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    Alfredo Oriani
    
    VORTICE
    
    - Aspettatemi dunque! - esclamò l'avvocato Guglielmi,
    indugiando nel rimettersi il pastrano grigio da mezza stagione, e
    aperse la bussola, che dal caffè dava sotto il portico.
    Gli altri due si erano fermati ad attenderlo.
    Il portico leggermente ricurvo era poco illuminato; due guardie di
    pubblica sicurezza stavano addossate all'ultima colonna verso la
    piazza, che, stretta fra il doppio loggiato, a quell'ora e in quella
    tenebra sembrava anche più piccola. I suoi fanali, bianchi
    sopra esili colonnine di ghisa, non rischiaravano né la notte
    né il selciato; erano otto d'ambo i lati, e la loro luce
    faceva poco più di un'aureola intorno ai loro vetri.
    Benché fosse appena mezzanotte, e i due maggiori caffè
    tuttavia aperti, non passava alcuno. La massa bruna del duomo
    disegnava un'ombra più scura sul lividore biancastro della
    grande scalinata in granito, un'opera nuova, per la quale nella
    cittadina si era speso troppo e parlato anche di più; a
    fianco del duomo, quasi dirimpetto al caffè, donde l'avvocato
    era uscito per ultimo, la fontana monumentale, prigioniera di
    un'alta cancellata a palle di ottone, continuava quel sommesso
    borbottio dei due becchi cadenti sugli abbeveratoi di marmo candido,
    posti l'uno di contro all'altro fuori della cancellata.
    Il cielo era oscuro, con poche stelle; e una nebbiolina, ancora
    diafana, inumidiva l'aria non abbastanza riscaldata dai primi tepori
    della primavera.
    I tre rimasero alcuni secondi ritti dinanzi al caffè.
    - Perché non facciamo due giri di loggia? - disse l'avvocato
    Guglielmi, che aveva questa abitudine, comune del resto a quanti
    della città non rincasavano presto.
    Quel portico del caffè Gritti e quella loggia sinistra della
    piazza, che formava come la facciata del palazzo municipale, erano
    il passeggio favorito di tutti i signori. Nella notte i più
    sfaccendati, anche dopo la chiusura dei caffè e dei clubs,
    seguitavano per ore, talvolta sino all'alba, quando le ortolane
    disponevano già i banchi e le ceste per la piazza, ad
    incontrarvisi in gruppi, promettendo sempre di separarsi dopo un
    ultimo giro, e non di meno prolungando la monotona passeggiata con
    ostinazione quasi inconsapevole.
    Forse non avrebbero saputo fare egualmente tardi altrove.
    - Tre giri soli, - rispose Gaudenzi, un impiegato al telegrafo sulla
    cinquantina, venuto da Milano molti anni addietro e diventato quasi
    della città.
    L'avvocato Guglielmi si pose in mezzo.
    Era un vecchietto arzillo, con troppe pretese per la sua levatura; e
    in quei giorni aveva ceduto ad una delle solite esaltazioni per la
    lotta elettorale fra moderati e radicali.
    Egli credeva in buona fede di essere fra questi, mentre invece il
    temperamento e la vita lo avevano sempre tenuto in sospetto verso la
    piazza. Quindi uscito dal club dopo una vivace discussione, nel
    passare dinanzi al caffè Gritti, vi era entrato per parlare
    ancora con Gaudenzi e Romani, due fra i suoi amici più
    condiscendenti.
    Essi avevano finito da un'ora la solita partita a scopa, e
    ciarlavano di donne.
    Ma la notte e la solitudine, sotto a quel loggiato, finirono di
    calmare l'avvocato Guglielmi.
    - Dove sei stato oggi, che non ti ho visto dopo pranzo al
    caffè? - domandò questi a Romani.
    - A Bologna: ne sono ritornato col treno delle dieci e mezzo; debbo
    ancora rientrare a casa da stamattina alle sette.
    - La donnetta! - disse Gaudenzi con accento metà ilare e
    metà sornione, alludendo ad una cantante di operette partita
    colla compagnia dalla città poche settimane prima, e colla
    quale Romani si era lasciato vedere parecchie volte a cena
    nell'albergo del Falcone, il maggiore della città, con altri
    amici.
    - Oh va!
    - Un'altra adunque! - rincarò Guglielmi.
    - Nemmeno, - e la voce di Romani ebbe un tremito: - sono andato a
    Bologna per affari... cattivi! aggiunse sospirando.
    In quel momento passavano davanti all'enorme scalone del palazzo
    municipale, che saliva dritto e larghissimo sino ad un pianerottolo
    alto, cintato, quasi simile ad una cappella, nel mezzo della quale
    un lume a petrolio, chiuso entro un antico lucernario, spandeva una
    luce malinconica.
    Le due guardie, nere nei cappotti impermeabili, perché la
    notte sul principio era sembrata voltarsi al cattivo tempo, si erano
    rimesse a girare, seguitando quasi automaticamente il passo di quei
    tre; ma si fermarono di botto vedendoli arrestarsi.
    Gli altri si voltarono; quindi proseguirono senza barattare alcuna
    altra osservazione.
    - Vado a casa, - disse Romani prima di rientrare sotto il portico
    del caffè.
    - Ci vediamo domattina sul mezzogiorno?
    - Già.
    - Buona notte!
    - Buona notte!
    Romani si diresse verso porta Appia passando lungo la fontana e il
    Duomo. Adesso era ridivenuto improvvisamente triste. La piccola
    città, sepolta nel sonno e nelle tenebre, aveva perduto ogni
    fisonomia; i fanali scarsi, a petrolio, indicavano appena il vano
    della strada, nella quale le casette irregolari s'addossavano l'una
    all'altra in silenzio, colle porte e le finestre buie, senza colori,
    come in una tranquillità di abbandono. Era una città
    di circa quindicimila abitanti, compresovi il grosso borgo al di
    là del fiume, abbastanza ricca, antica e rimasta vecchia
    anche nel rinnovamento moderno, che guasta dove non muta, e muta
    quasi da per tutto.
    Egli rifaceva quella strada a testa bassa, senza guardare,
    anticipando i passi col pensiero e ripetendosi meccanicamente:
    adesso arrivo alla bottega del barbiere, poi all'angolo del palazzo
    Bandi, al pizzicagnolo... tutte le stazioni più importanti di
    quella strada, che percorreva da tanti anni, e nella quale era
    persino nato. La conosceva nei più minuti particolari, tutta;
    la sua casa vi stava in fondo, una casetta a due piani, con un
    cornicione di legno ai tetti, le persiane verdi, una porta stretta,
    alta sul marciapiede due scalini, un andito, una scaletta oscura,
    poi l'appartamento al primo piano, dove abitava con la moglie e due
    bambini. All'altro, stavano due famiglie, quella di un calzolaio, e
    un vecchio prete con una serva.
    Gli parve improvvisamente di aver freddo; un passo risuonò
    lontano, dietro di lui. Qualche soffio agitava l'aria; dal selciato
    disuguale, a ciottoli, tratto tratto raggiavano baleni sull'umidore
    lasciatovi dalla pioggia, mentre il rombo del fiume fuori dalla
    barriera si faceva a mano a mano, più distinto.
    Allentò il passo. Altri brividi lo scossero e, daccapo,
    risentì più greve quel peso, sotto al quale era quasi
    venuto meno tutto il giorno; non si ricordava di cosa alcuna
    distintamente, ma era come una stanchezza senza motivo,
    un'inquietudine tratto  tratto percossa da paure inafferrabili
    come quei suoni fantastici, che talora sembrano batterci
    sull'orecchio, girando di notte per la campagna. Quella giornata non
    era certo stata buona: a Bologna aveva fallito l'ultima
    combinazione, cui intendeva da parecchi giorni, e che l'avrebbe
    rimesso a galla lasciandogli forse il modo di riordinare i suoi
    affari sconquassati. Poi aveva meditato, tentato altri espedienti
    presso alcuni vecchi amici della grossa città, nella quale
    aveva studiato due anni da giovinetto: aveva corso da una strada
    all'altra, salito parecchie scale, per concludere sempre allo stesso
    modo. Quegli amici avevano quasi tutti cambiato abitazione da lungo
    tempo; alcuni non erano in casa, altri non l'avevano ricevuto o,
    ricevendolo, si erano mostrati così freddi che gli era caduto
    improvvisamente dal cuore il coraggio di ogni domanda. Erano state
    al solito interrogazioni e risposte insignificanti, qualche
    complimento volgare, e infine un saluto frettoloso. Tutti avevano da
    fare, ognuno pensava a sé.
    Si era sentito respinto, isolato. Ma siccome era sabato, e in quel
    giorno tutti i mercanti e gli uomini d'affari affluivano a Bologna
    dalle città vicine, vi aveva incontrate molte, troppe
    conoscenze.
    - Oh! come, anche tu?
    Altri discorsi insulsi, strette di mano, qualche vanteria dei minori
    commercianti, ai quali pareva d'ingrandire mostrandosi ad un
    concittadino in quel giorno a Bologna. Parecchi sfaccendati erano
    venuti per ozio o per capriccio, il Mercato di Mezzo era pieno.
    Quindi aveva dovuto andare a colazione con un gruppo di amici, tutti
    della propria città, una colazione rumorosa, vanagloriosa,
    perché la sera ne avrebbero parlato certamente nel
    caffè Gritti. Però quel chiasso lo aveva rinfrancato.
    Adesso, invece, uno scoramento lo riprendeva, sebbene nessun
    pericolo vero lo minacciasse ancora; era dissestato da gran tempo,
    ma s'ingegnava sempre per andare innanzi, riuscendovi non senza
    pena, con abbastanza disinvoltura. Aveva vissuto comodamente colla
    famiglia, accettato, stimato da per tutto più di quanto la
    posizione lo consentisse. Questo, che era stato sempre il suo vanto
    secreto, gli si mutava ora in rammarico, quasi solamente dopo quella
    triste giornata di disillusioni e quel ritorno in ferrovia, solo in
    un vagone di seconda classe, perché tutti gli altri amici
    erano già partiti col treno antecedente, gli si rischiarasse
    entro l'oscurità silenziosa della strada, improvvisamente, il
    problema della propria posizione.
    La strada era sempre così deserta, il rombo del fiume
    cresceva. Si fermò per accendere un sigaro toscano, l'ultimo
    che gli rimaneva nelle tasche; quindi alla fiamma del cerino
    alzò gli occhi per guardare la barriera chiusa in fondo alla
    strada. Un riverbero del fanale sporgente dalla gabella lasciava
    intravedere alcune stecche della cancellata, al di là passava
    il fiume, e oltre il fiume si scorgevano le prime fiammelle del
    borgo.
    Oramai era presso casa.
    - Che cosa le dirò? - si chiese subitamente, pensando alle
    interrogazioni, colle quali la moglie lo avrebbe seccato.
    Egli aveva già trovato difficilmente una scusa per andare a
    Bologna, ma ora, in quel fallimento di tutte le combinazioni, non
    sapeva più inventare un'altra bugia per sottrarsi
    all'irritazione di riparlarne con lei. A che prò? Ella non
    conosceva, anzi non aveva mai conosciuto le vere condizioni della
    famiglia: poi non avrebbe potuto esservi di alcun giovamento, anche
    conoscendole. Perché metterla a parte di certe cose, dal
    momento che la sua testa vi si perderebbe, e tutto si sarebbe
    risolto in un piagnisteo pieno di rimbrotti e di carezze? Egli
    l'aveva sempre trattata bene allo stesso modo; ella, preoccupata di
    sé e dei bambini, non aveva mai cercato di indovinare quanto
    le si nascondeva. Invece egli avrebbe adesso voluto parlare con
    qualcuno, esaminare bene in due la propria posizione, alla quale si
    accorgeva di aver sempre girato intorno, senza guardarla mai davvero
    in faccia per quella secreta paura dei deboli, che s'abbandonano
    alla vita, risolvendone le rinascenti difficoltà col ripetere
    quasi sempre lo stesso espediente.
    Era arrivato all'uscio, tenendo già in mano la chiave secondo
    il solito: si fermò a guardare la casetta. Tutti dovevano
    dormirvi. Lassù, a l'ultima finestra di sinistra, un filo di
    luce passava per gli scuri; era la camera del vecchio prete, un
    mansionario quasi ottantenne, il quale non viveva più che
    della paura di morire, e la notte teneva sempre acceso un lumicino
    alla Madonna sopra il comò, perché le tenebre lo
    spaventavano e tremava di spirarvi improvvisamente. Voleva la luce,
    anche di notte.
    - La vedrò ancora per così poco! - aveva detto un
    giorno a lui con quell'accento impressionante dei vecchi.
    - Ecco uno che non deve aver pensieri! - egli si disse in quel
    momento, invidiando la necessaria calma di quella vita già
    conchiusa.
    L'aria dell'andito gli pesò sul respiro. Aveva acceso un
    secondo cerino, salì le scale col suo ordinario passo
    accelerato, come non ricordandosi più di nulla, trovò
    dietro la porta dell'appartamento la candela sulla vecchia
    cassapanca; ma invece di andare per la cucina nella camera della
    moglie, infilò la saletta da pranzo, dopo la quale teneva in
    una specie di gabinetto il proprio studiolo. Con una segreta, quasi
    inconsapevole soddisfazione aveva riconosciuto tutto a posto nella
    saletta; sulla tavola ancora coperta della tovaglia macchiata di
    vino rosso, non era disposto che il suo coperto con dinanzi due
    altri piatti: nell'uno c'era un mezzo pollo arrosto colla testa,
    perché in famiglia sapevano che questo era il suo boccone
    preferito, nell'altro un mezzo formaggio fresco, molle, uno dei
    pochi capolavori dell'industria paesana; poi l'insalata nella solita
    barchetta di porcellana bianca, e alcuni finocchi sopra il piattello
    dal piede di filograna rossastra.
    Caterina, la moglie, non vedendolo arrivare all'ora di cena, gliene
    aveva lasciata la miglior parte, immaginandosi che potesse avere
    molta fame al ritorno.
    La bottiglia nera del vino era quasi piena.
    La saletta dall'usciuolo di sinistra metteva nella camera da letto.
    Egli camminava in punta di piedi; la vista della cena gli
    risvegliò quasi istantaneamente l'appetito, perché non
    aveva più mangiato da quella colazione sul mezzogiorno,
    prodiga e sontuosa quanto un pranzo. Rimase incerto qualche secondo,
    temendo, se si fosse posto a tavola, di svegliare col rumore dei
    piatti Caterina, che doveva dormire da un occhio solo; quindi
    schiuse con molta precauzione l'uscio del gabinetto, e vi
    entrò senza sapere bene il perché. Non aveva niente da
    farvi; in quel momento la sua testa affaticata non gli suggeriva
    alcun espediente. Ma quello studiolo era l'unica solitudine, nella
    quale si chiudeva ogni qualvolta avesse qualche affare difficile da
    svolgere, o qualche tristezza da nascondere; vi teneva pochi libri,
    perché non era mai stato un grande leggitore, ma tutte le
    carte importanti vi stavano disposte in bell'ordine sopra due
    scansie portatili. Il resto dei mobili si componeva appena di uno
    scrittoio in noce e di un piccolo sofà ricoperto in crespo di
    lana verde. Nell'angolo, presso la finestra, quell'inverno medesimo
    vi aveva messo una stufa minuscola in ghisa, più che
    sufficiente a riscaldarvi l'aria sino ad una temperatura
    insopportabile.
    - Che cosa faccio?
    In sostanza non aveva bisogno che di guadagnar tempo per
    l'inevitabile colloquio colla moglie. Anche lì tutto era
    ordinato. Macchinalmente si trasse il pastrano e il cappello,
    appendendoli ad un minimo attaccapanni piantato nella parete.
    Ascoltò: l'appartamentino aveva la calma ordinaria,
    nell'altra camera Caterina lo attendeva dormendo; poi v'era lo
    stanzino dei bimbi, nel quale stava anche la donna di servizio,
    oramai diventata della famiglia: una donna pettegola, che dominava
    la padrona, ma faceva tutte le economie possibili, riuscendo quasi
    sempre a dissipare i malintesi fra lui e la moglie.
    Malgrado la scarsezza del patrimonio, egli avrebbe quindi potuto
    vivere contento nella famiglia.
    Infatti non si era mai lagnato: sentiva anche in quel momento una
    compiacenza onesta, che gli alleggeriva il peso di tutti i
    disappunti subiti nella giornata.
    La candela bruciava sul tavolo da qualche minuto, egli si era girato
    e rigirato inutilmente per il gabinetto due o tre volte, quando vide
    una lettera quasi sotto al largo calamaio di maiolica bianca.
    Veniva, a lui, ma sulle prime non ne ravvisò il carattere;
    qualcuno doveva averla recata nella sua assenza, perché non
    portava francobollo.
    Stracciandone la busta si sentì tremare da capo; la lettera
    diceva:
                                  
    Città, 29 aprile 1896.
        Caro Adolfo,
      Debbo partire subito per Firenze, senza perdere un minuto,
    perché mia madre è gravemente malata; ma capirai come
    posso stare non avendo potuto ottenere il permesso stamattina. Ti ho
    cercato dopo pranzo al caffè per comunicarti in segreto che
    Oreste Bugnoli ha portato al pretore una tua cambiale per duemila e
    cinquecento lire, dichiarandola falsa. Siamo sempre stati amici sino
    da ragazzi, e quindi non credo che tu possa aver fatto ciò:
    ecco perché ti avviso; ma in ogni modo brucia subito questa
    mia lettera. Per te non ne sarà nulla certamente, o tutto al
    più un equivoco che si scoprirà; invece io non sono
    che un impiegato, e se mi sospettassero solamente di averti
    avvisato, finirei forse col perdere il posto. Ma sono sicuro della
    tua discrezione; invece temo assai della mia povera mamma. Quale
    disgrazia per me se dovesse morire!
       In fretta
                                  
    tuo ANSELMO ROBERTI
          * * *
    Era stato come un colpo di mazza sulla testa.
    Non aveva quasi capito, ma nello stordimento della percossa gli era
    parso che lunghe striscie sanguigne solcassero il buio, nel quale
    cadeva, dritto, così senza cappello in testa, con quella
    lettera in mano, mentre la fiamma della candela gli agitava brevi
    ombre leggere sul volto immobile come un ritratto.
    Finalmente ebbe un soprassalto. Il primo moto fu di guardarsi
    intorno con un rapido girar del capo e quel subito raggricchiarsi di
    tutte le membra, quasi per farsi più piccolo e meglio sparire
    in una fuga, che hanno sempre i sorpresi in flagrante.
    Poi, col tornargli della coscienza, tutti i tremiti lo scossero; le
    mani gli battevano quasi l'una contro l'altra, gli battevano le
    palpebre, mentre un'onda come di vento gli si rompeva dall'interno
    entro gli occhi, e glieli gonfiava inaridendoli.
    Appoggiò una mano sull'orlo dello scrittoio, quindi girandovi
    intorno venne a cadere sulla poltrona. Era anch'essa in crespo di
    lana verde, con una stretta spalliera semicircolare. Si trasse
    più vicino la candela, si passò il fazzoletto sugli
    occhi. La fronte gli era diventata perlacea sotto i capelli neri,
    dritti e tagliati a spazzola, che rendevano più dura
    l'espressione della sua faccia.
    Infine bisognava rileggere.
    Benché stravolto, comprendeva tutto; lo aveva capito nello
    scoppio stesso: era stata una visione istantanea, accecante come
    quegli incendi dei temporali notturni, alla luce dei quali si
    scorgono in un attimo i particolari più minuti, meno
    osservabili di un paesaggio, e poi tutto ritorna nero, tempestoso,
    fragoroso, pauroso.
    Da molto tempo aveva voluto scordarsene, ma lo sapeva.
    La lettera era proprio di Anselmo Roberti, il suo amico d'infanzia,
    poi di studi, nato a Marradi e venuto cancelliere nella città
    da quattro anni; era la sua calligrafia rotonda, chiarissima, una
    calligrafia da impiegato.
    Che cosa era stato? Perché?
    Era troppo presto, non doveva essere, perché mancavano ancora
    quarantacinque giorni alla scadenza.
    Rileggeva sempre, forse per la decima volta, brancolando col
    pensiero fra le lettere, che gli si dilatavano dinanzi agli occhi,
    quasi staccate dalla carta. Ma attraverso tale sensazione leggeva
    con chiarezza sempre più spaventevole. Quelle poche righe
    frettolose, buone, senza un dubbio o una esagerazione, erano la
    forma più micidiale, più insopportabile, colla quale
    gli si fosse potuto comunicare, così impensatamente, la sua
    colpa.
    - Ha la mamma ammalata, - pensò poco dopo in una sosta del
    turbinio, che lo aggirava; quindi corse nuovamente cogli occhi
    all'altra riga, dove Roberti gli annunciava la consegna della
    cambiale al pretore, senza crederne falsa la firma ed affermando
    anzi che non poteva trattarsi se non di un equivoco. Poi la lettera
    finiva con quel grido per la mamma forse già morta.
    Nel gabinetto non c'era alcuno: fuori, in tutta la città, a
    chi rivolgersi? Malgrado la smania non poté  muoversi;
    non c'era più niente da dire o da fare! Si trovava già
    lontano da tutti, con quella sensazione di un baratro buio, freddo,
    sordo, senza cielo, senz'aria, uno di quegli abissi di sogno, nei
    quali cadendo non si sente che il vuoto e quando la caduta si
    arresta non si tocca ancora nulla. Allora le forze l'abbandonarono e
    si accasciò sulla poltrona, colla testa bassa, in un
    atteggiamento sfatto. La sua vita, così normale poco prima,
    era svanita; egli vi rimaneva come un corpo molle, insaccato dentro
    gli abiti, coll'occhio sinistro, che in quella piegatura del capo
    ancora gli si vedeva aperto ed opaco, così che la moglie
    Caterina entrando in quel momento avrebbe gridato per la paura.
    Intanto il tempo passava.
    Quel colpo, che avrebbe atterrato qualunque altro, non aveva
    però nulla di strano, e ciò lo rendeva ancora
    più terribile. In tutta la giornata, pur non volendo
    pensarci, perché gli rimanevano ancora circa due mesi prima
    della scadenza, ne aveva provato un presentimento; anzi nella sua
    vita ancora giovane, abituato come era da tempo a cercare danaro per
    la piazza, vantandosene cogli amici se gli riusciva bene qualche
    difficile operazione, non si era mai sentito così
    profondamente scoraggiato. Eppure non si trattava che di girare una
    cambiale di cinquecento lire, questa volta in piena regola. Ma il
    credito gli sfuggiva da parecchi mesi, la gente e le cose cangiavano
    intorno a lui; non aveva più quel bell'umore facile ed
    espansivo, che seduceva le persone, e col quale sovente perveniva a
    trarsi senz'altro d'impaccio: pensieri tristi lo travagliavano,
    improvvisi sgomenti gli facevano vedere il mondo in nero traendogli
    dalla bocca quelle frasi pessimiste di chi non si sente bene in
    gambe. Erano impazienze nervose, scatti ingiustificabili, coi quali
    offendeva talora scioccamente le persone inimicandosele; e poco dopo
    si accorgeva del male fatto, giacché gli capitava d'intoppare
    in visi chiusi, gli cascavano addosso giudizi sospettosi, diventava
    come tutti gli altri caduti volontariamente nella sua posizione, un
    oggetto d'esame fra la gente pettegola o grave, che valuta le
    riputazioni e pesa tutti i valori.
    A Bologna quella mattina aveva dovuto subirne la dolorosa esperienza
    più di una volta. La sua aria preoccupata, le grosse nubi che
    gli passavano sul volto, erano state osservate; tutti quei mercanti,
    quei minuscoli uomini d'affari, così poco colti e perspicaci
    parlando di politica o d'altro senza immediati rapporti alla loro
    vita, erano di una penetrazione inquisitoriale, avevano il colpo
    d'occhio infallibile per indovinare certe crisi o cogliere certe
    situazioni.
    Era la loro stessa battaglia di tutti i giorni nell'imbroglio
    continuo di contratti fra gente di tutte le risme, in mezzo alla
    quale bisognava guardarsi da ogni lato e far buon viso a tutti i
    presenti, senza il permesso di potere ingannarsi sulla
    probità o sulla solvibilità di alcuno. Al primo dubbio
    tutte le espansioni si restringevano, ognuno per necessità di
    battaglia si rimetteva sulla parata con un orgoglio di egoismo, che
    non vuole lasciarsi abbindolare da pietà di sventure o da
    illusioni di risorse. Sotto la loquacità chiassosa della
    colazione egli aveva sentito la durezza impenetrabile dei cuori, la
    diffidenza vigilante e pronta a tentare col più atroce degli
    scherzi l'imminenza di una ruina per meglio evitarla.
    Ma prima di quella cambiale, non aveva notato certe cose.
    Quindi si era sforzato di non pensarci: il disegno per rimediarvi lo
    aveva, vendere l'unico podere a quello stesso strozzino,
    giacché vi rimaneva ancora, malgrado le ipoteche, un margine
    di tre o quattro mila lire.
    Ecco perché quasi non se ne preoccupava; ma gli altri debiti,
    i regolari, lo urgevano tutti i giorni, senza requie. Era andato a
    Bologna appunto per girare una cambiale colla firma di un amico, un
    giovinotto in vena di ruinarsi gaiamente, e così fare fronte
    ad altre due cambiali, che gli scadrebbero lunedì alla Cassa
    di Risparmio e alla Banca Popolare; ma fra tutte e due non
    superavano le quattrocentosessanta lire. Era poco, però ne
    aveva altre, anche più piccole, poi tutto il resto dei debiti
    e delle liste.
    Mai si era sentito più sconsolato di quel giorno; per reagire
    aveva bevuto parecchi vermut nelle bottiglierie, aveva seguito per
    strada, sino a casa, una ragazza che nemmeno gli piaceva; ma ad ogni
    disillusione cogli amici, sui quali credeva di contare, pur
    confessando a se stesso di non averne motivo sufficiente, la
    tetraggine gli si addensava nell'animo. Quella giornata gli era
    parsa eterna, specialmente nelle ultime ore. Perché aveva
    perduto il treno delle quattro e mezzo? non avrebbe saputo dirlo.
    Infatti quelle, che con uno sforzo di volontà potevano
    sembrargli combinazioni probabili per la girata della cambiale,
    erano tutte esaurite prima della colazione. Dopo, non aveva tentato
    ancora che per rabbia contro se stesso, per darsi dell'imbecille
    prima, e poi bestemmiando nel fondo del cuore contro il destino. Ma
    lo sapeva già. Quindi aveva girellato trovando sempre le
    strade troppo lunghe, curiosando senza voglia nelle vetrine, con
    quell'aria pesante e distratta, alla quale la gente non s'inganna
    quasi mai e fiuta i poveri, gli spostati, tutti coloro
    momentaneamente senza danaro e nella impossibilità di
    procurarselo malgrado qualunque dolore della necessità. Egli
    stesso si accorgeva di tradirsi; una vergogna nuova e sottile gli
    faceva credere di essere mal vestito, gli pareva di sentirsi sempre
    qualche occhiata addosso; poi non s'incontrava più, egli uso
    a trovare tanto lusso e tanta squisitezza a Bologna, in niente di
    bello.
    Quando vide accendersi i primi lampioni, ne provò un
    sollievo: l'ombra del crepuscolo aveva spopolato le strade, rendendo
    meno osservabili coloro che vi passavano. Si avviò verso la
    stazione, allungando la strada per tutte le svolte sino alla
    Montagnola; il vecchio ed angusto passeggio era deserto, pieno di
    alberoni secolari, che avevano già messo le foglie, ma che in
    quel freddo di sera non abbastanza primaverile rabbrividivano
    ancora. Qualcuno vi si aggirava come lui, in preda a pensieri forse
    più disperati. Il rumore della città si assopiva
    lentamente: i fanali punteggiavano l'oscurità, allineandosi
    fino lontano, donde un rumore veniva tuttavia, mentre alle finestre
    delle case per bene si vedevano già accendere i lumi per la
    gaiezza del pranzo.
    L'isolamento gli aveva fatto paura: era stata una sensazione
    subitanea, violenta. Quell'ora del pranzo doveva essere ben
    terribile per tutti quelli che non avevano dove pranzare, dopo un
    giorno così lungo, e dinanzi alla notte anche più
    lunga senza ricovero!
    Per non pensarci troppo era disceso dalla Montagnola, per il viale
    degli ippocastani, lungo le mura verso la stazione. Anche lì
    sembrava stagnare la vita; l'orologio della torre, alto sul mezzo
    della stazione in quel crepuscolo, col lume acceso dietro il
    trasparente, aveva una opacità di grande occhio ammalato.
    Egli così poco artista ed osservatore, n'ebbe l'impressione
    per la prima volta. Nel ritorno aveva avuto la fortuna di entrare in
    uno scompartimento di seconda classe vuoto; ma poi, nel viaggio, se
    ne era rammaricato. Non aveva mangiato e non aveva fame, però
    l'estenuazione cominciava a dargli quella sensibilità
    dolente, propria dei deboli; finalmente non si rinfrancò che
    arrivando in piazza dinanzi al Duomo, sotto quei portici così
    famigliari, salutando e ricevendo il saluto di voci amiche. Nel
    caffè c'era Gaudenzi, che lo invitò alla solita
    partita; un vecchio maestro delle scuole tecniche, vegeto, allegro,
    chiacchierino, un ricco mugnaio attempato, uno scrivano di notaio,
    mezzo storpio e divertente per la loquacità melodrammatica e
    letteraria, avevano circondato il loro tavolino, e la partita era
    seguitata fra i soliti discorsi nella bonomia tranquilla di tutte le
    sere.
    Ma quel gran colpo gli aveva tolto anche la memoria di tale triste
    ritorno.
    Poi una paura lo assalì; si nascose frettolosamente la
    lettera nella tasca dei calzoni e in punta di piedi, lasciando la
    candela sulla scrivania, venne ad origliare all'uscio della camera
    da letto. Caterina dormiva con un russo leggiero: stette qualche
    minuto coll'orecchio incollato alla fessura dell'uscio, poi a
    ritroso, senza urtare in alcun mobile, rientrò nello
    studiolo.
    La mente gli tornava: ritrasse la lettera dalla tasca e, ubbidendo
    alla preghiera dell'amico, la bruciò, con un senso quasi di
    sollievo. Era la prima accusa distrutta.
    Che fare?
    In quel subbuglio di tutte le idee non poteva ancora rendersi un
    conto, anche solo relativamente esatto, della propria situazione, ma
    sentiva che fra poco, quando saprebbe meglio dominarsi, non
    troverebbe egualmente nulla. Era sempre la stessa sensazione di un
    buio improvviso e cieco, nel quale non poteva nemmeno gridare: da
    chi invocare soccorso? Qualunque fosse il perché o il come di
    tale catastrofe, la violenza non ne diventava che maggiore. Nessuno
    lo aveva rovinato, nessuno in quel momento lo spingeva nell'abisso.
    Era stato lui solo, gaiamente, storditamente, per un seguito di
    piccoli piaceri, di minime compiacenze, di false abitudini, a
    mettersi in quell'abbrivo, lusingandosi fantasticamente di potersi
    sempre fermare, coll'esempio di tanti altri, che avendo fatto o
    facendo tuttavia assai peggio, rimanevano ancora in piedi, salutati,
    ricevuti dovunque. Ed egli pure aveva voluto essere così
    forte, senza comprendere in che cosa tale forza consistesse, ma
    soprattutto vivere meglio del come era nato, in una più alta
    sfera.
    Quindi il suo distacco lento ed orgoglioso dai primi compagni, che
    convinti della propria posizione l'accettavano, nella modestia degli
    inevitabili lavori, con una rinuncia onesta alla vivacità
    delle troppo facili speranze; poi la iniziazione nella classe dei
    signori, che avevano finito col trattarlo da pari, tutta una
    conquista assidua e minuta, piena di piccole gioie e di nascenti
    soddisfazioni, onde si era persuaso di essere un qualcuno
    importante, e di poter un giorno diventare anche qualche cosa.
    Finalmente lo scialo, non vistoso ma continuo, i vizi, sino a quella
    passione breve ma rapace, inevitabile, che gli aveva fatto perdere
    la testa rendendolo ridicolo fra i nuovi amici, e per la quale in
    una mattina di follia, una mattina pioviginosa e fredda, era andato
    da quello strozzino per fargli accettare la cambiale!
    Nemmeno allora se ne era reso ben conto; aveva agito come sotto un
    incubo, con dei brividi freddi come quelli che adesso gli passavano
    per le reni, la testa pesante, ma recitando fin troppo bene la
    commedia preparata. Dopo, aveva sempre fatto degli sforzi per non
    pensarci, malgrado i debiti, che seguitavano a travolgerlo senza
    lasciargli un'ora di pace. E tutto era finito prima della scadenza
    vera; il dramma scoppiava in questa anticipazione imprevedibile,
    alla quale qualcuno doveva aver cooperato.
    Non restava che morire.
    Egli pronunciò mentalmente questa parola, come eco di una
    voce, che gli sonasse dentro nel profondo del cuore, e subito dopo
    fu più calmo. Perché? Che cosa era stato? Né la
    sua volontà, né la sua ragione lo avevano condotto a
    questa decisione, e tuttavia poté ripetersi distintamente:
    - Sì, morire!
          * * *
    Come accade sempre nelle decisioni troppo importanti, che agiscono
    sull'anima al pari di un abbarbaglio, una pesantezza torbida lo
    aveva poco dopo prostrato.
    Quella idea della morte non gli si era mostrata con alcun
    significato preciso; non ne aveva veduta la forma, né sentito
    il dolore, quantunque fosse già il distacco da tutto quanto
    componeva la sua vita di trentadue anni, una vita senza valore per
    gli altri, ma intera ed alacre entro l'angustia della propria
    orbita.
    Adesso, nell'impossibilità per lui di ripensarla attraverso i
    molteplici minimi ricordi, acquistava come un'improvvisa, sconfinata
    dilatazione, nella quale si perdeva anche quel dramma finale come
    una voce di disperazione per la solitudine di un grande prato
    squallido, quando la notte sta per involgerlo nella propria ombra.
    Non gli restava che la sensazione di un vuoto. Sempre così
    seduto stancamente sulla poltrona teneva gli occhi fisi sulla
    fiammella della candela, alla quale il suo alito imprimeva tratto
    tratto qualche lieve oscillazione.
    Sul suo volto, generalmente rosso, un pallore livido alterava tutti
    i lineamenti; la fronte diventata greve in quella improvvisa
    opacità, che le troppo lunghe meditazioni sembrano lasciare
    su quelle dei pensatori, gli si aggrondava sui sopracigli velandogli
    gli occhi, mentre uno stiramento gli irrigidiva la bocca convulsa.
    L'orologio della piazza batté tre quarti d'ora dopo la
    mezzanotte.
    La prima cosa che sentì, fu di essere così
    profondamente mutato. Benché in casa propria, non vi si
    riconosceva più: vedeva la disposizione di tutto
    l'appartamento con quelli che vi abitavano, sua moglie Caterina
    addormentata nell'altra camera sotto la coperta di filugello verde;
    nella stanzina attigua Ada e Carletto nei due lettini di ferro;
    vedeva il proprio posto vuoto accanto a Caterina, l'attaccapanni col
    grande cappello nero a cencio, il mantello scuro, la specchiera sul
    comò di fronte al letto, udiva la respirazione regolare, il
    russo lieve di quei dormienti, ma con un senso inesplicabile
    d'indifferenza come di uno straniero, pel quale quella casa e quelle
    persone non potessero avere alcun significato. Era solo! La stessa
    intimità del suo passato con essi si rompeva improvvisamente,
    isolandolo dalla loro esistenza, della quale una volta provava le
    ripercussioni ad ogni atto, senza potersene staccare nell'avvenire
    nemmeno colla fantasia.
    Quindi un più sottile malessere gli veniva da quel gabinetto
    quasi vuoto, rischiarato appena dalla candela, freddo e muto come
    una stanza d'albergo. Infatti era quasi il medesimo mobilio: sedie,
    scrittoio, scansie, sofà in noce e lana, senza stile, senza
    accento. Egli vi era solo.
    Così? Perché? Perché così solo?
    - Dove sono? - esclamò sommessamente, portandosi ambo le mani
    alla faccia.
    L'idea gli si ripresentava lucida, inesorabile.
    O la morte o la prigione, non vi era mezzo termine.
    Ma daccapo ebbe paura, e si cacciò col pensiero come fuggendo
    per tutte le vie che gli si aprivano davanti, acciecato da una
    speranza di salvezza. La passione della vita gli si era ridestata in
    uno scoppio: qualunque fossero la colpa e la pena che lo
    minacciavano, non voleva morire. V'era tempo, tutto poteva ancora
    accomodarsi. Una ressa d'indistinti bisbigli gli saliva dalla
    memoria di tanti casi disperati, che aveva veduto a poco a poco
    acconciarsi nella normalità della vita, di altre esistenze
    quasi sradicate da un colpo di bufera, e che nullameno avevano
    potuto resistere rituffando le radici nel terreno e coprendosi dopo
    qualche mese di nuove foglie. Egli non voleva soccombere: la vita
    protestava in lui da ogni punto dell'anima in un orgasmo di tutte le
    fibre. Ma nessuna di quelle vie, per le quali il suo pensiero
    fuggiva smaniando, era neppure abbastanza lunga per dare tempo ad
    una illusione; tutte finivano contro lo stesso muro, la medesima
    impossibilità di evitare il processo, dal momento che la
    cambiale era già nelle mani del pretore. Questi, un giovane
    di Senigallia, eccezionalmente ricco per la sua classe, mirava a
    diventare presto giudice, facendo pompa di un riserbo e di una
    severità egualmente inflessibili.
    Ma egli non voleva il processo, quella morte più lenta, ed
    atroce di qualunque altra nell'agonia del domani o del posdomani,
    appena il fatto si fosse divulgato, e poi di tutti gli altri giorni
    sino all'ultimo della condanna a cinque anni, giacché ci
    aveva pensato involontariamente altre volte di sfuggita. Quel giorno
    non sarebbe mai finito su quello scanno degli accusati, dinanzi ai
    giudici e al pubblico, con Caterina nella sala che singhiozzerebbe,
    mentre egli dovrebbe rispondere all'interrogatorio sentendosi
    addosso tutti gli sguardi della folla indifferente nella certezza di
    una condanna, che rendeva egualmente inutile ogni abilità di
    accusa o di difesa. Tanto era morire altrimenti. Tutto intorno a lui
    si sarebbe del pari spezzato: Caterina e i bambini, ridotti alla
    più squallida miseria, non avrebbero più per lui che
    un orrore misto di odio, quell'odio doloroso ed onesto di tutti i
    caduti per colpa d'altri nella povertà umiliante di una
    condizione, dalla quale anche uscendo, rimane la macchia. Ma
    Caterina sopravviverebbe al colpo?
    Si poteva durare a quella tortura del processo, che comincerebbe
    subito, colla sua prima parola, entrando nella camera da letto per
    confessare tutto?
    Sarebbe stato il primo tratto di corda al cuore, nel silenzio di
    quella camera così tranquilla da dieci anni, mentre i bambini
    dormivano nell'altro stanzino, sempre coll'uscio aperto. Lo strido
    di Caterina somiglierebbe a quello di un ferito: se lo sentiva
    già dentro gli orecchi lacerante, lungo, che si perdeva in
    lontananza dopo avergli forato spasmodicamente il cervello. Egli non
    potrebbe calmarla. Che cosa dirle? L'origine di quella colpa l'aveva
    già sconvolta tre mesi prima, apprendendola solamente a
    mezzo; era stata una gelosia improvvisa, quasi furiosa, che gli
    aveva rivelato in lei tutta un'altra faccia del suo carattere
    apparentemente così bonario e insignificante. Egli in quella
    amarezza dell'essere tradito dall'altra, per la quale si era
    pazzamente perduto, ne aveva provato come una consolazione di
    orgoglio, nella certezza dell'affetto che gli restava.
    In qual modo confessare ora il resto?
    La colpa stessa spariva nella orribilità della espiazione:
    aspettare in casa l'arresto, chi sa quanti giorni, indovinando da
    lungi tutti i discorsi dei caffè; doverne serbare indarno il
    segreto con Anastasia, la serva, fino al momento che un delegato
    venisse ad intimarglielo con quella insopportabile gentilezza da
    impiegato, probabilmente nella forma di una chiamata in questura.
    Nessuna forza umana poteva bastare a tale supplizio: Caterina ne
    diverrebbe forse pazza, era impossibile non morirne.
    Per quanto atroce, il fatto di trovarsi davanti al pretore e al
    cancelliere, dopo essere forse passato per la città fra le
    guardie, diventava insignificante al confronto dell'esame, che
    avrebbe dovuto subire, chi sa per quanto tempo, dinanzi alla moglie,
    sotto l'inquisizione disperata del suo silenzio o delle domande
    rinascenti indarno dalle memorie della sua anima calpestata
    ingiustamente, per sempre, senza un motivo e senza un avviso. Eppure
    egli lo aveva fatto!
    Anzi qualche cosa gli restava nel cuore di quella passione
    istantanea ed irresistibile, una amarezza ed insieme un orgoglio
    quasi simile a quello che sostiene il coraggio dei delinquenti, e li
    consola nelle pene dell'espiazione. Si pentiva piuttosto delle
    conseguenze che del fatto: era stato fatale, senza ricerca da parte
    sua, senz'alcuna possibilità di resistenza. Adesso tutto era
    passato.
    Un singhiozzo gli salì dal petto affaticato.
    Seguitava sempre a cercare, sorpreso da sùbiti scoramenti,
    che gli davano la sensazione effimera di un bisogno di pregare, dopo
    i quali si cacciava più disperatamente avanti nella ricerca
    insensata di un espediente. Uno stesso smarrimento gli confondeva
    ragione e fantasia, così che non poteva seguire nemmeno la
    più semplice combinazione di sogno, o conchiudere il
    più volgare dei ragionamenti: capiva solo che niente e
    nessuno verrebbe ad aiutarlo, poiché si era consapevolmente
    posto in tale condizione. La sua testa, d'ordinario tutt'altro che
    potente, trabalzava di visione in visione, sfuggendo a quella dello
    scandalo in piazza con un più acuto terrore dello scandalo
    domestico, senza potersi ancora fermare al perché di quella
    anticipazione, e come mai la cambiale fosse stata presentata al
    pretore due mesi prima della scadenza. Egli aveva già
    indovinato il colpo: era stato il Bonoli, socio secreto dello
    strozzino, freddamente perverso e ricco, ad affrettare la
    catastrofe. Infatti si era ricordato subito, sebbene confusamente,
    del suo ultimo saluto incontrandolo alla stazione sulle mosse per
    Firenze due giorni prima. Allora ne aveva provato dentro come un
    dissolvimento di tutto se stesso, ma nessuno si era accorto di
    nulla, ed egli non ci aveva pensato oltre. Il Bonoli doveva aver
    imposto ciò allo strozzino, giacché questi non lo
    avrebbe forse fatto di per sé, anche per non aumentare in
    paese le proprie antipatie, contentandosi di acquistare a buon
    mercato il podere. Tutto ciò gli rimaneva non pertanto
    torbido nella testa. Non si era nemmeno fermato al solo espediente
    discutibile: partire per Firenze, presentarsi al conte Zoli,
    ex-deputato della città, un signore malaticcio, vecchio,
    infelice per la moglie e senza figli, confessargli il sopruso di
    quella firma falsa e scongiurarlo di riconoscerla per vera. Infatti
    era imitata abbastanza bene, perché ciò fosse
    possibile senza troppo scandalo. Ma come affrontare una tale scena?
    Poi lo strozzino e Bonoli dovevano già aver ottenuto dal
    conte Zoli una qualche dichiarazione prima di presentare la cambiale
    al pretore; e quindi il vecchio signore non avrebbe potuto disdirsi
    che ben difficilmente, senza cadere egli medesimo nel processo.
    Questo filo, così tenue, era tuttavia l'unico che gli
    restasse in quella paura, che lo raggirava sovra se stesso da quasi
    due ore.
    Non ci pensò.
    Morire così era impossibile, mentre tutto era ancora intatto
    dentro e intorno a lui.
    La profondità di questa contraddizione non gliene lasciava
    sentire spasmodicamente che l'orgasmo; nessun'altra sensazione di
    dolore per il modo o per il tempo della morte si mescolava al suo
    orrore. Si muore forse, quando si è così nella
    pienezza della vita? Come comprendere la morte? Egli non ne vedeva
    la ragione, pur soffrendone la necessità; quindi non faceva
    che fuggire dinanzi ad essa, che lo circuiva, lo premeva,
    costringendolo a rientrare da tutte le parti in se stesso, a
    spezzarsi volontariamente, senza lasciargli nemmeno la tregua
    indispensabile per riunire tutte le proprie energie in questo sforzo
    supremo.
    Un acuto bisogno di aria e di moto lo fece alzare: non voleva
    restare lì, gli pareva già di essere in cella.
    Allungò la mano per riprendere il cappello, ma non ebbe il
    coraggio. Dove sarebbe andato a quell'ora? Tutti i luoghi gli erano
    diventati indifferenti; non pensava nemmeno a fuggire, sapendo di
    non aver più né danaro né altra risorsa, colla
    quale vivere altrove. La città gli fece improvvisamente
    paura: qualcuno riconoscendolo per via avrebbe potuto fermarlo ed
    interrogarlo. Egli lo sentiva; alla prima parola rivoltagli avrebbe
    dato in uno scoppio di pianto, e la confessione gli sarebbe sfuggita
    intera, spaurita, come ad un bambino, per lasciarlo dinanzi alla
    indifferenza alquanto stupefatta dell'altro. Perché nessuno
    ha davvero pietà di ciò che non lo tocca; si guarda,
    si ascolta, si assente con una segreta inconfessabile soddisfazione
    di non essere in tale caso, e si accusa sempre chi vi soccombe.
    Egli invece avrebbe avuto bisogno di un'immensa pietà. Forse
    vi avrebbe trovato l'energia di soffocare tutta la rivolta,
    nascondendo con un ultimo sforzo quella compiacenza del sentirsi
    quasi rimpianto, che è l'orgoglio segreto di tutti i nostri
    dolori, l'ultima impossibile rinuncia anche pei suicidi. Ma egli non
    aveva a cui parlare, e soprattutto non gli sarebbe riuscito di
    trovarne il modo. La sua colpa era troppo sciocca, nel motivo e
    nelle conseguenze, per eccitare le simpatie di qualcuno: non aveva
    né padre né madre; sua moglie non avrebbe capito
    più dei proprii bambini la tragica fatalità di quella
    scempiaggine.
    Egli doveva esaminarla solo, senza la falsità di alcun aiuto.
    Benché avesse già deciso istintivamente, e tutte
    quelle incertezze non fossero che gli effetti appunto di tale
    decisione, tuttavia l'istinto vi tornava sopra. Morire subito, senza
    dir nulla, senza aver prima esaurito tutti i mezzi di difesa, era
    ancora più impossibile che assurdo. La vita, appunto
    perché piena di drammi, ha un numero infinito di soluzioni,
    le quali non si possono vedere tutte al primo sguardo, mentre la
    morte aspetta pazientemente in fondo, terribile, inintelligibile
    anche quando la si accetta. Prima bisognava calmarsi.
    - Vediamo: che cos'é? Ho fatto una firma falsa in una
    cambiale, - e questa cambiale è stata presentata al pretore
    prima della scadenza. Perché?
    Era stato il Bonoli, senza dubbio. Quell'uomo era il suo nemico sino
    dalle ultime elezioni, nelle quali egli lo aveva stupidamente
    combattuto, accusandolo appunto di essere un socio segreto dello
    strozzino Bugnoli. Tutti in fondo lo sapevano, ma nessuno aveva
    osato formularlo nettamente prima; egli solo, nell'orgasmo di una
    discussione al caffè, per far piacere al vecchio capo dei
    moderati, il signor Trenti, un omone altrettanto grosso di ventre
    che fine di spirito, vi aveva insistito così, citando fatti e
    satireggiando, che il nome del Bonoli era stato scartato dalla
    lista.
    Allora se ne era sentito tutto orgoglioso: per un momento aveva
    quasi creduto che lo avrebbero sostituito col suo, poi era stato
    complimentato, messo quasi nel novero dei vincitori. Ma il Bonoli
    non era uomo da lasciarsi battere impunemente. Mezzo clericale,
    grasso, malaticcio, con cinque o sei figli brutti anch'essi, aveva
    rapidamente, inesplicabilmente accumulato un grosso patrimonio. Era
    infatti socio segreto del Bugnoli; ma ciò non spiegava
    abbastanza quel suo crescendo subitaneo in ricchezza: molti lo
    temevano, quasi tutti lo stimavano per la precisione del colpo
    d'occhio in affari e una sensata larghezza nello spendere. Dopo, si
    erano trovati parecchie volte al caffè, senza che nei
    discorsi o negli atti trapelasse alcun rancore, anzi il Bonoli
    pareva più amabile.
    Adesso capiva tutto; il Bonoli stava appunto comprando dal conte
    Zoli un avanzo di tenuta, quattro grossi poderi, e quella doveva
    essere stata per lui l'occasione d'interrogare il vecchio signore
    sulla cambiale.
    Quel sorriso freddo, senza canzonatura, alla stazione, lo rivedeva
    ancora, provandone lo stesso sgomento tremulo e diaccio: era la
    vendetta segreta dell'uomo forte, che schiaccia quasi
    disattentamente e dimentica.
    Non v'era più riparo. Bonoli, anche scongiurato in ginocchio,
    avrebbe sempre negato la propria partecipazione in quella denunzia,
    mentre il Bugnoli avrebbe finito rammaricandosi di aver ceduto ad un
    moto irriflessivo di sdegno nella scoperta del tiro giocatogli con
    quella firma falsa. Ma era tardi. A chi rivolgersi? Forse il
    pretore, malgrado l'ostentata severità, avrebbe potuto,
    accorrendo subito presso di lui, simulare di non aver ricevuto la
    cambiale, forse non l'aveva ancora trasmessa alla procura del re; ma
    da chi farlo pregare? Le persone influenti, quelle pochissime capaci
    di tale miracolo, non lo avrebbero voluto per un uomo insignificante
    come egli era sempre stato: bisogna essere in una grande posizione,
    o aver reso ben grossi servigi in un partito, per ottenere siffatti
    contraccambi.
    E la fantasia gli riprodusse istantaneamente tutti i tipi dei
    più noti signori in città: non erano gente a lui
    superiore per spirito, solamente erano signori. Ecco la vera,
    più costante superiorità nella vita. Una rabbia fredda
    gli strinse il cuore; egli periva come tutto il resto dei poveri o
    dei piccoli, appunto per essere piccolo e povero. Si ricordò
    del conte Landi, uno scapestrato del paese, che aveva fatto
    più d'una firma falsa, ma al quale per riguardi di nome e di
    parentele tutti erano venuti in soccorso, e lo salutavano, lo
    ricevevano sempre. Tale ingiustizia gli diede quel senso amaro di
    orgoglio contro la società, che aveva sempre sentito nei
    discorsi dei radicali, condannandolo come una bassa invidia. Invece
    era proprio così; a parte ogni altra differenza, la
    società giudica secondo le persone. Essere ricco! non v'era
    altra guarantigia, mentre egli si era rovinato stupidamente per
    sembrarlo; non si poteva essere più sciocco, lo capiva, se lo
    ripeteva con tutto il fiele, col quale l'avrebbe detto e ridetto sul
    viso al proprio peggiore nemico.
    Venne alla finestra. Fuori c'erano le griglie chiuse, ma attraverso
    i loro vani gli apparve un lembo della strada e delle case di
    fronte: non passava alcuno, tutti dormivano ancora. Tese l'orecchio.
    Nessuno in tutta la città doveva trovarsi come lui in quel
    momento; involontariamente si paragonò ad un condannato a
    morte, ricordandosi in un lampo tutti gli articoli delle esecuzioni
    capitali letti sui giornali. Allora non gli erano parsi che
    interessanti.
    La testa gli girava.
    Perché tanti altri peggiori di lui erano più
    fortunati? Egli non aveva commesso che una sciocchezza nella vita,
    innamorarsi di una cantante da operette, e non aveva fatta che
    quella firma falsa, sapendo di poterla sempre pagare colla vendita
    del podere. Era dunque appena uno strappo nelle formalità del
    codice, un fallo di procedura: lo sentiva, era sicuro di non
    ingannarsi. Era ancora un onest'uomo, uno scemo magari, che si era
    mangiato troppo presto il piccolo patrimonio della mamma, ma non un
    delinquente. Non aveva mai rubato. In quel momento si ricordava in
    blocco tutta la propria vita con una specie di malinconica
    alterezza, potendo ancora giudicarla migliore che quella di tanti.
    Non vi era giustizia in tutto ciò; perché tanta
    disparità di trattamento?... E Giovannone? pensò a
    denti stretti per la collera, ricordandosi uno dei più tristi
    farabutti della città, appaltatore, negoziante, baro,
    fallito, quasi ridicolo per i troppi incendi dolosi, e che nullameno
    aveva ammassato un duecentomila lire, era socio del club, della
    barcaccia, membro nella società delle corse, e avrebbe potuto
    essere magari consigliere comunale, volendo.
    Se come tanti, i quali falliscono con un bel gruzzolo in tasca,
    avesse avuto nel portafogli molte migliaia di lire, sarebbe fuggito
    subito a Genova e di là in America, scrivendo poi alla moglie
    di venirlo a raggiungere. In paese avrebbero parlato qualche giorno
    di lui, Caterina avrebbe pianto, piuttosto per la sorpresa che per
    la vergogna, e si sarebbe imbarcata anche lei senza volergli meno
    bene di prima. Quella cambiale falsa non significava nulla
    moralmente, ma era stato come a lasciarsi prendere un dito
    nell'ingranaggio della ruota: nessuno vi salva più, si
    è presi, battuti, masticati da tutta la macchina,
    irremissibilmente. In America avrebbe mutato vita, e forse fatto
    fortuna per conseguenza di quella medesima cambiale falsa. Non lo
    aveva visto egli stesso mille volte? Non lo si vedrebbe anche
    nell'avvenire?
    Ma senza danaro era impossibile salvarsi.
    Adesso comprendeva lo spasimo feroce dei poveri alla vista dei
    ricchi, quegl'impeti fulminei di vendetta, che accendono gli sguardi
    e storcono le labbra. Perché non era egli ricco?
    Perché altri lo era? L'eterna, oscura domanda aveva dentro il
    suo cervello un rintocco lugubre di campana nella notte. Milioni di
    gente, morta o agonizzante come lui unicamente per mancanza di
    danaro, l'aveva ripetuta variandola indarno per tutta la gamma degli
    accenti, senza ottenere una risposta; lo strazio di quasi tutta
    l'umanità non aveva ancora meritato, nonché la
    soluzione, una tregua al problema. Da due ore si sentiva sempre
    più venir meno sotto l'oppressione di tale necessità,
    come sotto un peso, che gli produceva sull'animo gli effetti
    dell'asfissia.
    Si era tolto, senza accorgersene, dalla finestra e passeggiava per
    lo stanzino; fortunatamente le sue scarpe non scricchiolavano.
    In quella visione netta della soverchiante importanza, che il danaro
    ha nella vita, e della impossibilità di attirarlo per meriti
    di virtù o di dolore, si era rivolto immediatamente col
    pensiero alla vendita del podere per fuggire in America. Ma
    lì pure si trovava a fronte dello stesso muro; il podere, che
    poteva valere dalle trentacinque alle quarantamila lire, era coperto
    di ipoteche, così che vendendolo onoratamente gli sarebbero
    forse rimasti cinque o sei mila franchi. I compratori non mancavano.
    Ferdinando Storchi, fra gli altri, l'occhieggiava da un pezzo;
    però un podere non si vende al mercato, come un paio di buoi,
    intascandone subito il prezzo, solo coll'abbandonare al compratore
    un paio di scudi. Anzi i quattro buoi del podere non erano nemmeno
    suoi, ma da tre anni del contadino. La casa pure aveva due ipoteche
    addosso per quasi cinquemila lire, e sarebbe stata più
    difficile a vendersi nel deprezzamento graduale di tutti i
    fabbricati da qualche anno: già la tassa medesima bastava
    oramai a divorarli. Non aveva altro; i mobili dell'appartamento non
    contavano, il suo credito era esausto: a far molto, avrebbe potuto
    racimolare qualche centinaio di franchi per fuggire solo. Che fare
    poi? Solo, si sentiva morire, giacché non lo era mai stato.
    Prima, il babbo e la mamma lo avevano allevato in casa,
    vezzeggiandolo continuamente come figlio unico, poi il babbo era
    morto, ed egli si era ammogliato; non aveva imparato una
    professione, ma la colpa veramente era stata sua nel troncare gli
    studi dopo due anni di università, profittando stupidamente
    della condiscendenza dei genitori. Quindi la sua gioventù era
    passata fra i piccoli piaceri dell'ozio in quella cittadina; un po'
    di caccia, il teatro nell'inverno, la partita al caffè,
    preoccupandosi soprattutto di vestiti, leggendo a mala pena i
    giornali.
    Poco più tardi aveva sposato Caterina, unica figlia,
    dell'ex-ingegnere comunale, morto senza un soldo.
    Come si era innamorato? Si era nemmeno innamorato? Egli stesso
    avrebbe stentato a poter rispondere: si era trovato così,
    quasi senza accorgersi, nell'impegno; la ragazza era buona e
    piacente, la mamma vedeva di buon occhio che egli si ammogliasse
    presto, per meglio scansare i pericoli di una giovinezza
    sfaccendata; ed egli lo aveva fatto allegramente, trovandosene bene
    anche dopo. Null'altro. La passione non vi era entrata. Quando la
    mamma si ammalò mortalmente di tifo, egli aveva già i
    due bambini, che riempirono in casa quel vuoto: tutto era andato
    bene sino allora, malgrado la dilapidazione sistematica e segreta
    del piccolo patrimonio. Caterina non aveva pretese, egli non
    sfoggiava né troppo lusso, né troppi vizii,
    così che i più tra gli indifferenti, coloro che non
    indagano nella vita al di là delle apparenze, dovevano ancora
    crederlo nella sicura e modesta posizione lasciatagli dalla mamma.
    Invece erano bastati sei o sette anni per arrivare a tal punto.
    Il dramma non poteva essere più semplice ed oscuro, un vero
    naufragio d'insetto in una goccia d'acqua piovana, fra due selci di
    strada.
    Nullameno l'espiazione superava di troppo il peccato. Perché
    morire, come nelle più alte tragedie, per una bagattella di
    cambiale, che la vendita del podere avrebbe sempre potuto saldare?
    Per lo meno ciò era altrettanto assurdo che ingiusto. Tutta
    la sua stessa onestà protestava contro un simile trattamento:
    morire! come? perché? quando? La risoluzione sul modo sarebbe
    stata la vera decisione sulla cosa: come morire? Egli non lo capiva
    ancora, benché i ricordi di molti altri suicidi gli
    mostrassero la tragica molteplicità delle varie maniere,
    tutta una visione lontana, nella quale l'anima non voleva
    istintivamente entrare. Forze più vive e misteriose la
    tiravano indietro nel passato, fra quadri domestici e campagnuoli,
    sotto il sole, in mezzo a brigate chiassose, a caccia, a teatro,
    nella intimità della sua casa colla moglie e i bambini. Egli
    non era nato per altro; le grandi emozioni, le imprese difficili non
    le comprendeva nemmeno abbastanza per ammirarle davvero, ma
    piuttosto le giudicava col volgo un romanticismo di teste
    stravaganti, salvo a consentire nel loro trionfo, e a giudicarlo un
    risultato dovuto ad un'altra categoria di gente, colla quale
    né egli né i suoi pari avrebbero mai a trattare.
    Così, riuscendo a trarsi da quell'impiccio, avrebbe poi
    finito come tutti gli altri in qualche impiego per mandare avanti la
    casa ed istruire i bambini. Tale quadro consolante gli appariva in
    una limpidezza di aurora con particolari quasi fragranti; egli si
    attardava, s'inteneriva dicendosi che alleverebbe Carlino meglio
    assai che la troppa condiscendenza dei genitori non avesse allevato
    lui, gl'insegnerebbe ad evitare i pericoli della gioventù
    nell'ozio della provincia, lo farebbe studiare avviandolo
    sicuramente sopra una bella strada. Ada aveva un carattere mite,
    tutto simile a quello di Caterina, e non gli dava pensiero.
    Il suo cuore gonfio di pietà batteva più adagio: la
    confidenza gli tornava appunto nella intimità di quel
    gabinetto, nel quale pochi minuti prima si sentiva come straniero.
    Era rimasto cogli occhi spalancati nell'incanto di quella visione.
    La virtù di una simile vita era già un argomento
    abbastanza gagliardo contro la morte, che avrebbe rovinato tutti
    quegli innocenti, mentre l'espiazione del reato, purtroppo commesso,
    finiva col perdere della propria necessità nell'oblazione
    incondizionata di se stesso ai loro bisogni. E per un momento
    provò la pace fiduciosa, che la preghiera lascia nelle anime
    capaci di annullare dentro il mistero di Dio la propria
    volontà dolente.
    Ma nemmeno questa illusione durò.
    L'idea del processo, dileguata per un momento dentro la luce azzurra
    di quel quadro, gli apparve daccapo in tutta la propria
    terribilità. Forse lì stava l'espiazione vera, la
    purificazione violenta del dolore per ritornare poi lontanamente
    alla vita, se il suo spirito fosse stato abbastanza poetico per
    comprendere la superiorità anche pratica di una tale
    soluzione. Invece egli si fermava fatalmente all'orrore delle
    esteriorità penali, l'arresto, il dibattimento, la condanna,
    senza la convinzione di aver peccato davvero, e quindi nell'assoluta
    impossibilità di capire tale rovina. In questo caso diventava
    più ragionevole morire, risparmiandone a sé e agli
    altri l'inutile spasimo.
    Tutto il problema era lì.
    Invece non aveva che voglia di piangere; grosse lagrime gli si
    staccavano dagli occhi, mentre una trepidazione di fanciullo gli
    taceva rannicchiare tutte le membra quasi per farsi più
    piccolo, colle mani strette fra le coscie, scuotendo il capo
    paraliticamente. Era un pianto silenzioso, quasi dolce, che gli
    avrebbe reso facile persino la morte, se quello avesse potuto
    esserne il modo: vanire come una rugiada, che il sole essica coi
    primi raggi, o come un singhiozzo indistinto nei soliti rumori del
    giorno.
    - Mio Dio, mio Dio! - mormorava tratto tratto, quasi sotto una
    sferzata improvvisa.
    Infatti i terrori gli ritornavano in folla, più veementi. Non
    era più tempo da effusioni, il giorno poteva tardare poco a
    spuntare; una risoluzione era necessaria, anche per non osare di
    risolvere nulla, giacchè un qualunque contegno, un discorso
    bisognava pur prepararlo per presentarsi a Caterina o alla serva.
    Questa era solita ad alzarsi per tempo, qualche volta andava alla
    prima messa.
    Guardò l'orologio: erano le due e mezzo.
    La candela, bruciata più che a mezzo, aveva sulla punta dello
    stoppino una larga gemma rossastra, intorno alla quale saliva il
    fumo; la smoccolò con un buffetto, e rimase un pezzo a
    guardarsi l'unghia del dito medio lievemente annerita, come non
    sapendo più in qual modo pulirla.
    La gola gli bruciava, lunghi crampi gli attanagliavano lo stomaco.
    Prese la candela, e in punta di piedi venne nella saletta.
    Tornò ad origliare, quindi rassicurato da quel russo leggero
    della moglie, si accostò alla tavola per mescersi un
    bicchiere di vino. Sulle prime non andava giù, le lacrime gli
    tornavano agli occhi. Allora sedette guardingamente al posto solito,
    poggiando ambedue i gomiti sulla tavola.
    Aveva scoperto macchinalmente il piatto, nel quale stava il mezzo
    pollo: le lagrime gli intorbidavano la vista, aveva paura di far
    rumore, e nullameno non avrebbe più saputo rientrare nel
    gabinetto. Era come una tappa già oltrepassata, la prima
    seduta del processo, che doveva fare a sé medesimo,
    eseguendone alla fine la sentenza colla inesorabilità di un
    carnefice. Adesso tutto diventava irrevocabile nel suo stato: non
    poteva formulare un pensiero, fare un gesto senza sentire che
    posdomani non avrebbe potuto più ripeterlo. Il suo tempo era
    misurato; anche se non lo avesse voluto, il più
    insignificante fra gli atti della sua vita di prima diventava ora di
    una tragica importanza. Invece la sensazione più acuta gli
    veniva dal freddo dello stomaco, vuoto sino da quella colazione del
    mattino nella trattoria delle Tre Zucchette. Benché la
    possibilità di mangiare in simili condizioni gli ripugnasse,
    aveva senza accorgersene rotto fra le dita un cornetto del pane, e
    stava per metterselo alle labbra.
    Quindi si rinfrancò con un secondo bicchiere di vino,
    guardò il pollo; la sua cresta era bruciacchiata nelle punte,
    due o tre goccie di grasso dorato si erano coagulate nel fondo del
    piatto.
    - Adesso - mormorò, come se nel cedere a tale bisogno fisico
    scemasse valore a quella orribile situazione.
    Poi le abitudini lo riprendevano; tagliò la pagnottina nel
    mezzo dividendola a fette, avvicinò la candela, dispose la
    saliera, insinuandosi la punta del tovagliolo dentro il colletto,
    come usava pranzando cogli abiti che portava fuori di casa.
    Il viso gli rimaneva lagrimoso.
    Nella saletta tutto era al solito posto. La sua grossa pipa in
    legno, ricurva, di modello tirolese, stava sul camino presso alla
    scatola dei grandi zolfanelli bianchi, fatti con le cannuccie di
    canapa: nella credenziera di legno giallo, fra i bicchieri e le
    bottiglie, si vedevano i due vasetti cilindrici, dorati, colla
    scritta nel mezzo - caffè - zucchero -; sotto, fra il
    coperchio e il cassettone di fondo, nel quale erano disposti i
    piatti coi vasi delle conserve sotto aceto e delle ciliege nello
    spirito, v'era il panierino da lavoro della moglie con due grandi
    lettere sanguigne, ricamate in lana. Presso il camino chiuso dal
    paravento, giacché da quindici giorni in quella mitezza di
    stagione non vi si accendeva più il fuoco, i fascetti di vite
    e i ciocchi segati riempivano ancora il panierone, mentre il grande
    cavallo pezzato di Carlino, con una gamba rotta sino quasi alla
    spalla, dormiva rovesciato sopra una sedia, scoprendo le rotelle del
    proprio basamento orribilmente fuori di squadro. Egli si
    ricordò che una rotella era spaccata sino quasi all'asse.
    Aveva già riconosciuto tutti quei piccoli segni della sua
    vita quotidiana.
    Caterina, i bambini e la serva non dovevano aver mangiato che
    l'altra metà del pollo; egli conosceva bene il piccolo
    ingegno parsimonioso della moglie e la sua abilità nel
    rimpinzare i bambini dando loro poca carne.
    Questo particolare lo commosse di tenerezza; Ada era più
    docile, ma Carlino, famelico e battagliero come tutti i fanciulli
    che fanno molto moto, diventava spesso insopportabile. Egli, il
    babbo, avrebbe quasi sempre ceduto, se la mamma non si fosse opposta
    col solito argomento:
    - No, bisogna che i bambini si avvezzino.
          * * *
    - Si avvezzeranno pur troppo... Adesso non temono ancora di nulla;
    ma non bisogna parlarne, tanto non servirebbe loro nemmeno dopo...
    E la frase gli si imbrogliò, ma voleva dirsi, provandone un
    grande sollievo di egoismo, all'idea di non essere presente alla
    scena della catastrofe quando finalmente dovrebbero apprenderla:
    almeno io non ci sarò più!
    Gli era accaduto spesso di rincasare tardi, a quel modo, cenando
    solo mentre gli altri già dormivano, e aveva sempre notato
    che la sua parte di cena era più abbondante che non quando
    mangiavano tutti insieme. Questo delicato riguardo alla sua
    autorità di capo di casa gli faceva ogni volta la stessa
    impressione gradevole: poi, dopo cena, era solito a fumare una pipa
    prima di entrare nella camera da letto.
    Era come un ritorno alle sue notti di scapolo negli ultimi anni,
    prima del matrimonio, quando il babbo e la mamma, che si coricavano
    invariabilmente alle nove, gli lasciavano tutto preparato nella
    saletta, ed egli dormiva allora nello studiolo. Qualche volta si
    faceva accompagnare da un amico, ma, finché era stata viva la
    mamma, non aveva mai osato, nemmeno di notte e sicuro di non essere
    sorvegliato, condurre seco alcuna donna: dopo, il rispetto della
    moglie e dei bambini lo avevano egualmente preservato da tale
    bruttura. Anzi, una volta che Camilla con quel suo riso impudente
    gli aveva detto a bruciapelo:
    - Scommetto che tu non osi portarmi a cena in casa tua, ora che tua
    moglie dorme; ne hai paura, - questa frase gli aveva fatto una
    penosa impressione.
    Invece la perversa ragazza aveva durato a riderne con gli altri per
    forse dieci minuti. Quella sera cenavano in quattro all'albergo del
    Falcone in uno dei camerini a pianterreno sul cortile. Con Camilla
    era venuta la grossa De Angelis e la Nani, più vecchia, con
    quel lungo neo nel mezzo della gota destra, Viani, l'ufficiale, con
    Ridolfi e Politi. Questi era già del tutto rovinato. Si era
    fatto del chiasso e bevuto del Conegliano spumante; poi egli aveva
    accompagnato Camilla a casa senza potervi entrare, malgrado tutte le
    istanze.
    Camilla aveva il carattere cattivo; era di una eleganza stracciona,
    di un biondo ardente nei capelli e con una bocca quasi
    sanguinolenta.
    La prima volta parlandole all'albergo, il terzo giorno dacché
    la compagnia cantava all'Arena Borghesi fuori di porta Montanara,
    era rimasto interdetto dalle sue risposte. La ragazza vestiva un
    abito chiaro tutto sgualcito, con un paltoncino in casimira avana,
    del quale la fodera azzurra cominciava a tagliuzzarsi. Anche il suo
    cappellino rotondo, di una bizzarria temeraria, aveva i nastri e i
    fiori invecchiati.
    Nessuno la trovava molto simpatica, benché tratto tratto
    sulla scena scattasse in gesti di una comicità lubrica ed
    assieme ingenua. Egli invece era rimasto impressionato vivamente dal
    modo appunto nel quale si era lasciata prendere un bacio nel
    Boccaccio, costringendo la platea a gettare un urlo animale.
    - Posso venirvi a trovare domani? - egli le aveva susurrato
    all'orecchio nell'offrirle il paltoncino, mentre la comitiva
    già in piedi stava per uscire dalla sala.
    La ragazza lo aveva guardato enigmaticamente. Egli era andato, ma
    indarno; Camilla era fuori di casa. La sera aspettò al
    cancello dell'Arena per accompagnarla, ma la vide uscire con altre
    amiche ed alcuni giovanotti. Allora si mise a seguirla; la compagnia
    andava all'albergo del Falcone, Camilla invece si fermò alla
    propria porta. Egli affrettò il passo sfiancando al primo
    vicolo, lasciò passare il gruppo e tornò indietro: le
    finestre erano socchiuse. Passeggiò, tossì,
    zufolò inutilmente per mezz'ora. Passava sempre gente;
    improvvisamente la porta si aperse, e Camilla uscì senza
    guardarsi attorno.
    Egli la raggiunse.
    - Ah! siete voi.
    - Ero venuto oggi.
    - Non ero in casa.
    - Dove andate?
    - A cena.
    - Sola?
    - Sola.
    - Non mi volete?
    - No.
    - Perché?
    - Vi è bisogno di un perché?
    Egli rimaneva impermalito. Camilla invece aveva riso gaiamente; ma
    si erano accompagnati.
    - Mi avete veduta stasera vestita da bebè?
    - Siete sempre incantevole!
    - Infatti mi parete incantato. Come vi chiamate?
    - Adolfo.
    - Avete moglie?
    - Perché me lo chiedete?
    - Mi avete pur chiesto di accompagnarmi. Dove andiamo a cena? Badate
    che non voglio trovarmi con alcuno della compagnia.
    Era una cosa difficile; nondimeno egli promise che all'Aquila d'Oro
    non avrebbero incontrato alcuno. Non era vero. Infatti ve n'erano
    molti. Camilla chiamò due o tre donne e uno dei tenori,
    cenarono, risero; ella diventava di una gaiezza sempre più
    irritante, mentre gli altri avevano l'aria di spalleggiarla in
    quella scena.
    Solamente due giorni dopo egli era diventato l'amante.
    La ragazza, senza un soldo, golosa, bestemmiava alla più
    piccola contrarietà e si lavava appena; la prima notte aveva
    ancora sul collo tutta la biacca della recita, ma in compenso
    diventava tratto tratto di una sfrenatezza voluttuosa, alla quale
    nessuno avrebbe potuto resistere. Egli ne era stato travolto. Quando
    la mattina sulle otto si destò dal torpore, che lo aveva
    sorpreso a giorno alto, ella intenta già a pettinarsi
    tornò verso di lui coi capelli mezzo disciolti; aveva la
    bocca più sanguinolenta nel volto più livido.
    - Come ti senti? - gli disse ironicamente al vederlo così
    sfatto.
    Un bagliore le correva sulla faccia smorta; gli aveva messo una mano
    nei capelli e gli tirava su la testa per cacciarsela in seno. Poi lo
    lasciò ricadere sul cuscino.
    - Gli uomini, mi piace di vederli così.
    Questa frase, che allora gli era parsa piacevole, non aveva
    più potuto scordarla: gliene era rimasta, in fondo all'anima
    come una paura segreta, non scevra d'antipatia. Infatti non si erano
    ancora detto di amarsi, malgrado l'inganno così facile in
    simili relazioni, quando la stanchezza inclina alla
    sentimentalità; egli rimaneva con un vago rimorso nella
    coscienza, ella non parlava che di teatro, della vita a Milano, ove
    era stata mantenuta di un gran signore. Allora cominciavano per lui
    le torture. Quella donna quasi magra, di un pallore caldo, coi
    grandi occhi grigi e quella bocca quasi sanguinante, non aveva mai
    un momento di abbandono; anzi ad ogni eccesso i suoi moti parevano
    diventar più agili, e dopo aver girato e rigirato per la
    camera, andava a gettarsi sul vecchio sofà mezzo sgangherato,
    stirandosi come un animale al sole.
    Era la sfida inconscia della femmina, che può nutrirsi
    impunemente con qualche cosa anche più vitale del sangue, e
    nella propria insaziabile voracità non si compiace che di se
    stessa. Egli se ne rendeva conto a mala pena, ma ne soffriva. Era la
    prima volta che una donna gli faceva provare certe cose.
    Ma poi si era innamorato, forse appunto per non sentirsi
    corrisposto, senza potere più adontarsi delle
    trivialità, che ella gli scopriva ad ogni momento. Una
    sensazione acuta lo vinceva al solo vederla, e subito dopo non gli
    restava che un bisogno crescente, tormentoso, di stringerle la testa
    fra le mani e di coprirla di baci. Ella, quando non era in vena di
    carezze, arrivava tosto alle ingiurie, l'altro implorava con
    tenerezze umilianti, si bisticciavano per finire sempre allo stesso
    modo, egli offrendo qualche regalo ed ella ricusando per irritarlo
    maggiormente, così sicura di se stessa che nemmeno si
    pigliava l'incomodo di mentire. Tali provocazioni impudenti, invece
    di farlo fuggire, lo attiravano tristamente, per quel mistero della
    donna, che solamente nell'abbiezione di tutta sé medesima
    trova le proprie forze supreme. Talora si prometteva di smettere,
    perché quella ragazza, chi era mai finalmente? Una cantante
    d'operette, come tutte le altre, senza educazione, senza cuore,
    senza nulla; nemmeno piaceva agli altri. Come mai non piaceva? Forse
    nessuno l'aveva ancora veduta a certi momenti come lui. Questa
    supposizione vanitosa, inevitabile a tutti gli innamorati per il
    bisogno di modificare qualche cosa nella propria amante, lo
    rieccitava alla speranza di farsi amare, come se l'amore solamente
    potesse spiegare in lei quegli scatti deliranti.
    Ella invece lo canzonava anche in pubblico sui vestiti, sulla sua
    educazione e soprattutto sulla spilorceria.
    Due volte credette di averla abbandonata.
    Quando le tornò l'ultima volta, ella gli buttò le
    braccia al collo; era mezzo discinta, aveva mangiato allora allora
    delle sardine colla cipolla, e il suo alito se ne risentiva.
    Lo guardò fiso:
    - Non te ne andrai che quando io vorrò!
    Egli sentì la verità di questa condanna, poi
    pregò, ella non acconsentì in quel momento.
    Poco dopo egli piangeva sopra una sedia.
    - Non hai tua moglie?
    Questa crudele bassezza non l'offese.
    - Se ti annoi, vattene, - ella riprese: - per quello che mi hai
    dato, siamo pari.
    - Che cosa vuoi?
    Non pertanto aveva già speso molto danaro per lei, senza che
    la ragazza si fosse rimpannucciata. Dove lo metteva adunque? Neppure
    essa avrebbe saputo dirlo: aveva pagato dei debiti, ne aveva
    prestato alle compagne, lo buttava in piccole compre, e finiva col
    non avere mai un soldo, così credendo, quasi in buona fede,
    di non costargli nulla.
    Intanto nella città la cosa cominciava a propagarsi. Egli sul
    principio temette qualche scena dalla moglie, poi rassicurato dalla
    ignoranza, che la vita casalinga le faceva, non ebbe più
    ritegno; solamente, quando rimaneva fuori di casa tutta la notte,
    inventava pretesti. Una strana morbosità aveva finito col
    fargli credere di essere cresciuto d'importanza possedendo quella
    ragazza di un temperamento così acre e voluttuoso. Tutte le
    segrete vanità del maschio, acuite da una passione mal
    corrisposta, si combinavano grottescamente nella sua testa. Poi
    erano esplosioni ardenti e luminose di sensualità, che lo
    lasciavano senza forza per andarsene, in una di quelle stanchezze
    pesanti ed insieme gradevoli, come dopo certe scorpacciate, quando
    si prova un ultimo piacere nel non potersi più muovere.
    Ma i giorni passavano rapidamente, la compagnia doveva trasportarsi
    a Cesena.
    - Mi lascerai? - egli le chiese scioccamente una mattina.
    Ella, intenta a pettinarsi, lo guardò senza rispondere. Nella
    cassetta di cartone, entro la quale teneva i pettini, le forcelle e
    gli sfumini per pinturicchiarsi la faccia, c'erano tre o quattro
    fotografie di uomini e di donne.
    Egli ne prese una.
    - Dove sarà costui adesso?
    - Chi lo sa!
    - Eppure è stato il tuo amante! - sospirò tristamente.
    - Vorresti che mi seguissero tutti? - ella rispose con uno scoppio
    di riso.
    Capiva di essere assurdo, eppure la volgarità di quel finale
    gli faceva una pena infinita. Quella mattina le aveva portato
    centocinquanta lire, delle quali la ragazza diceva di essere in
    debito col direttore: il danaro era ancora sul comò.
    - Mi verrai a trovare?
    - Sì.
    - Non ti credo. Voi altri uomini dimenticate anche più presto
    di noi altre; poi tu hai paura della moglie.
    L'ultima sera, in teatro, mentre il pubblico fingeva allegramente
    d'entusiasmarsi in quella rappresentazione di addio, egli si sentiva
    il cuore così grosso che avrebbe quasi pianto; invece gli
    toccava di vociare in mezzo agli amici per non attirarsi i loro
    sarcasmi, e nemmeno vi era riuscito. La compagnia partiva la mattina
    col primo treno delle quattro; ma non ostante tutte le promesse,
    quella notte la ragazza non volle riceverlo: egli ne rimase furioso.
    Stette insino all'alba per i caffè, e andò con altri
    due nottambuli alla stazione per vedere la partenza.
    Era già dimenticato. In quel trambusto, tra i fagotti, le
    valigie e tutti quegli uomini e quelle donne sonnacchiose,
    malvestite, affaccendate intorno alle proprie robe, mentre gli
    impiegati giravano su e giù con le lanterne, rispondendo con
    accento seccato alle brevi contestazioni, non gli fu possibile
    trovare il momento per uno sfogo. La ragazza sfringuellava sempre in
    qualche crocchio di compagne, quasi tutte incollerite, o correva su
    e giù per le sale con certi moti vispi, che a lui svegliavano
    troppi ricordi. Finalmente poté rattenerla un istante.
    - Venite a Cesena domani sera, - ella gli disse senza badare alle
    sue parole.
    Egli nascose a stento lo sdegno, l'altra era già lontana.
    Quando il treno arrivò, il rimescolìo divenne pazzo
    addirittura. Era un treno diretto: il grosso dei bagagli restava in
    stazione per partire con un altro treno della giornata. Le donne si
    cacciarono dentro i vagoni con un garrito di passere, alcune in
    seconda, altre in terza classe; dagli sportelli aperti si vedevano
    gli scompartimenti gremirsi in un attimo di sottane, di cappellini,
    di fagotti, di valigie, mentre la voce dei conduttori scoppiava
    tratto tratto in sollecitazioni impazienti, e le figure tumultuavano
    dietro gli sportelli già chiusi, mentre il treno fischiava
    divincolandosi.
    Egli rimasto sul marciapiede col cuore stretto e gli occhi fissi
    allo sportello, dietro il quale ella era scomparsa, traballò
    come il suolo, allungando il collo per vedere ancora, ma la fila
    nera dei vagoni si allontanava già, senza che la ragazza
    avesse sporto il capo dalle tendine svolazzanti nel vento di quella
    fuga.
    L'indomani sera andò a Cesena.
    D'allora la sua passione crebbe morbosamente. Camilla aveva
    confessato subito di avergli trovato un successore, con quella
    inconsapevole spudoratezza, davanti alla quale si resta quasi
    perplessi di aver torto; egli si esasperò, pianse, discese
    alle minaccie, e finì col lasciarsi vincere dalla prima
    carezza. Non pertanto gliene restava in fondo al cuore il rancore.
    Sciaguratamente l'altro era facoltoso, un uomo quasi sulla
    cinquantina, celibe, vissuto sempre allegramente, che,
    nell'apprendere la cosa, rise. Quindi una gelosia di vanità
    avvelenò quell'amore nato da un capriccio e cresciuto fra le
    immondizie della vita e della scena. Egli avrebbe voluto essere
    ricco per trarla da tale compagnia di saltimbanchi, tenendola tutta
    per sé in una qualche casa solitaria; e forse così
    sarebbe guarito; ma quella lotta senza alcun orgoglio morale,
    interrotta da transazioni ignobili, dopo le quali si sentiva
    più male di prima, lo degradava anche ai propri occhi.
    Alla terza gita gli toccò di passare tutta la notte per
    Cesena, perché Camilla cenava in casa di quel signore con
    alcuni artisti della compagnia; quindi capì che dovevano
    ridere di lui e della sua ridicola passione col cinismo proprio di
    tale gente, quando trova nel vino l'ultima falsa gaiezza.
    - Come avrei dovuto fare? - fu tutta la risposta di Camilla
    nell'incontro successivo.
    L'altro aveva una voglia pazza di batterla.
    Improvvisamente ella cangiò: si era fatta malinconica, non
    discorreva più!
    Era vestita elegantemente con un abito di lanetta crema, un
    cappellino piatto sulla testa, le scarpette gialle, le calze nere;
    il suo viso illuminato dalla fiamma dei grandi occhi grigi, fissi in
    uno sguardo indefinibile, diventava di una certa signorilità.
    Egli stesso fu sorpreso da un nuovo sentimento.
    Poi Camilla parlò adagio, coll'accento stanco di chi si
    lascia andare ad una confessione pur sapendola inutile; erano brani
    della sua vita passata, evocazioni triviali e dolenti di una
    giovinezza sagrificata come tante altre dalla brutale corruttela dei
    genitori. Ella pareva accettarne la necessità con una confusa
    poesia di sagrificio.
    Però era stanca di se stessa.
    Lo congedò, egli protestava.
    - No? E perché? A che cosa mi servi tu?
    - T'imbarazzo? - egli rimbeccò amaramente.
    - Certo.
    - Come?
    - Tu non puoi niente per me.
    Dopo un lungo battibecco ella confessò di avere un bisogno
    imprescindibile di duemila cinquecento lire; doveva questa somma al
    direttore, che aveva minacciato di scacciarla. Evidentemente si
    trattava di una frottola, ma la sua faccia era così ansiosa e
    il suo accento così convinto, che l'altro si lasciò
    commuovere.
    - Tu non li hai; poi se li avessi anche... ti conosco.
    - E dopo che te li avrò dati, mi tratterai allo stesso modo?
    Un lampo bruciò negli occhi della ragazza, egli lo vide.
    - Mi vorresti possedere tutta la vita per duemila e cinquecento
    franchi!... Vattene.
    Egli titubava.
    - Mai più, mai più!
    - Almeno l'ultima volta.
    Ella ebbe una smorfia così sdegnosa che l'altro ne
    provò quasi la sensazione di uno schiaffo.
    - Quando ti occorrerebbero?
    - Vattene.
    Camilla si era tratta il cappellino e si spogliava senza badargli
    più, come se fosse già uscito: l'altro rimaneva
    perplesso, guardandola girare in sottana per la stanza col petto
    già scoperto e il busto azzurro-cupo, listato d'oro, che le
    disegnava una curva di anfora sulle anche e sul ventre.
    Si accostò per darle un bacio, ma ella lo respinse
    brutalmente contro una sedia.
    - Avaro!
    - Non credi che io abbia duemila e cinquecento lire?
    - Forse non le hai nemmeno, pitocco. Ma levati dunque di qui... Dio!
    che antipatico!
    Era uscito pallido, con una tempesta di odio nel cuore.
    Che cosa era accaduto dopo? Non se ne ricordava bene che l'ultima
    parte, la più terribile, quella che d'allora gli aveva creato
    tale tragica situazione. Era entrato nella bottega dello strozzino
    sotto il loggiato alle undici; passava poca gente; la piccola
    bottega al solito era vuota. Nella vetrina, distese come dentro una
    cassa di vetro, luccicavano molte antiche monete d'argento, e si
    drizzavano tinte di un pallido cilestro due larghe cartelle di una
    lotteria comunale: dentro, null'altro che un banco rettangolare,
    nero, che nascondeva forse nel ventre la piccola cassa forte, e
    parato al disopra di un panno turchino come usano gli orefici. Lo
    strozzino sedeva al banco leggendo la “Gazzetta dell'Emilia”. La sua
    faccia grinzosa si volse di sbieco, ma gli occhietti grigi non si
    mossero, e la bocca rapace, quasi rientrata nel vano delle gengive,
    rimase chiusa come sempre. Siccome l'altro si levava il cappello,
    anche lo strozzino salutò; allora la sua fisonomia divenne
    così caratteristica che Romani ebbe quasi paura davanti a
    quella testa pelata, piatta, con pochi capelli incollati sulla
    fronte, come una testa di magro avoltoio.
    Il dialogo aveva cominciato stentatamente.
    Poi una disinvoltura quasi spavalda gli era venuta improvvisamente,
    presentando quella cambiale falsa, ma colla firma imitata benissimo;
    lo strozzino avrebbe dovuto comprendere che colla firma di un tal
    signore non occorreva certo rivolgersi a lui per lo sconto; non di
    meno la sua fisonomia, ancora più chiusa in quel momento
    della sua cassa forte, non esprimeva nulla. Guardava attentamente la
    cambiale.
    - Desiderereste per caso una firma migliore? - Romani credé
    di poter aggiungere scherzando, mentre un sudore freddo gli
    inumidiva istantaneamente tutta la pelle.
    - Sconto del dodici per cento: impossibile a meno, lo sapete.
    E lo strozzino aveva riabbassato gli sguardi sulla cambiale.
    - È troppo.
    - Presentate ad un altro la vostra cambiale; del resto ha una firma,
    che vi fa onore.
    Vi era un doppio senso in queste parole?
    L'altro si era affrettato a cedere.
    - Ebbene, ripassate oggi alle due - soggiunse lo strozzino, mettendo
    accuratamente la cambiale in una casella del vecchio portafogli, che
    portava in tasca: adesso non ho pronto tutto il danaro.
    Romani aveva avuto come una vertigine; guardava quella testa glabra,
    rugata, nella quale la bocca storta e socchiusa sembrava immobile
    per la fatica di una troppo lunga masticazione, mentre negli
    occhietti grigi si accendevano brevi luccicori di acciaio vecchio.
    Tutto in lui era povero; il colletto della camicia dritto, ma senza
    amido, usciva da un sottile cencio di cravatta, che doveva
    stringergli il collo fin troppo, il bavero del pastrano era grasso,
    il resto degli abiti sgualcito e stinto. Solo le scarpe apparivano
    solide, grosse e rossastre nella peluria, che la mancanza del lucido
    aveva lasciato crescere sulla tomaia.
    Fino alle due Romani era vissuto dentro un incubo. Se ne ricordava
    bene, giacché tutte le percezioni gli erano rimaste chiare:
    si era sentito già denunziato, perduto, senza che dal fondo
    dell'anima gli sorgesse una qualunque resistenza.
    Quando rientrò nella bottega, aveva quello strano sorriso,
    col quale gli ammalati senza speranza accolgono talvolta il medico.
    L'altro invece era più ciarliero: trasse di tasca il danaro,
    lo contò e lo ricontò alla sua presenza.
    Romani vi scorse un bono da cinque lire falso, ma non osò
    farne l'osservazione: si sentiva scoppiare in una dilatazione
    subitanea di benessere, che gli gonfiava cuore e polmoni; negli
    occhi gli entrava una luce stranamente limpida e, poiché vide
    passare due signore di sua conoscenza sotto il loggiato, si volse
    scioccamente per salutare.
    - Siamo intesi per la scadenza.
    - Non dubitate.
    - Se avessi dubitato...
    Ma Romani aveva già la gruccia dell'uscio in mano.
    - Come sta il conte? - gli chiese l'altro alle spalle.
    - Bene.
    E si era affrettato ad uscire.
    Corse alla stazione, alle quattro scendeva a Cesena. Non
    trovò la ragazza a casa. Quando l'incontrò due ore
    dopo, in compagnia di altri cantanti, non poté farle che un
    cenno, cui ella finse di non badare.
    Allora divenne imprudente, la pedinò sino a casa e,
    poiché salivano anche coloro con lei, poco dopo
    arrischiò di presentarsi.
    La padrona non voleva lasciarlo passare, Camilla accorse al rumore.
    - Ho quella cosa, - egli le gridò quasi.
    - Dammi... - e tese puerilmente la mano.
    Ma l'altro non si mosse; non di meno il suo viso era così
    raggiante che la ragazza rimase convinta.
    - Torna fra tre quarti d'ora. L'hai tutta, quella cosa?
    Mezz'ora dopo risalendo le scale, giacché nel bollore della
    propria impazienza non aveva neppure potuto attendere tutto il tempo
    assegnatogli, Romani incontrò per le scale un facchino carico
    di un baule; la ragazza era ancora sulla porta dell'appartamentino
    guardando.
    - Ah! sei tu, vieni, - esclamò con un tremito nella voce; ma,
    appena dentro, la sua fisonomia si era fatta repentinamente dura.
    - Non mi hai ingannata?
    Egli, che aveva comprato appositamente un altro portafogli, lo
    trasse di tasca e glielo offerse: era di seta azzurra con una
    ballerina dipinta nel mezzo. La ragazza si chinò con le mani
    tremanti sul comò a contare il danaro; ma non erano che
    duemila e quattrocento lire, perché egli ne aveva cavato un
    bono da cento, rosso, per quella piccola avarizia del non voler
    perdere tutto.
    Ella gli saltò impetuosamente al collo mordendogli le guance,
    rispondendo alle sue parole come in una ubbriachezza improvvisa:
    - Sì, sì.
    Non poteva star ferma, si mise a girare su e giù per la
    stanza.
    - A che ora sarai libera? - domandò tutto felice di
    contemplare quella sua gioia profonda: - Mi ami un poco adesso?
    Non aveva saputo dir altro, soffocato egli stesso dal bisogno di
    riprendersela fra le braccia, per sentirsi scricchiolare sul petto
    il suo sottile corpicino di danzatrice.
    Dopo, per tutta quella notte era stato come un abbarbaglio di
    girandola, un tumulto giocondo e brutale, che lo aveva lasciato al
    mattino rifinito e assonnato sul guanciale.
    - A che ora parti? - ella gli aveva chiesto con la sottana
    già infilata.
    - Col treno di mezzogiorno: torno qui?
    - Ho da fare.
    Invece egli si era riaddormentato sino alle undici.
    Quando si svegliò ebbe l'impressione di qualche cosa di nuovo
    nella camera e nella ragazza: non trovò più né
    il sapone né il pettine di lei, che soleva adoperare.
    - Mio Dio! non hai sentito sulle dieci che è venuto l'uomo a
    prendere la cesta per stasera? Ho dovuto mandare tutto in teatro,
    non hanno nulla laggiù in quella maledetta Arena, - ella
    rispose impazientita.
    Si salutarono freddi.
    Egli era stupito di sentirsi malcontento, col cuore vuoto e una
    spossatezza, nella quale gli ritornavano indefinibili paure.
    Ripartì col treno di mezzogiorno: tre ore dopo Camilla
    fuggiva col secondo tenore della compagnia, senza lasciare il
    proprio indirizzo.
          * * *
    Era ancora a tavola, col mento sulla palma della mano e gli occhi
    nel vuoto.
    Altre circostanze di quella sua relazione con lei gli ripassarono
    nella memoria senza interessarlo: ci aveva pensato già
    troppo, facendosi indarno tutti i rimproveri possibili: poi, a che
    pentirsi? Tanto la situazione non cangiava. Aveva amato davvero? Era
    stata una passione quella? Adesso non lo comprendeva più
    bene, ma sentiva che, rivedendo quella ragazza, non avrebbe provato
    nulla, nemmeno una sensazione di sdegno, come dinanzi alla causa di
    tutta la propria sventura.
    La necessità di andare a letto lo riprese: la candela stava
    per finire, forse fra due ore Anastasia si alzerebbe, poiché
    quella mattina era domenica.
    In tutta la sua vita non gli era ancora capitato di pensare tanto;
    oramai non ne era più capace, e la mente gli si distraeva in
    futili particolari, che avrebbero dovuto far stupire lui stesso in
    tale momento.
          * * *
    - Ah! - fece Caterina con voce sonnacchiosa, girandosi sul fianco
    verso di lui.
    Egli si era spogliato nella saletta, entrando poi guardingamente
    nella camera con la speranza di stendersi sul letto senza destarla.
    - Dormi?
    Ma ella non dormiva più.
    - Perché hai fatto così tardi? - seguitò
    tastandogli una spalla.
    - È appena mezzanotte.
    - Non ti è accaduto nulla?
    - No, dormi: anch'io ho bisogno di dormire.
    Rimase supino, senza la forza di rivolgerle la schiena: un'idea lo
    aveva assiderato. Quella era l'ultima notte di matrimonio per lui e
    per Caterina, benché nessuno dei due sapesse davvero che cosa
    accadrebbe l'indomani; ma una nuova angoscia più atroce di
    tutte le altre gli stringeva il cuore al pensiero che un altro
    forse, fra non molto, potesse trovarsi in quel letto al suo posto,
    cogli stessi diritti e senza la più piccola meraviglia, a
    parlare di lui, naturalmente per dargli torto. Caterina non avrebbe
    mai potuto approvare quella morte, e pigliando un secondo marito,
    come per centomila ragioni lo prendono quasi tutte le vedove
    giovani, gli sacrificherebbe anche il rispetto del primo.
    - Con quale corsa sei ritornato?
    Egli cercava di non rispondere.
    - Dormi? Ma è dunque tardi? Ti abbiamo lasciato la cena.
    Pareva che non volesse più riaddormentarsi.
    - Stamane alle nove debbo andare dalla zia Matilde coi bambini;
    dovresti venire anche tu. Metterò l'abito rimodernato.
    Perché non mi hai portato un mazzettino di viole in tela?
    Sono di ultima moda e costano quasi nulla.
    - Come potevo pensarci?
    - Ma che cos'hai? - tornò a chiedere con uno scoppio
    improvviso.
    - Lasciami dormire.
    - E se non lo volessi?
    Egli era finalmente riuscito a voltarsi, e pensava:
    - Se adesso suona l'orologio della piazza, siamo daccapo.
    Attendeva raggomitolato colla testa mezzo coperta dalle lenzuola,
    benché nella camera facesse caldo; il cuore gli batteva
    impetuosamente.
    Aveva compreso che tutte le forze stavano per venirgli meno, e
    quell'interrogatorio così insignificante della moglie lo
    avrebbe con altre poche domande fatto scoppiare in pianto. Un
    desiderio spaventato gli cresceva ad ogni minuto di essere solo nel
    letto per ravvoltolarsi strettamente nelle coperte, col volto
    schiacciato nel cuscino.
    Caterina si voltò dall'altro lato, e poco dopo si
    riaddormentò.
    Egli vegliava cogli occhi dilatati, in ascolto del più
    piccolo rumore; dall'uscio dell'altro stanzino, ove dormivano i
    bimbi, si udiva russare Anastasia; un tenue filo di luce passava per
    una fessura della finestra, e si perdeva nel buio della camera senza
    rischiararvi alcun oggetto.
    Gli parve di aspettare: che cosa? Non lo sapeva; ma il letto lo
    stancava invece di riposarlo. Una smania gli veniva dallo stomaco a
    tutti i muscoli, provocandovi dei piccoli sussulti, dei brividi
    lievi, simili a scariche silenziose, dopo le quali provava
    un'impressione di freddo. Una specie di vacuità gli si era
    fatta nel cervello. Avrebbe voluto assopirsi in quel primo
    vaneggiamento di febbre, colla testa pesante, sprofondata nel
    cuscino. Ma il letto non gli pareva buono come le altre notti, non
    poteva girarsi e rigirarsi sui fianchi pel timore di svegliare
    daccapo Caterina.
    Strinse violentemente gli occhi, dicendosi con tutta la forza che
    gli restava, di voler dormire.
    Poco dopo, l'orologio della piazza batté le due e tre quarti.
    Qualcuno cominciava a passare per strada. Coll'orecchio reso
    più acuto da quell'orgasmo seguì e distinse la battuta
    dei passi, che si allontanavano di sotto alle sue finestre. Quelli
    delle donne, quasi tutte vecchie in quell'ora, parevano strisciare;
    erano donne di piazza che vi si affrettavano per disporvi le mostre
    degli ortaggi, o beghine già fuori di casa per la prima messa
    del Duomo. Una biroccia scrollò i vetri della finestra; ma
    quel filo di luce vi passava sempre così tenue, vanendo a
    pochi passi nell'ombra.
    Poi ebbe caldo. La smania gli aumentava, eccitata dal calore dei
    materassi in lana e da quello, anche più vivo, che il corpo
    giovane e grasso di Caterina radiava al suo fianco. L'aria stessa si
    faceva più pesante.
    Perché era venuto a letto, sapendo di non potervi dormire? Il
    pentimento fu così acuto che si rigettò le coperte dal
    collo; ma le riprese quasi istantaneamente, ritraendosi sulla sponda
    col proposito anche più fermo di addormentarsi.
    Infatti la stanchezza lo aveva esaurito.
    Poco dopo, sognava.
    Le raffiche della pioggia si schiantavano sempre più
    violentemente urlando nell'aria sotto un cielo nero. Come mai si
    trovava egli solo nella campagna deserta a quell'ora? Non conosceva
    la strada, non si vedevano più case attraverso il velo
    pesante dell'acqua. Era rimasto immobile, rannicchiandosi
    timidamente sotto la bufera, col ricordo confuso di non essere
    diretto molto lontano, ma senza poter nemmeno tenere gli occhi
    aperti, perché le goccie vi battevano contro dolorosamente.
    Anzi per qualche tempo, colle mani nelle tasche dei calzoni, e
    l'acqua che dalle cuciture del cappello gli colava giù per il
    viso, si era abbandonato a piangere. Un pianto amaro e silenzioso
    gli era uscito dagli occhi, mentre collo sguardo incerto cercava di
    seguire una barchetta di carta azzurra, galleggiante sul fosso della
    strada e che ne discendeva il pendio, senza che i goccioloni
    sembrassero toccarla. Forse un fanciullo si era divertito
    nell'affidarla alle acque per una vaga reminiscenza del diluvio
    universale, quando gli oceani si congiungevano alle cime dei monti e
    l'arca sola errava sul mondo sommerso. Infatti la barchetta si
    dondolava appena, come nella letizia del temporale, serbando nella
    soavità cilestrina del proprio colore tutto il sorriso del
    cielo. E improvvisamente egli vi scorse dentro il cavallo di
    Carlino, quello medesimo che dormiva sdraiato sopra una sedia nella
    saletta da pranzo; ma adesso invece era dritto, malgrado la gamba
    davanti rotta sotto il ginocchio, e il vento gli sollevava di dietro
    il pennacchio della coda fatto con sottili setole bianche da
    spazzola. Dove andavano quella barca e quel cavallo? Quale comando
    di favola spediva il cavallo di Carlino, sopra una barchetta di
    carta, ove non era possibile indovinare? Non di meno in lui cresceva
    la preoccupazione di quel viaggio, come se il destino di suo figlio
    vi fosse congiunto, ed egli stesso si trovasse lì nient'altro
    che per sorvegliare la strana imbarcazione. Poi tra la melma
    spumeggiante dell'acqua cominciarono a passare mucchi di foglie
    morte e di pagliuzze, che negli urti contro la sponda aprivano
    spessi vortici, e vi sprofondavano per riapparire a strisce poco
    lungi. Anche la barchetta se ne risentiva. Benché i suoi
    fianchi non lasciassero ancora schiudersi le ripiegature, era
    già affondata sino all'orlo e non inoltrava che lentamente.
    Il cavallo invece, niente preoccupato del pericolo, colla testa
    immobile, senza nemmeno sentire le larghe redini di panno rosso
    inchiodate sull'arcione della sella nera, teneva gli orecchi dritti
    nel vento ad un appello lontano.
    La voce disperata di Carlino gridava:
    - Il mio cavallo, il mio cavallo!
    Ma la barca seguitava ad affondare, le sue ripiegature di poppa e di
    prua si erano distese sulla corrente. Per un minuto il cavallo
    apparve miracolosamente ritto su quella specie di piccolo manto
    cilestre, senza che per tutto il suo corpo un brivido solo tradisse
    la paura.
    - Oh! - egli esclamò lanciandosi al suo soccorso,
    perché un grosso manipolo di stecchi stava per investirlo; ma
    cadde pesantemente sotto l'acqua, rimanendogli negli orecchi
    l'ultimo strido di Carlino, che singhiozzava sempre:
    - Il mio cavallo, il mio cavallo!
    Aveva provato, per qualche secondo, l'asfissia dell'annegamento; poi
    gli pareva di essere trascinato per una cloaca; le acque non
    passavano più, ogni rumore era cessato, ed egli rimaneva
    immobile, coricato nella melma. Era dunque morto? Il suo pensiero
    solo viveva, perché il pensiero non può morire, ma i
    suoi occhi spalancati non potevano muoversi nemmeno dentro le
    orbite. Non vedeva nulla. Allora un terrore senza nome gli coperse
    l'anima: era quella l'eternità assegnatagli? Una cloaca senza
    sfondo, nella quale tutto si arrestava separatamente, per sempre,
    nel silenzio di un'ombra vuota.
    Fece uno sforzo delirante per gridare, ma la melma gli aveva
    otturato la bocca, e un lombrico vi si moveva pigramente.
          * * *
    Dalla fessura della finestra filtrava un lume più chiaro.
    Spaventato, si volse dall'altro lato per dormire ancora, sentendosi
    tutto mollo di un sudore freddo.
    - Mio Dio, mio Dio! - mormorò.
    Le campane del Duomo suonavano lietamente nel mattino, la gente
    passava a frotte per la strada, le voci salivano, mentre il fragore
    sordo dei carri imprimeva ancora alle case gli stessi scuotimenti
    che nella notte. Così mezzo assonnato, cogli spaventi di
    quell'ultimo sogno si vedeva dinanzi la faccia dello strozzino
    diventato uno di quei grossi ragni, quasi rotondi, dalla pelle
    zebrata, che tessono la propria rete verticalmente dinanzi alle
    finestre delle cantine, e vi rimangono immobili nel centro
    aspettando le mosche. Lo strozzino aveva adesso un ventre enorme,
    lucido, con una testina nera e due occhietti ardenti, che lo
    fissavano senza stancarsi.
          * * *
    - Oh! - gridò di soprassalto al fracasso della finestra, che
    si apriva lasciando il varco ad un vivissimo raggio di sole.
    - Non t'immagini che sono già le nove e mezzo! - gli rispose
    Caterina, ritta fra le tende coi capelli biondi incendiati dalla
    luce: - Ti abbiamo lasciato dormire sino ad ora, perché
    dovevi essere stanco. Ieri sera hai fatto tardi.
    Egli cogli occhi abbacinati non la vedeva ancora bene, aveva la
    testa pesante, la bocca pastosa.
    - I bambini sono già andati a messa con Anastasia, -
    seguitò Caterina: - Se avessi visto, quando abbiamo provato
    loro le vestine nuove! Ada si è messa a piangere.
    - Perché?
    - Voleva un nastro celeste alla cintura, come quello di Carlino.
    Caterina si era appressata al letto.
    Portava il solito abito di lanetta azzurro-cupa, che dava un bel
    risalto alle sue carni fresche di bionda; l'abito aveva, secondo la
    moda oramai vecchia di qualche anno, le maniche a sbuffi verso la
    spalla e la gonna, quasi corta, pieghettata sui fianchi. Il suo viso
    calmo, con un principio di pinguedine sotto le guance, aveva sempre
    la stessa espressione di bontà; qualche lentiggine le
    macchiava i pomelli, gli occhi troppo rotondi e quasi bianchi non
    dicevano gran cosa, ma il suo sorriso era dolce come sempre.
    - Non ti alzi?
    - Sì, aspetta.
    - Ti aiuterò io: ho mandato i bambini a messa, perché,
    così vestiti di nuovo, con me non sarebbero stati fermi, in
    chiesa. Carlino era in un orgasmo incredibile. Io andrò sola
    alla messa delle dieci e mezzo in S. Bartolomeo, poi torno a casa
    per condurli a fare un giro nel corso. Sono tanto carini
    così, li vedrai!
    Egli si era svegliato, al solito, in quella camera, nella quale
    tutto gli era famigliare. Il mobilio in noce si componeva di un
    letto, due comò, l'armadio collo specchio, un tavolino da
    toeletta e due portacatini, uno per lui e uno per Caterina, nascosti
    nell'angolo dietro l'armadio. Ma i comodini erano ricoperti di un
    piccolo ricamo bianco ad uncinetto, perché i candelieri e i
    bicchieri dell'acqua per la notte non ne sciupassero la lustratura.
    L'aria ed il sole avevano riempito allegramente la camera.
    Caterina andò nella saletta a prendergli i panni già
    spazzolati.
    - Avresti potuto spogliarti qui, stanotte.
    - Non volevo disturbarti.
    - Ti ho sentito ugualmente. Alzati, dunque, vado a prenderti l'acqua
    fresca.
    Egli si accorse di avere le ossa indolenzite. Improvvisamente quel
    pensiero dimenticato lo riassalse.
    Quando Caterina tornò con la brocca bianca nella mano, egli
    guardava la parete con gli occhi spaventati.
    - Muterò l'asciugatoio dopo; per questa mattina ti puoi
    ancora servire del vecchio; - e ne aveva già tolto un altro
    dal comò, a lunga frangia candida, ornato da due grandi
    lettere sottili, a colori rosso e turchino.
    Ma siccome l'altro non si alzava, si voltò ad osservarlo.
    - Mi sembri pallido: hai dormito male?
    - No, no, - rispose nervosamente, allungando un piede fuori dalle
    lenzuola per cercare le pantofole; poi così in camicia, coi
    piedi nudi, venne a mirarsi nello specchio della toeletta.
    Infatti aveva l'aria sparuta; chiazze plumbee gli macchiavano la
    pelle, gli occhi gli si erano affossati; si vide dimagrito,
    invecchiato, con un senso doloroso di sorpresa.
    - Tu hai qualche cosa, - disse nuovamente Caterina, venuta per di
    dietro a guardare nello specchio.
    - Ti dico di no: chiudi piuttosto i vetri della finestra.
    - Con questo bel sole!
    Intanto li chiudeva.
    - Ti farò un caffè, se hai rimasto qualche cosa
    d'indigesto nello stomaco.
    Finalmente fu solo.
    Tutta la lunga tempesta della notte gli si ripresentava nella
    memoria, piuttosto indolenzita che calmata dal sonno pesante di
    quelle poche ore, e gli ricominciava nella coscienza quella
    novità insopportabile del sentirsi straniero nella propria
    casa. Daccapo il freddo lo sorprendeva, così in camicia,
    malgrado il tepore dell'aria e l'impeto rutilante del sole, che
    passava trionfalmente attraverso i vetri.
    Per rischiararsi la mente si affrettò a tuffare il viso nel
    catino. Ordinariamente la sua toeletta era svelta e poco accurata;
    si lavava il viso, poi colla spazzola si ravviava i capelli, non
    aveva altre abitudini di culto per sé medesimo. Ma dopo
    essersi asciugato davanti allo specchio, si vide colla stessa faccia
    di prima, anzi gli occhi gli si tornavano a gonfiare. Quindi si
    rimise la camicia del giorno innanzi cogli stessi abiti.
    - Ma come! - esclamò Caterina rientrando nella camera, dopo
    aver lasciato il caffè a precipitare lentamente entro la
    cocoma sul focolare della cucina: - non ti cangi il vestito? Hai
    ancora la camicia di ieri, oggi che è domenica.
    Egli alzò le spalle, ma l'altra insisteva.
    - Che importa?
    - Lo hai sempre fatto tutte le domeniche.
    - Non lo farò più.
    - Che cosa?
    Per non spiegarsi egli tentò di sorridere scrollando la
    testa; però pensava che altri, vedendolo a quel modo, poteva
    fare la stessa osservazione di Caterina.
    Dovette andare con lei in cucina a prendere il caffè. Sul
    fornello fumava la pentola, una coscia di capretto infilata nello
    spiedo stava entro un piatto sulla tavola, poiché in casa non
    avevano gatti; era questa una mania di Caterina.
    - Oggi Anastasia farà anche una piccola zuppa inglese per i
    bambini; avranno quest'altro piacere, dopo quello degli abitini
    nuovi.
    E la mamma sorrideva contenta nel pensiero della sorpresa, alla
    quale i piccini avrebbero battute le mani a tavola gridando.
    Poi l'interrogò sulla gita a Bologna: come mai aveva potuto
    fare tanto tardi? Che cosa era successo?
    - A proposito, aspetta: me n'ero scordata.
    E scappò, ritornando indi a poco colla faccia attonita.
    - L'hai presa tu? Avevano portata una lettera.
    - Sì, - egli rispose con voce strozzata.
    - Niente d'importante?
    - Niente.
    Dopo questa parola egli depose la tazza del caffè sul
    focolare, invece di accostarla alle labbra.
    - Vi avrò messo poco zucchero; a te piace che tutto sia
    dolce.
    - Già!
    Vuotò la tazza, e tornò nella camera per finire di
    vestirsi; aveva fretta di uscire.
    - Ma non aspetti i bambini? Eccoli! - ella gridò sporgendosi
    dalla finestra, che aveva riaperto.
    Due minuti dopo i fanciulli entravano trionfalmente nella camera, e
    correvano ad abbracciare le ginocchia del babbo, più
    guardingamente del solito in quella vanità dei vestitini
    nuovi. Al vederli così belli egli stentò a frenare le
    lagrime; cadde sopra una sedia e si mise a baciarli furiosamente;
    essi ridevano, Caterina sorrideva, ma Anastasia protestò.
    - Vuole dunque spiegazzare tutto, mio Dio! è proprio
    così; - e con una mano afferrando quella di Ada, l'aveva
    già tirata indietro.
    Carlino invece si era arrampicato sulle ginocchia del padre.
    - Io vado, - riprese Caterina, - tornerò a prendervi fra
    un'ora: non vi sporcate, piccini! Mi raccomando, Anastasia.
    - Io... come si fa? debbo preparare l'arrosto: riconduca i bambini a
    messa con lei.
    - Figurati! mi farebbero impazzire, adesso che l'hanno già
    ascoltata con te.
    - Ci baderò io, - egli esclamò con voce intenerita.
    - Allora facciamo così: siccome andrò dalla zia
    Matilde per mostrarglieli, vieni anche tu. È un pezzo che le
    dobbiamo una visita, ci sdebiteremo tutti insieme.
    Anastasia era passata nello stanzino per cangiare abito prima di
    rimettersi a cucinare; egli sempre più tremante entrò
    coi due fanciulli nella saletta. La prima cosa che vide, fu appunto
    il cavallo di Carlino, ancora sdraiato sopra la sedia, colla zampa
    rotta sino quasi alla spalla e le rotelle del piedestallo
    sgangherate. Il sogno misterioso della notte gli ritornò alla
    memoria, rinnovandogli la stessa angoscia, come se davvero un
    medesimo destino unisse suo figlio a quel giocattolo. Si era
    riseduto su quella sedia, mentre i bambini giravano intorno alla
    tavola svogliati.
    Non sapeva più che cosa dire loro.
    Una tenerezza di lagrime gli ammolliva il cuore; i due fanciulli
    erano belli, Ada maggiore di due anni, così abbigliata, aveva
    già della donnina nelle movenze. I magnifici capelli biondi,
    sciolti sulla schiena, brillavano nel fulgore dell'oro,
    incorniciandole il viso illuminato soavemente da due grandi occhi
    chiari, assai più vivi che quelli della mamma. Aveva una
    pelle di gelsomino e un'ineffabile freschezza sulla bocca; Carlino
    invece più tozzo, bruno, coi capelli corti e il nasino all'in
    su, pareva un contadinello, che si movesse goffamente, con quella
    pesantezza così esilarante nei bambini.
    - Siete stati a messa? - egli ricominciò.
    - Sì, - rispose Ada: - Amelia mi ha sempre guardata, poi mi
    mostrava alla mamma, perché ero meglio vestita io.
    - Ah la superbetta! e tu Carlino?
    - Lui non s'è voluto inginocchiare per non sporcarsi i
    calzoni.
    Infatti anche adesso tornava a mostrarli superbamente così
    puliti, senza una appannatura al ginocchio.
    Egli dovette alzarsi per resistere alla emozione; lo spettacolo di
    quella letizia, così primaverile ed inconsapevole, gli
    produceva come uno stordimento doloroso; avrebbe voluto dir loro
    qualche cosa, ed invece stentava a frenare certe grida, che gli
    salivano impetuosamente dal cuore. Che cosa aveva dunque deciso
    nella notte? Una debolezza gli era rimasta in tutti i nervi da quei
    sogni, nei quali doveva aver sudato come sotto un accesso di febbre.
    Tratto tratto le mani gli tremavano.
    - Che cos'hai, babbo? - chiese improvvisamente Ada, impressionata
    dalla fissazione del suo sguardo.
    Invece di rispondere egli rientrò nella camera per prendere
    la rivoltella dal tiretto del comodino; ma poté cacciarsela
    appena nella tasca interna della giacca, che i due fanciulli gli
    erano daccapo fra le gambe.
    - Andiamo in cucina, - disse con un ultimo sforzo.
    Anastasia aveva riacceso il fuoco ed infilava lo spiedo nel
    girarrosto.
    - Ecco! - proruppe subito: - perché qui? vuole che si
    sporchino? Se la signora Caterina vedesse...
    Carlino si era già troppo appressato al focolare.
    - Indietro, marmottina: vedete un poco! gli hanno messo l'abitino
    nuovo solamente da un'ora.
    Allora egli dovette sorridere e ritirarsi coi due fanciulli sopra
    una sedia presso la tavola, lasciandosi sgridare; ma l'altra, che
    doveva preparare di nascosto la zuppa inglese, e temeva soprattutto
    un rabbuffo dalla padrona se i bimbi avessero macchiato le vesti,
    seguitava:
    - Lo sa pure anche lei che debbo preparare quella cosa:
    perché stanno qui?
    - Non aver paura, ci bado io.
    - Sì, lei! ci saranno dei guai anche oggi.
    Ma Ada, col suo garbo di donnina, l'ammansì chiedendole quale
    minestra avrebbe fatto in quella domenica.
    - Il risotto alla milanese.
    Ada batté le mani.
    - Indietro adunque; state tranquilli col papà, o vi mando via
    tutti.
    La cucina, piccola, non riceveva luce che da un cortiletto morto;
    v'era una madia e un largo tavolo rettangolare appoggiato al muro.
    La pentola gorgogliava fra lo scoppiettio della fiammata accesa per
    l'arrosto.
    Padre e figli rincantucciati dietro la tavola si facevano delle
    carezze in silenzio: egli li aveva ricinti con un braccio e lisciava
    loro i capelli coll'altra mano.
    - Dammi un soldo, - domandò improvvisamente Carlino.
    - E a me? - proruppe Ada.
    - Tu sei già una donnina.
    Il complimento fece effetto.
    Egli si era tratto un soldo dalla tasca, lasciando che Carlino
    glielo ghermisse di mano come un gatto.
    - Che cosa ne farai? non hai nemmeno la tasca.
    Ma osservando quel soldo, il fanciullo si accorse che era bucato.
    - Cambiamelo.
    - No, non lo spendere oggi, avvezzati a risparmiare.
    Era esausto. Si volse ad Anastasia, scappando nella propria camera a
    prendervi il cappello:
    - È tardi, io debbo andare.
    Un minuto dopo riapriva, col cappello in testa, l'uscio della
    cucina, che dava sull'anticamera; i fanciulli erano ancora presso la
    tavola esaminando il buco di quel soldo.
    - Anastasia, mi capisci? quella cosa cerca di farla grande. Che
    siano contenti, che siano contenti!
          * * *
    Era uscito di casa quasi fuggendo, ma appena sulla strada la vivezza
    della luce lo arrestò. Passava molta gente, una indefinibile
    allegrezza si espandeva nell'aria col suono delle voci da tutta la
    festività delle faccie e delle vesti; le finestre sembravano
    aperte alla letizia sopra le botteghe chiuse nella
    tranquillità del riposo.
    Egli si sentì stravagante. Istintivamente si riadattò
    il cappello sulla testa ed allentò il passo, dirigendosi
    verso la barriera, oltre la quale si scorgevano le ali troppo alte
    del ponte in ferro fra il borgo e la città e subito dopo,
    nell'avvallamento del suolo, un grosso gruppo di case dipinte di
    giallo. Fuori, la via di circonvallazione era fiancheggiata da masse
    enormi di sabbia che s'imbiancava al sole; di quando in quando un
    parapetto giallognolo impediva alle carrozze e ai passanti di
    pericolare nel fiume, già scarso di acqua fra le ripe scabre
    e senza piante. Ma anche lì proseguiva la festa della
    domenica. I soliti operai non trascinavano su per le ripe, col viso
    adusto, i calzoni rimboccati fin sopra il ginocchio, ansando e
    vociando, le carriole cariche di sabbia sgocciolante. Non passavano
    carrette: i contadini allegri ritornavano dalla città ai
    campi, dopo la messa; piccoli scolari vagabondavano nell'ozio e
    nella incertezza del chiasso, col quale stordirsi. Infatti le loro
    scaramuccie accadevano sempre nel pomeriggio.
    Di qua e di là del fiume i campi si stendevano sotto al sole,
    in una gioia verde, lampeggiante di sorrisi nel tremolio delle
    foglie, mentre gli uccelli festanti in quel mese degli amori si
    inseguivano per l'aria rapidi e bruni, o s'arrestavano talvolta
    sulla cima flessibile di una fronda quasi ad ammirare l'incantevole
    mattino.
    Egli solo camminava cupamente preoccupato.
    Lungi, dinanzi ai suoi occhi, le prime vette dell'Appennino
    sfumavano il proprio verde sul ceruleo dell'aria, entro una
    leggerezza di vapore trasparente. Alla prima svolta, fra mucchi di
    ghiaia e di sabbia, si fermò a guardare il cimitero dei
    cavalli: era un lembo di terra sommossa, a picco sul fiume, brulla e
    triste; dirimpetto biancheggiava silenziosa una pila da riso, che il
    padrone milionario aveva per capriccio chiusa da gran tempo, e le
    sue bocche da acqua, vuote ed aride, rimanevano indarno inclinate
    sul fiume dentro un'ombra, che rendeva anche più cupa la loro
    tenebrosa profondità.
    Un ragazzo in bicicletta gli passò rasente a volo.
    Egli lo seguì macchinalmente cogli occhi, e lo perdette in
    cima alla salita, dalla quale sparve strisciando come una rondine.
    Non sapeva ancora dove andare; ma la città gli faceva paura
    in quel giorno. Tutti vi erano sfaccendati, la requie della domenica
    rendeva la gente più occupata dei fatti altrui e più
    dura verso coloro che non potevano né riposarsi né
    godere del riposo comune.
    Oltrepassò il ponte, bel ponte di un arco solo, che la gente
    chiamava Rosso, non si sa perché; poco lungi il camino tozzo
    ed alto di un mulino a vapore fumava malgrado la domenica, un
    vecchio cane bracco era sdraiato al sole dinanzi alla porta, alcune
    anitre si dondolavano pesantemente col collo ripiegato, frugando del
    becco il terreno intorno. Volse a sinistra per un sentiero, che fra
    la riva e gli orti, passando dietro il cimitero monumentale,
    benché i monumenti vi siano scarsi e brutti, si allontanava
    per ombre incerte di acacie. Allora, finalmente solo,
    respirò. Al di sotto, il fiume non era più che un
    canalaccio dal letto melmoso, nel quale l'acqua stagnava in lunghe
    pozzanghere opache; di fianco, invece, gli orti lussureggiavano. La
    gamma dei loro verdi vibrava tutta nella luce, mentre la poca terra
    scoperta era così umida e scura che, guardando bene, si
    sarebbe creduto di vederne salire i vapori nel sole. Ma egli
    camminava invece a testa bassa, preoccupato dall'angusto sentiero
    slabbrato, pel quale non sarebbe stato molto difficile mettere il
    piede in fallo. Guardò se v'erano pescatori, qualcuno di quei
    maniaci, che venivano spesso a passare lunghe ore seduti sopra uno
    sghembo della sponda, con una canna e una lunga lenza inutile.
    Nessuno!
    I muraglioni muffosi del cimitero arrivavano fino quasi sul fiume.
    Quel sentiero malinconico e mezzo invisibile era prediletto dagli
    amanti e dai vecchi per un bisogno di solitudine, forse meno
    dissimile fra loro che non paia. Egli vi era passato poche volte,
    quasi sempre con un gruppo d'amici, in una di quelle giornate, nelle
    quali, per ammazzare la noia della solita passeggiata per lo
    Stradone, l'unico passeggio pubblico della città, si cercava
    di commettere qualche facile stravaganza.
    Ma alla prima svolta, dove un viottolo sfiancava lungo il nuovo muro
    del cimitero, si arrestò; una voce sottile canterellava la
    celebre e delicata romanza della Mignon:
          Non conosci il bel suol
          che di porpora ha il ciel...
    l'opera data in quell'inverno al teatro comunale. Era una voce di
    uomo, incerta nelle parole e nell'aria, che pareva fremere di una
    curiosità triste. Si turbò; istintivamente gli era
    ritornato nella memoria che lungo quel sentiero, negli anni andati,
    erano avvenuti parecchi suicidii, tutti di giovani operai, forse
    spaventati dalle crudeli esigenze della vita. L'ultima volta erano
    stati due ragazzi di appena vent'anni, morti insieme avendone
    avvisato prima gli amici, che non avevano voluto crederlo e non
    seppero poi indovinarne il motivo. Si erano ammazzati colla stessa
    rivoltella, l'uno dopo l'altro, ed erano rimasti sul sentiero col
    cranio aperto, sanguinolenti, vestiti cogli abiti di festa, quasi
    per una suprema ironia.
    Ma la voce ripeteva sempre la stessa domanda di Mignon, povera
    abbandonata nel freddo di un paese nebbioso, che risognava i trionfi
    abbaglianti del sole sulla marina napoletana, dove tutto è
    musica ed incanto, festa ed oblio. E a pochi passi, nell'ombra di un
    albero piegato a capanna, vide disteso sui cuscini entro una
    carriola quel ragazzo, che conosceva già. Era il figlio di un
    ortolano, caduto piccino da un albero e rimasto colle reni
    fracassate; lo aveva veduto mille volte alla finestra sul grande
    viale del cimitero, ma si meravigliò nel trovarlo ora alla
    estremità dell'orto, sulla ripa del fiume, solo, cantando
    come un uccello fra il verde. La sua sventura era di quelle, alle
    quali non si vuol pensare; non viveva che dalla cintura in su,
    sempre così coricato, col volto appannato dall'ombra stessa
    della sua vita.
    Eppure viveva.
    Impetuosamente egli se ne chiese il perché, mentre l'altro
    cantava sempre quella romanza nella sicurezza di non essere udito da
    alcuno, sognando forse come Mignon un altro cielo più bello
    ancora che in quel mattino di maggio pur così pieno di
    profumi, nel silenzio trepidante del meriggio. Egli, morto a
    metà, cantava. Con una mano si reggeva ad un ramoscello
    dell'albero, tenendo il viso in alto, colle spalle quasi nella
    siepe, così che si distingueva appena tra il fogliame la sua
    figura.
    Poi tacque.
    L'orto era deserto: un uccello pigolò dall'altra ripa del
    fiume; lontano, ad un campanile suonò ancora una messa.
    Per non farsi vedere dal malato, scese dal sentiero verso l'acqua e
    non risalì che oltre il cimitero; ma rimaneva sempre come in
    un fondo, tra ciuffi di alberette, che nascondevano ogni orizzonte.
    Era fuggito di casa, istintivamente, per nascondere la propria
    emozione; invece, fra quella viridezza della campagna, dentro al suo
    silenzio e alla sua luce, si sentiva nuovamente disorientato. Quindi
    un'altra paura gli cresceva: nella fretta di evitare la città
    non aveva temuto anzitutto che un incontro col signor Bonoli o con
    lo strozzino, a quest'ora naturalmente piccati da un desiderio
    crudele di curiosità a suo riguardo. Avevano presentato essi
    medesimi la cambiale in pretura? Il caso era poco probabile; secondo
    il solito, colle più vecchie convenienze del mestiere, lo
    strozzino doveva aver finto una qualche girata, giacché tutti
    i suoi pari sono sempre provvisti delle così dette teste di
    ferro. Ma egli, incontrandolo, non avrebbe saputo qual contegno
    tenere; non lo odiava, anzi per una di quelle condiscendenze imposte
    dalla pratica della vita, riconosceva che, agendo in tal modo, colui
    faceva solamente il proprio interesse. Di che cosa lagnarsi? Ma
    dinanzi alla sua faccia di sparviero disseccato, con quegli occhi
    metallici, la bocca che non sorrideva mai, gli sarebbe stato
    impossibile resistere.
    Sotto l'argine del fiume, lungo il ripiano della sponda, erano
    aperte ancora alcune cavità di alberi abbattuti da gran
    tempo, che un'erba minuta aveva tappezzato finamente. Il sole
    dardeggiava, aliavano farfalle, un soffio di scirocco scuoteva
    mollemente le cime già pesanti dei grani. Si fermò per
    udire qualche cicala stridere; invece dal fiume ascese la nota dolce
    e gorgogliante di un rospo. Allora calò dall'argine per
    nascondersi entro una di quelle buche, all'ombra di una vecchia
    quercia dai rami rachitici e il tronco giallastro come di una
    ruggine d'oro.
    L'erba era soffice.
    Cavò di tasca la rivoltella a canna corta, nichelata, del
    calibro dodici: stette lungamente contemplandola, come in una di
    quelle distrazioni attonite, che ci sorprendono talvolta: l'arma
    piccina riverberava.
    Si sarebbe servito di essa? Perché? E quando si è
    morti? Era già molto difficile morire; ma e dopo? Sino a quel
    giorno egli non ci aveva mai pensato. Come accade sempre,
    specialmente finché si è giovani, la morte non aveva
    esistito per lui; sapeva che, essendo nato, morrebbe, ma questa
    soluzione lontana ed inevitabile non aveva mai pesato sulla sua
    coscienza. Non si capisce veramente di dover morire, sino a che il
    pensiero della morte non si allarga come un'ombra nel mezzo del
    nostro spirito. Tutto è così facile nella prima parte
    dell'esistenza! Funzioni ed abitudini vi si ripetono favorevolmente,
    si mangia, si passeggia, si chiacchiera, si ride, si dorme; poi il
    mattino vi desta, intorno a voi tutto prosegue: la moglie, i bimbi,
    la serva, la casa alternano i propri motivi senza un pensiero che
    tutto ciò sia effimero, che basti la presenza di un insetto a
    produrvi lo scompiglio, o la morte appiattata in ogni ombra possa in
    un istante distruggere tutto senza ragione, senza traccia. Si vive
    così, come se la morte non fosse, in una sicurezza
    d'immortalità. Invano in tutte le case qualcuno si ammala e
    muore; si fanno i funerali, la gente li guarda passare distratta,
    ognuno preoccupato dei propri interessi, in una febbre continua di
    passioni, e non ci si pensa più. Coloro, che amarono quel
    morto, piangono qualche giorno, gli altri non dànno
    importanza al caso o parlando della morte, che li aspetta, rimangono
    indifferenti come a cosa che verrà poi, un poi problematico
    nella data ed insignificante finché la data non arriva. Egli
    era stato come gli altri.
    Aveva veduto morire il babbo e la mamma senza risentirne troppo
    dolore. Certo avrebbe desiderato loro più lunghi anni, ma
    essendo troppo giovane per aver provato gli scoramenti della suprema
    vigilia, quando la vita non sa più distrarsi dal computo dei
    propri ultimi giorni, aveva trovato naturalissimo che i vecchi se ne
    andassero.
    Invece adesso si trovava dinanzi alla morte nella pienezza di tutte
    le proprie forze.
    Non era né credente né incredulo; come nella maggior
    parte della gente, la vita spirituale era cominciata per lui
    coll'insegnamento religioso, senza che la religione modificasse
    troppo il suo sentimento, pur lasciando nel suo pensiero impronte
    non cancellabili. La concezione cristiana, poco comprensibile nei
    dogmi e nella tragedia della sua morale, rimaneva quindi la base di
    tutti i suoi giudizi, sotto la solita indifferenza mondana.
    Così aveva sposato Caterina anche in chiesa e battezzati i
    bambini, trovando giustissimo di apprendere loro la religione, che
    egli non praticava più. E in quella indefinibile cultura
    guadagnata un po' dovunque, nei caffè, su per i giornali,
    massa informe di idee e di sentimenti contradditorii, solamente la
    forza della tradizione durava: la religione era cosa da non
    parlarne, poiché non se ne sarebbe potuto mai sapere qualche
    cosa di preciso, ma forse era così, e in fondo ne convenivano
    tutti, anche coloro che affettavano di spregiarla pubblicamente.
    Le sue riflessioni non erano mai andate più oltre. Caterina
    non lo aveva mai vessato per la sua indifferenza religiosa: egli
    viveva come gli altri nella inconsapevolezza della propria
    contraddizione, fra un barlume di fede e un pettegolezzo di
    miscredenza, trionfando di entrambi col non pensarci.
    Ma la morte, improvvisamente, gli stava davanti nella propria
    immobilità.
    Aveva avuto paura.
    Morire era, prima di tutto andarsene; ma per quanto la natura
    ripugnasse a tale sparizione e tutte le malattie fossero
    spaventevoli appunto per questo, non era difficile il fissarvisi.
    Già nella notte lo aveva fatto: andarsene, piuttosto che
    restare per la tortura del processo e della prigione!, molto
    più che la morte essendo inevitabile, si trattava solo di
    sceglierne il momento, quando tutto il resto delle condizioni nella
    vita diventava intollerabile. Così, quasi non pensandoci,
    aveva già abbracciato questo punto di vista: era stato un
    lavorìo lento, inavvertito del suo spirito, subito dopo il
    tremendo distacco prodottovi dalla lettura di quella lettera. Quanto
    poteva soffrire, l'aveva già sofferto nella notte: lo
    sentiva, era sicuro che per una simile crisi non ripasserebbe
    più. Si muore forse due volte? La morte è tutta nello
    sforzo per staccarci dalla vita; se lo era detto, capiva di aver
    ragione. Il suo pensiero risoluto, quantunque torpido, andava sino
    in fondo: si sarebbe ucciso! Non aveva deciso il modo, ma il tempo
    era misurato ormai su quel giorno; era così, non voleva
    ritornarci più sopra: morire per sé medesimo e per la
    sua famiglia, alla quale non sarebbe più che d'imbarazzo e di
    disonore, ecco tutto! Ma il momento dopo, quel momento che pure ci
    doveva essere, giacché il tempo avrebbe seguitato egualmente,
    quando egli non sarebbe più, dove sarebbe egli in quel
    momento?
    Tutto finiva lì? La religione diceva di no, la maggioranza
    della gente d'accordo colla religione, e quelli ancora che si
    vantavano di non crederle, rimanevano perplessi dinanzi al problema.
    Finire! Sarebbe stato semplice, ma non era chiaro. Che cosa
    significava allora tutto il prima? La sua testa si perdeva. Confuse
    memorie gli ritornavano di ammaestramenti, di fatti, di uomini, che
    si erano trovati come lui dinanzi al grande quesito, e che egli
    aveva udito a parlarne. Tutti avevano tremato. Il primo momento dopo
    la morte, la possibilità di un'altra vita, quindi di un
    giudizio su quella trascorsa, di una vita in un altro mondo, mentre
    il nostro corpo resterebbe a putrefarsi in questo, di una vita
    incomprensibile e tuttavia di una supposizione così
    inevitabile al nostro pensiero, era senza dubbio ciò che
    rendeva spaventevole la morte, incerto quanto ognuno di noi compie
    prima d'incontrarla.
    Senza questo mistero che cosa sarebbe stato il suicidio?
    Poiché suicidandosi si è sicuri di sottrarsi a tutti i
    guai, non vi sarebbe dal canto della vita alcuna difficoltà:
    si ha forse paura di addormentarsi, pur non essendo sicuri del
    risveglio? Il problema era dunque nel momento dopo la morte.
    L'esperienza e la scienza umana non avevano trovato un modo per
    inoltrarsi in quest'ombra; tutti vi arrivavano nella medesima
    ignoranza, colla stessa angoscia, il più grande come il
    più piccolo, per sparire silenziosamente, mentre la religione
    sola dichiarava di averne penetrato il mistero colla parola di Dio.
    Non di meno la sua spiegazione era oscura; se no come la gente
    avrebbe seguitato a dubitare?
    Vi era dunque Dio? Era lui che, volendoci così oscuramente
    soggetti al suo volere, distribuiva con tanta inesplicabile
    parzialità la gioia e il dolore? Malgrado
    l'impossibilità di comprendere il mondo senza un creatore e
    di sottrarsi alla concezione poetica del cristianesimo, una rivolta
    gli saliva dal cuore contro questa ingiustizia della vita, che quasi
    sempre prodigava gli spasimi più micidiali ai più
    innocenti. Egli stesso ne era stato mille volte testimonio: che cosa
    non soffrivano i poveri, mentre i ricchi finiscono per annoiarsi non
    trovando abbastanza divertimenti? Se dopo morte non vi era altro, i
    signori diventavano ben sciocchi nel fare l'elemosina ai poveri, e
    questi lo erano anche di più non depredando in qualunque modo
    i ricchi. Perché fare l'elemosina? Tutto era caso, il
    fortunato non doveva logicamente che conservare la fortuna a se
    stesso. Invece non accadeva così: i poveri sopportavano, i
    ricchi li soccorrevano; forse v'era parità di dolori in
    tutti, perché i ricchi si suicidavano anche più
    facilmente dei poveri. Lo aveva sentito dire molte volte, aveva
    potuto notarlo egli stesso. La morte non era solo in fondo alla
    vita, ma la colpiva ad ogni istante da per tutto; i bambini vi
    soccombevano spesso prima di nascere o appena nati, si moriva
    sempre, in qualunque grado, nelle più inverosimili
    circostanze: ingegno, ricchezza, danaro non servivano a nulla, la
    gloria o l'infamia non toglievano niente a quest'uguaglianza della
    morte, la virtù e il vizio vi conducevano colla stessa
    rapidità; e dopo, un eguale oblio copriva tutti i defunti, la
    medesima spensieratezza seguitava nei viventi.
    Pensando alla morte si finiva col non potere uscire più da
    tale pensiero: ecco perché la gente non voleva fermarvisi.
    Tutte queste riflessioni gli toglievano di sentire il dolore della
    propria posizione; una specie di tranquillità gli si era
    fatta nello spirito, come una luce fredda, entro la quale tutto gli
    appariva lontanamente. La sua testa, poco abituata alle meditazioni,
    si distraeva già nelle sensazioni di quel meriggio. Qualche
    raggio, filtrando fra le foglie, gli produceva sugli abiti chiazze
    luminose e scottanti.
    Il bisogno di muoversi lo riprese. Tutta quella meditazione sul
    suicidio non gli aveva aggiunto che un terrore di più nella
    coscienza: se la vita significava qualche cosa, doveva essere
    ordinata ad uno scopo, che i capricci degli uomini non saprebbero
    mutare, e quindi tutto si riuniva nella morte come dinanzi ad un
    tribunale. Le menzogne, i sofismi, le oblivioni così comode e
    frequenti nella vita, si dissipavano nel suo ultimo istante: tutti
    vi si trovavano egualmente nudi davanti al proprio passato. Ecco
    perché si provano talora rimorsi, che ci costringono a
    condannare le nostre azioni più proficue, o ci impediscono
    l'abbandono alle nostre tendenze più personali: egli stesso
    forse non si trovava ora davanti alla necessità del suicidio
    che per aver voluto sacrificare i propri doveri di marito e di padre
    ad un ignobile capriccio. Era una sentenza di quella giustizia
    segreta, che corregge ogni errore dell'altra, e piega tutte le
    fronti sotto il mistero di Dio? Ma Dio permetteva agli uomini di
    suicidarsi? Vi erano un inferno ed un paradiso, come affermano i
    preti con tanta sicurezza, vivendo tuttavia al pari di coloro i
    quali non volevano crederci? Perché tanti grandi uomini non
    avevano ammesso una seconda vita? Per quanto questi problemi fossero
    insolubili, egli credeva di sentire adesso una grande verità
    nel suicidio: l'uomo, togliendosi la vita, espiava in tale dolore
    tutto quanto poteva aver commesso, giacché seguitando a
    vivere non avrebbe potuto soffrire di più. Era quindi inutile
    voler cercare oltre la vita qualche cosa che non doveva dipenderne;
    poi vi era questa differenza: gli uomini, uccidendo, sentivano tutti
    di commettere un delitto, mentre uccidendosi sentono solo di essere
    infelici. Infatti egli non sapeva altro, non era sicuro di aver
    ragione, ma la sua tristezza nell'accettare la morte era scevra dai
    rimorsi, che avevano accompagnato tante altre sue colpe. Questa
    volta non avrebbe fatto male ad alcuno sottraendosi ad una condanna,
    che in lui colpirebbe Caterina e i bambini. Sciaguratamente non
    v'era altra soluzione. Il suo suicidio non era rifiuto della vita,
    perché non se ne era anzi sentito mai così pieno:
    vivere nella propria casa tranquilla con Caterina e i bambini,
    amministrare il piccolo patrimonio, aiutarlo con qualche guadagno,
    fare la partita al caffè, mandare innanzi i figli
    finché, diventati grandi, non avessero più bisogno di
    lui, sarebbe stato un idillio, era l'idillio di quasi tutta la
    gente! Egli doveva invece suicidarsi, appunto per averlo reso
    impossibile. Il suo suicidio non aveva quindi le ribellioni
    pessimiste, che sole possono renderlo tale; come quei coscritti, che
    affrontano la morte agli avamposti, perché fuggendo
    dovrebbero sopportare umiliazioni e pene troppo amare, egli non
    avrebbe voluto né la battaglia né la morte, e subendo
    l'una e l'altra si riconosceva senza volontà. Era
    così, perché era così.
    Questa conclusione vuota fu l'ultima. Allora, perché era
    venuto lì? Che cosa vi aveva risoluto? Sulla campagna
    luminosa e calda il cielo si era fatto di una serenità
    abbagliante, nell'aria passavano ondate di fremiti. Eppure avrebbe
    dovuto aver deciso qualche cosa, essersi preparato per quella
    giornata! Vi era ancora una speranza? Come contenersi? Questa
    domanda non ne nascondeva che un'altra: era dunque stabilito?
    Tale decisione restava però fuori del suo spirito,
    giacché non ne provava ancora tutto il peso.
    - Che cosa faccio qui? - si chiese con un sussulto.
    A casa sua pranzavano circa al tocco e mezzo: lo aspettavano,
    manderebbero fuori la serva a cercarlo.
    Si figurò vivamente la scena. Se non tornava più a
    casa, dove passare tutta la giornata? Rimaneva perplesso, tutte le
    angoscie della notte lo riassalivano, eppure non gli veniva nella
    mente di poterlo finire subito. Più tardi, di notte, solo, in
    qualche altro luogo, ma allora no. Era impossibile.
    Si era assegnato un giorno, vi aveva diritto.
    Poi gli sembrava di avere molte altre cose da fare, lettere da
    scrivere, vedere qualcuno, rientrare ancora fra gli altri, prima di
    non vederli più. Aveva bisogno della notte, adesso tutto lo
    distraeva.
    Si avviò per ritornare, ma appena ebbe presa questa
    decisione, ridivenne triste triste; sentì che tutto era
    finalmente stabilito, non tornerebbe più in campagna, non
    rivedrebbe più quel luogo. Era la sua ultima passeggiata da
    solo, che nessuno conoscerebbe mai, e nella quale aveva risoluto di
    morire. Comminava a testa bassa, non sentiva più la vivezza
    dell'aria, la vampa del sole, il fresco del verde: il suo sguardo si
    chinava su quel letto di fiume melmoso, squallido, abbandonato,
    senza un rumore né un guizzo nelle pozzanghere d'acqua
    indolenti sotto al sole.
    E l'idea della morte seguitava nel suo spirito come quel letto di
    fiume invisibile fra i campi.
          * * *
    - Perché, vedi, - gli diceva Caterina sul finire del pranzo,
    - io sono persuasa che ella ci lascierà tutto. Capisco che
    non è gran cosa, in ogni modo sarà la dote per Ada, ma
    bisogna che non seguitiamo a trattarla così. Tu hai sempre
    detto che la zia Matilde non ti ha amato, e pare anche a me che sia
    così. Non so, - ella seguitava con quel suo buon senso di
    donna, nella quale la tranquillità del temperamento favoriva
    l'equilibrio dello spirito, - se tu abbia ragione sostenendo che
    ella ti voglia ancora male per un vecchio rancore contro la tua
    povera mamma, però dovresti mutare contegno verso di lei.
    - Che cosa vuoi che faccia? - egli rispose, preso nell'interesse di
    quei discorsi, che preparavano l'avvenire.
    Infatti Caterina lo aveva subito sgridato per non essersi fatto
    vedere in quella visita alla zia Matilde, dopo che ella
    imprudentemente l'aveva avvisata della sorpresa. E sarebbe stata
    davvero tale, s'egli vi fosse andato, giacché per una
    antipatia istintiva cansava sempre quella vecchia parente; ma
    questa, inciprignita naturalmente dal non vederlo arrivare, aveva
    finito con lo strapazzare Caterina come di un cattivo scherzo.
    Caterina, irritata dall'insuccesso, dopo aver troppo contato sul
    magnifico effetto dei bambini, non aveva poi badato all'aria
    abbattuta di lui. Non di meno il pranzo era proseguito abbastanza
    bene.
    Per fortuna i bambini, lieti dei vestiti nuovi e più liberi
    nei vecchi, che la serva aveva loro rimesso per il pranzo, si erano
    abbandonati al più vispo chiacchierio, mentre la mamma ogni
    tanto li sgridava dolcemente per frenarli ed egli acconsentiva con
    un sorriso.
    Quindi il discorso era ritornato sulla zia Matilde, la quale avendo
    oltrepassato i settant'anni non poteva ancora campare molto. Con
    quella ingenuità di egoismo propria degli eredi, Caterina
    valutava tranquillamente tale probabilità, traendone una
    lunga serie di conseguenze per se stessa e per i figli, molto
    più che i modi di lui con la vecchia le avevano sempre dato
    pensiero. Ella credeva alla buona, quantunque modesta posizione
    della propria casa, ma coll'antiveggenza delle madri, quando amano,
    cominciava a preoccuparsi dell'avvenire.
    Il suo affetto era specialmente per la bambina.
    Le difficoltà sempre più tristi per le ragazze di
    trovare un discreto partito, le avevano messo in cuore una specie di
    pessimismo, unica sua reazione contro la vita, della quale aveva
    sempre accettato il corso blando senza chiedersi di più. Ma
    Ada, che a giudicare da quel momento doveva crescere molto bella,
    avrebbe avuto bisogno di una certa dote per accasarsi
    convenientemente dopo la buona educazione, che ella pensava di darle
    anche a costo dei più gravi sacrifici; su questo argomento
    Caterina, così arrendevole, non voleva intendere ragioni.
    - Tu manderai avanti Carlino.
    Era questa la risposta, quando egli le faceva osservare che per
    mettere Ada nell'educandato di Fognano occorreva una grossa spesa
    annuale, mentre poi le ragazze uscendo dal convento non sapevano far
    nulla per la vita. Caterina, invece, sognava d'interessare a questo
    suo disegno prediletto la vecchia zia Matilde.
    - Che cosa vuoi dunque che faccia un giorno Ada? La maestra, la
    sarta?
    La fanciulla, già viziata dalle troppe carezze, scuoteva la
    testa con una smorfietta, ed egli non sapeva come replicare.
    Quindi colla facilità delle donne a vedere già
    realizzati i propri sogni, Caterina s'inteneriva orgogliosamente
    sull'avvenire, vedendo Ada mescolata a tutte le signorine delle
    migliori famiglie, e più bella di loro fare appena uscita di
    convento un grande matrimonio.
    - Stasera, poco prima dell'Ave Maria, ritorneremo dalla zia Matilde
    per scusarci: verrai anche tu, non me lo negare. Io ti ho sempre
    lasciato fare quando hai voluto: ti ho forse mai disturbato? -
    proruppe ad un suo moto; - e poi non si tratta di me o di te. Oramai
    per noi è finita: che cosa ci può accadere?
    Invecchieremo così alla meglio, ma essi hanno bisogno di una
    buona posizione. Tu hai sempre voluto che Carlino debba andare
    all'università; io ti approvo, ma debbo preoccuparmi
    anzitutto dell'altra. Io sono la mamma. Un uomo nella vita arriva
    sempre a cavarsela, ma una donna se non trova presto marito, senza
    una buona posizione, può essere perduta.
    - La zia non ci lascierà nulla, - egli osservò: - sai
    pure che è pazza per quella sua figlioccia.
    - Lo dici tu, io non lo credo. Sarebbe da parte sua una ingiustizia:
    è capitale di famiglia, deve ritornare a noi.
    - Deve!
    - Non si può gettare via il capitale della famiglia.
    Egli s'irritò.
    - Molti lo fanno.
    - Hanno torto. Adesso ti diverti a farmi arrabbiare: verrai anche
    tu?
    - Non ci andiamo, mamma, la zia Matilde mi fa paura, -
    protestò Ada agitandosi sulla sedia.
    La zuppa inglese, portata trionfalmente da Anastasia sopra un piatto
    oblungo, interruppe la conversazione; i fanciulli batterono le mani
    strepitando, ma la mamma ne tagliò subito col cucchiaio la
    metà per serbarla all'indomani.
    - Lascia che la mangino tutta, - egli disse, intenerito dalla
    smorfia dei bambini.
    - Ma che cos'hai oggi? mi contraddici sempre.
    Egli aveva mangiato quasi come al solito, obliandosi nelle abitudini
    di tutti i giorni, fra il pettegolezzo dei fanciulli, le chiacchiere
    della moglie e le osservazioni di Anastasia, che si vantava per la
    riuscita del pranzo. Però gli era parso che questa, di quando
    in quando, lo scrutasse.
    - Perché non ne mangia lei? - gli chiese infatti, vedendolo
    dare la propria porzione a Carlino.
    Allora Ada s'ingelosì.
    - Lascia lascia, egli è più piccolo di te.
    Ma sulla fine dei pranzo l'allegria scemava. I fanciulli non
    gridavano più, sorvegliandosi a vicenda, malgrado
    l'attenzione che mettevano a forbire il piatto della crema;
    Caterina, ricaduta nella preoccupazione della zia Matilde non
    parlava.
    Improvvisamente egli si sentì scoppiare il cuore: non
    esisteva già più per loro.
    - In quale stato pranzeranno domani!
    Eppure nulla era ancora mutato intorno. La saletta, quieta come
    sempre, aveva la stessa aria di pulizia e di modesta agiatezza; la
    tovaglia, essendo domenica, era bianca, il cavallo di Carlino
    dormiva dimenticato sopra quella sedia. Tutto invece sarebbe
    sossopra domani: forse il vecchio mansionario scenderebbe lui pure,
    attirato inconsciamente dalla paura della morte. Chi sà quali
    pianti, quali commenti!
    Dove sarebbe allora il suo cadavere?
    - Lei non sta bene; - lo destò la voce brusca d'Anastasia.
    - Io!
    - Io dunque? proprio lei, che cosa ha?
    - Infatti anch'io ti ho osservato.
    - Ma non ho niente! dammi piuttosto da bere, ecco. Che cosa debbo
    avere? Avete paura che muoia?
    Aveva cercato di fare la voce scherzosa, affrettandosi a bere per
    dissimulare il turbamento, ma quell'ultima parola lo
    trascinò.
    - Bah! se dovessi anche morire...
    - Che discorsi sono questi?
    Siccome Carlino aveva finito di pulire il piatto coi ditini, egli
    vinto da un impeto di tenerezza si sporse, afferrandolo sotto le
    ascelle, e se lo mise sulle ginocchia.
    Il piccino rideva superbo.
    - Hai ancora il soldo? No? lo avrai nell'altro abitino.
    - Eccolo, papà: guarda il buco.
    - Di' alla mamma che ci passi dentro un cordoncino, e te lo metta al
    collo. Mi hai promesso di non spenderlo: manterrai la promessa? Vuoi
    più bene a me o alla mamma?
    Carlino esitava.
    - Hai ragione, hai ragione: lei è migliore di me; va a
    prendere il tuo cavallone.
    Così poté alzarsi per accendere lo zigaro.
    - Dunque siamo intesi; stasera verrai anche tu dalla zia Matilde, -
    tornò ad insistere Caterina.
    - No, non vengo. Vedrai che domani verrà lei da te.
    - Tu scherzi sempre.
    - Già!
    Si era rimesso il cappello per uscire, scordandosi di scrivere
    quelle lettere; la paura lo riprendeva. Se fosse rimasto ancora
    qualche tempo, non avrebbe più saputo come andarsene; poi
    capiva che, solo coi bambini anche per un momento, sarebbe scoppiato
    a piangere. Fortunatamente il pranzo aveva durato sino alla solita
    ora, nella quale usciva a prendere il caffè.
    - Me ne vado, - disse due volte, - senza riuscire a decidersi.
    Caterina si era alzata per andare in cucina, egli la seguì;
    avrebbe voluto voltarsi per stringere in un abbraccio furioso le
    teste dei fanciulli, ma Anastasia rientrava già per
    sparecchiare.
    - Va pure, siamo intesi! - ripeté Caterina una ultima volta.
    Per risposta egli le diede un gran bacio sulla bocca, fuggendo
    subito dopo.
    Caterina rimase sorridendo di quella soluzione.
          * * *
    Nel caffè, a quell'ora, la gente era già affollata
    intorno ai tavolini, che lasciavano appena un varco sotto il
    loggiato: regnava l'allegria, le voci si alzavano scherzose. Al suo
    apparire molti lo salutarono, mentre altri si ritraevano per fargli
    posto nel solito crocchio; egli invece si sentiva freddo di dentro.
    Quel nuovo aspetto di festa nel pomeriggio lo turbava. Per un
    momento aveva pensato di andare nell'altro grande caffè
    aperto all'angolo del palazzo Rondinini, frequentato dai più
    grossi signori, quasi tutti naturalmente di parte moderata, per
    incontrarvi il Bonoli e lo strozzino, che di rado vi mancavano. Poi
    una paura irragionevole, che tutti a quell'ora sapessero già
    della sua cambiale falsa mandata in pretura, lo aveva sorpreso.
    Perché non lo saprebbero? Se Roberti certamente non ne aveva
    parlato con altri prima di partire, il pretore poteva bene averne
    fatto a qualcuno la confidenza; il caso non era molto probabile, e
    non di meno, nell'odio improvviso, che si sentiva in cuore contro
    quel giovane magistrato, adesso divenuto inevitabilmente il suo
    padrone, si ostinava a dubitare. Del signor Bonoli invece e dello
    strozzino, più interessati e quindi più facili a tale
    propalazione, quasi quasi non sospettava: il perché non
    avrebbe saputo dirlo.
    Quando nello svoltare dalla fontana vide quel pezzo di loggiato,
    dinanzi al caffè così gremito di gente, fu per
    arrestarsi, ma parecchi dovevano già aver guardato verso di
    lui. Colla bruschezza, che dalla lettura di quel biglietto gli aveva
    così profondamente mutato il carattere, si decise quindi ad
    andare innanzi. Se altra volta si fosse battuto in duello, avrebbe
    creduto di risentirne quell'emozione indefinibile allorché i
    padrini, dopo avervi tratta la camicia e legato il fazzoletto al
    polso in qualche angolo appartato, vi dicono improvvisamente, con
    voce breve:
    - Andiamo.
    Non gli accadde nulla. I discorsi erano gli stessi degli altri
    giorni; a un tavolino alcuni radicali, tutta gente della piccola
    borghesia, vestiti a festa, e quindi con un'aria più
    importante e una più grossolana affettazione di chiasso,
    ciaramellavano di politica; altri parlavano d'affari, più in
    là un crocchio di giovanotti discuteva di donne, naturalmente
    in termini vivaci ed osceni, i camerieri andavano e venivano,
    mescolandosi spesso alla conversazione con una famigliarità
    poco rispettosa, e nondimeno punto antipatica in quelle abitudini di
    provincia.
    Sotto il portico cominciava a passare qualche ragazza: allora tutti
    gli occhi si voltavano e prorompevano giudizi sommarii, espressioni
    scoppiettanti come razzi. Quel giorno non v'era alcun argomento
    speciale di pettegolezzo. Egli sedette. Il cameriere, ragazzotto
    piccolo e pallido, in giacchetta nera, gli portò al solito il
    caffè senza averne aspettato l'ordine, e gli sorrise
    deponendolo sul tavolo.
    Appoggiato colla schiena ad una colonna egli guardava il Duomo.
    L'enorme portone di mezzo era socchiuso, e sull'arco del suo vano si
    agitava lievemente un drappo rosso, segnacolo di qualche festa
    religiosa in quel giorno; la scalinata di granito pareva più
    bianca nel sole, la fontana gorgogliava da tutti i propri zampilli,
    avvolta in un pulviscolo d'acqua tenue come un vapore.
    Tutto quel largo dinanzi al Duomo sino in fondo alla piazza rimaneva
    deserto, nessun fiacchero stazionava ancora presso il caffè,
    l'omnibus del grande albergo era già ritornato dalla
    stazione; solo qualche bicicletta passava tratto tratto nel vuoto,
    silenziosamente.
    Siccome quella gente non sapeva ancora nulla della sua disgrazia e,
    sapendola, si sarebbe subito scostata, colle cautele così
    pronte ed assennate dell'egoismo, egli tra la distrazione di quei
    discorsi tornava a ricordarsi tutto quanto sapeva sopra ognuno degli
    interlocutori. Pochi avevano una posizione solida ed equilibrata, ed
    anche questi pochi non avrebbero probabilmente davanti ad un
    giudice, capace di legger loro nelle coscienze, saputo giustificarne
    l'origine o il modo: tutti gli altri vivevano come lui, fuori della
    propria orbita naturale, rammendando ogni mattina gli strappi di
    ogni sera, nella stessa impotenza di frenare i propri vizi o di
    guadagnare abbastanza per alimentarli senza pericolo. A vederli
    così vestiti e con tale disinvoltura giuliva, un estraneo
    avrebbe potuto crederli ricchi e felici, mentre ognuno celava nella
    propria vita qualche ignobile controscena di compromissioni
    domestiche o commerciali, vergogne di donne comprate o vendute,
    orrori di figli assassinati nell'avvenire per inconfessabili
    passioni. Eppure sarebbero domani i suoi giudici perspicaci,
    perché sommerebbero tutte le loro osservazioni su lui, e
    condannerebbero, avvelenando la condanna di scherni, per quella
    inconsapevole necessità in tutti di separarsi da coloro, che
    soccombono nella vita. Era così, non poteva essere
    altrimenti; se no la gente per compiangerlo avrebbe dovuto
    condannare se stessa.
    Egli solo si era scioccamente messo in tale condizione di suicidio,
    mentre gli altri facendo di peggio sapevano restare a galla.
    Però questa spiegazione superficiale non gli bastava:
    un'altra forza oscura spingeva innanzi la vita d'illusione in
    illusione, di guaio in guaio, sino alla fine, che interrompeva tutto
    senza risolvere nulla. La moglie, i figli, quanti restano dopo,
    prorompono in lamenti contro il morto, cercano di rassettare la
    posizione, e invece tornano a comprometterla con la medesima serie
    di vizi e di sciocchezze. Era questa l'eterna ridda, l'eterna
    morale: i figli si lagnano dei padri e, divenuti padri, sacrificano
    l'interesse dei figli al proprio: le donne, per lo più
    morigerate come ragazze, si abbandonano da spose e da madri ad ogni
    sorta di eccessi: i patrimoni oscillano, si scompongono, si
    ricompongono attraverso un tafferuglio di rapine, di leggi, di
    prodigalità, di avarizie, di casi tragici o fortunati, nei
    quali non si capisce nulla, ed è impossibile resistere.
    Tuttavia in quel momento egli falsario, deciso a morire della
    propria colpa senza chiedere soccorso ad alcuno, si sentiva migliore
    di quanti lo circondavano. Un orgoglio doloroso gli gonfiava la
    coscienza. Invece di scusarsi ai propri occhi come aveva tentato
    più volte nella notte, si compiaceva quasi ad ingrandire
    l'accusa, spremendone un'acre vanità. Non era egli pronto a
    morire? Che gl'importava di tutta quella gente? Quale di loro,
    malgrado tutte le vanterie, che avrebbero fatto sul suo conto,
    affermando l'uno contro l'altro di averlo conosciuto benissimo,
    saprebbe solamente indovinare le sue nuove sensazioni in quell'ora?
    Era una specie di alterezza, che gli faceva guardare intorno come
    dall'alto: qualche cosa di profondo e di freddo, che doveva
    somigliare alla emozione del comando supremo per un generale, nel
    momento di arrischiare sopra l'ultima idea la vita di migliaia e
    migliaia di uomini. La morte innalza sempre. Invece di scrutare
    nella sua oscurità, il che lo avrebbe daccapo atterrito, si
    guardava indietro come per una lontananza, nella quale le cose e gli
    uomini perdevano coll'esattezza del rilievo quasi tutta la propria
    importanza. Che cosa era mai la vita, a pensarci bene? Egli avrebbe
    sempre seguitato a quel modo, con le solite soste al caffè,
    sempre fra quelle persone, quei discorsi, senza una speranza mai di
    mutare, di salire, di provare qualche cosa di nuovo. Null'altro.
    Tant'era dunque andarsene prima che la vita divenisse solamente un
    seguito interminabile di ore nel vuoto di una prigione, e dopo,
    più tristamente, un fuorviare fra la folla per evitare certe
    persone, per cansare certi sguardi; poi, rabbuffi strazianti in casa
    dalla moglie e dai figli, fuori un bisogno sempre più
    umiliante di trovare un impiego, un modo egualmente indispensabile
    ed impossibile di guadagno.
    - Oh! non dici niente oggi? - gli si volse Cavina, un giovane
    mastro-muratore dalla fisonomia malaticcia, che la passione e una
    tal quale raffinatezza di gusto nella musica rendevano al tempo
    stesso simpatico ed un po' avversato.
    - Pensi ai miei debiti o ai tuoi? - seguitò con lo scherzo
    solito fra di loro, che, troppo desiderosi di spendere, finivano
    collo sbertarsi reciprocamente sulle angustie della propria
    posizione.
    Egli sussultò.
    - Sono così, non lo so; - ma gli parve subito dopo di avere
    risposto male.
    Il muratore confessava che sarebbe andato volentieri alla prima
    rappresentazione del Lohengrin: c'era tempo ancora, un treno partiva
    sulle quattro.
    - Bisognerebbe avere cinquanta franchi da buttar via.
    - Perché cinquanta franchi?
    - Sai, dopo il teatro viene la cena, la donnetta...
    Si rideva: altri sarebbero partiti con lui per Modena, avendo in
    tasca i cinquanta franchi, meno ancora per ascoltare la musica del
    Lohengrin che per il piacere della gita.
    Allora Romani ebbe un impeto di sdegno.
    - Perché spendere cinquanta franchi? Sono cose che bisogna
    lasciarle fare ai signori.
    - Ai signori! - un altro replicò celiando - ma sono un
    signore anch'io, quando spendo cinquanta franchi in una sera: vuol
    dire che per quella sera ho cinquanta franchi di rendita.
    Tutti risero.
    Romani si accorse trepidando di essersi lasciato trasportare dalla
    collera contro quella falsa facilità del vivere, che lo aveva
    condotto all'ultimo punto: quindi per distrarre l'attenzione rimise
    il discorso sul Lohengrin. Allora tutti protestarono: non sarebbe
    mancato altro che, non potendo assistere alla rappresentazione, ne
    avessero dovuto subire la disquisizione da Cavina.
    Ma questi, che parlava benino, non resistette; da pari suo aveva
    letto troppo o si ricordava abbastanza le spiegazioni del mito
    lohengriniano.
    - È un gran bel finale, - concluse dopo non molto,
    giacché s'imbrogliava nel patto fra Elsa e Lohengrin; -
    nessuno muore, eppure è una tragedia. Lohengrin ritorna in
    cielo col cigno: è un motivo, che fa venire la pelle d'oca,
    lo stesso motivo, col quale viene rimandato il cigno nel primo atto;
    ma nessun musicista avrebbe mai saputo trovarne uno uguale. Poi
    è di una naturalezza! - seguitò animandosi: -
    Lohengrin canta perché non deve morire, mentre in tutti gli
    altri finali italiani si ammazzano il tenore e la donna obbligandoli
    a cantare con tutte le loro forze. Ciò è falso: un
    ferito, un moribondo non possono cantare; sì, altro che
    cantare in quel momento!
    - Ma in teatro...
    - Che c'entra? In teatro si deve rappresentare la verità. Il
    finale del Rigoletto è bello, lo concedo anch'io, ma la donna
    trapassata da un colpo di spada come potrebbe cantare? Sono
    convenzionalismi, che hanno fatto il loro tempo: io dico che la
    musica deve rispettare le situazioni drammatiche, e non pretendere
    di far cantare in condizioni impossibili. C'è l'orchestra
    appositamente: perché il maestro non la fa cantare invece del
    tenore o della donna? Sì! il duetto della barella nella Forza
    del Destino! Don Alvaro ferito a morte, che urla come un dannato!
    Tiriamo via. Io credo che non solo un moribondo o un ferito, ma
    nemmeno un condannato a morte, proprio all'ultimo momento, lo si
    possa far cantare. Che cosa ne pensi tu, Romani?
    - Mi pare che hai ragione.
    - Perché? Si sono visti tanti condannati salire il patibolo
    indifferentemente, - disse un altro.
    - Indifferentemente! Metti loro una mano sul cuore... Ti sentiresti
    tu di cantare nei loro panni? - ripeté ostinandosi in questa,
    che a lui pareva una grande idea novella in arte.
    Ma la conversazione deviò ancora.
          * * *
    Mentre il passeggio della gente cresceva pel largo del Duomo e sotto
    i portici, gli avventori del caffè si diradavano. Le donne
    sfilavano vestite a colori vivaci, in ritardo dalla moda e non
    pertanto esagerandola con una volgarità di tagli e
    d'intenzioni, alle quali la goffaggine del portamento finiva col
    dare un non so che di maschile. Egli, divenuto più
    perspicace, interrogava curiosamente ogni fisonomia per indovinare
    sotto la sua maschera della domenica il segreto di tutti i giorni.
    Quindi si accorse che in quella bruttezza di quasi tutte le donne
    mancava appunto ciò che avrebbe potuto riscattarla,
    l'incantevole e delicata debolezza del sesso. Fu come una
    rivelazione per lui. Invece colei, che lo aveva perduto, era donna
    nel più profondo significato della parola. La paragonò
    mentalmente per cinque minuti a quante passavano, senza arrivare
    alla spiegazione della sua superiorità: in che cosa
    consisteva? Dove era adesso? S'immaginava nemmeno che egli potesse
    trovarsi così?
    Erano le cinque.
    Fuori di porta Montanara, per lo Stradone, il passeggio doveva
    essere incominciato.
    Daccapo non seppe che cosa fare. Dinanzi all'altro caffè la
    larga distesa dei tavolini arrivava insino al palco della banda,
    senza un avventore; si ricordò del primo pensiero, svoltando
    alla fontana, di andare piuttosto a quel caffè, dove
    capitavano il signor Bonoli e lo strozzino. Allora non aveva osato,
    adesso gliene ritornava un desiderio malato.
    Siccome era rimasto solo al proprio tavolo, si alzò senza
    salutare alcuno, giunse in fondo al portico, ne discese i gradini, e
    si mise all'ultimo tavolino presso l'ultima colonna.
    Chiese il Secolo ed un gelato. Ma, così solo, gli tornava la
    paura.
    - Quanto ci vorrà ancora, prima che sia sera?
    Rapidamente pensò ai nuovi incontri, ai discorsi che dovrebbe
    ascoltare, a quelli cui sarebbe inevitabile rispondere, alle
    combinazioni, ai casi inavvertiti tutti gli altri giorni. Avrebbe
    potuto tradirsi senza accorgersene. Di quando in quando rimaneva
    senza forze, in una attonitaggine, dalla quale lo toglieva la
    sensazione improvvisa del pianto, che stava per sfuggirgli. A quanto
    doveva compiere nella notte aveva deciso di non pensarci, anzi era
    sorpreso di scordarsene tratto tratto. Come avveniva ciò?
    Nessuna di quelle terribili strette, di quei dolori trafiggenti,
    sotto ai quali nella notte aveva creduto tante volte di svenire, gli
    si era ancora rinnovato: le ore passavano, dandogli solamente una
    sensazione vacua, come se ne provano assistendo a certi spettacoli
    senza prendervi interesse. In tale momento il luogo più
    deserto era appunto il caffè, ma il suo isolamento avrebbe
    finito coll'essere notato anche lì. Dove andare? Non aveva
    nulla da fare; e poi a che scopo lo avrebbe fatto?
    In questa impassibilità stava già la morte.
    Oramai era fuori del mondo, non apparteneva più a nessuno,
    non aveva più nulla. La vecchiezza non deve essere altro che
    la lenta progressione di questo sentimento, l'abbandono reciproco di
    tutti verso uno e di uno verso tutti per una solitudine annebbiata,
    silenziosa, immobile.
    Aveva acceso un altro sigaro.
    Guardò alle notizie del giornale senza fermarsi ad alcuna,
    poi le appendici lo attrassero: Un Idillio tragico, di Bourget; I
    milioni della scema, di Montfermeil: nel primo la scena era a
    Montecarlo, nei saloni da gioco rutilanti d'oro, invasi da una folla
    cosmopolita, di tutti i costumi, di tutti i gradi, di tutte le
    fortune. L'autore dipingeva finamente e rapidamente; egli ebbe la
    sensazione di quell'ambiente, nel quale la gente andava per tentare
    di non morire, ottenendo da una vincita la guarigione della propria
    vita anemica di oro, di fede, di speranza, di amore, perché
    presso alla morte tutto si fa pallido. E in quella folla, nella
    quale l'egoismo delle disperazioni non permette lo scambio di alcun
    sentimento, e fra quelle le pupille chine e vacillanti sui tavoli
    nello stesso sogno di riscatto; fra quel silenzio, che neppure il
    delirio della salvezza improvvisa o la sùbita rivelazione
    della morte arrivano a turbare; in mezzo a quella moltitudine
    famelica di ozio e di ricchezza, dentro il profumo dei fiori,
    l'incendio dei lampadari, la pompa abbacinante di un lusso
    divoratore, Bourget aveva messo due incantevoli figure di donne,
    sorridenti in un dialogo di amore.
    Egli ne lesse le prime battute affascinato, arrestandosi in fondo
    all'appendice, quasi colla stessa sensazione che se si fosse urtato
    in un muro.
    A Montecarlo il suicida tenta di forzare ancora una volta la
    fortuna; può bastare un solo scudo per ritornare felice e
    trionfante alla vita. Quanti vi avevano vinto la posta della propria
    esistenza! Quanti altri l'avevano perduta! Erano più i primi
    o i secondi? Quanti suicidii si compiono all'anno in Italia, in
    Europa? Egli non lo sapeva, ma se qualcuno gliene avesse detto la
    cifra enorme, gli sarebbe parsa esagerata: nullameno ebbe come una
    vaga visione di questi volontari della morte, strano esercito senza
    generale e senza disciplina, che tutti gli anni si esauriva sino
    all'ultimo soldato, e si rinnovava tutti gli anni inutilmente. Ogni
    suicida credeva di agire solo: qualche volta morivano a poca
    distanza l'uno dall'altro, egualmente separati dalla differenza dei
    motivi. Chi poteva dire davvero il perché di un suicidio?
    Egli stesso non avrebbe saputo definire il proprio caso; le ragioni
    erano molte, forse una per una non sarebbero bastate, forse neppure
    la loro somma diventava decisiva... Egli ci aveva pensato molto, poi
    si era accorto di non poter concludere.
    Era a questo punto, quando Gualtiero Ponti gli batté la mano
    sulla spalla:
    - Anche tu leggi il nuovo romanzo di Bourget: bisognerebbe invece,
    mio caro, poter andare a Montecarlo e vincere.
    - Vincendo, che cosa faresti tu?
    - Mi divertirei.
    - Come?
    - Seguiterei a giocare.
    E l'allegro giocatore, del quale aveva il giorno prima tentato di
    scontare indarno la cambiale, rise al pensiero di chiudere
    così la parentesi della propria vita.
    - E la cambiale? - chiese.
    - No, è stato impossibile.
    - Allora?
    - Allora!
    L'altro si era voltato a guardare una donna.
    - Ma quando sarai rovinato? - domandò Romani, che provava un
    bisogno crudele di affliggerlo, benché quello scapestrato non
    gli avesse fatto alcun male.
    Gualtiero Ponti si contentò di alzare le spalle.
    - Andiamo a fare un giro per lo Stradone? fra poco verranno Tamberi,
    Marzocchi; sai, questa notte Marzocchi ha perduto settecento lire,
    io mi ero rifatto, poi ho finito col perderne settantacinque.
    Ceniamo insieme?
    Non si era ancora seduto. Era un giovanotto piccolo, brutto, coi
    baffi a spazzola, la testa rotonda e già calva, che mostrava
    indifferentemente, giacché si era tratto il cappello per
    asciugarsi il sudore, rimanendo così a capo scoperto; un tic
    nervoso gli faceva di quando in quando scattare le dita della mano
    destra.
    - Tu non ci pensi dunque? - insisté ancora Romani.
    - A che cosa serve il pensarci?
          * * *
    Non c'era altra filosofia nella vita: sciaguratamente non bastava,
    perché giungeva il momento di dover pensare per forza.
    Finirebbe così anche colui? Istintivamente rispose di no,
    conoscendolo troppo bene per supporlo capace di un simile sforzo.
    Tuttavia in quel momento, per una specie di giustizia che si sentiva
    dentro, avrebbe avuto bisogno di credere che per lui pure sarebbe
    venuta quell'ora insopportabile di espiazione.
    Quindi n'ebbe come uno scatto violento.
    - Te ne vai? chiese l'altro, vedendolo alzarsi.
    - No, debbo fare una lettera.
    - Va' dentro nella sala a scriverla: ti aspetto qui.
    Infatti qualche cosa bisognava che scrivesse. La prima idea fu di
    rivolgersi alla zia Matilde per raccomandarle i bambini; non voleva
    dir altro, non ne sarebbe stato capace. Si era messo all'ultimo
    tavolino presso la porta, che dava nella seconda sala del bigliardo:
    notò che due vecchi lo guardavano.
    Aveva la mano ferma. Gualtiero Ponti si affacciò dalla strada
    alla vetrina; allora egli si affrettò.
          Cara zia,
                               
    2 maggio 1896.
    Vi raccomando i miei bambini, abbiate pietà di loro che sono
    innocenti; io sconto tutte le mie colpe colla morte.
    E firmò, avvolgendo come al solito tutta la firma dentro il
    riccio dell'ultima i.
    – Hai fatto presto, - gli disse Ponti avvicinandosi.
    L'altro aveva già chiuso la lettera nervosamente, la mano gli
    tremava nello scrivere l'indirizzo.
    - Dammela: te la getto nella buca, mentre vado dal tabaccaio a
    comprare le sigarette, altrimenti potresti scordartene, come accade
    quasi sempre a me.
    Romani rimaneva perplesso; se impostava la lettera, la cosa
    diventava irrevocabile. Una nebbia di sangue gli salì dal
    cuore agli occhi.
    Quasi senza comprenderlo, si cercò in tasca il soldo per il
    francobollo.
    - Va! ce lo metto io, - disse Ponti colla mano tesa per ricevere la
    lettera.
    Quindi la prese senza guardare la soprascritta, e uscì dal
    caffè.
    Romani non si poteva muovere, ma pensava, rabbrividendo:
    - In ultimo, vi è sempre qualcuno che vi spinge.
          * * *
    Poiché avevano mutato luogo alla stazione ferroviaria,
    costruendone poco lontano un'altra più ricca e più
    goffa, la strada fuori di Porta Vecchia a quell'ora non era
    più frequentata come in altri tempi. Egli dopo aver errato
    per molte vie della città, aveva finito per infilare quella;
    il sole si piegava al tramonto, dalla campagna veniva una frescura
    di verde umido e di piante in fiore.
    S'imbatté in don Procopio, il mansionario, che abitava al
    disopra di lui; il vecchio ottantenne girava ancora solo, con passo
    abbastanza sicuro senz'altro appoggio che un bastone dal pomo di
    avorio ingiallito. Era vestito del solito vecchio soprabito con una
    leggera mantellina al disopra, tutto lindo e rasato di fresco: i
    capelli bianchi, troppo lunghi, gli uscivano in ciuffi dagli
    orecchi.
    - Lei! - esclamò Romani.
    Il vecchio gli sorrise, scoprendo due ammirabili fila di denti
    troppo lunghi, di un bianco gialliccio. Romani si era fermato.
    - Dove va? - disse, cedendo finalmente al bisogno di una
    conversazione.
    - Poco lungi, figliuolo mio. Nihil est longe a Deo: è
    l'avvertimento di Santa Monica al suo figlio Agostino.
    Ma l'accento tranquillo contrastava con la lirica minaccia del motto
    latino.
    - Sono stato sino alla sbarra della ferrovia.
    - Ritorni ancora indietro con me.
    - Nella sera si fa fresco, io sono vecchio e mi avvicino al termine.
    - Che importa? - proruppe l'altro: - bisogna ben finirla una volta
    con questa vita.
    - Eh! finirla... finirà certo. Quando si è giovani si
    parla male della vita, perché non se ne capisce il pregio, e
    al più piccolo contrasto si pensa persino male di Dio.
    - Perché dunque permette egli tante infamie? Perché vi
    è della povera gente, che deve morire in miseria dopo aver
    fatto ogni sforzo per non meritarla, mentre i farabutti riescono
    sempre in quello che vogliono?
    - Lo sapremo dopo, figliuolo mio: finché viviamo, bisogna
    rispettare la vita come un dono di Dio.
    - Poteva tenerselo.
    Ma siccome la voce gli aveva tremato, il vecchio si fermò a
    guardarlo in viso.
    - Non vi è altro in questo mondo che la vita: che cosa volete
    vi sia di più importante?
    - Come mai dunque certuni se la tolgono?
    - Pazzie, suggerimenti del demonio! Tutti i dolori passano, è
    questione di pazienza: dopo, pensandoci, si resta sempre sorpresi di
    aver disperato. Vedete, io che sono vecchio, ho avuto anch'io le mie
    disgrazie, i dispiaceri... e poi, se si potesse ricominciare,
    ricomincerei.
    - Lei non può avere sofferto veramente nella vita; bisogna
    esserci dentro per provarla e comprendere come alle volte non
    c'è altro modo di cavarsela che andandosene. A che cosa serve
    la pazienza, quando non c'è più alcuna speranza?
    - Volete farmi parlare perché sono prete, non è vero?
    Oggi tutti i giovani, che discorrono con noi, pretendono
    d'imbarazzarci; ma voi stesso in questo momento non potete essere al
    caso di giudicare sulle tristi condizioni, che spingono certi
    infelici al suicidio.
    Romani si era arrestato, aspettando la sua opinione, ma il vecchio
    tacque. Andava adagio, soffermandosi spesso a guardare quelli che
    incontravano, mentre una collera sorda spingeva l'altro a
    bestemmiare davanti a questo prete, il quale pretendeva naturalmente
    di rappresentare Dio e di poter parlare in suo nome.
    Quindi seguitò:
    - Si fa presto a dire che uno, il quale si uccide, è pazzo;
    ma se non lo fosse? Moltissimi dànno prova del massimo sangue
    freddo sino all'ultimo istante.
    - Pazzi, pazzi! La chiesa permette appunto il loro seppellimento in
    terra benedetta, perché li considera pazzi. Ma se non
    c'è altro al mondo che la vita, la quale ci fu data per
    guadagnarne un'altra migliore! Lasciate correre, sono fandonie delle
    moderne filosofie; ma intanto tutti questi filosofi e questi poeti,
    che bestemmiano la vita, tirano a campare.
    - E quelli che si ammazzano?
    - Matti!
    - Non è vero! - proruppe: - Vi sono delle circostanze, nelle
    quali il suicidio diventa l'azione più onesta e più
    utile, che un uomo possa fare. E poi, perché si deve
    tribolare tanto? Se Dio...
    - Non bestemmiare, figliuolo mio.
    - Non bestemmio; se Dio fosse giusto...
    - Andiamo, andiamo, - ripeté il vecchio, alzando un pochino
    la canna in segno di disapprovazione; ma il fischio della vaporiera
    li interruppe. Si fermarono, il cantoniere chiudeva dinanzi a loro
    la barriera.
    - Passa il vapore, lo vedremo, - disse il prete, voltandosi verso la
    stazione invisibile, alla quale il treno doveva essersi arrestato.
    Anche Romani non parlava più; l'affermazione così
    sicura di quel vecchio sulla vita lo aveva scosso; capiva che
    confessandogli anche la propria tragedia, non solo non lo avrebbe
    commosso abbastanza da farlo vacillare nelle proprie convinzioni, ma
    nemmeno da intenerirlo. I vecchi non si appassionano più per
    alcuno, ma, chiusi in se stessi, si nutrono dei propri giorni,
    adagio, come per farli durare maggiormente. Quindi rimaneva
    irritato; il bisogno di discutere, senza rivelarlo, il proprio
    suicidio, lo tormentava sempre più dolorosamente. I dubbi
    filosofici, i terrori religiosi della mattina lungo l'argine del
    fiume, tornavano a sopraffarlo dinanzi a quel prete, che
    rappresentava la doppia rivelazione della vita e della religione.
    Egli doveva sapere per aver provato, e perché credeva
    senz'alcuna incertezza.
    Lo esaminò.
    La sua faccia esprimeva una calma senza nessuna vivacità,
    adesso che la vita era per lui ridotta al minimo; non diceva nemmeno
    più la messa, tutto si riduceva al pranzo e a quella
    passeggiata. Eppure era come tutti gli altri; nessuno voleva pensare
    alla morte.
    Egli invece fremeva. Dopo aver lasciato impostare quella lettera, un
    nuovo orgasmo lo aveva obbligato a muoversi, quasi a fuggire, solo
    nelle strade, per non tradirsi con qualche scoppio irrefrenabile.
    Che cosa gli importava della vita? In quel momento, pur di finirla
    subito, avrebbe accettato anche la morte più dolorosa. Era la
    rivolta degli animali deboli, che trovano nella disperazione il
    coraggio dell'attacco.
    Quel prete di una religione, che secondo la gente ha un balsamo per
    tutti i dolori, non aveva indovinato in lui, non aveva sentito
    niente nella sua voce! Un sorriso amaro gli contrasse le labbra.
    Un altro fischio acuto, prolungato, fendé l'aria; s'intesero
    gli scoppi di un'enorme respirazione che si avvicinava, si vide in
    alto uno stendardo azzurrognolo di fumo, e il treno passò
    alla barriera rapido, nero, perdendosi nella campagna, che si
    assopiva languidamente sotto il tramonto.
    Don Procopio lo aveva seguito cogli occhi:
    - Quello sarà sempre giovane, mentre i nostri cavalli, - e si
    batté una gamba colla canna - non vanno oramai più!
    Romani era diventato pallido come un cencio; nei suoi occhi sbarrati
    vi era la fissità dell'agonia, che non vede più o vede
    già troppo lontano.
          * * *
    Non aveva potuto parlarne nemmeno col prete.
    Questa impossibilità di trovare un'anima, nella quale
    riversare tutta l'angoscia della propria, gli era diventata uno
    spasimo maggiore della stessa necessità di uccidersi. Sino
    dalla notte, dopo la lettura di quella lettera, resisteva
    all'angoscia di rivoltarsi per terra mordendo qualche cosa: invece
    aveva dovuto comporsi una maschera simile al volto di tutti i
    giorni, perché nessuno si accorgesse di quello che soffriva.
    Gli pareva di essere un sonnambulo, colla coscienza di non poter
    più uscire dal proprio sogno. La vita seguitava intorno a lui
    più intensa di prima; la luce animava le cose, l'aria
    vibrava, alitavano profumi, i rumori salivano dalla terra mescendosi
    in una sonorità inesauribile, dentro la quale passava
    un'altra infinità di musiche, mentre la gente affaccendata di
    sé medesima sembrava non accorgersi neppure del tramonto
    imminente. Non poteva essere che così. Era come di quelle
    danze che i più piccoli insetti fanno nei raggi del sole:
    volano, si riproducono senza posa, in una confusione ardente ed
    instancabile, e quello che si arresta un istante, cade non visto
    nell'ombra, sulla terra. Nessuno può fermarsi al dramma o
    alla morte di un altro, perché il dramma è in tutti, e
    tutti debbono morire; la pietà è appena un sorriso,
    che si volge ai feriti capaci di rialzarsi; per quelli che
    soccombono, la disattenzione previene già l'oblio.
    Egli stesso non sapeva più che cosa dire agli altri; si
    sentiva come una di quelle foglie galleggianti nel fosso sotto il
    temporale del suo sogno: che cosa avrebbe potuto dire una di quelle
    foglie morte alle erbe dei margini sbattute dalla corrente? Il
    problema della morte è più lontano e più in
    alto della vita, dove il tempo dilegua nell'eternità; e
    quando l'anima s'affaccia nuda a tale problema, se non vi scorge
    qualche cosa nel buio, ciò vuol dire che la luce  della
    lampada accesa dalla religione in quelle insondabili
    profondità si è spenta. Il giorno cadeva. Un vapore si
    distendeva pel cielo, abbassandosi lentamente sull'aria, che si
    raffreddava; gli oggetti si velavano incertamente, la moltitudine
    pareva calmarsi. Però le sue voci si facevano più
    inquiete, tutti i passi si affrettavano. Le grida degli uccelli
    erano cessate all'improvviso nell'oscurità misteriosa del
    fogliame: dentro le finestre, prima incendiate dal sole, il buio si
    era fatto denso come un panno nero, le strade piene di popolo
    avevano una ondulazione di marcia sotto la notte imminente.
    Egli aveva oramai finito quel giorno.
    Le campane della sera disperdevano il proprio gemito nel silenzio
    delle lontananze, come un'invocazione saliente dalla terra dinanzi
    al terrore delle tenebre, che stavano per sommergerla. Nell'agonia
    di tale fine, che non aveva mai avvertito prima di allora, gli parve
    che la morte sfiorasse tutte le cose. Quanto era succeduto in quel
    giorno, non succederebbe più, era già perduto
    irrevocabilmente dove tutto si perde, ciò che fu e ciò
    che dovrà essere, perché la vita non è appunto
    che una evanescenza, un suono di suoni, un'ombra di ombre vagolanti
    in un infinito infinitamente remoto.
    La sua anima si ravvolse nel lungo brivido di quella solitudine, che
    solamente il pensiero avrebbe potuto riempire. Poi il crepuscolo si
    oscurò ancora, le prime stelle spuntarono dalla volta del
    cielo, mentre per la città si accendevano i primi fanali, fra
    un mormorio più indistinto di voci, al disopra della folla,
    che dileguava nella oscurità delle strade.
    Ma le stelle crescevano sempre nel cielo opaco, troppo grandi e
    troppo vivide perché la notte potesse appannarle: miriade di
    mondi viventi di un'altra vita inesplicabile alla nostra, malgrado
    tutte le rivelazioni della scienza e della fede.
    Che cosa c'era lassù? Più alto di lassù?
    Dio?
    Un minuto dopo la morte, questa domanda sarebbe ancora possibile?
          * * *
    Egli soccombeva all'umiltà di un annichilimento finale. La
    sua volontà si era disciolta al pari di ogni altra cosa
    nell'ombra, come in un ritorno alla primordiale indeterminatezza
    dell'essere; non soffriva più. Persino quest'ultimo dubbio,
    balenatogli più in alto, oltre lo splendore delle stelle, si
    era spento con tutto quanto moriva intorno a lui, nella dissoluzione
    della notte. Che importava il motivo della morte, quando bisognava
    morire?
    Il medesimo silenzio penetrava in tutti i cuori, la stessa ombra in
    tutte le teste: non si poteva essere immortali; perché noi
    pretendevamo dunque di esserlo?
    Vi era differenza nella morte? Che cosa era il suicidio? Si muore di
    tutto, tutti si suicidano, giacché ogni gioia troppo intensa,
    ogni dolore troppo acuto ci costa forse un giorno: qualunque opera
    ci toglie quella parte di noi stessi, colla quale la compimmo; i
    nostri figli sono i nostri parassiti sino al giorno che, non potendo
    più nutrirsi di noi, ci abbandonano per soccombere altrove.
    In qualsivoglia momento la morte è sempre la stessa: un
    terrore, un'angoscia, e la soffocazione in fondo. Non ci si pensa,
    perché tutte le idee adunate intorno alla morte, paradisi,
    inferni, non riproducono che teatralmente il nostro oggi sullo
    sfondo di una notte senza domani.
    Quando l'ora della morte è suonata bisogna rassegnarsi: non
    è sempre così davanti a tutte le difficoltà
    della vita? Si chiudono gli occhi, e si ingoia il bicchiere
    dell'olio di ricino, come fanno i bambini.
    Una carrozza, che gli passò accanto fragorosamente, coi
    fanali accesi, gli ridiede la visione del treno sbuffante, fumante,
    coi grandi occhi sbarrati nella notte, come se venisse contro di
    lui, e tutta la terra intorno tremasse sotto la violenza del suo
    impeto.
          * * *
    - Vieni con me dalla Marietta: è arrivata una ragazza
    d'Imola.
    Romani alzò la testa, Gualtiero Ponti seguitava:
    - Venturini dice che è bella, vieni con me: poi ceneremo.
    Ma sebbene la domanda fosse insistente, la voce rimaneva fredda;
    Romani stava seduto alla cantonata del caffè Rondinini, in
    quell'ora pieno di gente, sotto il chiarore rossastro dei lampioni a
    petrolio: tutti erano vestiti a festa. Era la prima ora del
    passeggio notturno, per la piazza e sotto il loggiato dei signori;
    le ragazze passavano a frotte negli abiti chiari, sorridendo fra gli
    sguardi, che le cercavano avidamente. Romani si era seduto, solo, a
    quell'angolo. Una stanchezza malata aveva finito di vincerlo, dopo
    tutte quelle corse fuori e dentro la città: si era cacciato
    per molti vicoli, sino alle mura, che da Porta Pia vanno a Porta
    Montanara dirimpetto alla linea delle colline, e anche là
    aveva trovato la stessa gente, coppie di amanti, torme di bambini,
    crocchi di mamme, e, tratto tratto, un vecchio, che passava come
    un'ombra nell'ombra sempre più densa della sera.
    Gli era rimasta negli orecchi la cantilena di alcune voci.
    - Dove ti sei nascosto oggi, che non ti ho più visto? -
    ridomandò Ponti.
    - Ho girato.
    - Solo?
    - Così... non sempre, - si corresse, ricordando l'incontro
    con don Procopio.
    - Dunque vieni?
    - No.
    - Perché? Vieni.
    - Non ne ho voglia.
    Sopraggiunse un altro, al quale Ponti fece la stessa proposta, e che
    accettò.
    Romani rimase solo daccapo.
    Perché non aveva accettato? Era stato un rifiuto istintivo,
    ripugnante, quasi di un ferito, che qualcuno, stupido o villano,
    invitasse a ballare, poiché gli era accaduto di ricusarsi
    così nella giornata ad altri inviti, sempre colla stessa
    sensazione amara di disgusto. Il passaggio delle donne, che talvolta
    a quell'angolo gli sfioravano quasi il ginocchio colla gonnella, lo
    tirava inconsciamente ad altri pensieri: qualche profumo vaporante
    dalle vesti errava nella sera, nomi femminili salivano dai crocchi
    vicini a lui, mentre al di là della strada, in quel largo
    dinanzi al loggiato, fra i tavolini, molto signore si erano
    già fermate, e i camerieri correvano affaccendati, recando o
    togliendo i bacili. La festa diventava più tentatrice nelle
    ombre della notte; pochi bambini erano ancora in giro, nell'aria
    agitata da uno scirocco leggero soffiavano improvvise caldezze. Le
    donne, quasi belle a quell'ora, avevano nel passo qualche cosa di
    diverso, un'ondulazione, che gli abiti festivi rendevano più
    provocante, quindi voltavano il capo allungando i sorrisi, o si
    chiamavano fra loro a sussurrare una confidenza non difficile ad
    immaginarsi. Egli si accorgeva di osservare tutto questo intorno a
    sé. E quell'invito brutale di Ponti gli ritornava più
    insistente dalla varietà di quella scena trepida di voci e di
    fruscii femminini. Perché aveva adunque rinunciato? Fra la
    folla delle donne ne distinse alcune, delle quali in gioventù
    era stato l'amante: passavano come le altre, sedotte e seduttrici,
    in quella prima notturna promessa della primavera. Si capiva, si
    vedeva che la gente, immemore delle proprie sciagure, o magari a
    cagione di queste, voleva esaltarsi gaudiosamente in tutte quelle
    sensazioni, che, risvegliate dai rapidi contatti della strada, nei
    brevi incontri ai caffè, ingrosserebbero a cena fra la
    crapula dei discorsi e la fiamma dei bicchieri, per irrompere
    più tardi nei convegni colle donne irritate dalla troppo
    lunga attesa.
    Egli stesso aveva fatto così mille volte, senza riflettervi.
    Conosceva quelle stanze della Marietta, nell'angolo di un vicolo,
    sopra un'osteria, poco lungi dalla piazza. La Marietta, non ancora
    vecchia, pareva quasi un uomo alla durezza della fisonomia e con
    quella voce grossa. Raramente capitava da lei qualche bella ragazza.
    Se avesse seguito Ponti, non vi sarebbero in due rimasti più
    di mezz'ora, giacché in quel luogo si entrava e si usciva,
    avendo preso tra le braccia per cinque minuti una donna incognita,
    come lungo la strada i carrettieri si arrestano talvolta ad una
    bettola e vi bevono un litro in piedi, presso il banco dell'oste.
    Anche Camilla doveva spesso aver fatto come le altre, prestandosi
    all'amore momentaneo, nel baratto assurdo di un bacio contro uno
    scudo, senza piacere, senza pudore, senza memoria. Si ricordano
    forse certe cose e certi appuntamenti? Ma se ciò non fosse,
    forse la gente impazzirebbe; tutto nella vita ha la propria immagine
    falsa, l'amore e la gloria, il vizio e la virtù, e quando il
    sangue fermenta improvviso, o l'anima non resiste più alla
    visione di sé medesima, si ricorre a queste falsificazioni
    come ad un rimedio, che placa il male senza ingannarlo e ci lascia,
    nella prostrazione dello sforzo compito, una più pronta
    facilità al riposo.
    Il suo sguardo frugò rapidamente la strada, che da
    quell'angolo del caffè Rondinini saliva parallelamente al
    Corso, per vedere se Ponti ritornava, pentendosi già in cuore
    di non averlo seguito. Tutto quell'incubo di morte, così
    soffocante da venti ore, gli faceva schizzare dalla coscienza un
    desiderio acuto, quasi stridente, di gustare anche una volta quel
    piacere che, falsato, rimane pur sempre senza confronto con alcun
    altro. Perché resistere? Aveva egli paura che gliene fosse
    domandato conto dopo la morte? Come quei condannati, cui era tutto
    permesso nell'ultimo giorno, e che si sentivano prendere subitamente
    da golosità frenetiche, egli avrebbe voluto adesso una donna
    a qualunque costo; era quasi un orgoglio di sfida lanciato al
    mistero della tomba, un estremo impeto di profanazione contro tutto
    quanto stava per abbandonare. Le stesse contraddizioni, delle quali
    nel giorno aveva tanto sofferto, gli si mutavano in un bisogno anche
    più spasmodico di afferrare per l'ultima volta la vita nel
    suo momento più intenso, e spremerla, col superbo sottinteso
    della morte, in una sola stretta. Pregustava già una gioia
    acre nel constatare l'inintelligenza della donna davanti all'orrore
    imminente di tale tragedia, con quella falsità di carezze
    sempre uguali nell'amore gratuito o venduto.
    Sul marciapiede di contro, rasente all'ultimo gradino della grande
    scalinata, in quel momento passò l'Anitra, una donna di
    trent'anni, cui il portamento dei fianchi troppo bassi aveva
    meritato questo nomignolo: era sola, vestita al solito con una certa
    modestia, malgrado il proprio mestiere di etèra plebea.
    Si alzò di scatto per seguirla, nessuno gli aveva badato.
    Dovette passare attraverso molti gruppi di donne, ma dai loro
    sguardi si accorse subito di essere sospettato, perché andava
    troppo dritto su quella traccia. Sapeva dove ella abitava: un vicolo
    remoto, lercio, dal nome purissimo “Delle Vergini”: ma l'Anitra
    rasentò la fontana a sinistra.
    Si era accorta di lui.
    Allora egli non osò più accelerare il passo, il
    pentimento lo ripigliava.
    Ella proseguiva adagio, con quel suo pesante ondulamento delle
    anche, che si distingueva bene nell'ombra rotta dai fanali. I
    capelli neri le facevano un grosso mazzo sulla nuca.
    La gente si rarefaceva ancora, lungi dalla piazza, l'ombra
    s'infittiva: egli passò sull'altro marciapiede per essere
    più libero.
    - Perché non la fermo? - si chiese, senza saper rispondere.
    Tuttavia quell'orgasmo gli durava, si sentiva battere il cuore, come
    altre volte recandosi a qualche convegno passionale; aveva i sensi
    irritati e quella leggerezza, che il desiderio della donna sembra
    dare a tutto il corpo.
    L'altra rivolse la testa.
    Egli la riconobbe: il suo viso tondo dalle guance troppo rosse, col
    mento quasi da bambina, gli occhietti chiari. Gli parve di
    distinguere persino quella riga grassa sotto il collo, la cosa che
    più in lei gli era piaciuta.
    - Non ha altro lei! Anche Camilla, che cosa aveva di più?
    Quando si è eccitati, si farebbero delle pazzie per loro, e
    dopo non ne resta niente. Le donne sono tutte uguali: Caterina
    getterà qualche urlo, poi non ci penserà più,
    come le altre. Gli sciocchi siamo noi, a credere che esse ci amino.
    Chi ama? Io stesso, che mi sono rovinato per questo, amo forse
    Camilla adesso?
    Intanto proseguiva sul marciapiede, sempre alla stessa distanza.
    Un uomo fermò l'Anitra, che girò ancora la testa
    indietro; egli si arrestò, mentre i due invece seguitavano
    innanzi chiacchierando a bassa voce.
    Allora svoltò al primo vicolo allungando il passo per
    ritornare in piazza. Erano le otto e mezzo. Improvvisamente, tra
    quella moltitudine festiva, si ricordò di una biroccia
    incontrata nel pomeriggio, lungo la strada di circonvallazione,
    dinanzi al nuovo macello. L'aveva guardata con una sensazione di
    stupore, poi non ci aveva pensato altro. Era una delle solite
    biroccie, verniciate di turchino, dalle ruote alte, tirata da un
    grande mulo secco; un vecchio carrettiere senza giacca le veniva di
    fianco, con un mozzicone di frusta nelle mani e una pipetta quasi
    senza cannuccia fra i denti.
    Egli si era dovuto ritrarre sull'orlo del fosso per non lasciarsi
    schiacciare, seguendola collo sguardo sino alla svolta della strada,
    dove il canale si allarga in una immensa pozzanghera.
    La biroccia, colma di stracci e scossa da un triste tremito di
    paralisi, pareva tratto tratto stridere lamentosamente sotto il
    cumulo delle miserie, che le gonfiavano i fianchi. Gli stracci,
    gettati gli uni sugli altri a palate, si confondevano in un colore
    sudicio, dentro al quale qualche cosa biancheggiava ancora, un
    rimasuglio di candore fra tutte quelle immondizie lasciate indietro
    dalla vita, e nullameno raccolte da qualcuno per viverne. Egli aveva
    veduto tutto alla prima occhiata, l'aggrovigliamento di quei cenci
    tessuti con ogni sorta di fibre, lacerati, sfrangiati, coperti di
    macchie e di croste, che ricordavano altre piaghe, esalandone ancora
    il puzzo grasso e penetrante. Una polvere cinerea ondeggiava sopra
    di essi ad ogni traballone senza potersene staccare, mentre la
    massa, scrollandosi con una mollezza di carne in putredine,
    rabbrividiva ancora sotto un volo di mosche affamate.
    E sopra i suoi fianchi, lievi brandelli riaccendevano tratto tratto
    nel sole qualche pallore di lino o luccicore di seta, tosto
    soffocato dalla bigia pesantezza degli altri stracci, che si
    spostavano senza cadere, come se tutte le loro morti vi si tenessero
    avvinghiate. Una fetida nausea di cadaveri veniva da quella bara,
    coi segni tuttavia visibili della vita passata, già
    fermentante nell'ultima dissoluzione. Tutto lì dentro era
    stato nuovo in altri giorni: quante migliaia di gente vi aveva
    lasciato il segreto della propria esistenza! Quanto vino, quanto
    sudore, quante lacrime, quanto sangue vi erano caduti! Quanti sogni
    vi rimanevano ancora, che sparirebbero nella medesima buca!
    Dalla camicia della vergine al mantello del soldato, dalla fascia
    del bimbo al grembiule del beccaio, dalla veste che tutto un popolo
    aveva ammirato, all'abito che l'accattone aveva lasciato solamente
    morendo, forse nulla di quanto la vita umana aveva adoperato per
    nascondere la propria nudità, mancava in quella bara. Il
    pensiero avrebbe potuto frugarvi senza fine, come dentro un
    cimitero.
    Egli ne aveva ricevuto confusamente questa impressione nella
    fugacità di un istante, poi aveva riflettuto che dovevano
    essere stracci troppo sordidi per cangiarsi in carta dopo il solito
    imbianchimento, e destinati quindi come concime a qualche grassa
    coltivazione.
    Adesso la visione immonda gli ritornava in piazza come un finale
    ironico, che conchiudesse quella festa, trattando allo stesso modo
    gli abiti e coloro che li portavano. Infatti la bellezza nella vita
    non dura più della primavera nell'anno: uno splendore di
    qualche mattino, una purità sorridente di cielo, qualche
    dolcezza nei tramonti, poi il sole brucia tutto daccapo, e l'autunno
    imputridisce quanto il sole ha bruciato, e l'inverno seppellisce
    quanto l'autunno ha imputridito. Quella folla di immemori era attesa
    come lui dalla morte a un gomito improvviso della strada: uno per
    uno avrebbero provato la stessa angoscia subitanea nel crollo di
    tutto il passato, davanti alla impenetrabile oscurità
    dell'avvenire. E vi arriverebbero forse peggio di lui, logori,
    maculati di putredine come i cenci di quella biroccia, esalando
    già prima di morire il fetore della decomposizione
    sepolcrale. Forse valeva meglio andarsene così, ancora
    intatto, nella pienezza delle proprie forze e del proprio dolore.
    La gente condanna i suicidi per dispetto della paura, che questi non
    hanno avuto.
    Un pensiero bizzarro gli solcò la mente: se la gente,
    volendo, potesse non morire mai, vi sarebbero egualmente dei
    suicidi? Qualcuno si ammazzerebbe ancora, per odio della vita? Il
    problema era troppo profondo nella sua stravaganza, perché
    egli potesse trovarne la soluzione, ma vi pensò nondimeno
    qualche tempo. Sapeva che le bestie non si suicidavano, pur essendo
    esposte a tutti gli stessi mali fisici della umanità. Era
    dunque l'anima che anelava alla morte, era la mente che si ribellava
    alla inutilità dello spasimo! Infatti la povera gente, quella
    che vive più materialmente, non pensa mai al suicidio: non la
    fame uccide, ma l'umiliazione di mostrarsi affamato fra la gente
    satolla. Chi nacque accattone, mendica per tutta la vita, e trova
    forse la felicità in quest'ozio; chi invece è
    costretto da un disastro a questuare, non potrà mai perdonare
    né a se stesso né agli altri lo strazio di tale
    subordinazione.
    La sua angoscia in quel momento stava appunto nel sentirsi come un
    mendicante fra la folla allegra e spendereccia, che non gli avrebbe
    dato un soldo. Essere espulso dal mondo, come sono cacciati i poveri
    importuni dalla porta, quando si commise l'errore di lasciarla loro
    oltrepassare!
    - La carità? - pensava. - Ma, se ci scacciamo l'un l'altro da
    tutti i posti, se dovendo tutti morire, la morte degli altri non ci
    tocca nemmeno... Dov'è la carità? Anch'essa è
    un lusso di certi istanti: si dà qualche cosa, perché
    la momentanea gioia di chi riceve aumenta la nostra
    giocondità. È come nei pranzi: ci vogliono degli
    invitati; ma si amano forse i proprii invitati? Bisogna essere in
    molti ad una festa di ballo; ma la soddisfazione di ognuno è
    appunto nel primeggiare sugli altri, vedendoli così
    segretamente iracondi del piacere loro tolto.
          * * *
    Sapeva che non vi sarebbe entrato, ma da venti minuti passeggiava
    sull'altro marciapiede, dinanzi alla porta della propria casa.
    La gente si era diradata anche nella piazza, solo nei due grandi
    caffè, più vivamente illuminati, proseguiva la festa
    della domenica. Poche donne passeggiavano ancora. Egli si era
    diretto verso casa, per abitudine: Caterina doveva aspettarlo e, non
    vedendolo comparire, avrebbe certamente pensato che volesse evitare
    un nuovo discorso sulla zia Matilde. Lungo la strada notò
    molte finestre illuminate; era quella l'ora più dolce, dalle
    nove alle nove e mezzo, quando le donne rientravano, e si andava a
    cena chiacchierando della giornata, con quella contentezza di non
    aver lavorato, e non pensando ancora alle necessità
    dell'indomani.
    Egli si riproduceva nella mente la scena di Caterina coi fanciulli a
    tavola; questi volevano senza dubbio l'altra metà della zuppa
    inglese serbata a pranzo per il giorno dopo, mentre ella,
    indispettita per la nuova assenza di lui, si ostinava nel rifiuto.
    Improvvisamente, questo piccolo dolore dei bambini, prodotto dalla
    sua assenza, gli divenne intollerabile.
    - La mia assenza! - si ripeté sottolineando questa parola,
    della quale si era inconsapevolmente servito.
    Caterina era poi andata dalla zia Matilde? Questa domanda lo forzava
    a riflettere sull'orario, secondo il quale la posta distribuiva le
    lettere; ma si persuase subito che la sua non sarebbe recapitata
    prima delle nove, all'indomani. Chi era il postino, che faceva il
    servizio per il rione della zia Matilde? Forse essa, riconoscendo la
    calligrafia, avrebbe aperto la lettera prima ancora che quegli
    avesse potuto uscire di casa: e allora? In un baleno vide tutto il
    dramma dopo la propria morte, ma così rapidamente, in una
    luce così intensa, che non poté sostenerla.
    Camminava senza accorgersene, a testa bassa, con tale fiacchezza,
    che qualcuno fra i rari passanti avrebbe necessariamente finito col
    notarlo; arrivava dal campanile di San Lorenzo, il più alto
    della città, nel mezzo della strada, sino alla barriera. La
    notte era stellata, il fiume, ridivenuto quasi secco fino dalla
    mattina, non mormorava più come nella notte antecedente; i
    primi fanali del borgo illuminavano sinistramente le alte spalliere
    del ponte in ferro. A forza di andare su e giù, la coscienza
    tornava ad assopirglisi nel ritmo stesso di quell'impulso, ma nel
    passare dinanzi alla propria porta alzava sempre gli occhi. Due
    finestre v'erano illuminate, quella della saletta da pranzo e,
    all'ultimo piano, l'altra della camera da letto di don Procopio. Se
    non che la luce filtrando appena di fra le griglie, diventava
    impossibile sorprendere nell'interno il passaggio di un'ombra. Si
    ricordò dei progetti con Caterina nel primo periodo del
    matrimonio per un restauro alla facciata della casa: sarebbe stata
    una spesa di quasi duemila lire, alla quale avevano rinunciato senza
    fatica. Caterina invece avrebbe desiderato di accomodare qualche
    stanza nel podere a Santa Lucia in Vado per potervi villeggiare di
    qualche guisa nell'estate. Anche quello era stato un sogno
    impossibile. Tutto dileguava, per sempre! Si dovrebbe vendere ogni
    cosa dopo, quasi subito, in mezzo a una disperazione piena di
    rimproveri contro di lui: eppure egli non ne soffriva più in
    quel momento. Come se il grande distacco si fosse già
    compito, vedeva tutto a una distanza troppo grande, con quella
    indifferenza che ci lasciano le cose impossibili alla nostra
    volontà. In lui non sopravviveva che l'abitudine, quel fascio
    di rapporti indefinibili, onde l'uomo è legato alla propria
    casa, quella incapacità di pensare sé medesimo in modo
    diverso dal come si è vissuti, tutte quelle impronte
    incancellabili, colle quali la vita compose la nostra fisonomia
    spirituale. La casa, con quanto vi stava dentro, era come una parte
    di lui stesso.
    Il tempo passava.
    Quella passeggiata lenta, uguale, aveva finito coll'attrarre
    l'attenzione delle due guardie daziarie sedute al fresco fuori della
    gabella; si erano alzate e lo spiavano. Allora egli diè volta
    bruscamente, ma quando fu al campanile non seppe andare oltre.
    Voleva vedere quella finestra ancora una volta.
    L'orologio della piazza sonò le dieci e un quarto, il lume
    passava sempre attraverso le griglie: allora si ricordò che
    Caterina soleva spesso la sera ripassare la lezione dell'indomani a
    Ada.
    - Finché c'è il lume non me ne vado, - borbottò
    ostinatamente.
    Ma le guardie si erano messe a passeggiare, e venivano verso di lui:
    dovette tornare indietro. Per un momento pensò di salire con
    un pretesto, salutare tutti e scappare; titubava, si sentiva
    affranto.
    Ritornò ancora, ma siccome le guardie stavano ferme in mezzo
    alla strada, a quaranta passi dalla gabella, fumando, si persuase di
    essere sorvegliato. Quasi ciò potesse distogliere i sospetti,
    traversò la strada per venire sull'altro marciapiede,
    volgendo daccapo la schiena alla propria casa.
    Poi un passo sollecito gli risuonò dietro.
    - Oh tu, Romani!
    - Tu, Landi?
    - Esci di casa?
    - Sì.
    - Io non ho potuto cenare a casa mia: un'altra scena con quella
    linguaccia di mia moglie! Vado al Falcone, accompagnami.
          * * *
    Aveva già bevuto due ponci, seduto all'ultimo tavolino di
    sinistra nella prima sala, col gomito appoggiato sulla cassa di
    vetro, nella quale si conservavano le paste.
    Gaudenzi, l'impiegato del telegrafo, non si era ancora veduto,
    l'avv. Guglielmi doveva essere al club, quel vecchio maestro
    chiacchierino giocava nell'altra sala, e s'udiva spesso la sua voce
    in falsetto salire fra scoppi di risa.
    Una malinconia fredda gli era penetrata sino dentro le carni, come
    certe umidità notturne, contro le quali non sembra giovare
    alcuna bontà di panni. Nel caffè, pieno degl'insoliti
    avventori domenicali, il chiasso cresceva più villano; erano
    gruppi di artieri in gazzarra dal pomeriggio, vestiti con
    pretensiosità plebea, dalle faccie inintelligenti e vanitose.
    Quasi tutti portavano un piccolo cappello a cencio sull'orecchio, e
    tentavano sui divani o sugli sgabelli la posa più provocante,
    giacché pareva loro una specie di conquista quel bere ai
    tavoli, dove per solito sedevano i signori. Nei loro discorsi, quasi
    tutti di politica, ritornava sempre la stessa frase con voce sempre
    più alta, o con accento più marcato, mentre in fondo
    ai loro sguardi vaghi nel primo imbambolimento dell'ebbrezza,
    s'accendevano piccole fiamme. E i più irrequieti si
    guardavano intorno, cercando qualcuno dall'aspetto signorile per la
    compiacenza di potersi momentaneamente, davanti a lui, mostrare in
    una ostilità mimica.
    Egli vedeva tutto questo senza che alcuno gli badasse, perché
    non era mai stato veramente un signore.
    Colla testa abbandonata sull'alta spalliera rossa del divano, una
    mano in tasca, osservava i cerchi di fumo turchiniccio allontanarsi,
    dilatandosi lievemente dalla punta dello zigaro, nell'aria
    già greve di tutti quegli aliti.
    Al momento di entrare sotto il loggiato aveva rivolto la testa verso
    il grande orologio della piazza, illuminato: segnava le dieci e
    mezzo. Le ore, così lente nel giorno, si erano tuttavia
    involate con una rapidità raccapricciante.
    Si tastò la rivoltella nella tasca sinistra della giacca,
    pensando un'altra volta, con un senso d'impazienza, come non avesse
    incontrato né lo strozzino, né il signor Bonoli,
    né il pretore, che dovevano conoscere il suo dramma. Credeva
    che la loro vista sarebbe bastata a raddoppiargli l'energia, almeno
    per quella necessità d'ingannarli sino all'ultimo col
    fingersi indifferente.
    Invece, per tutta quella lunga giornata, nulla era venuto ad
    aiutarlo: aveva recitato troppo bene dissimulando.
    La sua fine doveva compiersi come per qualunque altra malattia,
    senza né ricevere né dare ad altri alcuna insolita
    emozione. Perché? A che cosa serve la morte? Perché
    era nato? Se non vi erano perché, tale infinita
    inutilità diventava il più profondo dei misteri. Nel
    bisogno di scostarsi dall'ultimo momento, il suo pensiero fluttuava
    daccapo all'urto delle sensazioni, che gli si rinnovavano nella
    memoria. Il babbo e la mamma, pieni per lui di tenerezza, lo avevano
    allevato in un bel sogno di avvenire, addormentandosi per sempre
    nella tristezza sconsolata di una disillusione finale; egli aveva
    amato i proprii bambini, rifacendo sopra di essi il medesimo sogno.
    Perché? Questa parola lo sbalzava da un altro lato; Camilla
    era passata una sera dinanzi a lui, si erano parlati, egli aveva
    provato un rimescolamento profondo, non aveva capito più
    bene, si era rovinato per lei senza accorgersene, e senza che ella
    se ne accorgesse. Perché? Lo strozzino, d'accordo col signor
    Bonoli, aveva portato la sua cambiale falsa al pretore: volevano
    mandarlo in galera? Volevano costringerlo al suicidio?
    Perché? Che cosa importava loro? Era così. Tutte le
    vite si rompono come bicchieri l'uno contro l'altro, senza che
    alcuno abbia mai potuto leggervi la marca di fabbrica, o indovinare
    chi verrà a raccoglierne i cocci.
    Solamente allora si accorgeva di aver sempre agito senza un
    perché; tutta la sua esistenza non aveva un solo atto
    necessario, che la spiegasse, all'infuori dell'avere mangiato e
    dormito, due bisogni istintivi per mantenerla.
    Il resto rimaneva inesplicabile. Camilla e Caterina erano entrate
    nella sua vita quasi allo stesso modo, egli non aveva riflettuto in
    nessuno dei due casi; era diventato padre così, perché
    le donne rimangono gravide, ecco tutto, e aveva allevato i figli per
    un altro istinto. Gli affari, i divertimenti dipendevano sempre
    dalle circostanze, anche quando si voleva combinarli con ogni studio
    possibile: perché dunque si pensava e si soffriva tanto? La
    sua mente ritornava alle meditazioni della mattina su quell'argine
    del fiume, nel silenzio della campagna, con un nuovo terrore degli
    stessi problemi. Ma invece di domandarsi se Dio era, e come ci
    giudicherebbe nel momento dopo la morte, si sentiva sopraffare dal
    mistero primordiale della vita.
    La nozione, per lui oscura ed inevitabile, di un creatore, non
    faceva che rendere ancora più inintelligibile il quesito:
    perché si nasce? Anche se Dio esistesse, e dovesse punirci o
    premiarci dopo morti, la ragione di averci voluto in questo mondo
    non si vedeva. Se egli era Dio, che cosa poteva importargli di noi?
    La nostra vita non spiegava sé medesima, mentre l'antagonismo
    fra la sua legge e la nostra volontà, per lui che ne doveva
    sapere anticipatamente il risultato, diventava una ridicolaggine.
    Che bisogno c'era di nascere, per dover pensar sempre senza capire
    nulla di nulla, soffrirne di tutte le sorta, e morire non avendo
    compito niente? Essendo cattivi, aggraviamo l'uno contro l'altro le
    nostre disgrazie, essendo buoni, ci aiutiamo scambievolmente contro
    il male che non abbiamo fatto, ma che ci tocca patire ad ogni modo.
    E davanti a questa tenebrosa fatalità del male, che si varia
    nella vita per tutta la gamma del dolore, dalla più lieve
    fitta corporea alla più larga lacerazione spirituale, egli
    tornava sempre a chiedersi, con l'insistenza spaventata di un
    bambino: perché si nasce? Un terrore fantastico gli faceva
    pensare a qualche potere mostruoso, che dirigesse il mondo e vi
    rinnovasse continuamente tutte le crudeli necessità:
    così i viventi dovevano divorarsi a vicenda per mangiare, e
    straziarsi l'un l'altro per godere. Infatti, non vi era gioia nella
    società, che non fosse un dolore per qualcuno; non nasceva
    nel mondo un individuo, senza essere composto coi resti di altri
    morti, non si poteva respirare, senza uccidere milioni di microbi,
    senza inghiottirne altri milioni, che dovevano ucciderci. La legge
    suprema era dunque la morte: nessuno vi sfuggiva, nessuno aveva
    torto o ragione davanti ad essa. L'immaginazione esaltata da quella
    crisi troppo lunga, gli si smarriva in una continua evanescenza di
    quadri orribili, che mettevano in quel suo sonnambulismo una specie
    di incubo.
    La sua faccia era diventata bianca, cogli occhi fissi, mentre il
    chiasso delle voci e il tinnìo dei bicchieri nelle sottocoppe
    e nei bacili cresceva sempre da tutti i tavoli.
    - Ho qualche cosa sullo stomaco, portami un bicchierino di cognac, -
    disse.
    Il cameriere si affrettò sorridendo; il padrone, bell'uomo,
    già cameriere nello stesso caffè pochi anni prima, si
    accostò fumando in una elegante pipa di schiuma, a testa di
    cavallo.
    - Che cosa ha mangiato, signor Romani? - gli chiese cortesemente.
    - Non lo so neppur io.
    - Forse dipende anche da tutta questa gente! - l'altro soggiunse a
    bassa voce, girando intorno un'occhiata di disprezzo.
    Si era seduto famigliarmente sopra uno sgabello accanto a lui.
    - Questa sera la sua partita è andata a monte. Ha letto la
    nuova appendice del Secolo ? - e si allungò per prendere dal
    banco un fascio di giornali: - a me pare bella assai.
    Romani rimaneva distratto.
    - Ecco Montalti! - esclamò il padrone, vedendo entrare quello
    scrivano storpio, che venne diritto al loro tavolo; poi
    capitò Cavina, il muratore wagneriano; Rotoli, il vecchio
    maestro chiacchierino, che aveva finito la partita nell'altra sala,
    si fermò anch'esso dinanzi a loro.
    Era quasi la stessa conversazione di tutte le altre sere.
    Il padrone ricominciò il discorso sul nuovo romanzo del
    Secolo - Idillio tragico –di Bourget, spiegando come gli paresse
    bello, perché Montecarlo vi era dipinto colla massima
    esattezza. Egli vi era stato, da giovane, nelle proprie
    peregrinazioni di cameriere. Ma lo scrivano, socialista malcontento,
    protestò: quello era un romanzo aristocratico, buono a nulla,
    giacché gli scrittori di vero ingegno non potevano occuparsi
    che delle miserie popolari.
    - Ho letto anch'io qualche appendice di questo nuovo romanzo del
    Bourget, - e pronunziò il nome come era scritto.
    Allora Cavina lo corresse, corsero frizzi.
    - Tu sei un wagneriano.
    - E me ne vanto.
    - Wagner era socialista.
    - Va! se daranno il Lohengrin in carnevale, vedrai quanto popolo vi
    andrà, - ribatté l'altro, che intanto aveva preso il
    Secolo per leggere le notizie dei teatri.
    Fortunatamente nessuno di loro si sentiva in vena quella sera, poi
    vi era troppa gente nel caffè, e Montalti davanti alla
    brutalità di quelle sbornie, che stavano già per
    scoppiare, non osava i soliti sproloquii. La voce fessa e la
    sillabazione troppo staccata e monotona, colla quale declamava, gli
    avrebbero attirato dal pubblico qualche villana interruzione.
    Si misero a parlare di donne: anche Cavina quella sera era stato in
    casa della Marietta.
    - La ragazza era bella? - chiese Montalti con un luccicore di gatto
    negli occhi.
    - C'è ancora, parte col diretto di un'ora dopo mezzanotte.
    Romani si voltò: - E dove va quel treno?
    - Bella! a Bologna.
    Rimase perplesso:
    - Ci sono altri treni?
    - Prima di giorno? Quello che da Bologna ritorna per Ancona alle
    tre, e l'altro che arriva da Ancona verso le quattro e mezzo,
    perché rimane ancora impedita la linea di Porretta.
    - Ah!
    - Deve partire, signor Romani? - gli si volse il padrone.
    - Sì, - e la voce gli si era fatta quasi dolce.
    - Dove vai? - domandò Cavina.
    - Non lo so.
    - Un mistero dunque?
    - Grande.
    Tutti sorrisero.
    Ma il baccano domenicale li teneva in disagio. Lo scrivano, malgrado
    le declamazioni socialiste, sapeva di essere poco gradito; Cavina
    era sospettato di aristocrazia per i modi abbastanza garbati e
    quella istintiva predilezione della grande arte, che lo traeva
    imprudentemente a ridere delle commedie e delle musiche gustate dal
    popolino; il vecchio maestro, benché simpatico per la dolce
    ingenuità del carattere e l'onestà della lunga vita,
    s'irritava troppo, nella lieta viridezza di tutte le proprie forze,
    contro ogni critica alla parte moderata. Egli era rimasto dentro la
    formula cavourriana, condannando ad alta voce tutti gli eccessi
    politici e le demenze atee dei nuovi rivoluzionari.
    - Eh, maestro! - esclamò Cavina; - ecco qui altri due
    suicidii a Torino; non c'è più religione.
    - Voi lo dite per ischerzo, giovinastro.
    - Come si sono ammazzati? - domandò Romani.
    - Uno si è avvelenato, l'altro si è gettato sotto il
    treno.
    E Cavina lesse i due incisi di cronaca, secchi, terribili.
    - I giornali non dovrebbero nemmeno stampare certi fatti, - disse il
    maestro: - le teste leggere si esaltano e, una volta esaltate, li
    commettono più facilmente.
    - Allora io sono una testa pesante. Possono raccontarne dei
    suicidii, io non mi suiciderò mai, - replicò Cavina.
    - Chi può dirlo? - ribatté Romani.
    - Io! Stai pur sicuro. Ammazzarsi per amore o per debiti,
    giacché la gente si ammazza quasi sempre per queste due
    cause? Per amore? Se una donna non ti vuole, ve ne sono sempre
    troppe disposte a prenderti; e quanto ai debiti, aspetterò
    che si ammazzino prima i creditori. Se io non ho quattrini per
    pagarli, mi pare che nell'imbarazzo ci siano essi.
    Si rise.
    Romani non rispose.
    - La gente si ammazza, perché la società è in
    isquilibrio, - sentenziò Montalti.
    - Si è sempre ammazzata in tutti i tempi, dev'essere una
    malattia.
    - Colpa di non credere in Dio; la nostra vita ha il suo scopo
    altrove.
    - Quale? - domandò Romani al maestro.
    - Quale? - ripeterono ad una voce Cavina e Montalti.
    - Dio..., - cominciò il maestro.
    - Non deve aver parlato molto chiaro, - interruppe sorridendo il
    padrone, - perché si discute ancora su quello che ha detto.
    Fatto sta che, quando la gente sta male, se ne va; non c'è
    altro di evidente. Nessuno può dire che non si
    ammazzerà... le circostanze sono tante!
    Tutti si arrestarono perché, pochi mesi prima, l'altro suo
    socio nel caffè si era appunto suicidato con un colpo di
    rivoltella alla tempia destra.
    Però Montalti, che voleva sempre dire l'ultima parola
    scientifica, propose il problema:
    - Quale categoria di persone dà minor contingente al
    suicidio?
    - I preti, perché stanno meglio di tutti, - si
    affrettò a rispondere il padrone.
    - I milionari, - ribatté Montalti, con quell'acre accento
    d'invidia, proprio a quasi tutti i socialisti quando parlano di
    signori.
    - T'inganni; c'era appunto venerdì sul Secolo un articolo,
    non ricordo più di quale scienziato, che spiegava come le
    probabilità del suicidio aumentino in ragione della
    ricchezza.
    - Non può esser vero, - si ostinò Montalti.
    - Lei, maestro? - tagliò corto il padrone.
    - Coloro che non sentono più la religione.
    - Lo sapevo...
    Romani doveva dire ancora la sua, ma dal tavolo prossimo due o tre
    operai si erano voltati, udendo il quesito, ed ascoltavano le
    risposte.
    Uno proruppe:
    - Lo dico io: i beccamorti! essi sanno meglio degli altri che la
    morte è brutta: la morte è come una donna, ma
    finché non ci pare bella, non commettiamo la sciocchezza di
    sposarla.
    - Bene! - fu gridato in coro.
    - Un bicchierino a Matteo!
    - Questo voglio offrirlo io, - disse il padrone alzandosi: - mi sei
    piaciuto nella risposta.
          * * *
    Guardava il grande orologio nero fra le due scansie gialle, al
    disopra della porta.
    Gli altri se n'erano andati in gruppo, e a poco a poco quasi tutti i
    tavolini erano rimasti deserti, mentre l'aria della notte, entrando
    leggera dalla bussola spalancata sul portico, spazzava i vapori dei
    ponci e dei sigari. Dal fondo della cucina giungeva, tratto tratto,
    un tintinno dei bacili e dei bicchieri, che il facchino lavava forse
    per la centesima volta nella giornata.
    Collo sguardo fisso sul quadrante dell'orologio, egli misurava il
    muoversi lento della grande freccia, che segnava i minuti; ne
    mancavano undici a mezzanotte.
    A quell'ora in punto uscirebbe dal caffè.
    Il sangue gli batteva a grosse ondate sul cervello, facendogli
    vacillare la vista. Adesso era quella paura materiale, che i nervi
    non possono più sopportare nella estrema imminenza della
    catastrofe, quando il pericolo cessa oramai di esser tale per il
    compiersi stesso del fatto. Non c'era più tempo di
    riflettere, di soffrire: fra pochi minuti sarebbe entrato
    nell'orbita della esecuzione. Quindi tutto quanto aveva patito nel
    giorno gli si condensava in uno spasimo solo, attanagliandogli ogni
    fibra del corpo e dell'anima; sentiva, dentro, un incalzare di
    sensazioni, una ressa di idee, uno sbaraglio di memorie, come quando
    un falco piomba sopra una nidiata di pulcini e ne ghermisce uno a
    volo, risalendo al cielo con un solo colpo d'ala, e tutti gli altri
    si sbandano esterrefatti fra le erbe alte del campo.
    Il suo sguardo era diventato così acuto, che distingueva
    veramente quel minimo spostarsi a gradi delle frecce. Tutta la sua
    vita stava ancora in quel piccolo segmento, interrotto dalle cifre
    nere e madreperlate del X e del XI, due spazi che si sarebbero
    riempiti con due dita. Non aveva altro. Avrebbero potuto offrirgli
    chi sa che cosa, e non sarebbe bastato ad allungargli di un altro
    dito la vita.
    Il padrone era tornato dietro il banco, e si era messo a contare dei
    soldi da una scodella di legno.
    Romani pensava:
    - Non ho più che otto minuti. La freccia gira senza sapere il
    perché, ma se sbagliasse, il tempo passerebbe egualmente
    nella stessa misura: non si può fermarlo. Ecco qui, questi
    ultimi otto minuti sono inutili, vuoti, come tutto il resto della
    mia esistenza! Che cosa posso fare? Rimango qui, non mi muovo,
    eppure il tempo mi trascina. Debbo finire prima di essere logorato:
    quando l'orologio si ferma, è forse logoro? Finirò
    così; una ruota che s'incaglia, e la freccia si ferma. Anche
    la vita è un circolo come quello dell'orologio: tutte le ore
    sono identiche, non significano nulla; il tempo non è
    soggetto all'orologio, più che la vita non dipende da noi.
    Potrei essere il più potente uomo del mondo, e tutta la mia
    volontà non saprebbe da questo posto arrestare quella
    freccia, che va sempre... È già passato un altro
    minuto. Debbo essere pronto.
    Si portò ambo le mani al volto, strofinandoselo violentemente
    come per destarsi.
    Nel caffè entrò un altro gruppo d'operai, più
    avvinazzati di quelli che n'erano usciti, ma per fortuna si
    fermarono in fondo agli ultimi due tavolini presso la bussola. Vide
    il padrone uscire dal banco e passargli dinanzi per servire
    prontamente i nuovi avventori, perché i camerieri erano in
    quel momento nel retrobottega.
    - Debbo decidermi!
    Non capiva che questo, la necessità ultima, la stretta
    suprema, senza nome, nella quale già soffocava. Tutto il
    resto non esisteva più. La febbre gli faceva battere i polsi,
    tremava in quell'incertezza dello smarrimento finale, che toglie
    tutte le direzioni, pur sentendosi nel profondo certi impeti, simili
    ai guizzi della candela che si spegne.
    Aveva appoggiato la testa sopra ambo le mani, per non guardare
    più l'orologio; gli pareva di ascoltarlo, benché non
    l'udisse.
    - Appena mi alzo di qui, sarò morto! Caterina, i miei bambini
    saranno già altre persone; adesso sono ancora mia moglie e i
    miei bambini... per cinque minuti. Poi, più nulla. Non
    c'è altro. Ho fatto il possibile inutilmente; quella prima
    cena all'Aquila d'oro mi ha ammazzato, mi ha ammazzato quella donna,
    che non ho amato; non la conosco nemmeno, adesso, ella non mi
    conosce più. Domani ci sarà ancora il sole, senza di
    me. Non ho più che due o tre minuti... È impossibile,
    sento che è impossibile, non avrò mai il coraggio di
    uccidermi!
    Non lo aveva: la testa gli pesava sempre più sulle mani, come
    una cosa morta.
    Si tastò ancora la rivoltella nella tasca.
    - Con questa, no.
          * * *
    Il medesimo gruppo, dal quale Matteo si era voltato per dare
    anch'egli la propria soluzione al problema proposto da Montalti,
    rientrò vociando nel caffè; erano stati a bere nella
    liquoreria sotto il campanile della piazza, e ritornavano per bere.
    Parve che vedendolo ancora a quel posto, si decidessero
    unanimemente, senza consultarsi, con una di quelle intese da
    ubbriachi, a gettarsi sul suo tavolo. Egli spaventato si
    alzò. In un lampo aveva veduto sulla faccia di Matteo,
    invanito di quella prima risposta, l'intenzione di riparlarne; si
    voltò verso il banco, ma era già tardi. Il gruppo lo
    circondava; avevano gli occhi imbambolati, e sui volti madidi quella
    espressione vaga di spavalderia ostile.
    Il padrone ripassò dietro il banco, mentre uno dei più
    briachi cadeva quasi di peso sopra uno sgabello borbottando:
    - Cognac!
    - Beva un bicchierino con noi, signor Romani; ho risposto bene poco
    fa, non è vero?
    - Mi sei piaciuto, Matteo, - tornò a dirgli il padrone con
    accento di sottile canzonatura: - bisogna bere per trovare simili
    risposte.
    - Adesso vogliamo bere tutti insieme; anche lei, signor Romani.
    In quel momento Romani vide le freccie dell'orologio sovrapporsi
    segnando mezzanotte; così in piedi, n'ebbe come un colpo di
    martello sul cuore, ma avvertiva ancora benissimo quanto gli
    accadeva intorno. Senza rispondere, fece atto di andarsene.
    - Questo poi no, - insisté un compagno di Matteo, mentre il
    padrone diceva:
    - Se ne va, signor Romani?
    - Addio, Enrico! - rispose questi tendendogli la mano.
    L'accento e la forma del saluto erano così insoliti, che
    l'altro ne rimase sorpreso, però fu pronto a stringergliela.
    Romani si mosse: allora Matteo volle sbarrargli la via, ma l'altro
    lo respinse con un gesto. Si alzò un mormorio di
    disapprovazione.
    - Va là, - uno gli gridò dietro, - che anche tu sei un
    bel signore, per fare così l'aristocratico!
    Il padrone, invece, gli teneva dietro con occhio pensoso, avendo
    sentito la sua mano tutta bagnata di un sudore diaccio.
          * * *
    Romani traversò il portico con passo tentennante, e si
    fermò nel largo, davanti alla fontana. La notte era sempre
    bruna, ma piena di stelle, i fanali avevano un chiarore pallido,
    velato, come il murmure della fontana chiusa entro quella funerea
    cancellata a palle di ottone.
    - No! - rispose ad un pensiero, che lo avrebbe condotto a porta
    Appia, passando ancora una volta sotto le finestre di casa.
    Pel loggiato, e per quel largo, non si vedeva alcuno; abbassò
    la testa, e si avviò verso il corso Garibaldi, che conduceva
    difilato alla vecchia stazione ferroviaria. Una forza oscura lo
    spingeva in linea retta, come una cosa, mentre la sua mente
    acquistava, grado a grado, una certa lucidità: come sempre,
    la fascinazione della meta lo aveva preso, appena entrato
    nell'orbita della esecuzione, eccitandogli quel coraggio fisico
    proprio degli animali. Nella luce opaca della notte le case
    perdevano i piccoli particolari delle proprie fisonomie, le
    sonorità anche più lievi sembravano attardarsi
    nell'aria. Egli sentiva solo di andare, appoggiandosi come sulla
    sensazione medesima del proprio passo sul marciapiede, così
    che, nel passare dinanzi ad ogni porta, l'interruzione del muro gli
    faceva un'impressione meno rapida e tuttavia lontanamente simile a
    quella degli alberi fuggenti agli sportelli dei vagoni, quando il
    treno corre veloce. Prima di arrivare alla grande barriera
    fiancheggiata da due casotti giallognoli, rigati e rabescati come
    due grandi gabbie da canarino, verdeggiava sul piazzale di una
    chiesa un piccolo giardino dominato da un alto abete storpio alla
    cima. Il getto esile della fontana, sprizzante da un sasso e
    ricadente sopra una minima vasca, sembrava un singulto di bambino
    nella notte: un ranocchio mise uno strido gutturale e tacque subito.
    Nessuna finestra era illuminata.
    Il cancello della barriera apparve alto, massiccio, coi lampioni
    sulle due grosse colonne centrali; al di fuori nereggiavano i tigli
    dei due viali fra le case del sobborgo.
    Egli vide da lontano la guardia passeggiare, fumando uno zigaro,
    dinanzi alla gabella; nella notte nessun rumore, nessun incontro.
    La guardia gli aperse colla chiave il piccolo cancello a sinistra,
    pel quale passavano i pedoni, e rinchiuse. Egli ne risentì la
    scossa, l'ultima che gli dava la città; piegò a
    sinistra per la via di circonvallazione, lungo il canale
    fiancheggiato da due alte file di pioppi bruni, ombrelliferi. L'aria
    era più fresca, il silenzio diverso: cori di ranocchi si
    rispondevano a distanza nella notte, passavano dei brividi
    nell'aria, qualche fronda dormendo pareva percossa da un'ala
    fuggente, un odore di terra e di verde saliva da per tutto.
    Egli allentò il passo.
    Sapeva che avrebbe preso per la scorciatoia del Borghetto, prima
    d'arrivare al nuovo macello, per salire l'argine sinistro del fiume,
    presso al grande ponte della ferrovia. La distanza dalla barriera al
    Borghetto era breve; sulla sinistra sorgevano alcune case nuove di
    fabbri, di falegnami, di piccoli bottegai, il commercio dei quali
    viveva appunto non pagando dazio. Egli andava sempre innanzi spinto
    da quella forza oscura, che in noi sembra sostituire la
    volontà, quando questa non è più sufficiente a
    dirigere la vita. Il sonno della campagna era però meno
    profondo che quello della città: le piante sognavano, e la
    loro respirazione e i loro fremiti turbavano l'aria; miriadi
    d'insetti, amanti o lavoratori notturni, vi si muovevano, la terra
    medesima non aveva quella insensibilità dei selciati e dei
    marciapiedi.
    I suoi occhi perdevano la fissità atonica, la frescura
    tornava a vivificargli la pelle.
    Improvvisamente gli apparve davanti la vasta pozza, nella quale si
    allargava il canale, immota come un grande antico specchio
    appannato; le due righe dei pioppi nascondevano le mura della
    città. Il Borghetto, formato da un solo vicolo, aveva un
    unico fanale in fondo: vi passò. La strada, pessimamente
    selciata, sfiancava, avvallando, per un sentiero fra un'alta siepe e
    un ruscello, poco più largo di un fosso. Odori immondi e
    penetranti crescevano appunto dove finivano le case.
    Dovette badare al come poneva i piedi per non cadere; l'argine
    s'alzava di contro. La sua linea, biancheggiante pel sentiero che le
    orme vi avevano impresso e che l'erba orlava scuramente, spiccava
    nello sfondo dell'aria, simile ad una larga striscia d'argento.
    Quando vi fu salito, abbassò gli occhi sul fiume vacuo, del
    quale i grandi archi del ponte in pietra e laggiù la
    spalliera dell'altro in ferro nascondevano le estremità,
    quindi si volse contro le mura. Solo la chiesa di sant'Ippolito col
    suo campanile, e l'altro di san Lorenzo e quello della piazza si
    distinguevano bene: il resto era una massa cupa, incerta,
    nell'ombra.
    Egli n'era già fuori per sempre.
    E allora gli parve, stando fermo, che la città si
    allontanasse, oscillando lentamente dinanzi a lui.
          * * *
    La notte era bruna.
    Nell'aria vagavano sentori di foglie e quell'indefinibile aroma, che
    la terra fecondata sembra alitare nel maggio: l'erba era umida, le
    stelle brillavano sul silenzio notturno pieno di sussurri. Dentro al
    fiume larghe pozzanghere s'illuminavano tratto tratto di tenui
    chiarori, mentre laggiù, sul ponte di ferro, i lampioni
    parevano contigui, e più lontano l'ombra oscillava. Oltre gli
    argini del fiume non si coglieva che un avvallamento della tenebra
    in una invisibile profondità, dalla quale si sentivano salire
    le preoccupazioni terrifiche della notte. Le linee del paesaggio,
    circoscritto dagli argini e dai ponti, si confondevano oscuramente,
    pur serbando lo stesso aspetto regolare intorno a quella
    cavità del fiume, rimasto senz'acqua e senza voce. Non si
    vedevano case: solo il ponte della ferrovia aveva un biancicore
    roseo di muro, sulla cima del quale fantasticamente alto, guardava
    nella notte il grande occhio rosso del disco.
    Egli vi si incantò.
    La colonna di ferro sotto il disco si distingueva appena,
    giacché il piano della ferrovia, sfuggendo dai parapetti del
    ponte, vaniva esso pure dinanzi a quella enorme pupilla rossa senza
    una oscillazione. Così ebbe daccapo paura: i fanali lontani
    dell'altro ponte in ferro sparivano nella loro chiarezza come dentro
    un bagliore, mentre quel rotondo occhio rosso non illuminava, e
    vedeva e doveva essere visto ad un'immensa distanza, come una scolta
    ciclopica sulla ferrovia deserta nella notte.
    Era rimasto in piedi, inchiodato sul sentiero biancastro.
    Dal ruscello, che per una larga chiavica passando sotto l'argine
    sboccava nel fiume, la nota tremula di un rospo s'interruppe
    timidamente; gruppi lontani di ranocchi gracidavano con violenza,
    coprendo un vocìo sottile di grilli, che si confondeva
    d'intorno. Dopo aver guardato da ogni canto si voltò ancora
    verso la città; dietro la sua lunga massa, bruna come una
    scogliera di notte, pallidi chiarori sembravano uscire da invisibili
    cavità; ma non pensò più che egli era vissuto
    là dentro per trentasei anni. Solamente guardava.
          * * *
    Sul ponte della ferrovia il casello del guardiano era illuminato;
    egli strisciò guardingamente lungo il parapetto pel sentiero
    lasciato dall'alta ghiaia, sulla quale poggiavano le rotaie,
    affrettando il passo per non lasciarsi sorprendere, giacché
    si ricordava come fosse severamente proibito di transitare per le
    linee della ferrovia. Non sapeva se il guardiano avrebbe fatto la
    ronda d'ispezione prima dell'arrivo del treno, ma quel divieto
    bastava in tale momento a fargli paura. La strada ferrata si
    allungava dinanzi a lui dritta, piana, nera, con quei due regoli
    sottili, in una uniformità e in un silenzio inesprimibile:
    nessuna traccia, nessun suono, nessun segno. Aveva voltato la
    schiena al disco, e scorgeva dinanzi a sé per cento metri un
    filo luminoso sulla costola interna delle rotaie; null'altro. Quel
    piano troppo stretto gli limitava la vista, mentre una impressione
    gelida gli veniva da quelle due rotaie inamovibili, che non si
    sarebbero toccate mai.
    Di qua e di là della strada i campi bassi s'affondavano in
    un'ombra più densa, dentro la quale si distinguevano appena i
    ciuffi dei primi grandi alberi.
    Ma i suoi occhi guardavano sempre sulle rotaie quel tenue filo
    luminoso, che sembrava avanzare con lui. Finalmente era solo. A
    quell'ora, in quel luogo, per quella strada non passava alcuno;
    sentì di non essersi mai trovato in una solitudine simile.
    Vedeva la ghiaia tersa, quasi vi fosse stata posta da poco tempo, e
    le rotaie luccicargli dinanzi, brunite.
    Quindi si ricordò di esservi trascorso in vagone molte volte,
    di notte e di giorno, senza prestarvi attenzione: chi guarda alla
    ferrovia? Gli occhi sfuggono sul paesaggio che scompare. Adesso
    invece la solitudine di quella strada, così diversa da tutte
    le altre, l'opprimeva. Si fermò al quinto palo del telegrafo,
    volgendosi indietro, verso la stazione. Incontrò il grande
    occhio rosso del disco fiso sopra di lui, e laggiù un
    riverbero largo d'incendio prossimo a spegnersi gl'indicò il
    luogo della stazione. Pareva molto più lontano che non fosse.
    D'un tratto, nel silenzio della notte, udì il grosso orologio
    di sant'Ippolito battere le ore dal campanile; le contò
    rattenendo il respiro.
    - Due quarti dopo mezzanotte, - esclamò voltandosi
    istintivamente verso Forlì, donde doveva giungere il treno.
          * * *
    Dall'altro lato della strada un'ombra passò con una lanterna
    nella mano; istintivamente egli girò dietro il palo del
    telegrafo, abbracciandovisi per non scivolare dall'alta ripa, e
    tenne il fiato. La lanterna nell'allontanarsi lentamente allungava
    un riverbero oscillante sulla vicina rotaia, si udiva la ghiaia
    stridere sotto un passo pesante.
    Era la ronda del guardiano; dal fondo della notte doveva presto
    spuntare la prima luce del treno.
    Il guardiano vigilava, secondo il solito, quel tratto di linea di
    là del ponte, perché non vi accadessero disgrazie; a
    un certo punto la lanterna di un altro guardiano avrebbe risposto
    alla sua, e il disco muterebbe il proprio rosso ardente in un vivido
    color verde. Romani sapeva tutto questo, giacché in una bella
    notte d'estate, l'anno prima, se lo era fatto spiegare dal guardiano
    sul ponte, ove aveva fatto sosta con alcuni amici. Quella notte gli
    risorse nella mente coi più minuti particolari; si
    ricordò dell'immenso soprabito biancastro, una meraviglia fra
    gli eleganti del paese, che allora portava Mario Angelini. Anche
    questi era morto.
    Ma una paura lo tenne nascosto, così abbracciato al palo,
    togliendogli ogni facoltà di ragionare; aveva pensato che il
    guardiano nella propria ronda potesse passare dal suo lato, e allora
    scoprendolo gli avrebbe necessariamente intimato di andarsene.
    Che cosa rispondere in questo caso? Avrebbe l'altro indovinato il
    vero motivo?
    Il palo ogni tanto vibrava, percosso da tremiti improvvisi. Era un
    dispaccio che passava irresistibile, invisibile sul filo, o una
    oscillazione, che questo, mosso dall'aria della notte, imprimeva al
    palo? La sua attenzione rimase per qualche tempo divisa fra il
    brontolio interno del palo e il luccicore saltellante della lanterna
    già molto lontana.
    - Ritornerà dal mio lato?
    Lo credette istantaneamente, quindi svegliandosi come da un sogno,
    che quel ritorno avesse già rotto, si disse:
    - Me ne vado.
    Nuovamente tutto dipendeva da questo caso. Un'angoscia di speranza
    lo soffocò, accorgendosi della vivezza dei raggi che la
    lanterna retrocedeva; sarebbe bastato che un suo bagliore
    traversasse la strada e gli battesse sul viso ad impedire la
    disgrazia, per la quale appunto si ordinavano le ronde.
    La lanterna si avvicinava sempre.
    Allora tornò a tremare di essere scoperto, ma, per una
    reazione quasi di collera contro sé medesimo, si mise di
    sbieco, perché lo spessore del palo lo nascondesse meglio.
    Voltandosi, laggiù, vide una luce.
          * * *
    Era il treno, ma non era ancora che una fiammella misteriosa nella
    notte.
    Pareva immobile, tutto rimaneva immoto intorno, il guardiano era
    scomparso dentro il casello: nel silenzio tranquillo dell'aria non
    un soffio, il fiume taceva.
    Un brivido del palo gli passò per tutto il corpo facendolo
    tremare a verga a verga, mentre, laggiù, quella fiammella
    rimaneva sempre così piccola e ferma.
    Un impeto freddo gli raggomitolò l'anima in uno di quei
    terrori sùbiti, senza nome, dei sogni.
    E strinse violentemente il palo guardando.
    La fiamma appariva rossastra come in un'aureola, entro la quale
    pareva di scorgere le larghe maglie tremule di una rete nera. La sua
    immaginazione si rappresentò subito la marcia rapida,
    folgorante, del treno apparentemente fermo per la sua stessa
    velocità, con quei due immensi occhi di fuoco, che gli
    rischiaravano la strada. Veniva da lungi, andava lungi, nero,
    veloce, misterioso, fatale. Nulla poteva arrestarlo; il suo respiro
    era mostruoso; ansava, soffiava fumo senza perdere la lena, senza
    spossarsi nel palpito enorme, scivolando sulle rotaie che tremavano,
    sfondando la notte inconsapevole. Non aveva meta, si arrestava,
    ripartiva; la gente spariva nei suoi vagoni neri, tappezzati
    all'interno come stanze, vi si obliava chiacchierando, in una fede
    sicura al mostro immane, che non aveva mai saputo nulla e non
    saprebbe mai nulla di coloro, che viaggiavano nel suo ventre. Di
    giorno e di notte, in qualunque stagione, sotto il sole, sotto la
    pioggia, sulla neve, andava sempre; il suo tremito diventava
    più profondo traversando i ponti, il suo respiro si faceva
    asmatico sotto i tunnels, dai quali prorompeva con un fischio
    trionfale d'ironia avventandosi giù per le valli, e non di
    meno ubbidendo docile alla mano, che gl'imponeva di rallentarsi
    dinanzi alle prime case di un villaggio.
    Era la forza stessa del sole diventato carbone, che si sprigionava
    daccapo in un altro fuoco; era la giovinezza eterna del moto, che
    crea tutte le giovinezze.
    Si ricordò la frase invidiosa di don Procopio: come è
    sempre giovane, è sempre come la prima volta che lo si
    guarda!
    In un attimo, la sua fantasia aveva riveduto tutti i quadri e tutti
    i sogni della vita.
    Quel treno misterioso nella notte trasportava indifferentemente gli
    uomini e le merci, i dolori e le gioie, era esso medesimo tutta la
    vita nella sua corsa perpetua che nulla può fermare, nella
    sua insensibilità, nella sua fiamma, nel suo rombo, nel suo
    orgoglio vincitore di ogni ostacolo. Bastava salirvi per sfuggire
    subito a tutte le proprie difficoltà, e non essere più
    che uno sconosciuto fra sconosciuti, in viaggio verso una meta non
    confessata, a ricominciare sopra una terra nuova la vita quasi
    consunta in un'altra. Tutto diventava piccolo dinanzi al prodigio di
    un treno: impotenza ed impossibilità non sono che conseguenza
    di un luogo, risultati di un ambiente, mentre la vita sempre
    giovane, corre sempre, si rinnova, si perpetua, dimentica, divora il
    tempo e lo spazio, bella come il sole che l'accese, più lunga
    del sole che si spegnerà. L'uomo non è più
    nulla, se vuole contraddire o dominare la vita, non ne può
    saper nulla, non vi deve mutar nulla: la morte vera è quando
    il nostro corpo si rompe da sé, ma allora la vita intorno non
    se ne accorge. Bisogna vivere come si può, più che si
    può, bisognerebbe poter vivere sempre.
    Un tremito profondo del palo lo scosse; la campagna sempre
    addormentata non si accorgeva che il treno l'oltrepassava vigile ed
    indifferente come il pensiero.
    Allora l'umiliazione, che gettandosi sotto quel treno ne sarebbe
    stato stritolato senza produrvi nemmeno una scossa sensibile, lo
    vinse. E se il macchinista, avvertendo il caso, arrestasse la corsa,
    quel cadavere di uno sconosciuto, che faceva perdere qualche minuto
    al treno, non sarebbe stato che uno spiacevole incidente per tutti.
    - Perché si sarà gettato sotto il treno? - si
    sarebbero appena domandato tra di loro gl'impazienti.
    - Ma s'intendeva già il suo rombo, si distinguevano i due
    fanali rossi, dilatati, abbacinanti; la terra incominciava a
    tremare, l'aria palpitava, dalla notte desta di soprassalto uscivano
    sussurri inquieti, giù pei campi alcune voci spaurite
    sembravano richiamarsi.
    Egli sentì tutto questo. Come se le fiamme dei fanali gli
    fossero entrate per gli occhi nel cervello, non vedeva più,
    mentre la stessa convulsione spasmodica lo faceva stringersi sempre
    più violentemente al palo, che oscillava quasi scosso da una
    bufera.
    Era tardi, non c'era più tempo.
    Il treno gli fuggiva agli occhi enorme, nero, con quel ventaglio di
    fiamma dinanzi, respingendo tutto col suo respiro di fornace; dalle
    rotaie parevano sprizzare fiammelle, una colonna di fumo illuminata
    internamente si distendeva sopra di lui, dietro di lui, come una
    bandiera: e al disotto, fra lunghe fessure, si distingueva ancora
    una vivezza di braciere, dal quale sfuggivano faville e bracie, che
    cadevano e si spegnevano.
    Egli si volse; il disco guardava col grande occhio verde, lungi dal
    disco un trenta passi l'ombra del guardiano protendeva ancora la
    lanterna nera col piccolo vetro rotondo.
    Nessuno sospettava adunque di una disgrazia.
    Sarebbe stato uno slancio, uno scricchiolio e più nulla.
    Davanti alla rapidità spaventevole del treno capì che
    egli avrebbe potuto essere anche più rapido, gettandosi
    bocconi sulla rotaia per lasciarsi passare sul collo l'immane
    valanga.
    Quest'ultima sensazione gli durò, quando il treno col proprio
    vento non lo scuoteva più così abbracciato al palo; e
    i vagoni neri s'inseguivano quasi contigui nell'ombra, e dai
    finestrini si travedevano dentro gabinetti illuminati, rossi, scuri,
    in una nudità di legno, o non si vedeva nulla, mentre i
    vagoni fuggivano chiusi sino alla cima, oscuri e sinistri come
    catafalchi.
          * * *
    La notte non mutava.
    Seduto presso quel palo, colle gambe abbandonate giù per la
    ripa erbosa, aveva ancora nella fantasia ansante quella visione.
    Aveva ascoltato il fischio d'arrivo e quello di partenza, gli ultimi
    rumori e gli ultimi tremiti nella notte, con l'angoscia che si prova
    solo sfuggendo momentaneamente alla morte. Nessuno fra quanti
    viaggiavano su quel treno si era certamente immaginato che a quel
    palo qualcuno fosse rimasto in dubbio di gettarsi sotto le ruote per
    finirla colla esistenza; ciarlavano o dormivano, nel pensiero
    dell'arrivo, trasportati dalla corrente della vita, più
    impetuosa ancora del treno. Potervi salire e vivere, null'altro!
    Egli lo aveva sentito con una intensità, che gli rovesciava
    nella coscienza tutte le ragioni della morte. Il treno gli era
    apparso dentro una poesia strana ed imperiosa: la sua forza, il suo
    impeto esprimevano un trionfo costante nell'orgoglio del suo stesso
    prodigio. Ognuno dei viaggiatori, rapiti dalla sua foga, avrebbe
    potuto essere già sfinito nelle novissime disillusioni della
    morte, e non avrebbe meno provato, nel profondo della coscienza, la
    vittoria di quella corsa. Ma gli era rimasta nella fantasia quella
    successione di gabinetti rossi, coi divani a mezzo ricoperti dai
    grandi, grossolani merletti bianchi, sui quali aveva traveduto
    qualche testa di donna. Qualcuna andava forse a Parigi, un sogno che
    egli aveva rifatto tante volte inutilmente, ciarlando cogli amici
    nelle dolci notti di estate, quando, non sapendo come meglio
    ammazzare il tempo, andavano sino alla barriera per veder passare il
    treno della mezzanotte. Egli si ricordava le invidie provate nei
    brevi tragitti dinanzi ai viaggiatori esteri, così
    riconoscibili alla disinvolta eleganza del vestito e dei più
    minuti comodi di viaggio: erano i felici, i veri padroni del mondo,
    pei quali i climi non avevano inconvenienti e le stagioni mutavano
    indarno.
    Il lusso di queste esistenze superiori gli riappariva davanti come
    un quadro rosso di quegli scompartimenti di prima classe,
    ammantellati di ricami bianchi, con delle teste di donne soffuse di
    un tenue pallore.
    Tutto era bello: i cuoi delle valigie avevano tinte esotiche, i
    fermagli sprizzavano raggi fra il disordine soffice dei veli, degli
    scialli, delle coperte gettate alla rinfusa, in alto, sulla piccola
    rete. Si fumava, si chiacchierava, alcuni leggevano il giornale.
    Invece egli era venuto in quella notte per gettarsi sotto il treno.
    Si strinse con ambe le mani la testa per riordinarvi i pensieri:
    perché dunque non lo aveva fatto?
    Non seppe rispondere.
          * * *
    Ma voleva farlo.
    Sentiva sempre la suprema inutilità del suicidio, quantunque
    non gli tornasse nella mente un ricordo della famiglia abbandonata,
    e non gli rampollasse dal cuore un rimpianto della vita trascorsa.
    Dopo quella lunga giornata, era rimasto veramente solo. La morte,
    balenatagli così terribilmente nel primo tumulto di quella
    lettera, lo aveva poco a poco affascinato come il vuoto, nel quale
    nessuno sguardo può fissarsi lungamente: egli aveva resistito
    precipitandosi da ogni lato, ma perdendo sempre qualche cosa in ogni
    sforzo, sentendo svellersi dal profondo del proprio essere una per
    una tutte le più sottili radici. Doveva essere così,
    perché la coscienza arriva sempre nuda dinanzi alla morte.
    L'anima affacciandosi all'infinito non può essere che sola: i
    morenti mutano allora fisonomia, poiché sono già
    assenti prima di essere morti, mentre tutto quanto formava la loro
    vita non ha più nemmeno il valore di un passato, e il futuro
    non traspare ancora dalla torbidezza del mistero finale.
    Così solo, non aveva più né coraggio né
    paura.
    Lungamente pensò al tempo che gli rimaneva da passare in
    quella posizione. Nessuno lo aveva sospettato durante il giorno,
    nessuno lo aveva ancora visto, nessuno quindi lo vedrebbe su quella
    strada. Chi poteva pensare che egli stesse per morire? Quale
    influenza poteva avere la sua morte?
    Solamente la sua volontà vegliava ancora nell'attesa
    dell'ultimo momento.
          * * *
    Per quella necessità di far pure qualche cosa finché
    si è vivi, macchinalmente si cercò nelle tasche un
    sigaro per fumare, ma non ne aveva: poi si sdraiò lungo il
    sentiero, sul margine della ripa, perché quella posizione,
    così seduto, gli aveva indolenzito la schiena. La terra gli
    diede sotto la nuca una impressione di frescura.
    A sinistra, nel cielo, si era formato un largo, sottile velo scuro,
    le stelle splendevano piccole e rade. Tutto taceva. Al di sopra di
    quel silenzio assonnato, la vigilia eterna degli astri rompeva le
    ombre dell'infinito, ma la tenebra sulla campagna era così
    densa che tutto vi era naufragato. Il suo sguardo salì
    attratto dal tremolio di quei fuochi di bivacco, e si perdette nella
    loro confusione.
    La volta cerula si allontanava ugualmente, da qualunque punto
    l'occhio la contemplasse, per una distesa trasparente come le
    fiammelle che vi bruciavano nella inutilità della loro
    distanza senza misura. Nella sua mente oscura egli non riceveva che
    questa impressione. Le poche nozioni scientifiche apprese nelle
    scuole non avevano potuto dargli un concetto vivente del cielo; le
    stelle, come tanti mondi simili alla terra, probabilmente popolati
    come la terra, erano rimaste per lui un'idea vuota, un'ipotesi
    smentita ad ogni notte dall'apparenza del fatto. Il suo pensiero,
    troppo piccolo, come quello del popolo, per accogliere le
    spiegazioni della scienza, ritornava involontariamente alla
    primitiva concezione poetica del cielo, una volta azzurra,
    punteggiata di fanali e magnificamente spiegata sul mondo. Ma tutto
    era sulla terra. Questa rappresentazione immutabile per lo spirito
    umano e contro la quale nessuna scienza potrà prevalere, non
    gli dava anche adesso che una sensazione di stupore; per concepire
    le stelle come tanti mondi uguali al nostro, avrebbe dovuto
    immaginarsele spente, e allora gli sarebbe parso di non poterle
    più vedere; quindi l'enormità del loro mistero,
    moltiplicata per l'infinito del loro numero e per quello anche
    più terribile dei destini, che vi si svolgevano, avrebbe
    soffocato istantaneamente il suo pensiero.
    Egli guardava quel cielo senza una piega, velario diafano e
    costellato, che avvolgeva la terra oscura, tutta piena di dormienti
    destinati a morire, mentre l'anima gli si assopiva sempre più
    in un torpore di coma.
    Il lungo, dissolvente lavoro dell'agonia si era omai compito dentro
    di lui: un vuoto aveva inghiottito il suo spirito, e tutto quanto
    gli restava di vita non era più che un moto di abitudini.
    Tale ultimo stadio gli dava appunto quella calma, che appare sempre
    così inesplicabile nei condannati a morte.
          * * *
    In quella torpidezza così simile al sonno, che teneva la
    campagna, il suo corpo si riposava dalla stanchezza della lunga
    giornata. La frescura era blanda, l'aria tranquilla. Sdraiato lungo
    il sentiero, colla testa in alto, non vedeva più nella strada
    ferrata né il disco, né il palo del telegrafo: solo i
    fili neri di questo, tesi sopra il suo capo, formavano come una
    scalea di un significato misterioso, mentre gli steli alti del fieno
    si ripiegavano sul margine della ripa a toccargli le vesti, o
    cedevano sotto la sua mano distratta, inumidendogliela.
    Se qualche cosa avesse attraversato la notte in quel momento, soffio
    o voce, il suo spirito l'avrebbe seguita come si muovono nell'aria
    le piume di essa più lievi. Il sopore gli si faceva sempre
    più profondo, la vita vegetale della terra l'invadeva.
    Era per lui come un benessere di albero sbattuto dal vento, arso dal
    sole nel giorno, e che di notte ridiventa fresco, e dalle foglie
    ristorate manda un murmure indistinto. Qualche stella sembrava
    tremolare nel sorriso della propria luce, altre si stringevano a
    gruppi entro un albore diafano, e altre più remote
    scintillavano tratto tratto, quasi barattando segnali di scolte. Ma
    tutto era pace anche lassù: una dolcezza di riposo si
    spandeva su tutte le cose; perfino il fiume aveva cessato di
    muoversi, e i ranocchi adunati nelle pozzanghere dei campi non
    gracidavano più.
          * * *
    Un lungo brivido gli discese dal pensiero giù per le reni,
    mentre un fischio stridente, quasi di un proiettile, gli passava
    sulla testa.
    Il fischio seguitava rompendosi nell'acutezza di appelli ripetuti,
    la terra tremava: prima ancora di essersi potuto levare in piedi
    aveva scorto nuovamente la pupilla verde del disco dilatata
    nell'ombra, e al disotto di essa, sulla ghiaia della strada, un
    chiarore che si muoveva colla lanterna del guardiano.
    Era il treno delle tre, un misto, che veniva da Bologna.
    Rimase dritto, cogli occhi laggiù, spalancati sulla luce
    saliente dalla stazione invisibile. Non aveva raccolto di terra il
    cappello, si sentiva un continuo soffio agghiacciato sulla faccia,
    la gola gli si era improvvisamente disseccata. Sbirciò due o
    tre volte il vetro verde del disco, sorvegliando l'ombra del
    guardiano; non tremava, ma era come se tutto tremasse intorno a lui.
    Aspettava in una tensione, che non gli permetteva di fare un moto
    neppure coll'anima. Aveva i capelli irti e la bocca aperta: il suo
    sguardo s'illuminava di una profonda chiarezza interna.
    Il fischio ricominciò, poi a un certo momento parve un urlo,
    che l'immane respiro della macchina già in moto soffocasse;
    stridé ancora. La lanterna del guardiano si era alzata.
    Si vedevano distintamente i due fanali rossi e, più in alto,
    una oscillazione oscura di fumo: egli guardava ancora, attonito,
    senza respirare, scosso dal tremito convulso della terra, che pareva
    sfuggirgli sotto i piedi.
    La sua vita non aveva più che alcuni minuti secondi.
    La macchina ebbe uno sbuffo più violento.
    Rapidamente, inconsapevolmente, si gettò bocconi colla testa
    sulle rotaie; la rotaia tremava. Egli guardava venire la macchina,
    ma non vedeva più che un immenso ventaglio di fiamma alto
    come una parete, la terra oscillava sotto di lui; chiuse gli occhi e
    sentì sulla ghiaia, nel medesimo attimo, il palpito del
    proprio cuore e i battiti dell'orologio. Istintivamente aperse le
    braccia puntando le palme sulla ghiaia, abbacinato dall'immenso
    fulgore di quell'incendio, che si precipitava contro di lui
    rugghiando.
    I suoi occhi sostennero per un istante l'urto, non capiva, non
    sentiva; poi gli parve che il ventaglio di fiamme si sollevasse, si
    vide la macchina lanciata a volo sulla testa, come un'enorme arco di
    ponte che ardesse, un vento impetuoso gli sferzò il volto,
    mentre la terra squarciata da un ultimo sforzo si apriva sotto di
    lui.
    - No, no! - ebbe appena il tempo di urlare, ritraendo disperatamente
    la testa, che la macchina gli era forse già a soli venti
    metri.
    Un torrente nero; solido, alto: un soffio gelido ed irresistibile lo
    gettò quasi giù dalla ghiaia, sulla quale puntellava
    ancora le mani, raggricchiato nello sforzo istintivo di farsi
    più piccolo, senza potersi muovere, chiudendo gli occhi ad
    ogni vano fra vagone e vagone, come ad una scudisciata che gli
    fendesse a mezzo le pupille.
    E il treno enorme, vertiginoso, freddo, nero non finiva.
    All'ultimo vagone egli rotolò sul sentiero.
    Quando si rialzò non vide più il treno.
          * * *
    Egli se ne andava lungo il sentiero, a testa bassa.
    Una vergogna amara di quanto gli era accaduto aumentava sulla sua
    coscienza, come dopo la pioggia in certe pozzanghere cresce l'acqua.
    Si era gettato sotto il treno cedendo alla pressione di una forza
    interna che lo spingeva, e la sua ragione, rianimata dal fracasso
    della macchina, aveva avuto irresistibilmente paura. La sua
    volontà, incapace di qualunque sforzo, non si era più
    mossa, quando puntato sulle mani, colla testa rasente ai predellini
    dei vagoni, aveva sentito sfilare ruinosamente tutto il treno.
    L'aria, che fuggiva smaniando fra i larghi raggi delle ruote, gli
    schiaffeggiava il volto gelato da uno di quegli orrori fantastici,
    pei quali nella notte i fanciulli perdono la voce.
    Egli non si era immaginato la morte così enorme, con quella
    onnipotenza di uragano!
    Adesso tutta la sua natura di uomo timido ed inetto ripigliava il
    sopravvento. Una specie di buon senso gli diceva sommessamente che
    aveva avuto ragione di aver paura: lo spettacolo del treno, veduto
    colla testa sulle rotaie, era qualche cosa d'inesprimibile,
    d'insopportabile. Le rotaie oscillavano sotto la sua fronte, quasi
    come il filo del telegrafo quando il vento soffia impetuoso, la
    terra reboava, quel ventaglio di fiamma, formato dalla congiunzione
    dei due fanali, si dilatava sempre come per la spinta di una
    eruzione, dalla quale sfuggiva in alto un'immensa colonna di fumo.
    Era una scossa saltellante di valanga, con un rombo di tuono fra
    schianti di baleni e un vento freddo e una minaccia fulminea che
    rovesciava, dissolveva tutto dinanzi a sé.
    Perciò non aveva resistito.
    Per un solo istante si era irrigidito nel duello, premendo la tempia
    sul ferro gelido della rotaia collo sguardo ardente su
    quell'incendio; sarebbe abbisognato che il treno non fosse stato
    più che a tre metri, e allora forse il delirio stesso gli
    avrebbe fatto mantenere la posizione.
    Ma uno spavento lo aveva avviluppato, e lo cacciava nuovamente per
    quel sentiero nella notte tranquilla. Dove andare? Sentiva di avere
    ancora paura della morte, che gli era quasi passata addosso con quel
    treno oscuro e fiammeggiante, nell'impeto procelloso di una
    vittoria: ne aveva rimasto l'abbarbaglio negli occhi e il vento nei
    capelli. La sua faccia non gli sarebbe parsa più la medesima,
    se avesse potuto vederla; era di un pallore lapideo, cogli occhi
    vitrei e una specie di smorfia immobile sulla bocca. Come tutti i
    toccati dalla morte, aveva mutato. Nel suo stesso terrore gli
    rimaneva qualche cosa di estraneo alla vita, un senso di
    profondità interminabili, un freddo di caduta per una ruina
    di abissi. Infatti quel treno non gli era parso che si allontanasse
    per la strada ferrata, ma era dileguato per lo spazio, come il
    tuono, in uno di quei rapimenti che accendono a razzi le stelle.
          * * *
    Si arrestò.
    Aveva camminato per qualche miglio, senza por mente alla
    diversità della sottoposta campagna nella tenebra. Si accorse
    di essere tutto bagnato di sudore e di rugiada, il luogo non pareva
    mutato, e le rotaie gli si perdevano sempre dinanzi a pochi passi
    sul piano oscuro della strada.
    - Diranno che ho avuto paura!
    Infatti lo avrebbero detto, vedendolo così. Era stato lo
    sbigottimento inevitabile della morte, giacché il coraggio
    non è appunto che uno sforzo contro di esso, che la gente non
    vorrebbe mai vedere in coloro che debbono morire. Il soldato, il
    condannato titubante divengono istantaneamente spregevoli; bisogna
    che entrambi fingano il disprezzo, quasi la provocazione,
    perché tutti si esaltino in questa vittoria della
    volontà umana. Ma il suicida, che si vantò, per una
    qualunque ragione, di gettare la propria esistenza come un cencio
    immondo dietro di sé, non ha più diritto alla paura.
    In questo caso la gente insorge contro il falso temerario, che
    voleva sottrarsi alla pressione della morte, più greve ancora
    di quella dell'aria, giacché ci mantiene aderenti alla vita
    malgrado tutti i dolori: e le contumelie diventano la rivincita
    dell'umiliazione, che il coraggio inesplicabile di ogni suicida
    infligge alla moltitudine sempre invocante la morte e singhiozzante
    di viltà ad ogni sua apparizione.
    Chi l'ha voluta davvero, non può ritornare nella vita.
    È una consacrazione come quella che la religione pratica sui
    propri sacerdoti, i quali non sanno più riconfondersi cogli
    altri uomini.
    Egli si rappresentava tutto questo oscuramente, nelle scene che ne
    sarebbero seguite a casa sua e nel caffè. Si ricordava di
    alcuni, che avevano annunziato il proprio suicidio, di altri ancora
    più infelici, che vi erano sopravvissuti rimanendo per tutti
    un oggetto di scherno. Se egli fosse tornato addietro, avrebbe
    intoppato nella ilarità di tutto il paese, unanime, dopo una
    simile commedia, nel giudicare anche più abbietto il suo
    dramma. Poi, conosceva la zia Matilde, che appena aperta quella
    lettera ne avrebbe gettato le alte grida per tutta la casa e per le
    strade, correndo da Caterina. Come intercettare quindi quella
    lettera? Perché intercettarla?
    Per quanti sforzi avesse voluto fare, non gli sarebbe riuscito di
    tornare indietro: la sua anima vuota non amava, non si doleva
    più, ma, sola dinanzi a sé medesima, assisteva come
    uno spettatore al supremo duello della volontà contro
    l'istinto. Se non che, finite tutte le ragioni del vivere, la vita
    resisteva ancora al pari di ogni involucro alla pressione che doveva
    spezzarla, ed egli provava un'ultima indicibile vergogna per se
    stesso nel riconoscersi così pauroso. Solo una specie di
    testardaggine, un impegno col proprio orgoglio, l'obbligavano a
    morire.
    Aveva sempre la rivoltella in tasca, ma non pensò nemmeno un
    istante a servirsene; dopo quel primo infelice esperimento, temeva
    di fracassarsi la testa senza uccidersi, perdendosi così in
    un'altra fine peggiore di tutte le morti. Infatti un suicida
    sopravviveva ancora in paese, dopo essersi asportato con un colpo di
    pistola quasi tutta la parte inferiore del volto: era un giocatore
    non vecchio, che da quel giorno non aveva più osato uscire di
    casa, e pel quale la serva, diventata sua moglie, cercava
    l'elemosina.
    Ma se avesse potuto davvero analizzare sottilmente se stesso, in
    quella ripugnanza ad uccidersi con la rivoltella avrebbe scoperto
    qualche altra cosa, poiché a quel modo si sarebbe veramente
    ucciso da sé, mentre invece non voleva che morire. Gettarsi
    sotto il treno e lasciarsi schiacciare! Non egli avrebbe distrutto
    sé medesimo, ma un'altra forza, un mostro vivente, ansante,
    il più prodigioso uscito dalla mente umana. Egli sentiva
    un'ironia nella antitesi della propria debolezza contro tale
    onnipotenza, nel mutare quello stupefacente veicolo di vita in uno
    strumento di supplizio. Era come una vendetta contro la
    società, che lo costringeva a morire colla assurda
    contraddizione delle proprie leggi coi propri costumi. Infatti il
    suo suicidio non aveva altro motivo.
    La natura non ha bisogno del nostro concorso per ucciderci, il mondo
    solo ci condanna al suicidio: quando la nostra presenza non vi
    è più possibile, sentiamo la necessità di
    morire, per non durare come un rimasuglio fra la gente. La
    società non è pari alla natura, nella quale anche i
    residui hanno un valore. Ognuno crea se stesso in una classe o in
    una funzione con indelebili caratteri, ma, distruggendo questa
    personalità, non gli rimane né posto, né
    gruppo. Allora erompe la contraddizione fra l'istinto che vorrebbe
    vivere, e la ragione che non sa più trovarne il modo.
    Infatti egli non aveva, coll'imprudenza di quella cambiale falsa,
    sciupato che la propria condizione in paese, così che potendo
    trasportarsi altrove non avrebbe quasi nulla perduto. La morte, cui
    si umiliava, era un omaggio al giudizio della società, un
    tragico complimento all'importanza della classe, nella quale era
    nato. Come marito, come padre, come uomo, egli consentiva a non
    poter vivere se non come aveva vissuto fino allora, mentre intorno a
    lui le migliaia e migliaia vivevano egualmente bene entro la
    condizione, nella quale sarebbe precipitato; ma poiché la
    nostra vita è anzitutto spirituale, una mutazione della sorte
    vi ha infinitamente più importanza che qualunque altra della
    natura. Dalle più grandi tragedie ai più minuscoli
    drammi, non si tratta mai che di suicidio, di una immolazione che
    l'individuo fa di se stesso alla società, come vittima
    espiatoria delle colpe altrui o delle proprie.
    Quindi la vergogna dell'aver avuto paura lo mordeva anche allora,
    che nessuno se n'era potuto accorgere. L'orgoglio necessario al
    suicidio, quella esaltazione di sentirsi maggiore degli altri,
    appunto gettando ciò che è tutto per essi, gli era
    venuta improvvisamente meno. Vile come coloro, per non somigliare ai
    quali moriva, si era gettato disperatamente indietro dalla rotaia,
    invece di lasciarvisi sfracellare. Egli aveva provato confusamente,
    in quei brevi istanti, una specie di compiacenza ironica e superba
    al pensiero di insudiciare col proprio sangue il lucido cerchio
    delle ruote, arrestandone forse, magari per un secondo, la marcia
    trionfale.
    Lo avrebbero visto fracassato, irriconoscibile, inorridendo in
    quella inesprimibile paura della morte, che gela istantaneamente
    tutti i cuori!
    Sarebbe stata la sua rivincita dopo morte, perché anche il
    suicidio ha bisogno di averne una.
          * * *
    Seduto accanto al palo, coi gomiti sulle ginocchia e la fronte fra
    le palme, piangeva.
    Dopo aver girato lungamente innanzi e indietro per il sentiero, in
    un orgasmo di febbre, era ritornato allo stesso punto, vinto dal
    fascino misterioso, contro il quale lottava. Era stata una corsa
    miserabile di fanciullo smarrito per la notte che si sente aggredito
    a ogni tratto nell'invisibile e non osa gridare nemmeno inciampando.
    Non poteva decidersi, non sapeva andarsene; qualche altro treno
    doveva passare prima di giorno. Quando rivide quel palo, ne
    provò un sollievo come di una meta; la luce del disco era
    sempre rossa, lontanamente la stazione aveva quel largo riverbero
    d'incendio.
    Qualche lagrima calda gli scivolava fra le mani e le guance,
    sciogliendosi con un sottile bruciore di sale. Era l'ultimo pianto,
    quello che non si sente più, perché tutto è
    già morto di dentro: i suoi occhi piangevano, come talvolta
    le ferite lasciano uscire goccia a goccia il sangue, mentre il
    moribondo sente ancora che col sangue se ne va la vita. La natura
    stessa esprime talvolta un simile pianto in certi squallori di
    paesaggi autunnali su praterie opache, sotto un cielo grigio, senza
    un vivente che le attraversi e senza case; o fra roccie appannate e
    riarse, in una nudità di cadavere. E vi è un dolore
    sotto le pietre, e pare un pianto l'umidità che l'aria del
    crepuscolo vi lascia.
          * * *
    Un gallo cantò.
    L'aria era ancora così scura, ma il sereno del cielo
    principiava ad imbiancare in una purezza sempre più scialba:
    le stelle adesso rade perdevano quel tremolio che le ingrandiva,
    ogni vapore si era disciolto. Senza che ne apparissero ancora i
    segni, l'alba si avvicinava. Nell'aria più fredda altri
    brividi passavano, simili a sussurri mano mano più intensi.
    Toccò un ciuffo d'erba sull'orlo della ripa, e ne ritrasse le
    dita imperlate di rugiada.
    Da quell'altezza della strada cominciava a discernere la campagna.
    Gli alberi scoprivano già le cime, disegnando la
    regolarità dei loro filari; poi un altro gallo cantò e
    un crocchio di rane volle rispondergli, ma la loro voce notturna si
    spense all'improvviso. Gli parve di udire come uno schiaffo di
    imposte nel muro, una luce apparì. Non era più la
    notte. Laggiù il grande riverbero della stazione si
    appannava, mentre dietro le mura della città quel vapore
    luminoso aveva cessato di salire dalle strade invisibili, e in alto,
    molto in alto, i tre campanili spiccavano rigidamente.
    Un freddo gli strinse lo stomaco. Sebbene il casello del guardiano
    sembrasse chiuso, si allontanò guardingamente dal palo,
    perché sul margine della strada, nell'aria sempre più
    diafana, sentiva di apparire a tutta la campagna. Gli alberi si
    scrollavano lievemente, sibili d'insetti, tintinni misteriosi
    preludevano alla grande sinfonia del giorno. Una luce approdava
    all'ultimo orizzonte respingendo la tenebra, che si orlava di
    riflessi evanescenti in lunghe strisce, talvolta simili a nuvole
    stracciate. Ma più che dell'albore, egli aveva paura dei
    suoni. Le cose più mattiniere intorno a lui si erano
    già deste; dentro le frondi qualche ala batteva per
    spigrirsi, mentre gli ultimi sogni strisciavano impalpabili sugli
    occhi ancora socchiusi. Seguì per qualche minuto il volo
    spaurito di una nottola, rivedendola ogni volta, con una specie di
    compiacenza egoistica, traballare sempre più incerta e
    precipitarsi nuovamente giù nell'ombre più dense, ad
    ogni chiarore che si diffondeva nell'aria. Si era allontanato mezzo
    miglio dal palo, ma la città e il ponte di ferro si vedevano
    ancora.
    Se non avesse avuto così paura del giorno, gli sarebbe
    sembrato ancora notte; infatti, laggiù, i fanali rimanevano
    accesi, appena l'ultima linea dell'orizzonte si era rischiarata, e
    qualche gallo impaziente aveva lanciato il primo squillo della
    propria diana. Ma i suoi sensi, vibranti di un ultimo orgasmo, gli
    rendevano manifesti i più impercettibili segni. Non poteva
    più ricapitolare quanto gli era accaduto nella notte, sentiva
    solamente una vergogna crescente, intollerabile di essere ancora
    lì, senza un motivo. Per tutta la notte era stato solo,
    adesso invece la luce gli addenserebbe intorno tutti i viventi: il
    suo coraggio non potrebbe resistere, sarebbe ripreso, ricacciato a
    forza indietro, più in basso, per sempre, sotto la propria
    ruina, inconsolabile, immutabile, inutile. Tutto ridiventava un
    pericolo. Guardava, ascoltava convulsamente; la notte non era
    più simile a se stessa; la sua frescura, la sua
    tranquillità, il suo sonno avevano mutato; una inquietudine
    agitava ogni suono e dava un accento di trepidazione a tutte le
    voci. La solitudine si riempiva.
    Guardò l'orologio, ma non distinse i numeri sul piccolo
    quadrante, e non osò accendere un fiammifero. Dovevano essere
    le quattro: forse a quella distanza l'orologio di sant'Ippolito si
    sarebbe ancora udito; poi n'ebbe paura. Qualunque voce gli faceva
    male; nell'aria colse un vagare di aromi, altri effluvii che
    s'innalzavano verso il mattino. A che ora passerebbe il primo treno?
    Sbigottito si voltò verso il disco, ancora così rosso,
    ma di un rosso meno luminoso. Per le altre strade della campagna la
    gente doveva aver ricominciato il proprio passaggio, i lattivendoli,
    gli ortolani, tutti coloro che soddisfano ai primi bisogni della
    città; nei due grandi caffè della piazza, sempre
    aperti, nottambuli col volto livido dalla veglia troppo prolungata
    comincerebbero a parlare di separarsi, perché odiavano
    istintivamente l'alba e la sua ripresa coraggiosa del lavoro sotto
    la immutabile necessità dell'andare avanti. Anch'egli era un
    nottambulo, l'ultimo, per l'ultima volta. Nel tormento di quella
    paura, soffriva alla preparazione lenta del giorno, più
    ammirabile forse che lo scoppio stesso del sole trionfante daccapo a
    sollecitare coi propri raggi tutti i viventi. Egli allora non si
    muoverebbe, informe cadavere per sempre. Ma non voleva esser visto
    prima, non aveva bisogno delle sollecitazioni, che gli aumentavano
    intorno. Se ne andrebbe, se ne andrebbe ad ogni modo, nella
    disperazione di non aver potuto nulla comprendere, senza la
    giustificazione di quanto aveva sofferto! Meglio la notte, il buio
    senza vita: un silenzio eterno e la sicurezza del nulla,
    perché non vi poteva essere altro, dopo! Il suo odio alla
    vita glielo rivelava chiaramente. Egli, che aveva tanto patito il
    giorno innanzi nella rottura graduale di ogni vincolo, adesso non
    soffriva più che la fretta, colla quale gli pareva di
    sentirsi cacciato; non v'era altro tempo da perdere. Fra venti o
    trenta minuti, da quella posizione tutti avrebbero potuto scorgerlo.
    I canti dei galli si erano venuti ripetendo, poi un muggito aveva
    dominato tutte le voci. I pioppi tornavano a stormire colla battuta
    secca della grandine, i salici sibilavano, le quercie sussurravano
    appena.
    Da un olmo sotto la strada un gridìo di passere, subitaneo
    come una risata, lo fece trasalire.
    Ormai egli stesso avrebbe potuto discernere lungo il binario un uomo
    a grande distanza, e tuttavia era ancora presto.
    Si fermò al primo palo del telegrafo, sdraiandosi daccapo sul
    sentiero per nascondersi. Stava in agguato, coll'occhio teso sulle
    ultime lontananze della strada, l'orecchio aperto sospettosamente a
    tutte le voci; le erbe alte, fradice di rugiada, gli bagnavano il
    volto percosso tratto tratto da un tremito, che gli echeggiava
    sonoramente sino al fondo dell'anima. Ma tutte le forze gli erano
    improvvisamente tornate: era l'attacco finale di quel duello troppo
    lungo colla morte, senza più alcuna incertezza, e più
    orribile nell'impossibilità di muoversi. Tutto il suo odio si
    era mutato in coraggio, quasi la morte, che gli verrebbe incontro su
    quel treno, dovesse avere una forma umana come la sua. Il suo tetro
    scheletro, colle occhiaie vuote e la lunga falce, gli riappariva
    nella fantasia cogli altri fantasmi della espiazione cristiana
    evocati dall'ultimo dubbio: ma temeva solamente di non poter durare
    per tutta la lunghezza della prova. Il suo sforzo supremo era di non
    pensar più, non voleva più nulla davanti. La sua
    coscienza era giunta finalmente al disprezzo della vita, di questa
    farsa stupida ed atroce, che nessun Dio poteva aver voluto,
    perché vi si soffre solamente, e coll'amore di un minuto vi
    si chiamano altri a soffrire e a morire: ecco tutto! Il resto era
    menzogna. E davanti a questa imperscrutabile necessità il suo
    individuo urlava nello spasimo di non poter inabissare tutta la
    terra e, strappando con un gesto titanico dal cielo l'immenso manto
    stellato, ravvoltolarvisi come in una bandiera nemica, e spirare
    ultimo sulla ruina finale di quanto era stato.
    - Ah! - gridò balzando in piedi, immemore di ogni riguardo.
    Era il treno. Nel pallore crescente della tenebra la sua luce
    appariva simile a quella di un palloncino roseo librato nell'aria,
    ma egli non vedeva che la morte. Era scattato in piedi alla prima
    scossa del terreno come ad un appello, protendendo il volto in una
    impazienza quasi insolente della fine. Aveva negli occhi un chiarore
    di cristallo e sulla faccia una fisonomia di marmo. Rimase
    così immobile, colla volontà tesa contro il treno,
    calcolando mentalmente la rapidità della sua corsa.
    Un fremito d'orgoglio lo scosse ancora, nel vederlo già
    così vicino che si discernevano distintamente i due fanali;
    aprì le braccia ad un gesto inesprimibile, e si gettò
    sulla rotaia abbandonato.
    Era caduto, quasi colla fronte sul ferro, gli occhi rivolti al
    treno. Avanzò la testa per poggiare il collo sulla rotaia,
    lasciando penzolare il capo nel vano come da una ghigliottina.
    Il freddo del ferro alla gola gli fece passare questo paragone nel
    pensiero.
    Ma allora tutte le forze lo abbandonarono, si decomposero per le
    scosse della terra, che gli passavano per tutto il corpo colla
    violenza di continue scariche elettriche. Si raggricchiò,
    chiuse gli occhi, travolto dal fragore precipite che già
    l'investiva; il ferro della rotaia gli friggeva quasi sotto il
    collo, una vampa gli aveva ventato sugli occhi, mentre nel terrore
    delirante, ineffabile, di quella cosa senza nome, la sua
    volontà caparbiamente disperata, come quella di un bambino,
    ripeteva:
    - Non importa, non importa!
    Con un ultimo sforzo premé ancora il collo sulla rotaia.
    Poi un'estrema convulsione di turbine, di abisso, di valanga,
    d'incendio, lo fece quasi rivoltolare sopra se stesso; aprì
    gli occhi nella fiamma, e per una paura più terribile
    gridò:
    - Mio Dio!
    Ma l'enorme macchina gli era già passata furiosamente sulla
    testa, soffocando nel proprio fracasso di cateratta l'inutile
    parola.
    FINE