La rivolta ideale
Parte terza
INDICE
I. Delle bassure dell'amore moderno
II. Il Femminismo
III. Il danaro
IV. Gli spostati
V. Ascensione e tirannide plebea
VI. L'individualismo
VII. L'aristocrazia nuova
L'Appello
I
Delle bassure dell'amore moderno.
Il titolo è triste.
Poesia e filosofia ad ogni generazione hanno ripreso il tema
dell'amore, quella cantandone la passione e raccontandone i drammi,
questa cercando nel suo principio le origini della vita e il
segreto della creazione.
Non è nelle intenzioni di questo libro l'andare così lungi e così
alto, ma nella poesia tutte le varietà possono ridursi a due modi :
la passione della carne e la passione dello spirito; nello spirito
ha due concetti: l'uno ottimista, riconoscendo nell'amore la forza
buona della vita, l'altro pessimista, giudicandolo un agguato teso
alla ragione per farle dimenticare colla voluttà irresistibile di
un attimo il dolore perenne, e riprodurre così nella specie la
vita, che l'individuo subisce senza potere né accettare né ricusare
in se stesso. Spremete tutta la poesia dell'amore, e non trarrete
che una goccia di liquore, più rosso del sangue, più inebriante del
vino, o un olezzo etereo d'invisibili fiori: condensate tutte le
filosofie dell'amore, e non ne rimarrete che una parola di
speranza o di disperazione. Perché all'indagine della nostra
critica e all'intuizione della nostra anima è ugualmente impossibile
rompere il cerchio incantato della vita: l'istinto che afferma, la
ragione che nega, non potranno mai soverchiarsi tanto che
l'affermazione o la negazione sola trionfi.
Ma come in ogni opera vi è una originalità, che atteggia
diversamente nello spirito i due grandi fasci di rapporti del
pensiero col mondo e del pensiero con se stesso, così vi è una
novità di passione, che mette nell'amore dell'uomo per la donna
l'unità di misura per tutte le sue passioni. I grandi poeti si
succedono e non si somigliano: che cosa vi è di comune,
nell'immutabilità del tema, fra Orazio e Petrarca, Petrarca e
Musset? Fra il Cantico dei Cantici e l'intermezzo di Heine, fra
l'adulterio di Francesca da Rimini e quello di Anna Karenine? Fra la
rivolta di Saffo e quella di madama Akermann?
I naturalisti hanno facilmente catalogato le condizioni dell'amore
umano, che per loro era soltanto amore animale: i credenti nella
teoria della evoluzione, che ora cade miserevolmente a brandelli,
hanno provato tutte le ebbrezze di una scoperta, leggendo in Darwin
i rapporti della bellezza coll'amore, e più ancora quelli della
bellezza colla generazione, e quindi l'attrazione dei sessi
dominata dalle loro secrete affinità paterna e materna, la selezione
involontaria fra i forti e i deboli soltanto per allungare o
interrompere un troncone di serie, la eredità e le sue
ripercussioni, le funzioni dei caratteri e i caratteri delle
funzioni.
Passiamo oltre.
Senza, discendere a cercare l'amore in tutti i momenti della
generazione, o salire alla pura sfera dello spirito, nella quale le
anime non hanno più corpo e nemmeno ricordano di averlo avuto,
esaminando l'amore sul terreno della vita e nel campo stesso della
storia è impossibile non riconoscervi una delle sintesi più profonde
ed attive.
Amare la donna significa amare la vita, accettando la
responsabilità di essere padre; coloro che per un orgoglio doloroso
si vantano pessimisti, non lo saranno, finché in loro non sia morta
davvero la fede alla vita nella passione di amore, giacché il
suicidio quasi sempre, piuttosto che negare, afferma la vita. Senza
quel motivo aneddotico di dolore, il suicida avrebbe voluto essere
tale? risolvendo quel problema la vita non avrebbe mutato aspetto,
ed egli il suo giudizio su di essa?
Di tutti i pessimismi il cristianesimo è forse il più profondo, non
perché abbia una soluzione in un altro mondo, ma per l'incomparabile
lucidezza nel cercare i più tragici segreti dello spirito e per il
coraggio desolato delle risposte. Certamente il poter riprendere
ogni tema ed alzare ogni domanda in un mondo divino avrà aiutato
il capolavoro del sistema cristiano, ma nell'antichità nulla vi è
paragonabile all'infuori di alcuni libri buddistici, e tutto il
resto nella poesia e nella filosofia appare fin troppo inferiore al
confronto.
Infatti dopo il cristianesimo l'amore mutò. La conquista dell'anima
prevalse a quella del corpo, le malinconie dello spirito dominarono
i gaudi della carne: la verginità della fanciulla, la castità della
sposa furono una necessità di tutti i cuori, non per avarizia di
voluttà fisiche, ma per passione d'impero spirituale. L'amore era
diventato così intenso che escludeva ogni varietà, un inesauribile
duetto doveva essere la sua vita e la sua morte. Invano l'animalità
immanente nella vita sembrava protestare energicamente, e nello
sfacelo di tutte le forme politiche, dentro la bufera di ogni
istinto barbarico, Vizi e delitti menarono la ridda più sfrenata:
l'amore di Dio riparato nei conventi, espresso nell'unica maniera
sopravvissuta di letteratura, manteneva l'amore umano alla propria
altezza; quindi la vergine e il cavaliero furono i due tipi nuovi
del tempo e l'indissolubilità del matrimonio ebbe conforto dalle
esigenze del vizio stesso. L'amore orientale greco-romano non si
ripete più: la donna ebbe un valore più alto, la gelosia fu più
avara. Dalla stessa cortigiana, soggiacendo al fascino della carne,
si pretese l'amore dello spirito: amando si volle essere amati,
preferiti a tutti, diversamente se non assolutamente. La donna fu
un'anima, alla quale bisognava pur sempre arrivare, per quanto il
suo corpo trattenesse i desideri o ammansisse le esigenze. La
castità divenne la prima virtù della donna, e la fedeltà la prima
pretesa dell'amore.
Oggi ancora nella nostra civiltà nevrotica, che pare così scettica
ed è ancora così sentimentale, l'amore della carne e il senso della
bellezza sono quasi interamente smarriti. Si amano le donne gracili
e nervose, nelle quali la gracilità del corpo sembra un segno della
delicatezza dell'anima, mentre le forme scultorie non piacciono
nemmeno più nelle statue: nessuno piange l'oscurarsi di una
bellezza, ma tutti lamentano il tradimento di un cuore. Non vi è
libertino abbastanza sincero per accettare la pluralità del
possesso nella donna prescelta: l'antica cortigiana, che si
svestiva in pubblico offrendo alla sua adorazione la propria
bellezza, è divenuta la cortigiana moderna, rosa dalla umiliazione
del proprio trionfo, scimmiottante negli abiti, nell'etichetta, nel
riserbo aristocratico la donna onesta o la grande signora.
L'occidente è spiritualmente monogamo: tutte le sue letterature si
aggirano intorno a questo sentimento, la superiorità della nostra
lirica amorosa sull'antica non ha altro motivo.
Chi non ricorda Maddalena? Ella era una cortigiana, sulla quale
l'amore degli uomini era passato come l'acqua dei torrenti,
deponendovi una melma. Cristo la guarda, e da quella melma non
spuntano che fiori. Ecco l'amante moderna di tutte le nostre
letterature, nella quale l'amore è una improvvisazione
irresistibile, è una dedizione suprema. Chi se non Maddalena ha
messo nel nostro amore tanta bramosia e tanto rimorso di peccato?
La sua passione è la sola che animi ancora l'arte. La grande
tragedia è morta e morto pure l'idillio, come se l'aria del mattino
non potesse più essere pura e l'ombra della notte non avesse più
mistero; la precocità sembra aver spento ogni fede nella giovinezza,
l'esperienza non lasciarne alcuna intatta nella vecchiaia. E questo
è ancora un carattere dell'industrialismo: i giovani pensano troppo
presto che la vita è anche un affare, gli uomini non vi veggono
altro: quindi le grandi passioni sono per gli uni e per gli altri
una malattia, e le grandi idee visioni di sogno che il contatto
della realtà deve dissipare. Illustri pensatori, più illustri poeti,
hanno già dolorosamente affermato che oggi non si ama più. Infatti
guardando nell'arte, che è sempre il migliore specchio della vita,
la passione d'amore si è ben raffreddata e, raffreddandosi, oscurata
dall'epoca romantica, all'indomani della grande rivoluzione
francese e dell'impero anche più grande, quando le anime si
sentivano ancora dentro un soffio di bufera, e si precipitavano
all'avvenire ardendo nei cieli come tante stelle cadenti.
I due massimi motivi dell'amore sono rimasti nella carne e nel
danaro; ma la carne non ha nemmeno più bisogno della bellezza, e il
danaro non è più bruciato come un incenso dentro tutti i turiboli
per la gioia di una vanità regale, bensì litigato in una gara di
piccole invidie, di piccoli comodi, di trionfi anche più piccoli:
una volta si voleva parere aristocratici, adesso basta sembrare
ricchi. Gli uomini, a qualunque classe appartengano, vogliono prima
di tutto non avere povera apparenza negli abiti e nella casa: le
donne non pretendono più di essere dame, ma signore soltanto: il
ritmo e la meta industriale hanno tutto diminuito: pare che non vi
siano più motivi a grandi cose, fiamme a grandi passioni. E non è
vero.
Perché grandi cose segnalano tutte le epoche, e le passioni sono
così l'essenza della vita, che la sua forza costretta a rigirarsi
sopra se medesima forma un vortice e fa naufragare l'anima. Anche
oggi l'amore getta all'esilio, alla galera e alla morte deboli e
forti: anche oggi l'uomo vuole essere amato in una pretesa
d'impero, dentro una luce d'incantesimo, in uno spasimo di dubbio e
di voluttà. Ma l'esilio, la galera, la morte, queste forme eterne
della tragedia, sono forse diventate più dolorose in questa gelida
diminuzione della poesia che toglie loro l'estremo orgoglio di
essere un olocausto: si è voluto abbassare l'amore, e invece l'amore
ha così abbassato la vita: si pretese di essere ragionevoli,
imponendo alla vita per regola suprema l'aritmetica, e i conti non
tornano più. Il totale non vale le cifre della somma: nella
divisione il quoziente non potrebbe più integrarla.
La volgarità dell'amore moderno si torce in questo dramma: la sua
sapienza materialistica non ha più poesia e tutti i momenti della
gamma vanirono; non vi è più l'idillio colle sue frescure
virginali, non il meriggio cogli incendi che illuminavano anche il
sole, non il crepuscolo colle sue tenerezze umide di lagrime, poi
la sera nell'attesa della grande rivelazione.
Il vizio è senza sincerità di appetito e senza eleganza di forma: la
donna vi è per l'uomo un motivo di vanità soltanto, un esponente di
ricchezza: vale per quante invidie attira al possessore, senza che
il possessore sia nemmeno più tale. La donna non vede nell'uomo che
un impresario, il quale esporrà al pubblico il suo valore
femminile: quindi né elegge, né si lascia eleggere, ma coglie o è
colta in un affare.
Nella tormenta industriale altrettanto accade al matrimonio: due
patrimoni che si associano, una professione e una dote, una dote ed
un titolo, o ancora due voracità in cerca di pasti. L'adulterio
stesso diminuì: quale poteva infatti rimanere? Il valore
dell'adulterio è in ragione del suo dramma: dal momento che la donna
non sente più di peccare come sposa e come madre, che cosa sacrifica
davvero all'amante? Una posizione e delle convenienze sociali; ma
nel concetto industriale una posizione può sempre essere rifatta, e
le convenienze sociali sono sempre abbastanza elastiche per non
fare troppo soffrire. L'idea dell'adulterio non è già perita nel
divorzio? L'indissolubilità del matrimonio non era l'affermazione
dell'indissolubilità nell'amore, e senza questa, illusione o verità
poco importa, che cosa resta dell'amore?
La poesia del vizio è tutta nella derisione della virtù, ma la
satira senza l'amarezza pessimista non è possibile, perché il
pessimismo esprime soltanto una controprova dell'ideale: quindi i
viziosi cadono tutti nella credulità delle false forme ideali, e
finiscono con l'affermare in basso colla più oscena contraddizione
quanto negarono in alto.
Ma in un periodo storico, quando la fiamma dell'amore si abbassa,
tutta la temperatura discende: se l'amore ha paura del sacrificio,
l'ambizione indietreggia davanti alle responsabilità: se l'arte
vuol divertire il pubblico invece di domarlo affascinato dalla
rivelazione di se stesso, il pubblico applaudirà senza divertirsi, e
non ricorderà di avere applaudito: se la scienza non oblierà se
medesima nello sforzo contro il mistero, utilizzando solo quel poco
che potè carpirgli eroicamente, anche questo si corromperà come un
alimento mal guardato. Solamente accettando la tragedia della vita
e domandando alla donna l'impossibile verità dell'ideale, l'amore
può rendere meno inconsolabili le proprie catastrofi: bisogna amare
coll'anima, perché il corpo stesso ami: bisogna forse essere casti
per sapere e per dire l'ultima parola della voluttà.
Il vizio invece non l'ha mai saputa.
L'amore dentro una donna sola può avere tutte le donne e benedirla
nell'oblio momentaneo del dolore; Salomone invece uscendo dall'harem
a testa bassa, si lasciò sfuggire questa parola che ha traversato i
secoli: la donna è più amara della morte.
Povera, grande, Maddalena di Gesù !
La tua anima era rimasta pura, mentre il tuo corpo rimaneva bello
come un diamante immerso nel pantano: forse avevi tutto accettato
senza chiedere, abbracciandoti a tutti come un naufrago; avevi
pianto con quelli che piangevano, sorriso coi felici, taciuto coi
pochi che non possono parlare. Adesso ti cercano indarno nelle
donne del peccato e dell'amore, nelle adultere che non peccano
nemmeno più, perché non hanno più nulla da tradire, nelle cortigiane
che. vendendosi, non possono serbare qualche cosa per farne un dono.
Tu eri l'ideale di un tempo messianico, nel quale il peccato aveva
impeti profetici come la virtù, e attendeva in una angoscia anche
più profonda. La tua mente era ignara,, ma il tuo cuore sapeva: le
tue mani, che lasciavano stillare gli aromi sul capo dei gaudenti,
avevano forse prima accarezzato le piaghe di un povero: i tuoi
capelli più ricchi del più ricco diadema e degni di asciugare i
piedi di un Dio erano stati lungamente guanciale alla tua testa
indolorita. Tu sognavi un amore che togliesse l'amarezza dal sorriso
e riaccendesse la lucerna della speranza, ma non chiedevi, non
cercavi.
Il Messia verrà, il Messia era venuto.
E i tuoi occhi lo riconobbero prima che la sua voce ti avesse
chiamata, e il tuo cuore si prostrò prima ancora delle tue
ginocchia: nessuno amò come te; ecco perché Gesù ti elesse
nell'amore umano, e ti rivelò, come un segreto ancora ignoto a
tutti, la propria resurrezione.
Come lui, il divino solitario, non avevi alcuno nella vita, non
ricordavi ne genitori, né fratelli, né amanti: il tuo amore era
stato sterile, come sterile è l'amore divino, perché la vita non può
prorompere che dalla loro unione: ma tu amasti Gesù da lungi, senza
pretendere che fosse tuo, felice nel dolore della tua passione,
inconsolabile nello spasimo delia sua.
Tu eri la donna, tutta la donna, peccatrice e redenta, doppiamente
pura nel cuore, che il peccato non aveva potuto corrompere, nel
pensiero, sognante l'amore di un Dio.
Oggi le donne, che rifanno la tua strada, sognano di te, e gli
uomini ti aspettano come tu aspettavi Gesù, ma ingannati dalla lunga
attesa t'ingannano, bevendo a tutti i bicchieri e a tutte le labbra.
La carne non arde forse ancora abbastanza, perché la fiamma dello
spirito ri riaccenda: bisogna aspettare.
Ieri Oscar Wilde, il poeta delle mostruose delicatezze, col cuore
così dolorosamente vuoto di passione e la mente così piena solamente
di se stesso, non metteva nella bocca di Salomè questa profonda
parola: «il mistero dell'amore è pili profondo del mistero della
morte; non bisogna guardare che l'amore?».
II.
Femminismo.
Qualcuno ha detto: un nuovo dolore sta per aggiungersi agli antichi,
la donna diventa rivale dell'uomo.
Se così fosse, e la rivalità dei sessi invece di placarsi nell'amore
del bambino proseguisse in quella degli interessi dentro la
famiglia, certamente il nuovo dolore sarebbe pari ai più grandi già
invecchiati nell'anima umana, con un danno più triste ancora del
dolore.
Non vi è in tutta la natura differenza più irreducibile che fra
l'uomo e la donna: la bellezza, la forza, la struttura, le
attitudini, tutto in loro fu così preparato che diventasse vizio
nell'uno l'imitazione di una virtù nell'altro; la natura, che aveva
fatto nel bambino il più debole fra tutti i neonati, appunto perché,
diventando uomo, doveva essere il più forte dei viventi, gli pose
accanto la donna, subordinando in lei le linee del corpo e dello
spirito alla maternità. Infatti in lei tutti i contorni sono molli,
curvi: le sue spalle, dalle quali il collo spunta con una grazia di
stelo, si incurvano leggermente; le mammelle anche vergini tremolano
pendule, delicate come un fiore, che una mano basta a gualcire,
mentre sui fianchi tutte le linee si allargano, appesantendosi con
una eleganza, che l'arte non ha quasi mai saputo cogliere.
Nei greci l'epurazione della bellezza falsò lievemente la natura
nella Venere non abbastanza madre per essere davvero donna: in noi
moderni un falso sentimento della bellezza snaturò nel costume e
nella figura la donna e la madre. Ma nel suo corpo, che verginità e
maternità non possono alterare, tutto è essenzialmente femminile;
pare costrutto per rimanere seduto con un bambino sul ventre, le
mammelle sospese sulla sua piccola bocca, così enorme è lo sviluppo
delle anche, del grembo, più enorme ancora il resto. Invece la
linea, che dalle ascelle calando sui lombi e gonfiandosi sui
fianchi discende sino alle gambe e si perde nel piede, attenua ai
ginocchi ogni rilievo e nella coscia si arrotonda senza una
accentuazione eli muscolo: il piede è troppo piccolo, scarso di
tallone, lievi tutti gli attacchi delle giunture, più delicata la
pelle.
La donna non può forzare un ostacolo col petto, le sue braccia
involontariamente riposano sul grembo, la sua testa si piega sopra
una spalla in atto materno: si sente debole e ha bisogno che la
bellezza diventi la sua forza; non deve lavorare, i suoi vizi come
le sue virtù ripugnano al lavoro. La miseria, la schiavitù antica e
moderna possono averla costretta al lavoro, sostituendola magari
talvolta all'uomo nelle più aspre fatiche, ma il corpo della donna
si guastò senza mutare né di linee né di attitudini, perché in lei
la maternità assorbiva tutta la vita e tutte le energie fìsiche e
spirituali. Una malattia sacra sembra in un ritmo lunare prepararla
al sagrificio: un sigillo più sacro ancorai garantisce la sua
verginità come primo ed unico premio all'uomo, che possedendo la
donna nella propria vita non potrà mai chiederle altra garanzia
della paternità.
La donna impiega nove o dieci mesi a partorire, poi diciotto ad
allattare, e in tutto questo periodo, pur sviluppando le proprie
energie sino ai miracoli più impreveduti nella fo.rza e nella
resistenza, essa è come una ammalata: tutto la turba, tutto può
nuocerle: ogni crisi della sua anima può diventare una malattia nel
suo corpo o in quello anche più delicato del bambino. La massima
mortalità umana è appunto nel primo tempo: quando dal latte il
bambino passa agli altri alimenti, questo secondo periodo non è meno
pericoloso del primo, ed esige nella madre una cura più intensa, una
vigilanza anche più acuta mentre ricomincia spesso in lei un altro
periodo di gravidanza.
La vita femminile rimane chiusa per venti anni in questa orbita,
quasi tutto il tempo fecondo del lavoro maschile: calcolando quindi
che una famiglia debba avere cinque figli per conservarne tre,
aumentando la popolazione di questo terzo bambino, contro il quale
si addenseranno tutte le sventure e le malattie della vita;
calcolando nei venti anni della fecondità materna la differenza di
lavoro fra l'uomo e la donna, si sorride involontariamente nel
ricordo di coloro che affermano socialmente la donna uguale
all'uomo. In quei venti anni di gravidanze, di allattamenti l'uomo
per la propria paternità non avrà impiegato che pochi minuti fra il
sonno e il lavoro: un impeto del sangue e dell'anima. Come
allevatore egli non succede alla madre, se non quando il bambino ha
sei o sette anni, e bisogna in lui rilevare la linea virile. Il
figlio diventa allora un compagno del padre: la madre invece si
ripiega sull'ultimo bambino.
Questo povero quadro umano non ha mai mutato e non muterà.
L'uomo domina sulla famiglia, non perché vi sia materialmente il più
forte, ma perché la sua paternità è una fede puramente spirituale.
La sovranità maschile non ha altra base: la natura non consentì
all'uomo la gioia o il dolore di sentirsi veramente padre: invece
egli ama, o anche non amando prende una donna, questa partorisce un
bambino ed egli per fede nella donna, per pietà del bambino, meglio
ancora per un istinto profondo della razza accetta di essere padre.
Ma lo è davvero? La sua scienza, la sua coscienza non vanno al di
là: la voluttà, che lo sedusse, è la cortina di un mistero; la donna
sola può dire al bambino le parole tenere e superbe: tu sei il
sangue del mio sangue!
Inutile e falsa ogni ricerca della paternità oltre i limiti segnati
dal diritto antico col ratto e collo stupro: la legge non potrà mai
sapere ciò che la natura nasconde nel proprio più oscuro segreto,
e, consentendo alla donna di proclamare il padre nell'amante,
consacra l'inganno femminile nella più tirannica delle
irresponsabilità. Qualunque possa essere il motivo di questa
antitesi nella nostra natura, che l'uomo il più alto rappresentante
dello spirito debba, inferiore alla donna, non sapere mai di essere
padre, la costituzione della famiglia nella sua ascensione storica
non potè mai né conciliarla né sopprimerla; l'amore cacciò l'uomo e
la donna nella famiglia, il bambino ve li mantenne: la donna dava il
latte e il sentimento, l'uomo la forza e il pensiero: la donna
preparava, l'uomo nel bambino, l'uomo si riproduceva in lui,
associandolo alla propria vita di lavoro e di combattimento.
Nella nostra modernità la condizione della famiglia non cangiò,
anzi la preponderanza dell'uomo crebbe colla spiritualità
dell'allevamento; prima nella lotta della vita prevalevano le
qualità fisiche, adesso invece soverchiano quelle spirituali. Il
padre dunque deve dominare tale allevamento, che l'inferiorità
della donna comprometterebbe ancora più colla tenerezza delle
proprie virtù che colla falsità dei propri vizi: ma da gran tempo
un nuovo dualismo è scoppiato nella famiglia. Un'erronea
interpretazione della legge contrappose il diritto di coniuge al
dovere di genitore, arrivando sino alla proclamazione del
divorzio: per contraccolpo l'opposizione fra coniugi, non più
sottomessa nel matrimonio religioso ad una autorità divina e nella
legge civile ad un dovere sociale, si acuì per l'orgoglio stesso
della nuova libertà.
La rivolta dei sessi passava dalla natura nello
spirito.
Nell'amore i due sessi inconsapevolmente si estenuano nello sforzo
di sopraffarsi: l'uomo vorrebbe lasciare la traccia sulla donna,
assorbire la sua anima, avere un impero assoluto sul suo corpo,
mentre non passa sovra di lei che come il fumo nell'aria e il
serpente sulla pietra. La donna invece resiste nella passività: la
sua debolezza trionfa soltanto deprimendo la nostra forza,
abbassando la nostra grandezza: mente ed inganna anche nell'amore
più acceso, nell'abbandono più devoto: la sua potenza è nella
seduzione, quindi aspetta l'uomo all'agguato, nei momenti del
desiderio, nelle ore dello scoraggiamento, e gli si promette come
un compenso alle imprese, delle quali si sente già venir meno;
dissolve colla grazia perfida o voluttuosa di un sorriso i suoi
propositi più fieri, con una carezza lieve ed irresistibile
solletica e sollecita tutti i suoi vizi. Buona, ha l'incanto futile
di un bambino; cattiva, un fascino pessimista, che nega la legge,
addormentando l'anima come dentro un aroma, facendole sentire nella
propria caduta una rivincita contro Dio. Il bambino solo poteva
quindi placare il loro antagonismo e risolvere l'antitesi dei
genitori, che perdendosi in lui dimenticavano se medesimi.
Invece una teoria proclamò la donna pari all'uomo, pretendendo per
lei pari tutti i diritti, nella casa e fuori, nella natura e nella
legge. La nuova vanità femminile si stanca già nella imitazione
dell'uomo e della sua opera: vuole percorrere tutte le sue
carriere, entra nelle sue scuole, negli opifici, nei giornali, nei
libri, ma non nelle caserme, perché da queste si può dover
rispondere ad un appello di morte. Davanti al padre, alla madre, al
fratello, al marito la donna non è più che un socio ombroso, che
s'irrigidisce per la paura di sembrare sottomesso, affetta
l'esperienza e simula il pensiero. Nell'amore non si dà più,
discute: un sottinteso piccino ed intrattabile interrompe tutti i
suoi giudizi e le sue azioni: la coscienza della inferiorità
l'esaspera nella lotta, e mette nella sua vanteria di bimbo una
invidia di mediocre; perché la donna non oltrepassa mai la
mediocrità.
Lasciamo tutte le ipotesi accumulate dalla medicina, per constatare
la quantità dell'ingegno, quel cervello di donna che pesava più di
quello di Cuvier, il cervello di Bichat atrofizzato in un lobo, e
risalendo tutte le serie, per le quali lo spirito umano si
manifesta, ovunque e sempre la donna si trova poco oltre il mezzo.
La filosofia non le deve alcun sistema, la scienza nessuna scoperta;
l'arte nessun monumento: il genio è maschile. La donna imparò e
ripetè talvolta ciò che gli uomini avevano fatto, ma non li precorse
mai e non li riassunse: le cime più alte del sentimento e dell'idea
rimasero inaccessibili alla donna, la metafisica e la musica sono
maschili. Quale donna può ergersi di fronte a Hegel e a Beethowen?
Quale donna ebbe una potenza di astrazione pari a quella di Keplero
e di Gaus? Quale donna fra tante poetesse potè scrivere l'epopea di
un popolo? Quale donna si assiderà quinta fra Eschilo e Shakespeare,
Dante e Balzac? Che cosa è l'Anguissola davanti a Michelangelo?
Giovanna d'Arco in faccia a Napoleone? Caterina di Russia di fronte
a Giulio Cesare? Per le donne scienza e filosofia sono appena un
dilettantismo: nell'arte non arrivano che al sentimento e
all'ingegno: George Sand, la più grande donna del secolo decimonono,
come è piccola fra Hugo e Wagner!
Il vecchio sofisma di paragonare le donne illustri agli uomini
mediocri, attribuendo alla posizione della donna la sua inferiorità
sociale, è peggio che ridicolo, giacché pari a noi nella forza
avrebbero avuto pari lo sviluppo. Invece né uomini, né donne
illustri sono eccezioni, ma gradi di una scala, anelli di una
catena: non si danno eccezioni o casi in natura: quelli che sembrano
tali, sono piuttosto capi o tronconi di serie. Bisogna quindi
prendere la serie femminile e, misurandola colla maschile, provare
che hanno la medesima base e la medesima altezza prima di
affermare che i sessi sono uguali. La storia depone contro la
donna: religioni, imperi, civiltà nulla è femminile, benché questo
elemento sia in tutto: invece le donne hanno fallito e falliranno
sempre in tutte le opere, nelle quali il sentimento debba essere
dominato dall'idea. Ogni sintesi essendo loro impossibile per
difetto di astrazione, la politica come serie di pensieri e di atti
sintetici, pei quali gli individui spariscono negli interessi e gli
interessi nelle idee, lo diventa forse peggio di ogni altra. A tale
potenza di astrazione corrisponde naturalmente un sistema muscolare
e nervoso, che esse non hanno, e poiché la vita animale non deve
disturbare l'esercizio delle altissime funzioni
intellettuali, l'uomo che diventa padre in un attimo vi è
meglio disposto della donna, che impiega nove mesi nella gravidanza
e un anno e mezzo nell'allattamento.
Solamente un grande ironista potrebbe immaginare Danton gravido
nelle terribili sedute della Convenzione, o Napoleone nella ritirata
da Mosca col re di Roma al petto e disperato di non potergli dare
il latte in quel freddo di morte.
Ma vi è qualche cosa per le donne più difficile ancora della
metafisica e della musica, ed è la giustizia. Esse simpatizzano o
disprezzano, amano o odiano; l'astrazione morale più alta di quella
scientifica rimane loro impossibile: potrebbero forse diventare
scrittrici eloquenti o avvocatesse seduttrici, giudici mai.
Misericordia, pietà, carità, tutte le forme dell'amore, sono tanti
difetti nella giustizia, che è invece la più pura negazione
dell'amore.
La giurisprudenza infatti tra tutte le discipline è ancora la meno
infestata da prove femminili.
L'invasione delle donne nelle carriere maschili non cominciò quindi
da una passione intellettuale, ma dall'orgoglio della nuova
libertà.
Nelle famiglie mediocri la smania dell'ascensione sociale diventò
una malattia; mentre si proclamava contro l'ozio degli ultimi,
decrepiti aristocratici la nobiltà del lavoro, una ripugnanza
saliva dall'anima moderna contro il lavoro manuale. Nessuno volle
più essere operaio: la genialità dei vecchi mestieri mortificati
dalle grandi macchine e dalle più grandi officine non ebbe più
seduzioni: le piccole arti femminili divennero umilianti nel
cospetto delle donne, che le pagavano, e si sognò di entrare maestra
in una classe, impiegata in un telegrafo, cassiera in un negozio,
istitutrice in una casa. Non si sentì o si finse di non sentire
l'umiliazione di tali uffici, pur di potersi distinguere dal volgo
operaio. La vanità e la vacuità della prima istruzione fecero il
resto: le professoresse pullularono da un pantano di giornali e di
libri femminili. L'arte non poteva soffrirne, ma il pubblico ne fu
come soffocato.
Così, cresciuto nella scuola e nella stampa, il femminismo si
diffuse fra le donne, che non avrebbero più voluto essere tali che
in certe ore, ad un brusco richiamo del sesso e del senso: forse un
rimpianto della modesta ma tranquilla posizione perduta singhiozzava
secretamente nel fondo dei loro cuori; una invidia delle donne
veramente donne, seduttrici nella eleganza del lusso o amate nella
bontà dell'aiuto devoto, bruciava loro il sangue: ma la politica le
attirava come tutti gli spostati, e molte vi si precipitarono,
affettando una superbia di negazioni scolastiche, fingendo una
passione democratica che era soltanto amarezza plebea.
Adesso il grande problema del femminismo è politico: la donna,
proclamandosi pari all'uomo, dovrà essere pareggiata a lui
nell'elettorato?
Se questo derivasse soltanto da un minimo di capacità intellettuale,
la risposta non potrebbe essere dubbia; soltanto un vieto orgoglio
di privilegio maschile vieterebbe ancora alla donna la funzione
legislativa della sovranità. Infatti
la concezione democratica, uguagliando gli uomini, abbassò
siffattamente il livello della loro capacità che ad essere elettori
oramai bastava avere raggiunto la maggiore età. In una febbre di
emancipazione e nella insofferenza di tutti i vecchi vincoli non si
pensò forse abbastanza alla difficoltà di tale funzione legislativa,
affettando di credere che l'istinto vi avrebbe abbastanza bene
supplito al difetto di coscienza: e dopo, malgrado i
dolorosi risultati della esperienza, non si volle, o, meglio,
non si potè più restringere il voto concesso. Accade quasi sempre
così nella storia del progresso umano: che le grandi idee e le
massime riforme vi trionfano violente e il tempo deve poi,
lentamente, faticosamente equilibrarle. Ma un istinto
profondo al solito guidava questa rivoluzione dell'elettorato, anche
là dove le esagerazioni teoriche sembravano maggiormente
comprometterlo.
Dichiarando elettori tutti gli uomini in una volontaria dimenticanza
delle loro disparità e insufficienze sociali, la legge sentiva di
riposare sicura non già sulla somma degli individui elettori, ma
sulla loro categoria: in questi antagonismi ed antitesi si sarebbero
conciliati: l'intelligenza e la volontà superiore dei più colti
avrebbe integrato l'incapacità degli infimi. I vizi di una classe
sarebbero stati neutralizzati dai vizi di un'altra, la corruzione
della violenza da quella del danaro, le improntitudini dei
rivoluzionari dalle testardaggini dei conservatori, le demenze
degli anomali dal buon senso della massa.
E così fu.
Il suffragio universale maschile può essere stato impolitico nel
momento della sua attuazione, come affermava Proudhon, la più vasta
mente e la più schietta coscienza rivoluzionaria nel secolo
decimonono, ma è vero come idea; il suffragio universale femminile
non aggiungerebbe elettori ad elettori, ma opporrebbe una
categoria ad un'altra. E poiché il loro numero sarebbe pari e la
capacità dispari, la unità della coscienza ne soffrirebbe. Il
governo degli uomini dalla Politica di Aristotele alla Costituzione
inglese di Begehot creò una serie di capolavori: il governo delle
donne non ne ispirò che uno nella Lisitrata di Aristofane. Non si
tratta di affermare spiritosamente che madama di Sevignè avrebbe
ben diritto di votare quanto il proprio giardiniere, il quale
saprebbe appena sillabare i capolavori della padrona, ma di
stabilire se la categoria politica di madama di Sevignè abbia i
caratteri, che danno diritto al voto. Se adesso votano i
giardinieri, ciò accade perché la loro categoria maschile ha
prodotto recentemente nella politica Cavour e Bismark, nella scienza
Darwin e Wirkow, nella filosofia Hegel, nella storia Taine, nella
giurisprudenza Laurent, nell'economia Marx: perché i suoi poeti si
chiamano Hugo, i suoi romanzieri Balzac, i suoi eretici Lamennais,
i suoi critici Strauss, i suoi musici Wagner, i suoi scettici
Renan, i suoi atei Bukle, i suoi eroi Garibaldi, i suoi generali
Moltke, i suoi imperatori Napoleone. perché la categoria maschile
atteggiò tutta la storia del pensiero e dell'opera umana attraverso
i sacrifici della barbarie e la passione dello spirito: perché
l'uomo solo ha il dono della creazione e della sovranità, l'uomo
«olo è capace di dominarsi nella astrazione davanti alla natura e
alla storia, portando l'angoscia dei problemi insolubili e volendo
l'umano oltre i limiti dell'individuale. Egli è più uomo che padre,
più cittadino che uomo: la sua volontà si protende in uno sforzo di
suicida che ha bisogno di immolarsi ad una idea. Certamente non
tutti gli uomini sono così alti, ma il senso dell'altezza è in
tutti.
La donna invece è la garanzia immediata della generazione
nell'allevamento, e la sua maternità lunga, difficile, assoluta,
respinge dalla, propria orbita tutto quanto minaccia il bambino, o
può colpire il figlio: è egoista sino all'eroismo ed al sacrificio,
non vuol sentire, non vuol pensare oltre la propria sfera. Se così
non fosse, diminuirebbe la garanzia della vita nella razza; la
famiglia non vi ha altra funzione, nella famiglia la donna protegge
il bambino contro tutti. Ecco perché la natura lasciò in lei
prevalere la femmina, mentre nel maschio soverchia l'uomo. La
bambina, la fanciulla, la vergine preparano la madre, accumulano la
seduzione pel maschio, la forza pel figlio: il resto è contorno,
assimilazione di sensi e di fantasia, mimetismo sentimentale ed
intellettuale. Quando la donna ripetè la nostra opera, snaturò se
stessa.
Per esercitare il diritto sovrano della, legislazione bisogna che
nel nostro spirito la ragione prevalga al sentimento, e la giustizia
alla passione; per compiere il dovere di elettore bisogna poter
prima accettare quello di soldato; le donne invece possono ancora
meno intendere la guerra che farla. Tutto il loro cuore si rivolta
davanti a tale tragica necessità, le loro viscere gridano ancora
più forte della loro voce contro questa morte, che il mortale deve
imporre al mortale.
In uno dei suoi opuscoli Dumas credette di scrivere eloquentemente
così: «La donna non deve essere soldato, perché ha molto di meglio
da fare, e deve partorirlo, ma quando passa un conquistatore e le
uccide un milione e ottocentomila figli, se non ebbe come donna il
diritto di votare contro questa forma di governo, ha guadagnato
come madre per la sua fecondità, per le sue angoscie, per i suoi
dolori, il diritto di votargli contro, se volesse tornare».
Sciaguratamente avrebbe votato contro anche prima, e l'impero
napoleonico sarebbe stato impossibile, e la rivoluzione, non
uscendo dalla Francia per rovesciare la vecchia Europa feudale, non
avrebbe creata la moderna Europa democratica. Il milione e
ottocentomila figli, salvati allora, sarebbero morti egualmente, ma
la storia non avrebbe profittato della loro morte.
Invece la politica eseguisce la stessa ecatombe dappertutto,
decimando i mestieri, scatenando i vizi e le malattie, la violenza
della libertà e della tirannide per raggiungere i propri fini
istintivi, quasi sempre in antitesi colle sue necessità immediate.
La guerra muta così campi ed armi, non costume: il medesimo
legislatore, lo stesso soldato vi sono sempre egualmente necessari.
Non bisogna dunque concedere alla donna più di quanto le si può
chiedere.
L'invasione del femminismo
nelle carriere maschili si arresterà presto alla
resistenza dei maschi, e l'uomo non sarà battuto che nelle più
piccole, dove la pazienza e la sobrietà assicurano la vittoria:
nelle altre, nelle professioni della medicina, della giurisprudenza,
della matematica la donna soccomberà prima ancora che la
concorrenza commerciale la sopraffaccia; nell'arte rimarrà un
pleonasmo, nella scuola un sostituto senza autorità, se gli scolari
non siano più bambini.
Fra una sarta ed una maestra il valore dell'ingegno non può essere
dubbio: foggiare un vestito di sopra una bella, armonizzando pieghe
e colori, aggiungendo una grazia alla giovinezza e un sorriso alla
vita, è ben più difficile che da una piccola cattedra sillabare ciò
che in un bel libro scrisse un grande autore.
E le donne lo sentono, perché gli uomini lo sanno.
La natura non fa duplicati: se un uomo e una donna compiono la
stessa funzione, uno dei due ha torto, e poiché l'uomo non potrebbe
mai esercitare le funzioni femminili, la donna agisce contro se
medesima, pareggiandosi all'uomo.
La sua sovranità, il suo regno sono altrove.
Bisogna comprendere e spiegare il femminismo nel presente periodo
storico come una fra le tante forme sporadiche della democrazia; la
prima vanità della coltura fece dispettare il lavoro manuale,
rivelando così in un nuovo vizio il principio aristocratico dello
spirito; ma lo spirito invece riconosce se medesimo ancora più in
un mestiere che nella scimmiesca riproduzione di alcuni schemi.
Senza la donna, tutta donna, il bambino non vive; senza la donna
tutta madre, sposa, sorella, figlia, la vita è vuota: l'uomo deve
lavorare per tutti nella propria casa, bastare solo a mantenerli, a
difenderla. Ecco l'ideale: il resto passerà come un errore, o durerà
come una miseria.
L'ideale solo è vero.
Il posto d'onore per l'uomo sarà sempre sulla fronte di una
battaglia armata od inerme, nell'oblio del proprio coraggio, nella
esaltazione delle proprie forze; soldato o generale, la sua vita non
consente pace; gli bisogna assoggettare la natura, creare la storia.
Per la donna il posto di onore è al capezzale di un bambino: lei
sola può farlo vivere, mettergli nell'anima i sentimenti che
l'egoismo delle passioni non saprà poi soffocare. La donna sterile
avrà una maternità spirituale, più profonda forse e più pura: essa
può ascendere alla intelligenza dell'opera, se non alla sua
creazione.
Dopo aver sedotto l'uomo coll'incanto della propria bellezza o
soltanto col fascino della gioventù, la donna non può essere che
ispiratrice o consolatrice; rivale nel lavoro, antagonista nella
carriera, e costretta a disertare la casa, a non sentire che se
stessa, e allora inaridisce e si deforma. Il suo danaro costa assai
più di quanto vale: può aiutare la spesa, non la vita della
famiglia.
I grandi uomini non amarono mai che donne semplici: nessuna delle
grandi donne moderne è femminista: la più gloriosa delle scrittrici,
George Sand, non seppe nelle analisi femminili de' suoi romanzi
rivelare un solo decreto muliebre.
Davanti ad una donna femminista mi sono sempre ricordato l'amaro
motto del poeta: soltanto la bara è abbastanza stretta, perché una
donna non possa sdraiarsi al nostro fianco.
San Paolo ordinava alle donne di entrare velate nella chiesa,
perché la loro bellezza non distraesse gli occhi dell'uomo dalla
contemplazione di Dio; ad una dama piccina, che gli chiedeva come
una donna potesse diventare grande, Byrou rispose: arrivando sino al
cuore di un uomo.
Le donne non riceveranno mai né un complimento più bello, ne un
consiglio migliore; non è la donna che ci fece perdere il paradiso,
non è lei sola che può farcelo dimenticare?
III
Il danaro.
Carnegie, un miliardario americano, ha proposto in un libro il
problema del danaro, nel come spendere il superfluo, quando questa
sua quantità superi troppo la potenza egoisticamente dispensatrice
delle passioni e dei vizi; il libro è riuscito quale doveva, sciocco
e volgare: invece il problema del danaro è uno dei più profondi ed
originali della modernità.
La forma del danaro ha potuto mutare nei secoli, ma la sua essenza
non cangiò mai: esso non è un simbolo, come spesso fu detto, ma un
fatto, che ne esprime altri infiniti, avendo una fisonomia e virtù
propria, leggi dinamiche e statiche: ha stagioni come i frutti,
correnti come il mare, linee come il calore; si aduna e si
disperde, impassibile ed impersonale, libero nelle vicende della
vita e della storia. Colui che potesse interrogare un soldo
forzandolo a rispondere, imparerebbe nel racconto del suo
vagabondaggio in tutte le tasche e in tutte le mani il segreto di
molte generazioni, perché il danaro entra in tutte le azioni della
vita, e dinanzi al danaro l'anima non sa mantenere la maschera.
Tutta la ricchezza si unifica nel danaro; esso alimenta egualmente i
modi della produzione e della trasmissione: è l'idea più astratta e
la forma più assoluta del capitale, che lo sforzo del lavoro ha
potuto creare al disopra di se stesso e contro se stesso nella
impersonalità di un deposito, che le generazioni trasmettono alle
generazioni, adoperato dai viventi con la falsa apparenza
dell'arbitrio, mentre il capitale non ubbidisce che alle proprie
leggi e aderisce al capitalista soltanto, se questo sottometta la
propria opera alle sue necessità.
E poiché la ricchezza appare come la migliore garanzia della vita,
il danaro diventa il sogno di tutti nel lavoro e nell'ozio, nella
giovinezza che si affaccia alla vita e nella vecchiezza, che,
sentendo di perderla, si aggrappa disperatamente al danaro, nel
quale passano per realizzarsi tutte le sue forme. Quando la
ricchezza era immobiliare soltanto, il suo poco danaro aveva un
valore esatto come sempre nella propria funzione di scambio, ma
quasi incomparabile nella sua potenzialità di trasmutazione: per lui
l'uomo si emancipava dalla servitù di ogni opera e poteva invece
dominarle tutte, mutare luogo e patria, trovare ovunque servi ed
alleati, sentendo in se medesimo la più alta e difficile sovranità,
quella che si libra sopra i materiali bisogni e può tenere la testa
alta, quando tutti l'abbassano.
Mentre le leggi proporzionavano fra loro le genti, se avveniva
spesso che la religione le fondesse, il danaro nella propria
astrazione rappresentava già la loro prima unità, perché la legge
del danaro era unica e nessuno avrebbe potuto falsarla: infatti
quanti vi si provarono subdolamente o tirannicamente fallirono
all'impresa. Si può ferire, aiutare forse la ricchezza nei suoi
modi di produzione o nelle forme di scambio, non arrestare o
imprigionare il danaro: esso ha un istinto che l'avverte di ogni
pericolo, quindi si ritrae e si cela aspettando: sequestrato,
mantiene fra le mani violentatrici la propria natura, sfugge
nuovamente aiutato dalla frode o dalla violenza stessa tentata sopra
di lui per riapparire più forte e più sovrano di prima, indifferente
alle catastrofi che marcano le epoche, impassibile a. tutte le
lusinghe.
Il danaro ritorna al danaro.
Siccome la sua forza cresce dalla accumulazione e la sua funzione è
universale, si aduna dove e in chi meglio può facilitargli
l'alimentazione della ricchezza; ma ignora egualmente capitalista
e lavoratore. Senza prediligere alcuna opera, passa attraverso
quelle dalle quali sa di uscire sicuro e maggiore di prima; nel caso
contrario regola sul proprio pericolo la propria decima sino ad
arrischiare una guerra disperata, anche nella sola speranza di una
battaglia felice. Indarno filosofie e religioni gli negarono la
capacità di fruttificazione affermando la sua sterilità nel
capitalista, che non lavora, giacché il capitale ha una potenza
spontanea, alla quale può associarsi quella del lavoro, ma che la
supera, come ogni formula è sempre più potente nell'idea che nel
fatto: la superiorità del danaro sul lavoro sta appunto nel suo
perfetto adattamento ad ogni condizione, nell'impersonalità dei
suoi rapporti che lo fanno somigliare ad un'idea, nella sua
preesistenza al lavoro che senza di lui nelle società avanzate non
può nemmeno cominciare; e ciò dal giorno che nel primo risparmio si
accumulò il primo capitale.
Senza l'astrazione del danaro, il capitale non potrebbe
spersonalizzarsi, uscendo fuori di se stesso,-per agire su tutti i
luoghi, in tutti i tempi. La forma della moneta più esprime
l'astrazione e più è perfetta. Finché rimase nei metalli subì la
condizione di ogni altra merce, per quanti sforzi la legge facesse a
garantirle l'immutabilità, mentre le proporzioni fra i corsi dei
metalli mutavano così che la moneta, invece di essere l'unità del
capitale, ne era appena un campione privilegiato. Soltanto nel
simbolo di una parola scritta potè finalmente attingere la
perfezione di se stesso, dello scambio e della sicurezza: e allora i
metalli preziosi si nascosero nei sotterranei delle banche,
invisibili ed immobili, a garantire il volo della parola, che
rinnovava i miracoli del verbo.
Adesso il danaro non è ormai più che una firma.
La sua potenza è quindi pari alla sua astrazione: nella gamma dei
capitali i migliori sono quelli che possono volatizzarsi, tutto
tende così a diventare moneta: il genio economico inventa ogni
giorno altri modi per spersonalizzare il capitale, il circolo della
ricchezza, invertendo un teorema della meccanica e dilatandosi,
diventa più veloce: un moto affatica le vecchie legislazioni per
liberare i passaggi della ricchezza; la mobilità e la facilità della
vita moderna non concepiscono più il capitale che in una rotazione
sempre più rapida, la quale obbliga il capitalista ad uno sforzo
sempre maggiore, condannandolo a più frequenti errori e a più
tremende espiazioni.
Nella vita sociale non vi è altro oggetto che possa somigliare al
danaro, il quale, valutandoli, tutti li dissolve: nella vita
individuale l'indipendenza deriva dal danaro, senza del quale
nessuna azione è possibile: ricchi e poveri bisogna possederne per
non decadere nella servitù: chi non sa provvedere ai propri
imprescindibili bisogni è schiavo: ma la differenza fra uomo e uomo
sta tutta nella quantità e nella qualità di questi bisogni.
La ricchezza è libertà negativa dell'ozio e positiva nella facoltà
dell'opera, che senza il danaro rimarrebbe impossibile: non altro.
Vizi e passioni della ricchezza non acquistano né forza, né libertà:
la differenza di decorazione non assicura nemmeno loro un vantaggio
di sicurtà e di bellezza: il danaro non può nella sfera dello
spirito che comprare forme false, sapendone la falsità.
E dove la ricchezza per facilità di mercato si accumula troppo,
superando la facoltà spendereccia dell'individuo, improvvisa in lui
per una logica inversione la forma forse più dolorosa della
miseria; così il miliardario, possedendo nel proprio danaro la
possibilità di comprare tutto quanto è vendibile, espia questa
inutile superiorità nella condanna di dovere desiderare soltanto
ciò che il danaro non può dare. Un povero invece è più vicino alla
gioia: i suoi desideri sono dentro al danaro, che domani o posdomani
un caso della vita potrà gittargli come un dono: l'altro,
l'onnipotente della ricchezza, vivrà in una solitudine fredda, senza
nemmeno quella luce ideale, che consola i grandi solitari del
pensiero.
Ma il fenomeno dell'immane ricchezza moderna non è originale, come
si pensa.
Originale è la sua formazione, che una volta derivava sempre da una
rapina militare o politica. Adesso la mondialità del mercato
permette una celerità di accumulazione quasi fantastica: i mezzi di
comunicazione e di azione non somigliano più agli antichi: è
possibile indovinare a distanze di oceani le condizioni di un
mercato, dominarlo con un ordine, disordinarlo con un espediente: si
possono irregimentare a decine di migliaia gli operai, fondare
sull'oscillazione delle merci un impero commerciale.
Infatti le immense ricchezze sono dovute piuttosto al commercio che
all'industria, ma la quantità del danaro non prova sempre quella
dell'ingegno: forse cento milioni guadagnati sul mercato italiano
rappresentano maggiore potenza intellettuale che un miliardo
americano. Però questa nuova inverosimile ricchezza esprime anche
essa un progresso morale. La violenza non vi è più possibile e poco
la frode, giacché sopra un mercato troppo vasto, con una clientela
sconosciuta, l'inferiorità o peggio ancora la falsità della merce
non danno la vittoria. Questa potrà per privilegio di natura o di
legge imporsi per qualche tempo, ma l'incalcolabile forza della
libertà nella concorrenza ristabilisce presto l'equilibrio della
verità.
Il miliardario è un tipo attuale: pare un re, e invece non è che
l'antico pubblicano: non può essere un produttore, perché la
produzione preoccupa tutto l'uomo e non va oltre l'orbita della sua
azione personale: deve essere un mercante, capace di pensare tutto o
quasi il mercato e d'imporvi una decima nei trapassi della merce.
Così, solamente così, dall'immensità del teatro, con una minima
pressione sopra un numero straordinario di punti, è possibile la
conquista di un miliardo nel breve giro di una virilità.
Tale fatto, poiché esiste, è dunque legittimo: qualunque sia la sua
forma individuale, il risultato ne profitta alla massa come tutte le
sintesi: la sua sovranità è un vanto della democrazia, che,
sorridendo, vede gli ultimi imperatori trattare da pari a pari coi
primi miliardari: ma questo impero del danaro non ha una idea,
invece di una passione non contiene quasi mai che un vizio. Bisogna
a questa sovranità come a tutte le altre una potenza di astrazione
e di impero sopra se stessi: dimenticare gli uomini e le cose per
non vedere che alcune serie delle loro combinazioni, volere la
ricchezza per la ricchezza nella vacuità del possesso, giacché,
adoperandola, si discende nell'azione e questa non consente più la
rapidità vertiginosa della accumulazione. L'avaro è dunque il tipo
scheletrico del miliardario: una avarizia che è un orgoglio, una
dominazione infima che degrada i propri sudditi senza innalzare il
sovrano: una potenzialità inerte quasi, che si logora nel proprio
esercizio e muore finalmente nell'assidua, inutile conquista
dei mezzi.
L'uomo pensa o opera: in ambo i casi crea; il miliardario invece è
condannato a sentirsi minore dei propri risultati, a non poter
desiderare più che fuori del danaro, a non saperlo dominare dentro
una idea superiore.
Il libro di Carnegie non ha altra origine: questo fabbro è finito
nella nausea della ricchezza: ne gittò i brandelli nella
beneficenza delle miserie e degli studi, confessando così di non
bastare ad un'opera pari al danaro: chiese all'ammirazione dei
poveri e dei deboli i compiacimenti di una superbia, nella quale
non poteva arrestarsi, e proclamò paradossalmente che morire senza
avere speso la propria ricchezza era la prova più umiliante della
incapacità.
Invece questa prova è nel non essere pari ai propri miliardi,
maneggiandoli come Napoleone I la spada e Gambetta la parola,
creando in qualche luogo un qualche piccolo, breve lineamento di
storia.
La magnificenza moderna del danaro è nel grado della sua astrazione.
Esso, l'eterno mobile, non si muove quasi più: esso, l'incredulo,
non vive oramai che di fede. Il credito, questa suprema virtù del
commercio, che ne centuplica le forze, è penetrata anche nel danaro
ridotto ad una carta, ad una firma: la sua potenza negativa ha
eguagliato tutte le funzioni sociali, degradando o depravando anche
le più alte: oggi si pagano persino i deputati, e nessuno ne sente
più l'onta. Ma la sua potenza positiva compose l'unità del mondo;
il danaro, sintetizzando il commercio, spersonalizzando il
capitale, ha unificato i più opposti interessi coll'imposizione del
medesimo ritmo: adesso vi sono ancora nazioni, non mercati in
ritardo. Il danaro è il veicolo dell'idea, dove passa lascia un
solco: la civiltà non possiede arme più terribile, acido più
dissolvente, istrumento più creatore.
L'espansione e le forme attuali del credito sono fra le glorie più
belle della modernità.
All'antico credito, che campava di ipoteche, è succeduto il nostro,
che vive d'ipotesi ed agisce come un calcolo spirituale: nel
commercio si valuta l'uomo ancora più della sua ricchezza, nella
valutazione di una casa commerciale il coefficiente morale supera
quasi sempre quello economico. Tutto il commercio rotola sul
credito, giacché i depositi delle banche sarebbero insufficienti a
garantire le sue operazioni: l'astrazione ha spiritualizzato anche
le forme più infime e pesanti.
Così, forse per la legge fatale del binomio, in questa civiltà
industriale mai l'anima fu più vile davanti al danaro.
Ma tutti coloro che non vogliono, forzando se medesimi, alzare il
centro della propria vita nel sentimento o nel pensiero, debbono
soggiacere all'idolatria del danaro, taumaturgo di tutti i creduli,
sultano di tutti gli schiavi. I vizi lo adoreranno sempre, le
passioni urleranno verso di lui maledicendolo ed invocandolo
finché il loro fuoco stesso non le purifichi; le donne lo sognano
come i bimbi sognano i giocattoli, gli uomini lo gettano alle donne,
pagando così ciò che in loro è senza prezzo, l'amore o la sua
illusione.
Se il mondo non fosse così ricco, non potrebbe diffondere e ricreare
così rapidamente la propria civiltà: se i miliardari nella loro
inferiorità davanti al danaro non esprimessero mirabilmente la sua
natura inferiore, quella della massa nella sua viltà atavica sarebbe
già caduta alla più ignobile delle dedizioni.
Invece quasi tutti delirano per il danaro, e nessuno vuole
inchinarsi a chi lo possiede.
L'ideale raggia dunque, illumina e solleva.
Il povero è quegli, che non ha niente nel cuore: fra tutti i deboli
colui è ancora schiavo,- che, incapace di pensare, deve eseguire
solo materialmente un pensiero altrui: a tutti costoro il salario
aumenterà indarno.
E i ricchi che erediteranno il danaro senza la facoltà di
adoperarlo? Non abbiate fretta, perché il danaro ne avrà più di voi,
abbandonandoli: il danaro non si è già spiritualizzato?
Perché certi poveri di spirito non sarebbero davvero poveri?
IV
Gli spostati.
La chimica non ha un'acido dissolvente come il proletariato
intellettuale nel nostro periodo storico.
Poiché l'elettorato pareggiava tutte le classi, e queste resistevano
dentro la cerchia del costume aiutate da privilegi e pregiudizi
storici, era necessaria un'azione disgregatrice, che, scomponendo e
dissolvendo le vecchie forme, preparasse l'avvento della nuova
aristocrazia spirituale. Il proletariato intellettuale se ne
incaricò.
Il propagarsi delle scuole e il diffondersi della cultura armò la
sua prima milizia, che venne grado a grado aumentando nello strato
superiore della classe operaia e negli ultimi della borghesia e
del patriziato. Un'incredulità ed un orgoglio egualmente egoisti ne
furono le due qualità caratteristiche: in ogni famiglia di operai,
povera o agiata, una smania invase tutti: uscire per opera di un
figlio dalla propria classe, avvicinandosi alla ricchezza e al
potere. Nessun rispetto delle classi superiori durava ancora, la
religione non aveva più efficacia, consigliando la rassegnazione
alle differenze mondane o additando in alto gli eterni ideali dello
spirito: si dispettava il lavoro manuale, una invidia avvelenava le
piccole, ingenue gioie della vita, spronando alla fatica del lavoro
o alle insidie di una corruzione che abbreviasse la lunghezza del
cammino attraverso qualunque scorciatoia.
La bella e rude sincerità del carattere popolano era quasi
scomparsa: una vergogna delle proprie origini degradava già i più
forti, che volevano ascendere, e, rinnegati dalla propria classe,
li preparava a rinnegare la propria famiglia così, ovunque
potessero arrivare porterebbero il medesimo astio contro superiori
ed inferiori, una scontentezza di se stessi e di tutti, propagando
le idee democratiche per odio dei signori e mendicandone la
famigliarità, vantandosi di essere borghesi e della borghesia non
assimilando che le abitudini ricche e le attitudini industriali,
disseminando lungo la strada, a tutte le stazioni della vita, le
negazioni di ogni idealità e le vanterie di una pratica che in tutti
i problemi non voleva vedere se non i vantaggi più immediati e non
riconoscere altra superiorità fuori della ricchezza e del potere.
Questo proletariato aveva però una incontrastabile potenza di
penetrazione, attinta alle scaturigini del popolo stesso, nel fondo
della sua riserva inesausta. La poca sensibilità, la sicurezza
dell'istinto, la volgarità delle predilezioni, e soprattutto
quell'indefinibile miscuglio di vigliaccheria e di prepotenza, che
compone sempre l'anima demagogica, metteva nella sua opera una
meravigliosa facilità: in basso aspirava come una pompa, in alto
filtrava come un veleno: l'eguaglianza serviva di egida,
l'industrialismo forniva i mezzi, l'elettorato dava ogni tanto una
vittoria.
Tale aristocrazia intellettuale nel popolo non era però che
negativa: respingeva simultaneamente le virtù delle classi
inferiori e superiori, sembrava rompere con tutte le tradizioni,
girandosi all'avvenire, mentre invece si precipitava solo sul
presente. Il popolo, guidato da questi nuovi venturieri, non poteva
non seguirli: talvolta li ammirava sinceramente come propri
campioni, più spesso il suo istinto diffidava della loro coscienza,
e la sua forte ingenuità si ribellava alla loro falsa, scaltrezza,
ma anche allora, non cessava da una certa stima per i loro successi
e per la disinvolta tranquillità della loro corruzione. Questi
campioni, diventati maestri, professionisti, nello spasimo di tutte
le fami e di tutte le insidie, ascendendo non arrivavano però che ad
una miseria più umiliante di prima, perché costretta alla
simulazione della ricchezza nella precarietà dei guadagni, dentro i
limiti di stipendi che preparavano ai figli una povertà più
insopportabile della antica.
Nella coscienza di questo proletariato intellettuale l'ombra era
piena di fantasmi e le parole di sottintesi: i suoi atti, le sue
frasi, le sue reticenze, i motivi della moda, del costume morale o
politico avevano sempre la stessa tonalità aggressiva e servile; le
sue superbie non erano che vanità, il suo odio che invidia, la sua
morale che una legalità. Ma la sua intelligenza rimaneva aperta a
tutti i suoni e a tutti i venti; nei giornali e nei libri, nelle
industrie e nel commercio, nella politica soprattutto, imparava
quanto la modernità elegge o ricusa; era focolare e veicolo;
penetrando dappertutto, improvvisava contatti e aderenze; siccome
preferiva gli interessi alle idee e fingeva nel proprio l'interesse
della massa, acquistava una forza dalle sue forze. Non era il suo
cuore, ma pareva già la sua intelligenza; non meritava ancora una
vittoria, e aveva già ottenuta quella di essere accettato come una
necessità dì tutti gli accordi, tenuto come un nemico in ogni
lotta.
Al di sopra di questa ascensione plebea saliva il proletariato
borghese più denso di numero, più abile e più forte. La rivoluzione
del risorgimento era stata borghese nei principi e ,nei modi,
nell'ideale e nei risultati; la borghesia dunque doveva raccoglierne
il premio, che diventò enorme. Per consolidarsi il governo fece una
politica di clientela all'interno e all'estero: ogni impiegato
diventava come un'azionista o un complice; ogni affare concesso,
ogni diritto riconosciuto, un interesse che avvinceva qualcuno nel
nuovo ordine.
Quindi una ebbrezza di comando, di danaro, di idee, di bisogni
sorprese la borghesia; in alto, nei suoi strati migliori sì mantenne
girondina, applicò la rivoluzione coi metodi della vecchia
rettorica, credendo sempre di salvarla dalle mene della Chiesa, che
non si muoveva più al disotto; nella sfera degli affari si gettò sul
governo come sopra una preda e sul paese come sopra un campo
vergine. L'opera fu vertiginosa, miracolosa all'interno e
all'estero: una terza Italia prospera, giovane, capace di
fronteggiare i più forti balzò nella storia; ancora una volta il
vecchio genio italiano, la mistura incalcolabile, inesauribile
della nostra razza, ricominciava un'epoca originale. Ma la
borghesia, scarsa di virtù veramente civili e militari nel periodo
del risorgimento, in quell'altro d'industrialismo liberale vi
adoperò soltanto, né avrebbe potuto essere altrimenti, le più
duttili qualità dell'ingegno e quella potenza di mediocrità
adattabile, colla quale aveva trionfalmente resistito nei tempi
peggiori.
Dal suo fondo invece, come in una esplosione, si avventarono
all'alto i caratteri e le forze più vive: la piccola borghesia
scavalcò presto la grande e la sostituì, anche dove pareva non
volerla abbattere. All'indomani della vittoria nazionale la
piccola borghesia era già più liberale della grande, confusa col
patriziato nell'opera: poco dopo accaparrava tutti gli impieghi,
riempiva le università, invadeva le professioni: ma sdegnava i
mestieri. Democratica per istinto, qualche volta demagogica per
necessità, soprattutto smaniosa di far presto, non sentiva vincoli,
non riconosceva limiti: l'incredulità filosofica delle scienze la
dispensava da una morale, l'industrialismo co' suoi bisogni di
pratica immediata, di grande organizzazione, d'impersonalità nel
successo le formava un costume, e la politica una maschera. Il nuovo
aspetto sociale si determinò da questo avvento della piccola
borghesia; anch'essa era un proletariato intellettuale, ma più
intelligente, più acre ed inappagabile dell'altro: odiava meno i
signori, perché più vicini ad entrare nella loro classe, ma adorava
anche più vilmente il danaro: aveva meno istinto e più esperienza:
si dette presto un'apparenza quasi bella, non potè, come il
proletariato intellettuale della plebe, mantenere un certo carattere
politico, perché le disparità dell'epoca l'obbligavano alla
contraddizione di tutti i principi in tutti gli interessi.
Il campo per lei più vasto e fecondo fu nelle professioni: quasi
istantaneamente il loro carattere mutò: prima erano come una
aristocrazia, con modi e virtù tradizionali: dopo non furono più che
mestieri, nei quali il lucro giustificava i mezzi e dava la misura
più esatta del valore nel professionista. Dal dogma della
irresponsabilità nella professione entro i limiti legali si arrivò
al delitto larvato e professionale: la concorrenza urgeva, le scuole
vomitavano come bocche di forno a migliaia i laureati, figli di
minimi possidenti, di grossi o piccoli impiegati, quasi tutti
allevati nello spasimo di un lusso non ancora raggiunto o troppo
facilmente effìmero. Nessuno di loro voleva ridiscendere nella
inferiorità del popolo, nessuno sarebbe stato capace di rinunciare
alla compiacenza di vivere nel nuovo ambiente, le donne meno degli
uomini, i genitori meno ancora dei figli. Bisognava espandersi,
salire, conquistare. La cultura li aveva armati, lo scetticismo
morale li manteneva in equilibrio su tutte le difficoltà: si
sentivano come naufraghi in vista della spiaggia, e il naufragio
per tutti incominciava all'indomani della maggiore età. Perdere un
giorno era forse perdere tutto.
Mai guerra fu più muta, fredda, senza tregua, senza pietà.
I vincitori si piantavano sugli spalti conquistati e vi si
fortificavano; i vinti, e lo erano quasi tutti, nella quantità dei
bisogni moltiplicata in loro da ogni vittoria, erravano intorno a
tutte le trincee, penetrando di frodo, se la forza era
insufficiente, con un'opera assidua, minacciando tutte le posizioni
dei vincitori; capaci di uno sforzo eroico per un motivo miserabile,
incapaci di una solidarietà nella difesa come nell'attacco. Quindi
la loro presenza essendo ovunque, la loro efficacia prevaleva. Ma
la borghesia dei vincitori era la genitrice di questi vinti, e non
poteva non essere la loro complice: il proletariato plebeo vi
scorgeva un rivale costretto a diventare un alleato da una uguale
necessità di conquista: la febbre della vita moderna, la sua estrema
mobilità, la fluttuazione quasi tempestosa di tutti gli interessi
aiutavano questa guerra, che ricominciava nella antica, fra tanti
singoli duelli, e nella quale ad ogni avversario morto ne
succedeva istantaneamente un altro.
Intanto la teorica del bene pubblico allargava la propria sinfonia:
non si parlava che di popolo, di umili, di poveri, senza che nessuno
volesse più vivere fra questi; mentre coloro, che f
si cacciavano
nei rischi della delinquenza pur di
salire, erano ammirati nella
vittoria, aiutati con
ogni forma legale o illegale nella sconfitta.
Infatti non erano che i più temerari nella banda.
La legalità solo restava, perché di una verità è sempre più facile
negare la sostanza che distruggere l'apparenza, ma la sua
preterizione si allargava ogni giorno più nella sofistica.
Ma forse nella storia non vi fu mai più rapida e meravigliosa
diffusione di cultura e di ricchezza.
L'industrialismo aveva distrutto col danaro le superiorità storiche,
l'elettorato pareggiava quelle dello spirito, bisognava essere
ricchi per mantenersi ricchi, comandare per essere riconosciuti
superiori. Quindi il proletariato intellettuale finì di disgregare
gli ultimi baluardi fra classe e classe: i figli dei domestici
frequentavano le stesse scuole dei figli dei padroni, in tutti gli
istituti i rappresentanti arrivavano pari da tutte le distanze; la
eleganza della vita moderna non comportava più differenze visibili
nel costume, l'educazione non segnava più la propria linea fra
gentiluomo e plebeo. Nell'arte, nel commercio, nell'industria
dominava la folla: non si domandava più ad un uomo donde venisse,
né chi fosse, ma che cosa faceva: la solidarietà di classe era
spezzata, fra i membri della stessa famiglia la gara dell'interesse
allentava i vincoli dell'affetto. I sacrifizi dei genitori per
l'educazione dei figli, anziché esprimere l'amore, significavano una
speculazione per la vecchiezza degli uni sulla gioventù degli
altri, che l'ingratitudine rendeva quasi sempre falsa: non vi fu
quasi più giovinezza, a scuola si pensava già all'impiego: la
celebrità nei giornali si sostituì alla gloria nel popolo, la vanità
del successo all'orgoglio del capolavoro.
Mentre il socialismo organizzava già le prime milizie,
l'individualismo trionfava nella disgregazione sociale, senza che
l'individuo si alzasse nella coscienza di una nuova superiorità; ma
la storia non potrà mai disegnare con abbastanza vivezza il quadro
di questo proletariato, che i suoi pochi artisti, pur rompendo la
coccia classica della letteratura nazionale, non seppero vedere:
nella preparazione del risorgimento l'Italia aveva trovato Manzoni,
e se ne vantò troppo: nella grande vittoria finale le mancò Balzac.
Questi soltanto avrebbe potuto essere il poeta di tale momento.
L'aristocrazia italiana aveva caratteri più veri di quella
francese, giacché le nostre provincie erano profondamente diverse
per natura e per storia, ma anche per l'aristocrazia la prima unità
fu un proletariato intellettuale, che rivelò tutto il segreto della
sua decadenza. Nel proletariato plebeo e borghese il moto era di
ascensione, le forze più brute che corrotte, e la possibilità
della vittoria si organizzava ancora nel tempo democratico. Il
proletariato aristocratico invece fu il più imbelle e il più vile,
perché l'aristocrazia era stata la più colpevole contro la patria
nella rivoluzione del risorgimento: i suoi eroi non vi avevano
rappresentato che se stessi, la classe era rimasta lungi, al
disotto, nell'ombra dell'ozio, negli intrighi delle corti. Quindi
il pareggiamento patrimoniale imposto dalla nuova legge la perdette;
del comando non aveva più né la forza né l'autorità; al lavoro
mancava di attitudini, la rivalità di lusso colle immediate
ricchezze industriali precipitò la sua rovina. Costretta a cedere
accattò gli impieghi e vendette i blasoni, ingegnandosi a mantenere
la propria importanza con un decoro che non aveva più nobiltà:
molti dall'affettazione della eleganza passarono a quella dello
scandalo, vivendovi di risorse senza nome, o penetrarono nella
politica di governo e di piazza come un morbo. E una efficacia
veniva loro dal vecchio prestigio del nome, da una corruttela più
sottile, da un cinismo più altero: mescolati fra borghesi e plebei
mettevano spesso un accento nella loro voce, una giustificazione
nelle loro pretese.
Ma un rimescolio profondo rinnovava intanto tutta la società.
Non rimanevano più né gentiluomini, né borghesi, né plebei: la
differenza più vistosa era nel patrimonio, il valore più certo
quello che ognuno poteva darsi. La rivoluzione, l'industrialismo, la
democrazia non avrebbero potuto affrettare questo movimento senza
l'opera dissolvitrice del proletariato intellettuale. Il suo acido
corrose i cuori e i blasoni, i sentimenti e le idee, i costumi e gli
ideali: se la sua opera fu quasi tutta negativa, preparò come
sempre la rivelazione di un nuovo carattere e l'avvento di un'altra
società. Attraverso ogni differenza questi spostati del
proletariato intellettuale potevano fra loro riconoscersi ad uno
stigma, la modernità dell'egoismo e l'incapacità di comporsi
armonicamente in qualunque ordine. Ma essi portavano la nostalgia
di idee e di sentimenti nuovi: non rispettavano quasi nulla e così
abituavano a comprendere tutto, non credevano che in se stessi e
insinuavano un dubbio struggitore in tutte le vecchie fedi;
attraversando tutti gli strati vi lasciavano un'orma ed un germe:
volevano tutti vivere intensamente, divorando quasi l'avvenire nel
presente, e così intercettavano le influenze del passato.
Nulla resistè alla loro azione disgregatrice e livellatrice: la
famiglia e il municipio, la chiesa e lo stato, la scuola e la vita
dovettero subirne la influenza: la loro banda si accampò nella
stampa circuendo, saccheggiando, ubbriacando il pubblico: la
politica si dilatò come una arena senza steccato e senza giudici,
aperta a tutti gli scontri delle idee e degli affari, ma quelle
dovevano diventare questi per trionfarvi; parlamento, senato, corte
soffersero la stessa scalata: gli statisti colla solita
arrendevolezza piegarono arte e coscienza al pubblico e alla
stampa, gli scienziati si abbassarono nelle professioni, i
sacerdoti, contemporaneamente attaccati anche dalla grande critica
filosofica, non seppero né resistere nell'ideale, né vincere nel
costume.
La delinquenza discendeva dalla violenza nella frode,
dissimulandosi nella legalità, e le statistiche vantavano questo
come un progresso morale; il cosmopolitismo degli affari annullava
la virtù di patria, la necessità di vìvere bene toglieva il bisogno
di vivere in alto: la vittoria di essere uomo in questa nuova
guerra di grandi idee, di piccole cose, di mezze coscienze, di
successi effìmeri, di grandezze apparenti, di uguaglianza
democratica e d'individualismo egoistico, dispensava dall'essere
gentiluomo, e diminuiva al limite della legge il dovere del
galantuomo.
Ma dentro questo proletariato intellettuale cresceva una minoranza
più attiva, grave nei propositi, più vigile ancora nell'avvedutezza.
Mescolata alle turbe saliva con esse, ma si fermava allogandosi a
tempo, e in ogni stazione esercitando la stessa influenza
novatrice; e invece di distruggere disegnava qualche nuova forma.
Erano questi gli uomini veramente moderni, che con una genialità
primaverile, arrivati in alto, iniziavano le più difficili imprese,
disimpegnando le più nobili funzioni; rivoluzionari nel pensiero,
non rinnegavano né il passato ne il presente: componevano già una
piccola aristocrazia che simpatizzava colle antiche, senza
arrestarsi nell'opera o deviare dal cammino. Qualche volta
dovevano dissimulare la loro superiorità morale per necessità
d'intonazione; spesso, lasciandola intravedere, si attiravano i
soliti sarcasmi dei furbi contro gli ingenui; più spesso ancora
erano sorpassati nella carriera, ma lentamente una stima cresceva
intorno a loro dall'opera dei più forti, che con eguale processo
compivano grandi opere.
Il proletariato intellettuale non poteva essere soltanto negativo,
nemmeno nel momento della sua massima azione, giacché tutte le forme
storiche, anche le più critiche, rivelano già una affermazione.
Puramente negativo, sarebbe stato meno efficace: una minoranza
doveva quindi giustificare la vera modernità per vincere così le
ultime resistenze.
Adesso il carattere dell'uomo moderno è abbastanza rilevato perché
tutti lo sentono: la nausea della volgarità sale a tutti i cuori, il
dissolversi delle ultime aristocrazie storiche solleva ovunque
rimpianti. Ma se le tombe della terra restituirono qualche volta i
propri cadaveri al miracolo della resurrezione, i morti dell'ideale
non riapparvero più.
— Non è qui, è risorto! — disse l'angelo a Maddalena.
Non bisogna domandare al passato la risurrezione della
aristocrazia.
Così Renan s'ingannò forse nel più sincero dei propri libri,
riadditando alla Francia coperta dalle rovine del secondo impero,
insanguinata dalle stragi della Gomune, la salvezza in un ritorno
al passato, nella devota aspettazione di un miracolo che
risuscitasse il valore dell'antica nobiltà: ogni virtù invece è
fiore del proprio giorno, ogni bellezza la gioia di una sola
stagione.
Il proletariato intellettuale degli spostati non è che una
vanguardia: l'aristocrazia spirituale verrà.
E allora pochi nella farfalla riconosceranno il bruco.
V.
Ascensione e tirannide plebea.
Una originalità occupa la storia moderna. In quasi tutti i paesi
della civiltà bianca il popolo non solo ha conquistato
nell'elettorato il diritto sovrano, ma comincia ad esercitarlo
in tutte le funzioni: i suoi rappresentanti mutarono già il
carattere delle discussioni parlamentari, e dentro le leggi mettono
motivi così nuovi che venti anni fa non sarebbero stati nemmeno
prevedibili. La politica, per lunghi secoli segreto di governi,
adesso è un esercizio d'idee pubbliche: gli interessi vi agiscono
per masse, e la loro materialità diventa quasi sempre la ragione
suprema della vittoria. Il governo viene disputato come la più
importante delle conquiste: se ne agogna la dignità, se ne
pretende il potere; una grande illusione solleva l'anima
popolare, che, nell'ebbrezza di questa partecipazione alla
storia, crede infantilmente di poterla dominare colla volontà dei
propri capricci e i bisogni della propria elevazione.
Il popolo delle città precorre quello delle campagne, ma dovunque,
sulle spiagge più deserte, sui monti più solitari arrivano i soffi
della nuova ideale primavera, e le coscienze si svegliano come ad
un brusco richiamo. Gli operai delle grandi metropoli e dei grossi
borghi industriali, che aprirono la marcia, adesso sono già un
patriziato munito di privilegi, superbo sino alla insolenza, alacre,
sitibondo di vita e d'impero. S'irreggimentò nelle immense
fabbriche e dalla dura disciplina, che quasi come nelle galere lo
riduceva ad un numero, apprese l'altra più difficile, necessaria a
diventare un partito: gli spostati della borghesia gli composero
uno stato maggiore, dalle alture solinghe tribuni ed apostoli
discesero a branchi: poi i giornali pullularono, e le idee,
polverizzandosi, penetrarono nella massa.
Si cominciò dalle società di mutuo soccorso, anodine ed anonime,
quindi si composero gruppi politici: ogni bandiera agitava col
proprio simbolo o nel proprio colore un programma, dentro i gruppi
politici si restrinsero quelli per mestieri, poi la necessità della
guerra li adunò, e un presentimento di vittoria preparò le prime
alleanze regionali. La borghesia incuorava; il movimento pacifico
pareva bello, ma la pace non è la forma della storia. La classe
operaia, contandosi, si sentì forte, il suo numero cresceva
quotidianamente; una passione fondeva le anime, mentre la nuova
agiatezza pei salari sempre crescenti propagava nel beneficio una
dignità insolita e una invidia fecondatrice.
Quando nei primi inevitabili scontri la borghesia, avvisata
dall'istinto, scoperse il nemico, era già troppo tardi per la difesa
del proprio privilegio; le illazioni dei principi democratici
avevano prodotto le maggiori conseguenze, la
dilatazione del diritto elettorale dava al numero la superiorità su
tutti i gradi sociali. Il partito popolare era compatto, gli altri
finivano di distruggersi in un vano antagonismo d'idee e di
persone. Di fianco al parlamento nazionale, momentaneamente ridotto
ad un'accademia agitata da passioni di anticamera, sorgevano qua e
là parlamenti popolari, eletti da una procedura quasi
uguale, vibranti di vita, effimeri ma rinascenti, che si
contrapponevano al governo centrale comandando o minacciando.
E il paese ascoltava attento, quasi presago che da una
tale novità qualche gran cosa potesse uscire.
Leghe di mestieri intanto armavano i lavoratori di tutte le
categorie in tutti i paesi: una propaganda volgare, faziosa, ma
istintiva e quindi irresistibile attaccava sopra ogni punto tutti i
vecchi istituti: non solo non si rispettavano più le vecchie
autorità, ma esse medesime si umiliavano spontaneamente alle nuove.
Teorie ed azioni quasi sempre erano distruttive, né avrebbe potuto
essere altrimenti, i bisogni crescevano più dei salari, una
immoralità dilagava nel costume dall'abbassarsi di tutti gli argini
e dal rompersi di tutte le dighe. L'incredulità volterriana e la
morale industriale della borghesia avevano già preparata questa
dissoluzione della fede e della virtù popolana: non era più
possibile far credere a quello che non si credeva, essere
rispettati al disotto non essendo più rispettabili al di
dentro. L'energia plebea era quasi vergine, il vigore
borghese declinava quasi estenuato dalla sua immensa
opera nel secolo decimonono.
La borghesia non avrebbe potuto pretendere a classe chiusa; le
mancava a questo la virtù del sangue, e il suo stesso principio
democratico le stava contro: la monarchia era poco più di una
insegna, l'aristocrazia soltanto una decorazione.
Il popolo cresceva.
Nel passato egli non era che una massa, alla quale l'aristocrazia
sembrava dare nome, e il governo leggi senza nemmeno la necessità di
spiegarne il motivo. Indarno il popolo era invece tutta la nazione,
e tutto il suo genio si rivelava tratto tratto in qualche grande
individuo.
Una inferiorità spirituale lo condannava ancora alla miseria della
schiavitù: religione e filosofie lo opprimevano egualmente, arti e
scienze si servivano della sua sostanza alla propria opera come di
una materia greggia; l'agricoltura beveva
tutto il suo sudore e la guerra tutto il suo sangue. Il
progresso della storia quasi sempre non gli giovava:
soltanto in alto, nella sfera degli eletti, lo spirito saliva
purificando, mentre giù nell'immensa palude popolare tutto rimaneva
come immobile, il dolore e il pensiero. Quando Gesù pareggiò gli
uomini in Dio e morì, proclamando il trionfo degli umili sui
superbi, parve che una subita forza sollevasse la vecchia
anima della moltitudine: dalla confusione oscillante
del suo numero uscirono in processione i martiri e balzarono gli
eroi: una giustizia e una pietà dagli alti gradi sociali piegava i
cuori e le menti verso gli infimi, ad aiutare coloro che vi
singhiozzavano e vi morivano: ma, come nella
visione di un poema o nella
illusione di un dramma, il quadro rifulse e vanì. Anche nel
cristianesimo, dopo il cristianesimo, il popolo
rimase umile ed umiliato, povero e servo,
costretto a chiedere il lavoro per elemosina, a sentirsi materia e
strumento nell'azione di ogni governo, nell'opera di tutti gli
Stati.
Se malgrado la lunga terribile prova la sua anima non si esaurì, in
tale resistenza era il trionfo non del popolo ma della storia,
perché il popolo è la matrice della quale solamente può uscire tutto
ciò che rinnova ed è nuovo: invece se il popolo avesse, come il
giumento della favola piegato sotto la soma, la storia si sarebbe
arrestata.
Ma né la religione seppe consolare tale tragedia né l'arte
significarla: perché?
Vi è altrove una giustizia che comprenda i dolori senza nome, il
martirio senza figura, l'olocausto senza numero? Vi è qualcuno al
disopra di noi, che possa averlo voluto, imponendo al nostro
pensiero di non capirne il mistero e al nostro cuore di non poterne
evitare lo spasimo?
Le rivelazioni del cristianesimo avvicinano però con uno sforzo
crescente il giorno della grande equazione storica nelle classi,
assottigliando quotidianamente la base delle gerarchie ed
aumentando nel popolo la forza di penetrazione. Finché le
aristocrazie furono davvero spirituali e combatterono innanzi al
popolo per conservargli la vita, questo doveva ubbidire e morire
sotto di loro; ma dopo il rinascimento, nel dileguare dell'ombra e
nel trasformarsi dell'opera medioevale, la funzione
aristocratica precipitò rapidamente. Contro di essa la monarchia si
appoggiava sul popolo centralizzando e unificando; il nuovo
assetto pacifico e civile consentiva maggiore importanza al valore
dell'individuo come tale, la rivincita del pensiero laico sul
pensiero religioso aiutava. Oggi nessuna aristocrazia ha un'anima
è nessuna classe una fìsonomia inconfondibile; vi è conflitto
d'interessi, piuttostochè contraddizione di caratteri, eredità di
fortuna non di comando, differenza di cultura anziché di educazione:
qualunque individuo, comunque nato, può lottando, conquistando,
arrivare sulle cime della ricchezza e del potere: ogni delicata
natura di donna apparire nella dignità della dama, ogni carattere
altero esprimere la nobiltà del gentiluomo.
Nelle gerarchie la dipendenza è oramai più di ufficio che di
persona: bisogna superare per prevalere, non si arriva
più senza essere superiore, o si comanda
obliquamente col danaro, comprando momentaneamente qualche
gruppo di infimi. Il popolo,
una volta prosternato davanti ai propri
padroni, oggi sa di essere più che una classe, si preoccupa delle
imposte, discute la guerra, penetra in tutte le amministrazioni,
non soffre più i vincoli, e rompe oramai quelli di patria. Ha i
propri giornali, i libri, una letteratura: vuole confondersi cogli
abiti ai ricchi, si prepara un decoro nella casa, esige pensioni
alla vecchiezza, una educazione ai propri figli, un soccorso
legale ai propri invalidi. Una fierezza gli tiene alta la testa e
gli ha mutato il sorriso in un ghigno, disprezza le fortune
immeritate, sberta su tutti i gradi le incapacità
intellettuali, improvvisa
spiegazioni a tutti i problemi, si precipita violento di
confidenza in se medesimo contro tutti i misteri.
Attraverso tutte le distanze e gli antagonismi diplomatici i popoli
hanno già sentita una solidarietà umana e storica: il flusso e
riflusso delle emigrazioni, che culla i più audaci fra i più
poveri, da continente a continente, la facoltà di poter creare
ovunque la propria fortuna, l'indifferenza a vivere e a morire
dappertutto, educarono nello spirito popolare una nuova superbia.
Quella delle antiche aristocrazie derivava appunto da funzioni
militari e politiche superiori al popolo, questa sale nel popolo da
una coscienza più forte umanamente, da una più profonda libertà nel
luogo ove si nacque e nel mestiere al quale si fu- allevato.
Città e campagne cangiarono di aspetto: non più il castello e il
tugurio, il palazzo e la casipola: nei ritrovi tutti entrano pari,
in ogni discussione nessun superstite rispetto di persona arresta
la parola di una opinione: oramai è difficile indovinare negli
individui la classe di origine, e i caratteri che possono aiutare
questa classificazione sono secondari.
Nel pubblico il popolo prevale: decide tutto, lusso e moda, arte e
politica, feste e lutti; le classi superiori non osano contrastare é
non lo potrebbero, gli stessi individui più alti ed originali si
ritraggono piuttosto che urtare. Il grande sogno della democrazia,
che trovò in Mazzini l'ultimo poeta bello, si è avverato: la
democrazia trionfa nel popolo e fra coloro, che furono ari-.'
stocratici, nei parlamenti e nelle corti: la storia diventando
universale si fa popolare: monarchie e dinastie sono già una
maschera sul viso di un qualche ministro plebeo. Il popolo solo è
imperatore.
Ma questo imperatore somiglia troppo gli antichi.
Il suo pensiero è ancora un capriccio appena cessa di essere un
istinto, la sua volontà s'interrompe ad ogni suggerimento e prorompe
ad ogni sensazione: l'illusione del numero gli ha dato le vertigini
dell'onnipotenza, la novità dell'impero gliene impedisce il decoro.
Coloro, che pretendono consigliarlo, non sono quasi mai della sua
classe, non esprimono la sua lunga tradizione, non parlano la sua
lingua: saliti o discesi dalla borghesia ne hanno i vizi e non le
poche virtù, l'abilità senza il pensiero: improvvisati anch'essi
mancano della preparazione indispensabile al governo e ignorano le
fatalità dello stato.
Identificando quello con questo, immaginano puerilmente il problema
della storia come un problema di legislazione: senza passione ne di
dolore, né di ambizione scambiano il comando per l'impero, le
pretese di una categoria per un bisogno della nazione. La povertà
della cultura non è più in essa compensata dalla sincerità
dell'istinto e non ancora dalla ricchezza dell'esperienza. Invece
un ottimismo di festa attutì in loro il senso tragico oscurando la
coscienza del dovere sociale: una insufficienza di liberti li fa
riottosi alla legge e riluttanti al sacrificio: ogni loro negazione
non è che uno sgravio dal peso della morale o da quella anche più
grave della logica.
Quindi condannano come vecchi tutti gli ideali: al rigore e alla
limpidità della morale religiosa contrappongono una confusa
condiscendenza della natura, al dovere del padre il diritto del
coniuge, alla devozione del soldato la libertà del cittadino, alla
responsabilità dell'eletto l'irresponsabilità dell'elettore. Delle
scienze non accettano che le applicazioni, dell'arte il piacere:
parlano di coscienza, e non mirano che a scaricare sulla società
ogni obbligo dell'individuo, pretendendo nullameno d'imporre
l'incoscienza oscillante delle maggioranze alla coscienza di
coloro, che più in alto dirigono ed ammaestrano. Così una
disciplina sovverte già l'ordine nella funzione, e una vanità bruna
ed infantile fa credere al popolo più minuto che nell'inferiorità
del lavoro manuale sia tutta la forza e la verità della produzione.
Raggiungere al più presto il maggior grado d'importanza e di
agiatezza, ecco l'ultimo teorema del popolo: essere il primo senza
la responsabilità di essere il migliore, ecco il suo nuovo
paradosso.
Ma se intorno a lui, sotto e sopra di lui, mestieranti e parassiti
si arrovellano a persuadergli questi errori, la sua anima è troppo
antica e profonda per soccombere. Adesso il popolo non appare ancora
che una vanguardia di colori e di voci; i suoi gruppi si urtano ad
ogni passo, le loro bandiere si confondono, mentre nelle prime file
avanzano i guastatori: bisognerà lungamente attendere,
sopportare, prima che il popolo vero, placato in se stesso la
smania del proprio avvento, stabilisca i nuovi ordini.
Adesso nella bufera delle negazioni passionate le poche affermazioni
traspaiono deformi: l'irreggimentazione cominciata nelle grandi
fabbriche prosegue nelle grandi leghe operaie: le cooperative, che
dovevano esprimere la reciproca devozione nella differenza
dell'opera e della retribuzione, non sono che bande, nelle quali i
più incapaci, quindi i più numerosi, impongono ai migliori il
proprio livello, pretendendo di negare il libero lavoro altrui e
capovolgendo l'eterna legge sociale del massimo salario col minimo
lavoro. La solidarietà sociale distrutta teoricamente
dalla concezione che lo Stato sia soltanto organo della classe
superiore, scompare fra lega e lega, socio e socio; s'impongono gli
scioperi a capriccio, più a capriccio i boicottaggi, si odia
l'esercito come una gendarmeria governativa, si esige l'impunità
per la prepotenza contro la libertà ftel lavoro, si nega il diritto
del cittadino e l'uguaglianza dell'uomo all'operaio non consociato,
che ne sostituisce un altro: non si permette alle più alte opinioni
di essere contrarie ai più bassi interessi, e al pensiero di
rimanere superiore al sentimento.
Una tirannide minuscola, inetta e timida, organizzata nella falsità
dal nuovo patriziato operaio arresta già la magnifica ascensione
del popolo e travia la sua coscienza. Nulla infatti è gratuito
nella storia, nessuna originalità senza tragedia. L'avvento
popolare, poiché dovrà aprire nel mondo la più grande delle epoche,
esigerà i più lunghi e dolorosi sacrifici: non si sostituisce una
classe o una razza che superandola: il popolo non riempirà quindi
di se stesso la propria storia nazionale che esercitandone tutte le
funzioni ed alzandone tutti gli ideali.
Ma non apparvero ancora nell'arte, nella scienza, nella religione, i
segni della modernità popolare; la democrazia della piazza invece di
creare copia dalla democrazia borghese, e mentre questa colla
propria originalità fece del secolo decimonono il primo secolo
mondiale, quella si chiude nei piccoli egoismi di categoria
abdicando ai pericoli e ai dolori della gloria.
Parrebbe quasi che nello sforzo di questo momentaneo arresto tutta
la vilezza della vecchia servitù rimonti a galla nella coscienza
popolare. Il soffio ardente della lirica mazziniana aveva già
sollevato l'anima pleblea così che l'impeto eroico di Garibaldi
potesse travolgerla nel sacrificio della guerra: e allora sullo
sfondo grigiastro della borghesia si rilevarono mirabili di bellezza
molti eroi poveri ed ignari: adesso in tanta appariscente conquista
di salari o di gradi politici lo spirito popolare non ha quasi più
orgoglio individuale e dignità di classe. Mentre si accusa
la-borghesia di avere tutto immolato alla conquista del danaro,
questo soltanto è rimasto un ideale nella mente e nella vita del
popolo; selezione ed elezione politica retrogradano; una invidia
vigila gli eletti e falsifica ogni loro atto, mutila le loro
parole, arresta la loro opera: la teoria della sovranità popolare
intesa ipocritamente nell'infallibilità delle assemblee più basse
impone ai pochi capaci di una vera opera intellettuale la più supina
obbedienza alla incapacità bruta degli elettori; e poiché quelli
resistono, le condanne di ostracismo fioccano ad ogni ora. .
Il potere popolare invece di salire è ridisceso: i condottieri non
sono più dinanzi, ma di dietro la turba: la parola decisiva è la più
bassa, l'intenzione più efficace quella che sguinzaglia un
appetito o giustifica una inferiorità.
Non una idea, non una forma in questo primo avvento popolare che
non sia copiata dai modelli borghesi: non un poeta, che abbia
gettato a volo una strofe, un pensatore che tenti di affermare
nella impersonalità di un sistema l'originale verità di questa
rinnovazione popolare. L'edificio sofistico di Carlo Marx è rovinato
senza che un altro sia sorto come scuola e come tempio: oramai le
alture della utopia sono deserte, non si crede più né a sogni, né a
condottieri, ed abdicando alla necessità dei principi s'invoca
soltanto la organizzazione soldatesca del numero.
La borghesia, inferiore nella propria rivoluzione, adesso più
numerosa e più ricca, non sa difendere in se stessa i grandi
principi liberali, e sapendolo non l'oserebbe: timida allora
dinanzi alla guerra collo straniero, e timida ancora davanti ad
ogni minaccia di rivolta, mentre nel popolo è anche più scarsa la
passione e debole la coscienza rivoluzionaria. L'una di fronte
all'altro paiono quindi due caricature di un duello senza armi.
All'immunità del re si è sostituita quella della plebe: la libertà è
senza fedeli, il diritto senza difensori: nessuna tirannia quindi
più vacua ed ignobile di quesito improvvisato governo- plebeo, . che
comanda dentro la legge e contro la legge: nel conflitto fra
capitale e lavoro gli operai possono abbandonare il padrone, non
questo licenziare quelli, nei contratti di lavoro gli operai sono
rappresentati da uno stato maggiore irresponsabile, che non possono
sempre sconfessare e che sconfessano: il governo finge di essere
neutrale consentendo la licenza di tutte le minacce e l'arresto di
tutti i lavori.
Popolo e borghesia, matrigna ed erede., l'uno di fronte all'altra
sono egualmente senza virtù d'idea e valore di guerra: questa esaurì
i grandi ideali, quello non ancora seppe comporre il proprio.
Alla borghesia occorsero quasi due secoli per arrivare dal
rinascimento alla grande rivoluzione„francese, e prima rinnovò tutto
ciò lo spirito umano: il popolo non ha ancora avuto alla vanguardia
che pochi utopisti. L'arte così pronta a cogliere le novità
primaticce non ha saputo scrivere un capolavoro popolare, la
coscienza plebea esprimere un sentimento più profondamente
umano, più squisitamente delicato di famiglia o di patria, d'onore
e di sacrificio che nei tipi illustri della aristocrazia e della
borghesia. Il difetto di originalità nel movimento ne rende quindi
artifiziosa la forma, e guasta l'arte al primo contatto: guardate
Tolstoi, Zola, Anatole France; le loro ultime opere a intendimenti
popolari discesero sotto la mediocrità.
Negli antichi dispotismi il tiranno poteva essere un genio, nella
minuscola tirannide di questa ora il despota collettivo od anonimo
non ha nemmeno la tragica grandezza del delitto e l'irresistibile
poesia della morte: incapace di battersi non sa né comandare né
obbedire: senza carattere crede di avere vinto ogni qualvolta
ottiene una concessione.
Le rivoluzioni non avvengono così.
Borghesia e popolo sono ancora dentro questa grande fase
dell'industrialismo: il popolo esiste già politicamente, ma la sua
anima è di fanciullo e la sua vita di accatto.
L'aforisma costituzionale «il re regna e non governa», che fu
l'epitaffio della monarchia, adesso pare invertito «il popolo
governa e non regna». Ma la sua vacuità non è diventata che più
sonora; manca sempre la parola nella voce, l'accento nella parola.
«Et verbum caro factum est».
Allora soltanto comincerà la rivoluzione popolare,
VI
L'individualismo
Là natura creò l'uomo, la storia si affatica ancora nella creazione
della sua individualità.
Il tempo di tale fatica cresce al di là di tutti i nostri computi
nell'oscuro segreto delle origini e nella tenebra ancora più
profonda del fine, al quale vita e storia s'indirizzavano; non
sappiamo e non sapremo mai quali fummo ai nostri primi giorni,
quando fra i viventi apparimmo nella libertà del pensiero. perché
l'uomo solo è libero nella natura così da contrapporre l'opera
propria alla sua e di negare in se stesso la vita.
Che la storia cominci da una caduta e un esiglio come nel mito
biblico, o piuttosto si sviluppi dalla natura, nella quale la nostra
animalità è immersa, e i nostri istinti ci rendono parenti quasi
tutti i mammiferi, certamente l'ascensione della nostra
individualità fu lenta e dolorosa. Era una legge dello spirito o
soltanto la resistenza, che l'animalità gli opponeva? In ambo i
casi il mistero resta egualmente tragico, poiché in tale sviluppo
l'uomo stesso fu sacrificato all'uomo.
Se dall'impossibilità di non riconoscere un disegno nella storia
siamo tratti irresistibilmente a supporle una finalità, tosto il
nostro pensiero soccombe alla contraddizione del processo, che
sacrifica l'uomo ed immola generazioni e popoli alla realizzazione
di un solo carattere spirituale.
L'espediente di negare nella storia il progresso lasciandovi le
genti solitarie slegate nel tempo, che riempirebbero a vicenda della
propria breve vita, non ci salva dall'angoscia del problema;
anzitutto l'evidenza della continuità e del progresso è irrecusabile
nel quadro storico, poi questi popoli che non comporrebbero una
umanità, le loro cronache che non esprimerebbero una storia,
l'unità degli individui che non basterebbe all'unità della specie,
le leggi supreme dello spirito che si negherebbero scambievolmente
nella frammentaria esistenza delle società, le categorie della
logica e della vita, tutto ridiventerebbe anche più incomprensibile.
Fuggenti figure di un quadro, nel quale i nostri occhi non possono
andare oltre l'ondeggiamento dei primi piani, mentre il pensiero
l'attraversa a volo: dobbiamo ignorare il motivo della sua
composizione e non comprendere l'essenza delle stesse leggi, che
scopriamo, sentendo in ognuna delle nostre affermazioni il limite di
una negazione; siamo condannati all'interpretazione della storia
pur sapendo che nessun sistema le contiene, benché la verità della
sua logica sia identica a quella della loro: credenti ed increduli
ci crediamo egualmente il centro più importante dell'universo nel
pensiero, col quale creiamo in noi stessi.
La coscienza ci dice che soltanto la nostra ideale figura può essere
lo scopo della nostra vita, e che ci bisogna vivere nella passione
del vero, nell'opera del bene, creando colla medesima potenza della
prima creazione un'altra volta noi stessi in un'altra anima, mentre
la storia ci mostra invece nel suo mobile panorama una strage
ininterrotta, l'uo-«ao che strazia l'uomo: tutte le sue pagine
grondano sangue e le macchie del sangue restano in quelle, dalle
quali le figure disparvero; nella sua voce trema il lamento dei
secoli, ne' suoi trionfi bruciano i fuochi dei martiri, nella sua
immortalità i buoni non rimontano quasi mai dalla umiliazione alla
gloria.
Eppure il nostro pensiero deve egualmente affermare che la storia è
una rivelazione dello spirito a se stesso, una educazione, nella
quale questo si libera grado a grado dalla natura plasmando la
propria figura ideale come un modello. Così la perfezione, che
ognuno raggiunge, si trasmette nel segreto delle generazioni
propagandosi colla religione e coi codici, coll'arte e colla
scienza: la graduazione umana è nei gradi di tale opera spirituale:
la nostra grandezza e la nostra solidarietà in questa opera
medesima.
Dentro l'immenso processo, l'umanità essendo scopo a se medesima,
il risultato rimane negli individui, che si succedono; la coscienza
individuale si forma dalla coscienza collettiva con una legge
misteriosa di composizione, nella quale idee e sentimenti
s'integrano. Da regione a regione, da secolo a secolo, la civiltà
passa per vie visibili ed invisibili: una solidarietà profonda si
rivela tratto tratto nelle soluzioni dei massimi problemi o si
ripete nella struttura dei periodi e nei quadri delle epoche. Per
ogni popolo vi è un'opera, che contenuta nella sua individualità si
compie nella sua vita; le accidentalità dei corsi e dei ricorsi
esteriori possono ingannare il pensiero, molte volte tale opera
resterà oscura e parrà dimenticata, mentre sopravvive invece nella
continuità delle idee e dei sentimenti, che mantengono la vita
nell'umanità. Per ogni popolo quindi la potenzialità storica si
esprime nella potenza della sua astrazione: in questa soltanto,
nella quantità e nel modo che esso pensò il problema della propria
vita, nella religione, nell'arte, nella filosofia, nella
giurisprudenza, nella guerra, è il segreto della sua individualità.
L'uomo vive come sente e pensa se stesso: è sempre la sua segreta
ideale figura che gli serve di modello: sono sempre i rapporti, i
quali ha potuto ascendere nella astrazione, quelli che si sforza di
realizzare nell'opera.
Il posto di ogni popolo nella storia è misteriosamente,
anticipatamente fissato nel grado della sua individualità: questa
potrà diversamente significarsi, prevalere nella religione o
nell'arte, nella scienza o nella guerra, ma l'opera non la
sorpasserà mai. Così nel tempo della storia vediamo tutti i popoli
compiere lo stesso ufficio civile sforzandosi a preparare qualche
idea o le sue condizioni di sviluppo, e in questo sforzo esaurirsi.
La preistoria è il prologo della storia, che sbozza caratteri e
figure: tutto vi è rudimentale, l'animalità prepotente esige il
sacrificio umano, l'astrazione è appena sensibile nella legge che è
soltanto un costume, nella religione che s'inizia in un rito, nella
giustizia che si rivela in un lampo, nella pietà che comincia in un
tremito e sopravvive in un ricordo. La sopravvivenza appare quindi
come la massima pregiudiziale nella preistoria, dentro la quale la
guerra è ancora più viva contro la natura che fra gli stessi gruppi
umani: laonde tutto lo sforzo urge sui caratteri domestici. Quando
il selvaggio non amerà soltanto nell'amore di razza, ma sentirà
nella piccola vita del figlio un mistero, l'uomo comincerà a
rivelarsi in lui. La preistoria non va oltre l'accenno dei maggiori
caratteri umani, nella storia si apre la tragedia.
La storia erompe dalla contraddizione della individualità singola
coll'individualità collettiva, dal sacrificio del pensiero e della
volontà ad una legge superiore. Ogni dramma scolpisce quindi le
proprie figure: tutte le volte che l'universo cresce nel pensiero
umano l'uomo cresce in se stesso, qualunque rapporto stabilito colla
divinità muta quelli fra uomo e uomo. E tutto è reciproco: le azioni
s'invertono, è la figura del figlio che perfeziona quella del padre,
il tipo del cittadino che migliora quello del soldato, la
spiritualità degli dèi che solleva gli spiriti umani.
Se la nostra coltura lo consentisse, dovremmo scrivendo la storia
cercarne il rapporto nella coscienza degli uomini medi, giacché
le-massime figure, uniche visibili, rappresentano nella storia
piuttosto le intenzioni che ì risultati. Ma questa ricerca sarà
sempre impossibile; ci bisogna quindi tentare tale scoperta nei
caratteri più decisivi di ima civiltà supponendo che In essi
soltanto la folla potè attingere i modi della propria vita.
L'impressione di tali caratteri sulla moltitudine sarà stata lenta
in tutti i tempi: nessun statuario scolpì come la storia in materia
più dura, l'anima umana si lascia scalfire mero del porfido.
Da secoli e secoli le più belle verità della morale, le più grandi
parole della filosofia furono pronunciate senza che il maggior
numero dell'umanità le abbia ancora imparate: da secoli e secoli
gli eroi si votano in olocausto perché l'umanità diventi degna di
loro e di se stessa. Ma indarno. Parrebbe quasi che non l'animalità
resista in noi all'azione dello spirito, ma lo spirito, stesso.
Dopo duemila anni la grande anima dei vangeli non è ancora la nostra
anima: malgrado la perfezione astratta dei tipi e dei nostri
rapporti domestici oggi la famiglia è ancora un gruppo d'interessi
antagonisti, invece di essere la nostra prima unità spirituale.
L'innumere sacrificio umano depone contro l'umanità: tutte le idee
vi sono cresciute nel sangue, i fiori più belli dello spirito non
vollero altro concime; la nostra solidarietà è pari alla nostra
ingratitudine, dimentichiamo il passato e nell'egoismo del presente
neghiamo di sottomettere la nostra opera al futuro.
Oggi come sempre, in questa prima universa
lità della storia,
dentro al più grande dei trionfi
civili, l'anima della moltitudine
non pare cam
biata.
Ma l'uomo moderno sorge incomparabilmente migliore dell'antico.
La storia non mutò il proprio processo, ma l'attenuazione ne appare
ormai visibile a tutti. In ogni tempo la schiavitù per la legge
misteriosa della contraddizione fu la condizione pregiudiziale
della libertà: bisognò che moltissimi fossero schiavi perché si
sviluppassero nell'anima dei padroni alcuni caratteri: come nella
preistoria spesso l'uomo dovette essere cibo all'uomo così nella
storia le aristocrazie furono un focolare che i piccoli alimentarono
di se medesimi nell'interesse di tutti; e l'impermeabilità dello
spìrito umano era tale che un sentimento e una idea, non potevano
penetrarvi simultaneamente. Spesso anzi per renderli accettabili fu
necessario mascherarli con simboli religiosi o armarli di pene,
più spesso ancora accompagnarli d'ignobili concessioni a sentimenti
o a idee inferiori, dalle quali l'umanità non voleva uscire.
Qualche volta nella elaborazione storica l'idea appare prima che le
condizioni della sua realtà sieno preparati, tal'altra invece il
terreno aspetta lungamente il seme: come in ogni altro campo le
semenze falliscono e le vicende delle stagioni uccidono il germoglio
o il frutto: è d'uopo quindi ritentare, rifare colla ostinazione
del bisogno e la caparbietà dell'istinto, perché l'opera finalmente
trionfi. Ma anche nella vittoria nulla pare ben sicuro: vi sono
sempre ecclissi in tutti i meriggi, perdite in ogni guadagno: tra
vincitori e vinti nessuno può giudicare, poi il tempo li cancella, e
allora soltanto appare il risultato della guerra.
Quasi sempre l'errore è nella storia la maschera della verità.
Mentre una idea solleva e muta la coscienza di un popolo, la
compagine di questo non può mutare negli interessi, nei vizi, nelle
passioni che hanno già tessuta la sua vita: quindi la nuova idea,
che dovrebbe contraddirli, li seduce invece con qualche sua falsa
apparenza servendosi delle loro forze al proprio scopo. La verità
procede velata: la rivelazione comincia soltanto nella morte: ecco
perché i viventi non sanno mai il segreto della loro opera. Tutto
sembra contraddirsi, filosofia e scienze, libertà e autorità: la
vittoria dell'uno diventa oppressione dell'altra; le bestemmie dei
vinti sono quasi sempre giuste come gli osanna dei vincitori, mentre
il trionfo si compie invece inavvertito nel fondo delle nuove
coscienze. Azioni e reazioni sono dunque ugualmente necessarie;
senza la pervicacia dell'opposizione gli eroi e i martiri non
sarebbero, e la loro idea non avrebbe la necessaria ir resistibile
forza di penetrazione. Quando un popolo è esausto e un'epoca
conclusa, una malinconia cade come un crepuscolo invernale:
ricordate il tramonto dell'impero romano? Tutta la civiltà
affondava, i barbari struggevano senza capire, i cristiani
pregavano in un sogno; Roma era morta, il mondo pareva morire con
Roma. E invece il sogno cristiano era già la visione di un nuovo
mondo, e l'ignoranza dei barbari una verginità, sulla quale
lentamente la.verità e la bellezza antica rifiorirebbero.
Così nella storia ad ogni individualità, che non può perfezionarsi,
succede un individuo, che ne deve sviluppare un'altra profittando di
quanto la prima potè davvero assimilarsi: nessuna verità, nessuna
virtù viene meno nell'anima umana; mutano solamente tempo, luogo,
espressione ingannando spesso i più acuti osservatori. Ma nulla si
perde nello spirito come nella natura: questa rifa in alto ciò che
sembra distruggere in basso, -quello dissolve nella luce ciò che
prima mostrava nella penombra.
Come l'arte raggiunge la perfezione nascondendosi nell'opera, la
storia si dissimula nei risultati: tutta la sua grandezza è nei
mezzi e la gloria nelle catastrofi: poi le vittorie diventano
invisibili, senza che la gente vivendone immagini nemmeno, quali
sacrifici abbiano potuto costare.
La differenza fra l'antica monarchia e la moderna democrazia è
nella coscienza della individualità, che noi sentiamo pari a se
stessa in tutti i suoi momenti, che allora rimaneva invece dispari
nel sovrano e nel suddito: ma quanti secoli occorsero per pareggiare
tale differenza?
Nella schiavitù la catena dello schiavo è saldata al polso del
padrone e gli impedisce come all'altro di muoversi nella libertà:
l'insofferenza comincerà quindi prima nel padrone che. nello
schiavo: per emancipare questo bisognerà innalzare quello; l'ideale
umano soltanto nella uguaglianza delle anime potrà in entrambi
rompere la schiavitù.
Le aristocrazie dominatrici per compensare in se medesime il guasto
del proprio privilegio dovettero crearsi un ideale eroico, nel quale
svolgere la spira della propria individualità: così un'altra
schiavitù con formole, riti, limiti anche più rigidi gravò sul loro
orgoglio, che fu libero solamente dentro la necessità di sviluppare
il proprio carattere.
Quasi tutta la funzione politica delle grandi nazioni non si compiè
altrimenti: al disopra della legge la religione temperava il
disaccordo in una più vasta unità, al disotto della legge l'anonima
forza della vita avvicinava e livellava i viventi. Ma sempre
l'individuo, per crescere ebbe bisogno di guarentirsi dentro
qualche coccia: caste, corporazioni, ordini non ebbero altro
ufficio: sviluppare in una quantità d'individui un carattere, che
diventato permanente si affermava come un privilegio, finché
lentamente, sicuramente si riconfondeva con tutti gli altri.
La più alta espressione politica è dunque l'individualismo.
Finché l'individuo per assicurare una propria qualità ha bisogno di
una legge che lo diffonda e limiti, la sua personalità è ancor
minorenne: finché per operare l'uomo deve annullarsi in una folla
o per affermare il proprio diritto umano sottomettersi tutto alla
propria classe, la sua coscienza è ancora inferiore.
La formola della libertà è l'associazione fra discordi: quale è
dunque l'individualismo nella democrazia moderna?
Adesso la negazione più viva di questo appare nel socialismo, che
non potè mai diventare un sistema.
Ma la forza di un'idea si esprime appunto nel suo sistema, che poi
la storia assimila nella propria creazione; il socialismo,
cominciato nella utopia, finisce nella critica alla democrazia
borghese pur rimanendo chiuso nei principi e nei vizi di questa.
Non ebbe moto né di religione, né di filosofia, né di scienza, né di
arte: la parità economica, che egli vorrebbe trasportare
dall'astrazione della legge nella realtà della vita, era già
contenuta nella parità civile dell'elettorato, e non potè mai
uscirne che nel sogno, perché l'uomo è uguale all'uomo soltanto
nello spirito: la partecipazione della classe operaia al governo
era già del pari affermata nel principio elettorale e nella
giustizia dei nuovi codici: la libertà di tutti gli individui in
tutti i gruppi fu la grande conquista della rivoluzione borghese.
Questa disciolse i vecchi ordini, equiparò gli individui nella
famiglia, dichiarò inviolabile coscienza e domicilio, lo Stato
indipendente dalla Chiesa, la Chiesa libera in se stessa. Adesso il
socialismo applica contro l'egoismo borghese le ultime conseguenze
della rivoluzione borghese: è una critica e non una creazione. Le
sue negazioni non sono che formali e nega la proprietà e la patria,
ma non ha nemmeno nel sogno il quadro di una futura umanità senza
l'una e senza l'altra: il suo
cosmopolitismo è quindi vuoto, e la proprietà da lui negata in
alcune forme immobiliari sopravvive dentro di lui nelle forme
mobili. Nella storia immagina colla puerilità dei metodi più
antiquati un sopruso di pochi forti su molti deboli ed afferma
la prevalenza dei motivi materiali sopra gli spirituali; nelle
religioni sopprime Dio senza sostituirvi nemmeno
l'umanità, che nel recente materialismo storico perde così la
propria individualità.
L'umanità ingiusta ieri come diverrebbe giusta domani? Che cosa
sarebbe la nuova giustizia, dalla quale i morti resterebbero
esclusi? Che cosa è una verità senza passato? Nel socialismo stato
e governo si confondono: l'uno e l'altro non sono che
strumento di oppressioni nelle mani delle classi dominanti: non vi
è dunque più storia: giacché questa si forma appunto col deposito
delle verità in tutte le epoche, e tutte sono egualmente vere e
tutte compongono l'idea della umanità. Stato e governo invece sono
le due più importanti astrazioni realizzate in ogni tempo, due modi
della stessa individualità nazionale che a traverso il presente
trasmette il passato all'avvenire: il presente può violarle colle
sue effimere esigenze, non crearle, non distruggerle.
L'affermazione socialista della lotta di classe non ha alcuna
originalità: ovunque e sempre classi, corporazioni lottarono così:
era ed è una debolezza dei loro individui ancora incapaci di
sdoppiare in se medesimi il proprio immediato interesse di categoria
dall'altro più vasto della loro individualità nazionale; quindi,
falsificandosi, affermano soltanto quello. Ma tale affermazione, se
così può raggiungere nella lotta maggiore efficacia, è una profonda
abdicazione al governo, che invece è sìntesi di vita.
Invece per una delle solite inversioni i socialisti vi partecipano,
entrando nella necessità della storia, che dissipa tutte le utopie.
Infatti la meravigliosa sofistica di Marx è già abbandonata e
quotidianamente la critica socialistica si smente, accettando nella
pratica quanto nega nella teoria. La stessa potenza
d'irreggimentazione, che adesso forma la gloria e la forza del
socialismo, è una conseguenza e un plagio borghese: prima furono le
grandi fabbriche ad insegnare l'alfabeto della politica nelle
società di mutuo soccorso e nelle elezioni, dando il voto per
poterlo comprare.
L'operaio moderno non è ancora che la larva del cittadino: qui è
tutta la sua originalità. Per diventarlo davvero gli converrà
superare se stesso; riconoscendosi sovrano nel sacrificio del
proprio egoismo allo Stato: e questo sarà. Intanto il sogno di una
immediata conquista lo sospinge puerilmente all'opera: una vanità lo
emancipa dai padroni, senza farlo ancora padrone di se stesso: un
istinto di primavera lo porta a tutte le novità: si sente libero,
ma, incapace di sostenere il peso della nuova libertà, pretende alla
tirannia. Egli solo vuole essere creatore, egli solo sovrano: il
mondo gli pare di ieri, nato con lui: il numero gli diede
l'illusione della forza, dalla coesione momentanea del partito gli
viene un sentimento altero di unità. Per sentirsi anche più libero
non crede in Dio ed è rimasto superstizioso dinanzi ai problemi e
ai misteri, che sopraffanno la sua anima nella spavalderia; di
tutte le giovinezze proclama il libero amore; colla ingordigia di un
lungo digiuno grida che la società deve mantenerlo, anche se non
lavori. Nega la guerra alla frontiera e minaccia d'insorgere
quotidianamente su tutti i punti. La sua dottrina è più breve di un
decalogo, e in ogni articolo sta un diritto: la sua ignoranza invece
è centuplicata, appunto perché comincia adesso a sapere, urtandosi
a difficoltà che prima per Ini non (esistevano. Si lagna
perché sta meglio.
Il suo ideale è la borghesia, che gli è sopra.
Tutto è borghese nella classe operaia: il linguaggio, le idee, i
costumi, gli abiti, i sogni della ricchezza, gli espedienti per
giungervi, la piccola incredulità, l'energia del lavoro, la
rettorica nella politica, l'egoismo nella famiglia, la volgarità
nel sentimento e nell'opera. Infatti la borghesia pare disarmata
dinanzi al nuovo nemico, che è ancora lei stessa: giornali
tribunali, parlamenti sono pieni di deferenza a tutte le pretese di
questo, anche se formulate colla più insolente o ridicola vanità:
non fu la borghesia ad armare il proletariato, ad insegnarli la
filosofia del danaro e l'ironia contro tutte le fedi? Adesso non sa
quindi difendersi: non si battè abbastanza nella rivoluzione, quindi
non osa nemmeno concepire la battaglia per difendere una libertà
donata da vittorie straniere.
Così l'ascensione operaia si fa più rapida ed artifiziosa: la
demagogia borghese la guida, la monarchia le sorride, il clero
assiste ancora inerte o quasi, mentre dall'alto il Vaticano
riafferma intrepidamente l'autorità, che i re non sanno più
rappresentare. La recente ricchezza consente
molte mutazioni, ma siccome si compiono gratuitamente sono poco
efficaci. Troppo spesso il bisogno viene scambiato col desiderio,
più spesso ancora non si bada se al desiderio corrisponda la
capacità del dare e del ricevere. Infatti la distribuzione del nuovo
benessere accade moralmente a rovescio: i più beneficati sono
quelli che già stavano meglio: ai più poveri nessuno pensa. Ma la
ragione di questa differenza è ancora nel principio borghese di
questo rivolgimento.
Non è davvero popolare: ecco perché manca di originalità.
Non si tratta nemmeno di una conquista che la classe operaia compia
sulla borghesia, ma di un nuovo strato che il patriziato operaio vi
aggiunge.
Eppure ciò basta a spostare tutti gli ordini, e dopo le guerre
napoleoniche, la rivoluzione borghese non avrà avuto momento più
importante di questa ascensione operaia: la grande, vera
rivoluzione, verrà.
Noi assistiamo ora ad una conclusione, piucché ad un inizio; una
rivoluzione si annuncia sempre sulle alture: religione e filosofia,
scienze ed arti, suonano la diana: invece qualche chiarore
appena sorride all'ultimo orizzonte.
La storia non può costrurre fuori della coscienza; le abbisogna una
fede che stringa tutto l'uomo, una morale che risponda a^tutte le
domande secrete, una forma che sorga dalle profondità della vita.
Il socialismo non ebbe ancora né martiri, né eroi: le negazioni non
creano, la critica stessa non basta a demolire. L'incapacità
dell'idea socialista ad assorgere in un sistema ne rilevò il vuoto:
le sue negazioni erano tutte superficiali, accettò la filosofia
materialistica senza nemmeno accorgersi che teoricamente era contro
di essa, proclamò un ideale di giustizia, negando la tragedia umana
e mettendo la felicità nella soddisfazione dei minuti bisogni: ai
problemi che sorpassavano la vita, pretese di non rispondere,
dimenticando i morti e affidando il trionfo della verità ai non
nati.
Così la sua forza fu soltanto nell'interesse economico, e i suoi
risultati maggiori nell'aumento dei salari. Certamente v'era un
progresso anche in questo, ma la coscienza popolare non ne fu
mutata. Nessun ideale si sostituì a quello cristiano, nessuna
morale vi compose più altamente i rapporti del cuore; uno
scetticismo acre e beffardo irrise invece a tutte le fedi, che già
sollevarono il mondo; un fantastico dovere sociale succedette ai
più profondi doveri umani di padre e di figlio, di coniuge e di
cittadino. La società doveva diventare una provvidenza
integratrice di tutti i disordini e di tutti i vizi: all'individuo
doveva bastare di esistere per avere ogni diritto.
Invece l'individuo diminuì: l'esercizio dei nuovi diritti non gli
alzò l'anima, spesso l'aumento dei salari sostituì una miseria ad
un'altra, quasi sempre la partecipazione politica ridusse
l'elettore ad un automa. Infatti nella smania e nella necessità
della irreggimentazione, il partito impose a tutti una dottrina che
non aveva: ogni dissenso fu detto rivolta, ogni opposizione
dichiarata tradimento. Le espulsioni fioccarono, i maggiori e i
migliori ne furono colpiti: i congressi funzionarono come concilii
e fallirono come parlamenti.
Ma un sottinteso minaccia anche più profondamente la coscienza
socialista. Come ogni altro partito estremo, esso doveva reclutarsi
dappertutto, poco vagliando, assolvendo il passato di ogni individuo
pur che si arruolasse, non domandandogli di realizzare nella
propria vita le affermazioni dei propri principi. Così credenti ed
increduli, bigotti e dilettanti, lavoratori e parassiti, capitani e
soldati, tutti rimasero nella loro condizione, affannandosi a
salire senza una rinuncia per stabilire almeno dentro al partito
quella parità economica, nel cui dogma combattevano. Per coprire
tale contraddizione si disse che le rinuncie singole non
gioverebbero e il mutamento si compirebbe intero nel suo inizio,
quando stato e governo fossero caduti nel potere del socialismo.
Il sogno catastrofico di Carlo Marx era vanito anche nelle menti più
infantili, e il suo ultimo ufficio rimaneva nel permettere il
sottinteso dì una incredulità borghese in coloro stessi, che si
dichiaravano nemici della borghesia, mantenendo negli operai il
miraggio di una vera rivoluzione. Invece diminuivano così la verità
e l'apparenza dell'idea socialista: i ricchi vi restavano ricchi,
i poveri poveri senza che in nessuna delle loro coscienze il
primordiale e supremo bisogno di realizzare nel fatto il principio
imponesse la sincerità dell'azione.
Tuttavia vi è una bellezza in tale nuova formazione. Qualunque
possa essere la ripugnanza a certe sue forme, qualche gran cosa
accade nell'anima popolare: sotto il principio borghese ne spunta
un altro: nel vuoto della fede, nell'oscurità della morale, una
luce già brilla. L'immensa massa operaia è in cammino: schiava ieri,
libera oggi, benché cliente di altri padroni improvvisati che il
suo istinto indovina e presto rinnegherà, sente in se stessa una
insolita importanza e dentro questa importanza una responsabilità.
Assetata di vita, la cerca intorno, non sapendo ancora che le sue
sorgive sono nel fondo dell'anima.
Oggi reclama il comando, ma dovrà imparare prima la libertà.
La borghesia vi spese qualche secolo, il popolo più numeroso e
pesante non potrà, malgrado l'accresciuta facilità di tutte le idee,
impiegarvi molto meno. La sua coltura sarà sempre troppo scarsa e la
preponderanza del numero troppo pericolosa nelle decisioni: persuaso
che nel principio democratico la maggioranza esprime la ragione,
diffìcilmente si rassegnerà a cercarla più in alto; inappellabile
come suprema giurisdizione, per lungo tempo ancora non sentirà il
peso della responsabilità. Ma, nelle assemblee popolari
specialmente, la maggioranza non può quasi mai significarsi contro
l'audace turbolenza delle minoranze. Poi dalla falsità del primo
concetto ne derivò un altro peggiore: che l'interesse immediato del
maggior numero era l'interesse più vero.
Invece nella vita e nella storia non fu e non sarà mai così.
L'interesse più vero è quello che contiene l'ideale più alto e
determina il più profondo spostamento. Quindi le necessità del
presente non sempre possono prevalere a quelle del futuro, ed un
problema di politica interna ad un altro di politica
intercontinentale. L'aumento dei salari è certamente un bisogno
della classe operaia, ma la sopravvivenza delle industrie, che
dovrebbero darlo, sarà sempre una pregiudiziale d'interesse anche
più profondo. La miseria spesso è una espiazione individuale,
più spesso ancora una conseguenza irresponsabile in tutti gli
spostamenti storici nella produzione e nella distribuzione della
ricchezza: se lo spostamento è effimero, si può resistere sul
medesimo punto, salvando prima il capitale e poi il lavoro; se
invece lo spostamento rimanga tale, allora la miseria assume un
ufficio più alto, determina come motivo supremo
l'emigrazione, traendo dalla
insufficienza di un luogo una potenza
per un altro. L'interesse immediato cieco e sordo di una
classe operaia imporrebbe invece la manutenzione dei propri salari
sino alla fuga o all'annichilimento del capitale, e l'aumento
indefinito della popolazione entro un'orbita senza elasticità.
Tale paradosso funziona pericolosamente in tutti i governi
democratici: non si osa affermare che nella politica capitale e
lavoro debbono essere due astrazioni egualmente necessarie, e
che la società nella propria giustizia non deve proteggere l'uno
contro l'altro, ma a seconda dei momenti preferire questo a quello:
che la libertà è lo scopo e l'essenza della storia, e quindi
nessuna violenza è legittima contro l'interesse generale. Imporre
uno sciopero equivale idealmente ad-ordinare un saccheggio, impedire
il lavoro è come compiere una rapina: non si osa resistere colle
armi alla violenza; le truppe debbono per lunghe giornate assistere
passive a prepotenze, che sono già una guerra civile, incruenta
ancora per la viltà degli assaliti e la complicità del governo •
con gli assalitori. È già diventato un
dogma l'intangibilità degli operai: qualunque di loro soccomba
in un tumulto, diventa un martire: per quanti soldati vi
muoiano difendendosi, tutti saranno dèi carnefici che i ministri
stessi rinnegheranno alla tribuna. Di grado in grado si è affermato
il diritto allo sciopero negli organi più vitali del governo:
scioperano ferrovieri, gendarmi, carcerieri, marinai, infermieri,
medici. Si sa che i comuni cedono e che i governi annuiscono.
Questa abdicazione dello Stato determina uno sviamento nelle
coscienze: la tirannia, vinta nell'alto con lunga ed eroica guerra
della libertà, risale dal basso: in nome del libero pensiero si
cacciano le suore dagli ospedali e i sacerdoti dalle scuole; nel
nome del libero amore s'impone la precedenza del matrimonio civile
sul religioso, e si consente contro il segreto della natura
all'inganno femminile la ricerca della paternità: la propaganda per
la pace si muta in una negazione del dovere militare, la guerra è a
tutte le superiorità, mentre il nuovo patriziato operaio si munisce
di nuovi privilegi, proclamando la bancarotta del
vecchio mondo, nel quale rinnova invece le più vecchie forme.
Industrialismo e socialismo nel presente periodo storico dovevano
preparare la futura classe operaia, formandovi una aristocrazia del
lavoro, e, per quanto contraddittorie, queste due forze si integrano
mirabilmente. Ma entrambe mortificarono la libertà: gli antichi
modi della schiavitù nelle corporazioni riapparvero dentro le
leghe, l'antagonismo delle classi sembrò approfondirsi nel
passato, quando parti e partigiani non consentivano né sentimento ne
concetto di unità. L'industrialismo spostò il primato della
ricchezza e annullò quasi l'operaio nell'immense fabbriche,
aumentandogli il benessere materiale; il socialismo soccorse al
bisogno, ridando una personalità alla massa operaia.
Ma il problema vero è quello di un popolo nuovo.
L'ora della rivolta ideale sta per suonare,
L'individualismo fu sempre la forma più perfetta della storia,
nella quale l'individuo è lo scopo supremo; quindi in questa sua
maggiore età il socialismo potrà ancora proseguire nell'opera,
aiutando colla violenta disciplina i lavoratori ad acquistare una
embrionale coscienza collettiva, non spingersi più oltre o più alto.
Il benefìcio delle sue conquiste affrettate ed artifiziose appare
già dubbio anche fra il popolo: è falso strappare diritti, che non
si sanno esercitare; pericoloso forse ottenere un benessere
materiale, cui non corrisponda un progresso spirituale. Il grande
teorema della libertà è la responsabilità di tutti verso tutti e di
ognuno verso se stesso: non si può, non si deve colla scusa di un
aiuto forzare l'elevazione di alcuno; lasciate l'individuo nella
propria responsabilità: nessun ostacolo artificiale contro di esso,
nessuna provvidenza speciale per lui. Non si nega, non si falsifica
la storia; ogni generazione è costretta a mettervi il quadro della
propria vita e a mettervi soltanto quello che la sua potenza d'opera
consente. Non è vero che la utopia d'oggi sia la verità di domani:
l'utopia invece è negazione della storia, la poesia di coloro che
non sono poeti, il sogno di tutti quelli che non sanno agire.
Bisogna difendere la libertà.
Il giacobinismo parlamentare ha nuovamente proclamato il dogma della
onnipotenza legislativa, l'illusione socialista vi aderì, la viltà
borghese tacque. Invece la legge constata: è regola esteriorizzata,
sale dal fatto, non vi discende. Lasciate libera la vita, essa
soltanto crea: non promette niente a nessuno e cede soltanto ciò che
si sa strapparle. Beneficenza, carità non devono ' andare che agli
invalidi. Le differenze superstiti sono ancora legittime nelle
conseguenze del passato, e muteranno, se il presente susciti libere
forze contro di loro, altrimenti si riprodurranno anche se
'momentaneamente cancellate: il capitale è più alto del lavoro
nella astrazione, perché rappresenta tutto il passato, mentre il
lavoro è soltanto il presente; la loro lotta è la più profonda fra
tutte le necessità. La concorrenza esprime quella selezione, che
Darwin sollevò troppo in alto nella legge della vita: tutti gli
individui vi si debbono consumare, poveri o ricchi, deboli o
forti, grandi o piccoli, perché la concorrenza sola può forzarli a
dare tutto quanto la natura o Dio posero in loro. Diminuite la
concorrenza e diminuirete l'attività: risparmiate l'uomo e l'avrete
indebolito.
La vita deve essere un'alea.
L'uomo è il fratello e l'avversario dell'uomo; deve combattere con
tutte le forze delle sue passioni, non può riposare: vincitore oggi
sarà vinto domani: ha un istinto infallibile, che lo guida come
individuo e come popolo: non tentate d'insegnargli il proprio
segreto, perché non l'apprenderà. L'uomo sa davvero soltanto quello
che impara da se stesso: ogni corporazione diminuisce i propri
membri, invece l'associazione li ingrandisce: bisogna persuadersi
che la vita soltanto educa la vita, e che le scuole tutte non
servono che a mantenere privilegi di diplomi o tradizioni di
mestieri. Arte, scienza, filosofia, industria, agricoltura
s'imparano, non s'insegnano: ovunque si crei, capitale e lavoro
debbono essere liberi nella loro guerra senza tregua, senza pietà:
se il capitalista viola la legge del capitale, la miseria lo
punisce; se il lavoratore ricusa le leggi del lavoro, questo diventa
impossibile: la giustizia è nella verità della loro contraddizione,
che la vita impone egualmente a tutti.
Affermate invece la nobiltà dell'uomo: bisogna che tutti, o almeno
i migliori sentano come vi sia una viltà nella forza, che una
corporazione comunica ai propri membri, annullando in se stessa la
loro responsabilità: che pretendere un privilegio è confessare una
inferiorità, che per essere democratici è necessario un orgoglio
ancora più alto che nelle aristocrazie e nelle monarchie.
La rivolta ideale proclamerà l'individualismo.
Questo accetterà la tragedia, senza pretendere di sopprimervi
l'ingiustizia e il dolore: la felicità come non fu, non sarà;
sarebbe anzi suprema ingiustizia l'esigerla. Tutte le generazioni
sono uguali fra loro come gli uomini; i mutamenti, che appaiono
grandi a distanza di secoli, si compirono inavvertitamente in loro,
così che ogni generazione ebbe forse la stessa somma di lavoro e di
dolore. Nessun problema decisivo per l'umanità sarà risolto. Mentre
nella vita cresce l'agiatezza, si affina la sensibilità, e il dolore
quindi non scema; se la coscienza si rischiara, le grandi ombre del
male si ritraggono, ma nella nuova penombra il peccato agita più
visibili tutte le proprie forme, e la nostra responsabilità soffre
di queste come già di quelle.
L'uomo vive di lavoro e nel dolore: tutte le opere, dispari nel
risultato, sono uguali nel merito, tutti gli uomini pari nella
libertà della propria impresa, e per tutti la libertà non può
essere che nella coscienza di una necessità superiore. Gli
interessi individuali saranno sempre subordinati a quelli di
gruppo: il progresso spirituale si affermerà, accettando tale
necessità invece di subirla. Giova sperare che le scienze possano
mutare i modi dell'industrialismo, rendendo la personalità
all'operaio nel lavoro; fino a quel giorno l'irreggimentazione dovrà
durare, e la coscienza della libertà soffrire in tale
contraddizione.
Ma così, solamente così l'individualità ancora vaga negli individui
comporrà loro una fìsonomia.
Non falsare la lotta umana con inutili espedienti di legge,
lasciare libero l'individuo per
imporgli tutte le responsabilità: non pretendere di sostituire la
religione colla scienza, la concorrenza colla cooperazione, la
famiglia col libero amore, la patria col cosmopolitismo, la gloria
colla celebrità: volere nell'uomo tutto l'uomo, colle angoscie
della sua fede, coll'eroismo della sua carità, col calcolo della sua
ragione, col suo istinto e col suo genio, che fanno di tutte le
generazioni un uomo solo: proclamare che la verità è soltanto
nell'ideale, ma dentro un mistero, nel quale il dolore mette una
voce e il pensiero un lampo: amare nella speranza del bene, quando
la gioventù sorride: amare nella pietà del
male, quando la vecchiezza non sa nemmeno più piangere: salire
a tutte le bellezze, credere, a tutte le virtù, consentire
tutti i sacrifìci, offrendosi intero alla vita e accettando la
morte come un premio: ecco la rivolta ideale.
VII
L'aristocrazia nuova.
L'aristocrazia sta nel carattere, giacché la sua è unità di azione.
Sempre e dovunque l'aristocrazia fu così: una idea l'aveva
costituita, ma la sua opera derivò da un carattere che metteva un
segno inconfondibile di superiorità: che l'idea fosse quindi
religiosa o politica, militare o professionale, l'aristocrazia si
riconosceva egualmente a certe differenze di giudizio sopra
sentimenti o azioni comuni: proibiva o imponeva ai propri individui
atti, che il volgo non poteva interamente comprendere.
Le due più alte forme di aristocrazia nell'antichità furono la
religiosa e la guerriera: quella conservava il deposito ideale della
nazione, questa lo difendeva all'interno ed all'estero;
entrambe vivevano nel privilegio al disopra delle necessità
economiche, le quali gravano e spesso deturpano la vita. Se il loro
beneficio fu grande, il sacrificio per mantenerlo costò al popolo un
prezzo che la storia non potè
mai precisare; spesso ancora fra sacerdoti e guerrieri
la contesa s'infiammò per la segreta suggestione di una idea
civile: i re oscillarono fra l'una e l'altra aristocrazia,
servi quasi sempre dentro l'apparenza del più assoluto
comando, piccoli nella vastità della loro opera nominale,
piuttosto simboli che persone, nei quali il popolo vedeva se
stesso. Solamente più tardi in una civiltà maturata dalla filosofìa
e dalla scienza, dall'arte e dalla industria, apparvero le
vere aristocrazie politiche, composte da gruppi di famiglie nobili
nella tradizione e nobilitate dalla responsabilità di un impero, che
sollevava i loro individui al disopra di se medesimi, e nella
rivalità perfezionava le forme più originali del carattere civile.
Atene e Venezia, Roma e Londra ebbero lungamente nei Senati le più
magnifiche assemblee nmnne, e videro sorgervi i modelli immortali
della eloquenza e del pensiero politico. Ma in tutte le
aristocrazie, e le corporazioni stesse anche più infime ne
componevano una, l'essenza era nel carattere e la virtù nel
sacrificio; senza questa doppia necessità l'individuo'non avrebbe
pò tuto superare se stesso. Isolato nella massa ed irresponsabile
come in un turbine, il suo pensiero e la sua azione non avrebbero
saputo mettervi la propria significazione: il genio solo,
incontenibile nelle forme ordinarie, vi avrebbe agito colla
strapotenza della sua forza rappresentativa; ma il genio non appare
che a grandi intervalli, e la sua. opera d'inizio o di conclusione
non è che sintetica. L'aristocrazia quindi lo riassumeva,
diminuendolo in un modo costante della vita sino a farne l'elemento
essenziale di un'epoca.
Ogni aristocrazia esprimeva dunque un progresso e una superiorità
spirituale, condensando nella propria opera tutta la quantità di
pensiero maturata nella coscienza impersonale del popolo; ma
progresso e superiorità essendo parziali, dovevano colla propria
virtù significare anche il proprio difetto; e mentre sopra un lato
dell'anima umana imprimevano il nobile segno dell'eroismo,
sull'altro lasciavano allargarsi le vecchie stimmate
dell'inferiorità. L'evidenza di questa contraddizione sale dalla
superbia, che costringe l'eroe ai più difficili sacrifici e sembra
indennizzarlo col disprezzo, che gli consente per tutti gli altri
uomini delle, classi subalterne. Il difetto delle antiche
aristocrazie era appunto nel sentimento della disuguaglianza fra
uomo e uomo, classe e classe: l'unità religiosa, anche quando non
consacrava differenze di caste, non bastava a mantenere nella
coscienza del popolo il principio della parità: una indefinibile
differenza separava i grandi dai piccoli, la virtù degli uni non
era accessibile agli altri, il benefìcio imponeva l'umiliazione,
nessuna grandezza individuale, sorgendo dal basso e superando i
confini di classe, poteva porre un inferiore in una categoria
superiore.
L'eroismo epico non ci appare adesso che come l'esagerazione superba
del carattere militare: la vera, profonda bontà umana raramente
trasparisce dalla sua azione, che per essere bella ha bisogno di
svolgersi nella decorazione di classe; fuori di questa, nella
nudità spirituale, diverrebbe impossibile o perderebbe quasi tutta
la bellezza. L'idea religiosa, il principio politico non sono
sufficienti a giustificare dinanzi alla nostra coscienza l'antico
eroismo, mentre tante altre azioni intorno ad esso ci sembrano
migliori, e ciò, non per un mutamento di tempi che non ci permetta
d'intendere il passato, ma per il principio di uguaglianza che
domina la nostra coscienza. Tale principio, latente, mortificato,
inspirava anche allora nell'anima umana parole e atti di una virtù
superiore: lampi fra le tenebre, sorrisi di un'alba lontana.
Nel cristianesimo brillò la prima negazione aristocratica.
Se la schiavitù non venne subito soppressa, ogni disparità rimase
sulla soglia del tempio cristiano; la confessione fu obbligo per
tutti, per tutti la penitenza punì il peccato. La superbia dei
grandi diede ancora all'eroismo i modi aggressivi e le forme
oltraggiose delle antiche aristocrazie, -ma contro gli eroi belli
di passione mondana la Chiesa pose l'ordine dei santi, che,
rinunciando al mondo, lo dominavano colla vittoria dell'umiltà nel
prodigio di un amore senza ricambio, com3 quello del sole che non
chiede nulla alla terra.
Il santo ebbe quindi nel mondo cristiano contro la virtù di classe
lo stesso ufficio del filosofo nell'antichità: una smentita in una
virtù superiore, accessibile a tutti, senza sostegni artificiali,
vivente nel sacrifìcio e di sacrifìcio. Così il giudizio della vita
e della storia venne lentamente mutando: il mondo rimase dentro le
stesse. necessità d'inganno e di violenza, alle quali l'eroismo
doveva sottomettersi, ma nell'anima popolare brillavano già modelli
più puri, tipi più alti.
Poi la rivoluzione francese, affermando l'uguaglianza civile,
decapitò tutte le aristocrazie.
Adesso vi è ancora un problema dell'aristocrazia? Potrà essa
ricominciare dall'uguaglianza spirituale?
Come? Dove?
L'aristocrazia è immortale.
La superiorità, che prepara il carattere aristocratico, comincia
nella natura degli individui; è una eccellenza, che li rende diversi
dalla folla e da essa facilmente riconoscibile: quindi . per segreta
affinità elettiva s'adunano, la loro medesima uguaglianza li gradua,
le differenze di attitudini suggeriscono le gerarchie, l'unità
dell'opera li fonde e la sua durata consolida il loro ordine. Così
soltanto poterono operare nella storia e tutto o quasi fu
sacrificato alla loro conservazione. Allora la civiltà si svolgeva
in quadri a grandi distanze di spazio e di tempo: quando una
aristocrazia spariva, quasi sempre il popolo spariva con essa, ma
nella segreta, invisibile unità della storia né quell'idea, ne
quella forma erano perdute.
La funzione dell'aristocrazia diminuiva dunque col diffondersi
della civiltà e nell'uguagliarsi degli individui: più la sicurezza
del deposito spirituale cresceva e minore diventava il sacrificio
della sua salvaguardia: più l'individuo saliva e più si attenuava la
differenza di classe.
Nulla sembra dunque giustificare adesso un altro patriziato, mentre
tutti quelli superstiti non sanno in se medesimi rinnovellare la
superiorità loro necessaria: che cosa sono essi infatti se non
forme delle ultime monarchie naufragate nella rivoluzione, poi
ripescate come un simbolo vuoto, dentro il quale qualche altra cosa
ricominciava? La loro funzione politica si esercita ancora in
qualche Camera di Pari, ma indarno; nel nostro mondo ogni uomo è
sovrano, la legislazione si compie per mandato e la legge, non è
vera che nell'impersonalità.
Il fascino delle vecchie aristocrazie è dunque soltanto nella
bellezza di una rovina, alla quale contrasta la volgarità
dell'architettura moderna: anche il popolo comincia già a sentire
la nausea della forma e dei modi nei quali la ricchezza cerca di
esprimere una superiorità spirituale: i monumenti superstiti, i
ricordi classici, le figure romantiche improvvisano in tutti i
cuori una critica: qualche vivente moderno della vecchia
aristocrazia basta ancora ad umiliare i migliori campioni della
nuova, mentre la volgarità stessa dell'invidia al danaro risuscita
in un paradiso senza pericolo, le antiquate devozioni ai vecchi
titoli e ai nobili nomi. A questi almeno si può inchinarsi senza
umiliazioni, perché il caso della nascita vale per un bel nome come
per un bell'ingegno, mentre, nel piegarsi forzatamente al danaro per
il danaro soltanto, la nostra inferiorità sente di farsi vile. Oggi
nessuna differenza legale diminuisce più un uomo davanti ad un
altro: se nella scala sociale qualcuno sembra ancora nascere più
alto, è dubbio che per la sua educazione questo sia un vantaggio,
giacché il vigore cresce, non dalle facilità della scuola, ma dalle
difficoltà della vita. Una invidia addolora dunque tutte le piccole
anime, che non sanno più accusare alcuno della propria inferiorità:
una viltà le aduna nel fondo delle democrazie e le solleva sopra di
esse nei bollori della fermentazione come una schiuma.
Adesso che non vi sono più classi e ogni individuo deve valere per
se stesso, la guerra, dentro l'apparenza della pace, è diventata
anche più atroce; l'uomo tornò nemico dell'uomo, il suo egoismo non
ha più limiti in se stesso, né gioia al disopra. La solidarietà,
così vantata nel partito popolare, non è che legge di battaglia per
la conquista del denaro; invece di primeggiare come un tempo,
bisogna prevalere: per salire la prima necessità è di accattare i
suffragi, e poiché il numero rende anonimi gli elettori, si
rinnova in tutti i concorrenti la didascalia delle antiche corti.
A coloro che non chiedono il comando, la ricchezza diventa anche
più indispensabile, perché nella presente
fase industriale il trionfo del lavoro non ha altro
esponente che il denaro.
L'istinto aristocratico si realizza nelle forme più apparenti del
lusso e della educazione; la povertà in tanta devozione, che tutti
sembrano votarle, è il segno più basso della degradazione: non
s'ispira più ai fanciulli che l'orrore della miseria e la dignità
delle convenienze. L'unico sovrano è il pubblico: uniche classi,
quelle che il danaro forma momentaneamente in certi luoghi
accessibili soltanto a certi prezzi: soli trionfatori, coloro che,
improvvisando la propria ricchezza, osano bruciarla davanti alla
gente, e vi appaiono come dentro una luce d'incendio.
I credenti delle antiche fedi sembrano nascondersi, gli
aristocratici dei vecchi ordini attraversano la folla come
stranieri: malgrado la sicurezza che tutti sentono in sé medesimi,
manca qualche cosa ad ognuno, nella coscienza che non ha più una
regola, nel pensiero che è senza autorità, nella vita che cerca un
modello. Si volle essere re, e non si sa regnare; s'invocò la
libertà nell'uguaglianza, e appena conquistata si capì che non
basta.
È necessaria dunque un'altra aristocrazia, che, esprimendo le più
alte differenze, risolva l'equazione di tutte le altre.
Ma essa non sarà nella propria bellezza che la verità di tutte le
morte aristocrazie e l'originalità di un nuovo mondo; a rovescio di
quelle, non avrà né limiti né insegne: tutti quanti penseranno
nobilmente se stessi, ne faranno parte; il cuore vi preverrà alla
mente. Se nelle antiche il segno era nel disprezzo della morte,
questa ultima porrà nella vita il pregio della nobiltà, respingendo
le forme e le interpretazioni democratiche, che adesso fanno del
denaro il mezzo e lo scopo della vittoria. Nella politica, nella
scienza, nell'arte e perfino nella industria un altro sentimento
trionferà come il sole sulle nebbie di un troppo lungo mattino.
La funzione aristocratica si compirà pari all'antica nella
formazione di un nuovo carattere morale, che s'imponga
all'incoscienza del volgo: una intonazione alzerà lavoratori e
lavoro, e un eccellente fabbro potrà essere più stimato di un
mediocre avvocato e un professionista capace di guadagnare milioni
non varrà un modesto cooperatore in un gabinetto di studio. La
viltà di coloro che s'inchinano davanti alla folla verrà giudicata
come quella degli altri, che una volta fuggivano davanti al
nemico: coloro che mentono mercantilmente nel nome della
scienza, provocheranno il medesimo disprezzo di quelli che
nell'epoche religiose falsificavano la fede: gli artisti che
tradiranno l'arte, sembreranno i discendenti dei miserabili che già
vendettero la patria. La vita ha bisogno di una continua
ascensione.
Lasciate che il nuovo strato operaio si assodi su la base
della borghesia e giù negli ultimi strati del popolo si
cicatrizzino le più vecchie piaghe della miseria, e
dall'anima più tranquilla e più pura si alzerà un'altra visione
ideale. Non si vive che nello spirito: bisogna sognare la bellezza,
la virtù, la verità per non soccombere al dolore e alla nausea della
vita. Ogni epoca si compone il proprio modello eroico. Il periodo
industriale disciolse i vecchi tipi aristocratici, un altro periodo
li ricomporrà; la superstite albagia feudale appariva ridicola
nell'orgoglio di una potenza morta: questa ultima altezzosità
della ricchezza presto sembrerà anche più grottesca nella sua
impotenza.
Ma se le antiche aristocrazie parevano tagliate nel cristallo,
quest'ultima sarà come la bellezza dell'anno, che ricomincia nella
primavera e l'accompagna sino dentro la soglia gelida dell'inverno:
tutti potranno cogliervi un fiore, e nessuno farvi una eredità: non
vi saranno gradi, appunto perché tutte le superiorità vi otterranno
il proprio riconoscimento: non credo che si ripeteranno titoli e vi
si rinnoveranno decorazioni. Domani forse tutti le ricuserebbero
come un segno posto sopra una fìsonomia non abbastanza
significativa per apparire se stessa.
Se l'antica virtù aristocratica contrastava alla viltà della plebe,
la nuova dovrà essere più alta, giacché nel volgo saranno ricompresi
tutti coloro, anche ricchi, anche dotti, che interpretando
bassamente la vita ne umiliano la tragedia. Quindi i grandi
solamente vi saranno servi, il genio che pensa per tutti, l'eroe che
si sacrifica per molti: non si crederà più possibile la grandezza
che umilia, non si stimerà più una forza quella che non solleva.
Siccome non vi saranno posti che somiglino a plinti, l'autorità non
potrà fingere la potenza o la fama, simulare la gloria: e poiché la
grandezza non ha altro premio che se stessa, i grandi soltanto
potranno accontentarsene.
Oggi l'ombra delle vecchie classi divide ancora gli uomini, domani
non vi sarà fra essi che una sola differenza: o aristocratico o
plebeo: l'egoista chiuso in se stesso e che mente agli altri: o il
forte che apre a tutti la propria anima come un ricovero e accende
il proprio pensiero come una fiaccola nella notte.
Ma nessuno potrà redimere un altro.
La codarda teoria, che lusinga il popolo dicendogli che la sua
inferiorità è soltanto nella ingiustizia della legge, sarà lontana
come adesso la menzogna degli ultimi cortigiani agli ultimi
tiranni: non si può sopprimere in alcuno il tirocinio della
libertà, né concedere esercizio di diritti a chi non li senta ancora
nella propria coscienza.
Non si diventa libero che innalzandosi; non è possibile affermarsi
davanti agli altri che nella sincerità di se stesso.
Finché il popolo non sia davvero composto di uomini, non sarà
libero; ma fino a quel giorno un'altra aristocrazia gli sarà guida e
modello nel pensiero e nell'opera, e nessuno saprà come sia
composta, perché domini ovunque, senza leggi e senza armi. La sua
influenza sarà nella luce che è il primo degli alimenti, la sua
verità nell'accettarle tutte: atei e credenti vi agiranno
nell'accordo dell'umana tragedia: piccoli e grandi vi si sentiranno
uguali nelle intenzioni e nei risultati.
E gli inconsolabili, che giudicano inutile la vita, avranno veduto
in questo ultimo sforzo la sua più pura bellezza.
L'APPELLO.
Bisognerebbe gettarlo sull'ali di una strofe o tacere.
Coloro che mi seguirono stancamente sin qui nell'aspettazione di una
fede, si domanderanno, guardando le cime più alte del pensiero, su
quale di esse sia per spuntare la nuova stella mattutina, da quale
scuola, da quale tempio, uscirà la parola redentrice.
Non lo so.
Come tutti ho pensato nell'ombra
del mio tempo, e interrogando la mia vita non ne ebbi
risposta: non credevo nemmeno di scrivere questo libro, adesso non
ne comprendo più bene il motivo.
Mentre l'autunno matura gli ultimi grappoli, il freddo dell'inverno
soffia già dalle vette dei monti nella serenità muta dell'alba, che
gli uccelli salutano ancora cantando. L'autunno della mia vita è già
più innanzi: l'ombra, si è fatta grève, le notti lunghe, i giorni
inutili. Coloro, che seminano, non mi riconoscono più e io guardo
le loro mani gettare lungi la semenza col gesto largo della
prodigalità, che si appaga nella gioia del momento, dimenticando la
fatica dei frutti raccolti, senza nemmeno il bisogno di credere che
altri frutti matureranno. Il villano semina nella stagione, vive
nel lavoro.: dentro la sua fede vi è come iyia indifferenza
ugualmente , sicura, le sue speranze sono un crepitio allegro della
vita,, che passa dentro di lui, e lo solleva un istante come un
uccello sull'ali. Il popolo fu sempre così. La tragedia del
dubbio, i deliri della fede, le disperazioni della incredulità
scoppiarono in coloro che vissero di pensiero, chiedendo alla vita
il suo segreto. Per essi soltanto la storia esisteva e non
bastava. Da qualunque parte si volgesse, il loro
spirito sentiva sempre nell'orizzonte un confine, oltre il
quale soltanto la luce aveva rivelazioni: qualunque voce
ascoltassero, vi sorprendevano una parola interrotta; la natura
parla, ma il suo discorso ci rimane inintelligibile.
Così lo spirito è un mistero a se medesimo: i piccoli lo ignorano; i
grandi non possono né ignorarlo, né comprenderlo, i forti operano
nelle sue apparenze e sono i più meritevoli. Quindi si creano una
fede, danno un disegno alla natura, una missione alla storia;
incerti, costanti, lottano nel bisogno più urgente, per il problema
più vicino, verso la meta più eccelsa. La loro forza è nell'oblio
dei dolori che tesserono la vita alle generazioni passate, nella
speranza delle gioie, che la vittoria del lavoro prepara domani alla
fatica di tutti. Essi domandano una verità come una bussola sul
mare: vogliono vivere, e la vita è amore nella generazione,
creazione nel pensiero.
Per essi ho cercato di guardare all'alto in questo libro, che non è
una guida, ma accenna soltanto nel fuggente paesaggio le vette,
sulle quali il sole spunta al mattino o s'indugia altramonto, i
pantani donde sorgono le nebbie dei miasmi, le pianure che si
coprono pomposamente di messi. Comunque si torca per ognuno il
proprio sentiero, bisogna camminare verso la montagna, dalla quale
lo sguardo domina sovrano, e sulla quale la morte ha un'ombra più
leggiera. La poesia è lassù.
Adesso che la mia giornata s'interrompe nei crepuscoli della sera,
guardo ancora alle cime, pensando che sarebbe stato meglio il non
discenderne mai, per quanto esse non siano più vicine delle pianure
al cielo. Nell'ideale soltanto, sia pur una larva dentro un
miraggio, è la bellezza della vita: se qualche cosa può somigliare
alla verità, che non sappiamo, è la virtù che dà invece di ricevere
e muta i sogni del dolore in opere di pensiero.
Una rivoluzione è cominciata, scomponendo tutti gli ordini e
rigettando tutte le idee nel crogiuolo: coloro, che prima non
chiedevano il perché di se medesimi, non credono più alle vecchie
spiegazioni e cercano in una verità più umana un ideale più divino.
Non vi possono essere più assenti dalla storia dopo la proclamazione
della sovranità in ognuno, gli istituti antichi sono troppo piccoli
per contenere la nuova gente: la Chiesa, che vorrà davvero essere
cattolica, dovrà aprire più largamente le braccia, perché le anime
hanno già aperto le ali.
Se la tragedia non potrà mutare, la sua scena diverrà più vasta e
più profondo il suo coro: invece dei re i popoli vi
rappresenteranno se stessi, e la voce dei poeti salirà da petti più
ampi, con sonorità simili a quelle del vento, quando straccia i rami
delle foreste o le onde del mare. L'intuizione, già balenò nei
pochi, sarà nella moltitudine lungamente tempesta, prima di
quietarsi in una vasta forma che possa contenerla, co
me i quadri
della natura contengono nella bel
lezza dei propri limiti il lavoro
umano: i con
duttori delle genti saranno ben grandi per ap
parire
visibili, quando nessuno vorrà più accet
tare un ordine ignoto o
seguire un capitano ano
nimo.
La storia universale sta per accordare nel proprio ritmo tutti i
popoli: non vi sono più stranieri, domani non vi saranno più
barbari. Nella vita, alla quale tutti parteciperanno, il calore
fonderà gli egoismi più duri, e l'alito, battendo sulle faci più
alte, darà loro una luce di astro.
Accendete dunque tutte le fiaccole, perché la marcia è già
cominciata nella notte, e non temete del fumo: l'alba è vicina.
Il suo rossore somiglierà forse a quello del sangue, ma è sorriso di
porpora, che balena dal manto del sole.
Casolavalsenio, 16 maggio - 21 settembre 1906.