Francesco Perri
Emigranti
PARTE PRIMA
Cap.I
Quella volta i Panduresi, o Pandurioti - come si
chiamano più propriamente, con una
denominazione che ha tutto il profumo antico delle colonie ioniche -
erano risoluti di farne una, che rimanesse
veramente memorabile negli annali della Calabria.
Li chiamavano «Pandurioti senza
sangue», perché avevano fama
di essere gente pacifica, modesta, frugale, e un
pochino anche povera di spirito, ma i Pandurioti senza sangue,
una volta tanto avrebbero insegnato a tutti come si fa a
farsi rendere giustizia, anche dal Governo; e
avrebbero impartita una lezione memorabile ai galantuomini. I quali,
in definitiva, non erano neppure
del loro paese. Grossi proprietari di Platì, di S.
Ilario e di Siderno erano, che avevano, in altri
tempi, con l’inganno, la violenza, e valendosi delle
magistrature e delle influenze
politiche, usurpate quasi tutte le terre
demaniali del Comune, e per colmo del dispetto si servivano ora di
braccia forestiere per coltivarle.
Ancone, il Carruso, i piani di Angelica, Flavia, i Baronali:
tutta terra usurpata, sangue dei poveri,
beni collettivi del Comune, che poteva essere il
più ricco della provincia e
invece era tra i più poveri, e doveva mandare i suoi figli in
America, in un altro mondo, a procacciarsi un tozzo di pane.
Il paese, chiuso in un cerchio di ferro da quei vasti latifondi,
passati, non si sapeva come, nelle mani dei signori forestieri, non
respirava se non per quel tanto che piacesse ai padroni di farlo
respirare. Per far legna, per pascolare, per coltivare un po’
d’ortaglia, per seminare un pugno di grano bisognava passare il
lustrissimo ai signori, i quali si davano l’aria di proteggere e
beneficare il Comune, mentre si nutrivano del suo sangue e si
godevano i suoi beni. E ciò senza contare qualche
acconto in natura, prelevato di quando in quando tra le
ragazze più belle del paese.
Altre volte si era tentato di
rivendicare quei benedetti terreni
demaniali, e molti erano stati gli
agenti delegati a risolvere l’annosa quistione; ma alla resa
dei conti non si era mai
concluso nulla. I signori avevano sempre trovato il modo
di eludere la legge, se pure qualcuno si era mai
proposto veramente di applicarla:
perché, a guardarci bene in
fondo, tutti quei magistrati che
venivano da lontano, e dimostravano, a parole, tante buone
intenzioni verso gli interessi del popolo, erano poi d’accordo
con gli usurpatori per gabbarlo. E il Governo, beato lui! teneva
mano.
Quella volta però la cosa era impostata diversamente. Prima
di tutto alla testa del popolo vi era il Sindaco, un avvocato
giovane, che sapeva dove mettere le mani, e insieme a lui vi
era il maestro elementare, Don Michelino Fazzolari, un
giovanotto anche lui che aveva
studiato a Messina quattro anni, e sapeva leggere
e scrivere come un padreterno. Erano loro questa volta che avevano
presa l’iniziativa, e avevano scovato nell’archivio
municipale dei documenti veramente
definitivi. In quei documenti i diritti del Comune
vi erano esposti chiaramente, come
in un testamento scritto dal notaio.
Don Michelino aveva copiato, in un foglio di
carta protocollo, con la sua
bella calligrafia a svolazzi, i passi
più importanti di quei documenti, e li andava leggendo
a tutti, perché si
persuadessero e s’incoraggiassero ad agire. Non tutti i
documenti erano stati ritrovati, veramente. I più
antichi e importanti erano stati
distrutti dai vecchi amministratori,
pagati dai galantuomini
forestieri. Mancavano, per esempio, quelli
relativi alle operazioni demaniali
eseguite dal generale
Colletta, lo storico. Ciò non di meno quelli che
erano stati ritrovati, bastavano a provare i diritti del Comune.
Ascoltate, - diceva il maestro
Fazzolari, cacciandosi con un gesto
rapido la paglietta sulla
nuca, - questi sono documenti, non li ho mica inventati io
«L’anno 1853 alli 28 del mese di ottobre, in questo Comune di
Pandore, volendo proseguire l’operazione incominciata ieri in
compagnia delle persone annotate, ecc., ci siamo recati nella tenuta
comunale chiamata Forestola ossia Macrolis, confinante col feudo An
cone, ecc. Noi quindi in presenza dell’interessato signor ***,
abbiamo ordinato e ordiniamo ai periti Macrì e Romeo di
apprezzare tutta la suddetta parte del fondo Ancone e aggregarla
alla foresta comunale. Abbiamo quindi dichiarato al signor Sindaco
qui presente, massaro Rosario Zito, che tutti detti prezzi passavano
da oggi nel libero possesso del Comune, - sentite? - e che rimaneva
a lui il carico di edificare delle colonnette di fabbrica, in modo
da non venire più alterati i termini».
È chiaro?
Ah! per chiaro è chiaro come l’ambra. Ma perché non
ha mantenuto il possesso, il massaro
Rosario Zito?
Perché? perché da Siderno gli hanno mandata una pesa
di maccheroni.
E questo è uno, - seguitava Don
Michelino infervorato - questo è il primo.
Sentite quest’altro:
«L’anno 1889, il 17 giugno nel territorio del Comune di
Pandore. In esecuzione dell’ordinanza dell’Ill.mo signor Prefetto
della Provincia di Reggio, commissario per gli affari
demaniali, in data quattro corrente. Noi Giovanni
Bosurgi, agente delegato in detta operazione, ecc., assistiti, ecc.,
abbiamo constatate le occupazioni esistenti nonché la loro
estensione, la natura del terreno, e infine i nomi degli illegittimi
proprietari, tra i quali figura il signor *** che ha occupato
terreni come dal quadro sinottico appresso segnato:
«Seminatorio con gelsi e fichi, ettari 400; frattoso e boscoso
ettari 250; frattoso, boscoso e parte aratorio 100».
Insomma, le carte parlavano chiaro, i documenti c’erano, ma, come le
gride manzoniane, non avevano mai prodotto alcun effetto
concreto. Ora il Sindaco e la nuova amministrazione erano
risoluti d’andare a fondo, a qualunque costo, e
nella ultima seduta consiliare avevano
approvata una deliberazione veramente coi fiocchi, e l’avevano
spedita al Prefetto.
Anche la conclusione di quella deliberazione aveva trascritta Don
Michelino e la leggeva, specialmente alle donne; le quali, all’idea
di mandare in America i loro uomini, diventavano furibonde.
«Il Comune - diceva la deliberazione - non mai cessò di
reclamare quanto le benefiche leggi eversive, abolitive della
feudalità, avevano concesso a beneficio e sollievo dei suoi
cittadini. Il presente conato sarà l’ultimo. Al Comune si
parano davanti due sole vie: o le reintegre demaniali, e così
tirare avanti l’esistenza e sostenere la povera famiglia, o
disertare il paese imprecando ed emigrando in America, in cerca di
quel pane che il proprio paese gli nega».
Non gli avete detto, però, che saremmo andati a prendercele,
le terre, se lor signori non ci renderanno giustizia; non
glielo avete detto? - facevano le donne con gli
occhi minacciosi, i bimbi in braccio
seminudi, sporchi di moccio e di terra. - Bisognava dirglielo.
Quelle cose si fanno e non
si dicono. Del resto vedremo
quanti sarete a venire, se la
cosa dovesse risolversi così.
Quanti saremo? tutti... anche le galline verranno. Se qualcuno
rimarrà a casa lo squarteremo, per il Signore, vedrete.
Per tutta l’estate non si parlò d’altro a Pandore che della
rivendica dei terreni demaniali, e della possibilità di una
occupazione violenta, se l’Autorità avesse
fatto come per il passato. Si
discorreva nelle botteghe, sulle piazze, sulle aie, durante la
scarsa e magra trebbiatura di quell’anno
disgraziato; si parlava la domenica prima, dopo e qualche
volta durante la messa. Si pesava il pro e
il contro, si ragionava sulla
importanza dei documenti, che
parlavano chiaro come
una sillammatica; si affacciavano i dubbii
sulla riuscita, sui pericoli di una siffatta avventura: ma alla fine
tutti erano d’accordo che bisognava agire.
Valeva proprio la pena! Sarebbero diventati tutti piccoli
proprietari.
Il conto era subito fatto. Erano 200 tomolate ad Ancone, circa 700
al Carruso; a poi il Prato, Angelica,
Flavia, i Baronali! in tutto oltre duemila tomolate. La
popolazione del Comune contava appena 1500
abitanti. Distribuita la terra per capi di famiglia, sarebbe toccata
una bella porzione a ciascuno; e tutta terra
eccellente da far grano come sabbia.
Tale era l’interesse che aveva suscitato nella popolazione
quell’affare delle terre e tante le speranze, che molti
giovani avevano rimandata la loro partenza per l’America, e le donne
che avevano i mariti emigrati, avevano scritto loro che
si tenessero preparati a rimpatriare,
perché quanto prima le terre del Comune
sarebbero state rivendicate e distribuite alla
popolazione, e l’America l’avrebbero avuta in
casa.
L’annata era stata pessima per i
seminati a causa della siccità,
e peggiore si annunciava l’autunno per la raccolta
delle olive. Durante il mese di agosto due volte era apparsa sul
mare la lupa, la terribile nebbia dello scirocco che viene dalle
spiagge africane; e le olive chiazzate di
rosso, corrose e disfatte cadevano dall’albero a ogni
soffio di vento. Che fare in quella terra arida e maledetta,
soggetta a tutte le intemperie? L’unica risorsa era emigrare, e
più di quaranta uomini atti al lavoro si erano fatti
rilasciare i passaporti.
L’emigrazione in America, specialmente da parte dei
Pandurioti, fino allora era stata
scarsissima. In maggioranza contadini, quasi tutti analfabeti che
non avevano messo mai il naso fuori dell’uscio, un po’ timidi per
natura, attaccati alla loro terra e ai loro affetti,
erano presi, all’idea di emigrare, da una specie
di terrore misterioso. Qualche operaio che
vi si era arrisicato non aveva
fatto gran che fortuna, mentre dai paesi vicini, dove l’emigrazione
era stata più larga, giungevano
spesso notizie che facevano perdere la voglia di avventurarsi.
Un tale di Platì era
stato ucciso da quelli della Mano Nera; un
altro di Bovalino aveva perduta una gamba sotto un treno. Di
qualcuno non si avevano più notizie. Gli animi rimanevano
perplessi, i cuori sospesi e incerti. Perciò la notizia
che il Comune intendeva promuovere seriamente la
rivendica dei terreni demaniali, era stata per tutti
una specie di pretesto per non tentare l’ignoto. In
attesa che il Prefetto desse evasione - come diceva Don Gialormo il
capo guardia - alla deliberazione
consiliare, si era arrivati alla
metà di settembre, ma il
Prefetto taceva dignitosamente. Gli animi erano eccitati e si
attendeva un ordine dal Sindaco. Don Michelino,
col cappello sulla nuca e l’estratto dei documenti demaniali in
aria, soffiava nel fuoco.
Il Sindaco ha paura, quanto è vero Dio, è un pulcino.
Ha paura? e allora non faccia il Sindaco - gridava digrignando i
denti il Galeoto ; e batteva il pugno sul pancone,
facendo tintinnire il vassoio coi
bicchierini allineati, tutti umidi
dell’anice tracannato dai frequentatori.
La bottega di Porzia Papandrea era uno dei luoghi dove le
discussioni diventavano più accese e prendevano, per
così dire, un tono corale. Vi
convenivano abitualmente, per acquistare
un soldo d’erba santa o un
sigaro napoletano, Don Gianni
Cúfari, cassiere del Comune,
Don Gialormo il capo guardia, il Galeoto -
un manuale che aveva scontati 16 anni di galera per omicidio, ed era
ritornato in paese con una edizione illustrata della Battaglia di
Benevento -, cosa che gli aveva
acquistato fama di uomo di lettere; Rosario
Cosenza - un altro che aveva imparato a leggere in prigione,
e che chiamavano l’avvocato, perché andava in
giro con una edizione tascabile dei Cinque Codici - e
Don Michelino Fazzolari. I primi, tra una discussione e
l’altra, centellinavano saporitamente, schioccando la lingua, dei
bicchierini di anice. Don Michelino
non beveva: fumava invece delle
sigarette Macedonia, rompendole a metà per
economia, e dissipava le obiezioni con un’aria da Gesù tra i
dottori.
Nella bottega piccola e buia, per metà occupata da un grosso
pancone annerito sul quale si dondolavano le bilance del sale, si
spandeva, col profumo dei tabacchi, un
forte odore di acciughe salate, e quello
più pesante e nauseabondo di un mastello di stoccafisso messo
ad ammollare. In mezzo era posato un lume ad acetilene, che insieme
a una luce bianca, a volte abbagliante, spandeva anch’esso intorno
un suo odore acre e penetrante come quello dell’aglio.
Dietro il banco Porzia Papandrea, con la sua larga faccia butterata,
incorniciata da capelli ancora
nerissimi, l’enorme petto afflosciato e pendente sul ventre come
una doppia vescica di liquido, una
collana di vetro a grossi acini gialli, serviva con indolenza
pesante e rassegnata qualche cliente;
e di quando in quando scostava inquieta una tendina verde
calata nel vano d’una porta che dava nel retrobottega, donde
giungeva a tratti, tra il bisbiglio
sommesso d’una conversazione molto
familiare, il riso squillante della figlia Vittoria.
Voi dite che il Sindaco ha
paura, - diceva Cosenza, mettendo
fuori da una saccoccia interna
della giacca i Cinque Codici, - ha ragione di avere
paura. Io quelle leggi diversive
delle proprietà feudali non le trovo qua dentro.
Don Michelino stralunava gli occhi: - Diversive? che cosa sono
coteste leggi diversive?
Lo domando a voi, io...
A me? E chi ha parlato di leggi diversive?
Voi, santo diavolo, proprio voi. In
quella carta che andate leggendo
a tutti, dice proprio così:
«benefiche leggi diversive» in un punto. In un altro
punto dice: «benefiche leggi bollitive». Nel Codice
quelle leggi non ci sono. Ecco qua, guardate voi stesso.
Ignorante! - gli gridava in viso Don Michelino - ignorante! - Nella
carta dice eversive e non diversive. E in un altro punto dice:
abolitive. Se non lo sai sono le
leggi emanate da Re Gioacchino, quello che ammazzarono a
Pizzo.
Cosenza rimaneva male. Don Gianni Cúfari si teneva la pancia
per il gran ridere.
Ah! Ah! bollitive!... che dici, Cosenza?
Bollitive o abolitive fa lo stesso, -
insisteva Cosenza, riprendendo coraggio. -
Sono leggi che non valgono più nulla, altrimenti si
troverebbero nel Codice.
Insomma, - interrompeva furibondo Don Michelino - tu vuoi mettere
in dubbio che le terre appartengono al
Comune?
Niente affatto; ma dico che l’articolo non è quello che
citate voi. Con la legge non si scherza, caro Don Michelino,
e se non facciamo le cose con le regole e le
controregole ce ne andremo tutti in galera.
Sentiamo un po’ l’opinione di Guerrazzi, - disse
Don Gialormo, schizzando sul pavimento
un lungo getto di saliva, - sentiamo il parere di Guerrazzi. E
ammiccava verso il Galeoto.
Vuoi sapere il parere di Guerrazzi? te lo do
subito - rispose quello, stralunando
i suoi occhi gialli come quelli dei gatti selvatici. -
Il mio parere è che da oltre cinquant’anni
queste ranocchie di Pandurioti tentano di riavere i loro
beni, e non sono mai riusciti a trarre un ragno dal buco. Ora a me
pare sia giunto il tempo di fare sul serio.
E tu pensi che questa sia la buona? - domandò con un riso
beffardo Don Gianni Cúfari.
Se siamo cristiani con due dita di battesimo, questa sarà la
buona.
Ascolta, - riprese il vecchio - io ci vivo da oltre trent’anni
nel Comune, e di coteste operazioni demaniali ne ho viste iniziate
almeno una diecina. Credimi, caro mio, non
è affar nostro. È morto
nessuno per lasciartele quelle terre in eredità? No? e allora
non ci pensare, anzi, non ci pensiamo. Mettiamo
tutti il cuore in pace, e chi deve andare in America vada
pure, ché le terre demaniali rimarranno a chi le possiede.
Ecco... ecco... quelli che hanno rovinato il
Comune! - urlava Don Michelino, con
gli occhi fuori dell’orbite, congestionato, scuotendo le mani
in alto, con un atto di comica
deprecazione. - Sono questi vecchi uomini che hanno
rovinato il nostro Comune. Sempre pronti
a curvare la schiena e a calare le
brache.
Vedremo quello che farete voi, novello messia del popolo ebreo.
Don Michelino avrebbe voluto rispondere, ma la conversazione fu
interrotta da un fragore di stoviglie nel retrobottega,
a cui seguì un acuto strillo di Vittoria.
Porzia balzò in piedi con tutta la
velocità che le consentiva la sua vasta
mole di donna disfatta dalla pinguedine e dalla pigrizia, e
sollevata la tenda cominciò a urlare con la sua voce da orca:
Per il Padreterno, vi taglio la testa a tutt’e due. E scomparve
dietro la tenda.
Musica! - fece Don Gialormo guardandosi intorno.
Che succede?
Porzia è gelosa - spiegò a bassa voce il capo guardia.
Porzia Papandrea, ai suoi tempi, era stata una delle più
belle donne del paese; bella, per intenderci, di
quella bellezza vigorosa, quasi
barbarica, fatta di carne, di sangue,
di ardori insaziabili e di elementi essenziali,
che caratterizza gli amori e i gusti della gente popolana.
Rimasta vedova ancor giovane, con una bambina, con
l’esercizio di una bettola e della
privativa che la mettevano continuamente in
contatto con ogni specie di persone, era stata l’amante
di quasi tutti gli uomini gagliardi e
un po’ in vista del paese.
Quando gli ardori della giovinezza
cominciarono ad affievolirsi, e gli
spiriti battaglieri dell’amore inclinavano
a cedere il campo
alle considerazioni pratiche,
Porzia scelse tra i suoi amanti superstiti quello che le garantiva
di esserle più fedele, e che contempora-
neamente, per le sue condizioni economiche,
rappresentava una fondata speranza per
l’avvenire di sua figlia Vittoria; una ragazza che
cresceva con le ore, piena di una giovinezza prepotente e impetuosa
più di quella di sua madre.
La scelta era caduta sopra Bruno
Ceravolo, un massaro ricco, vedovo
anche lui e senza eredi
diretti, che consumava le sue rendite nelle
bettole e nei suoi numerosi
amori vedovili, ed era uno dei
più assidui frequentatori della bottega di
Porzia. Ma questa, valicati i
quarant’anni, invecchiò rapidamente, diventò una
massa informe di grasso e di
accidia, e dell’antica bellezza non
le rimasero che i capelli, sempre
neri, lucidi come l’ala del
corvo, che con il loro splendore
intatto accentuavano nell’osservatore la disgustosa
impressione che produceva la vista del progressivo
disfacimento di quel corpo, che una volta aveva fatto
girare la testa a tutto il paese. Delle sue relazioni con Bruno
Ceravolo a poco a poco non rimase che l’abitudine, un’abitudine
stracca e piena di querele e di crucci. La giovinezza
che fuggiva da lei pareva trasferirsi e moltiplicarsi
nella figlia Vittoria, una specie di gigantessa, che della
madre aveva non solo gl’istinti e la tendenza al godimento pieno e
turbinoso, ma dimostrava di avere anche il senso pratico, e
l’attitudine al calcolo in tutte le cose, non escluse
quelle dell’amore.
Naturalmente i giovani che la volevano
sposare erano molti in paese, ma essa, mentre dimenava la coda con
tutti, accarezzava un progetto ambizioso che
conosceva lei sola, e che aveva
naturalmente messa la guerra in famiglia.
Massaro Bruno, a furia di accarezzare e di vedersi girar
davanti tutto il giorno quella splendida ragazza piena di sangue e
di salute, dai fianchi poderosi, con un petto che pareva le
schiantasse il busto, si sentiva intorbidare gli occhi.
Egli era uno di quegli uomini
duri, asciutti, con una complessione
segaligna e perfetta, i quali, in fatto di
amore, a cinquant’anni, si domandano se la giovinezza è
ancora da passare. A vederlo tutto
sbarbato, con un volto secco, quasi tagliente, segnato da
qualche ruga profonda che dava
un’impressione più di energia che di vecchiezza; vestito di
un fustagno casalingo tessuto con un filo
ricavato da cascami di seta, giacca e pantaloni corti,
calzettoni di lana al ginocchio,
scarpe alte di vitello, con guarnizioni ad arabesco
intorno all’allacciatura; agile, vigoroso,
rapido nei movimenti, le mani ruvide e nervose,
cosparse da un pelame rossastro, sembrava un organismo in ferro
battuto.
Vittoria non tardò ad accorgersi che certe carezze di
quell’uomo erano troppo audaci e insistenti per essere carezze
paterne, e concepì subito il suo piano di battaglia. Sua
mamma invecchiava e lei ne avrebbe preso il posto, ma non come
amante, come moglie.
Quella sera massaro Bruno era nel retrobottega, mentre Vittoria
lavava i piatti, e come al solito le ronzava attorno, le passava la
mano sulla schiena, come si fa con una bella
cavalla, e quando gli riusciva, le scoccava di
sorpresa qualche bacio.
Quando s’udì il fragore di stoviglie massaro Bruno aveva
afferrata la ragazza, e aveva tentato di baciarla in bocca.
Vittoria, divincolandosi, aveva dato del gomito in una pila di
piatti, che erano precipitati sul pavimento. Quando
Porzia sbucò da dietro la tenda verde,
massaro Bruno, con gli occhi torbidi, le
mani protese, cercava trattenere la ragazza,
mentre questa lo respingeva
puntandogli sul volto uno straccio tutto gocciolante
dell’acqua sporca della rigovernatura.
Successe un putiferio. Accuse, grida, urli, imprecazioni, e
finalmente il pianto flebile e
stanco di Porzia che si era accasciata in un angolo e si
lamentava come una mucca malata. Gli avventori a uno a uno uscirono
sulla piazza commentando.
In bottega rimase uno solo, un
giovanottone grande e grosso
dall’espressione cavallina, che
seduto in un angolo scuro, sopra un barile vuoto di aringhe, non
aveva preso parte affatto alla discussione delle terre.
Guardava invece con un cipiglio
cupo verso la tenda verde, donde
veniva il riso di Vittoria, e quel
chiacchiericcìo familiare che aveva fruscìo di baci e
sentore di carezze.
Ascoltava e si consumava in silenzio.
Cap. II
Ma la discussione delle terre, troncata nella bottega di
Porzia Papandrea, continuava in altra parte
del paese.
In quelle piacevoli e miti sere
settembrine, dopo consumata la cena,
i contadini solevano radunarsi in crocchi numerosi
e lì, seduti sulle scale esterne delle piccole case di gesso,
tutte screpolate dai terremoti e
dall’umidità dello scirocco, i
giovani amoreggiavano con le ragazze,
le anziane filavano e cicalavano del più e del
meno, e gli uomini maturi discorrevano del
raccolto, delle annate che erano scarse,
della semina futura, dei pochi emigrati che facevano
fortuna, e qualche volta dicevano
male di quelli del Comune.
La luna, sospesa sopra il mare
come un immenso globo d’argento,
illuminava gli orti, dai quali
giungeva, ora prossimo ora lontano, il canto dell’ultimo assiolo.
Il luogo dove queste riunioni erano
più numerose, e le discussioni
più appassionate, era la scala di
Rocco Blèfari, in fondo alla Ruga Grande.
Era una scala esterna in pietra e gesso, che guardava al mare.
Davanti si allargava una specie di piazzetta - il Murello - e un
orto abbandonato, circondato da macee
mezzo cadenti, che servivano da sedile per
coloro che non trovavano posto sul minuscolo anfiteatro
dei gradini. In alto sedevano le
donne, in basso gli uomini: in mezzo, tra l’una e l’altra rampa
della scala, sopra una piccola sedia
ricoperta di sala, sedeva Rocco Blèfari come un patriarca
antico.
Scalzo, in maniche di camicia, le lunghe gambe
secche come di busso brunito,
mezzo nascoste nelle mutande di tela, che sbucavano di sotto i
calzoni corti di orbace, sul capo
un fazzoletto a quadri azzurri, annodato ai lati
per le cocche, simulanti sugli angoli della
fronte due piccole corna faunesche, Rocco
guidava la discussione fino a tarda notte.
Non aveva mai portato scarpe in
vita sua, e quando narrava
quello che aveva sofferto la sola
volta che si era messo un paio di scarpe per due ore, faceva
smascellare dalle risa tutto il paese. Era stato in occasione delle
sue nozze. - Credevo di morire - diceva - e al pranzo di nozze era
andato scalzo. Dopo quel giorno i suoi piedi non avevano mai
più calzata una scarpa, ed
erano diventati celebri nel paese, citati a
esempio. Dicevano che con quei piedi egli passasse
sulle pale dei ficodindia, senza neppur
avvertire le spine.
A portare il berretto gli veniva l’emicrania, e per non andare in
giro sotto il sole col suo grosso testone ovale, levigato come uno
di quei ciottoloni che si
trovano nei greti, con una
corona di capelli grigi corti e ispidi come spine
intorno alla nuca, portava quel fazzoletto a
quadri, annodato per le cocche sulle tempia, che
gli dava un po’ l’aria di un alienato scappato da un manicomio.
All’alba, quando cantavano i galli,
Rocco era già in giro per
il paese a raccattar concime. Da
una mano una cesta di canna, dall’altra una
piccola zappa, girava per tutte
le vie, raccoglieva davanti alle stalle il fimo
degli asini, davanti alle porte delle case quello dei maiali, e lo
cacciava nella cesta delicatamente, come se
si fosse trattato di frittelle
dolci, mormorando: - Questo è pane, questa
è grazia di Dio.
Aveva quattro figli, due maschi
e due femmine, la maggiore delle
quali, Giusa, faceva da
mamma perché la sua povera moglie era morta da
oltre dieci anni. Dei due figli
maschi, il maggiore, Pietro, un diavolone grande come S.
Cristoforo, testardo, un vero bue
da lavoro, era perduto dietro la
figlia di Porzia Papandrea, e ora voleva andare in
America per mettere da parte
qualche biglietto da mille e sposarla. L’altro,
Giosofatto, che in casa chiamavano Gèsu,
un ragazzo intelligente, avrebbe avuto una grande
vocazione per farsi prete; ma come fare a
mantenerlo in seminario? mancavano i mezzi.
Perciò il povero ragazzo aveva
dovuto rassegnarsi e imparare, prima
a tirare il mantice dell’organo, poi a servire la
messa, e ora cantava a vespro il Dixit
dominus, e il Kyrie alla messa
cantata, meglio di un prete.
Ma anche Gèsu si era fidanzato, con una orfanella loro vicina
di casa, adottata da due vecchi contadini
discretamente agiati, e voleva andare anche lui in America,
per non fare brutta figura coi parenti
della ragazza, che gliela davano mal volentieri, perché
quella aveva una bella dote e lui era povero.
Quell’affare dell’America per Rocco era una spina nel cuore.
Non essendo mai salito sopra un
treno, all’idea che i suoi figlioli
dovessero viaggiare per mare, andare in terre lontane, sconosciute,
tra gente che parlava un’altra lingua, si sentiva gelare il sangue.
Perciò quando nel paese si parlò della rivendica dei
beni demaniali, Rocco credette di avere trovato l’argomento
capitale per dissuadere i figlioli dall’emigrare.
Le carte parlavano chiaro, le
terre erano del Comune. Bisognava
farsi rendere giustizia. Ma
l’avrebbero resa cotesta giustizia i
magistrati? E con la parola
magistrati egli intendeva tutti quelli
che avevano una funzione pubblica.
Lì stava il busillis.
Ne ho viste troppe, - diceva Rocco, seduto davanti alla scala,
versandosi sulla palma un po’ di tabacco da una sua speciale
tabacchiera ricavata dalla scorza di un bergamotto,
- ne ho viste tante di codeste operazioni demaniali. Tutte le
volte che i signori si beccavano tra loro, o che
cambiava Governo, o era indetta una nuova elezione,
veniva da Reggio uno di quei
succhia-inchiostro che stanno negli uffici,
chiamava gli esperti, gli uomini
più vecchi del paese, e si recava nei demanii per
eseguire le misurazioni. Canne, corde, livelli!
sembrava il Padreterno che volesse
fabbricare di nuovo il mondo. Poi i
galantuomini lo prendevano, se lo portavano in casa,
lo gonfiavano di polli e di
pezzi di dodici carlini e l’operazione finiva
così. Per i poveri la giustizia è una cosa
seria! L’avete vista mai voi la
Giustizia? Io sì...
E dove? - domandava Passarelli, uno della brigata.
In Tribunale - rispondeva Rocco, serio serio. - Fui una volta a
Gerace Marina, ma per rendere testimonianza veh!, perché, in
grazia di Dio, non ho mai avuto a che fare con la legge. Quando
entrai nell’aula dove c’era la Corte, vidi in alto, appeso al muro,
un crocefisso. Questo va bene - dissi tra me - è Nostro
Signore Gesù Cristo, oggi e sempre sia lodato, e se giuri il
falso, te ne vai al paese di
Maometto diritto come un fuso. Ma sopra al crocefisso vi era dipinta
sul muro una bella donna. Oh, per bella era bella veramente!
aveva un paio di poppe che
sembravano quelle di Porzia Papandrea quando
era verde. Non ci credete? Ve lo dico sul serio. Teneva in una mano
una spada e nell’altra una bilancia. Mi hanno detto ch’era la
Giustizia. Allora io compresi tante cose di questo mondo! Ditemi un
po’: chi è che tiene la bilancia?
i bottega i, quelli che vendono. La Giustizia, dunque,
è una bottega, e quando c’è la bottega per lo mezzo,
cari amici miei, i poveri hanno sempre torto.
È proprio così! - disse Varvaro, un
vecchio segaligno e vigoroso, lo zio della fidanzata di
Gèsu
Blèfari. - E poi i signori con cui combattiamo
sono troppo potenti. Sono tutto loro, magistrati, sindaci e
primi-eletti, e hanno il Governo nella manica.
Non è quello, diceva Rocco - non è quello il segreto.
Il segreto ve lo dico io qual è. È che quando quei
signori vogliono ottenere qualche cosa sanno
come fare per ottenerla. Fanno
viaggiare i muli carichi di formaggi e di
caciocavalli. E sapete come dice il
proverbio? «Il regalo entra dalla porta e il
diavolo esce dalla finestra».
Insomma, tu ci verrai o no se andremo a occupare le terre? -
domandò Cataldo, un contadino nero come un sudanese; -
perché, cari miei, è inutile fare della filasofia. Se
si va bisogna andare tutti, vecchi e giovani, uomini, donne e
ragazzi, e chi manca, per il Signore, cacciarlo fuori di casa col
fuoco, come le volpi dalla tana.
Per venire ci vengo, - rispose Rocco - ma so come andrà a
finire.
Sentiamo, - disse Passarelli.
Te lo dico subito: andremo tutti in prigione.
Parla il profeta Bacuk - fece Rosa, la figlia minore di Rocco
Blèfari, che stava seduta in fondo alla prima rampa della
scala, di fronte a suo padre; e per timore che questi non le
allungasse, come al solito, una manata sulla schiena, facendosi
largo, scese di corsa nella strada.
Tutti si misero a ridere. La
Rosa, a cui nella corsa si
erano sciolte sulla schiena due grosse
trecce color castagno, si teneva i fianchi barcollando come ubriaca.
Era una ragazza gagliarda, con un volto bruno dalla espressione
aquilina, la fronte piccola, e due occhi screziati nelle iridi che
addolcivano voluttuosamente l’arditezza del viso.
Sulla guancia sinistra aveva, tonda e lucida come
un soldino di rame, la cicatrice
di una pustola che le avevano
curato col ferro rovente; ma quel segno deturpante,
se guastava in un certo modo
la bellezza del volto, le dava nello
stesso tempo un non so che di esotico e di saporoso. A vederla
così piena di salute, con gli occhi brillanti, le labbra
accese, il petto rotondo, e quel viso ardito
dal profilo di uccello, faceva
pensare a quelle belle pollastre
giovani, che sui primi dell’autunno
vengono portate dalla
campagna, e coi bargigli accesi, la cresta
sulle ventitrè, si offrono con orgogliosa alterigia ai galli
della contrada.
Hai fatto bene a scappare, - diceva
Rocco ridendo sotto i baffi - hai fatto bene!
altrimenti ti
avrei misurato a dovere coteste spalle da giumenta.
Diavolo! - diceva Rosa rimessasi
dal gran ridere - se voialtri uomini avete paura
di venire ci andremo noi donne a prenderle le terre. I peperoni ai
Baronali sono maturi.
Per la malogna, se sono maturi! l’orto rosseggia tutto come un campo
di papaveri.
Gèsu, che fino allora aveva guardato con gli occhi
imbambolati ora la luna, ora la fidanzata che filava in cima alla
scala, disse anche la sua:
Andate pure, prendete pure possesso delle terre e dei peperoni dei
Baronali. Io non ci vengo.
E perché, - domandò Mariuzza, la sua
fidanzata, puntando il fuso sul ginocchio, - perché non
volete venire?
Perché io ho altro per la testa. Voglio andare in America
io...
Ah! quell’America, che disperazione! - esclamò la ragazza
indispettita.
Sì, voglio andarmene, - riprese Gèsu - in questa terra
maledetta non ci voglio stare più.
Anch’io me ne andrò - fece il figlio di Cataldo, un
giovanottone nero e grosso anche lui come suo padre.
Lasciateli andare, lasciateli andare!
- gridava Rocco - questi giovanotti credono
che l’America
sia alla Marina di Bovalino, e
che i danari in quei paesi
si trovino in terra come i
ciottoli nei torrenti. Avete paglia nella testa, ragazzi
miei, paglia d’orzo...
Questa è una terra maledetta, - ripeteva Gèsu -
maledetta da Dio e dai santi...
Rocco s’irritò: - Maledetta? come, maledetta!... Ma non sai
che questa è la più bella
terra del mondo? Qui abbiamo tutto,
ogni bene e ogni grazia di
Dio. Cominciamo dalla primavera. In
aprile hai la lattuga, in maggio la fava e il pisello, in
giugno la ciliegia, la nespola e il fico fiore; hai anche l’orzo e
il grano già maturo. In luglio hai la pera, la
mela, la pesca e il ficodindia;
in agosto hai la mela granata e il fico, in
settembre l’uva, la noce, la mela e la pera invernale. In ottobre
comincia l’olivo, e sulle montagne hai la castagna. Si
può dire che non vi è mese in cui il
Signore non ci dia un frutto. Dove lo trovi tu un paese
come questo? Ricordatevi ragazzi miei, che la terra non
è mai maledetta; la terra è di Dio...
Tutti tacquero.
In fondo alla strada si udì un suono di chitarra. Erano
mastro Genio, Peppe Liano e Nino Sperlì, un
barbiere, quest’ultimo, ritornato da
poco dall’America, che stava in
giro tutto il giorno vestito di nuovo
con un bel paio di scarpe gialle, e una catena d’oro placcato, per
farsi ammirare, e per raccontare le meraviglie di quei paesi.
Prima di giungere davanti alla scala di Rocco Blèfari si
fermarono.
Ragazzi, salutiamo alla maniera americana, - disse Nino
Sperlì.
E come? - domandò Liano.
Ecco; voi dite così: cunnaiti! Significa, buona notte.
Quandogiunserodavantiallabrigatasalutaronoincoro:
- Cunnaiti, cunnaiti...
Oh, mastro Nino, - fece Rocco Blèfari - ben venuto. E ditemi
un po’: la luna dell’America è come quella del nostro paese?
Vi pare di avere detta una cosa spiritosa, - rispose Sperlì
serio serio - e invece avete dette un’asineria, scusate,
compare Rocco. La luna di qui
non può essere come quella
dell’America perché, se non lo sapete, quando qui
è notte là è giorno.
Rocco, di fronte a questa risposta così sicura,
rimase come un allocco; gli
s’ingarbugliarono le idee, e si persuase senz’altro che la
luna di America fosse un’altra.
Ih! figlio di Dio! - esclamò goffamente il giovane Cataldo -
che paese è dunque questa America? Quanto lontana
è, allora?
Deve essere veramente ai confini
della Terra, - disse Rocco -
perché nostro Signore la luna
l’ha creata per illuminare tutto il mondo in una volta. Invece in
America a quest’ora è giorno.
Le donne si guardarono a bocca aperta per
la meraviglia. Rocco domandò
ancora: - Ditemi un po’ mastro Nino, voi che siete stato
in tanti paesi, il mondo da quale
parte è più grande,
dalla parte d’onde nasce il sole o dalla parte dove
tramonta? A me pare che il
mondo più grande sia da quella
parte. - E accennava a settentrione.
Avete ragione, - fece Sperlì - il mondo più grande
è da quella parte; ma l’America non è di là. I
bastimenti per andarci seguono il sole, e dopo otto giorni vi
arrivano.
E il mare d’America è più grande di questo?
Questo? ma questo, scusate il termine, è un’acqua di
cavallo di fronte a quello
dell’America. Questo è il mare piccolo. Quello che
si attraversa per andare in
America non finisce mai, con delle
onde alte come montagne! Per otto giorni non si vede altro che acqua
e cielo, cielo e acqua, che ti viene la vertigine solamente a
pensarci.
Mastro Genio, la chitarra sulla pancia, le gambe
aperte, guardava con oc chi teneri la Rosa, alla
quale parlava da qualche mese. Quel pezzo di galera del Liano era
andato a sedersi in cima alla scala, vicino alla Giusa, e ogni tanto
le mormorava all’orecchio: - Ho bisogno di parlarti.
La Giusa diventava di mille colori perché temeva che i vicini
se ne accorgessero, e bisbigliava sottovoce: - Per
l’amor di Dio, state zitto, ché mio padre m’ammazza.
La Rosa, ardita com’era, e animata dalla presenza del suo fidanzato,
fece anche lei delle domande.
In America si sta bene, mastro Nino,... possiamo andarci noialtre
donne?
In America le donne comandano, - rispose Sperlì - sono loro
le padrone.
Le donne comandano? - fece Rocco con la faccia stralunata - e che
paese è quello?
È un paese così. Il Governo in America non è
come il nostro. Là è repubblica, e
dov’è la repubblica comanda la donna; tanto è
vero che le donne in America si chiamano uomini [woman].
Uomini? si domandavano le ragazze con grandi scoppi di risa.
Che cassio dici, Sperlì, - fece Passarelli - com’è
possibile che la donna si chiami uomo?
E l’uomo allora come si chiama?
Non ci credete? Quanto è vero Dio! Domandate a chi c’è
stato. La donna si chiama uomo, e l’uomo si chiama menne
[man]. Quando uno è ricco
lo chiamano riccimenne, quando è commerciante lo
chiamano bissinisi menne [businesman].
Tutti stavano con la bocca aperta, ad ascoltare le
strane notizie di quell’America misteriosa,
dove i rapporti sociali erano
così diversi da quelli del
loro paese, dove le donne si
chiamavano uomini, e comandavano loro.
Mastro Nino si
dondolava su le
scarpe gialle di
pelle bulgara, che
aveva comperato a
Namaiorca, in una grande strada che si chiamava
Morbiri-stritti [Mulberry-Street]. La Rosa, più vivace
di tutti, incalzava nelle domande.
Allora, mastro Nino, le ragazze in America si chiamano uomini?
Non confondiamo, - fece Sperlì
- le donne si chiamano uomini,
ma le ragazze si chiamano
ghelle [girls].
Un urlo di risa squillanti si levò dalla scala. Le donne
strillavano come oche.
Ghelle? e che significa ghelle?
Ghelle significa ragazze. Perché ridete? - faceva
Sperlì. - E le ragazze d’America non sono mica
come le nostre, che hanno paura di uscir di casa. Quelle vanno sole
in capo al mondo, e nessuno le tocca.
Saranno brutte - osservò Liano dall’alto della scala.
Brutte? chi non va in America non sa cosa siano le donne belle.
Le ragazze americane sembrano impastate di sangue e
latte. Mezze nude, con quelle vesticciole di seta che è
come se non l’avessero, il naso in aria, il bastoncino
in mano la sigaretta in bocca.
Oh, grandissimo diavolo, - fece Mariuzza scandalizzata - fumano
anche, le streghe?
Si capisce che fumano, e vanno a cavallo, e tirano dei ffait - e
faceva l’atto di dare un pugno - che vi fanno restare a bocca aperta
per due ore. Se gli piacete, commi, vi prendono sotto braccio e via
negli stori [trattorie], a teatro. E pagano loro. Se non gli piacete
chiamano un pulisi e vi fanno mettere dentro. Bisogna vedere che
gambe, che petto! altro che quelli
della gnura Rosa! - E accennava alla
figlia di Blèfari.
Ah! mala pasqua! - fece questa quasi offesa, - cosa c’entro io con
le donne americane?
Dico per dire, - rispose ridendo Sperlì - non siete forse
un bel pezzo di ghella ? - E poiché
sapeva che la Rosa era un po’ manesca, protese le sue in atto di
difesa. Difatti la ragazza, raccolti i ferri e la calza in una mano,
gli volò addosso, e gli assestò due pugni formidabili
in mezzo alle spalle.
Andate al diavolo voi e le ghelle americane.
Le donne strillavano arrovesciandosi
sui gradini per il gran ridere;
gli uomini si tenevano i
fianchi.
Ohe! ohe! - gridava Sperlì con un riso sibilante che
gli veniva su dalla pancetta rotonda come
da un soffietto - mi volete ammazzare?
Intervenne mastro Genio, al quale non parve vero di poter
palpeggiare un po’ di contrabbando la sua promessa. L’afferrò
per un braccio e l’attirava a sé con gli occhi imbambolati.
Anche voi lo difendente? - strillò la Rosa rivoltandosi come
una vipera - aspettate un po’.
E lanciata la calza in terra lo abbrancò per le spalle.
Mastro Genio ebbe appena il tempo di porgere la chitarra a
Sperlì, che fece un giro su se stesso e andò a
stramazzare come un cencio in mezzo alle gambe di Passarelli.
E che sei pazza? per la malogna, - gridava Rocco - non senti scorno?
Mi avete preso all’improvviso, - diceva mastro Genio tutto
rosso e impolverato, con uno sterco di gallina attaccato alle
natiche, - se volete che la facciamo sul serio la facciamo. -
E si avvicinava di nuovo.
Ma la Rosa tutta ansante, accesa in volto e orgogliosa di avere
atterrato un uomo, non gli badava, e continuava a
raccogliersi sul capo le trecce, che le si
erano sciolte. Quando le risa si
furono chetate, Gèsu domandò:
Dimmi un po’ Sperlì, tu che lavoro facevi in America, il
barbiere?
Eh! caro mio! per fare il barbiere in America ci
va una mano molto più
fina della mia. Io facevo il reboia.
Reboia! cos’era mai quel lavoro?
Reboia, - spiegò Sperlì - significa quello che porta
l’acqua. Ecco: noi lavoravamo in una sciarpa; ogni
sciarpa ha un bosso e tanti uomini. Naturalmente gli uomini che
lavorano hanno sete, e in campagna non ci sono mica le fontane ad
ogni passo. Allora il bosso prende
uno degli operai e lo destina a quel lavoro:
portare l’acqua. Quello è il reboia.
E stavi bene? - domandò Gèsu...
Io stavo benissimo! avevo due pezza al giorno e non facevo niente.
- Sì, ma intanto siete ritornato a Pandore...- disseRocco.
È vero - fece Sperlì, con un volto diventato subito
malinconico. - Cosa volete che vi dica? Io quando sono qui
vorrei essere in America, e quando ero in America tutte le notti
sognavo la mia casa. Questa terra bruciata ci perseguita
e non ci lascia dormire fino in capo al
mondo. Cosa avevo lasciato qui io? miseria! eppure
queste brutte strade sporche, queste
case, questi orti li avevo
sempre davanti agli occhi. Mangiavo maccheroni e
bevevo birra, e intanto pensavo
alla bottega di Porzia Papandrea. Mi pareva
che senza di me l’odore dello stoccafisso andasse
perduto. Quando ero a Billesbille
[Illesville] dormivo in una baracca, e siccome facevo il reboia
mi alzavo un po’ più
tardi la mattina. Quando mi svegliavo e mi guardavo
intorno, e non vedevo che quelle pareti di tavole affumicate, e non
udivo che il brontolare e lo scalpiccìo degli uomini che
andavano al lavoro, o rissavano
davanti al lavatoio, mi veniva da piangere come un
bambino. Mi ricordavo del tempo
in cui dormivo nella mia vigna, a Mirto,
sopra un letto di ginestre. La mattina mi
svegliavano le allodole, o il
mio gallo che veniva a gorgogliarmi davanti, battendo i
suoi speroni arcuati, come fosse un cavaliere dei
Reali di Francia. Io aprivo gli occhi e vedevo il mare, e le
nuvole sull’acqua, tutte screpolate dall’alba; e intanto le cicale
cominciavano a cantare. Ah! vi dico ch’è una cosa seria
dimenticarlo questo paese!
Diventarono tutti pensierosi, conquistati da una strana malinconia.
La notte era dolcissima. La luna pendeva sugli orti e
sulle case limpida, luminosa, come una
grande patèna d’argento. Dalla
campagna, insieme allo stridere delle cavallette,
veniva un cantare malinconico di rospi, come ripercosso da
un’eco multipla ai quattro angoli
dell’orizzonte; una specie di voce astrale, che
discendesse dai gorghi profondi del cielo. Sul mare che
brulicava, tutto barbagli, si delineava col suo
profilo nero, il bel campanile di Bovalino,
che sembrava un cipresso, in
mezzo alla selva di olivi che circondavano il paese. Bony
sembrava emergere nel lume lunare come un’isola.
Un contadino alle Gabelle accordava la zampogna.
Che cosa aveva, dunque, in sé quella terra per conquistare il
cuore, per essere ricordata e rimpianta in ogni angolo
del mondo, dove si trovavano errabondi i
suoi figli in cerca di lavoro
e di pane?
Nessuno l’avrebbe saputo dire, se non forse il cuore.
Paese strano e diverso, tutto accidentato, a balzi e burroni, dove
la costa arida e scoscesa si alternava con
il pantano e l’oliveto; la sodaglia invasa dal ginerio e
dal lentisco si stendeva accanto al
canneto, circondato dal giunco e dal capelvenere; l’agave e la
marruca fiorivano accanto al frassino montano. Sembrava
tanto secco e pietroso, eppure
ogni acquazzone faceva germogliare
l’erbe in tutti gli angoli, su
tutti i sentieri. La sua
vegetazione era scarsa, eppure portava
le ricchezze di tutte le stagioni; i suoi
frutti avevano tutti i profumi e tutti i sapori, e vi
erano tutti i frutti come nel
paradiso terrestre. E c’era il mare a pochi passi, e la montagna di
contro, l’alta montagna col castagno, l’abete, il pino: le selve in
cui meriggiava il lupo e grugniva il cignale.
Su ognuno di quei poggi si vedevano vecchie
mura diroccate, navate di antiche
chiese abbandonate. Erano ruderi di paesi distrutti dal terremoto
in diverse epoche. Eppure accanto
a quelle rovine altre case erano sorte, altre chiese, altri
campanili: i superstiti, seppelliti i loro morti,
avevano riedificato, come le formiche, quasi sulle
tombe; avevano riassettati i terreni
sconvolti, li avevano riscattati dalle frane e dalle
alluvioni, ed avevano fondato su esse le loro fatiche e le loro
speranze.
In quella terra così varia
e pittoresca, piena di contrasti,
apparentemente povera e intimamente
ricca, saporosa, grave e soave, c’era una certa rispondenza con la
vita e l’anima dei suoi abitanti.
Anch’essa, l’anima calabrese, è piena di contrasti.
Profondamente, e quasi direi violentemente buona,
ha delle singolari aridità.
Tutti i buoni frutti del cuore,
dalla ospitalità alla
fedeltà, dalla devozione al sentimento della
famiglia, dalla resistenza al dolore all’abnegazione, all’eroismo,
in essa fioriscono spesso con un profumo di poesia soavissimo.
Eppure la vita dei Calabresi è
triste, dolorosa, angusta, come il paesaggio che, pur avendo
tanti elementi di bellezza, non sembra bello, o la sua grazia vela
di una profonda e dolorosa malinconia.
Andiamo a letto, - disse Rocco Blèfari, guardando il cielo, -
i Bastoni sono alti e la Pullara è a mezzo cielo. Buona sera
a tutti.
Buona sera...
Buona sera...
Rientrarono tutti nelle case, mentre mastro Genio, Liano e
Sperlì scesero verso il Murello canticchiando.
CAP. III
Alla fine di settembre il Prefetto non aveva risposto ancora alla
richiesta del Comune.
Al Sindaco, recatosi a sollecitarlo personalmente, aveva contate un
mondo di chiacchiere, ammonendolo di star bene attento,
a non favorire pronunciamenti, azioni
sediziose. Il Governo in tal caso non
avrebbe potuto fare a meno d’intervenire con la forza.
L’agente demaniale sarebbe stato inviato, ma non
poteva precisare quando, e intanto lui, il
Prefetto, desiderava non occuparsi
più della cosa, avendo delegato a occuparsene il
Sottoprefetto di Gerace Marina, per ragioni di competenza
territoriale.
Quando queste notizie si sparsero per
il paese suscitarono un fermento
incredibile. Don Michelino Fazzolari, con l’estratto dei
documenti demaniali, aveva dato a ogni contadino la psicologia
dell’erede frodato. I propositi e le
proteste erano dovunque furibondi. Ad
accrescere la naturale eccitazione degli animi
contribuivano le notizie più disparate: il
Prefetto voleva far giustizia, ma era
stato minacciato dal deputato, interessato nella faccenda per
via del fratello, che deteneva
alcuni dei terreni in contestazione. Il Sottoprefetto di
Gerace era un mangione, un siciliano carico di figli,
che non gli sarebbe bastato il pozzo della stella. Affidarsi a lui
era come affidare la pecora al
lupo. Come avrebbe potuto far giustizia se tutte le mattine
aveva davanti al portone due muli carichi di roba che gli mandavano
i proprietari? E intanto loro erano allo sbaraglio, non avevano un
palmo di terra da coltivare, perché i
signori, avvertiti delle intenzioni del Comune di voler risolvere la
questione delle rivendiche, avevano esclusi i Pandurioti da ogni
concessione.
Dal momento che i magistrati non volevano far giustizia, se la
sarebbero fatta da sé, per la malogna, e
guai a chi fosse rimasto assente! Ma accanto ai propositi bellicosi
si affacciavano i dubbi, le perplessità suggerite dalle
vecchie esperienze. I passati tentativi di
rivendiche demaniali erano riusciti vani; sarebbe
stato così anche di questo. Li
riprendeva lo scoramento, la sfiducia
contro tutto e contro tutti, quell’orribile
stato di animo in cui il
cittadino non ha più fede
nella giustizia sociale, e considera lo
Stato come una mostruosa macchina armata ai suoi danni. E
poiché non ha forza alcuna per opporglisi,
si corrompe intimamente, diventa vile,
servile, profittatore, scherano di questa
organizzazione di ingiustizia, o ribelle ai danni della
società e ai suoi danni.
Se la rivendica dei beni era
impossibile non c’era dunque che
emigrare, cercare altrove, tra
gente lontana, quel pane che il proprio paese negava ai suoi figli.
Si presentavano alla loro mente gli esempi di quelli che,
avendo emigrato, avevano migliorate le
proprie condizioni, specialmente nei paesi vicini. Ma anche a
Pandore ce n’era qualcuno. Vincenzo Mantica aveva
riattata la casa, messi i pavimenti con
mattonelle di cemento, i balconi
di ferro con gli anelli agli angoli per i vasi di
fiori; Ciccio Musolino, che era partito povero
come Giobbe, si era fatta costruire
una casa, con una bella loggetta dipinta
in giallo, e aveva sul tavolo della
cucina una tovaglia di tela cerata, grande, con il ponte di
Broccolino (Brooklin) dipinto sopra, e in mezzo
una specie di Madonna che gli Americani chiamavano
Libertà.
E mille altre
comodità avevano in
casa gli Americani:
tanti attrezzi domestici
inusitati -
cavaturaccioli meccanici, specchi molati, stivali di gomma,
trapani, segacci dal manico ben
tornito, rasoi e arnesi da toletta
lucenti come l’argento. Uno aveva
portato un frulla-uova, un altro la macchina da fabbricare
maccheroni.
Quelli che venivano dall’America
davano l’impressione di saper vivere
una vita diversa dalla
loro, più comoda, più allegra; una vita in cui l’uomo
fosse qualche cosa di più che una bestia da lavoro affannata
tutto l’anno sopra la terra, dietro un’asina, o
una mucca, per strappare un’esistenza
grama, senza gioie, senza soddisfazioni, aduggiata
dalla invincibile povertà di un
ambiente che non aveva nulla di consolante,
se non il sole del buon Dio, e la grazia della natura circostante.
Ma non erano tutte rose! Qualcuno
degli emigranti era tornato malato,
di certe malattie misteriose che non si erano mai viste
nel paese. Qualche altro era rimasto
stroncato e non aveva neppure ottenuto il
premio d’assicurazione. Perfino il
Console lo aveva tradito. Peppe
Cúfari, per tutte le dita della mano destra,
aveva avuto solo duemila lire. Cosa potevano fare loro, poveri
contadini analfabeti, che non erano capaci di scrivere neppure due
righe alle proprie famiglie? Tutti ci gua- dagnavano sulla
loro pelle.
Qualche altro ancora era morto,
morto lontano in quelle terre
misteriose, in paesi ignoti, dai
nomi strani, tra gente sconosciuta, senza un conforto, senza un
parente o un paesano, forse anche senza sepoltura cristiana.
Questo pensiero li atterriva. Essi
che erano abituati a vivere nel
loro villaggio come in una grande famiglia, dove la
gioia e il lutto erano sempre un po’ comuni, e trovavano il loro
epilogo nella dolce casa di tutti, la
chiesetta protopapale, all’idea di morire lungi dalla loro
terra erano presi da una specie di terrore religioso. Non vi era
nulla che li atterrisse di più
che questa paura di morire lontani, senza
conforti, senza una persona cara, e soprattutto senza il pianto
triste e consolante delle loro campane.
E poi contro il divisamento di emigrare che si faceva strada negli
uomini, premuti dal bisogno e
dalle cattive annate, combattevano le
donne accanitamente. L’America per
queste significava il distacco dai loro
mariti, l’angoscia continua dell’attesa,
lo spavento dell’ignoto, forse l’abbandono
definitivo, la vedovanza. Forse anche
quella vedovanza più tormentosa,
della donna abbandonata, che sa il suo uomo vivo e
sano, godersi in braccio alla donna straniera, all’avventuriera
della città. L’affetto coniugale si
complicava con la gelosia, e le
donne diventavano furie. Si
scagliavano contro i magistrati, e qualche volta
anche contro il Padreterno che permetteva tante ingiustizie nel
mondo.
Nella perplessità generale erano
quelle che più di tutti soffiavano
nel fuoco, incitavano gli animi e proponevano le cose
più ardite. Bisognava dar fuoco al municipio,
al Prefetto, uccidere l’esattore. Andare a Gerace
dal Sottoprefetto, infilzarlo sopra una pertica, e
portarlo in giro come la pelle dei
lupi uccisi sulle montagne. Il consiglio più mite era quello
di armarsi tutti, uomini e donne, e
andare a prendere possesso delle terre, a dispetto delle
autorità. Si sarebbe visto quel che avrebbe
fatto il Prefetto.
Ma la cosa era più presto detta che fatta. I Pandurioti
erano gente d’ordine, come tutti, del resto,
in Calabria. La Calabria è il paese classico dei briganti,
ma in nessuna regione d’Italia
si ha tanto rispetto, o almeno tanta paura, dei poteri
costituiti. Il Sindaco, un giovane avvocato fresco
di studi, animato da una grande buona volontà, ma
timido, senza esperienza, e di
una onestà spirituale assolutamente inadatta al
realismo delle faccende politiche, con un concetto della giustizia
sociale tutto filosofico e idealistico, vistasi sfuggire la
possibilità di condurre in porto
la cosa con i procedimenti legali, davanti
alla eventualità di una occupazione violenta, s’impuntava
come un cavallo cui si presenti all’improvviso un ostacolo troppo
alto, per il quale non ha preso lo slancio. Egli
che era un uomo d’ordine, proveniente
da quella borghesia agiata che
ha la sua ricchezza nella terra,
non poteva sottrarsi a una specie di disagio davanti
all’idea di violare la
proprietà altrui, anche se era
sicuro della giustizia della causa. Intanto tutti
rimanevano incerti, ma bramosi di agire in qualsiasi modo.
In questo incrociarsi di discussioni,
di pareri e di propositi agitati
e contrastanti, bisognava
trovare una formula che tranquillizzasse il Sindaco nei suoi
scrupoli legalitari, e desse sfogo
agli spiriti bellicosi della popolazione, che non potevano
più lungamente essere contenuti.
Dopo molte, lunghe e laboriose elucubrazioni, e dopo
molte, fiere discussioni tra il
Sindaco e Don Michelino, che voleva partire come un razzo, la
formula fu trovata. Si sarebbe andati, ma con la bandiera
nazionale in testa e coi ritratti del Re e della Regina.
La formula ottenne un successo strepitoso. Non ci voleva
altro per accendere maggiormente gli animi
già accesi e incoraggiare gli incerti. Andare coi ritratti
del Re e della Regina, per i Pandurioti, era come se i reali in
persona avessero preso parte alla spedizione. Si ritenevano forti e
invulnerabili contro tutti e soprattutto contro le possibili
reazioni del Governo. «Non è il Re che fa le leggi?
Certamente! E le leggi chi le fa rispettare? I carabinieri! E i
carabinieri non dipendono dal Re? Precisamente». E allora
erano a posto. Sarebbe stato bello vedere i carabinieri
mandati, magari, dal Prefetto, o
dal deputato, restare con un palmo di naso, quando in mezzo
alla folla avessero visti i ritratti delle Loro Maestà.
Qui non c’è niente da fare - avrebbero detto, e se ne
sarebbero andati con la coda tra le gambe.
Gli uomini ritenevano sufficiente il
ritratto del Re solamente. La
Regina esce così poco di casa,
e non va certo in campagna. Ma le donne
volevano la Regina, la montenegrina
bruna come loro, coi begli occhi lucenti come
le more lavate dalla pioggia.
Giacché andavano loro alla
spedizione era giusto che vi andasse anche la Regina:
sarebbe stata la protettrice dell’elemento femminile.
E bisognava affrettare perché ottobre era alle porte, e
con ottobre sarebbero venute le prime
piogge e si aveva fretta di aprire i maggesi.
Il tempo ancora si manteneva bello. Due o tre acquazzoni,
verso la metà di settembre, avevano appena
ammorbidita l’arsura delle campagne; ma le
vere prime piogge, le piogge
torrenziali dell’autunno, che rinfrescano l’aria definitivamente,
inzuppano le zolle, macerano le foglie e le
stoppie, destano le lumachine scure
dal loro letargo, e preparano la terra per l’aratura; quelle
piogge che lavano il cielo, il bel cielo
d’autunno così limpido, verdolino
sulla terra malinconica, non erano
ancora venute. Al mattino e alla sera, sui confini lontani del
mare, erano armati i castelli - come dicevano i
contadini - si scorgevano, cioè, alzati nell’aria, quei
cumuli di nuvole ora fosche, ora
candide, legate in fila come catene di
montagne fantastiche, tutte a volute, a coni, a balze, a picchi, a
precipizii, a terrazze sospese sull’abisso; ora illuminate dal sole
e rese abbaglianti, ora velate dalla calura
meridiana in una foschia violetta, con dei
riflessi lividi, come l’atmosfera di un deserto battuto dal Simun,
ora infiammate dal
tramontocomecittadelleinvestitedaunincendiocolossale.
Quelle nuvole erano le avanguardie dei prossimi temporali.
Da un momento all’altro, dietro un
cenno del Signore che regola le stagioni, si
sarebbero sparse per il cielo
lampeggiando, fragorose di tuoni da scuotere le
montagne, e avrebbero rovesciato sulla campagna arida e
polverosa, quegli ac- quazzoni neri neri, fumosi, che
velano l’aria, gonfiano i torrenti e portano via i ponti della
ferrovia.
Una volta cominciate le piogge non si sapeva come sarebbe andata a
finire; perché in Calabria, o il tempo è secco, e
allora bisogna mettere fuori tutti i Santi delle chiese per vedere
un po’ d’acqua; o piove, e specialmente quando piove con lo
scirocco, non la finisce più.
Si era dunque
stabilito che l’invasione
avrebbe avuto luogo
la vigilia della Madonna
del
Rosario, il primo sabato di ottobre.
La sera del venerdì Don Michelino, dopo una capatina alla
bottega di Porzia Papandrea, dove si era abboccato col Galeoto e con
Cosenza, girò tutto il paese, entrò in ogni casa e
lesse a mezzo mondo, per la ennesima volta,
gli estratti dei documenti
demaniali, incoraggiando,
ammonendo, dissipando dubbi, e soprattutto smontando
quella diffidenza, quella specie di fatalismo
che prende sempre gli animi dei meridionali
davanti a tutto ciò che sa di cosa pubblica, retaggio funesto
dei vecchi, ed esperienza dolorosa dei nuovi regimi.
Quella sera il tempo era magnifico. Un vento fresco, nel pomeriggio,
aveva spazzato il cielo, lasciandolo trasparente
come un cristallo. Le stelle
numerose, limpide, tutte tremolanti
nell’infinito, parevano uscite allora allora dalle mani luminose del
Signore. La giornata all’indomani sarebbe stata superba.
Iddio ci aiuta; - dicevano i contadini
- questa invasione, questo atto
di forza contro l’ingiustizia, lo vuole anche lui
ch’è il Dio della giustizia.
Ma guardate combinazione! La mattina invece il
tempo era diventato minaccioso e
la minaccia era tanto più temibile, in quanto non
veniva dal mare, ma da tramontana. Sopra il bosco di Verraro che
sovrastava come un baluardo, con la sua rocca scoscesa a picco, al
fianco del paese, il tempo era nero. Una enorme nuvola si stendeva
come una macchia gigantesca sul cielo
incerto e grigio, da Bony alla
piana della Marchesina. Aspromonte,
col suo cocuzzolo acuto, profilato
nel chiarore incerto del mattino,
sembrava un po’ preoccupato di quella minaccia,
che gli prometteva un cappuccio
di neve, da non levarselo più sino all’aprile
dell’anno venturo. I contorni di quel nuvolone erano,
sì, illuminati dal chiarore dell’alba, e
ciò poteva significare che la minaccia era circoscritta;
ma quando le nuvole venivano da Verraro, e quello
che le maneggiava era il vento di
tramontana, se non si levava il
mae- strale per combatterlo, era pioggia sicura.
Rocco Blèfari si affacciò su l’uscio di casa sua, e
guardò con un certo dispetto la minaccia del
tempo.
L’alba cinerina si apriva sul
mare. Una striscia bassa di
nuvole scure, con riflessi come quelli
della ferrugine, distesa vicino al filo estremo dell’acqua, era
tutta sgretolata da un color di fuoco vivo, abbagliante, come il
residuo di un incendio lontanissimo, che avesse
incenerita una foresta. Sopra quelle nuvole la
stella del mattino brillava tutta rorida e
celestiale, in un azzurro grigiastro
e un po’ opaco come d’ardesia.
Rocco si segnò, tracciando col pollice tra la fronte e la
ciglia una piccola croce, e il rombo delle campane irruppe nell’aria
come una diana guerresca.
Era il segnale della raccolta.
Dappertutto nel paese fu uno sbattere
d’usci, uno spalancar di finestre,
un chiamare, un rispondere da su le scale, dai
pianerottoli, dalla strada. I maiali
destati cominciavano a grugnire davanti alle
porte; le galline scendevano dalle pertiche e pipilavano per la casa
in cerca di cibo; i galli da su le soglie salutavano l’alba. Gli
uomini in maniche di camicia,
scarruffati e insonnoliti, si facevano
sugli usci, chiamavano i vicini, mentre le
donne rabbonivano i bimbi, li
vestivano, mettevano loro un tozzo di pane
in mano, e li cacciavano nella strada. Qualcuno, tenendo stretto tra
le cosce un orcio di acqua, si versava sulle mani aperte a giumella
il liquido, e si risciacquava la faccia; qualche
altro, con l’appetito sano e
mattiniero degli uomini di campagna,
addentava qualche cosa, mentre
finiva di vestirsi. Altri strillavano con le
mogli, altri bestemmiavano: chi
sbatteva una cassa, chi il
battente di una finestra. Alcune donne raccomandavano i
bambini a qualche vecchia vicina; altre
chiamavano le galline per chiuderle in casa.
Gèsu si allacciava le scarpe,
e cantava il Magnificat contento
come un fanciullo, in mezzo a
tutto quel tramestìo.
Come ebbe finito, uscì sul pianerottolo della scala e
chiamò:
Zia Caterina.
La moglie di Varvaro venne
all’uscio accanto, tutta vispa e
giuliva, pettinata di fresco, coi capelli
tirati sulle tempia e il viso magro di vecchia rubizza, che la
faceva somigliare a una faraona.
Andiamo dunque?
Andiamo tutti. Zio Bruno non viene?
Vengo sì - gridò Varvaro da dentro la casa.
E Mariuzza?
Accanto alla zia si affacciò
sull’uscio Mariuzza pallida, col suo
viso di Madonna che si sarebbe detto esangue se le labbra non
l’avessero un po’ animato di un loro tenue colore.
Io non vengo, - disse Mariuzza - la mia parte di terre me la
prenderà mio zio.
Intanto la Ruga Grande sembrava una fucina: grida, urli, bestemmie,
schiamazzi, pianto di bambini, grugnìo di maiali.
Alcuni erano già partiti verso la piazza,
altri erano in istrada pronti a
partire. Dal Murello passava continuamente gente
che veniva dalla Guardia; chi
portava un sacco, chi una paniera, chi una
bisaccia d’orbace. Gli uomini avevano anche bastoni, scuri,
roncigli, non con la intenzione vera e propria di venire
armati, ma un po’ per abitudine,
e un po’ per preveggenza. Non si sapeva mai
quel che sarebbe potuto avvenire.
I due Cataldo, padre
e figlio, e
Passarelli, ritti sotto
la scala di Rocco,
chiamarono a squarciagola:
Rocco, o Rocco, tu ti muovi sì o no, sangue di Dio, o vuoi
fare il vigliacco?
Vengo, vengo - urlò Rocco uscendo sulla scala.
In breve i Blèfari, i Varvaro, i Cataldo furono in strada
pronti a partire.
Questa è la volta che dovresti metterti le scarpe, Rocco, -
fece Cataldo - vuoi presentarti scalzo davanti a Sua Maestà
il Re?
Tu scherzi, - rispose Rocco - piuttosto rinuncerei a tutti i
Baronali.
E Pietro, dov’è Pietro? -
domandò Passarelli, vedendo che
nella compagnia mancava il figlio maggiore
di Blèfari.
E che so io! - rispose Rocco desolato - è più di un
mese che dorme fuori di casa.
Pietro veniva su dal Murello, con la sua andatura cascante di
cavallo stanco, un mano e la giubba di traverso sopra una spalla.
Eccolo che viene, San Gialormo! - fece Rocco additandolo. - Dove sei
stato?
Sarà stato a scaldare i ginocchi a Vittoria Papandrea - fece
Passarelli ridendo. - La poverina ha freddo, non ha sangue.
Pietro bofonchiò tra sé qualche parola, e si mise in
coda. Partirono.
Se quel ragazzo non mette la testa a partito è meglio che se
ne vada veramente in America -
diceva Rocco, cacciando avanti i
suoi piedoni enormi, alla testa
della brigata. - È diventato
uno scimunito dietro quella figlia di mala femmina, e non capisce
che quella ha altro per la testa.
E per le mani - aggiunse Passarelli, tra una grande risata generale.
Volete star zitto, sì o no, sangue di... - ringhiò
Pietro, con una voce fessa come
quella dei ragazzi all’inizio della pubertà. - Se vado
in America non vi scrivo neppure, quanto è vera la Madonna.
E tu non scrivere, e buon pro ti faccia - disse Rocco. - Io sono
vecchio, ma il mio pane me lo guadagno.
Gèsu, per troncare
la palinodìa di
suo padre, che
quando cominciava era
peggio di un
predicatore, si mise a cantare il Dixit dominus.
Quando il gruppo di Rocco Blèfari sbucò
sulla piazza la chiesetta era
aperta, e nel vano della porta si scorgeva
da lontano, sul lato sinistro dell’altare, la fiammella gialla e
smorta della lampada del Sacramento. Le campane tempestavano
nell’aria inquieta della mattina. Da
ogni parte affluiva gente, dalla Ruga Grande, dal
Ricuso, dalla Timpa, dal Valloncello:
contadini dalle facce scabre e
bieche, o tristi e dimesse, tutte con i segni di
una sofferenza abituale e rassegnata;
alcuni con le barbe ispide, i volti
segnati da rughe profonde come ferite. Qualcuno aveva la palpebra
inferiore arrovesciata e sanguinosa per il tracoma; molti portavano
su una guancia o sopra una tempia il marchio di fuoco della
pustola carbonchiosa. Vestivano calzoni
corti di orbace, portanti ai
ginocchi o nel fondo toppe numerose e
irregolari, che davano l’impressione di una estrema e penosa
povertà; altri vestivano di fustagno, con bottoni
d’acciaio di un bel colore azzurro.
Numerose erano le donne: giovani alcune e fiorenti di quella
fioritura improvvisa, breve e violenta come quella delle
agavi e delle piante tropicali, che nel
mezzogiorno trasforma, in un paio d’anni,
una monella di strada in una magnifica ragazza
da marito. Altre, giovani anch’esse,
apparivano patite e disfatte dalla
prima figliolanza. Altre erano vecchie
dure, segaligne, aduste dal lavoro;
altre alte e ossute come alfane, dai grandi stinchi
ignudi e dalle lunghe facce rugose e sdentate, che
sembravano frutti mostruosi vuotati dalla putredine. Qualcuna
portava, sotto una bazza arcigna e
aggressiva, un piccolo gozzo lucente e quasi iridato, come la
buccia di un frutto di
melograno. E in mezzo a tutti quegli
adulti una ragazzaglia brulicante, lacera, cenciosa, scalza, tutta
sbrendoli, senza giacca o senza camicia, con i
capelli biondastri scarruffati, i visi rigati da rivoli
di lordura, da chiazze di terra,
le bocche maculate del giallo dei
fichidindia rubacchiati negli orti: un
turbinìo di demonii che si cacciavano
tra le gambe, correvano, schiamazzavano, si
arrampicavano sulle bugne, urlavano, si
aggredivano avidi di disordine, di bottino, di farla a
sassate, di rovesciarsi su qualche
cosa come uno stormo di cavallette, e distruggerla.
Don Michelino Fazzolari, che per l’occasione aveva inalberata una
svolazzante cravatta alla La Vallière, era già
davanti alla bottega di mastro Genio, accigliato, con
l’aria di un condottiero che veda
disporsi in ordine le proprie truppe sul
campo di battaglia. Perché il
condottiero era lui. Il Sindaco non
era che una braca molla, che non si sapeva neppure dove si fosse
cacciato. Vicino a lui era il Galeoto, che parlava difficile con
Cosenza, discutendo sulle leggi diversive.
Buon giorno, don Michelino...
Buon giorno, professore...
I contadini si avvicinavano, lo esaminavano
salutando, e sotto quel suo fare
impettito e contegnoso, vedevano la tranquillità
dell’uomo che sa di lettera, ed è sicurodelfattosuo.
I Blèfari s’avvicinarono anch’essi.
Si va dunque, professore? - domandò Rocco.
A me lo dici...
Come a voi, per la malogna! non siete voi che ci avete consigliati?
Ed io non sono qui?...
Il Sindaco dov’è?
Dorme ancora...
È una vergogna! chiamate il Sindaco.
Rosa, col suo sacco sotto il grembiule, diede un’occhiata nella
bottega di mastro Genio. Sopra una parete vi era
attaccato un cartellone con due
figurini dell’ultima moda maschile, un uomo in
redingote e tuba, e uno in giacchetta e bastoncino. Vicino
ai figurini era appesa la
chitarra, che la ragazza aveva tante
volte udita di notte, sotto la sua casa, accompagnare le dolci
canzoni malinconiche dedicate a lei. Sopra un’altra parete, in mezzo
a una rosa di cartoline illustrate, vi era
la figura di una donna dormiente
baciata da un amorino.
Sulla piazza la folla tumultuava. Volevano il Sindaco.
Improvvisamente, dall’angolo della piazza, all’imbocco
della strada che menava al
Ricuso, si udì un fragoroso rullo di tamburo, e subito
dopo uno squillo di tromba. Il Sindaco arrivava dal
Municipio, seguito da Don Gialormo il capo
guardia, che portava la bandiera
del Comune, mentre le altre due guardie venivano
dietro, coi ritratti del Re e della Regina
inchiodati sopra due lunghi pali. Avanti a
tutti era Fronte di Rocca col tamburo e una vecchia tromba di
cavalleria a tracolla.
Viva il re, viva la Regina; vogliamo le terre!...
Come un’onda gigantesca tutti si
riversarono verso il Sindaco. I
ragazzi strillavano come macachi. Il suono del tamburo,
lo squillo della tromba, la
bandiera, e quei due quadri
portati in alto sulla folla, davanti alla chiesa,
tra lo scampanìo festoso,
accesero gli animi e le fantasie
senza ritegno. Una specie di fanatismo religioso invase la
folla davanti a quei simboli.
Si levarono tutti i berretti, come se il Re e la Regina fossero
veramente apparsi in persona su la
piazza; li sventolavano urlando, con le facce congestionate, gli
occhi iniettati di sangue.
Viva il Re, viva la Regina; vogliamo le terre!...
Qualcuno rotava in alto minacciosamente il bastone, altri alzavano
le scuri che luccicavano sinistramente nell’aria grigia della
mattina. Il Sindaco un po’ assonnato, un po’ perplesso,
irresoluto com’era di sua natura, quando vide che una gran parte
dei presenti si erano muniti di
sacchi e di paniere, disse tra sé: «Ci
siamo! quella di oggi sarà una razzia fenomenale!». E
vide sfumare la serietà dell’impresa. Se avesse potuto
l’avrebbe rimandata; ma a proporre
una cosa simile in quel momento, con
l’eccitazione che vi era negli animi, e la
presenza di quei benedetti quadri,
c’era da farsi linciare come niente.
Le grida s’incrociavano da ogni parte: - Via il Re, viva la Regina!
- Le donne strillavano come gazze, mandavano all’indirizzo della
regina saluti, baci, parole dolci; si
picchiavano il petto con la punta delle dita
giunte a mazzetto mormorando: - Grazia, grazia... - come
davanti a una immagine religiosa, senza sapere
precisamente cosa chiedessero.
Cara mia! com’è bella...
È la Montenegrina questa?
La Montenegrina...
Sentite un po’! cos’ha sulla testa?
La corona ha. È o non è la regina?
Cara mia! lei ci protegge. Se sapesse le cose lei verrebbe a Pandore
e farebbe giustizia.
Ah! se le sapesse...
Anche il Re è bello, con la fascia... e quel berlocco al
collo...
È vestito da soldato! Che ha fatto anche lui il soldato?
Toh! lui è nato soldato. È il generale in capo lui.
Si stringevano nelle spalle. Non
riuscivano a persuadersi che al
servizio militare, che per loro era un peso,
dovesse soggiacere anche il Re.
I quadri e la bandiera
ondeggiavano nell’aria mossa da un
vento fresco di tramontana, che
portava il rombo degli olivi da gli orti circostanti, come il soffio
di una risacca.
Cittadini... - disse il Sindaco, alzando la mano per imporre
silenzio.
Salite sul sagrato, - consigliò Don Gialormo il capo guardia
- così vi vedranno tutti. Fu portato quasi di peso sul
sagrato.
Cittadini... non so se volete
andare... - disse esitante, volgendo
intorno i suoi grossi occhi azzurri da
ragazzone buono - ...il tempo minaccia...
A quelle parole un silenzio perplesso si produsse nella folla, un
silenzio d’ira e di sgomento. Se
volevano andare? Ma il Sindaco era impazzito!... Don Michelino
Fazzolari prese la palla al balzo, e sventolando il cappello
cominciò a gridare come un energumeno:
Signori, il Sindaco ha paura.
Zitto, bestia - gli mormorò il Sindaco afferrandolo per il
braccio.
Se ha paura andiamo da noi!
E di che cosa ha paura? - Si gridava da cento parti con
ira, le voci rauche, rabbiose, le scuri
alzate.
Di che cosa ha paura se abbiamo con noi il Re e la Regina?
Signori miei, - gridò il
Galeoto , balzando sopra una grossa macea addossata a un muro della
casa di Don Gianni Cúfari - io ho letto un libro...
Parla Guerrazzi, - disse Don Gialormo.
Un libro dove si parlava del Re Idippo.
Don Michelino Fazzolari inferocito voleva andarsene.
Il Sindaco, interdetto, impacciato, tentava dominare il tumulto.
Comprendeva che ormai era impossibile arrestare quella folla, e
farla rinunziare al suo proposito. Oramai
il dado era tratto. Fece cenno a Fronte di
Rocca che facesse squillare la tromba, e quando ottenne un po’
di silenzio disse, ostentando molto coraggio:
Volete che andiamo? Andiamo. Io sarò il primo.
Un urlo di gioia seguì a queste parole: - Viva il Re, viva la
Regina!
Ma prima di partire, continuò il Sindaco, debbo farvi una
raccomandazione. Badate che non si va a fare razzia. Non bisogna
toccar niente nei terreni dove passiamo.
Non toccar niente? evidentemente il Sindaco dormicchiava ancora
quella mattina! Bisognava prendere possesso sì o no delle
terre contestate? E per prendere possesso bisognava raccogliere i
frutti. Così stava scritto nel Codice. Cosenza lo aveva in
mano e sbraitava contro il Sindaco che si dimostrava un avvocato del
cassio, che non conosceva la legge. Le donne che si erano tutte
munite di una paniera o di un sacco schiamazzavano inquiete.
La parola giusta la disse Don
Michelino Fazzolari. Quando il Sindaco
tacque, fra il crescente
mormorio della folla, Don Michelino
prese la parola! Si scarmagliò
convenientemente i capelli con una
manata, infilò il pollice della
mano destra nel vano della
manica del gilè, e
improvvisò una concione spettacolosa.
Pandurioti, mi dispiace, ma il Sindaco ha
paura. Noi andiamo a prendere
possesso delle terre del Comune, le terre che le
benefiche leggi eversive delle proprietà
feudali ci hanno concesso fin dal
tempo di Re Gioacchino buonanima, salute a voi tutti.
Salute e vita. Viva Re Gioacchino.
Chi era cotesto Re Gioacchino? - domandò Rocco Blèfari
al Galeoto che gli stava vicino.
Re Gioacchino è quello che ammazzarono a Pizzo.
L’ammazzarono? e perché l’ammazzarono?
Perché? perché aveva distribuite le terre ai poveri.
Canaglie - fece Rocco tra i denti; e si ricordò di quella
bella donna, con le grosse poppe e la bilancia in mano che aveva
vista a Gerace Marina, dipinta in un’aula del
Tribunale: «Neanche i Re si salvano da
quella bagascia».
Don Michelino continuava: aveva estratto il
suo foglio di carta protocollo e
lo sventolava come un drappo rosso davanti a un toro:
Questi terreni sono nostri; ce li ha riconosciuti il generale
Colletta, poi l’agente Grillo, poi l’agente
Macrì, poi l’agente Bosurgi. Qua ci sono i documenti.
Io non dico chiacchiere. Carta canta.
Intanto non abbiamo mai potuto godere
di questi beni, e i nostri
contadini debbono andare in America, in un
altro mondo, a soffrire, a morire, lontani dalle loro famiglie. -
Qui il povero ragazzo s’era commosso.
Nella folla scoppiarono singhiozzi. Le donne si asciugavano gli
occhi e il naso con le cocche del grembiule. Chi aveva un parente in
America si sentiva accendere d’odio contro coloro che lo avevano
costretto a emigrare. Quelli che volevano andarci, o che avevano
parenti pronti a lasciare la patria, addossavano la
colpa delle loro angustie, dei
loro timori e delle loro
trepidazioni ai proprietari usurpatori.
È vero, - borbottava Rocco Blèfari - i miei
poveri ragazzi dovrebbero andar tanto lontano, fra tanti pericoli!
Dice bene Don Michelino, benedetta la mamma che
gli ha dato il latte. Viva il
professore!
Don Michelino continuava:
- Noi dunque dobbiamo andare
oggi a prendere possesso senza
paura.
Che paura, se andiamo col Re!... La folla ormai esaltata si mosse.
Precedeva Fronte di Rocca rullando
come un indemoniato. Dietro a
lui era il Sindaco con
accanto Don Gialormo il capo
guardia che portava la bandiera;
seguivano i ritratti del Re, e
dietro un fiume di popolaglia urlante: - Viva il Re, Viva la
Regina; vogliamo le terre!
Attraversavano il paese tumultuando, accavallandosi, e a mano a
mano che avanzavano la schiera ingrossava. Gli
ultimi timidi, alla vista dei due quadri
ondeggianti, sbucavano di casa e
s’imbarcavano, trascinati come foglie da un risucchio. Dove si
vedeva un uscio aperto otto o dieci
persone si precipitavano dentro, spingevano sulla strada qualche
riottoso, lo cacciavano nella carovana minacciando. Davanti al
corteo le galline si disperdevano
starnazzando a stormi. I maiali si
raccoglievano a branchi, rizzavano le
orecchie, fiutavano il vento davanti
a quel tumulto avanzante, poi si lanciavano
a fuga precipitosa attraverso le vie, con degli uh! uh! di spavento.
Intanto le campane suonavano a distesa, mentre gli olivi
negli orti sbiancavano sotto il
vento che veniva a tratti incerto,
quasi inquieto.
Il nuvolone disteso sul bosco di Verraro rimaneva immoto e
minaccioso, ma nessuno più badava a lui.
Quando i Pandurioti sbucarono sul Colle della Guardia e
videro, oltre il greto larghissimo del
fiume, tutte le terre che andavano a conquistare, fu un urlo di
gioia e di tenerezza. Il Carruso, tutto accidentato, a
gobbe, a valloni, rigato dagli
scoli disordinati dell’acqua, sparso
di macchie di lentischi e di peri selvatici,
saliva fino alle propaggini delle montagne, dove
crescevano le querce e su, verso
Natile, le macchie e i castagneti. Poi Macrolis, Angelica, Ancone a
sinistra con gli olivi in fila, spiccanti
sulla terra biancastra. Qualche striscia di maggese scuro rompeva il
giallo riarso delle stoppie. Qualche coppia di buoi arava, e
sembrava le bestie stessero immote.
Gli orti dei Baronali, tra il
largo greto del fiume e le pendici prime del Carruso, si
distendevano segnati dal verde cupo del granoturco, e dalla
fioritura rossa dei peperoni e dei pomodori.
Ecco la terra promessa, la buona terra che avrebbe dato loro il
pane, la libertà! Ognuno accarezzava con l’occhio una quota,
un angolo che sarebbe diventato suo e sul
quale avrebbe potuto lavorare senza soggezione, senza
dover dividere col padrone i prodotti del suo lavoro.
Alla testa del corteo era
passata la ragazzaglia portando in
mano rami di olivo, di melograno
e
di sambuco. Avanzavano riempiendo l’aria di alte
strida, scavalcando pietroni, tempestando
di sassi le pale di ficodindia negli orti. Davanti ai
ragazzi apriva la marcia un gruppo di cani del
paese, che balzavano di gioia, uggiolavano, si azzuffavano, e
a ogni urlo della folla rompevano in
un latrato furioso, a cui rispondevano a distesa tutti i cani
della campagna.
Era uno spettacolo
indescrivibile: sembrava una
di quelle migrazioni
primitive, dei popoli
nomadi, o un esodo tumultuoso davanti a un cataclisma.
Cap. IV
Quando giunsero sul greto del fiume, e tra
le alte verghe fiorite degli oleandri
scorsero gli orti dei Baronali, il corteo si ruppe. I ragazzi furono
i primi. Si lanciarono urlando di corsa tra gli arbusti,
attraversarono in un attimo un filo d’acqua, che rigava
il greto immenso, sparso di
ciottoloni screziati come uova di uccelli mostruosi, e
scomparvero tra le tamerici.
Seguirono le donne. Si sollevarono le gonne fino al ginocchio
per non bagnarsi, e mettendo in mostra
le caviglie poderose, attraversarono anch’esse la piccola corrente,
seguite dagli uomini.
Il Sindaco si precipitò avanti, smaniando, agitando le
braccia, tentando con ogni mezzo di trattenerli, ma nessuno lo
ascoltava. Perfino Fronte di Rocca
col suo tamburo arrovesciato sulla schiena era
scomparso tra gli oleandri.
Rimasti da questa parte dell’acqua,
il Sindaco, Don Michelino Fazzolari
e le guardie con le
bandiere e i quadri inalberati sui pali, si guardarono un po’
perplessi.
Lo sapevo io che sarebbe andata a finire così! - disse il
Sindaco desolato...
Io approvo, - fece Don Michelino accendendo una sigaretta - è
roba loro alla fine dei conti.
Il Sindaco gli lanciò uno sguardo che aveva tutta
la ferocia di cui erano capaci
quei suoi due occhi grossi da ragazzone buono, e per non
dargli ancora una volta della bestia gli voltò le spalle.
E adesso noi cosa facciamo? - domandò
Don Girolamo, un po’ seccato di aver dovuto prendere parte a
quell’impresa.
Ci sediamo - disse il Sindaco, e sedette sopra un grosso macigno nel
greto.
Intanto dall’altra parte giungeva un brusìo, un
rovinìo, un tempestare sinistro.
Pareva che una turba di energumeni
si fosse abbattuta sugli orti
con lo scopo di distruggerli.
Come uno stormo di cavallette i contadini si
rovesciarono sulle piantagioni, urlando di gioia. I primi a
giungere, per la cupidigia di arraffare subito, si
arrestavano alle prime piante: i
sopravvenienti li incalzavano, li sospingevano
bestemmiando, urtando, rovesciando. Da per tutto era un
crepitìo di canne infrante, di
arbusti calpestati e un rissare rabbioso. Le donne si
incoccavano le gonne alla cintola, e vi
cacciavano dentro a furia, peperoni, pomodori, melanzane, pannocchie
di granturco; ma venivano urtate e sospinte;
alcune perdevano l’equilibrio, ruzzolavano
imprecando, schiantavano le piante,
calpestavano le frutta; le gonne si scioglievano, il
già raccolto precipitava al suolo;
era arraffato, pestato, conteso rabbiosamente coi
denti digrignati, i pugni sul viso. Era più
la roba che andava perduta che
quella che veniva salvata dalla distruzione. E così per
tutto il campo. Chi rompeva le canne di granturco
e insaccava le lunghe pannocchie
incartocciate, chi passava di corsa,
tempestando, da un filare a un
altro e strappava le frutta rosse con tutto il tralcio. Chi si
cacciava in collo una enorme zucca gialla,
e poi trovandola ingombrante, la scagliava al suolo. I
ragazzi andavano in cerca di
piccoli melloni da rosicare, e quando non ne trovavano,
si godevano infinitamente a tempestarsi tra loro di pomodori e
di melanzane. In meno di mezz’ora l’orto immenso, che copriva per
circa un chilometro tutto un lato della sponda del fiume, fu ridotto
a una rovina. Non una pianta più in
piedi! e dappertutto una poltiglia rossastra
di peperoni schiacciati, di pomodori disfatti, di zucche sventrate,
di foglie, di rami divelti; un groviglio informe
di arbusti, di pali e di canne di
granturco, come dopo il passaggio
di un uragano. Sulla immensa
distruzione, tra la folla formicolante
e vociante, scoppiavano risse
improvvise, gridi rabbiosi di donne che con le gonne
piene rimboccate alla cintola, difendevano
la loro preda. Alcuni uomini avevano riempiti dei
sacchi e delle paniere, e se le
portavano sotto il braccio o su
una spalla; quelli che, meno previdenti, erano venuti con le
sole mani, avevano legate con una verga
di salcio le maniche della giacca in fondo, e vi avevano
cacciato dentro quanto vi entrava di ortaggi e di pannocchie
di granturco.
Rocco Blèfari era uno di questi.
Improvvisamente il cielo parve diventare più scuro. Un
brusìo immenso scendeva dalla parte di Verraro,
un crepitìo minuto, un soffio come di vento lontano, e con
quello una specie di fumo s’avanzava, velando l’aria. Prima che si
rendessero conto della natura di quel rumore, la nebbia coperse il
greto, e uno scroscio improvviso, violento di goccioloni
grossi, obliqui, luccicanti nel
chiarore del giorno, si abbattè sull’orto disfatto e
sulla folla sparsa.
Il Sindaco si era riparato sotto un olivo, e affinché i
ritratti non avessero a sciuparsi, aveva dato
ordine che venissero tolti dai pali, addossati l’uno all’altro, e
riparati contro un tronco. Intanto una voce si sparse fulminea per
il greto e nell’orto: «I
carabinieri!...». Si fece un
silenzio improvviso, rotto dal brusìo
diffuso dell’acqua che cadeva fitta;
poi s’udì avanzare, dalla parte
di Ancone, un doppio scalpito e
improvvisamente, da dietro gli oleandri sbucarono minacciose le
lucerne di due carabinieri a cavallo. Guardarono un po’
incerti da ogni lato quella folla
sparpagliata sul greto, o riparata sotto
gli alberi, poi uno di essi che aveva i galloni di
maresciallo, estratta dalla fondina una grossa
rivoltella a tamburo, la puntò verso il gruppo dov’era il
Sindaco con la bandiera, intimando: - Fermi tutti, in nome della
legge.
Poi scese da cavallo seguito dal suo compagno.
L’arrivo di quei carabinieri produsse nella folla sparpagliata
l’effetto che produce un colpo di
fucile a pallini in uno stormo fitto di
passeri: a terra rimangono morti
o svolazzanti, con le ali ferite, quei
quattro o cinque che i pallini raggiunsero in una parte vitale; gli
altri con un frullo volano via
pigolando.
Il Sindaco, Don Michelino, le
guardie, che si trovavano sotto
l’olivo, a portata della rivoltella
dei carabinieri, non si mossero. Gli
altri, specialmente le donne, col
cuore in gola, senza fiato,
sgattaiolando tra gli alberi,
nascondendosi dietro le piante di
oleandro, in mezzo ai pietroni
enormi del greto, in punta di piedi,
raccomandandosi l’anima a tutti i
Santi, tentavano dileguarsi. I ragazzi
come una torma di scimmie scomparvero tra i
sassi e le tamerici. Alcune
donne, impedite dai grossi carichi che
tenevano nelle sottane rimboccate, ne versavano una metà sul
greto, e scappavano col resto da ogni banda. Altre più
ostinate e più cupide arrancavano con la
lingua fuori, trascinandosi dietro le
gonne gonfie come pance di idropici, piene di pomodori e di
peperoni, che scappavano da ogni
parte. Alcuni uomini presero il largo fuggendo verso il
bosco di Angelica, altri verso
il Mulino Nuovo, seguendo il corso
principale del torrente.
Il Galeoto e Cosenza, come gente che aveva una certa
familiarità coi carabinieri, e che rappresentava una
specie di aristocrazia intellettuale
in mezzo a quella turba
scamiciata, si accostarono al gruppo dov’era il Sindaco.
Rocco Blèfari anche lui si
avvicinò, tranquillo come una
Pasqua, forte della protezione del Re, con le maniche della
giacca legate in fondo, e piene di ortaggi. Non sospettava neppure
per ipotesi, che quello che aveva compiuto non fosse un suo
sacrosanto diritto.
Poiché il Galeoto e Cosenza più
pratici e più ammaliziati nelle cose della giustizia,
non avevano
niente addosso, il primo a essere agguantato fu lui. Scalzo com’era,
con il suo testone coperto dal fazzoletto a
quadri, le due piccole corna su le tempia, e la giacca gonfia di
preda, era il vero tipo del ladruncolo di campagna.
Fermo voi, - intimò il maresciallo afferrandolo per il
braccio - cos’avete qua dentro?
Gli strappò di su le spalle la giacca e ficcate le mani
nelle maniche trasse fuori due grossi
peperoni gialli.
Cos’è questa roba, dove l’avete rubata?
Rubata io? ma voi siete pazzo...
Fate silenzio, scalzacane, e badate come parlate con un
sottufficiale dell’Arma.
Signor brigadiere, - diceva Rocco, non rendendosi conto del grado
del suo interlocutore, - signor brigadiere,ionon ho rubato, quello
è atto di possesso, domandatelo al Sindaco.
Fate silenzio.
Sissignore, atto di possesso, io non rubo, il Sindaco mi conosce,
domandatelo a lui.
Fate silenzio, dico, e datemi il vostro nome; ...come vi chiamate?
Io mi chiamo come mi ha chiamato mio padre, - gridava Rocco
Blèfari eccitato e spaventato insieme - questo è atto
di possesso!
Il maresciallo si rivolse al suo subalterno che gli stava vicino e
gli ordinò: - Mettigli i ferri.
I ferri a me? Ma, signor brigadiere, questo è atto di
possesso, le terre demaniali. Qui c’è il
Sindaco, lui sa tutto. Don Michelino, mettete fuori quella carta,
fatela vedere al signor brigadiere,
lui sa leggere, le terre sono del Comune.
Voi siete in arresto, - gli gridò in viso il
maresciallo adirato - perché sorpreso in flagrante con
addosso la refurtiva. Avete capito? Voi siete uno dei capi, mi pare.
Io? Ma signor brigadiere - continuava, Rocco
esasperato. Ma l’altro si era
rivolto al Sindaco con tono autoritario.
Le guardie, quasi per proteggersi
contro i rigori della legge, che
appariva in tutta la sua severità, avevano spiegato la
bandiera nazionale, messi in mostra i
ritratti dei Reali, e si stringevano
intorno al Sindaco. Don Michelino
rimuginava in testa una di
quelle risposte che rimangono nella storia, come
quella di Muzio Scevola a
Porsenna. Ma il maresciallo non
lo degnò di uno sguardo. Parlò col
Sindaco.
Cosa fanno lor signori con quella bandiera? -
E allungò la mano per
impadronirsene, mentre altri quattro carabinieri sopraggiunti
si erano lanciati all’inseguimento lungo il greto.
Il Sindaco, che per quanto fosse timido, aveva ritrovata un po’ di
energia nella autorità della sua funzione, s’interpose,
afferrò la bandiera e allontanò con gesto amabile ma
dignitoso il sottufficiale.
Prego... questa è la bandiera del Comune, e io sono il
Sindaco. - Così dicendo si sbottonò la giacca, e fece
vedere la fascia tricolore. - Se avete bisogno di
spiegazioni domandatele, ma tenete presente che
parlate col rappresentante del Re nel paese.
Il maresciallo che aveva avuto ordini severi
contro i dimostranti, ebbe la
tentazione di reagire; ma il tono con cui parlò
il Sindaco, pacato e sicuro e quella qualità di
rappresentante del Re, buttata lì come una dignità
misteriosa che egli non aveva né il tempo né la
competenza di controllare, lo intimorirono. Volle rispondere, ma
s’impappinò e finì col dire: -
Io ho degli ordini, signor Sindaco,
degli ordini di arrestare tutti i dimostranti.
- Chivihadatoquell’ordinestupido? - chieseilSindaco.
Prego, signor Sindaco, gli ordini vengono dal signor capitano,
comandante la compagnia.
Ebbene, quell’ordine è stupido, ditelo pure al
vostro capitano e al Sottoprefetto.
I dimostranti sono tutta una popolazione. Se vi è
qualcuno d’arrestare questo qualcuno sono io che ha diretta e
consigliata la dimostrazione. Arrestatemi e lasciate andare quel
contadino.
Io non ho ordine d’arrestarla, - rispose il
maresciallo - ma questo contadino che
ho sorpreso con addosso la refurtiva lo trattengo.
Non ho nessun mezzo per farvi capire che commettete una sciocchezza.
Dov’è il vostro capitano?
Il capitano, col grosso dei
carabinieri, era rimasto ad Ancone,
dove i terreni contestati, essendo
di proprietà di un fratello del deputato, premevano di
più all’autorità politica.
Intanto i carabinieri, lanciati all’inseguimento, avevano acciuffati
altri tre e li accompagnavano ammanettati: Fronte di Rocca col
tamburo sulla schiena e una salvietta colma di
peperoni, il Liano, e Cataldo con un sacco
più grosso di lui.
Come il maresciallo s’accorse che Cosenza il Galeoto
parlavano tra loro animatamente, a bassa voce, pensò di
perquisirli.
Anche voi due siete dimostranti?
Signor maresciallo, - disse Cosenza - noi siamo cittadini che siamo
venuti a prendere possesso delle terre del Comune,
secondo l’articolo delle leggi diversive
della feudalità. Qui nel mio Codice non ci sono - e trasse di
tasca il codice - ma il professore, Don Michelino, sa dove si
trovano. - Poi si rivolse come un energumeno al maestro Fazzolari.
Don Michele, avete
perduta la parola? Sangue
di Maometto, tiratele fuori le
vostre leggi
bollitive.
Va... va... stupido, va, - faceva Don Michelino tutto confuso - che
bollitive d’Egitto mi vai cantando?
Come, per la malogna, dov’è quella carta? Mettetela fuori...
noi abbiamo diritto; ci sono i documenti.
Sicuro, - incalzava il Galeoto -
fate vedere i documenti... questo
è un tradimento, per la
malogna.
La conclusione fu che anche Cosenza e il
Galeoto furono arrestati come
sediziosi, e condotti tutti a Pandore.
Rocco Blèfari legato - diceva lui - come Gesù
Cristo, e innocente come lui, con sulle spalle la giacca dalle
maniche rigonfie che gli penzolavano e gli sbattevano
sui fianchi, in mezzo ai carabinieri
armati, avanzava come a tentoni, annichilito.
Le tracolle bianche, le giberne,
le strisce rosse dei pantaloni,
i grandi cappelli a due corni, i
sottogola, gli facevano ricordare le
figure dei giudei, di quei
soldati romani intorati e muscolosi,
che venivano esposti la settimana
santa nel Sepolcro, ai lati del
piccolo Cristo livido e sanguinante.
Come
quel Cristo egli veniva condotto davanti ai Tribunali! E
la Giustizia? Ah! quella bella
signora dalle poppe prosperose e dalla bilancia! - L’ho detto
io, che era una bottegaia... una specie di Porzia Papandrea!...
Cap. V
La rivendica delle terre demaniali era andata a finire così,
in una razzia di pomodori e di pannocchie di granturco, e
nell’arresto di dieci contadini del paese. I carabinieri,
da Ancone salirono a Pandore. Erano ottanta con
alla testa un capitano grosso, biondo, con una faccia apoplettica di
monaco feroce, e un’aria da far tremare le case.
Quella povera gente, che aveva creduto di esercitare un diritto, si
spaventò talmente alla vista di tutta quella forza armata,
che aveva occupato il municipio,
le strade e spesso perquisiva le
case, che non si udiva più una voce nel paese.
Si sarebbe detto deserto se di
quando in quando, sul rombo del vento
e lo scrosciar dell’acqua sui tetti, non si fosse levato un filo di
fumo, o il pianto di un bambino, o il grugnito lamentoso di qualche
maiale. Si era messo a piovere a
dirotto, con un tempo di scirocco
denso e greve. La tramontana si era combattuta tutto il giorno col
grecale, ma verso sera aveva ceduto. Contro il grosso nuvolone che
si librava sopra Verraro si avanzarono dal
mare altre nuvole basse, soffici,
grigie, dalle quali si staccavano
cortine di nebbia spessa come
bambagia, che radeva gli oliveti, i tetti, i
poggi intorno, le grandi querce, e velava tutto in un
turbinìo di pioggia minuta,
insistente, scagliata a raffiche dal cielo, come da una tramoggia
gigantesca. Il vento che ora sollevava ora abbassava le
cortine di nebbia, rombava negli alberi
come un mare in tempesta
circondando il paese di uno scroscio continuo,
legato, ricorrente come quello dei flutti. I tetti grondavano,
grondavano le vie limacciose, coperte di escrementi di maiale, di
residui di cucina, di bucce, di
spazzature, di tutto il tritume che riversano
sulla via le case povere. In fondo, verso Ancone, il fiume diviso
in due correnti, limaccioso, sul greto immenso e
desolato, riempiva la valle del suo mugghìo iterato,
a cui si univa il brontolìo del mare
che si spandeva nella notte veniente, come una minaccia
dell’invisibile.
Nelle povere case, oppresse sotto
quei tetti aggobbiti, screziati di
licheni, non si osava neppure
lamentarsi. Don Michelino Fazzolari era scomparso con tutti i suoi
documenti e le leggi diversive. Il Sindaco,
che per poco non era stato arrestato anche lui, ora si era tappato
in casa come un topo pauroso, e non si faceva vedere per nessuna
ragione al mondo. La bottega di Porzia Papandrea, per timore dei
carabinieri, era deserta. Vittoria al banco distribuiva sigarette,
bicchierini di cognac e sorrisi a qualche sottufficiale dell’Arma,
che s’indugiava volentieri a scambiar qualche chiacchiera con
quel pezzo di ragazza ardita e fiorente, che sembrava
disposta a sfidare tutta la compagnia.
La bottega di mastro Genio era sbarrata.
Gli arrestati erano stati chiusi nella
sala consiliare del municipio con
i corpi di reato. Sul banco del Consiglio,
disposto a ferro di cavallo, sopra uno zoccolo
di legno che teneva la
metà della sala, erano stati deposti il sacco
pieno di ortaggi sequestrato a Cataldo,
alcune paniere, e in un mucchio
a parte, i peperoni trovati nelle maniche della giacca di Rocco
Blèfari.
Una lucerna a petrolio, con un tubo tutto
affumicato, rischiarava debolmente
l’ambiente. Sui muri erano stati riattaccati i ritratti del Re
e della Regina, e la bandiera
appoggiata a un angolo, tutta ancora
inzuppata di pioggia, sembrava il vessillo di un esercito sconfitto.
Fuori l’acqua infuriava senza posa.
Tra il rombo ininterrotto del vento, s’udiva il crepitìo
delle raffiche che passavano sui tetti rabbiose,
suscitando nei solai, attraverso gli usci, sui
comignoli, delle voci lunghe e
lamentose come guaiti di animali sofferenti.
Nelle pause, il ruscellar delle grondaie,
monotono, accidioso, si univa al
clamore dei torrenti e alla voce lontana del mare
che riempiva tutta la notte.
Seduti sulle sedie a foggia curule, gli arrestati si
guardavano in viso sgomenti, dubitosi
quasi di quanto era avvenuto, tanto
sembrava loro enorme. Vi ragionavano
sopra, a bassa voce però,
perché di là erano i carabinieri.
Rocco, seduto al posto centrale,
con in testa il suo fazzoletto
a quadri e i larghi piedoni
tutti
infangati sullo sgabello sindacale, un po’ discorreva coi
compagni di sventura, un po’
rimuginava dentro di sé.
«Mi hanno arrestato per ladro! Guardate Maometto come mi
tenta! Dovevo proprio arrivare a sessant’anni per farmi
arrestare come ladro! Gesù, Giuseppe e Maria! Ladro e
caporione io? ma io non ci volevo neppure andare io, perché
so che cosa è capace di combinare quella buona
donna della Giustizia. Se non fosse stato per quegli
scapestrati dei miei figlioli, che a ogni fiato minacciavano
d’andarsene in America, io non mi sarei mosso. Ho un pezzo d’orto
ch’è mio e mi basta. Io ladro? io ho sempre lavorato, e so
che il Signore voleva parlare di me quando
disse: Ti procaccerai il pane col
sudore della tua fronte». Ma quello che lo esasperava di
più era il fatto che i
carabinieri lo avevano arrestato senza tener conto delle
sue ragioni. L’atto di possesso, le leggi eversive e abolitive di Re
Gioacchino, i documenti del maestro Fazzolari: tutte cose
inutili. Il maresciallo sembrava
sordo. E che uomo quel maresciallo! Al Re e alla Regina
quivi presenti non aveva prestata la minima attenzione.
Ma che i documenti fossero
falsi, e che il Sindaco e
il professore avessero ingannato il
paese
intero? E se i documenti erano
validi come mai i magistrati avevano mandata tanta forza per
impedire ai cittadini di esercitare i loro diritti? I pensieri gli
s’ingarbugliavano, dubitava di tutto, della giustizia,
dell’autorità, del Governo: tutto gli sembrava falso,
precario, inutile, e si vedeva
ingannato da ogni parte, lui povero contadino ignorante,
che non sapeva farsi le proprie ragioni,
perché non sapeva leggere e scrivere. Un grande
sconforto lo invadeva, lo sconforto dell’uomo
davanti all’ingiustizia. Si sentiva oppresso
da una paurosa solitudine, la
solitudine dell’ignorante che in ogni
potere vede un’insidia e odia tutti i poteri.
Il Galeoto digrignava i denti,
minacciando di bucare la pancia
al Sindaco e al professore che,
secondo lui, erano i responsabili di tutto.
Cosenza sdraiato sul tavolo, vicino al
lume, sfogliava affannosamente il
Codice e, nello sforzo di leggere, faceva con la
bocca le smorfie più strane. Ogni
tanto alzava la testa ispida, si
grattava la barba sotto il mento, e mormorava:
Io gliel’avevo detto, l’articolo non era quello!...
Il giorno dopo, sebbene l’acqua non
avesse cessato un minuto e il
vento imperversasse, sbiancando gli olivi che fumavano come
marosi e sibilando sui tetti rabbiosamente, gli
arrestati furono condotti via. Alcuni di essi per ripararsi
avevano avuto dei sacchi dalle loro
famiglie, o una di quelle coperte tessute
con l’ordito di fil di ginestra e la trama di stracci, che in
Calabria chiamano pezzare. A Rocco Blèfari la figlia Giusa
aveva portato una schiavina. Rosa col fratello Gèsu
si era rifugiata a Grappidà in una piccola
terra di proprietà dei Varvaro. Pietro si era dato alla
macchia, per paura anche lui dei carabinieri. Giusa, rimasta sola a
piagnucolare, ci andò per portargli la coperta e qualche cosa
da mangiare, sebbene avesse tanta
soggezione dei carabinieri. Giunta
davanti alla casa comunale, si
avvicinò a uno dei due militi che stavano di guardia sotto
l’arco della porta, per ripararsi dall’acqua che imperversava.
Il carabiniere la guardò con certi occhi dolci che le
misero addosso una paura strana. Essa
portava la sottana di fustagno verde sollevata sulla testa
a mo’ di cappuccio, e tenendo
stretti sotto il mento i lembi con una mano umida di
pioggia, mostrava il suo viso
affilato, un po’ sofferente, coi pomelli di
un leggero incarnato, gli occhi miti, verdognoli
con riflessi di erba, e i
grossi denti bianchi come quelli delle beduine.
Vorrei consegnare questa coperta a mio padre.
Volentieri, bella ragazza, - disse il carabiniere accarezzandola
con lo sguardo - datela a me.
Come si chiama vostro padre?
Rocco Blèfari, si chiama...
Datela a me, datela a me.
E io non lo posso vedere? - chiese la ragazza con la voce velata
dalle lacrime...
Mi dispiace, ma non abbiamo ordini, signorina...
È che io vorrei dargli anche qualche cosa da mangiare per il
viaggio. - E fece vedere un tovagliolo in
cui aveva messo due uova sode, un pane e un pezzo di cacio pecorino.
Date a me... date a me... glielo porto io.
Quando lo conducete via?
A momenti...
Allora io aspetto, voglio vederlo - fece la ragazza abbassando gli
occhi, rassegnata. Discese la scaletta e si andò a
rincantucciare sotto l’arco dell’ufficio postale.
Quivi altre donne stavano ad
aspettare piagnucolando: la moglie del
Galeoto con certi occhi
selvaggi che bestemmiava come una turca, la moglie di
Cataldo, la Cosenza, una povera
scema che basiva tutta gocciolante di pioggia e di lacrime.
Quando gli arrestati vennero fuori in fila, tutti scarruffati, con
le barbe da radere, gli occhi pesti perché su
quelle panche del municipio non
avevano dormito, le manette ai
polsi, le donne scoppiarono in un pianto dirotto.
Giusa si avvicinò al padre, e avrebbe voluto abbracciarlo; ma
non osò per paura che i carabinieri la ricacciassero indietro
malamente, e le impedissero di consegnargli la coperta.
Pa’ o pa’..., fatevi coraggio, -
disse la ragazza singhiozzando, e
gli cacciò sulle spalle la
schiavina. Poi gli porse in mano il tovagliolo, e lo guardò
a lungo mentre si allontanava
tra gli altri arrestati, curvo, coi suoi grandi piedi
nudi, guazzanti nel fango, sotto l’acqua fumosa, sbattuta
obli- quamente dal vento e velante la contrada.
Sotto la schiavina si vedevano ondeggiare gonfie le maniche della
giacca, nelle quali erano stati cacciati ancora gli ortaggi
dei Baronali, l’atto di possesso del cittadino Rocco Blèfari
sulle terre demaniali del suo Comune.
VI
Per due settimane piovve a dirotto, con uno scirocco impetuoso che
veniva dal mare, e che si combatteva tutto il giorno con un
vento di ponente. Acqua a non finire. Una
raffica andava e una veniva, scrosciando tra gli
alberi, con un sibilo diffuso, crepitando sui tetti che
grondavano con un ruscellare monotono e accidioso.
L’aria era corsa da nuvole basse, da cortine
di nebbia soffice, spessa, calda, che
galoppava trasportata dal vento, si
sfilacciava sulle cime degli alberi,
avvolgeva il campanile, poi dileguava nel rombo formidabile
della campagna. Nessuno usciva di casa. Nelle vie
deserte passava di corsa qualche
donna incappucciata, qualche maiale
col pelo irto, intirizzito, grugniva
lamentosamente davanti a un uscio.
Su gli orti malinconici, coi
loro olivi sempre in moto,
sbiancati e arruffati dalle raffiche,
i fichidindia allineati in fila lungo le macee come spettri,
le siepi di sambuco già tutte verdi di
polloni caduchi, passavano, nelle
pause dell’acqua, stormi di
cardellini. Si posavano un istante su le verghe
delle siepi e poi rivolavano via, pigolando, col loro caratteristico
volo a scatti.
A volte l’orizzonte si allargava, la nebbia pareva nascondersi
nelle fratte, e una specie di chiarìa
velata si diffondeva su tutta la campagna fino al mare. Un’isola di
sole appariva su le acque, come un sorriso lontano, in mezzo alla
fioritura dei marosi che si sfioccavano al largo. Le nuvole
color cenere prendevano riflessi di rosa pallido, e parevano
muoversi lente verso ovest, come un
esercito che porti altrove la sua minaccia. In quella
intermittenza di chiarore diffuso
emergevano limpidi i poggi, pallidi, rigati
di valloni, scabri di sassi e di cespugli, con qualche albero di
pero dalle chiome gialle, come un gigantesco
mazzo di fiori sbocciato improvvisamente
nella solitudine della campagna.
Appariva qua e là, bruno e distinto, tra
l’aridità delle stoppie, qualche rettangolo
di maggese, o qualche orto ancor
verde. Il cupo delle querce si
alternava col grigio cangiante,
argenteo degli olivi, che s’inalbavano
sotto il vento come marosi.
E tutto grondava malinconico, triste,
con riflessi azzurrini, tendenti al
violetto, come un color di
morte in quei primi giorni
d’autunno, tra un mormorio diffuso
di sgocciolìi, di cascate, e
la voce greve dei torrenti.
In fondo alla valle mugghiava il
fiume, gonfio, limaccioso, che aveva
nella voce come un
rotolìo di sassi.
Dove esso si gettava nel mare, l’acqua per qualche chilometro era di
un colore d’ocra.
Oltre il fiume si vedevano tranquille,
lavate dalla pioggia, e un po’
intristite, le terre demaniali. A destra, sopra
Natile, dove la montagna, coperta di elci e di castagni
prendeva un color d’indaco, appariva distinta
Pietra di Febo, Castello Atì con la sua
punta aguzza, Pietra Longa; e
oltre quelle, sopra uno sfondo di cielo color tempesta, si
profilavano le cime dell’Appennino: Farnia,
tutta pallida di stoppie e di eriche,
Scaparrone e più alto di
tutti Aspromonte, col suo cappuccio tutto bianco di neve. Le
nubi pareva viaggiassero verso i monti, in una immensa migrazione.
Ma erano piccole tregue dello scirocco.
A poco a poco dalle forre, da su l’orlo dei burroni, dalle
valli, salivano lente nell’aria delle
nuvolette di nebbia; altre si formavano spontaneamente sopra le
chiome dei querceti, come un fiato gigantesco rappreso.
Salivano da principio tenui, si
spandevano, si sfioccavano, si
moltiplicavano e poi si univano in una nuvola spessa che
velava a un tratto l’orizzonte. La luce si
affievoliva, il cielo si chiudeva, ritornava il
vento impetuoso, e col suo rombo ricorrente arrivava l’acqua,
minuta, insistente, scagliata contro le facciate delle case, i
vetri dei balconi, le chiome degli alberi.
Le gronde ricominciavano a ruscellare, e i cuori si serravano come
l’orizzonte.
Una notte, fra il tramoggiare
furioso dello scirocco, si udirono
intorno al paese dei rombi sordi come
di frane.
I Varvaro e Mariuzza, che dopo
l’episodio dell’occupazione si erano
rifugiati a Grappidà, quella sera erano al
focolare, davanti a un grosso ceppo di lentisco, e recitavano il
rosario.
Lo conduceva Caterina e, secondo
l’uso del paese, invece dei
consueti misteri, recitava certe composizioni
poetiche d’invenzione popolare:
Vi saluto monachissa
di Gesù figghiola e matri chi piacisti all’eterno patri e vi
fici principissa,
vi saluto monachissa.
Dio vi salvi a voi Regina, o Maria, Rosa divina.
Pater noster.
Bruno e Mariuzza rispondevano con un
bisbiglio sommesso, questa facendo
scorrere lentamente le avemarie del suo rosario di vetro
corallino, l’altro con le mani secche e nervose, tese verso la
fiamma che vacillava a ogni soffio, facendo ondeggiare sulle pareti
nude le loro ombre.
Il vento quella notte soffiava con una violenza
inaudita. Alcune querce, a una
cinquantina di passi dalla casa, si
contorcevano e rombavano minacciose,
come investite dalle fiamme di
un incendio. La casa aveva scricchiolii sinistri, e tra le
tegole, sul tetto, si producevano rumori strani come se
l’impalcatura si spostasse lentamente sotto una pressione
misteriosa.
Si era al terzo mistero quando un rombo sordo, sotterraneo scosse
la casa. A esso seguì uno
schianto formidabile, un rovinìo, un crepitìo di rami.
La porta fu spalancata con violenza
e quasi divelta. Il vento entrando improvviso, umido di un
polverio di pioggia, spense il
lume e investì gli oranti.
Maria Santissima!...
Balzarono in piedi senza fiato, e si aggrapparono l’uno all’altro,
con gli occhi sbarrati.
Dalla porta aperta videro confusamente la campagna livida, con
chiome d’alberi agitate dalla tempesta, e un cielo cupo, corso da
nuvoli neri, mostruosi. Di quando in quando,
in quella immensità ruggente, si aprivano dei
lampi rapidi, lontanissimi, di cui non si udiva il tuono.
- Cos’è,zio?- domandòMariuzzabiancacomeuncencio.
Non so, - fece Bruno Varvaro - credo sia caduta una quercia. - Si
avvicinò alla soglia. Una massa nera, fluttuante era distesa
a pochi passi dalla casa. La quercia più grossa era stata
sbarbicata dal vento e rovesciata. Una parte dei rami sotto il peso
della mole immensa, si erano schiantati e giacevano al suolo in un
groviglio sinistro; gli altri si dimenavano ancora disperatamente
nel vento.
È caduta la quercia grande - disse Varvaro; ma
all’invito angoscioso delle donne che rientrasse e chiudesse la
porta, rispose con un mugolìo che le fece agghiacciare.
Varvaro guardava intorno, in quella
oscurità rotta da un chiarore
debolissimo che veniva da
dietro le nubi addensate, e non credeva quasi ai suoi occhi.
Qualche cosa di misterioso avveniva intorno,
e pareva cambiasse lentamente la
disposizione delle cose. Quel
paesaggio che egli conosceva in ogni arbusto,
quasi in ogni sasso, nel quale si sarebbe mosso a occhi chiusi, si
trasformava. Un’altra quercia accanto a quella caduta si era
inclinata sopra un fianco e cigolava sinistramente come una barca
sul punto di affondare. E intorno a quella altri alberi sembrava
s’incurvassero a terra, perdendo la loro disposizione verticale. Di
alcuni i rami toccavano il suolo. Una macea che si trovava parallela
alla casa, ora appariva spostata a sinistra, e tutta a gobbe.
Varvaro si tropicciava gli occhi: - Cosa mai succede,
Vergine Santissima? Sono io ubriaco di
fumo, o questo è il diluvio universale? - Poiché in
quel punto la campagna era tutta sparsa di case e di capanne, si
udivano giungere col vento delle
voci concitate, delle grida lunghe
di spavento, dei pianti, e nel buio si
vedevano muoversi luci rossastre, come di tizzoni agitati!
Poi si cominciarono a udire muggiti, e un
abbaìo lungo di cani, che si rispondevano e si eccitavano
nella notte, da ogni angolo della contrada.
«Gesù Maria! cosa succede stanotte», stava per
dire Varvaro, quando s’udì
dietro la casa un grido acuto, una voce giovanile:
- Focu meu!...
Immediatamente balzò davanti alla
casa un ragazzo scapigliato, con
in mano un tizzone fumante, quasi spento
dall’acqua.
Varvaro, o Varvaro... dove siete?
Qua sono, cosa è successo... Tu chi sei?...
Sono il figlio della vedova Rocca, ci è caduta la casa;
venite a vedere... per carità, venite a vedere...
E com’è caduta, col vento... È crollato il tetto?
Non... no... - faceva il ragazzo ansante - si è aperta nei
muri e pare che cammini...
Anche la casa di Varvaro sembrava che camminasse; e si sprofondava:
il terreno davanti all’uscio, che normalmente era all’altezza
della soglia, ora era di un buon palmo
più alto. E intanto il
crepitìo del tetto diventava sempre più frequente.
A un tratto il vecchio ebbe la sensazione di un pericolo immediato,
quella specie di inquietudine istintiva per la quale le bestie
avvertono i cataclismi. Afferrò le donne e con impeto le
spinse fuori.
Caterina, Mariuzza... fuori... la casa crolla...
Ebbero appena il tempo di varcare la soglia, che uno
scricchiolìo potente investì la casa, e i muri si
aprirono, come un frutto di melograno troppo pieno di chicchi,
ingoiando il tetto.
Focu meu... Focu meu - gridavano le donne piangendo ad alta voce,
piene del terrore dell’invisibile. - Vergine Maria, Madonna di
Polsi... perdono e pietà!...
Il ragazzo della vedova Rocca si mise a strillare
paurosamente, stralunato, tutto inzuppato d’acqua, con
il tizzone spento nelle mani. Dal buio
rispondeva sempre più vasto e
sinistro l’ululare dei cani.
Dove andare? Nel terreno inzuppato d’acqua si affondava fino al
polpaccio.
Varvaro continuava a segnarsi, senza riuscire a rendersi
conto di ciò che avveniva
in quella notte tempestosa, con quel vento che pareva volesse
scardinare le montagne.
La campagna intorno si vedeva assai poco e confusamente. Non si
udiva che uno scroscio immenso, confuso di acque e di
torrenti in piena, e in mezzo
a quel rovinìo si percepiva
qualche cosa come un movimento strano della
terra, come se si spostasse, e
venisse trascinata in giù da quel rombo tempestoso, con
tutti i suoi alberi, le case, le strade, in un caos finale.
Venite da mia madre, - piagnucolava il ragazzo - venite, per
carità.
Le donne si rivoltarono le sottane sulla testa, per ripararsi
dall’acqua e seguirono, senza fiato, recitando
preghiere, Bruno e il ragazzo.
Andando verso la casa della vedova Rocca, col fango fino al
ginocchio, tenendosi per mano, inciampando a ogni passo,
vedevano più chiari e paurosi
i segni del cataclisma che
trasformava intorno la disposizione del paesaggio. Le macee
che servivano da termini erano o
crollate o contorte; degli alberi alcuni erano
affondati nel terreno sul posto, immergendovisi fino a
metà del tronco, altri s’inchinavano come
trasportati da una corrente di fango. Una straducola che passava in
mezzo ai campi era scomparsa in parte, in parte aveva cambiato
posizione. Tutte queste cose viste confusamente,
al bagliore dei lampi, e rilevate soprattutto per la gran pratica
che aveva nel terreno, mettevano nell’animo del Varvaro un terrore
folle; il terrore dell’uomo di fronte
all’inconoscibile, alla misteriosa forza
della natura che egli non sa dominare, mentre si sente da essa
dominato e schiacciato.
Nel buio intanto si faceva
più frequente l’occhieggiare delle
luci, e da ogni parte, dove era una
casa, giungevano lamentosi i muggiti dei buoi, e l’uggiolìo
sinistro dei cani.
Trovarono la vedova davanti all’entrata di un pagliaio di frasche,
vicino alla casa. Sembrava inebetita dallo spavento. In
braccio aveva un bambino di tre anni, avvolto
in una vecchia giacca del marito
morto. Il bimbo, dopo avere pianto a lungo,
calmato e riscaldato dal tepore, si era riaddormentato.
Altri due ragazzetti, rannicchiati al
buio nell’interno del pagliaio,
piagnucolavano battendo i denti. A qualche passo
era la casa coi muri spaccati da enormi fenditure, e
il tetto sfondato. Sull’aia alcune mucche,
rimaste anch’esse senza ricovero, aspiravano inquiete il
vento, si sferzavano i fianchi
con la coda, e di quando in quando levavano il muso
verso il cielo lampeggiante, e
lanciavano dei muggiti lunghi, sinistri, che mettevano
freddo nel sangue.
O Varvaro, - fece la vedova lacrimando - cos’è questo
flagello? Siamo alla fine del mondo?
Non so, cara mia, non so, - rispose il vecchio - anche la mia casa
è crollata.
Venite qua dentro, venite... - disse ancora la vedova - almeno
questo non ci crollerà addosso.
Entrarono tutti nel pagliaio. I due bimbi continuavano a
piagnucolare al buio, con un uggiolìo sommesso. Mariuzza li
cercò brancolando con le mani nell’oscurità, dimentica
del proprio spavento. Rinvenne i visetti lacrimosi, li attirò
a sé, in dolce atto materno, e se li strinse sul petto, col
pensiero a una persona lontana.
Quando venne l’alba il cielo prometteva sereno.
Le nubi diradate e diafane, abbandonavano lentamente la linea del
mare. A mano a mano che cresceva la
luce si andavano allargando, facevano
apparire qua e là delle
occhiate di azzurro. Finalmente il sole, non ancora
apparso, le incendiò, le ruppe in
grandi isole vaganti, le
ricacciò oltre i monti.
Una mattina smagliante, con un
sole d’oro, illuminando la campagna,
scoprì uno spettacolo
desolante e insieme grandioso. Tutte le case di campagna, in un
raggio di cinque chilometri, i frantoi, le capanne erano crollati
o affondati nel terreno, con le
imposte divelte e i tetti
precipitati o pericolanti. Gli alberi o erano stati
travolti dalla furia del vento o affondati nella terra. Tutto
il terreno era sconvolto, qui rovesciato nei torrenti,
li screpolato o aperto in frane
improvvise; i termini sovvertiti, le strade
spostate o scomparse, i valloni inghiottiti, le piantagioni
sommerse.
Dai piedi della rocca di Verraro si era staccata una frana immensa,
dell’ampiezza di circa cinque chilometri. Il terreno impregnato
d’acqua, aveva slittato sopra un
fondo roccioso, e aveva trascinato con
sé, per alcuni metri, tutto il paesaggio, sconvolgendolo e
devastandolo.
Altro dolore e altre rovine.
La povera cara terra dei Pandurioti non dava pane! Come un formicaio
posto sull’orlo di una via carraia, continuamente calpestato dai
cavalli, dalle ruote, dai monelli,
costringeva i suoi abitatori a rifare
periodicamente il loro nido, a sistemare a ogni
stagione i loro campi, incerta
nel suolo e nelle opere che vi edificava l’uomo,
come era incerta nelle correnti dell’aria.
Bisognava lasciarla, cercare altrove i mezzi per una vita meno
dolorante e affannata. Bisognava emigrare.
VII
Dopo la disillusione subita nell’affare delle terre demaniali,
quella rovina della frana aveva messo un
grande sconforto nell’animo dei Pandurioti.
Circa cinquanta famiglie che abitavano nelle campagne dove si era
prodotta la frana, erano state cacciate dal disastro verso il paese,
senza pane e senza tetto.
Intanto il periodo della semina stava per passare, e i
Pandurioti non avevano seminato un pugno di grano. I proprietari dei
beni demaniali contestati non avevano voluto ricevere
i cittadini del Comune, neppure per un atto di
sottomissione. Un signore di Platì aveva preso a calci un
povero diavolo, che era andato a chiedergli
perdono. Le terre erano state
concesse per la semina a gente
di San Luca, di Benestare e di
altri paesi vicini, e i
guardiani avevano l’ordine di impedire ai
Pandurioti anche il passaggio nei terreni contestati.
Era una situazione insostenibile. Si cominciò a
riparlare dell’America. Coi primi di
novembre, mercé l’interessamento del Sindaco, i dieci
arrestati furono rimandati alle loro case,
e quando Rocco Blèfari ritornò in
famiglia, trovò che i figli avevano già
compiuti tutti i preparativi per emigrare. Non si
oppose più. Oramai anche il buon Dio con i suoi castighi,
pareva spingere la gente ad abbandonare quel povero paese.
Sarà quel che vorrà il Signore, - diceva Rocco col
cuore grosso - raccomandiamoci a lui.
Erano più di quaranta che partivano questa volta: una
vera migrazione in massa: i Blèfari, i Cataldo padre e
figlio, Peppe Liano, mastro Genio il sarto, il figlio di Passarelli,
il Galeoto e tanti altri. Anche la vedova Rocca mandava il suo
ragazzo; un bambino quasi che, sebbene avesse compiuti i sedici anni
sembrava ne avesse dodici, tanto era minuscolo e mingherlino.
Mastro Genio, prima di partire, volle sposare la Rosa.
Il matrimonio si celebrò alla vigilia della partenza.
Non sono infrequenti questi matrimoni un po’ barbarici e un
po’ eroici in Calabria. Gli
sposi si giurano fede, passano una notte insieme,
sanciscono col rito intimo e
cruento la unione delle anime e dei
corpi, e all’indomani, come nelle favole antiche, nelle favole
degli eroi e dei cavalieri erranti,
l’uomo parte, qualche volta per non più ritornare, verso la
ricerca di un pane, verso la fronte immensa e lampeggiante del
lavoro; la donna rimane sola, col ricordo e il
brivido di una felicità appena
intravista, appena gustata, sull’orlo della tazza della
gioventù.
Sebbene mastro Genio si fosse sforzato
di fare le cose in grande,
la cerimonia dello sposalizio fu malinconica.
Solo alla sera i giovani che partivano avevano voluto
ballare e cantare a lungo sulle
zampogne, come per stordirsi, per annegare e mortificare le
inquietudini che metteva loro in cuore il pensiero della partenza
verso l’ignoto.
Quando fu notte, mentre il ballo ferveva ancora, Peppe Liano, che
era stato il più allegro di tutti, prese Giusa per il braccio
e la trascinò fuori, sotto il muro
di una vecchia chiesa demolita,
a qualche passo dalla casa.
Cosa volete? - domandò Giusa, sempre spaventata
dell’arditezza di quell’uomo, che essa amava di un amore
pieno di soggezione e di inquietudini.
Stasera tu sarai sola, - le disse sul volto, col fiato caldo e
pieno di un odor acre di vino, il Liano, - ti
verrò a trovare.
- Come... dove?... - chiesesmarritaGiusa. - Siete pazzo?...
Zitta pulcino - fece Liano, e dopo avere dato uno sguardo rapido
intorno, la baciò stretto sulla bocca. - Non parlare,
aspettami, lasciami l’uscio aperto, l’uscio piccolo dietro la casa.
No... no... non voglio... - mormorava smarrita Giusa;
e poiché quello, dominandola
coi suoi begli occhi selvatici, accennava ad andarsene, lo
prese per la giacca.
Il Liano l’afferrò per le braccia, e serrandogliele come in
una morsa, la baciò ancora forte.
- Verrò, aspettami... -
Erientrònellacasadovesiballava.
La Giusa rimase sola, senza fiato, appoggiata al muro, mentre dalla
casa, a pianterreno, veniva il canto della zampogna e il
tintinnìo del tamburello basco, che segnava il ritmo della
danza.
L’aria era già bruna, e qualche pipistrello rigava col suo
volo irregolare il crepuscolo.
Una gran luce era rimasta in alto, verso occidente. Il cielo, d’onde
il sole era scomparso da un pezzo, aveva preso un color verde-oro
che sopra il profilo dei monti
diventava abbagliante. Pochissime stelle
tremolavano a sommo
dell’orizzonte, come corolle
di ninfee sopra una
correntìa d’acque tranquille. Negli
orti erano cessate le risse dei
passeri; solo gli olivi bisbigliavano
ancora appena sotto la brezza, biancicando a ogni
soffio, come se volessero trattenere sulle loro foglie un po’ della
luce crespuscolare.
All’indomani, quando schiarì il giorno, squillarono le
campane, per annunziare la messa degli emigranti. I partenti e le
loro famiglie avevano voluto invocare da Dio
la benedizione sul loro viaggio, affidare a
lui le loro fortune, confidargli i loro timori.
La vecchia chiesetta protopapale si andava riempiendo a poco a poco
di popolo. Da quattro alte
finestre che guardavano verso oriente entrava, nella
parte superiore della navata centrale,
la sola che fosse illuminata, la luce ancora incerta e
pallida di un mattino uggioso. Sui vecchi quadri del soffitto, in
più punti rotti e accartocciati, si cominciavano a
scorgere le figure dipinte. In
uno, rappresentante la Strage degli innocenti, si vedeva
la caliga di un soldato che premeva sul volto di un lattante
scagliato al suolo; il braccio e il
pugnale di un altro, alzato
sopra un groviglio di corpi
femminili; il viso inferocito di una donna
afferrata da un altro soldato per la lunga
chioma bionda. Quella difendeva il
proprio bimbo cacciando le unghie
negli occhi dell’assalitore. Nell’altro
era rappresentato lo
sposalizio di Maria: in alto sulla scala del tempio il
gran sacerdote, con la mitria lunata, e in
fondo alla scala la Madonna, di cui non si
vedevano che le spalle e una bella testa bionda, coi capelli
annodati sulla nuca.
Dalle pareti della navata, guardavano i quattro evangelisti dipinti
di un pittore primitivo.
In fondo, sotto la cupola a pan di zucchero, nella quale alcune
finestrette rotonde appena apparivano rivelate da un fioco barlume,
si ergeva il bell’altare di
marmo, un altare che sarebbe stato
bello anche per una grande chiesa; coi candelieri di ottone, e certa
specie di flabelli di fiori
artificiali, metallici, che mettevano tra una candela e l’altra un
luccichìo mistico, come di una fioritura perenne e graziosa,
quale si conveniva all’orto e all’altare del Signore.
A destra brillava, tenue e velata, la lampada del Sacramento.
Mentre mastro Ciccio il sagrestano passava davanti all’altare per
mettere il leggìo, aprire il messale, portare le
ampolline, le donne entravano silenziose, coi
rosarii annodati alle dita, le mani
brulle sul seno. Scostavano i panchetti o le sedie per
raggiungere il loro posto che,
su per giù, era sempre lo
stesso, s’inginocchiavano segnandosi in
fretta, e cominciavano a bisbigliare
le loro preghiere. A poco a poco la grande navata di
sinistra fu piena di donne di ogni età. Alcune più
giovani portavano già sul capo i fazzoletti di laniglia a
fiorami; ma molte, specie tra le anziane e
le giovani del ceto contadino, portavano le
tovaglie aggiustate intorno al capo e al volto,
con una foggia bellissima che in dialetto
chiamano ‘ndirosu. La tovaglia lunga un paio di
metri, candida, o nera se la
donna portava il lutto, era foggiata con piegature
semplici e graziose, in modo da chiudere il volto in
una specie di rettangolo, i cui lati si allargavano
sulle spalle e sui fianchi, coprendo la schiena fino alle anche.
Quando suonò la terza campana, la chiesa era
tutta biancheggiante di queste
tovaglie, sotto le quali luccicavano occhi dolorosi e
ardenti, quegli occhi dalle pupille nere e dalle
iridi screziate che rendono affascinanti le donne
meridionali, anche quando non sono belle.
E le giovani e belle non erano molte. La gioventù è
una troppo breve stagione per le donne calabresi! Molti di quei visi
giovanili apparivano appassiti e
disfatti, quasi direi macerati;
perché la bellezza in essi era ancora molta
e palese, ma si velava di sofferenza e di dolore; di quel dolore e,
di quella sofferenza cotidiani che derivano dal lavoro
intenso e servile, dalla
povertà e dalla incessante
fatica della generazione. Molte erano le donne giovani, i cui
mariti emigravano, e si riconoscevano dagli
occhi insonni, lacrimosi, e dai visi alterati da una acerba
angoscia. Qualcuna aveva in braccio
un bimbo tutto vestito a festa, come per rallegrare la
partenza del suo papà con un aspetto giocondo di letizia;
qualche altra lo teneva attaccato al petto come un’offerta di amore
e di dolore a Dio.
In mezzo al gruppo delle donne erano le figlie di Blèfari.
Alla Rosa, vestita con gli abiti dello sposalizio,
era stata portata una sedia, ed essa si stava tutta triste e
piangente tra la sorella Giusa e la futura cognata, Mariuzza. La
Giusa, inginocchiata, aveva le pupille arse,
gli occhi profondi, spaventati, come se temessero
a ogni istante di essere sorpresi in fallo.
Dall’altro lato, accanto a Rosa,
s’era inginocchiata Mariuzza, tutta esile e bianca, con
le labbra
graziose tinte di un rosa pallido, e il collo sottile, che spiccava
come uno stelo nel bianco della tovaglia, e pareva sostenesse a
stento quella gran corona di trecce che le girava intorno alla
testa.
Giusa cercava con gli occhi, in mezzo al
gruppo degli emigranti, il Liano;
ma questi, ardito, un po’ cupo, col ciuffo su gli
occhi, il vestito nuovo di velluto, e l’aria di un lupo che abbia
divorata la sua preda, entrò nella chiesa quando già
mastro Genio aveva intonato il Kirie.
In fondo, vicino al fonte battesimale, in mezzo a molte donne
vecchie, vestita di cenci, si era inginocchiata la
vedova Rocca. Teneva il bambino
più piccolo in braccio, e
accanto, sopra un panchetto, le si erano seduti
gli altri due figlioli minori, infagottati
in certe giacche grandi, piene di
toppe e di strappi in ogni parte. Pregava con quel suo volto
sparuto, aguzzo, con una curva ancora
giovanile sulle guance, sparse di piccoli nei, e
gli occhi corrosi dalle lacrime.
Il suo ragazzo, a sedici anni appena,
emigrava anche lui. Un bambino, al quale doveva ancora
lavare le orecchie e ravviare i
capelli! «Che farà così solo nel mondo, in quei
paesi sconosciuti, tra gente
estranea?». Il pensiero le metteva addosso una
tale ambascia, che non era capace neppure di piangere. Invocava
l’anima del suo povero marito perché accompagnasse
il figlio, lo sorreggesse nei
paesi lontani, e glielo raccomandava con una
fede ardente, come se quello fosse stato vivo, e la potesse udire.
Intanto nell’altra navata vicino al pulpito, sotto l’organo, accanto
alla pila dell’acqua santa, si andavano adunando gli uomini. Rocco
entrò tra i primi, si
segnò, e si mise in
ginocchio accanto alla pila.
Quando squillò la campanella, per
annunziare che s’iniziava la messa,
entrarono in gruppo, con un grande
scalpiccìo di scarpe nuove, i quaranta emigranti, e si
andarono a inginocchiare tra il pulpito e il coro, davanti a un
grosso armadio, nel quale era chiusa la statua di S. Vito.
Vestivano tutti abiti nuovi di fustagno o di panno volgare, dal
taglio goffo e angoloso, rialzati e gonfi sul petto come corazze.
Alcuni portavano cravatte di cotone a nodo
fisso, i cui gancetti uscivano fuori,
dietro la nuca, oltre il collo della giacca. Molti avevano la
semplice camicia, dal colletto rivoltato e fermato
sul petto con due bottoncini di vetro; e sullo sparato mostravano
dei ricami: ramoscelli, raggere, piccoli fiori con un forellino in
mezzo e i petali intorno, simulanti quelli della margherita. Erano i
ricami delle fidanzate. Parecchie di quelle camicie
erano quelle del giorno di nozze. E tutti quegli ornamenti
singolari, e quegli abiti nuovi, stirati di fresco, angolosi, non
ancora aderenti alla persona, con la rigidezza delle colle
originarie, avevanoperledonneelefamigliedi quegli emigranti la
bellezza e la austerità di un assetto di guerra.
I volti di quegli uomini, anche
dei più giovani, erano
angolosi, dai tratti fortemente marcati,
come per una vecchiezza precoce; i capelli ruvidi, arruffati nei
contadini, pettinati a ciuffo in qualche
artigiano, con un cipiglio un po’ lugubre; e tutti
gli occhi adusati al dolore e
al patimento cotidiano come alla luce del giorno.
Il parroco uscì dalla sagrestia e si
avanzò, col calice nelle mani, verso l’altare; fece un
inchino, poi salì rapidamente; lo depose, sfogliò il
messale un istante, e ridiscese per iniziare la messa.
Un sibilo si produsse allora
sull’altare. Una tenda azzurra che
copriva una nicchia nel centro si
mosse, si raccolse sopra un lato, e improvvisamente, in mezzo ai
ceri accesi e ai flabelli di fiori splendenti,
apparve bella, serena, misercorde una Madonna, la
Madonna di Pandore, col Bambino ritto
sulle ginocchia.
Fu un bisbiglio di gemiti, di
sospiri, di preghiere, presto
interrotto dal suono
dell’organo. Mastro Genio con la sua vocetta agra, esile come quella
di un galletto, intonò il Kirie. Alla sua si unì
immediatamente la voce di Gèsu Blèfari, una bella voce
tenorile, con inflessioni malinconiche, tutta svolazzi,
acciaccature e variazioni, come se volesse adornare il
canto religioso di tutte le
grazie di un canto di amore.
Nell’udirlo Mariuzza appoggiò le mani alla spalliera
di una sedia che le stava
davanti, chinò la testa sulle mani e pians e.
Nonostante la letizia del canto, nella chiesetta gravava un senso
tragico di attesa, il senso tragico delle grandi calamità.
Speranze e timori, lacrime e preghiere, invocazioni segrete e voti
ardenti si confondevano e si elevavano a
Dio. I Pandurioti si erano raccolti in quella chiesetta
che ricordava loro le date più belle, le più gaie e le
più tristi della loro vita, come in un luogo di pace e di
speranza. Essa rappresentava per quei contadini il solo luogo di
elevazione spirituale, il posto dove la vita
bestiale e dolorosa di tutti i giorni
trovava una tregua nella preghiera
e nel canto; dove il loro
cuore guardava in se stesso, vedeva le sue piaghe, e con
accorata fiducia le mostrava a Dio.
La pena cotidiana dei corpi e
delle anime trovava conforto in
quelle quattro mura, tra quelle
immagini venerabili di Santi e altari, che parlavano di un’altra
esistenza, e legavano le cose della terra a quanto di bello e di
poetico le circondava: il cielo coi suoi aspetti di grandezza
infinita e di grazia, e il sole, e le nubi e i venti e le stelle, e
tutte le cose più vicine a Dio.
A quella si ricorreva nei dolori
domestici, quando sulle famiglie si abbattevano le sciagure, quando
tremava la terra minacciosa, e quando la temperie
si svolgeva impropizia ai raccolti. Si andava a implorare il pane
del corpo e inconsapevolmente si rinveniva il pane dell’anima.
Con quanta fede e quanta
speranza vi ricorrevano ora, dopo una triste delusione,
dopo un disastro che aveva distrutti tanti beni e lasciate senza
tetto tante famiglie; ora che i propri figli, i mariti, i fratelli,
la loro carne viva, era sul
punto di partire, di andar lontano, in un
paese sconosciuto, per cercare lavoro e
pane! Non era il Signore che
voleva quello? Tutto procedeva da Lui, e a Lui ricorrevano per
affidarglisi interamente.
Finita la messa il parroco volle recitare anche la
litania dei Santi: poi benedisse
i partenti e rientrò in sagrestia.
Allora la Palamara, una vecchia contadina dalla voce formidabile,
intonò la Salve Regina.
L’intermediario era scomparso. Il popolo parlava
direttamente con Dio, invocava la
protettrice dei poveri e degli afflitti.
Dio vi salvi, o Regina, siete matre universale; per vostro amor si
sale in Paradiso.
Alla voce della vecchia seguirono
quelle squillanti delle donne
più giovani, poi quelle gravi
degli uomini, e un coro perfetto con accordi di terza e di quinta
riempì la chiesa.
I primi due versetti erano cantati in fretta, con una specie di
recitativo sommesso, saliente, una invocazione appassionata. Al
terzo il canto si allargava, come un volo di
colombe che abbiano preso quota, e piegava con
accordi semitonali, lenti, accorati nell’ultimo emisticchio, pieni
di una malinconia consapevole, forte e rassegnata.
La voce delle giovani si
spiegava piena, limpida, dal petto,
come uno zampillo d’acqua sorgiva:
le più attempate cantavano in tono minore. Qualcuna lacrimava
cantando, col cuore pieno d’angoscia.
In alto i finestroni, scossi dalle raffiche di un vento di ponente
che si era levato all’improvviso,
facevano tintinnire i loro vetri,
dietro i quali si vedevano
passare nel cielo mattinale delle
nuvole, incessantemente. Sull’altare erano
state spente tutte le candele.
Solo la lampada in cornu epistulae
splendeva col suo lumicino giallo.
Voi siete gioia e riso di tutti i tribolati, di tutti i disperati
unica speme.
Quanto dolore e quanta rassegnazione in quel
canto! Il cuore vi si
abbandonava con la voluttà con cui ci si
abbandona all’impeto delle lacrime, per sfogarsi,
assaporandone l’amaro aroma. Quaranta uomini erano
pronti ad abbandonare le loro case, le mogli, le
fidanzate, i figliuoli, per recarsi
in un paese lontano e sconosciuto, fra gente che parlava
un’altra lingua, in cerca di lavoro e
di pane. Il bisogno, la povertà della loro
terra, li cacciava verso l’esilio
forzato, come le prime nevi sulla
montagna avevano cacciati verso il piano i pettirossi e le capinere,
quei teneri uccellini che pigolavano, scivolando tra
le siepi, su le cime degli
alberi spogli, con quei piccoli
gridi lamentosi che accrescevano la tristezza
dell’inverno veniente. Qualcuno di quelli che partivano non
sarebbe ritornato più tra i
suoi parenti, sarebbe caduto lontano, nella lotta per l’esistenza,
sepolto in qualche miniera, o stroncato dai
congegni terribili delle grandi officine. Il bacio che avrebbe dato
alla sua donna piangente, ai suoi bambini,
meravigliati di vederlo allontanarsi in una
maniera insolita, sarebbe stato
l’ultimo, e il giorno dei morti i suoi cari, per
ricordarlo, avrebbero guardate le lontananze misteriose
dell’orizzonte.
E quanti sarebbero ritornati integri nelle membra e
nell’anima? Quanti avrebbero trovato il
pane, quanti avrebbero fatto fortuna? E nelle loro famiglie cosa
sarebbe avvenuto durante il loro esilio? Avrebbero,
al loro ritorno, ritrovati quelli
che lasciavano nella loro casa;
la loro donna avrebbe mantenuta la sua
fedeltà; e la fidanzata li avrebbe
attesi con la dolce trepidazione
dell’amore costante? Tutto era affidato alla speranza e alla
fede in quel Dio a cui ubbidiscono i
venti e le tempeste; che governa, come fa delle
stagioni, i cuori e gli affetti degli uomini, e presiede alle loro
fortune.
Ma in quel canto non era solo la tristezza del forzato esilio, il
dolore di dover lasciare i propri cari, o quello di vederli partire
lontano, versopaesimisteriosi,versooscuripericoli.
Prostrata nella preghiera, quella folla dimenticava a poco a poco,
insensibilmente, le difficoltà contingenti, le
avversità della vita cotidiana,
i bisogni, le miserie che
inviliscono l’anima. Il suo dolore si
allargava e si approfondiva.
Come in un’acqua tranquilla, dal
punto dove cade un sasso e
la turba, si partono dei cerchi
concentrici, che si allargano fino
ad abbracciare tutta la superficie,
così dall’angustia della loro
vita il dolore si allargava, abbracciava un poco del dolore di
tutti gli uomini, assumeva un senso universale.
A voi sospira e geme,
il nostro afflitto cuore in un mare di dolore e di amarezza.
Ah, sì! non solo la loro esistenza era travagliata, ma
tutta la vita del mondo era
un mare di dolore, in ogni
condizione, in ogni angolo della
terra. Su tutto l’essere gravava
quella tristezza misteriosa che ne costituisce l’essenza
più intima, e che più direttamente pare proceda da
Dio.
Il canto diventava accorato e solenne. Molti di quegli
uomini che solevano cantare per abitudine quella invocazione piena
di abbandono alla Vergine, sentivano ora che
essa diventava un vero e proprio grido
del cuore, e un supremo conforto dissipava a poco a poco la loro
amarezza, una calma serena si apriva davanti alle loro anime come
un’aurora.
Rocco Blèfari, appoggiato alla pila dell’acqua
santa, prendeva parte a quel
coro a bassa voce, con gli occhi
gonfi di pianto, per non dare
un tono di angosciosa desolazione
al canto del popolo orante. Egli aveva un cuore
nero nero! Esso gli diceva che i suoi figli non avrebbero avuto
fortuna, che sarebbero stati vinti nella lotta intrapresa. Non
sapeva rendersi conto del perché quella
voce lugubre gli parlasse dentro, ma essa parlava come
una voce di naufrago nella tempesta, e nel mare del dolore e
dell’amarezza egli si sentiva naufragare. Perciò rivolgeva
all’immagine della Madonna, che guardava
serena dalla nicchia, i suoi occhi umili e supplichevoli, occhi
pieni di lacrime, di dolorose esperienze, e mormorava: - Madonna
benedetta, aiutateli voi.
Quando il coro intonò l’ultimo versetto:
Noi siamo figli vostri, a noi date vittoria,
tutti i giovani emigranti che stavano
in ginocchio, come guerrieri che odano
lo squillo di una tromba, si levarono in piedi, e
la fiducia si leggeva nei loro occhi
animati dalla speranza. Lasciarono la
chiesa quasi a malincuore, segnandosi con
piccole croci tracciate sulla fronte
con il pollice destro, mandarono un bacio
devoto alla Madonna nella nicchia, e sciamarono via verso le loro
case.
Cap.VIII
Pietro Blèfari entrò nella bottega di Porzia. Non
aveva mai osato manifestare a parole la sua passione per la bella
Vittoria, ma ora, al momento di
partire per un viaggio, tanto lontano, di
cui l’unico obiettivo era quel suo cocente amore, si fece coraggio
improvvisamente, con la sua goffaggine dei timidi.
Al banco stava Vittoria, tutta
fresca e rubiconda. In fondo
sedeva massaro Bruno Ceravolo,
fumando una pipetta di terra.
Che c’è, Pietro? - disse
Vittoria allegra vedendolo entrare. -
Come siete bello vestito da
galantuomo .
Pietro diventò rosso e si guardò il vestito e le
scarpe, impacciato. Il suo gran corpo di cavallaccio ossuto,
infagottato malamente in quel vestito di fustagno
bigio, tutto rigonfio e sonante sul
petto e sulle maniche, sembrava uno di
quegli spaventapasseri che i contadini
usano nei campi di lino, per tener lontani
gli uccelli.
Pfu! - disse, passandosi una mano rapidamente sul
davanti, - mi vestirò meglio quando sarò in America.
Partite dunque?...
Sì, parto... son venuto a salutarvi. State bene - e le
porse la mano grande e nodosa come quella d’un gigante.
Fate buon viaggio, Pietro, e ricordatevi qualche volta di noi...
Pietro si sentì il freddo alla radice dei capelli,
respirò forte, poi disse:
Io?... io mi ricorderò certamente di voi... ma!... Vorrei
dirvi una cosa... Dov’è vostra madre? la dirò a lei...
Ditela a me, Pietro - faceva
ridendo la ragazza, tutta felice
di vederlo così impacciato e
balbettante.
No, vado da vostra madre. - E poiché nel retrobottega
Porzia ruttava come una cateratta, Pietro
girò intorno al banco e s’avvio verso la tenda verde. Massaro
Bruno, quando quello fu entrato, diede un’occhiata scura a Vittoria.
Ti diverti eh! ti diverti... grandissima strega!...
E voi cosa volete? - fece Vittoria col suo sorriso umido e
provocatore.
Io lo avevo sullo stomaco da un pezzo, quel maccherone senza buco; o
credi che non me n’ero accorto? Tutte le sere accoccolato su quel
barile come un montone, con gli occhi spalancati come quelli di uno
spiritato. Meno male che va via...
È più giovane di voi... - disse con un tono di
provocazione Vittoria. Massaro Bruno ebbe uno scatto.
Io vi fumo te e lui, capisci?
Si levò d’impeto ed entrò anche lui nel retrobottega.
Pietro aveva trovata Porzia tutta discinta, senza busto, mezza
sdraiata sopra una sedia, abbattuta dall’isterico.
- Sonvenutoasalutarvi - disse il giovane, tutto eccitato.
Ah! parti anche tu, figlio
benedetto?... - fece Porzia, ed
emise un altro rutto formidabile. -
Anche tu vai in America? Con la benedizione di Dio!... che la
Madonna ti accompagni e ti dia fortuna.
Io volevo... - riprese Pietro
balbettando - volevo... dirvi una
cosa. Io desidero per moglie la
gnura Vittoria... se posso avere tanto onore.
Ah! figlio mio, onore e piacere... onore e piacere... Ma
perché non è venuto tuo padre? Queste domande le
fanno i grandi, figlio. Del
resto io sono contenta, se lei
ti vuole, io sono contenta. Procura di
far fortuna in America, e quando ritornerai...
Poi si mise a chiamare: - Vittoria... Vittoria... vieni un po’ qua.
Vittoria entrò: - Qua sono, mamma...
Senti cosa dice Pietro? Mi ha fatta una domanda di matrimonio per
te... Tu cosa rispondi?
Vittoria non smetteva quel suo
sorriso beffardo e sicuro, anche
perché contava di eccitare la gelosia
di massaro Bruno.
Io sono contenta, - disse la
ragazza, dondolandosi sui fianchi, -
purché vada in America e faccia
fortuna.
Datemi la fede - fece Pietro, tendendo ancora la sua grossa
mano, rosso in viso, col cuore che gli faceva dei capitomboli nel
petto.
La ragazza allungò la sua
senza sapere precisamente se prendeva
un impegno, o elargiva una delle sue perfide
lusinghe. Pietro gliela prese, la strinse, rudemente, sconvolto, ed
uscì.
Pietro, o Pietro, - fece Vittoria andandogli
dietro - vi voglio dare un ricordo. Prendete - e gli
porse un pacchetto di Macedonia. - Quando le fumerete ricordatevi di
me.
Pietro avrebbe voluto dirle che
lui non fumava sigarette, ma la
gioia del dono gli aveva tolto ogni
volontà.
Addio, addio... - disse; prese il
tabacco e uscì nella strada.
Quando svoltò la piazza,
udì un
passo affrettato dietro di lui. Si fermò e massaro Bruno,
accigliato, lo raggiunse.
Senti, - gli disse - quello che hai detto a
Porzia sia come non detto. Va pure in America, e dimentica di avere
parlato, come hai parlato. Quella ragazza non è per te.
Cosa volete voi, - rispose il giovane eccitato - è forse
vostra figlia?...
Son cose che non ti riguardano!... ti dico ancora una volta che
quella ragazza non è per te.
Si guardarono un istante, come due galli sul punto di azzuffarsi.
Poi si lasciarono con una muta minaccia.
Intanto Gèsu salutava la sua fidanzata.
La zia Caterina Varvaro gli
aveva preparato un fagottino di
roba da mangiare: un pezzo di
capicollo, una cullurella (ciambella) impastata con la sugna, due
grosse melegranate.
Questo lo mangerai nel treno - gli aveva detto Caterina.
Gèsu era contento. Con la sua
buona faccia da seminarista, appena
adombrata sulle mascelle e sul labbro superiore
da una pelurie bruna, gli occhi
color nocciola, grande di corpo,
e un po’ dinoccolato, aveva l’aria di un sagrestano.
Abbracciò e baciò con trasporto lo zio Bruno Varvaro e
la zia Caterina, poi si rivolse a Mariuzza.
Questa aveva ancora addosso il vestito che aveva portato
alla messa; una camicetta di laniglia
chiara con una guarnizione a cuore davanti al petto, di un
raso di cotone azzurro, una
sottana di mussola a lunghe pieghe minute, stretta alla
cintola e allargata a campana in fondo. Il petto piccolo era
rilevato dalla stecca, una lista di legno dolce,
ricurvo, che s’introduceva in una
guaina, davanti, nella parte centrale del busto, e che
spesso era incisa dal donatore. Al collo portava appesa a un
cordoncino nero una crocetta di oro a filigrana, e alle
orecchie due rosette con una
pietra di granata. Il bel viso ovale,
quasi infantile, sembrava esangue, e in esso brillavano
due grandi occhi chiari, d’un
colore che faceva ricordare la ghiaia marina
appena coperta da un velo d’acqua.
Anche lei aveva sotto la tempia una piccola cicatrice di pustola,
curata col fuoco.
Addio - fece Gèsu tenendole
la mano, ché l’usanza del
paese non permetteva di più. -
State
bene. Se Iddio mi darà salute e fortuna ci rivedremo... se
no...
Mariuzza sentì che due grosse lacrime le scendevano dagli
occhi, ma non si scompose. Col viso leggermenteimporporato sui
pomelli, la mano che le tremava in quella di Gèsu.
Buon viaggio, - disse - il Signore e la Madonna vi
accompagnino, e vi diano fortuna, come
desidera il mio cuore. - Poi soggiunse, reclinando un po’ il collo
sopra una spalla: - Scrivete presto, ricordatevi...
Tenendosi ancora per
mano stettero un
istante silenziosi, commossi,
guardando in terra.
Nell’uno era un desiderio e nell’altra una speranza che non osavano
manifestare.
Baciala, - disse con impeto Bruno Varvaro - e che Iddio vi benedica.
Gèsu allargò le braccia
e strinse con dolcezza la
giovane, baciandola come una sorella
sulle
guance.
Lei gli
restituì il
bacio imporporandosi
in viso. Si
fissarono ancora con
uno sguardo
appassionato; poi Gèsu scese
rapidamente sulla via, dove lo
attendevano i suoi compagni emigranti della
Ruga Grande.
Qualche minuto dopo tutta la carovana era sulla Strada Nuova in
viaggio.
Il cielo si era coperto di nuvole grigie, e il solito vento di
ponente rombava negli oliveti degli orti.
Gli emigranti portavano tutti un sacco di tela
con dentro qualche oggetto di
biancheria, e della roba da mangiare. Seguivano molte
donne e uomini delle famiglie. Alcuni portavano il
carico del loro partente in una bisaccia di orbace.
Vi erano delle spose che
portavano i sacchi dei loro
mariti sulla testa, mentre quelli tenevano in
braccio un bambino che baciucchiavano
continuamente. Dei ragazzetti più grandicelli,
scalzi, stracciati, sgambettavano accanto ai genitori, meravigliati
di quella partenza, e tentavano di rendersene conto facendo mille
domande curiose.
Tra le altre donne vi era Rosa Blèfari, che volle
accompagnare il marito fino alla
stazione. Anche Rocco volle andare a Bovalino, sebbene la
strada fosse lunga, e per non farli portare ai figlioli, si era
caricati sulle spalle i fagotti delle loro robe. Peppe Liano era il
più allegro di tutti. Sonava un’armonica a bocca, e
faceva ridere i suoi vicini.
Sapete come cantava Pietro? - diceva il Liano a
Sperlì e al figlio di Cataldo - noi cantavamo
tutti:
A noi date vittoria lui, pensava a sé. L’ho udito io che
cantava: «A me date la gnura Vittoria...».
Tutti si sganasciavano dalle risa, e anche Pietro rideva. Giunti
sopra il ponte della Fontanella si voltarono tutti a guardare e
salutare ancora una volta il paese, quel mucchietto di case sopra un
poggio in mezzo agli orti e agli
olivi, nello sfondo della montagna
azzurra e candida. Ognuno ricercò
e ritrovò la sua, rivide le piccole finestre
aperte a metà, con un vaso di origano, o una pianta di
zenzero sopra il davanzale, una pala di ficodindia con i frutti
invernali, appesa ai lati, una brocca di terracotta attaccata a un
chiodo, nel vano d’un balcone. Ah le loro povere case, come le
avrebbero ricordate anche in capo al mondo!...
A Guidace la Strada Nuova faceva un lungo giro intorno ai
poggi di Bony. Gli emigranti presero una
scorciatoia e si disposero a salutare i parenti.
Fu una scesa pietosa! Le donne si attaccavano al collo dei
mariti, singhiozzando; altre coi bambini in
braccio, inondate di lacrime, li porgevano continuamente al bacio
dei loro uomini che avevano gli occhi gonfi e rossi.
Alcuni ragazzetti si attaccavano alle gambe dei genitori e
strillavano perdutamente. La moglie di Cosenza si era seduta sopra
un paracarro, e si lamentava con una cantilena funebre, come se
piangesse un morto.
«Addio...», «Scrivete...»,
«Date notizie...», «Caro
mio...», «Figlio mio...»
erano le parole che si
udivano tra i singhiozzi.
Giusa Blèfari abbracciò i suoi fratelli e cercò
con gli occhi il Liano. Quello, era già
lontano suonando la sua armonica. La povera ragazza si sentì
mancare le gambe.
«Disgraziata me, che cuore ha quell’uomo, - disse tra
sé - che cuore!...».
All’ultimo momento giunse correndo il
figlio della vedova Rocca, un
ragazzetto addirittura, magro, con due occhi dolci e un
bel viso ardito, sparso di piccoli nèi bruni, come quello di
sua madre. Seguivano, ansando, la vedova col piccolo in braccio,
e due altri bambini, uno sui
sette e l’altro sui cinque anni. Il maggiore dei
due aveva addosso una grossa giacca del padre che gli
sventolava intorno, tutta a toppe e a sbrendoli.
Aspettatemi, aspettatemi - diceva il piccolo emigrante, tenendo
stretto sotto il braccio il suo fagotto di
robe entro una fodera di cuscino. Dalla tasca della giacca gli
spuntava un mezzo pane bianco.
Gli emigranti si fermarono.
Avanti, reboia, - faceva Nino Sperlì - in America bisogna
essere svelti.
Quando il ragazzo abbracciò la madre si mise a piangere come
un bimbo, e le cacciò la testa disperatamente sul petto, come
quando si ha tanta paura.
Figlio mio, figlio mio benedetto!... -
andava ripetendo la vedova baciandolo
e carezzandolo su gli occhi, sul viso, sulla bocca, e
bagnandolo di lacrime, - che l’anima di tuo
padre ti accompagni. Compare Nino, voi che siete pratico
dell’America, ve lo raccomando, per l’anima dei
vostri morti. Voi, compare Gèsu, scrivetegli le
lettere... Povero orfanello mio... Benedetto
figlio, benedetto per quante gocce di latte ti ho
dato... Il Signore e la Madonna ti accompagnino.
Su, su..., - facevano gli emigranti - avanti, reboia,
coraggio. Voi, comare, state tranquilla, sarà come un
figliolo per noi... non ci pensate...
I fratellini non si volevano staccare.
Vieni presto, Nando... - diceva il più grandicello,
agitando la sua enorme giacca sbrindellata - torna presto a
casa... per Natale...
Sì, sì, - rispondeva il piccolo emigrante - ti
porterò le nocciole e il torrone.
Andarono.
Quando entrarono nell’oliveto di Guidace, si levò una
canzone. Si udivano nel coro la voce robusta
di Peppe Liano, quella agra ed esile di
mastro Genio, e quella più
dolce di Gèsu Blèfari. Era una
canzone d’amore.
O chi spartenza dolurusa e amara, chi pianginu li petri di la via.
PARTE SECONDA
Cap. I
Partiti i suoi figli per l’America, Rocco Blèfari non volle
più rimanere a Pandore. Il paesello gli sembrava deserto,
funebre. Quasi in ogni casa vi era un emigrato, e in ogni ora che si
fossero incontrati dei vicini erano domande,
sospiri, lacrime. «Vi ha scritto
il vostro,... saranno arrivati,...
dove si troveranno a quest’ora... in alto mare, e il mare
sarà calmo?». La testa era sempre lì, sperduta
nel vuoto infinito e misterioso di quel viaggio, di
cui ignoravano anche la direzione.
Verso quale angolo dell’orizzonte bisognava mandare il
cuore e i pensieri perché accompagnassero la loro carne che
viaggiava lontano verso una ignota fortuna?
E tanto più angoscioso era quel pensare costante,
implacabile, come un tarlo, quanto
più vaghe erano le cognizioni e le idee
che quei poveri rurali avevano
dell’America, del mare, delle lontananze,
dei bastimenti, del lavoro che avrebbero fatto i loro cari e
degli uomini che li avrebbero
circondati. Dov’era quest’America, questo paese sterminato, nel
quale per arrivarvi bisognava stare
otto giorni tra cielo e mare; questo paese dalle
favolose distanze, con città grandi quanto una
provincia, con case immense, con un porto che non aveva
mai fine, dove vi era un ponte che chiamavano il ponte Broccolino,
sul quale passavano in aria i treni, e sotto i
bastimenti, e vi era una gran piazza,
con in mezzo la statua di una Madonna alta come un abete, che
si chiamava Libertà?
Dove era dunque cotesto mondo favoloso, da quale parte
dell’orizzonte si trovava?
Per quanto guardasse intorno Rocco Blèfari
non riusciva a farsene un’idea.
Intorno a lui tutto era piccolo, bello, magari un
po’ arido e triste in certi luoghi, ma tutto illuminato da un sole
splendente, sotto un cielo di paradiso, che pareva dipinto, in certe
ore del giorno.
Il mare grande, infinito, tempestoso, con delle onde alte come
montagne, egli non riusciva a immaginarselo. Il suo mare, quella
striscia azzurra, sospesa tra capo
Zefirio e la punta di Roccella, come
una meravigliosa cortina di raso luccicante, ora increspata e
variata qua e là da piccole fioriture bianche di spuma, ora
rigata da bei marezzi color di lacca; quel mare
così bello, così calmo,
definito, familiare con le sue voci, con le sue collere, con le sue
nubi; quel mare che in certi pomeriggi di agosto, sotto il cielo
solenne e sgombro da ogni vapore, prendeva il
colore della viola e la
morbidezza del velluto, non era certo fatto
per suscitargli l’idea dell’infinito e del
tempestoso. L’idea del mare era per lui un’idea familiare, di una
forza tranquilla, solenne, quasi religiosa; era, col cielo, il posto
dove Dio passeggiava, mandava le sue tempeste, la
temperie che favoriva o rovinava
i raccolti, ma non aveva nulla di quella
idea d’immenso e di minaccioso di cui parlavano
gli emigranti riferendosi all’oceano. Anche i
bastimenti che lo attraversavano erano piccoli. Da sulla porta della
sua capanna di macee e di frasche a Bony egli aveva tante volte
visti i bastimenti, i vapori che attraversavano il mare. Sembravano
giocattoli! Non erano che dei piccoli rettangoli, delle lineette
brune nell’immenso barbaglio dell’acqua, appena
rilevati nel centro dal quadratino dei fumaioli, alti come una di
quelle tacche che egli faceva sul legno per computare le giornate di
lavoro. Si movevano appena, come un bruco
sopra una foglia, qualche volta sormontati da un
pennacchio di fumo, che dileguava
lentamente nell’azzurro dell’acqua. Altre
volte erano delle barche a vela,
di cui si vedeva appena la
chiglia, e alta la grande vela
triangolare. Altra volta le barche navigavano con tutte le vele
gonfie, spiegate, che nelle ore serali prendevano sotto la luce del
tramonto una tinta leggermente aranciata, e
parevano delle grandi farfalle posate sopra un
prato di fieno.
Quello era il mare per lui, un mare diverso non lo concepiva.
Così fantasticando passava gran parte della giornata.
seduto davanti alla sua capanna,
con l’aria ebete, le mani sui ginocchi, gli occhi sperduti
nelle lontananze dell’orizzonte.
L’inverno era venuto, i peri avevano
perduto interamente le loro foglie
gialle. Nessun albero più
era vestito, se non gli olivi che smagliavano al sole. Aspromonte
era bianco di neve. Le terre arate nericavano per
tutte le pendici, e qua e là qualche orto, con i
suoi alberi di arancio carichi
di frutti, rompeva la monotonia della campagna. Le
giornate, nelle ore in cui
mancava il vento, erano tepide, quasi
primaverili, e si udivano per le siepi spittinire i
pettirossi. Qualche grosso calabrone ronzava
intorno alle pale di ficodindia. Una calma immensa e
serena era dappertutto. In determinate
ore del giorno la calma era rotta da un fischio acuto,
lontano, a cui seguiva un rombo sordo, che si ripercuoteva a lungo
nella valle. Era il treno che passava sul ponte, a Bovalino.
Rocco lo vedeva avanzare lentamente,
anche esso come un bruco sopra
una foglia, lo seguiva
quando imboccava il ponte, quando usciva, finché non
lo vedeva rintanarsi, nella galleria
lontana, a Capo Spartivento. Quel treno che andava, che
viaggiava anche lui, gli dava un senso di misteriose lontananze.
Qualche volta nella notte, dopo un temporale,
un cumulo di nuvole scure si
addensavano lontanissime sul mare, e dietro quelle nuvole
si produceva un palpitare di
lampi continuo, incessante. A tratti il cielo,
tutto pieno di stelle purissime,
era illuminato da bagliori immensi,
che accendevano come una deflagrazione colossale tutto
il vasto cortinaggio delle nubi; o i cumuli foschi
erano rigati da lunghi zig-zag di fiamma
azzurra, come sferze di fuoco agitate da una falange di
dèmoni sopra il mare e tutta la scena, tutto quel
lampeggiamento legato, dava l’immagine del lavoro
di una fucina titanica, nella quale una
compagnia di ciclopi battessero con
magli giganteschi su metalli
incandescenti, per fabbricare le porte dell’aurora o i balconi
d’oro del tramonto.
Rocco Blèfari pensava ai suoi figlioli lontani, e li
vedeva quasi dietro quelle nubi,
ansanti, sudati, circondati dalle scintille e dal
fragore, battere anch’essi ferro
incandescente, alimentare fornaci che ruggivano come il
mare.
Allora gli venivano le lacrime agli
occhi ma non scendevano; un nodo
gli serrava la gola, come
se vi fosse rimasto in mezzo un grosso boccone di pane di granturco,
e non andasse né su né giù. Un’angoscia
che non cercava di superare, ma assaporava a lungo,
perché gli sembrava che quell’amarezza gli
facesse bene.
Una sera, mentre stava governando la vecchia asina, in quella specie
di rifugio, fatto di canne e di rami di tamerici che le aveva
allestito accanto alla sua capanna, udì nel cielo
come il cigolìo di una carrucola colossale, lontanissima; una
carrucola situata in alto, in alto, dove passavano le nuvole. Tese
l’orecchio e levò la testa per vedere di
che cosa si trattasse. Il cielo
era limpido come un cristallo, di quel
colore azzurro che rendono le acque profonde, ma da maestro alcune
nuvole candide, soffici, avanzavano lente, come isole abbandonate a
una corrente. Il vespero era calmo
ma rigido. Qualche soffio di vento improvviso agitava
gli olivi, suscitando un rombo diffuso, che moriva nel silenzio
della campagna.
Quel canto remoto, e lamentoso come un clangore, veniva
dall’alto. Egli lo aveva altre volte
udito, ma non si sovveniva ora né dove né quando. E
spiava il cielo per vedere da
che cosa fosse prodotto.
Finalmente da dietro una di quelle nuvole apparve la
punta di un triangolo nero, disegnato
limpido e preciso nell’azzurro, come una figura
geometrica. Avanzava lentamente, si
liberava a poco a poco dalla nuvola, e infine si
profilò tutto. A quello seguiva un altro, e a qualche
distanza da questo, di qua dalla nuvola, una lunga fila indiana,
nera, e precisa anch’essa come tracciata su la carta.
Erano le gru.
Avanzavano ordinate, solenni, conservando
una simmetria perfetta, e gittando
nell’aria limpida il loro grido lugubre che pareva accrescere
all’infinito la malinconia e le
lontananze. Di quando in quando si notava un
piccolo movimento alla testa del triangolo:
l’uccello di punta cedeva il
posto a un altro, e la marcia proseguiva verso
l’infinito azzurro dell’orizzonte.
Erano gli uccelli migratori cacciati dal freddo,
da paesi sconosciuti, verso altri
paesi sconosciuti! Forse non trovavano più cibo, nel loro
paese, forse i loro nidi erano stati
devastati dalla tempesta; perciò si
erano adunati, avevano spiato il
cielo, si erano levati a volo, altissimi, per
orientarsi, e ora viaggiavano, lamentandosi, verso il loro destino,
sotto quella limpida immensità, dietro cui Dio li
confortava e li guidava ad altri lidi.
Come i miei figlioli, - diceva Rocco lacrimando - come i miei
figlioli!
La nuvola si divise in alto, si sfioccò, si tinse di rosa,
poi dileguò in una trama sottile di vapori tenui come fili di
ragno. I due triangoli e la fila delle gru si allontanavano col loro
clangore rattristante. A mano a mano che procedevano verso la linea
dei monti la distanza tra l’uno e
l’altro diventava indistinta, e il clangore si affievoliva,
sino a che non furono più che dei piccoli segmenti
nello spazio sterminato. A poco a
poco, lentamente, insensibilmente
disparvero, mentre Rocco, con
gli occhi sbarrati, credeva di vederli ancora.
Cap. II
Verso la metà di dicembre cominciarono a giungere le prime
notizie dall’America.
Da molti giorni, all’ora della posta, i parenti degli emigrati si
affollavano davanti allo sportello dell’ufficio, in attesa.
Finalmente una sera lo sportello si
aprì e la supplente porse,
con un sorriso, a Rosa Blèfari che
attendeva, una lettera bislunga, gialla,
con impresso in alto il pentagramma
serpeggiante della macchina bollatrice.
Tutte le donne le si affollarono intorno.
Gnura Rosa, per piacere, apritela - supplicavano in coro, ansiose di
sapere qualche notizia dei loro cari lontani - vediamo se parla dei
nostri, se li nomina almeno.
Siete pazze? - disse la Rosa, cacciandosi la lettera in seno -
questa deve aprirla Don Michelino.
Rosa si era subito scelto come segretario il professore
Fazzolari, che era tanto amico
di mastro Genio, e secondo l’uso del paese, avrebbe creduto di
fare un grave torto al suo
confidente se avesse ricorso ad altri per farsi leggere
la lettera. Tra il segretario e la famiglia
dell’emigrato si stabilisce in Calabria una
specie di rapporto di fiducia,
per cui lo scrivano diventa il
depositario dei segreti familiari, e guai a
sostituirlo, anche provvisoriamente!
Ecco, lei ha ricevuto... - mormoravano le donne
corrucciate. - Suo marito sa scrivere... mentre i nostri uomini, per
comunicare con le loro famiglie, debbono cercarsi uno scrivano, e
magari pagarlo.
Poiché per il rifiuto di Rosa si andava producendo una specie
di protesta tumultuosa nelle aspettanti, l’ufficiale postale,
un vecchio maresciallo dei
carabinieri, gridò da entro
l’ufficio: - Ce n’è per tutti,
Sant’Annaspa, ce n’è per tutti. Ecco: Garreffa Anna,
Carrà Domenico, Linarello Rosa - e distribuiva le
lettere tra le lagrime e i ringraziamenti.
«Dio vi benedica». «Dio vi rimuneri...».
E quello continuava: - Cataldo Francesca, Mantica Giuseppe,
Blèfari Rocco. - Per
Blèfari era venuta la Giusa. Allungò la mano,
ritirò la lettera e attese ancora. Vicino
a lei stava ad aspettare la vecchia
zia del suo fidanzato, quella che lo aveva allevato, poiché
era rimasto orfano da bambino.
Liano Serafina - chiamò l’ufficiale postale, e porse la
solita busta gialla.
Giusa ebbe un sussulto al cuore; istintivamente allungò
la mano anche lei, diventando rossa
come la fiamma. Poi si avvicinò alla vecchia e le chiese
tremando: - Vi ha scritto?
Sì, sì, mi ha scritto - rispose la vecchia, e con uno
sguardo ostile nascose la busta nel petto, e s’incamminò
curva alla ricerca di qualcuno che gliela leggesse.
La sera quando annottò scese Rocco Blèfari da Bony, e
nella sua casa, accanto al fuoco, presenti i Varvaro e Mariuzza, fu
letta la lettera di Gèsu.
Essa diceva:
«Caro padre e care sorelle,
«Vi scrivo questa mia lettera per farvi conoscere l’ottimo
stato della mia buona salute, con l’aiuto di Dio, come anche di mio
fratello e di tutti i paesani che siamo tutti anavia (insieme) e
abbiamo subito trovato lavoro. Dunque, caro padre e care sorelle,
noi lavoriamo in una grande sciarpa, e siamo in una grande campagna
a fare una ferrovia, e abbiamo trovati alcuni amici della Calabria,
di Bovalino e di Natile, e il nostro bosso è uno di Ardore
che si chiama Màrando, ed è una bravissima persona.
Dunque, caro padre e care sorelle, non pensate male per noi, che noi
stiamo bene con l’aiuto di Dio e della Vergine di
Polsi, che quest’anno voglio che andiate a portarle cinquanta
lire da parte mia e di mio
fratello Pietro, perché siamo arrivati in salvamento in
quest’altro mondo. Dunque, caro padre, noi non ci
troviamo a Namaiorca, ché appena siamo
sbarcati alla botteria ci hanno presi
e ci hanno accompagnati in questa campagna, ch’è
lontana due giornate di treno dalla città; e
voi scrivete con la busta che vi mando,
perché le lettere va nno alla Banca Tocci,
ch’è una bona banca taliana, e quella che le manda per dove
siamo col lavoro.
«Dunque, caro padre e care sorelle, noi nulla possiamo dire di
questo paese, perché siamo in campagna, e la
biancheria ce la laviamo noi la
domenica, e non possiamo andare in città. Solo vi
dico che l’America è un paese grande che
voi non potete farvi un’idea, ed
è un paese diverso dal nostro,
dove ci sono grandi ricchezze, ma quando uno non trova lavoro sono
guai. Qui in America, caro padre, non ci sono i fichi o i ficodindia
di Bony: qui chi non lavora muore di fame, e l’oro corre come
l’acqua al nostro paese, quando piove con lo scirocco.
«Dunque, caro padre e care sorelle,
noi siamo lasciata la nostra patria per venire a fare fortuna
in questo paese, con l’aiuto di Dio, e ci siamo messi subito al
lavoro; ma il nostro cuore è sempre al nostro paese, e se Dio
ci dà salute, quando avremo guadagnato un poco di danaro,
ritorneremo a casa nostra, ché ogni uccello tende al suo
nido.
«E vi dico, caro padre mio, che questi paesi sono assai
lontani, e noi ci troviamo come sperduti
pensando alle nostre case e alle nostre care
famiglie e fidanzate, che salutiamo
di vero core. Dunque, caro padre, vi faccio
sapere che mio cognato Genio non
si trova con noi, perché lui si
è impiegato in uno storo (trattoria), e sta benissimo e
guadagna più di noi. E vi faccio anche sapere che il
fidanzato di mia sorella Giusa, Peppe Liano, non si trova neppure
lui con noi, e non sappiamo dove si trova, perché voi lo
sapete che quello è stato sempre un po’ ciaravellitico
(cervellotico).
«Ora vi dico che per Natale speriamo di potervi mandare un
poco di moneta per fare le feste del
Santo Bambino in allegria.
«Ora, caro padre, passo alli saluti. E
saluto prima di tutti la mia fidanzata Mariuzza, e la saluto di vero
core, con suo zio e sua zia, e le dite che presto le scriverò
una lunga lettera, e le dite che si ricordi della sua promessa che
io mi ricordo sempre di lei, e anche quando lavoro la penso sempre,
che mi pare d’averla davanti a gli occhi ‘mpusibili
(visibile), e spero con l’aiuto di Dio di venire a farla mia sposa.
«Mio fratello Pietro saluta la gnura Vittoria Papandrea e
anche la sua mamma Porzia, e vi prega di portare voi i suoi saluti
di persona».
Seguiva una lunga lista di
saluti per tutti gli amici del
paese, elencati con nome e cognome
come in un atto notarile, poi conchiudeva: «Dunque, caro
padre, vi prego che mi facciate
una pronta risposta, e mi facciate sapere una di tutto. Ditemi
come vanno li seminati, se il pero selvatico che ho innestato io a
Bony ha attecchito, e se
quest’anno avete ancora intenzione di
potare le viti americane del vivaio, e ditemi
anche come sta la nostra povera vecchia asina.
Infine salutiamo le nostre care sorelle, con
mille e mille abbracci, e a voi, caro padre, baciamo la mano, e vi
domandiamo la santa benedizione».
Come Mariuzza sapeva leggere un pochino, perché era andata a
scuola un paio di anni, la lettera la leggeva lei, arrancando,
smozzicando le parole, delle quali, dopo ogni punto, si faceva un
lungo commento, e una larga interpretazione.
Al fuoco bruciava un grosso
ceppo di quercia. Una lumiera,
di quelle che foggiano gli zingari
con rottami di ferro, faceva luce, appoggiata
sopra una tavoletta infissa nel
muro. Rocco Blèfari coi suoi larghi piedi
scalzi, screpolati e chiazzati di
fango giallo, le mani tese verso
la fiamma, ascoltava con il cuore che si apriva e si
chiudeva a ogni frase come un fiore di sensitiva.
Mariuzza compitava tutta accesa in volto, contenta come una bambina.
Quando la lettera fu tutta letta, gli occhi erano
pieni di lacrime. Solo Giusa non pianse. Rimase
stralunata, inebetita. Del suo fidanzato non sapeva che una povera
notizia, e non lieta: egli aveva abbandonato tutti i paesani, ed era
andato a cercar del lavoro solo, in preda al suo spirito avventuroso
e aggressivo. Dov’era, cosa faceva, si ricordava di lei?...
Insomma erano tutti a posto. Chi lavorava come sterratore, chi
in officina, chi ad abbattere foreste; uno
faceva perfino il guardiano di oche. Di quello che
faceva mastro Genio, tutto ciò
che si seppe fu che lavorava e guadagnava. Rosa non aveva
voluto fare la minima confidenza a nessuno.
Per Natale parecchi mandarono dei soldi.
Poi si seppe che il Liano lavorava in una miniera
di carbone del Massachusetts. Scriveva poco anche a sua
zia. A Giusa aveva scritto verso i primi di
gennaio una letterina secca, breve,
in cui le diceva, con una certa spavalderia, che lui era
solo, che guadagnava molto, e ogni tanto ricordava i cari amici. In
questa frase sibillina, superficiale, era tutto il
ricordo che quell’uomo conservava di
lei. Il cuore le scoppiava per l’angoscia, sebbene di fuori
non facesse segno ad alcuno. E lo sforzo di
trattenere costantemente le lacrime, di dissimulare la
trepidazione interna, quel fare
violenza sopra se stessa in permanenza,
quel comprimersi costante, davano al
suo volto una espressione strana e
concitata.
Passò l’inverno e venne la Pasqua che quell’anno
cadde verso i primi di aprile.
Le famiglie degli emigrati erano tranquille,
ricevevano regolarmente le lettere
ogni quindici giorni. Molti avevano
già mandate parecchie centinaia di lire, e anche il ragazzo
della vedova Rocca ne aveva spedite quattrocento in una volta,
guadagnate facendo il reboia.
Il tempo era già bello,
il tepore della primavera confortava
e rinnovava tutte le cose. Le
campagne erano coperte di una verdura rigogliosa e
fiorita; negli orti occhieggiavano le
fave; le macee erano piene di ortiche, di nepitelle, di
vilucchi, di soffioni; nei grani, che pareva crescessero con
l’ondeggiar del vento, si aprivano i papaveri
fiammanti, e i bei gigli rosei
dei gladioli. Tutte le strade, i
cigli dei fossi, i margini delle
vie, i sentieri, gli embrici, le
gronde, le rovine delle vecchie
case, il cornicione della chiesa, la
sommità del campanile si
coprivano di margheritine dorate, di
violacciocche e dei fiori gialli del soffione.
Tutto, sotto quel sole caldo e fortificante,
acquistava una dolcezza nuova, una
particolare trasparenza. Un odor di gioventù e un senso di
letizia si spandeva pei campi,
profumava l’aria e la rendeva inebriante.
Il giorno di Pasqua era
trascorso in allegria, quando verso
sera si sparse rapidamente la mala
nuova.
Il Liano era morto. Era rimasto schiacciato in una galleria di
carbone.
La letizia pasquale fu rotta da alte grida, da pianti, dal
corrotto lamentoso di tutto il paese. Chi
aveva una persona in America piangeva come se il morto fosse
stato suo; quelli che non avevano
emigrati si facevano sulle vie, si riunivano in crocchio attorno a
una lacrimante, la redarguivano, adducevano mille ragioni per
calmarla. Le piangenti si colpivano il
viso, rigandolo di sangue con le
mani adunche, battendo con le
palme sulle ginocchia, e levando
una cantilena triste, in cui
lamentavano il destino dei loro uomini, forzati dalla
necessità ad abbandonare la casa per
dar da mangiare ai propri figliuoli.
Sventura mia, che io glielo dicevo!... glielo dicevo di non partire
che Iddio ci avrebbe aiutati lo stesso. Volle partire, per l’amore
dei figlioli volle partire! per dare del pane a
questi innocenti. Poveri orfanelli miei...
Ma che siete pazza, - dicevano in coro
le donne che ascoltavano, con le mani brulle, tese in atto di
minaccia. - Volete finirla ch’è malaugurio? Volete piangerlo
vivo, scombinata che siete?
I bimbi vedendo piangere la
mamma si mettevano a strillare
anch’essi, sbocconcellando dei pezzi di pane.
La vecchia zia di Peppe Liano quando apprese la notizia
barcollò come ebra, poi si cacciò nella forgia del
nipote, si accosciò in terra e cominciò a battere la
testa contro il muro.
Essa non aveva altri al mondo.
Quel ragazzo rimasto orfano piccolino lo aveva
allevato lei, e ora quello la campava.
Figlio, figlio mio!... - mormorava senza voce - ...mio povero
orfanello - e si strappava i capelli. Si lacerava il viso
avvizzito e rugoso, guardando intorno con quei suoi occhi tristi,
velati dalle lacrime e dalla vecchiaia.
Com’è morto? caro mio Dio, com’è morto? - domandavano
le donne - cosa dice la lettera?
È morto schiacciato, povero orfano, sotto una miniera di
carbone.
Cosa sono coteste miniere di carbone?
Sono delle montagne...
E lui perché è andato a cacciarsi sotto?...
Lavorava, disgraziato figlio di mamma, e gli è caduta sopra
la montagna.
È morto come i topi, sotto la pietra, schiacciato...
Forse non l’hanno potuto tirar fuori neppure! è rimasto nella
terra come un verme.
Nessuno l’ha assistito, meschino! Solo, senza neppure un requiem
è andato al mondo di là.
Tacete, tacete... l’hanno assistito
sua madre e suo padre. Il Signore
l’avrà mandati a chiudergli gli occhi.
Glieli ha chiusi la terra, gli occhi, povero giovane! Che brutta
morte! che brutta morte!
Qualcuno avendo sentito parlare del lavoro nelle miniere di carbone,
correggeva e spiegava:
Sapete cosa sono le miniere di
carbone? sono dei pozzi sotto
terra, e delle volte prendono fuoco e
scoppiano.
Le donne guardavano esterrefatte. Le
immaginazioni tentavano raffigurarsi la
scena, la visione di quella morte orrenda, nelle viscere
della terra, in mezzo al fuoco come i dannati.
Giusa quando ebbe la notizia rimase come fulminata.
Le si inaridirono gli occhi e la gola, un cerchio di ferro le
serrò la fronte, e dentro quel cerchio pareva che il cervello
si fosse arroventato. Per tutto il
resto del giorno rimase come
inebetita, muovendosi macchinalmente nella casa, sotto gli occhi
inquieti di suo padre, che
pensava ai figlioli col cuore grosso.
Ma quando fu notte, allentata un poco la tensione dei nervi, quel
suo terribile dolore si sciolse in lacrime, ed ella pianse a lungo
disperatamente, con piccoli lamenti, come un fanciullo
battuto, piena di spavento, annientata, senza curarsi
neppure di suo padre, con un irresistibile
bisogno di liberare il cuore, di sgombrarlo di
un’angoscia che, se fosse stata ancora compressa, lo avrebbe
schiantato.
La finisci o no, - le diceva suo padre - non hai vergogna? Era forse
tuo marito? È morto? pace all’anima sua. Tanto non era gran
cosa. Buon ragazzo, lavoratore prezioso; ma... una
testa!... Non se l’è voluta lui
quella morte? Se l’è andata proprio a cercare lui.
Perché non è rimasto coi tuoi fratelli? Nossignore,
lui vuol andar solo, lasciare i paesani,
mettersi in una miniera di
carbone. Il carbone... ma si scherza?
Col carbone si fa la polvere, dunque è una cosa pericolosa.
Quando scoppia, le montagne saltano in aria come zolle. La morte se
l’è cercata lui. Tu ora sta zitta. Hai pianto un poco... gli
volevi bene!... io non dico... è naturale! Il Signore l’ha
fatto così il mondo. Ma ora basta, ché non è
decoro che la gente ti veda piangere come se fosse stato tuo marito.
Hai capito? e non mi far perdere la pazienza, altrimenti, per la
malogna, mi alzo e ti appiano ben bene le costole col dorso della
scure.
Giusa, a quelle parole minacciose, attenuava un po’ il suo lamento,
ma poi lo riprendeva senza accorgersene, irresistibilmente, tratta a
lamentarsi dalla disperazione angosciosa
del cuore. Poteva essa dire a suo padre la vera
cagione per cui si disperava? Un freddo alle reni l’afferrava a
questo pensiero, un desiderio di scomparire, di morire, di
annientarsi prima che la verità fosse rivelata.
Rocco Blèfari presto si addormentò, sdraiato, secondo
il solito, sopra una stuoia di
stracci, distesa sul muretto vicino al focolare. Giusa rimase al
buio nella sua stanzetta, seduta sopra una cassa.
Fuori c’era la luna, una luna crescente dopo il primo quarto, e
dalle fessure della piccola finestra e della porticina che dava
sulla via, si vedeva il chiarore pallido che illuminava la contrada.
La notte era tranquilla, una notte di aprile tiepida, solenne.
L’assiolo cantava già su gli olivi, e
il suo grido, breve, morbido, come la nota di un
piffero di canna, addolciva la immensa serenità lunare.
Giusa ricordava. Era stata la sera delle nozze di sua sorella Rosa.
I suoi fratelli cantavano su le zampogne in fondo al paese; il padre
un po’ avvinazzato, russava rumorosamente sul
murello. Essa tremava, seduta su la cassa come ora, col cuore
gonfio di desiderio e di spavento. Quel suono delle
zampogne, e un certo profumo di nozze che era rimasto
nella casa, dove ancora errava
l’odor della cucina speciale, e quello dei rosolii e dei
dolciumi, e il pensiero della sorella che, più fortunata di
lei, a quell’ora posava la testa sul cuore di suo marito,
la turbavano fino al delirio. Ella non
avrebbe voluto lasciar la porta socchiusa, ma aveva ceduto a una
tentazione strana, alla seduzione di tutte quelle circostanze che la
turbavano, e le affocavano il viso. Ma Iddio le era testimone che
non aveva pensato di far male. Egli sarebbe arrivato; come al solito
l’avrebbe abbracciata, l’avrebbe stretta sul cuore, con quelle
braccia forti, nelle quali ella si abbandonava con tanta
trepidazione, e poi sarebbe andato via, lasciandola tutta sconvolta,
palpitante e stanca. Stanca e felice.
Invece...
Riudiva ora il rumore appena sensibile dei passi, il soffio di una
porticina scostata, e il respiro di lui, Rivedeva gli occhi accesi
nell’ombra, come quelli di un lupo
che viola un ovile. Si erano
seduti sulla cassa tremanti, tenendosi
per mano, baciandosi senza parole,
attenti al battito dei loro
cuori che pareva riempisse la stanza e producesse una specie
di rombo. Vicino era il letto.
Oh Vergine Santa! perché vi si erano
appoggiati? Egli che prima
l’accarezzava con dolcezza l’aveva
stretta ora brutalmente, eccitato, col fiato
che sentiva di vino e di
tabacco. La poverina sconcertata aveva
tentato di difendersi, di respingerlo, ma le mani le
ricadevano inerti, non aveva
più forza. Aveva una paura folle di
far rumore, perfino del respirare
concitato di lui, quel respirare
pieno di un’ansia sconcertante, che la stancava
come un veleno soffiato nella sua bocca...
Quando si ritrovò sola, convulsa, si abbattè sul letto
come un uccello ferito. Non aveva più forza
neppure di alzare una mano.
Nella sua carne era l’irreparabile.
Una suprema gioia e un supremo
spavento le agitavano il cuore. Se fosse morta in
quel momento non avrebbe avuto un rimpianto.
Se l’amore non fosse più forte della morte la vita finirebbe
rapidamente.
Cap. III
Quando Rocco si
alzò all’alba, la
Giusa piangeva ancora
col suo piccolo
lamento fioco, sommesso, come una invocazione infantile:
- O mamma... mamma mia!...
Aprì la porta brontolando,
diede un’occhiata al cielo, già
tutto invaso dai bagliori del
giorno, poi si affacciò
infuriatosull’usciodellastanzadoveGiusapiagnucolava,eleintimò:
Alzati.
Giusa seduta sopra la cassa,
quasi raggomitolata su se stessa,
sollevò un istante la sua
faccia stravolta, ma non si mosse.
Rocco le si lanciò addosso, l’afferrò per le braccia,
e la scosse violentemente, minaccioso.
Svergognata... lo piangi come se fossi stata la sua ganza! ma non
hai dunque rossore? - e alzò la mano per colpirla. Giusa
cadde in ginocchio, e alzando in viso a suo padre due occhi
disperati, gonfi per le lacrime, mormorò:
Perdonatemi, padre mio, perdonatemi e beneditemi; io sono perduta.
Rocco Blèfari fece un passo indietro, sconvolto, esterrefatto
dalle parole di sua figlia.
Non sapeva perché, ma egli avvertiva in esse un senso
misterioso e nuovo, la voce di un dolore diverso da quello che egli
pensava.
Che sei diventata pazza questa mattina? - mormorava.
Disgraziata, cos’hai nel cervello? Io ti taglio la testa, quanto
è vero il sole di Dio. Io ti scanno come una pecora.
E invaso da un tremendo furore,
non per colpirla, ma per darle
il senso della sua terribile ira
paterna, afferrò la scure che era deposta in
un angolo vicino alla porta e
la brandì con cipiglio feroce sulla
testa della ragazza.
Che non ci sono più
uomini nel mondo, disgraziata... che
tu debba piangere per un estraneo,
come se fossi andata a letto con lui?
Ah padre mio! - fece Giusa, con la
voce roca per l’ambascia interna, - non
piango solamente per lui. - E gli occhi le si riempirono di spavento
e di vergogna.
Perché piangi, allora...
perché? - urlò il vecchio col presentimento
terribile di ciò che stava per udire - perché piangi,
svergognata?..
Perché piango? - mormorò la ragazza rizzandosi
rapidamente sulle ginocchia, e
sporgendo in avanti il petto e il ventre, con un misto di
vergogna e di furore, quasi irritata contro suo padre, che la
costringeva a rivelare ciò che avrebbe dovuto vedere da
sé. - Perché piango? non vedete come sono?...
Rocco Blèfari gittò la scure e credette che la terra
gli si aprisse sotto i piedi. Avrebbe voluto dir qualche cosa, ma
non riusciva, e con le mani sotto la gola, come per aiutarsi contro
quella soffocazione, andava in giro per la casa, emettendo un suono
lugubre, come il rantolo di una bestia ferita: - Oh! Oh!... Oh!... -
Poi il furore lo vinse.
Balzò vicino alla figlia, raccattò la scure, la
brandì con un atto terribile e risoluto.
Bene, - gridò - nella mia casa mancava il pane, ma non
è mai mancato l’onore. - La voce gli si velò e ruppe
in pianto: - Tu hai disonorata la mia casa,
tu mi hai gittata la vergogna
in faccia, sulla faccia di tuo padre, povero vecchio!
che aveva sofferto tanto per allevarvi tutti, che
i piedi gli sono diventati duri come il bronzo a
correre per le contrade. Tu hai fatto questo, nella mia casa, hai
gittata la vergogna in faccia ai tuoi fratelli, che
non oseranno più ritornare
neppure al loro paese, per non
farsi rider dietro dalla gente. Bene, io ti ammazzo. Chiedi perdono
a Dio, or ora... per te e per quella creatura che porti con te, e
incrocia pure le braccia al petto. Io ti ammazzo.
Giusa ascoltava quelle parole terribili con gli occhi dilatati e
pieni di terrore.
Sì... sì... ammazzatemi, avete ragione - mormorava
accosciata in terra, rassegnata a
tutto. - Iddio abbia misericordia di me e di questa
creatura. Ma prima, padre mio, beneditemi. Non sono degna della
vostra benedizione, ma come volete che
il Signore mi perdoni, se vado
all’altro mondo maledetta da mio padre?
Rocco Blèfari al colmo del furore, con gli occhi
grondanti di lacrime, le terribili
disperate lacrime dei vecchi, aveva alzata la scure nell’atto di
colpire, quando su l’uscio apparve la figura esile e pallida di
Mariuzza, che gettò un grido:
Misericordia! cosa fate?
Rocco, sconcertato, girò la
testa: - Vattene, vattene, -
diceva - lasciami solo. Va fuori di casa
mia...
Le si era avvicinato e la spingeva verso la porta.
Mariuzza, con un coraggio di cui non si credeva capace,
reagì, sebbene il cuore le battesse come
se volesse scapparle dal petto.
Io dico che voi siete pazzo, - disse energicamente
- mettete giù quella scure. - E avvicinatosi gli
afferrò l’arma per il manico.
Lasciami... debbo ammazzarla.
Attratta dal tramestìo entrò nella casa Caterina
Varvaro, e vedendo la nipote alle
prese con Rocco attorno alla scure, gittò un grido.
Giusa era in terra rannicchiata, con la testa curva sulle mani,
singhiozzante.
Mariuzza, Rocco, cosa fate?
Mariuzza con una energia sovrumana aveva intanto strappata la scure
dalle mani di Rocco, e si era inginocchiata vicino alla piangente
con una accorata tenerezza, cercando di sollevarle la testa.
Rocco con le braccia penzoloni, la bocca aperta come uno
stralunato, si andò a sedere
sul murello, vicino al focolare, e piangendo, asciugandosi di quando
in quando gli occhi col dorso della mano,
narròaCaterinaladisgraziadellafiglia.
La mia famiglia è perduta, siamo rovinati! possiamo andare a
nasconderci tutti... Almeno fosse vivo, quell’infame; avrebbe potuto
riparare, lo avrei costretto io a riparare, anche vecchio come
sono. È morto! chi la prende più questa ragazza
con un figlio? Iddio ha castigato lui, facendolo morire come un
topo, sperduto, senza neanche un requiemeterna. Ma noi, non siamo
castigati anche noi?
O Dio che disgrazia!... o Dio che disgrazia, - andava ripetendo
Caterina.
Io la mando via di casa, - riprese Rocco - vada
via per il mondo, lontana dagli occhi miei. Ch’io non mi veda
più davanti la mia vergogna. Va...
va... fuori di casa mia... - urlava
minaccioso - ch’io non senta più neppure pronunziare il tuo
nome... fuori... fuori di casa mia.
Mariuzza aveva appresa da Giusa,
tra i singhiozzi, la terribile
verità ed era rimasta allibita.
Le
sembrava una cosa mostruosa, e in un primo tempo
sentì come una specie di
ripugnanza verso la sua amica. Ma contro
questo sentimento insorse subito un altro più profondo e
acuto, una specie di pietà e di solidarietà verso
quella maternità dolorosa, che veniva minacciata dell’estremo
abbandono.
Io dico, grandissimo diavolo, che
voi non la manderete via, -
disse Mariuzza, con la gola
serrata dalla commozione, - che è vostra figlia,
ed è più disgraziata che
colpevole. Dove volete che vada in queste
condizioni?
Rocco smaniava, si dava dei pugni nella testa, sospirava e ripeteva
come un ritornello:
Povera casa mia disonorata!... povera casa. I miei
figliuoli non ritorneranno più
a Pandore. Cosa verrebbero a fare? a vedere la loro vergogna?
Una sorella che la tenevano come il fiore nel vaso! Non verranno
più in questa casa; io, se Iddio mi ascolta, morrò, e
l’erba crescerà davanti alla mia porta. Oh! Oh!... povero me!
Caterina guardava qua e là incerta, turbata, inquieta, come
chi ha qualche cosa da dire e non la dice, vuol proporre un rimedio
e teme sia peggiore del male. Ma poiché Rocco continuava a
smaniare e a lamentare l’onore della sua casa perduto, non si
ritenne più.
Insomma, non è questa che ha portato il disonore peggiore in
casa vostra.
E chi dunque lo ha portato? - domandò Rocco come istupidito
dall’angoscia.
Tutti lo sanno... voi solo non lo sapete. Il disonore peggiore ve lo
ha portato l’altra, l’ingrata!... che ha il marito in America, e lei
si chiude tutti i giorni col professore in casa a scrivere lettere,
come se avesse la corrispondenza del vescovo...
Cosa dite?... - domandò ancora Rocco - di chi intendete
parlare?
Di vostra figlia, intendo parlare, di quella che marcia con scarpe e
calzette, e va in giro con gli anelli sulla pancia. Voi siete tutto
il giorno in campagna, non parlate
con nessuno, ma lo sanno tutti,
il paese è pieno...
Anche quella? - disse Rocco inebetito, annientato
dal dolore, - anche quella?... - e brancolando sul muretto, vi
puntò sopra le mani per non cadere.
Ecco che l’America portava i suoi frutti! Egli ne aveva avuto il
presentimento. Due figlie, quelle che egli chiamava le bandiere
della sua casa, erano perdute. Ora sarebbe venuta la volta dei
maschi.
Al furore primitivo era subentrata nel suo
animo una specie di fredda e
tragica rassegnazione. La sua casa crollava dalle fondamenta.
L’onore, la sola ricchezza dei
Blèfari, tramandata nelle generazioni da
padre in figlio, santa e solenne come
il ricordo degli avi e gli
arnesi domestici, l’onore che era stato l’ornamento
migliore delle donne che portavano il suo nome,
ora non esisteva più, e il
destino aveva disposte le cose in modo da rendere impossibile
la riparazione, e quella tradizionale
vendetta che lavava nel sangue l’onta non riparata e riabilitava
l’offeso.
Cap. IV
La notizia dello scandalo di Giusa Blèfari si propagò
in un lampo per il paese. Molte lettere
partirono per l’America, e più d’una era già partita
all’indirizzo di mastro Genio, per informarlo
della condotta di sua moglie, sulla quale correvano già i
commenti più animati.
Quando i figli di Rocco appresero le due tristi
nuove, abbandonarono immediatamente il
lavoro dove si trovavano impiegati, e partirono senza mèta
per andar lontano, in un luogo
dove non ci fosse alcuno del loro paese.
La prima sera che si ritrovarono
soli in un villaggio della
Pennsylvania, si chiusero in una
stanza per scrivere al padre, e lì, con la
carta davanti e il pensiero alla
famiglia, si guardarono negli occhi in silenzio, e
piansero come fanciulli. Poi Gèsu scrisse una lettera che
stringeva il cuore. Si rammaricavano col padre della sventura che
aveva colpito la loro casa, nella più gelosa
delle loro ricchezze: l’onore. Gli raccomandavano però
di non abbandonare la sorella maggiore,
Giusa, quella che aveva fatto un po’ da mamma a tutti
loro, perché, la poverina, doveva ritenersi più
disgraziata che colpevole. Dell’altra sorella non volevano
avere più notizie. La vendetta oramai
non spettava a loro: quella aveva il marito, al
quale essi l’avevano consegnata come un fiore. Ci pensasse lui. Per
conto loro la cancellavano anche dalla loro memoria, e se anche
fosse morta, essi non intendevano esserne informati.
E siccome anche sulla condotta di mastro Genio correvano
nell’elemento degli emigranti delle notizie poco
simpatiche, Pietro si recò dal cognato, un
po’ per accertarsi di persona
della consistenza delle dicerie che lo riguardavano, un po’
per incitarlo a ritornare in Italia e punire la colpevole.
Lo trovò in una specie di locanda tenuta da una calabrese
attempata, di Catanzaro; una di quelle
locande-ristoranti che gli emigrati chiamano storo, dove si
dà da mangiare a da dormire ai
lavoratori italiani. Era diventato grasso come un cappone nella
stia, con la faccia ripugnante del
fannullone. In principio vi si era impiegato come cameriere,
poi era diventato l’amante della padrona, che lo teneva da conto
come il verme nel formaggio. La
sola sua occupazione era quella
di strimpellare la chitarra per far
divertire gli avventori, e accompagnare le loro canzoni.
Difatti Pietro lo trovò seduto dietro il banco,
accanto alla padrona: suonava e
canticchiava. Lo storo era in una specie di baraccamento, con
un salone pieno di piccoli tavoli di
ferro, e qualcuno di marmo. I tavoli in parte
erano occupati da operai che bevevano birra: qualcuno
anche mangiava. La padrona, una donna sui cinquant’anni,
energica, bruna, con un viso angoloso e sparso di piccole
macchioline scure, simili a quelle chiazze di licheni che
si formano sui sassi esposti
all’umidità, le mani magre d’arpia, segnate da
grosse vene violette, carica d’oro al collo e ai polsi come una
regina barbara, lo ascoltava con un’aria accorata e insieme
contegnosa.
Quando mastro Genio lo vide
entrare, tentò dissimulare il
disappunto che gli procurava quella
visita. Si alzò, gli tese la mano e lo accompagnò a un
tavolinetto di marmo in un angolo.
Siedi - gli disse. Poi andò al banco, depose in un
angolo la chitarra, e ritornò al tavolo dov’era Pietro con
una bottiglia di birra e due bicchieri.
Pietro rifiutò il bere, e cominciò a
parlare al cognato di quanto
l’interessava, col suo cipiglio duro e
ingenuo di ragazzone che prende tutto sul tragico.
Infine lo invitò senz’altro a ritornare in Italia e a fare le
sue vendette senza pietà. Se non aveva i denari per il
viaggio glieli avrebbe dati lui. Mastro Genio tentennò un po’
il capo, poi rispose seccamente che lui stava troppo bene dove si
trovava, e che non aveva nessuna intenzione di ritornare in Italia,
dove non aveva lasciato nessun feudo da sfruttare.
Hai lasciato mia sorella che è tua moglie - fece Pietro
stringendo le mascelle, come se avesse voluto stritolarlo dentro. -
Cosa intendi fare di mia sorella?
Tua sorella? non so cosa farmene.
Ma noi te l’abbiamo data con l’onore...
Si vede il bel genere che mi avete dato! Me l’avete data per una
notte, mi sono servito: ve la restituisco.
Pietro che era gonfio d’ira, per averlo trovato grasso e tranquillo,
nonostante l’atroce offesa ricevuta, non vide più
dagli occhi. Afferrò con le sue enormi mani la lastra di
marmo del tavolino, rovesciando bottiglia e bicchieri, e
lo avrebbe certamente finito se
un nugolo di operai presenti, attratti
dalle grida della padrona, non lo avessero accerchiato e disarmato.
La padrona strillava come un’aquila: - Accorrete, la polizia,
chiamate i pulisi... Assassino...
Si produsse un tramestio d’inferno.
Miserabile! - ruggiva Pietro divincolandosi come un gigante, con
degli scossoni che facevano rotolare due operai per
volta sul pavimento. - Miserabile! di
mia sorella dici di essertene
servito? che forse era venuta dalla ruota come te, che non sai
neppure di chi sei figlio?
Mastro Genio, bianco come un cencio di bucato, tremante, con le
labbra livide dalla paura, si asciugava la fronte,
madida di sudor freddo, e si nascondeva dietro un gruppo di operai,
come un bimbo davanti a un mastino che ringhi minaccioso.
Che c’è, cos’è stato? - domandarono gli emigranti che
non conoscevano la cagione della rissa.
Niente... niente... - faceva Pietro soffiando come
un toro - lasciate che gli torca il collo a quel miserabile...
che gli mangi il cuore.
Uno dei presenti, molto robusto,
con un aspetto da bravaccio, si
avvicinò e prese Pietro per i
lembi della giacca, sul petto.
Paesano, - gli sussurrò scuotendolo - parlate con me. Lo
storo è sotto la mia protezione... - poi pronunciò
alcune parole del gergo camorristico che Pietro non comprese.
Io non vi conosco, - rispose il
giovane allontanandosi - e non intendo conoscervi.
Anzi se mi
rivolgete ancora la parola vi pianto un pugno nello stomaco che ve
lo sfondo.
Lascialo stare, - gridavano gli operai da ogni parte - ha
ragione, per Dio, si tratta di
sua sorella... Venite, paesano, andiamo fuori, raccontateci; vi
aiuteremo noi a vendicarvi.
E lo trascinarono fuori, mentre mastro Genio, spinto per le spalle
dalla padrona dello storo, piagnucolante, si nascondeva in cucina.
Cap. V
Quando Pietro ritornò da suo fratello per narrargli quanto
gli era accaduto nella sua visita al
cognato, un’altra terribile nuova lo attendeva.
Un nuovo clamoroso scandalo si
era prodotto a Pandore, e la notizia era giunta in
America con
una incredibile rapidità.
Una mattina di domenica, la gente che si
recava alla messa mattutina,
contrariamente al solito, vide la
bottega di Porzia Papandrea sbarrata.
Alcuni contadini che solevano acquistare in
quel giorno e a quell’ora la loro provvista di tabacco settimanale,
ritrovandosi in crocchio davanti alla porta chiusa, si misero a
bussare con i piedi, o con la punta dei bastoni di pruno.
Porzia, senza busto, disfatta, grugnendo e ruttando, venne ad
aprire. Aveva la faccia rigata dalle
lacrime e da graffiature sanguinose.
Oh! Oh! amarezza mia, sventura mia!... sono morta... mi hanno
ammazzata! Mia figlia... il mio sangue, mi ha uccisa. Fuoco grande
ti colga, figlia, che tu non possa godere la tua giovinezza, ti
diventi acqua nelle vene il sangue
che t’ho dato, la carne che
hai succhiato dal mio petto ti
cada a brandelli come le foglie degli alberi in autunno.
Queste terribili bestemmie dette con una voce maschia, da
orca, e il pianto che le
bagnava le guance rigate da segni
sanguinosi, e i rutti profondi, lunghi come
tuoni, davano una espressione lugubre a quel dolore materno.
Che c’è, Porzia, cosa avete questa mattina?
Mi ha tradita... mia figlia mi ha tradita, mi ha piantato un
coltello nel cuore. Se ne sono andati questa notte alla Gnura
Duvica...
La Gnura Duvica era una terra di proprietà di Bruno Ceravolo.
Col massaro, è scappata, - continuava Porzia - col massaro.
Me l’ha portata via come il lupo, lo scellerato. Ha ancora il gusto
della carne giovane, l’anima dannata, e dopo la
madre ha voluto divorarsi la figlia. Sventura colga
anche lui, lo rinvengano nel suo letto divorato
dai vermi come le carogne nei fossi; i corvi gli
strappino gli occhi. Possa morire in
un fondo di galera con la
catena al piede, non vi sia al mondo chi gli
porga un sorso d’acqua, l’erba e le ortiche nascano davanti
alla sua porta!
In un attimo la notizia si sparse sulla piazza e in chiesa. Le donne
la commentavano con grandi gesti di terrore; gli uomini si
affollavano sulla porta della bottega.
Bene, bene... Porzia, non vi
affannate, - diceva qualche anziano
ridendo sotto i baffi - noi
siamo vecchi, ora tocca ai giovani...
Porzia si era seduta dietro il banco, e si lamentava come una
malata.
A un trattò balzò in piedi, spalancò gli occhi
e le braccia, con aria tragica e solenne.
O Vergine Santissima, - gridò - ora che i celesti (i cardini
del cielo) sono aperti, ascoltatemi!
Uscì d’impeto dalla bottega, salì il sagrato, e come
un bolide entrò in chiesa. A destra si apriva una porticina
che dava nel campanile; vi entrò. Nel vano umido
pendevano le corde delle tre campane con un leggero dondolìo.
Porzia ne afferrò una e diede alcune strappate:
due o tre tocchi disordinati scesero
dall’alto come una voce umana di collera. Porzia ebbe un brivido di
spavento nel suo furore, e ritornò come inseguita sul
sagrato.
Le donne mormoravano,
indignate di tutto
quel chiasso fatto
intorno a quello scandalo
vergognoso.
La misera si scoprì il petto, un petto enorme, flaccido come
un duplice frutto inficozzato, e con un volto terribile,
lanciò la sua maledizione al cospetto del popolo.
In nome di Dio, amen!... ti maledico, figlia, per i nove mesi che ti
ho portata nel ventre, per il dolore che soffrii mettendoti al
mondo, per tutte le gocce di latte
che ti ho dato, per le ansie che ho patite
nell’allevarti, per il pane con cui ti ho nutricata. Che la tua
giovinezza se ne vada come un uccel- lo di passaggio, che i tuoi
occhi non vedano la tua via, e non vi sia chi ti pianga e ti assista
nell’ora della morte.
La scena era terribile! Quella donna levata sul sagrato della
chiesa, lacrimante, col viso ferito e sanguinoso, la
braccia alzate nell’atto della
maledizione, invocante i dolori sacri
della maternità contro il proprio sangue, aveva
un non so che di tragico e di ripugnante insieme. La
sua voce rauca e mascolina prendeva nella lugubre
invocazione una risonanza di tomba, e nello stesso tempo una
maestà sacerdotale.
Gli uomini, dopo averla circondata
curiosi, si erano dispersi come
atterriti. Le donne si coprivano le orecchie per
non udire. La Palamara, con la sua tovaglia nera sulla testa e la
lunga faccia rugosa, si era fatta sulla porta della chiesa gridando:
Sciagurata, sciagurata!... il Signore ti castiga.
Porzia continuava singhiozzante, colpendosi con delle grandi manate
il petto, come se volesse punirlo di avere
nutricato una figlia che le procurava ora quella terribile ambascia.
Intanto Bruno Ceravolo alla Gnura Duvica, con l’intervento del
notaio venuto appositamente da Bovalino, faceva donazione di tutti i
suoi beni a Vittoria Papandrea.
Il colpo era fatto. Vittoria
aveva portato a compimento il
suo piano; il matrimonio non era
più
necessario.
Quando, nel pomeriggio, le venne riferita la notizia
che sua madre l’aveva maledetta,
essa stava nella vigna. Era giugno e le ciliegie
erano mature. Quattro grandi alberi
in mezzo ai filari frusciavano sotto un
vento caldo, agitando una miriade di bei grappoli lucenti come
rubini. Il notaro era già
partito. Ceravolo stanco dalle emozioni della notte, e appesantito
dal cibo, si era sdraiato sopra
una specie di amaca sotto un carrubo, per fare un
pisolino.
Vittoria aveva le mani piene di
ciliegie, e ogni tanto si portava una
ciocchetta alla bocca, spicciolandole conlelabbra.
Ah, mi ha maledetta? - disse sputando degli ossi che parevano tinti
di sangue - diventerò più grassa. - E diede
un’occhiata di compiacenza a quella bella terra che oramai le
apparteneva.
Oltre la vigna era un campo di grano che ondeggiava luccicando al
sole. La messe si increspava sotto il vento con la leggiadria e
la volubilità delle acque.
Miriadi di cicale riempivano l’aria
di un frinire immenso, che pareva scendesse dal cielo.
Diventerò più grassa, - ripeteva Vittoria, sentendosi
piena di forza e di salute, - e
lei avrà bisogno di me.
Pietro, sebbene fosse tanto lontano da tutti i paesani in quel
villaggio della Pennsylvania, apprese rapidamente la
fuga di Vittoria, e lo scandalo che ne era seguito a Pandore.
Per qualche giorno rimase sbalordito, come uno che riceva una
mazzata in fronte e perda il controllo di
sé.
Il primo pensiero fu quello di venire in Italia e
uccidere. Poi decise di non
ritornarci più in patria. Si sarebbe
sperduto in quell’immenso continente
straniero, perché nel luogo
dove la donna da lui tanto desiderata si godeva in
braccio di un altro uomo, non giungesse più neppure il
ricordo del suo nome.
I primi furono giorni di spasimo,
terribili. Il povero ragazzo non
riusciva a darsi pace; prendeva in mano il
pacchetto di sigarette che Vittoria gli aveva regalato mentre
partiva per l’America, lo contemplava, e l’immagine di lei gli si
presentava davanti vivida, precisa, ossessionante,
come una visione d’allucinato. La rivedeva alta, sorridente,
con il petto pieno, il collo robusto e delicato nella morbidezza
delle linee, la bocca carnosa, sempre umida, e gli occhi neri che
pareano sprizzare scintille.
Come in tutti gli esseri in cui la vita spirituale è poco
sviluppata, quasi direi latente,
quella sua ambascia gli si trasformava in un dolore fisico: si
sentiva un peso al cuore, come una
specie di difficoltà di respiro, una bocca amara, una
inquietudine da bestia malata.
Dopo qualche tempo sentì il bisogno di distaccarsi da
tutto quanto gli ricordava il
suo paese. Anche la vicinanza di suo fratello gli era
diventata insopportabile.
Partì alla ventura, come un lupo cacciato dalla tana,
lavorando una settimana in un posto, e una in un altro, inquieto,
mandando a casa tutti i suoi risparmi con quattro righe di saluti.
Qualche volta scriveva due parole anche a suo fratello, ma questo
accadeva assai raramente.
Cap. VI
Rosa Blèfari non era colpevole, non aveva peccato contro la
fedeltà coniugale se non venialmente. La voce pubblica
l’accusava, e la voce pubblica, giusta il
proverbio, è voce di Dio. Ma
può la voce di Dio essere menzognera? In questo caso sarebbe
stata proprio tale, perché Rosa Blèfari non aveva
peccato. Essa, anzi il suo corpo fresco e gagliardo, la
sua bella giovinezza iniziati all’amore avevano desiderato
l’amore, il dolce amore terribile come la
morte,inebriantecomeilvino.
Rosa Blèfari amava suo marito,
come in genere le donne
calabresi amano i loro uomini:
di un
amore quasi comandato e necessario.
La vita delle nostre donne è sempre senza autonomia; è
difficile perciò che nasca e si alimenti in esse un amore di
pura elezione, nutrito di simpatia e di comprensione reciproca. Esse
non hanno che raramente la facoltà di eleggere; sono invece
le elette, e sono quindi grate all’uomo, chiunque esso sia, che leva
su di loro gli occhi, e offre col suo nome la gioia dell’amore e
quella della maternità. E poiché queste due gioie sono
le più sante e potenti della vita, l’amore delle nostre donne
diventa santo e potente nel talamo nuziale. Là veramente i
corpi e le anime si legano per un’altra opera comune, con una
passione che manca certo di squisitezze cerebrali, ma s’incorona di
sacrificio, spesso di eroismo nella battaglia della vita.
Non è forse eroico acconsentire di diventar la sposa
di un uomo che parte
all’indomani delle nozze, per la fronte di battaglia o per la
fronte immensa del lavoro?
Rosa Blèfari era rimasta sola,
piangente, all’indomani delle nozze,
nel nido dove tutto sembrava
preparato per assistere a una lunga e desiderata felicità.
Nei primi giorni essa girava per la casa come una colomba a cui il
falco abbia portato via il compagno: sperduta, inquieta
di una particolare inquietudine, che si spandeva come una bruma sul
crepuscolo dei sensi illanguiditi. Le giornate erano brevi
e tristi, le notti fredde non
passavano mai. Rosa, che non conosceva l’insonnia, ora passava
delle notti insonni, sospirando, con un ricordo che le
accendeva il sangue e le accelerava il ritmo del cuore.
Le ore gocciavano tristi, segnate dal canto dei
galli, come da un misterioso
orologio vivente. Essa ascoltava quei canti che si
rispondevano di casa in casa, e come le suggerivano un senso
di lontananza, pensava a suo marito, alle
pocheorepassateconlui,egliocchilesigonfiavanodilacrime.
Si sentiva come oppressa da un
malessere fisico, da un peso
alla testa, da un’agitazione
irresistibile.
Il giorno si chiudeva nella bottega e cuciva, in mezzo alle cose che
gli ricordavano il marito, e spesso guardando quella stampa sul
muro, che rappresentava una donna con gli occhi socchiusi baciata da
un amorino, si turbava sino allo spasimo.
Nei giorni in cui vi era
un po’ di sole, la bottega
rimaneva aperta. Nel pomeriggio vi
passava
Don Michelino Fazzolari, dava un’occhiata, salutava e domandava
notizie di mastro Genio.
Ancora non ha scritto - diceva Rosa sospirando.
Don Michelino non era un seduttore, ma
provvedeva alle sue necessità
amorose come provvedono al vitto quei piccoli cani bastardi
che non hanno padrone fisso, e girano di casa in casa, di porta in
porta fiutando, uggiolando; e qua raccattano un osso,
là rubano un residuo di minestra avanzata al gatto, e in un
angolo rinvengono un intestino di coniglio, e in un altro un piede
di pollo.
Le mogli degli Americani erano come delle
case abbandonate per lui. Rosa
Blèfari era addirittura una tavola imbandita, dalla
quale mancavano i commensali.
«Qui ci sarà qualche cosa da fare», disse Don
Michelino, «e ne vale la pena. Una donna giovanissima, sana e
saporosacomeunapesca,chehaappenaintravistoilparadiso».
Come amico di mastro Genio, Don Michelino diventò il
confidente della moglie.
Sapeva scrivere così bene, indovinava il
pensiero di Rosa a meraviglia, e
compilava delle lettere che contenevano tutto il cuore e
l’ardore della giovane sposa.
Quando scrivevano le lettere a mastro Genio, si
chiudevano nella bottega, soli, e
da parte di Rosa proprio senza malizia.
Il tempo era freddo, spesso
pioveva a dirotto, con quel
vento interminabile che rombava come
un immenso mulino. Rosa preparava un braciere e lì, coi piedi
vicino al fuoco, i gomiti sul tavolo, l’una di fronte all’altro
collaboravano.
Ditegli questo, - diceva la giovane - ditegli quest’altro; e per il
resto voi sapete...
Per il resto Don Michelino impiegava tutto il materiale romantico
delle sue letture, tutti i ricordi stecchettiani e dannunziani della
sua cultura, e scriveva delle lettere ardenti,
piene di frasi amorose, di sospiri, di
desideri accennati appena, ma pur tuttavia fervidi
che facevano diventare di fuoco
il viso di Rosa. Quelle cose ella le
sentiva confusamente, ma non avrebbe
osato esprimerle neppure nel segreto del
talamo a suo marito, in quella forma così
precisa e sfacciata. Si turbava
ascoltandole, ma tremava anche di gioia. Suo
marito avrebbe avuto il senso del suo grande amore,
del suo desiderio di abbracciarlo, anche lontano dov’era;
era la sua anima che Don
Michelino metteva in quelle lettere, e
che partiva verso l’America lontana.
Il professore scandiva a una a una le parole amorose, con
una inflessione simile a quella dei
ragazzi che recitano una poesia mandata a memoria, e intanto spiava
con gli occhi ambigui l’effetto che producevano sul volto di Rosa. E
vedendola turbata, quasi ansante,
domandava con un sorrisetto: - Va bene
così? - Rosa non osava neppure rispondere, accennava di
sì con la testa e deglutiva per l’emozione che le metteva un
tremito alle labbra. «Povera me», diceva Rosa in cuor
suo «come fa quest’uomo a indovinare i miei
pensieri, e i miei desiderii?». Questa
consuetudine cominciò a esercitare
sull’animo della giovane una certa seduzione, e presto
diventòunbisognoincoercibile,ilsolomododisfogarsiperlei.
Rosa cominciò a farsi scrivere delle lettere che non spediva
mai, perché le mancavano le buste della Banca Tocci; pur non
di meno le faceva scrivere, per il bisogno di
ascoltare quelle belle frasi amorose
che vi cacciava dentro Don Michelino.
Questi se ne accorse subito dell’effetto che produceva la
sua lenta seduzione, e favorì
l’ingenua manovra di Rosa. Tre,
quattro volte la settimana si chiudevano in
bottega e vi stavano a lungo soli, accanto al tepore del braciere,
col vento che mulinava nell’aria, la pioggia che batteva sui vetri
come una mano discreta. La gente mormorava e cominciò a
sorvegliare. Fu così che un giorno la Rosa ebbe un momento di
debolezza che la perdette davanti all’opinione pubblica.
Era una giornata grigia di nebbia e di vento.
Nella bottega era un tepore
d’alcova. Sulla brace, Rosa, per profumare l’aria, aveva
sminuzzato un pezzo di buccia di arancio, e un fumo
tenue con un finissimo aroma si levava dal
braciere nel silenzio. Rosa era
turbata, Don Michelino leggeva a bassa
voce le frasi ardenti e a un tratto,
quasi per farle assaporare meglio a Rosa
si alzò, si curvò sopra le spalle
della giovane, spiegandole davanti il foglietto scritto,
e parlandole quasi all’orecchio,
continuò la lettura con enfasi, come se quelle parola
fosse lui che le sussurrasse alla persona amata.
Rosa avvertì con un grande sgomento il senso nuovo che
avevano le parole del professore, e
poiché quello si chinava sempre più verso
il suo viso infuocato, soffiandole
nel collo il suo respiro, si
voltò con gli occhi torbidi che quasi chiedevano
pietà, per guardarlo, e Don
Michelino, mettendole una mano sotto il mento, la
baciò sulla bocca.
No... no... - mormorò Rosa quasi senza fiato, inchiodata
sulla sedia dal desiderio, - lasciatemi, per l’anima vostra.
In quel momento, una donna che spiava dietro i vetri
della finestra, vide la scena, e
così si sparse la voce dell’infedeltà di Rosa
Blèfari alla fede coniugale.
A quel bacio, subìto sotto l’influenza di una sottile
seduzione, si arrestò la sua infedeltà. Ma ormai la
voce pubblica l’accusava, e non vi era rimedio.
La povera giovane, quando ebbe notizia di quella voce calunniosa si
ribellò, ricorse a suo padre protestando la sua innocenza, e
suo padre la scacciò con furore. Il marito non le scrisse
più, e secondo quanto si diceva in paese, l’aveva abbandonata
per un’altra donna. Pregò, supplicò, si
lacerò il viso: nessuno le credette. Essa era la
cagna rognosa, la perfida che aveva tradito il marito lontano.
Contro di lei si esercitava più spietata
che mai l’animosità delle mogli
degli emigranti, le quali pareva
mettessero in miglior luce la loro fedeltà accusando la
povera Rosa.
A un certo punto la giovane
sposa si trovò perduta, tutto le
crollava intorno; anche sua sorella,
la povera Giusa, che viveva
già sola nel suo stambugio,
scacciata dal padre, non credette
alla sua onestà.
Col suo carattere impetuoso e appassionato Rosa si votò alla
morte.
Una notte, dopo molte lacrime, si vestì con i suoi abiti di
nozze, si mise addosso tutto l’oro dello sposalizio, come nel giorno
che si era presentata all’altare, uscì di casa, e si
recò dietro la Timpa - un burrone scosceso, quasi a picco,
sul quale era elevato il paese, e che strapiomba va nella valle,
sopra un oliveto.
La notte era tiepida ma triste,
una notte di fine maggio con
una falce di luna calante, che
pendeva sopra Aspromonte. Il burrone
s’incurvava ripido, verso la valle,
poi strapiombava. Era tutto sparso di
ginerii e di finocchi selvatici;
a metà costa una piccola
quercia era nata sul precipizio e
stormiva al vento leggero. Le stelle in cielo erano rare e
brillanti, in un azzurro pallido: la luna toccava la
cima dell’Appennino.
Tutto s’immergeva
nell’ombra, diventava
indistinto, silenzioso;
anche gl’insetti nei
cespugli pareva si
zittissero tra loro
nell’imminenza del tramonto
lunare. Un’intensa malinconia scendeva sul mondo.
Rosa piangeva al pensiero di morire, e mormorava guardando il cielo:
Io perdo la mia bella gioventù!
Ripensò alla sua unica notte di amore, e a uno a uno rivisse,
con sgomento, tutti i minuti di essa, tutte le parole, le
confidenze, i pudori, i baci e le lacrime di gioia.
Io perdo la mia bella gioventù! - ripeteva tra i singhiozzi -
io perdo la mia bella gioventù.
Un terribile sconforto l’invase. Pure essa
non poteva più vivere. Si
mise in ginocchio sull’orlo del precipizio,
alzò le mani al cielo e disse, quasi ad alta voce: - Signore,
voi che vedete nel cuore degli uomini, conoscete la mia
innocenza; perdonatemi, voi che siete
nel cielo, dal momento che gli
uomini non mi vogliono credere.
La luna era sparita. Una civetta tra i rami della quercia, in mezzo
al burrone, gittò il suo strillo
lugubre. Rosa, atterrita, si arrestò un momento, poi si
precipitò giù con furore.
Nei primi istanti il senso
irresistibile di conservazione la
spinse a aggrapparsi a gli steli
taglienti del ginerio: poi nella discesa precipitosa si
abbandonò e perdette i sensi.
Il corpo bellissimo fece un
tonfo nel fondo pietroso dell’oliveto,
e andò ad arrestarsi ai piedi di un grosso cespo di
lentisco.
Quando fu l’alba la povera suicida agonizzante aprì un minuto
gli occhi. Le sue membra erano
spezzate, e il corpo rimaneva
immobile. Gli occhi velati di
sangue videro un
cielo lontanissimo, scialbo, nel quale la luce ancora
non aveva del tutto scacciato il crepuscolo. Alcune nuvole color
d’oro, come immensi petali di fiori, navigavano lente verso le
montagne. Nell’oliveto si erano
destati gli uccelli che pigolavano a centinaia: due forme
alate, grandi come colombe, passarono sul suo capo e
andarono a posarsi sopra un olivo, iniziando
un singulto morbido, simile al
tubare dei piccioni. Erano due tortore in amore.
Oh! io ho perduta la mia bella gioventù - mormorò la
morente, e chiuse gli occhi per sempre.
Solo la sua povera sorella la pianse, in segreto, e fu portata al
camposanto senza il suono delle campane.
Cap. VII
Gèsu, rimasto solo a lavorare in una fonderia, per un certo
tempo scrisse regolarmente al padre e alla fidanzata due volte
al mese. Poi improvvisamente
interruppe la regola epistolare, e
per due mesi non mandò più sue notizie.
Quando riscrisse comunicò che era stato malato, e che solo da
qualche giorno si era rimesso al lavoro stentatamente.
Dopo quest’ultima, le sue lettere, d’ordinario così cordiali,
minuziose e serene, pur nella loro nostalgia, presero un tono
cupo e reticente. Invariabilmente diceva che stava
poco bene, che dopo la sofferta malattia non
si era più riavuto, e che lavorava solo per mangiare,
perché non poteva fare di più. La nostalgia per il
paese e per i suoi cari diventava un po’ funebre; le esclamazioni
di tristezza e di rammarico, per avere abbandonata
la sua casa e la sua terra, formavano la sostanza delle sue
corrispondenze.
Rocco, accasciato da tutti quei dolori che gli precipitavano
addosso, era preoccupato. Mariuzza insisteva presso i suoi zii
perché gli scrivessero di rimpatriare.
La fortuna non gli dice, - faceva la ragazza - non importa. Ora
è inutile insistere. Se è malato come volete che
faccia profitto? se ne morrà in cotesto mondo lontano.
L’unico rimedio è farlo ritornare all’aria
nativa, che potrà ridargli la salute.
I Varvaro, con la cupidigia naturale dei contadini, esitavano. Ma
infine, verso ottobre, dietro le insistenze di Mariuzza,
gli scrissero una lettera, nella quale lo
invitavano senz’altro a rimpatriare, perché
loro erano vecchi e volevano accasare la
loro pupilla, per potersene andare
tranquilli, quando Dio li avesse chiamati a sé.
Gèsu fece il suo bilancio.
In circa un anno di lavoro
aveva mandato a suo padre mille
lire, e
duemila aveva depositate alla banca. L’anno non era stato perduto.
Scrisse a suo padre e a Mariuzza che per Natale sarebbe stato a casa
di ritorno.
I Varvaro e Mariuzza vollero andare con Rocco Blèfari ad
attendere Gèsu alla stazione di Bovalino.
La giornata era rigida e secca, e il cielo aveva la lucentezza del
metallo. Sui margini delle vie,
nelle cunette della strada carrozzabile, dove scorreva un filo o era
raccolta una pozza d’acqua, essa era coperta da un
finissimo velo di ghiaccio. Sulla
campagna intirizzita passavano a volo
dei tordi; fumavano i comignoli dei
frantoi tra gli oliveti, d’onde
veniva a volte, con un ritmo
largo e malinconico, il canto delle donne che raccoglievano le
olive.
Gèsu non aveva potuto precisare l’ora del suo arrivo,
perciò dalle nove del mattino
tutti e quattro si erano messi davanti alla stazione presso un
cancelletto di ferro, e a ogni
treno che passava, venisse da Reggio o da Catanzaro, si
addossavano al cancello e spiavano a uno a uno i passeggeri.
Poiché a mezzogiorno
non era ancora
arrivato, pensarono d’andarsi
a rifocillare un poco.
Entrarono nella bettola di Due Nasi, un marinaio chiamato
così perché aveva una narice spaccata, e
ordinarono qualche cosa da mangiare. Il bettoliere li fece sedere
a un tavolo, tutto nero di
unto e di polvere rappresa, vi distese sopra una
tovaglia di tela casalinga, e portò loro,
in un unico piatto, una pietanza di pesce
stocco con cipolline e olive.
Caterina Varvaro aveva portato in un tovagliolo pane, cacio pecorino
e pere. Si misero a mangiare, inzuppando in quel brodo rosso
come sangue delle fette di pane infilate sulla
punta di certe forchette aguzze di ferro. Lo stufato di
stoccafisso era preparato con una abbondante dose di zenzero
fortissimo, che aveva un piccante assai favorevole al vino.
Niente da bere, paesani? - domandò Due Nasi -.
Portate un litro, ma buono - fece Varvaro.
Vino d’Ardore, - disse Due Nasi - migliore del marsala.
Mentre Due Nasi posava sulla tavola una bottiglia di vetro verde e
un bicchiere, s’udì un fischio acuto, il caratteristico
fischio della locomotiva, e subito dopo il rullìo
e l’anfanare del convoglio che entrava in
stazione.
Rocco trasalì.
Che treno è questo?
Il treno della mezza, - rispose Due Nasi - viene da Catanzaro.
Vado a vedere - fece Rocco forbendosi la bocca col palmo della mano.
- Non verrà con questo treno, ma... non si sa mai...
Quando giunse davanti alla stazione i passeggeri sciamavano
già verso l’uscita. L’ultimo era un giovane
pallido, alto, vestito di blu, con una grossa valigia
di cartone sulle spalle. Rocco
ebbe una stretta al cuore. Era quello suo figlio? Il giovane,
oltrepassato il cancello, cacciò in terra rapidamente la
valigia e gli si buttò al collo.
Come state, padre?
Figlio... figlio mio benedetto! - borbottava il vecchio tremante per
l’emozione, baciandolo con impeto, - non ti riconoscevo
più. - E lo palpava sul petto e sulle spalle, e si scostava
per guardarlo un po’ a distanza.
Come va che sei così sciupato? sei malato ancora? Maledetta
l’America e chi l’ha inventata.
Ora sto meglio - disse Gèsu con la sua voce che pareva
diventata più dolce e malinconica.
Non ti giovava l’aria?
Non mi giovava - rispose il giovane imbarazzato. Poi chiese:
Siete solo?
No. I Varvaro e Mariuzza ti aspettano qui da Due Nasi. Tu
hai mangiato? Mangerai un boccone con noi.
E Giusa come sta?
Padre e figlio si guardarono imbarazzati, quasi
vergognosi. Chinarono gli occhi a
terra. L’immagine dell’altra sorella, della morta così
tragicamente, s’interpose tra di loro
come per dire: «Ci sono anch’io».
Sta bene - disse Rocco senza rialzare gli occhi. - Ha
avuto un bambino, un bel bambino. Io non
l’ho abbandonata... Mah! castighi di Dio!
Si avviarono silenziosi. Nella bottega fu una festa. Varvaro e
Caterina lo abbracciarono come un figlio. Mariuzza, quando lo vide
così pallido, scoppiò a piangere. -
Maledetta l’America, - ripeteva la ragazza
tra le lacrime - maledetta l’America. Per quattro soldi se ne va la
vita.
Rocco Blèfari chiamò Due Nasi.
Sentite, principale, non avreste per caso un po’ di
salsicciotti? Mio figlio viene dall’America,
voglio fargli festa, per la malogna.
Qualche minuto dopo i salsicciotti
si rosolavano allo spiedo, spandendo
nella bottega un fumo
sapido e un odore appetitoso di spezie e di grasso.
Di questi in America non ne hai mangiati - diceva allegro Rocco
trinciando sopra un pane inzuppato di grasso i salsicciotti
rosolati. - La roba dell’America non
è buona come quella del nostro
paese.
Oh no!... in America si mangia gran carne d’asino e di cane nella
salsiccia, e si paga il doppio.
Eh! figlio mio. Ti ricordi prima di partire? dicevi che questa terra
è maledetta. Ora non lo dirai
Gèsu chinò il capo sospirando.
Col calore del fuoco e delle vivande, e con la vicinanza di tante
persone care, si era rianimato un
pochino. Un leggero colorito gli arrossava i pomelli, gli occhi
erano più vivaci, e mangiava con
appetito, rispondendo alle numerose e
curiose domande che gli rivolgevano
un po’ tutti i suoi compagni di
tavola.
Finita la colazione partirono per il paese.
Rocco aveva menata a Bovalino la vecchia asina con sul
basto un cuscino pieno di stoppa,
perché il figlio potesse venire a cavallo, ma Gèsu
preferì salire a piedi, e l’asina fu caricata della valigia e
di alcune provviste che i Varvaro e Rocco vollero acquistare per le
feste natalizie.
Quella sera alla casa dei Blèfari fu una vera processione di
tutto il paese. Gèsu era il primo che ritornava
dall’America, dei quaranta partiti
l’anno avanti, perciò tutte le
famiglie che avevano un emigrato
accorrevano per avere qualche notizia dei loro cari. Ma
Gèsu non sapeva nulla di
nessuno, perché si era allontanato da tutti i compaesani.
A prendere notizie era stata
anche la vedova Rocca col
bambino in braccio, paonazzo per il
freddo. Voleva sapere come stava il suo ragazzo.
Quando vide Gèsu così sciupato, pallido, con gli occhi
stanchi, le labbra scolorite, si sentì
stringere il cuore in un pugno.
Avete visto il mio ragazzo, compare Gèsu?...
No, comare, io ero solo da
oltre sei mesi. Lo lasciai che
lavorava in una sciarpa; faceva il
reboia e stava bene...
E chi lo lava, chi lo rattoppa, povero orfanello? Ci sono delle
donne in quel paese che rendono questi servizi? Pagando s’intende,
ché fuori di qui si pagano anche i sospiri.
Ognuno si lava e si rattoppa da sé, comare; la domenica
è giorno di bucato per tutti.
Oh, Gesù mio! chi sa che lavaggi, e che punti nei calzoni!...
- Tutti ridevano. Finalmente rimasero soli Rocco e il figlio.
Padre - disse Gèsu - io vorrei rivedere mia sorella Giusa.
Rocco si sentì un nodo alla gola.
Andiamo, - disse - il sangue non è acqua.
Giusa abitava un basso, in una casa dei Perri. Rocco che,
come diceva lui, per l’onore del mondo
non l’aveva più voluta presso di sé,
andava a trovarla tutte le sere,
e non andava mai con le mani vuote:
ora era un frutto, ora un po’ di verdura, ora una mezza ala di pesce
stocco. Tendeva per lei le pànie e le portava spesso delle
mezze dozzine di pettirossi.
La porta di Giusa era chiusa, ma attraverso una finestrella a petto
d’uomo, senza vetri e riparata dall’aria con un intreccio di verghe
e di canne, si vedeva una debole luce.
Bussarono.
Chi è - domandò Giusa, con la voce alterata.
Apri, sono io - disse Rocco.
Entrarono. Il vano rettangolare con un soffitto basso a volta,
era pieno di fumo, perché il
focolare non aveva camino. In mezzo era un grosso pagliericcio, con
sopra una coperta di lana a strisce bianche e nere. Vicino al letto
una cassa, a qualche passo ancora
un mucchio di legna e delle
grosse radici di lentisco. Al muro era appesa una paniera di canne,
nella quale Giusa teneva il poco pane che buscava o si guadagnava, e
qualche cipolla.
In mezzo a quello squallore la ragazza era invece più bella
del solito. Il volto reso più bianco e più gentile era
luminoso, quasi, sotto l’aureola della maternità; il petto
pieno, dava un’impressione di freschezza e di grazia,
e gli occhi spiravano quella dolcezza
accorata che si vede brillare nello sguardo dei diseredati, davanti
al bene inesauribile della vita.
E questa è tra le più mirabili cose della Provvidenza.
Quando l’uomo è caduto nel fondo d’ogni miseria, e pare che
tutto gli manchi e tutto crolli di
fronte a lui, non appena egli ha fatto rinuncia dei beni perduti,
ecco che dentro di sé e intorno mille
altri beni si presentano al suo
sguardo; quello che aveva un giorno disprezzato o
trascurato diventa prezioso, e una
dolcezza nuova, una fiducia soave e
santa lo riconcilia con le cose e con l’esistenza.
Giusa vestiva di nero. Era la
sola che portasse il lutto alla
povera Rosa. Quando vide Gèsu
si
coprì il volto con le mani e scoppiò in singhiozzi,
quello le si fece dappresso col cuore grosso, e si abbracciarono
forte, a lungo, piangendo tutt’e due come bimbi,
senza dire una parola, vinti
dalla piena degli affetti tumultuosi.
Pensa come mi hai lasciata e come mi ritrovi - disse Giusa rompendo
il silenzio.
Beh! così ha comandato Dio, - fece Gèsu
- non ci pensiamo più. Dimmi piuttosto come stati, dove
hai il figliolo?
È qua - disse Giusa, a cui si era illuminato il volto di una
grande gioia udendo accennare al suo
piccino; e preso per mano il fratello lo accompagnò vicino al
letto. Quivi, entro una grande canestra di castagna, tenuta sospesa
a una corda attaccata al muro, dormiva il piccolo.
Giusa corse al focolare e prese il lume.
Guardalo, com’è bello, povero innocente... rimasto senza
padre prima di nascere! La voce le si velava di lacrime crudeli al
ricordo.
Nella culla la miseria tetra della casa spariva. Il bambino nelle
fasce, col suo visino rosso, quasi congestionato, dormiva tranquillo
come il bocciolo di un fiore misterioso. Le
fasce erano bianchissime, bianco il cuscino; sulla
testina aveva una cuffia di lana
fatta all’uncinetto, con due
fiocchetti azzurri alle tempie, e tenuta stretta sotto il
collo da un nastro di seta.
Tutto in quella culla spirava
freschezza, grazia e benedizione; il bimbo sembrava uno
di quei cespi di fiori di prato
che nascono in mezzo al fimo sui campi, o
sui margini delle siepi, dalla putrefazione delle foglie.
Gèsu sospirò, ma una gioia intima e religiosa gli
aveva allargato il cuore. Davanti a quella culla dimenticava la
vergogna, il disonore e tutte le necessarie
convenzioni del mondo, per adorare
la bontà della vita che si perpetua in ogni tempo, col
suo profumo d’eternità e con la sua irresistibile grazia. Si
sedettero al focolare allegri, di un’allegria misteriosa: la
visione di quel bimbo, anche se
nato dalla colpa, aveva raddolcito i loro cuori e spianati i
volti.
Giusa s’informò della salute di Gèsu, dell’altro
fratello Pietro; poi parlarono di mille
altre cose vaghe, con la preoccupazione di non toccare un
argomento che li opprimeva tutti.
Finalmente Giusa esitando lo affrontò.
Questa notte passata - disse - ho sognata la sorella, la nostra
povera Rosa. Forse era il presagio del tuo ritorno in famiglia. Non
la giudicar male, fratello, essa
era innocente. Mi apparve bella
come il sole, con due grandi orecchini, un
berlocco al collo, e una veste
tutta d’oro. «Dammi il tuo
bambino», mi disse, e me lo prese dalle braccia. Io
glielo diedi volentieri, ma quando
mi sovvenni che essa era morta,
siccome pareva volesse portarlo con
sé, l’afferrai per la veste
e le dissi: «Ridammelo, ridammelo,
tu sei morta... e non voglio
che porti con te il mio
bambino». «Eccotelo» mi rispose
sorridendo «ma io non sono morta. Mi trovo in un bel giardino
e aspetto». «Cosa aspetti?» le domandai io.
«Aspetto che passino tanti anni quanti furono
i minuti che ho trascorsi con
mio marito nella notte delle mie nozze,
perché tutti io li ho
ricordati nel momento in cui
morivo, e il Signore non voleva
che io li ricordassi». «E quando
saranno passati quegli anni?».
«Andrò in paradiso» mi disse; e
sparì come un raggio.
Rimasero tutti e tre turbati
come se avessero visto veramente
dileguare nella luce la povera
morta.
Cap. VIII
Poiché le feste natalizie erano imminenti, e un’aria di
giocondità era in tutte le
cose, Gèsu si sentiva di giorno in giorno
più riposato e rinvigorito.
Nessuno potrebbe ridire la gioia di quel cuore semplice che era
passato sull’Oceano e sul continente americano come in un sogno,
senza capire e quasi senza vedere nulla di quel paese
immenso, tumultuoso, pur nel suo ordine
mirabile, lavorando meccanicamente come
una bestia aggiogata, ora che si ritrovava davanti allo
spettacolo della sua terra, dei
suoi monti, del suo piccolo mare.
Gli orti, i poggi coronati di
begli olivi a ombrella, i
valloni pietrosi, le coste salmastre, bianchicce o rosee di
arenarie, sparse di lentischi o di tamerici, i macigni
accanto alle vie di campagna:
tutto gli balzava davanti sereno, limpido,
familiare, nel sole mite di
quelle giornate decembrine piene di
silenzio e di calma, dal monte al mare.
Riconosceva gli alberi a uno a uno, come
fossero stati uomini. Quell’enorme
macigno a guglie ritto in mezzo alla costa di Macrolis,
le case dipinte del Carruso, Pietra di Febo in mezzo al verde cupo
dei boschi isolata, rossastra, come un bolide gigantesco caduto dal
cielo; e più in su Castello Atì, Pietra Longa, col suo
cono scosceso, sparso di ilici e di mirti, e poi la linea dei monti
candida, serena nel cielo verdognolo, per l’oro diffuso nell’aria:
tutto gli faceva balzare il cuore di una gioia intima e commossa.
Rientrava nel suo elemento, il povero emigrante; l’aria della sua
terra, arida e pur tanto bella, gli
penetrava nei polmoni, gli alitava sul viso come
una nota carezza, e portava
quegli odori a lui noti di orto, di
verdura, di cucina, di terra bagnata e di foglie morte;
gli odori sgradevoli, anche, a
cui era abituato fin da bambino, e che gli ridavano ora
l’impressione di avere i piedi ben saldi sulla terra, e di non avere
null’altro a temere che non fosse la volontà del Signore.
E comparava quegli odori e le voci dolci, cordiali del suo paese,
con quelli dell’America.
Esalazioni pestilenziali di officine che sembravano emanare da una
forgia diabolica dove si costruissero di nuovo i cardini del mondo;
fumaioli alti e paurosi come campanili, rombo di macchine
assordante, fragore di congegni minacciosi, corsa
fantastica di treni! Tutta quella
umanità tumultuosa che sciamava incessantemente per le
strade, con quell’allegria ignota e sgargiante,
tutto quel lusso appena intravisto, quel danaro che non
si sapeva d’onde venisse, a quelle donne
sfaccendate, a quegli uomini dalle mani lucenti; e su
tutto una atmosfera di guerra e di
tempesta, un’attività tremenda, tur-
binosa, in cui il cuore e il cervello non posavano mai, e
pareva non si avesse più neppure il tempo di guardare il sole
del buon Dio per goderlo un poco. Fino la terra di quei paesi aveva
una struttura e un odore diverso.
Rivedendo la terra del suo orto
a Bony, sparsa di arenarie e
di foglie morte, coi suoi alberelli
che sembravano dipinti tanto erano belli, e le viti che si levavano
di tra i solchi con la grazia nervosa e viva di
membra caprine, gli sembrava di
rivedere il volto di sua madre.
La toccava, ne sbriciolava le zolle con la
voluttà di chi accarezza un’amante, e sentiva che
una corrispondenza intima, segreta, cordiale si
stabiliva tra lui e quella terra. I peri e le viti, e tutte le
piante dell’orto pareva lo guardassero con occhi amorosi e gli
dicessero: «Ben venuto... ben venuto, povero figliuolo;
noi ti guariremo, noi ridaremo freschezza al tuo
sangue e uccideremo i tristi germi che la civiltà vi ha
deposto passandoti sul capo come un turbine. Noi ti ridaremo la
salute e la pace».
Gèsu dunque rifioriva, sebbene ciò avvenisse
lentamente.
Il Natale lo trascorsero insieme coi Varvaro facendo una tavola
unica, perché i Blèfari non avevano
donna in casa.
Caterina e Mariuzza avevano lavorato una settimana di seguito per
preparare le diverse specie di
fritture d’uso in quella ricorrenza: le nacatole impastate
con l’uovo e lo zucchero, le
zippole morbide come pane di Spagna, e le sammartine, certe
focacce d’uva passa, fichi secchi triturati, noci e
mandorle, che si facevano cuocere poi al forno. Rocco aveva
portato in tavola un piatto
enorme di Faenza, colmo di ogni specie
di frutta: noci, mandorle, nocciole,
castagne, arance, mandarini, fichidindia e in mezzo un
enorme cedro odoroso che sembrava una zucca.
La notte di Natale tutti i frutti debbono essere in tavola, - diceva
Rocco, levando il piatto come
un’offerta votiva da presentare a Dio, - tutto deve essere messo
sulla tovaglia dove c’è il pane che è la grazia del
Signore, ed è vegliato dall’angelo. Iddio il bene lo
ha creato per la vita dell’uomo, e l’uomo deve
ringraziarlo nelle giornate solenni.
Gèsu andò in chiesa e cantò il «Dormi e
non piangere» meglio di un sacerdote, sebbene avesse un
incomodo noioso.
Gli sbocciavano sul collo e sulle braccia una specie di foruncoli
duri, pallidi, indolori quasi, che scomparivano lasciando sulla
pelle delle chiazze bianchicce.
Ti si rinnova il sangue - diceva Varvaro, e gli batteva sulla
spalla sorridendo e accarezzandolo.
Mangia, per la malogna, mangia e bevi. Pane e vino, vita d’uomo. Il
mangiare spegne sette mali, e più di sette non ve n’è
al mondo. Tutti gli altri li inventano i medici per fare quattrini.
Così pensate voi, zio Bruno? - domandò Gèsu,
come se quella affermazione gli avesse allargato
il cuore.
Si capisce! Non dare mai retta
ai medici. Mangia, bevi e
lavora, che il lavoro è
anche una
medicina per la vita dell’uomo.
Mariuzza, vestita a festa, passava
dal fuoco alla tavola con le
guance animate, gli occhi brillanti e la sua
gran corona di capelli in testa, attorcigliati a doppio
giro, sorridente, allegra come una
sposa novella. Era felice, ringraziava il Signore con tutta l’anima,
e avrebbe diviso il suo cuore tra le creature come un tozzo di pane.
All’atto di mettersi a tavola Caterina e Mariuzza
cominciarono a farsi dei segni
tra di loro, un poco imbarazzate.
Che c’è? - domandò Rocco, che aveva già notato
una certa manovra nella cucina.
C’è che qua manca qualcuno, - disse Mariuzza tutta rossa in
viso - questa è una serata benedetta,
bisogna dimenticare. - Tutti si tacquero commossi. Gèsu
si alzò, entrò in cucina
e dopo un istante rientrò con Giusa al braccio.
Gli occhi erano pieni di lacrime.
Cap. IX
Dopo Natale i Varvaro aspettavano che Gèsu fissasse l’epoca
del matrimonio, ma questi non si pronunziava.
Il tempo era diventato pessimo. Tutto il gennaio aveva piovuto con
lo scirocco, e le rare giornate belle erano
rigide, con un sole smorto che metteva il rezzo.
Gèsu era ricaduto nella
stanchezza e nella malinconia
più nera. Non sapeva neppure
bene
cos’avesse. Un languore costante gli teneva le membra e lo
inchiodava a Bony entro la capanna, con le mani penzoloni in
mezzo ai ginocchi e la testa
pesante, come di piombo.
L’umidità lo irritava, il vento gli
dava l’insonnia. Le ossa gli dolevano, specialmente
nelle giunture; di quando in
quando avvertiva delle fitte acute al cranio, lancinanti, che
gli facevano stringere i denti per lo spasimo.
Allora si chiudeva in sé, cupo, sospettoso, solo, come se
temesse che suo padre e la sua fidanzata
potessero leggergli negli occhi il segreto terribile che nascondeva.
Delle volte si svegliava a notte alta e non si riaddormentava
più.
Si girava e rigirava continuamente nel letto; un leggero
sudor freddo gli inumidiva il
petto e la fronte, e tutte le sue membra parevano
sciogliersi e fluire in una corrente. Gli
sembrava che gli scorresse nelle vene un sangue malsano
e acquoso, dal quale come fiori malefici
germogliassero quei foruncoli per tutta la vita. Gli si
presentavano allora davanti due immagini che per due diverse vie lo
conturbavano fino al delirio. L’immagine della sua fidanzata
così buona, soave, pura, che pareva volesse
ringiovanirlo con il lume dei suoi begli occhi amorosi; e
un’altra immagine di donna, una visione di
angelo tentatore, bella d’una bellezza diversa, artefatta ed
infernale, odorosa di un profumo inquietante e irresistibile come
quello di un fiore velenoso.
Davanti a quella visione tutte le potenze del suo essere
venivano scosse come da una vertigine
davanti a un precipizio. Si cacciava i pugni su gli occhi, si
rannicchiava sotto le coltri come
un bimbo impaurito e batteva i denti, non sapeva se
per desiderio o per spavento. E
intanto deperiva sotto gli occhi inquieti del
padre che non sapeva rendersene ragione.
Passarono così gennaio e febbraio. Era
arrivata la quaresima. I Varvaro
cominciavano a mormorare. Che quel ragazzo avesse un
altro progetto per la testa? Che
avesse portati dall’America molti danari e si proponesse
ora di fare un matrimonio più conveniente?
Un giorno Bruno ne parlò francamente a Rocco invitandolo a
decidere.
Mia nipote non ha paura di non trovare un altro partito. Ha la sua
bella dote, ed è una ragazza che, in grazia di Dio, è
citata a esempio in tutto il paese. Noi abbiamo acconsentito per
accontentar lei che, così gattina silenziosa com’è in
apparenza, si è incapricciata. Non discutiamo il
giovane: buono, laborioso, serio e timorato di Dio! Ma se le
cose si debbono fare si facciano. Perché attendere ancora?
Noi siamo vecchi e prima di chiudere gli occhi vorremmo vederla
accasata, questa orfanella.
Rocco un po’ mortificato scusò il figlio, attribuendo il suo
silenzio a ragioni di salute; ma
promise di parlargliene francamente.
Difatti la sera stessa, mentre si trovavano davanti al fuoco, il
vecchio introdusse abilmente il discorso
sull’argomento del matrimonio, così in modo vago, come
se ci fosse pervenuto a caso.
Gèsu taceva, col capo basso, tracciando e cancellando con uno
spiedo dei segni disordinati sulla cenere.
Ora che sei tornato in salvamento - diceva il vecchio - io voglio
che ti accasi. Sei il solo dei miei figlioli che non mi abbia dati
dei dispiaceri. Le tue sorelle sai bene come sono andate a finire.
Tuo fratello è disperso per il mondo. Scrive... Sì...
scrive qualche volta, mi manda anche
dei denari. Ho quattro mila lire delle sue dentro un
fazzoletto in fondo a quella cassa, perché io non tocco un
soldo di quelli che guadagnano i miei figlioli. A me il denaro
non giova, io sono vecchio. Il
mio sangue io voglio, ma il mio sangue è lontano.
Non mi rimani che tu; che almeno abbia la consolazione di vederti a
posto prima che muoia.
Gèsu non rispondeva. Sembrava un montone, col viso cupo, gli
occhi ostinatamente abbassati.
Rocco s’irritò: - Perché non rispondi? - fece
scuotendolo. - Con te parlo. Hai qualche cosa per la testa? Oh,
Vergine santissima! Figlioli piccoli guai piccoli, figlioli grandi
guai grandi!
Gèsu alzò gli occhi tristi, come per parlare, ma li
riabbassò subito, ed emise un sospiro profondo pieno di
sgomento.
Tu hai qualche cosa sul cuore - fece Rocco preoccupato -
ed è per questo che ti distruggi come la serpe alla siepe.
Parla, sangue della malogna, confidati con tuo padre, non
mi dare dei dispiaceri anche tu, che ne ho avuti
abbastanza.
Padre, - disse Gèsu di
scatto - vi dirò tutto
perché ho bisogno che mi
consigliate. Io soffro
troppo. Padre, non so se potrò sposarmi.
Perché non sai? - domandò Rocco stupefatto, non
sospettando neppur lontanamente il senso recondito di quelle parole.
Non so!... Se fosse vero quello che mi ha detto un medico in America
non potrei più sposarmi.
Che storia è questa, santa Vergine Maria, che storia è
questa? - andava ripetendo Rocco; e si batteva le palme sulle
ginocchia. - Che cosa ti hanno detto i medici? Sei dunque tanto
malato?
Vi dirò tutto, - mormorò Gèsu - è
necessario che vi dica tutto. Voi siete vecchio e potrete
consigliarmi. Perdonatemi per quello che vi dico, padre mio; - e a
queste parole un sùbito rossore malaticcio
gl’imporporò le guance pallide - ma cosa volete! Iddio
così lo ha fatto il mondo, e siete stato giovane anche voi.
Ebbe una pausa; poi
cominciò la sua
narrazione con un
fil di voce, come
un fanciullo
vergognoso che si confessi.
«In America io conobbi una donna. Due o tre volte la vidi e
fui con lei, perché era una di quelle che girano il
mondo, e come le stelle comete
portano peste e perdizione. Era una
germanese. Quando mi trovavo solo nella Pennsylvania,
dopo la partenza di mio
fratello, siccome a me piace
cantare, la sera, per far passare il tempo, frequentavo uno
storo. Si beveva una scioppo di birra, e si cantava sull’armonica.
Veniva un operaio di Sinopoli che la suonava come un organo.
«Una sera vediamo entrare tre donne, tre di quelle
ghelle che vanno in giro, col bastoncino in mano e la
sigaretta in bocca. Si siedono in mezzo a noi, ordinano della birra
per tutti e dicono: «Cantate e suonate per noi fino
all’alba». Erano belle tutt’e tre, con quella pelle bianca che
sembra impastata di sangue e latte; ma una, una di quelle,
salvo il peccato, era bella come
la Madonna Immacolata della nostra chiesa. Una
bocca rossa come un fior di melograno,
dei capelli che sembravano oro filato e un paio d’occhi, padre mio,
un paio d’occhi che quelli del demonio
prima di essere maledetto da Dio
non erano certo più belli! Grandi, così grandi come io
non ne ho visti mai: lunghi e verdi come due foglie di limone.
Cantarono tutti e cantai anch’io alcune canzoni
del nostro paese. La mia voce
piacque a quella dagli occhi grandi ed essa mi prese con
sé».
Si arrestò come sgomentato dal ricordo, e si asciugò
la fronte con la palma della mano che gli tremava.
«Vi giuro, padre, che io non seppi mai neppure il suo nome.
Credo fosse il demonio in cammino, una mala
tentazione, il peccato mortale vestito da donna. Mi tenne tre sere
con sé, e quando mi lasciò io non ero più un
uomo. Uscendo dall’albergo quella mattina, io
temevo che il vento mi soffiasse via; non
avevo più midolle nelle ossa, non avevo gambe;
la testa era vuota come un
guscio d’uovo succhiato dalla serpe. Mi pareva che la mia vita se la
fosse bevuta tutta quella donna con quella bocca che sembrava tinta
di sangue. Tutto è perverso nel mondo grande, padre, anche
l’amore.
«Nei primi giorni credetti di morire.
«Vi giuro che prima di allora io non avevo mai conosciuta una
donna. Perciò il ricordo di quella mi dava le vertigini.
Aveva addosso un odore perverso, che gonfiava le vene e faceva
venire il batticuore. Se ci penso ancora mi viene freddo.
«Dopo quel giorno io non mi sentii più bene. La
stanchezza, quel senso di vuoto nelle ossa che mi aveva lasciato
quella donna, non mi abbandonarono più, e il sangue mi si
corrompeva e inveleniva.
«Mi venne uno sfogo strano per tutto il corpo e alla mattina
mi doleva forte la schiena.
«Dopo circa un mese andai dal medico.
«Mi fece spogliare, mi esaminò due o tre foruncoletti
che avevo sul petto, mi tastò con le mani sotto le ascelle e
sul collo, sotto le orecchie, poi mi disse sorridendo:
«Sei conciato per le
feste». Mi domandò se avevo moglie, e siccome
io gli dissi che ero fidanzato
e che intendevo sposarmi non ap- pena ritornato in
Patria, quello mi stralunò in viso due occhi terribili.
«Guardati bene dal prender moglie» mi
disse «prima di esserti curato a lungo. Tu sei molto
malato».
«Mi ordinò delle iniezioni
che io mi facevo fare in
un ambulatorio per operai, e che
mi
producevano sotto la
pelle dei
gonfiori legnosi,
grossi come
galle di
quercia. Mi
stancai, e all’ambulatorio non ci andai
più. Quelle iniezioni non mi facevano né bene
né male.
«Ebbi qualche febbre, poi mi rimisi al
lavoro, ma nel sangue mi è rimasto
come un veleno che mi corrode, e tutte le volte che penso a quella
donna mi pare di spenzolarmi sopra un precipizio.
Disgraziato figlio, - fece Rocco - tu ti sei innamorato di quella
straniera!
«Innamorato no, padre, non l’ho vista più, non la
vedrò più. Io voglio bene a Mariuzza, e vorrei
sposarla con la benedizione di Dio; ma temo che quella
donna mi abbia messo nel sangue
qualche veleno, mi abbia combinato qualche malefizio.
Quando stavamo insieme mi faceva
fumare un tabacco che stroncava le gambe, e faceva
venire un sonno mortale. E in quel sonno, mentre quella
donna mi sussurrava delle parole strane, una notte io vidi
tutto il mio paese, tutti voi, come se mi foste davanti. Io temo che
fosse una strega, uno strumento del demonio, che mi abbia dato uno
di quei morbi che fanno marcire il sangue. Sono donne che girano il
mondo, e hanno addosso i sette vizi capitali.
«Vi ho detto tutto, padre, come a un confessore: ditemi voi
cosa debbo fare. Io vi ubbidirò».
Cosa devi fare? - disse Rocco che si era rasserenato -
sposarti. Tu non sei malato. Quella che tu hai addosso è una
grande debolezza; non dare retta ai medici. La donna, figlio
mio, è una malattia dell’uomo,
qualche volta la più brutta:
le donne di città poi,
Dio ne liberi, sono peggio della perniciosa.
Il sangue dell’uomo lo bevono come le sanguisughe, che per staccarle
bisogna tagliarle con le forbici. Potrebbe anche
darsi che quella strega ti abbia affatturato. Domani
andremo in sieme da Mico del Re:
quello, Dio liberi, parla anche col diavolo: se sei
affatturato ti leverà la
fattura come una spina dal piede.
Cap. X
Il giorno dopo, di buon’ora, padre e figlio erano davanti alla casa
di Mico del Re.
Era questi un contadino furbo e accorto, che dichiarava di parlare
coi morti e di essi portava per le case le notizie, accattando.
Sapeva scongiurare il malocchio, rimettere a posto le membra
slogate, esorcizzare i vermini ai bambini, e faceva
con un’occhiata diventar lunatici i
polli. Rintracciava anche i ladri di bestiame, e
ne faceva vedere i volti specchiati in un catino d’acqua.
Abitava in campagna con la moglie e un nugolo di figlioli, ma viveva
più dei proventi di queste sue cerimonie magiche che di
lavoro. I Blèfari lo trovarono
che tagliava delle pale di
ficodindia per darle da mangiare a una mucca che aveva in una
capanna. La moglie, una donna lunga e sporca come un
fruciandolo, con un viso brullo
e dei denti che sembravano
quelli di un rastrello, raccoglieva
le pale staccate dalla pianta e le cacciava in una cesta di
vimini tutta sporca di sterco della mucca.
Buon giorno, compare Mico, - fece Rocco - lavoriamo?
Che fare, compare, - rispose l’altro interrompendo la bisogna
- è il nostro destino. E voi come mai da queste parti a
quest’ora?
Son venuto col mio ragazzo per parlarvi d’una faccenda - fece Rocco.
È quello che avevate in America?
Li avevo tutt’e due in America. Questo è ritornato un paio di
mesi fa.
Mico comprese che si trattava di
una consultazione e lasciò il
lavoro, accompagnando i due Blèfari in
casa.
Nella cucinetta angusta e fumosa
il fuoco era acceso e due
ragazzi ancora tutti assonnati vi si
scaldavano.
Il padre li mise fuori come fossero stati due cani, e socchiuse la
porta.
In che cosa vi posso servire, compare Rocco?...
Rocco gli narrò la storia della donna americana,
riferì i giudizi del medico di laggiù, i timori del
figlio e il desiderio che aveva di accasarlo.
Mico del Re sorrise: - I medici? non sanno
niente. Il medico grande è
Dio. Una volta, quando tutti cotesti
medici non c’erano, le malattie
dell’uomo si contavano sulla punta
delle dita: la polmonia, la puntura, la quartana,
l’isterico, la pustola e tutto era lì. Ora invece, secondo i
medici, l’uomo avrebbe più morbi di quanti ha capelli in
testa. Caro compare mio, ognuno deve vivere: s’ingegnano anche loro.
Io non ho studiato, non so neppure leggere e scrivere, e con l’aiuto
di Dio, guarisco i malati meglio di loro, perché il medico
grande è Lui. Giusto quello che mi dite, vostro figlio non
è malato: quella donna lo ha succhiato come un osso,
e gli ha lasciato addosso una
grande debolezza. Se non c’è
fattura, io dico che non è malato, se c’è la
vediamo subito.
Si fece solennemente un gran segno di croce,
poi aprì una cassa e
trasse fuori un involtino di carta
blu. Lo aperse: dentro c’erano dei grani d’incenso, delle
scolature e dei moccoli di una cera bruna, di quella cera che usano
accendere nelle chiese per l’ufficio delle Tenebre durante
la settimana di passione; e poi corolle di fiori secchi,
urnette di papavero, e altre erbe di campo. Staccò dal muro
un mazzetto di palma secca e di ramoscelli d’olivo, e
cominciò a tagliuzzarli. Nel
mucchietto vi mise alcuni grani di sale, e quel
miscuglio poi lo versò sopra una mezza tegola con su della
brace.
Inginocchiatevi, comparuccio - disse a
Gèsu. - Se non mi sbaglio voi siete quello che
cantate così bene in Chiesa.
Sì, sono quello - rispose il giovane esterrefatto davanti a
quella cerimonia mistica.
Padre e figlio s’inginocchiarono tremanti, come presi dal terrore
di una presenza invisibile, mentre Mico del Re,
con la mezza tegola in mano, fumante come un tripode, si mise a
girare intorno al giovane prostrato borbottando:
Queste sono le dieci parole della verità:
«Uno: un solo Dio regna.
«Due: i due luminari del mondo: il sole e la luna.
«Tre: le tre persone della Santissima Trinità.
«Quattro: i quattro evangelisti.
«Cinque: le cinque piaghe del Nostro Signore Jesu Cristi.
«Sei: le tre e tre ora di agonia.
«Sette: le sette spade della Vergine Maria.
«Otto: gli otto candelabri ardenti.
«Nove: i nove cori degli angeli.
«Dieci: i dieci comandamenti».
Nella piccola stanza affumicata, dove appena
un pallido riflesso del mattino
s’insinuava, attraverso la porta semiaperta, la cera e l’incenso,
bruciando con un leggero sfrigolìo,
avevano sparso nell’aria un fumo violetto, leggermente
profumato. Rocco e Gèsu prostrati, col cuore
che batteva appena, trattenendo il
respiro, ascoltavano quelle parole
solenni, compresi da un profondo
terrore religioso.
Quando Mico del Re ebbe finito, versò la brace sul fuoco
esclamando:
Dio sia lodato! Non c’è fattura, compare Rocco, non
c’è fattura.
Gèsu e Rocco rimanevano in ginocchio, seguendo
allibiti i movimenti del fattucchiere,
come fosse stato un sacerdote sull’altare.
Alzatevi - fece Mico - e state allegri. Ve l’ho detto, fattura
non c’è. Avete visto come tutto è bruciato tranquillo?
Quando c’è maleficio il sale scoppia, e la brace salta come
se ci fossero dentro dei diavoli. Voi dunque, comparuccio, non avete
nulla. Un po’ di debolezza e per quello la medicina l’abbiamo.
Brodo di gallina e sciroppo di cantina. Il mangiare spegne
sette mali. Per farvi venire appetito
prendete ogni mattina, per una quindicina di giorni, un decotto di
erba d’assenzio: la trovate dappertutto.
Posso dunque farlo sposare? - chiese Rocco tutto contento e
commosso.
Sì, fatelo sposare. Alle malattie delle donne io non
credo; ma se anche quella megera
gli avesse lasciato qualche malattia, il matrimonio lo
guarirà. Sangue di donna vergine guarisce tutto.
Allegro, allegro, giovanotto, - continuò Mico,
battendo sulla spalla a Gèsu -
e non date mai retta ai medici. Quelli se la
intendono coi farmacisti per tormentare il prossimo e cavargli
quattrini.
I Blèfari gli misero nelle mani un biglietto da cinque lire e
s’incamminarono verso il paese.
Gèsu contento come un bambino sgambettava e si stropicciava
le mani un po’ intirizzite. Gli sembrava che tutti i dolori e
i mali di cui soffriva fossero scomparsi
come per incanto; ritornava la fiducia, la
freschezza del suo sangue, la gioia di vivere. Non aveva nel corpo
nessun malore, ma se pure qualche cosa avesse avuto, ne lo avrebbe
guarito il matrimonio. Pensava a Mariuzza e il suo cuore gli si
gonfiava nel petto: poteva sposarla ormai la soave fidanzata, buona,
modesta e casalinga, che gli avrebbe
addolcita la vita col suo affetto
semplice, sottomesso, e lo avrebbe
aiutato nel lavoro. L’immagine della donna fatale
dileguava nella memoria come un
turbine luminoso di lampi. Respirando quell’aria
fresca della mattina, piena di sentori umidi, di odori di orto
e di erba crescente, ricordava gli odori
inebrianti, caldi di quella carne torbida,
rosea come un fiore mostruoso,
nato dal sole e dalla putredine, e si rinfrancava. Era nel suo
paese oramai! Quel profumo non lo
avrebbe respirato più, quella donna dai grandi occhi
barbarici non l’avrebbe più vista, la
sua salute sarebbe rifiorita, e dal suo amore sano e
paesano sarebbe nata una famigliola fiorente, che lo avrebbe
confortato e aiutato nella sua vecchiaia.
Signore, vi ringrazio, - diceva Rocco guardando il sole che si
era alzato sul mare e illuminava di una luce calda tutta la vallata
fino ai monti lontani - Signore, vi ringrazio. Voi date la piaga ma
date anche l’unguento.
Poi si rivolse a Gèsu: - Ora che siamo tranquilli ti sposerai
e presto. Che ne dici?
Sì, - rispose Gèsu - parlate pure a Varvaro e
prepariamo le robe: dopo Pasqua mi sposerò.
Negli orti fiorivano già i mandorli, e come
qualche fringuello si posava o
passava a volo sui rami candidi di corolle
delicate, piovevano nell’aria lentamente come fiocchi di neve i
petali argentei. E quell’albero fiorito in mezzo a la
campagna ancora morta e intirizzita,
era come un presagio propizio, una promessa
dolce di bel tempo prossimo, del rinnovarsi dell’anno.
Si sarebbe così rinnovata anche la sua vita e la sua salute.
Cap. XI
Una settimana dopo Pasqua Gèsu prese moglie.
Sebbene i Blèfari fossero stati
colpiti l’anno avanti da tante
sventure domestiche e non avessero il cuore
del tutto preparato a festeggiare, pure i Varvaro
vollero che la cerimonia nuziale
fosse, per quanto era possibile, ricca e solenne.
Quei due vecchietti, senza figlioli,
avevano dedicata tutta la loro vita a
Mariuzza, e ora che la vedevano a posto,
maritata a un bravo giovane di loro fiducia, volevano dare la
dimostrazione della loro grande letizia, con un festeggiamento che
fosse segnalato dai paesani.
I danari c’erano, perché Varvaro aveva messe da parte molte
carte da cento che nessuno gli conosceva, e che egli teneva
aggruppate in un fazzoletto di seta, dentro il pagliericcio.
Gèsu da parte sua, rinfrancato in salute e fiducioso
che quel matrimonio lo avrebbe
definitivamente liberato da ogni infermità del
corpo e dello spirito, spese una
buona metà dei risparmi che aveva
ammucchiati in America per comprare l’oro e le vesti alla
sposa. Sapeva che Mariuzza, sebbene fosse timida e
modesta, in fatto di ornamenti aveva, come tutte le donne, le
sue piccole ambizioni, e volle accontentarla pienamente. I
vestiti furono confezionati a Benestare,
da una sarta che aveva imparata l’arte a Reggio, e
si era specializzata in quella specie di confezioni nuziali.
Il giorno degli sponsali, - un giorno d’aprile
splendido, con un sole d’oro -
quando Mariuzza uscì di casa al braccio dello zio
Varvaro, alla testa del corteo, sembrava una Ma donnina che va
in processione. Portava un vestito tutto di
seta: la sottana di organzino di
un azzurro pallido, la camicetta di raso
color tortora, con guarnizioni rosa, e un pizzo
alle maniche e alla gorgiera.
Alle orecchie due rosette con granatine, e due
anelli con pietre alle dita. Al
collo, appesa a una catenina d’oro, portava
una crocetta dello stesso metallo, e sulla testa un fazzoletto di
seta damascata a grossi fiorami dai colori vivaci, che le nascondeva
a stento il doppio giro di trecce intorno al capo.
Il suo bel viso un po’ infantile,
sempre pallido, aveva in quel giorno
un’animazione e una espressione
particolare di allegrez- za e di timore insieme, quella
espressione dolce e trepidante di colui che si appressa al suo sogno
e lo vede diventato realtà.
Rocco, in onore della sposa e per amore del figlio, aveva fatto il
supremo dei sacrifizi per lui, si era messe le scarpe, un vecchio
paio di scarpe scovate in un solaio, e che erano diventate dure come
il legno dell’olmo. Le aveva inumidite e
ammorbidite alla meglio, spalmandole
per tre giorni di seguito con una miscela di
acqua e olio sbattuto, e ora le
portava ai piedi, arrancando malamente
nel corteo, come un forzato che si trascini una catena.
Si andò prima al municipio e poi alla chiesa, d’onde si
uscì che erano quasi le dieci.
Davanti alla piazzetta un nugolo di monelli stavano ad attendere
tumultuando la manna dei confetti. Rocco e Varvaro che
se ne erano riempite le tasche, quando uscirono sul
sagrato, vi affondarono le mani, e cominciarono a lanciarli
verso gli angoli della piazza, con getti rapidi come si fa col grano
alla semina. I monelli vi si precipitarono a
raccoglierli urlando e rotolandosi
nella polvere, mentre il piccolo corteo passava silenzioso e
sereno.
Lungo il percorso verso casa molte mogli di emigrati,
dalle finestre, lanciarono del grano
sugli sposi, in segno di letizia e per augurio di
prosperità e di numerosa
figliolanza. Mariuzza teneva il capo basso, dolce e
timida come una colomba. Gèsu, un po’ pallido ma allegro,
sorrideva a tutti.
Il sole tiepido e luminoso inondava l’aria e i tetti, su
cui saltellavano a centinaia i
passeri in amore, e le lucertole si scaldavano pigre tra i
ciuffi di erba cresciuta su le gronde. Giunti a casa, furono offerti
agl’invitati i dolci e i rosolii; ai ragazzi e ai poveri fu
distribuito pane e cacio in abbondanza: poi verso mezzogiorno si
andò a pranzo.
Varvaro per l’occasione aveva fatto
macellare una pecora, e a preparare il pranzo di nozze
era
stato chiamato Cuscunà, un muratore che aveva imparato a far
da cucina durante il servizio militare. Si mangiò e si bevve
abbondantemente, con letizia, poi Cuscunà già un po’
allegro per il vino tracannato, imbracciò
una chitarra, e improvvisò un subisso di versi in onore e a
lode della sposa. Quando sei nata tu, rosa marina, - dicevano i
versi - fecero gran festa il sole e la luna; fecero gran festa
Napoli e Messina, e fosti battezzata al fonte di San Pietro in Ro
ma, la tua madrina fu la regina e il tuo padrino la sacra corona.
In una serie di lasse pindariche il poeta cantò poi le lodi
di tutti i commensali, a uno a uno, rilevandone, con
qualche punta d’ironia, i caratteri più salienti.
A ogni lassa beveva, e i commensali battevano i bicchieri in segno
di giubilo, e tracannavano in onore del decantato. Poi si
passò ai contrasti, alle gare poetiche.
Cuscunà, con gli occhi piccini, i baffi
gocciolanti del buon vino rosso e saporoso,
chiamò tutti i commensali a
tenzonare con lui. L’argomento della tenzone era questo: a chi
la inventava più grossa. Il
poeta incominciò dondolandosi sulle
gambe esili, la testa inclinata sopra una spalla:
‘Nu vecchiu fusu di ‘na vecchia vitti, non era ruttu ma pocu tenia;
di la metà mi fici tri saitti
‘na chianca grandi pe’ ‘na gucceria,
e poi cu scagghi, scagghioli e scagghitti fici un vascello e lu
mandai in Turchia.
(Vidi un fuso vecchio di una vecchia, non era rotto ma teneva
appena; dalla metà trassi tre alberi da mulino, un grosso
pancone per una macelleria, dopo, con i trucioli che mi rimasero,
costruii un bastimento e lo mandai in Turchia).
Un coro di meraviglia e di approvazione si levò dalla tavola.
Mariuzza sorrideva ilare, come una bambina.
Avanti, avanti - diceva Cuscunà - ho fatto la mia proposta;
chi è bravo mi risponda. - E pizzicava con
le mani già cascanti le corde della chitarra.
Avanti, Bruno, - disse Rocco rivolgendosi a Varvaro - tu una
volta eri poeta: ti sei dimenticato
di tutto, per la malogna?
Era il primo ai suoi tempi, - diceva tutta allegra Caterina
riferendosi al marito - a inventare canzoni sulle
zampogne non v’era chi lo arrivasse in tutti questi paesi.
Bruno, coraggio!
Varvaro si alzò. Il mento rugoso, quadrato e duro, come
sagomato con l’ascia, era tutto lucido di unto, e gli occhietti
grigi gli brillavano come due fiori di smalto. Col
bicchiere nella mano, che gli tremava
leggermente, la vocetta acuta, modulata in falsetto,
improvvisò la sua trovata:
Ed eu vitti l’ancinu di ‘ssa ‘ngacchia
attru non c’è per fari la parigghia. Sette vommari fici di
sta tagghia, quattro ‘ncujni grossi e ‘na manigghia. E dopu mi
restau puru ‘na scagghiafici ‘na ferruvia di cento migghia.
(Io vidi l’uncino del tuo fuso, altro non c’è per fare il
paio. Ne ho tratti sette vomeri grandi così, quattro grosse
incudini e una maniglia. Di un pezzo che dopo questo
me n’è rimasto, ho costruita
una ferrovia di cento miglia).
Cuscunà era sconfitto: i bicchieri si alzarono, in un coro
tumultuoso di approvazioni.
Evviva Varvaro, hai vinto, hai vinto!... Viva Varvaro!...
Era già notte. Gli sposi si congedarono e si ritirarono entro
una stanza loro assegnata nella casa degli zii, mentre a tavola si
beveva e si tenzonava ancora poeticamente.
Cap. XII
Mariuzza entrò nella stanza nuziale con l’anima
trepidante della giovinetta che vuol
conoscere e teme, oppressa già dalla dolcezza sognata e
misteriosa, che ha in sé il profumo dell’amore e il presagio
sano della maternità; ma Gèsu vi entrò come si
entra nell’aula di un tribunale, o in una chiesa con un terribile
peccato su la coscienza.
Davanti a quel letto alto e vasto fragrante di lino casalingo e
sonoro di materia agreste come un angolo di prato,
e con la vicinanza di quella
donna giovane, nel cui tremore egli
indovinava il desiderio e l’orgasmo dell’amplesso, gli si
affacciarono alla memoria in un lampo, e
brulicarono nella carne, i ricordi terribili di un
altro amplesso, il primo! di un altro amore, perverso. Il
ricordo della sua iniziazione al fremito misterioso del
possesso femminile si risvegliò in
lui brutalmente; rivisse in un attimo i
pochi giorni di spasimo turbinoso
che lo avevano estenuato, lasciandogli
in tutto l’essere come un senso di vuoto e di
vertigine; rievocò con una precisione allucinatoria
la carne insaziabile della straniera, il
morbido contatto di quelle membra,
il profumo di quel corpo,
conturbante come quello di un fiore mostruoso; lo
stralunare di quegli occhi grandi e verdi come quelli dei serpenti,
tutti i pervertimenti della bestia concupiscente; e preso da
un desiderio subitaneo, afferrò
la sposa per le mani, e le ricercò
avidamente la bocca. Ma su quella bocca
silenziosa, davanti a quel corpo
un po’ rigido, esalante un profumo sano di lino e di carne
giovane, si arrestò come smarrito e quasi deluso.
Quell’atto di desiderio torbido gli parve una profanazione.
Gli si affacciarono allora alla mente tutti i timori
sulla integrità della sua
salute, le terribili parole del medico che in America
gli aveva detto di non sposarsi prima di
essersi curato convenientemente. Con il profondo e
delicato amore per quella ragazza
buona, docile, inconsapevole, che si abbandonava a lui
come una colomba, gli gonfiò il cuore un senso di
pietà profondo e accorato. Qualche cosa come il timore di una
cattiva azione, di una brama incestuosa lo respinse. Sentì il
bisogno irresistibile di confessare tutto, di
rivelare quei timori alla sua
donna non ancora sua, perché
gli pareva che quella gli avrebbe detto una parola d’angelo,
la parola infallibile della bontà e della verità.
Mariuzza, - disse - ho bisogno di parlarti.
La prese per mano e la trasse presso la finestra, una piccola
finestra a davanzale che guardava verso occidente.
Sotto il davanzale, all’interno, era una cassa, piena di oggetti di
corredo. Vi si sedettero tenendosi per mano. Mariuzza
tremava felice e rassegnata.
Ho bisogno di farti una confessione, di rivelarti un segreto.
Dite, dite - fece la ragazza con un leggero turbamento.
Gèsu si arrestò un istante, e si passò una mano
sulla fronte.
Ecco... ti voglio dire... Ascoltami... io... in America... ho
conosciuta una donna. Mariuzza ebbe un fremito nelle mani.
E perché lo dite a me, in questo momento? Io non vi chiedo
nulla, non voglio sapere. - E si abbandonò sgomenta sulla
spalla di lui.
No, ascoltami... - continuò Gèsu come esaltato - ...tu
mi devi ascoltare. Non te lo dico per ingelosirti, per
farti piangere. Per un’altra cosa te lo dico. Ho conosciuto una
donna che in tre giorni ha divorato tutta la mia gioventù.
La ricordate dunque ancora, il suo pensiero vi perseguita. E allora
perché mi avete sposata?...
La ricordo, ma non per amore, per paura...
Paura di che? - chiese la ragazza quasi indispettita.
Una terribile paura, cuore mio, una terribile paura! Temo che
mi abbia dato una brutta malattia.
Mariuzza ebbe l’impressione di ripulsa e
di ribrezzo di chi improvvisamente,
camminando per la campagna, si vede davanti una carogna
brulicante.
Una brutta malattia voi? O Santa Vergine! E come? Cos’avete, cosa vi
sentite?
Niente, non ti spaventare, non mi sento che un po’ stanco. Solo un
poco stanco. Ma tuttavia ho paura. È per questo che ho
ritardato fino a oggi a celebrare le nozze.
Ma cosa avete, cosa vi sentite? - domandava tutta confusa e
sgomenta la ragazza, che non riusciva a
rendersi conto di che cosa fosse quella malattia misteriosa. - Ma
ora state bene; perché nutrite ancora di quei timori? Oh!
povera me!
Non piangere, ascoltami - riprese Gèsu. - Quando son
giunto in paese stavo più male d’adesso,
mi sentivo debole e vuoto come una canna. Ho rivelato a mio padre i
miei timori, ed egli mi consigliò di ricorrere a Mico del Re,
sai quello che sa di magìa. Mio padre temeva si
trattasse di una fattura. Andammo. Fattura
non c’era. «Se avete qualche
malattia,» disse Mico del Re «il matrimonio vi
guarirà. Sangue di donna vergine guarisce ogni male di
donna». Tu dunque mi potrai
guarire. Vuoi guarirmi, cuore mio?...
Io? - chiese la ragazza
sforzandosi di guardarlo negli occhi,
in quella ombra rischiarata dai
riflessi di un cielo notturno di un mirabile azzurro
d’ardesia, - io vi posso
guarire? E come? Ditemi come: io lo farò.
Ma voi tremate, avete le mani fredde, eppure la notte è
tiepida. Perché tremate così? Perché avete
tanti timori?
No, non tremo! Se tu mi vorrai guarire
io non tremo più, piccolina
mia! Vuoi tu guarirmi col tuo sangue?
Sì, io voglio, sono qui per questo - singhiozzava Mariuzza. -
Se il mio sangue è sufficiente prendetelo pure,
sono pura come un angelo
perché mai nessun uomo mi mise una mano addosso.
Ma voi non avete niente, sono idee, o piuttosto... è il
ricordo di quella donna straniera, di
quella strega perversa che vi perseguita. Ditemi, non è
quello? Giuratemi che non è.
No, Mariuzza, - fece Gèsu con un tono di grande
sincerità - non è quello. Te lo giuro. Io temo per te,
piccolina mia!... Ma tu vuoi guarirmi, tu mi guarirai, non è
vero che mi guarirai?
Sì, caro - fece Mariuzza, - e con un dolce atto materno lo
accarezzò sulla guancia. Tacquero abbracciati.
La notte di aprile era dolce, tiepida, trasparente, piena di
uno scorrere remoto d’acque e del
sospiro lieve del mare. Voci fievoli, sussurri, crepitii
d’ali si producevano e si
spegnevano nel silenzio della campagna; l’aria era
impregnata di un odore d’erbe. Dalla rocca vicina
uno stormire fugace di fronde si
produceva a tratti, e dei rumori
di terra smossa, per il
passaggio sotto i cespugli di piccoli
animali notturni. Negli orti cantava
l’assiolo, il malinconico poeta delle
notti meridionali, e la sua voce, ora
vicina ora lontana, era dolce come la nota di un piffero di canna.
Oppressi dalla dolcezza dell’ora,
riconfortati, desiderosi di sperare e
di credere nella loro
felicità, tenendosi per mano
guardarono verso le montagne.
Aspromonte con le cime adiacenti,
profilato in un cielo verdognolo coi riflessi opalini,
prendeva un colore di viola
intenso, e sembrava in quello sfondo luminoso il
confine di un paese paradisiaco,
nel quale gli angeli camminassero
sopra una terra coperta di verde e di fiori. Sotto quella
montagna, in una valle ridente, tra
selve di noci e di castagni centenarii, ai
piedi di un fiume, la Madonna di
Polsi aveva il suo Santuario; e
come dal piede della montagna sgorgava la vena perenne
del fiume, così da quel
Santuario, per tutta la provincia, e
anche oltre, sgorgava una fontana perenne di grazie sugli afflitti,
i poveri, i malati di ogni genere.
Perché non facciamo un voto? - disse Mariuzza, con una
sùbita gioia. - Rivolgiamoci alla Madonna, essa ci
farà la grazia.
Facciamolo, - rispose Gèsu,
stringendola a sé, - prometti tu alla
Madonna quello che credi, io
accetto, e che essa ci faccia la grazia.
Lasciatemi - disse Mariuzza.
Si svincolò, e messasi in ginocchio davanti alla finestra,
con gli occhi e l’anima protesi verso il Santuario
lontano, pregò: - O Vergine della Montagna, ridate voi la
salute a mio marito, voi che siete la fontana di tutte le grazie, e
io vi prometto di venire quest’anno con lui, e di
portarvi tutto l’oro dello sposalizio.
Guaritelo voi, Madonna benedetta, e
fategli dimenticare quella donna
straniera, quella donna... quella donna... - E ruppe in
singhiozzi appoggiando la testa su la cassa.
Gèsu, commosso e triste per quella rievocazione inquietante,
la sollevò per le braccia e l’attirò a sé
silenziosamente.
Poi si alzarono e chiusero la finestra.
Cap. XIII
E così venne maggio.
Non un angolo di prato, o il margine di una via di campagna, o
la sporgenza di un muro diroccato, o la
gronda di un tetto era senza il
suo fiore, il suo ciuffo d’erba
o il suo nido. Aprile era stato umido, con quei giorni di pioggia
mite, uniforme, che cade dal cielo
cinereo, in un’aria tiepida e molle: quei
giorni già lunghi, un po’ accidiosi che conciliano il
sonno, accarezzano i fermenti del sangue,
risvegliano i desiderii e rendono trasparenti
i pensieri: quella pioggia che
bruisce sulle erbe già alte, sulle fave
fiorite negli orti, abbevera i grani e li spinge in su con il lieve
ondeggiamento dei venti, e sgocciola quieta dai petali rosei del
pesco e del melo, ed apre nel
verde smeraldino delle messi le corolle dei
papaveri, e inturgida le viti che piangono sui poggi, coronati
di nuvole chiare, lucenti come meteore.
Il proverbio calabrese dice: «A
marzo ogni lentisco è un
addiaccio, ogni cespuglio un materasso».
E davvero le siepi erano rigogliose in quell’anno,
morbide e molli come giacigli
per l’amore di deità boscherecce.
I roveti, i lentischi, i peri, le euforbie, i biancospini, le
tamerici, tutto era riboccante di un
fogliame lucido e rigoglioso. Dai muri
e dalle gronde pendevano festoni
di violacciocche e di campanule; sotto ogni
sasso, entro ogni pietraia spuntavano
ciuffi d’erba: margheritine dorate, narcisi,
pan di cuculi, giacinti; i
bianchi corimbi dell’ornitogallo, le
clave violette del gigaro, e
dovunque i fiori gialli del ranuncolo, lucenti come di
smalto, o quelli violacei della borrana.
Coprivano i sentieri e le macee, i botri e i
margini dei campi, i cocuzzoli dell’arenaria e i prati destinati al
pascolo.
Le giornate erano miti, soavi. Pareva che nell’aria si respirasse un
odore di miele selvatico e di latte; un tepore sano come un fermento
vegetale entrava nel sangue, e lo faceva formicolare.
Gli sposi erano felici.
Gèsu aveva riacquistato l’appetito, la fiducia e quella
allegria un po’ sentimentale ch’era nel suo carattere timido e
buono. Dei suoi incomodi non gli rimaneva che un po’ di stanchezza,
e quella era da attribuirsi alla stagione.
Qualche volta era andato nell’aprile
in campagna con sua moglie a
rincalzare le fave o a
mondare il grano; ma più spesso rimaneva a casa a riposare, a
godersi la gustosa accidia di quella
primavera luminosa, e i buoni manicaretti che gli preparava
Mariuzza. Questa diventava colorita e
perfino un po’ grassa ogni giorno di più; le guance le
si tingevano di un leggero incarnato, e gli occhi
avevano acquistato uno splendore nuovo, un’espressione più
franca e più ardita. Accanto al marito diventava pigra
anche lei; e poi era tanto dolce stargli vicino, in quei
primi giorni di luna di miele, con tutti quegli uccelli sui tetti
che si rincorrevano garrendo, e quel
pigolìo sommesso dei nidi sotto
le gronde.
D’ordinario si recavano a Bony, e lassù seduti
sotto un pero, l’uno accanto
all’altra, con le spalle appoggiate al tronco, gli occhi
imbambolati, si godevano il paesaggio
sempre bello e nuovo, anche ai
loro occhi assuefatti a quello
spettacolo. Rocco nell’orto mondava le
fave dalle piante parassite del succiamele,
o dalle ortiche; l’asina legata sotto un albero, con le orecchie
spelacchiate continuamente in moto, i larghi guidaleschi rosei
coperti da un nugolo di mosche, li guardava con i suoi grandi umidi
occhi di vecchia rassegnata, soffiando di quando in quando nelle
froge.
I grani rigogliosi facevano già l’onda larga sotto il minimo
soffio; i campi di erba tutti fioriti sembravano tappeti purpurei,
quelli dell’orzo che aveva già messa la spiga
luccicavano al sole, con riflessi come di oro
verde. Intorno ai peri e ai meli che legavano i frutti ronzavano
miriadi di api selva- tiche, di vespe dalle lunghe gambe gialle come
il torlo dell’uovo, e di grossi calabroni pelosi, i
quali spiccandosi a volo dai fiori
appassiti, facevano cadere le corolle
smorte, come spoglie di larve animali.
I passeri, le cince, i cardellini, i merli nidificavano a migliaia
su gli olivi, nelle siepi, su gli olmi,
incrociando miriadi di voli per
tutto il giorno. A volte, nella
calma meridiana, dei grandi
corvi passavano sulla campagna, con volo alto e solenne,
gittando il loro crocidare rauco.
Ruotavano alti sui poggi, fogavano un istante
raccogliendo le ali, poi si risollevavano con
ampi giri. Nelle evoluzioni le penne
luccicavano al sole come fossero di un metallo azzurro.
Come si sta bene! - diceva
Gèsu accarezzando la moglie sui capelli -
è proprio vero dunque
che mi hai guarito definitivamente? Io mi sento tranquillo, che mi
pare il mio sangue sia diventato latte.
La Madonna ti ha guarito, - rispondeva Mariuzza - la Madonna di
Polsi, la Beata Vergine della Montagna. Ricordati del voto;
quest’anno dovremo andare insieme a ringraziarla.
Andremo, - diceva Gèsu - io ho accettato il tuo voto, ma
l’oro te lo voglio riscattare.
Sotto il cocuzzolo d’Aspromonte si scorgeva appena,
velata dalla calma meridiana, la valle
dove era il Santuario miracoloso di Polsi.
Un giorno mentre meriggiavano
tranquilli, da una siepe vicina
giunse improvviso il canto beffardo e
morbido del cuculo.
Cucù... cucù... cucù... - Gittò tre
note, poi tacque.
Aspetta, - disse Mariuzza - adesso gli
faccio una domanda; vediamo cosa
risponde: «Cucco mio pulito, fra quanti anni mi
marito?».
L’uccello tacque un istante; poi riprese con le sue tre note
consuete: - Cucù... cucù... cucù...
Stupido di un uccello, - fece ridendo allegramente Mariuzza - non sa
nemmeno che mi sono sposata!...
E come vuoi che lo sappia? Non gli hai mica mandati i confetti.
Ma gli uccelli sanno tutto, essi parlano con gli angeli
ancora come nel Paradiso terrestre. Adesso
gli domando un’altra cosa.
Cucco mio pulito, quanti anni mi godrò con mio marito? Il
cuculo rispose ancora con tre note.
Oh! mala Pasqua ti colga, - fece Mariuzza irata - tre anni?
Vorrà dire trenta - fece Gèsu ridendo.
E fosse anche trenta, cosa sono trent’anni? Siamo giovani e possiamo
goderci molto di più.
Cosa credi che sappia? risponde sempre in un modo.
Va bene, ma qualche volta indovina. Quando noi due cominciavano a
volerci bene, io a Grappidà domandavo
quasi tutti i giorni a un
bel cuculo che veniva a posarsi
sulla quercia grande:
«Cucco mio pulito, fra quanti anni mi marito?». E lui
rispondeva con tre note. Di fatti dopo tre anni mi sono maritata e
con te.
Aspetta, - disse Gèsu - ora gli domando io una
cosa. - E ad alta voce
chiese all’uccello: - Cucco mio d’oro, fra quanti anni moro?
Il cuculo spiccò il volo e gittando un cucù spaurito,
dileguò tra i peri e le siepi di ficodindia.
I due sposi si guardarono negli occhi perplessi.
Un anno? - fece Mariuzza corrucciata - ti colga una
schioppettata nelle ali, malvagio uccello! - E
abbracciò teneramente suo marito, coprendolo col petto, come
per difenderlo dal cattivo augurio.
Cap. XIV
Coi primi di giugno, durante la mietitura dell’orzo, Mariuzza
ebbe delle febbri fortissime; tre o
quattro che la lasciarono sfinita. Si pensò a un colpo di
sole, anche perché la giovane, per il gran caldo, aveva
lavorato qualche mezz’ora senza fazzoletto
in capo. Caterina sul lavoro
portava sempre in testa un gran cappello di
paglia, ma a Mariuzza nessun
cappello si adattava, a causa di
quelle grandi trecce che le incoronavano la testa. E
perciò aveva lavorato a capo scoperto.
Da ciò, pensavano Gèsu e
i parenti, le erano venute quelle febbri: per un colpo di sole.
Le febbri erano accompagnate da terribili fitte al capo, e da un
dolore di testa spasmodico che la
lasciavano intontita. Le somministrarono
del chinino, e un brodo di
erbe purgative che Rocco Blèfari
aveva raccolte nel suo orto a Bony.
Le febbri scomparvero, ma il dolore di testa
rimase, e specialmente nelle ore
notturne diventava così violento che la povera
Mariuzza credeva d’impazzire. Sembrava
che il cervello glielo tagliassero a
fette, e che sul cranio un trapano diabolico le producesse or qua or
là dei buchi profondi.
All’indomani la povera malata si trovava come intorpidita, inerte,
senza fiato, incapace anche di articolare le parole, con una
sonnolenza malaticcia che le annebbiava i pensieri. Gli
occhi indolenziti si aprivano appena, e sembrava si
stancassero a guardare, anche per un istante, le cose.
Il tempo diventava torrido. Era venuta
l’estate, la terribile estate arida,
sitibonda, polverosa che dà a tutta la terra e alla verdura
un colore giallastro, e opprime il cuore. Le messi erano già
bionde, e in alcuni punti della campagna le spighe
prendevano un colore rossastro come
di ruggine. Le erbe erano tutte
secche, i campi desolati, con mucchi di gambi di
fave anneriti dal sole, sparsi qua e là pei solchi.
Qualche ciuffo di verdura tenace, o
il fiore azzurrino della cicoria,
stellato, delicatissimo, accrescevano la malinconia
degli orti. Nei letti dei torrenti risecchi
i ciottoloni e i macigni
fumavano al sole come il pane nel forno.
L’aria era morta, il cielo giallastro, il mare violetto.
Verso il meriggio l’afa mozzava il
respiro.
A guardare nelle ore meridiane
le campagne si era assaliti da una specie
d’inquietudine panica:
pareva che la terra dovesse prendere fuoco e bruciare lentamente
come bambagia aspersa di un liquore alcolico. Le lontananze si
velavano di un alone torbido di luce e di vapori polverosi; gli
alberi, le grandi querce, i peri, i meli tutti sonori di
cicale, restavano immoti sotto la
sferza cocente; gli olivi con le
foglie smorte e polverose davano una impressione quasi funeraria.
Dei grandi corvi passavano in cielo, a stormi per tutto
il giorno, crocidando, librandosi con larghe
ruote sui burroni, in cerca di carogne, le carogne dei cani
rabbiosi o dei buoi morti di
carbonchio. Mariuzza non andava più in campagna.
Il mal di testa l’abbatteva, la
stordiva, e la lasciava delle intere
giornate inerte, gli occhi torbidi,
socchiusi, la mente vana. Le
giornate le passava accoccolata davanti all’uscio
di casa ad ascoltare il
pigolìo dei nidi sotto le
gronde, o il ronzare delle api selvatiche che
appendevano i bugni sotto le travi del tetto, o allo spiovente della
gronda.
Poiché la ragazza accennava anche a delle nausee, la zia
Caterina, con subita gioia, pensò a una gravidanza, e si
rallegrò di quelle sofferenze come d’una rosea promessa. Ne
parlò alla nipote, prendendola un po’ in giro con tono
affettuoso.
Non lo sapevi tu che da quella via ti toccava passare? Dovevi
pensarlo. È un passaggio obbligato. Beata te che hai la
fortuna di soffrire così, per avere un frutto delle tue
carni. Vedi me? Io non l’ebbi quella fortuna, io non soffrii
né nausee né dolori di testa
né altri malanni, ma muoio
senza lasciare una goccia del mio sangue in questo mondo. Se non
avessimo presa te che eri nostra parente e sei rimasta orfanella,
saremmo morti senza una mano che ci chiudesse gli occhi.
Voi credete sia quello, zia? - faceva Mariuzza con un lampo di gioia
nei begli occhi stanchi. - Oh! Io sarei contenta. Ma soffro troppo!
Sapete che qualche mattina non ci vedo neppure? Mi sembra di avere
un velo davanti agli occhi. Oh povera me! E quanto dura questo
affare?
Fatti coraggio, figlia mia, dura a lungo.
Mariuzza si sconfortava, sebbene fosse felice e spiasse entro di
sé qualche segno rivelatore della sua maternità.
Rocco, quando ebbe la confidenza da Caterina, non capiva nella pelle
per la contentezza.
Quando ritornava la sera dalla
mietitura, nero, bruciato dal sole,
con la consueta calma rassegnata sul grosso viso
diventato del colore del bronzo, la prima cosa che faceva era quella
di andare dalla nuora, a portarle la buona frutta che le aveva
procurato in giro o raccolta nel suo orto. L’accarezzava con gli
occhi, gli sembrava quasi che, a toccarla,
dovesse rompere il ritmo di quella
felice maternità incipiente; e la contemplava con le mani
alzate, come si contempla un
nido, in cui le piccole uova riposano nel
lettuccio soffice di piume o di spore di soffione.
Ebbene, come va... Mariuzza? - le diceva sorridendo; e
intanto sollevava delicatamente da sopra un
cestino di vimini una foglia di fico o qualche pampino di vite. -
Guarda cosa ti ho portato! - Una sera erano fichi fiori di quelli
schiavi, lunghi e iridati come una melanzana;
un’altra sera erano le piccole pere di San Vito o le moscatelle,
fragranti come un dolciume; un’altra, le ciliegie.
Mangiane una, ti passerà il mal di testa.
Mettetele là, - faceva Mariuzza tentando un sorriso
malinconico - non ho voglia adesso.
Come non hai voglia? Se le guardi ti vien subito
la voglia. Le donne nelle tue
condizioni hanno tutte le voglie, e sai perché? Perché
quelle piccole anime che hanno dentro vengono dal Paradiso
terrestre, dove ci sono tutti i
frutti del mondo, e quindi sono abituate a mangiarne a
sazietà. La sai la storia del padre guardiano? Ah! non la
sai? Te la racconto, ti faccio ridere un poco.
E cominciava a narrare di una donna
incinta, che vedendo passare tutti
i giorni davanti a casa sua il guardiano
d’un convento, finì con l’avere voglia
di mangiare un pezzetto di guancia del frate. Il
frate, quando ebbe notizia della voglia della donna, inarcò
le ciglia e rispose: «No, non posso, qui ci va di mezzo
l’onore del mento». Ma poi
pensando che una piccola anima di Dio sarebbe
andata al limbo se egli non avesse acconsentito a fare quel
sacrificio, si recò dalla donna e le disse: «Bene, ho
pensato di accontentarti; avvicinati e staccane con la tua bocca un
pezzo dove vuoi tu».
Il frate era roseo, grasso e prosperoso, e la donna lo
addentò subito con voluttà, ma non affondò
il morso. Rimase così con la sua bocca vicino a quella del
frate, e la voglia le passò.
Mariuzza rideva: - Gesù, Gesù... non mi fate ridere
che non ho voglia.
Mangia, per la malogna, e dimmi se hai desiderio di qualche cosa,
dillo a me. Hai capito? Non mi fare qualche pasticcio, non mi
scodellare l’uovo prima del tempo.
Ma nella casa vi era uno che non partecipava alla gioia comune, che
non credeva alla gravidanza di Mariuzza, e la vedeva soffrire con un
turbamento che gli divorava il cuore. Era Gèsu.
Siccome i lavori nella campagna erano pressanti, in
quel periodo della mietitura,
Gèsu era via tutto il giorno, sebbene le fitte
nelle ossa e la stanchezza lo avessero ripreso.
Mieteva accanto a suo padre e allo zio Varvaro. Tutti erano allegri,
loquaci, cantavano a tenzone con le spigolatrici, mangiavano
robustamente, e i più arditi narravano delle avventure
salaci, facendo scappare le ragazze che raccoglievano i
covoni. Gèsu, che pur aveva una bella voce, non cantava mai.
Lavorava con furore, sempre primo nella fila, col suo sospetto
tragico e tormentoso nel cuore, col pensiero fisso
come un chiodo alla moglie e alla sua malattia. La sera tornava a
casa spossato, triste, col cuore pesante. Qualche volta la
notte, mentre Mariuzza spasimava, con
una pezzuola inzuppata d’aceto sulla fronte, egli
accendeva il lume e stava a lungo a contemplarla, con in
gola un nodo che lo strozzava. Una mano
sotto la guancia sul cuscino, il collo abbandonato e
proteso come quello di una colomba ferita,
la bocca semiaperta e le trecce, le belle e lunghe trecce
attorcigliate sul guanciale come due grosse serpi in amore, Mariuzza
si lamentava, e con l’altra mano cercava quella del marito,
brancolando, come per un aiuto e un appoggio.
Cosa ti senti, cara, - le chiedeva Gèsu baciandola sulle
guance - ti senti tanto male?
La donna si lagnava con un lamentìo sommesso, come una
ubriaca, incapace di aprire gli occhi.
Gèsu si sentiva esasperare fino al delirio. Sua moglie lo
aveva guarito, ma forse il terribile male era passato in lei. Il
germe putrido dell’amore randagio, il
veleno del peccato, il polline
corrotto del fiore velenoso, il fermento mortale
emigrato dalle grandi città
tentacolari, generato nei lupanari, sulle
cale dei porti, nell’atmosfera estuosa delle vie babiloniche;
il polline corrotto si era
posato sulla carne fresca e inconsapevole della
giovinetta sposa, e la corrompeva.
«Perdono, perdono...! diceva Gèsu entro di sé
smarrito, disperato, «perdono, mia povera piccola
moglie, io ti ho avvelenata, io ti ho uccisa! Il morbo misterioso e
terribile è passato in te, la tua fresca carne cadrà
putrefatta, io ti ho avvelenata! Perdono, perdono!».
Gli balenavano in mente i progetti più tristi e
disordinati; avrebbe voluto punirsi
con le sue mani, torturarsi freddamente,
come un giudice spietato che
eseguisce la propria condanna. Poi
pensava di fuggire lontano, come un pazzo, col sacco in ispalla e il
bastone in mano, errando di porta in porta, di paese in paese:
come quei miseri che non hanno né casa
né affetti né nome né giaciglio,
e mangiano tozzi di pane accattati, rimasugli di cucina; e
dormono sui cigli dei fossi, sul sagrato delle chiese, sotto i
portici dei vecchi conventi
abbandonati; e muoiono in un angolo, entro
la striscia d’ombra gittata da un muro solitario,
mentre una lucertola li guarda
coi piccoli occhi misteriosi, nei
quali è la suprema indifferenza della
Natura madre.
Non osava chiamare il medico per paura di sentirsi confermare
il dubbio angoscioso, e intanto tentava con
un lavorìo della mente, senza posa, di farsi un’idea
di che cosa fosse quella terribile
malattia che non aveva forme precise, definite,
appariscenti, e logorava la vita
e avvelenava il sangue come una maledizione
dell’Altissimo. Ricordava di avere sentito
qualche volta parlare dei terribili effetti
di certe malattie che facevano marcire le membra,
sconvolgevano la ragione, annebbiavano gli
occhi, aprivano delle grandi piaghe fetide,
che non guarivano mai. Il
pensiero che quel male proveniva da un
contatto impuro, dalla funzione del peccato
originario, dava agli effetti di
quello una significazione mistica, di castigo supremo,
irreparabile, che lo sgomentava.
Intanto giugno passò e giunse luglio più torrido e
desolato del consueto. Da un paio di mesi non si vedeva più
una nuvola in cielo. All’alba o al tramonto certe striature di
nuvole rosse dileguavano incenerite nelle fornaci del
crepuscolo. I fichi maturavano e bisognava
curarli. I Varvaro avevano una vigna con
ficaie, e ai primi del mese vi si trasferirono con Gèsu e
Mariuzza.
Era opinione della zia Caterina
che l’aria della campagna avrebbe
giovato alla giovane, che
maturava dolorosamente il suo frutto.
Per Caterina non vi era dubbio,
la ragazza era madre, e tutte quelle
bizzarrie della salute turbata, non erano che effetti di quel suo
particolare stato di grazia.
La campagna dove si erano trasferiti guardava il mare ed era bella,
nonostante tutto fosse brullo
e risecchito. La vigna prometteva bene e già i grappoli
invaiolavano.
Nei primi giorni Mariuzza sembrò godere di una certa tregua
nel suo male. La testa le doleva
ancora, di quando in quando, ma
meno violentemente: quel che la
preoccupava era una grande debolezza agli
occhi. Quelle terribili emicranie le avevano
lasciata la vista annebbiata; essa
vedeva tutto come sotto un velo, come se
avesse avuto davanti agli occhi
uno di quei finissimi stacci di
seta, coi quali si cerne la farina.
E un’altra cosa le metteva addosso delle
inquietudini. Sulle braccia e sul
petto le scoppiavano qua e là dei piccoli sfoghi,
dei focolai di foruncoli pallidi, duri, quasi indolori
che scomparivano lasciando sulla pelle una chiazza bianca, un
poco simile a quella di una
scottatura. Una grossa empe- tiggine le aveva
invaso il collo sotto l’orecchio sinistro, con un
senso di prurito fastidioso. Caterina
le aveva ordinato di bagnarla con la
saliva al mattino mentre era
digiuna, perché la saliva era
miracolosa in quei casi.
Poi ritornarono più violente che mai le emicranie.
Varvaro consigliò l’applicazione di due mignatte alle tempie,
ma l’applicazione produsse effetti disastrosi. La vista di Mariuzza
si indebolì talmente, che non si potè fare a meno di
ricorrere al medico.
Verso gli ultimi di luglio Gèsu
caricò Mariuzza sull’asina,
perché essa non era già
più in grado di far la sua via, e si recò
a Bovalino Marina dove era da poco arrivato da
Roma, per i bagni, il professore La Cava.
Prese con sé due galletti e un panierino di frutta,
perché dal medico e dall’avvocato in Calabria non si va mai
con le mani vuote.
Il dottore, un uomo sui quarantacinque anni,
affabilissimo, bruno, tutto sbarbato,
con un naso fine e delle piccole
mani quasi femminee, li introdusse
in una specie di gabinetto, ai
piedi di una scala di cemento con ringhiera.
Sono venuto da voi, - disse Gèsu, col viso pallido come
quello di un colpevole, - perché mia moglie sta per perdere
la vista.
Siedi - ordinò il medico a Mariuzza senza badare a quel che
diceva suo marito; e dopo averle arrovesciate
le palpebre ed
esaminati gli occhi,
diede uno sguardo
severo alla empitiggine sotto
l’orecchio e a uno di quei piccoli foruncoli pallidi, che
la donna aveva sopra il collo,
quasi entro i capelli. Lo palpò, poi le
passò le dita sotto le mascelle e diede una
occhiata terribile a Gèsu, senza
proferire una sillaba.
Che sia la
gravidanza, signor dottore?
- disse Mariuzza, con la
voce fievole e quasi vergognosa.
Dio non voglia - rispose il medico, e continuò nel suo esame.
Perché, signor dottore? - chiese smarrita la donna.
Una grande speranza dileguava, la dolce speranza
che quei dolori fossero dovuti alla
preparazione di un essere nuovo, di un figlio delle sue
viscere. Quell’idea fino allora
l’aveva fatta soffrire rassegnata e quasi contenta. Senza di
essa il male sarebbe stato più atroce e insopportabile.
Il medico la invitò a
spogliarsi. La povera ragazza piangeva
per la vergogna, perché non
si era mai sognata di farsi vedere ignuda da un uomo che non
fosse suo marito.
Il medico, accigliato, la
redarguì: davanti a quello
spettacolo miserando di una carne
giovane
invasa dal terribile male, aveva perduta anche lui la sua bella
calma socratica.
Il ventre e il petto erano
in parte chiazzati da focolai di
piccole ulcere e di macchie
color del
vino.
Il medico la contemplò un istante, poi le ordinò di
vestirsi.
Tu sei stato in America? - domandò il dottore a Gèsu.
Sì, signor dottore...
Da quanto tempo ti sei sposato?
Dal mese di aprile...
Sei stato malato mai in America?
Qualche tempo un anno fa. Poi mi rimisi completamente.
Non hai fatta nessuna cura?
No, signor dottore; adesso sto bene.
Già! - fece il dottore, con un sorriso ironico, -
stai bene tu e tua moglie. Quando avrò finite le
visite passa da me, nel mio studio, ti darò la ricetta per la
malata. - E li mise fuori dal gabinetto.
Qualche ora dopo, quando Gèsu usciva dallo studio del dottore
aveva la faccia cadaverica. Andava avanti come un
ubriaco, avvilito, disfatto, senza il coraggio di
alzare neppure gli occhi dal suolo. Il
medico lo aveva investito con
rimproveri atroci, facendogli un
quadro terribile delle condizioni sue e di sua moglie,
specialmente di quest’ultima in cui il male aveva preso
delle forme galoppanti.
Gli aveva ordinato per lui e
per lei delle gocce e delle
iniezioni da fare con la maggiore
sollecitudine e con
continuità. Verso
mezzogiorno Mariuzza fu
rimessa a cavallo
dal marito, e ritornarono al podere.
Nella solitudine quasi tragica della campagna non
si udiva un rumore umano. Il
sole dal centro del cielo folgorava la terra, dalla
quale vaporava un respiro tremolante
come quello delle fornaci. Le cicale
cantavano a migliaia da ogni stelo, da ogni siepe,
da ogni albero, con un coro
immenso che finiva col non avvertirsi più, come non si
avverte il rombo nelle officine, quando gli orecchi vi si sono
assuefatti. Mariuzza con le trecce sciolte sulle spalle,
un fazzoletto giallo sulla testa,
la bocca arsa, gli occhi oppressi dal riverbero
della luce diffusa, tentava fare qualche domanda al marito, ma erano
poche sillabe; l’angoscia interna e la calma le spegnevano le parole
in bocca.
La vecchia asina soffiando
rumorosamente nelle froge, ogni tanto
s’indugiava a mordere un
fiore di cardo, e intanto si strusciava accosto alle siepi, in cerca
di un angolo anche fugace di ombra. I suoi passi cadevano nel
silenzio come sassi in un greto risecco; delle serpi che dormivano
sotto le siepi o si crogiolavano al
sole sui grossi macigni della
via, levavano la testa e
attraversavano col loro sibilo lungo e insidioso
la strada, dileguando nei cespugli.
Mariuzza era oppressa. La certezza che non era incinta l’aveva
piombata in uno sconforto triste e rassegnato. Era malata, dunque,
di una misteriosa malattia, la malattia che suo marito aveva portata
dall’America, il morbo della straniera perversa, randagia come la
lupa. E perché il Signore l’aveva così
castigata, lei e il suo povero marito? Perché essa non
riusciva a concepire neppure un’ombra di
animosità verso il suo uomo, cui si attaccava disperatamente
nonostante tutto. E vedendolo procedere accanto
all’asina, curvo come un vecchio, col volto tutto rigato
di sudore, gli occhi spauriti,
dei quali appena scorgeva debolmente il
lume, un sentimento di irresistibile
pietà quasi materna la piegava
verso di lui, e dimenticava il suo male, i suoi dolori, per
considerare quelli di suo marito che soffriva
ritenendosi causa di tutta quella tragica infelicità che
colpiva la loro vita.
Gèsu, perché non parlate? Cosa vi ha detto il medico?
Ah! Cosa mi ha detto? - faceva Gèsu con un viso stravolto per
l’ambascia interna. - Cosa mi ha detto? - e non osava andare avanti.
Oh, Signore, non vi disperate...
abbiate fiducia in Dio. Noi
abbiamo fatto voto alla Madonna
della Montagna, io ho fiducia in
lei... Andremo da lei in settembre e
la pregheremo di farci la grazia. Ma voi non vi torturate
così, state tranquillo, per amor mio. Lo farete, Gèsu,
ditemi, lo farete?
Gèsu la guardava negli occhi.
Quei cari occhi che avevano il
colore screziato della ghiaia
marina coperta da un velo d’acqua, ora erano annebbiati, sofferenti,
senza splendore.
Per non turbarla accennava con la testa di sì, ma avrebbe
voluto essere sottoterra.
Cap. XV
E così andarono alla Madonna della Montagna.
La festa ricorreva il tre settembre, ma già dopo
la metà di agosto le turbe dei devoti passavano, provenienti
da ogni angolo della provincia, dirette al Santuario miracoloso, che
la pietà dei fedeli aveva costruito, da
tempo immemorabile, ai piedi di Aspromonte.
Molti vi andavano prima della festa, come per una specie di
quindicina di purificazione; perché vivevano
della carità del Santuario,
bevevano l’acqua delle sorgenti vive,
pregavano e riposavano all’ombra dei noci, in
quella stupenda solitudine, sulla quale si apriva il
cielo sereno e immutabile come una porta sull’eternità.
Il Santuario, ora elevato ad abbazia, mercé
la solerzia di monsignor Mittiga,
allora non era che una chiesa alle dipendenze
della diocesi di Gerace, retta da un
priore e servita, per le
questue, da un corpo ristretto di frati secolari, non
dipendenti da alcun ordine, che giravano la
provincia, come fanno tuttora, cavalcando i loro bei
muli gagliardi, e raccogliendo le offerte dei fedeli.
Tutti davano alla Madonna, e la Madonna dava a tutti in occasione
della festa. I suoi magazzini erano come fontane pubbliche e tutti
vi attingevano i pellegrini. Non vi era aia al tempo
della trebbiatura sulla quale il romito di
Polsi dopo la spagliatura non
trovasse il suo quarto di tomolo
messo da parte, per la Beata Vergine della Montagna. Dopo Natale i
frati passavano per le case, con le loro tonache di orbace, e la
placca di rame con l’effige della Madonna sul
petto, a distribuire dei piccoli pentolini
di terracotta, destinati a raccogliere dalle grandi caldaie,
in carnevale, lo strutto del maiale che ogni famiglia appena
agiata macellava in casa propria per i bisogni dell’anno.
Ne distribuivano due o più, a seconda dell’importanza e della
ricchezza della famiglia, e in quaresima ripassavano per
riprendere alcuni di quei pentolini
pieni di sugna, che serviva per
i bisogni del convento, e per
sovvenire i pellegrini all’epoca della
festa. Quei frati lasciavano, nei
paesi percorsi e praticati durante la questua, numerose
amicizie, specialmente presso i contadini, ai quali
distribuivano tabacco, ricevendone in cambio mangiare, frutta
saporita e calda ospitalità. Di modo che quando i
pellegrini si recavano al Santuario per la novena, o per la festa,
cercavano del frate conosciuto, ed erano con la più
affettuosa e premurosa cordialità sovvenuti di tutto.
Le origini del Santuario non erano molto antiche, ma di un
rifugio di anacoreti nella valle solitaria
parlavano le leggende più vetuste e più popolari.
Secondo quanto è scritto nell’aurea storia dei Reali di
Francia, ad Aspromonte, in quella valle
remota, ombrosa di magnifici noci centenari, si era venuto a
stabilire un Papa Silvestro, profugo davanti
all’ira e alle persecuzioni dell’ancora pagano imperatore
Costantino, che voleva distrutta la nostra
Santa Fede.
L’Imperatore era affetto dalla lebbra e andava consultando i medici
pagani intorno al modo di liberarsi dalla
malattia terribile, ma nessuno sapeva indicargli
il rimedio. Ed ecco che i
Santi Apostoli Pietro e Paolo gli appaiono in sogno per tre
volte e gli dicono: «Solo
un’acqua potrà mondare la tua lebbra,
ed essa è custodita da Papa Silvestro in
Aspromonte». Era l’acqua del
battesimo, l’acqua della Sacra Purificazione che aveva
scelto un angolo della montagna benedetta per suo rifugio.
Secondo un’altra leggenda popolare, presso certi santi romiti in
Aspromonte trovò alloggio e consiglio Guerino il
Meschino nelle sue eroiche peregrinazioni, prima
di recarsi nei paesi del Prete Janni,
alla ricerca degli alberi del sole e della luna.
E tutte queste leggende remote
ed eroiche conferivano al Santuario
un’aureola di venerabilità e
di santità.
La sua fama taumaturgica era sparsa per
tutta la provincia e oltre. La stessa sua
ubicazione in mezzo ai monti, tra le nevi, quasi più
vicino al cielo, agli elementi e alle forze originarie, agiva
potentemente sull’anima mistica e fantastica del popolo, e
contribuiva a rinsaldare la fede nelle
mirabili dicerie di miracoli che annualmente la Madonna concedeva ai
fedeli a lei ricorrenti. I racconti dei pellegrini
reduci erano pieni di persuasione e di candore. Ogni anno erano otto
o dieci che erano beneficati dal miracolo; ciechi
che riacquistavano la vista, muti che
parlavano, storpi che riprendevano l’uso delle
membra, malati di morbi misteriosi e
incurabili, che ritornavano sani e
gagliardi cantando le lodi della Vergine.
Tutti i pellegrini che vi avevano assistito, avevano visto coi loro
occhi, udito con le loro orecchie le
parole dei muti risanati, avevano
sorretti gli storpi, confortati i
malati; e di tutti descrivevano le forme
fisiche, conoscevano il paese, i parenti e i
casi che li avevano condotti alla loro infelicità
e quindi alla grazia.
Quelli che non avevano realmente assistito alle guarigioni
miracolose lo affermavano con la stessa fede
e con lo stesso candore di coloro che vi avevano presenziato,
sicuri e imperturbabili, come davanti a una verità di fede.
Anche i Varvaro e i Blèfari andarono dalla Madonna per
ottenere la grazia.
Verso la fine d’agosto Mariuzza era diventata completamente cieca.
Un velo tenace di color grigiastro, una specie di patina mucosa
aveva coperte le iridi screziate dei suoi occhi dolcissimi.
I Varvaro non si davano pace. Bruno era invecchiato di dieci anni, e
Caterina, sempre così vispa e sorridente, sempre in moto come
una cutrettola, ora non si riconosceva
più. Tutto il santo giorno attorno a
quella poveretta, che non era più capace di fare un passo se
non era guidata per mano. La mettevano a sedere sotto un albero e la
mutavano di posto a seconda che girava il sole.
Gèsu come un colpevole che vada in
cerca di una espiazione, si
isolava. Andava sempre via, con la scusa di far
legna, di intrecciar corde, o di raccogliere felci per coprire la
vigna. Si cacciava tra i burroni, nei luoghi più
solinghi, dove nidificavano le
pernici, tra i lentischi e i ciuffi di
ginerio, e lì con gli occhi foschi, il cuore pesante, la
volontà affievolita meditava, parlava
solo, come i pazzi, e qualche volta,
per dar sfogo all’angoscia interna, cantava.
Cantava le lamentazioni di Geremia, con un prolungamento lugubre
delle note, in una trenodia chiesastica che gli rompeva il cuore.
Rocco, che aveva i suoi fichi a Bony da curare, ogni
tanto giungeva trafelato, col suo
solito cestino di frutta, e suggeriva ogni giorno un
rimedio nuovo, una nuova consultazione
presso questo o quello esperto della contrada.
Perché nei medici non avevano fiducia. Certi morbi complicati
non li comprendevano e quindi non li ammettevano. Del resto nessuno
aveva rivelato loro il vero responso del dottore, perché
Gèsu non aveva che accennato
vagamente ai rimedii, e Mariuzza
non voleva sentirsi dire in modo assoluto che la causa
del suo male fosse suo marito.
Il suo amore era così cieco ed eroico che
essa assumeva un atteggiamento
aggressivo anche verso Gèsu, quando questi,
nell’intimità, accusava se stesso e le chiedeva perdono.
Se tu mi vuoi bene non devi dirmi mai più quello, - diceva la
giovane abbracciandolo stretto al collo - tu non c’entri. Il Signore
mi ha castigata, il Signore mi guarirà. Non abbiamo noi fatto
voto alla Madonna di Polsi di andarla a trovare quest’anno? Ci
andremo: ecco la sua festa che viene.
Mettimi addosso tutto l’oro dello sposalizio e conducimi da lei.
Vedrai se non mi farà la
grazia, vedrai... vedrai...
La festa ricorreva il giorno tre di settembre, ma i Blèfari
avevano disposto di partire la mezzanotte del primo, per fare il
viaggio al fresco, e trovarsi a Polsi nel giorno della vigilia.
Il cammino era lungo, circa dieci ore, attraverso greti
di fiumi e sentieri montani, e
le giornate erano ancora torride. Bisognava arrivare ai piedi
dei monti almeno nelle prime ore del
mattino, Mariuzza sarebbe andata a cavallo sulla vecchia asina di
Rocco, la quale, sebbene avesse quasi diciotto anni, era ancor piena
di ardire come il suo padrone.
Sull’imbrunire del primo settembre Rocco giunse al podere dei
Varvaro accompagnato.
Improvvisamente erano arrivati una diecina di emigranti
dall’America, e fra essi era tornato
anche il figlio, Pietro.
Tutto vestito di cheviot
blu con catena d’oro,
cappello, scarpe gialle
e una cravatta da
seminarista che sembrava ricavata da una pianeta di chiesa, non
sembrava più lui. La sua lunga faccia cavallina, abbronzata e
leggermente ingrassata, aveva presa
quella espressione franca e disinvolta
dell’uomo che ha imparato a dirigere la propria vita, e a guardare
in faccia al mondo.
I Varvaro lo abbracciarono commossi; Gèsu
nel vederlo pianse come un
fanciullo, e lo accompagnò per mano da sua
moglie. Mariuzza era seduta sopra un
grosso ceppo di legno, sotto un albero
di melograno, davanti alla casa. Dai rami pendevano sulla sua testa
gli enormi pomi dalla buccia cuoiosa, verdognola, fortemente
colorata di rosso nella parte esposta al sole. Alcuno di quei frutti
fesso verticalmente, mostrava dei chicchi lucenti, arrubinati, in
parte corrosi dalle vespe e dai calabroni.
Il sole era calato e tutto l’orizzonte, all’occaso, era una plaga
d’oro.
La povera cieca quando seppe che era ritornato suo
cognato dall’America, ebbe uno scoppio
di gioia, che si mutò subito in lacrime.
Oh Pietro, Pietro! Dove siete?... - e lo cercava con le
mani ansiose. - Guardate come sono ridotta; non vi
posso neppure vedere, povera me. E voi come state?
Oh! che mi manca? - disse Pietro commosso, baciando la
cognata sulle guance come una sorella. - E
come mai è avvenuto questo? Cosa dice il medico?
Cosa volete che sappia il medico, - fece Mariuzza, quasi per
impedire che altri rispondesse su quell’argomento delicato -
il vero medico è la Madonna. Non venite con noi alla Madonna,
Pietro? Non venite?
Sono tornato apposta dall’America, - rispose Pietro - ho anch’io un
voto per la Madonna.
Oh come sono contenta, - esclamò Mariuzza -
come sono contenta! Voi portate buon augurio,
Pietro, e vedrete che la Madonna mi farà la grazia.
Il giovane la guardava con una grande tenerezza, e aggrottava le
ciglia per scacciare l’emozione
che lo assaliva a ogni istante.
A mezzanotte partirono.
Legarono in mezzo al basto una
mannella di fieno, vi posero
sopra un cuscino e vi misero a
sedere Mariuzza. La povera cieca aveva addosso gli abiti e tutto
l’oro nuziale.
La via per un tratto correva lungo il greto di un
torrente, tutto ombrato da grandi
querce, e sparso di grossi macigni. L’asina incespicava a ogni
passo battendo sordamente gli zoccoli sui sassi, e
Mariuzza sballottata rischiava di cadere; perciò Gèsu
e Pietro le si misero ai fianchi per sorreggerla.
Camminavano tutti
silenziosi, preoccupati.
L’ombra di
quelle querce
pesava sulla piccola
comitiva come un velo funebre. Dalle siepi vicine, a tratti,
venivano dei brusii di frasche,
dei piccoli crepitii come di foglie e di elitre
percosse, dei ronzii d’insetti,
lunghi, tremuli. Da sui rami
neri, tesi sul greto, scendeva il sibilo caratteristico
dei ghiri e lo strisciare della loro corsa
sulla superficie scabra dei tronchi.
Dopo una mezz’ora di
quella strada malinconica
uscirono all’aperto. Il
greto del torrente
sboccava in quello più vasto e aperto del fiume. Alzarono gli
occhi al cielo e fu come se il loro cuore si spalancasse.
La notte era mirifica: una di quelle notti d’estate meridionali, che
hanno del fantastico e dello spettacoloso. Il cielo era talmente
tempestato di stelle minute, innumerevoli,
brulicanti, che dava l’impressione di una remota
nevicata sopra uno sfondo di
cielo limpido, arrestata nell’alto dei
cieli da un gesto divino. Le costellazioni note
non si distinguevano più in
quell’immenso formicolìo di astri, e
tutto il cielo sembrava trasformato in una gigantesca
Galassia, da un capo all’altro
dell’orizzonte, in un greto coperto di polvere di diamanti. Tanto
era il chiarore che scendeva dall’alto che ci si vedeva come sotto
la luna. E mentre il cielo in quel formicolìo di astri pareva
abbassarsi verso la terra come un gigantesco
padiglione trapunto, la terra sembrava
appiattirsi e distendersi; i poggi,
le foreste, le montagne violette, perdevano
quasi la loro materialità,
i loro contorni si
ammorbidivano come le pieghe di un velluto
soffice, e tutta la vallata assumeva l’aspetto di una
tazza ciclopica il cui orlo irregolare e
corroso fosse il profilo dei monti, e il fondo di quel greto; una
tazza elevata da una mano mistica verso il cielo, come una offerta
al Signore delle albe e dei tramonti, delle tempeste e delle notti
stellate.
L’aria era piena di un tenue clamore lontano, indistinto come
un’eco di voci marine e di acque correnti. Sui poggi, verso Natile e
San Luca, lungo la strada che
conduceva al Santuario si scorgevano delle
fiaccole accese. A tratti quel vasto silenzio sonoro
veniva rotto da scoppii lontani
di armi da fuoco, a cui seguivano dei clamori umani,
velati dalle distanze: «Viva Maria!».
Erano i pellegrini che scaricavano in aria i
fucili, secondo l’uso, in segno
di gioia e in onore della Vergine.
Altri pellegrini cantavano.
Nella notte le leggende del Santuario, le rapsodie composte
dal popolo intorno ai miracoli
più famosi erano modulate con una cantilena dal ritmo largo,
chiesastico, con un canto che attingeva nel
profondo del cuore.
Una canzone celebrava il primo miracolo, la rivelazione della
Madonna di Polsi.
Un contadino, arando un giorno le pendici della valle benedetta, si
accorse che a un certo punto l’aratro non avanzava più dentro
la terra. Credette che il vomero si
fosse impigliato in qualche robusta radice, e tentò di
estirparlo. Non vi riuscì. Incitò i buoi con la voce e
col pungolo, e quelli caddero in ginocchio, in atto d’adorazione.
Il contadino spaurito e compreso da terrore mistico, sciolse i buoi
dall’aratro, e si mise a scavare intorno al vomere. Esso toccava una
statua della Vergine che da tempo immemorabile, attraverso chi sa
quali cataclismi, era rimasta sepolta nel terreno.
In quel luogo era stato eretto il tempio miracoloso.
I canti lontani delle turbe, gli spari, i fuochi
delle fiaccole e quello spettacolo
mirabile della notte, confortarono il cuore dei nostri
pellegrini.
Cominciarono a ragionare del Santuario di Polsi e di altri della
provincia.
Di tante Madonne che vi sono nelle diverse chiese, -
domandava Caterina - qual è
la vera Madre di Dio? Abbiamo la Madonna nostra, quella di
Pandore, poi abbiamo la Madonna Nera di Seminara, quella
di Polsi e quella di Pugliano. Quale è la vera Madre di
Gesù?
La nostra è la più vecchia - rispondeva Rocco - ed
è la vera Madre di Nostro Signore. Quella di Polsi e quella
di Seminara sono sorelle, e la più giovane delle sorelle
è la Madonna Immacolata.
E quella di Pugliano?
Credo sia anche quella un’altra sorella, ma non sono sicuro.
La più miracolosa però è quella di Polsi.
E qui a gara narravano i miracoli straordinari compiuti dalla
Vergine della Montagna.
Un tale di Oppido Mamertina era venuto al Santuario portato
a braccia dai parenti: per una caduta
da un albero aveva perduto completamente l’uso
delle gambe. La Madonna lo aveva
guarito. Una donna aveva un cancro nelle viscere, glielo avevano
detto i medici d’ogni paese. La Vergine della Montagna l’aveva
guarita, e dopo qualche mese aveva avuto un bellissimo bambino. Un
tale di Caraffa che aveva gli occhi secchi aveva riacquistata la
vista.
O Vergine Santa! - diceva Mariuzza levando le mani verso il punto
dove pensava fosse il Santuario - voi mi farete la
grazia!... Voi me la farete.
Sì, che te la farà, povera figlia! - diceva Caterina -
io ho fatto voto di stare a pane e acqua per tutti i sabati che mi
rimangono di vita, e il mio mangiare in quei giorni lo darò
ai poveri.
Gèsu non parlava; cupo e accasciato seguitava la via accanto
all’asina. Tenendo una mano attaccata alle sottane della
moglie, aveva l’impressione che le
gambe gli fossero diventate di
sughero. Non avvertiva più le piante dei piedi, il senso del
tatto pareva da esse svanito, tanto che spesso perde va
l’equilibrio, e si aggrappava al basto per non cadere.
Verso le due giunsero sui piani di Flavia, davanti San Luca.
Sul pendìo ripido e roccioso dove il borgo
era appollaiato, si scorgevano errare
delle luci; dei lumi accesi occhieggiavano
attraverso finestre aperte, e nel
buio si levavano delle voci
umane lunghe, un po’ lugubri, come richiami di animali
selvatici. Veniva anche il suono di qualche zampogna.
Lasciarono a destra l’abitato, ed entrarono in un vasto orto,
accosto al greto del torrente Bonamico. Dei canali
d’acqua gorgogliavano tra margini ombrosi, sulle prode
dei campi piantati a ortaggi e granturco.
Passarono davanti a un vasto
caseggiato, dal quale giungeva lo scroscio
sonoro di una caduta d’acqua che azionava una segheria meccanica,
per il taglio delle radici di eriche. Col rumore dell’acqua veniva
lo stridere e lo sgretolìo metallico delle seghe che
suonavano contro il legno come campane.
A qualche passo dal fabbricato una piccola carovana composta di tre
persone, due uomini e una donna che portava in mano una fiaccola di
legno di pino, udendo rumore di passi, si
fermò ad attenderli. L’odore sano della resina veniva
con l’aria della montagna che si cominciava
già ad avvertire.
Venite, venite, paesani, - fece
la donna con una voce sonora
e melodiosa, e alzò la fiaccola
crepitante per vedere i sopravvenienti nella luce.
Era una giovane bellissima, snella e forte come una cavallina araba,
col viso ovale, e un profilo ardito che sembrava lucente nel
riflesso della fiamma. Aveva la parlata energica, a scatti e a
inflessioni musicali, caratteristica di quel
paese. I due uomini, d’una
complessione svelta e
gagliarda, erano giovani anch’essi: completamente
sbarbati e con una frangia di riccioli bruni sulla
fronte, portavano calzoni d’orbace, corti fino al
ginocchio, cinture altissime di cuoio,
che coprivano loro tutto l’addome fino al
petto, e un panciotto di panno turchino, aperto sul davanti
completamente.
Salute - disse Rocco portandosi una mano alla fronte.
Salute e bene - risposero i tre pellegrini. - D’onde venite?
Veniamo da Pandore; abbiamo una malata che conduciamo alla Beata
Vergine perché le faccia la grazia.
Tutti tre i Sanluchesi si avvicinarono, guardarono con una certa
curiosità la giovane sposa, splendente di ori nuziali, e
cercarono sulla sua faccia pallida e soave i segni del male che la
teneva.
Che cos’ha? - domandò la donna avvicinandosi
ancora con la fiaccola alzata. -
Cos’avete, bella giovane?
Ha perduto la vista, - disse la Caterina, prendendo
affettuosamente tra le sue una mano della pietosa, - ha perduta la
vista appena sei mesi dopo il matrimonio! È mia nipote, e
quello è suo marito.
La donna di San Luca s’intenerì e
cominciò a compiangerla con la sua bella voce musicale un po’
velata, in un linguaggio pittoresco,
immaginoso, tutto a volate liriche
come un canto. Procedettero in gruppo.
Si entrava ora nella grande vallata di Polsi, e si iniziava
la salita, attraverso il greto ampio e
desolato del fiume. Qua e là, ai margini della pietraia, tra
ciuffi scarsi di marinelle e di
oleandri, si vedevano dei residui di fuochi spenti. In un
angolo un mulo, a dorso nudo,
rosicchiava entro un muc- chietto di fieno:
accanto, con le spalle appoggiate al basto, una pipa in bocca e i
piedi protesi tra grossi ciottoloni, russava un uomo dalla faccia
rossa, quasi congestionata, vestito di velluto, alla cacciatora.
Le carovane dei pellegrini cantavano
nella valle o su per la
salita, tutta occhieggiante di fuochi, e le loro canzoni
e gli spari, tra le grandi pareti arboree, avevano una vasta
risonanza e si propagavano, attraverso gli echi della montagna, con
un muggito lungo di valanghe. L’aria era acuta, con un profumo
particolare, energico e vivificante; anche le
voci, i rumori, il respiro degli
alberi avevano qualche cosa di vasto e di sonoro.
La via ora saliva, a destra del torrente, tra una selvetta di ilici
e di eriche, tutta sparsa di pietroni confitti nel
suolo. Sotto, l’acqua scrosciava tra
grossi macigni. Qualche
uccello notturno squittiva fugato dagli
spari lontani e dalle luci delle fiaccole. Il cielo stellato
brulicava in alto, come un immenso spettacoloso alveare dalle
pecchie d’oro. La salita fu un po’ lunga e penosa.
Dopo un paio d’ore giunsero sopra una spianata, in mezzo alla quale
era un’aia vastissima, tutta circondata da alberi di castagno. Una
cinquantina di pellegrini, uomini e donne, vi si
erano fermati per attendere l’alba. Il cammino dopo
quell’aia era disagevole e pericoloso.
I pellegrini si erano seduti
sulle dune di paglia rimaste ai
margini e, divisi in gruppi, a
seconda
dei paesi di provenienza, cantavano.
Fermiamoci anche noi, - disse la donna sanluchese che aveva esaurita
la provvista di schegge di pino - attendiamo il giorno. - Si
sedettero in un angolo dell’aia.
Il cielo perdeva a poco a
poco il suo polverìo d’astri
minuti, e il chiarore latteo
della notte prendeva ora lentamente
una trasparenza cristallina. A
oriente, sopra il mare che si
scorgeva lontano come un tendone scuro, una striscia di color
rosso fosco, simile allo spiraglio di una fucina, divideva la
linea dell’acqua da un nebbione
di vapori grigi, ferrugigni, che
confondevano il loro colore con quello
spiraglio di fuoco, come un faro sopra una riva lontana.
Un gruppo di donne accanto ai Blèfari cantavano in coro:
E lu prìncipi di Ruccella avia fattu nu bellu gutu.
Era la rapsodia di un portentoso
miracolo operato dalla Madonna di
Polsi, agl’inizî del Santuario.
Il principe di Roccella Ionica,
della famiglia Carafa di Napoli,
trovandosi senza eredi, aveva
fatto voto alla Vergine della Montagna: gli mandasse ella dal
cielo un erede, e dopo un
anno dalla nascita del principino,
egli lo avrebbe portato personalmente
alla Madonna, e avrebbe offerto
al Santuario tanto oro quanto pesava il bambino.
Mi si manda nu bellu figghiolu: a capu all’anno si lu pisa d’oru.
La Madonna esaudì il principe, e proprio nell’epoca della sua
festa la principessa diede alla luce un bellissimo erede.
Le donne cantavano raccolte in gruppo, bocca contro bocca, alzando
la testa come gli uccelli nel garrito, e
sollevando il petto gagliardo. La
melodia religiosa larga, perfettamente
intonata, pareva emanare dalla montagna, derivare dalle
fronde, immedesimarsi con la voce dei boschi.
Cantiamo anche noi - disse la Sanluchese a Mariuzza, e
attaccò con una voce limpida, spiegata,
come lo squillo di una campana d’argento.
Tutti si voltarono a guardare.
Anche Mariuzza si mise a cantare, con il cuore gonfio di
speranza.
Quandu arrivaru a Bovalinu si moriu lu piccolinu.
Narrava ancora la canzone. Il principe,
al volgere dell’anno, in adempimento
del voto, portava in gran pompa il suo erede alla
Vergine, ma a metà della via, a Bovalino, il bambino moriva.
Che fare? Portare il morticino alla Madonna?
Il principe, leale come un
cavaliere antico, portò il piccolo
cadavere al Santuario, diede il peso d’oro promesso
e poscia, posto il bimbo sull’altare, in una piccola bara,
volle fosse cantata una litania alla Madonna per la grazia ricevuta.
Ed ecco, portento inaudito!,
Mentre cantavano la litania lu picculinu chiamava Maria.
Si era fatto giorno, un giorno luminoso e miracoloso! Tutta l’acqua
e le nuvole lontane erano diventate un oceano
d’oro fuso e di fiamma. I castagni
intorno all’aia, i cespugli, la paglia delle dune, fino
i visi e i vestiti erano tinti dai riflessi
mirabili dell’alba. Le cime intorno diventavano di
porpora, in un cielo di un indaco intenso. Un miracolo di luce era
nell’aria.
I pellegrini si alzarono ilari,
ripresero i loro fagotti e
continuarono il viaggio cantando e
scaricando in aria i fucili.
Tutta la valle ora risuonava di
gridi, di canti, di scoppii. I
fedeli s’incalzavano; su per il
pendìo le carovane avanzavano lente,
altre sopraggiungevano incessantemente, e
dal fondo del corridoio montano giungeva, col
clamore dell’acqua, un sordo clamore umano.
Verso le dieci furono in vista del Santuario.
Sotto il cocuzzolo brullo di Aspromonte, in mezzo a una selva
di noci, si levava la chiesa modesta,
in mattoni, di architettura comune, con accanto la mole più
vasta del convento. Intorno, un mareggiare di folla in un polverone
denso e un confuso stridere di suoni d’ogni genere.
Ecco la chiesa, - disse Caterina segnandosi.
O Santa Vergine! - esclamò Mariuzza congiungendo le mani.
Tutti si levarono i berretti e si segnarono.
Per arrivare al Santuario bisognava
fare un sentierolo in discesa,
ripidissimo. L’asina si era
fermata con un respiro profondo,
come se avesse capito che per
quella via non le era più
consentito proseguire col suo carico.
Qui non potrai più andare a cavallo - fece Bruno alla nipote.
Io scendo, - disse Mariuzza - ché ho le gambe tutte
indolenzite... Qualcuno mi dia la mano. - E cercò quella di
suo marito. Ma neppure per mano era prudente farla scendere. Rocco e
i figli si guardarono perplessi.
Come facciamo?... - chiese Rocco.
Come facciamo?... - fece Pietro - ...ecco come facciamo! - Si
levò la giacca rapidamente, e, chinatosi, afferrò la
cognata all’altezza delle ginocchia e se la portò sul petto.
Afferratevi al mio collo, senza paura! Vi porterò con
una mano, perché pesate quanto
una treccia di fichi.
Si misero tutti a ridere allegri e cominciarono la discesa.
Da ogni lato della valle calavano numerose carovane.
Alcune cantavano, altre gittavano dei gridi
brevi e altissimi: «Viva Maria!», altre
scaricavano continuamente i loro
fucili in aria. Anche tra la folla
intorno al Santuario, e nel bosco vicino, gli spari erano
incessanti. Di tra le chiome verdi dei noci salivano continuamente
nuvolette azzurre, a cui seguiva il fragore degli
scoppii. Il fumo s’indugiava un istante tra
le cime, elevandosi in piccoli giri, poi rapidamente dileguava
nell’aria polverosa.
L’impressione della vasta congerie umana che si era
andata radunando in quella valle,
più che dalla vista, poteva essere data
dall’udito, perché l’occhio non
poteva abbracciare con un colpo solo
tutto lo spettacolo, mentre l’udito ne percepiva il
vasto mareggiare, come quello di
una foresta sotto il vento.
Dalle radure oltre la chiesa, dagli orti intorno al convento, da
sotto il bosco dei noci, dalla china del monte, si levava un fragore
di voci, di suoni, di clamori umani, come da una
tempesta. Era un formicolìo allucinante, un
fremito diffuso di gente che andava, veniva, turbinava in
mille e mille circoli danzanti. Le voci dei
rivenduglioli, dei bazzarroti, dei
sorbettai, dei venditori di calia
si confondevano coi canti dei pellegrini, i suoni delle
zampogne, i nitriti dei muli, lo
scoppio dei fucili che crepitavano come
durante una battaglia. E sopra tutto quel clamore
molteplice, discordante, che veniva a
boati, come la vicenda dei flutti, si levava una musica varia di
zampogne, di fisarmoniche, di violini,
di chitarre, di tamburelli baschi.
I luoghi dove si ballava erano migliaia.
La festa di Polsi non ha nulla di quel lugubre scenario di altri
Santuari, dove si radunano i morbi e le deformità di tutta
una regione, in cerca di grazia e di salute. Questa somiglia
più che ad altro, a un immenso baccanale religioso, a una
festa dionisiaca, dove si va come a una scampagnata, tra i monti, e
si mangia, si prega anche un poco, e con fervore, ma soprattutto si
danza. Il ballo è la caratteristica più spiccata della
solennità. In ogni angolo ove esistono
quattro metri quadrati di terra
pianeggiante, sotto ogni noce, una
zampogna, o una fisarmonica fanno
circolo. Intorno si
dispongono dei pellegrini, uomini e donne,
scelgono un maestro di ballo, uno cioè che guidi la danza, -
la quale ha le sue leggi e le sue regole cavalleresche che
possono condurre al sangue in un attimo - e si mettono a
danzare con un ritmo orgiastico, sventolando
le mani, le braccia, i cappelli,
i fazzoletti istoriati con versi
amorosi, gittando dei gridi gutturali acutissimi, come squittire di
bestie selvatiche.
Tutta la valle è un brulichìo e
un trepestìo sonoro. A
guardarla panoramicamente quella folla che salta
per dei giorni e delle notti intere, sotto il sole cocente, sudata,
ansante, con gli occhi infoschiti dall’afa e dalla luce, in mezzo a
un polverone spesso e fumoso, dà l’idea di una specie
d’ubbriacatura panica, di un popolo preso da un morbo sacro. Vi sono
anche i dolori e le deformità umane, ma esse si disperdono
nella vasta gioia della festa,
nell’entusiasmo di una popolazione
pronta al sangue e all’amore, eccitabile,
che accanto a una inesauribile
capacità di sofferenza, ha una
capacità di godimento altrettanto inesauribile.
Per arrivare al Santuario bisognava attraversare il torrente che
schiumava tra pietroni enormi.
Sul ponte, fatto di tronchi di abete e
di terra, alcuni minorati attendevano
al varco i pellegrini che vi affluivano
incessantemente, e imploravano la carità.
Un giovane robustissimo, con una
gran testa riccioluta come quella
di una statua greca, la
camicia aperta sul petto vasto e
bianco, quasi femmineo, si muoveva
rapidamente reggendosi su due stampelle, e tendeva
la mano ai passeggeri con un grido lugubre e petulante.
Mostrava ignuda fino all’inguine una coscia forte
e muscolosa che penzolava inerte,
sebbene non vi apparisse all’esterno alcuna deformità o
malattia.
Per la beata Vergine, la carità a un povero giovane
disgraziato, che non può più guadagnarsi
il
pane. - E correva avanti,
indietro, agitando i suoi riccioli,
puntando le stampelle con la
rapidità di un canguro.
Un altro alzava in aria un braccio legnoso, come quello di una
mummia, in cui le dita, combuste dal fuoco, non avevano più
forma. Un altro che aveva tronche tutte e due le cosce
quasi vicino all’inguine, si era fatta sui moncherini una
specie di rivestitura di cuoio rinforzata di bullette,
e si trascinava a sbalzi, con l’andatura di un rospo,
puntando al suolo le mani munite
di due appoggi di legno.
I nostri pellegrini distribuirono qualche soldo, ed entrarono nel
folto, mentre Rocco si recava al convento, in cerca di fra’
Tartagna - un frate cercatore che praticava a Pandore - per avere un
posticino nella stalla del convento, da far riposare l’asina.
La folla era varia e tumultuante.
Vi erano i rappresentanti di quasi tutta
la provincia: i Sanluchesi vestiti di orbace,
agili e aitanti, coi panciotti di panno turchino e i bottoni
azzurri di acciaio, i riccioli
sulla fronte, le cicatrici delle pustole in
mezzo alla guancia; vi erano i pastori selvaggi di
Solano, coi berretti di lana
muniti di un fiocco, e le zampitte allacciate con
corregge sottili intorno alla gamba, come i
sandali nelle antiche statue; le donne di Bagnara con le
tradizionali sette sottane a piccole pieghe, strette intorno ai
fianchi, e aperte a campana in fondo. Portavano i capelli
spartiti sulla fronte, le trecce
a corona, le camicette di colori vivaci; i
loro occhi color nocciola lampeggiavano come lame. Si
diceva portassero i rasoi nei capelli, e
maneggiassero il coltello più arditamente degli uomini.
E poi i mulattieri di
Platì, i pastori di Natile
sudici, alti, dalla parlata
strascicante; i Benestaresi con
accanto le loro donne dai busti
fortemente colorati; le popolazioni della
marina, vestite di chiaro, e col
volto di un bronzeo particolare; le
Carditane che avevano fama di essere le più abili e
resistenti danzatrici della provincia.
Le adiacenze del Santuario erano
invase dai banchi dei mercanti e
dei rivenduglioli d’ogni
genere.
Alcuni vendevano stoffe, fazzoletti
dai colori vivaci, altri le
zagarelle, piccoli nastri di seta
d’ogni tinta, da legare sul
braccio ignudo come talismano; altri
vendevano medaglie, brevi, immagini,
scapolari. Delle donne vestite di
chiaro, con grandi buccole d’oro
alle orecchie, avevano distesa entro
una sporta di legno di castagno una tovaglia candida, e sopra
avevano versato un mucchio di ceci abbrustoliti. Nel mucchio
affondavano continuamente il piatto di una
piccola bilancia, lo riempivano di ceci che
versavano nuovamente con grida acute: - Calia... Calia... - Altri
vendevano sopra banchi improvvisati i mostaccioli di
Serra San Bruno, in forma di cuori, di
galli, di anfore, di bambole, guarniti con file di
piccoli confetti colorati.
Dei fabbri esponevano sopra una larga tela grigia stesa al suolo i
prodotti delle loro forge: scuri, roncole, roncigli, lame per
coltelli a manico fisso, vomeri, pale e altri arnesi agresti. I
macellai sbraitavano accanto a dei montoni squartati, appesi a
un’asse irta di uncini, e cacciavano con un ramo verde le mosche che
vi si posavano a nugoli, incessantemente.
A tratti dei gridi alti, quasi minacciosi, si levavano di mezzo la
folla: - Largo... largo!... Viva Maria!... - La
calca si apriva tumultuando: tra le
teste umane appariva quella lunata
di un torello o di una giovenca con le corna
ornate di nastrini rossi: un giovane guidava
la bestia tenendola con una corda: due o tre
altri, gagliardi, sudati, ansanti, la
incitavano colpendola coi bastoni o
con la palma della mano sui fianchi.
Erano le bestie che venivano portate in voto alla Madonna.
I Blèfari, non senza fatica, guidando per
la mano la povera Mariuzza, si
portarono al mulino, che era il luogo
dove ordinariamente erano alloggiati i
Pandurioti. Vi trovarono tutto il
locale rigurgitante.
Era un camerone alto, senza soffitto, col tetto a schiena di mulo,
tutto imbiancato sui muri, nelle travi e perfin sulle tegole da
un polverìo di farina. La
grossa macina sotto la tramoggia
era ferma e sopra stavano sedute delle donne. Altre
preparavano da mangiare entro certi tegami di terracotta
comprati sul posto, e appoggiati con gli orli su
grossi ciottoli. Pietro trovò
alcuni emigranti: Cataldo, il figlio di
Passerelli, il Galeoto e Sperlì.
Gli fecero una gran festa,
intramezzando alle parole dialettali
delle parole di un inglese bastardo:
- Gud bay, s’anima becci...
Abbracciarono anche Gèsu facendo tanti auguri alla sua
giovane sposa. Le loro donne erano allegre,
con tutto l’oro disponibile addosso, i corpetti vistosi,
le sottane di seta o di
mussola a fiorami. Dietro la casa era uno spiazzo sotto
un grosso noce, e si ballava.
- Vieni con me, - disse
Sperlì a Pietro, prendendolo
per il braccio, - ti farò
vedere una bella
cosa.
Pietro lo seguì fino al ballo.
Guarda chi c’è là - disse ancora Sperlì, e
indicò la ballerina. Pietro ebbe come un pugno nello stomaco.
In mezzo al cerchio degli
spettatori paesani, una donna aitante,
bellissima della persona, con un
volto pieno e acceso, le trecce nere sciolte su le
spalle, un paio d’occhi grandi e
neri, e una bocca umida, carnosa, luminosa di
denti bianchissimi, ballava movendo i fianchi in
cadenza, e facendo di quando in quando delle
castagnole con le dita.
Era Vittoria Papandrea.
Attorno a lei girava turbinando, annaspando con le braccia,
facendo la ruota come un gallo
in amore, Bruno Ceravolo.
Pietro tornò indietro sconcertato, con la testa in fiamme.
Aveva pregata la Madonna di fargliela dimenticare, e la Madonna lo
aveva esaudito; era ritornato apposta
dall’America per ringraziare la
Vergine dell’ottenuto oblìo, ed
ecco che proprio davanti al
suo Santuario, per la sua festa, egli la rivedeva più
bella e desiderabile che mai, e ogni suo proposito di
rinuncia svaniva: egli si ritrovava
preso dalla sua furiosa passione
per quella donna, che aveva la prestanza e la
lucentezza fisica delle belle giovenche e dei bei cavalli generosi.
Cap. XVI
Quando i Blèfari si provarono a
entrare in chiesa furono quasi
rigettati indietro da un’afa e da un
lezzo umano che mozzavano il respiro. Le tre navate, un po’
anguste per la popolazione che vi
affluiva, erano piene fino all’inverosimile di gente d’ogni specie
che si pigiava, s’incalzava, si spingeva ansando,
urlando a tratti, senza sapere perché, presa da una specie di
delirio.
In fondo, sopra un trono dorato, in mezzo ai ceri accesi, sotto una
specie di baldacchino vistoso e risplendente, era la statua della
Vergine col Bambino in braccio,
ambedue coronati; e intorno a quella
statua la folla ondeggiando pregava, come in attesa di
un evento soprannaturale. Era un
mare di teste grigie o ricciute, dai capelli scarruffati
o lucidi e spartiti sulla
fronte; di visi ansiosi, sudati,
con gli occhi torbidi, umidi di lacrime, le bocche anelanti
che si spalancavano e recitavano versetti, e poi scoppiavano in un
urlo selvaggio.
Largo, largo, - cominciò a gridare
Rocco Blèfari con le mani alzate - largo
che abbiamo una
malata; vogliamo domandare la grazia.
I più vicini si voltavano e faticosamente in quel pigia-pigia
si scostavano facendo posto.
C’è già un muto che domanda la grazia, -
dicevano in giro - un ragazzo...
Avanti... andate avanti. - E guardavano curiosi la malata.
Dopo un lavoro estenuante di gomiti e di grida arrivarono ai piedi
della Madonna.
Un prete nella navata accanto, dietro una specie di ringhiera,
raccoglieva le offerte e distribuiva le immagini sacre, delle quali
aveva davanti diverse pile di varia grandezza e bellezza. A seconda
della entità dell’offerta si riceveva la immagine più
o meno bella.
Il danaro e l’oro affluivano incessantemente.
Un altro prete presso la statua, con la mozzetta e
la stola, recitava la litania
implorando per i diversi malati la grazia.
In quel momento un ragazzo sui
quindici anni, accompagnato dai parenti, -
la madre una donna di Solano robusta, nera, coi capelli ricci e la
faccia grifagna, e il padre un mandriano selvatico, col collo di
toro e la fronte angusta, bestiale, - domandava la grazia. Era
diventato muto perché in una notte di tempesta aveva visto il
lupo in aperta campagna con un agnello tra le fauci.
Chiama la Madonna, figlio mio, chiama la Madonna! - gli diceva la
madre in lagrime - non la vedi come è bella?
Il ragazzo con gli occhi spalancati,
agitando le mani, emetteva un
gorgoglio confuso, muoveva le labbra e levava la testa
verso la immagine con uno sforzo penoso. A ogni
gorgoglio che avesse apparenza di voce i vicini
urlavano:
Ha parlato, ha detto Maria! la grazia, la grazia.
Tutta la chiesa rintronava dell’urlo della folla, che ondeggiava e
si picchiava il petto. Poi riprendeva il ritmo monotono della
litania:
- Mater amabilis, Mater admirabilis, Mater Creatoris...
Chiama, chiama ora la Madonna, figlio, dici: «Maria...».
O Beata Vergine, non mi ascoltate dunque?
- diceva la madre
del mutolo picchiandosi
il petto, con le
lacrime che le scendevano
abbondanti sulle guance - come potete permettere,
o Madre di Dio, che questo ragazzo sia perduto per tutta la vita? -
La sua voce aveva un tono iroso, come di rimprovero.
Prima che la litania fosse finita, un movimento
tumultuoso si produsse in fondo
alla chiesa, la gente che stava vicino alla porta si
agitò, si divise e si udirono delle voci poderose: -
Largo!... Largo! - e dei furiosi colpi di bastone.
Sulla porta apparve, tra la folla che ondeggiava paurosamente, la
testa di un torello, dalla faccia nera, le corna quasi orizzontali
sulla fronte vasta, piene di nastri.
Largo... largo...
Il torello si arrestò un istante, alzò il
muso umido e gittò un
muggito, che risuonò nella chiesa
come lo squillo di un trombone. Due uomini robusti lo tenevano per
una specie di cavezza ai lati della testa.
Non voleva procedere. Altri due giovani che gli stavano ai fianchi
un po’ lo incitavano con gridi gutturali, un po’ gli calavano sulle
costole dei colpi sonori di bastone.
Avanti, largo... largo... Viva Maria!
La folla si apriva lentamente tumultuando, con grida di spavento a
ogni agitarsi della bestia, che avanzava a stento, spaventata da
quella folla urlante, da quelle luci e da
quei gridi: e accennava di quando in quando
a voler cozzare.
Largo... largo! Viva Maria!...
A metà della chiesa la bestia si arrestò, e
alzò la coda per defecare. Finalmente il torello fu cacciato
davanti all’immagine.
Viva Maria!... Viva Maria!...
Il giovane mutolo, coi parenti, si era fatto in un angolo, e
guardava coi suoi occhi spalancati un po’ sofferenti la bella bestia
dal pelo lucido, nero, quasi azzurrino, la giogaia larghissima
e gli occhi sanguigni, che si guardava attorno,
soffiando nelle narici umide e forbendole con la lingua rasposa.
Ora i mandriani e tutta la gente vicina lo incitavano con grida e
con gesti, perché piegasse le ginocchia davnti alla
Vergine.
Ah! Fiorello, ah!... Viva Maria!...
Gli battevano coi bastoni sulle ginocchia, lo
spingevano con le mani, lo
sollecitavano coi gridi e con le carezze. A un
tratto la bestia, premuta da ogni
parte, in mezzo a quell’urlìo
ansioso, chinò la testa, soffiò sul
pavimento, come per una rapida ricognizione, e si piegò sulle
ginocchia.
Un urlo altissimo si levò nella chiesa, come un boato, che
fece tremare i vetri.
Il miracolo, il miracolo!...
Era il riconoscimento della divinità da parte della natura
bruta, della bestia sacra del presepio e dell’aratro.
Viva Maria!... Viva Maria!...
Il giovanetto mutolo, come un ossesso ruppe in un grido di bestia
ferita, e con due occhi sbarrati pieni di un misterioso spavento,
balbettò anche lui:
Maria... Maria!...
La vista di quel torello che s’inginocchiava
davanti alla sacra immagine, e
il clamore altissimo della folla, gli avevano sciolta la
lingua.
Maria... Maria!... - gridava il
ragazzo agitando le braccia come
un ossesso: - Mamma...
Maria!... - E respirava
affannosamente come se lo avessero
immerso in un’acqua profonda, e lo
avessero tratto fuori dopo avergliene fatte ingoiare alcune boccate.
Il padre lo prese in braccio e lo alzò sulla folla;
stralunato anche lui, con la sua grossa faccia bestiale che aveva
preso un aspetto di terrore infantile, mentre la madre
piangeva con una invocazione lugubre: - Figlio... figlio!...
benedetto figlio!...
La folla era caduta in ginocchio,
singhiozzando, picchiandosi il petto,
implorando grazia. Tutti gli occhi erano torbidi,
lacrimosi e spaventati, rattristati da
una sofferenza misteriosa; i volti
congestionati e anelanti come di uomini in corsa.
Alcune donne, prese da un subitaneo furore mistico, si strappavano i
capelli, o si laceravano con
le unghie il volto; altre svenivano abbiosciandosi pallide come
steli appassiti. Una giovane in
fondo alla chiesa, presa improvvisamente dal male sacro,
sbatteva le braccia furiosamente intorno, con
un sinistro stridere di denti.
Il sole, riversandosi in grandi fasci dai finestroni, investiva
trionfalmente gli ori e le stoffe del baldacchino; e il volto della
Vergine sormontato dalla corona, brillava tra
i ceri come un astro, col suo
sorriso immutabile e paradisiaco.
Grazia... grazia! - gridava la folla da ogni parte della chiesa; e
si sospingeva a onde come un’acqua agitata.
Lo spettacolo era terribile e inebriante! Volevano ancora delle
grazie; il senso della divinità presente e
operante aveva messo in delirio quelle anime semplici e primitive.
Domandiamo noi la
grazia - disse
Gèsu pallidissimo, coi
capelli incollati sulla fronte
gocciolante di sudore. E prese sua moglie per la mano spingendola
verso la statua.
Il prete in mozzetta cominciò a ricevere sopra un piatto
d’argento gli ori nuziali.
Gèsu con una delicatezza appassionata staccò dalle
orecchie della cieca le rosette d’oro. Poi gli anelli, la crocetta,
un fermaglio ad arabeschi, tutto fu deposto nel piatto.
Desidero riscattarli a qualunque prezzo - disse Gèsu al
prete. Quello accennò di sì con la testa,
meccanicamente.
Cosa ha quella giovane? - domandavano intorno nel tumulto, guardando
il viso pallido di Mariuzza, e il suo collo bianco, sottile, segnato
dalla macchia rossastra di una larga empetiggine sotto
l’orecchio.
È cieca... - rispondeva
Caterina asciugandosi gli occhi -
...è diventata cieca appena sei
mesi
dopo il matrimonio. Quello è suo marito, un bravo giovane,
è stato in America.
Cara mia! Povera giovane!... - si udiva mormorare. - Vedrete che la
Madonna le farà la grazia.
Quando gli ori furono deposti tutti, il prete
ordinò alla malata e ai parenti che
s’inginocchiassero, e cominciò a recitare con una grossa voce
nasale le litanie.
Recitate con me, bella giovane, - disse a Mariuzza - recitate
con me: Sancta Maria, Sancta Dei
Genitrix, Sancta Virgo Virginum.
Ora pro nobis - rispondeva il popolo in coro, picchiandosi il petto
con un rumore molteplice, come quello di un armento che cammini
sopra una strada polverosa.
Mater purissima... Mater castissima... - seguitava il prete, e
dietro a lui Mariuzza ripeteva con un fil di voce, inginocchiata
accanto a suo marito, tra i suoi
parenti, con gli occhi ben
rivolti verso il punto dove credeva si trovasse
l’immagine.
La sua faccia era di un estremo pallore, e
sulle guance, verso le mascelle,
la pelurie castana della pelle le si era sollevata come
per il rezzo della quartana. Nel
buio che le turbinava intorno, tra
quelle voci molteplici, rauche, dolorose, quei
respiri agitati, quella specie di
trepestio che producevano gli uomini e le donne
picchiandosi il petto, ella avvertiva come
un muovere di immense ali. La
divinità quale se l’era immaginata in tanti anni di
adolescenza, attraverso le fantasie popolari; quella
specie di mitologia cristiana che
popola di angeli la casa, di
anacoreti le spelonche, di anime
purganti le vecchie mura diroccate, e di spiriti
folletti i crocicchi delle vie, le lampeggiava ora sul capo corrusca
di luce, di ali d’angeli e di baleni. Si sentiva
come sperduta, come una foglia
in un turbine, sotto il mormorio
di quel prete che invocava la Vergine nei suoi innumerevoli e
preziosi attributi, e le sembrava che il ritmo del suo cuore fosse
lì per arrestarsi sotto lo scoppio di una voce potente. Gli
occhi el formicolavano, un tremito le scuoteva tutta la persona.
Rocco e Gèsu pregavano annichiliti anch’essi, con gli occhi
fissi nel sorriso della Vergine che
pareva respirasse, vivente. Caterina e Varvaro, rispondevano: - Ora
pro nobis - con le mani in croce sul petto.
A metà della litania il
prete si arrestò, porse a
Gèsu un cero dipinto e
gli fece cenno che lo
passasse a sua moglie.
Accendete quel cero, bella giovane, provatevi ad accenderlo.
Prova se vedi ad accendere questa candela, - disse Gèsu
amorevole alla moglie - se la Madonna ti apre gli occhi.
Grazia, Vergine mia! Grazia! - faceva con
voce strozzata dall’orgasmo Mariuzza... e allungava il cero verso i
lumi accesi davanti alla Vergine, senza rendersi conto di
quello che facesse. Ma se avveniva che la
punta della candela per caso si avvicinasse a una fiammella, un urlo
formidabile partiva dalla folla.
Miracolo! miracolo... Vede già... Viva Maria! Ha acceso il
cero da sé.
Mariuzza girava la testa appena, come intontita in mezzo a quel
fragore, e l’ombra in cui era immersa
si faceva sempre più fitta.
La litania riprendeva: - Rosa mistica, Turris davidica, Turris
eburnea...
Alla fine della litania l’esperimento della candela fu ripetuto.
Mariuzza, per una strana combinazione, dopo aver
errato un istante qua e là col cero proteso, lo
avvicinò a una fiammella e il
lucignolo prese fuoco.
Il miracolo, il miracolo! Vede... le si aprirono gli occhi!
La folla ansava. Anche Gèsu credette che la moglie avesse
veramente ricuperata la vista, e la
interrogò con la gola arsa: - Vedi, Mariuzza, vedi? - Ma
la giovane gli si rivolse con
un volto così desolato che gli fece gelare il
cuore.
La Madonna non mi fa la grazia... - ripeteva la poverina - ...la
Madonna non mi fa la grazia.
Pregala, figlia mia, - esortava Caterina - pregala la Madonna,
chiamala... ora che i celesti sono
aperti.
O Vergine Maria, - cominciò
con una voce strana Mariuzza -
ascoltatemi, aprite le vostre
mani! Sono venuta da voi con tutta la fede e non partirò di
qua se non mi avrete esaudita. Guaritemi, Madonna benedetta, e
guarite anche il mio povero marito, che ha sempre cantato per voi
nella chiesa.
Poverina! Disgraziata giovane! - mormoravano intorno le
donne - prega per suo marito; ha più
pietà di lui che di se stessa.
Prega per te, figlia, - esortava Caterina - tu hai più
bisogno di lui...
Il lamento di quella donna giovane, nel silenzio ansante della
chiesa, aveva un non so che di
lugubre e di tragico.
Il popolo ansioso attendeva, non voleva
persuadersi che quella sposa desolata,
con quella faccia da Madonnina sofferente e quella gran
corona di capelli in testa dovesse ritornare
a casa sua senza ottenere la guarigione. A poco a
poco insensibilmente, quasi trascinati da un impeto
irresistibile, tutti i presenti si misero a
implorare, ad alta voce: - La grazia, la grazia, Vergine benedetta,
fate la grazia! - E la voce del popolo si levava quasi
minacciosa, le mani alzate avevano gesti terribili, e
la preghiera sembrava quasi un
rimprovero a Dio: «Non la
vedete, o Vergine, com’è bella,
com’è giovane; perché gliel’avete data la
gioventù, perché le avete
dati gli occhi? L’uomo senza
occhi è come morto! Meglio era farla
morire. La grazia, la grazia! Si è sposata ch’è poco;
ancora davanti alla sua casa vi è il grano che le hanno
lanciato mentre attraversava la soglia; come potete
permettere questo, Ma donna Santa, Madre di Dio,
come potete permettere?».
La Vergine impassibile, nel suo
eterno sorriso pareva guardasse su
quella turba raccolta, con
una letizia sconosciuta al cuore dei mortali, una letizia che si
armonizzasse con la luce del
sole, con l’azzurro dell’aria, col verde dei boschi, e non
avvertisse o ignorasse il terribile dolore degli uomini.
Il prete impaziente ammoniva: - Andiamo, andiamo...
È l’ora della processione. La
Madonna non vi ascolta, povera giovane, non dispone di grazie per
voi.
Prima del vespro la Vergine era abitualmente portata in processione.
I nostri pellegrini si confusero, tristi, annientati, nella folla,
mentre fuori crepitavano incessantemente le
fucilate, e i suoni della danza assordavano
l’aria.
Cap. XVII
Pietro non era coi suoi dietro la processione.
Era sparito subito dopo l’entrata in chiesa, e dopo avere consegnato
al prete che stava dietro la ringhiera un biglietto da cento, che
costituiva un voto da lui fatto in America alla Madonna.
L’immagine di Vittoria lo perseguitava. Quegli occhi grandi e neri,
lampeggianti, quel viso giovanile, acceso dalla danza, e quel corpo
magnifico che si moveva in cadenza con
piccoli passi, gli stavano davanti agli occhi come il
barbaglio violetto del sole a chi osa fissarlo in pieno.
Uscì dalla chiesa, facendosi largo con le sue braccia
erculee, e quando fu all’aria libera
gli sembrò che un peso gli si fosse levato da sopra il petto.
Errò intorno ai banchi dei rivenditori, tracannò d’un
sorso un bicchiere di orzata, per calmare la sete che lo
divorava, comprò dei nastrini
rossi e azzurri, poi si cacciò
nel folto dei balli come
inebriato, seguendo meccanicamente il
ritmo dei danzatori, la nenia
delle zampogne, il tintinnare dei
tamburelli che venivano agitati
nell’aria a centinaia.
Sapeva che le Carditane erano le più famose danzatrici della
Calabria, e cercò un luogo dove
ballasse una coppia di quel paese.
Dopo un lungo giro ne rinvenne una. Sotto un albero maestoso di noce
si era formato un largo circolo intorno a una zampogna.
Il suonatore era un uomo tozzo, con la faccia larga
sbarbata, il collo gonfio oltre
la linea delle guance nello sforzo del soffiare, e due
occhi congestionati. Portava alle orecchie
degli anellini di metallo dorato. Si stringeva sul
ventre un enorme otre dal quale pendevano
cinque canne traforate di diversa lunghezza: due
oltrepassavano tutto l’otre e gli arrivavano ai ginocchi:
due erano più corte e l’ultima, a
forma di un piccolo oboe, senza fori, emetteva un sola nota, tenuta,
d’un suono nasale come una specie di nota base. Le dita del
suonatore si muovevano con una vicenda quasi uniforme sui buchi
delle due canne medie, il suo capo e la
testa oscillavano in cadenza secondo il
ritmo del suono, come quelli di un fantoccio meccanico. A intervalli
apriva le labbra intorno al cannello,
aspirava profondamente, poi le richiudeva e il collo gli si
gonfiava, rigato di grosse vene, nello sforzo.
Accanto a lui un giovane pastore, con una barba nera e crespa, tutta
inalbata dalla polvere, come
un cespuglio sul margine di una
via carraia in piena estate, un
fazzoletto bianco legato al collo,
batteva
il ritmo su un tamburello largo
quanto uno staccio da farina,
tenendolo vicino all’orecchio come per
gustarne l’accordo.
In mezzo al cerchio una coppia ballava.
La donna, piccola, bruna, di bei capelli neri, aveva una faccia
larga, con forti mascelle, il mento aguzzo, due grosse ciglia
nerissime, e un’espressione del volto
seria, quasi arcigna. Un busto
di un cupo arancione, stretto dietro le spalle da
un lungo laccio turchino, passato
attraverso una doppia fila di asole spesse e
minute, le serrava un petto sodo e potente, un po’ sproporzionato
alla piccola taglia della sua persona. La camicia era bianca,
abbottonata sotto il collo e ai polsi, la sottana di fustagno
turchino a piccole pieghe, stretta intorno al cinto, si allargava a
campana, e ondeggiava nel ritmo della danza.
Ballava scalza, con dei piccoli piedi larghi,
impolverati, e teneva costantemente
gli occhi bassi, con la serietà di chi compie
un rito religioso. Ogni tanto li
alzava in faccia al ballerino
arditamente, come per un invito, con un
lampeggiare e un socchiudere
seduttivo, poi li riabbassava, e
seguitava la sua danza semplicissima. I piedi, l’uno
davanti all’altro, schizzavano dei
passetti brevi nella polvere, le mani si
appoggiavano sui fianchi, ora con le palme ora
col dorso, le braccia s’incurvavano
ad arco come quelle delle anfore, il corpo oscillava lento,
con movimenti voluttuosi dei fianchi e
delle anche. Alcuna volta le mani sollevavano pei lembi un
piccolo grembiule rosso, e lo tendevano verso il danzatore,
come per ricevere un’offerta; altra
volta rapidamente si levavano in
aria, e facevano schioccare le dita, con un movimento
incitante, come si usa coi cani per invitarli alla caccia.
La danzatrice seguitava impassibile, senza un segno di stanchezza.
Il suo petto forte ansava appena; la sua bocca
seria, carnosa, leggermente aperta, mostrava dei denti grossi e
bianchi, come mandorle sbucciate; sulle sue guance brune e
sode, d’un bel color dorato come
quello del pane nel forno, scendeva di quando in
quando una grossa goccia di sudore, che arrivava sino al collo;
altre gocce le scendevano sulla nuca da entro i folti capelli.
Ballava dalla mattina, e aveva stancati quattro uomini.
Il ballerino invece sembrava morso dalla
tarantola; scamiciato, con al
collo un fazzoletto bianco, tutto istoriato con
filo rosso di versi amorosi, il viso grondante di
sudore, gli occhi torbidi, balzava con mille
sgambetti e mulinelli intorno alla donna,
dimenando la testa come per
fissarla negli occhi, mettendole attorno al capo le braccia a
corona, facendo con la mano il
gesto di chi traccia un circolo intorno
all’oggetto amato, per indicarne il possesso
esclusivo. E poi girava su se
stesso come una trottola, preso da una specie di delirio, e
batteva le palme, e cacciava dei
gridi acuti, come lo squittire di una bestia
selvatica. Quando un ballerino aveva danzato per un certo tempo,
l’uomo del tamburello che funzionava da maestro di ballo, si
levava in piedi, faceva un po’
al largo un giro di danza e con un
cavalleresco inchino congedava il danzatore, per invitare un altro
della brigata.
La Madonna era già uscita dalla chiesa e le grida di
«Viva Maria» e gli spari dei fucili assordavano l’aria.
Da ogni angolo si udivano rombare gli scoppii, e l’aria era
piena di fumo e di quel caratteristico odor di salnitro che lascia
la povere nera.
Pietro stette un pezzo a osservare quella danza, col cuore in
tumulto e la testa vana. Un desiderio
irresistibile lo trascinava verso il mulino, per rivedere Vittoria,
e una misteriosa paura lo respingeva lontano da
quella donna. Donando alla Vergine
la sua offerta che avrebbe dovuto
propiziargli l’oblìo, egli sentì che il suo cuore
profondo non si adattava a quella rinuncia,
anzi vi si ribellava, e disse alla Madonna: - Datemi
forza, Santa Vergine, datemi forza!
Finalmente lasciò la danza e
si avviò con il cuore
nero, la testa in fiamme, e
un oscuro
presentimento che gli prediceva
sciagura, verso la casa ove
erano alloggiati i Pandurioti. Quando
giunse davanti al mulino esso
era deserto. I Pandurioti erano
o fuori a vedere la processione
che avanzava lentamente tra spari e canti, o dietro la casa. Pietro
si fermò un istante ad ascoltare il rombo dell’acqua che
scrosciava accanto al fabbricato, poi andò verso
il luogo del ballo. Vittoria
danzava di nuovo con Bruno Ceravolo. Come gli sembrava
bella, Vergine Santissima, con quella
sua facciona rosea animata dal calor della danza: la bocca
larga, umida, dalla quale il riso
sgorgava come un getto d’acqua, e gli occhi
luminosi!
Il consueto malessere fisico che egli soleva avvertire al
pensiero di quella donna, gli tornava
ancora: gli si annebbiavano gli occhi come per un
soverchio afflusso di sangue, il cuore gli si gonfiava, e tutto il
suo corpo sembrava un arco d’acciaio, teso all’estremo da
una mano poderosa. A un tratto
Vittoria, stanca, lasciò il ballo e, asciugandosi il volto
con una pezzuola, s’avviò verso
l’entrata del Mulino.
Ansava forte: sulle tempie aveva delle piccole gocce di sudore; la
bocca sana, voluttuosa, sorrideva soddisfatta.
Quando vide Pietro sulla soglia
gli andò incontro con una
espressione di gioia e di sorpresa
negli occhi.
O Pietro! Siete anche voi qua? Non mi parlate nemmeno? Lo prese per
un braccio e lo trascinò quasi entro il mulino.
Quando siete tornato dall’America? Io non vi
avevo visto, non sapevo niente,
io. Noi siamo alla Gnura Duvica per curare i fichi e la
vigna. Non vediamo mai nessuno. Come vi siete fatto bello e
forte!... Sembrate un medico.
E rideva davanti
all’imbarazzo del giovane
che la guardava imbambolato,
come l’uccellino
guarda il serpente che lo incanta e lo rende immobile sul ramo.
Sono tornato due sere fa, - disse Pietro - quasi non sono neppure
stato in paese. Siamo venuti con mia cognata alla Madonna per
chiedere la grazia.
Già, poveretta! - fece Vittoria con un senso di rammarico
fugace - l’ho vista! Che castigo di Dio! E adesso dove sono i
vostri?
Li ho lasciati in chiesa.
Oh! Pietro, come sono contenta di rivedervi!
Aveva messe le mani in un cartoccio, e
aveva tratto fuori un mostacciolo
in forma di galletto, che addentò per la
testa.
Ne volete, Pietro? Perché mi guardate così? Mi tenete
il broncio perché non vi ho atteso? Eh!
questo era il mio destino, Pietro mio! «Matrimoni e vescovati
dal cielo son calati...».
È vero, - fece Pietro con un sospiro - è vero! Ma io
mi sento la testa che mi va via... Io vi ho nel pensiero ancora come
quando partii per l’America, e questa
mattina, quando vi vidi ballare
sotto il noce, credetti che la terra mi mancasse sotto i
piedi.
Era pallidissimo, e parlava con
gli occhi bassi, le mani nelle
tasche dei calzoni dondolando
amaramente la sua grossa testa cavallina.
Povero Pietro! Ma anch’io vi voglio bene, specialmente ora che
siete vestito da galantuomo. Venite qua, sedetevi
vicino a me e raccontatemi qualche cosa dell’America.
Vittoria rideva allegra, canzonandolo un po’, come faceva sempre con
lui, divertendosi ad incoraggiarlo, con le sue
prepotenti seduzioni di donna giovane,
esalante un profumo carnale che dava
alla testa.
Bene, - disse Pietro - oramai quello che è fatto è
fatto. Ma voi siete contenta, siete felice?
Io? - rispose la giovane. - Che mi manca? Sono nel bene, nella
ricchezza, non desidero altro. Pietro sospirò profondamente.
E voi non pensate a sposarvi ora? - chiese Vittoria. - Dovete avere
portato anche dei soldi dall’America.
Sì... ne ho portati; ma non mi servono. Io avrei voluto
guadagnarli per voi... - E fece una faccia così strana
che Vittoria scoppiò in una
risata sonora, spruzzando fuori dalla
bocca un getto di mostacciolo masticato.
E se io vi volessi bene, Pietro, che direste voi? - fece la donna
avvicinando la sua alla testa del giovane.
Se mi volete bene, - disse Pietro - anche un pochino, lasciate che
vi leghi sul braccio il nastro rosso che ho comperato apposta.
Quando starete con Bruno Ceravolo vi ricorderete di me.
Perché no? - disse Vittoria; e sbottonandosi la camicia al
polso si rimboccò la manica fino all’ascella, mostrando
un braccio magnifico, carnoso, dalla pelle bianca, cosparsa di
una leggera peluria bionda.
Ecco, legatemi il nastrino; vi voglio far contento.
Pietro davanti a quel braccio nudo, a quella carne calda,
desiderata, ebbe come un impeto selvaggio; ma si trattenne. Trasse
dalla tasca un nastrino rosso, e avvicinando le
mani tremanti a quel braccio bianco, ve lo
passò attorno e lo annodava
lentamente, turbato sino allo spasimo
dal contatto della pelle calda, morbida come la buccia
di una pesca. Nell’annodare il
nastro si chinava sempre più verso il
collo e il petto di Vittoria con gli occhi avidi.
Il petto si sollevava magnifico
nel ritmo del respiro esalando un profumo caldo,
un po’ acre. Nel cavo della
clavicola si vedeva palpitare l’arteria, con
una vicenda larga, potente e un leggero movimento dell’epidermide.
Vittoria mangiava e sorrideva guardando verso la porta.
A un tratto gli occhi di Pietro incontrarono i suoi. Si guardarono
un istante. La donna aggrottò le ciglia folte, con la
significazione di un invito: i suoi occhi parevano
illanguidirsi sotto l’azione di un desiderio
improvviso e acuto. Piegò la testa e porse la bocca. Pietro
l’afferrò con ambe le mani dietro la nuca, e la baciò
con furore, a lungo, respirando forte, con un piccolo lamento di
sofferenza.
Un grido rauco li fece trasalire. Si voltarono verso la porta e
videro Ceravolo.
Ah! bagascia! - ringhiò il massaro col pugno teso, gli occhi
selvaggi - sei la vera figlia di tua madre! Ma io ti scanno. Prima
lui e poi te.
Dalla cinta dei calzoni corti estrasse rapidamente un coltello
a foglia di olivo, con un manico
d’osso lavorato, e si precipitò su i due che ancora si
tenevano per mano.
Pietro non aveva armi, ma non si scompose.
Quel bacio lo aveva inebriato come una
coppa di vino vecchio profumato di garofano. Si sentiva quasi
contento di misurarsi col suo rivale, anche senz’armi; ora che
sapeva di essere, sia pure in minima parte,
entrato nel cuore della donna
che lo aveva fatto per tanto tempo delirare, si sarebbe
battuto con un leone e lo avrebbe vinto.
Spinse la donna lontano, dietro la tramoggia, e cercò intorno
qualche cosa per difendersi.
Non vi era nulla, neppure un pezzo di legno.
Rapidissimamente risolse di affrontare il rivale con le mani e
disarmarlo.
Come Bruno gli era sopra col coltello alzato, soffiando come
un gatto, con grida rauche, Pietro
protese le mani in atto di difesa, e mentre
con l’una parava i colpi che
quello gli avventava continuamente, con l’altra cercava
di agguantarlo per togliergli l’arma. Vittoria ansante,
pallidissima, rannicchiata in sé, con gli occhi spaventati
mormorava:
- Focu meo... focu meu!
A un tratto nella strada scoppiò un urlo
formidabile: - Viva Maria! - e
una potente scarica di fucili fece tremare la
casa.
Pietro ebbe un istante di
disorientamento. Bruno Ceravolo che
gli balzava intorno con l’agilità di
un felino si fece sotto sul suo fianco e gli cacciò il
coltello nella milza fino al manico.
Il giovane barcollò, portandosi le mani nel posto dove aveva
ricevuto il colpo, e cadde in ginocchio. Poi vedendo che
Bruno, sicuro di averlo finito, si
lanciava contro Vittoria, balzò
ancora in piedi e si buttò con tanto impeto sul rivale,
che ambedue ruzzolarono al suolo
abbrancati come due mastini in lotta.
Vittoria aveva avuto modo di saltar fuori, e si era messa a gridare
come una pazza.
Accorrete, accorrete, cristiani! Si ammazzano!
La via davanti al mulino rigurgitava di gente che precedeva la
statua della Madonna. La Vergine era a una
cinquantina di passi. Portata a
spalla da venti pellegrini
robustissimi ondeggiava lentamente su quel mare di
teste, tutta luccicante di ori e di sole, col suo sorriso
impassibile e il suo occhio fisso sul popolo.
Viva Maria... viva Maria!...
Accorrete, cristiani, accorrete!
- gridava Vittoria,
e fuggiva terrorizzata
verso la folla rigurgitante. I Pandurioti
che stavano intorno al mulino accorsero per i primi.
Nel mulino una scena terribile si offerse ai loro occhi.
Bruno Ceravolo aveva avuto rapidamente
ragione del ferito, e con un
furore bestiale lo aveva crivellato di colpi.
Pietro, con la camicia tutta
squarciata sul petto, e il
sangue che sgorgava a fiotti sul
lastricato, rantolava appena, con le braccia aperte in croce e
abbandonate.
L’omicida, alla vista di tutta quella gente, tentò fuggire,
ma fu agguantato e malmenato.
Chi è che è morto?
Pietro Blèfari... il figlio di Rocco.
Era venuto da due giorni dall’America, disgraziato!
Perché l’ha ucciso?
Le domande e le risposte s’incrociavano, si levò
qualche voce di pianto. La folla
davanti alla porta si accalcava e tumultuava, tutti volevano
vedere, domandavano il motivo della rissa.
Un folto gruppo si era fatto vicino a Vittoria che piangeva
tremante come una foglia.
Chi l’ha ucciso? Di che paese sono? Perché l’ha ucciso?
Queste domande si udivano da ogni parte.
Le zampogne dietro la casa si erano taciute e i danzatori si erano
riversati sulla porta del mulino.
Largo, largo... - gridava Nino Sperlì vicino al
ferito - ...non vedete che non è morto? Respira ancora!
portiamolo fuori.
Lo presero in quattro per le braccia e per le gambe e lo adagiarono
fuori sull’erba dietro la casa. La processione avanzava lentamente.
Intanto vennero i carabinieri.
Si assicurarono subito
dell’omicida, che come
istupidito teneva ancora stretto il
coltello in mano, e domandarono la causa della rissa.
Questioni di donne, signor maresciallo, - disse Sperlì -
questione di donne.
E dov’è la donna?
Eccola - e indicarono Vittoria che piangeva in mezzo a un gruppo di
forestieri.
I carabinieri presero anche lei
e la menarono via, mentre due
di essi rimanevano a guardia del
morto.
Poiché in quel momento la
Madonna giungeva davanti al mulino,
i Blèfari, che accasciati
seguivano la statua, pensarono di fermarsi.
Come Rocco vide un rimescolìo tumultuoso di gente, e
udì che si parlava di un morto, si avanzò con un
misterioso presentimento funebre.
Un morto, - domandò - e dov’è? - e tentò di
avvicinarsi al luogo dove la calca era più folta. La folla si
aprì e due carabinieri uscirono trascinando con sé
Bruno Ceravolo. Seguivano altri due che accompagnavano, ammanettata
anch’essa, Vittoria Papandrea.
Al povero Rocco parve si aprisse la terra sotto i piedi.
Disgrazia mia! - urlò picchiandosi due pugni sulla testa - il
morto è mio figlio!
Dove andate, Rocco, dove andate? - facevano piangendo
molti Pandurioti, e lo afferravano per le braccia. - Ascoltate un
momento, venite qua.
Ma il vecchio si cacciò avanti come un folle a testa bassa.
Gèsu, non andate... venite qua - dicevano altri al fratello
del morto.
Altri compiangevano Mariuzza, che
pareva non avesse più sangue
nelle vene tanto era pallida e
disfatta.
Beata lei che non vede, povera creatura! Che dolore, che disgrazia!
Altri commentavano spaventati
la fine di Vittoria.
Era in tutti il
ricordo terribile della
maledizione materna.
Avete visto? - dicevano le donne - Dio liberi! La maledizione
di sua madre la colse come un fulmine a ciel sereno. Iddio non paga
il sabato, ma è buon pagatore.
«Che tu non goda la tua giovinezza», aveva detto la
madre, ed essa non l’avrebbe goduta.
All’altro aveva augurato il fondo di una prigione, ed ecco che Iddio
l’aveva esaudita. Non importava se Porzia era anche lei una
peccatrice; il Signore rende giustizia anche ai peccatori.
Nel cielo d’oro di quel
pomeriggio, in mezzo al fragore
della festa, lassù dove l’azzurro
immutabile guardava come un immenso occhio sulle cime dei monti
e sulle case e sulle vite degli
uomini, una presenza serena e terribile regolava gli
eventi umani, e distribuiva i
castighi secondo le leggi di una suprema giustizia.
Quando Rocco si trovò di fronte al figlio
già spirato, e lo vide
col suo gran volto esangue, la bocca
inerte, gli occhi aperti e spenti, e una espressione di dolore quasi
infantile, cadde in ginocchio e picchiandosi il volto con ambe
le mani urlava:
Figlio... Figlio... bandiera mia! Giovinetto
mio! Sei venuto dall’America per
cercare la morte... ti hanno assassinato, sei
insanguinato come Cristo.
E gli toccava delicatamente il viso come se avesse avuto paura di
svegliarlo, lo accarezzava sui capelli, e gli cercava cogli occhi le
ferite attraverso la camicia squarciata in più parti, sulla
quale qua e là si vedevano dei piccoli grumi di sangue.
Le lagrime gli scendevano grosse
a rigagnoli sul volto adusto, e cadevano sulle
mani, sul petto, sul viso del morto.
Rocco, Rocco, alzatevi... andate via di là; volete morire
anche voi? Se son castighi di Dio cosa
ci volete fare? - I paesani lo esortavano; ma egli irato rispondeva:
Volete portarmi via mio figlio senza che lo pianga?
Nel mulino, Gèsu, davanti al lago di sangue che aveva
lasciato in terra suo fratello svenne, e dovettero
spruzzargli dell’acqua fresca sul volto e riportarlo all’aperto.
Mariuzza piangeva forte, ad alta voce, chiamando il cognato,
e accomunando la sua disgrazia a
quella del povero giovane spento così tragicamente nel fiore
della sua giovinezza. I Varvaro annichiliti, stralunati
si guardavano in viso come per chiedersi donde venisse
tanto dolore su quella povera casa dei Blèfari, nella quale
essi erano andati a cacciare la loro pupilla.
Dio mio, in che casa l’abbiamo messa, - diceva Caterina tra
sé - sembra che una maledizione del cielo lavori a
distruggerla! E pure Rocco è stato sempre un buon lavoratore,
e la sua povera donna era una santa. Perché, caro mio Dio,
perché tanta neve sopra un monte e tanto dolore in una casa?
La processione era passata e si udivano lontanare le grida della
folla e gli spari dei fucili.
Alcune carovane sul pendìo
della valle lasciavano il Santuario
lanciando delle immense grida
corali:
Viva Maria!
Cap. XVIII
Passò settembre e sopraggiunse l’autunno, un autunno triste
quell’anno, con molti temporali che spezzarono gli olivi e fecero
straripare i torrenti.
Nella casa dei Blèfari si passava di desolazione in
desolazione.
Gèsu cominciò col perdere l’uso delle
gambe e finalmente coi primi
dell’inverno si mise a letto, con la parte
inferiore del corpo completamente immobilizzata.
Mariuzza, cieca com’era, non poteva
assisterlo che poco, e piangeva
tutto il giorno accanto al
letto del marito. In paese si guardava
quella casa con una specie di
misterioso terrore, e si mormoravano cose strane
intorno alla malattia di Gèsu. Non si sa come,
era trapelato che quella malattia il giovane
l’aveva presa in America, da una donna di laggiù,
e per quella dose di moralità
farisaica che risiede in tutti gli uomini, anche nelle anime
semplici, i commenti diventavano malevoli.
Qualche volta essi arrivavano alle orecchie di Mariuzza, ed
essa si addolorava più di
quelle dicerie che della sua cecità.
Calunniavano il suo povero marito, che soffriva nel letto come un
santo.
I Varvaro avrebbero voluto riprendersi la nipote e allontanarla da
quella casa, sulla quale sembrava pesare un destino terribile,
ma quando provarono a tastare il terreno presso Mariuzza, si
accorsero che la cosa sarebbe stata impossibile. La povera giovane
amava suo marito di un amore così assoluto e rassegnato, che
avrebbe finito con l’odiare anche loro, se
avessero tentato di staccarla dal povero
malato.
Gèsu era come imbecillito, diventava ogni giorno più
debole e piagnucoloso come un
fanciullo, aveva bisogno di aiuto ogni momento; per rigirarsi nel
letto, per aggiustarsi i cuscini dietro il capo,
per scacciarsi le mosche, per fare i propri bisogni.
Mariuzza gli stava sempre accanto, e con una piccola ventola fatta
di certi ritagli di carta infilati nella spaccatura di una canna,
gli scacciava a tentoni le mosche che,
specie nelle giornate di vento, erano
petulanti e lo facevano spasimare.
Gèsu... come ti senti oggi?
- gli chiedeva invariabilmente la
povera cieca. - Fatti coraggio,
bene mio, fatti coraggio.
Il malato, sebbene la sua volontà si affievolisse
ogni giorno di più, si
sentiva come strozzato dalla passione che gli mettevano
in cuore quelle parole.
Quello che resisteva alla tempesta era Rocco.
Come uno di quei tronchi poderosi di quercia che il
fulmine colpisce, e l’incendio divora,
e i pastori privano dei rami sulla montagna,
eppure a ogni primavera mettono
fuori i loro polloni verdi, così
Rocco rimaneva sulla breccia lavorando
per tutti, provvedendo la casa
di grano, di legna, di frutta e di
verdura. Non aveva smessa una delle sue abitudini.
All’alba era in giro con la consueta cesta di canne a raccogliere il
concime. La sera non tornava mai dalla campagna senza una manata di
legna secca, o una grossa radice
di lentisco per il fuoco; e
poiché dopo il viaggio alla
Madonna della Montagna gli era
morta l’asina dalla stanchezza, ora
pensava di acquistarne un’altra per i bisogni della casa.
La tragedia della sua famiglia gli opprimeva il cuore e più
di una volta durante le sue preghiere
aveva chiesto conto a Dio di
quei tanti dolori che si erano
accumulati sulla casa; ma la sua
anima si placava in una stupenda e virile rassegnazione.
Tutto viene da Dio, - diceva il vecchio - egli sa il perché
delle cose! Che possiamo sapere noi, poveri ignoranti, del
perché egli manda la pioggia e il vento, la tempesta e il bel
tempo?
Abituato a sentire l’opera della divinità tutti i giorni
presente negli alberi che crescevano e fruttificavano, nei grani che
germogliavano, nelle piante del suo orto delle quali
ognuna aveva la sua stagione e il suo fiore e la
sua bellezza; educato alla venerazione dell’ordine
naturale, a considerare i fenomeni come
manifestazioni dei disegni provvidenziali, egli alzava al
cielo gli occhi come se si fosse
trovato in una immensa chiesa, e adorava la volontà
del Signore anche nel male
terribile e misteriosamente necessario.
Dopo qualche mese di degenza nel letto, Gèsu ebbe
un nuovo terribile incomodo: gli
si aprirono dietro le reni due enormi piaghe.
Per tenerlo pulito vi andava un
mare di biancheria tutti i
giorni. Era necessaria una donna
apposta.
Mariuzza allora ricorse a Giusa che, povera diseredata, veniva tutte
le sere col suo bambino in braccio e
un grande aspetto di miseria, a visitare il fratello.
Fammi la carità, - disse Mariuzza - aiutami a tenerlo pulito,
io provvederò ai tuoi bisogni.
Così Giusa, a poco a poco, ricondotta dal dolore e dalla
necessità, ritornò nella sua casa.
Il giorno lasciava il bambino alla sua cognata e andava
a lavare la biancheria del
fratello, la orribile biancheria piena di marcia, di orina
e di sporcizia. E non un
moto di ripugnanza mai, non un senso
di stanchezza! Davanti a quelle cose
miserabili compiangeva il fratello, e
gli sembrava di non fare mai abbastanza, come se
quella fosse stata per lei una espiazione.
Passò l’inverno. Venne la quaresima e la settimana di
passione.
Gèsu peggiorava ogni giorno.
La mattina del venerdì santo volle scendere dal letto per
vedere la processione. Lo misero sopra una sedia vestito alla
meglio, lo coprirono con un mantello di orbace,
perché l’aria della mattina era
ancora fresca parecchio, specie prima del levarsi del sole, e lo
portarono sulla strada.
All’alba del venerdì di
passione a Pandore si fa una
processione che è come una
specie di
rappresentazione sacra. Si finge il trasporto del Corpo Santo al
sepolcro.
La chiesa quella mattina rigurgitava di gente.
Tutto il popolo, come di
consueto, era convenuto alla mesta cerimonia quando
appena imbiancava il
crepuscolo.
Allor che
apparve sull’altare la croce,
un’immensa croce piatta di legno, con un lungo sudario appeso alle
braccia, la Palamara, col suo vocione baritonale, intonò un
inno maestoso al segno della redenzione:
Evviva la cruci - surgenti di gloria...
Poi la processione uscì dalla chiesa diretta a una
collina chiamata il Calvario. Quando giunse in fondo alla Ruga
Grande il sole non era ancora spuntato sul mare.
Come un’immensa aureola di luce era nel cielo, una luce argentea,
nella quale tremolavano leggermente le cime degli olivi.
In testa alla processione era la croce che ondeggiava
funerea, nell’aria limpida della
mattina, in mezzo alle piccole case tristi che parevano
anch’esse in lutto. Seguiva il Cristo morto, un piccolo Cristo di
legno, come un adolescente di dodici anni, portato a
spalla da otto giovani che
avevano in testa grosse corone di spine. Aveva i
ginocchi e i gomiti scorticati, le membra livide e
i capelli e la barba impastati di grumi di
sangue.
Dietro il Cristo veniva una piccola comitiva di
cantori: Don Gianni Cùfari, Don
Gialormo il capo guardia, il Galeoto e pochi altri tra i
più celebri bestemmiatori del paese.
Leggevano in certi libriccini manoscritti una serie di
distici che cantavano a voce
spiegata. A essi rispondeva il
popolo in coro. Dopo i cantori era una grande statua della
Madonna Addolorata, con un ampio panno
nero sul mantello turchino, un piccolo crocifisso snodato
sulle braccia, e le sette spade nel
petto. Il popolo mesto seguiva a capo scoperto
salmodiando.
Dicevano i cantori:
Gesù mio, con dure funi, le tue mani chi mai legò?
Rispondeva il popolo picchiandosi il petto:
Sono stato io, l’ingrato! Gesù mio, perdono e pietà.
Il canto saliva in mezzo alle
case silenziose, triste, lugubre come
un lamento, e più triste lo
rendeva il bisbiglio dei passeri che
negli intervalli si udiva venire
dai tetti. Le finestre erano
socchiuse, le porte serrate, i volti erano tutti mesti. Sembrava che
quel popolo povero, che aveva negli occhi e nei vestiti tanti segni
di sofferenza e di miseria, si accusasse con un lamento corale della
passione del Dio- Uomo.
Dicevano i cantori:
Gesù mio, d’acute spine il tuo capo chi incoronò?
Rispondeva il popolo:
Sono stato io, l’ingrato! Gesù mio, perdono e pietà.
Gèsu guardava la processione avanzare, con un leggero
tremito nelle mani, gli occhi
già quasi senza sguardo, emaciato come un’ombra.
Ricordava appena, in quel residuo crepuscolare di vita che gli
rimaneva, i giorni quando egli andava in
chiesa a cantare, quando la sua bella voce tenorile scandiva
per le vie del paese il distico
doloroso.
Rocco si era inginocchiato alla sua destra, e Mariuzza alla sua
sinistra. Si picchiavano il petto e lacrimavano silenziosamente.
Il popolo che passava li commiserava nelle pause del canto.
La Madonna, col suo bel volto affilato e dolente, due
grosse lacrime immobili sulle guance, pareva
guardasse il malato e dicesse: «Non vedi che piango anch’io,
non vedi che soffro anch’io? Tutto è dolore nel mondo».
La processione passò, entrando nella via della Guardia, e si
allontanò.
Spuntava il sole. Le cime degli olivi
luccicavano umide di guazza, con
le loro foglioline novelle di un tenue
color giallognolo spiccati nel cupo
della fronda. I grani teneri
verzicavano in pace sui poggi che la luce appena toccava,
lasciandoli come in ombra; tutti gli alberi
avevano messe le gemme, e alcuni fiorivano
con un senso di delicata letizia. Una grande serenità era
nella campagna verdeggiante e inumidita, che faceva un singolare
contrasto con la tristezza della processione, e col ritmo di quel
canto espiatorio degli uomini.
Mariuzza si era alzata, vinta da un bisogno irresistibile di
sfogarsi, e per non farsi sentire da suo marito, si era andata a
sedere vicino alla scala, nascondendo il volto nel grembiule.
Giusa aveva deposto in terra il bambino, ed era scesa verso il
Murello a stendere dei panni sulle
siepi di un orto. Rocco guardava lo spettacolo
stupendo della mattina, quella pura
luce diffusa sotto un cielo sereno, e il verde
della campagna, e gli orti fioriti, e la promessa dei grani; e si
sentiva intenerito e riconciliato con la vita.
Come era bella la campagna e quanto prometteva!
«Perché, o Signore», diceva in cuor suo il
vecchio contadino, guardando intorno i
poggi e gli alberi come persone care
«perché ci avete data una terra così bella, e
non ci avete dato anche il pane per nutricarci? Senza questa
povertà i miei figlioli non sarebbero andati
in America, e uno non sarebbe morto di
ferro, un’altra di suicidio, e un terzo rovinato da un male
misterioso».
Mentr’egli così meditava Giusa tornò dall’orto.
Il suo piccolo si era trascinato carponi fino alla
sedia dove era seduto Gèsu,
e si era messo a tirare disperatamente con
le sue manine grassocce una stringa delle scarpe del malato.
Giusa si avvicinò al fratello, e osservando che la testa gli
era caduta pesantemente sul petto, gli mise una mano sulla spalla e
lo chiamò con dolcezza. La bocca del malato era aperta in
modo macabro, e un filo di bava gli scendeva sul petto. Gli occhi
erano socchiusi ma senza sguardo.
Pa’... o pa’..., - fece Giusa spaventata, a bassa voce, - venite
qua, mi pare sia morto.
Rocco si avvicinò e si chinò sul malato.
È morto, figlio benedetto, è morto! Non gridare che
non oda quella poveretta - e accennava a Mariuzza. - Aiutami a
portarlo in casa.
E mentre il padre e la figlia portavano a braccia il povero morto
su per la scala, il canto espiatorio
veniva da lontano con l’aria fresca della mattina.
Dicevano i cantori:
Gesù mio, di fiele e aceto
le tue labbra chi abbeverò?
Il popolo rispondeva:
Sono stato io, l’ingrato! Gesù mio, perdono e pietà.