno   Mariuzza   fu   rimessa   a   cavallo   dal   marito,   e ritornarono al podere.

Nella solitudine quasi tragica della  campagna  non  si  udiva  un  rumore  umano.  Il  sole  dal  centro del cielo folgorava la terra, dalla quale vaporava  un  respiro  tremolante  come  quello  delle  fornaci.  Le cicale cantavano a migliaia da ogni stelo, da ogni  siepe,  da  ogni  albero,  con  un  coro  immenso  che finiva col non avvertirsi più, come non si avverte il rombo nelle officine, quando gli orecchi vi si sono assuefatti. Mariuzza con le trecce sciolte sulle spalle,  un  fazzoletto  giallo  sulla  testa,  la  bocca  arsa,  gli occhi oppressi dal riverbero della luce diffusa, tentava fare qualche domanda al marito, ma erano poche sillabe; l’angoscia interna e la calma le spegnevano le parole in bocca.

La  vecchia  asina  soffiando  rumorosamente  nelle  froge,  ogni  tanto  s’indugiava  a  mordere  un

fiore di cardo, e intanto si strusciava accosto alle siepi, in cerca di un angolo anche fugace di ombra. I suoi passi cadevano nel silenzio come sassi in un greto risecco; delle serpi che dormivano sotto le siepi o  si  crogiolavano  al  sole  sui  grossi  macigni  della  via,  levavano  la  testa  e  attraversavano  col  loro  sibilo lungo e insidioso la strada, dileguando nei cespugli.

Mariuzza era oppressa. La certezza che non era incinta l’aveva piombata in uno sconforto triste e rassegnato. Era malata, dunque, di una misteriosa malattia, la malattia che suo marito aveva portata dall’America, il morbo della straniera perversa, randagia come la lupa. E perché il Signore  l’aveva  così castigata, lei e il suo povero marito? Perché essa non riusciva a concepire  neppure  un’ombra  di animosità verso il suo uomo, cui si attaccava disperatamente nonostante tutto.  E  vedendolo  procedere accanto all’asina, curvo come un vecchio, col volto tutto rigato  di  sudore,  gli  occhi  spauriti,  dei  quali appena scorgeva debolmente  il  lume,  un  sentimento  di  irresistibile  pietà  quasi  materna  la  piegava  verso di lui, e dimenticava il suo male, i suoi dolori, per considerare quelli di suo marito  che  soffriva ritenendosi causa di tutta quella tragica infelicità che colpiva la loro vita.

Gèsu, perché non parlate? Cosa vi ha detto il medico?

Ah! Cosa mi ha detto? - faceva Gèsu con un viso stravolto per l’ambascia interna. - Cosa mi ha detto? - e non osava andare avanti.

Oh,  Signore,  non  vi  disperate...  abbiate  fiducia  in  Dio.  Noi  abbiamo  fatto  voto  alla  Madonna

della  Montagna,  io  ho  fiducia  in  lei...  Andremo  da  lei  in  settembre e la pregheremo di farci la grazia. Ma voi non vi torturate così, state tranquillo, per amor mio. Lo farete, Gèsu, ditemi, lo farete?

Gèsu  la  guardava  negli  occhi.  Quei  cari  occhi  che  avevano  il  colore  screziato  della  ghiaia

marina coperta da un velo d’acqua, ora erano annebbiati, sofferenti, senza splendore.

Per non turbarla accennava con la testa di sì, ma avrebbe voluto essere sottoterra.

Cap. XV

E così andarono alla Madonna della Montagna.

La festa ricorreva il  tre settembre, ma  già dopo la metà di agosto le turbe dei devoti passavano, provenienti da ogni angolo della provincia, dirette al Santuario miracoloso, che la pietà  dei  fedeli  aveva costruito, da tempo immemorabile, ai piedi di Aspromonte.

Molti vi andavano prima della festa, come per una specie di quindicina di purificazione;  perché vivevano della  carità  del  Santuario,  bevevano  l’acqua  delle  sorgenti  vive,  pregavano  e  riposavano all’ombra dei noci, in  quella  stupenda  solitudine, sulla quale si apriva il cielo sereno e immutabile come una porta sull’eternità.

Il Santuario, ora elevato ad abbazia,  mercé  la  solerzia  di  monsignor  Mittiga,  allora  non  era  che una chiesa alle dipendenze della diocesi di Gerace,  retta  da  un  priore  e  servita,  per  le  questue,  da  un corpo ristretto di frati secolari, non dipendenti da alcun ordine,  che  giravano  la  provincia,  come  fanno tuttora, cavalcando i loro bei muli gagliardi, e raccogliendo le offerte dei fedeli.

Tutti davano alla Madonna, e la Madonna dava a tutti in occasione della festa. I suoi magazzini erano come fontane pubbliche e tutti vi attingevano i pellegrini. Non vi era aia al  tempo  della trebbiatura sulla quale  il  romito  di  Polsi  dopo  la  spagliatura  non  trovasse  il  suo  quarto  di  tomolo  messo da parte, per la Beata Vergine della Montagna. Dopo Natale i frati passavano per le case, con le loro tonache di orbace, e la placca di rame con l’effige della Madonna  sul  petto,  a  distribuire  dei  piccoli pentolini di terracotta, destinati a  raccogliere dalle grandi caldaie, in  carnevale, lo strutto del maiale che ogni famiglia appena agiata macellava in casa propria per i bisogni dell’anno.

Ne distribuivano due o più, a seconda dell’importanza e della ricchezza della famiglia, e in quaresima ripassavano per riprendere  alcuni  di  quei  pentolini  pieni  di  sugna,  che  serviva  per  i  bisogni del  convento,  e  per  sovvenire  i  pellegrini  all’epoca  della  festa.  Quei  frati  lasciavano,  nei  paesi  percorsi e praticati durante la questua, numerose amicizie, specialmente presso i contadini, ai  quali  distribuivano tabacco, ricevendone in cambio mangiare, frutta saporita e calda ospitalità. Di modo che quando  i pellegrini si recavano al Santuario per la novena, o per la festa, cercavano del frate conosciuto, ed erano con la più affettuosa e premurosa cordialità sovvenuti di tutto.

Le origini del Santuario non erano molto antiche, ma di un  rifugio  di  anacoreti  nella  valle solitaria parlavano le leggende più vetuste e più popolari.

Secondo quanto è scritto nell’aurea storia dei Reali di Francia,  ad  Aspromonte,  in  quella valle remota, ombrosa di magnifici noci centenari, si era venuto a stabilire  un  Papa  Silvestro,  profugo davanti all’ira e alle persecuzioni dell’ancora pagano imperatore  Costantino,  che  voleva  distrutta  la nostra Santa Fede.

L’Imperatore era affetto dalla lebbra e andava consultando i medici pagani  intorno  al  modo  di liberarsi dalla malattia terribile, ma nessuno sapeva  indicargli  il  rimedio.  Ed  ecco  che  i  Santi  Apostoli Pietro e Paolo gli appaiono in sogno per tre volte  e  gli  dicono:  «Solo  un’acqua  potrà  mondare  la  tua lebbra, ed essa è custodita da Papa Silvestro  in  Aspromonte».  Era  l’acqua  del  battesimo,  l’acqua  della Sacra Purificazione che aveva scelto un angolo della montagna benedetta per suo rifugio.

Secondo un’altra leggenda popolare, presso certi santi romiti in Aspromonte trovò alloggio  e consiglio Guerino il Meschino nelle sue eroiche peregrinazioni,  prima  di  recarsi  nei  paesi  del  Prete Janni, alla ricerca degli alberi del sole e della luna.

E  tutte  queste  leggende  remote  ed  eroiche  conferivano  al  Santuario  un’aureola  di  venerabilità  e

di santità.

La sua  fama taumaturgica  era sparsa  per tutta  la provincia  e oltre.  La stessa  sua ubicazione  in mezzo ai monti, tra le nevi, quasi più vicino al cielo, agli elementi e alle forze originarie, agiva potentemente sull’anima mistica e fantastica del popolo, e contribuiva a  rinsaldare  la  fede  nelle  mirabili dicerie di miracoli che annualmente la Madonna concedeva ai fedeli a lei ricorrenti. I  racconti  dei pellegrini reduci erano pieni di persuasione e di candore. Ogni anno erano otto o  dieci  che  erano beneficati dal miracolo; ciechi che riacquistavano la  vista,  muti  che  parlavano,  storpi  che  riprendevano l’uso delle membra, malati di  morbi  misteriosi  e  incurabili,  che  ritornavano  sani  e  gagliardi  cantando  le lodi della Vergine.

Tutti i pellegrini che vi avevano assistito, avevano visto coi loro occhi,  udito  con  le  loro orecchie le parole  dei  muti  risanati,  avevano  sorretti  gli  storpi,  confortati  i  malati;  e  di  tutti descrivevano le forme fisiche,  conoscevano  il paese,  i parenti e  i casi che  li avevano condotti  alla loro infelicità e quindi alla grazia.

Quelli che non avevano realmente assistito alle guarigioni  miracolose  lo  affermavano  con  la stessa fede e con lo stesso candore di coloro che  vi avevano presenziato, sicuri e imperturbabili, come davanti a una verità di fede.

Anche i Varvaro e i Blèfari andarono dalla Madonna per ottenere la grazia.

Verso la fine d’agosto Mariuzza era diventata completamente cieca. Un velo tenace di color grigiastro, una specie di patina mucosa aveva coperte le iridi screziate dei suoi occhi dolcissimi.

I Varvaro non si davano pace. Bruno era invecchiato di dieci anni, e Caterina, sempre così vispa e sorridente, sempre in moto come una cutrettola, ora non  si  riconosceva  più.  Tutto  il  santo  giorno attorno a quella poveretta, che non era più capace di fare un passo se non era guidata per mano. La mettevano a sedere sotto un albero e la mutavano di posto a seconda che girava il sole.

Gèsu come un colpevole che  vada  in  cerca  di  una  espiazione,  si  isolava.  Andava  sempre  via, con la scusa di far legna, di intrecciar corde, o di raccogliere felci per coprire la vigna. Si cacciava tra i burroni, nei luoghi  più  solinghi,  dove  nidificavano  le  pernici,  tra  i  lentischi  e  i ciuffi di ginerio, e lì con gli occhi foschi, il cuore pesante, la volontà  affievolita  meditava,  parlava  solo,  come  i  pazzi,  e  qualche volta, per dar sfogo all’angoscia interna, cantava.

Cantava le lamentazioni di Geremia, con un prolungamento lugubre delle note, in una trenodia chiesastica che gli rompeva il cuore.

Rocco, che aveva i suoi fichi a Bony da curare,  ogni  tanto  giungeva  trafelato,  col  suo  solito cestino di frutta, e suggeriva ogni giorno un  rimedio  nuovo,  una  nuova  consultazione  presso  questo  o quello esperto della contrada. Perché nei medici non avevano fiducia. Certi morbi complicati non li comprendevano e quindi non li ammettevano. Del resto nessuno aveva rivelato loro il vero responso del dottore, perché Gèsu non aveva  che  accennato  vagamente  ai  rimedii,  e  Mariuzza  non  voleva  sentirsi dire in modo assoluto che la causa del suo male fosse suo marito.

Il suo amore era così cieco ed eroico  che  essa  assumeva  un  atteggiamento  aggressivo  anche verso Gèsu, quando questi, nell’intimità, accusava se stesso e le chiedeva perdono.

Se tu mi vuoi bene non devi dirmi mai più quello, - diceva la giovane abbracciandolo stretto al collo - tu non c’entri. Il Signore mi ha castigata, il Signore mi guarirà. Non abbiamo noi fatto voto alla Madonna di Polsi di andarla a trovare quest’anno? Ci andremo: ecco la  sua  festa  che  viene.  Mettimi addosso tutto l’oro dello sposalizio e conducimi da lei. Vedrai se non  mi  farà  la  grazia,  vedrai... vedrai...

La festa ricorreva il giorno tre di settembre, ma i Blèfari avevano disposto di partire la mezzanotte del primo, per fare il viaggio al fresco, e trovarsi a Polsi nel giorno della vigilia.

Il cammino era lungo, circa dieci ore, attraverso  greti  di  fiumi  e  sentieri  montani,  e  le  giornate erano ancora torride. Bisognava arrivare ai piedi dei monti almeno nelle  prime  ore  del  mattino, Mariuzza sarebbe andata a cavallo sulla vecchia asina di Rocco, la quale, sebbene avesse quasi diciotto anni, era ancor piena di ardire come il suo padrone.

Sull’imbrunire del primo settembre Rocco giunse al podere dei Varvaro accompagnato.

Improvvisamente erano arrivati una diecina di emigranti dall’America,  e  fra  essi  era  tornato anche il figlio, Pietro.

Tutto   vestito   di   cheviot  blu   con   catena  d’oro,   cappello,   scarpe   gialle   e   una   cravatta   da

seminarista che sembrava ricavata da una pianeta di chiesa, non sembrava più lui. La sua lunga faccia cavallina, abbronzata e leggermente  ingrassata,  aveva  presa  quella  espressione  franca  e  disinvolta dell’uomo che ha imparato a dirigere la propria vita, e a guardare in faccia al mondo.

I Varvaro lo abbracciarono commossi;  Gèsu  nel  vederlo  pianse  come  un  fanciullo,  e  lo accompagnò per mano da sua moglie. Mariuzza era  seduta  sopra  un  grosso  ceppo  di  legno,  sotto  un albero di melograno, davanti alla casa. Dai rami pendevano sulla sua testa gli enormi pomi dalla buccia cuoiosa, verdognola, fortemente colorata di rosso nella parte esposta al sole. Alcuno di quei frutti fesso verticalmente, mostrava dei chicchi lucenti, arrubinati, in parte corrosi dalle vespe e dai calabroni.

Il sole era calato e tutto l’orizzonte, all’occaso, era una plaga d’oro.

La povera cieca quando seppe che era  ritornato  suo  cognato  dall’America,  ebbe  uno  scoppio  di gioia, che si mutò subito in lacrime.

Oh Pietro, Pietro! Dove siete?... - e lo cercava con le  mani  ansiose.  -  Guardate come sono ridotta; non vi posso neppure vedere, povera me. E voi come state?

Oh! che mi manca? - disse Pietro commosso, baciando la  cognata  sulle  guance  come  una sorella. - E come mai è avvenuto questo? Cosa dice il medico?

Cosa volete che sappia il medico, - fece Mariuzza, quasi per impedire che altri rispondesse su quell’argomento delicato  - il vero medico è la Madonna. Non venite con noi alla Madonna, Pietro? Non venite?

Sono tornato apposta dall’America, - rispose Pietro - ho anch’io un voto per la Madonna.

Oh come sono contenta, - esclamò Mariuzza  -  come  sono contenta!  Voi portate buon  augurio, Pietro, e vedrete che la Madonna mi farà la grazia.

Il giovane la guardava con una grande tenerezza, e aggrottava le ciglia per scacciare l’emozione

che lo assaliva a ogni istante.

A mezzanotte partirono.

Legarono  in  mezzo  al  basto  una  mannella  di  fieno,  vi  posero  sopra  un  cuscino  e  vi  misero  a sedere Mariuzza. La povera cieca aveva addosso gli abiti e tutto l’oro nuziale.

La via per un tratto correva lungo il greto  di  un  torrente,  tutto  ombrato  da  grandi  querce,  e sparso di grossi macigni. L’asina incespicava a ogni passo battendo sordamente gli zoccoli sui  sassi,  e Mariuzza sballottata rischiava di cadere; perciò Gèsu e Pietro le si misero ai fianchi per sorreggerla.

Camminavano    tutti    silenziosi,    preoccupati.    L’ombra    di    quelle    querce    pesava    sulla    piccola

comitiva come un velo funebre. Dalle siepi vicine, a tratti,  venivano  dei  brusii  di  frasche,  dei  piccoli crepitii come di foglie e di elitre percosse,  dei  ronzii  d’insetti,  lunghi,  tremuli.  Da  sui  rami  neri,  tesi  sul greto, scendeva il sibilo caratteristico dei ghiri e lo strisciare della  loro  corsa  sulla  superficie  scabra  dei tronchi.

Dopo   una   mezz’ora   di   quella   strada   malinconica   uscirono   all’aperto.   Il   greto   del   torrente

sboccava in quello più vasto e aperto del fiume. Alzarono gli occhi al cielo e fu come se il loro cuore si spalancasse.

La notte era mirifica: una di quelle notti d’estate meridionali, che hanno del fantastico e dello spettacoloso. Il cielo era talmente tempestato di  stelle  minute,  innumerevoli,  brulicanti,  che  dava l’impressione di una remota  nevicata  sopra  uno  sfondo  di  cielo  limpido,  arrestata  nell’alto  dei  cieli  da un gesto divino. Le costellazioni note  non  si  distinguevano  più  in  quell’immenso  formicolìo  di  astri,  e tutto il cielo sembrava trasformato in una  gigantesca  Galassia,  da  un  capo  all’altro  dell’orizzonte, in un greto coperto di polvere di diamanti. Tanto era il chiarore che scendeva dall’alto che ci si vedeva come sotto la luna. E mentre il cielo in quel formicolìo di astri pareva abbassarsi verso la  terra  come  un gigantesco  padiglione  trapunto,  la  terra  sembrava  appiattirsi  e  distendersi;  i  poggi,  le  foreste,  le montagne violette, perdevano  quasi  la  loro  materialità,   i   loro   contorni   si   ammorbidivano   come   le pieghe di un velluto soffice, e tutta la vallata assumeva l’aspetto di una  tazza  ciclopica  il  cui  orlo irregolare e corroso fosse il profilo dei monti, e il fondo di quel greto; una tazza elevata da una mano mistica verso il cielo, come una offerta al Signore delle albe e dei tramonti, delle tempeste e delle notti stellate.

L’aria era piena di un tenue clamore lontano, indistinto come  un’eco di voci marine e di acque correnti. Sui poggi, verso Natile e San  Luca,  lungo  la  strada  che  conduceva  al  Santuario  si  scorgevano delle fiaccole accese. A tratti quel vasto silenzio  sonoro  veniva  rotto  da  scoppii  lontani  di  armi  da fuoco, a cui seguivano dei clamori umani, velati dalle distanze: «Viva Maria!».

Erano i pellegrini che scaricavano in aria  i  fucili,  secondo  l’uso,  in  segno  di  gioia  e  in  onore della Vergine.

Altri pellegrini cantavano.

Nella notte le leggende del Santuario, le rapsodie composte dal  popolo  intorno  ai  miracoli  più famosi erano modulate con una cantilena dal ritmo largo, chiesastico, con un canto  che  attingeva  nel profondo del cuore.

Una canzone celebrava il primo miracolo, la rivelazione della Madonna di Polsi.

Un contadino, arando un giorno le pendici della valle benedetta, si accorse che a un certo punto l’aratro non avanzava più dentro la terra. Credette  che  il  vomero  si  fosse  impigliato in qualche robusta radice, e tentò di estirparlo. Non vi riuscì. Incitò i buoi con la voce e col pungolo, e quelli caddero in ginocchio, in atto d’adorazione.

Il contadino spaurito e compreso da terrore mistico, sciolse i buoi dall’aratro, e si mise a scavare intorno al vomere. Esso toccava una statua della Vergine che da tempo immemorabile, attraverso chi sa quali cataclismi, era rimasta sepolta nel terreno.

In quel luogo era stato eretto il tempio miracoloso.

I canti lontani delle turbe, gli spari, i  fuochi  delle  fiaccole  e  quello  spettacolo  mirabile  della notte, confortarono il cuore dei nostri pellegrini.

Cominciarono a ragionare del Santuario di Polsi e di altri della provincia.

Di tante Madonne che vi sono nelle diverse chiese,  -  domandava  Caterina  -  qual  è  la  vera Madre di Dio? Abbiamo la Madonna nostra, quella di Pandore, poi abbiamo la Madonna  Nera  di Seminara, quella di Polsi e quella di Pugliano. Quale è la vera Madre di Gesù?

La nostra è la più vecchia - rispondeva Rocco - ed è la vera Madre di Nostro Signore. Quella di Polsi e quella di Seminara sono sorelle, e la più giovane delle sorelle è la Madonna Immacolata.

E quella di Pugliano?

Credo sia anche quella un’altra sorella, ma non sono sicuro.

La più miracolosa però è quella di Polsi.

E qui a gara narravano i miracoli straordinari compiuti dalla Vergine della Montagna.

Un tale di Oppido Mamertina era venuto al Santuario portato  a  braccia  dai  parenti:  per  una caduta da un albero aveva perduto  completamente  l’uso  delle  gambe.  La  Madonna  lo  aveva  guarito. Una donna aveva un cancro nelle viscere, glielo avevano detto i medici d’ogni paese. La Vergine della Montagna l’aveva guarita, e dopo qualche mese aveva avuto un bellissimo bambino. Un tale di Caraffa che aveva gli occhi secchi aveva riacquistata la vista.

O Vergine Santa! - diceva Mariuzza levando le mani verso il punto dove pensava  fosse  il Santuario - voi mi farete la grazia!... Voi me la farete.

Sì, che te la farà, povera figlia! - diceva Caterina - io ho fatto voto di stare a pane e acqua per tutti i sabati che mi rimangono di vita, e il mio mangiare in quei giorni lo darò ai poveri.

Gèsu non parlava; cupo e accasciato seguitava la via accanto all’asina. Tenendo  una  mano attaccata alle sottane della moglie, aveva  l’impressione  che  le  gambe  gli  fossero  diventate  di  sughero. Non avvertiva più le piante dei piedi, il senso del tatto pareva da esse svanito, tanto che spesso perde va l’equilibrio, e si aggrappava al basto per non cadere.

Verso le due giunsero sui piani di Flavia, davanti San Luca.

Sul pendìo ripido e roccioso dove il  borgo  era  appollaiato,  si  scorgevano  errare  delle  luci;  dei lumi accesi occhieggiavano attraverso  finestre  aperte,  e  nel  buio  si  levavano  delle  voci  umane  lunghe, un po’ lugubri, come richiami di animali selvatici. Veniva anche il suono di qualche zampogna.

Lasciarono a destra l’abitato, ed entrarono in un vasto orto, accosto al greto  del  torrente Bonamico. Dei canali d’acqua gorgogliavano tra margini ombrosi, sulle prode  dei  campi  piantati  a ortaggi e granturco. Passarono davanti  a  un  vasto  caseggiato,  dal  quale  giungeva  lo scroscio sonoro di una caduta d’acqua che azionava una segheria meccanica, per il taglio delle radici di eriche. Col rumore dell’acqua veniva lo stridere e lo sgretolìo metallico delle seghe che suonavano contro  il  legno  come campane.

A qualche passo dal fabbricato una piccola carovana composta di tre persone, due uomini e una donna che portava in mano una fiaccola di legno di pino, udendo rumore di  passi,  si  fermò  ad attenderli. L’odore sano della resina veniva con l’aria della montagna che si  cominciava  già  ad avvertire.

Venite,  venite,  paesani,  -  fece  la  donna  con  una  voce  sonora  e  melodiosa,  e  alzò  la  fiaccola

crepitante per vedere i sopravvenienti nella luce.

Era una giovane bellissima, snella e forte come una cavallina araba, col viso ovale, e un profilo ardito che sembrava lucente nel riflesso della fiamma. Aveva la parlata energica, a scatti e a inflessioni musicali,  caratteristica  di  quel  paese.  I  due  uomini,  d’una  complessione   svelta   e   gagliarda,   erano giovani anch’essi: completamente sbarbati e con una frangia di riccioli  bruni  sulla  fronte,  portavano calzoni d’orbace, corti fino al  ginocchio,  cinture  altissime  di  cuoio,  che  coprivano  loro  tutto  l’addome fino al petto, e un panciotto di panno turchino, aperto sul davanti completamente.

Salute - disse Rocco portandosi una mano alla fronte.

Salute e bene - risposero i tre pellegrini. - D’onde venite?

Veniamo da Pandore; abbiamo una malata che conduciamo alla Beata Vergine perché le faccia la grazia.

Tutti tre i Sanluchesi si avvicinarono, guardarono con una certa curiosità la giovane sposa, splendente di ori nuziali, e cercarono sulla sua faccia pallida e soave i segni del male che la teneva.

Che cos’ha? - domandò la donna  avvicinandosi  ancora  con  la  fiaccola  alzata.  -  Cos’avete, bella giovane?

Ha perduto la vista, -  disse la Caterina, prendendo affettuosamente tra le sue una mano della pietosa, - ha perduta la vista appena sei mesi dopo il matrimonio! È mia nipote, e quello è suo marito.

La donna di San Luca  s’intenerì  e  cominciò a compiangerla con la sua bella voce musicale un po’ velata, in  un  linguaggio  pittoresco,  immaginoso,  tutto  a  volate  liriche  come  un  canto.  Procedettero in gruppo.

Si entrava ora nella grande vallata di Polsi, e si iniziava  la  salita,  attraverso  il greto  ampio  e desolato del fiume. Qua e là, ai margini della pietraia, tra ciuffi scarsi di  marinelle  e  di  oleandri,  si vedevano dei residui di fuochi spenti. In un angolo  un  mulo,  a  dorso  nudo,  rosicchiava  entro  un  muc- chietto di fieno: accanto, con le spalle appoggiate al basto, una pipa in bocca e i piedi protesi tra grossi ciottoloni, russava un uomo dalla faccia rossa, quasi congestionata, vestito di velluto, alla cacciatora.

Le carovane  dei  pellegrini  cantavano  nella  valle  o  su  per  la  salita,  tutta  occhieggiante di fuochi, e le loro canzoni e gli spari, tra le grandi pareti arboree, avevano una vasta risonanza e si propagavano, attraverso gli echi della montagna, con un muggito lungo di valanghe. L’aria era acuta, con un profumo particolare, energico e vivificante;  anche  le  voci,  i  rumori,  il  respiro  degli  alberi  avevano  qualche  cosa di vasto e di sonoro.

La via ora saliva, a destra del torrente, tra una selvetta di ilici e di eriche, tutta sparsa di pietroni confitti  nel  suolo.  Sotto,  l’acqua  scrosciava  tra  grossi  macigni.   Qualche   uccello   notturno   squittiva fugato dagli spari lontani e dalle luci delle fiaccole. Il cielo stellato brulicava in alto, come un immenso spettacoloso alveare dalle pecchie d’oro. La salita fu un po’ lunga e penosa.

Dopo un paio d’ore giunsero sopra una spianata, in mezzo alla quale era un’aia vastissima, tutta circondata da alberi di castagno. Una cinquantina di pellegrini, uomini e donne,  vi  si  erano  fermati  per attendere l’alba. Il cammino dopo quell’aia era disagevole e pericoloso.

I  pellegrini  si  erano  seduti  sulle  dune  di  paglia  rimaste  ai  margini  e,  divisi  in  gruppi,  a  seconda

dei paesi di provenienza, cantavano.

Fermiamoci anche noi, - disse la donna sanluchese che aveva esaurita la provvista di schegge di pino - attendiamo il giorno. - Si sedettero in un angolo dell’aia.

Il  cielo  perdeva  a  poco  a  poco  il  suo  polverìo  d’astri  minuti,  e  il  chiarore  latteo  della  notte prendeva  ora  lentamente  una  trasparenza  cristallina.  A  oriente,  sopra  il  mare  che  si  scorgeva  lontano come un tendone scuro, una striscia di color rosso fosco, simile allo spiraglio di una fucina, divideva la linea  dell’acqua  da  un  nebbione  di  vapori  grigi,  ferrugigni,  che  confondevano  il  loro  colore  con  quello spiraglio di fuoco, come un faro sopra una riva lontana.

Un gruppo di donne accanto ai Blèfari cantavano in coro:

E lu prìncipi di Ruccella avia fattu nu bellu gutu.

Era  la  rapsodia  di  un  portentoso  miracolo  operato  dalla  Madonna  di  Polsi,  agl’inizî  del Santuario.

Il  principe  di  Roccella  Ionica,  della  famiglia  Carafa  di  Napoli,  trovandosi  senza  eredi,  aveva

fatto voto alla Vergine della Montagna: gli mandasse ella dal  cielo  un  erede,  e  dopo  un  anno  dalla nascita  del  principino,  egli  lo  avrebbe  portato  personalmente  alla  Madonna,  e  avrebbe  offerto   al Santuario tanto oro quanto pesava il bambino.

Mi si manda nu bellu figghiolu: a capu all’anno si lu pisa d’oru.

La Madonna esaudì il principe, e proprio nell’epoca della sua festa la principessa diede alla luce un bellissimo erede.

Le donne cantavano raccolte in gruppo, bocca contro bocca, alzando la testa come gli uccelli nel garrito,  e  sollevando  il  petto  gagliardo.  La  melodia  religiosa  larga,  perfettamente  intonata,   pareva emanare dalla montagna, derivare dalle fronde, immedesimarsi con la voce dei boschi.

Cantiamo anche noi - disse la Sanluchese a Mariuzza, e attaccò con  una  voce  limpida, spiegata, come lo squillo di una  campana  d’argento.  Tutti  si  voltarono  a  guardare.  Anche  Mariuzza  si mise a cantare, con il cuore gonfio di speranza.

Quandu arrivaru a Bovalinu si moriu lu piccolinu.

Narrava ancora la  canzone.  Il  principe,  al  volgere  dell’anno,  in  adempimento  del  voto,  portava in gran pompa il suo erede alla Vergine, ma a metà della via, a Bovalino, il bambino moriva. Che fare? Portare il  morticino  alla  Madonna?  Il  principe,  leale  come  un  cavaliere  antico,  portò  il  piccolo cadavere al Santuario, diede il peso d’oro  promesso  e  poscia, posto il bimbo sull’altare, in una piccola bara, volle fosse cantata una litania alla Madonna per la grazia ricevuta. Ed ecco, portento inaudito!,

Mentre cantavano la litania lu picculinu chiamava Maria.

Si era fatto giorno, un giorno luminoso e miracoloso! Tutta l’acqua e le  nuvole  lontane  erano diventate un oceano d’oro fuso e  di  fiamma.  I  castagni  intorno  all’aia, i cespugli, la  paglia delle dune, fino i visi e  i vestiti erano  tinti dai riflessi mirabili  dell’alba. Le cime  intorno diventavano di  porpora, in un cielo di un indaco intenso. Un miracolo di luce era nell’aria.

I  pellegrini  si  alzarono  ilari,  ripresero  i  loro  fagotti  e  continuarono  il  viaggio  cantando  e scaricando in aria i fucili.

Tutta la  valle  ora  risuonava  di  gridi,  di  canti,  di  scoppii.  I  fedeli  s’incalzavano;  su  per  il  pendìo le  carovane  avanzavano  lente,  altre  sopraggiungevano  incessantemente,  e  dal  fondo  del  corridoio montano giungeva, col clamore dell’acqua, un sordo clamore umano.

Verso le dieci furono in vista del Santuario.

Sotto il cocuzzolo brullo di Aspromonte, in mezzo a una selva di  noci,  si  levava  la  chiesa modesta, in mattoni, di architettura comune, con accanto la mole più vasta del convento. Intorno, un mareggiare di folla in un polverone denso e un confuso stridere di suoni d’ogni genere.

Ecco la chiesa, - disse Caterina segnandosi.

O Santa Vergine! - esclamò Mariuzza congiungendo le mani. Tutti si levarono i berretti e si segnarono.

Per  arrivare  al  Santuario  bisognava  fare  un  sentierolo  in  discesa,  ripidissimo.  L’asina  si  era

fermata  con  un  respiro  profondo,  come  se  avesse  capito  che  per  quella  via  non  le  era  più consentito proseguire col suo carico.

Qui non potrai più andare a cavallo - fece Bruno alla nipote.

Io scendo, - disse Mariuzza - ché ho le gambe tutte indolenzite... Qualcuno mi dia la mano. - E cercò quella di suo marito. Ma neppure per mano era prudente farla scendere. Rocco e i  figli  si guardarono perplessi.

Come facciamo?... - chiese Rocco.

Come facciamo?... - fece Pietro - ...ecco come facciamo! - Si levò la giacca rapidamente, e, chinatosi, afferrò la cognata all’altezza delle ginocchia e se la portò sul petto.

Afferratevi al mio collo, senza paura! Vi porterò con  una  mano,  perché  pesate  quanto  una treccia di fichi.

Si misero tutti a ridere allegri e cominciarono la discesa.

Da ogni lato della valle calavano numerose  carovane.  Alcune  cantavano,  altre  gittavano  dei gridi brevi e altissimi: «Viva Maria!»,  altre  scaricavano  continuamente  i  loro  fucili  in  aria.  Anche  tra  la folla intorno al Santuario, e nel bosco vicino, gli spari erano incessanti. Di tra le chiome verdi dei noci salivano continuamente nuvolette azzurre, a cui seguiva il fragore  degli  scoppii.  Il  fumo  s’indugiava  un istante tra le cime, elevandosi in piccoli giri, poi rapidamente dileguava nell’aria polverosa.

L’impressione della vasta congerie umana che si  era  andata  radunando  in  quella  valle,  più  che dalla vista, poteva essere data dall’udito,  perché  l’occhio  non  poteva  abbracciare  con  un  colpo  solo tutto lo spettacolo, mentre l’udito ne percepiva il  vasto  mareggiare,  come  quello  di  una  foresta  sotto  il vento.

Dalle radure oltre la chiesa, dagli orti intorno al convento, da sotto il bosco dei noci, dalla china del monte, si levava un fragore di voci, di suoni, di clamori umani, come da  una  tempesta.  Era  un formicolìo allucinante, un fremito diffuso di gente che andava, veniva, turbinava in mille  e  mille  circoli danzanti. Le voci dei  rivenduglioli,  dei bazzarroti,  dei  sorbettai,  dei  venditori  di  calia  si  confondevano coi canti dei pellegrini, i suoni delle  zampogne,  i  nitriti  dei  muli,  lo  scoppio  dei  fucili  che  crepitavano come durante una battaglia. E sopra tutto quel  clamore  molteplice,  discordante,  che  veniva  a  boati, come la vicenda dei flutti, si levava una musica varia di zampogne,  di  fisarmoniche,  di  violini,  di chitarre, di tamburelli baschi.

I luoghi dove si ballava erano migliaia.

La festa di Polsi non ha nulla di quel lugubre scenario di altri Santuari, dove si radunano i morbi e le deformità di tutta una regione, in cerca di grazia e di salute. Questa somiglia più che ad altro, a un immenso baccanale religioso, a una festa dionisiaca, dove si va come a una scampagnata, tra i monti, e si mangia, si prega anche un poco, e con fervore, ma soprattutto si danza. Il ballo è la caratteristica più spiccata della solennità. In ogni angolo  ove  esistono  quattro  metri  quadrati  di  terra  pianeggiante,  sotto ogni  noce,  una  zampogna,  o  una  fisarmonica  fanno  circolo.  Intorno   si   dispongono   dei   pellegrini, uomini e donne, scelgono un maestro di ballo, uno cioè che guidi la danza, - la quale ha le sue leggi e le sue regole  cavalleresche che possono condurre al sangue in un attimo -  e si mettono a danzare con un ritmo  orgiastico,  sventolando  le  mani,  le  braccia,  i  cappelli,  i  fazzoletti  istoriati  con  versi  amorosi, gittando dei gridi gutturali acutissimi, come squittire di bestie selvatiche.

Tutta la valle è un  brulichìo  e  un  trepestìo  sonoro.  A  guardarla  panoramicamente  quella  folla che salta per dei giorni e delle notti intere, sotto il sole cocente, sudata, ansante, con gli occhi infoschiti dall’afa e dalla luce, in mezzo a un polverone spesso e fumoso, dà l’idea di una specie d’ubbriacatura panica, di un popolo preso da un morbo sacro. Vi sono anche i dolori e le deformità umane, ma esse si disperdono nella  vasta  gioia  della  festa,  nell’entusiasmo  di  una  popolazione  pronta  al  sangue  e all’amore, eccitabile,  che  accanto  a  una  inesauribile  capacità  di  sofferenza,  ha  una  capacità  di godimento altrettanto inesauribile.

Per arrivare al Santuario bisognava attraversare il torrente che schiumava tra pietroni enormi.

Sul ponte, fatto di tronchi  di  abete  e  di  terra,  alcuni  minorati  attendevano  al  varco  i  pellegrini che vi affluivano incessantemente, e imploravano la carità.

Un  giovane  robustissimo,  con  una  gran  testa  riccioluta  come  quella  di  una  statua  greca,  la

camicia  aperta  sul  petto  vasto  e  bianco,  quasi  femmineo,  si  muoveva  rapidamente  reggendosi  su  due stampelle, e tendeva la mano ai passeggeri con un grido lugubre e petulante.

Mostrava ignuda fino all’inguine una  coscia  forte  e  muscolosa  che  penzolava  inerte,  sebbene non vi apparisse all’esterno alcuna deformità o malattia.

Per la beata Vergine, la carità a un povero giovane disgraziato, che non può più  guadagnarsi  il

pane.  -  E  correva  avanti,  indietro,  agitando  i  suoi  riccioli,  puntando  le  stampelle  con  la  rapidità  di  un canguro.

Un altro alzava in aria un braccio legnoso, come quello di una mummia, in cui le dita, combuste dal fuoco, non avevano più forma. Un altro che aveva tronche tutte e due le cosce  quasi  vicino all’inguine, si era fatta sui moncherini una specie di rivestitura di cuoio rinforzata di  bullette,  e  si trascinava a sbalzi, con l’andatura di un rospo,  puntando  al  suolo  le  mani  munite  di  due  appoggi  di legno.

I nostri pellegrini distribuirono qualche soldo, ed entrarono nel folto, mentre Rocco si recava  al convento, in cerca di fra’ Tartagna - un frate cercatore che praticava a Pandore - per avere un posticino nella stalla del convento, da far riposare l’asina.

La folla era varia e tumultuante.

Vi erano i rappresentanti  di  quasi  tutta  la  provincia:  i  Sanluchesi vestiti di orbace, agili e aitanti, coi panciotti di panno turchino e i bottoni azzurri  di  acciaio,  i  riccioli  sulla  fronte,  le  cicatrici  delle pustole in mezzo alla guancia; vi erano i pastori  selvaggi  di  Solano,  coi  berretti  di  lana  muniti  di  un fiocco, e le zampitte allacciate con corregge sottili intorno alla  gamba,  come  i  sandali  nelle  antiche statue; le donne di Bagnara con le tradizionali sette sottane a piccole pieghe, strette intorno ai fianchi, e aperte a campana in fondo. Portavano i capelli  spartiti  sulla  fronte,  le  trecce  a  corona,  le  camicette  di colori vivaci; i loro occhi color nocciola lampeggiavano come lame.  Si  diceva  portassero  i  rasoi  nei capelli, e maneggiassero il coltello più arditamente degli uomini.  E  poi  i  mulattieri  di  Platì,  i  pastori  di Natile  sudici,  alti,  dalla  parlata  strascicante;  i  Benestaresi  con  accanto  le  loro  donne  dai  busti fortemente colorati;  le  popolazioni  della  marina,  vestite  di  chiaro,  e  col  volto  di  un  bronzeo  particolare; le Carditane che avevano fama di essere le più abili e resistenti danzatrici della provincia.

Le  adiacenze  del  Santuario  erano  invase  dai  banchi  dei  mercanti  e  dei  rivenduglioli  d’ogni

genere.

Alcuni  vendevano  stoffe,  fazzoletti  dai  colori  vivaci,  altri  le  zagarelle,  piccoli  nastri  di  seta

d’ogni  tinta,  da  legare  sul  braccio  ignudo  come  talismano;  altri  vendevano  medaglie,  brevi,  immagini, scapolari.  Delle  donne  vestite  di  chiaro,  con  grandi  buccole  d’oro  alle  orecchie,  avevano  distesa  entro

una sporta di legno di castagno una tovaglia candida, e sopra avevano versato un mucchio di  ceci abbrustoliti. Nel mucchio affondavano continuamente il  piatto  di  una  piccola  bilancia,  lo  riempivano  di ceci che versavano nuovamente con grida acute: - Calia... Calia... - Altri vendevano sopra banchi improvvisati i  mostaccioli di  Serra  San Bruno,  in  forma di  cuori, di  galli,  di anfore,  di  bambole, guarniti con file di piccoli confetti colorati.

Dei fabbri esponevano sopra una larga tela grigia stesa al suolo i prodotti delle loro forge: scuri, roncole, roncigli, lame per coltelli a manico fisso, vomeri, pale e altri arnesi agresti. I macellai sbraitavano accanto a dei montoni squartati, appesi a un’asse irta di uncini, e cacciavano con un ramo verde le mosche che vi si posavano a nugoli, incessantemente.

A tratti dei gridi alti, quasi minacciosi, si levavano di mezzo la folla: -  Largo...  largo!...  Viva Maria!... - La calca si  apriva  tumultuando:  tra  le  teste  umane  appariva  quella  lunata  di  un  torello  o  di una giovenca con le corna ornate di nastrini rossi:  un  giovane  guidava  la  bestia  tenendola  con  una corda: due o tre altri, gagliardi,  sudati,  ansanti,  la  incitavano  colpendola  coi  bastoni  o  con  la  palma della mano sui fianchi.

Erano le bestie che venivano portate in voto alla Madonna.

I Blèfari, non senza fatica,  guidando  per  la  mano  la  povera  Mariuzza,  si  portarono  al  mulino, che era il  luogo  dove  ordinariamente  erano  alloggiati  i  Pandurioti.  Vi  trovarono  tutto  il  locale rigurgitante.

Era un camerone alto, senza soffitto, col tetto a schiena di mulo, tutto imbiancato sui muri, nelle travi e perfin sulle tegole da un  polverìo  di  farina.  La  grossa  macina  sotto  la  tramoggia  era  ferma  e sopra stavano sedute delle donne. Altre preparavano da mangiare entro certi tegami  di  terracotta comprati sul posto, e appoggiati con gli  orli  su  grossi  ciottoli.  Pietro  trovò  alcuni  emigranti:  Cataldo,  il figlio di Passerelli, il Galeoto e Sperlì.

Gli  fecero  una  gran  festa,  intramezzando  alle  parole  dialettali  delle  parole  di  un   inglese bastardo:

- Gud bay, s’anima becci...

Abbracciarono anche Gèsu facendo tanti auguri alla sua giovane sposa.  Le  loro  donne  erano allegre, con tutto l’oro disponibile addosso, i corpetti vistosi,  le  sottane  di  seta  o  di  mussola  a  fiorami. Dietro la casa era uno spiazzo sotto un grosso noce, e si ballava.

-  Vieni  con  me, -  disse  Sperlì  a  Pietro,  prendendolo  per  il  braccio,  -  ti  farò  vedere  una  bella

cosa.

Pietro lo seguì fino al ballo.

Guarda chi c’è là - disse ancora Sperlì, e indicò la ballerina. Pietro ebbe come un pugno nello stomaco.

In  mezzo  al  cerchio  degli  spettatori  paesani,  una  donna  aitante,  bellissima  della  persona,  con  un

volto pieno e acceso, le trecce nere sciolte su le  spalle,  un  paio  d’occhi  grandi  e  neri,  e  una  bocca umida, carnosa, luminosa di denti bianchissimi, ballava movendo i fianchi  in  cadenza,  e  facendo  di quando in quando delle castagnole con le dita.

Era Vittoria Papandrea.

Attorno a lei girava turbinando, annaspando con le braccia, facendo  la  ruota  come  un  gallo  in amore, Bruno Ceravolo.

Pietro tornò indietro sconcertato, con la testa in fiamme.

Aveva pregata la Madonna di fargliela dimenticare, e la Madonna lo aveva  esaudito;  era ritornato  apposta  dall’America  per  ringraziare  la  Vergine  dell’ottenuto  oblìo,  ed   ecco   che   proprio davanti  al  suo  Santuario, per la sua festa, egli la rivedeva più bella e desiderabile che mai, e ogni suo proposito  di  rinuncia  svaniva:  egli  si  ritrovava  preso  dalla  sua  furiosa  passione  per  quella  donna,  che aveva la prestanza e la lucentezza fisica delle belle giovenche e dei bei cavalli generosi.

Cap. XVI

Quando i Blèfari si  provarono  a  entrare  in  chiesa  furono  quasi  rigettati  indietro  da  un’afa  e  da un lezzo umano che mozzavano il respiro. Le tre navate, un po’  anguste  per  la  popolazione  che  vi affluiva, erano piene fino all’inverosimile di gente d’ogni specie che si pigiava,  s’incalzava,  si  spingeva ansando, urlando a tratti, senza sapere perché, presa da una specie di delirio.

In fondo, sopra un trono dorato, in mezzo ai ceri accesi, sotto una specie di baldacchino vistoso e risplendente, era la statua della Vergine col  Bambino  in  braccio,  ambedue  coronati;  e  intorno  a  quella statua la folla ondeggiando pregava, come in attesa  di  un  evento  soprannaturale.  Era  un  mare  di  teste grigie o ricciute, dai capelli scarruffati o  lucidi  e  spartiti  sulla  fronte;  di  visi  ansiosi,  sudati,  con  gli occhi torbidi, umidi di lacrime, le bocche anelanti che si spalancavano e recitavano versetti, e poi scoppiavano in un urlo selvaggio.

Largo,  largo,  -  cominciò  a gridare Rocco  Blèfari con le mani alzate  - largo che  abbiamo una

malata; vogliamo domandare la grazia.

I più vicini si voltavano e faticosamente in quel pigia-pigia si scostavano facendo posto.

C’è già un muto che domanda la grazia, -  dicevano  in  giro  -  un  ragazzo...  Avanti...  andate avanti. - E guardavano curiosi la malata.

Dopo un lavoro estenuante di gomiti e di grida arrivarono ai piedi della Madonna.

Un prete nella navata accanto, dietro una specie di ringhiera, raccoglieva le offerte e distribuiva le immagini sacre, delle quali aveva davanti diverse pile di varia grandezza e bellezza. A seconda della entità dell’offerta si riceveva la immagine più o meno bella.

Il danaro e l’oro affluivano incessantemente.

Un altro prete presso la statua, con la mozzetta  e  la  stola,  recitava  la  litania  implorando  per  i diversi malati la grazia.

In quel  momento  un  ragazzo  sui  quindici  anni,  accompagnato  dai  parenti, - la madre una donna di Solano robusta, nera, coi capelli ricci e la faccia grifagna, e il padre un mandriano selvatico, col collo di toro e la fronte angusta, bestiale, - domandava la grazia. Era diventato muto perché in una notte di tempesta aveva visto il lupo in aperta campagna con un agnello tra le fauci.

Chiama la Madonna, figlio mio, chiama la Madonna! - gli diceva la madre in lagrime - non la vedi come è bella?

Il ragazzo  con  gli  occhi  spalancati,  agitando  le  mani,  emetteva  un  gorgoglio  confuso,  muoveva le labbra e levava la testa verso la immagine con uno sforzo penoso. A  ogni  gorgoglio  che  avesse apparenza di voce i vicini urlavano:

Ha parlato, ha detto Maria! la grazia, la grazia.

Tutta la chiesa rintronava dell’urlo della folla, che ondeggiava e si picchiava il petto. Poi riprendeva il ritmo monotono della litania:

- Mater amabilis, Mater admirabilis, Mater Creatoris...

Chiama, chiama ora la Madonna, figlio, dici: «Maria...». O Beata Vergine, non  mi  ascoltate dunque?   -   diceva   la   madre   del   mutolo   picchiandosi   il   petto,   con   le   lacrime   che   le   scendevano abbondanti  sulle  guance -  come potete permettere, o Madre di Dio, che questo ragazzo sia perduto per tutta la vita? - La sua voce aveva un tono iroso, come di rimprovero.

Prima che la litania fosse finita, un movimento  tumultuoso  si  produsse  in  fondo  alla  chiesa,  la gente che stava vicino alla porta si agitò, si divise e si udirono delle voci poderose: - Largo!... Largo!  - e dei furiosi colpi di bastone.

Sulla porta apparve, tra la folla che ondeggiava paurosamente, la testa di un torello, dalla faccia nera, le corna quasi orizzontali sulla fronte vasta, piene di nastri.

Largo... largo...

Il torello si arrestò un istante, alzò il  muso  umido  e  gittò  un  muggito,  che  risuonò  nella  chiesa come lo squillo di un trombone. Due uomini robusti lo tenevano per una specie di cavezza ai lati della testa.

Non voleva procedere. Altri due giovani che gli stavano ai fianchi un po’ lo incitavano con gridi gutturali, un po’ gli calavano sulle costole dei colpi sonori di bastone.

Avanti, largo... largo... Viva Maria!

La folla si apriva lentamente tumultuando, con grida di spavento a ogni agitarsi della bestia, che avanzava a stento, spaventata da quella folla urlante, da quelle luci  e  da  quei  gridi:  e  accennava  di quando in quando a voler cozzare.

Largo... largo! Viva Maria!...

A metà della chiesa la bestia si arrestò, e alzò la coda per defecare. Finalmente il torello fu cacciato davanti all’immagine.

Viva Maria!... Viva Maria!...

Il giovane mutolo, coi parenti, si era fatto in un angolo, e guardava coi suoi occhi spalancati un po’ sofferenti la bella bestia dal pelo lucido, nero, quasi azzurrino, la giogaia larghissima  e  gli  occhi sanguigni, che si guardava attorno, soffiando nelle narici umide e forbendole con la lingua rasposa.

Ora i mandriani e tutta la gente vicina lo incitavano con grida e con  gesti, perché piegasse le ginocchia davnti alla Vergine.

Ah! Fiorello, ah!... Viva Maria!...

Gli battevano coi bastoni sulle  ginocchia,  lo  spingevano  con  le  mani,  lo  sollecitavano  coi  gridi  e con le carezze. A un tratto la  bestia,  premuta  da  ogni  parte,  in  mezzo  a  quell’urlìo  ansioso,  chinò  la testa, soffiò sul pavimento, come per una rapida ricognizione, e si piegò sulle ginocchia.

Un urlo altissimo si levò nella chiesa, come un boato, che fece tremare i vetri.

Il miracolo, il miracolo!...

Era il riconoscimento della divinità da parte della natura bruta, della bestia sacra del presepio e dell’aratro.

Viva Maria!... Viva Maria!...

Il giovanetto mutolo, come un ossesso ruppe in un grido di bestia ferita, e con due occhi sbarrati pieni di un misterioso spavento, balbettò anche lui:

Maria... Maria!...

La vista di quel torello che  s’inginocchiava  davanti  alla  sacra  immagine,  e  il  clamore  altissimo della folla, gli avevano sciolta la lingua.

Maria...  Maria!...  -  gridava  il  ragazzo  agitando  le  braccia  come  un  ossesso:  -   Mamma...

Maria!...  -   E   respirava  affannosamente  come  se  lo  avessero  immerso  in  un’acqua  profonda,  e  lo avessero tratto fuori dopo avergliene fatte ingoiare alcune boccate.

Il padre lo prese in braccio e lo alzò sulla folla; stralunato anche lui, con la sua grossa faccia bestiale che aveva preso un aspetto di terrore infantile, mentre la  madre  piangeva con una invocazione lugubre: - Figlio... figlio!... benedetto figlio!...

La folla era caduta  in  ginocchio,  singhiozzando,  picchiandosi  il  petto,  implorando  grazia.  Tutti gli occhi erano torbidi, lacrimosi e  spaventati,  rattristati  da  una  sofferenza  misteriosa;  i  volti congestionati e anelanti come di uomini in corsa.

Alcune donne, prese da un subitaneo furore mistico, si strappavano i capelli, o si laceravano con

le unghie il volto; altre svenivano abbiosciandosi pallide come steli  appassiti.  Una  giovane  in  fondo  alla chiesa, presa improvvisamente dal male sacro, sbatteva le braccia furiosamente  intorno,  con  un  sinistro stridere di denti.

Il sole, riversandosi in grandi fasci dai finestroni, investiva trionfalmente gli ori e le stoffe del baldacchino; e il volto della Vergine sormontato dalla corona,  brillava  tra  i  ceri  come  un  astro,  col  suo sorriso immutabile e paradisiaco.

Grazia... grazia! - gridava la folla da ogni parte della chiesa; e si sospingeva  a  onde  come un’acqua agitata.

Lo spettacolo era terribile e inebriante! Volevano ancora delle grazie; il  senso  della  divinità presente e operante aveva messo in delirio quelle anime semplici e primitive.

Domandiamo   noi   la   grazia   -   disse   Gèsu   pallidissimo,   coi   capelli   incollati   sulla   fronte

gocciolante di sudore. E prese sua moglie per la mano spingendola verso la statua.

Il prete in mozzetta cominciò a ricevere sopra un piatto d’argento gli ori nuziali.

Gèsu con una delicatezza appassionata staccò dalle orecchie della cieca le rosette d’oro. Poi gli anelli, la crocetta, un fermaglio ad arabeschi, tutto fu deposto nel piatto.

Desidero riscattarli a qualunque prezzo - disse Gèsu al prete. Quello accennò di sì con la testa, meccanicamente.

Cosa ha quella giovane? - domandavano intorno nel tumulto, guardando il viso pallido di Mariuzza, e il suo collo bianco, sottile, segnato dalla macchia rossastra di una larga empetiggine  sotto l’orecchio.

È  cieca...  -  rispondeva  Caterina  asciugandosi  gli  occhi -  ...è  diventata  cieca  appena  sei  mesi

dopo il matrimonio. Quello è suo marito, un bravo giovane, è stato in America.

Cara mia! Povera giovane!... - si udiva mormorare. - Vedrete che la Madonna le farà la grazia.

Quando gli  ori furono deposti tutti, il  prete ordinò alla malata e  ai  parenti  che s’inginocchiassero, e cominciò a recitare con una grossa voce nasale le litanie.

Recitate con me, bella giovane,  - disse a Mariuzza - recitate con me:  Sancta Maria, Sancta Dei

Genitrix, Sancta Virgo Virginum.

Ora pro nobis - rispondeva il popolo in coro, picchiandosi il petto con un rumore molteplice, come quello di un armento che cammini sopra una strada polverosa.

Mater purissima... Mater castissima... - seguitava il prete, e dietro a lui Mariuzza ripeteva con un fil di voce, inginocchiata accanto a  suo  marito,  tra  i  suoi  parenti,  con  gli  occhi  ben  rivolti  verso  il punto dove credeva si trovasse l’immagine.

La sua faccia era di un  estremo  pallore,  e  sulle  guance,  verso  le  mascelle,  la  pelurie  castana della pelle le si era sollevata come per  il  rezzo  della  quartana.  Nel  buio  che  le  turbinava  intorno,  tra quelle voci molteplici, rauche,  dolorose,  quei  respiri  agitati,  quella  specie  di  trepestio  che  producevano gli uomini e le donne picchiandosi il petto,  ella  avvertiva  come  un  muovere  di  immense  ali.  La  divinità quale se l’era immaginata in tanti anni di adolescenza, attraverso le fantasie popolari;  quella  specie  di mitologia  cristiana  che  popola  di  angeli  la  casa,  di  anacoreti  le  spelonche,  di  anime  purganti  le  vecchie mura diroccate, e di spiriti folletti i crocicchi delle vie, le lampeggiava ora sul capo corrusca di luce, di ali d’angeli e di baleni. Si  sentiva  come  sperduta,  come  una  foglia  in  un  turbine,  sotto  il  mormorio  di quel prete che invocava la Vergine nei suoi innumerevoli e preziosi attributi, e le sembrava che il ritmo del suo cuore fosse lì per arrestarsi sotto lo scoppio di una voce potente. Gli occhi el formicolavano, un tremito le scuoteva tutta la persona.

Rocco e Gèsu pregavano annichiliti anch’essi, con gli occhi fissi  nel  sorriso  della  Vergine  che pareva respirasse, vivente. Caterina e Varvaro, rispondevano: - Ora pro nobis - con le mani in croce sul petto.

A  metà  della  litania  il  prete  si  arrestò,  porse  a  Gèsu  un  cero  dipinto  e  gli  fece  cenno  che  lo

passasse a sua moglie.

Accendete quel cero, bella giovane, provatevi ad accenderlo.

Prova se vedi ad accendere questa candela, - disse Gèsu amorevole alla moglie -  se  la Madonna ti apre gli occhi.

Grazia,  Vergine  mia!  Grazia!  - faceva con voce strozzata dall’orgasmo Mariuzza... e allungava il cero verso i lumi accesi davanti alla Vergine, senza rendersi conto di  quello  che  facesse.  Ma  se avveniva che la punta della candela per caso si avvicinasse a una fiammella, un urlo formidabile partiva dalla folla.

Miracolo! miracolo... Vede già... Viva Maria! Ha acceso il cero da sé.

Mariuzza girava la testa appena, come intontita in mezzo a quel fragore,  e  l’ombra  in  cui  era immersa si faceva sempre più fitta.

La litania riprendeva: - Rosa mistica, Turris davidica, Turris eburnea...

Alla fine della litania l’esperimento della candela fu ripetuto. Mariuzza,  per  una  strana combinazione, dopo aver errato un istante qua e là col cero proteso, lo  avvicinò  a  una  fiammella  e  il lucignolo prese fuoco.

Il miracolo, il miracolo! Vede... le si aprirono gli occhi!

La folla ansava. Anche Gèsu credette che la moglie avesse veramente ricuperata  la  vista,  e  la interrogò con la gola arsa: - Vedi, Mariuzza, vedi? - Ma la  giovane  gli  si  rivolse  con  un  volto  così desolato che gli fece gelare il cuore.

La Madonna non mi fa la grazia... - ripeteva la poverina - ...la Madonna non mi fa la grazia.

Pregala, figlia mia, - esortava Caterina  - pregala la Madonna, chiamala... ora che i   celesti sono

aperti.

O  Vergine  Maria,  -  cominciò  con  una  voce  strana  Mariuzza  -  ascoltatemi,  aprite  le  vostre

mani! Sono venuta da voi con tutta la fede e non partirò di qua se non mi avrete esaudita. Guaritemi, Madonna benedetta, e guarite anche il mio povero marito, che ha sempre cantato per voi nella chiesa.

Poverina! Disgraziata giovane!  - mormoravano intorno le donne  -  prega per suo marito; ha più

pietà di lui che di se stessa.

Prega per te, figlia, - esortava Caterina - tu hai più bisogno di lui...

Il lamento di quella donna giovane, nel silenzio ansante della  chiesa,  aveva  un  non  so  che  di lugubre e di tragico.

Il popolo ansioso  attendeva,  non  voleva  persuadersi  che  quella  sposa  desolata,  con  quella  faccia da Madonnina sofferente e quella gran corona di capelli in testa  dovesse  ritornare  a  casa  sua  senza ottenere la guarigione. A poco a poco insensibilmente, quasi trascinati da un  impeto  irresistibile,  tutti  i presenti  si misero a implorare, ad alta voce: - La grazia, la grazia, Vergine benedetta, fate la grazia!  - E la voce del popolo si levava quasi minacciosa, le mani alzate avevano gesti terribili,  e  la  preghiera sembrava  quasi  un  rimprovero  a  Dio:  «Non  la  vedete,  o  Vergine,  com’è  bella,  com’è  giovane;  perché gliel’avete data la gioventù,  perché  le  avete  dati  gli  occhi?  L’uomo  senza  occhi  è  come  morto!  Meglio era farla morire. La grazia, la grazia! Si è sposata ch’è poco; ancora davanti alla sua casa vi è il grano che le hanno lanciato mentre attraversava la soglia; come potete  permettere  questo,  Ma donna  Santa, Madre di Dio, come potete permettere?».

La  Vergine  impassibile,  nel  suo  eterno  sorriso  pareva  guardasse  su  quella  turba  raccolta,  con

una letizia sconosciuta al cuore dei mortali, una letizia che si armonizzasse  con  la  luce  del  sole,  con l’azzurro dell’aria, col verde dei boschi, e non avvertisse o ignorasse il terribile dolore degli uomini.

Il prete impaziente ammoniva: - Andiamo,  andiamo...  È  l’ora  della  processione.  La  Madonna non vi ascolta, povera giovane, non dispone di grazie per voi.

Prima del vespro la Vergine era abitualmente portata in processione. I nostri pellegrini si confusero, tristi, annientati, nella folla, mentre fuori  crepitavano  incessantemente  le  fucilate,  e  i  suoni della danza assordavano l’aria.

Cap. XVII

Pietro non era coi suoi dietro la processione.

Era sparito subito dopo l’entrata in chiesa, e dopo avere consegnato al prete che stava dietro la ringhiera un biglietto da cento, che costituiva un voto da lui fatto in America alla Madonna.

L’immagine di Vittoria lo perseguitava. Quegli occhi grandi e neri, lampeggianti, quel viso giovanile, acceso dalla danza, e quel corpo magnifico che si moveva  in  cadenza  con  piccoli  passi,  gli stavano davanti agli occhi come il barbaglio violetto del sole a chi osa fissarlo in pieno.

Uscì dalla chiesa, facendosi largo con le sue braccia erculee, e  quando  fu  all’aria  libera  gli sembrò che un peso gli si fosse levato da sopra il petto. Errò intorno ai banchi dei rivenditori, tracannò d’un sorso un bicchiere di orzata, per calmare la sete che  lo  divorava,  comprò  dei  nastrini  rossi  e azzurri,  poi  si  cacciò  nel  folto  dei  balli  come  inebriato,  seguendo  meccanicamente  il  ritmo   dei danzatori,  la  nenia  delle  zampogne,  il  tintinnare  dei  tamburelli  che  venivano  agitati  nell’aria  a centinaia.

Sapeva che le Carditane erano le più famose danzatrici della Calabria, e  cercò  un  luogo  dove ballasse una coppia di quel paese.

Dopo un lungo giro ne rinvenne una. Sotto un albero maestoso di noce si era formato un largo circolo intorno a una zampogna.

Il suonatore era un uomo tozzo, con la faccia larga  sbarbata,  il  collo  gonfio  oltre  la  linea  delle guance nello sforzo del soffiare, e due occhi congestionati. Portava  alle  orecchie  degli  anellini  di metallo dorato. Si stringeva sul ventre un enorme otre dal  quale  pendevano  cinque  canne  traforate  di diversa lunghezza: due oltrepassavano tutto l’otre e gli arrivavano ai ginocchi:  due  erano  più  corte  e l’ultima, a forma di un piccolo oboe, senza fori, emetteva un sola nota, tenuta, d’un suono nasale come una specie di nota base. Le dita del suonatore si muovevano con una vicenda quasi uniforme sui buchi delle due canne medie, il suo capo  e  la  testa  oscillavano  in  cadenza  secondo il ritmo del suono, come quelli di un fantoccio meccanico. A intervalli apriva le  labbra  intorno  al  cannello,  aspirava profondamente, poi le richiudeva e il collo gli si gonfiava, rigato di grosse vene, nello sforzo.

Accanto a lui un giovane pastore, con una barba nera e crespa, tutta inalbata dalla polvere, come

un  cespuglio  sul  margine  di  una  via  carraia  in  piena  estate,  un  fazzoletto  bianco  legato  al  collo,  batteva

il  ritmo  su  un  tamburello  largo  quanto  uno  staccio  da  farina,  tenendolo  vicino  all’orecchio  come  per gustarne l’accordo.

In mezzo al cerchio una coppia ballava.

La donna, piccola, bruna, di bei capelli neri, aveva una faccia larga, con forti mascelle, il mento aguzzo, due grosse ciglia nerissime, e  un’espressione  del  volto  seria,  quasi  arcigna.  Un  busto  di  un cupo arancione, stretto dietro le spalle da  un  lungo  laccio  turchino,  passato  attraverso  una  doppia  fila  di asole spesse e minute, le serrava un petto sodo e potente, un po’ sproporzionato alla piccola taglia della sua persona. La camicia era bianca, abbottonata sotto il collo e ai polsi, la sottana di fustagno turchino a piccole pieghe, stretta intorno al cinto, si allargava a campana, e ondeggiava nel ritmo della danza.

Ballava scalza, con dei piccoli  piedi  larghi,  impolverati,  e  teneva  costantemente  gli  occhi  bassi, con la serietà di chi compie un  rito  religioso.  Ogni  tanto  li  alzava  in  faccia  al  ballerino  arditamente, come per un invito, con  un  lampeggiare  e  un  socchiudere  seduttivo,  poi  li  riabbassava,  e  seguitava  la sua danza semplicissima. I piedi, l’uno  davanti  all’altro,  schizzavano  dei  passetti  brevi  nella  polvere,  le mani si appoggiavano sui fianchi, ora con le  palme  ora  col  dorso,  le  braccia  s’incurvavano  ad  arco come quelle delle anfore, il corpo oscillava lento, con movimenti  voluttuosi  dei  fianchi  e  delle  anche. Alcuna volta le mani sollevavano pei lembi un piccolo grembiule rosso, e lo tendevano verso  il danzatore, come  per  ricevere  un’offerta;  altra  volta  rapidamente  si  levavano  in  aria,  e  facevano schioccare le dita, con un movimento incitante, come si usa coi cani per invitarli alla caccia.

La danzatrice seguitava impassibile, senza un segno di stanchezza. Il suo  petto  forte  ansava appena; la sua bocca seria, carnosa, leggermente aperta, mostrava dei denti grossi e bianchi,  come mandorle sbucciate; sulle sue guance brune e sode,  d’un  bel  color  dorato  come  quello  del  pane  nel forno, scendeva di quando in quando una grossa goccia di sudore, che arrivava sino al collo; altre gocce le scendevano sulla nuca da entro i folti capelli.

Ballava dalla mattina, e aveva stancati quattro uomini.

Il ballerino invece  sembrava  morso  dalla  tarantola;  scamiciato,   con  al   collo   un  fazzoletto bianco, tutto istoriato con filo rosso di versi amorosi, il viso  grondante  di  sudore,  gli  occhi  torbidi, balzava con mille sgambetti e mulinelli intorno alla  donna,  dimenando  la  testa  come  per  fissarla  negli occhi, mettendole attorno al capo le braccia a corona,  facendo  con  la  mano  il  gesto  di  chi  traccia  un circolo intorno all’oggetto amato, per  indicarne  il  possesso  esclusivo.  E  poi  girava  su  se  stesso  come una trottola, preso da una specie di delirio, e batteva le  palme,  e  cacciava  dei  gridi  acuti,  come  lo squittire di una bestia selvatica. Quando un ballerino aveva danzato per un certo tempo, l’uomo  del tamburello che funzionava da maestro di ballo, si levava  in  piedi,  faceva  un  po’  al  largo  un  giro  di danza e con un cavalleresco inchino congedava il danzatore, per invitare un altro della brigata.

La Madonna era già uscita dalla chiesa e le grida di «Viva Maria» e gli spari dei fucili assordavano l’aria. Da ogni angolo si udivano rombare gli scoppii, e l’aria  era piena di fumo e di quel caratteristico odor di salnitro che lascia la povere nera.

Pietro stette un pezzo a osservare quella danza, col cuore in tumulto e  la  testa  vana.  Un desiderio irresistibile lo trascinava verso il mulino, per rivedere Vittoria, e una misteriosa paura lo respingeva lontano  da  quella  donna.  Donando  alla  Vergine  la  sua  offerta  che  avrebbe  dovuto propiziargli l’oblìo, egli sentì che il suo cuore profondo non si adattava a  quella  rinuncia,  anzi  vi  si ribellava, e disse alla Madonna: - Datemi forza, Santa Vergine, datemi forza!

Finalmente  lasciò  la  danza  e  si  avviò  con  il  cuore  nero,  la  testa  in  fiamme,  e  un  oscuro

presentimento  che  gli  prediceva  sciagura,  verso  la  casa  ove  erano  alloggiati  i  Pandurioti.  Quando giunse  davanti  al  mulino  esso  era  deserto.  I  Pandurioti  erano  o  fuori  a  vedere  la  processione  che avanzava lentamente tra spari e canti, o dietro la casa. Pietro si fermò un istante ad ascoltare il rombo dell’acqua che scrosciava accanto al fabbricato, poi andò verso  il  luogo  del  ballo.  Vittoria  danzava  di nuovo con Bruno Ceravolo. Come gli sembrava  bella,  Vergine  Santissima,  con  quella  sua  facciona rosea animata dal calor della danza: la bocca larga, umida, dalla  quale  il  riso  sgorgava  come  un  getto d’acqua, e gli occhi luminosi!

Il consueto malessere fisico che egli soleva avvertire al pensiero  di  quella  donna,  gli  tornava ancora: gli  si  annebbiavano  gli occhi come per un soverchio afflusso di sangue, il cuore gli si gonfiava, e tutto il suo corpo sembrava un arco d’acciaio, teso all’estremo da  una  mano  poderosa.  A  un  tratto Vittoria, stanca, lasciò il ballo e, asciugandosi il volto con  una  pezzuola,  s’avviò  verso  l’entrata  del Mulino.

Ansava forte: sulle tempie aveva delle piccole gocce di sudore; la bocca sana,  voluttuosa, sorrideva soddisfatta.

Quando  vide  Pietro  sulla  soglia  gli  andò  incontro  con  una  espressione  di  gioia  e  di  sorpresa

negli occhi.

O Pietro! Siete anche voi qua? Non mi parlate nemmeno? Lo prese per un braccio e lo trascinò quasi entro il mulino.

Quando siete tornato dall’America? Io  non  vi  avevo  visto,  non  sapevo  niente,  io.  Noi  siamo alla Gnura Duvica per curare i fichi e la vigna. Non vediamo mai nessuno. Come vi siete fatto bello e forte!... Sembrate un medico.

E   rideva   davanti   all’imbarazzo   del   giovane   che   la   guardava  imbambolato,  come  l’uccellino

guarda il serpente che lo incanta e lo rende immobile sul ramo.

Sono tornato due sere fa, - disse Pietro - quasi non sono neppure stato in paese. Siamo venuti con mia cognata alla Madonna per chiedere la grazia.

Già, poveretta! - fece Vittoria con un senso di rammarico fugace  - l’ho vista! Che castigo di Dio! E adesso dove sono i vostri?

Li ho lasciati in chiesa.

Oh! Pietro, come sono contenta di rivedervi!

Aveva messe le mani in  un  cartoccio,  e  aveva  tratto  fuori  un  mostacciolo  in  forma  di  galletto, che addentò per la testa.

Ne volete, Pietro? Perché mi guardate così? Mi tenete il broncio perché non vi ho atteso?   Eh!

questo era il mio destino, Pietro mio! «Matrimoni e vescovati dal cielo son calati...».

È vero, - fece Pietro con un sospiro - è vero! Ma io mi sento la testa che mi va via... Io vi ho nel pensiero ancora come quando partii per  l’America,  e  questa  mattina,  quando  vi  vidi  ballare  sotto  il noce, credetti che la terra mi mancasse sotto i piedi.

Era  pallidissimo,  e  parlava  con  gli  occhi  bassi,  le  mani  nelle  tasche  dei  calzoni  dondolando

amaramente la sua grossa testa cavallina.

Povero Pietro! Ma anch’io vi voglio bene, specialmente ora che  siete  vestito  da  galantuomo. Venite qua, sedetevi vicino a me e raccontatemi qualche cosa dell’America.

Vittoria rideva allegra, canzonandolo un po’, come faceva sempre con lui,  divertendosi ad incoraggiarlo, con le sue prepotenti  seduzioni  di  donna  giovane,  esalante  un  profumo  carnale  che  dava alla testa.

Bene, - disse Pietro - oramai quello che è fatto è fatto. Ma voi siete contenta, siete felice?

Io? - rispose la giovane. - Che mi manca? Sono nel bene, nella ricchezza, non desidero altro. Pietro sospirò profondamente.

E voi non pensate a sposarvi ora? - chiese Vittoria. - Dovete avere portato anche dei soldi dall’America.

Sì... ne ho portati; ma non mi servono. Io avrei voluto guadagnarli per voi... - E fece una faccia così strana  che  Vittoria  scoppiò  in  una  risata  sonora,  spruzzando  fuori  dalla  bocca  un  getto  di mostacciolo masticato.

E se io vi volessi bene, Pietro, che direste voi? - fece la donna avvicinando la sua alla testa del giovane.

Se mi volete bene, - disse Pietro - anche un pochino, lasciate che vi leghi sul braccio il nastro rosso che ho comperato apposta. Quando starete con Bruno Ceravolo vi ricorderete di me.

Perché no? - disse Vittoria; e sbottonandosi la camicia al polso si rimboccò la manica  fino all’ascella, mostrando un braccio magnifico, carnoso, dalla pelle bianca, cosparsa di  una  leggera  peluria bionda.

Ecco, legatemi il nastrino; vi voglio far contento.

Pietro davanti a quel braccio nudo, a quella carne calda, desiderata, ebbe come un impeto selvaggio; ma si trattenne. Trasse dalla tasca un nastrino rosso, e  avvicinando  le  mani  tremanti  a  quel braccio bianco, ve lo passò attorno e  lo  annodava  lentamente,  turbato  sino  allo  spasimo  dal  contatto della pelle calda, morbida come la buccia  di  una  pesca.  Nell’annodare  il  nastro  si  chinava  sempre  più verso il collo e il petto di Vittoria con gli  occhi  avidi.  Il  petto  si  sollevava  magnifico  nel  ritmo  del respiro esalando un profumo caldo,  un  po’  acre.  Nel  cavo  della  clavicola  si  vedeva  palpitare  l’arteria, con una vicenda larga, potente e un leggero movimento dell’epidermide.

Vittoria mangiava e sorrideva guardando verso la porta.

A un tratto gli occhi di Pietro incontrarono i suoi. Si guardarono un istante. La donna aggrottò le ciglia folte, con la significazione di un invito: i suoi occhi parevano illanguidirsi  sotto  l’azione  di  un desiderio improvviso e acuto. Piegò la testa e porse la bocca. Pietro l’afferrò con ambe le mani dietro la nuca, e la baciò con furore, a lungo, respirando forte, con un piccolo lamento di sofferenza.

Un grido rauco li fece trasalire. Si voltarono verso la porta e videro Ceravolo.

Ah! bagascia! - ringhiò il massaro col pugno teso, gli occhi selvaggi - sei la vera figlia di tua madre! Ma io ti scanno. Prima lui e poi te.

Dalla cinta dei calzoni corti estrasse rapidamente un coltello  a  foglia  di  olivo,  con  un  manico d’osso lavorato, e si precipitò su i due che ancora si tenevano per mano.

Pietro non  aveva armi,  ma  non si  scompose. Quel  bacio  lo aveva  inebriato come  una  coppa di vino vecchio profumato di garofano. Si sentiva quasi contento di misurarsi col suo rivale, anche senz’armi; ora che sapeva di essere, sia pure  in  minima  parte,  entrato  nel  cuore  della  donna  che  lo aveva fatto per tanto tempo delirare, si sarebbe battuto con un leone e lo avrebbe vinto.

Spinse la donna lontano, dietro la tramoggia, e cercò intorno qualche cosa per difendersi.

Non vi era nulla, neppure un pezzo di legno.

Rapidissimamente risolse di affrontare il rivale con le mani e disarmarlo.

Come Bruno gli era sopra col coltello alzato, soffiando come  un  gatto,  con  grida  rauche,  Pietro protese le mani in atto di  difesa,  e  mentre  con  l’una  parava  i  colpi  che  quello  gli  avventava continuamente, con l’altra cercava di agguantarlo per togliergli l’arma. Vittoria ansante, pallidissima, rannicchiata in sé, con gli occhi spaventati mormorava:

- Focu meo... focu meu!

A un tratto nella strada scoppiò un urlo  formidabile:  -  Viva  Maria!  -  e  una  potente  scarica  di fucili fece tremare la casa.

Pietro  ebbe  un  istante  di  disorientamento.  Bruno  Ceravolo  che  gli  balzava  intorno  con  l’agilità di un felino si fece sotto sul suo fianco e gli cacciò il coltello nella milza fino al manico.

Il giovane barcollò, portandosi le mani nel posto dove aveva ricevuto il colpo, e cadde  in ginocchio. Poi vedendo che Bruno, sicuro di  averlo  finito,  si  lanciava  contro  Vittoria,  balzò  ancora  in piedi e si buttò con tanto impeto sul rivale, che  ambedue  ruzzolarono  al  suolo  abbrancati  come  due mastini in lotta.

Vittoria aveva avuto modo di saltar fuori, e si era messa a gridare come una pazza.

Accorrete, accorrete, cristiani! Si ammazzano!

La via davanti al mulino rigurgitava di gente che precedeva la statua della Madonna. La Vergine era a  una  cinquantina  di  passi.  Portata  a  spalla  da  venti  pellegrini  robustissimi  ondeggiava  lentamente su quel mare di teste, tutta luccicante di ori e di sole, col suo sorriso impassibile e il suo occhio fisso sul popolo.

Viva Maria... viva Maria!...

Accorrete,   cristiani,   accorrete!    -   gridava   Vittoria,   e   fuggiva   terrorizzata   verso   la   folla rigurgitante. I Pandurioti che stavano intorno al mulino accorsero per i primi.

Nel mulino una scena terribile si offerse ai loro occhi.

Bruno  Ceravolo  aveva  avuto  rapidamente  ragione  del  ferito,  e  con  un  furore  bestiale  lo  aveva crivellato di colpi.

Pietro,  con  la  camicia  tutta  squarciata  sul  petto,  e  il  sangue  che  sgorgava  a  fiotti  sul  lastricato, rantolava appena, con le braccia aperte in croce e abbandonate.

L’omicida, alla vista di tutta quella gente, tentò fuggire, ma fu agguantato e malmenato.

Chi è che è morto?

Pietro Blèfari... il figlio di Rocco.

Era venuto da due giorni dall’America, disgraziato!

Perché l’ha ucciso?

Le domande e le risposte s’incrociavano, si  levò  qualche  voce  di  pianto.  La  folla  davanti  alla porta si accalcava e tumultuava, tutti volevano vedere, domandavano il motivo  della  rissa.  Un  folto gruppo si era fatto vicino a Vittoria che piangeva tremante come una foglia.

Chi l’ha ucciso? Di che paese sono? Perché l’ha ucciso? Queste domande si udivano da ogni parte.

Le zampogne dietro la casa si erano taciute e i danzatori si erano riversati sulla porta del mulino.

Largo,  largo... -  gridava Nino Sperlì vicino al ferito - ...non vedete che non è morto? Respira ancora! portiamolo fuori.

Lo presero in quattro per le braccia e per le gambe e lo adagiarono fuori sull’erba dietro la casa. La processione avanzava lentamente.

Intanto vennero i carabinieri.

Si   assicurarono   subito   dell’omicida,   che   come   istupidito  teneva  ancora  stretto  il  coltello  in mano, e domandarono la causa della rissa.

Questioni di donne, signor maresciallo, - disse Sperlì - questione di donne.

E dov’è la donna?

Eccola - e indicarono Vittoria che piangeva in mezzo a un gruppo di forestieri.

I  carabinieri  presero  anche  lei  e  la  menarono  via,  mentre  due  di  essi  rimanevano  a  guardia  del

morto.

Poiché  in  quel  momento  la  Madonna  giungeva  davanti  al  mulino,  i  Blèfari,  che  accasciati

seguivano la statua, pensarono di fermarsi.

Come Rocco vide un rimescolìo tumultuoso di gente, e udì che si parlava di un morto, si avanzò con un misterioso presentimento funebre.

Un morto, - domandò - e dov’è? - e tentò di avvicinarsi al luogo dove la calca era più folta. La folla si aprì e due carabinieri uscirono trascinando con sé Bruno Ceravolo. Seguivano altri due che accompagnavano, ammanettata anch’essa, Vittoria Papandrea.

Al povero Rocco parve si aprisse la terra sotto i piedi.

Disgrazia mia! - urlò picchiandosi due pugni sulla testa - il morto è mio figlio!

Dove andate, Rocco, dove andate?  -  facevano piangendo molti Pandurioti, e lo afferravano per le braccia. - Ascoltate un momento, venite qua.

Ma il vecchio si cacciò avanti come un folle a testa bassa.

Gèsu, non andate... venite qua - dicevano altri al fratello del morto.

Altri  compiangevano  Mariuzza,  che  pareva  non  avesse  più  sangue  nelle  vene  tanto  era  pallida  e

disfatta.

Beata lei che non vede, povera creatura! Che dolore, che disgrazia!

Altri   commentavano   spaventati   la   fine   di   Vittoria.   Era   in   tutti   il   ricordo   terribile   della

maledizione materna.

Avete visto?  - dicevano le donne - Dio liberi! La maledizione di sua madre la colse come un fulmine a ciel sereno. Iddio non paga il sabato, ma è buon pagatore.

«Che tu non goda la tua giovinezza», aveva detto la madre, ed  essa  non  l’avrebbe  goduta. All’altro aveva augurato il fondo di una prigione, ed ecco che Iddio l’aveva esaudita. Non importava se Porzia era anche lei una peccatrice; il Signore rende giustizia anche ai peccatori.

Nel  cielo  d’oro  di  quel  pomeriggio,  in  mezzo  al  fragore  della  festa,  lassù  dove  l’azzurro

immutabile guardava come un immenso occhio sulle cime dei monti e  sulle  case  e  sulle  vite  degli uomini, una presenza serena e terribile regolava gli  eventi  umani,  e  distribuiva  i  castighi  secondo  le leggi di una suprema giustizia.

Quando Rocco si trovò di fronte al  figlio  già  spirato,  e  lo  vide  col  suo  gran  volto  esangue,  la bocca inerte, gli occhi aperti e spenti, e una espressione di dolore quasi infantile, cadde in ginocchio  e picchiandosi il volto con ambe le mani urlava:

Figlio... Figlio...  bandiera  mia!  Giovinetto  mio!  Sei  venuto  dall’America  per  cercare  la  morte... ti hanno assassinato, sei insanguinato come Cristo.

E gli toccava delicatamente il viso come se avesse avuto paura di svegliarlo, lo accarezzava sui capelli, e gli cercava cogli occhi le ferite attraverso la camicia squarciata in più parti, sulla quale  qua e là si vedevano dei piccoli grumi di sangue. Le  lagrime  gli  scendevano  grosse  a  rigagnoli  sul  volto adusto, e cadevano sulle mani, sul petto, sul viso del morto.

Rocco, Rocco, alzatevi... andate via di là; volete morire anche voi? Se son castighi di Dio cosa

ci volete fare? - I paesani lo esortavano; ma egli irato rispondeva:

Volete portarmi via mio figlio senza che lo pianga?

Nel mulino, Gèsu, davanti al lago di sangue che aveva lasciato in terra suo  fratello  svenne,  e dovettero spruzzargli dell’acqua fresca sul volto e riportarlo all’aperto.

Mariuzza piangeva forte, ad alta voce, chiamando il cognato,  e  accomunando  la  sua  disgrazia  a quella del povero giovane spento così tragicamente nel fiore della sua giovinezza. I  Varvaro  annichiliti, stralunati si  guardavano in  viso come per chiedersi donde venisse tanto dolore su quella povera casa dei Blèfari, nella quale essi erano andati a cacciare la loro pupilla.

Dio mio, in che casa l’abbiamo messa, - diceva Caterina tra sé - sembra che una maledizione del cielo lavori a distruggerla! E pure Rocco è stato sempre un buon lavoratore, e la sua povera donna era una santa. Perché, caro mio Dio, perché tanta neve sopra un monte e tanto dolore in una casa?

La processione era passata e si udivano lontanare le grida della folla e gli spari dei fucili.

Alcune  carovane  sul  pendìo  della  valle  lasciavano  il  Santuario  lanciando  delle  immense  grida

corali:

Viva Maria!

Cap. XVIII

Passò settembre e sopraggiunse l’autunno, un autunno triste quell’anno, con molti temporali che spezzarono gli olivi e fecero straripare i torrenti.

Nella casa dei Blèfari si passava di desolazione in desolazione.

Gèsu cominciò col perdere l’uso  delle  gambe  e  finalmente  coi  primi  dell’inverno  si  mise  a  letto, con la parte inferiore del corpo completamente immobilizzata.

Mariuzza,  cieca  com’era,  non  poteva  assisterlo  che  poco,  e  piangeva  tutto  il  giorno  accanto  al

letto del marito. In paese  si  guardava  quella  casa  con  una  specie  di  misterioso  terrore,  e  si mormoravano cose strane intorno alla malattia di Gèsu. Non si sa  come,  era  trapelato  che  quella malattia il giovane l’aveva presa in America, da una donna di  laggiù,  e  per  quella  dose  di  moralità farisaica che risiede in tutti gli uomini, anche nelle anime semplici, i commenti diventavano malevoli.

Qualche volta essi arrivavano alle orecchie di Mariuzza, ed essa  si  addolorava  più  di  quelle dicerie che della sua cecità.

Calunniavano il suo povero marito, che soffriva nel letto come un santo.

I Varvaro avrebbero voluto riprendersi la nipote e allontanarla da quella casa, sulla  quale sembrava pesare un destino terribile, ma quando provarono a tastare il terreno presso Mariuzza,  si accorsero che la cosa sarebbe stata impossibile. La povera giovane amava suo marito di un amore così assoluto e rassegnato, che avrebbe finito con l’odiare anche  loro,  se  avessero  tentato  di  staccarla  dal povero malato.

Gèsu era come imbecillito, diventava ogni giorno più debole  e  piagnucoloso  come  un  fanciullo, aveva bisogno di aiuto ogni momento; per rigirarsi nel letto, per aggiustarsi i cuscini dietro  il  capo,  per scacciarsi le mosche, per fare i propri bisogni.

Mariuzza gli stava sempre accanto, e con una piccola ventola fatta di certi ritagli di carta infilati nella spaccatura di una canna, gli scacciava a  tentoni  le  mosche  che,  specie  nelle  giornate  di  vento, erano petulanti e lo facevano spasimare.

Gèsu...  come  ti  senti  oggi?  -  gli  chiedeva  invariabilmente  la  povera  cieca.  -  Fatti  coraggio,

bene mio, fatti coraggio.

Il malato, sebbene la sua volontà si  affievolisse  ogni  giorno  di  più,  si  sentiva  come  strozzato dalla passione che gli mettevano in cuore quelle parole.

Quello che resisteva alla tempesta era Rocco.

Come uno di quei tronchi poderosi di quercia che  il  fulmine  colpisce,  e  l’incendio  divora,  e  i pastori privano dei rami sulla montagna,  eppure  a  ogni  primavera  mettono  fuori  i  loro  polloni  verdi, così Rocco  rimaneva  sulla  breccia  lavorando  per  tutti,  provvedendo  la  casa  di  grano,  di  legna,  di  frutta e di verdura. Non aveva smessa una delle sue abitudini.

All’alba era in giro con la consueta cesta di canne a raccogliere il concime. La sera non tornava mai dalla campagna senza una manata di legna secca,  o  una  grossa  radice  di  lentisco  per  il  fuoco;  e poiché dopo  il  viaggio  alla  Madonna  della  Montagna  gli  era  morta  l’asina  dalla  stanchezza,  ora  pensava di acquistarne un’altra per i bisogni della casa.

La tragedia della sua famiglia gli opprimeva il cuore e più di una volta durante le sue preghiere

aveva  chiesto  conto  a  Dio  di  quei  tanti  dolori  che  si  erano  accumulati  sulla  casa;  ma  la  sua  anima  si placava in una stupenda e virile rassegnazione.

Tutto viene da Dio, - diceva il vecchio - egli sa il perché delle cose! Che possiamo sapere noi, poveri ignoranti, del perché egli manda la pioggia e il vento, la tempesta e il bel tempo?

Abituato a sentire l’opera della divinità tutti i giorni presente negli alberi che crescevano e fruttificavano, nei grani che germogliavano, nelle piante del suo orto delle  quali  ognuna  aveva  la  sua stagione e il suo fiore e la sua bellezza; educato alla venerazione dell’ordine  naturale,  a  considerare  i fenomeni come manifestazioni dei disegni provvidenziali, egli alzava al cielo  gli  occhi  come  se  si  fosse trovato in una immensa chiesa, e adorava la volontà  del  Signore  anche  nel  male  terribile  e misteriosamente necessario.

Dopo qualche mese di degenza nel letto, Gèsu  ebbe  un  nuovo  terribile  incomodo:  gli  si  aprirono dietro le reni due enormi piaghe.

Per  tenerlo  pulito  vi  andava  un  mare  di  biancheria  tutti  i  giorni.  Era  necessaria  una  donna

apposta.

Mariuzza allora ricorse a Giusa che, povera diseredata, veniva tutte le  sere  col  suo  bambino  in braccio e un grande aspetto di miseria, a visitare il fratello.

Fammi la carità, - disse Mariuzza - aiutami a tenerlo pulito, io provvederò ai tuoi bisogni.

Così Giusa, a poco a poco, ricondotta dal dolore e dalla necessità, ritornò nella sua casa.

Il giorno lasciava il bambino alla sua cognata e andava  a  lavare  la  biancheria  del  fratello,  la orribile biancheria piena di marcia, di orina e  di  sporcizia.  E  non  un  moto  di  ripugnanza  mai,  non  un senso di stanchezza! Davanti a  quelle  cose  miserabili  compiangeva  il  fratello,  e  gli  sembrava  di  non fare mai abbastanza, come se quella fosse stata per lei una espiazione.

Passò l’inverno. Venne la quaresima e la settimana di passione.

Gèsu peggiorava ogni giorno.

La mattina del venerdì santo volle scendere dal letto per vedere la processione. Lo misero sopra una sedia vestito alla meglio, lo coprirono con un mantello  di  orbace,  perché  l’aria  della  mattina  era ancora fresca parecchio, specie prima del levarsi del sole, e lo portarono sulla strada.

All’alba  del  venerdì  di  passione  a  Pandore  si  fa  una  processione  che  è  come  una  specie  di

rappresentazione sacra. Si finge il trasporto del Corpo Santo al sepolcro.

La chiesa quella mattina rigurgitava  di  gente.  Tutto  il  popolo,  come  di  consueto,  era  convenuto alla mesta cerimonia quando appena imbiancava il crepuscolo.         Allor    che    apparve    sull’altare    la croce, un’immensa croce piatta di legno, con un lungo sudario appeso alle braccia, la Palamara, col suo vocione baritonale, intonò un inno maestoso al segno della redenzione:

Evviva la cruci - surgenti di gloria...

Poi la processione uscì dalla chiesa diretta a una  collina chiamata il Calvario. Quando giunse in fondo alla Ruga Grande il sole non era ancora spuntato sul mare.

Come un’immensa aureola di luce era nel cielo, una luce argentea, nella quale tremolavano leggermente le cime degli olivi.

In testa alla processione era la croce che ondeggiava  funerea,  nell’aria  limpida  della  mattina,  in mezzo alle piccole case tristi che parevano anch’esse in lutto. Seguiva il Cristo morto, un piccolo Cristo di legno, come un adolescente di dodici anni, portato  a  spalla  da  otto  giovani  che  avevano  in  testa grosse corone di spine. Aveva i ginocchi e i gomiti scorticati, le membra  livide  e  i  capelli  e  la  barba impastati di grumi di sangue.

Dietro il Cristo veniva una piccola comitiva  di  cantori:  Don  Gianni  Cùfari,  Don  Gialormo  il capo guardia, il Galeoto e pochi altri tra i più celebri bestemmiatori  del  paese.  Leggevano  in  certi libriccini manoscritti una serie di distici  che  cantavano  a  voce  spiegata.  A  essi  rispondeva  il  popolo  in coro. Dopo i cantori era una grande statua della Madonna Addolorata, con  un  ampio  panno  nero  sul mantello turchino, un piccolo crocifisso snodato sulle braccia, e  le  sette  spade  nel  petto.  Il  popolo mesto seguiva a capo scoperto salmodiando.

Dicevano i cantori:

Gesù mio, con dure funi, le tue mani chi mai legò?

Rispondeva il popolo picchiandosi il petto:

Sono stato io, l’ingrato! Gesù mio, perdono e pietà.

Il  canto  saliva  in  mezzo  alle  case  silenziose,  triste,  lugubre  come  un  lamento,  e  più  triste  lo

rendeva il  bisbiglio  dei  passeri  che  negli  intervalli  si  udiva  venire  dai  tetti.  Le  finestre  erano  socchiuse, le porte serrate, i volti erano tutti mesti. Sembrava che quel popolo povero, che aveva negli occhi e nei vestiti tanti segni di sofferenza e di miseria, si accusasse con un lamento corale della passione del Dio- Uomo.

Dicevano i cantori:

Gesù mio, d’acute spine il tuo capo chi incoronò?

Rispondeva il popolo:

Sono stato io, l’ingrato! Gesù mio, perdono e pietà.

Gèsu guardava la processione avanzare, con un leggero  tremito  nelle  mani,  gli  occhi  già  quasi senza sguardo, emaciato come un’ombra.

Ricordava appena, in quel residuo crepuscolare di vita che gli rimaneva,  i  giorni  quando  egli andava in chiesa a cantare, quando la sua bella voce tenorile scandiva per  le  vie  del  paese il  distico doloroso.

Rocco si era inginocchiato alla sua destra, e Mariuzza alla sua sinistra. Si picchiavano il petto e lacrimavano silenziosamente.

Il popolo che passava li commiserava nelle pause del canto.

La Madonna, col suo bel volto affilato e dolente,  due  grosse  lacrime  immobili  sulle  guance, pareva guardasse il malato e dicesse: «Non vedi che piango anch’io, non vedi che soffro anch’io? Tutto è dolore nel mondo».

La processione passò, entrando nella via della Guardia, e si allontanò.

Spuntava il sole.  Le  cime  degli  olivi  luccicavano  umide  di  guazza,  con  le  loro  foglioline  novelle di un  tenue  color  giallognolo  spiccati  nel cupo  della  fronda.  I  grani  teneri  verzicavano in pace sui poggi che la luce appena toccava, lasciandoli come in ombra;  tutti  gli  alberi  avevano  messe  le  gemme,  e alcuni fiorivano con un senso di delicata letizia. Una grande serenità era nella campagna verdeggiante e inumidita, che faceva un singolare contrasto con la tristezza della processione, e col ritmo di quel canto espiatorio degli uomini.

Mariuzza si era alzata, vinta da un bisogno irresistibile di sfogarsi, e per non farsi sentire da suo marito, si era andata a sedere vicino alla scala, nascondendo il volto nel grembiule.

Giusa aveva deposto in terra il bambino, ed era scesa verso il Murello a stendere dei panni sulle

siepi di un orto. Rocco guardava lo  spettacolo  stupendo  della  mattina,  quella  pura  luce  diffusa  sotto  un cielo sereno, e il verde della campagna, e gli orti fioriti, e la promessa dei grani; e si sentiva intenerito e riconciliato con la vita.

Come era bella la campagna e quanto prometteva!

«Perché, o Signore», diceva in cuor suo il  vecchio  contadino,  guardando  intorno  i  poggi  e  gli alberi come persone care «perché ci avete data una terra così bella, e non ci avete dato anche il pane per nutricarci? Senza questa povertà i miei figlioli non sarebbero  andati  in  America,  e  uno  non  sarebbe morto di ferro, un’altra di suicidio, e un terzo rovinato da un male misterioso».

Mentr’egli così meditava Giusa tornò dall’orto.

Il suo piccolo si era trascinato carponi fino  alla  sedia  dove  era  seduto  Gèsu,  e  si  era  messo  a tirare disperatamente con le sue manine grassocce una stringa delle scarpe del malato.

Giusa si avvicinò al fratello, e osservando che la testa gli era caduta pesantemente sul petto, gli mise una mano sulla spalla e lo chiamò con dolcezza. La bocca del malato era aperta in modo macabro, e un filo di bava gli scendeva sul petto. Gli occhi erano socchiusi ma senza sguardo.

Pa’... o pa’..., - fece Giusa spaventata, a bassa voce, - venite qua, mi pare sia morto.

Rocco si avvicinò e si chinò sul malato.

È morto, figlio benedetto, è morto! Non gridare che non oda quella poveretta - e accennava a Mariuzza. - Aiutami a portarlo in casa.

E mentre il padre e la figlia portavano a braccia il povero morto su  per  la  scala,  il  canto espiatorio veniva da lontano con l’aria fresca della mattina.

Dicevano i cantori:

Gesù mio, di fiele e aceto

le tue labbra chi abbeverò?

Il popolo rispondeva:

Sono stato io, l’ingrato! Gesù mio, perdono e pietà.