www.liberliber.it
Alfredo Oriani
VORTICE
- Aspettatemi dunque! - esclamò l'avvocato Guglielmi,
indugiando nel rimettersi il pastrano grigio da mezza stagione, e
aperse la bussola, che dal caffè dava sotto il portico.
Gli altri due si erano fermati ad attenderlo.
Il portico leggermente ricurvo era poco illuminato; due guardie di
pubblica sicurezza stavano addossate all'ultima colonna verso la
piazza, che, stretta fra il doppio loggiato, a quell'ora e in quella
tenebra sembrava anche più piccola. I suoi fanali, bianchi
sopra esili colonnine di ghisa, non rischiaravano né la notte
né il selciato; erano otto d'ambo i lati, e la loro luce
faceva poco più di un'aureola intorno ai loro vetri.
Benché fosse appena mezzanotte, e i due maggiori caffè
tuttavia aperti, non passava alcuno. La massa bruna del duomo
disegnava un'ombra più scura sul lividore biancastro della
grande scalinata in granito, un'opera nuova, per la quale nella
cittadina si era speso troppo e parlato anche di più; a
fianco del duomo, quasi dirimpetto al caffè, donde l'avvocato
era uscito per ultimo, la fontana monumentale, prigioniera di
un'alta cancellata a palle di ottone, continuava quel sommesso
borbottio dei due becchi cadenti sugli abbeveratoi di marmo candido,
posti l'uno di contro all'altro fuori della cancellata.
Il cielo era oscuro, con poche stelle; e una nebbiolina, ancora
diafana, inumidiva l'aria non abbastanza riscaldata dai primi tepori
della primavera.
I tre rimasero alcuni secondi ritti dinanzi al caffè.
- Perché non facciamo due giri di loggia? - disse l'avvocato
Guglielmi, che aveva questa abitudine, comune del resto a quanti
della città non rincasavano presto.
Quel portico del caffè Gritti e quella loggia sinistra della
piazza, che formava come la facciata del palazzo municipale, erano
il passeggio favorito di tutti i signori. Nella notte i più
sfaccendati, anche dopo la chiusura dei caffè e dei clubs,
seguitavano per ore, talvolta sino all'alba, quando le ortolane
disponevano già i banchi e le ceste per la piazza, ad
incontrarvisi in gruppi, promettendo sempre di separarsi dopo un
ultimo giro, e non di meno prolungando la monotona passeggiata con
ostinazione quasi inconsapevole.
Forse non avrebbero saputo fare egualmente tardi altrove.
- Tre giri soli, - rispose Gaudenzi, un impiegato al telegrafo sulla
cinquantina, venuto da Milano molti anni addietro e diventato quasi
della città.
L'avvocato Guglielmi si pose in mezzo.
Era un vecchietto arzillo, con troppe pretese per la sua levatura; e
in quei giorni aveva ceduto ad una delle solite esaltazioni per la
lotta elettorale fra moderati e radicali.
Egli credeva in buona fede di essere fra questi, mentre invece il
temperamento e la vita lo avevano sempre tenuto in sospetto verso la
piazza. Quindi uscito dal club dopo una vivace discussione, nel
passare dinanzi al caffè Gritti, vi era entrato per parlare
ancora con Gaudenzi e Romani, due fra i suoi amici più
condiscendenti.
Essi avevano finito da un'ora la solita partita a scopa, e
ciarlavano di donne.
Ma la notte e la solitudine, sotto a quel loggiato, finirono di
calmare l'avvocato Guglielmi.
- Dove sei stato oggi, che non ti ho visto dopo pranzo al
caffè? - domandò questi a Romani.
- A Bologna: ne sono ritornato col treno delle dieci e mezzo; debbo
ancora rientrare a casa da stamattina alle sette.
- La donnetta! - disse Gaudenzi con accento metà ilare e
metà sornione, alludendo ad una cantante di operette partita
colla compagnia dalla città poche settimane prima, e colla
quale Romani si era lasciato vedere parecchie volte a cena
nell'albergo del Falcone, il maggiore della città, con altri
amici.
- Oh va!
- Un'altra adunque! - rincarò Guglielmi.
- Nemmeno, - e la voce di Romani ebbe un tremito: - sono andato a
Bologna per affari... cattivi! aggiunse sospirando.
In quel momento passavano davanti all'enorme scalone del palazzo
municipale, che saliva dritto e larghissimo sino ad un pianerottolo
alto, cintato, quasi simile ad una cappella, nel mezzo della quale
un lume a petrolio, chiuso entro un antico lucernario, spandeva una
luce malinconica.
Le due guardie, nere nei cappotti impermeabili, perché la
notte sul principio era sembrata voltarsi al cattivo tempo, si erano
rimesse a girare, seguitando quasi automaticamente il passo di quei
tre; ma si fermarono di botto vedendoli arrestarsi.
Gli altri si voltarono; quindi proseguirono senza barattare alcuna
altra osservazione.
- Vado a casa, - disse Romani prima di rientrare sotto il portico
del caffè.
- Ci vediamo domattina sul mezzogiorno?
- Già.
- Buona notte!
- Buona notte!
Romani si diresse verso porta Appia passando lungo la fontana e il
Duomo. Adesso era ridivenuto improvvisamente triste. La piccola
città, sepolta nel sonno e nelle tenebre, aveva perduto ogni
fisonomia; i fanali scarsi, a petrolio, indicavano appena il vano
della strada, nella quale le casette irregolari s'addossavano l'una
all'altra in silenzio, colle porte e le finestre buie, senza colori,
come in una tranquillità di abbandono. Era una città
di circa quindicimila abitanti, compresovi il grosso borgo al di
là del fiume, abbastanza ricca, antica e rimasta vecchia
anche nel rinnovamento moderno, che guasta dove non muta, e muta
quasi da per tutto.
Egli rifaceva quella strada a testa bassa, senza guardare,
anticipando i passi col pensiero e ripetendosi meccanicamente:
adesso arrivo alla bottega del barbiere, poi all'angolo del palazzo
Bandi, al pizzicagnolo... tutte le stazioni più importanti di
quella strada, che percorreva da tanti anni, e nella quale era
persino nato. La conosceva nei più minuti particolari, tutta;
la sua casa vi stava in fondo, una casetta a due piani, con un
cornicione di legno ai tetti, le persiane verdi, una porta stretta,
alta sul marciapiede due scalini, un andito, una scaletta oscura,
poi l'appartamento al primo piano, dove abitava con la moglie e due
bambini. All'altro, stavano due famiglie, quella di un calzolaio, e
un vecchio prete con una serva.
Gli parve improvvisamente di aver freddo; un passo risuonò
lontano, dietro di lui. Qualche soffio agitava l'aria; dal selciato
disuguale, a ciottoli, tratto tratto raggiavano baleni sull'umidore
lasciatovi dalla pioggia, mentre il rombo del fiume fuori dalla
barriera si faceva a mano a mano, più distinto.
Allentò il passo. Altri brividi lo scossero e, daccapo,
risentì più greve quel peso, sotto al quale era quasi
venuto meno tutto il giorno; non si ricordava di cosa alcuna
distintamente, ma era come una stanchezza senza motivo,
un'inquietudine tratto tratto percossa da paure inafferrabili
come quei suoni fantastici, che talora sembrano batterci
sull'orecchio, girando di notte per la campagna. Quella giornata non
era certo stata buona: a Bologna aveva fallito l'ultima
combinazione, cui intendeva da parecchi giorni, e che l'avrebbe
rimesso a galla lasciandogli forse il modo di riordinare i suoi
affari sconquassati. Poi aveva meditato, tentato altri espedienti
presso alcuni vecchi amici della grossa città, nella quale
aveva studiato due anni da giovinetto: aveva corso da una strada
all'altra, salito parecchie scale, per concludere sempre allo stesso
modo. Quegli amici avevano quasi tutti cambiato abitazione da lungo
tempo; alcuni non erano in casa, altri non l'avevano ricevuto o,
ricevendolo, si erano mostrati così freddi che gli era caduto
improvvisamente dal cuore il coraggio di ogni domanda. Erano state
al solito interrogazioni e risposte insignificanti, qualche
complimento volgare, e infine un saluto frettoloso. Tutti avevano da
fare, ognuno pensava a sé.
Si era sentito respinto, isolato. Ma siccome era sabato, e in quel
giorno tutti i mercanti e gli uomini d'affari affluivano a Bologna
dalle città vicine, vi aveva incontrate molte, troppe
conoscenze.
- Oh! come, anche tu?
Altri discorsi insulsi, strette di mano, qualche vanteria dei minori
commercianti, ai quali pareva d'ingrandire mostrandosi ad un
concittadino in quel giorno a Bologna. Parecchi sfaccendati erano
venuti per ozio o per capriccio, il Mercato di Mezzo era pieno.
Quindi aveva dovuto andare a colazione con un gruppo di amici, tutti
della propria città, una colazione rumorosa, vanagloriosa,
perché la sera ne avrebbero parlato certamente nel
caffè Gritti. Però quel chiasso lo aveva rinfrancato.
Adesso, invece, uno scoramento lo riprendeva, sebbene nessun
pericolo vero lo minacciasse ancora; era dissestato da gran tempo,
ma s'ingegnava sempre per andare innanzi, riuscendovi non senza
pena, con abbastanza disinvoltura. Aveva vissuto comodamente colla
famiglia, accettato, stimato da per tutto più di quanto la
posizione lo consentisse. Questo, che era stato sempre il suo vanto
secreto, gli si mutava ora in rammarico, quasi solamente dopo quella
triste giornata di disillusioni e quel ritorno in ferrovia, solo in
un vagone di seconda classe, perché tutti gli altri amici
erano già partiti col treno antecedente, gli si rischiarasse
entro l'oscurità silenziosa della strada, improvvisamente, il
problema della propria posizione.
La strada era sempre così deserta, il rombo del fiume
cresceva. Si fermò per accendere un sigaro toscano, l'ultimo
che gli rimaneva nelle tasche; quindi alla fiamma del cerino
alzò gli occhi per guardare la barriera chiusa in fondo alla
strada. Un riverbero del fanale sporgente dalla gabella lasciava
intravedere alcune stecche della cancellata, al di là passava
il fiume, e oltre il fiume si scorgevano le prime fiammelle del
borgo.
Oramai era presso casa.
- Che cosa le dirò? - si chiese subitamente, pensando alle
interrogazioni, colle quali la moglie lo avrebbe seccato.
Egli aveva già trovato difficilmente una scusa per andare a
Bologna, ma ora, in quel fallimento di tutte le combinazioni, non
sapeva più inventare un'altra bugia per sottrarsi
all'irritazione di riparlarne con lei. A che prò? Ella non
conosceva, anzi non aveva mai conosciuto le vere condizioni della
famiglia: poi non avrebbe potuto esservi di alcun giovamento, anche
conoscendole. Perché metterla a parte di certe cose, dal
momento che la sua testa vi si perderebbe, e tutto si sarebbe
risolto in un piagnisteo pieno di rimbrotti e di carezze? Egli
l'aveva sempre trattata bene allo stesso modo; ella, preoccupata di
sé e dei bambini, non aveva mai cercato di indovinare quanto
le si nascondeva. Invece egli avrebbe adesso voluto parlare con
qualcuno, esaminare bene in due la propria posizione, alla quale si
accorgeva di aver sempre girato intorno, senza guardarla mai davvero
in faccia per quella secreta paura dei deboli, che s'abbandonano
alla vita, risolvendone le rinascenti difficoltà col ripetere
quasi sempre lo stesso espediente.
Era arrivato all'uscio, tenendo già in mano la chiave secondo
il solito: si fermò a guardare la casetta. Tutti dovevano
dormirvi. Lassù, a l'ultima finestra di sinistra, un filo di
luce passava per gli scuri; era la camera del vecchio prete, un
mansionario quasi ottantenne, il quale non viveva più che
della paura di morire, e la notte teneva sempre acceso un lumicino
alla Madonna sopra il comò, perché le tenebre lo
spaventavano e tremava di spirarvi improvvisamente. Voleva la luce,
anche di notte.
- La vedrò ancora per così poco! - aveva detto un
giorno a lui con quell'accento impressionante dei vecchi.
- Ecco uno che non deve aver pensieri! - egli si disse in quel
momento, invidiando la necessaria calma di quella vita già
conchiusa.
L'aria dell'andito gli pesò sul respiro. Aveva acceso un
secondo cerino, salì le scale col suo ordinario passo
accelerato, come non ricordandosi più di nulla, trovò
dietro la porta dell'appartamento la candela sulla vecchia
cassapanca; ma invece di andare per la cucina nella camera della
moglie, infilò la saletta da pranzo, dopo la quale teneva in
una specie di gabinetto il proprio studiolo. Con una segreta, quasi
inconsapevole soddisfazione aveva riconosciuto tutto a posto nella
saletta; sulla tavola ancora coperta della tovaglia macchiata di
vino rosso, non era disposto che il suo coperto con dinanzi due
altri piatti: nell'uno c'era un mezzo pollo arrosto colla testa,
perché in famiglia sapevano che questo era il suo boccone
preferito, nell'altro un mezzo formaggio fresco, molle, uno dei
pochi capolavori dell'industria paesana; poi l'insalata nella solita
barchetta di porcellana bianca, e alcuni finocchi sopra il piattello
dal piede di filograna rossastra.
Caterina, la moglie, non vedendolo arrivare all'ora di cena, gliene
aveva lasciata la miglior parte, immaginandosi che potesse avere
molta fame al ritorno.
La bottiglia nera del vino era quasi piena.
La saletta dall'usciuolo di sinistra metteva nella camera da letto.
Egli camminava in punta di piedi; la vista della cena gli
risvegliò quasi istantaneamente l'appetito, perché non
aveva più mangiato da quella colazione sul mezzogiorno,
prodiga e sontuosa quanto un pranzo. Rimase incerto qualche secondo,
temendo, se si fosse posto a tavola, di svegliare col rumore dei
piatti Caterina, che doveva dormire da un occhio solo; quindi
schiuse con molta precauzione l'uscio del gabinetto, e vi
entrò senza sapere bene il perché. Non aveva niente da
farvi; in quel momento la sua testa affaticata non gli suggeriva
alcun espediente. Ma quello studiolo era l'unica solitudine, nella
quale si chiudeva ogni qualvolta avesse qualche affare difficile da
svolgere, o qualche tristezza da nascondere; vi teneva pochi libri,
perché non era mai stato un grande leggitore, ma tutte le
carte importanti vi stavano disposte in bell'ordine sopra due
scansie portatili. Il resto dei mobili si componeva appena di uno
scrittoio in noce e di un piccolo sofà ricoperto in crespo di
lana verde. Nell'angolo, presso la finestra, quell'inverno medesimo
vi aveva messo una stufa minuscola in ghisa, più che
sufficiente a riscaldarvi l'aria sino ad una temperatura
insopportabile.
- Che cosa faccio?
In sostanza non aveva bisogno che di guadagnar tempo per
l'inevitabile colloquio colla moglie. Anche lì tutto era
ordinato. Macchinalmente si trasse il pastrano e il cappello,
appendendoli ad un minimo attaccapanni piantato nella parete.
Ascoltò: l'appartamentino aveva la calma ordinaria,
nell'altra camera Caterina lo attendeva dormendo; poi v'era lo
stanzino dei bimbi, nel quale stava anche la donna di servizio,
oramai diventata della famiglia: una donna pettegola, che dominava
la padrona, ma faceva tutte le economie possibili, riuscendo quasi
sempre a dissipare i malintesi fra lui e la moglie.
Malgrado la scarsezza del patrimonio, egli avrebbe quindi potuto
vivere contento nella famiglia.
Infatti non si era mai lagnato: sentiva anche in quel momento una
compiacenza onesta, che gli alleggeriva il peso di tutti i
disappunti subiti nella giornata.
La candela bruciava sul tavolo da qualche minuto, egli si era girato
e rigirato inutilmente per il gabinetto due o tre volte, quando vide
una lettera quasi sotto al largo calamaio di maiolica bianca.
Veniva, a lui, ma sulle prime non ne ravvisò il carattere;
qualcuno doveva averla recata nella sua assenza, perché non
portava francobollo.
Stracciandone la busta si sentì tremare da capo; la lettera
diceva:
Città, 29 aprile 1896.
Caro Adolfo,
Debbo partire subito per Firenze, senza perdere un minuto,
perché mia madre è gravemente malata; ma capirai come
posso stare non avendo potuto ottenere il permesso stamattina. Ti ho
cercato dopo pranzo al caffè per comunicarti in segreto che
Oreste Bugnoli ha portato al pretore una tua cambiale per duemila e
cinquecento lire, dichiarandola falsa. Siamo sempre stati amici sino
da ragazzi, e quindi non credo che tu possa aver fatto ciò:
ecco perché ti avviso; ma in ogni modo brucia subito questa
mia lettera. Per te non ne sarà nulla certamente, o tutto al
più un equivoco che si scoprirà; invece io non sono
che un impiegato, e se mi sospettassero solamente di averti
avvisato, finirei forse col perdere il posto. Ma sono sicuro della
tua discrezione; invece temo assai della mia povera mamma. Quale
disgrazia per me se dovesse morire!
In fretta
tuo ANSELMO ROBERTI
* * *
Era stato come un colpo di mazza sulla testa.
Non aveva quasi capito, ma nello stordimento della percossa gli era
parso che lunghe striscie sanguigne solcassero il buio, nel quale
cadeva, dritto, così senza cappello in testa, con quella
lettera in mano, mentre la fiamma della candela gli agitava brevi
ombre leggere sul volto immobile come un ritratto.
Finalmente ebbe un soprassalto. Il primo moto fu di guardarsi
intorno con un rapido girar del capo e quel subito raggricchiarsi di
tutte le membra, quasi per farsi più piccolo e meglio sparire
in una fuga, che hanno sempre i sorpresi in flagrante.
Poi, col tornargli della coscienza, tutti i tremiti lo scossero; le
mani gli battevano quasi l'una contro l'altra, gli battevano le
palpebre, mentre un'onda come di vento gli si rompeva dall'interno
entro gli occhi, e glieli gonfiava inaridendoli.
Appoggiò una mano sull'orlo dello scrittoio, quindi girandovi
intorno venne a cadere sulla poltrona. Era anch'essa in crespo di
lana verde, con una stretta spalliera semicircolare. Si trasse
più vicino la candela, si passò il fazzoletto sugli
occhi. La fronte gli era diventata perlacea sotto i capelli neri,
dritti e tagliati a spazzola, che rendevano più dura
l'espressione della sua faccia.
Infine bisognava rileggere.
Benché stravolto, comprendeva tutto; lo aveva capito nello
scoppio stesso: era stata una visione istantanea, accecante come
quegli incendi dei temporali notturni, alla luce dei quali si
scorgono in un attimo i particolari più minuti, meno
osservabili di un paesaggio, e poi tutto ritorna nero, tempestoso,
fragoroso, pauroso.
Da molto tempo aveva voluto scordarsene, ma lo sapeva.
La lettera era proprio di Anselmo Roberti, il suo amico d'infanzia,
poi di studi, nato a Marradi e venuto cancelliere nella città
da quattro anni; era la sua calligrafia rotonda, chiarissima, una
calligrafia da impiegato.
Che cosa era stato? Perché?
Era troppo presto, non doveva essere, perché mancavano ancora
quarantacinque giorni alla scadenza.
Rileggeva sempre, forse per la decima volta, brancolando col
pensiero fra le lettere, che gli si dilatavano dinanzi agli occhi,
quasi staccate dalla carta. Ma attraverso tale sensazione leggeva
con chiarezza sempre più spaventevole. Quelle poche righe
frettolose, buone, senza un dubbio o una esagerazione, erano la
forma più micidiale, più insopportabile, colla quale
gli si fosse potuto comunicare, così impensatamente, la sua
colpa.
- Ha la mamma ammalata, - pensò poco dopo in una sosta del
turbinio, che lo aggirava; quindi corse nuovamente cogli occhi
all'altra riga, dove Roberti gli annunciava la consegna della
cambiale al pretore, senza crederne falsa la firma ed affermando
anzi che non poteva trattarsi se non di un equivoco. Poi la lettera
finiva con quel grido per la mamma forse già morta.
Nel gabinetto non c'era alcuno: fuori, in tutta la città, a
chi rivolgersi? Malgrado la smania non poté muoversi;
non c'era più niente da dire o da fare! Si trovava già
lontano da tutti, con quella sensazione di un baratro buio, freddo,
sordo, senza cielo, senz'aria, uno di quegli abissi di sogno, nei
quali cadendo non si sente che il vuoto e quando la caduta si
arresta non si tocca ancora nulla. Allora le forze l'abbandonarono e
si accasciò sulla poltrona, colla testa bassa, in un
atteggiamento sfatto. La sua vita, così normale poco prima,
era svanita; egli vi rimaneva come un corpo molle, insaccato dentro
gli abiti, coll'occhio sinistro, che in quella piegatura del capo
ancora gli si vedeva aperto ed opaco, così che la moglie
Caterina entrando in quel momento avrebbe gridato per la paura.
Intanto il tempo passava.
Quel colpo, che avrebbe atterrato qualunque altro, non aveva
però nulla di strano, e ciò lo rendeva ancora
più terribile. In tutta la giornata, pur non volendo
pensarci, perché gli rimanevano ancora circa due mesi prima
della scadenza, ne aveva provato un presentimento; anzi nella sua
vita ancora giovane, abituato come era da tempo a cercare danaro per
la piazza, vantandosene cogli amici se gli riusciva bene qualche
difficile operazione, non si era mai sentito così
profondamente scoraggiato. Eppure non si trattava che di girare una
cambiale di cinquecento lire, questa volta in piena regola. Ma il
credito gli sfuggiva da parecchi mesi, la gente e le cose cangiavano
intorno a lui; non aveva più quel bell'umore facile ed
espansivo, che seduceva le persone, e col quale sovente perveniva a
trarsi senz'altro d'impaccio: pensieri tristi lo travagliavano,
improvvisi sgomenti gli facevano vedere il mondo in nero traendogli
dalla bocca quelle frasi pessimiste di chi non si sente bene in
gambe. Erano impazienze nervose, scatti ingiustificabili, coi quali
offendeva talora scioccamente le persone inimicandosele; e poco dopo
si accorgeva del male fatto, giacché gli capitava d'intoppare
in visi chiusi, gli cascavano addosso giudizi sospettosi, diventava
come tutti gli altri caduti volontariamente nella sua posizione, un
oggetto d'esame fra la gente pettegola o grave, che valuta le
riputazioni e pesa tutti i valori.
A Bologna quella mattina aveva dovuto subirne la dolorosa esperienza
più di una volta. La sua aria preoccupata, le grosse nubi che
gli passavano sul volto, erano state osservate; tutti quei mercanti,
quei minuscoli uomini d'affari, così poco colti e perspicaci
parlando di politica o d'altro senza immediati rapporti alla loro
vita, erano di una penetrazione inquisitoriale, avevano il colpo
d'occhio infallibile per indovinare certe crisi o cogliere certe
situazioni.
Era la loro stessa battaglia di tutti i giorni nell'imbroglio
continuo di contratti fra gente di tutte le risme, in mezzo alla
quale bisognava guardarsi da ogni lato e far buon viso a tutti i
presenti, senza il permesso di potere ingannarsi sulla
probità o sulla solvibilità di alcuno. Al primo dubbio
tutte le espansioni si restringevano, ognuno per necessità di
battaglia si rimetteva sulla parata con un orgoglio di egoismo, che
non vuole lasciarsi abbindolare da pietà di sventure o da
illusioni di risorse. Sotto la loquacità chiassosa della
colazione egli aveva sentito la durezza impenetrabile dei cuori, la
diffidenza vigilante e pronta a tentare col più atroce degli
scherzi l'imminenza di una ruina per meglio evitarla.
Ma prima di quella cambiale, non aveva notato certe cose.
Quindi si era sforzato di non pensarci: il disegno per rimediarvi lo
aveva, vendere l'unico podere a quello stesso strozzino,
giacché vi rimaneva ancora, malgrado le ipoteche, un margine
di tre o quattro mila lire.
Ecco perché quasi non se ne preoccupava; ma gli altri debiti,
i regolari, lo urgevano tutti i giorni, senza requie. Era andato a
Bologna appunto per girare una cambiale colla firma di un amico, un
giovinotto in vena di ruinarsi gaiamente, e così fare fronte
ad altre due cambiali, che gli scadrebbero lunedì alla Cassa
di Risparmio e alla Banca Popolare; ma fra tutte e due non
superavano le quattrocentosessanta lire. Era poco, però ne
aveva altre, anche più piccole, poi tutto il resto dei debiti
e delle liste.
Mai si era sentito più sconsolato di quel giorno; per reagire
aveva bevuto parecchi vermut nelle bottiglierie, aveva seguito per
strada, sino a casa, una ragazza che nemmeno gli piaceva; ma ad ogni
disillusione cogli amici, sui quali credeva di contare, pur
confessando a se stesso di non averne motivo sufficiente, la
tetraggine gli si addensava nell'animo. Quella giornata gli era
parsa eterna, specialmente nelle ultime ore. Perché aveva
perduto il treno delle quattro e mezzo? non avrebbe saputo dirlo.
Infatti quelle, che con uno sforzo di volontà potevano
sembrargli combinazioni probabili per la girata della cambiale,
erano tutte esaurite prima della colazione. Dopo, non aveva tentato
ancora che per rabbia contro se stesso, per darsi dell'imbecille
prima, e poi bestemmiando nel fondo del cuore contro il destino. Ma
lo sapeva già. Quindi aveva girellato trovando sempre le
strade troppo lunghe, curiosando senza voglia nelle vetrine, con
quell'aria pesante e distratta, alla quale la gente non s'inganna
quasi mai e fiuta i poveri, gli spostati, tutti coloro
momentaneamente senza danaro e nella impossibilità di
procurarselo malgrado qualunque dolore della necessità. Egli
stesso si accorgeva di tradirsi; una vergogna nuova e sottile gli
faceva credere di essere mal vestito, gli pareva di sentirsi sempre
qualche occhiata addosso; poi non s'incontrava più, egli uso
a trovare tanto lusso e tanta squisitezza a Bologna, in niente di
bello.
Quando vide accendersi i primi lampioni, ne provò un
sollievo: l'ombra del crepuscolo aveva spopolato le strade, rendendo
meno osservabili coloro che vi passavano. Si avviò verso la
stazione, allungando la strada per tutte le svolte sino alla
Montagnola; il vecchio ed angusto passeggio era deserto, pieno di
alberoni secolari, che avevano già messo le foglie, ma che in
quel freddo di sera non abbastanza primaverile rabbrividivano
ancora. Qualcuno vi si aggirava come lui, in preda a pensieri forse
più disperati. Il rumore della città si assopiva
lentamente: i fanali punteggiavano l'oscurità, allineandosi
fino lontano, donde un rumore veniva tuttavia, mentre alle finestre
delle case per bene si vedevano già accendere i lumi per la
gaiezza del pranzo.
L'isolamento gli aveva fatto paura: era stata una sensazione
subitanea, violenta. Quell'ora del pranzo doveva essere ben
terribile per tutti quelli che non avevano dove pranzare, dopo un
giorno così lungo, e dinanzi alla notte anche più
lunga senza ricovero!
Per non pensarci troppo era disceso dalla Montagnola, per il viale
degli ippocastani, lungo le mura verso la stazione. Anche lì
sembrava stagnare la vita; l'orologio della torre, alto sul mezzo
della stazione in quel crepuscolo, col lume acceso dietro il
trasparente, aveva una opacità di grande occhio ammalato.
Egli così poco artista ed osservatore, n'ebbe l'impressione
per la prima volta. Nel ritorno aveva avuto la fortuna di entrare in
uno scompartimento di seconda classe vuoto; ma poi, nel viaggio, se
ne era rammaricato. Non aveva mangiato e non aveva fame, però
l'estenuazione cominciava a dargli quella sensibilità
dolente, propria dei deboli; finalmente non si rinfrancò che
arrivando in piazza dinanzi al Duomo, sotto quei portici così
famigliari, salutando e ricevendo il saluto di voci amiche. Nel
caffè c'era Gaudenzi, che lo invitò alla solita
partita; un vecchio maestro delle scuole tecniche, vegeto, allegro,
chiacchierino, un ricco mugnaio attempato, uno scrivano di notaio,
mezzo storpio e divertente per la loquacità melodrammatica e
letteraria, avevano circondato il loro tavolino, e la partita era
seguitata fra i soliti discorsi nella bonomia tranquilla di tutte le
sere.
Ma quel gran colpo gli aveva tolto anche la memoria di tale triste
ritorno.
Poi una paura lo assalì; si nascose frettolosamente la
lettera nella tasca dei calzoni e in punta di piedi, lasciando la
candela sulla scrivania, venne ad origliare all'uscio della camera
da letto. Caterina dormiva con un russo leggiero: stette qualche
minuto coll'orecchio incollato alla fessura dell'uscio, poi a
ritroso, senza urtare in alcun mobile, rientrò nello
studiolo.
La mente gli tornava: ritrasse la lettera dalla tasca e, ubbidendo
alla preghiera dell'amico, la bruciò, con un senso quasi di
sollievo. Era la prima accusa distrutta.
Che fare?
In quel subbuglio di tutte le idee non poteva ancora rendersi un
conto, anche solo relativamente esatto, della propria situazione, ma
sentiva che fra poco, quando saprebbe meglio dominarsi, non
troverebbe egualmente nulla. Era sempre la stessa sensazione di un
buio improvviso e cieco, nel quale non poteva nemmeno gridare: da
chi invocare soccorso? Qualunque fosse il perché o il come di
tale catastrofe, la violenza non ne diventava che maggiore. Nessuno
lo aveva rovinato, nessuno in quel momento lo spingeva nell'abisso.
Era stato lui solo, gaiamente, storditamente, per un seguito di
piccoli piaceri, di minime compiacenze, di false abitudini, a
mettersi in quell'abbrivo, lusingandosi fantasticamente di potersi
sempre fermare, coll'esempio di tanti altri, che avendo fatto o
facendo tuttavia assai peggio, rimanevano ancora in piedi, salutati,
ricevuti dovunque. Ed egli pure aveva voluto essere così
forte, senza comprendere in che cosa tale forza consistesse, ma
soprattutto vivere meglio del come era nato, in una più alta
sfera.
Quindi il suo distacco lento ed orgoglioso dai primi compagni, che
convinti della propria posizione l'accettavano, nella modestia degli
inevitabili lavori, con una rinuncia onesta alla vivacità
delle troppo facili speranze; poi la iniziazione nella classe dei
signori, che avevano finito col trattarlo da pari, tutta una
conquista assidua e minuta, piena di piccole gioie e di nascenti
soddisfazioni, onde si era persuaso di essere un qualcuno
importante, e di poter un giorno diventare anche qualche cosa.
Finalmente lo scialo, non vistoso ma continuo, i vizi, sino a quella
passione breve ma rapace, inevitabile, che gli aveva fatto perdere
la testa rendendolo ridicolo fra i nuovi amici, e per la quale in
una mattina di follia, una mattina pioviginosa e fredda, era andato
da quello strozzino per fargli accettare la cambiale!
Nemmeno allora se ne era reso ben conto; aveva agito come sotto un
incubo, con dei brividi freddi come quelli che adesso gli passavano
per le reni, la testa pesante, ma recitando fin troppo bene la
commedia preparata. Dopo, aveva sempre fatto degli sforzi per non
pensarci, malgrado i debiti, che seguitavano a travolgerlo senza
lasciargli un'ora di pace. E tutto era finito prima della scadenza
vera; il dramma scoppiava in questa anticipazione imprevedibile,
alla quale qualcuno doveva aver cooperato.
Non restava che morire.
Egli pronunciò mentalmente questa parola, come eco di una
voce, che gli sonasse dentro nel profondo del cuore, e subito dopo
fu più calmo. Perché? Che cosa era stato? Né la
sua volontà, né la sua ragione lo avevano condotto a
questa decisione, e tuttavia poté ripetersi distintamente:
- Sì, morire!
* * *
Come accade sempre nelle decisioni troppo importanti, che agiscono
sull'anima al pari di un abbarbaglio, una pesantezza torbida lo
aveva poco dopo prostrato.
Quella idea della morte non gli si era mostrata con alcun
significato preciso; non ne aveva veduta la forma, né sentito
il dolore, quantunque fosse già il distacco da tutto quanto
componeva la sua vita di trentadue anni, una vita senza valore per
gli altri, ma intera ed alacre entro l'angustia della propria
orbita.
Adesso, nell'impossibilità per lui di ripensarla attraverso i
molteplici minimi ricordi, acquistava come un'improvvisa, sconfinata
dilatazione, nella quale si perdeva anche quel dramma finale come
una voce di disperazione per la solitudine di un grande prato
squallido, quando la notte sta per involgerlo nella propria ombra.
Non gli restava che la sensazione di un vuoto. Sempre così
seduto stancamente sulla poltrona teneva gli occhi fisi sulla
fiammella della candela, alla quale il suo alito imprimeva tratto
tratto qualche lieve oscillazione.
Sul suo volto, generalmente rosso, un pallore livido alterava tutti
i lineamenti; la fronte diventata greve in quella improvvisa
opacità, che le troppo lunghe meditazioni sembrano lasciare
su quelle dei pensatori, gli si aggrondava sui sopracigli velandogli
gli occhi, mentre uno stiramento gli irrigidiva la bocca convulsa.
L'orologio della piazza batté tre quarti d'ora dopo la
mezzanotte.
La prima cosa che sentì, fu di essere così
profondamente mutato. Benché in casa propria, non vi si
riconosceva più: vedeva la disposizione di tutto
l'appartamento con quelli che vi abitavano, sua moglie Caterina
addormentata nell'altra camera sotto la coperta di filugello verde;
nella stanzina attigua Ada e Carletto nei due lettini di ferro;
vedeva il proprio posto vuoto accanto a Caterina, l'attaccapanni col
grande cappello nero a cencio, il mantello scuro, la specchiera sul
comò di fronte al letto, udiva la respirazione regolare, il
russo lieve di quei dormienti, ma con un senso inesplicabile
d'indifferenza come di uno straniero, pel quale quella casa e quelle
persone non potessero avere alcun significato. Era solo! La stessa
intimità del suo passato con essi si rompeva improvvisamente,
isolandolo dalla loro esistenza, della quale una volta provava le
ripercussioni ad ogni atto, senza potersene staccare nell'avvenire
nemmeno colla fantasia.
Quindi un più sottile malessere gli veniva da quel gabinetto
quasi vuoto, rischiarato appena dalla candela, freddo e muto come
una stanza d'albergo. Infatti era quasi il medesimo mobilio: sedie,
scrittoio, scansie, sofà in noce e lana, senza stile, senza
accento. Egli vi era solo.
Così? Perché? Perché così solo?
- Dove sono? - esclamò sommessamente, portandosi ambo le mani
alla faccia.
L'idea gli si ripresentava lucida, inesorabile.
O la morte o la prigione, non vi era mezzo termine.
Ma daccapo ebbe paura, e si cacciò col pensiero come fuggendo
per tutte le vie che gli si aprivano davanti, acciecato da una
speranza di salvezza. La passione della vita gli si era ridestata in
uno scoppio: qualunque fossero la colpa e la pena che lo
minacciavano, non voleva morire. V'era tempo, tutto poteva ancora
accomodarsi. Una ressa d'indistinti bisbigli gli saliva dalla
memoria di tanti casi disperati, che aveva veduto a poco a poco
acconciarsi nella normalità della vita, di altre esistenze
quasi sradicate da un colpo di bufera, e che nullameno avevano
potuto resistere rituffando le radici nel terreno e coprendosi dopo
qualche mese di nuove foglie. Egli non voleva soccombere: la vita
protestava in lui da ogni punto dell'anima in un orgasmo di tutte le
fibre. Ma nessuna di quelle vie, per le quali il suo pensiero
fuggiva smaniando, era neppure abbastanza lunga per dare tempo ad
una illusione; tutte finivano contro lo stesso muro, la medesima
impossibilità di evitare il processo, dal momento che la
cambiale era già nelle mani del pretore. Questi, un giovane
di Senigallia, eccezionalmente ricco per la sua classe, mirava a
diventare presto giudice, facendo pompa di un riserbo e di una
severità egualmente inflessibili.
Ma egli non voleva il processo, quella morte più lenta, ed
atroce di qualunque altra nell'agonia del domani o del posdomani,
appena il fatto si fosse divulgato, e poi di tutti gli altri giorni
sino all'ultimo della condanna a cinque anni, giacché ci
aveva pensato involontariamente altre volte di sfuggita. Quel giorno
non sarebbe mai finito su quello scanno degli accusati, dinanzi ai
giudici e al pubblico, con Caterina nella sala che singhiozzerebbe,
mentre egli dovrebbe rispondere all'interrogatorio sentendosi
addosso tutti gli sguardi della folla indifferente nella certezza di
una condanna, che rendeva egualmente inutile ogni abilità di
accusa o di difesa. Tanto era morire altrimenti. Tutto intorno a lui
si sarebbe del pari spezzato: Caterina e i bambini, ridotti alla
più squallida miseria, non avrebbero più per lui che
un orrore misto di odio, quell'odio doloroso ed onesto di tutti i
caduti per colpa d'altri nella povertà umiliante di una
condizione, dalla quale anche uscendo, rimane la macchia. Ma
Caterina sopravviverebbe al colpo?
Si poteva durare a quella tortura del processo, che comincerebbe
subito, colla sua prima parola, entrando nella camera da letto per
confessare tutto?
Sarebbe stato il primo tratto di corda al cuore, nel silenzio di
quella camera così tranquilla da dieci anni, mentre i bambini
dormivano nell'altro stanzino, sempre coll'uscio aperto. Lo strido
di Caterina somiglierebbe a quello di un ferito: se lo sentiva
già dentro gli orecchi lacerante, lungo, che si perdeva in
lontananza dopo avergli forato spasmodicamente il cervello. Egli non
potrebbe calmarla. Che cosa dirle? L'origine di quella colpa l'aveva
già sconvolta tre mesi prima, apprendendola solamente a
mezzo; era stata una gelosia improvvisa, quasi furiosa, che gli
aveva rivelato in lei tutta un'altra faccia del suo carattere
apparentemente così bonario e insignificante. Egli in quella
amarezza dell'essere tradito dall'altra, per la quale si era
pazzamente perduto, ne aveva provato come una consolazione di
orgoglio, nella certezza dell'affetto che gli restava.
In qual modo confessare ora il resto?
La colpa stessa spariva nella orribilità della espiazione:
aspettare in casa l'arresto, chi sa quanti giorni, indovinando da
lungi tutti i discorsi dei caffè; doverne serbare indarno il
segreto con Anastasia, la serva, fino al momento che un delegato
venisse ad intimarglielo con quella insopportabile gentilezza da
impiegato, probabilmente nella forma di una chiamata in questura.
Nessuna forza umana poteva bastare a tale supplizio: Caterina ne
diverrebbe forse pazza, era impossibile non morirne.
Per quanto atroce, il fatto di trovarsi davanti al pretore e al
cancelliere, dopo essere forse passato per la città fra le
guardie, diventava insignificante al confronto dell'esame, che
avrebbe dovuto subire, chi sa per quanto tempo, dinanzi alla moglie,
sotto l'inquisizione disperata del suo silenzio o delle domande
rinascenti indarno dalle memorie della sua anima calpestata
ingiustamente, per sempre, senza un motivo e senza un avviso. Eppure
egli lo aveva fatto!
Anzi qualche cosa gli restava nel cuore di quella passione
istantanea ed irresistibile, una amarezza ed insieme un orgoglio
quasi simile a quello che sostiene il coraggio dei delinquenti, e li
consola nelle pene dell'espiazione. Si pentiva piuttosto delle
conseguenze che del fatto: era stato fatale, senza ricerca da parte
sua, senz'alcuna possibilità di resistenza. Adesso tutto era
passato.
Un singhiozzo gli salì dal petto affaticato.
Seguitava sempre a cercare, sorpreso da sùbiti scoramenti,
che gli davano la sensazione effimera di un bisogno di pregare, dopo
i quali si cacciava più disperatamente avanti nella ricerca
insensata di un espediente. Uno stesso smarrimento gli confondeva
ragione e fantasia, così che non poteva seguire nemmeno la
più semplice combinazione di sogno, o conchiudere il
più volgare dei ragionamenti: capiva solo che niente e
nessuno verrebbe ad aiutarlo, poiché si era consapevolmente
posto in tale condizione. La sua testa, d'ordinario tutt'altro che
potente, trabalzava di visione in visione, sfuggendo a quella dello
scandalo in piazza con un più acuto terrore dello scandalo
domestico, senza potersi ancora fermare al perché di quella
anticipazione, e come mai la cambiale fosse stata presentata al
pretore due mesi prima della scadenza. Egli aveva già
indovinato il colpo: era stato il Bonoli, socio secreto dello
strozzino, freddamente perverso e ricco, ad affrettare la
catastrofe. Infatti si era ricordato subito, sebbene confusamente,
del suo ultimo saluto incontrandolo alla stazione sulle mosse per
Firenze due giorni prima. Allora ne aveva provato dentro come un
dissolvimento di tutto se stesso, ma nessuno si era accorto di
nulla, ed egli non ci aveva pensato oltre. Il Bonoli doveva aver
imposto ciò allo strozzino, giacché questi non lo
avrebbe forse fatto di per sé, anche per non aumentare in
paese le proprie antipatie, contentandosi di acquistare a buon
mercato il podere. Tutto ciò gli rimaneva non pertanto
torbido nella testa. Non si era nemmeno fermato al solo espediente
discutibile: partire per Firenze, presentarsi al conte Zoli,
ex-deputato della città, un signore malaticcio, vecchio,
infelice per la moglie e senza figli, confessargli il sopruso di
quella firma falsa e scongiurarlo di riconoscerla per vera. Infatti
era imitata abbastanza bene, perché ciò fosse
possibile senza troppo scandalo. Ma come affrontare una tale scena?
Poi lo strozzino e Bonoli dovevano già aver ottenuto dal
conte Zoli una qualche dichiarazione prima di presentare la cambiale
al pretore; e quindi il vecchio signore non avrebbe potuto disdirsi
che ben difficilmente, senza cadere egli medesimo nel processo.
Questo filo, così tenue, era tuttavia l'unico che gli
restasse in quella paura, che lo raggirava sovra se stesso da quasi
due ore.
Non ci pensò.
Morire così era impossibile, mentre tutto era ancora intatto
dentro e intorno a lui.
La profondità di questa contraddizione non gliene lasciava
sentire spasmodicamente che l'orgasmo; nessun'altra sensazione di
dolore per il modo o per il tempo della morte si mescolava al suo
orrore. Si muore forse, quando si è così nella
pienezza della vita? Come comprendere la morte? Egli non ne vedeva
la ragione, pur soffrendone la necessità; quindi non faceva
che fuggire dinanzi ad essa, che lo circuiva, lo premeva,
costringendolo a rientrare da tutte le parti in se stesso, a
spezzarsi volontariamente, senza lasciargli nemmeno la tregua
indispensabile per riunire tutte le proprie energie in questo sforzo
supremo.
Un acuto bisogno di aria e di moto lo fece alzare: non voleva
restare lì, gli pareva già di essere in cella.
Allungò la mano per riprendere il cappello, ma non ebbe il
coraggio. Dove sarebbe andato a quell'ora? Tutti i luoghi gli erano
diventati indifferenti; non pensava nemmeno a fuggire, sapendo di
non aver più né danaro né altra risorsa, colla
quale vivere altrove. La città gli fece improvvisamente
paura: qualcuno riconoscendolo per via avrebbe potuto fermarlo ed
interrogarlo. Egli lo sentiva; alla prima parola rivoltagli avrebbe
dato in uno scoppio di pianto, e la confessione gli sarebbe sfuggita
intera, spaurita, come ad un bambino, per lasciarlo dinanzi alla
indifferenza alquanto stupefatta dell'altro. Perché nessuno
ha davvero pietà di ciò che non lo tocca; si guarda,
si ascolta, si assente con una segreta inconfessabile soddisfazione
di non essere in tale caso, e si accusa sempre chi vi soccombe.
Egli invece avrebbe avuto bisogno di un'immensa pietà. Forse
vi avrebbe trovato l'energia di soffocare tutta la rivolta,
nascondendo con un ultimo sforzo quella compiacenza del sentirsi
quasi rimpianto, che è l'orgoglio segreto di tutti i nostri
dolori, l'ultima impossibile rinuncia anche pei suicidi. Ma egli non
aveva a cui parlare, e soprattutto non gli sarebbe riuscito di
trovarne il modo. La sua colpa era troppo sciocca, nel motivo e
nelle conseguenze, per eccitare le simpatie di qualcuno: non aveva
né padre né madre; sua moglie non avrebbe capito
più dei proprii bambini la tragica fatalità di quella
scempiaggine.
Egli doveva esaminarla solo, senza la falsità di alcun aiuto.
Benché avesse già deciso istintivamente, e tutte
quelle incertezze non fossero che gli effetti appunto di tale
decisione, tuttavia l'istinto vi tornava sopra. Morire subito, senza
dir nulla, senza aver prima esaurito tutti i mezzi di difesa, era
ancora più impossibile che assurdo. La vita, appunto
perché piena di drammi, ha un numero infinito di soluzioni,
le quali non si possono vedere tutte al primo sguardo, mentre la
morte aspetta pazientemente in fondo, terribile, inintelligibile
anche quando la si accetta. Prima bisognava calmarsi.
- Vediamo: che cos'é? Ho fatto una firma falsa in una
cambiale, - e questa cambiale è stata presentata al pretore
prima della scadenza. Perché?
Era stato il Bonoli, senza dubbio. Quell'uomo era il suo nemico sino
dalle ultime elezioni, nelle quali egli lo aveva stupidamente
combattuto, accusandolo appunto di essere un socio segreto dello
strozzino Bugnoli. Tutti in fondo lo sapevano, ma nessuno aveva
osato formularlo nettamente prima; egli solo, nell'orgasmo di una
discussione al caffè, per far piacere al vecchio capo dei
moderati, il signor Trenti, un omone altrettanto grosso di ventre
che fine di spirito, vi aveva insistito così, citando fatti e
satireggiando, che il nome del Bonoli era stato scartato dalla
lista.
Allora se ne era sentito tutto orgoglioso: per un momento aveva
quasi creduto che lo avrebbero sostituito col suo, poi era stato
complimentato, messo quasi nel novero dei vincitori. Ma il Bonoli
non era uomo da lasciarsi battere impunemente. Mezzo clericale,
grasso, malaticcio, con cinque o sei figli brutti anch'essi, aveva
rapidamente, inesplicabilmente accumulato un grosso patrimonio. Era
infatti socio segreto del Bugnoli; ma ciò non spiegava
abbastanza quel suo crescendo subitaneo in ricchezza: molti lo
temevano, quasi tutti lo stimavano per la precisione del colpo
d'occhio in affari e una sensata larghezza nello spendere. Dopo, si
erano trovati parecchie volte al caffè, senza che nei
discorsi o negli atti trapelasse alcun rancore, anzi il Bonoli
pareva più amabile.
Adesso capiva tutto; il Bonoli stava appunto comprando dal conte
Zoli un avanzo di tenuta, quattro grossi poderi, e quella doveva
essere stata per lui l'occasione d'interrogare il vecchio signore
sulla cambiale.
Quel sorriso freddo, senza canzonatura, alla stazione, lo rivedeva
ancora, provandone lo stesso sgomento tremulo e diaccio: era la
vendetta segreta dell'uomo forte, che schiaccia quasi
disattentamente e dimentica.
Non v'era più riparo. Bonoli, anche scongiurato in ginocchio,
avrebbe sempre negato la propria partecipazione in quella denunzia,
mentre il Bugnoli avrebbe finito rammaricandosi di aver ceduto ad un
moto irriflessivo di sdegno nella scoperta del tiro giocatogli con
quella firma falsa. Ma era tardi. A chi rivolgersi? Forse il
pretore, malgrado l'ostentata severità, avrebbe potuto,
accorrendo subito presso di lui, simulare di non aver ricevuto la
cambiale, forse non l'aveva ancora trasmessa alla procura del re; ma
da chi farlo pregare? Le persone influenti, quelle pochissime capaci
di tale miracolo, non lo avrebbero voluto per un uomo insignificante
come egli era sempre stato: bisogna essere in una grande posizione,
o aver reso ben grossi servigi in un partito, per ottenere siffatti
contraccambi.
E la fantasia gli riprodusse istantaneamente tutti i tipi dei
più noti signori in città: non erano gente a lui
superiore per spirito, solamente erano signori. Ecco la vera,
più costante superiorità nella vita. Una rabbia fredda
gli strinse il cuore; egli periva come tutto il resto dei poveri o
dei piccoli, appunto per essere piccolo e povero. Si ricordò
del conte Landi, uno scapestrato del paese, che aveva fatto
più d'una firma falsa, ma al quale per riguardi di nome e di
parentele tutti erano venuti in soccorso, e lo salutavano, lo
ricevevano sempre. Tale ingiustizia gli diede quel senso amaro di
orgoglio contro la società, che aveva sempre sentito nei
discorsi dei radicali, condannandolo come una bassa invidia. Invece
era proprio così; a parte ogni altra differenza, la
società giudica secondo le persone. Essere ricco! non v'era
altra guarantigia, mentre egli si era rovinato stupidamente per
sembrarlo; non si poteva essere più sciocco, lo capiva, se lo
ripeteva con tutto il fiele, col quale l'avrebbe detto e ridetto sul
viso al proprio peggiore nemico.
Venne alla finestra. Fuori c'erano le griglie chiuse, ma attraverso
i loro vani gli apparve un lembo della strada e delle case di
fronte: non passava alcuno, tutti dormivano ancora. Tese l'orecchio.
Nessuno in tutta la città doveva trovarsi come lui in quel
momento; involontariamente si paragonò ad un condannato a
morte, ricordandosi in un lampo tutti gli articoli delle esecuzioni
capitali letti sui giornali. Allora non gli erano parsi che
interessanti.
La testa gli girava.
Perché tanti altri peggiori di lui erano più
fortunati? Egli non aveva commesso che una sciocchezza nella vita,
innamorarsi di una cantante da operette, e non aveva fatta che
quella firma falsa, sapendo di poterla sempre pagare colla vendita
del podere. Era dunque appena uno strappo nelle formalità del
codice, un fallo di procedura: lo sentiva, era sicuro di non
ingannarsi. Era ancora un onest'uomo, uno scemo magari, che si era
mangiato troppo presto il piccolo patrimonio della mamma, ma non un
delinquente. Non aveva mai rubato. In quel momento si ricordava in
blocco tutta la propria vita con una specie di malinconica
alterezza, potendo ancora giudicarla migliore che quella di tanti.
Non vi era giustizia in tutto ciò; perché tanta
disparità di trattamento?... E Giovannone? pensò a
denti stretti per la collera, ricordandosi uno dei più tristi
farabutti della città, appaltatore, negoziante, baro,
fallito, quasi ridicolo per i troppi incendi dolosi, e che nullameno
aveva ammassato un duecentomila lire, era socio del club, della
barcaccia, membro nella società delle corse, e avrebbe potuto
essere magari consigliere comunale, volendo.
Se come tanti, i quali falliscono con un bel gruzzolo in tasca,
avesse avuto nel portafogli molte migliaia di lire, sarebbe fuggito
subito a Genova e di là in America, scrivendo poi alla moglie
di venirlo a raggiungere. In paese avrebbero parlato qualche giorno
di lui, Caterina avrebbe pianto, piuttosto per la sorpresa che per
la vergogna, e si sarebbe imbarcata anche lei senza volergli meno
bene di prima. Quella cambiale falsa non significava nulla
moralmente, ma era stato come a lasciarsi prendere un dito
nell'ingranaggio della ruota: nessuno vi salva più, si
è presi, battuti, masticati da tutta la macchina,
irremissibilmente. In America avrebbe mutato vita, e forse fatto
fortuna per conseguenza di quella medesima cambiale falsa. Non lo
aveva visto egli stesso mille volte? Non lo si vedrebbe anche
nell'avvenire?
Ma senza danaro era impossibile salvarsi.
Adesso comprendeva lo spasimo feroce dei poveri alla vista dei
ricchi, quegl'impeti fulminei di vendetta, che accendono gli sguardi
e storcono le labbra. Perché non era egli ricco?
Perché altri lo era? L'eterna, oscura domanda aveva dentro il
suo cervello un rintocco lugubre di campana nella notte. Milioni di
gente, morta o agonizzante come lui unicamente per mancanza di
danaro, l'aveva ripetuta variandola indarno per tutta la gamma degli
accenti, senza ottenere una risposta; lo strazio di quasi tutta
l'umanità non aveva ancora meritato, nonché la
soluzione, una tregua al problema. Da due ore si sentiva sempre
più venir meno sotto l'oppressione di tale necessità,
come sotto un peso, che gli produceva sull'animo gli effetti
dell'asfissia.
Si era tolto, senza accorgersene, dalla finestra e passeggiava per
lo stanzino; fortunatamente le sue scarpe non scricchiolavano.
In quella visione netta della soverchiante importanza, che il danaro
ha nella vita, e della impossibilità di attirarlo per meriti
di virtù o di dolore, si era rivolto immediatamente col
pensiero alla vendita del podere per fuggire in America. Ma
lì pure si trovava a fronte dello stesso muro; il podere, che
poteva valere dalle trentacinque alle quarantamila lire, era coperto
di ipoteche, così che vendendolo onoratamente gli sarebbero
forse rimasti cinque o sei mila franchi. I compratori non mancavano.
Ferdinando Storchi, fra gli altri, l'occhieggiava da un pezzo;
però un podere non si vende al mercato, come un paio di buoi,
intascandone subito il prezzo, solo coll'abbandonare al compratore
un paio di scudi. Anzi i quattro buoi del podere non erano nemmeno
suoi, ma da tre anni del contadino. La casa pure aveva due ipoteche
addosso per quasi cinquemila lire, e sarebbe stata più
difficile a vendersi nel deprezzamento graduale di tutti i
fabbricati da qualche anno: già la tassa medesima bastava
oramai a divorarli. Non aveva altro; i mobili dell'appartamento non
contavano, il suo credito era esausto: a far molto, avrebbe potuto
racimolare qualche centinaio di franchi per fuggire solo. Che fare
poi? Solo, si sentiva morire, giacché non lo era mai stato.
Prima, il babbo e la mamma lo avevano allevato in casa,
vezzeggiandolo continuamente come figlio unico, poi il babbo era
morto, ed egli si era ammogliato; non aveva imparato una
professione, ma la colpa veramente era stata sua nel troncare gli
studi dopo due anni di università, profittando stupidamente
della condiscendenza dei genitori. Quindi la sua gioventù era
passata fra i piccoli piaceri dell'ozio in quella cittadina; un po'
di caccia, il teatro nell'inverno, la partita al caffè,
preoccupandosi soprattutto di vestiti, leggendo a mala pena i
giornali.
Poco più tardi aveva sposato Caterina, unica figlia,
dell'ex-ingegnere comunale, morto senza un soldo.
Come si era innamorato? Si era nemmeno innamorato? Egli stesso
avrebbe stentato a poter rispondere: si era trovato così,
quasi senza accorgersi, nell'impegno; la ragazza era buona e
piacente, la mamma vedeva di buon occhio che egli si ammogliasse
presto, per meglio scansare i pericoli di una giovinezza
sfaccendata; ed egli lo aveva fatto allegramente, trovandosene bene
anche dopo. Null'altro. La passione non vi era entrata. Quando la
mamma si ammalò mortalmente di tifo, egli aveva già i
due bambini, che riempirono in casa quel vuoto: tutto era andato
bene sino allora, malgrado la dilapidazione sistematica e segreta
del piccolo patrimonio. Caterina non aveva pretese, egli non
sfoggiava né troppo lusso, né troppi vizii,
così che i più tra gli indifferenti, coloro che non
indagano nella vita al di là delle apparenze, dovevano ancora
crederlo nella sicura e modesta posizione lasciatagli dalla mamma.
Invece erano bastati sei o sette anni per arrivare a tal punto.
Il dramma non poteva essere più semplice ed oscuro, un vero
naufragio d'insetto in una goccia d'acqua piovana, fra due selci di
strada.
Nullameno l'espiazione superava di troppo il peccato. Perché
morire, come nelle più alte tragedie, per una bagattella di
cambiale, che la vendita del podere avrebbe sempre potuto saldare?
Per lo meno ciò era altrettanto assurdo che ingiusto. Tutta
la sua stessa onestà protestava contro un simile trattamento:
morire! come? perché? quando? La risoluzione sul modo sarebbe
stata la vera decisione sulla cosa: come morire? Egli non lo capiva
ancora, benché i ricordi di molti altri suicidi gli
mostrassero la tragica molteplicità delle varie maniere,
tutta una visione lontana, nella quale l'anima non voleva
istintivamente entrare. Forze più vive e misteriose la
tiravano indietro nel passato, fra quadri domestici e campagnuoli,
sotto il sole, in mezzo a brigate chiassose, a caccia, a teatro,
nella intimità della sua casa colla moglie e i bambini. Egli
non era nato per altro; le grandi emozioni, le imprese difficili non
le comprendeva nemmeno abbastanza per ammirarle davvero, ma
piuttosto le giudicava col volgo un romanticismo di teste
stravaganti, salvo a consentire nel loro trionfo, e a giudicarlo un
risultato dovuto ad un'altra categoria di gente, colla quale
né egli né i suoi pari avrebbero mai a trattare.
Così, riuscendo a trarsi da quell'impiccio, avrebbe poi
finito come tutti gli altri in qualche impiego per mandare avanti la
casa ed istruire i bambini. Tale quadro consolante gli appariva in
una limpidezza di aurora con particolari quasi fragranti; egli si
attardava, s'inteneriva dicendosi che alleverebbe Carlino meglio
assai che la troppa condiscendenza dei genitori non avesse allevato
lui, gl'insegnerebbe ad evitare i pericoli della gioventù
nell'ozio della provincia, lo farebbe studiare avviandolo
sicuramente sopra una bella strada. Ada aveva un carattere mite,
tutto simile a quello di Caterina, e non gli dava pensiero.
Il suo cuore gonfio di pietà batteva più adagio: la
confidenza gli tornava appunto nella intimità di quel
gabinetto, nel quale pochi minuti prima si sentiva come straniero.
Era rimasto cogli occhi spalancati nell'incanto di quella visione.
La virtù di una simile vita era già un argomento
abbastanza gagliardo contro la morte, che avrebbe rovinato tutti
quegli innocenti, mentre l'espiazione del reato, purtroppo commesso,
finiva col perdere della propria necessità nell'oblazione
incondizionata di se stesso ai loro bisogni. E per un momento
provò la pace fiduciosa, che la preghiera lascia nelle anime
capaci di annullare dentro il mistero di Dio la propria
volontà dolente.
Ma nemmeno questa illusione durò.
L'idea del processo, dileguata per un momento dentro la luce azzurra
di quel quadro, gli apparve daccapo in tutta la propria
terribilità. Forse lì stava l'espiazione vera, la
purificazione violenta del dolore per ritornare poi lontanamente
alla vita, se il suo spirito fosse stato abbastanza poetico per
comprendere la superiorità anche pratica di una tale
soluzione. Invece egli si fermava fatalmente all'orrore delle
esteriorità penali, l'arresto, il dibattimento, la condanna,
senza la convinzione di aver peccato davvero, e quindi nell'assoluta
impossibilità di capire tale rovina. In questo caso diventava
più ragionevole morire, risparmiandone a sé e agli
altri l'inutile spasimo.
Tutto il problema era lì.
Invece non aveva che voglia di piangere; grosse lagrime gli si
staccavano dagli occhi, mentre una trepidazione di fanciullo gli
taceva rannicchiare tutte le membra quasi per farsi più
piccolo, colle mani strette fra le coscie, scuotendo il capo
paraliticamente. Era un pianto silenzioso, quasi dolce, che gli
avrebbe reso facile persino la morte, se quello avesse potuto
esserne il modo: vanire come una rugiada, che il sole essica coi
primi raggi, o come un singhiozzo indistinto nei soliti rumori del
giorno.
- Mio Dio, mio Dio! - mormorava tratto tratto, quasi sotto una
sferzata improvvisa.
Infatti i terrori gli ritornavano in folla, più veementi. Non
era più tempo da effusioni, il giorno poteva tardare poco a
spuntare; una risoluzione era necessaria, anche per non osare di
risolvere nulla, giacchè un qualunque contegno, un discorso
bisognava pur prepararlo per presentarsi a Caterina o alla serva.
Questa era solita ad alzarsi per tempo, qualche volta andava alla
prima messa.
Guardò l'orologio: erano le due e mezzo.
La candela, bruciata più che a mezzo, aveva sulla punta dello
stoppino una larga gemma rossastra, intorno alla quale saliva il
fumo; la smoccolò con un buffetto, e rimase un pezzo a
guardarsi l'unghia del dito medio lievemente annerita, come non
sapendo più in qual modo pulirla.
La gola gli bruciava, lunghi crampi gli attanagliavano lo stomaco.
Prese la candela, e in punta di piedi venne nella saletta.
Tornò ad origliare, quindi rassicurato da quel russo leggero
della moglie, si accostò alla tavola per mescersi un
bicchiere di vino. Sulle prime non andava giù, le lacrime gli
tornavano agli occhi. Allora sedette guardingamente al posto solito,
poggiando ambedue i gomiti sulla tavola.
Aveva scoperto macchinalmente il piatto, nel quale stava il mezzo
pollo: le lagrime gli intorbidavano la vista, aveva paura di far
rumore, e nullameno non avrebbe più saputo rientrare nel
gabinetto. Era come una tappa già oltrepassata, la prima
seduta del processo, che doveva fare a sé medesimo,
eseguendone alla fine la sentenza colla inesorabilità di un
carnefice. Adesso tutto diventava irrevocabile nel suo stato: non
poteva formulare un pensiero, fare un gesto senza sentire che
posdomani non avrebbe potuto più ripeterlo. Il suo tempo era
misurato; anche se non lo avesse voluto, il più
insignificante fra gli atti della sua vita di prima diventava ora di
una tragica importanza. Invece la sensazione più acuta gli
veniva dal freddo dello stomaco, vuoto sino da quella colazione del
mattino nella trattoria delle Tre Zucchette. Benché la
possibilità di mangiare in simili condizioni gli ripugnasse,
aveva senza accorgersene rotto fra le dita un cornetto del pane, e
stava per metterselo alle labbra.
Quindi si rinfrancò con un secondo bicchiere di vino,
guardò il pollo; la sua cresta era bruciacchiata nelle punte,
due o tre goccie di grasso dorato si erano coagulate nel fondo del
piatto.
- Adesso - mormorò, come se nel cedere a tale bisogno fisico
scemasse valore a quella orribile situazione.
Poi le abitudini lo riprendevano; tagliò la pagnottina nel
mezzo dividendola a fette, avvicinò la candela, dispose la
saliera, insinuandosi la punta del tovagliolo dentro il colletto,
come usava pranzando cogli abiti che portava fuori di casa.
Il viso gli rimaneva lagrimoso.
Nella saletta tutto era al solito posto. La sua grossa pipa in
legno, ricurva, di modello tirolese, stava sul camino presso alla
scatola dei grandi zolfanelli bianchi, fatti con le cannuccie di
canapa: nella credenziera di legno giallo, fra i bicchieri e le
bottiglie, si vedevano i due vasetti cilindrici, dorati, colla
scritta nel mezzo - caffè - zucchero -; sotto, fra il
coperchio e il cassettone di fondo, nel quale erano disposti i
piatti coi vasi delle conserve sotto aceto e delle ciliege nello
spirito, v'era il panierino da lavoro della moglie con due grandi
lettere sanguigne, ricamate in lana. Presso il camino chiuso dal
paravento, giacché da quindici giorni in quella mitezza di
stagione non vi si accendeva più il fuoco, i fascetti di vite
e i ciocchi segati riempivano ancora il panierone, mentre il grande
cavallo pezzato di Carlino, con una gamba rotta sino quasi alla
spalla, dormiva rovesciato sopra una sedia, scoprendo le rotelle del
proprio basamento orribilmente fuori di squadro. Egli si
ricordò che una rotella era spaccata sino quasi all'asse.
Aveva già riconosciuto tutti quei piccoli segni della sua
vita quotidiana.
Caterina, i bambini e la serva non dovevano aver mangiato che
l'altra metà del pollo; egli conosceva bene il piccolo
ingegno parsimonioso della moglie e la sua abilità nel
rimpinzare i bambini dando loro poca carne.
Questo particolare lo commosse di tenerezza; Ada era più
docile, ma Carlino, famelico e battagliero come tutti i fanciulli
che fanno molto moto, diventava spesso insopportabile. Egli, il
babbo, avrebbe quasi sempre ceduto, se la mamma non si fosse opposta
col solito argomento:
- No, bisogna che i bambini si avvezzino.
* * *
- Si avvezzeranno pur troppo... Adesso non temono ancora di nulla;
ma non bisogna parlarne, tanto non servirebbe loro nemmeno dopo...
E la frase gli si imbrogliò, ma voleva dirsi, provandone un
grande sollievo di egoismo, all'idea di non essere presente alla
scena della catastrofe quando finalmente dovrebbero apprenderla:
almeno io non ci sarò più!
Gli era accaduto spesso di rincasare tardi, a quel modo, cenando
solo mentre gli altri già dormivano, e aveva sempre notato
che la sua parte di cena era più abbondante che non quando
mangiavano tutti insieme. Questo delicato riguardo alla sua
autorità di capo di casa gli faceva ogni volta la stessa
impressione gradevole: poi, dopo cena, era solito a fumare una pipa
prima di entrare nella camera da letto.
Era come un ritorno alle sue notti di scapolo negli ultimi anni,
prima del matrimonio, quando il babbo e la mamma, che si coricavano
invariabilmente alle nove, gli lasciavano tutto preparato nella
saletta, ed egli dormiva allora nello studiolo. Qualche volta si
faceva accompagnare da un amico, ma, finché era stata viva la
mamma, non aveva mai osato, nemmeno di notte e sicuro di non essere
sorvegliato, condurre seco alcuna donna: dopo, il rispetto della
moglie e dei bambini lo avevano egualmente preservato da tale
bruttura. Anzi, una volta che Camilla con quel suo riso impudente
gli aveva detto a bruciapelo:
- Scommetto che tu non osi portarmi a cena in casa tua, ora che tua
moglie dorme; ne hai paura, - questa frase gli aveva fatto una
penosa impressione.
Invece la perversa ragazza aveva durato a riderne con gli altri per
forse dieci minuti. Quella sera cenavano in quattro all'albergo del
Falcone in uno dei camerini a pianterreno sul cortile. Con Camilla
era venuta la grossa De Angelis e la Nani, più vecchia, con
quel lungo neo nel mezzo della gota destra, Viani, l'ufficiale, con
Ridolfi e Politi. Questi era già del tutto rovinato. Si era
fatto del chiasso e bevuto del Conegliano spumante; poi egli aveva
accompagnato Camilla a casa senza potervi entrare, malgrado tutte le
istanze.
Camilla aveva il carattere cattivo; era di una eleganza stracciona,
di un biondo ardente nei capelli e con una bocca quasi
sanguinolenta.
La prima volta parlandole all'albergo, il terzo giorno dacché
la compagnia cantava all'Arena Borghesi fuori di porta Montanara,
era rimasto interdetto dalle sue risposte. La ragazza vestiva un
abito chiaro tutto sgualcito, con un paltoncino in casimira avana,
del quale la fodera azzurra cominciava a tagliuzzarsi. Anche il suo
cappellino rotondo, di una bizzarria temeraria, aveva i nastri e i
fiori invecchiati.
Nessuno la trovava molto simpatica, benché tratto tratto
sulla scena scattasse in gesti di una comicità lubrica ed
assieme ingenua. Egli invece era rimasto impressionato vivamente dal
modo appunto nel quale si era lasciata prendere un bacio nel
Boccaccio, costringendo la platea a gettare un urlo animale.
- Posso venirvi a trovare domani? - egli le aveva susurrato
all'orecchio nell'offrirle il paltoncino, mentre la comitiva
già in piedi stava per uscire dalla sala.
La ragazza lo aveva guardato enigmaticamente. Egli era andato, ma
indarno; Camilla era fuori di casa. La sera aspettò al
cancello dell'Arena per accompagnarla, ma la vide uscire con altre
amiche ed alcuni giovanotti. Allora si mise a seguirla; la compagnia
andava all'albergo del Falcone, Camilla invece si fermò alla
propria porta. Egli affrettò il passo sfiancando al primo
vicolo, lasciò passare il gruppo e tornò indietro: le
finestre erano socchiuse. Passeggiò, tossì,
zufolò inutilmente per mezz'ora. Passava sempre gente;
improvvisamente la porta si aperse, e Camilla uscì senza
guardarsi attorno.
Egli la raggiunse.
- Ah! siete voi.
- Ero venuto oggi.
- Non ero in casa.
- Dove andate?
- A cena.
- Sola?
- Sola.
- Non mi volete?
- No.
- Perché?
- Vi è bisogno di un perché?
Egli rimaneva impermalito. Camilla invece aveva riso gaiamente; ma
si erano accompagnati.
- Mi avete veduta stasera vestita da bebè?
- Siete sempre incantevole!
- Infatti mi parete incantato. Come vi chiamate?
- Adolfo.
- Avete moglie?
- Perché me lo chiedete?
- Mi avete pur chiesto di accompagnarmi. Dove andiamo a cena? Badate
che non voglio trovarmi con alcuno della compagnia.
Era una cosa difficile; nondimeno egli promise che all'Aquila d'Oro
non avrebbero incontrato alcuno. Non era vero. Infatti ve n'erano
molti. Camilla chiamò due o tre donne e uno dei tenori,
cenarono, risero; ella diventava di una gaiezza sempre più
irritante, mentre gli altri avevano l'aria di spalleggiarla in
quella scena.
Solamente due giorni dopo egli era diventato l'amante.
La ragazza, senza un soldo, golosa, bestemmiava alla più
piccola contrarietà e si lavava appena; la prima notte aveva
ancora sul collo tutta la biacca della recita, ma in compenso
diventava tratto tratto di una sfrenatezza voluttuosa, alla quale
nessuno avrebbe potuto resistere. Egli ne era stato travolto. Quando
la mattina sulle otto si destò dal torpore, che lo aveva
sorpreso a giorno alto, ella intenta già a pettinarsi
tornò verso di lui coi capelli mezzo disciolti; aveva la
bocca più sanguinolenta nel volto più livido.
- Come ti senti? - gli disse ironicamente al vederlo così
sfatto.
Un bagliore le correva sulla faccia smorta; gli aveva messo una mano
nei capelli e gli tirava su la testa per cacciarsela in seno. Poi lo
lasciò ricadere sul cuscino.
- Gli uomini, mi piace di vederli così.
Questa frase, che allora gli era parsa piacevole, non aveva
più potuto scordarla: gliene era rimasta, in fondo all'anima
come una paura segreta, non scevra d'antipatia. Infatti non si erano
ancora detto di amarsi, malgrado l'inganno così facile in
simili relazioni, quando la stanchezza inclina alla
sentimentalità; egli rimaneva con un vago rimorso nella
coscienza, ella non parlava che di teatro, della vita a Milano, ove
era stata mantenuta di un gran signore. Allora cominciavano per lui
le torture. Quella donna quasi magra, di un pallore caldo, coi
grandi occhi grigi e quella bocca quasi sanguinante, non aveva mai
un momento di abbandono; anzi ad ogni eccesso i suoi moti parevano
diventar più agili, e dopo aver girato e rigirato per la
camera, andava a gettarsi sul vecchio sofà mezzo sgangherato,
stirandosi come un animale al sole.
Era la sfida inconscia della femmina, che può nutrirsi
impunemente con qualche cosa anche più vitale del sangue, e
nella propria insaziabile voracità non si compiace che di se
stessa. Egli se ne rendeva conto a mala pena, ma ne soffriva. Era la
prima volta che una donna gli faceva provare certe cose.
Ma poi si era innamorato, forse appunto per non sentirsi
corrisposto, senza potere più adontarsi delle
trivialità, che ella gli scopriva ad ogni momento. Una
sensazione acuta lo vinceva al solo vederla, e subito dopo non gli
restava che un bisogno crescente, tormentoso, di stringerle la testa
fra le mani e di coprirla di baci. Ella, quando non era in vena di
carezze, arrivava tosto alle ingiurie, l'altro implorava con
tenerezze umilianti, si bisticciavano per finire sempre allo stesso
modo, egli offrendo qualche regalo ed ella ricusando per irritarlo
maggiormente, così sicura di se stessa che nemmeno si
pigliava l'incomodo di mentire. Tali provocazioni impudenti, invece
di farlo fuggire, lo attiravano tristamente, per quel mistero della
donna, che solamente nell'abbiezione di tutta sé medesima
trova le proprie forze supreme. Talora si prometteva di smettere,
perché quella ragazza, chi era mai finalmente? Una cantante
d'operette, come tutte le altre, senza educazione, senza cuore,
senza nulla; nemmeno piaceva agli altri. Come mai non piaceva? Forse
nessuno l'aveva ancora veduta a certi momenti come lui. Questa
supposizione vanitosa, inevitabile a tutti gli innamorati per il
bisogno di modificare qualche cosa nella propria amante, lo
rieccitava alla speranza di farsi amare, come se l'amore solamente
potesse spiegare in lei quegli scatti deliranti.
Ella invece lo canzonava anche in pubblico sui vestiti, sulla sua
educazione e soprattutto sulla spilorceria.
Due volte credette di averla abbandonata.
Quando le tornò l'ultima volta, ella gli buttò le
braccia al collo; era mezzo discinta, aveva mangiato allora allora
delle sardine colla cipolla, e il suo alito se ne risentiva.
Lo guardò fiso:
- Non te ne andrai che quando io vorrò!
Egli sentì la verità di questa condanna, poi
pregò, ella non acconsentì in quel momento.
Poco dopo egli piangeva sopra una sedia.
- Non hai tua moglie?
Questa crudele bassezza non l'offese.
- Se ti annoi, vattene, - ella riprese: - per quello che mi hai
dato, siamo pari.
- Che cosa vuoi?
Non pertanto aveva già speso molto danaro per lei, senza che
la ragazza si fosse rimpannucciata. Dove lo metteva adunque? Neppure
essa avrebbe saputo dirlo: aveva pagato dei debiti, ne aveva
prestato alle compagne, lo buttava in piccole compre, e finiva col
non avere mai un soldo, così credendo, quasi in buona fede,
di non costargli nulla.
Intanto nella città la cosa cominciava a propagarsi. Egli sul
principio temette qualche scena dalla moglie, poi rassicurato dalla
ignoranza, che la vita casalinga le faceva, non ebbe più
ritegno; solamente, quando rimaneva fuori di casa tutta la notte,
inventava pretesti. Una strana morbosità aveva finito col
fargli credere di essere cresciuto d'importanza possedendo quella
ragazza di un temperamento così acre e voluttuoso. Tutte le
segrete vanità del maschio, acuite da una passione mal
corrisposta, si combinavano grottescamente nella sua testa. Poi
erano esplosioni ardenti e luminose di sensualità, che lo
lasciavano senza forza per andarsene, in una di quelle stanchezze
pesanti ed insieme gradevoli, come dopo certe scorpacciate, quando
si prova un ultimo piacere nel non potersi più muovere.
Ma i giorni passavano rapidamente, la compagnia doveva trasportarsi
a Cesena.
- Mi lascerai? - egli le chiese scioccamente una mattina.
Ella, intenta a pettinarsi, lo guardò senza rispondere. Nella
cassetta di cartone, entro la quale teneva i pettini, le forcelle e
gli sfumini per pinturicchiarsi la faccia, c'erano tre o quattro
fotografie di uomini e di donne.
Egli ne prese una.
- Dove sarà costui adesso?
- Chi lo sa!
- Eppure è stato il tuo amante! - sospirò tristamente.
- Vorresti che mi seguissero tutti? - ella rispose con uno scoppio
di riso.
Capiva di essere assurdo, eppure la volgarità di quel finale
gli faceva una pena infinita. Quella mattina le aveva portato
centocinquanta lire, delle quali la ragazza diceva di essere in
debito col direttore: il danaro era ancora sul comò.
- Mi verrai a trovare?
- Sì.
- Non ti credo. Voi altri uomini dimenticate anche più presto
di noi altre; poi tu hai paura della moglie.
L'ultima sera, in teatro, mentre il pubblico fingeva allegramente
d'entusiasmarsi in quella rappresentazione di addio, egli si sentiva
il cuore così grosso che avrebbe quasi pianto; invece gli
toccava di vociare in mezzo agli amici per non attirarsi i loro
sarcasmi, e nemmeno vi era riuscito. La compagnia partiva la mattina
col primo treno delle quattro; ma non ostante tutte le promesse,
quella notte la ragazza non volle riceverlo: egli ne rimase furioso.
Stette insino all'alba per i caffè, e andò con altri
due nottambuli alla stazione per vedere la partenza.
Era già dimenticato. In quel trambusto, tra i fagotti, le
valigie e tutti quegli uomini e quelle donne sonnacchiose,
malvestite, affaccendate intorno alle proprie robe, mentre gli
impiegati giravano su e giù con le lanterne, rispondendo con
accento seccato alle brevi contestazioni, non gli fu possibile
trovare il momento per uno sfogo. La ragazza sfringuellava sempre in
qualche crocchio di compagne, quasi tutte incollerite, o correva su
e giù per le sale con certi moti vispi, che a lui svegliavano
troppi ricordi. Finalmente poté rattenerla un istante.
- Venite a Cesena domani sera, - ella gli disse senza badare alle
sue parole.
Egli nascose a stento lo sdegno, l'altra era già lontana.
Quando il treno arrivò, il rimescolìo divenne pazzo
addirittura. Era un treno diretto: il grosso dei bagagli restava in
stazione per partire con un altro treno della giornata. Le donne si
cacciarono dentro i vagoni con un garrito di passere, alcune in
seconda, altre in terza classe; dagli sportelli aperti si vedevano
gli scompartimenti gremirsi in un attimo di sottane, di cappellini,
di fagotti, di valigie, mentre la voce dei conduttori scoppiava
tratto tratto in sollecitazioni impazienti, e le figure tumultuavano
dietro gli sportelli già chiusi, mentre il treno fischiava
divincolandosi.
Egli rimasto sul marciapiede col cuore stretto e gli occhi fissi
allo sportello, dietro il quale ella era scomparsa, traballò
come il suolo, allungando il collo per vedere ancora, ma la fila
nera dei vagoni si allontanava già, senza che la ragazza
avesse sporto il capo dalle tendine svolazzanti nel vento di quella
fuga.
L'indomani sera andò a Cesena.
D'allora la sua passione crebbe morbosamente. Camilla aveva
confessato subito di avergli trovato un successore, con quella
inconsapevole spudoratezza, davanti alla quale si resta quasi
perplessi di aver torto; egli si esasperò, pianse, discese
alle minaccie, e finì col lasciarsi vincere dalla prima
carezza. Non pertanto gliene restava in fondo al cuore il rancore.
Sciaguratamente l'altro era facoltoso, un uomo quasi sulla
cinquantina, celibe, vissuto sempre allegramente, che,
nell'apprendere la cosa, rise. Quindi una gelosia di vanità
avvelenò quell'amore nato da un capriccio e cresciuto fra le
immondizie della vita e della scena. Egli avrebbe voluto essere
ricco per trarla da tale compagnia di saltimbanchi, tenendola tutta
per sé in una qualche casa solitaria; e forse così
sarebbe guarito; ma quella lotta senza alcun orgoglio morale,
interrotta da transazioni ignobili, dopo le quali si sentiva
più male di prima, lo degradava anche ai propri occhi.
Alla terza gita gli toccò di passare tutta la notte per
Cesena, perché Camilla cenava in casa di quel signore con
alcuni artisti della compagnia; quindi capì che dovevano
ridere di lui e della sua ridicola passione col cinismo proprio di
tale gente, quando trova nel vino l'ultima falsa gaiezza.
- Come avrei dovuto fare? - fu tutta la risposta di Camilla
nell'incontro successivo.
L'altro aveva una voglia pazza di batterla.
Improvvisamente ella cangiò: si era fatta malinconica, non
discorreva più!
Era vestita elegantemente con un abito di lanetta crema, un
cappellino piatto sulla testa, le scarpette gialle, le calze nere;
il suo viso illuminato dalla fiamma dei grandi occhi grigi, fissi in
uno sguardo indefinibile, diventava di una certa signorilità.
Egli stesso fu sorpreso da un nuovo sentimento.
Poi Camilla parlò adagio, coll'accento stanco di chi si
lascia andare ad una confessione pur sapendola inutile; erano brani
della sua vita passata, evocazioni triviali e dolenti di una
giovinezza sagrificata come tante altre dalla brutale corruttela dei
genitori. Ella pareva accettarne la necessità con una confusa
poesia di sagrificio.
Però era stanca di se stessa.
Lo congedò, egli protestava.
- No? E perché? A che cosa mi servi tu?
- T'imbarazzo? - egli rimbeccò amaramente.
- Certo.
- Come?
- Tu non puoi niente per me.
Dopo un lungo battibecco ella confessò di avere un bisogno
imprescindibile di duemila cinquecento lire; doveva questa somma al
direttore, che aveva minacciato di scacciarla. Evidentemente si
trattava di una frottola, ma la sua faccia era così ansiosa e
il suo accento così convinto, che l'altro si lasciò
commuovere.
- Tu non li hai; poi se li avessi anche... ti conosco.
- E dopo che te li avrò dati, mi tratterai allo stesso modo?
Un lampo bruciò negli occhi della ragazza, egli lo vide.
- Mi vorresti possedere tutta la vita per duemila e cinquecento
franchi!... Vattene.
Egli titubava.
- Mai più, mai più!
- Almeno l'ultima volta.
Ella ebbe una smorfia così sdegnosa che l'altro ne
provò quasi la sensazione di uno schiaffo.
- Quando ti occorrerebbero?
- Vattene.
Camilla si era tratta il cappellino e si spogliava senza badargli
più, come se fosse già uscito: l'altro rimaneva
perplesso, guardandola girare in sottana per la stanza col petto
già scoperto e il busto azzurro-cupo, listato d'oro, che le
disegnava una curva di anfora sulle anche e sul ventre.
Si accostò per darle un bacio, ma ella lo respinse
brutalmente contro una sedia.
- Avaro!
- Non credi che io abbia duemila e cinquecento lire?
- Forse non le hai nemmeno, pitocco. Ma levati dunque di qui... Dio!
che antipatico!
Era uscito pallido, con una tempesta di odio nel cuore.
Che cosa era accaduto dopo? Non se ne ricordava bene che l'ultima
parte, la più terribile, quella che d'allora gli aveva creato
tale tragica situazione. Era entrato nella bottega dello strozzino
sotto il loggiato alle undici; passava poca gente; la piccola
bottega al solito era vuota. Nella vetrina, distese come dentro una
cassa di vetro, luccicavano molte antiche monete d'argento, e si
drizzavano tinte di un pallido cilestro due larghe cartelle di una
lotteria comunale: dentro, null'altro che un banco rettangolare,
nero, che nascondeva forse nel ventre la piccola cassa forte, e
parato al disopra di un panno turchino come usano gli orefici. Lo
strozzino sedeva al banco leggendo la “Gazzetta dell'Emilia”. La sua
faccia grinzosa si volse di sbieco, ma gli occhietti grigi non si
mossero, e la bocca rapace, quasi rientrata nel vano delle gengive,
rimase chiusa come sempre. Siccome l'altro si levava il cappello,
anche lo strozzino salutò; allora la sua fisonomia divenne
così caratteristica che Romani ebbe quasi paura davanti a
quella testa pelata, piatta, con pochi capelli incollati sulla
fronte, come una testa di magro avoltoio.
Il dialogo aveva cominciato stentatamente.
Poi una disinvoltura quasi spavalda gli era venuta improvvisamente,
presentando quella cambiale falsa, ma colla firma imitata benissimo;
lo strozzino avrebbe dovuto comprendere che colla firma di un tal
signore non occorreva certo rivolgersi a lui per lo sconto; non di
meno la sua fisonomia, ancora più chiusa in quel momento
della sua cassa forte, non esprimeva nulla. Guardava attentamente la
cambiale.
- Desiderereste per caso una firma migliore? - Romani credé
di poter aggiungere scherzando, mentre un sudore freddo gli
inumidiva istantaneamente tutta la pelle.
- Sconto del dodici per cento: impossibile a meno, lo sapete.
E lo strozzino aveva riabbassato gli sguardi sulla cambiale.
- È troppo.
- Presentate ad un altro la vostra cambiale; del resto ha una firma,
che vi fa onore.
Vi era un doppio senso in queste parole?
L'altro si era affrettato a cedere.
- Ebbene, ripassate oggi alle due - soggiunse lo strozzino, mettendo
accuratamente la cambiale in una casella del vecchio portafogli, che
portava in tasca: adesso non ho pronto tutto il danaro.
Romani aveva avuto come una vertigine; guardava quella testa glabra,
rugata, nella quale la bocca storta e socchiusa sembrava immobile
per la fatica di una troppo lunga masticazione, mentre negli
occhietti grigi si accendevano brevi luccicori di acciaio vecchio.
Tutto in lui era povero; il colletto della camicia dritto, ma senza
amido, usciva da un sottile cencio di cravatta, che doveva
stringergli il collo fin troppo, il bavero del pastrano era grasso,
il resto degli abiti sgualcito e stinto. Solo le scarpe apparivano
solide, grosse e rossastre nella peluria, che la mancanza del lucido
aveva lasciato crescere sulla tomaia.
Fino alle due Romani era vissuto dentro un incubo. Se ne ricordava
bene, giacché tutte le percezioni gli erano rimaste chiare:
si era sentito già denunziato, perduto, senza che dal fondo
dell'anima gli sorgesse una qualunque resistenza.
Quando rientrò nella bottega, aveva quello strano sorriso,
col quale gli ammalati senza speranza accolgono talvolta il medico.
L'altro invece era più ciarliero: trasse di tasca il danaro,
lo contò e lo ricontò alla sua presenza.
Romani vi scorse un bono da cinque lire falso, ma non osò
farne l'osservazione: si sentiva scoppiare in una dilatazione
subitanea di benessere, che gli gonfiava cuore e polmoni; negli
occhi gli entrava una luce stranamente limpida e, poiché vide
passare due signore di sua conoscenza sotto il loggiato, si volse
scioccamente per salutare.
- Siamo intesi per la scadenza.
- Non dubitate.
- Se avessi dubitato...
Ma Romani aveva già la gruccia dell'uscio in mano.
- Come sta il conte? - gli chiese l'altro alle spalle.
- Bene.
E si era affrettato ad uscire.
Corse alla stazione, alle quattro scendeva a Cesena. Non
trovò la ragazza a casa. Quando l'incontrò due ore
dopo, in compagnia di altri cantanti, non poté farle che un
cenno, cui ella finse di non badare.
Allora divenne imprudente, la pedinò sino a casa e,
poiché salivano anche coloro con lei, poco dopo
arrischiò di presentarsi.
La padrona non voleva lasciarlo passare, Camilla accorse al rumore.
- Ho quella cosa, - egli le gridò quasi.
- Dammi... - e tese puerilmente la mano.
Ma l'altro non si mosse; non di meno il suo viso era così
raggiante che la ragazza rimase convinta.
- Torna fra tre quarti d'ora. L'hai tutta, quella cosa?
Mezz'ora dopo risalendo le scale, giacché nel bollore della
propria impazienza non aveva neppure potuto attendere tutto il tempo
assegnatogli, Romani incontrò per le scale un facchino carico
di un baule; la ragazza era ancora sulla porta dell'appartamentino
guardando.
- Ah! sei tu, vieni, - esclamò con un tremito nella voce; ma,
appena dentro, la sua fisonomia si era fatta repentinamente dura.
- Non mi hai ingannata?
Egli, che aveva comprato appositamente un altro portafogli, lo
trasse di tasca e glielo offerse: era di seta azzurra con una
ballerina dipinta nel mezzo. La ragazza si chinò con le mani
tremanti sul comò a contare il danaro; ma non erano che
duemila e quattrocento lire, perché egli ne aveva cavato un
bono da cento, rosso, per quella piccola avarizia del non voler
perdere tutto.
Ella gli saltò impetuosamente al collo mordendogli le guance,
rispondendo alle sue parole come in una ubbriachezza improvvisa:
- Sì, sì.
Non poteva star ferma, si mise a girare su e giù per la
stanza.
- A che ora sarai libera? - domandò tutto felice di
contemplare quella sua gioia profonda: - Mi ami un poco adesso?
Non aveva saputo dir altro, soffocato egli stesso dal bisogno di
riprendersela fra le braccia, per sentirsi scricchiolare sul petto
il suo sottile corpicino di danzatrice.
Dopo, per tutta quella notte era stato come un abbarbaglio di
girandola, un tumulto giocondo e brutale, che lo aveva lasciato al
mattino rifinito e assonnato sul guanciale.
- A che ora parti? - ella gli aveva chiesto con la sottana
già infilata.
- Col treno di mezzogiorno: torno qui?
- Ho da fare.
Invece egli si era riaddormentato sino alle undici.
Quando si svegliò ebbe l'impressione di qualche cosa di nuovo
nella camera e nella ragazza: non trovò più né
il sapone né il pettine di lei, che soleva adoperare.
- Mio Dio! non hai sentito sulle dieci che è venuto l'uomo a
prendere la cesta per stasera? Ho dovuto mandare tutto in teatro,
non hanno nulla laggiù in quella maledetta Arena, - ella
rispose impazientita.
Si salutarono freddi.
Egli era stupito di sentirsi malcontento, col cuore vuoto e una
spossatezza, nella quale gli ritornavano indefinibili paure.
Ripartì col treno di mezzogiorno: tre ore dopo Camilla
fuggiva col secondo tenore della compagnia, senza lasciare il
proprio indirizzo.
* * *
Era ancora a tavola, col mento sulla palma della mano e gli occhi
nel vuoto.
Altre circostanze di quella sua relazione con lei gli ripassarono
nella memoria senza interessarlo: ci aveva pensato già
troppo, facendosi indarno tutti i rimproveri possibili: poi, a che
pentirsi? Tanto la situazione non cangiava. Aveva amato davvero? Era
stata una passione quella? Adesso non lo comprendeva più
bene, ma sentiva che, rivedendo quella ragazza, non avrebbe provato
nulla, nemmeno una sensazione di sdegno, come dinanzi alla causa di
tutta la propria sventura.
La necessità di andare a letto lo riprese: la candela stava
per finire, forse fra due ore Anastasia si alzerebbe, poiché
quella mattina era domenica.
In tutta la sua vita non gli era ancora capitato di pensare tanto;
oramai non ne era più capace, e la mente gli si distraeva in
futili particolari, che avrebbero dovuto far stupire lui stesso in
tale momento.
* * *
- Ah! - fece Caterina con voce sonnacchiosa, girandosi sul fianco
verso di lui.
Egli si era spogliato nella saletta, entrando poi guardingamente
nella camera con la speranza di stendersi sul letto senza destarla.
- Dormi?
Ma ella non dormiva più.
- Perché hai fatto così tardi? - seguitò
tastandogli una spalla.
- È appena mezzanotte.
- Non ti è accaduto nulla?
- No, dormi: anch'io ho bisogno di dormire.
Rimase supino, senza la forza di rivolgerle la schiena: un'idea lo
aveva assiderato. Quella era l'ultima notte di matrimonio per lui e
per Caterina, benché nessuno dei due sapesse davvero che cosa
accadrebbe l'indomani; ma una nuova angoscia più atroce di
tutte le altre gli stringeva il cuore al pensiero che un altro
forse, fra non molto, potesse trovarsi in quel letto al suo posto,
cogli stessi diritti e senza la più piccola meraviglia, a
parlare di lui, naturalmente per dargli torto. Caterina non avrebbe
mai potuto approvare quella morte, e pigliando un secondo marito,
come per centomila ragioni lo prendono quasi tutte le vedove
giovani, gli sacrificherebbe anche il rispetto del primo.
- Con quale corsa sei ritornato?
Egli cercava di non rispondere.
- Dormi? Ma è dunque tardi? Ti abbiamo lasciato la cena.
Pareva che non volesse più riaddormentarsi.
- Stamane alle nove debbo andare dalla zia Matilde coi bambini;
dovresti venire anche tu. Metterò l'abito rimodernato.
Perché non mi hai portato un mazzettino di viole in tela?
Sono di ultima moda e costano quasi nulla.
- Come potevo pensarci?
- Ma che cos'hai? - tornò a chiedere con uno scoppio
improvviso.
- Lasciami dormire.
- E se non lo volessi?
Egli era finalmente riuscito a voltarsi, e pensava:
- Se adesso suona l'orologio della piazza, siamo daccapo.
Attendeva raggomitolato colla testa mezzo coperta dalle lenzuola,
benché nella camera facesse caldo; il cuore gli batteva
impetuosamente.
Aveva compreso che tutte le forze stavano per venirgli meno, e
quell'interrogatorio così insignificante della moglie lo
avrebbe con altre poche domande fatto scoppiare in pianto. Un
desiderio spaventato gli cresceva ad ogni minuto di essere solo nel
letto per ravvoltolarsi strettamente nelle coperte, col volto
schiacciato nel cuscino.
Caterina si voltò dall'altro lato, e poco dopo si
riaddormentò.
Egli vegliava cogli occhi dilatati, in ascolto del più
piccolo rumore; dall'uscio dell'altro stanzino, ove dormivano i
bimbi, si udiva russare Anastasia; un tenue filo di luce passava per
una fessura della finestra, e si perdeva nel buio della camera senza
rischiararvi alcun oggetto.
Gli parve di aspettare: che cosa? Non lo sapeva; ma il letto lo
stancava invece di riposarlo. Una smania gli veniva dallo stomaco a
tutti i muscoli, provocandovi dei piccoli sussulti, dei brividi
lievi, simili a scariche silenziose, dopo le quali provava
un'impressione di freddo. Una specie di vacuità gli si era
fatta nel cervello. Avrebbe voluto assopirsi in quel primo
vaneggiamento di febbre, colla testa pesante, sprofondata nel
cuscino. Ma il letto non gli pareva buono come le altre notti, non
poteva girarsi e rigirarsi sui fianchi pel timore di svegliare
daccapo Caterina.
Strinse violentemente gli occhi, dicendosi con tutta la forza che
gli restava, di voler dormire.
Poco dopo, l'orologio della piazza batté le due e tre quarti.
Qualcuno cominciava a passare per strada. Coll'orecchio reso
più acuto da quell'orgasmo seguì e distinse la battuta
dei passi, che si allontanavano di sotto alle sue finestre. Quelli
delle donne, quasi tutte vecchie in quell'ora, parevano strisciare;
erano donne di piazza che vi si affrettavano per disporvi le mostre
degli ortaggi, o beghine già fuori di casa per la prima messa
del Duomo. Una biroccia scrollò i vetri della finestra; ma
quel filo di luce vi passava sempre così tenue, vanendo a
pochi passi nell'ombra.
Poi ebbe caldo. La smania gli aumentava, eccitata dal calore dei
materassi in lana e da quello, anche più vivo, che il corpo
giovane e grasso di Caterina radiava al suo fianco. L'aria stessa si
faceva più pesante.
Perché era venuto a letto, sapendo di non potervi dormire? Il
pentimento fu così acuto che si rigettò le coperte dal
collo; ma le riprese quasi istantaneamente, ritraendosi sulla sponda
col proposito anche più fermo di addormentarsi.
Infatti la stanchezza lo aveva esaurito.
Poco dopo, sognava.
Le raffiche della pioggia si schiantavano sempre più
violentemente urlando nell'aria sotto un cielo nero. Come mai si
trovava egli solo nella campagna deserta a quell'ora? Non conosceva
la strada, non si vedevano più case attraverso il velo
pesante dell'acqua. Era rimasto immobile, rannicchiandosi
timidamente sotto la bufera, col ricordo confuso di non essere
diretto molto lontano, ma senza poter nemmeno tenere gli occhi
aperti, perché le goccie vi battevano contro dolorosamente.
Anzi per qualche tempo, colle mani nelle tasche dei calzoni, e
l'acqua che dalle cuciture del cappello gli colava giù per il
viso, si era abbandonato a piangere. Un pianto amaro e silenzioso
gli era uscito dagli occhi, mentre collo sguardo incerto cercava di
seguire una barchetta di carta azzurra, galleggiante sul fosso della
strada e che ne discendeva il pendio, senza che i goccioloni
sembrassero toccarla. Forse un fanciullo si era divertito
nell'affidarla alle acque per una vaga reminiscenza del diluvio
universale, quando gli oceani si congiungevano alle cime dei monti e
l'arca sola errava sul mondo sommerso. Infatti la barchetta si
dondolava appena, come nella letizia del temporale, serbando nella
soavità cilestrina del proprio colore tutto il sorriso del
cielo. E improvvisamente egli vi scorse dentro il cavallo di
Carlino, quello medesimo che dormiva sdraiato sopra una sedia nella
saletta da pranzo; ma adesso invece era dritto, malgrado la gamba
davanti rotta sotto il ginocchio, e il vento gli sollevava di dietro
il pennacchio della coda fatto con sottili setole bianche da
spazzola. Dove andavano quella barca e quel cavallo? Quale comando
di favola spediva il cavallo di Carlino, sopra una barchetta di
carta, ove non era possibile indovinare? Non di meno in lui cresceva
la preoccupazione di quel viaggio, come se il destino di suo figlio
vi fosse congiunto, ed egli stesso si trovasse lì nient'altro
che per sorvegliare la strana imbarcazione. Poi tra la melma
spumeggiante dell'acqua cominciarono a passare mucchi di foglie
morte e di pagliuzze, che negli urti contro la sponda aprivano
spessi vortici, e vi sprofondavano per riapparire a strisce poco
lungi. Anche la barchetta se ne risentiva. Benché i suoi
fianchi non lasciassero ancora schiudersi le ripiegature, era
già affondata sino all'orlo e non inoltrava che lentamente.
Il cavallo invece, niente preoccupato del pericolo, colla testa
immobile, senza nemmeno sentire le larghe redini di panno rosso
inchiodate sull'arcione della sella nera, teneva gli orecchi dritti
nel vento ad un appello lontano.
La voce disperata di Carlino gridava:
- Il mio cavallo, il mio cavallo!
Ma la barca seguitava ad affondare, le sue ripiegature di poppa e di
prua si erano distese sulla corrente. Per un minuto il cavallo
apparve miracolosamente ritto su quella specie di piccolo manto
cilestre, senza che per tutto il suo corpo un brivido solo tradisse
la paura.
- Oh! - egli esclamò lanciandosi al suo soccorso,
perché un grosso manipolo di stecchi stava per investirlo; ma
cadde pesantemente sotto l'acqua, rimanendogli negli orecchi
l'ultimo strido di Carlino, che singhiozzava sempre:
- Il mio cavallo, il mio cavallo!
Aveva provato, per qualche secondo, l'asfissia dell'annegamento; poi
gli pareva di essere trascinato per una cloaca; le acque non
passavano più, ogni rumore era cessato, ed egli rimaneva
immobile, coricato nella melma. Era dunque morto? Il suo pensiero
solo viveva, perché il pensiero non può morire, ma i
suoi occhi spalancati non potevano muoversi nemmeno dentro le
orbite. Non vedeva nulla. Allora un terrore senza nome gli coperse
l'anima: era quella l'eternità assegnatagli? Una cloaca senza
sfondo, nella quale tutto si arrestava separatamente, per sempre,
nel silenzio di un'ombra vuota.
Fece uno sforzo delirante per gridare, ma la melma gli aveva
otturato la bocca, e un lombrico vi si moveva pigramente.
* * *
Dalla fessura della finestra filtrava un lume più chiaro.
Spaventato, si volse dall'altro lato per dormire ancora, sentendosi
tutto mollo di un sudore freddo.
- Mio Dio, mio Dio! - mormorò.
Le campane del Duomo suonavano lietamente nel mattino, la gente
passava a frotte per la strada, le voci salivano, mentre il fragore
sordo dei carri imprimeva ancora alle case gli stessi scuotimenti
che nella notte. Così mezzo assonnato, cogli spaventi di
quell'ultimo sogno si vedeva dinanzi la faccia dello strozzino
diventato uno di quei grossi ragni, quasi rotondi, dalla pelle
zebrata, che tessono la propria rete verticalmente dinanzi alle
finestre delle cantine, e vi rimangono immobili nel centro
aspettando le mosche. Lo strozzino aveva adesso un ventre enorme,
lucido, con una testina nera e due occhietti ardenti, che lo
fissavano senza stancarsi.
* * *
- Oh! - gridò di soprassalto al fracasso della finestra, che
si apriva lasciando il varco ad un vivissimo raggio di sole.
- Non t'immagini che sono già le nove e mezzo! - gli rispose
Caterina, ritta fra le tende coi capelli biondi incendiati dalla
luce: - Ti abbiamo lasciato dormire sino ad ora, perché
dovevi essere stanco. Ieri sera hai fatto tardi.
Egli cogli occhi abbacinati non la vedeva ancora bene, aveva la
testa pesante, la bocca pastosa.
- I bambini sono già andati a messa con Anastasia, -
seguitò Caterina: - Se avessi visto, quando abbiamo provato
loro le vestine nuove! Ada si è messa a piangere.
- Perché?
- Voleva un nastro celeste alla cintura, come quello di Carlino.
Caterina si era appressata al letto.
Portava il solito abito di lanetta azzurro-cupa, che dava un bel
risalto alle sue carni fresche di bionda; l'abito aveva, secondo la
moda oramai vecchia di qualche anno, le maniche a sbuffi verso la
spalla e la gonna, quasi corta, pieghettata sui fianchi. Il suo viso
calmo, con un principio di pinguedine sotto le guance, aveva sempre
la stessa espressione di bontà; qualche lentiggine le
macchiava i pomelli, gli occhi troppo rotondi e quasi bianchi non
dicevano gran cosa, ma il suo sorriso era dolce come sempre.
- Non ti alzi?
- Sì, aspetta.
- Ti aiuterò io: ho mandato i bambini a messa, perché,
così vestiti di nuovo, con me non sarebbero stati fermi, in
chiesa. Carlino era in un orgasmo incredibile. Io andrò sola
alla messa delle dieci e mezzo in S. Bartolomeo, poi torno a casa
per condurli a fare un giro nel corso. Sono tanto carini
così, li vedrai!
Egli si era svegliato, al solito, in quella camera, nella quale
tutto gli era famigliare. Il mobilio in noce si componeva di un
letto, due comò, l'armadio collo specchio, un tavolino da
toeletta e due portacatini, uno per lui e uno per Caterina, nascosti
nell'angolo dietro l'armadio. Ma i comodini erano ricoperti di un
piccolo ricamo bianco ad uncinetto, perché i candelieri e i
bicchieri dell'acqua per la notte non ne sciupassero la lustratura.
L'aria ed il sole avevano riempito allegramente la camera.
Caterina andò nella saletta a prendergli i panni già
spazzolati.
- Avresti potuto spogliarti qui, stanotte.
- Non volevo disturbarti.
- Ti ho sentito ugualmente. Alzati, dunque, vado a prenderti l'acqua
fresca.
Egli si accorse di avere le ossa indolenzite. Improvvisamente quel
pensiero dimenticato lo riassalse.
Quando Caterina tornò con la brocca bianca nella mano, egli
guardava la parete con gli occhi spaventati.
- Muterò l'asciugatoio dopo; per questa mattina ti puoi
ancora servire del vecchio; - e ne aveva già tolto un altro
dal comò, a lunga frangia candida, ornato da due grandi
lettere sottili, a colori rosso e turchino.
Ma siccome l'altro non si alzava, si voltò ad osservarlo.
- Mi sembri pallido: hai dormito male?
- No, no, - rispose nervosamente, allungando un piede fuori dalle
lenzuola per cercare le pantofole; poi così in camicia, coi
piedi nudi, venne a mirarsi nello specchio della toeletta.
Infatti aveva l'aria sparuta; chiazze plumbee gli macchiavano la
pelle, gli occhi gli si erano affossati; si vide dimagrito,
invecchiato, con un senso doloroso di sorpresa.
- Tu hai qualche cosa, - disse nuovamente Caterina, venuta per di
dietro a guardare nello specchio.
- Ti dico di no: chiudi piuttosto i vetri della finestra.
- Con questo bel sole!
Intanto li chiudeva.
- Ti farò un caffè, se hai rimasto qualche cosa
d'indigesto nello stomaco.
Finalmente fu solo.
Tutta la lunga tempesta della notte gli si ripresentava nella
memoria, piuttosto indolenzita che calmata dal sonno pesante di
quelle poche ore, e gli ricominciava nella coscienza quella
novità insopportabile del sentirsi straniero nella propria
casa. Daccapo il freddo lo sorprendeva, così in camicia,
malgrado il tepore dell'aria e l'impeto rutilante del sole, che
passava trionfalmente attraverso i vetri.
Per rischiararsi la mente si affrettò a tuffare il viso nel
catino. Ordinariamente la sua toeletta era svelta e poco accurata;
si lavava il viso, poi colla spazzola si ravviava i capelli, non
aveva altre abitudini di culto per sé medesimo. Ma dopo
essersi asciugato davanti allo specchio, si vide colla stessa faccia
di prima, anzi gli occhi gli si tornavano a gonfiare. Quindi si
rimise la camicia del giorno innanzi cogli stessi abiti.
- Ma come! - esclamò Caterina rientrando nella camera, dopo
aver lasciato il caffè a precipitare lentamente entro la
cocoma sul focolare della cucina: - non ti cangi il vestito? Hai
ancora la camicia di ieri, oggi che è domenica.
Egli alzò le spalle, ma l'altra insisteva.
- Che importa?
- Lo hai sempre fatto tutte le domeniche.
- Non lo farò più.
- Che cosa?
Per non spiegarsi egli tentò di sorridere scrollando la
testa; però pensava che altri, vedendolo a quel modo, poteva
fare la stessa osservazione di Caterina.
Dovette andare con lei in cucina a prendere il caffè. Sul
fornello fumava la pentola, una coscia di capretto infilata nello
spiedo stava entro un piatto sulla tavola, poiché in casa non
avevano gatti; era questa una mania di Caterina.
- Oggi Anastasia farà anche una piccola zuppa inglese per i
bambini; avranno quest'altro piacere, dopo quello degli abitini
nuovi.
E la mamma sorrideva contenta nel pensiero della sorpresa, alla
quale i piccini avrebbero battute le mani a tavola gridando.
Poi l'interrogò sulla gita a Bologna: come mai aveva potuto
fare tanto tardi? Che cosa era successo?
- A proposito, aspetta: me n'ero scordata.
E scappò, ritornando indi a poco colla faccia attonita.
- L'hai presa tu? Avevano portata una lettera.
- Sì, - egli rispose con voce strozzata.
- Niente d'importante?
- Niente.
Dopo questa parola egli depose la tazza del caffè sul
focolare, invece di accostarla alle labbra.
- Vi avrò messo poco zucchero; a te piace che tutto sia
dolce.
- Già!
Vuotò la tazza, e tornò nella camera per finire di
vestirsi; aveva fretta di uscire.
- Ma non aspetti i bambini? Eccoli! - ella gridò sporgendosi
dalla finestra, che aveva riaperto.
Due minuti dopo i fanciulli entravano trionfalmente nella camera, e
correvano ad abbracciare le ginocchia del babbo, più
guardingamente del solito in quella vanità dei vestitini
nuovi. Al vederli così belli egli stentò a frenare le
lagrime; cadde sopra una sedia e si mise a baciarli furiosamente;
essi ridevano, Caterina sorrideva, ma Anastasia protestò.
- Vuole dunque spiegazzare tutto, mio Dio! è proprio
così; - e con una mano afferrando quella di Ada, l'aveva
già tirata indietro.
Carlino invece si era arrampicato sulle ginocchia del padre.
- Io vado, - riprese Caterina, - tornerò a prendervi fra
un'ora: non vi sporcate, piccini! Mi raccomando, Anastasia.
- Io... come si fa? debbo preparare l'arrosto: riconduca i bambini a
messa con lei.
- Figurati! mi farebbero impazzire, adesso che l'hanno già
ascoltata con te.
- Ci baderò io, - egli esclamò con voce intenerita.
- Allora facciamo così: siccome andrò dalla zia
Matilde per mostrarglieli, vieni anche tu. È un pezzo che le
dobbiamo una visita, ci sdebiteremo tutti insieme.
Anastasia era passata nello stanzino per cangiare abito prima di
rimettersi a cucinare; egli sempre più tremante entrò
coi due fanciulli nella saletta. La prima cosa che vide, fu appunto
il cavallo di Carlino, ancora sdraiato sopra la sedia, colla zampa
rotta sino quasi alla spalla e le rotelle del piedestallo
sgangherate. Il sogno misterioso della notte gli ritornò alla
memoria, rinnovandogli la stessa angoscia, come se davvero un
medesimo destino unisse suo figlio a quel giocattolo. Si era
riseduto su quella sedia, mentre i bambini giravano intorno alla
tavola svogliati.
Non sapeva più che cosa dire loro.
Una tenerezza di lagrime gli ammolliva il cuore; i due fanciulli
erano belli, Ada maggiore di due anni, così abbigliata, aveva
già della donnina nelle movenze. I magnifici capelli biondi,
sciolti sulla schiena, brillavano nel fulgore dell'oro,
incorniciandole il viso illuminato soavemente da due grandi occhi
chiari, assai più vivi che quelli della mamma. Aveva una
pelle di gelsomino e un'ineffabile freschezza sulla bocca; Carlino
invece più tozzo, bruno, coi capelli corti e il nasino all'in
su, pareva un contadinello, che si movesse goffamente, con quella
pesantezza così esilarante nei bambini.
- Siete stati a messa? - egli ricominciò.
- Sì, - rispose Ada: - Amelia mi ha sempre guardata, poi mi
mostrava alla mamma, perché ero meglio vestita io.
- Ah la superbetta! e tu Carlino?
- Lui non s'è voluto inginocchiare per non sporcarsi i
calzoni.
Infatti anche adesso tornava a mostrarli superbamente così
puliti, senza una appannatura al ginocchio.
Egli dovette alzarsi per resistere alla emozione; lo spettacolo di
quella letizia, così primaverile ed inconsapevole, gli
produceva come uno stordimento doloroso; avrebbe voluto dir loro
qualche cosa, ed invece stentava a frenare certe grida, che gli
salivano impetuosamente dal cuore. Che cosa aveva dunque deciso
nella notte? Una debolezza gli era rimasta in tutti i nervi da quei
sogni, nei quali doveva aver sudato come sotto un accesso di febbre.
Tratto tratto le mani gli tremavano.
- Che cos'hai, babbo? - chiese improvvisamente Ada, impressionata
dalla fissazione del suo sguardo.
Invece di rispondere egli rientrò nella camera per prendere
la rivoltella dal tiretto del comodino; ma poté cacciarsela
appena nella tasca interna della giacca, che i due fanciulli gli
erano daccapo fra le gambe.
- Andiamo in cucina, - disse con un ultimo sforzo.
Anastasia aveva riacceso il fuoco ed infilava lo spiedo nel
girarrosto.
- Ecco! - proruppe subito: - perché qui? vuole che si
sporchino? Se la signora Caterina vedesse...
Carlino si era già troppo appressato al focolare.
- Indietro, marmottina: vedete un poco! gli hanno messo l'abitino
nuovo solamente da un'ora.
Allora egli dovette sorridere e ritirarsi coi due fanciulli sopra
una sedia presso la tavola, lasciandosi sgridare; ma l'altra, che
doveva preparare di nascosto la zuppa inglese, e temeva soprattutto
un rabbuffo dalla padrona se i bimbi avessero macchiato le vesti,
seguitava:
- Lo sa pure anche lei che debbo preparare quella cosa:
perché stanno qui?
- Non aver paura, ci bado io.
- Sì, lei! ci saranno dei guai anche oggi.
Ma Ada, col suo garbo di donnina, l'ammansì chiedendole quale
minestra avrebbe fatto in quella domenica.
- Il risotto alla milanese.
Ada batté le mani.
- Indietro adunque; state tranquilli col papà, o vi mando via
tutti.
La cucina, piccola, non riceveva luce che da un cortiletto morto;
v'era una madia e un largo tavolo rettangolare appoggiato al muro.
La pentola gorgogliava fra lo scoppiettio della fiammata accesa per
l'arrosto.
Padre e figli rincantucciati dietro la tavola si facevano delle
carezze in silenzio: egli li aveva ricinti con un braccio e lisciava
loro i capelli coll'altra mano.
- Dammi un soldo, - domandò improvvisamente Carlino.
- E a me? - proruppe Ada.
- Tu sei già una donnina.
Il complimento fece effetto.
Egli si era tratto un soldo dalla tasca, lasciando che Carlino
glielo ghermisse di mano come un gatto.
- Che cosa ne farai? non hai nemmeno la tasca.
Ma osservando quel soldo, il fanciullo si accorse che era bucato.
- Cambiamelo.
- No, non lo spendere oggi, avvezzati a risparmiare.
Era esausto. Si volse ad Anastasia, scappando nella propria camera a
prendervi il cappello:
- È tardi, io debbo andare.
Un minuto dopo riapriva, col cappello in testa, l'uscio della
cucina, che dava sull'anticamera; i fanciulli erano ancora presso la
tavola esaminando il buco di quel soldo.
- Anastasia, mi capisci? quella cosa cerca di farla grande. Che
siano contenti, che siano contenti!
* * *
Era uscito di casa quasi fuggendo, ma appena sulla strada la vivezza
della luce lo arrestò. Passava molta gente, una indefinibile
allegrezza si espandeva nell'aria col suono delle voci da tutta la
festività delle faccie e delle vesti; le finestre sembravano
aperte alla letizia sopra le botteghe chiuse nella
tranquillità del riposo.
Egli si sentì stravagante. Istintivamente si riadattò
il cappello sulla testa ed allentò il passo, dirigendosi
verso la barriera, oltre la quale si scorgevano le ali troppo alte
del ponte in ferro fra il borgo e la città e subito dopo,
nell'avvallamento del suolo, un grosso gruppo di case dipinte di
giallo. Fuori, la via di circonvallazione era fiancheggiata da masse
enormi di sabbia che s'imbiancava al sole; di quando in quando un
parapetto giallognolo impediva alle carrozze e ai passanti di
pericolare nel fiume, già scarso di acqua fra le ripe scabre
e senza piante. Ma anche lì proseguiva la festa della
domenica. I soliti operai non trascinavano su per le ripe, col viso
adusto, i calzoni rimboccati fin sopra il ginocchio, ansando e
vociando, le carriole cariche di sabbia sgocciolante. Non passavano
carrette: i contadini allegri ritornavano dalla città ai
campi, dopo la messa; piccoli scolari vagabondavano nell'ozio e
nella incertezza del chiasso, col quale stordirsi. Infatti le loro
scaramuccie accadevano sempre nel pomeriggio.
Di qua e di là del fiume i campi si stendevano sotto al sole,
in una gioia verde, lampeggiante di sorrisi nel tremolio delle
foglie, mentre gli uccelli festanti in quel mese degli amori si
inseguivano per l'aria rapidi e bruni, o s'arrestavano talvolta
sulla cima flessibile di una fronda quasi ad ammirare l'incantevole
mattino.
Egli solo camminava cupamente preoccupato.
Lungi, dinanzi ai suoi occhi, le prime vette dell'Appennino
sfumavano il proprio verde sul ceruleo dell'aria, entro una
leggerezza di vapore trasparente. Alla prima svolta, fra mucchi di
ghiaia e di sabbia, si fermò a guardare il cimitero dei
cavalli: era un lembo di terra sommossa, a picco sul fiume, brulla e
triste; dirimpetto biancheggiava silenziosa una pila da riso, che il
padrone milionario aveva per capriccio chiusa da gran tempo, e le
sue bocche da acqua, vuote ed aride, rimanevano indarno inclinate
sul fiume dentro un'ombra, che rendeva anche più cupa la loro
tenebrosa profondità.
Un ragazzo in bicicletta gli passò rasente a volo.
Egli lo seguì macchinalmente cogli occhi, e lo perdette in
cima alla salita, dalla quale sparve strisciando come una rondine.
Non sapeva ancora dove andare; ma la città gli faceva paura
in quel giorno. Tutti vi erano sfaccendati, la requie della domenica
rendeva la gente più occupata dei fatti altrui e più
dura verso coloro che non potevano né riposarsi né
godere del riposo comune.
Oltrepassò il ponte, bel ponte di un arco solo, che la gente
chiamava Rosso, non si sa perché; poco lungi il camino tozzo
ed alto di un mulino a vapore fumava malgrado la domenica, un
vecchio cane bracco era sdraiato al sole dinanzi alla porta, alcune
anitre si dondolavano pesantemente col collo ripiegato, frugando del
becco il terreno intorno. Volse a sinistra per un sentiero, che fra
la riva e gli orti, passando dietro il cimitero monumentale,
benché i monumenti vi siano scarsi e brutti, si allontanava
per ombre incerte di acacie. Allora, finalmente solo,
respirò. Al di sotto, il fiume non era più che un
canalaccio dal letto melmoso, nel quale l'acqua stagnava in lunghe
pozzanghere opache; di fianco, invece, gli orti lussureggiavano. La
gamma dei loro verdi vibrava tutta nella luce, mentre la poca terra
scoperta era così umida e scura che, guardando bene, si
sarebbe creduto di vederne salire i vapori nel sole. Ma egli
camminava invece a testa bassa, preoccupato dall'angusto sentiero
slabbrato, pel quale non sarebbe stato molto difficile mettere il
piede in fallo. Guardò se v'erano pescatori, qualcuno di quei
maniaci, che venivano spesso a passare lunghe ore seduti sopra uno
sghembo della sponda, con una canna e una lunga lenza inutile.
Nessuno!
I muraglioni muffosi del cimitero arrivavano fino quasi sul fiume.
Quel sentiero malinconico e mezzo invisibile era prediletto dagli
amanti e dai vecchi per un bisogno di solitudine, forse meno
dissimile fra loro che non paia. Egli vi era passato poche volte,
quasi sempre con un gruppo d'amici, in una di quelle giornate, nelle
quali, per ammazzare la noia della solita passeggiata per lo
Stradone, l'unico passeggio pubblico della città, si cercava
di commettere qualche facile stravaganza.
Ma alla prima svolta, dove un viottolo sfiancava lungo il nuovo muro
del cimitero, si arrestò; una voce sottile canterellava la
celebre e delicata romanza della Mignon:
Non conosci il bel suol
che di porpora ha il ciel...
l'opera data in quell'inverno al teatro comunale. Era una voce di
uomo, incerta nelle parole e nell'aria, che pareva fremere di una
curiosità triste. Si turbò; istintivamente gli era
ritornato nella memoria che lungo quel sentiero, negli anni andati,
erano avvenuti parecchi suicidii, tutti di giovani operai, forse
spaventati dalle crudeli esigenze della vita. L'ultima volta erano
stati due ragazzi di appena vent'anni, morti insieme avendone
avvisato prima gli amici, che non avevano voluto crederlo e non
seppero poi indovinarne il motivo. Si erano ammazzati colla stessa
rivoltella, l'uno dopo l'altro, ed erano rimasti sul sentiero col
cranio aperto, sanguinolenti, vestiti cogli abiti di festa, quasi
per una suprema ironia.
Ma la voce ripeteva sempre la stessa domanda di Mignon, povera
abbandonata nel freddo di un paese nebbioso, che risognava i trionfi
abbaglianti del sole sulla marina napoletana, dove tutto è
musica ed incanto, festa ed oblio. E a pochi passi, nell'ombra di un
albero piegato a capanna, vide disteso sui cuscini entro una
carriola quel ragazzo, che conosceva già. Era il figlio di un
ortolano, caduto piccino da un albero e rimasto colle reni
fracassate; lo aveva veduto mille volte alla finestra sul grande
viale del cimitero, ma si meravigliò nel trovarlo ora alla
estremità dell'orto, sulla ripa del fiume, solo, cantando
come un uccello fra il verde. La sua sventura era di quelle, alle
quali non si vuol pensare; non viveva che dalla cintura in su,
sempre così coricato, col volto appannato dall'ombra stessa
della sua vita.
Eppure viveva.
Impetuosamente egli se ne chiese il perché, mentre l'altro
cantava sempre quella romanza nella sicurezza di non essere udito da
alcuno, sognando forse come Mignon un altro cielo più bello
ancora che in quel mattino di maggio pur così pieno di
profumi, nel silenzio trepidante del meriggio. Egli, morto a
metà, cantava. Con una mano si reggeva ad un ramoscello
dell'albero, tenendo il viso in alto, colle spalle quasi nella
siepe, così che si distingueva appena tra il fogliame la sua
figura.
Poi tacque.
L'orto era deserto: un uccello pigolò dall'altra ripa del
fiume; lontano, ad un campanile suonò ancora una messa.
Per non farsi vedere dal malato, scese dal sentiero verso l'acqua e
non risalì che oltre il cimitero; ma rimaneva sempre come in
un fondo, tra ciuffi di alberette, che nascondevano ogni orizzonte.
Era fuggito di casa, istintivamente, per nascondere la propria
emozione; invece, fra quella viridezza della campagna, dentro al suo
silenzio e alla sua luce, si sentiva nuovamente disorientato. Quindi
un'altra paura gli cresceva: nella fretta di evitare la città
non aveva temuto anzitutto che un incontro col signor Bonoli o con
lo strozzino, a quest'ora naturalmente piccati da un desiderio
crudele di curiosità a suo riguardo. Avevano presentato essi
medesimi la cambiale in pretura? Il caso era poco probabile; secondo
il solito, colle più vecchie convenienze del mestiere, lo
strozzino doveva aver finto una qualche girata, giacché tutti
i suoi pari sono sempre provvisti delle così dette teste di
ferro. Ma egli, incontrandolo, non avrebbe saputo qual contegno
tenere; non lo odiava, anzi per una di quelle condiscendenze imposte
dalla pratica della vita, riconosceva che, agendo in tal modo, colui
faceva solamente il proprio interesse. Di che cosa lagnarsi? Ma
dinanzi alla sua faccia di sparviero disseccato, con quegli occhi
metallici, la bocca che non sorrideva mai, gli sarebbe stato
impossibile resistere.
Sotto l'argine del fiume, lungo il ripiano della sponda, erano
aperte ancora alcune cavità di alberi abbattuti da gran
tempo, che un'erba minuta aveva tappezzato finamente. Il sole
dardeggiava, aliavano farfalle, un soffio di scirocco scuoteva
mollemente le cime già pesanti dei grani. Si fermò per
udire qualche cicala stridere; invece dal fiume ascese la nota dolce
e gorgogliante di un rospo. Allora calò dall'argine per
nascondersi entro una di quelle buche, all'ombra di una vecchia
quercia dai rami rachitici e il tronco giallastro come di una
ruggine d'oro.
L'erba era soffice.
Cavò di tasca la rivoltella a canna corta, nichelata, del
calibro dodici: stette lungamente contemplandola, come in una di
quelle distrazioni attonite, che ci sorprendono talvolta: l'arma
piccina riverberava.
Si sarebbe servito di essa? Perché? E quando si è
morti? Era già molto difficile morire; ma e dopo? Sino a quel
giorno egli non ci aveva mai pensato. Come accade sempre,
specialmente finché si è giovani, la morte non aveva
esistito per lui; sapeva che, essendo nato, morrebbe, ma questa
soluzione lontana ed inevitabile non aveva mai pesato sulla sua
coscienza. Non si capisce veramente di dover morire, sino a che il
pensiero della morte non si allarga come un'ombra nel mezzo del
nostro spirito. Tutto è così facile nella prima parte
dell'esistenza! Funzioni ed abitudini vi si ripetono favorevolmente,
si mangia, si passeggia, si chiacchiera, si ride, si dorme; poi il
mattino vi desta, intorno a voi tutto prosegue: la moglie, i bimbi,
la serva, la casa alternano i propri motivi senza un pensiero che
tutto ciò sia effimero, che basti la presenza di un insetto a
produrvi lo scompiglio, o la morte appiattata in ogni ombra possa in
un istante distruggere tutto senza ragione, senza traccia. Si vive
così, come se la morte non fosse, in una sicurezza
d'immortalità. Invano in tutte le case qualcuno si ammala e
muore; si fanno i funerali, la gente li guarda passare distratta,
ognuno preoccupato dei propri interessi, in una febbre continua di
passioni, e non ci si pensa più. Coloro, che amarono quel
morto, piangono qualche giorno, gli altri non dànno
importanza al caso o parlando della morte, che li aspetta, rimangono
indifferenti come a cosa che verrà poi, un poi problematico
nella data ed insignificante finché la data non arriva. Egli
era stato come gli altri.
Aveva veduto morire il babbo e la mamma senza risentirne troppo
dolore. Certo avrebbe desiderato loro più lunghi anni, ma
essendo troppo giovane per aver provato gli scoramenti della suprema
vigilia, quando la vita non sa più distrarsi dal computo dei
propri ultimi giorni, aveva trovato naturalissimo che i vecchi se ne
andassero.
Invece adesso si trovava dinanzi alla morte nella pienezza di tutte
le proprie forze.
Non era né credente né incredulo; come nella maggior
parte della gente, la vita spirituale era cominciata per lui
coll'insegnamento religioso, senza che la religione modificasse
troppo il suo sentimento, pur lasciando nel suo pensiero impronte
non cancellabili. La concezione cristiana, poco comprensibile nei
dogmi e nella tragedia della sua morale, rimaneva quindi la base di
tutti i suoi giudizi, sotto la solita indifferenza mondana.
Così aveva sposato Caterina anche in chiesa e battezzati i
bambini, trovando giustissimo di apprendere loro la religione, che
egli non praticava più. E in quella indefinibile cultura
guadagnata un po' dovunque, nei caffè, su per i giornali,
massa informe di idee e di sentimenti contradditorii, solamente la
forza della tradizione durava: la religione era cosa da non
parlarne, poiché non se ne sarebbe potuto mai sapere qualche
cosa di preciso, ma forse era così, e in fondo ne convenivano
tutti, anche coloro che affettavano di spregiarla pubblicamente.
Le sue riflessioni non erano mai andate più oltre. Caterina
non lo aveva mai vessato per la sua indifferenza religiosa: egli
viveva come gli altri nella inconsapevolezza della propria
contraddizione, fra un barlume di fede e un pettegolezzo di
miscredenza, trionfando di entrambi col non pensarci.
Ma la morte, improvvisamente, gli stava davanti nella propria
immobilità.
Aveva avuto paura.
Morire era, prima di tutto andarsene; ma per quanto la natura
ripugnasse a tale sparizione e tutte le malattie fossero
spaventevoli appunto per questo, non era difficile il fissarvisi.
Già nella notte lo aveva fatto: andarsene, piuttosto che
restare per la tortura del processo e della prigione!, molto
più che la morte essendo inevitabile, si trattava solo di
sceglierne il momento, quando tutto il resto delle condizioni nella
vita diventava intollerabile. Così, quasi non pensandoci,
aveva già abbracciato questo punto di vista: era stato un
lavorìo lento, inavvertito del suo spirito, subito dopo il
tremendo distacco prodottovi dalla lettura di quella lettera. Quanto
poteva soffrire, l'aveva già sofferto nella notte: lo
sentiva, era sicuro che per una simile crisi non ripasserebbe
più. Si muore forse due volte? La morte è tutta nello
sforzo per staccarci dalla vita; se lo era detto, capiva di aver
ragione. Il suo pensiero risoluto, quantunque torpido, andava sino
in fondo: si sarebbe ucciso! Non aveva deciso il modo, ma il tempo
era misurato ormai su quel giorno; era così, non voleva
ritornarci più sopra: morire per sé medesimo e per la
sua famiglia, alla quale non sarebbe più che d'imbarazzo e di
disonore, ecco tutto! Ma il momento dopo, quel momento che pure ci
doveva essere, giacché il tempo avrebbe seguitato egualmente,
quando egli non sarebbe più, dove sarebbe egli in quel
momento?
Tutto finiva lì? La religione diceva di no, la maggioranza
della gente d'accordo colla religione, e quelli ancora che si
vantavano di non crederle, rimanevano perplessi dinanzi al problema.
Finire! Sarebbe stato semplice, ma non era chiaro. Che cosa
significava allora tutto il prima? La sua testa si perdeva. Confuse
memorie gli ritornavano di ammaestramenti, di fatti, di uomini, che
si erano trovati come lui dinanzi al grande quesito, e che egli
aveva udito a parlarne. Tutti avevano tremato. Il primo momento dopo
la morte, la possibilità di un'altra vita, quindi di un
giudizio su quella trascorsa, di una vita in un altro mondo, mentre
il nostro corpo resterebbe a putrefarsi in questo, di una vita
incomprensibile e tuttavia di una supposizione così
inevitabile al nostro pensiero, era senza dubbio ciò che
rendeva spaventevole la morte, incerto quanto ognuno di noi compie
prima d'incontrarla.
Senza questo mistero che cosa sarebbe stato il suicidio?
Poiché suicidandosi si è sicuri di sottrarsi a tutti i
guai, non vi sarebbe dal canto della vita alcuna difficoltà:
si ha forse paura di addormentarsi, pur non essendo sicuri del
risveglio? Il problema era dunque nel momento dopo la morte.
L'esperienza e la scienza umana non avevano trovato un modo per
inoltrarsi in quest'ombra; tutti vi arrivavano nella medesima
ignoranza, colla stessa angoscia, il più grande come il
più piccolo, per sparire silenziosamente, mentre la religione
sola dichiarava di averne penetrato il mistero colla parola di Dio.
Non di meno la sua spiegazione era oscura; se no come la gente
avrebbe seguitato a dubitare?
Vi era dunque Dio? Era lui che, volendoci così oscuramente
soggetti al suo volere, distribuiva con tanta inesplicabile
parzialità la gioia e il dolore? Malgrado
l'impossibilità di comprendere il mondo senza un creatore e
di sottrarsi alla concezione poetica del cristianesimo, una rivolta
gli saliva dal cuore contro questa ingiustizia della vita, che quasi
sempre prodigava gli spasimi più micidiali ai più
innocenti. Egli stesso ne era stato mille volte testimonio: che cosa
non soffrivano i poveri, mentre i ricchi finiscono per annoiarsi non
trovando abbastanza divertimenti? Se dopo morte non vi era altro, i
signori diventavano ben sciocchi nel fare l'elemosina ai poveri, e
questi lo erano anche di più non depredando in qualunque modo
i ricchi. Perché fare l'elemosina? Tutto era caso, il
fortunato non doveva logicamente che conservare la fortuna a se
stesso. Invece non accadeva così: i poveri sopportavano, i
ricchi li soccorrevano; forse v'era parità di dolori in
tutti, perché i ricchi si suicidavano anche più
facilmente dei poveri. Lo aveva sentito dire molte volte, aveva
potuto notarlo egli stesso. La morte non era solo in fondo alla
vita, ma la colpiva ad ogni istante da per tutto; i bambini vi
soccombevano spesso prima di nascere o appena nati, si moriva
sempre, in qualunque grado, nelle più inverosimili
circostanze: ingegno, ricchezza, danaro non servivano a nulla, la
gloria o l'infamia non toglievano niente a quest'uguaglianza della
morte, la virtù e il vizio vi conducevano colla stessa
rapidità; e dopo, un eguale oblio copriva tutti i defunti, la
medesima spensieratezza seguitava nei viventi.
Pensando alla morte si finiva col non potere uscire più da
tale pensiero: ecco perché la gente non voleva fermarvisi.
Tutte queste riflessioni gli toglievano di sentire il dolore della
propria posizione; una specie di tranquillità gli si era
fatta nello spirito, come una luce fredda, entro la quale tutto gli
appariva lontanamente. La sua testa, poco abituata alle meditazioni,
si distraeva già nelle sensazioni di quel meriggio. Qualche
raggio, filtrando fra le foglie, gli produceva sugli abiti chiazze
luminose e scottanti.
Il bisogno di muoversi lo riprese. Tutta quella meditazione sul
suicidio non gli aveva aggiunto che un terrore di più nella
coscienza: se la vita significava qualche cosa, doveva essere
ordinata ad uno scopo, che i capricci degli uomini non saprebbero
mutare, e quindi tutto si riuniva nella morte come dinanzi ad un
tribunale. Le menzogne, i sofismi, le oblivioni così comode e
frequenti nella vita, si dissipavano nel suo ultimo istante: tutti
vi si trovavano egualmente nudi davanti al proprio passato. Ecco
perché si provano talora rimorsi, che ci costringono a
condannare le nostre azioni più proficue, o ci impediscono
l'abbandono alle nostre tendenze più personali: egli stesso
forse non si trovava ora davanti alla necessità del suicidio
che per aver voluto sacrificare i propri doveri di marito e di padre
ad un ignobile capriccio. Era una sentenza di quella giustizia
segreta, che corregge ogni errore dell'altra, e piega tutte le
fronti sotto il mistero di Dio? Ma Dio permetteva agli uomini di
suicidarsi? Vi erano un inferno ed un paradiso, come affermano i
preti con tanta sicurezza, vivendo tuttavia al pari di coloro i
quali non volevano crederci? Perché tanti grandi uomini non
avevano ammesso una seconda vita? Per quanto questi problemi fossero
insolubili, egli credeva di sentire adesso una grande verità
nel suicidio: l'uomo, togliendosi la vita, espiava in tale dolore
tutto quanto poteva aver commesso, giacché seguitando a
vivere non avrebbe potuto soffrire di più. Era quindi inutile
voler cercare oltre la vita qualche cosa che non doveva dipenderne;
poi vi era questa differenza: gli uomini, uccidendo, sentivano tutti
di commettere un delitto, mentre uccidendosi sentono solo di essere
infelici. Infatti egli non sapeva altro, non era sicuro di aver
ragione, ma la sua tristezza nell'accettare la morte era scevra dai
rimorsi, che avevano accompagnato tante altre sue colpe. Questa
volta non avrebbe fatto male ad alcuno sottraendosi ad una condanna,
che in lui colpirebbe Caterina e i bambini. Sciaguratamente non
v'era altra soluzione. Il suo suicidio non era rifiuto della vita,
perché non se ne era anzi sentito mai così pieno:
vivere nella propria casa tranquilla con Caterina e i bambini,
amministrare il piccolo patrimonio, aiutarlo con qualche guadagno,
fare la partita al caffè, mandare innanzi i figli
finché, diventati grandi, non avessero più bisogno di
lui, sarebbe stato un idillio, era l'idillio di quasi tutta la
gente! Egli doveva invece suicidarsi, appunto per averlo reso
impossibile. Il suo suicidio non aveva quindi le ribellioni
pessimiste, che sole possono renderlo tale; come quei coscritti, che
affrontano la morte agli avamposti, perché fuggendo
dovrebbero sopportare umiliazioni e pene troppo amare, egli non
avrebbe voluto né la battaglia né la morte, e subendo
l'una e l'altra si riconosceva senza volontà. Era
così, perché era così.
Questa conclusione vuota fu l'ultima. Allora, perché era
venuto lì? Che cosa vi aveva risoluto? Sulla campagna
luminosa e calda il cielo si era fatto di una serenità
abbagliante, nell'aria passavano ondate di fremiti. Eppure avrebbe
dovuto aver deciso qualche cosa, essersi preparato per quella
giornata! Vi era ancora una speranza? Come contenersi? Questa
domanda non ne nascondeva che un'altra: era dunque stabilito?
Tale decisione restava però fuori del suo spirito,
giacché non ne provava ancora tutto il peso.
- Che cosa faccio qui? - si chiese con un sussulto.
A casa sua pranzavano circa al tocco e mezzo: lo aspettavano,
manderebbero fuori la serva a cercarlo.
Si figurò vivamente la scena. Se non tornava più a
casa, dove passare tutta la giornata? Rimaneva perplesso, tutte le
angoscie della notte lo riassalivano, eppure non gli veniva nella
mente di poterlo finire subito. Più tardi, di notte, solo, in
qualche altro luogo, ma allora no. Era impossibile.
Si era assegnato un giorno, vi aveva diritto.
Poi gli sembrava di avere molte altre cose da fare, lettere da
scrivere, vedere qualcuno, rientrare ancora fra gli altri, prima di
non vederli più. Aveva bisogno della notte, adesso tutto lo
distraeva.
Si avviò per ritornare, ma appena ebbe presa questa
decisione, ridivenne triste triste; sentì che tutto era
finalmente stabilito, non tornerebbe più in campagna, non
rivedrebbe più quel luogo. Era la sua ultima passeggiata da
solo, che nessuno conoscerebbe mai, e nella quale aveva risoluto di
morire. Comminava a testa bassa, non sentiva più la vivezza
dell'aria, la vampa del sole, il fresco del verde: il suo sguardo si
chinava su quel letto di fiume melmoso, squallido, abbandonato,
senza un rumore né un guizzo nelle pozzanghere d'acqua
indolenti sotto al sole.
E l'idea della morte seguitava nel suo spirito come quel letto di
fiume invisibile fra i campi.
* * *
- Perché, vedi, - gli diceva Caterina sul finire del pranzo,
- io sono persuasa che ella ci lascierà tutto. Capisco che
non è gran cosa, in ogni modo sarà la dote per Ada, ma
bisogna che non seguitiamo a trattarla così. Tu hai sempre
detto che la zia Matilde non ti ha amato, e pare anche a me che sia
così. Non so, - ella seguitava con quel suo buon senso di
donna, nella quale la tranquillità del temperamento favoriva
l'equilibrio dello spirito, - se tu abbia ragione sostenendo che
ella ti voglia ancora male per un vecchio rancore contro la tua
povera mamma, però dovresti mutare contegno verso di lei.
- Che cosa vuoi che faccia? - egli rispose, preso nell'interesse di
quei discorsi, che preparavano l'avvenire.
Infatti Caterina lo aveva subito sgridato per non essersi fatto
vedere in quella visita alla zia Matilde, dopo che ella
imprudentemente l'aveva avvisata della sorpresa. E sarebbe stata
davvero tale, s'egli vi fosse andato, giacché per una
antipatia istintiva cansava sempre quella vecchia parente; ma
questa, inciprignita naturalmente dal non vederlo arrivare, aveva
finito con lo strapazzare Caterina come di un cattivo scherzo.
Caterina, irritata dall'insuccesso, dopo aver troppo contato sul
magnifico effetto dei bambini, non aveva poi badato all'aria
abbattuta di lui. Non di meno il pranzo era proseguito abbastanza
bene.
Per fortuna i bambini, lieti dei vestiti nuovi e più liberi
nei vecchi, che la serva aveva loro rimesso per il pranzo, si erano
abbandonati al più vispo chiacchierio, mentre la mamma ogni
tanto li sgridava dolcemente per frenarli ed egli acconsentiva con
un sorriso.
Quindi il discorso era ritornato sulla zia Matilde, la quale avendo
oltrepassato i settant'anni non poteva ancora campare molto. Con
quella ingenuità di egoismo propria degli eredi, Caterina
valutava tranquillamente tale probabilità, traendone una
lunga serie di conseguenze per se stessa e per i figli, molto
più che i modi di lui con la vecchia le avevano sempre dato
pensiero. Ella credeva alla buona, quantunque modesta posizione
della propria casa, ma coll'antiveggenza delle madri, quando amano,
cominciava a preoccuparsi dell'avvenire.
Il suo affetto era specialmente per la bambina.
Le difficoltà sempre più tristi per le ragazze di
trovare un discreto partito, le avevano messo in cuore una specie di
pessimismo, unica sua reazione contro la vita, della quale aveva
sempre accettato il corso blando senza chiedersi di più. Ma
Ada, che a giudicare da quel momento doveva crescere molto bella,
avrebbe avuto bisogno di una certa dote per accasarsi
convenientemente dopo la buona educazione, che ella pensava di darle
anche a costo dei più gravi sacrifici; su questo argomento
Caterina, così arrendevole, non voleva intendere ragioni.
- Tu manderai avanti Carlino.
Era questa la risposta, quando egli le faceva osservare che per
mettere Ada nell'educandato di Fognano occorreva una grossa spesa
annuale, mentre poi le ragazze uscendo dal convento non sapevano far
nulla per la vita. Caterina, invece, sognava d'interessare a questo
suo disegno prediletto la vecchia zia Matilde.
- Che cosa vuoi dunque che faccia un giorno Ada? La maestra, la
sarta?
La fanciulla, già viziata dalle troppe carezze, scuoteva la
testa con una smorfietta, ed egli non sapeva come replicare.
Quindi colla facilità delle donne a vedere già
realizzati i propri sogni, Caterina s'inteneriva orgogliosamente
sull'avvenire, vedendo Ada mescolata a tutte le signorine delle
migliori famiglie, e più bella di loro fare appena uscita di
convento un grande matrimonio.
- Stasera, poco prima dell'Ave Maria, ritorneremo dalla zia Matilde
per scusarci: verrai anche tu, non me lo negare. Io ti ho sempre
lasciato fare quando hai voluto: ti ho forse mai disturbato? -
proruppe ad un suo moto; - e poi non si tratta di me o di te. Oramai
per noi è finita: che cosa ci può accadere?
Invecchieremo così alla meglio, ma essi hanno bisogno di una
buona posizione. Tu hai sempre voluto che Carlino debba andare
all'università; io ti approvo, ma debbo preoccuparmi
anzitutto dell'altra. Io sono la mamma. Un uomo nella vita arriva
sempre a cavarsela, ma una donna se non trova presto marito, senza
una buona posizione, può essere perduta.
- La zia non ci lascierà nulla, - egli osservò: - sai
pure che è pazza per quella sua figlioccia.
- Lo dici tu, io non lo credo. Sarebbe da parte sua una ingiustizia:
è capitale di famiglia, deve ritornare a noi.
- Deve!
- Non si può gettare via il capitale della famiglia.
Egli s'irritò.
- Molti lo fanno.
- Hanno torto. Adesso ti diverti a farmi arrabbiare: verrai anche
tu?
- Non ci andiamo, mamma, la zia Matilde mi fa paura, -
protestò Ada agitandosi sulla sedia.
La zuppa inglese, portata trionfalmente da Anastasia sopra un piatto
oblungo, interruppe la conversazione; i fanciulli batterono le mani
strepitando, ma la mamma ne tagliò subito col cucchiaio la
metà per serbarla all'indomani.
- Lascia che la mangino tutta, - egli disse, intenerito dalla
smorfia dei bambini.
- Ma che cos'hai oggi? mi contraddici sempre.
Egli aveva mangiato quasi come al solito, obliandosi nelle abitudini
di tutti i giorni, fra il pettegolezzo dei fanciulli, le chiacchiere
della moglie e le osservazioni di Anastasia, che si vantava per la
riuscita del pranzo. Però gli era parso che questa, di quando
in quando, lo scrutasse.
- Perché non ne mangia lei? - gli chiese infatti, vedendolo
dare la propria porzione a Carlino.
Allora Ada s'ingelosì.
- Lascia lascia, egli è più piccolo di te.
Ma sulla fine dei pranzo l'allegria scemava. I fanciulli non
gridavano più, sorvegliandosi a vicenda, malgrado
l'attenzione che mettevano a forbire il piatto della crema;
Caterina, ricaduta nella preoccupazione della zia Matilde non
parlava.
Improvvisamente egli si sentì scoppiare il cuore: non
esisteva già più per loro.
- In quale stato pranzeranno domani!
Eppure nulla era ancora mutato intorno. La saletta, quieta come
sempre, aveva la stessa aria di pulizia e di modesta agiatezza; la
tovaglia, essendo domenica, era bianca, il cavallo di Carlino
dormiva dimenticato sopra quella sedia. Tutto invece sarebbe
sossopra domani: forse il vecchio mansionario scenderebbe lui pure,
attirato inconsciamente dalla paura della morte. Chi sà quali
pianti, quali commenti!
Dove sarebbe allora il suo cadavere?
- Lei non sta bene; - lo destò la voce brusca d'Anastasia.
- Io!
- Io dunque? proprio lei, che cosa ha?
- Infatti anch'io ti ho osservato.
- Ma non ho niente! dammi piuttosto da bere, ecco. Che cosa debbo
avere? Avete paura che muoia?
Aveva cercato di fare la voce scherzosa, affrettandosi a bere per
dissimulare il turbamento, ma quell'ultima parola lo
trascinò.
- Bah! se dovessi anche morire...
- Che discorsi sono questi?
Siccome Carlino aveva finito di pulire il piatto coi ditini, egli
vinto da un impeto di tenerezza si sporse, afferrandolo sotto le
ascelle, e se lo mise sulle ginocchia.
Il piccino rideva superbo.
- Hai ancora il soldo? No? lo avrai nell'altro abitino.
- Eccolo, papà: guarda il buco.
- Di' alla mamma che ci passi dentro un cordoncino, e te lo metta al
collo. Mi hai promesso di non spenderlo: manterrai la promessa? Vuoi
più bene a me o alla mamma?
Carlino esitava.
- Hai ragione, hai ragione: lei è migliore di me; va a
prendere il tuo cavallone.
Così poté alzarsi per accendere lo zigaro.
- Dunque siamo intesi; stasera verrai anche tu dalla zia Matilde, -
tornò ad insistere Caterina.
- No, non vengo. Vedrai che domani verrà lei da te.
- Tu scherzi sempre.
- Già!
Si era rimesso il cappello per uscire, scordandosi di scrivere
quelle lettere; la paura lo riprendeva. Se fosse rimasto ancora
qualche tempo, non avrebbe più saputo come andarsene; poi
capiva che, solo coi bambini anche per un momento, sarebbe scoppiato
a piangere. Fortunatamente il pranzo aveva durato sino alla solita
ora, nella quale usciva a prendere il caffè.
- Me ne vado, - disse due volte, - senza riuscire a decidersi.
Caterina si era alzata per andare in cucina, egli la seguì;
avrebbe voluto voltarsi per stringere in un abbraccio furioso le
teste dei fanciulli, ma Anastasia rientrava già per
sparecchiare.
- Va pure, siamo intesi! - ripeté Caterina una ultima volta.
Per risposta egli le diede un gran bacio sulla bocca, fuggendo
subito dopo.
Caterina rimase sorridendo di quella soluzione.
* * *
Nel caffè, a quell'ora, la gente era già affollata
intorno ai tavolini, che lasciavano appena un varco sotto il
loggiato: regnava l'allegria, le voci si alzavano scherzose. Al suo
apparire molti lo salutarono, mentre altri si ritraevano per fargli
posto nel solito crocchio; egli invece si sentiva freddo di dentro.
Quel nuovo aspetto di festa nel pomeriggio lo turbava. Per un
momento aveva pensato di andare nell'altro grande caffè
aperto all'angolo del palazzo Rondinini, frequentato dai più
grossi signori, quasi tutti naturalmente di parte moderata, per
incontrarvi il Bonoli e lo strozzino, che di rado vi mancavano. Poi
una paura irragionevole, che tutti a quell'ora sapessero già
della sua cambiale falsa mandata in pretura, lo aveva sorpreso.
Perché non lo saprebbero? Se Roberti certamente non ne aveva
parlato con altri prima di partire, il pretore poteva bene averne
fatto a qualcuno la confidenza; il caso non era molto probabile, e
non di meno, nell'odio improvviso, che si sentiva in cuore contro
quel giovane magistrato, adesso divenuto inevitabilmente il suo
padrone, si ostinava a dubitare. Del signor Bonoli invece e dello
strozzino, più interessati e quindi più facili a tale
propalazione, quasi quasi non sospettava: il perché non
avrebbe saputo dirlo.
Quando nello svoltare dalla fontana vide quel pezzo di loggiato,
dinanzi al caffè così gremito di gente, fu per
arrestarsi, ma parecchi dovevano già aver guardato verso di
lui. Colla bruschezza, che dalla lettura di quel biglietto gli aveva
così profondamente mutato il carattere, si decise quindi ad
andare innanzi. Se altra volta si fosse battuto in duello, avrebbe
creduto di risentirne quell'emozione indefinibile allorché i
padrini, dopo avervi tratta la camicia e legato il fazzoletto al
polso in qualche angolo appartato, vi dicono improvvisamente, con
voce breve:
- Andiamo.
Non gli accadde nulla. I discorsi erano gli stessi degli altri
giorni; a un tavolino alcuni radicali, tutta gente della piccola
borghesia, vestiti a festa, e quindi con un'aria più
importante e una più grossolana affettazione di chiasso,
ciaramellavano di politica; altri parlavano d'affari, più in
là un crocchio di giovanotti discuteva di donne, naturalmente
in termini vivaci ed osceni, i camerieri andavano e venivano,
mescolandosi spesso alla conversazione con una famigliarità
poco rispettosa, e nondimeno punto antipatica in quelle abitudini di
provincia.
Sotto il portico cominciava a passare qualche ragazza: allora tutti
gli occhi si voltavano e prorompevano giudizi sommarii, espressioni
scoppiettanti come razzi. Quel giorno non v'era alcun argomento
speciale di pettegolezzo. Egli sedette. Il cameriere, ragazzotto
piccolo e pallido, in giacchetta nera, gli portò al solito il
caffè senza averne aspettato l'ordine, e gli sorrise
deponendolo sul tavolo.
Appoggiato colla schiena ad una colonna egli guardava il Duomo.
L'enorme portone di mezzo era socchiuso, e sull'arco del suo vano si
agitava lievemente un drappo rosso, segnacolo di qualche festa
religiosa in quel giorno; la scalinata di granito pareva più
bianca nel sole, la fontana gorgogliava da tutti i propri zampilli,
avvolta in un pulviscolo d'acqua tenue come un vapore.
Tutto quel largo dinanzi al Duomo sino in fondo alla piazza rimaneva
deserto, nessun fiacchero stazionava ancora presso il caffè,
l'omnibus del grande albergo era già ritornato dalla
stazione; solo qualche bicicletta passava tratto tratto nel vuoto,
silenziosamente.
Siccome quella gente non sapeva ancora nulla della sua disgrazia e,
sapendola, si sarebbe subito scostata, colle cautele così
pronte ed assennate dell'egoismo, egli tra la distrazione di quei
discorsi tornava a ricordarsi tutto quanto sapeva sopra ognuno degli
interlocutori. Pochi avevano una posizione solida ed equilibrata, ed
anche questi pochi non avrebbero probabilmente davanti ad un
giudice, capace di legger loro nelle coscienze, saputo giustificarne
l'origine o il modo: tutti gli altri vivevano come lui, fuori della
propria orbita naturale, rammendando ogni mattina gli strappi di
ogni sera, nella stessa impotenza di frenare i propri vizi o di
guadagnare abbastanza per alimentarli senza pericolo. A vederli
così vestiti e con tale disinvoltura giuliva, un estraneo
avrebbe potuto crederli ricchi e felici, mentre ognuno celava nella
propria vita qualche ignobile controscena di compromissioni
domestiche o commerciali, vergogne di donne comprate o vendute,
orrori di figli assassinati nell'avvenire per inconfessabili
passioni. Eppure sarebbero domani i suoi giudici perspicaci,
perché sommerebbero tutte le loro osservazioni su lui, e
condannerebbero, avvelenando la condanna di scherni, per quella
inconsapevole necessità in tutti di separarsi da coloro, che
soccombono nella vita. Era così, non poteva essere
altrimenti; se no la gente per compiangerlo avrebbe dovuto
condannare se stessa.
Egli solo si era scioccamente messo in tale condizione di suicidio,
mentre gli altri facendo di peggio sapevano restare a galla.
Però questa spiegazione superficiale non gli bastava:
un'altra forza oscura spingeva innanzi la vita d'illusione in
illusione, di guaio in guaio, sino alla fine, che interrompeva tutto
senza risolvere nulla. La moglie, i figli, quanti restano dopo,
prorompono in lamenti contro il morto, cercano di rassettare la
posizione, e invece tornano a comprometterla con la medesima serie
di vizi e di sciocchezze. Era questa l'eterna ridda, l'eterna
morale: i figli si lagnano dei padri e, divenuti padri, sacrificano
l'interesse dei figli al proprio: le donne, per lo più
morigerate come ragazze, si abbandonano da spose e da madri ad ogni
sorta di eccessi: i patrimoni oscillano, si scompongono, si
ricompongono attraverso un tafferuglio di rapine, di leggi, di
prodigalità, di avarizie, di casi tragici o fortunati, nei
quali non si capisce nulla, ed è impossibile resistere.
Tuttavia in quel momento egli falsario, deciso a morire della
propria colpa senza chiedere soccorso ad alcuno, si sentiva migliore
di quanti lo circondavano. Un orgoglio doloroso gli gonfiava la
coscienza. Invece di scusarsi ai propri occhi come aveva tentato
più volte nella notte, si compiaceva quasi ad ingrandire
l'accusa, spremendone un'acre vanità. Non era egli pronto a
morire? Che gl'importava di tutta quella gente? Quale di loro,
malgrado tutte le vanterie, che avrebbero fatto sul suo conto,
affermando l'uno contro l'altro di averlo conosciuto benissimo,
saprebbe solamente indovinare le sue nuove sensazioni in quell'ora?
Era una specie di alterezza, che gli faceva guardare intorno come
dall'alto: qualche cosa di profondo e di freddo, che doveva
somigliare alla emozione del comando supremo per un generale, nel
momento di arrischiare sopra l'ultima idea la vita di migliaia e
migliaia di uomini. La morte innalza sempre. Invece di scrutare
nella sua oscurità, il che lo avrebbe daccapo atterrito, si
guardava indietro come per una lontananza, nella quale le cose e gli
uomini perdevano coll'esattezza del rilievo quasi tutta la propria
importanza. Che cosa era mai la vita, a pensarci bene? Egli avrebbe
sempre seguitato a quel modo, con le solite soste al caffè,
sempre fra quelle persone, quei discorsi, senza una speranza mai di
mutare, di salire, di provare qualche cosa di nuovo. Null'altro.
Tant'era dunque andarsene prima che la vita divenisse solamente un
seguito interminabile di ore nel vuoto di una prigione, e dopo,
più tristamente, un fuorviare fra la folla per evitare certe
persone, per cansare certi sguardi; poi, rabbuffi strazianti in casa
dalla moglie e dai figli, fuori un bisogno sempre più
umiliante di trovare un impiego, un modo egualmente indispensabile
ed impossibile di guadagno.
- Oh! non dici niente oggi? - gli si volse Cavina, un giovane
mastro-muratore dalla fisonomia malaticcia, che la passione e una
tal quale raffinatezza di gusto nella musica rendevano al tempo
stesso simpatico ed un po' avversato.
- Pensi ai miei debiti o ai tuoi? - seguitò con lo scherzo
solito fra di loro, che, troppo desiderosi di spendere, finivano
collo sbertarsi reciprocamente sulle angustie della propria
posizione.
Egli sussultò.
- Sono così, non lo so; - ma gli parve subito dopo di avere
risposto male.
Il muratore confessava che sarebbe andato volentieri alla prima
rappresentazione del Lohengrin: c'era tempo ancora, un treno partiva
sulle quattro.
- Bisognerebbe avere cinquanta franchi da buttar via.
- Perché cinquanta franchi?
- Sai, dopo il teatro viene la cena, la donnetta...
Si rideva: altri sarebbero partiti con lui per Modena, avendo in
tasca i cinquanta franchi, meno ancora per ascoltare la musica del
Lohengrin che per il piacere della gita.
Allora Romani ebbe un impeto di sdegno.
- Perché spendere cinquanta franchi? Sono cose che bisogna
lasciarle fare ai signori.
- Ai signori! - un altro replicò celiando - ma sono un
signore anch'io, quando spendo cinquanta franchi in una sera: vuol
dire che per quella sera ho cinquanta franchi di rendita.
Tutti risero.
Romani si accorse trepidando di essersi lasciato trasportare dalla
collera contro quella falsa facilità del vivere, che lo aveva
condotto all'ultimo punto: quindi per distrarre l'attenzione rimise
il discorso sul Lohengrin. Allora tutti protestarono: non sarebbe
mancato altro che, non potendo assistere alla rappresentazione, ne
avessero dovuto subire la disquisizione da Cavina.
Ma questi, che parlava benino, non resistette; da pari suo aveva
letto troppo o si ricordava abbastanza le spiegazioni del mito
lohengriniano.
- È un gran bel finale, - concluse dopo non molto,
giacché s'imbrogliava nel patto fra Elsa e Lohengrin; -
nessuno muore, eppure è una tragedia. Lohengrin ritorna in
cielo col cigno: è un motivo, che fa venire la pelle d'oca,
lo stesso motivo, col quale viene rimandato il cigno nel primo atto;
ma nessun musicista avrebbe mai saputo trovarne uno uguale. Poi
è di una naturalezza! - seguitò animandosi: -
Lohengrin canta perché non deve morire, mentre in tutti gli
altri finali italiani si ammazzano il tenore e la donna obbligandoli
a cantare con tutte le loro forze. Ciò è falso: un
ferito, un moribondo non possono cantare; sì, altro che
cantare in quel momento!
- Ma in teatro...
- Che c'entra? In teatro si deve rappresentare la verità. Il
finale del Rigoletto è bello, lo concedo anch'io, ma la donna
trapassata da un colpo di spada come potrebbe cantare? Sono
convenzionalismi, che hanno fatto il loro tempo: io dico che la
musica deve rispettare le situazioni drammatiche, e non pretendere
di far cantare in condizioni impossibili. C'è l'orchestra
appositamente: perché il maestro non la fa cantare invece del
tenore o della donna? Sì! il duetto della barella nella Forza
del Destino! Don Alvaro ferito a morte, che urla come un dannato!
Tiriamo via. Io credo che non solo un moribondo o un ferito, ma
nemmeno un condannato a morte, proprio all'ultimo momento, lo si
possa far cantare. Che cosa ne pensi tu, Romani?
- Mi pare che hai ragione.
- Perché? Si sono visti tanti condannati salire il patibolo
indifferentemente, - disse un altro.
- Indifferentemente! Metti loro una mano sul cuore... Ti sentiresti
tu di cantare nei loro panni? - ripeté ostinandosi in questa,
che a lui pareva una grande idea novella in arte.
Ma la conversazione deviò ancora.
* * *
Mentre il passeggio della gente cresceva pel largo del Duomo e sotto
i portici, gli avventori del caffè si diradavano. Le donne
sfilavano vestite a colori vivaci, in ritardo dalla moda e non
pertanto esagerandola con una volgarità di tagli e
d'intenzioni, alle quali la goffaggine del portamento finiva col
dare un non so che di maschile. Egli, divenuto più
perspicace, interrogava curiosamente ogni fisonomia per indovinare
sotto la sua maschera della domenica il segreto di tutti i giorni.
Quindi si accorse che in quella bruttezza di quasi tutte le donne
mancava appunto ciò che avrebbe potuto riscattarla,
l'incantevole e delicata debolezza del sesso. Fu come una
rivelazione per lui. Invece colei, che lo aveva perduto, era donna
nel più profondo significato della parola. La paragonò
mentalmente per cinque minuti a quante passavano, senza arrivare
alla spiegazione della sua superiorità: in che cosa
consisteva? Dove era adesso? S'immaginava nemmeno che egli potesse
trovarsi così?
Erano le cinque.
Fuori di porta Montanara, per lo Stradone, il passeggio doveva
essere incominciato.
Daccapo non seppe che cosa fare. Dinanzi all'altro caffè la
larga distesa dei tavolini arrivava insino al palco della banda,
senza un avventore; si ricordò del primo pensiero, svoltando
alla fontana, di andare piuttosto a quel caffè, dove
capitavano il signor Bonoli e lo strozzino. Allora non aveva osato,
adesso gliene ritornava un desiderio malato.
Siccome era rimasto solo al proprio tavolo, si alzò senza
salutare alcuno, giunse in fondo al portico, ne discese i gradini, e
si mise all'ultimo tavolino presso l'ultima colonna.
Chiese il Secolo ed un gelato. Ma, così solo, gli tornava la
paura.
- Quanto ci vorrà ancora, prima che sia sera?
Rapidamente pensò ai nuovi incontri, ai discorsi che dovrebbe
ascoltare, a quelli cui sarebbe inevitabile rispondere, alle
combinazioni, ai casi inavvertiti tutti gli altri giorni. Avrebbe
potuto tradirsi senza accorgersene. Di quando in quando rimaneva
senza forze, in una attonitaggine, dalla quale lo toglieva la
sensazione improvvisa del pianto, che stava per sfuggirgli. A quanto
doveva compiere nella notte aveva deciso di non pensarci, anzi era
sorpreso di scordarsene tratto tratto. Come avveniva ciò?
Nessuna di quelle terribili strette, di quei dolori trafiggenti,
sotto ai quali nella notte aveva creduto tante volte di svenire, gli
si era ancora rinnovato: le ore passavano, dandogli solamente una
sensazione vacua, come se ne provano assistendo a certi spettacoli
senza prendervi interesse. In tale momento il luogo più
deserto era appunto il caffè, ma il suo isolamento avrebbe
finito coll'essere notato anche lì. Dove andare? Non aveva
nulla da fare; e poi a che scopo lo avrebbe fatto?
In questa impassibilità stava già la morte.
Oramai era fuori del mondo, non apparteneva più a nessuno,
non aveva più nulla. La vecchiezza non deve essere altro che
la lenta progressione di questo sentimento, l'abbandono reciproco di
tutti verso uno e di uno verso tutti per una solitudine annebbiata,
silenziosa, immobile.
Aveva acceso un altro sigaro.
Guardò alle notizie del giornale senza fermarsi ad alcuna,
poi le appendici lo attrassero: Un Idillio tragico, di Bourget; I
milioni della scema, di Montfermeil: nel primo la scena era a
Montecarlo, nei saloni da gioco rutilanti d'oro, invasi da una folla
cosmopolita, di tutti i costumi, di tutti i gradi, di tutte le
fortune. L'autore dipingeva finamente e rapidamente; egli ebbe la
sensazione di quell'ambiente, nel quale la gente andava per tentare
di non morire, ottenendo da una vincita la guarigione della propria
vita anemica di oro, di fede, di speranza, di amore, perché
presso alla morte tutto si fa pallido. E in quella folla, nella
quale l'egoismo delle disperazioni non permette lo scambio di alcun
sentimento, e fra quelle le pupille chine e vacillanti sui tavoli
nello stesso sogno di riscatto; fra quel silenzio, che neppure il
delirio della salvezza improvvisa o la sùbita rivelazione
della morte arrivano a turbare; in mezzo a quella moltitudine
famelica di ozio e di ricchezza, dentro il profumo dei fiori,
l'incendio dei lampadari, la pompa abbacinante di un lusso
divoratore, Bourget aveva messo due incantevoli figure di donne,
sorridenti in un dialogo di amore.
Egli ne lesse le prime battute affascinato, arrestandosi in fondo
all'appendice, quasi colla stessa sensazione che se si fosse urtato
in un muro.
A Montecarlo il suicida tenta di forzare ancora una volta la
fortuna; può bastare un solo scudo per ritornare felice e
trionfante alla vita. Quanti vi avevano vinto la posta della propria
esistenza! Quanti altri l'avevano perduta! Erano più i primi
o i secondi? Quanti suicidii si compiono all'anno in Italia, in
Europa? Egli non lo sapeva, ma se qualcuno gliene avesse detto la
cifra enorme, gli sarebbe parsa esagerata: nullameno ebbe come una
vaga visione di questi volontari della morte, strano esercito senza
generale e senza disciplina, che tutti gli anni si esauriva sino
all'ultimo soldato, e si rinnovava tutti gli anni inutilmente. Ogni
suicida credeva di agire solo: qualche volta morivano a poca
distanza l'uno dall'altro, egualmente separati dalla differenza dei
motivi. Chi poteva dire davvero il perché di un suicidio?
Egli stesso non avrebbe saputo definire il proprio caso; le ragioni
erano molte, forse una per una non sarebbero bastate, forse neppure
la loro somma diventava decisiva... Egli ci aveva pensato molto, poi
si era accorto di non poter concludere.
Era a questo punto, quando Gualtiero Ponti gli batté la mano
sulla spalla:
- Anche tu leggi il nuovo romanzo di Bourget: bisognerebbe invece,
mio caro, poter andare a Montecarlo e vincere.
- Vincendo, che cosa faresti tu?
- Mi divertirei.
- Come?
- Seguiterei a giocare.
E l'allegro giocatore, del quale aveva il giorno prima tentato di
scontare indarno la cambiale, rise al pensiero di chiudere
così la parentesi della propria vita.
- E la cambiale? - chiese.
- No, è stato impossibile.
- Allora?
- Allora!
L'altro si era voltato a guardare una donna.
- Ma quando sarai rovinato? - domandò Romani, che provava un
bisogno crudele di affliggerlo, benché quello scapestrato non
gli avesse fatto alcun male.
Gualtiero Ponti si contentò di alzare le spalle.
- Andiamo a fare un giro per lo Stradone? fra poco verranno Tamberi,
Marzocchi; sai, questa notte Marzocchi ha perduto settecento lire,
io mi ero rifatto, poi ho finito col perderne settantacinque.
Ceniamo insieme?
Non si era ancora seduto. Era un giovanotto piccolo, brutto, coi
baffi a spazzola, la testa rotonda e già calva, che mostrava
indifferentemente, giacché si era tratto il cappello per
asciugarsi il sudore, rimanendo così a capo scoperto; un tic
nervoso gli faceva di quando in quando scattare le dita della mano
destra.
- Tu non ci pensi dunque? - insisté ancora Romani.
- A che cosa serve il pensarci?
* * *
Non c'era altra filosofia nella vita: sciaguratamente non bastava,
perché giungeva il momento di dover pensare per forza.
Finirebbe così anche colui? Istintivamente rispose di no,
conoscendolo troppo bene per supporlo capace di un simile sforzo.
Tuttavia in quel momento, per una specie di giustizia che si sentiva
dentro, avrebbe avuto bisogno di credere che per lui pure sarebbe
venuta quell'ora insopportabile di espiazione.
Quindi n'ebbe come uno scatto violento.
- Te ne vai? chiese l'altro, vedendolo alzarsi.
- No, debbo fare una lettera.
- Va' dentro nella sala a scriverla: ti aspetto qui.
Infatti qualche cosa bisognava che scrivesse. La prima idea fu di
rivolgersi alla zia Matilde per raccomandarle i bambini; non voleva
dir altro, non ne sarebbe stato capace. Si era messo all'ultimo
tavolino presso la porta, che dava nella seconda sala del bigliardo:
notò che due vecchi lo guardavano.
Aveva la mano ferma. Gualtiero Ponti si affacciò dalla strada
alla vetrina; allora egli si affrettò.
Cara zia,
2 maggio 1896.
Vi raccomando i miei bambini, abbiate pietà di loro che sono
innocenti; io sconto tutte le mie colpe colla morte.
E firmò, avvolgendo come al solito tutta la firma dentro il
riccio dell'ultima i.
– Hai fatto presto, - gli disse Ponti avvicinandosi.
L'altro aveva già chiuso la lettera nervosamente, la mano gli
tremava nello scrivere l'indirizzo.
- Dammela: te la getto nella buca, mentre vado dal tabaccaio a
comprare le sigarette, altrimenti potresti scordartene, come accade
quasi sempre a me.
Romani rimaneva perplesso; se impostava la lettera, la cosa
diventava irrevocabile. Una nebbia di sangue gli salì dal
cuore agli occhi.
Quasi senza comprenderlo, si cercò in tasca il soldo per il
francobollo.
- Va! ce lo metto io, - disse Ponti colla mano tesa per ricevere la
lettera.
Quindi la prese senza guardare la soprascritta, e uscì dal
caffè.
Romani non si poteva muovere, ma pensava, rabbrividendo:
- In ultimo, vi è sempre qualcuno che vi spinge.
* * *
Poiché avevano mutato luogo alla stazione ferroviaria,
costruendone poco lontano un'altra più ricca e più
goffa, la strada fuori di Porta Vecchia a quell'ora non era
più frequentata come in altri tempi. Egli dopo aver errato
per molte vie della città, aveva finito per infilare quella;
il sole si piegava al tramonto, dalla campagna veniva una frescura
di verde umido e di piante in fiore.
S'imbatté in don Procopio, il mansionario, che abitava al
disopra di lui; il vecchio ottantenne girava ancora solo, con passo
abbastanza sicuro senz'altro appoggio che un bastone dal pomo di
avorio ingiallito. Era vestito del solito vecchio soprabito con una
leggera mantellina al disopra, tutto lindo e rasato di fresco: i
capelli bianchi, troppo lunghi, gli uscivano in ciuffi dagli
orecchi.
- Lei! - esclamò Romani.
Il vecchio gli sorrise, scoprendo due ammirabili fila di denti
troppo lunghi, di un bianco gialliccio. Romani si era fermato.
- Dove va? - disse, cedendo finalmente al bisogno di una
conversazione.
- Poco lungi, figliuolo mio. Nihil est longe a Deo: è
l'avvertimento di Santa Monica al suo figlio Agostino.
Ma l'accento tranquillo contrastava con la lirica minaccia del motto
latino.
- Sono stato sino alla sbarra della ferrovia.
- Ritorni ancora indietro con me.
- Nella sera si fa fresco, io sono vecchio e mi avvicino al termine.
- Che importa? - proruppe l'altro: - bisogna ben finirla una volta
con questa vita.
- Eh! finirla... finirà certo. Quando si è giovani si
parla male della vita, perché non se ne capisce il pregio, e
al più piccolo contrasto si pensa persino male di Dio.
- Perché dunque permette egli tante infamie? Perché vi
è della povera gente, che deve morire in miseria dopo aver
fatto ogni sforzo per non meritarla, mentre i farabutti riescono
sempre in quello che vogliono?
- Lo sapremo dopo, figliuolo mio: finché viviamo, bisogna
rispettare la vita come un dono di Dio.
- Poteva tenerselo.
Ma siccome la voce gli aveva tremato, il vecchio si fermò a
guardarlo in viso.
- Non vi è altro in questo mondo che la vita: che cosa volete
vi sia di più importante?
- Come mai dunque certuni se la tolgono?
- Pazzie, suggerimenti del demonio! Tutti i dolori passano, è
questione di pazienza: dopo, pensandoci, si resta sempre sorpresi di
aver disperato. Vedete, io che sono vecchio, ho avuto anch'io le mie
disgrazie, i dispiaceri... e poi, se si potesse ricominciare,
ricomincerei.
- Lei non può avere sofferto veramente nella vita; bisogna
esserci dentro per provarla e comprendere come alle volte non
c'è altro modo di cavarsela che andandosene. A che cosa serve
la pazienza, quando non c'è più alcuna speranza?
- Volete farmi parlare perché sono prete, non è vero?
Oggi tutti i giovani, che discorrono con noi, pretendono
d'imbarazzarci; ma voi stesso in questo momento non potete essere al
caso di giudicare sulle tristi condizioni, che spingono certi
infelici al suicidio.
Romani si era arrestato, aspettando la sua opinione, ma il vecchio
tacque. Andava adagio, soffermandosi spesso a guardare quelli che
incontravano, mentre una collera sorda spingeva l'altro a
bestemmiare davanti a questo prete, il quale pretendeva naturalmente
di rappresentare Dio e di poter parlare in suo nome.
Quindi seguitò:
- Si fa presto a dire che uno, il quale si uccide, è pazzo;
ma se non lo fosse? Moltissimi dànno prova del massimo sangue
freddo sino all'ultimo istante.
- Pazzi, pazzi! La chiesa permette appunto il loro seppellimento in
terra benedetta, perché li considera pazzi. Ma se non
c'è altro al mondo che la vita, la quale ci fu data per
guadagnarne un'altra migliore! Lasciate correre, sono fandonie delle
moderne filosofie; ma intanto tutti questi filosofi e questi poeti,
che bestemmiano la vita, tirano a campare.
- E quelli che si ammazzano?
- Matti!
- Non è vero! - proruppe: - Vi sono delle circostanze, nelle
quali il suicidio diventa l'azione più onesta e più
utile, che un uomo possa fare. E poi, perché si deve
tribolare tanto? Se Dio...
- Non bestemmiare, figliuolo mio.
- Non bestemmio; se Dio fosse giusto...
- Andiamo, andiamo, - ripeté il vecchio, alzando un pochino
la canna in segno di disapprovazione; ma il fischio della vaporiera
li interruppe. Si fermarono, il cantoniere chiudeva dinanzi a loro
la barriera.
- Passa il vapore, lo vedremo, - disse il prete, voltandosi verso la
stazione invisibile, alla quale il treno doveva essersi arrestato.
Anche Romani non parlava più; l'affermazione così
sicura di quel vecchio sulla vita lo aveva scosso; capiva che
confessandogli anche la propria tragedia, non solo non lo avrebbe
commosso abbastanza da farlo vacillare nelle proprie convinzioni, ma
nemmeno da intenerirlo. I vecchi non si appassionano più per
alcuno, ma, chiusi in se stessi, si nutrono dei propri giorni,
adagio, come per farli durare maggiormente. Quindi rimaneva
irritato; il bisogno di discutere, senza rivelarlo, il proprio
suicidio, lo tormentava sempre più dolorosamente. I dubbi
filosofici, i terrori religiosi della mattina lungo l'argine del
fiume, tornavano a sopraffarlo dinanzi a quel prete, che
rappresentava la doppia rivelazione della vita e della religione.
Egli doveva sapere per aver provato, e perché credeva
senz'alcuna incertezza.
Lo esaminò.
La sua faccia esprimeva una calma senza nessuna vivacità,
adesso che la vita era per lui ridotta al minimo; non diceva nemmeno
più la messa, tutto si riduceva al pranzo e a quella
passeggiata. Eppure era come tutti gli altri; nessuno voleva pensare
alla morte.
Egli invece fremeva. Dopo aver lasciato impostare quella lettera, un
nuovo orgasmo lo aveva obbligato a muoversi, quasi a fuggire, solo
nelle strade, per non tradirsi con qualche scoppio irrefrenabile.
Che cosa gli importava della vita? In quel momento, pur di finirla
subito, avrebbe accettato anche la morte più dolorosa. Era la
rivolta degli animali deboli, che trovano nella disperazione il
coraggio dell'attacco.
Quel prete di una religione, che secondo la gente ha un balsamo per
tutti i dolori, non aveva indovinato in lui, non aveva sentito
niente nella sua voce! Un sorriso amaro gli contrasse le labbra.
Un altro fischio acuto, prolungato, fendé l'aria; s'intesero
gli scoppi di un'enorme respirazione che si avvicinava, si vide in
alto uno stendardo azzurrognolo di fumo, e il treno passò
alla barriera rapido, nero, perdendosi nella campagna, che si
assopiva languidamente sotto il tramonto.
Don Procopio lo aveva seguito cogli occhi:
- Quello sarà sempre giovane, mentre i nostri cavalli, - e si
batté una gamba colla canna - non vanno oramai più!
Romani era diventato pallido come un cencio; nei suoi occhi sbarrati
vi era la fissità dell'agonia, che non vede più o vede
già troppo lontano.
* * *
Non aveva potuto parlarne nemmeno col prete.
Questa impossibilità di trovare un'anima, nella quale
riversare tutta l'angoscia della propria, gli era diventata uno
spasimo maggiore della stessa necessità di uccidersi. Sino
dalla notte, dopo la lettura di quella lettera, resisteva
all'angoscia di rivoltarsi per terra mordendo qualche cosa: invece
aveva dovuto comporsi una maschera simile al volto di tutti i
giorni, perché nessuno si accorgesse di quello che soffriva.
Gli pareva di essere un sonnambulo, colla coscienza di non poter
più uscire dal proprio sogno. La vita seguitava intorno a lui
più intensa di prima; la luce animava le cose, l'aria
vibrava, alitavano profumi, i rumori salivano dalla terra mescendosi
in una sonorità inesauribile, dentro la quale passava
un'altra infinità di musiche, mentre la gente affaccendata di
sé medesima sembrava non accorgersi neppure del tramonto
imminente. Non poteva essere che così. Era come di quelle
danze che i più piccoli insetti fanno nei raggi del sole:
volano, si riproducono senza posa, in una confusione ardente ed
instancabile, e quello che si arresta un istante, cade non visto
nell'ombra, sulla terra. Nessuno può fermarsi al dramma o
alla morte di un altro, perché il dramma è in tutti, e
tutti debbono morire; la pietà è appena un sorriso,
che si volge ai feriti capaci di rialzarsi; per quelli che
soccombono, la disattenzione previene già l'oblio.
Egli stesso non sapeva più che cosa dire agli altri; si
sentiva come una di quelle foglie galleggianti nel fosso sotto il
temporale del suo sogno: che cosa avrebbe potuto dire una di quelle
foglie morte alle erbe dei margini sbattute dalla corrente? Il
problema della morte è più lontano e più in
alto della vita, dove il tempo dilegua nell'eternità; e
quando l'anima s'affaccia nuda a tale problema, se non vi scorge
qualche cosa nel buio, ciò vuol dire che la luce della
lampada accesa dalla religione in quelle insondabili
profondità si è spenta. Il giorno cadeva. Un vapore si
distendeva pel cielo, abbassandosi lentamente sull'aria, che si
raffreddava; gli oggetti si velavano incertamente, la moltitudine
pareva calmarsi. Però le sue voci si facevano più
inquiete, tutti i passi si affrettavano. Le grida degli uccelli
erano cessate all'improvviso nell'oscurità misteriosa del
fogliame: dentro le finestre, prima incendiate dal sole, il buio si
era fatto denso come un panno nero, le strade piene di popolo
avevano una ondulazione di marcia sotto la notte imminente.
Egli aveva oramai finito quel giorno.
Le campane della sera disperdevano il proprio gemito nel silenzio
delle lontananze, come un'invocazione saliente dalla terra dinanzi
al terrore delle tenebre, che stavano per sommergerla. Nell'agonia
di tale fine, che non aveva mai avvertito prima di allora, gli parve
che la morte sfiorasse tutte le cose. Quanto era succeduto in quel
giorno, non succederebbe più, era già perduto
irrevocabilmente dove tutto si perde, ciò che fu e ciò
che dovrà essere, perché la vita non è appunto
che una evanescenza, un suono di suoni, un'ombra di ombre vagolanti
in un infinito infinitamente remoto.
La sua anima si ravvolse nel lungo brivido di quella solitudine, che
solamente il pensiero avrebbe potuto riempire. Poi il crepuscolo si
oscurò ancora, le prime stelle spuntarono dalla volta del
cielo, mentre per la città si accendevano i primi fanali, fra
un mormorio più indistinto di voci, al disopra della folla,
che dileguava nella oscurità delle strade.
Ma le stelle crescevano sempre nel cielo opaco, troppo grandi e
troppo vivide perché la notte potesse appannarle: miriade di
mondi viventi di un'altra vita inesplicabile alla nostra, malgrado
tutte le rivelazioni della scienza e della fede.
Che cosa c'era lassù? Più alto di lassù?
Dio?
Un minuto dopo la morte, questa domanda sarebbe ancora possibile?
* * *
Egli soccombeva all'umiltà di un annichilimento finale. La
sua volontà si era disciolta al pari di ogni altra cosa
nell'ombra, come in un ritorno alla primordiale indeterminatezza
dell'essere; non soffriva più. Persino quest'ultimo dubbio,
balenatogli più in alto, oltre lo splendore delle stelle, si
era spento con tutto quanto moriva intorno a lui, nella dissoluzione
della notte. Che importava il motivo della morte, quando bisognava
morire?
Il medesimo silenzio penetrava in tutti i cuori, la stessa ombra in
tutte le teste: non si poteva essere immortali; perché noi
pretendevamo dunque di esserlo?
Vi era differenza nella morte? Che cosa era il suicidio? Si muore di
tutto, tutti si suicidano, giacché ogni gioia troppo intensa,
ogni dolore troppo acuto ci costa forse un giorno: qualunque opera
ci toglie quella parte di noi stessi, colla quale la compimmo; i
nostri figli sono i nostri parassiti sino al giorno che, non potendo
più nutrirsi di noi, ci abbandonano per soccombere altrove.
In qualsivoglia momento la morte è sempre la stessa: un
terrore, un'angoscia, e la soffocazione in fondo. Non ci si pensa,
perché tutte le idee adunate intorno alla morte, paradisi,
inferni, non riproducono che teatralmente il nostro oggi sullo
sfondo di una notte senza domani.
Quando l'ora della morte è suonata bisogna rassegnarsi: non
è sempre così davanti a tutte le difficoltà
della vita? Si chiudono gli occhi, e si ingoia il bicchiere
dell'olio di ricino, come fanno i bambini.
Una carrozza, che gli passò accanto fragorosamente, coi
fanali accesi, gli ridiede la visione del treno sbuffante, fumante,
coi grandi occhi sbarrati nella notte, come se venisse contro di
lui, e tutta la terra intorno tremasse sotto la violenza del suo
impeto.
* * *
- Vieni con me dalla Marietta: è arrivata una ragazza
d'Imola.
Romani alzò la testa, Gualtiero Ponti seguitava:
- Venturini dice che è bella, vieni con me: poi ceneremo.
Ma sebbene la domanda fosse insistente, la voce rimaneva fredda;
Romani stava seduto alla cantonata del caffè Rondinini, in
quell'ora pieno di gente, sotto il chiarore rossastro dei lampioni a
petrolio: tutti erano vestiti a festa. Era la prima ora del
passeggio notturno, per la piazza e sotto il loggiato dei signori;
le ragazze passavano a frotte negli abiti chiari, sorridendo fra gli
sguardi, che le cercavano avidamente. Romani si era seduto, solo, a
quell'angolo. Una stanchezza malata aveva finito di vincerlo, dopo
tutte quelle corse fuori e dentro la città: si era cacciato
per molti vicoli, sino alle mura, che da Porta Pia vanno a Porta
Montanara dirimpetto alla linea delle colline, e anche là
aveva trovato la stessa gente, coppie di amanti, torme di bambini,
crocchi di mamme, e, tratto tratto, un vecchio, che passava come
un'ombra nell'ombra sempre più densa della sera.
Gli era rimasta negli orecchi la cantilena di alcune voci.
- Dove ti sei nascosto oggi, che non ti ho più visto? -
ridomandò Ponti.
- Ho girato.
- Solo?
- Così... non sempre, - si corresse, ricordando l'incontro
con don Procopio.
- Dunque vieni?
- No.
- Perché? Vieni.
- Non ne ho voglia.
Sopraggiunse un altro, al quale Ponti fece la stessa proposta, e che
accettò.
Romani rimase solo daccapo.
Perché non aveva accettato? Era stato un rifiuto istintivo,
ripugnante, quasi di un ferito, che qualcuno, stupido o villano,
invitasse a ballare, poiché gli era accaduto di ricusarsi
così nella giornata ad altri inviti, sempre colla stessa
sensazione amara di disgusto. Il passaggio delle donne, che talvolta
a quell'angolo gli sfioravano quasi il ginocchio colla gonnella, lo
tirava inconsciamente ad altri pensieri: qualche profumo vaporante
dalle vesti errava nella sera, nomi femminili salivano dai crocchi
vicini a lui, mentre al di là della strada, in quel largo
dinanzi al loggiato, fra i tavolini, molto signore si erano
già fermate, e i camerieri correvano affaccendati, recando o
togliendo i bacili. La festa diventava più tentatrice nelle
ombre della notte; pochi bambini erano ancora in giro, nell'aria
agitata da uno scirocco leggero soffiavano improvvise caldezze. Le
donne, quasi belle a quell'ora, avevano nel passo qualche cosa di
diverso, un'ondulazione, che gli abiti festivi rendevano più
provocante, quindi voltavano il capo allungando i sorrisi, o si
chiamavano fra loro a sussurrare una confidenza non difficile ad
immaginarsi. Egli si accorgeva di osservare tutto questo intorno a
sé. E quell'invito brutale di Ponti gli ritornava più
insistente dalla varietà di quella scena trepida di voci e di
fruscii femminini. Perché aveva adunque rinunciato? Fra la
folla delle donne ne distinse alcune, delle quali in gioventù
era stato l'amante: passavano come le altre, sedotte e seduttrici,
in quella prima notturna promessa della primavera. Si capiva, si
vedeva che la gente, immemore delle proprie sciagure, o magari a
cagione di queste, voleva esaltarsi gaudiosamente in tutte quelle
sensazioni, che, risvegliate dai rapidi contatti della strada, nei
brevi incontri ai caffè, ingrosserebbero a cena fra la
crapula dei discorsi e la fiamma dei bicchieri, per irrompere
più tardi nei convegni colle donne irritate dalla troppo
lunga attesa.
Egli stesso aveva fatto così mille volte, senza riflettervi.
Conosceva quelle stanze della Marietta, nell'angolo di un vicolo,
sopra un'osteria, poco lungi dalla piazza. La Marietta, non ancora
vecchia, pareva quasi un uomo alla durezza della fisonomia e con
quella voce grossa. Raramente capitava da lei qualche bella ragazza.
Se avesse seguito Ponti, non vi sarebbero in due rimasti più
di mezz'ora, giacché in quel luogo si entrava e si usciva,
avendo preso tra le braccia per cinque minuti una donna incognita,
come lungo la strada i carrettieri si arrestano talvolta ad una
bettola e vi bevono un litro in piedi, presso il banco dell'oste.
Anche Camilla doveva spesso aver fatto come le altre, prestandosi
all'amore momentaneo, nel baratto assurdo di un bacio contro uno
scudo, senza piacere, senza pudore, senza memoria. Si ricordano
forse certe cose e certi appuntamenti? Ma se ciò non fosse,
forse la gente impazzirebbe; tutto nella vita ha la propria immagine
falsa, l'amore e la gloria, il vizio e la virtù, e quando il
sangue fermenta improvviso, o l'anima non resiste più alla
visione di sé medesima, si ricorre a queste falsificazioni
come ad un rimedio, che placa il male senza ingannarlo e ci lascia,
nella prostrazione dello sforzo compito, una più pronta
facilità al riposo.
Il suo sguardo frugò rapidamente la strada, che da
quell'angolo del caffè Rondinini saliva parallelamente al
Corso, per vedere se Ponti ritornava, pentendosi già in cuore
di non averlo seguito. Tutto quell'incubo di morte, così
soffocante da venti ore, gli faceva schizzare dalla coscienza un
desiderio acuto, quasi stridente, di gustare anche una volta quel
piacere che, falsato, rimane pur sempre senza confronto con alcun
altro. Perché resistere? Aveva egli paura che gliene fosse
domandato conto dopo la morte? Come quei condannati, cui era tutto
permesso nell'ultimo giorno, e che si sentivano prendere subitamente
da golosità frenetiche, egli avrebbe voluto adesso una donna
a qualunque costo; era quasi un orgoglio di sfida lanciato al
mistero della tomba, un estremo impeto di profanazione contro tutto
quanto stava per abbandonare. Le stesse contraddizioni, delle quali
nel giorno aveva tanto sofferto, gli si mutavano in un bisogno anche
più spasmodico di afferrare per l'ultima volta la vita nel
suo momento più intenso, e spremerla, col superbo sottinteso
della morte, in una sola stretta. Pregustava già una gioia
acre nel constatare l'inintelligenza della donna davanti all'orrore
imminente di tale tragedia, con quella falsità di carezze
sempre uguali nell'amore gratuito o venduto.
Sul marciapiede di contro, rasente all'ultimo gradino della grande
scalinata, in quel momento passò l'Anitra, una donna di
trent'anni, cui il portamento dei fianchi troppo bassi aveva
meritato questo nomignolo: era sola, vestita al solito con una certa
modestia, malgrado il proprio mestiere di etèra plebea.
Si alzò di scatto per seguirla, nessuno gli aveva badato.
Dovette passare attraverso molti gruppi di donne, ma dai loro
sguardi si accorse subito di essere sospettato, perché andava
troppo dritto su quella traccia. Sapeva dove ella abitava: un vicolo
remoto, lercio, dal nome purissimo “Delle Vergini”: ma l'Anitra
rasentò la fontana a sinistra.
Si era accorta di lui.
Allora egli non osò più accelerare il passo, il
pentimento lo ripigliava.
Ella proseguiva adagio, con quel suo pesante ondulamento delle
anche, che si distingueva bene nell'ombra rotta dai fanali. I
capelli neri le facevano un grosso mazzo sulla nuca.
La gente si rarefaceva ancora, lungi dalla piazza, l'ombra
s'infittiva: egli passò sull'altro marciapiede per essere
più libero.
- Perché non la fermo? - si chiese, senza saper rispondere.
Tuttavia quell'orgasmo gli durava, si sentiva battere il cuore, come
altre volte recandosi a qualche convegno passionale; aveva i sensi
irritati e quella leggerezza, che il desiderio della donna sembra
dare a tutto il corpo.
L'altra rivolse la testa.
Egli la riconobbe: il suo viso tondo dalle guance troppo rosse, col
mento quasi da bambina, gli occhietti chiari. Gli parve di
distinguere persino quella riga grassa sotto il collo, la cosa che
più in lei gli era piaciuta.
- Non ha altro lei! Anche Camilla, che cosa aveva di più?
Quando si è eccitati, si farebbero delle pazzie per loro, e
dopo non ne resta niente. Le donne sono tutte uguali: Caterina
getterà qualche urlo, poi non ci penserà più,
come le altre. Gli sciocchi siamo noi, a credere che esse ci amino.
Chi ama? Io stesso, che mi sono rovinato per questo, amo forse
Camilla adesso?
Intanto proseguiva sul marciapiede, sempre alla stessa distanza.
Un uomo fermò l'Anitra, che girò ancora la testa
indietro; egli si arrestò, mentre i due invece seguitavano
innanzi chiacchierando a bassa voce.
Allora svoltò al primo vicolo allungando il passo per
ritornare in piazza. Erano le otto e mezzo. Improvvisamente, tra
quella moltitudine festiva, si ricordò di una biroccia
incontrata nel pomeriggio, lungo la strada di circonvallazione,
dinanzi al nuovo macello. L'aveva guardata con una sensazione di
stupore, poi non ci aveva pensato altro. Era una delle solite
biroccie, verniciate di turchino, dalle ruote alte, tirata da un
grande mulo secco; un vecchio carrettiere senza giacca le veniva di
fianco, con un mozzicone di frusta nelle mani e una pipetta quasi
senza cannuccia fra i denti.
Egli si era dovuto ritrarre sull'orlo del fosso per non lasciarsi
schiacciare, seguendola collo sguardo sino alla svolta della strada,
dove il canale si allarga in una immensa pozzanghera.
La biroccia, colma di stracci e scossa da un triste tremito di
paralisi, pareva tratto tratto stridere lamentosamente sotto il
cumulo delle miserie, che le gonfiavano i fianchi. Gli stracci,
gettati gli uni sugli altri a palate, si confondevano in un colore
sudicio, dentro al quale qualche cosa biancheggiava ancora, un
rimasuglio di candore fra tutte quelle immondizie lasciate indietro
dalla vita, e nullameno raccolte da qualcuno per viverne. Egli aveva
veduto tutto alla prima occhiata, l'aggrovigliamento di quei cenci
tessuti con ogni sorta di fibre, lacerati, sfrangiati, coperti di
macchie e di croste, che ricordavano altre piaghe, esalandone ancora
il puzzo grasso e penetrante. Una polvere cinerea ondeggiava sopra
di essi ad ogni traballone senza potersene staccare, mentre la
massa, scrollandosi con una mollezza di carne in putredine,
rabbrividiva ancora sotto un volo di mosche affamate.
E sopra i suoi fianchi, lievi brandelli riaccendevano tratto tratto
nel sole qualche pallore di lino o luccicore di seta, tosto
soffocato dalla bigia pesantezza degli altri stracci, che si
spostavano senza cadere, come se tutte le loro morti vi si tenessero
avvinghiate. Una fetida nausea di cadaveri veniva da quella bara,
coi segni tuttavia visibili della vita passata, già
fermentante nell'ultima dissoluzione. Tutto lì dentro era
stato nuovo in altri giorni: quante migliaia di gente vi aveva
lasciato il segreto della propria esistenza! Quanto vino, quanto
sudore, quante lacrime, quanto sangue vi erano caduti! Quanti sogni
vi rimanevano ancora, che sparirebbero nella medesima buca!
Dalla camicia della vergine al mantello del soldato, dalla fascia
del bimbo al grembiule del beccaio, dalla veste che tutto un popolo
aveva ammirato, all'abito che l'accattone aveva lasciato solamente
morendo, forse nulla di quanto la vita umana aveva adoperato per
nascondere la propria nudità, mancava in quella bara. Il
pensiero avrebbe potuto frugarvi senza fine, come dentro un
cimitero.
Egli ne aveva ricevuto confusamente questa impressione nella
fugacità di un istante, poi aveva riflettuto che dovevano
essere stracci troppo sordidi per cangiarsi in carta dopo il solito
imbianchimento, e destinati quindi come concime a qualche grassa
coltivazione.
Adesso la visione immonda gli ritornava in piazza come un finale
ironico, che conchiudesse quella festa, trattando allo stesso modo
gli abiti e coloro che li portavano. Infatti la bellezza nella vita
non dura più della primavera nell'anno: uno splendore di
qualche mattino, una purità sorridente di cielo, qualche
dolcezza nei tramonti, poi il sole brucia tutto daccapo, e l'autunno
imputridisce quanto il sole ha bruciato, e l'inverno seppellisce
quanto l'autunno ha imputridito. Quella folla di immemori era attesa
come lui dalla morte a un gomito improvviso della strada: uno per
uno avrebbero provato la stessa angoscia subitanea nel crollo di
tutto il passato, davanti alla impenetrabile oscurità
dell'avvenire. E vi arriverebbero forse peggio di lui, logori,
maculati di putredine come i cenci di quella biroccia, esalando
già prima di morire il fetore della decomposizione
sepolcrale. Forse valeva meglio andarsene così, ancora
intatto, nella pienezza delle proprie forze e del proprio dolore.
La gente condanna i suicidi per dispetto della paura, che questi non
hanno avuto.
Un pensiero bizzarro gli solcò la mente: se la gente,
volendo, potesse non morire mai, vi sarebbero egualmente dei
suicidi? Qualcuno si ammazzerebbe ancora, per odio della vita? Il
problema era troppo profondo nella sua stravaganza, perché
egli potesse trovarne la soluzione, ma vi pensò nondimeno
qualche tempo. Sapeva che le bestie non si suicidavano, pur essendo
esposte a tutti gli stessi mali fisici della umanità. Era
dunque l'anima che anelava alla morte, era la mente che si ribellava
alla inutilità dello spasimo! Infatti la povera gente, quella
che vive più materialmente, non pensa mai al suicidio: non la
fame uccide, ma l'umiliazione di mostrarsi affamato fra la gente
satolla. Chi nacque accattone, mendica per tutta la vita, e trova
forse la felicità in quest'ozio; chi invece è
costretto da un disastro a questuare, non potrà mai perdonare
né a se stesso né agli altri lo strazio di tale
subordinazione.
La sua angoscia in quel momento stava appunto nel sentirsi come un
mendicante fra la folla allegra e spendereccia, che non gli avrebbe
dato un soldo. Essere espulso dal mondo, come sono cacciati i poveri
importuni dalla porta, quando si commise l'errore di lasciarla loro
oltrepassare!
- La carità? - pensava. - Ma, se ci scacciamo l'un l'altro da
tutti i posti, se dovendo tutti morire, la morte degli altri non ci
tocca nemmeno... Dov'è la carità? Anch'essa è
un lusso di certi istanti: si dà qualche cosa, perché
la momentanea gioia di chi riceve aumenta la nostra
giocondità. È come nei pranzi: ci vogliono degli
invitati; ma si amano forse i proprii invitati? Bisogna essere in
molti ad una festa di ballo; ma la soddisfazione di ognuno è
appunto nel primeggiare sugli altri, vedendoli così
segretamente iracondi del piacere loro tolto.
* * *
Sapeva che non vi sarebbe entrato, ma da venti minuti passeggiava
sull'altro marciapiede, dinanzi alla porta della propria casa.
La gente si era diradata anche nella piazza, solo nei due grandi
caffè, più vivamente illuminati, proseguiva la festa
della domenica. Poche donne passeggiavano ancora. Egli si era
diretto verso casa, per abitudine: Caterina doveva aspettarlo e, non
vedendolo comparire, avrebbe certamente pensato che volesse evitare
un nuovo discorso sulla zia Matilde. Lungo la strada notò
molte finestre illuminate; era quella l'ora più dolce, dalle
nove alle nove e mezzo, quando le donne rientravano, e si andava a
cena chiacchierando della giornata, con quella contentezza di non
aver lavorato, e non pensando ancora alle necessità
dell'indomani.
Egli si riproduceva nella mente la scena di Caterina coi fanciulli a
tavola; questi volevano senza dubbio l'altra metà della zuppa
inglese serbata a pranzo per il giorno dopo, mentre ella,
indispettita per la nuova assenza di lui, si ostinava nel rifiuto.
Improvvisamente, questo piccolo dolore dei bambini, prodotto dalla
sua assenza, gli divenne intollerabile.
- La mia assenza! - si ripeté sottolineando questa parola,
della quale si era inconsapevolmente servito.
Caterina era poi andata dalla zia Matilde? Questa domanda lo forzava
a riflettere sull'orario, secondo il quale la posta distribuiva le
lettere; ma si persuase subito che la sua non sarebbe recapitata
prima delle nove, all'indomani. Chi era il postino, che faceva il
servizio per il rione della zia Matilde? Forse essa, riconoscendo la
calligrafia, avrebbe aperto la lettera prima ancora che quegli
avesse potuto uscire di casa: e allora? In un baleno vide tutto il
dramma dopo la propria morte, ma così rapidamente, in una
luce così intensa, che non poté sostenerla.
Camminava senza accorgersene, a testa bassa, con tale fiacchezza,
che qualcuno fra i rari passanti avrebbe necessariamente finito col
notarlo; arrivava dal campanile di San Lorenzo, il più alto
della città, nel mezzo della strada, sino alla barriera. La
notte era stellata, il fiume, ridivenuto quasi secco fino dalla
mattina, non mormorava più come nella notte antecedente; i
primi fanali del borgo illuminavano sinistramente le alte spalliere
del ponte in ferro. A forza di andare su e giù, la coscienza
tornava ad assopirglisi nel ritmo stesso di quell'impulso, ma nel
passare dinanzi alla propria porta alzava sempre gli occhi. Due
finestre v'erano illuminate, quella della saletta da pranzo e,
all'ultimo piano, l'altra della camera da letto di don Procopio. Se
non che la luce filtrando appena di fra le griglie, diventava
impossibile sorprendere nell'interno il passaggio di un'ombra. Si
ricordò dei progetti con Caterina nel primo periodo del
matrimonio per un restauro alla facciata della casa: sarebbe stata
una spesa di quasi duemila lire, alla quale avevano rinunciato senza
fatica. Caterina invece avrebbe desiderato di accomodare qualche
stanza nel podere a Santa Lucia in Vado per potervi villeggiare di
qualche guisa nell'estate. Anche quello era stato un sogno
impossibile. Tutto dileguava, per sempre! Si dovrebbe vendere ogni
cosa dopo, quasi subito, in mezzo a una disperazione piena di
rimproveri contro di lui: eppure egli non ne soffriva più in
quel momento. Come se il grande distacco si fosse già
compito, vedeva tutto a una distanza troppo grande, con quella
indifferenza che ci lasciano le cose impossibili alla nostra
volontà. In lui non sopravviveva che l'abitudine, quel fascio
di rapporti indefinibili, onde l'uomo è legato alla propria
casa, quella incapacità di pensare sé medesimo in modo
diverso dal come si è vissuti, tutte quelle impronte
incancellabili, colle quali la vita compose la nostra fisonomia
spirituale. La casa, con quanto vi stava dentro, era come una parte
di lui stesso.
Il tempo passava.
Quella passeggiata lenta, uguale, aveva finito coll'attrarre
l'attenzione delle due guardie daziarie sedute al fresco fuori della
gabella; si erano alzate e lo spiavano. Allora egli diè volta
bruscamente, ma quando fu al campanile non seppe andare oltre.
Voleva vedere quella finestra ancora una volta.
L'orologio della piazza sonò le dieci e un quarto, il lume
passava sempre attraverso le griglie: allora si ricordò che
Caterina soleva spesso la sera ripassare la lezione dell'indomani a
Ada.
- Finché c'è il lume non me ne vado, - borbottò
ostinatamente.
Ma le guardie si erano messe a passeggiare, e venivano verso di lui:
dovette tornare indietro. Per un momento pensò di salire con
un pretesto, salutare tutti e scappare; titubava, si sentiva
affranto.
Ritornò ancora, ma siccome le guardie stavano ferme in mezzo
alla strada, a quaranta passi dalla gabella, fumando, si persuase di
essere sorvegliato. Quasi ciò potesse distogliere i sospetti,
traversò la strada per venire sull'altro marciapiede,
volgendo daccapo la schiena alla propria casa.
Poi un passo sollecito gli risuonò dietro.
- Oh tu, Romani!
- Tu, Landi?
- Esci di casa?
- Sì.
- Io non ho potuto cenare a casa mia: un'altra scena con quella
linguaccia di mia moglie! Vado al Falcone, accompagnami.
* * *
Aveva già bevuto due ponci, seduto all'ultimo tavolino di
sinistra nella prima sala, col gomito appoggiato sulla cassa di
vetro, nella quale si conservavano le paste.
Gaudenzi, l'impiegato del telegrafo, non si era ancora veduto,
l'avv. Guglielmi doveva essere al club, quel vecchio maestro
chiacchierino giocava nell'altra sala, e s'udiva spesso la sua voce
in falsetto salire fra scoppi di risa.
Una malinconia fredda gli era penetrata sino dentro le carni, come
certe umidità notturne, contro le quali non sembra giovare
alcuna bontà di panni. Nel caffè, pieno degl'insoliti
avventori domenicali, il chiasso cresceva più villano; erano
gruppi di artieri in gazzarra dal pomeriggio, vestiti con
pretensiosità plebea, dalle faccie inintelligenti e vanitose.
Quasi tutti portavano un piccolo cappello a cencio sull'orecchio, e
tentavano sui divani o sugli sgabelli la posa più provocante,
giacché pareva loro una specie di conquista quel bere ai
tavoli, dove per solito sedevano i signori. Nei loro discorsi, quasi
tutti di politica, ritornava sempre la stessa frase con voce sempre
più alta, o con accento più marcato, mentre in fondo
ai loro sguardi vaghi nel primo imbambolimento dell'ebbrezza,
s'accendevano piccole fiamme. E i più irrequieti si
guardavano intorno, cercando qualcuno dall'aspetto signorile per la
compiacenza di potersi momentaneamente, davanti a lui, mostrare in
una ostilità mimica.
Egli vedeva tutto questo senza che alcuno gli badasse, perché
non era mai stato veramente un signore.
Colla testa abbandonata sull'alta spalliera rossa del divano, una
mano in tasca, osservava i cerchi di fumo turchiniccio allontanarsi,
dilatandosi lievemente dalla punta dello zigaro, nell'aria
già greve di tutti quegli aliti.
Al momento di entrare sotto il loggiato aveva rivolto la testa verso
il grande orologio della piazza, illuminato: segnava le dieci e
mezzo. Le ore, così lente nel giorno, si erano tuttavia
involate con una rapidità raccapricciante.
Si tastò la rivoltella nella tasca sinistra della giacca,
pensando un'altra volta, con un senso d'impazienza, come non avesse
incontrato né lo strozzino, né il signor Bonoli,
né il pretore, che dovevano conoscere il suo dramma. Credeva
che la loro vista sarebbe bastata a raddoppiargli l'energia, almeno
per quella necessità d'ingannarli sino all'ultimo col
fingersi indifferente.
Invece, per tutta quella lunga giornata, nulla era venuto ad
aiutarlo: aveva recitato troppo bene dissimulando.
La sua fine doveva compiersi come per qualunque altra malattia,
senza né ricevere né dare ad altri alcuna insolita
emozione. Perché? A che cosa serve la morte? Perché
era nato? Se non vi erano perché, tale infinita
inutilità diventava il più profondo dei misteri. Nel
bisogno di scostarsi dall'ultimo momento, il suo pensiero fluttuava
daccapo all'urto delle sensazioni, che gli si rinnovavano nella
memoria. Il babbo e la mamma, pieni per lui di tenerezza, lo avevano
allevato in un bel sogno di avvenire, addormentandosi per sempre
nella tristezza sconsolata di una disillusione finale; egli aveva
amato i proprii bambini, rifacendo sopra di essi il medesimo sogno.
Perché? Questa parola lo sbalzava da un altro lato; Camilla
era passata una sera dinanzi a lui, si erano parlati, egli aveva
provato un rimescolamento profondo, non aveva capito più
bene, si era rovinato per lei senza accorgersene, e senza che ella
se ne accorgesse. Perché? Lo strozzino, d'accordo col signor
Bonoli, aveva portato la sua cambiale falsa al pretore: volevano
mandarlo in galera? Volevano costringerlo al suicidio?
Perché? Che cosa importava loro? Era così. Tutte le
vite si rompono come bicchieri l'uno contro l'altro, senza che
alcuno abbia mai potuto leggervi la marca di fabbrica, o indovinare
chi verrà a raccoglierne i cocci.
Solamente allora si accorgeva di aver sempre agito senza un
perché; tutta la sua esistenza non aveva un solo atto
necessario, che la spiegasse, all'infuori dell'avere mangiato e
dormito, due bisogni istintivi per mantenerla.
Il resto rimaneva inesplicabile. Camilla e Caterina erano entrate
nella sua vita quasi allo stesso modo, egli non aveva riflettuto in
nessuno dei due casi; era diventato padre così, perché
le donne rimangono gravide, ecco tutto, e aveva allevato i figli per
un altro istinto. Gli affari, i divertimenti dipendevano sempre
dalle circostanze, anche quando si voleva combinarli con ogni studio
possibile: perché dunque si pensava e si soffriva tanto? La
sua mente ritornava alle meditazioni della mattina su quell'argine
del fiume, nel silenzio della campagna, con un nuovo terrore degli
stessi problemi. Ma invece di domandarsi se Dio era, e come ci
giudicherebbe nel momento dopo la morte, si sentiva sopraffare dal
mistero primordiale della vita.
La nozione, per lui oscura ed inevitabile, di un creatore, non
faceva che rendere ancora più inintelligibile il quesito:
perché si nasce? Anche se Dio esistesse, e dovesse punirci o
premiarci dopo morti, la ragione di averci voluto in questo mondo
non si vedeva. Se egli era Dio, che cosa poteva importargli di noi?
La nostra vita non spiegava sé medesima, mentre l'antagonismo
fra la sua legge e la nostra volontà, per lui che ne doveva
sapere anticipatamente il risultato, diventava una ridicolaggine.
Che bisogno c'era di nascere, per dover pensar sempre senza capire
nulla di nulla, soffrirne di tutte le sorta, e morire non avendo
compito niente? Essendo cattivi, aggraviamo l'uno contro l'altro le
nostre disgrazie, essendo buoni, ci aiutiamo scambievolmente contro
il male che non abbiamo fatto, ma che ci tocca patire ad ogni modo.
E davanti a questa tenebrosa fatalità del male, che si varia
nella vita per tutta la gamma del dolore, dalla più lieve
fitta corporea alla più larga lacerazione spirituale, egli
tornava sempre a chiedersi, con l'insistenza spaventata di un
bambino: perché si nasce? Un terrore fantastico gli faceva
pensare a qualche potere mostruoso, che dirigesse il mondo e vi
rinnovasse continuamente tutte le crudeli necessità:
così i viventi dovevano divorarsi a vicenda per mangiare, e
straziarsi l'un l'altro per godere. Infatti, non vi era gioia nella
società, che non fosse un dolore per qualcuno; non nasceva
nel mondo un individuo, senza essere composto coi resti di altri
morti, non si poteva respirare, senza uccidere milioni di microbi,
senza inghiottirne altri milioni, che dovevano ucciderci. La legge
suprema era dunque la morte: nessuno vi sfuggiva, nessuno aveva
torto o ragione davanti ad essa. L'immaginazione esaltata da quella
crisi troppo lunga, gli si smarriva in una continua evanescenza di
quadri orribili, che mettevano in quel suo sonnambulismo una specie
di incubo.
La sua faccia era diventata bianca, cogli occhi fissi, mentre il
chiasso delle voci e il tinnìo dei bicchieri nelle sottocoppe
e nei bacili cresceva sempre da tutti i tavoli.
- Ho qualche cosa sullo stomaco, portami un bicchierino di cognac, -
disse.
Il cameriere si affrettò sorridendo; il padrone, bell'uomo,
già cameriere nello stesso caffè pochi anni prima, si
accostò fumando in una elegante pipa di schiuma, a testa di
cavallo.
- Che cosa ha mangiato, signor Romani? - gli chiese cortesemente.
- Non lo so neppur io.
- Forse dipende anche da tutta questa gente! - l'altro soggiunse a
bassa voce, girando intorno un'occhiata di disprezzo.
Si era seduto famigliarmente sopra uno sgabello accanto a lui.
- Questa sera la sua partita è andata a monte. Ha letto la
nuova appendice del Secolo ? - e si allungò per prendere dal
banco un fascio di giornali: - a me pare bella assai.
Romani rimaneva distratto.
- Ecco Montalti! - esclamò il padrone, vedendo entrare quello
scrivano storpio, che venne diritto al loro tavolo; poi
capitò Cavina, il muratore wagneriano; Rotoli, il vecchio
maestro chiacchierino, che aveva finito la partita nell'altra sala,
si fermò anch'esso dinanzi a loro.
Era quasi la stessa conversazione di tutte le altre sere.
Il padrone ricominciò il discorso sul nuovo romanzo del
Secolo - Idillio tragico –di Bourget, spiegando come gli paresse
bello, perché Montecarlo vi era dipinto colla massima
esattezza. Egli vi era stato, da giovane, nelle proprie
peregrinazioni di cameriere. Ma lo scrivano, socialista malcontento,
protestò: quello era un romanzo aristocratico, buono a nulla,
giacché gli scrittori di vero ingegno non potevano occuparsi
che delle miserie popolari.
- Ho letto anch'io qualche appendice di questo nuovo romanzo del
Bourget, - e pronunziò il nome come era scritto.
Allora Cavina lo corresse, corsero frizzi.
- Tu sei un wagneriano.
- E me ne vanto.
- Wagner era socialista.
- Va! se daranno il Lohengrin in carnevale, vedrai quanto popolo vi
andrà, - ribatté l'altro, che intanto aveva preso il
Secolo per leggere le notizie dei teatri.
Fortunatamente nessuno di loro si sentiva in vena quella sera, poi
vi era troppa gente nel caffè, e Montalti davanti alla
brutalità di quelle sbornie, che stavano già per
scoppiare, non osava i soliti sproloquii. La voce fessa e la
sillabazione troppo staccata e monotona, colla quale declamava, gli
avrebbero attirato dal pubblico qualche villana interruzione.
Si misero a parlare di donne: anche Cavina quella sera era stato in
casa della Marietta.
- La ragazza era bella? - chiese Montalti con un luccicore di gatto
negli occhi.
- C'è ancora, parte col diretto di un'ora dopo mezzanotte.
Romani si voltò: - E dove va quel treno?
- Bella! a Bologna.
Rimase perplesso:
- Ci sono altri treni?
- Prima di giorno? Quello che da Bologna ritorna per Ancona alle
tre, e l'altro che arriva da Ancona verso le quattro e mezzo,
perché rimane ancora impedita la linea di Porretta.
- Ah!
- Deve partire, signor Romani? - gli si volse il padrone.
- Sì, - e la voce gli si era fatta quasi dolce.
- Dove vai? - domandò Cavina.
- Non lo so.
- Un mistero dunque?
- Grande.
Tutti sorrisero.
Ma il baccano domenicale li teneva in disagio. Lo scrivano, malgrado
le declamazioni socialiste, sapeva di essere poco gradito; Cavina
era sospettato di aristocrazia per i modi abbastanza garbati e
quella istintiva predilezione della grande arte, che lo traeva
imprudentemente a ridere delle commedie e delle musiche gustate dal
popolino; il vecchio maestro, benché simpatico per la dolce
ingenuità del carattere e l'onestà della lunga vita,
s'irritava troppo, nella lieta viridezza di tutte le proprie forze,
contro ogni critica alla parte moderata. Egli era rimasto dentro la
formula cavourriana, condannando ad alta voce tutti gli eccessi
politici e le demenze atee dei nuovi rivoluzionari.
- Eh, maestro! - esclamò Cavina; - ecco qui altri due
suicidii a Torino; non c'è più religione.
- Voi lo dite per ischerzo, giovinastro.
- Come si sono ammazzati? - domandò Romani.
- Uno si è avvelenato, l'altro si è gettato sotto il
treno.
E Cavina lesse i due incisi di cronaca, secchi, terribili.
- I giornali non dovrebbero nemmeno stampare certi fatti, - disse il
maestro: - le teste leggere si esaltano e, una volta esaltate, li
commettono più facilmente.
- Allora io sono una testa pesante. Possono raccontarne dei
suicidii, io non mi suiciderò mai, - replicò Cavina.
- Chi può dirlo? - ribatté Romani.
- Io! Stai pur sicuro. Ammazzarsi per amore o per debiti,
giacché la gente si ammazza quasi sempre per queste due
cause? Per amore? Se una donna non ti vuole, ve ne sono sempre
troppe disposte a prenderti; e quanto ai debiti, aspetterò
che si ammazzino prima i creditori. Se io non ho quattrini per
pagarli, mi pare che nell'imbarazzo ci siano essi.
Si rise.
Romani non rispose.
- La gente si ammazza, perché la società è in
isquilibrio, - sentenziò Montalti.
- Si è sempre ammazzata in tutti i tempi, dev'essere una
malattia.
- Colpa di non credere in Dio; la nostra vita ha il suo scopo
altrove.
- Quale? - domandò Romani al maestro.
- Quale? - ripeterono ad una voce Cavina e Montalti.
- Dio..., - cominciò il maestro.
- Non deve aver parlato molto chiaro, - interruppe sorridendo il
padrone, - perché si discute ancora su quello che ha detto.
Fatto sta che, quando la gente sta male, se ne va; non c'è
altro di evidente. Nessuno può dire che non si
ammazzerà... le circostanze sono tante!
Tutti si arrestarono perché, pochi mesi prima, l'altro suo
socio nel caffè si era appunto suicidato con un colpo di
rivoltella alla tempia destra.
Però Montalti, che voleva sempre dire l'ultima parola
scientifica, propose il problema:
- Quale categoria di persone dà minor contingente al
suicidio?
- I preti, perché stanno meglio di tutti, - si
affrettò a rispondere il padrone.
- I milionari, - ribatté Montalti, con quell'acre accento
d'invidia, proprio a quasi tutti i socialisti quando parlano di
signori.
- T'inganni; c'era appunto venerdì sul Secolo un articolo,
non ricordo più di quale scienziato, che spiegava come le
probabilità del suicidio aumentino in ragione della
ricchezza.
- Non può esser vero, - si ostinò Montalti.
- Lei, maestro? - tagliò corto il padrone.
- Coloro che non sentono più la religione.
- Lo sapevo...
Romani doveva dire ancora la sua, ma dal tavolo prossimo due o tre
operai si erano voltati, udendo il quesito, ed ascoltavano le
risposte.
Uno proruppe:
- Lo dico io: i beccamorti! essi sanno meglio degli altri che la
morte è brutta: la morte è come una donna, ma
finché non ci pare bella, non commettiamo la sciocchezza di
sposarla.
- Bene! - fu gridato in coro.
- Un bicchierino a Matteo!
- Questo voglio offrirlo io, - disse il padrone alzandosi: - mi sei
piaciuto nella risposta.
* * *
Guardava il grande orologio nero fra le due scansie gialle, al
disopra della porta.
Gli altri se n'erano andati in gruppo, e a poco a poco quasi tutti i
tavolini erano rimasti deserti, mentre l'aria della notte, entrando
leggera dalla bussola spalancata sul portico, spazzava i vapori dei
ponci e dei sigari. Dal fondo della cucina giungeva, tratto tratto,
un tintinno dei bacili e dei bicchieri, che il facchino lavava forse
per la centesima volta nella giornata.
Collo sguardo fisso sul quadrante dell'orologio, egli misurava il
muoversi lento della grande freccia, che segnava i minuti; ne
mancavano undici a mezzanotte.
A quell'ora in punto uscirebbe dal caffè.
Il sangue gli batteva a grosse ondate sul cervello, facendogli
vacillare la vista. Adesso era quella paura materiale, che i nervi
non possono più sopportare nella estrema imminenza della
catastrofe, quando il pericolo cessa oramai di esser tale per il
compiersi stesso del fatto. Non c'era più tempo di
riflettere, di soffrire: fra pochi minuti sarebbe entrato
nell'orbita della esecuzione. Quindi tutto quanto aveva patito nel
giorno gli si condensava in uno spasimo solo, attanagliandogli ogni
fibra del corpo e dell'anima; sentiva, dentro, un incalzare di
sensazioni, una ressa di idee, uno sbaraglio di memorie, come quando
un falco piomba sopra una nidiata di pulcini e ne ghermisce uno a
volo, risalendo al cielo con un solo colpo d'ala, e tutti gli altri
si sbandano esterrefatti fra le erbe alte del campo.
Il suo sguardo era diventato così acuto, che distingueva
veramente quel minimo spostarsi a gradi delle frecce. Tutta la sua
vita stava ancora in quel piccolo segmento, interrotto dalle cifre
nere e madreperlate del X e del XI, due spazi che si sarebbero
riempiti con due dita. Non aveva altro. Avrebbero potuto offrirgli
chi sa che cosa, e non sarebbe bastato ad allungargli di un altro
dito la vita.
Il padrone era tornato dietro il banco, e si era messo a contare dei
soldi da una scodella di legno.
Romani pensava:
- Non ho più che otto minuti. La freccia gira senza sapere il
perché, ma se sbagliasse, il tempo passerebbe egualmente
nella stessa misura: non si può fermarlo. Ecco qui, questi
ultimi otto minuti sono inutili, vuoti, come tutto il resto della
mia esistenza! Che cosa posso fare? Rimango qui, non mi muovo,
eppure il tempo mi trascina. Debbo finire prima di essere logorato:
quando l'orologio si ferma, è forse logoro? Finirò
così; una ruota che s'incaglia, e la freccia si ferma. Anche
la vita è un circolo come quello dell'orologio: tutte le ore
sono identiche, non significano nulla; il tempo non è
soggetto all'orologio, più che la vita non dipende da noi.
Potrei essere il più potente uomo del mondo, e tutta la mia
volontà non saprebbe da questo posto arrestare quella
freccia, che va sempre... È già passato un altro
minuto. Debbo essere pronto.
Si portò ambo le mani al volto, strofinandoselo violentemente
come per destarsi.
Nel caffè entrò un altro gruppo d'operai, più
avvinazzati di quelli che n'erano usciti, ma per fortuna si
fermarono in fondo agli ultimi due tavolini presso la bussola. Vide
il padrone uscire dal banco e passargli dinanzi per servire
prontamente i nuovi avventori, perché i camerieri erano in
quel momento nel retrobottega.
- Debbo decidermi!
Non capiva che questo, la necessità ultima, la stretta
suprema, senza nome, nella quale già soffocava. Tutto il
resto non esisteva più. La febbre gli faceva battere i polsi,
tremava in quell'incertezza dello smarrimento finale, che toglie
tutte le direzioni, pur sentendosi nel profondo certi impeti, simili
ai guizzi della candela che si spegne.
Aveva appoggiato la testa sopra ambo le mani, per non guardare
più l'orologio; gli pareva di ascoltarlo, benché non
l'udisse.
- Appena mi alzo di qui, sarò morto! Caterina, i miei bambini
saranno già altre persone; adesso sono ancora mia moglie e i
miei bambini... per cinque minuti. Poi, più nulla. Non
c'è altro. Ho fatto il possibile inutilmente; quella prima
cena all'Aquila d'oro mi ha ammazzato, mi ha ammazzato quella donna,
che non ho amato; non la conosco nemmeno, adesso, ella non mi
conosce più. Domani ci sarà ancora il sole, senza di
me. Non ho più che due o tre minuti... È impossibile,
sento che è impossibile, non avrò mai il coraggio di
uccidermi!
Non lo aveva: la testa gli pesava sempre più sulle mani, come
una cosa morta.
Si tastò ancora la rivoltella nella tasca.
- Con questa, no.
* * *
Il medesimo gruppo, dal quale Matteo si era voltato per dare
anch'egli la propria soluzione al problema proposto da Montalti,
rientrò vociando nel caffè; erano stati a bere nella
liquoreria sotto il campanile della piazza, e ritornavano per bere.
Parve che vedendolo ancora a quel posto, si decidessero
unanimemente, senza consultarsi, con una di quelle intese da
ubbriachi, a gettarsi sul suo tavolo. Egli spaventato si
alzò. In un lampo aveva veduto sulla faccia di Matteo,
invanito di quella prima risposta, l'intenzione di riparlarne; si
voltò verso il banco, ma era già tardi. Il gruppo lo
circondava; avevano gli occhi imbambolati, e sui volti madidi quella
espressione vaga di spavalderia ostile.
Il padrone ripassò dietro il banco, mentre uno dei più
briachi cadeva quasi di peso sopra uno sgabello borbottando:
- Cognac!
- Beva un bicchierino con noi, signor Romani; ho risposto bene poco
fa, non è vero?
- Mi sei piaciuto, Matteo, - tornò a dirgli il padrone con
accento di sottile canzonatura: - bisogna bere per trovare simili
risposte.
- Adesso vogliamo bere tutti insieme; anche lei, signor Romani.
In quel momento Romani vide le freccie dell'orologio sovrapporsi
segnando mezzanotte; così in piedi, n'ebbe come un colpo di
martello sul cuore, ma avvertiva ancora benissimo quanto gli
accadeva intorno. Senza rispondere, fece atto di andarsene.
- Questo poi no, - insisté un compagno di Matteo, mentre il
padrone diceva:
- Se ne va, signor Romani?
- Addio, Enrico! - rispose questi tendendogli la mano.
L'accento e la forma del saluto erano così insoliti, che
l'altro ne rimase sorpreso, però fu pronto a stringergliela.
Romani si mosse: allora Matteo volle sbarrargli la via, ma l'altro
lo respinse con un gesto. Si alzò un mormorio di
disapprovazione.
- Va là, - uno gli gridò dietro, - che anche tu sei un
bel signore, per fare così l'aristocratico!
Il padrone, invece, gli teneva dietro con occhio pensoso, avendo
sentito la sua mano tutta bagnata di un sudore diaccio.
* * *
Romani traversò il portico con passo tentennante, e si
fermò nel largo, davanti alla fontana. La notte era sempre
bruna, ma piena di stelle, i fanali avevano un chiarore pallido,
velato, come il murmure della fontana chiusa entro quella funerea
cancellata a palle di ottone.
- No! - rispose ad un pensiero, che lo avrebbe condotto a porta
Appia, passando ancora una volta sotto le finestre di casa.
Pel loggiato, e per quel largo, non si vedeva alcuno; abbassò
la testa, e si avviò verso il corso Garibaldi, che conduceva
difilato alla vecchia stazione ferroviaria. Una forza oscura lo
spingeva in linea retta, come una cosa, mentre la sua mente
acquistava, grado a grado, una certa lucidità: come sempre,
la fascinazione della meta lo aveva preso, appena entrato
nell'orbita della esecuzione, eccitandogli quel coraggio fisico
proprio degli animali. Nella luce opaca della notte le case
perdevano i piccoli particolari delle proprie fisonomie, le
sonorità anche più lievi sembravano attardarsi
nell'aria. Egli sentiva solo di andare, appoggiandosi come sulla
sensazione medesima del proprio passo sul marciapiede, così
che, nel passare dinanzi ad ogni porta, l'interruzione del muro gli
faceva un'impressione meno rapida e tuttavia lontanamente simile a
quella degli alberi fuggenti agli sportelli dei vagoni, quando il
treno corre veloce. Prima di arrivare alla grande barriera
fiancheggiata da due casotti giallognoli, rigati e rabescati come
due grandi gabbie da canarino, verdeggiava sul piazzale di una
chiesa un piccolo giardino dominato da un alto abete storpio alla
cima. Il getto esile della fontana, sprizzante da un sasso e
ricadente sopra una minima vasca, sembrava un singulto di bambino
nella notte: un ranocchio mise uno strido gutturale e tacque subito.
Nessuna finestra era illuminata.
Il cancello della barriera apparve alto, massiccio, coi lampioni
sulle due grosse colonne centrali; al di fuori nereggiavano i tigli
dei due viali fra le case del sobborgo.
Egli vide da lontano la guardia passeggiare, fumando uno zigaro,
dinanzi alla gabella; nella notte nessun rumore, nessun incontro.
La guardia gli aperse colla chiave il piccolo cancello a sinistra,
pel quale passavano i pedoni, e rinchiuse. Egli ne risentì la
scossa, l'ultima che gli dava la città; piegò a
sinistra per la via di circonvallazione, lungo il canale
fiancheggiato da due alte file di pioppi bruni, ombrelliferi. L'aria
era più fresca, il silenzio diverso: cori di ranocchi si
rispondevano a distanza nella notte, passavano dei brividi
nell'aria, qualche fronda dormendo pareva percossa da un'ala
fuggente, un odore di terra e di verde saliva da per tutto.
Egli allentò il passo.
Sapeva che avrebbe preso per la scorciatoia del Borghetto, prima
d'arrivare al nuovo macello, per salire l'argine sinistro del fiume,
presso al grande ponte della ferrovia. La distanza dalla barriera al
Borghetto era breve; sulla sinistra sorgevano alcune case nuove di
fabbri, di falegnami, di piccoli bottegai, il commercio dei quali
viveva appunto non pagando dazio. Egli andava sempre innanzi spinto
da quella forza oscura, che in noi sembra sostituire la
volontà, quando questa non è più sufficiente a
dirigere la vita. Il sonno della campagna era però meno
profondo che quello della città: le piante sognavano, e la
loro respirazione e i loro fremiti turbavano l'aria; miriadi
d'insetti, amanti o lavoratori notturni, vi si muovevano, la terra
medesima non aveva quella insensibilità dei selciati e dei
marciapiedi.
I suoi occhi perdevano la fissità atonica, la frescura
tornava a vivificargli la pelle.
Improvvisamente gli apparve davanti la vasta pozza, nella quale si
allargava il canale, immota come un grande antico specchio
appannato; le due righe dei pioppi nascondevano le mura della
città. Il Borghetto, formato da un solo vicolo, aveva un
unico fanale in fondo: vi passò. La strada, pessimamente
selciata, sfiancava, avvallando, per un sentiero fra un'alta siepe e
un ruscello, poco più largo di un fosso. Odori immondi e
penetranti crescevano appunto dove finivano le case.
Dovette badare al come poneva i piedi per non cadere; l'argine
s'alzava di contro. La sua linea, biancheggiante pel sentiero che le
orme vi avevano impresso e che l'erba orlava scuramente, spiccava
nello sfondo dell'aria, simile ad una larga striscia d'argento.
Quando vi fu salito, abbassò gli occhi sul fiume vacuo, del
quale i grandi archi del ponte in pietra e laggiù la
spalliera dell'altro in ferro nascondevano le estremità,
quindi si volse contro le mura. Solo la chiesa di sant'Ippolito col
suo campanile, e l'altro di san Lorenzo e quello della piazza si
distinguevano bene: il resto era una massa cupa, incerta,
nell'ombra.
Egli n'era già fuori per sempre.
E allora gli parve, stando fermo, che la città si
allontanasse, oscillando lentamente dinanzi a lui.
* * *
La notte era bruna.
Nell'aria vagavano sentori di foglie e quell'indefinibile aroma, che
la terra fecondata sembra alitare nel maggio: l'erba era umida, le
stelle brillavano sul silenzio notturno pieno di sussurri. Dentro al
fiume larghe pozzanghere s'illuminavano tratto tratto di tenui
chiarori, mentre laggiù, sul ponte di ferro, i lampioni
parevano contigui, e più lontano l'ombra oscillava. Oltre gli
argini del fiume non si coglieva che un avvallamento della tenebra
in una invisibile profondità, dalla quale si sentivano salire
le preoccupazioni terrifiche della notte. Le linee del paesaggio,
circoscritto dagli argini e dai ponti, si confondevano oscuramente,
pur serbando lo stesso aspetto regolare intorno a quella
cavità del fiume, rimasto senz'acqua e senza voce. Non si
vedevano case: solo il ponte della ferrovia aveva un biancicore
roseo di muro, sulla cima del quale fantasticamente alto, guardava
nella notte il grande occhio rosso del disco.
Egli vi si incantò.
La colonna di ferro sotto il disco si distingueva appena,
giacché il piano della ferrovia, sfuggendo dai parapetti del
ponte, vaniva esso pure dinanzi a quella enorme pupilla rossa senza
una oscillazione. Così ebbe daccapo paura: i fanali lontani
dell'altro ponte in ferro sparivano nella loro chiarezza come dentro
un bagliore, mentre quel rotondo occhio rosso non illuminava, e
vedeva e doveva essere visto ad un'immensa distanza, come una scolta
ciclopica sulla ferrovia deserta nella notte.
Era rimasto in piedi, inchiodato sul sentiero biancastro.
Dal ruscello, che per una larga chiavica passando sotto l'argine
sboccava nel fiume, la nota tremula di un rospo s'interruppe
timidamente; gruppi lontani di ranocchi gracidavano con violenza,
coprendo un vocìo sottile di grilli, che si confondeva
d'intorno. Dopo aver guardato da ogni canto si voltò ancora
verso la città; dietro la sua lunga massa, bruna come una
scogliera di notte, pallidi chiarori sembravano uscire da invisibili
cavità; ma non pensò più che egli era vissuto
là dentro per trentasei anni. Solamente guardava.
* * *
Sul ponte della ferrovia il casello del guardiano era illuminato;
egli strisciò guardingamente lungo il parapetto pel sentiero
lasciato dall'alta ghiaia, sulla quale poggiavano le rotaie,
affrettando il passo per non lasciarsi sorprendere, giacché
si ricordava come fosse severamente proibito di transitare per le
linee della ferrovia. Non sapeva se il guardiano avrebbe fatto la
ronda d'ispezione prima dell'arrivo del treno, ma quel divieto
bastava in tale momento a fargli paura. La strada ferrata si
allungava dinanzi a lui dritta, piana, nera, con quei due regoli
sottili, in una uniformità e in un silenzio inesprimibile:
nessuna traccia, nessun suono, nessun segno. Aveva voltato la
schiena al disco, e scorgeva dinanzi a sé per cento metri un
filo luminoso sulla costola interna delle rotaie; null'altro. Quel
piano troppo stretto gli limitava la vista, mentre una impressione
gelida gli veniva da quelle due rotaie inamovibili, che non si
sarebbero toccate mai.
Di qua e di là della strada i campi bassi s'affondavano in
un'ombra più densa, dentro la quale si distinguevano appena i
ciuffi dei primi grandi alberi.
Ma i suoi occhi guardavano sempre sulle rotaie quel tenue filo
luminoso, che sembrava avanzare con lui. Finalmente era solo. A
quell'ora, in quel luogo, per quella strada non passava alcuno;
sentì di non essersi mai trovato in una solitudine simile.
Vedeva la ghiaia tersa, quasi vi fosse stata posta da poco tempo, e
le rotaie luccicargli dinanzi, brunite.
Quindi si ricordò di esservi trascorso in vagone molte volte,
di notte e di giorno, senza prestarvi attenzione: chi guarda alla
ferrovia? Gli occhi sfuggono sul paesaggio che scompare. Adesso
invece la solitudine di quella strada, così diversa da tutte
le altre, l'opprimeva. Si fermò al quinto palo del telegrafo,
volgendosi indietro, verso la stazione. Incontrò il grande
occhio rosso del disco fiso sopra di lui, e laggiù un
riverbero largo d'incendio prossimo a spegnersi gl'indicò il
luogo della stazione. Pareva molto più lontano che non fosse.
D'un tratto, nel silenzio della notte, udì il grosso orologio
di sant'Ippolito battere le ore dal campanile; le contò
rattenendo il respiro.
- Due quarti dopo mezzanotte, - esclamò voltandosi
istintivamente verso Forlì, donde doveva giungere il treno.
* * *
Dall'altro lato della strada un'ombra passò con una lanterna
nella mano; istintivamente egli girò dietro il palo del
telegrafo, abbracciandovisi per non scivolare dall'alta ripa, e
tenne il fiato. La lanterna nell'allontanarsi lentamente allungava
un riverbero oscillante sulla vicina rotaia, si udiva la ghiaia
stridere sotto un passo pesante.
Era la ronda del guardiano; dal fondo della notte doveva presto
spuntare la prima luce del treno.
Il guardiano vigilava, secondo il solito, quel tratto di linea di
là del ponte, perché non vi accadessero disgrazie; a
un certo punto la lanterna di un altro guardiano avrebbe risposto
alla sua, e il disco muterebbe il proprio rosso ardente in un vivido
color verde. Romani sapeva tutto questo, giacché in una bella
notte d'estate, l'anno prima, se lo era fatto spiegare dal guardiano
sul ponte, ove aveva fatto sosta con alcuni amici. Quella notte gli
risorse nella mente coi più minuti particolari; si
ricordò dell'immenso soprabito biancastro, una meraviglia fra
gli eleganti del paese, che allora portava Mario Angelini. Anche
questi era morto.
Ma una paura lo tenne nascosto, così abbracciato al palo,
togliendogli ogni facoltà di ragionare; aveva pensato che il
guardiano nella propria ronda potesse passare dal suo lato, e allora
scoprendolo gli avrebbe necessariamente intimato di andarsene.
Che cosa rispondere in questo caso? Avrebbe l'altro indovinato il
vero motivo?
Il palo ogni tanto vibrava, percosso da tremiti improvvisi. Era un
dispaccio che passava irresistibile, invisibile sul filo, o una
oscillazione, che questo, mosso dall'aria della notte, imprimeva al
palo? La sua attenzione rimase per qualche tempo divisa fra il
brontolio interno del palo e il luccicore saltellante della lanterna
già molto lontana.
- Ritornerà dal mio lato?
Lo credette istantaneamente, quindi svegliandosi come da un sogno,
che quel ritorno avesse già rotto, si disse:
- Me ne vado.
Nuovamente tutto dipendeva da questo caso. Un'angoscia di speranza
lo soffocò, accorgendosi della vivezza dei raggi che la
lanterna retrocedeva; sarebbe bastato che un suo bagliore
traversasse la strada e gli battesse sul viso ad impedire la
disgrazia, per la quale appunto si ordinavano le ronde.
La lanterna si avvicinava sempre.
Allora tornò a tremare di essere scoperto, ma, per una
reazione quasi di collera contro sé medesimo, si mise di
sbieco, perché lo spessore del palo lo nascondesse meglio.
Voltandosi, laggiù, vide una luce.
* * *
Era il treno, ma non era ancora che una fiammella misteriosa nella
notte.
Pareva immobile, tutto rimaneva immoto intorno, il guardiano era
scomparso dentro il casello: nel silenzio tranquillo dell'aria non
un soffio, il fiume taceva.
Un brivido del palo gli passò per tutto il corpo facendolo
tremare a verga a verga, mentre, laggiù, quella fiammella
rimaneva sempre così piccola e ferma.
Un impeto freddo gli raggomitolò l'anima in uno di quei
terrori sùbiti, senza nome, dei sogni.
E strinse violentemente il palo guardando.
La fiamma appariva rossastra come in un'aureola, entro la quale
pareva di scorgere le larghe maglie tremule di una rete nera. La sua
immaginazione si rappresentò subito la marcia rapida,
folgorante, del treno apparentemente fermo per la sua stessa
velocità, con quei due immensi occhi di fuoco, che gli
rischiaravano la strada. Veniva da lungi, andava lungi, nero,
veloce, misterioso, fatale. Nulla poteva arrestarlo; il suo respiro
era mostruoso; ansava, soffiava fumo senza perdere la lena, senza
spossarsi nel palpito enorme, scivolando sulle rotaie che tremavano,
sfondando la notte inconsapevole. Non aveva meta, si arrestava,
ripartiva; la gente spariva nei suoi vagoni neri, tappezzati
all'interno come stanze, vi si obliava chiacchierando, in una fede
sicura al mostro immane, che non aveva mai saputo nulla e non
saprebbe mai nulla di coloro, che viaggiavano nel suo ventre. Di
giorno e di notte, in qualunque stagione, sotto il sole, sotto la
pioggia, sulla neve, andava sempre; il suo tremito diventava
più profondo traversando i ponti, il suo respiro si faceva
asmatico sotto i tunnels, dai quali prorompeva con un fischio
trionfale d'ironia avventandosi giù per le valli, e non di
meno ubbidendo docile alla mano, che gl'imponeva di rallentarsi
dinanzi alle prime case di un villaggio.
Era la forza stessa del sole diventato carbone, che si sprigionava
daccapo in un altro fuoco; era la giovinezza eterna del moto, che
crea tutte le giovinezze.
Si ricordò la frase invidiosa di don Procopio: come è
sempre giovane, è sempre come la prima volta che lo si
guarda!
In un attimo, la sua fantasia aveva riveduto tutti i quadri e tutti
i sogni della vita.
Quel treno misterioso nella notte trasportava indifferentemente gli
uomini e le merci, i dolori e le gioie, era esso medesimo tutta la
vita nella sua corsa perpetua che nulla può fermare, nella
sua insensibilità, nella sua fiamma, nel suo rombo, nel suo
orgoglio vincitore di ogni ostacolo. Bastava salirvi per sfuggire
subito a tutte le proprie difficoltà, e non essere più
che uno sconosciuto fra sconosciuti, in viaggio verso una meta non
confessata, a ricominciare sopra una terra nuova la vita quasi
consunta in un'altra. Tutto diventava piccolo dinanzi al prodigio di
un treno: impotenza ed impossibilità non sono che conseguenza
di un luogo, risultati di un ambiente, mentre la vita sempre
giovane, corre sempre, si rinnova, si perpetua, dimentica, divora il
tempo e lo spazio, bella come il sole che l'accese, più lunga
del sole che si spegnerà. L'uomo non è più
nulla, se vuole contraddire o dominare la vita, non ne può
saper nulla, non vi deve mutar nulla: la morte vera è quando
il nostro corpo si rompe da sé, ma allora la vita intorno non
se ne accorge. Bisogna vivere come si può, più che si
può, bisognerebbe poter vivere sempre.
Un tremito profondo del palo lo scosse; la campagna sempre
addormentata non si accorgeva che il treno l'oltrepassava vigile ed
indifferente come il pensiero.
Allora l'umiliazione, che gettandosi sotto quel treno ne sarebbe
stato stritolato senza produrvi nemmeno una scossa sensibile, lo
vinse. E se il macchinista, avvertendo il caso, arrestasse la corsa,
quel cadavere di uno sconosciuto, che faceva perdere qualche minuto
al treno, non sarebbe stato che uno spiacevole incidente per tutti.
- Perché si sarà gettato sotto il treno? - si
sarebbero appena domandato tra di loro gl'impazienti.
- Ma s'intendeva già il suo rombo, si distinguevano i due
fanali rossi, dilatati, abbacinanti; la terra incominciava a
tremare, l'aria palpitava, dalla notte desta di soprassalto uscivano
sussurri inquieti, giù pei campi alcune voci spaurite
sembravano richiamarsi.
Egli sentì tutto questo. Come se le fiamme dei fanali gli
fossero entrate per gli occhi nel cervello, non vedeva più,
mentre la stessa convulsione spasmodica lo faceva stringersi sempre
più violentemente al palo, che oscillava quasi scosso da una
bufera.
Era tardi, non c'era più tempo.
Il treno gli fuggiva agli occhi enorme, nero, con quel ventaglio di
fiamma dinanzi, respingendo tutto col suo respiro di fornace; dalle
rotaie parevano sprizzare fiammelle, una colonna di fumo illuminata
internamente si distendeva sopra di lui, dietro di lui, come una
bandiera: e al disotto, fra lunghe fessure, si distingueva ancora
una vivezza di braciere, dal quale sfuggivano faville e bracie, che
cadevano e si spegnevano.
Egli si volse; il disco guardava col grande occhio verde, lungi dal
disco un trenta passi l'ombra del guardiano protendeva ancora la
lanterna nera col piccolo vetro rotondo.
Nessuno sospettava adunque di una disgrazia.
Sarebbe stato uno slancio, uno scricchiolio e più nulla.
Davanti alla rapidità spaventevole del treno capì che
egli avrebbe potuto essere anche più rapido, gettandosi
bocconi sulla rotaia per lasciarsi passare sul collo l'immane
valanga.
Quest'ultima sensazione gli durò, quando il treno col proprio
vento non lo scuoteva più così abbracciato al palo; e
i vagoni neri s'inseguivano quasi contigui nell'ombra, e dai
finestrini si travedevano dentro gabinetti illuminati, rossi, scuri,
in una nudità di legno, o non si vedeva nulla, mentre i
vagoni fuggivano chiusi sino alla cima, oscuri e sinistri come
catafalchi.
* * *
La notte non mutava.
Seduto presso quel palo, colle gambe abbandonate giù per la
ripa erbosa, aveva ancora nella fantasia ansante quella visione.
Aveva ascoltato il fischio d'arrivo e quello di partenza, gli ultimi
rumori e gli ultimi tremiti nella notte, con l'angoscia che si prova
solo sfuggendo momentaneamente alla morte. Nessuno fra quanti
viaggiavano su quel treno si era certamente immaginato che a quel
palo qualcuno fosse rimasto in dubbio di gettarsi sotto le ruote per
finirla colla esistenza; ciarlavano o dormivano, nel pensiero
dell'arrivo, trasportati dalla corrente della vita, più
impetuosa ancora del treno. Potervi salire e vivere, null'altro!
Egli lo aveva sentito con una intensità, che gli rovesciava
nella coscienza tutte le ragioni della morte. Il treno gli era
apparso dentro una poesia strana ed imperiosa: la sua forza, il suo
impeto esprimevano un trionfo costante nell'orgoglio del suo stesso
prodigio. Ognuno dei viaggiatori, rapiti dalla sua foga, avrebbe
potuto essere già sfinito nelle novissime disillusioni della
morte, e non avrebbe meno provato, nel profondo della coscienza, la
vittoria di quella corsa. Ma gli era rimasta nella fantasia quella
successione di gabinetti rossi, coi divani a mezzo ricoperti dai
grandi, grossolani merletti bianchi, sui quali aveva traveduto
qualche testa di donna. Qualcuna andava forse a Parigi, un sogno che
egli aveva rifatto tante volte inutilmente, ciarlando cogli amici
nelle dolci notti di estate, quando, non sapendo come meglio
ammazzare il tempo, andavano sino alla barriera per veder passare il
treno della mezzanotte. Egli si ricordava le invidie provate nei
brevi tragitti dinanzi ai viaggiatori esteri, così
riconoscibili alla disinvolta eleganza del vestito e dei più
minuti comodi di viaggio: erano i felici, i veri padroni del mondo,
pei quali i climi non avevano inconvenienti e le stagioni mutavano
indarno.
Il lusso di queste esistenze superiori gli riappariva davanti come
un quadro rosso di quegli scompartimenti di prima classe,
ammantellati di ricami bianchi, con delle teste di donne soffuse di
un tenue pallore.
Tutto era bello: i cuoi delle valigie avevano tinte esotiche, i
fermagli sprizzavano raggi fra il disordine soffice dei veli, degli
scialli, delle coperte gettate alla rinfusa, in alto, sulla piccola
rete. Si fumava, si chiacchierava, alcuni leggevano il giornale.
Invece egli era venuto in quella notte per gettarsi sotto il treno.
Si strinse con ambe le mani la testa per riordinarvi i pensieri:
perché dunque non lo aveva fatto?
Non seppe rispondere.
* * *
Ma voleva farlo.
Sentiva sempre la suprema inutilità del suicidio, quantunque
non gli tornasse nella mente un ricordo della famiglia abbandonata,
e non gli rampollasse dal cuore un rimpianto della vita trascorsa.
Dopo quella lunga giornata, era rimasto veramente solo. La morte,
balenatagli così terribilmente nel primo tumulto di quella
lettera, lo aveva poco a poco affascinato come il vuoto, nel quale
nessuno sguardo può fissarsi lungamente: egli aveva resistito
precipitandosi da ogni lato, ma perdendo sempre qualche cosa in ogni
sforzo, sentendo svellersi dal profondo del proprio essere una per
una tutte le più sottili radici. Doveva essere così,
perché la coscienza arriva sempre nuda dinanzi alla morte.
L'anima affacciandosi all'infinito non può essere che sola: i
morenti mutano allora fisonomia, poiché sono già
assenti prima di essere morti, mentre tutto quanto formava la loro
vita non ha più nemmeno il valore di un passato, e il futuro
non traspare ancora dalla torbidezza del mistero finale.
Così solo, non aveva più né coraggio né
paura.
Lungamente pensò al tempo che gli rimaneva da passare in
quella posizione. Nessuno lo aveva sospettato durante il giorno,
nessuno lo aveva ancora visto, nessuno quindi lo vedrebbe su quella
strada. Chi poteva pensare che egli stesse per morire? Quale
influenza poteva avere la sua morte?
Solamente la sua volontà vegliava ancora nell'attesa
dell'ultimo momento.
* * *
Per quella necessità di far pure qualche cosa finché
si è vivi, macchinalmente si cercò nelle tasche un
sigaro per fumare, ma non ne aveva: poi si sdraiò lungo il
sentiero, sul margine della ripa, perché quella posizione,
così seduto, gli aveva indolenzito la schiena. La terra gli
diede sotto la nuca una impressione di frescura.
A sinistra, nel cielo, si era formato un largo, sottile velo scuro,
le stelle splendevano piccole e rade. Tutto taceva. Al di sopra di
quel silenzio assonnato, la vigilia eterna degli astri rompeva le
ombre dell'infinito, ma la tenebra sulla campagna era così
densa che tutto vi era naufragato. Il suo sguardo salì
attratto dal tremolio di quei fuochi di bivacco, e si perdette nella
loro confusione.
La volta cerula si allontanava ugualmente, da qualunque punto
l'occhio la contemplasse, per una distesa trasparente come le
fiammelle che vi bruciavano nella inutilità della loro
distanza senza misura. Nella sua mente oscura egli non riceveva che
questa impressione. Le poche nozioni scientifiche apprese nelle
scuole non avevano potuto dargli un concetto vivente del cielo; le
stelle, come tanti mondi simili alla terra, probabilmente popolati
come la terra, erano rimaste per lui un'idea vuota, un'ipotesi
smentita ad ogni notte dall'apparenza del fatto. Il suo pensiero,
troppo piccolo, come quello del popolo, per accogliere le
spiegazioni della scienza, ritornava involontariamente alla
primitiva concezione poetica del cielo, una volta azzurra,
punteggiata di fanali e magnificamente spiegata sul mondo. Ma tutto
era sulla terra. Questa rappresentazione immutabile per lo spirito
umano e contro la quale nessuna scienza potrà prevalere, non
gli dava anche adesso che una sensazione di stupore; per concepire
le stelle come tanti mondi uguali al nostro, avrebbe dovuto
immaginarsele spente, e allora gli sarebbe parso di non poterle
più vedere; quindi l'enormità del loro mistero,
moltiplicata per l'infinito del loro numero e per quello anche
più terribile dei destini, che vi si svolgevano, avrebbe
soffocato istantaneamente il suo pensiero.
Egli guardava quel cielo senza una piega, velario diafano e
costellato, che avvolgeva la terra oscura, tutta piena di dormienti
destinati a morire, mentre l'anima gli si assopiva sempre più
in un torpore di coma.
Il lungo, dissolvente lavoro dell'agonia si era omai compito dentro
di lui: un vuoto aveva inghiottito il suo spirito, e tutto quanto
gli restava di vita non era più che un moto di abitudini.
Tale ultimo stadio gli dava appunto quella calma, che appare sempre
così inesplicabile nei condannati a morte.
* * *
In quella torpidezza così simile al sonno, che teneva la
campagna, il suo corpo si riposava dalla stanchezza della lunga
giornata. La frescura era blanda, l'aria tranquilla. Sdraiato lungo
il sentiero, colla testa in alto, non vedeva più nella strada
ferrata né il disco, né il palo del telegrafo: solo i
fili neri di questo, tesi sopra il suo capo, formavano come una
scalea di un significato misterioso, mentre gli steli alti del fieno
si ripiegavano sul margine della ripa a toccargli le vesti, o
cedevano sotto la sua mano distratta, inumidendogliela.
Se qualche cosa avesse attraversato la notte in quel momento, soffio
o voce, il suo spirito l'avrebbe seguita come si muovono nell'aria
le piume di essa più lievi. Il sopore gli si faceva sempre
più profondo, la vita vegetale della terra l'invadeva.
Era per lui come un benessere di albero sbattuto dal vento, arso dal
sole nel giorno, e che di notte ridiventa fresco, e dalle foglie
ristorate manda un murmure indistinto. Qualche stella sembrava
tremolare nel sorriso della propria luce, altre si stringevano a
gruppi entro un albore diafano, e altre più remote
scintillavano tratto tratto, quasi barattando segnali di scolte. Ma
tutto era pace anche lassù: una dolcezza di riposo si
spandeva su tutte le cose; perfino il fiume aveva cessato di
muoversi, e i ranocchi adunati nelle pozzanghere dei campi non
gracidavano più.
* * *
Un lungo brivido gli discese dal pensiero giù per le reni,
mentre un fischio stridente, quasi di un proiettile, gli passava
sulla testa.
Il fischio seguitava rompendosi nell'acutezza di appelli ripetuti,
la terra tremava: prima ancora di essersi potuto levare in piedi
aveva scorto nuovamente la pupilla verde del disco dilatata
nell'ombra, e al disotto di essa, sulla ghiaia della strada, un
chiarore che si muoveva colla lanterna del guardiano.
Era il treno delle tre, un misto, che veniva da Bologna.
Rimase dritto, cogli occhi laggiù, spalancati sulla luce
saliente dalla stazione invisibile. Non aveva raccolto di terra il
cappello, si sentiva un continuo soffio agghiacciato sulla faccia,
la gola gli si era improvvisamente disseccata. Sbirciò due o
tre volte il vetro verde del disco, sorvegliando l'ombra del
guardiano; non tremava, ma era come se tutto tremasse intorno a lui.
Aspettava in una tensione, che non gli permetteva di fare un moto
neppure coll'anima. Aveva i capelli irti e la bocca aperta: il suo
sguardo s'illuminava di una profonda chiarezza interna.
Il fischio ricominciò, poi a un certo momento parve un urlo,
che l'immane respiro della macchina già in moto soffocasse;
stridé ancora. La lanterna del guardiano si era alzata.
Si vedevano distintamente i due fanali rossi e, più in alto,
una oscillazione oscura di fumo: egli guardava ancora, attonito,
senza respirare, scosso dal tremito convulso della terra, che pareva
sfuggirgli sotto i piedi.
La sua vita non aveva più che alcuni minuti secondi.
La macchina ebbe uno sbuffo più violento.
Rapidamente, inconsapevolmente, si gettò bocconi colla testa
sulle rotaie; la rotaia tremava. Egli guardava venire la macchina,
ma non vedeva più che un immenso ventaglio di fiamma alto
come una parete, la terra oscillava sotto di lui; chiuse gli occhi e
sentì sulla ghiaia, nel medesimo attimo, il palpito del
proprio cuore e i battiti dell'orologio. Istintivamente aperse le
braccia puntando le palme sulla ghiaia, abbacinato dall'immenso
fulgore di quell'incendio, che si precipitava contro di lui
rugghiando.
I suoi occhi sostennero per un istante l'urto, non capiva, non
sentiva; poi gli parve che il ventaglio di fiamme si sollevasse, si
vide la macchina lanciata a volo sulla testa, come un'enorme arco di
ponte che ardesse, un vento impetuoso gli sferzò il volto,
mentre la terra squarciata da un ultimo sforzo si apriva sotto di
lui.
- No, no! - ebbe appena il tempo di urlare, ritraendo disperatamente
la testa, che la macchina gli era forse già a soli venti
metri.
Un torrente nero; solido, alto: un soffio gelido ed irresistibile lo
gettò quasi giù dalla ghiaia, sulla quale puntellava
ancora le mani, raggricchiato nello sforzo istintivo di farsi
più piccolo, senza potersi muovere, chiudendo gli occhi ad
ogni vano fra vagone e vagone, come ad una scudisciata che gli
fendesse a mezzo le pupille.
E il treno enorme, vertiginoso, freddo, nero non finiva.
All'ultimo vagone egli rotolò sul sentiero.
Quando si rialzò non vide più il treno.
* * *
Egli se ne andava lungo il sentiero, a testa bassa.
Una vergogna amara di quanto gli era accaduto aumentava sulla sua
coscienza, come dopo la pioggia in certe pozzanghere cresce l'acqua.
Si era gettato sotto il treno cedendo alla pressione di una forza
interna che lo spingeva, e la sua ragione, rianimata dal fracasso
della macchina, aveva avuto irresistibilmente paura. La sua
volontà, incapace di qualunque sforzo, non si era più
mossa, quando puntato sulle mani, colla testa rasente ai predellini
dei vagoni, aveva sentito sfilare ruinosamente tutto il treno.
L'aria, che fuggiva smaniando fra i larghi raggi delle ruote, gli
schiaffeggiava il volto gelato da uno di quegli orrori fantastici,
pei quali nella notte i fanciulli perdono la voce.
Egli non si era immaginato la morte così enorme, con quella
onnipotenza di uragano!
Adesso tutta la sua natura di uomo timido ed inetto ripigliava il
sopravvento. Una specie di buon senso gli diceva sommessamente che
aveva avuto ragione di aver paura: lo spettacolo del treno, veduto
colla testa sulle rotaie, era qualche cosa d'inesprimibile,
d'insopportabile. Le rotaie oscillavano sotto la sua fronte, quasi
come il filo del telegrafo quando il vento soffia impetuoso, la
terra reboava, quel ventaglio di fiamma, formato dalla congiunzione
dei due fanali, si dilatava sempre come per la spinta di una
eruzione, dalla quale sfuggiva in alto un'immensa colonna di fumo.
Era una scossa saltellante di valanga, con un rombo di tuono fra
schianti di baleni e un vento freddo e una minaccia fulminea che
rovesciava, dissolveva tutto dinanzi a sé.
Perciò non aveva resistito.
Per un solo istante si era irrigidito nel duello, premendo la tempia
sul ferro gelido della rotaia collo sguardo ardente su
quell'incendio; sarebbe abbisognato che il treno non fosse stato
più che a tre metri, e allora forse il delirio stesso gli
avrebbe fatto mantenere la posizione.
Ma uno spavento lo aveva avviluppato, e lo cacciava nuovamente per
quel sentiero nella notte tranquilla. Dove andare? Sentiva di avere
ancora paura della morte, che gli era quasi passata addosso con quel
treno oscuro e fiammeggiante, nell'impeto procelloso di una
vittoria: ne aveva rimasto l'abbarbaglio negli occhi e il vento nei
capelli. La sua faccia non gli sarebbe parsa più la medesima,
se avesse potuto vederla; era di un pallore lapideo, cogli occhi
vitrei e una specie di smorfia immobile sulla bocca. Come tutti i
toccati dalla morte, aveva mutato. Nel suo stesso terrore gli
rimaneva qualche cosa di estraneo alla vita, un senso di
profondità interminabili, un freddo di caduta per una ruina
di abissi. Infatti quel treno non gli era parso che si allontanasse
per la strada ferrata, ma era dileguato per lo spazio, come il
tuono, in uno di quei rapimenti che accendono a razzi le stelle.
* * *
Si arrestò.
Aveva camminato per qualche miglio, senza por mente alla
diversità della sottoposta campagna nella tenebra. Si accorse
di essere tutto bagnato di sudore e di rugiada, il luogo non pareva
mutato, e le rotaie gli si perdevano sempre dinanzi a pochi passi
sul piano oscuro della strada.
- Diranno che ho avuto paura!
Infatti lo avrebbero detto, vedendolo così. Era stato lo
sbigottimento inevitabile della morte, giacché il coraggio
non è appunto che uno sforzo contro di esso, che la gente non
vorrebbe mai vedere in coloro che debbono morire. Il soldato, il
condannato titubante divengono istantaneamente spregevoli; bisogna
che entrambi fingano il disprezzo, quasi la provocazione,
perché tutti si esaltino in questa vittoria della
volontà umana. Ma il suicida, che si vantò, per una
qualunque ragione, di gettare la propria esistenza come un cencio
immondo dietro di sé, non ha più diritto alla paura.
In questo caso la gente insorge contro il falso temerario, che
voleva sottrarsi alla pressione della morte, più greve ancora
di quella dell'aria, giacché ci mantiene aderenti alla vita
malgrado tutti i dolori: e le contumelie diventano la rivincita
dell'umiliazione, che il coraggio inesplicabile di ogni suicida
infligge alla moltitudine sempre invocante la morte e singhiozzante
di viltà ad ogni sua apparizione.
Chi l'ha voluta davvero, non può ritornare nella vita.
È una consacrazione come quella che la religione pratica sui
propri sacerdoti, i quali non sanno più riconfondersi cogli
altri uomini.
Egli si rappresentava tutto questo oscuramente, nelle scene che ne
sarebbero seguite a casa sua e nel caffè. Si ricordava di
alcuni, che avevano annunziato il proprio suicidio, di altri ancora
più infelici, che vi erano sopravvissuti rimanendo per tutti
un oggetto di scherno. Se egli fosse tornato addietro, avrebbe
intoppato nella ilarità di tutto il paese, unanime, dopo una
simile commedia, nel giudicare anche più abbietto il suo
dramma. Poi, conosceva la zia Matilde, che appena aperta quella
lettera ne avrebbe gettato le alte grida per tutta la casa e per le
strade, correndo da Caterina. Come intercettare quindi quella
lettera? Perché intercettarla?
Per quanti sforzi avesse voluto fare, non gli sarebbe riuscito di
tornare indietro: la sua anima vuota non amava, non si doleva
più, ma, sola dinanzi a sé medesima, assisteva come
uno spettatore al supremo duello della volontà contro
l'istinto. Se non che, finite tutte le ragioni del vivere, la vita
resisteva ancora al pari di ogni involucro alla pressione che doveva
spezzarla, ed egli provava un'ultima indicibile vergogna per se
stesso nel riconoscersi così pauroso. Solo una specie di
testardaggine, un impegno col proprio orgoglio, l'obbligavano a
morire.
Aveva sempre la rivoltella in tasca, ma non pensò nemmeno un
istante a servirsene; dopo quel primo infelice esperimento, temeva
di fracassarsi la testa senza uccidersi, perdendosi così in
un'altra fine peggiore di tutte le morti. Infatti un suicida
sopravviveva ancora in paese, dopo essersi asportato con un colpo di
pistola quasi tutta la parte inferiore del volto: era un giocatore
non vecchio, che da quel giorno non aveva più osato uscire di
casa, e pel quale la serva, diventata sua moglie, cercava
l'elemosina.
Ma se avesse potuto davvero analizzare sottilmente se stesso, in
quella ripugnanza ad uccidersi con la rivoltella avrebbe scoperto
qualche altra cosa, poiché a quel modo si sarebbe veramente
ucciso da sé, mentre invece non voleva che morire. Gettarsi
sotto il treno e lasciarsi schiacciare! Non egli avrebbe distrutto
sé medesimo, ma un'altra forza, un mostro vivente, ansante,
il più prodigioso uscito dalla mente umana. Egli sentiva
un'ironia nella antitesi della propria debolezza contro tale
onnipotenza, nel mutare quello stupefacente veicolo di vita in uno
strumento di supplizio. Era come una vendetta contro la
società, che lo costringeva a morire colla assurda
contraddizione delle proprie leggi coi propri costumi. Infatti il
suo suicidio non aveva altro motivo.
La natura non ha bisogno del nostro concorso per ucciderci, il mondo
solo ci condanna al suicidio: quando la nostra presenza non vi
è più possibile, sentiamo la necessità di
morire, per non durare come un rimasuglio fra la gente. La
società non è pari alla natura, nella quale anche i
residui hanno un valore. Ognuno crea se stesso in una classe o in
una funzione con indelebili caratteri, ma, distruggendo questa
personalità, non gli rimane né posto, né
gruppo. Allora erompe la contraddizione fra l'istinto che vorrebbe
vivere, e la ragione che non sa più trovarne il modo.
Infatti egli non aveva, coll'imprudenza di quella cambiale falsa,
sciupato che la propria condizione in paese, così che potendo
trasportarsi altrove non avrebbe quasi nulla perduto. La morte, cui
si umiliava, era un omaggio al giudizio della società, un
tragico complimento all'importanza della classe, nella quale era
nato. Come marito, come padre, come uomo, egli consentiva a non
poter vivere se non come aveva vissuto fino allora, mentre intorno a
lui le migliaia e migliaia vivevano egualmente bene entro la
condizione, nella quale sarebbe precipitato; ma poiché la
nostra vita è anzitutto spirituale, una mutazione della sorte
vi ha infinitamente più importanza che qualunque altra della
natura. Dalle più grandi tragedie ai più minuscoli
drammi, non si tratta mai che di suicidio, di una immolazione che
l'individuo fa di se stesso alla società, come vittima
espiatoria delle colpe altrui o delle proprie.
Quindi la vergogna dell'aver avuto paura lo mordeva anche allora,
che nessuno se n'era potuto accorgere. L'orgoglio necessario al
suicidio, quella esaltazione di sentirsi maggiore degli altri,
appunto gettando ciò che è tutto per essi, gli era
venuta improvvisamente meno. Vile come coloro, per non somigliare ai
quali moriva, si era gettato disperatamente indietro dalla rotaia,
invece di lasciarvisi sfracellare. Egli aveva provato confusamente,
in quei brevi istanti, una specie di compiacenza ironica e superba
al pensiero di insudiciare col proprio sangue il lucido cerchio
delle ruote, arrestandone forse, magari per un secondo, la marcia
trionfale.
Lo avrebbero visto fracassato, irriconoscibile, inorridendo in
quella inesprimibile paura della morte, che gela istantaneamente
tutti i cuori!
Sarebbe stata la sua rivincita dopo morte, perché anche il
suicidio ha bisogno di averne una.
* * *
Seduto accanto al palo, coi gomiti sulle ginocchia e la fronte fra
le palme, piangeva.
Dopo aver girato lungamente innanzi e indietro per il sentiero, in
un orgasmo di febbre, era ritornato allo stesso punto, vinto dal
fascino misterioso, contro il quale lottava. Era stata una corsa
miserabile di fanciullo smarrito per la notte che si sente aggredito
a ogni tratto nell'invisibile e non osa gridare nemmeno inciampando.
Non poteva decidersi, non sapeva andarsene; qualche altro treno
doveva passare prima di giorno. Quando rivide quel palo, ne
provò un sollievo come di una meta; la luce del disco era
sempre rossa, lontanamente la stazione aveva quel largo riverbero
d'incendio.
Qualche lagrima calda gli scivolava fra le mani e le guance,
sciogliendosi con un sottile bruciore di sale. Era l'ultimo pianto,
quello che non si sente più, perché tutto è
già morto di dentro: i suoi occhi piangevano, come talvolta
le ferite lasciano uscire goccia a goccia il sangue, mentre il
moribondo sente ancora che col sangue se ne va la vita. La natura
stessa esprime talvolta un simile pianto in certi squallori di
paesaggi autunnali su praterie opache, sotto un cielo grigio, senza
un vivente che le attraversi e senza case; o fra roccie appannate e
riarse, in una nudità di cadavere. E vi è un dolore
sotto le pietre, e pare un pianto l'umidità che l'aria del
crepuscolo vi lascia.
* * *
Un gallo cantò.
L'aria era ancora così scura, ma il sereno del cielo
principiava ad imbiancare in una purezza sempre più scialba:
le stelle adesso rade perdevano quel tremolio che le ingrandiva,
ogni vapore si era disciolto. Senza che ne apparissero ancora i
segni, l'alba si avvicinava. Nell'aria più fredda altri
brividi passavano, simili a sussurri mano mano più intensi.
Toccò un ciuffo d'erba sull'orlo della ripa, e ne ritrasse le
dita imperlate di rugiada.
Da quell'altezza della strada cominciava a discernere la campagna.
Gli alberi scoprivano già le cime, disegnando la
regolarità dei loro filari; poi un altro gallo cantò e
un crocchio di rane volle rispondergli, ma la loro voce notturna si
spense all'improvviso. Gli parve di udire come uno schiaffo di
imposte nel muro, una luce apparì. Non era più la
notte. Laggiù il grande riverbero della stazione si
appannava, mentre dietro le mura della città quel vapore
luminoso aveva cessato di salire dalle strade invisibili, e in alto,
molto in alto, i tre campanili spiccavano rigidamente.
Un freddo gli strinse lo stomaco. Sebbene il casello del guardiano
sembrasse chiuso, si allontanò guardingamente dal palo,
perché sul margine della strada, nell'aria sempre più
diafana, sentiva di apparire a tutta la campagna. Gli alberi si
scrollavano lievemente, sibili d'insetti, tintinni misteriosi
preludevano alla grande sinfonia del giorno. Una luce approdava
all'ultimo orizzonte respingendo la tenebra, che si orlava di
riflessi evanescenti in lunghe strisce, talvolta simili a nuvole
stracciate. Ma più che dell'albore, egli aveva paura dei
suoni. Le cose più mattiniere intorno a lui si erano
già deste; dentro le frondi qualche ala batteva per
spigrirsi, mentre gli ultimi sogni strisciavano impalpabili sugli
occhi ancora socchiusi. Seguì per qualche minuto il volo
spaurito di una nottola, rivedendola ogni volta, con una specie di
compiacenza egoistica, traballare sempre più incerta e
precipitarsi nuovamente giù nell'ombre più dense, ad
ogni chiarore che si diffondeva nell'aria. Si era allontanato mezzo
miglio dal palo, ma la città e il ponte di ferro si vedevano
ancora.
Se non avesse avuto così paura del giorno, gli sarebbe
sembrato ancora notte; infatti, laggiù, i fanali rimanevano
accesi, appena l'ultima linea dell'orizzonte si era rischiarata, e
qualche gallo impaziente aveva lanciato il primo squillo della
propria diana. Ma i suoi sensi, vibranti di un ultimo orgasmo, gli
rendevano manifesti i più impercettibili segni. Non poteva
più ricapitolare quanto gli era accaduto nella notte, sentiva
solamente una vergogna crescente, intollerabile di essere ancora
lì, senza un motivo. Per tutta la notte era stato solo,
adesso invece la luce gli addenserebbe intorno tutti i viventi: il
suo coraggio non potrebbe resistere, sarebbe ripreso, ricacciato a
forza indietro, più in basso, per sempre, sotto la propria
ruina, inconsolabile, immutabile, inutile. Tutto ridiventava un
pericolo. Guardava, ascoltava convulsamente; la notte non era
più simile a se stessa; la sua frescura, la sua
tranquillità, il suo sonno avevano mutato; una inquietudine
agitava ogni suono e dava un accento di trepidazione a tutte le
voci. La solitudine si riempiva.
Guardò l'orologio, ma non distinse i numeri sul piccolo
quadrante, e non osò accendere un fiammifero. Dovevano essere
le quattro: forse a quella distanza l'orologio di sant'Ippolito si
sarebbe ancora udito; poi n'ebbe paura. Qualunque voce gli faceva
male; nell'aria colse un vagare di aromi, altri effluvii che
s'innalzavano verso il mattino. A che ora passerebbe il primo treno?
Sbigottito si voltò verso il disco, ancora così rosso,
ma di un rosso meno luminoso. Per le altre strade della campagna la
gente doveva aver ricominciato il proprio passaggio, i lattivendoli,
gli ortolani, tutti coloro che soddisfano ai primi bisogni della
città; nei due grandi caffè della piazza, sempre
aperti, nottambuli col volto livido dalla veglia troppo prolungata
comincerebbero a parlare di separarsi, perché odiavano
istintivamente l'alba e la sua ripresa coraggiosa del lavoro sotto
la immutabile necessità dell'andare avanti. Anch'egli era un
nottambulo, l'ultimo, per l'ultima volta. Nel tormento di quella
paura, soffriva alla preparazione lenta del giorno, più
ammirabile forse che lo scoppio stesso del sole trionfante daccapo a
sollecitare coi propri raggi tutti i viventi. Egli allora non si
muoverebbe, informe cadavere per sempre. Ma non voleva esser visto
prima, non aveva bisogno delle sollecitazioni, che gli aumentavano
intorno. Se ne andrebbe, se ne andrebbe ad ogni modo, nella
disperazione di non aver potuto nulla comprendere, senza la
giustificazione di quanto aveva sofferto! Meglio la notte, il buio
senza vita: un silenzio eterno e la sicurezza del nulla,
perché non vi poteva essere altro, dopo! Il suo odio alla
vita glielo rivelava chiaramente. Egli, che aveva tanto patito il
giorno innanzi nella rottura graduale di ogni vincolo, adesso non
soffriva più che la fretta, colla quale gli pareva di
sentirsi cacciato; non v'era altro tempo da perdere. Fra venti o
trenta minuti, da quella posizione tutti avrebbero potuto scorgerlo.
I canti dei galli si erano venuti ripetendo, poi un muggito aveva
dominato tutte le voci. I pioppi tornavano a stormire colla battuta
secca della grandine, i salici sibilavano, le quercie sussurravano
appena.
Da un olmo sotto la strada un gridìo di passere, subitaneo
come una risata, lo fece trasalire.
Ormai egli stesso avrebbe potuto discernere lungo il binario un uomo
a grande distanza, e tuttavia era ancora presto.
Si fermò al primo palo del telegrafo, sdraiandosi daccapo sul
sentiero per nascondersi. Stava in agguato, coll'occhio teso sulle
ultime lontananze della strada, l'orecchio aperto sospettosamente a
tutte le voci; le erbe alte, fradice di rugiada, gli bagnavano il
volto percosso tratto tratto da un tremito, che gli echeggiava
sonoramente sino al fondo dell'anima. Ma tutte le forze gli erano
improvvisamente tornate: era l'attacco finale di quel duello troppo
lungo colla morte, senza più alcuna incertezza, e più
orribile nell'impossibilità di muoversi. Tutto il suo odio si
era mutato in coraggio, quasi la morte, che gli verrebbe incontro su
quel treno, dovesse avere una forma umana come la sua. Il suo tetro
scheletro, colle occhiaie vuote e la lunga falce, gli riappariva
nella fantasia cogli altri fantasmi della espiazione cristiana
evocati dall'ultimo dubbio: ma temeva solamente di non poter durare
per tutta la lunghezza della prova. Il suo sforzo supremo era di non
pensar più, non voleva più nulla davanti. La sua
coscienza era giunta finalmente al disprezzo della vita, di questa
farsa stupida ed atroce, che nessun Dio poteva aver voluto,
perché vi si soffre solamente, e coll'amore di un minuto vi
si chiamano altri a soffrire e a morire: ecco tutto! Il resto era
menzogna. E davanti a questa imperscrutabile necessità il suo
individuo urlava nello spasimo di non poter inabissare tutta la
terra e, strappando con un gesto titanico dal cielo l'immenso manto
stellato, ravvoltolarvisi come in una bandiera nemica, e spirare
ultimo sulla ruina finale di quanto era stato.
- Ah! - gridò balzando in piedi, immemore di ogni riguardo.
Era il treno. Nel pallore crescente della tenebra la sua luce
appariva simile a quella di un palloncino roseo librato nell'aria,
ma egli non vedeva che la morte. Era scattato in piedi alla prima
scossa del terreno come ad un appello, protendendo il volto in una
impazienza quasi insolente della fine. Aveva negli occhi un chiarore
di cristallo e sulla faccia una fisonomia di marmo. Rimase
così immobile, colla volontà tesa contro il treno,
calcolando mentalmente la rapidità della sua corsa.
Un fremito d'orgoglio lo scosse ancora, nel vederlo già
così vicino che si discernevano distintamente i due fanali;
aprì le braccia ad un gesto inesprimibile, e si gettò
sulla rotaia abbandonato.
Era caduto, quasi colla fronte sul ferro, gli occhi rivolti al
treno. Avanzò la testa per poggiare il collo sulla rotaia,
lasciando penzolare il capo nel vano come da una ghigliottina.
Il freddo del ferro alla gola gli fece passare questo paragone nel
pensiero.
Ma allora tutte le forze lo abbandonarono, si decomposero per le
scosse della terra, che gli passavano per tutto il corpo colla
violenza di continue scariche elettriche. Si raggricchiò,
chiuse gli occhi, travolto dal fragore precipite che già
l'investiva; il ferro della rotaia gli friggeva quasi sotto il
collo, una vampa gli aveva ventato sugli occhi, mentre nel terrore
delirante, ineffabile, di quella cosa senza nome, la sua
volontà caparbiamente disperata, come quella di un bambino,
ripeteva:
- Non importa, non importa!
Con un ultimo sforzo premé ancora il collo sulla rotaia.
Poi un'estrema convulsione di turbine, di abisso, di valanga,
d'incendio, lo fece quasi rivoltolare sopra se stesso; aprì
gli occhi nella fiamma, e per una paura più terribile
gridò:
- Mio Dio!
Ma l'enorme macchina gli era già passata furiosamente sulla
testa, soffocando nel proprio fracasso di cateratta l'inutile
parola.
FINE