La rivolta ideale
PARTE SECONDA
INDICE
I. La libertà
II. L'individualità
II. Lo Stato
IV. Lo spirito nazionale
V. Le classi
VI. I partiti
VII. Il problema dell'autorità
VIII. La patria
IX. La proprietà
X. La indissolubilità matrimoniale
XI. La pena
XII. La beneficenza
XII. La lotta per la vita
XIV. Corporazioni e cooperative
XV. La crisi cristiana
XVI. Il carattere militare
XVII. L'imperialismo
XVIII. L'onore
La libertà.
I
La libertà e l'essenza della personalità.
Il suo problema non diventò tale che. molto tardi, quando lo spirito
ebbe imparato tutta l'arte pericolosa di analizzare se stesso, e al
pari di ogni altro problema primordiale rimase insolubile. Come il
mondo non esiste per noi che in quanto è pensato, e il pensiero ne
sente tuttavia la realtà colla medesima certezza di se stesso, così
la libertà attraverso le contraddizioni della dialettica e le
umiliazioni della nostra schiavitù: alla natura si mantiene
nell'anima coll'evidenza indiscutibile di una sensazione e
l'abbacinante chiarezza di un'idea.
Il suo segreto identico forse a quello del bene e del male resterà
sempre un mistero, la sua certezza non potrà mai diminuire. Indarno
frazionando in noi medesimi lo spirito distinguiamo il pensiero
dalla volontà, la sensazione dal giudizio, mentre il principio della
loro unità resta egualmente inviolabile alla nostra analisi, e
seguitiamo a sentirci uni nella coscienza malgrado tutti i
mutamenti della vita dentro di essa. Il pensiero afferma se medesimo
nel mondo e il mondo in se medesimo, la libertà si libra
perennemente sulla volontà e sul pensiero nell'alternativa di
un'elezione, che né il motivo nè la legge bastano ad imporle: senza
il motivo nessuna elezione è possibile, senza la legge nessuna
elezione sarebbe vera.
È questa la condizione della vita morale: una legge dentro di noi,
che rivelandoci i rapporti con noi stessi e con gli altri crea il
diritto colla libertà per principio, il bene per scopo, la giustizia
per norma: ma lasciandoci la facoltà di contraddire in noi stessi
legge e diritto, senza poterli distruggere nella coscienza né fuori
di essa.
La libertà suppone la volontà, e senza questa il pensiero non
apparirebbe personale. Coloro, che negano all'anima la
libertà, urtano nell'impossibile: anzitutto l'anima non può non
sentirsi libera nella elezione di ogni atto, e quando le pare di
soccombere ad un impeto o ad una insufficienza, anche allora sa che
con uno sforzo avrebbe potuto resistere, perchè il pentire di cedere
le rivela appunto nella forza di resistenza una più alta sovranità
di decisione.
Noi sentiamo di essere liberi, di avere un pensiero, una
volontà, una personalità: vera o falsa questa coscienza
resiste a tutto quanto possiamo pensare e volere contro di
essa: è istintiva ed intuitiva, negata si riafferma nella
negazione. E come la vita, che nel suicidio riconferma là propria
superiorità sul dolore e sulla morte, i due massimi momenti
della sua trasformazione: come la
realtà, che soppressa dalla dialettica,
rimane nella sensazione e ridiscende e risale
nell'idea: come il pensiero, che per dichiararsi una conseguenza
della materia è costretto a servirsi della propria logica
immateriale: come la volontà, che non può né sovrapporsi né
sottomettersi al pensiero, ma pari a lui nel mistero rappresenta la
libertà nella necessità.
Infatti il vero è necessità nel pensiero e libertà nella coscienza.
Già S. Paolo, che pensava come il cielo balena, disse ai primi
cristiani: Noi siamo liberi nella verità.
Cancellate la libertà ed avrete cancellata ogni vita morale: il
nostro individuo non esiste che nella libertà e nella sovranità di
se medesimo; se il pensiero fosse soltanto un risultato
dell'organismo, a parte l'assurdo di una simile concezione che
farebbe concludere la materia all'immateriale, non avrebbe più
individualità, giacché essa consiste appunto nella unità identica di
se medesima attraverso il mutamento della vita. Se non fossimo
liberi, la nostra azione sarebbe automatica, senza differenza di
bene e di male, nel principio e nel risultato: saremmo un animale
mostruoso nella propria contraddizione perché capace di pensare
nell'astrazione che annulla e contraddice la natura ed incapace di
giustizia, la quale è appunto l'astrazione dei rapporti da persona
a persona, al disopra di ogni differenza personale.
Nella giustizia che domina il male e il bene, gl'individui sono
concepiti astrattamente e ogni rapporto fra loro viene interpretato
da un altro più alto, con un tipo ideale; così dobbiamo amare e
rispettare i genitori non per la verità del loro valore individuale
o per la gratitudine del beneficio ricevuto, ma perché in essi è la
personalità del padre e della madre, la quale esprime la doppia
funzione spirituale della generazione e dell'allevamento; così
dobbiamo rimanere sottomessi alla patria, non perché la nostra vita
vi abbia prosperato, ma perché la patria è la personalità storica
della razza, senza la quale la nostra di individui non avrebbe
potuto formarsi: così, dobbiamo sacrificarci alla verità non perché
ci sia utile, ma perché nella verità è l'essenza del pensiero, e
nella sua elezione il primo bisogno della nostra volontà morale.
Senza di questa non vi sarebbero né diritti né leggi.
La legge è una rivelazione del pensiero, che la scopre in un quadro
di fatti, ma non diventa tale se non per un'altra necessità che
l'impone alla volontà, la quale deve accettarla liberamente.
La libertà non è dunque che l'adesione alla necessità, la
sottomissione del nostro spirito alla verità, rinunciando a tutte le
forze, colle quali potrebbe combatterla: se il motivo, pel quale la
volontà si decide, fosse obbligatorio, non sarebbe più un motivo, né
la volontà una volontà: l'uomo pensa ed opera nel mistero, ma
dentro di esso sa che il pensiero ingannandosi non diventa
ingiusto, e la realtà è sostanzialmente quale si rivela
nell'apparenza, e la logica della natura non diversa dalla nostra,
poiché noi siamo il suo solo pensiero e la sua unica coscienza.
L'uomo opera e sente che la sua azione è dominata da una legge
morale, contro la quale può indarno perdere se stesso: che una
verità inaccessibile nel segreto della sua origine e della sua
perfezione gli sta dinanzi come un modello, del quale il confronto
diventa consolazione o rimorso: tutti i sofismi del pensiero, i
sotterfugi del sentimento le complicità o le assoluzioni degli altri
non ci liberano da questa ossessione.
Non possiamo ingannare noi stessi: il male non è male che nella
nostra coscienza, fuori è soltanto danno.
Ingannandoci in una legge o in un costume del nostro tempo ci è
permesso di commettere una cattiva azione credendola buona, non di
compierne una cattiva consapevolmente e giustificarla.
Il diritto è la morale costituita in sovranità dentro la nostra
coscienza, la potestà dell'opera per la necessità stessa della sua
funzione: quindi si rivela non si crea, viene riconosciuto non
concesso.
Non vi è diritto fuori della morale e della libertà. Nella
concezione materialistica il diritto non potrebbe essere che
funzione conquistata da una forza, come la legge un equilibrio colto
dal pensiero nell'oscillazione del numero; ma la sua obbligatorietà
per l'individuo rimarrebbe sempre esterna, una sottomissione della
debolezza o dell'ipocrisia, pronte a distruggere la legge con un
qualche aiuto di forze improvvise o a frodarla. Se la legge non è
dentro di noi, fuori diventa coazione.
Invece la nostra vita è tutta intonata sopra un ritmo ideale:
pensiamo e giudichiamo colla logica che è in noi e non avremmo
potuto inventare, con una morale che ci grida, si rivela e si
perfeziona nella nostra opera, sia questa conforme o contraria alla
legge: conforme, la nostra coscienza vi ottiene un equilibrio, dal
quale ascende illuminandosi: contraria, il nostro spirito si
sconvolge come in una tempesta e si perde urlando di spavento e di
dolore nel buio.
Non si poteva inventare il linguaggio più del pensiero, la morale
più della bellezza, la giustizia più dell'arte, la storia più della
vita.
Nella storia la libertà tesse il dramma dell'individualità.
Le idee, che vi si realizzano, non possono avere altro scopo che la
formazione dell'uomo alzandolo sino alla sovranità, di se stesso.
Ogni epoca si consuma nello sforzo di perfezionare un qualche
carattere umano; la religione e la filosofia, l'arte e la scienza,
la legge e il costume non si associano e non si urtano che in tale
esercizio: l'accumulazione delle dottrine, la successione degli
Stati, la stratificazione della civiltà esprimono il progresso
individuale dell'umanità.
L'uomo d'oggi è il risultato di tutta la storia umana.
Quindi le grandi epoche e i grandi uomini non servono che alla
elevazione del piccoli per sbrogliare il loro pensiero dandogli una
potenza di astrazione che lo sollevi nella responsabilità; fuori di
questa concezione la storia non ha senso.
Costituire l'individuo nella libertà ecco il segreto della storia:
costituire l'uomo sopra la vita, ecco il segreto anche più profondo
della tragedia. Ma se la volontà non è pari al pensiero, se la
libertà non si uguaglia alla necessità accettandola come una verità
superiore, e sottomettendosi per realizzarla al dolore del
sacrificio, l'uomo non è più l'uomo.
Coloro, che negano la libertà, non si accorgono di sopprimere la
volontà uccidendo in essa l'individuo.
Che cosa è egli infatti?
II.
L'individualità.
L'individualità comincia nell'atomo, si sviluppa nella
coscienza, si realizza nell'autonomia. Ogni individuo è un'unità, ma
ogni unità non è un individuo; a costituirlo non bastano né i
caratteri dell'unità né quelli del tipo: le unità di causa, di
scopo, di azione, di reciprocità, di risultato, e i caratteri del
germe e della fisonomia sono coefficienti non principio
dell'individualità.
Il suo inizio nel concetto è al solito dentro un'antitesi: la
materia necessariamente concepita come divisibile all'infinito e
l'atomo come indivisibile; la divisibilità è l'infinito multiplo,
invece l'unità dell'indivisibile è già l'individualità, l'uno pari
al tutto, il punto che genera l'estensione, la prima cifra che
contiene il numero inesauribile. Non vi è unità, che non possa
essere sottomessa ad un'altra unità superiore, ma l'individuo è
irreduttibile; solitario o aggregato conserva se stesso, si
coordina non si perde, obbedisce indietreggiando fino al limite
della propria inviolabilità.
Scienziati e filosofi hanno da tempo largamente divisi gli
individui in materiali e spirituali, ma questa distinzione è
impossibile: negli individui materiali l'individualità si
affermerebbe in una sensibilità falsamente chiamata coscienza,
negli altri invece la coscienza creerebbe il principio e la forma
dell'individualità.
Spinoza, il più rigido dei monisti, diceva già: il corpo umano è
composto da gran numero di individui di natura differente, tutti
profondamente complessi: a distanza di un secolo Goethe ripeteva:
ogni vivente è una pluralità, ma più una creatura è perfetta e più
le sue parti sono dissimili; poi la filosofia seguitò a confondersi
fra unità ed individualità, mentre la scienza rimetteva nella
cellula la vita della monade, e cercando fra la natura si attardava
nelle scoperte delle funzioni o dei caratteri, che nella resistenza
dell'antagonismo simulavano l'individualità.
Questa invece non può essere che nell'idea e apparisce dalla
coscienza, ma una coscienza che mantenendo l'identità di persona
respinge simultaneamente tutte le differenze di successione nella
propria e in ogni altra vita.
L'unità delle sensazioni e dei moti, la coordinazione dei comandi e
delle esecuzioni, la potenza di resistere al proprio aggregato o di
sopravvivervi, la gerarchia delle funzioni complessa ed alta così
che in noi medesimi vi sarebbero individui materiali incaricati di
agire nella nostra generazione e nella nostra morte ignorando l'una
e l'altra, non bastano ad affermare la loro individualità. Per
essere davvero individuo è necessaria una coscienza capace di
contrapporsi a se stessa e a tutto il mondo; quindi l'individualità
non può essere che spirituale e attinge se stessa nella libertà.
Nelle cosidette individualità materiali è facile cogliere i
caratteri similari alla coscienza affermando che vi è una
riflessione nella loro sensibilità, un comando nell'azione, una
libertà nella resistenza; si possono analizzare le loro
coordinazioni e chiamarle caratteri sociali, cogliere nel segreto
della loro struttura analogie misteriose con quella dei grandi
individui spirituali. O indietreggiando verso il mistero delle
origini mettere il principio della vita nella cellula, respingerlo
ancora più indietro e riconoscere la generazione spontanea,
affermare che per essere un individuo non è nemmeno necessario un
organismo, credere che il corpo si formi dalla irradiazione di un
nucleo, e che un'armonia prestabilita riunisca l'individualità
interna all'esterna: si può dall'atomo salire all'elettrone, ma
questo magnifico viaggio di scoperta, questo poema della natura, nel
quale la scienza canta
come una poesia, lascia intatto il problema della individualità.
L'individualità dell'atomo, sulla quale riposerebbe la sua
individualità materiale non è che un lontano inizio davanti alla
identità della coscienza negli individui spirituali: lo spirito
soltanto può avere individualità e coscienza, perciò nell'una e
nell'altra debbono essere pari l'uno e il tutto, l'essere e il non
essere, l'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande.
Che nel nostro corpo ci siano altri viventi,, i quali ignorandosi e
conoscendosi lo firmino, lo mantengano, e lo distruggano sarà vero,
ma la nostra individualità corporale, che resta una pur rimutandosi
a ogni istante, non è né la conseguenza, né la somma, né l'unità
della loro opera: senza questa non si manifesterebbe, però si
manifesta altra e superiore. Così ogni quadro e ogni sonata sono
sensibili per colori e per note, mentre ciò che li fa essere quello
che sono è una individualità spirituale, che non essendo in nessun
colore e in nessuna nota, non poteva salire dalla loro somma.
L'individualità è il supremo mistero dello spirito, che è in noi: è
il pensiero pel quale pensiamo noi stessi ed il mondo, la coscienza
che ci distingue dal pensiero e dal mondo stesso, perché nel
pensiero astratto la nostra personalità cessa di esistere, e nel
corpo invece bisogna che tutte le sue forme si dissipino perché la
sua individualità vanisca.
Coloro, che parlano di coscienza fisica e di coscienza materiale,
trascurano un'osservazione di prim'ordine: se noi abbiamo bilioni di
viventi dentro di noi, la loro sottomissione è così perfetta che
non possiamo nemmeno avvertirla, invece avvertiamo presto, se altri
viventi non prestabiliti al servizio della nostra individualità, vi
penetrino; e ciò diventa quasi sempre per noi una malattia. L'unità
fìsica non è dunque l'individualità, vi è contenuta e sottoposta:
prepara la sua vita e non la crea, e dissolvendone le condizioni
produce la morte. Ma l'individualità vi soccombe davvero?
Ecco il problema.
La scienza non ha saputo e non saprà varcare l'abisso, che divide
l'unità dalla individualità: noi ci sentiamo mortali nel tempo
stesso che il nostro pensiero e la nostra coscienza esprimono un
principio superiore alla materia e alla morte, le nostre verità
rimangono tali anche dopo la distruzione del mondo, poiché non
possiamo pensarle diversamente, mentre colla loro logica creiamo
in noi stessi la spiegazione del mondo.
Ma l'individuo non è tale che autonomo.
La libertà è il principio sovrano, che fonde volontà e pensiero,
cosicché tutto quanto è verità necessaria nel pensiero deve passare
nell'opera attraverso la contraddizione della volontà libera: senza
di questo l'individuo ripiomberebbe nella passività e non avrebbe
più coscienza. Tale contraddizione della necessità e della libertà è
pari all'altra della nostra perenne identità nel nostro continuo
mutamento; questa esprime l'individualità fisica, quella
l'individualità spirituale.
La scienza non ha ancora potuto rispondere alla domanda, se la vita
contenga una finalità ascendendo verso una meta, o ripiegandosi a
mezzo l'ascensione si chiuda come un circolo: le filosofie
sostennero l'una e l'altra ipotesi seguendo l'istinto che si
lanciava come la rondine dal nido al primo richiamo della primavera,
o cadendo sulle sabbie del deserto come il cammello senza più
guardare né intorno né in alto, col-l'occhio così consolabilmente
nostalgico. Ma se non possiamo risolvere in noi stessi
il problema della vita, l'altro della storia è più facile al
pensiero, accenti questo la speranza che si protende oltre ogni
fine, o si arresti nella sua disperazione costretto a nutrirsi
soltanto del presente. Per ambo i casi la spiegazione non muta.
In qualunque sistema l'uomo è il mezzo ed il fine della storia, o
questa non ha né l'uno né l'altro, e allora il pensiero non potrebbe
pensarla. La storia esercita e determina la spiritualità
umana, è una irradiazione della sua coscienza: i morti vi sono
presenti come i non nati o per le necessità che sopravvivono
all'opera o per quelle che la preparano: tutto quanto resta di più
significativo dopo ogni tempo è la modificazione prodotta sul suo
spirito, che vi diventa un carattere. Quindi le idee salgono
dall'istinto e si realizzano nella passione della massa: i
grandi uomini le incarnano, e così una reciprocità nutre le alte e
le basse coscienze: la piccola individualità collettiva si
contempla nella grande individualità singola, che fondendo un
popolo o un secolo in se medesima gli dà una figura immortale nella
memoria, del mondo.
L'individuo secondo i modi del dramma e le necessità dell'idea è
immolato alla massa, ma questa è egualmente sacrificata
all'individuo: soltanto l'uomo di tutti i tempi, di tutti i luoghi,
questa ideale individualità è il trionfatore della storia, gli
altri, morti, viventi, non nati, vi sono e vi saranno vinti.
L'individualità singola non potrebbe esistervi senza la collettiva:
prima è la famiglia, poi la tribù, l'orda, la nazione, lo stato,
l'impero; solo, il bambino morrebbe e l'uomo non saprebbe vivere.
Se egli dovesse ad ogni generazione ricreare il proprio patrimonio
morale ed intellettuale soccomberebbe prima di miseria; ogni moto
della massa è vibrazione nell'individuo, le vibrazioni degli
individui formano il moto nella massa.
Quando lunghi secoli e vaste nazioni sono scomparse, il loro spirito
sopravvive nella biografìa anonima dei viventi, che non sanno o non
ricordano; quando interi popoli vengono come ad offrire in olocausto
sull'altare di una religione, o si precipitano quasi ebbri dentro
gli ergastoli di un impero, quell'immenso sacrifìcio, misterioso
per le vittime, sarà dopo molti anni una festa di libertà. Il
grand'uomo, che sollevato dal turbine della tragedia si guarda sotto
i piedi l'umanità camminare brucando e ruminando a testa bassa, è
egli stesso l'immagine di quel gregge, e per guidarlo deve abbassare
sino al suo istinto la propria coscienza. Un atto di superbia
basterebbe a perderlo nell'isolamento.
Il sacrificio è la più intima delle comunioni: la grande anima
accoglie tutte le più piccole, perché la divorino.
Nel passato lo sforzo degli individui era di pareggiarsi alla
individualità nazionale, ed ogni Stato così chiuso in se stesso che
la sua opera si compiva antagonista a quella di ogni altro popolo.
Ma l'apparenza ingannava: anche allora le correnti ideali
comunicavano fra loro: le religioni, le scienze, le arti, gli
imperi fondevano genti e razze non capaci ancora di affermare se
stesse. Quindi la storia sembrò lungamente epica anche dopo il
tramonto dell'epopea: i popoli si guardavano l'un l'altro come
stranieri, ogni vita non era possibile che in una patria, ogni
carattere della civiltà non si sviluppava che solitario.
L'eccessiva intellettualità della Grecia doveva quindi concludere
alla sua debolezza politica contro le resistenze dei vasti popoli
circostanti, invece la strapotenza politica di Roma crebbe come una
quercia da un terreno arido; Roma non ebbe né religione né filosofìa
né arte originale. O lo Stato dava all'individuo la propria forza
arrestandolo pei propri limiti, o la libertà dell'individuo
indeboliva la forza dello Stato.
Quasi sempre ogni grande individualità oltrepassando il confine
pubblico deve perire per la sua stessa superiorità, o sparire in
alto per salvarsi: vedete Socrate ed Anassagora. Se la storia dello
Stato era lunga, l'individuo quasi sempre vi si cristallizzava; se
breve, sembrava apparirvi e dileguare.
Dopo il cristianesimo il problema mutò, e adesso, nella modernità,
l'individuo autonomo dentro lo Stato deve sviluppare tutto il
proprio carattere umano: ecco l'originalità del nostro tempo. Molti
la concepiscono nella distruzione dei caratteri nazionali come in un
ultimo trionfo della libertà; non più limiti esteriori, l'uomo
ovunque identico all'uomo: il confine della patria è una clausuil
dogma della fede una cella, ogni uso antico un pregiudizio,
ogni fìsonomia nazionale una caricatura.
L'uomo e l'umanità, il due sostituito al tre.
Ma che cosa sarebbe allora l'umanità? Nella vita la differenza
soltanto crea, l'identico è l'indistinguibile; l'umanità senza i
caratteri nazionali sarebbe l'uomo senza fìsonomia o colla
fìsonomia astratta della statue classiche. La natuira sotto
l'analisi della scienza si riduce a poche formule, la storia senza
il dramma ad una dialettica, l'umanità
senza le nazioni ad una folla.
La geografìa è la cornice della storia, ma la cornice era già un
quadro essa medesima, che doveva influire sui colori e sulle linee
dell'altro: la differenzia geografica preparando la differenza
storica è il primo momento della fìsonomia nazionale; forse i
geografi vi hanno creduto troppo e i filosofi della storia non vi
poterono credere abbastanza, vinti dalla originalità inconciliabile
di certi tempi e di certi popoli; tuttavia storia e geografìa sono
indissolubilmente legate, e le differenze di quella hanno sempre un
motivo in una diversità di questa.
Per attingere la più alta vetta del carattere umano l'individuo deve
prima toccare quelle del carattere nazionale, e soltanto dopo potrà
poi levarsi alla bianchezza luminosa dell'idea senza perdere se
stesso. Infatti gli uomini più universali della storia sono appunto
quelli, che più profondamente e intensamente ne riassunsero un
periodo o una gente: non si soggioga il mondo che imprimendogli
sulla maschera qualche cosa del nostro volto, ma quella di un uomo
non sarà mai più originale che esprimendo la fìsonomia di un
popolo. L'individualità è un popolo in un individuo, mentre il tipo
è soltanto un'astrazione e sta nell'arte come uno scheletro ad una
figura.
Nella nostra modernità, che attenua tutti i limiti da classe a
classe, da nazione a nazione, il problema dell'individuo si
intensifica: oggi essere italiano così che tutti gli stranieri vi
sentano inevitabilmente originale contro di loro, è ben più
diffìcile che ai tempi di Cesare e di Dante o soltanto di Goldoni e
di Garibaldi. Qualcuno invece può essere sempre riconosciuto per
qualche cosa, che gli manchi; ma difetto od assenza non
creano fìsonomia: mancare
di un braccio, sarà un segno di riconoscimento per la
polizia, non un carattere per un pittore.
Una volta l'Italia aveva fìsonomie distinte e rivali di regioni e di
classi, di città e di campagne, sulle quali i secoli passarono
uguagliando; lo spirito nazionale livellò la superficie e condensò
il fondo; bisogna quindi che la nuova Italia conquisti nel mondo
un'altra originalità, o quella antica le rimarrà sulla fronte come
un'etichetta sopra un vaso. Se l'individuo moderno non sarà più
forte dell'individuo romano e di quello medioevale trovando più
profondi motivi nella poesia, e dalla sua sovrana coscienza di
elettore traendo uno spirito e una forma più alta di vita, ciò vorrà
dire che dopo il secolo XIX, il mondiale fra tutti, quello XX gli
avrà messo una stanchezza nel cuore e un'ombra nel pensiero.
Stringetevi dunque la corda sui lombi e guardate le ultime stelle;
ve n'è sempre qualcuna che non vuol tramontare, quello è l'astro
dell'ideale che si perde, non si spegne nel sole.
III
Lo Stato
Lo Stato è l'individualità di un popolo capace di sentire se stesso
nella contraddizione della propria continuità e nell'opposizione
cogli altri popoli.
Nella coscienza dello Stato sono dunque egualmente vivi i morti e i
non nati, coloro che iniziarono la sua storia e quelli che la
compiranno, e la contraddizione si rivela nell'urto degli
interessi fra la generazione presente e le assenti. Ogni generazione
compie l'opera propria dentro l'illusione della sua suprema
importanza: così l'egoismo sprigiona fin l'ultime forze e il
trionfo diventa più facile nella vanità di meritarlo. Invece il
motivo di ogni azione preesiste quasi sempre lontano; lo schema è
dato e l'idea già intera; il genio della generazione operante o
conclude od inizia, quando invece può iniziare e concludere davvero
è raramente e diffìcilmente grande.
Come e quando cominci lo Stato è difficile constatare.
Nel principio è l'umanità, poi la razza, quindi la nazione:
nell'umanità l'antitesi più vasta e profonda esprime i rapporti
primordiali colla natura e coll'infìnito, ma al nostro pensiero
anche adesso l'umanità appare ancora frammentaria: tutto dentro di
essa è contrasto, le religioni e le filosofie, le scienze e le arti,
i costumi e le leggi, i tempi ed i luoghi: la sua identità invece si
rivela nelle categorie logiche e fisiche, l'uomo essendo egualmente
uomo dappertutto.
Dentro l'umanità il primo cerchio concentrico è la razza, ancora un
mistero dopo tante indagini e tante scoperte; ma le dottrine che
battagliano per la pluralità delle razze armeggiano nel vuoto,
mentre l'unità del genere umano è irrefutabilmente affermata dalla
anatomia e dalla logica. Certamente nella razza è una individualità,
dalla quale i caratteri si mantengono attraverso tutte le
opposizioni geografiche e storiche: ogni razza ha una coscienza e
un pensiero originale, che nella propria espressione limita quello
dell'umanità; la geografia influendo sul corpo può modificare lo
spirito così che la modificazione vi rimanga incancellabile.
La razza è quindi il primo momento nella individualità di un popolo,
ma la sua vita è troppo diffusa, perché questo vi attinga la
perfetta coscienza di se medesimo. È come nella famiglia: i suoi
membri non diventano autonomi che superandola, senza la famiglia non
esisterebbero, dentro la famiglia non sarebbero mai interamente se
medesimi.
Ogni popolo serba però della propria razza il carattere essenziale;
tutte le creazioni posteriori si ispireranno dalle sue concezioni
primitive, nessun popolo anzi potrà forse uscirne mai. Le religioni
sono quasi tutte di razza, almeno le grandi, e così i primi imperi,
le costituzioni famigliali, gli organismi politici, le attitudini e
le abitudini economiche. Lo specchio della razza è la lingua,
primordiale espressione e sintesi del pensiero. Si può uscire dalla
patria, è impossibile varcare i confini della razza; un bianco non
sarà mai un negro od un giallo; una differenza resta anche nelle
intimità più semplici del cuore, sulle cime più impersonali del
pensiero.
Dentro la razza si forma la nazione: è un altro cerchio più stretto
che addensa la propria sostanza e dà alla fìsonomia un rilievo più
inconfondibile. Ma le nazioni si iniziano quasi tutte nella
preistoria, e quindi l'esame delle loro origini rimane quasi sempre
impossibile: impossibile sapere veramente tutte le circostanze
efficaci sulla determinazione di una individualità nazionale,
poiché oggi ancora, dopo tante vanterie, la storia non raccoglie
che i fatti massimi, mentre nei minimi sta forse il più essenziale
e-lemento.
Poi le nazioni si coagulano negli imperi, si spezzano e sopravvivono
o muoiono nei popoli. Talvolta sembrano consumarsi nella produzione
di una sola idea come gli Ebrei, o stancano i secoli nell'inerzia
come la China; per alcune la diffusione è nel numero, per altre nel
pensiero; vi sono nazioni che regnano soltanto nella religione, o
nella giurisprudenza, o nell'arte, o nel commercio; parecchie
elessero per patria il mare, qualcuna oggi ancora è nomade. Vi
furono nazioni che si riconobbero soltanto in un imperatore,
spesso si allearono in un idolo, più spesso si trucidarono per un
dogma.
Ma se la loro individualità fu tanto più visibile quanto più chiara
era la loro coscienza, la loro vita invece fu sempre monca, perché
oscura era in esse l'idea della umanità.
Ogni nazione legò la propria idea e il proprio carattere nella morte
ad un'altra, ma l'unità della nazione non bastò quasi mai a produrre
quella dello Stato e a salvare l'integrità dell'individuo.
Guardando gli antichissimi bassorilievi, che risuscitano dagli
scavi, vi si riconosce un'arte ancora tipica: l'individuo era dunque
soltanto nazionale, non viveva in sé, libero contro gli altri.
Se lo Stato è l'individualità di un popolo, la sua prima antitesi è
nella religione, che formò l'individualità primitiva: nello Stato si
chiariscono i rapporti dell'uomo con se stesso e con gli altri,
mentre nella religione i rapporti oltremondani costituiscono la più
intensa necessità. Il dualismo fra Chiesa e Stato sta dunque
nell'origine di entrambi, ne cesserà prima della loro fine.
Nello Stato il carattere è l'idea giuridica, poiché la morale vi si
fa legge per opera della volontà che la munisce di sanzione; anche
le religioni crearono leggi e sanzioni, ma il loro significato
trascendeva la coscienza del sacerdote e del credente; nelle
religioni il centro è fuori, in Dio; nello Stato il centro è fra
pensiero e volontà,
nel mezzo della vita, sopra un punto della geografìa, dentro un
anello della storia.
Se la ragione consiste nella compenetrante unità dell'universale col
particolare e nell'identica libertà del volere universale e della
volontà subiettiva, lo Stato esprime tale unità nel proprio momento;
lo Stato è il popolo nella sua astratta e vivente individualità, ma
il popolo circoscritto nell'opera politica, in quanto la politica si
compone di rapporti fra uomo e uomo, non fra uomo e natura o fra
uomo e Dio. Nello Stato comincia, il vero processo della
legislazione; prima la legge è un ordine esteriore, la volontà di un
Dio o di un despota; nello Stato invece la coscienza sente
l'impersonalità della legge, ed elaborandola la sovrappone al
legislatore ed al suddito. Naturalmente il processo storico parrà
per lungo tempo smentire tale principio, ma invece non farà che
svilupparlo.
Come individualità di popolo, lo Stato è il rivale della Chiesa e
governa tutti gli altri ordini. La nazione sta in lui come in una
citadella imprendibile, perché la nazione può soccombere ad una
guerra, ma finché i suoi individui abbiano in se stessi questa idea
statale la nazione non sarf vinta. Scomparsa l'idea, cancellata
nella persona singola l'individualità nazionale, né la religione né
la lingua bastano più a preservarle l'autonomia; le lingue si
agglutinano e si fondono, le religioni si diffondono e si spezzano.
La nazione non è più.
Lo Stato come individualità spirituale non è però tutta la
spiritualità di un popolo, perché la sua religione, le sue arti, le
sue scienze, le sue filosofie vanno oltre. Esso è soltanto la sua
coscienza operante nella legge, l'invisibile vessillo nelle guerre,
la latente sicurezza, del confine nella pace.
Fra i suoi individui alcuni possono essere superiori, la massa
invece è sempre al di sotto, e tutti debbono ugualmente soggiacere
alla legge. Questa al tempo stesso è una emancipazione ed una
tirannia, come emancipazione discioglie nelle anime i vincoli
dell'arbitrio, come tirannia impone loro una norma necessariamente
effimera ed incompiuta pretendendo ad una obbedienza assoluta.
Tale è l'antitesi d'ogni legge. La costituzione fondamentale di uno
Stato riposa quindi sui modi imposti alle relazioni fondamentali
della vita, il dovere militare e politico, l'assisa del gruppo
domestico, la dipendenza del lavoro dal capitale, la libertà
concessa alla Chiesa e all'individuo, la posizione del popolo
davanti a se medesimo e davanti agli altri. Ogni Stato è dunque
dominato da due necessità essenziali: ha un'opera da compiere in sé
e un'altra fuori, entrambe indissociabili nell'aiuto e nella
mortificazione reciproca.
Senza questa doppia opera lo Stato rimarrebbe inintelligibile. Ma la
sua individualità riposa nel fondo dei suoi individui e crea la loro
effimera-forza; la grandezza di questi non è che una conseguenza di
quello, la graduazione stessa della loro potenza nel servirlo, nel
contrastarlo. In sé e per sé l'individuo sarebbe non solo troppo
piccolo, ma non basterebbe nemmeno a rivelarsi.
Come nella natura così nello spirito le creazioni sono
inconsapevoli; lo Stato impara quindi di essere tale soltanto nella
propria maturità, prima si dissimula sotto altri nomi o cresce fra
processi anonimi; generalmente le generazioni più forti furono le
prime che formarono lo Stato, non quelle che dopo lo perfezionarono.
Nella fanciullezza le generazioni sono più compatte, nella loro
maturità invece la forza cresce agli individui e scema nella massa:
così nella tragedia il personaggio è più grande che nell'epopea,
perché il poema è ancora tutto il coro: così nella pittura e nella
scultura arcaica la figurazione è ancora tipica, di razza o di
nazione; così la lingua non sa ancora piegarsi alle necessità della
lirica e della dialettica.
Guardate la Grecia prima di Eschilo, Roma prima di Annibale,
l'Italia prima di Dante, l'Inghilterra prima di Shakespeare, la
Francia prima di Rabelais; nella Palestina Mosè fonda la religione
e Giosuè lo Stato, Saulle è l'eroe della sua prima rivolta politica,
Gesù il Dio della sua nuova religione.
Allo sviluppo della individualità dello Stato furono massimi
coefficienti lo spirito cristiano e l'individualismo germanico: col
primo l'individuo si era costituito una inviolabilità religiosa,
nel secondo la volontà affermava un diritto personale pari a quello
della massa; ma la più bella individualità moderna appare nei comuni
italiani; la loro orbita era minima, ma la loro concezione
insuperabilmente originale.
Romani e barbari, regno ed impero, non vi si mostrano più, l'antica
città greco-romana non risorge nel comune, piccolo mondo di nomini
nuovi in lotta per nuove libertà, e che posseggono già le due idee
universali della chiesa e dell'impero; ma il comune non è che la
patria composta forse di poche case, circoscritta ad un minimo
territorio coperto e difeso dall'ombra della cattedrale.
Apparentemente stranieri l'uno all'altro i comuni sembrano non
avere nazione, chiusi nell'egoismo della propria creazione come in
una corazza infrangibile resistono a tutti i colpi, si dilatano
senza mutare idea; sempre preoccupati di produrre tutto in se stessi
e per se stessi operano come una negazione delle due unità
mondiali, chiesa ed impero, ma per una delle solite inversioni del
processo storico sono già lo Stato moderno.
Poi gli Stati moderni si dilatano. Per necessità di fusione quasi
tutti sono monarchici, perché la monarchia livella e dissolve più
rapidamente le differenze barbariche di classe diventate nel più
oscuro medioevo quasi rigide come quelle delle caste indiane.
Il dualismo fra Stato e Chiesa riempie il prologo della storia
moderna, esagerato e falso in entrambi; la Chiesa vorrebbe indarno
imporre tutta se stessa nella esteriorità politica dello Stato,
questo prorompendo oltre i limiti della difesa invade il suo campo
spirituale, e impone la propria regola non solo alla esteriorità
funzionale ma talvolta anche al libero sviluppo dell'idea
religiosa.
Lo Stato moderno ha soppresso ogni forma di servaggio collocata nel
lavoro la dignità umana, pareggiate le classi nelle leggi, tuffate
nel popolo tutte le proprie radici. Quindi nella sua nuova coscienza
fissò spontaneamente i limiti del potere e del diritto legislativo;
non pretende più a dominare religioni scienze arti filosofie
commerci: la sfera superiore non grava la libertà nella sua sfera
inferiore degli individui così il diritto privato è nettamente
distinto dal diritto politico. Il potere dello Stato si individua
nella costituzione essenzialmente rappresentativa; invece
dell'assemblea per masse una camera di eletti, perché l'istinto del
popolo passando attraverso le coscienze degli individui superiori
si epuri e si prepari meglio a diventare Impersonale nella legge. La
nazionalità è la forza più viva nello Stato moderno, le più grosse
città non vi son più che municipi, ogni attività ha differenti
organi e la divisione del lavoro individua le funzioni; al di là di
se stesso lo Stato riconosce un diritto delle genti, ha cancellato
dal proprio codice il diritto di perseguitare il ribelle politico
oltre i confini, concesso allo straniero tutti i diritti! civili.
Oggi nessun sogno d'impero universale è più possibile per
l'invincibile resistenza della individualità personale e statale: la
utopia invece canta nei voti per la pace universale e per
l'alleanza di tutti i governi.
Così lo Stato moderno potè fondarsi umanamente; è ancora superiore
all'individuo, ma sapendo di non esistere che per il suo sviluppo;
antagonista nella storia, ma con la coscienza che l'individualità
di questa lo limita e lo supera: non è né ateo ne credente, né
borghese né plebeo, la sua unità comprende tutte le differenze della
nazione, la sua individualità le coordina nella politica; è uno e
multiplo, si consuma e si rinnova in ogni istante per lo sforzo e
nello sforzo di essere pari alla propria vita.
Ma lo Stato deve individuarsi: se non si fosse fin troppo abusato in
questo ultimo tempo dei paralleli fra la natura fisica e la
spirituale, l'uomo e la società, si potrebbe dire che lo Stato è lo
spirito e il governo il suo corpo.
Nello Stato lo spirito è della nazione, nel governo invece la
volontà prepondera spesso sullo spirito ed esprime essenzialmente
l'effimero di una generazione: tutto ciò che è idea nello Stato si
manifesta come interesse nel governo, ma siccome l'uno non appare
che dall'altro, questo tende ad assorbirlo tutto nella propria
opera, e il governo sembra alla moltitudine lo Stato.
Vecchie e nuove scuole di sofisti cercarono già di identificarli,
mentre nessuna differenza fu mai più profonda che fra loro. Nello
Stato l'individualità si afferma nel più alto carattere dell'idea
nazionale; la sua volontà è istintiva e intuitiva, il suo interesse
uno nella contraddizione delle generazioni. Nel governo invece tutto
è immediato e tangibile; il suo pensiero, la sua passione, la sua
volontà si alternano nei momenti di una generazione: lo (Stato
esprime la concretezza storica, il governo la realtà della vita.
Per lo Stato il maggior problema è di tradurre nello sviluppo della
individualità nazionale la maggior quantità di spirito umano
secondo il ritmo fatale della storia; nel governo l'eterna
invincibile difilcoltà è l'epurazione di tutti i falsi pensieri e
le più false passioni, che dalla vita effimera di una generazione
si lanciano all'assalto dei massimi organi politici per prevalervi
egoisticamente.
Se ogni Stato umanamente non può essere che monco nel confronto
dell'umanità, ogni governo è falso davanti allo Stato, più tristo
ancora che falso dinanzi al popolo. La sua direzione rappresenta
sempre una conquista di invasori, forti o abili, meglio temprati
della volontà che nel pensiero, capaci di molto osare perché hanno
bisogno di permettersi molto di più.
Lungamente la coscienza confuse Stato e governo, la solita lotta
tra materialismo e spiritualismo v'imperversò peggio che altrove;
prima infatti che la legge fosse nella coscienza di una rivelazione
invece di un ordine, era difficile distinguere dentro la funzione
legislativa la volontà dal pensiero, e vedere nel governante un
mandatario invece di un padrone. Quindi la tirannia ripetè senza
esaurirla in tutti i secoli la serie delle proprie mostruosità, e il
tiranno non vi fu mai più orribile e dannoso che nella
irresponsabilità del numero.
La storia ricorda anche adesso con ammirazione spaventevoli
despoti, ma non potè mai ammirarsi nel quadro di una demagogia.
Infatti nel governo il carattere e la forza derivando dalla
volontà, l'individuo deve meglio riuscirvi di un gruppo: la
contraddizione più profonda e più apparente dei nostri governi
rappresentativi si rivela nei suoi massimi organi legislativo ed
esecutivo; in quello la pluralità dilatandosi diminuisce il valore
dei propri individui e smarrisce quasi il senso della
responsabilità, in questo la sempre più oscillante brevità del
tempo nell'opera non consente alla volontà che un esercizio di
capricci e dì espedienti. Poi nella passione dei concorrenti
politici il potere legislativo non è che il prologo del potere
esecutivo; si comincia dall'abbassarsi davanti agli elettori
sognando di tornare sopra di loro colla potenza del comando; la
generazione eseguendo nell'opera legislativa il proprio
inconsapevole compito non si preoccupa che di se stessa, non
vorrebbe subire le conseguenze del passato, sottostare alle
necessità dell'avvenire.
Adesso, in questa modernità così nuova e così illustre, il doppio
problema dello stato e del governo è sottoposto alla stessa
pregiudiziale; nello stato epurare la idea, nel governo il comando:
all'individualità nazionale imporre la grandezza per meta e
l'eroismo per mezzo, nell'individuazione del comando mettere una
volontà capace di resistere alle oscillazioni di tutte le velleità,
e posi superba da preferire la violenza alla lussuria, così
consapevole da non sentirsi, contenta che nella solitudine della
propria altezza.
L'Italia è monarchia. Il suo re dovrebbe sentirsi l'estremo della
più lunga serie regale, il più moderno fra i sovrani d'oggi, poiché
nel secolo XIX nessuna resurrezione fu pari alla nostra; la
monarchia, che non vinse abbastanza nelle battaglie, dovrebbe avere
in se stessa la fede che aduna, l'orgoglio che solleva.
E invece?
Il popolo, che un eroismo di pochi fece liberò, e la piccola assidua
opera di tutti adesso fa quasi ricco, dovrebbe guardandosi nel
passato sentirvi ancora la gloria immortale in uno spasimo di nuova
grandezza.
E invece?
IV
Lo spirito nazionale.
La massa non basta ad un popolo per costituire il proprio Stato, se
la coscienza avendo raggiunto l'ultimo vertice non senta ugualmente
sicura in se stessa le necessità del passato e dell'avvenire:
quindi lo Stato prima di attingere nella legislazione la più alta
realtà di se stesso, preesiste in uno spirito composto d'istinti
caratteristici e di differenze costanti, che atteggiano e colorano
già tutta la via della nazione. Tele spirito è una nota nel
concerto dell'umanità, una intonazione di suono e di colore, alla
quale né il presente né il passato possono ingannarsi; e quando sarà
vanita, qualche cosa forse ne resterà ancora come di un'eco nella
memoria, di un olezzò nel crepuscolo della sera sulle cime dei
monti,
La differenza fra i vari spiriti nazionali funziona nella storia
come uno dei suoi maggiori principi e delle forze più vive: la loro
potenza si misura, sulla quantità dell'ideale umano e sulla
originalità della sua espressione. Ecco perché la Grecia così
piccola di territorio occupa tanto spazio nella storia del mondo,
mentre la China vi è ancora soltanto il più vasto territorio; ma
ogni popolo per quanto grande, come non ha che un solo spirito
nazionale, così dentro di questo non può elaborare che una sola idea
veramente universale. Non vi è esempio di nazione, che abbia avuto
due volte il primato mondiale con due idee differenti, e l'Italia
stessa, che pare smentire tale verità, invece la conferma.
Roma cattolica è nel medioevo una più profonda unità del mondo che
non la Roma del diritto pagano, ma il popolo italiano non è più un
popolo dominatore universale, e nemmeno il popolo latino; un altro
sangue, un altro pensiero gli hanno dato una fisonomia e un'anima,
nuovamente originale. Fra Dante e Virgilio la differenza è di due
mondi, fra lo spirito italiano e il latino l'antagonismo è di due
popoli.
Nessuna, menzogna dunque più inutile e volgare di quella predicata
recentemente dai retori esteti per la resurrezione di un mondo e di
una gloria latina, poiché nell'arte soprattutto l'Italia
contraddisse e superò Roma; nessuna delle opere originali italiane
nel medioevo derivò dallo spirito latino: la civiltà e l'erudizione
pagana non erano allora che un mantello sopra una cuna o una ganga
dentro la quale invece di una sta-: tua aspettava un'anima.
L'arte italiana è superiore alla latina di quanto questa inferiore
alla greca.
Qualunque valore di popolo è quindi nel presente, nella sua vita
attuale, nella forza animatrice della quale dispone, e che
mantenendo il presente fa rivivere il passato: soltanto in questo
modo le antiche civiltà si perpetuano nei monumenti, nelle lingue,
nei costumi, nelle istituzioni.
Così la potenza di un individuo non cresce da una concentrazione
solitaria della propria personalità in se stessa aspirando verso le
lontananze della storia passata o futura, ma dalla misteriosa
facoltà di mettersi nel mezzo della vita per appropriarsela ed
esprimerei con un'equazione anche più misteriosa fra istinto e
genio, in una forma precisa, tutto quanto contiene di originalità.
Strappate Annibale, Aristotele, Dante, Napoleone, Hegel, Garibaldi
dal loro tempo, e diventeranno istantaneamente un enigma; la loro
opera identica al loro spirito lo è ancora più al proprio periodo,
perché nessun pensiero per quanto grande può pensare quello
dell'umanità oltre i confini di un tempo e di uno spazio.
L'individualità è una forza fatta di limiti: il genio di un popolo
si rivela in quello dei suoi massimi uomini, cosicché la loro
fìsonomia è appena un lineamento della sua, e la loro opera più
creatrice quella che più inconsapevolmente attinsero all'istinto e
meno deformarono nello sforzo della riflessione.
Tutte le filosofie della storia cercarono già di marcare i maggiori
momenti adunando nella loro spiegazione tutti i motivi della
geografia e le scoperte dell'erudizione: ma si disse che la
costruzione filosofica della storia era uno dei tanti arbitri del
pensiero ancora più pericolosi che inutili. Eppure senza vedere
nella storia un disegno è impossibile tracciare una sua linea, e
dietro l'apparenza di un qualunque disegno più impossibile ancora
non ammettere un principio.
Il carattere di un popolo, il suo spirito nazionale bisogna
cercarli nei modi, coi quali il suo pensiero espresse i massimi
problemi. La sua originalità non può essere che nella
preminenza accordata ad un problema sugli altri,
nell'intenzione colla quale lo tentò, e
nell'intonazione generale della sua opera, che si colora e si
atteggia dalla preferenza di un qualche principio o di una qualche
passione. Così la storia delle religioni, delle arti, delle
filosofie, delle legislazioni riveleranno i segreti antichi meglio
che non la solita cronaca delle vicende politiche: le qualità
negative interpreteranno in un ritratto quelle positive, poiché
fìsonomia e carattere appaiono nella vita non tanto per
quello che sono quanto per quello che non
sono. Dopo il mondo romano quindi nessuna antitesi più evidente che
il mondo italiano, quale la lunga incubazione medioevale lo
aveva fatto.
Ma se nell'Europa il mareggiare delle invasioni sembra quasi
ubbidire alle leggi fisiche della gravitazione che a quelle ideali
della storia, nell'Italia, ove a Roma dura ancora l'idealità
dell'impero e splende più pura e universale l'altra della chiesa,
le discese dei barbari si rischiarano
d'improvvise incandescenze sottoponendosi
quasi con umiltà di olocausto a questi due supremi poteri. Senonché
il loro tumulto è così sanguinario, le loro battaglie così effimere,
le loro stratificazioni sul suolo italiano così confuse, la loro
inconsapevolezza così profonda, le loro catastrofi così ritmiche,
che né cronisti, né filosofi, né vincitori, né vinti possono
afferrarne l'idea e valutarne il risultato.
Al momento, nel quale si attendono le conseguenze più previste nel
dramma dei personaggi e nella tragedia dei popoli, altre invasioni
irrompono, nuovi prologhi scompongono gli epiloghi e la narrazione
si interrompe nello sbigottimento di un altro racconto. Goti,
Longobardi, Franchi, Alemanni si succedono cacciandosi,
schiacciandosi, sovrapponendosi l'un l'altro; Normanni, Angioini,
Aragonesi, Francesi perpetuano queste invasioni: che interventi
pontifici e discese imperiali trasformano in disastri periodici.
Ogni mattina i popoli sembrano ricominciare la trama della propria
storia: le loro città si trasformano in teatro di glorie straniere,
i loro campi servono a battaglie cominciate nella Scandinavia,
nella Germania, nella Francia, nella Spagna.
Quindi una confusione inestricabile di forme e di periodi politici
rende intelligibile la storia di tali tempi. I governi improvvisati
sul suolo ancora tutto pregno di elementi romani e solcato da tutti
gli strumenti della nuova religione sono comunali, feudali, normanno
in Sicilia, bizantino a Venezia, teocratico a Roma, regio a Pavia;
e si irrigidiscono i fragili ducati, si stemperano in labili
repubbliche, si sminuzzano in gruppi abbaziali, urtandosi coi più
impreveduti contrasti, nella più abbacinante fantasmagoria.
Un dualismo riprodotto ovunque dalla più eterogenea molteplicità
rovescia l'alta Italia sulla bassa, municipi contro municipi, città
contro città, castelli contro castelli; gli odi si invertono per
rianimarsi, le guerre divorano le generazioni, gli eserciti talora
compaiono indipendenti dai popoli, questi nondimeno vigoreggiano
fra convulsioni troppo lunghe per essere un morbo; l'anarchia
rinnova tutti i governi senza soccombere ad alcuno. E chiesa ed
impero sembrano sempre le sole due idee, i due unici poteri
invincibili.
Ma ogni forma è federale.
Mentre nel mondo romano tutto è unitario e l'individualità del
cittadino quasi immedesimata con quella dello Stato, nel medioevo
un particolarismo isola tutti i centri e gli individui vi
acquistano un rilievo straordinario. Nessuno di quei piccoli Stati
ha più uno scopo simile a quello di Roma; l'antica urbe
inconsapevolmente fu prima universale che nazionale, giacché la
tarda conquista d'Italia vi ebbe minore importanza di molte altre
guerre straniere. Invece nei nuovi comuni nessuna idea è così larga
e nessun'ambizione così tenace da preparare l'unificazione italiana.
Indarno la fortuna militare e lo sviluppo della ricchezza sembrano
darne qualche accenno; acuti diplomatici, invincibili condottieri
ne tentano parecchie volte l'impresa, ma la medesima sconfitta
livella tutte le loro differenze. Forse la mistura eccessiva della
razza aveva cancellato nel temperamento il carattere unitario,
lasciandolo nell'astrazione del pensiero entro le due forme
antagoniste della chiesa e dell'impero: forse la nascita stessa
dell'individuo moderno non lo consentiva.
Apparentemente l'Italia doveva all'Europa quest'ultimo immenso
servigio di costruire un altro tipo umano, e a tale costruzione non
era più necessaria alcuna mortificazione individuale, dacché tutte
le idee universali avevano già ottenuto il proprio avvento. Ogni
confine diviene quindi barriera: la passione patriottica
s'intensifica nell'angustia dei limiti, la lotta degli elementi
nuovi è senza tregua e senza pietà, eppure la vita si moltiplica.
L'arte inventa nuove forme, la politica
esaurisce tutti i tipi
di governo,democrazia e tirannia lottano di fecondità , una
inesauribile potenza salva sempre la nazione dal l'assorbimento
straniero. L'unità dei comuni in frangibile nella piccolezza vi
trova una bellezza immortale; la monarchia non può attecchire;
l'aristocrazia feudale viene divorata, e quella che sorge dalla sua
ultima trasformazione è avventizia, aiutata e logorata
dall'avventura militare o diplomatica.
Ma in questa lunga minuscola ed incantevole epopea il carattere e lo
spirito italiano si sono già formati, mentre l'Europa ancora barbara
è divisa in grandi masse monarchiche
esagitate dalle ultime irrequietudini delle
immigrazioni. Nell'Italia invece fioriscono tutti gli schemi delle
civiltà, e ogni sangue della nostra mistura vi si rivela; Venezia e
Genova sono due unità mediterranee, che hanno il centro sul mare,
Milano addensa la Lombardia, Firenze rinnova
l'Attica ed Atene: Roma rimescola per secoli il popolo
nell'anarchia e, non potendo sottomettere, ne è sottomessa: Torino
vigila e sogna lontanamente sotto le Alpi: Napoli è una capitale
quasi sempre senza regno, perché la sua è soltanto una forza di
seduzione; in Sicilia arabi e normanni si dibattono e ne fanno come
un paradiso abitato dai demoni; sulla Sardegna la feudalità sola
raggiunge una vita superiore, che la barbarie na tiva aiutata
dall'isolamento arresta.
L'unificazione è ancora impossibile nel rigoglio delle forze
regionali per lo stesso impeto secreta della loro creazione, che il
livello dell'unità soffocherebbe. Bisognerà prima che la magnifica
fermentazione si esaurisca e i grandi comuni diventati signorie
coll'assorbimento dei piccoli si assodino nella forma dei
principati raddoppiando così le difficoltà della unificazione; e
allora invece la civiltà italiana si arresterà, e la nazione
composta a massimi gruppi federali apparirà più debole contro le
grosse monarchie straniere.
Ma tutta o quasi la civiltà medioevale sarà stata italiana, italiane
le due idee dell'impero e della chiesa, italiana l'originalità del
comune e del cittadino; certamente altrove, nell'Europa, si trovano
forme e sviluppi similari, in nessuno però una novità così
originale. Il medioevo non ha che una poesia e Dante ne è il
poeta, una filosofia e S. Tomaso ne è il legislatore: ogni
erudizione viene dall'Italia, l'Italia trae dal nuovo costume il
nuovo diritto illuminandolo colla tradizione vivente del diritto
romano. Sotto il comune vi è l'antico municipio, l'Italia crea nel
monachismo le prime falangi della conquista spirituale: le sue
chiese sono più originali delle gotiche che sembrano riprodurre
nella pietra le nordiche foreste, appunto perché debbono lottare e
respingere l'arte romana; la nostra lingua è la prima formata in una
bellezza perfetta e rimarrà insuperata, il nostro lusso è una poesia
che rivela delicati segreti sotto l'apparente ferocia del costume:
la nostra aristocrazia ha uno spirito civile nel quale si sorpassa,
e il nostro popolo un sentimento che lo innalza pari alla
aristocrazia.
Sono cristiani e cattolici, ma la loro fede non inceppa mai la loro
politica: si direbbe che si liberino
dalla passione religiosa facendo belle le chiese e le madonne;
quindi nessuna guerra religiosa in Italia come altrove.
Quando l'Europa bandisce le crociate, gli italiani vi scorgono un
affare: quando s'insanguina nella contesa dei dogmi,
l'Italia sorride. Il suo pensiero è già abbastanza incredulo per
accettare la religione come una spiegazione necessaria ed
insufficiente: il cuore nel popolo è di fanciullo, ma la testa di
uomo.
Egli non pensa non sente non vuole non esprime davvero che la vita
individuale nel periodo tumultuante abbacinante di una generazione.
Il comune stesso non è che un individuo poco più grande degli altri:
bisogna possederlo o morire, ma la vita è bella appunto per le sue
stragi, per l'incanto dei sogni spirituali, per le tragedie del loro
risveglio, nell'eroismo e nell'amore, nel verso che canta, nel gesto
che uccide, nella politica che rinnova, nell'arte che crea.
La coscienza è intensa ma individuale.
Dante rimarrà il massimo indice d'Italia: il suo poema è composto di
aneddoti e ogni aneddoto è una tragedia, l'individualità vi dura
immutata nel paradiso come nell'inferno, la sua l'orza sta
egualmente con Dio e contro Dio. Ecco la massima rivelazione
italiana. Accanto a lui Boccaccio ride e deride nella novella;
ancora lo scherzo individuale, ancora la vita nel piccolo cerchio,
chiusa intera in se stessa. Poco dopo Petrarca, creerà la
letteratura e ucciderà l'arte, se un uomo potesse ucciderla; invece
la grande arte muore nel trecento. Dopo, il getto originale è già
esausto; Tasso rifarà come Virgilio una epopea di scuola, Ariosto un
poema eroicomico, con personaggi immaginari sopra un palcoscenico
fatto di parole.
La coscienza nazionale non era ancora, ecco perché fra tanta
abbondanza di drammi manca una tragedia come Shakespeare.
La moralità era soltanto quella consentita dall'azione, e che
Guicciardini e Machiavelli codificheranno estraendola dalle
biografie dei grandi individui.
Nel fondo il carattere nazionale è scettico, ma di uno scetticismo
temperato dal buon senso e dal buon gusto della vita: lo spirito
nazionale invece è individualista, non sente, l'immanenza degli
universali, condensa le forze nell'oggi, sul punto più vicino; ogni
vittoria dev'essere immediata, ogni trionfo verificarsi nella
pratica.
Quindi un'abilità paziente abitua a tutte le forme, il popolo sa di
essere un vivaio, l'aristocrazia di dover vivere nella virtù del
comando, e per orgoglio ama l'arte, quasi spregiando gli artisti;
il popolo invece sente in loro la propria ascensione. Ma ignora i
letterati, perché non sono quasi mai artisti, e vivono fra le ombre
di un altro mondo.
Il fervore dura sino alla fine del cinquecento, poi la decadenza
precipita. Le ultime tirannie sono quindi senza bellezza, e le
estreme contese dei massimi precipitati senza interesse; Genova non
impera più sul Mediterraneo, Venezia si ritrae dall'Adriatico, su
Napoli dominano da lungi gli spagnoli, sulla Lombardia si alternano
tedeschi e francesi. Allora il Piemonte comincia a discendere verso
l'Italia.
L'ultima lotta di preponderanza per la futura unificazione sarà
quindi fra Napoli e Torino, ma non potrà accentuarsi perché il regno
pontificio separa come una muraglia cinese i due contendenti.
In questo periodo ancora l'Italia vive di privilegi scientifici ed
artistici, significati da grandi individui: presta i condottieri a
tutti gli eserciti, manda musici, architetti, pittori, scultori
dovunque: i suoi scienziati sono increduli prima degli
enciclopedisti, Vico vede primo la storia universale, i gesuiti per
difendere Eoma diventano italiani, ma il carattere e lo spirito
nazionale non ne vengono mutati. L'Italia soltanto non crederà a
Eoma, e piena di sacerdozio non sarà bigotta, scettica manterrà
sempre fede a se stessa, satura di poesia non avrà dopo Dante per
lunghi secoli un altro poeta nazionale.
La sua popolazione sarà discesa sino a sei milioni, il più grande
dei suoi storici conterà a sei mila le sue rivoluzioni, senza che
nessuna de cadenza abbia mai potuto esaurire la sua anima e nessuna
miseria inaridire il suo grembo. Poi dinanzi a Napoleone tutto
nell'Italia apparirà caduto, e dopo Napoleone tutto comincerà a
risorgere.
Oggi ancora l'Italia è il paese meno religioso e più assennato, teme
le grandi cose e ricusa collo scherno le piccole; col nuovo governo
tratta come coi passati, lo alimenta e passa oltre; la sua
popolazione è la più feconda, da vent'anni gitta mezzo milione di
emigranti a tutte le lontananze, in America ha ormai improvvisato
due nazioni, in tutte le capitali estere i nostri operai sono i
migliori.
La repubblica è morta nel sogno di Mazzini, la monarchia prosegue
nella dinastia, il papato rientrò finalmente nel pontificato; le
classi sono disciolte, i partiti, che costrussero l'Italia, già
dimenticati, il popolo solo vive.
V.
Le classi.
Non ve ne sono.
Nel mondo antico le differenze irrigidite dentro lo spirito avevano
come diviso la natura scavando fra casta e casta un solco, che
nemmeno quella poteva colmare. Forse l'orgoglio di tali distinzioni
aristocratiche, anziché dalla guerra salì dalla coscienza ebbra
della propria superiorità spirituale, così che guardando
ostinatamente in alto non volle più sapere su quale fondo posasse.
Nulla quindi potè nelle Indie mutare la gerarchia delle caste, oggi
intatta ancora sotto la dominazione inglese; poi la loro idea si
attenuò altrove negli ordini, sino alle classi, mentre il principio
ne rimaneva sempre immobile, una superiorità costituita in
privilegio, una necessità per gl'inferiori di alzare una
aristocrazia per compiere in essa la propria funzione storica.
Naturalmente la funzione si differenziava nei luoghi e nei tempi, il
suo privilegio doveva generare l'abuso, e la cristallizzazione
dell'ordine stesso la sua decadenza. Ma grandi civiltà composero la
gloria di tali aristocrazie, talvolta così grandi, che oggi dopo
molti millenni il loro nome è ancora fulgido e visibile l'opera.
Nella modernità, che uguagliò dentro il diritto dell'elettorato il
fondo spirituale di tutti gli uomini, l'antica differenza delle
caste e degli ordini non era più nemmeno concepibile. Certamente le
differenze rimanevano, poiché di queste soltanto risulta il
carattere individuale, ma la loro importanza non poteva più,
moltiplicandosi pel numero della classe e per il grado della
funzione, apparire in una forma d'impero. Se qualche privilegio di
eredità nella trasmissione dei patrimoni e dei titoli sopravviveva
ancora, non bastava né a contentare le superstiti vanità, né ad
irritare le ultime invidie: un altro orgoglio, una nuova
disinvoltura riconfondevano i figli di coloro, che per tanti secoli
erano vissuti separati nella sconfitta e nel trionfo. Il
pareggiamento dei figli uccise il privilegio aristocratico nella
famiglia: impossibile quindi senza i maggioraschi mantenere nome e
patrimonio; questo nel dissolversi degradava quello, mentre
l'elettorato relegando nell'ozio le estreme superbie patrizie
finiva di ucciderle. Per non morire così umilmente quasi tutte
reagirono contro la vita novella, e vi penetrarono di straforo
giovandosi dell'antica maschera per avere una fisonomia, e dei
vecchi nomi per sedurre i giovani patrimoni. Tale estrema
metamorfosi del patriziato fu quindi parassitaria, sopravvisse
nella rettorica dopo la morte della propria poesia, e nel lusso di
una decorazione incapace di trarre da se stessa l'originalità anche
di una sfumatura soltanto.
Le classi d'oggi, se la divisione potesse ancora essere segnata,
dovrebbero chiamarsi dalla ignoranza o dalla conoscenza
dell'alfabeto, questo veicolo universale del pensiero, questa
potenzialità nell'individuo di partecipare rapidamente,
efficacemente, a tutte le aristocrazie dello spirito. Ma l'alfabeto
stesso non è più così importante come una volta, giacché la vita
nella febbre della nuova creazione ha già trovato altre forme di più
diretto insegnamento nella divulgazione di tutte le idee e di tutti
i lavori, nel continuo panorama spirituale, che la mobilità moderna
aggira dinanzi agli occhi e alla coscienza di tutti. Tuttavia
l'alfabeto è forge la più importante differenza moderna fra
individuo e individuo, o almeno la più caratteristica: il resto
della coltura si assimila piuttosto per virtù nativa di
assorbimento o per fortune di spostamenti nella vita stessa che per
gradi scolastici; le scuole crescono ogni giorno e in esse gli
scolari, una rettorica le proclama pari nel valore alle antiche
chiese, quasi superiori alle case familiari, mentre non sono invece
che un convegno plateale, ove molti si addensano ad ascoltare uno e
la volgarità di quelli s'impone a questo. Maestri e professori
diventarono troppi per essere anche soltanto mediocri. Negli scolari
la folla aumenta, perché la scuola seduce con questa aristocratica
lusinga; uscirne titolato, esente dal lavoro manuale.
Nel nostro mondo, il più democratico fra
quanti la storia abbia
conosciuto, tutti sentono
infatti una umiliazione nel lavoro
manuale; è
ripugnanza del vecchio ozio atavico? È passione
di nuova
intellettualità? Forse l'uno e l'altra e altro ancora.
Anche fra le nazioni, che serbano intatti i maggioraschi e
mantengono un senato ereditario, il pregio della nascita non basta
più ad assicurarne il primato: la camera bassa supera la camera
alta. Crea e disfa i ministeri, esprime la massa e la nazione. Poi
la rapida magnifica accumulazione industriale portò ricchezza e
lusso ad un livello insostenibile nelle aristocrazie; i membri di
queste spodestati dai maggioraschi debbono o vendere il nome o
discendere in qualche professione, mentre i rappresentanti della
primogenitura trovano nel privilegio stesso l'espiazione. O sono
davvero uomini superiori, capaci di interpretare il proprio tempo, e
il privilegio è piuttosto di ostacolo che di aiuto: o non lo sono, e
allora l'altezza del grado diventa una gogna.
Forse le aristocrazie d'Inghilterra, di Germania, di Russia, non
sono ancora senza una qualche influenza politica, ma dentro queste
due parole troppo è difficile numerare gli elementi e davvero
valutarli. Tutto fa capo alla politica e ne esce.
Nell'Italia invece l'aristocrazia perdette ogni valore di classe.
Prima della rivoluzione oziava nelle città di provincia o si
degradava nella servilità delle corti; non più orgoglio in essa
perché non più cooperazione politica, i governi sopravvivevano
senza base nel passato, senza idea per l'avvenire, stranieri alla
nazione e nemici alla patria. Aristocrazia e clero nella propria
maggioranza furono ostili alla rivoluzione; un istinto li avvertiva
che il mutamento sarebbe contro di essi, poi inerzia e viltà tolsero
loro di aiutare nella difesa i governi decrepiti, e non seppero più
né resistere, né tradire, né rinnovarsi.
Compiuta la rivoluzione invece l'aristocrazia si adattò rapidamente
ai tempi nuovi forse per la stessa docilità, che negli ultimi
secoli l'aveva piegata a tutti i governi, ma era troppo povera di
coltura e inetta nel pensiero per conquistarvi un'influenza; i suoi
uomini superiori le erano troppi per rappresentarla e avevano dovuto
contro di essa diventare rivoluzionari. Nel parlamento il
patriziato non seppe mai stringersi in un qualunque manipolo
alzando una bandiera; nel senato il privilegio di nascita fu
sottoposto all'elezione regia, e il senato funzionò come un ospizio
per i naufraghi del parlamento e un'accademia di riposo per tutti
gli alti funzionari, un po' anodina malgrado i molti caratteri
individuali, un po' anonima non ostante la gloriosa storicità di
certi nomi. Nessuno pensò mai a riordinarlo: il senato era un
privilegio del re, ma pesava così poco sulla politica che gli stessi
partiti avanzati si dimenticarono di odiarlo.
Tutta la modernità fu quindi nella borghesia. Certamente la sua
disparità da provincia a provincia era così grande che napoletani,
siciliani e sardi dovevano stentare a sentirsi concittadini dei
lombardi e del toscani: forse fra un calabrese e un piemontese la
differenza era maggiore che fra un piemontese e un parigino,
fors'anche vi erano distanze millenarie nella coscienza fra paese e
paese. Quanti secoli di civiltà separavano il mercante ligure sempre
vigile sul mare, coll'orecchio teso a tutte le parole e la mente
aperta a tutte le idee, dal pastore dell'Agro, rimasto immutato
nell'antico quadro virgiliano, solitario amante e poeta delle
pecore?
La borghesia era la classe più colta, ricca e passionale; capace
d'intendere la modernità di oltre alpe e di oltre mare soffriva
nell'abbiezlone imposta dai governi paesani alla sua coscienza;
sognava la rivoluzione ma sapeva troppo bene la propria debolezza e
l'indifferenza del popolo per osare davvero. Lungamente il sogno
oscillò fra federalismo e riformismo; si voleva soltanto il più
probabile per arrischiare il meno possibile; sostanzialmente la
resistenza dei governi era pressoché nulla e la protezione accordata
loro dalle diplomazie estere poco più che formale, un moto generoso
di sollevazione sarebbe bastato contro i loro eserciti di parata e i
banditi arrolati nella gendarmeria. Però non ne fu nulla. La lunga
abile viltà nazionale degli ultimi secoli suggeriva invece speranze
di aiuti stranieri, artifici di transazioni, scuse e ragioni a tutte
le inferiorità: quindi l'avanguardia borghese dovette
indietreggiare dalla rivoluzione di Mazzini disertando l'epopea di
Garibaldi per accodarsi ai pochi reggimenti piemontesi di Vittorio
Emanuele. Accetto di mutare la servitù all'Austria in un
protettorato francese mal dissimulato da un'alleanza, lasciò la
monarchia mantenere Mazzini in esilio e fucilare Garibaldi ad
Aspromonte, incamerò i beni delle fraterie, occupò Roma rimanendo
cattolica in un liberalismo fatto di buon senso e di volgarità, di
istinti novatori e di prudenze qualche volta profonde sino al
genio. La storia deve essere severa alla borghesia italiana per la
sua bassa insufficienza rivoluzionaria, ma non può non ammirare la
rappresentanza dei suoi migliori individui nell'opera di Cavour e di
Mazzini. La massa borghese aspettava.
Come in un terreno fecondo e poco lavorato, tutti i germi della vita
nuova vi fremevano già e fermentavano tutti i concimi del passato.
L'Italia arrestatasi nello sviluppo politico ai principati, aveva
poi vissuto negli ultimi regni adattandosi ad ogni sorta di miserie
ed assorbendo segretamente ogni novità. La sua politica passiva, la
vita inerte, il carattere frivolo dissimulavano più grandi qualità;
la sua anima si rivelava tratto tratto nell'anima di un qualche
grande, o da una piccola cosa traeva un'effimera vasta potenza:
sapeva essere povera senza tristezza, timida con grazia, abile
sempre, eroica talvolta, vincendo tutti coll'incanto della propria
gloria passata e della bellezza eterna; egualmente incredula
davanti ai re e davanti al papa trionfava di tutte le debolezze
collo scherno e collo scherno s'imponeva al rispetto di tutte le
superiorità. Un orgoglio vigilava sotto le sue umiliazioni
quotidiane; l'incalcolabile mistura della nostra razza, la profonda
varietà del passato e un indefettibile senso dell'universale
preparavano quindi nella borghesia, incaricata di unificare
l'Italia, la classe più contradittoria e difficile ad essere
trattata da uno statista e ritratta da un pittore.
Per ogni popolo le grandi qualità sono sempre di due ordini: quelle
che gli garantiscono la sopravvivenza e quelle che lo innalzano
nell'opera sugli altri popoli. L'Italia nel momento della propria
rivoluzione adoperò più le prime che le seconde, potè trasformarsi
più per energie latenti di razza che per valore di periodo storico:
invece di tagliare i problemi colla spada ne aperse spesso i nodi
ungendoli; e allora fummo tutti più o meno diplomatici forse perché
le nostre grandi aristocrazie erano già state commerciali, o perché
qualche cosa ci avvertiva che il seguente periodo sarebbe dominato
dall'industrialismo.
Le qualità, che ci mancarono nella rivoluzione o vi apparvero
difetti, assicurarono dopo il suo trionfo: così vincemmo più nei
risultati che nei mezzi, nell'utilità che nella bellezza dell'opera.
Nullameno una grandezza era nella rivoluzione italiana.
Per sentirne il rilievo e l'originalità basta paragonare la
rappresentanza de' suoi grandi individui con quella degli altri
popoli che nel secolo XIX ottennero la propria resurrezione
nazionale. Nessun eroe moderno s'uguaglia a Garibaldi, nessun
apostolo della politica ebbe come Mazzini anima più tragica, parola
più evocatrice, pazienza più invitta; fra Cavour e Bismarck la
differenza è di razza, l'uno fu il capolavoro della destrezza e
l'altro della rigidità: la gomma e il granito, egualmente
infrangibili. Dietro Bismarck sta una nazione di soldati, dietro
Cavour un popolo ancora indifferente fra schiavitù e libertà;
l'idea di Bismarck è un proiettile che fora o rovescia tutti gli
ostacoli, quella di Cavour un vortice che attira, aggira, condensa,
forma una patria: Cavour dovette sovente essere umile, talvolta
vile, ma risolse più difficili problemi del suo rivale.
E nella lunga storia italiana nessun periodo ebbe più magnifica
fioritura di caratteri e d'ingegni come la prima metà del secolo
XIX: bisogna indietreggiare fino a Dante per trovare un altro tempo
così profondamente rivoluzionario e creatore. Nella nostra
rivoluzione gli eroi passano in falangi e i martiri in processioni:
sempre, nelle chiese, nelle prigioni, sulle vie dell'esilio, dai
patiboli, nei palazzi dell'aristocrazia e nei tuguri del povero,
ovunque si soffriva e si sognava, balenò un gesto, suonò una grande
parola. Non v'era speranza di vittoria, non aiuto di amore, perché
la moltitudine non capiva o troppi capendo non credevano ancora:
l'Italia si affermò, vinse così. Essa aveva già imposto all'Europa
in Napoleone l'ultimo dei propri condottieri e l'estremo degli
imperatori mondiali: prima Riquetti di Mirabeau, un altro italiano,
aveva preparato la grande repubblica francese, ieri Gambetta vi
fondava la terza. Come Scipione per vincere Annibale gli abbandonò
l'Italia ed assediò Cartagine, Cavour per battere l'Ausria getta
diecimila piemontesi in Crimea dinanzi agli eserciti d'Inghilterra e
di Francia: e quei diecimila decidono la sconfìtta dello Czar. Come
Colombo scoperta l'America veste il saio e sogna di riaprire in
Gerusalemme la capitale del mondo, Mazzini dalle ideali rovine della
sua repubblica italiana si alza al sogno dell'alleanza repubblicana
universale, prima unità di tutti i popoli innanzi all'aurora del
socialismo; ma Garibaldi muore a Caprera, esule nella propria
grandezza troppo pura per la nuova vita industriale, Mazzini spira
a Pisa come un errante, tollerato dal re e dimenticato dal popolo
dopo aver preparato a quello la corona, a questo la vita.
Nel popolo infatti il soffio più gagliardo di vita venne da Mazzini,
giacché pochi potevano davvero comprendere l'opera complessa di
Cavour, ammirando nel nuovo statista l'ultimo erede di
Guicciardini e il più moderno fra i mercanti di genio. La
moltitudine invece sentì Mazzini nella lunga tragedia delle piccole
congiure, delle più piccole rivolte, sempre vinto nel sangue,
bello ancora nel ridicolo dell'impotenza: amò lui
nell'esilio, seguì lui in Garibaldi che
gettava il lampo della
propria spada dove l'altro
aveva messo quello della parola.
Ma il popolo italiano non poteva indovinare
che confusamente i due
eroi.
Era povero, ignaro, dimentico della propria tradizione; i monumenti
della gloria antica non gli dicevano più nulla, la sua bella
religione era un rito ed un commercio di sacerdoti, i suoi piccoli
Stati uno scacchiere variegato di tirannidi; le città sonnecchiavano
nelle provincie fra i campi quasi silenti perché l'agricoltura era
estenuata; nelle capitali la vita si ingegnava di piccole idee e di
piccoli scandali, la miseria era vasta non triste, il cielo sempre
così bello, il carattere nazionale così scettico. Esso aveva
trionfato di tutto: quando l'Europa era in fiamme per guerre
religiose, il popolo d'Italia improvvisava l'ultima bellezza del
cinquecento avendo già vinto il tragico fascino della religione
colla bellezza dell'arte: egli amava troppo le dolci madonne e i
santi leggiadri per innamorarsi dei lugubri problemi teologici.
La popolazione decimata dalle lunghe guerre medioevali era scarsa,
il frazionamento federale aveva messo in ogni borgo una gloria di
metropoli e vi si viveva dell'importanza locale; i governi erano un
flagello inevitabile, le guerre un castigo degli uomini e di Dio, si
credeva a poche cose, non si amava alcuna idea. Per lunghi secoli
il popolo assistè alla vita dei propri signori come ad una festa,
felice quando poteva raccattare le briciole cadute dalle loro mense:
era ingenuo e barbaro, il suo onore non somigliava a quello delle
classi superiori, il suo costume rimaneva semplice intorno alla loro
corruzione, la sua servilità scattava ogni tanto in
rivincite delittuose, la sua viltà politica non era in fondo che
indifferenza. Che cosa poteva essere l'Italia per lui, se la figura
ne rimaneva un enigma anche nei maggiori intelletti? Che cosa
poteva dirgli il cattolicismo papale, se a Roma e in ogni altra
capitale non era più che una decorazione di feste, un motivo per
tutti gli intrighi, un'associazione per tutti i delitti? La
letteratura luceva più alta della sua vita in una gloria di vanità,
la filosofia, e l'Italia non ebbe mai crisi fìlosofìche,
giocherellava più in alto in una sfera inaccessibile, poco importa
se qualche filosofo precipitava tratto tratto dentro un dramma
religioso per morirvi condannato: l'arte sola, quella figurativa,
parlava ancora all'anima popolare.
Ma il popolo era immensamente vario di origine, di razze, di
dialetti, di costumi, di vita; i suoi montanari non capivano i
marinai, i valligiani del Po non sapevano nulla di Venezia e di
Genova, ignoravano che a Torino cresceva nella piccola monarchia
un'idea italiana, pensavano Roma come una città sacra alla crapula e
a Dio. Nella Sicilia il sangue arabo e normanno manteneva la
propria originalità antagonista, a Napoli l'influenza spagnola
aveva finito di corrompere il molle costume antico e la reazione di
Carlo III non v'ebbe che intenzione e valore di accademia. La
Sardegna agganciata al Piemonte come una galea ad una bitta era
un'isola selvaggia da che la poca vitalità politica vi si era
spenta, mentre la Corsica morta con Pasquale Paoli attendeva di
risorgere francese con Napoleone.
Il popolo italiano invece era tutto nella profondità della razza,
che le infusioni barbariche avevano ringiovanita, la sua antica
potenza di creazione durava ancora nella servitù. Nulla aveva potuto
esaurirla; il genio popolare creò i comuni le signorie i principati
le grandi repubbliche di terra e di mare, le nuove arti, la
moderna legislazione. Popolo grande per individui nella
individuazione del suo federalismo superò forse quello della Grecia,
ma con questa magnifica superiorità che l'idea universale di Roma e
l'idea cattolica del papato ne facevano sempre, attraverso il dolore
di tutte le tragedie e l'umiliazione di tutte le sconfitte, un
popolo di padroni. Così rimanendo per lunghi secoli un campo aperto
alle guerre d'Europa, perché le maggiori nazioni si combattevano
sempre nella nostra massima valle, nessuna potè conquistare
l'Italia. Le gelosie dei conquistatori si contradlcevano
neutralizzandosi, ma qualcuno sarebbe pur riuscito finalmente a
soverchiare, se il popolo italiano non avesse opposto a tutti la
stessa invincibile ed enigmatica resistenza.
I suoi storici medesimi poco vi compresero.
La rivoluzione francese
suonò la diana sulle alture del confine piemontese: poi
Napoleone passò.
II suo era un vento di uragano, tutto fu som
mosso, scardinati i
governi, dissipate le vecchie
idee, gittate all'oblio le antiche
forme. Le risto
razioni apparvero quindi posticce: quali potevano
infatti apparire dopo Napoleone quei re e quei
granduchi, che
tornavano tremanti e zoppicanti
per risalire i troni screpolati? Il
papa non aveva
egli pure piegato legittimando un matrimonio
adultero e rinunciando al potere temporale? Na
poleone non aveva
regalato il regno d'Italia al
l'unico figlio, pallido fantasma
preso tra le fiam
me balenanti del più vasto incendio
storico?
Eppure Napoleone stesso non aveva potuto costituire l'Italia: egli
era dileguato lungi fra le brume dell'oceano, mentre l'Italia invece
si rialzava lentamente, sicuramente. Essa divorerebbe tutti i suoi
re, i duchi, il papa; in uno sforzo di genio e di dolore
cancellerebbe ogni differenza regionale, l'unità della razza
salirebbe dal fondo di tutte le sue provincie, le congiure sarebbero
i primi parlamenti della rivoluzione; gli eroi erano belli, gli
altri, i nemici, i reazionari diventavano ogni giorno più brutti. Il
popolo sorrideva ai ribelli e derideva i governanti.
Ma pel momento non faceva di più. Era poco: tuttavia su questo
scarso fondo operò la minoranza rivoluzionaria; la passiva inerzia
del popolo finiva di paralizzare i governi decrepiti, le sue
simpatie infallibili indicavano i duci e la strada: se la
rivoluzione non poteva vincere da sola, la reazione non avrebbe
vinto nemmeno aiutata. Infatti ad ogni falsa vittoria s'indeboliva;
i suoi eserciti erano ridotti a una polizia, la sua politica ad una
negazione contro i sudditi e ad una sottomissione verso lo
straniero.
Certamente Mazzini s'ingannava fidando nel popolo per le forze della
rivoluzione, e Garibaldi chiamandole alle armi non ne trasse che un
piccolo manipolo borghese, ma il popolo solo, accidioso e timido,
aveva compreso Mazzini e Garibaldi. Senza questo indefinibile,
inafferrabile accordo, di che, di chi avrebbero vissuto i due eroi?
Senza tale potenzialità nel popolo come spiegare la febbre, il
trionfo dell'immediata trasformazione nazionale?
La difficoltà del problema è tutta nel principio: per motivi lunghi
di storia il popolo era grande d'individui non per massa, ma questa
doveva pure, essendone l'origine nell'eroismo e nel genio, intendere
almeno confusamente la loro suprema espressione. Così il popolo poco
appare nella rivoluzione e non bene; la minoranza lo supera e sembra
contraddirlo, mentre invece lo significa.
Guardate la Grecia: dopo gli eroi del '21 che cosa è essa ancora?
L'ultima guerra contro il turco lo ha fin troppo provato. Guardate
l'Italia dopo il '59; adesso è una potenza di prim'ordine.
VI.
I partiti.
Ovunque e sempre il loro carattere e la loro azione si atteggiarono
da un interesse, ma l'essenza dell'uno e dell'altra fu nell'idea.
I partiti della terza Italia sono già morti da abbastanza tempo
perché si possa adesso sopra di loro dare un giudizio; attraverso
tutte le contraddizioni il loro antagonismo si riduceva a questa
formola: costituire o non costituire la patria nell'unità. I sogni
del federalismo, l'utopia della repubblica, le stravaganze
costituzionali, la passione rivoluzionaria e reazionaria non furono
che momenti di questa antitesi; quindi si videro partiti e capitani
irreconciliabilmente nemici allearsi ogni qualvolta un problema
della resurrezione nazionale urgeva oramai maturo alla soluzione.
Nell'infallibilità dell'istinto il popolo appoggio ora l'uno ora
l'altro giovandosi di ogni forza e superando tutte le difficoltà con
una logica che pagava il beneficio di ingratitudine e la verità
troppo alta con un errore utilmente basso; cosi azione e reazione
giovavano del pari, tutti i partiti erano costretti ai medesimi
espedienti e alle stesse opposizioni; la meta appariva a pochi e il
metodo non apparteneva ad alcuno, perché bisognava mutare ad ogni
istante, affermare e disdire, vivere e distruggere sul medesimo
punto, collo stesso strumento.
Nel fatto la rivoluzione fu compita dai moderati trascorsi
lentamente dal federalismo alla unità, dalla ribellione contro i
propri principi alla devozione verso casa Savoia, ma nell'idea la
luce e il calore erano saliti dall'anima di Mazzini, il solo che
credesse anche contro l'evidenza e sapesse far credere. Adesso altri
partiti sono nell'arena, e un'altra formula non meno semplice è
nascosta sotto il viluppo delle loro azioni e reazioni.
Nel parlamento i gruppi non formano più una parte, nella nazione i
partiti non hanno più un programma; nemmeno i socialisti, che si
vantano di averne due, il minimo ed il massimo. Nell'orbita
costituzionale nessuno crede sinceramente alla monarchia, né
potrebbe credervi, dacché cessò di essere un principio e fallì
dinanzi al problema dell'Africa.
Il partito monarchico in Italia non è dunque un partito storico,
giacché la monarchia attuale fu una conseguenza rivoluzionaria, e
nemmeno un partito sentimentale; si mantiene il più numeroso,
poiché tutti o quasi accettano la monarchia col sottinteso di
respingerla domani al suo primo conflitto cogli interessi del
paese. Come monarchico dovrebbe essere conservatore nel senso
nobile della parola, ma invece non cominciò a diventarlo che tardi,
chiuso finalmente il ciclo della rivoluzione unitaria: prima aveva
dovuto essere essenzialmente rivoluzionario per rimutare l'assisa
nazionale, mentre l'opposizione essendo antidinastica o si asteneva
o si rendeva inadatta all'opera. Però come partito conservatore
manca di base: non ha una tradizione, un assenso istintivo ed
abituale di popolo.
Nell'Italia scarso è il sentimento religioso, ma nessun partito
davvero conservatore può essere tale senza l'aiuto di questa forza.
Ecco perché adesso il partito clericale uscendo dalla inazione e
accettando finalmente l'unità e l'indipendenza della patria tende a
formare la retroguardia del partito conservatore costretto a
riapparire nuovamente quello che fu sempre, un partito liberale. Gli
antagonismi del magnifico periodo rivoluzionario sono già una
leggenda: oggi papato e clero sanno fin troppo che la risurrezione
del passato e la ricostruzione del potere temporale sono peggio che
impossibili. La lotta si è spostata salendo dal campo storico in
una sfera ideale, ma la battaglia è sempre per la libertà; da un
canto sono e stavano tutti i liberali, coloro che credono nella
libertà e vogliono l'individuo autonomo: governo, provincie,
municipi debbono governare il meno possibile: l'individuo deve
assorbire la massima quantità possibile di sovranità. Dall'altra gli
assolutisti, clericali o socialisti poco importa, che credono alla
superiorità di una legge divina o imposta soltanto dal numero, e la
legge concepiscono come un comando, nell'angusta falsità dello
spirito accarezzando ancora la dispotica illusione di ricomporre la
storia e di imporre all'individuo le norme del suo sviluppo.
Intanto è già un un luogo comune della politica questa affermazione
che in un futuro abbastanza prossimo i due grandi Partiti si
chiameranno dal socialismo e dal clericalismo rivoluzionario e
conservatore, mentre la lotta nel secolo XX dovrà essere per la
libertà per l'individuo, come nel secolo XIX fu per la libertà delle
nazioni. Clericalismo e socialismo sono adesso due forme similari di
due opposti principi: una uguale irregimentazione sotto un dogma che
schiaccia l'individuo nella massa, e alla sovranità individuale ne
sostituisce un'altra astratta e collettiva, significata da una
minoranza fatalmente artificiale.
Il partito liberale, che in questo momento esiste soltanto come
istinto, dovrà sentire in se stesso la poesia e il diritto della
storia: quindi manterrà contro tutti le conquiste della libertà.
Naturalmente non potrà subito essere un partito di popolo per la
necessità stessa di combattere la politica dei suoi partiti estremi,
ma affermando le gerarchie dello spirito, la graduazione tragica
del progresso, la verità della tradizione storica, l'uguaglianza
del diritto, la sovranità nelle opinioni e la soggezione di ognuno e
di tutti all'ideale, adunerà in se stesso le forze più vive.
Il numero, come nel passato non ebbe quasi valore, così non ne avrà
nel futuro: la vita darà alle idee la forza sulla maggioranza degli
elettori, che non potranno esprimerle, se il loro eletto non sia
idealmente loro superiore: quindi il compito immane e glorioso della
politica futura sarà di assoggettare alle leggi dello spirito i
nuovi barbari dell'elettorato.
Per il partito conservatore il problema più urgente è quello di
essere liberale.
Una illusione e una dottrina sono cresciute in quest'ultimo periodo
sulla natura e sulla funzione dello Stato. Poiché il suo governo
diventato democratico esprimeva meglio la maggioranza della
popolazione, si è creduto che governo e stato siano identici, peggio
ancora che il governo rappresentando la somma degli organi politici
possa dirigere tutta la vita, contenere e educare tutta la
personalità. A questo errore contribuiva
l'avvento dei nuovi elettori popolari, che uscendo dall'inerzia e
dalla servitù del passato col titolo gratuito di sovrani,
reclamavano pel proprio immediato interesse la maggior quantità
della cosa pubblica; e più ancora tutto l'ordine delle dottrine
materialistiche, per le quali la legislazione è piuttosto atto di
volontà che di pensiero, il diritto una forza piuttosto che una
qualità. Tutto o quasi divenne obbligatorio: col pretesto di una
integrazione lo Stato entrò nella casa e nella famiglia ad interdire
e a comandare; e non era più per uno di quei fini, che superano
l'individuo e possono permettere il suo sacrificio, ma per
un'arbitraria autorità su di esso onde foggiarlo sopra un tipo
convenuto, o contenerlo entro i limiti, che lo diminuivano.
L'interesse pubblico diventò un assolutismo, le funzioni pubbliche
aumentarono sino all'assurdo; era questo un modo di accrescere la
burocrazia e quindi il parassitismo, giacché le vere massime
funzioni sono le produttrici, e quelle inferiori di scambio debbono
essere sempre trattenute nel minimo possibile.
Alle vecchie teoriche liberali, che spinte all'assurdo avevano
affermato nel governo un male necessario dell'individuo, successe il
concetto di un governo provvidenziale, la pretesa di un progresso
immediato, che mutasse sostanzialmente le condizioni storiche; parve
che una febbre ardesse i polsi della nazione, un altro dogma
ancora più basso che pericoloso proclamò nel popolo, come classe
plebea contrapposta a tutte le altre, la sorgiva e il segreto della
spiritualità nazionale. Le compiacenze delle teorie evoluzioniste
rendevano tutto facile, la sovranità elettorale abbassava idee e
funzioni sino a se stessa. Mentre nel periodo anteriore, potente di
tragedia e di sacrificio, un pessimismo nobile ed amaro aveva
talvolta negato la vita, nel fervore rinnovellato di questa un
ignobile ottimismo giustificava tutte le sue viltà e ne scusava come
umane tutte le infamie; la libertà, che in sostanza è
responsabilità sovrana davanti a se stesso, pesava alle coscienze,
quindi si faceva ogni giorno più prona l'abdicazione dell'individuo
allo Stato e dallo Stato la cessione dell'individuo al
governo.
Nullameno un progresso vi fu e grande.
Nella storia di tutti i tempi l'assolutismo apparve sempre come il
modo più spiccio e più rapido per sospingere le masse, ma i
progressi di questi ottenuti così non furono quasi mai che
superficiali ed effìmeri. Nell'anima degl'individui il miglioramento
non dura, se non derivò da uno sforzo della loro anima; un governo
non può né sollevare né educare un popolo, soltanto la verità
possiede tale forza e tale segreto.
Il partito moderato, che era stato liberale e rivoluzionario
contrastando talvolta per necessità dinastiche o estere al più
avanzato liberalismo delle opposizioni, compita la rivoluzione, si
sentì come straniero davanti alla nuova generazione e sembrò
adottarne il principio democratico-ed assolutista, che parlava
sempre di classi e mai di individui, domandando riconoscimenti di
diritti prima di aver provato la capacità alla loro funzione,
reclamando aumenti di salari non in rapporto all'importanza del
lavoro ma all'esigenza dei moderni comodi.
La borghesia, che aveva largheggiato col popolo, considerandolo non
nella sua realtà ma in una astrazione rettorica, si vide ritorte
contro tutte le proprie concessioni, giacché il popolo voleva essere
istantaneamente pareggiato. Quella era stata volterriana, questo
era brutalmente incredulo: la borghesia non aveva abbastanza
operato nella rivoluzione, e il popolo, che vi era rimasto inerte
adesso esigeva eroismi e sacrifici: la borghesia si era gittata
famelicamente nell'industrialismo, e il popolo, che vi aveva
trovato un istantaneo aumento di benessere, sosteneva già che il
lavoro delle mani era pari a quello delle menti, e valeva più del
capitale.
La libertà esulava da tutti i campi dell'azione: conquistare un
diritto non voleva dire che acquistare una forza, diventare
cittadino non significava più assorgere nella coscienza della
patria riconoscendo liberamente il suo diritto maggiore del
nostro, ma penetrare nel governo "nazionale per storcerlo a governo
di classe. Nella borghesia questo vizio veniva in certo modo
corretto dalla superiorità intellettuale, nel popolo invece cresceva
col numero e si rafforzava dalla timidezza degli avversari.
La teoria non ancora apertamente confessata era un socialismo di
Stato.
Intanto il parlamentarismo decadeva.
Nell'Italia le insufficienze stesse della rivoluzione avevano
preparato il rapido decadimento borghese; il partito moderato
rimanendo soltanto conservatore che cosa poteva conservare? E se non
era liberale come contrasterebbe al giacobinismo utilitario dei
recenti elettori? Quindi fra parlamento e paese nella seconda
monarchia di re Umberto avvenne come una separazione; nessun partito
dell'uno ebbe più rispondenza con quelli dell'altro, il paese
lavorava ad arricchire, il parlamento legiferava soltanto. Mancavano
gli eroi e gli statisti.
La seconda monarchia di re Umberto fu rappresentata nel trionfo di
tutte le opposizioni parlamentari: deputati e partiti vi
diventavano costituzionali, ma la monarchia immiseriva sempre più
il proprio simbolo, mentre la legislazione prendeva un abbrivo
vertiginosamente democratico: la lotta era soltanto per la
conquista del potere, la gara a chi apparisse più popolare nella
piazza; 1 costumi, l'eloquenza parlamentare degradarono,
nell'elezioni si dilatò il mercato dei voti, la pace lunga aveva
tolto la poesia all'esercito, e il governo affidandogli la difesa
sociale coll'ordine di mantenersi passivo ad ogni costo, gli scemò
la dignità. Poi anche questa Gironda finì.
Dopo la morte di Mazzini il partito repubblicano non fu più che
l'eco d'un nome e l'ombra di un fantasma; Mazzini sconfìtto dalla
monarchia nell'unificazione, abbandonato da .Garibaldi, non potè
avere né rivincita né successori. Il partito si restrinse ad una
setta per la dottrina dì lui, che non ne aveva lasciata una, poiché
era soltanto un grande poeta dell'azione: quindi la sua figura si
falsò discendendo la gamma delle interpretazioni sino a diventare,
egli così acceso avversarlo di tutti i socialismi, un precursore di
Marx: e tragica anima, che aveva messo una castità in tutti i
sacrifici e predicata col più nobile esempio l'autonomia dello
spirito, fu dagli ultimi epigoni gittata negli ergastoli del recente
assolutismo demagogico e nei bordelli del lìbero amore. Oggi ancora
gli ultimi fedeli non sanno che il partito repubblicano non avrebbe
dovuto chiamarsi mazziniano, giacché nessuna forma politica può
portare un nome d'individuo; sono pochi, sperduti fra la folla
socialista, che li insulta senza saperne bene il perché, ma
sentendo forse in loro dei superstiti e dei rinnegati.
Infatti il soffio religioso di Mazzini non solleva più né la
loro anima, né la loro parola; nella filosofia sono positivisti,
atei nella morale, socialisti nel piccolo programma: non adorano più
la patria sino a volerla intera contro lo straniero, inutilmente
rigidi e convulsi nel dispettare la monarchia.
Invece i clericali l'hanno già accettata. Secondo l'antico costume
il papato non rinunciò formalmente al potere temporale, ma ne lasciò
grado a grado cadere le pretese: recentemente mandò il cardinale di
Bologna ad ossequiare il re capitato nella vecchia metropoli delle
legazioni, e consentì ai cattolici di eleggersi deputati al
parlamento. Questi vi giurarono fede al re, il papa non era dunque
più tale a Roma. Ma egli aveva indubbiamente compreso che davanti
alla ribellione atea del socialismo, la difesa non doveva
preoccuparsi di antichi privilegi e territori, bensì delle più
essenziali necessità: ogni attacco alla monarchia rimbalzava sul
papato, ogni negazione della spiritualità colpiva la religione. Un
regno pontifìcio non avrebbe potuto contraddire la sovranità
elettorale, ed accettandola vi si sarebbe annullato.
Già ha stanchezza dell'inazione irritava i cattolici italiani;
pochi odiavano ancora la monarchia unificatrice, i più ne avevano
accettato il fatto, poi l'esperimento della nuova forma era riuscito
favorevole al papato. Mai, in nessun'epoca, la sua autorità
spirituale era stata più larga ed efficace; popoli e re lo avevano
invocato arbitro m contese diplomatiche, la purità delia vita negli
ultimi pontefici aveva nobilitato la lo ro politica e idealizzato le
loro figure: oramai tutti sentivano che le monarchie passerebbero e
il Papato sarebbe ancora il trono più alto. Ma ai cattolici d'Italia
l'ingresso nella politica era singolarmente difficile: bisognava
farsi perdonare il passato, l'ostilità parricida alla patria e
l'assolutismo intellettuale, che negava ogni libertà al pensiero;
la storia del risorgimento rimaneva aperta ed insanguinata, gli odi
del laicato fervevano delle antiche sconfitte e della nuova
vittoria. Ma lentamente, sapientemente, il partito clericale
organizzò le moltitudini, che il liberalismo rivoluzionarlo non
aveva potuto attrarre: fondò circoli, società di mutuo soccorso,
banche rurali, scosse l'inerzia del clero e dell'arislto-crazia,
vinse ripugnanze di vescovi, divulgò riviste e giornali, saggiò le
prime forze nelle elezioni municipali, e si educò parlamentarmente
nei congressi. Senonchè la sua coscienza politica era ancora debole,
le masse troppo passive; mancava un nome, una bandiera, un
programma. Intanto il partito moderato logorandosi nell'azione
veniva scemando di voti e perdeva lungo la strada giorno per giorno
i migliori condottieri, quindi respinto dalle piazze tumultuanti di
affermazioni giacobine si restringeva quasi ad un'accademia. I più
alti individui erano ancora nelle sue file, ma invece di un esercito
rimaneva soltanto uno stato maggiore.
Un'alleanza era quindi inevitabile coll'avanguardia del partito
clericale: l'uno aveva il personale politico, l'altro i voti, per
entrambi la necessità della difesa sociale era quasi identica; i
clericali accettavano Roma italiana collo Stato e le nuove libertà
fondamentali, i moderati dimenticavano quell'antica negazione della
patria per proteggerla con un nuovo ordine di cittadini contro
tutte le opposizioni palesi o latenti, che si sommavano nello sforzo
contro il governo monarchico e borghese. Ma la guerra era appena
all'inizio. Una volgarità livellava tutti i partiti perché il motivo
immediato della guerra era materiale, un aumento di ricchezza, e
borghese il tipo comune: l'aris'tocrazia vi discendeva, il popolo
vi saliva. Il papa parlava come un parroco, il re come un sindaco.
Il partito conservatore non era ancora ridiventato coraggiosamente
liberale sostenendo l'individualismo contro il socialismo, e quello
clericale non ancora conservatore dando al liberalismo una base
tradizionale e una poesia religiosa.
Gli stessi democratici cristiani ne fornivano la prova migliore.
Sorti dal mezzo clericale come un manipolo di avanscoperta, si erano
subito impantanati nel nuovo materialismo politico accettando
magari programmi e metodi socialisti. La loro originalità era così
povera che ignorava persino le grandi parole del vangelo e dei primi
saniti padri, ben più rivoluzionarie dell'ultimo verbo di Marx: la
loro predicazione sembrava fatta di odio e d'invidia, non amavano la
miseria e il dolore del povero, non partecipavano alla sua tragedia
invincibile, non miravano all'anima attraverso il corpo, all'uomo
attraverso il cittadino. Invece un socialismo cristiano per essere
vero avrebbe dovuto aggiungere tutto ciò che mancava negli altri,
rispondendo alle più profonde domande dell'anima e risolvendo in
essa il doppio problema della libertà e dell'autorità. Quasi ttutto
composto del giovane clero, questo partito era di ribelli senza
forza per una vera ribellione, di minimi tribuni che nell'ordine
borghese combattevano copertamente la gerarchia ecclesiastica, e
negavano la legittimità della ricchezza in quello, non osando
denunciarne la falsità in questa. Velleità intellettuali di nuove
esegesi, di riforme ecclesiastiche, di mutamenti gerarchici
sospingevano i più audaci, ma il moto era soltanto derivato
dall'ambiente politico, anziché salire dalle profondità dell'anima
cristiana nuovamente in preda agli spasimi di un rinnovamento
ideale.
Poi il papa ammonì severo, e i democristi invece di ubbidire
studiarono di meglio coprire le proprie mosse.
Adesso ancora sono un partito rudimentale, larva di un grande
partito futuro, primo sintomo di un'altra grande epoca nel
cattolicismo; però il loro moto sarà religioso o non sarà. O
aggiungeranno alla democrazia socialista tutto quanto le manca
fatalmente, la carità vera nella fratellanza soltanto formale, il
sentimento del divino nel dramma umano, l'autonomia suprema
dell'anima che può sola redimere se stessa, e la necessità di
spiritualizzare più tragicamente e delicatamente la vita, o
dilegueranno senza traccia come tutte le forme vuote.
I democristi non possono uscire dallo spirito del vangelo e della
grande tradizione cattolica, l'uno e l'altra consentono moderni
adattamenti ideali: un socialismo cristiano sarà forse inevitabile
come forma superiore, integrazione ed insieme negazione dell'altro.
Intanto i dogmi di Marx sono già rovinati, ma dalle rovine del
papato temporale la poesia e l'azione nuova cristiana non assursero
ancora; aspettate, tutte le grandi rovine si coprono di fiori, e a
certe ore hanno voci misteriose.
VII
Il problema dell'autorità.
Uno dei più illustri pensatori moderni ha detto: nella vita il
grande problema non è di libertà, ma di autorità.
Poche affermazioni sono adesso come questa più difficili alla nostra
coscienza.
Attraverso tutte le avvilenti teoriche del positivismo noi ci
sentiamo così liberi nell'imperscrutabile segreto dell'anima, e
l'orgoglio delle conquistate libertà esteriori ci solleva così alti
davanti a tutti i poteri costituiti, che qualunque dichiarazione di
autorità ci pare una barriera contro la nostra opera e una negazione
della nostra autonomia.
Eppure nella vita sociale il problema è piuttosto di autorità che
di libertà.
Se la vita è una manifestazione del pensiero, il suo realizzarsi
esige tale continuo ed esauriente sforzo che la maggior parte degli
individui vi soccombono senza attingere la coscienza dell'opera,
alla quale sono sacrificati. Per essi la necessità suprema è quindi
una certezza di autorità: incapaci di resistere fra la bufera dei
dubbi intellettuali e più ancora di salirvi al disopra nell'ultima
sfera metafisica, che dissolve torme e concetti in poche idee pure,
il loro istinto ha bisogno di quietarsi in un ideale sistema, già
realizzato in simboli ed in leggi, che dia una risposta decisiva a
tutte le domande salienti come tentazioni delle difficoltà della
vita.
L'energia indispensabile all'opera non si conserva in quantità
sufficiente che così. Religione, filosofìa, scienza, politica, sono
tanti sistemi, dentro i quali la moltitudine viene a riparare dalla
tormenta dei luoghi troppo aperti, discendendo dai picchi montani o
fuggendo dalle solitudini marine. Se la religione non ha dogmi
davvero assoluti, il suo primo ufficio di tranquillizzare le
coscienze resta frustrato: se la scienza coordinando i pochi
principi e le poche scoperte non garantisce la loro verità, il genio
piccino dell'azione non può lavorarvi sopra utilmente per adattarle
alle esigenze della vita: se le leggi della politica non hanno una
stabilità duratura, le attitudini del popolo e l'originalità de'
suoi periodi storici non si realizzeranno. In alto e in basso la
fede soltanto crea, ma la fede procede dall'autorità pur
cominciando da una intuizione. La libertà, questo vertice supremo
ove si identificano l'autonomia del pensiero e quella dell'azione,
quesito indivisibile momento nel quale possiamo negare coll'azione
una verità che non sapremmo disdire nel pensiero, agisce nella
moltitudine solamente come istinto: per tutto ciò invece che deve
essere precisato, per le forme e per gli schemi è necessario che la
verità venga oggettivata e si costituisca come esteriorità tangibile
ed irremovibile.
Allora si chiama autorità.
La storia ideale di un popolo si potrebbe scriverla, e sarebbe forse
la più vera, seguendo sol tanto la vicenda delle sue credenze e
delle sue autorità. La religione è la prima più alta prova che di
tale bisogno l'uomo dà a se stesso: tutto quanto il pensiero
filosofico e il suo sentimento poetico hanno intuito, vi si fissa in
figurazioni adunandovi intorno le forze più essenziali delb-spirito;
e quelle intuizioni sono i primi rapporti di questo con la natura e
coll'infinito. L'uomo ha bisogno di uscire in un modo o nell'altro
dall'angoscia del proprio problema, quindi una religione per
quanto monca od atroce è sempre un asilo.
Oggi invece è un luogo comune della rettorica filosofica il dire che
l'uomo può fare a meno di una religione, e si cita a prova la
tranquillità e la libertà della nostra opera incredula; ma
l'argomento merita appena che vi si risponda. L'incredulità
preferisce non nega la religione e non distrugge nello spirito i
modi, che quella vi creò: così i miscredenti moderni sono tutti
ancora cristiani nell'irriflessione dei sentimenti e dei giudizi,
cristiana è la loro morale e la loro poesia: negano simboli e dogmi,
ma ne serbano in se medesimi la struttura.
Una religione non può essere negata che da un'altra religione,
giacché l'uomo nasce religioso. La religione è infatti l'unità e la
rappresentazione dei rapporti, che la nostra individualità sente
oltre i limiti della propria vita: il suo nome non conta perché
tutti saranno egualmente inadeguati, negare è inutile giacché il
pensiero non può negare il pensiero; la religione è un momento nello
spirito come la filosofia, la scienza l'arte, ma il primo è il più
sintetico: nella politica, mentre nella filosofia nella scienza e
nell'arte è piuttosto di libertà. La politica non esiste che in
quanto si fìssa in leggi come in religione in dogmi: i suoi organi
esprimono dunque un'autorità. Questa garantendo un certo ordine
rende possibile alla vita di continuare fecondamente nello sforzo
di realizzarsi: e mantenendo l'impersonalità del pensiero negli
schemi legali presta una norma sicura ai pensieri individuali.
Soltanto nelle profondità dell'istinto e sulle cime
dello spirito prosegue ininterrotto il lavoro creativo, che critica
e rinnova tutte le forme esteriorizzate del pensiero: la storia è
una statica, il genio anonimo della folla e il genio individuale
sono la dinamica, che la sostiene e la trasforma.
L'autorità vi assume tutte le forme, ogni idea non vi trionfa
davvero se non creando una nuova autorità, e il raggio del suo
trionfo si misura a quello dell'obbedienza; finché un'idea è
discussa, non ha vinto, benché brilli allora solamente tutta la sua
bellezza; dopo, trionfando si deforma e si cristallizza. Il trionfo
è un adattamento dello spirito alla natura, non si trionfa che
imbruttendo per diventare accessibile a tutti. L'autorità di
un'idea è in rapporto coll'altezza del suo principio e colla
superficie del bisogno, cui soddisfa; le due più vaste verità sono
la religione e la moda. Se un'idea conserva a lungo la propria
autorità, la sua radice spirituale sarà discesa profondamente: se
la negazione di questa idea non conclude a realizzarne una
superiore, la negazione non è nemmeno formale, ma inane.
Questo basta a giudicare di tutte le opposizioni proterve, che
religione e scienza si barattarono nei secoli; egualmente nell'arte
la critica è quasi sempre una superiorità d'impotente sopra
qualcuno esausto, perché la creazione si realizza
inconsapevolmente, e la critica non diventa arte alla propria volta
che salendo a valore di storia.
Nella politica, come azione, tutto procede dalla autorità, è una
guerra pari ad ogni altra: l'energia del combattimento è in ragione
della fede, e la fede in ragione dell'autorità; se gl'interessi
hanno l'aria di guidare la politica, non sono invece che il
combustibile della macchina e il carico del treno. Le idee solo
hanno potenza di sollevare uno strato storico scatenando in esso o
contro di esso tutti gli interessi della vita. Quindi ogni
partito è dogmatico, irreducibile, diverso
dai propri partigiani che vorrebbero appropriarselo e ne sono invece
assorbiti: l'odio e l'invidia, le passioni più basse vi sono le più
attive, il senso della realtà vi si acuisce e vi si falsa nel
medesimo tempo: ogni individuo vi perde forse le più alta parte di
se medesimo nella libertà, ma vi acquista la forza del numero, pel
quale viene moltiplicato. Quando l'idea vi è nella pienezza, la
passione diviene fanatica, ma fanatica comincia e deve finire
in pochi, specialmente nell'aurora quando la
sua enunciazione esige il martirio.
Ogni partito ha una verità interiore, che non può formulare nei
programmi e che spesso li contraddice; alla superficie l'accordo è
di interessi e passioni immediate, la promessa deve essere sempre
piccola, e non cresce poi che propagando vare una massa anche
soltanto di un millimetro dalla propria base occorre la forza
estrema dell'ideale. Se un partito sapesse anticipatamente il
risultato della propria opera, abbandonerebbe scoraggiato la lotta;
bisogna sognare la trasformazione del proprio podere in eden per
mutarvi anche solo la coltura di un'erba.
La tradizione è la persistenza del passato nel presente, quindi ogni
vittoria della rivoluzione misurata alla quantità di spostamento
prodotto è sempre vasta sino all'assurdo, giacche a solle le proprie
vibrazioni negli organi contro i quali si è arrestata. Il partito
conservatore, come rappresentante dell'autorità, rimane dunque e
sempre il più grande anche allora che non pare il più importante:
tutti vi appartengono, specialmente quelli che non vi sono iscritti;
tutti vi finiscono, anche coloro che sembrano averlo vinto, appena
la vittoria si acqueti fra l'immenso numero delle forme storiche.
Invece non si è rivoluzionario che per un qualche motivo soltanto:
studiate i più illustri ribelli, quelli che agirono invece di
sognare, e noterete subito in loro una grottesca disparità.
Rivoluzionari sopra una punta estrema, inconsapevolmente sono
pedanti e reazionari in tutto il resto; i rivoluzionari della
politica, specialmente se plebei, non intesero quasi mai quelli del
pensiero, per la solita ragione che una generazione come un
individuo nel proprio tempo non può mutare molto, né intendere oltre
quel poco che muta.
Nella rivoluzione francese l'arte è classica e reazionaria, nelle
ristorazioni invece rivoluzionaria e romantica; Mazzini negò
intorno a sé tutti i novatori più originali; Garibaldi, il più
rivoluzionario condottiero moderno, non si accorse nemmeno delle
idee, che mutavano sostanzialmente gli ordini militari.
Ogni grande novità non è mai che un piccolo germe, e la più profonda
rivoluzione non rimane che una ruga sul
vecchio volto della storia.
VIII
La patria.
La nobiltà venne all'individuo dalla patria.
Sin che questa non fu costituita, il gruppo nazionale, qualunque
potesse essere la sua quantità e la sua qualità non ebbe ancora né
centro né coscienza, poiché la patria preesiste sempre allo Stato.
Se la nazione è una individualità rudimentale, come un istintivo
aggrupparsi di popolo, già delineato nella razza, intorno ad un
qualche oscuro carattere spirituale, la patria esprimendo il
passaggio dalla vita nomade alla vita fìssa diventa il primo e più
decisivo momento nella sua storia. Anteriormente tutto è vago ed
incerto; nel nomadismo nessun carattere può perfezionarsi per
eccessiva mobilità stessa degli individui, e perché dell'opera e
della casa non resta la traccia. La tradizione è appunto formata
dai segni persistenti nel passato, e senza tradizione nessuna
civiltà può avere una base.
Forse la patria fu l'ultimo accampamento, che non si volle più
mutare, se la tribù guardando oltre i limiti del campo giudicò il
territorio circostante capace di essere utilizzato, e il campo
stesso non difficile a munirsi più solidamente. Fors'anche nelle
tribù pacifiche la patria fu riconosciuta dà un unanime grido
d'angoscia in un'ora di pericolo davanti ad un assalto nemico: quel
cantone era già una terra diversa dalle altre, una cornice ed un
alvo, qualche cosa di religioso e di poetico, che l'anima barbara ed
infantile sentiva in essa, solamente da essa.
Nella patria tutto si fissa, gli ordini domestici e guerreschi, i
rapporti di produzione e di scambio, la serie delle generazioni e
degli avvenimenti: la religione, che prima aveva soltanto un tallo
per altare, domani avrà un tempio; la sua tradizione solamente orale
diventerà scritta, poiché l'architettura stessa è una scrittura, e
tutte le altre arti non sono che differenti alfabeti per la
necessità del linguaggio spirituale. Quindi la vita avrà per ogni
individuo la radice in un ricordo inconfondibile, mentre la morte
effonderà dalle ombre dei cimiteri l'irresistibile, dominatrice
poesia del proprio mistero.
L'accampamento si muterà presto in città e il suo territorio in
regno: poi l'epopea alzerà per la prima volta la propria voce
immortale.
Patria e governo sono dunque nell'antichità
le due forme essenziali
della politica; invece lo
Stato, ultimo termine della
individualità spiri
tuale, non appare che tardi ed in alcuni
popoli
nemmeno arriva a manifestarsi.
La patria ne
tiene quindi le veci esprimendone nella
poesia le
idee universali: come lo Stato la patria innalza
gli
individui ad una vita superiore uguagliando
le generazioni passate e
future: come lo Stato,
non muore e reclama per la propria vita il
sacri
ficio delle altre: religione e governo le sono sot
tomessi,
la sua passione è già una virtù che so
vrasta, un'idea che
rischiara. Prima, nella tribù
il guerriero difendendo
il proprio gruppo non
difendeva che se stesso, giacché
la sua forza di
attrazione soltanto aveva potuto formarlo:
nel
l'eroismo della difesa qualche amore di bambino
o di donna
ferveva, ma non determinava un li
bero sacrificio. Nella
patria invece l'eroe è già
così intero che i secoli non sapranno
nemmeno
più perfezionarlo: la sua
espressione è quasi
sempre guerriera, perché la
vita non ha ancora
altro modo di mantenersi, ma l'eroe deve
dimen
ticare il proprio interesse in quello più alto della
città o
del regno, che rappresenta. La barbarie
rudimentale del costume
anziché offuscare tale
sentimento lo fortifica; la ferocia del
coraggio
non scema nobiltà al sacrificio, le grandi parole
della
sfida e della morte hanno già un accento
ed un significato, che il
guerriero chiuso nell'egoismo di se stesso non potrebbe neppure
intendere.
Così l'epopea fu la magnifica forma di tale
momento rilevando le
figure degli eroi e prepa
rando la tragedia.
Nell'antichità tutto è diviso e significato per patrie, e il loro
costituirsi e il loro dissolversi apre e chiude una storia; il
concetto frammentario del mondo non permetteva allora più alta
idea: le leggi e gli dèi erano della patria, sacri i suoi confini,
vitale soltanto la sua aria. Perciò l'esilio diventava una pena
peggiore della morte e il tradimento alla patria il primo dei
parricidi. La necessità dello sviluppo rendeva i popoli
irreconciliabilmente nemici, giacché il non contrapporsi agli
altri era uno sparire dentro se stessi: per i maggiori e migliori
individui l'unica ascensione era nel dominio e sul dominio della
patria essendo la loro anima al di là dei limiti di questa come
straniera a tutto il mondo: il piccolo primitivo gruppo della
famiglia non aveva per il proprio capo altro valore che il focolare
e la casa, mentre tutti i suoi membri appartenevano alla necessità
superiore della patria sempre in pericolo.
Le funzioni del governo significavano diritti pubblici, quello
privato era appena espresso e protetto dalla religione, gli
altri delle arti delle scienze delle industrie rimanevano secondari.
11 poeta, fosse pure Omero, non valeva l'eroe, l'artista che alzava
il tempio non pensava nemmeno a lasciarvi il proprio nome, lo
scienziato che contraddicendo già alla religione indovinava qualche
legge della natura o dello spirito non poteva segnarla che in un
proverbio. La patria era arme e politica, eroismo e poesia.
Oggi, ancora, a distanza di tanti secoli, mal
grado ogni facilità e
volgarità di cosmopoliti
smo, tale idea e tale sentimento non sono
molto
mutati.
Senza la patria, prima forma dello Stato, nessun popolo avrebbe
potuto creare la propria storia e formare in se stesso una
aristocrazia; senza la patria, anche adesso nessun individuo può
manifestarsi in una personalità originale e superiore. Filosofìa e
scienza soltanto sono cosmopolite, perché impersonali nella sfera
dell'astrazione: ma nel mondo della vita, ovunque l'idea per essere
sentita deve avere l'accento di un tempo, in qualunque gruppo
scolpito dalla storia, i caratteri di razza di nazione e di patria
sono una fisonomia fisica e spirituale.
L'individuo sorgendo nel suo mezzo sognerebbe indarno di non avere
rapporti di dipendenza, tutto il suo istinto è istinto della sua
gente: il suo sangue, le sue passioni, le sue idee, il suo corpo
nella esteriorità della forma e nel segreto della sostanza è un
prodotto della patria ancora più che della razza. La lingua, per la
quale le idee passano diventando parole, è anch'essa un lavoro
lungo, oscuro della patria; per un mistero, che nessuna indagine
potrà mai penetrare, l'anima del popolo vi è chiusa per sempre,
poiché fuori di questa lingua non potrà mai dire la propria parola
inconfondibile; invece l'individuo mutando luogo o magari non
mutandolo potrà accogliere nell'orecchio gli idiomi di altri
popoli, ma se il suo spirito profondo debba esprimere un qualche
carattere del proprio tempo a tale alta funzione sarà necessaria la
lingua della patria, prima unità dello spirito nazionale.
Nel mondo antico il concetto d'umanità, essendo ancora troppo
oscuro, la sua ombra faceva da sfondo alla figura radiosa della
patria, dentro la quale ridividilo non avrebbe quindi raggiunta
mai l'assoluta libertà di se stesso. L'umanità sola poteva liberare
l'individuo contrapponendolo pari allo Stato. Tale liberazione fu
annunciata nel cristianesimo, che primo fra le religioni osò
davvero dichiarare gli individui uguali, ma il cristianesimo era
pessimista, e per liberare l'individuo dovette disciogliere il
mondo riducendo la sua vita storica soltanto ad un pellegrinaggio
di prova imposto da Dio all'uomo.
Senza discutere qui il valore di tale teoria, basterà osservare che
questa liberazione si contraddiceva in se stessa, poiché fuori del
cristianesimo non rimanevano né verità né
libertà. Quindi all'indomani del trionfo cristiano si accese la
lunga guerra tra il pensiero religioso e il pensiero laico per una
più alta emancipazione affermando l'umanità e l'individuo al
disopra di tutti i sistemi necessari al loro sviluppo. Oggi i
concetti di umanità e d'Individuo non hanno più bisogno nella loro
astrazione e nella loro concretezza di nessuna patria e di nessuna
religione: l'umanità ha una
coscienza, nella quale si riconosce pari a se stessa in
ogni luogo del presente e in ogni tempo del passato: l'individuo,
poggiato soltanto sopra se medesimo, si sente un uomo intero.
La sua libertà è assoluta ma pari alla sua umana necessità; nessuno
può imporgli una fede o una legge , alla quale il suo spirito non
abbia volontariamente cooperato; nessuno imprigionarlo dentro il
confine di una patria o la forma di un governo: egli può eleggere la
propria dimora e il proprio lavoro, vivere amare morire ovunque il
capriccio della volontà o la propria tragedia lo sospinga.
Ma questa libertà è dentro una necessità: libero deve adesso volere
ciò che prima gli era imposto, accettando per nobilitarle in una
più alta interpretazione quelle forme e quei dogmi, coi quali la
storia gli salvò anticamente la vita.
Perché nella storia nulla fu salvo e tutto dura rinnovellandosi
nello spirito. I modi e le forme, che il diritto antico imponeva
all'individuo, non erano, come tardi e falsamente fu poi spiegato,
una tirannia egoistica della minoranza padrona, del potere e intenta
soltanto a dominare e ad ingannare; l'intangibile divinità
dei dogmi, la deificazione dei re, l'assolutismo delle
leggi esprimevano, invece la consacrazione di idee necessarie alla
vita e rampollate dal suo istinto. Dunque vere. Ma il grado del loro
sviluppo non poteva essere superiore a quello medesimo della massa,
quindi nell'individuo mancando la potenza di
sentirle intere in se stesso aumentava nella politica la necessità
d'imporle come un ordine esteriore e di ottenerne colla forza
l'adempimento. La religione fu allora la più terribile delle
tirannie, perché rappresentava il massimo sistema
d'idee, che il popolo aveva prodotto è non poteva sorpassare:
al di fuori di tale religione il suo spirito si sarebbe smarrito e
disciolta la compagine della sua storia: i grandi individui ribelli
dovevano essere degli eroi e dei martiri preparando colla loro
negazione un mutamento superiore, ma la libertà della coscienza
religiosa non era nemmeno in essi, perché intendevano soltanto a
sostituire dogma con dogma.
La patria, per limitare in questo capitolo l'esame alla sua idea,
era una divinità più tirannica forse delle altre, un fatto più
pesante sulla coscienza, più rigido nelle forme, più tagliente nei
contorni. Schiacciava l'individuo e lo respingeva straniero: il suo
interesse salva fosco e solenne dal danno di tutti gli altri
popoli, la sua politica era unilaterale, il suo orgoglio omicida.
Quasi sempre unificata in un re accettava nel beneficio di questa
unità tutte le mostruose insufficienze ed esorbitanze del suo
capriccio; incapace di uscire dalla forma monarchica uccideva
il tiranno e ne alzava un altro, i suoi confini stringevano del
pari uomini e dèi.
Ma la patria dura eterna.
Oggi nessuna legge vincola più l'uomo al suolo, i confini nen sono
che una linea doganale, il suo diritto è sottoposto alla libera
coscienza di ogni generazione che lo dilata e lo restringe
mutandone i rapporti coi cittadini e cogli stranieri: lo Stato non
assorbe l'individuo, il governo non può sopra di lui compiere
prepotenze, perché nell'individuo vi è già tutto l'uomo e nell'uomo
l'umanità.
Nullameno la patria, questa unità costante nel tempo e
nello spazio, è l'origine e il fulcro di ogni vita individuale,
appena l'individuo innalzandosi acquista
valore di rappresentante,, scoppia in lui il
problema di un'equazione fra le proprie
qualità rappresentative e il segreto di
quelle, che nella massa non sanno singolarmente" esprimersi. Se fra
le une e le altre non sia quindi una storia comune, e il sangue e
l'istinto non le sospingono alla stessa
meta, il rappresentante non
potrà davvero rivelare
i rappresentati; nessuna
sincerità d'intenzione o di
studio in quello gli permetterà di intendere le voci mute o
contradittorie di questi: mancherà nell'individuo l'identità
d'interesse colla massa, e nella massa quella fede cieca e sorda che
segue un uomo o magari lo sacrifica, ma non sapendo fare a meno dì
lui nell'amore come nell'odio.
Certamente non mancano esempi di
stranieri, che dominarono popoli stranieri,
però nessuno di tali avventurieri fu rivoluzionario nella
vita di un popolo lasciandovi tracce durature: furono
invece meravigliosi ed effimeri adattamenti determinati da
incidenze e coincidenze individuali ed
esotiche. Nella vita quotidiana,
pubblica o privata, la proporzionalità e
l'adattabilità di rappresentanza è sempre nel sangue: nella famiglia
né il padre né la madre possono essere sostituiti, nell'arte il
contenuto è sempre di popolo e l'artista deve essere suo per
esprimerlo: nella politica, la maggiore delle arti, l'opera essendo
ancora- più profonda ed inconsapevole, soltanto la vita prepara sul
medesimo terreno rappresentanti e rappresentati e li stringe nei
nodi indissolubili di una stessa tragedia.
Nelle supreme funzioni come la scienza, e nelle basse come il
commercio, l'individuo invece è libero nell'impersonalità del
pensiero o dell'egoismo: nella scienza lo spirito deve anzitutto
dimenticare se stesso, nel commercio l'interesse deriva da una
differenza di merce e di mercato indipendentemente dal venditore e
dal compratore.
Non così l'industria e l'agricoltura, legate fatalmente al suolo
della patria e costrette a subirne tutte le vicende: quindi il
commercio nella sua più astratta espressione, il danaro, è libero
quanto la scienza, che può contraddire l'interesse patrio e magari
averne il dovere. Il commercio non fu, né sarà mai patriota. Quando
certe leggi lo vincolano, ne trionfa colla frode; è una potenza
come di parassita e di fisco esercitata sul produttore e sul
consumatore.
Ma in qualunque opera di creazione l'uomo è soggetto alla necessità
del sangue e del periodo nazionale; se l'opera serve soltanto
all'ordinaria manutenzione della vita, è quasi libera come il
commercio; se invece la trasforma, non vi si potrà sottrarre. Tutte
le forze e le forme della vita stessa lo stringeranno in una rete
invisibile ed infrangibile: suggestioni e miraggi inganneranno il
suo spirito per condurlo ove deve andare e forse non vorrebbe.
Senza la vanità del nome e l'amore dei figli l'egoismo si
stancherebbe presto del lavoro necessario alla famiglia: la patria
è una famiglia ideale, più antica e più duratura. La solidarietà
umana ci condanna a sentire nel giudizio degli uomini il premio e la
pena, giacché per noi soli ogni fatica diverrebbe insopportabile.
La patria nel periodo presente, che apre davvero quello della
storia universale, diventa più intensamente di prima allo spirito un
rifugio della solitudine nell'umanità: impossibile isolarsi; è
sempre la stessa corsa della vita, ma lo stadio stringe tutto il
mondo. Bisogna nella sua arena avere qualcuno, che ci applauda
sperando nella nostra vittoria.
Il patriottismo moderno sarà quindi più spirituale dell'antico: non
si tratta più di negare gli altri popoli, ma di superarli in una
grandezza, che non si misura a territori, con una forza che le armi
non bastano ad esprimere. Se per la Russia può essere un vantaggio
il non avere un passato, perché ciò garantisce anche meglio
l'avvenire della sua originalità, per l'Italia l'essere già stata
due volte universale e l'aver saputo risorgere è arra di gloria e
responsabilità nuova di impero.
Una terza Italia senza un significato ideale nel mondo sarebbe il
più assurdo miracolo della storia moderna, una risurrezione senza
vita, una riapparizione di fantasmi, che passano soltanto.
Troppo poco.
IX
La proprietà.
«Chi non ha non è» l'antico proverbio inglese è una delle più
limpide e profonde formule filosofiche.
Giuristi ed economisti hanno lungamente cercato la ragione della
proprietà sciupando fuori del proprio campo le ragioni secondarie,
che adducevano. La sua radice cresce dalla personalità umana, che
dovendo riconoscersi nell'esteriorità inette la propria anima nelle
cose e vi imprime come suggello un diritto, che le distingue dalle
altre. Quindi le cose animate dallo spirito entrano nella società
della sua storia, vi acquistano una fisonomia, diventano materia di
contratto e talora una personalità giuridica.
Che l'appropriazione sia il primo, inevitabile modo della proprietà
e il lavoro la sua più nobile sicura giustificazione non monta,
mentre né l'una né l'altro avrebbero potuto crearla; essa è invece
il più primitivo dei diritti, una categoria dello spirito come la
religione l'arte la filosofia la giurisprudenza: l'uomo nasce
proprietario al pari che religioso, artista, scienziato, politico.
'Unico nell'universo egli può possedere mettendo se stesso in una
cosa e staccandola come dalla natura per farsene una barriera contro
gli altri uomini.
Invano si nega quindi tale potenza e tale necessità dello spirito
umano: come tutta la sua vita morale discende dalla libertà, così
tutta la sua vita sociale comincia nella proprietà. Prima non vi è
che l'indifferenza della natura. Innanzi che lo spirito si svegli
negli spasimi di questa significazione esteriore l'approvazione
comincia nel bambino annunziando già l'avarizia ed il furto: gli
oggetti pei quali piange e coi quali soltanto si calma, sono ancora
nel nostro giudizio inutili alla sua vita, ma in quella tenebra
spirituale esprimono una necessità: il bambino vuole come sua
qualche cosa, che non risponde ad alcun bisogno fisico e non può
ancora essére dalla sua intelligenza ragguagliata colle altre cose:
capriccio irresistibile, dunque non tale.
Vi è in tutto ciò un istinto di creazione, se l'uomo unico fra i
viventi può reagire sulla natura? Vi è già l'affermazione di quel
minimo impero, che tutti debbono segnare intorno a se stessi, e che
non manca ad alcuno né accattone né imperatore? Ogni uomo infatti è
proprietario, perché nessuno è così povero da non possedere qualche
cosa, un rifiuto magari di tutti, raccattato sulla strada, ma che
diventa suo nello stesso diritto di qualunque altro tesoro.
Il diritto di proprietà, identico negli individui e sulle cose, non
cresce e non scema; può essere diversamente esercitato, sparisce,
si trasmette: la legge a seconda dei tempi lo rispetta o lo viola,
è come il diritto alla religione, all'arte, alla scienza, alla
politica. Quindi le differenze delle cose vi servono ad esprimere le
differenze delle persone, uguali soltanto fra loro nel concetto
astratto della individualità; e siccome la verità della vita è
superiore a quella dell'astrazione, ogni individuo dovendo
significarsi esteriormente dà una prima misura di se stesso nella
proprietà. Senza di questa il suo spirito non avrebbe al di fuori
una linea inviolabile come al di dentro. I sofismi delle scuole, che
per provare l'ingiustizia della proprietà contrappongono la povertà
alla ricchezza affermando che il povero non possiede nulla, non
meritano nemmeno una risposta, mentre povertà e ricchezza sono due
gradi della stessa idea, come la malattia è sempre un modo della
vita.
I morti soli non posseggono, perché l'anima sola ha il diritto di
proprietà, e i cadaveri non hanno nemmeno più nome.
Sopprimete l'idea di libertà, ed avrete soppresso tutto il diritto:
sopprimete la proprietà, e l'individualità umana non avrà più
significazione esterna.
Tutta la sua vita invece si acuisce in tale sforzo.
La fisonomia è nella linea, nell'accento, nel gesto; ecco la prima
manifestazione dell'individuo; ognuno consciamente e inconsciamente
vi si adopera ad ogni istante; apparire se stesso, ecco la
primordiale necessità. Ma siccome per vivere l'uomo deve operare,
all'opera è egualmente indispensabile un segno che la faccia sua, e
questo segno comincia sul primo oggetto, che egli possa prendere: la
più appassionata fatica sarà nel-l'imprimere quel segno cosicché vi
resti inconfondibile. Se non fosse sociale l'uomo non sarebbe
proprietario, giacché il segno della proprietà non è contro la
natura, ma contro gli altri uomini: infatti il segno del nostro
spirito sulla natura ha ben altro significato. Con questo tentiamo
di esprimervi il mondo superiore delle idee, con quello di
imprimervi la prima orbita della nostra libertà.
Nella storia della proprietà comincia adunque la grande rivelazione
umana; l'uomo possedè quale fu: il grado della sua libertà, lo stato
della sua coscienza, le forze del suo pensiero si
manifestarono nella sua proprietà: gli ordini sociali
si innalzarono sulle sue basi, i sentimenti della famiglia si
ritmarono sulle sue differenze: come in un campo chiuso vi
battagliarono tutti i suoi vizi e le sue virtù. E nessun diritto
essendo più ideale, e la sua realizzazione dovendo compiersi colle
forze più brute, le antitesi vi tesserono la più orribile delle
tragedie: il simbolo prevalse quasi sempre all'idea, il fatto violò
il diritto, l'uomo negò l'uomo.
Nella schiavitù infatti si compì il massimo delitto della sovranità
e della proprietà.
L'uomo vi tentò di ridurre l'uomo ad una cosa, lungamente,
estenuandosi contro l'impossibile e deformandosi in questo sforzo,
nel quale padrone e schiavo rimanevano sempre pari.
Per degradare questo bisognava che quello degradasse prima se
medesimo, giacché l'anima umana era eguale in ambedue, e il diritto
soppresso nell'una si contraddiceva nell'altra, mentre la
coscienza dello schiavo restava pur sempre libera e lo schiavo
possedeva come il padrone. Tale proprietà sarà stata ben piccola,
un qualche cosa, che gli altri schiavi gli riconoscevano, che forse
egli stesso aveva creato nascondendolo al padrone come ad un
nemico. perché lo schiavo era un prigioniero: così aveva cominciato
la schiavitù, così soltanto poteva durare. Spesso il padrone avrà
potuto togliere allo schiavo quella piccola cosa, ma la rapina
invece di sopprimere la proprietà non la trasmette che falsamente, e
lo schiavo seguitava come prigioniero a nascondere in qualche altra
cosa il segno della propria libertà.
Ma se in tutti i tempi il padrone fu legato alla stessa corda dello
schiavo, ogni negazione della libertà, da qualunque principio
discenda, conclude sempre alla stessa schiavitù.
Adesso nuove utopie, ripetendo le antiche ed affermando la necessità
dell'assoluta uguaglianza umana, non si accorgono di riprodurre la
schiavitù nel nome stesso della libertà. La parità umana, vera
soltanto nel concetto astratto della individualità, impressa sulla
vita vi soffocherebbe le facoltà e le differenze individuali facendo
dell'uomo uno schiavo incomparabilmente più triste, originale al di
dentro, muto al di fuori.
Ma se fuori della società, o almeno nella sua estrema rarefazione,
l'uomo può appropriarsi e possedere quasi a capriccio, perché la sua
lotta essendo piuttosto colla natura che coll'uomo non ha bisogno di
molto sforzo e marca la proprietà con lievissimo segno, in una
società stabile e complessa sforzo e segno debbono invece aumentare
secondo il grado e l'intensità della vita sociale e allora comincia
a manifestarsi l'opera dello Stato.
Questa soltanto come individualità superiore ha diritto di stabilire
i modi e determinare l'orbita della proprietà. La sua legislazione
non crea quindi il diritto e nemmeno lo consacra nel fatto di un
sopruso compito dalla forza di una aristocrazia sopra una
moltitudine di inferiori, ma pur accettando parte di quel sopruso
afferma sempre una giustizia ed un progresso. Come giustizia valuta
nella proprietà le differenze da uomo a uomo attenuandole in una
astrazione sempre più alta: come progresso impone nelle norme del
presente e contro il suo più immediato interesse qualche altra
norma per conservare l'opera del passato e preparare quella del
futuro.
Nella proprietà i massimi problemi sono quindi i più astratti,
l'eredità delle persone e la personalità delle cose: nell'eredità
il diritto sopravvive all'uomo, nella personalità delle cose il
diritto dà loro un'anima ed una fisonomia. Tale potenza non è però
che dello Stato, individualità vivente oltre i limiti della vita
individuale, che ereditando nello spirito da tutti i morti può
riconoscere un erede a tutti i morenti, e costretto ad esprimersi
per simboli dare se stesso ad una cosa, perché viva negli individui
più lungamente e più alto di loro.
Così la proprietà attraverso i secoli non ha ancora essenzialmente
mutato: come problema, la certezza della sua soluzione è
nell'istinto: come fatto la storia ne raccontò intera la logica e
la sofistica: come legge il suo teorema fu doppio, concepire l'uomo
sempre più astrattamente per meglio valutare i rapporti, imporre
all'individuo il modo di proprietà più utile all'interesse sociale.
Ma questo non poteva essere inteso per quello di cooperatori in una
data proprietà, e neppure per l'altro dell'intera generazione
adunata intorno alla loro opera, ma quale interesse ideale dello
Stato come vita e come storia.
Le leggi della proprietà furono dunque un principio e una
conseguenza della vita e della storia: l'antagonismo fra padroni e
servi, fra capitale e lavoro, meglio che una differenza di forza fra
due classi espresse una necessita ideale maggiore di entrambi. Tale
antagonismo non è infatti che il momento di un antagonismo più alto
fra popolo e popolo, fra generazione e generazione. L'individuo
chiuso nel proprio egoismo si ricusa a quanto lo contraddice:
l'operaio non sa che ogni opera è gravata d'ipoteca storica, e
poiché la vide realizzarsi col lavoro delle proprie mani vede
preponderante la propria cooperazione. Il capitalista, adoperando
come strumento il capitale, forma idealizzata e quindi superiore del
lavoro, s'immagina che il proprio capitale soltanto abbia
spiritualmente creato quell'opera, mentre invece ogni capitale non è
vivo se non perché immerso nella vita nazionale. L'egoismo. del
lavoratore e del capitalista non solo non possono esprimere la
verità del lavoro e del capitale, ma spesso ne contraddicono
l'interesse colla falsità dei calcoli e colla violenza delle
passioni.
Nella proprietà la furia di queste e l'invincibile logica delle
idee resero più intensa la tragedia, che le differenze materiali
della vita atteggiarono sinistramente, e la quantità delle vittime
riempì d'orrore come un campo di battaglia. Quale prima affermazione
dell'individualità dovette quasi sempre essere la pregiudiziale
della forza in tutte le questioni di diritto: come assisa storica
invece fu la condizione assoluta di tutti i progressi spirituali, e
nel loro beneficio giustificò il proprio danno.
Ma se tutti gli egoismi della vita si sfrenano nella proprietà come
dentro un'arena, quello più doloroso, che lottava contro la morte,
vi ottenne la prima vittoria nell'immortalità. Che altro infatti è
l'eredità inventata dall'egoismo della proprietà e consacrata dalla
sua legge? Egoista, l'uomo è costretto ad associarsi qualcuno in
ogni opera, ma uomo vi sente un nemico, quindi l'egoismo stesso lo
spinge a lavorare pei figli, soci nati dalla sua vita e che le
necessità della razza vi rendono parassiti; lasciar loro i propri
beni dentro la propria volontà dovette dunque essere la prima grande
vittoria dell'egoismo. Poi la natura avrà aiutato, e la famiglia
consolidata nella eredità si consacrò nella religione dei morti.
Oggi ancora la sua base è nell'eredità, e il suo più forte vincolo
nella morte.
La personificazione nell'eredità ottenne nel diritto romano la prima
forma perfetta, dalla quale altre derivano moltiplicandosi; vi erano
già stati e vi furono i peculi, la dote, tutta la gamma dei diritti
reali, gradazioni e sfumature nel principio e nei fatti. Quindi le
cose stesse si animarono alla vita delle persone ! persona fu il
tempio, la scuola, l'ospedale, il faro, il campanile: la nave
errante sul mare divenne territorio nazionale, le acque oscillanti
sulla riva.lo continuarono sino ad un invisibile confine dentro 11
mare stesso: il tempio ebbe diritto di asilo,. il domicilio venne
dichiarato inviolabile.
Nullameno la coscienza umana insorse sempre contro l'istituto della
proprietà nello sforzo, se non di rovesciarlo, almeno di diminuire
nel suo dolore sociale il dolore umano.
Ma la proprietà stette.
Le più audaci negazioni contro di essa non oltrepassarono il limite
della forma immobiliare; l'altra, quella mobile, che l'uomo poteva
stringere nella mano o portare seco, fu invece da tutti consentita.
Infatti la proprietà immobiliare non poteva essere costituita che
dallo Stato, individualità suprema e supremo sovrano del
territorio nazionale, che costituendola sapeva già nel proprio
istinto i risultati della sua esperienza. Come individualità
contradittoria a quella degli individui, lo Stato doveva sentire che
i beni immobili non avrebbero potuto dare il massimo frutto se non
esercitati dall'egoismo individuale, nell'illusione di un comando
quasi assoluto e nella passione dell'eredità. Esercitati per
delegazione, nello antagonismo fra interesse e dovere, il loro
reddito sarebbe invece disceso sotto l'ultimo minimo della più
povera necessità,
Questa soltanto fu la ragione dello Stato, perché l'uomo è
così.
In lui il dovere non ha che una potenza negativa: consiste nel non
fare, si compie nell'astinenza: il dovere positivo, se una qualche
passione come l'amore dei figli o l'ambizione della patria non
aiuti, rimarrà senza iniziative, mancherà di fede e di speranza.
L'uomo è fratello ma avversario dell'uomo; socievole, non può fare a
meno della società per realizzarvi il proprio individuo, però
realizzandolo ha per primo bisogno nella lotta cogli altri la
vittoria: quindi il suo sforzo è nella preponderanza. Se l'opera
individuale vi sarà consociata dalla forza superiore della
vita e disciplinata invincibilmente dalla storia,
non si può pretendere che all'opera stessa sia motivo consapevole
l'amore e l'interesse sociale. Anzitutto nell'interesse
dell'individuo effimero l'interesse generale non potrà mai
coincidere: sperare che l'amore invece di avere il centro
nell'individuo lo abbia al di fuori, nella folla, è vanità di
sentimento e di pensiero: volere soppressa la guerra individuale
per pietà dei feriti e dei morti, significa ignorare la fatalità
della vita e della storia: livellare il genere umano nell'identità
rudimentale dei suoi individui, impedendo loro la sconfitta ed il
trionfo delle proprie differenze, vorrebbe dire uccidere il germe
per evitare le disuguaglianze dei frutti.
Quindi tutte le concezioni utopistiche si riducono a due, comunismo
ed anarchia: nel primo il pessimismo consiglia la schiavitù di tutti
allo Stato per impedire il danno della lotta fra tutti: nella
seconda l'ottimismo persuade la morte dello Stato nella fede che
ogni individuo sappia alzarsi alla stessa idea, e come questo
sovrapporre l'interesse pubblico all'interesse personale, sentire e
pensare nella sfera della storia.
Passiamo oltre.
La fatica della storia fu invece nell'umanizzare l'egoismo
purificandolo nelle più immediate idealità.
Adesso l'ascensione operaia rinnova nei miraggi della speranza le
vecchie utopie, e le esigenze delle nuove passioni non sono minori
che in altri tempi, anzi la forza della loro negazione si aiuta
dalla spersonalizzazione stessa del lavoro. Quasi tutta la massa
dei prodotti è oggi anonima; la divisione del lavoro ha come
polverizzata la cooperazione, l'opera non esprime più l'operaio,
che non l'ama non potendo vedere in essa se medesimo. Quindi non vi
sente che il peso della fatica e la leggerezza del salario. La sua
sovranità infantile e plebea soffre già le vertigini dell'antico
dispotismo, si crede assoluto, giudica il proprio come un interesse
nazionale, scambia la somma dei grossi numeri per l'unità. Nega e
sogna.
Ma attraverso tutte le attuali contraddizioni l'individuo moderno
resta l'individuo eterno: vuole prima se stesso, si irreggimenta nei
mestieri o nei partiti, perché vi sente crescere dai contatti la
forza della propria individualità; alla propria contraddizione gitta
fuori dalla verità e dalla vita ogni avversario. L'interesse è la
sua suprema ragione. Meno barbaro di una volta possiede maggiore
quantità di piccole idee e sente meno le grandi: nega la patria per
affermarvi meglio il diritto della propria classe e della propria
generazione; respinge Dio e re senza sapere ancora sostituire in se
stesso il pensiero dell'uno e l'autorità dell'altro: proclama la
fratellanza, ma non vuole altro fratello che il proprio socio, e
questo
socio è sempre egualmente il suo rivale.
E la proprietà davanti a lui è lampada a tutte le farfalle della
speranza, faro a tutti gli oscuri viaggi del pensiero: ma la
rivoluzione moderna dovrà presto finire di spogliarle gli ultimi
privilegi per presentarla libera e nuda. Così tutti saranno uguali
davanti a lei, e la quantità della sua conquista esprimerà la
graduazione delle forze conquistatrici.
In fondo non fu mai diversamente.
A ogni generazione ogni individuo si trova sempre dentro la stessa
lotta, abbandonato dal caso della nascita sopra uno scalino della
vita. Intorno a lui poco può mutare, egli deve vivere, salire,
conquistare, come vizi e virtù gli consentono: grande o piccolo,
forte o debole, il suo problema resta il medesimo. Un'idea ha sempre
trionfato, quando una rivoluzione si compie spostando qualche
gradino della scala; ma tutte le -brutalità e le falsità della
nostra natura vi si raccolgono nuovamente. Se ad una conquista
saranno pochi gli ostacoli della legge, crescerà invece il loro
numero nel numero dei concorrenti: se la vittoria sarà di vantaggi
materiali, le forze più impure vi saranno state le più decisive: se
invece glorificherà un'idea, il vincitore sarà sempre un martire o
un eroe, in ambo i casi la prima vittima dell'idea stessa.
Attraverso tutti i secoli la disparità di ricchezza non fu mai che
una graduazione della più facile forza di conquista in un uomo o in
una classe, e tale rimarrà nel futuro. Oggi le classi non hanno
oramai più privilegi, la corsa alla ricchezza si compie nella
libertà senza che il suo risultato possa molto cangiare: soltanto
la lotta sarà più accanita e il premio più presto consumato.
Infatti nessun proprietario può rimanere più ozioso, e nessun
imbecille può conservarsi ricco; l'attacco è di tutti a tutto, per
conservare tono indispensabili quasi le stesse qualità che per
conquistare. Il danaro, forma astratta della ricchezza,
alleggerisce tutte le altre e ne facilita tutti i trapassi.
Ma il danaro va dritto alla intelligenza e alla volontà senza
attingere mai le cime più alte. Guardate in basso.
La proprietà è impero: nessun debole comanderà quindi nella propria
casa, perché 1 imbecillità è una miseria, la quale precipita verso
le altre; ogni imbecille ha già perduto se stesso prima di perdere
tutto il resto.
Soltanto la proprietà, mobile od immobile, può essere base e difesa
alla vita degli individui nella moltitudine; soltanto il suo
orgoglio, la sua responsabilità, la sua inviolabilità danno la
potenza di dominare se stessi, e quella piccola dignità, che
comincia dal rispetto a un ideale.
Bisogna forse fare di ogni individuo un re per avere in lui un uomo:
la prima sovranità era nel padre, il primo regno cominciò nella
proprietà.
— Scansati, è il mio posto al sole: e così
nac
que la proprietà, commenta Pascal.
— Scansati, non mi togliere ciò che non mi
puoi
dare: rispose Diogene ad Alessandro, ritto
dinanzi a lui, contro il
sole.
Il vecchio cinico non aveva che il lembo di terra, sulla quale stava
sdraiato, ma gli bastò per sentirsi pari all'imperatore.
Più alto il sole era un dono degli dèi.
X
La indissolubilità matrimoniale.
Se il matrimonio rappresenta la sommissione dell'amore alla
giustizia, il divorzio vi esprime una rivolta.
Evidentemente nel numero e nella varietà dei temperamenti le
insurrezioni contro l'inviolabilità del matrimonio, uno dei massimi
istituti sociali, non potevano mancare. La preistoria e la storia
raccontano con troppo lugubre minuzia la tragedia dell'umana
disciplina, perché sia ancora permesso di stupirsi a qualche sua
scena sanguinosa; ogni congegno politico stritola quotidianamente
migliaia di individui inadatti, la delinquenza nella rivelazione
dei più moderni psichiatri sembrò scoprire un composto di residui
animali e patologici. Se l'uomo è sociale per natura, molti uomini
non hanno in se medesimi un grado abbastanza alto di socievolezza
per adattarsi al periodo, cui appartengono, e incalzati dalla forza
cieca degli istinti, aggirati da correnti irresistibili, si
frangono negli argini, che le hanno create. La morte di molti fra
questi inciviliti deriva dalla vita dei più atti e dalla pressione
delle leggi, e che plasmano le forme sociali.
Il sistema storico è inflessibile quanto il planetario,
insufficienze e strapotenze individuali subiscono la medesima sorte:
il genio stesso incarnando la propria epoca vi rimane spesso
solitario ed insociabile, miscreduto prima, tradito poi. Nella
scala delle funzioni tutti i gradini sono insanguinati, una medesima
bufera vi sbatacchia grandi e piccoli, deboli e forti e tutti fanno
sforzi tragici o grotteschi per aggrapparsi e coloro? che lo
possono? soffrono quasi quanto quelli che vi si sfracellano. L'arte
e la scienza, l'industria e il commercio, uccidono forse quanto la
guerra: per uno che trionfa mille soccombono. Ma quella idea, che
gli altri non poterono significare nemmeno coi singhiozzi della
morte, come non spuntò dal suo spirito così non diviene una forza
della sua vita, la quale invece, rimettendo ogni giorno della
capacità a portarla, si schiaccia sotto il suo peso.
Lo spettacolo di questi inesauribili drammi non deve però turbare
l'investigazione delle leggi. Fra lo schianto della tempesta il
pilota può smarrire la propria scienza; ma quella ne verificava
egualmente i teoremi la verità è impassibile.
Nella storia del matrimonio il divorzio non è poi così vecchio.
Voltaire affermando ironicamente che fu stabilito col matrimonio o
tutto al più il giorno dopo, s'ingannò come tanti altri e lo scambiò
per il ripudio. Il mondo orientale, il greco e quello romano non
ebbero altro: il maschio vi era troppo superiore alla femmina, il
marito alla moglie, perché questa potesse avere contro di lui un
simile diritto. La sua personalità più morale che giuridica non
aveva ancora ottenuto riconoscimento dallo Stato, la famiglia
riassunta nell'autorità paterna rappresentava una monarchia
assoluta senza che le differenze di razza e di civiltà, variandone
l'indole, ne cangiassero il principio: i figli stessi non si
contrapposero giuridicamente al padre che molto tardi, e a Roma non
si emanciparono mai interamente.
La donna sviluppando la qualità di mater familias arrivò a possedere parte
della dote e ad essere tutrice contro il privilegio maschile, che la
sottometteva agli agnati; poi la corruzione dei tempi, le abitudini
industriali della vita, la filosofia, la letteratura, soprattutto il
nuovo spirito cristiano le giovarono. Questo aveva affermato
nell'ideale la parità dei sessi,, derivando nel matrimonio
un'uguaglianza di doveri, ma per il suo stesso inevitabile
antagonismo col mondo pagano la prima affermazione delle due nuove
personalità uguali fu il divorzio.
Quindi il cristianesimo, appena assiso nell'impero, cominciò la
grande lotta per l'indissolubilità matrimoniale richiamando
l'assoluta uguaglianza dei sessi e l'assoluta libertà spirituale
sotto la sua assoluta autorità. Per tutto il periodo del
cristianesimo il divorzio perde ogni verità come idea: la Riforma
lo attua ma non lo contiene, la rivoluzione francese lo promulga ma
non lo assimila ai propri principi, il costume ne trionfa, il
numero dei divorzi è ridicolo di fronte a quello dei
matrimoni. Invece di una nuova idea è dunque la
seconda fase di un fatto, la separazione personale: piuttosto che un
diritto appare una concessione.
Nessuna personalità femminile palpita dentro di lui ; in Germania e
in Inghilterra la sua orìgine storica è maschile, il suo più grosso
motivo sta sempre nell'adulterio della donna. L'antico orgoglio
mascolino del ripudio vi predomina, ma a poco a poco tutti gli altri
motivi canonici della separazione vi entrano, e i divorzi aumentano.
La grande famiglia germanica è quella che più ne profitta, la gente
slava ne usa appena, il mondo latino se lo interdice. La tradizione
dell'indissolubilità matrimoniale rimane quindi una gloria del
cattolicismo.
Nullameno vi è una moderna tendenza ad allargare il divorzio, la
letteratura lo protegge, i partiti avanzati lo inscrissero nel
proprio programma.
Certamente l'individualismo e la famiglia attuale hanno grandi
differenze coli'antica: questa per lunghi secoli ascese lentamente,
dolorosamente, alla indissolubilità, e nell'ultimo, forse troppo
facile trionfo di quello finirebbe disciolta, se i suoi vincoli non
fossero indelebili nello spirito umano. Prima della rivoluzione
francese, nel predominio assoluto del cattolicismo, il matrimonio
era scaduto alla giurisdizione ecclesiastica, cosicché non restava
sopra di esso allo Stato che un diritto di censo. Undici secoli di
lotta avevano meritato alla Chiesa tale preponderanza, che non
sopportava opposizione, e il dogma dell'indissolubilità si era
talmente consolidato nell'idea e nel fatto che senza una
rivoluzione, la quale sottraesse lo Stato alla Chiesa, sarebbe
stato impossibile persino il discuterne. La rivoluzione avvenne.
Lo Stato alzandosi al disopra di tutte le religioni dichiarò di
contenerle come fatti storici, mentre affermandosi in una più pura
idealità liberava la propria azione dai vecchi vincoli di classe o
di sistema. Il beneficio fu immenso, la gloria così grande che la
storia ne ha poche di uguali.
Naturalmente un matrimonio civile dovette contrapporsi al religioso
incaricando la giurisprudenza di trovare la nuova formula, che fu
infelice. Il diritto romano aveva già dato due definizioni, di cui
l'una sublime e l'altra perfetta «conjunctio
maris et foeminae, consortium omnis vitae, divini et humani juris
eomunicatio»; «viri et
mulieris conjunctio, individuam vitae consuetudinem continens»:
il diritto moderno lo dichiarò un contratto. L'ascensione gloriosa
dell'idea dello Stato non si verificava in questa formula, nella
quale l'unità della vita rappresentata dal matrimonio veniva
considerata come in ogni altro frammento.
Certo lo Stato difficilmente avrebbe potuto sostituire i riti
poetici del cristianesimo e, mentre questo gli si contrapponeva,
trovare pel matrimonio una formula pura e radiante come la sua; ma
era forse egualmente difficile discendere più basso, e dichiarare
che il matrimonio, questo accordo di due istinti nell'idea
dell'amore universale, questa adesione di due volontà che si
sottomettevano liberamente alla necessità sociale, questa
improvvisa coscienza della serie che si verificava in due singoli
al momento di continuarla, era un semplice contratto come la
locazione. In tutta l'antichità il matrimonio ebbe significazione
ideale, mentre in questa suprema vittoria della filosofia sulla
religione, quando l'ideale dissipando tutte le proprie
rappresentazioni antropomorfiche emancipava uomo e Dio, e il
matrimonio, unica forma di generazione nella quale la ragione
venisse a sconfessare il proprio pessimismo e l'istinto a domare le
proprie violenze, aspettava più alta consacrazione, un'idea
miserabile, una parola ingiuriosa ne furono il battesimo e la
benedizione.
Tale sconfitta sarebbe ben umiliante se la rivoluzione francese
fosse limitata al tempo della sua esplosione, invece di svolgersi
come la vediamo da un secolo e per un altro la vedranno senza
dubbio i nostri nipoti. Simile definizione del matrimonio civile fu
invece una parola di battaglia, che la giurisprudenza gettò sul
viso della religione sentendo forse oscuramente in se stessa, che
nessuna formula infelice poteva compromettere così grande
conquista. Infatti prima ancora che la Chiesa raccogliesse il guanto
di sfida, la giurisprudenza negò negli articoli successivi la
propria definizione. Nel diritto romano come nei posteriori le prime
condizioni di ogni contratto sono la reciproca indipendenza dei
contraenti e il loro dominio sull'oggetto; le maniere della
procedura non mirano che ad impedire la frode e a determinare fin
dove giungano la proprietà o il possesso. Ogni contratto è quindi
rescindibile per lo stesso accordo delle volontà, che lo hanno
stretto; lo Stato non vi interviene che come un'estrema necessità,
la quale forza l'arbitrio dei contraenti all'ubbidienza delle loro
affermazioni.
Il contratto è di diritto privato, invece nel matrimonio fu di
diritto pubblico.
Lo Stato vi entrò non solo nel nome dei fìgli, persone o personalità
che potevano mancare senza che il matrimonio fosse meno valido, ma
come terzo più altamente interessato dei coniugi stessi, e si arrogò
il diritto di stabilire le possibilità e le impossibilità, le forme
ed i casi. La sovranità privata degli individui venne recisamente
negata, giacche una ragione oscura prevalse alla loro ragione
chiaroveggente fissando a priori le circostanze, per le quali un
coniuge avrebbe potuto lagnarsi giustamente dell'altro fino al
diritto di rompere la società coniugale.
Invano l'evidenza dell'illogismo suggerì ai giuristi il
ripiego di chiamarlo un contratto sui generis, senza nemmeno
spiegare il motivo di tale eccezione; ma la colpa fu ancora più del
momento filosofico e politico che della giurisprudenza, se non si
potè allora cogliere esattamente la differenza fra i veri contratti
e gl'istituti sociali. Nei primi come in campo chiuso dominano la
ragione e l'arbitrio particolare: il fenomeno subordinato alla gran
vita sociale vi agisce così liberamente che la sua libertà è una
condizione imprescindibile di questa medesima vita. Lo Stato non
può contraddirlo: il suo veto sarebbe un assurdo,
spiegabile solo storicamente, quando costretto ad una incarnazione
dinastica ne sopportava! i dolori, e confondeva la propria ragione
impersonale coll'effimero capriccio del despota.
Negli istituti sociali invece nulla è arbitrario, ogni individuo vi
appartenne o vi appartiene nella forma determinata dal loro
sviluppo: la sua ragione e la sua volontà vi possono recalcitrare,
ma quella forma è superiore ai suoi sforzi, perché si organizzò
prima e muterà fuori di essi: la ragione singola e l'interesse
privato non arrivano quasi mai a comprenderne la struttura, ad
impararne la storia. Stato e famiglia, proprietà e legge, religione
e patria non sono nemmeno concepibili come contratti: per
discuterli e votarli sarebbe abbisognato possederli prima, il
presente avrebbe dovuto sapere il futuro, e i momenti della
vita sarebbero vaniti nella sua identità.
La Chiesa colpita al cuore dalla dichiarazione del matrimonio civile
fu pronta alla risposta, ma pessimismo e unità cristiana essendo
stati trionfalmente negati, il matrimonio, momento sintetico della
vita, doveva esprimerne la nuova idea positivamente. La Chiesa aveva
posto il centro fuori del mondo, e la rivoluzione senza poterlo
spostare doveva affermare nel mondo una ragione ideale: negare il
cristianesimo non era però negare tutta la religione, come
pretesero con pari accanimento teologi e giuristi. Questi trascinati
dalla logica della definizione e dell'entusiasmo della vittoria
dichiararono che il matrimonio come contratto doveva essere
rescindibile: nuova contraddizione, che conchiudeva
tutte le altre nelle quali il contratto era stato negato. Infatti
questa rescindibilità concessa allo Stato e non ai contraenti, era
soltanto una transazione politica, la quale confondendo diritto
pubblico e privato doveva poi prestarsi alle esagerazioni di tutte
le teoriche. Logicamente la rescindibilità è l'ultimo termine della
libertà: lo Stato non può arrogarsi di sciogliere il contratto che
non potè imporre: solo i contraenti, che ne sono il principio e la
fine, debbono giudicare della sua convenienza. Lo Stato
intervenendo nel loro accordo non è che un intruso, nel loro
disaccordo giudica dove sia il danno o la frode senza intromettere
un tirannico diritto proprio.
Il divorzio non può dunque concepirsi filosoficamente che in due
modi, o come un diritto dei coniugi non concesso ma riconosciuto
dallo Stato, o come un rimedio ai guasti della famiglia, nella quale
lo Stato ha diritto sovrano di intervenire. Nel primo caso è di
diritto privato, nel secondo di diritto pubblico: al di fuori
di queste due concezioni non vi è che tumulti di argomenti e
contraddizioni di prove. Ma qualora il matrimonio sia rescindibile
per mutuo consenso, considerando le difficoltà di giudicare in un
disaccordo dei coniugi, sarebbe forse più savio partito per lo Stato
abdicare un intervento, che nessun diritto giustificherebbe più.
Così resterebbero due sole forme, l'amore e la generazione; quello
un fatto individuale, questa un fatto sociale, giacché colla nascita
nuovi individui entrano nel numero e nella battaglia della Storia.
Lo Stato, semplice amministrazione, scriva dunque nell'interesse
generale i nomi di chi entra e di chi esce: la vita è una bufera di
atomi, che cacciandosi per un canale vengono segnati all'ingresso e
all'uscita.
Il dilemma è inevitabile: o l'individuo enumero ubbidisce allo
Stato eterno, o lo Stato diventa effimero come l'individuo: o
l'amore diventa matrimonio perché l'anima si faccia uomo; o il
matrimonio ridiventando amore emancipa l'animalità, che aveva
soggiogato. La legge inesorabile della Illazione non dà tregua; lo
Stato ne-i gato nella famiglia vi perde il suo organo più
importante, e nella società si ammollisce la compattezza. Questa
verità fu sentita da tutti gli oppositori del divorzio, che ne
sciuparono là forza. Il divorzio contiene infatti nella propria idea
questo effetto, ma l'indissolubilità non sarebbe davvero la legge
suprema della famiglia, se la sua negazione in un codice bastasse a
disciogliere la famiglia stessa.
Ogni legge è l'essenza del fatto e si rivela gradualmente nel suo
sviluppo: la legalità non esprime quindi tutta la legge, spesso anzi
la contraddice, ma finisce sempre per verificarla.
Il divorzio, come non fu un'idea della Riforma e della rivoluzione
francese, così non è un diritto della sovranità individuale o una
conseguenza del contratto di matrimonio, ma un diritto dello
Stato, un rimedio, che questo avrebbe diritto di applicare
all'istituto matrimoniale, se esperienza e scienza si accordassero
nel riconoscerlo efficace.
Ma troppo spesso nella discussione di una legge si ripete ancora
l'antico errore, che separandola dai fatti la considera come un
ideale esterno imposto loro dall'intelletto. Appena nella media,
cioè nell'immensa maggioranza degli individui, si verifica la
costanza di un fenomeno, la legge si alza apparentemente al disopra
di esso per assoggettarlo; e poiché gli estremi della media lo
contraddicono, grava violentemente sopra di loro per trasportarli
verso il centro o impedire che lo scompongano colla propria
fluttuazione. E siccome allineando l'umanità si troverebbe che tutti
gli uomini hanno la medesima statura fisica ed intellettuale,
giacché la loro differenza da individuo a individuo è
appena di una linea, la legge rimane giusta con tutti costringendo
nel nome di questa impercettibile graduazione i più lontani, alti e
bassi, a livellarsi cogli altri. Allorché nello studio della legge
si cerchi dunque il momento di mutarla, filosofia e scienza debbono
giudicare d'accordo coll'istinto e col costume.
Nella questione del divorzio le sofferenze ingiuste di molti
individui non contano, perché l'amore libero miete un numero anche
maggiore di vittime.
La famiglia è l'unico sistema di allevamento umano, che vita e
storia abbiano trovato, l'indissolubilità fu la tendenza e lo scopo
della sua marcia ascendente; la famiglia prepara lo Stato e vi
prepara i propri membri, perpetua la razza, garantisce sino al
possibile l'esistenza, il carattere iniziale dei coniugi vi
tramonta in quello dei genitori. Il suo centro sta alla periferia
nel bambino, il suo interesse è superiore e contradittorio a quello
dei suoi membri, il suo ufficio di allevamento più fisico che
spirituale nella preistoria, più spirituale che fisico nella storia.
Quando lo Stato era liquido, la famiglia era labile: quando lo Stato
si solidificò, la famiglia si stabilì: entrambi sono reciprocamente
indissolubili e hanno indissolubili rapporti coi propri membri. La
parentela, vincolo di sangue, è indissolubile: il nome, vincolo
storico, è indissolubile: il temperamento e la coscienza, che essi
ci hanno dato, sono del pari indissolubili.
La famiglia sola può educare il fanciullo; coloro, che vorrebbero
sostituirle lo Stato, contraddicono psicologia e storia; in quella
capovolgono le leggi dello spirito mettendo l'idea prima del
sentimento, in questa vorrebbero ritornare alle primissime fasi,
quando la famiglia non ancora organizzata aveva bisogno della tribù
per l'allevamento dei bambini.
Tutti i rapporti fra i suoi membri sono indissolubili, si è sempre
egualmente genitori, figli e fratelli, paternità e maternità non si
lasciano e non si riprendono: la maternità fìsica fu l'atto di
un'ora, la maternità spirituale dura tutta la vita. L'amore, libero
fin che resta animale, diventando umano si fa schiavo; le sue
conseguenze sono le sue catene. Ecco la sua gloria; specialmente
quando si muta in martirio.
La paternità è invece spirituale nella coscienza e nella legge:
evidentemente un fatto fisico la iniziò, ma la natura o Dio non
vollero che potesse essere precisato. L'uomo non è padre, crede
soltanto di esserlo: egli non può sapere che di essere stato
l'amante di quella donna, quindi si costituisce padre del suo
bambino per la fede in lei, che gli dice: tu, solamente tu ! Per
tale spiritualità egli è dunque il capo della famiglia, l'anima più
alta e più tragica: spesso alleverà i figli d'altri, quasi sempre
l'amore della donna lo avrà ingannato, e giustamente, perché essa
avrà mentito nell'interesse del bambino dandogli per padre il
proprio marito. Il padre dà quindi il nome, il sangue, anche non
dandolo; è la forza che alimenta il gruppo domestico, l'educatore
che nel fanciullo prepara il cittadino, mentre la donna nel bambino
non può preparare che il fanciullo.
La sovranità nel gruppo è quindi paternità, e questa ancora più
indissolubile della maternità appunto perché spirituale soltanto.
L'amore della madre è tenerezza che consola, quello del padre
severità che perfeziona: si ha bisogno di amare la madre, ma la
necessità anche più profonda di stimare il padre.
Per un orfano la morte della mamma sarà stata la prima sventura; la
morte del padre invece avrà nella vita del figlio tutto mutato,
costringendolo anzi tempo ad essere la guida di se medesimo e
punendolo atrocemente negli errori, che il padre gli avrebbe
risparmiati.
La famiglia considerata in se stessa, al disopra dei suoi membri,
scinderebbe dunque col divorzio la propria unità; tutti i popoli la
espressero confusamente nei riti matrimoniali: perché rinunciarvi
adesso? Il divorzio in questo caso dovrebbe essere un progresso nel
sistema di allevamento, un ideale più alto.
Nessuno fra i sostenitori del divorzio osò ancora di rispondere a
questo argomento: provatemi che il divorzio perfeziona nei coniugi
il carattere dei genitori, e concedo il divorzio. Infatti la
famiglia avendo per scopo supremo i figli, la sua struttura e la sua
legge debbono essere preordinate all'interesse di questi: qualunque
cosa lo contraddica vi diverrà un vizio, nessun diritto di coniuge
verso l'altro potrà mai prevalere alla unità del loro dovere di
genitori.
Al solito questa tendenza al divorzio non significò che una fra le
tante negazioni dell'individualismo moderno, ancora troppo dispari
fra volontà e pensiero. Il bisogno di affermare la propria libertà
contro ogni limite e ogni potere suscitò tutta una folla di false
teorie liberali; l'illusione, che la legge fosse soltanto
nell'intelletto e che la volontà sola potesse realizzarla, provocò
nella rettorica democratica questa nuova tesi della liberazione dal
giogo domestico: si voleva amare senza le responsabilità della
generazione, essere cittadini senza quelle dell'allevamento
famigliare. Invece tutto vi è libero ma ugualmente necessario; la
vita passa creando e struggendo, schiaccia i genitori nell'interesse
del figlio e punisce ritmicamente la ingratitudine di questo colla
ingratitudine di un altro figlio.
Credere che la famiglia si perfezioni col divorzio non è un errore,
ma una menzogna: nella famiglia i coniugi non esistono più essendo
il loro carattere assorbito dalla loro funzione di genitori; se vi
esistessero, la famiglia non sarebbe più tripla, padre, madre,
figlio, ma quintupla coi due coniugi. Qualunque dramma, insanguini
o spezzi la loro vita, non deve prevalere contro quella della
famiglia: poi il dramma è egualmente in tutte le leggi, in tutte le
funzioni.
Il divorzio non è che la ribellione dei coniugi al loro dovere di
genitori.
La legge, concedendolo, premierebbe questa incapacità morale a
danno di altri figli.
Certamente la legge non può impedire a questi coniugi di unirsi
fisicamente e di generare nuovi infelici, ma la legge non ha né la
potenza, né il dovere di impedire il peccato: deve invece mantenere
nell'interesse di tutti alto e puro l'ideale. Ai figli delle false
famiglie potrà sempre dire: la vostra sventura non fu mia colpa; a
quelli, dei quali avesse invece consentito ai genitori l'abbandono
col divorzio, non saprebbe rispondere.
Oggi quasi tutte le nazioni hanno però accettato il divorzio. Tale
argomento non manca d'importanza, appunto perché ne ha troppa in
basso. Politicamente la sua spiegazione è nell'intensità e nel modo
dell'individualismo moderno: la sovranità democratica, per ora
troppo spesso plebea, adula se stessa nella volontà e nella
libertà, la nuova assisa sociale oscilla fra le rovine dell'antico
e le incompiute costruzioni del nuovo, un ottimismo grida buono
l'uomo e capace di frenare in se stesso tutti gli istinti animali,
senza coazione di legge: una fretta ci precipita avanti, un
disprezzo ci attenua nell'anima anche quelle autorità, delle quali
non possiamo gittare il peso,
Fu sempre così, né potrebbe essere altrimenti.
In ogni rivoluzione si nega il centuplo di quanto si debba
distruggere, e poco dopo si riafferma tutto quello che fu negato
soltanto per facilitate la distruzione necessaria.
La famiglia diventò indissolubile e tale resterà: il costume
correggerà i divorzi, un grado più alto nella coscienza e
nell'intelligenza persuaderà tutti che i genitori immolando il
proprio dovere alle passioni di coniugi commettono il più vile ed
osceno dei delitti. Padre e madre non sono più che due schiavi
davanti al bambino: essi lo evocarono a questa inutile ed
inconsolabile tragedia, essi udendolo piangere misteriosamente si
guardarono negli occhi e si sorrisero in una promessa di amore più
profondo per quel piccolo smarrito. Non espiava egli già l'effimera
ebbrezza del bacio, che lo aveva creato? Davanti a lui si sentirono
quindi uniti irreparabilmente, indissolubilmente: quel bambino era
l'opera loro, involontaria, ma fatale: non uscirebbe dalla loro
vita nemmeno morto. Bisognava quindi farsi un dovere
dell'inevitabile, una gioia dei dolori salienti dal sacrificio come
un fumo da un'ara, pensare, agire per questo piccolo, che esigeva
non sapendo ancora domandare. Abbandonarlo nella vita sarebbe più
tristo che averlo ucciso prima, perché dal ventre uscisse come
un'immondizia: affermare il diritto della propria vita contro la
sua, sarebbe ancora più sciocco che ingiusto.
L'amore non è che generazione, il matrimonio che allevamento; chi
li ha accettati non può più ricusarli, perché il futuro affondò già
l'artiglio nel presente espiazione per i genitori.
è trionfo ed espiazione per i genitori.
Il Signore chiese a Caino:
— Che cosa hai tu fatto di tuo fratello?
— Sono io forse il suo custode? — rispose tremando il fratricida.
Ma Adamo seguì Caino nella maledizione e lo custodì.
XI
La pena
Tutti i grandi miti religiosi cominciano dal dramma del peccato e
svolgono la vita come una prova di pena: oggi, dopo tante vanterie
di teoriche positiviste, il sentimento e il concetto della pena
sono ancora interi nell'anima moderna.
Il diritto criminale, superiore ad ogni altro, poiché pone tutto
l'uomo di fronte a se medesimo e nel cospetto dell'umanità, parve
subire negli ultimi tempi la più umiliante degradazione. Le nuove
teorie antropologiche, cominciando dal negare il libero arbitrio e
annullando così di un sol colpo la morale, giudicarono la
delinquenza soltanto una retrogradazione nativa, o una conseguenza
di una qualunque inferiorità di struttura o di funzione
nell'individuo. Il bene non era dunque che una convenienza di
ordine individuale e sociale, senza contenuto, mutevole non soltanto
di modi ma di essenza nelle stazioni dell'individuo e nelle epoche
della civiltà. In ogni uomo la volontà, determinandosi per
prepotenza di appetito, non era più che un recipiente vuoto e
diafano, senza coperchio e senza fondo: la nostra ragione, non più
parte alla nostra volontà, si componeva un equilibrio instabile di
idee e di sentimenti: il nostro spirito era la somma non il
principio della nostra vita, e misterioso anche alle nuove teorie
appariva e vaniva avendo atteggiata la fisonomia di un vivente, ma
senza avergli dato una personalità.
Quindi l'uomo era soltanto un'animale più alto, che l'evoluzione
dell'animalità bastava a spiegare: la sua società si adunava per
concordia d'istinti, le sue idee uscivano come farfalle dalla
sensazione, la sua coscienza agiva come un centro coordinatore di
tutti gli altri centri nervosi. Il suo linguaggio che possiede il
verbo, la sua logica che si muove nell'astrazione, tutte le scienze
che decompongono la natura, la sua arte che ne ripete la creazione,
non erano che conseguenze di un qualche bisogno nella difesa e
nella riproduzione della vita.
Tale antica contraddizione riappare quasi nuova: un esame acuto di
alcuni fatti prima trascurati le diede sapore ed importanza,
nell'insofferenza di tutti i vincoli acuita dalla recente
emancipazione la' discesa all'animalità sembrò una liberazione dalla
tirannide dei vecchi dogmi: nella smania dell'uguaglianza
democratica la livellazione dello spirito nella natura fu l'ultima
vittoria.
Ma tutto questo giuoco di scuole e di libri non mutava la
costituzione spirituale dell'individuo e della società: entrambi
seguitavano a vivere nella sfera delle idee e la storia a compiersi
come un misterioso sillogismo, l'uomo sentiva di avere un'anima e
l'anima di avere una coscienza e la coscienza di essere libera.
Tutti i rapporti fra uomo e uomo, generazione e generazione, erano
di diritti e di doveri, distinti sempre, antagonisti spesso ai più
vasti interessi e ai più intensi bisogni;
l'uomo non poteva compiere
un'azione senza giudicarla in se medesimo innalzandola ad un
universale, gli uomini indissociabili fra loro si univano e
cooperavano sotto un reciproco giudizio morale. I loro codici per
approssimarsi all'ideale giustizia esprimevano i rapporti umani non
della persona concreta ma dell'astratta, pur nell'astrazione tenendo
conto delle fisonomie e delle funzioni individuali: i diritti
consacrati dalle leggi erano aspetti della personalità, che la lunga
fatica della storia aveva potuto rilevare: la giustizia, base e
scopo della vita umana, si compiva dentro inevitabili
contraddizioni, fra errori d'intelletto e vizi di cuore, ma gli uni
e gli altri soffiando come un vento di bufera sulla fiaccola, che
arde invisibile nel fondo di tutti gli spiriti, non ne
raddoppiavano che lo splendore.
Il diritto penale era una gloria del genio italiano. Le sue scuole
antiche e moderne avevano brillato come un faro sull'Europa, e
anticipando sulla nostra legislazione modificavano altrove le leggi
perché la giurisprudenza, questa politica della filosofia e questa
filosofia della politica, era forse la più caratteristica fisonomia
dello spirito italiano. La grande anima del diritto romano
sopravvive ancora in noi.
Il diritto penale, che spuntò nel diritto civile di Roma, aveva
attinto la più alta perfezione nell'idea cristiana: la morale
soltanto poteva infatti alzarlo di grado, non essendo il diritto
penale che una esteriorizzazione della morale. Il giudizio morale è
in noi un modo della ragione. Il nostro giudizio si ferma ad una
valutazione, che spesso non dobbiamo nemmeno esprimere, o esprimendo
non potremmo munire di sanzione, quando siamo pari nel grado;
dispari invece, nel rapporto da superiore ad inferiore, come fra
padre e figlio, il giudizio conclude nella condanna o
nell'assoluzione.
Ma come ogni delitto comincia in un peccato contro una legge, che
offendiamo in noi stessi prima ancora che nella sua forma esteriore,
così ogni tribunale è un riflesso di quello, che portiamo nella
nostra coscienza. Talora vi può essere conflitto fra la legge
profonda dello spirito e quella superficiale della società, fra il
tribunale visibile e il tribunale segreto, ma al disotto della sua
antitesi comica o tragica l'unità rimane infrangibile.
Invece un'altra riducibile contraddizione contrista il diritto
penale contendendogli i metodi della scienza e la verità della
morale. La legge deve fatalmente nel codice classificare delitti e
delinquenti isolandoli e quindi falsandoli: il giudizio
d'istruttoria nello sforzo di ricostruire la scena delittuosa è
costretto a servirsi solo di frammenti, che ricomposti mutano
fisonomia e significato; il processo svolgendosi sui dati
dell'istruttoria vi aggiunge i problemi dei testimoni, che non
sanno o sanno male, s'ingannano o ingannano, con tutte le differenze
e le insufficienze della, loro natura. L'ambiente del tribunale
non è più quello del delitto, il duello fra accusa e difesa snatura
argomenti e parole: finalmente l'accusato è un mistero. Egli può
essere colpevole, ma se lo è, l'essenza della sua colpa ha ragioni
misteriose anche per lui: il delitto come ogni altra azione è un
filo in una corda, un anello in una catena. Tutta la vita
individuale e sociale di quell'uomo vi passò e decise, ma come
conoscere, riassumere, giudicare una vita? Legge e scienza vi sono
del pari impotenti, e tuttavia la legge deve applicare una pena.
Tale equazione, inesatta aprioristicamente, peggiora poi per
influenza di infiniti altri elementi esteriori, senza che lo
spirito umano possa mai sperare d'impedirlo.
Come il delitto è un peccato, che la nostra volontà realizza fuori
di noi, così la pena legale è una esteriorizzazione dell'altra, che
sopportiamo dentro, non già soltanto quale compimento logico della
legge stessa o un motivo per spingere altri al suo adempimento, ma
come una cicatrice rimasta dentro lo spirito nel punto ove la legge
fu ferita, e che seguita a sanguinare finché il pentimento non la
chiuda compensando l'offesa. La quantità di questa non è dunque
nella grossezza dell'azione, ma nell'intensità del torto, che
sentiamo di avere commettendola; il suo danno esteriore può essere
piccolo o grande, reparabile o irreparabile, decidere quasi sempre
della pena, perché la legge nel proprio giudizio va dal di fuori al
di dentro, e spessissimo non può penetrarvi, tuttavia il danno non
è la misura del delitto.
La legge giudica come può, condanna come deve, poiché la pena è un
momento inseparabile nella legge come nel delitto; il giudice nel
giudizio non è più un uomo bensì un rappresentante dell'umanità; la
condanna chiude il circolo del delitto rimettendo il colpevole
dinanzi a se medesimo e all'ideale.
Se la legge non condannasse moralmente non sarebbe legge: se il
peccato realizzandosi esteriormente non incontrasse la pena,
muterebbe natura; l'errore intellettuale si sconta nell'inutilità
della sua fatica o in una più greve fatica delle sue conseguenze;
l'errore morale si espia nella pena dello spirito, la quale ci mette
in conflitto colla logica della nostra vita, poi colla pena della
società costretta a porsi in conflitto con noi e ad invertire contro
di noi i propri rapporti.
Il prigioniero nella cella è l'immagine del rimorso chiuso nella
sua coscienza.
Ma il rimorso può anche non essere, e allora il delitto fu soltanto
formale: o il condannato essere innocente, e allora lo spirito
umano gli si inginocchia davanti singhiozzando del proprio errore e
della propria impotenza. Invece la pena è ancora più necessaria
nella legge che nella società.
Infatti la sua efficacia pubblica è ben scarsa.
Le statistiche criminali, che come tutte le statistiche pretendono
di rilevare un segreto della vita, al solito non esprimono che
conclusioni arbitrarie: la morale di un luogo o di un tempo non può
essere significata da statistiche, le quali cifrano soltanto alcuni
fatti e dalle cifre traggono affermazioni sulla totalità della
vita. L'abbassarsi di certe categorie delittuose non prova un
miglioramento nell'animo umano, perché la sua perversità può
crescere altrove, non lasciando conteggiare i guasti della propria
opera: non è vero che la frode sostituita alla violenza sia sempre
un progresso, non è vero che la diminuzione del numero delle
condanne constati un rinnovamento nella coscienza pubblica. La
criminalità è uno degli esponenti, non il maggiore e il più esatto
della malvagità umana: nella criminalità stessa la graduazione
d'importanza, dovendo badare più al danno che all'intenzione,
falsifica la gamma della responsabilità: i processi contengono
l'alea di un giuoco per la giustizia e per gli accusati: una
maschera copre il volto di questi, una benda gli occhi di quella.
Così fu e così sarà.
La pena nella propria realizzazione soccombe alla medesima
antitesi.
Dovrebbe, servendo alla difesa sociale, preparare nel condannato le
condizioni di una guarigione morale, e non può: la segregazione
dalla
vita comune, la coazione dei modi della vita car
ceraria,
l'impediscono. La segregazione inebeti
sce e consuma lo spirito, la
comunanza propaga
il contagio dei peggiori: la condanna appare
quasi
sempre ai condannati come una partita
perduta per inferiorità di
fortuna o di condotta
nel giuoco, l'avvenire fuori del carcere
presenta
difficoltà maggiori di quelle già inducenti al de
litto,
dentro al carcere l'inutilità della esistenza
vi sopprime colla
speranza la forza di qualunque
trasformazione. Oramai tutti i
sistemi furono
sperimentati senza che le conclusioni mutassero;
i
più perfezionati dettero i peggiori risultati:
come dolore, i
condannati soffrono più nei nuovi
reclusori che nelle antiche
galere: come eleva
zione spirituale, tutti i mezzi di educazione
fal
lirono nella vanità o nell'ipocrisia. -
Il "migliore di tutti i modi era il lavoro, perché il più prossimo
alla normalità della vita, ma contro di esso insorsero le avarizie
del lavoro libero, e il governo non osò; di tutte le condizioni,
quelle all'aria aperta nell'opera agricola, erano le più propizie,
ma gli ostacoli a questa specie di mezza libertà sono ancora
troppi. Intanto i reclusori rappresentano un raffinamento
intellettuale della pena e uno dei soliti insuccessi della
pedagogia.
Mantenete il condannato vicino alla vita: invertite le sue
abitudini di uomo il meno possibile, siate severi senza collere e
pietosi senza abbandoni; trattatelo da uomo che deve assolutamente
provvedere a se stesso, permettetegli tutte le libertà compatibili
colla prigionia, tenetelo sempre di fronte al proprio problema: un
sistema carcerario non può fare di più.
Educare, migliorare artificialmente, con modi scolastici, è
impossibile; eliminare dalla pena il dolore non si può e non si
deve, ma questo sia più spirituale che corporale. Difficilmente il
condannato ritornerà un uomo: tuttavia basti alla società che la
forma della pena non glielo abbia impedito.
La pena è il ponte, che la legge gitta al delitto perché valichi il
proprio abisso.
Se la Società cessasse di avere organi di giustizia, la pena
esisterebbe egualmente fuori e dentro di noi; la legge della vita,
violata dal delitto, gli rimane egualmente superiore e lo doma
smentendone i calcoli, suscitando dalla sua opera stessa le
opposizioni, che debbono limitarla e punirla. Vi è nella vita una
giustizia profonda, infallibile, che nessuno può formulare, che
l'arte sorprende qualche volta e rivela in un quadro: nessuno vi
sfugge. L'espiazione raggiunge sempre il colpevole, quasi sempre la
pena è un taglione spirituale; il pubblico non ne avverte i
momenti, si lascia ingannare dagli aspetti, scettico e sdegnoso
proclama stesso, quasi con iattanza, l'impunità di certe colpe, che
scontano invisibilmente la loro effimera vittoria.
Se così non fosse, se una pena non ci lacerasse dentro e un'altra
non ci attendesse fuori nella normalità stessa della vita violata,
come, dove, la legge avrebbe potuto inventarla? perché ad integrare
le insufficienze apparenti dei suoi giudizi l'istinto ed il
pensiero umano si sarebbero sempre appellati ad una giustizia
invisibile?
La pena è una necessità logica dello spirito, forse il più profondo
bisogno della nostra colpa: ci è indispensabile soffrire per creare,
ogni parto di pensiero o di utero strappa grida di angoscia; più
indispensabile ancora ci è il soffrire dopo la colpa per sentirne
l'orrore, per risalire dal dolore alla vergogna e risorgere nel
pentimento. Coloro, che nel male veggono una malattia soltanto, non
sanno bene che cosa sia la salute: coloro, che nel delinquente
riconoscono un irresponsabile, ignorano che libertà e
responsabilità sono la stessa idea in due parole, e che senza questa
idea l'uomo non è più un uomo.
Adesso è cominciata una reazione contro l'invasione padulosa
dell'ultima scuola criminale; l'illogismo dei suoi principi appare
anche ai più miopi nei guasti dei risultati: se non vi è né libertà
né colpa nell'uomo, se la società deve soltanto difendersi dai
delinquenti e non può punirli, non deve nemmeno giudicarli. Il
giudice sarà quindi un medico, che dal -di fuori indovi nera il di
dentro diagnosticando nella inutilità di una cura non consentita né
dalla natura né dalla scienza.
Si sa che la medicina finisce alla diagnosi: invece l'antropologia
criminale si arresta un po' prima, essendo ben più difficile il suo
esame per caratterizzare dagli organi l'azione e indovinare dal
corpo l'anima. Poi a che pro tutto questo? Che cosa è più la legge
sociale, se gli individui non sono in se stessi spiritualmente
liberi? Quale può essere la responsabilità della legge in un mondo,
che non avrebbe più morale? La difesa sociale contro i delinquenti
per essere logica deve interrogare il proprio utile, e allora
questo esige la soppressione di coloro, che non possono più essere
utilizzati; se la legge indietreggia, ciò vuol dire che vi è ancora
in essa il principio spirituale della responsabilità e della pena.
La logica è inesorabile.
Passiamo oltre.
La legge del diritto penale non potrà mai conciliare le proprie
antitesi nel giudizio e nella pena; ma questa legge copre come
un'egida la società e brilla nel fondo dell'anima come una lampada
scarsa. Alla sua luce vediamo salire dall'oscurità le tentazioni
del peccato e comporsi, prorompere armate le figure del delitto:
nulla può spegnerla, né le bufere della superbia, né il pianto della
paura: di notte e di giorno quella luce veglia in noi, forse non si
smorzerà nemmeno nella tomba.
Il colpevole fuggito per le ombre della legge si sente illuminato al
di dentro da questa lampada, che gli mostra tutto il delitto nelle
origini impossibili alle significazioni della parola, nei modi più
inavvertiti ed atroci, nei risultati più imprevedibili e contrari.
Indarno egli ha vinto davanti al tribunale della legge, più indarno
quello della società ignora ancora: egli sa. La menzogna è
impossibile nella sua coscienza; il suo occhio non può sottrarsi al
fascino di quella luce, e il quadro del delitto appare dentro un
incantesimo, dal quale egli stesso non uscirà più.
Il rimorso non è che lo spavento di questo quadro, e la confessione
una necessità di questo rimorso. Egli parlerà: parlando è come se
chiuda gli occhi: mostrando a qualcuno quel quadro gli sembra di
non essere più solo a sopportarlo. Che importa il tradimento? Se i
delinquenti non avessero questo bisogno di confessarsi, i processi
non sarebbero quasi possibili: il cristianesimo indovinò il dolore
dell'anima umana, quando fece della confessione, questo grido di
spasimo, la prima parola del pentimento, e vi rispose con una
segreta divina assoluzione.
Il colpevole solo può distruggere la colpa in se stesso, egli solo
darsi una pena pari al delitto; la legge criminale è
come una legge di guerra, veste la propria milizia
e la divide in ordini, ma la virtù del combattimento non verrà dalla
legge.
L'anima parla ed ascolta altrove.
Tutte le sue leggi ne fanno una sola e tutte le sue pene un solo
dolore: come il suo pensiero ha bisogno di sapere, il suo cuore ha
bisogno di giudicare: come nell'arte l'anima è teatro creatore e
creazione, così nella colpa è giudice, accusato e carnefice. Deve
soffrire per capire, espiare per risorgere.
Il mito del peccato originale, che fa della vita una pena, è ancora
la più profonda interpetrazione del dolore umano.
XII
La beneficenza.
Sul limite di ogni sistema politico si leva negando l'anarchia,
dentro ogni legge economica è nascosto il principio della
beneficenza, perché nessun governo può organizzare tutta la vita
nazionale, e nessuna distribuzione legale della ricchezza
compiersi nella giustizia, o compiendosi soddisfare alle esigenze
della vita umana.
Questo profondo sentimento dell'insufficienza in ogni principio e in
ogni forma fu la ragione istintiva della critica e l'inesauribile
motivo della tristezza, che gravò come un'ombra sopra tutta la
storia; invano nei giorni più fulgidi il pensiero delirò quindi
d'orgoglio e il cuore si inebbriò di speranza, mentre la natura
pareva già penetrata sino al fondo dalla investigazione filosofica
e l'arte drizzava sui campi della conquista i capolavori del proprio
genio. Un vinto rimaneva pur sempre dopo ogni vittoria e una
ragione durava intatta nel vinto: ai vincitori invece la vittoria
scemava nei risultati, senza che da presso o da lungi per la
distesa della moltitudine la vita fosse davvero mutata, come non
muta il deserto per lo spostamento delle sabbie, che il vento
solleva in piccoli poggi o livella nuovamente sulla immensa
pianura.
Nell'anarchia il pensiero protesta contro se medesimo e, dissolvendo
nella critica le affermazioni più necessarie, vi trova come una
disperata compiacenza della propria grandezza: poi dalle rovine un
sogno si leva a ricostruire un ricovero, perché la vita più forte
del pensiero mantiene sempre le stesse esigenze e prosegue nella
creazione istintiva. Vi è quindi un sognatore entro ogni anarchico,
come un poeta in tutti i sognatori: ma la poesia della negazione è
amara. Se li critica, che distrugge, è forse la più forte, non
basta egualmente a se stessa; impossibile non passare col pensiero
attraverso l'anarchia, più impossibile ancora rimanervi
nell'azione.
Se qualcuno vi resta, l'anarchia non è più che un nome falso e
l'anarchico un pazzo, il quale vuole costruire nel vuoto.
Di fronte all'anarchia, che non riconosce alcuna verità nei
principi e nelle forme delle leggi, sta la beneficenza, che
accettandole come necessarie le integra coll'arbitrio del cuore per
operare nei loro interstizi. Ma se l'anarchia, pura critica, non
può compiere alcuna opera, la beneficenza, puro sentimento, si
consuma in un'opera istintiva ed irriflessiva: poi sollevandosi
anche essa al pensiero per atteggiarsi in un sistema ricade invece
nei limiti e nelle insufficienze della legge. La sua logica cessa di
essere infallibile, il suo occhio si vela, il suo orecchio si
ottunde: non coglie più a volo il dolore, non riconcilia più la vita
colla vita.
La prima verità della beneficenza, il suo principio e la sua forma,
imprecisabile ed anarchica, sono nella carità. Nessun poeta potè
mai definirla; non è amore perché l'amore è generazione, non pietà
perché al dolore la morte giova quasi sempre più della vita, non
dovere perché nessuna logica pesa sulla sua spontaneità: spesso non
ha bisogno di fede, quasi sempre ignora la speranza.
Tutte le religioni ne fecero una virtù, tutte le filosofie la
ricondussero nella categoria dell'amore.
Eppure la virtù non esiste senza lo sforzo, e l'amore per essere
tale deve scegliere.
La carità invece può faticare nell'opera, ma nessuno sforzo è nel
suo sentimento; essa non sceglie tra i dolori, non ama l'infelice al
quale soccorre, lo dimentica quasi nel beneficio stesso, senza un
rimpianto lo vede allontanarsi nella morte.
Che cosa è dunque? non so dirlo: come l'anarchia è la reazione
critica del pensiero contro tutte le sue costruzioni, la carità è
una reazione del cuore contro il dolore della vita, e oltrepassa
l'orbita dell'uomo, discende agli ordini più bassi della natura,
sale per le sfere più alte del paradiso, dove la poesia sogna e la
religione canta.
Nel mondo antico, quale è arrivato sino a noi per le ombre e la
vacuità della storia, la beneficenza non sembra avere molto
operato; forse nella sua lotta colla natura l'uomo impegnava ancora
più se stesso che nella lotta sociale, fors'anco l'invarcabile
confine delle classi rendeva più difficile il sentimento dell'umana
solidarietà. Fra padroni e schiavi il rapporto era come fra uomo e
cosa; lo schiavo non aveva pel padrone che un valore patrimoniale, i
padroni riuniti in una aristocrazia esercitata da un'assidua
contesa d'impero non potevano intendersi nella pietà. Tale
sentimento li avrebbe ancora più umiliati che consolati.
Certamente dal fondo dell'anima la carità in certe ore avrà parlato,
perché la sua voce sola è dolce nella tragedia umana, ma la sua
opera non avrà potuto facilmente oltrepassare i limiti della parola
e del soccorso causale ed immediato. Infatti la carità mira
piuttosto al dolore spirituale, mentre la beneficenza si sforza a
diminuirne le cause nella differenza degli ordini sociali.
La nostra erudizione non sa gran cosa sulla beneficenza antica come
si provvedesse ai malati senza famiglia, ai bambini senza genitori,
ai feriti quotidiani, ai pazzi, ai ciechi, ai muti. L'ospitalità
vi fioriva come una poesia e una virtù, ma aveva complessi motivi di
relazioni commerciali e politiche.
Dell'India si sa che aveva ospedali pei cani e non per gli uomini.
Le prime formule moderne della carità squillano come una diana
nelle lettere di S. Paolo: al solito il suo pensiero vi si manifesta
rapido, violento, preciso, abbagliante. Il principio della sua
carità è in Dio. Il povero è Gesù medesimo, la carità deve obliarsi,
non avere altra gioia che nel dolore lenito, non attendere
ricompensa, umiliarsi dinanzi all'umile, essere una poesia ancora
più che una virtù, una passione più che un pensiero.
Ma; prima di S. Paolo la carità aveva ottenuto più mirabile ed
efficace condensazione nella parola e nell'opera.
Il cristianesimo vi appuntò quasi tutto lo
sforzo del proprio genio nei primi secoli per sconfiggere tutte le
forze del vecchio mondo. Dal sentimento ingrandito della carità
derivò l'azione della beneficenza: non contenta di consolare
l'anima, o staccandosi nello sforzo di tale fatica, la carità
ridiscese ai corpi, ai malati, ai bambini, ai vecchi: il pessimismo,
che faceva uscire dal mondo tanti cuori ritraendoli come in una
città invisibile, preparò nei sacerdoti e nei monaci la prima
milizia della nuova opera; chiese e conventi furono ricoveri,
la maternità spirituale della religione riempì nei cuori i
vuoti della vita e della morte. Sul principio fra cristiani non vi
era nemmeno più aristocrazia, e una solidarietà lirica o tragica
affratellava gli spiriti.
Poi tutta la Chiesa perseguitata dallo Stato divenne un ospizio.
Quello fu il tempo eroico della carità e l'inizio della
beneficenza, che adesso la nostra civiltà deve nuovamente
trasformare.
Eppure la carità cristiana, così bella d'entusiasmo e d'abbandono,
vedendo Gesù in tutti i poveri e dentro ogni dolore una prova
imposta da Dio, restringeva l'umanità nell'orbita della propria
fede. L'antagonismo delle religioni determinato dall'antitesi dei
dogmi doveva finire alla separazione egoistica dei nuovi credenti:
invano le formule più divine venivano ripetute, e i santi e gli eroi
tratto tratto le attuavano nel sacrificio, mentre una aridità si
distendeva sui cuori e tutte le passioni dell'odio vi si scatenavano
ancora. Infatti il cristianesimo costretto ad armare i propri
confini per non confondersi nella storia, perseguitato prima,
persecutore poi, si disdisse, si contraddisse discendendo
dal-magnifico sogno della prima universitalità alla lenta cattolica
conquista el proprio impero.
Un principio e una originalità di altre forme si introdussero nello
Stato; anzi più la carità degradava e più la beneficenza si
specializzava negli istituti. Ma trasformata in leggi e munita
d'organi questa cadde in tutte le falsità e le insufficienze
legali: l'egoismo vi si mostrò coprendo colla maschera dell'amore
divino il viso bestiale, il delitto vi mercanteggiò l'espiazione, la
vanità vi cercò nella durata del beneficio un trionfo dì
immortalità. Il clero depositario e governatore vi introdusse i
brogli del commercio e le frodi dell'eredità; come sempre
nell'irresistibile deformazione di ogni idea, che si realizzi, la
beneficenza finì quasi col contraddire la carità.
Naturalmente il motivo religioso prevaleva sul motivo umano in ogni
lascito l'anima era più ricordata del corpo, ma il povero nel lungo
rappresentare Gesù aveva ormai persuaso ai benefattori la
legittimità della propria miseria. La parificazione in Dio, anziché
diventare uguaglianza umana, forniva un nuovo pretesto a
giustificare l'ingiustizia delle più crudeli differenze. Per
ottenere l'ultimo trionfo bisognava forse spezzare nuovamente
l'orbita cristiana affermando senza Dio, magari contro di lui,
l'uomo uguale all'uomo, e che la legge superiore alle antitesi
delle funzioni nella vita aveva il dovere assoluto di sottrarre
alle conseguenze micidiali della sua lotta coloro, che non potevano
lottare.
Così la carità umana ricomincerebbe oltre la divina.
La grande rivoluzione francese se ne incaricò: adesso tale è il
problema.
Della carità non è qui il caso di parlare: come prima, come sempre,
è il sentimento più profondo ed oscuro dell'anima umana: sale dalla
coscienza del dolore e va al dolore come la poesia alla bellezza,
la scienza al mistero, la filosofia all'astrazione; è la
solidarietà dell'uomo coll'uomo nel punto stesso, sul quale la vita
dividendoli non può separarli, dentro la lotta che li costringe ad
esaurirsi l'uno contro l'altro nel segreto delle anime inviolabile a
tutti fuorché al dolore e all'amore.
Ma la carità è anzitutto unità; se appare alla religione, questa
pretenderebbe indarno di contenerla, così sottile ne è lo spirito
ed universale il principio, anzi le forme rituali la mortificano più
spesso ancora che non la perfezionino nell'opera, come accade alla
poesia nel verso, del quale non può fare a meno, nel quale non può
tutta adagiarsi.
La beneficenza cristiana era quindi stata tutta nel potere della
Chiesa. Il benefattore sceglieva col beneficio i modi, la sua
volontà durava eterna nel testamento, l'atto giustificava
l'intenzione. Siccome la beneficenza non può uscire nella vita dalla
forma del dono e nella morte da quella del testamento, accadeva fin
troppo spesso che la donazione era soltanto un atto d'ipocrisia e
di vanità. Spesso anche il testamento non esprimeva che la suprema
incertezza del testatore; nella gamma della parentela l'uomo ama
perché ama, inconsciamente, o non amando accetta senza discutere la
solidarietà del proprio gruppo, al di fuori di questo cominciano
invece tutte le difficoltà dell'elezione. È difficile, per non dire
impossibile, eleggersi un erede per merito o per amore; intuizione
ed esperienza ci rendono pur troppo pessimisti, si sente un'avarizia
d'interesse in ogni complimento, una cattiva speranza nella
devozione, s'indovina, si indaga e si indietreggia finendo col
rimanere soli. Quindi si presceglie un'opera pia piuttosto per la
disperazione di non potere proseguire la propria vita in qualcuno
che per una vera pietà del dolore umano. Per sentire l'umanità
nella sua folla impersonale e amare la sua angoscia anonima bisogna
che l'anima s'innalzi sulle cime più alte.
Il Cardinale di Bichelieu invece diceva: ho imparato ad amare i
gatti dopo aver conosciuto gli uomini.
La Chiesa dominando dal medioevo sino ai nostri giorni l'immenso
patrimonio delle opere pie non seppe mai coordinarlo nemmeno nel
proprio spirito religioso, quindi la sua legislazione fu come
frammentaria: provvide rudimentariamente a quasi tutti i bisogni,
anche più delicati e segreti, ma la sua amministrazione rimase al
disotto di ogni critica, e il suo governo aperto alle invasioni di
tutti i brogli e di tutte le violenze.
Adesso la beneficenza, diventando funzione dello Stato succeduto
alla Chiesa, deve organizzarsi in un sistema di leggi, che integri
quello della lotta per la vita. Nessuno nell'interezza delle proprie
forze fisiche e spirituali deve essere aiutato, nessun dramma
domestico bastare alla giustificazione di una simile ingiustizia: i
genitori debbono provvedere ai figli, i figli ai< genitori; se
negli uni e negli altri la vita tradisce il dovere, la beneficenza
non può soccorrere, altrimenti il beneficio diventa premio o sprone
al difetto.
Non bisogna per una falsa pietà del bambino o del vecchio che lo
Stato succeda nelle funzioni della famiglia: invece deve integrarla
nella sua insunicienza contro il male incolpevole. La beneficenza ,
si svolgerà quindi per tre ordini: coloro che non possono ancora
lavorare, i bambini: coloro che non possono seguitare nel lavoro, i
malati: coloro che non possono più lavorare, i vecchi.
Naturalmente queste tre categorie ne contengono ognuna molte altre,
e i bisogni dovranno specializzarsi coi rimedi, ma il principio non
muterà.
Questa beneficenza, come diritto dell'individuo e dovere dello
Stato contraddice all'antica.
Per tutto il corso della storia lo Stato espresse la lotta per la
vita nella sopravvivenza dei più forti e nell'unità spirituale della
nazione; ora una più alta coscienza gl'impone la difesa dei deboli,
ma solamente è debole chi non ha in se medesimo le forze della
natura e intorno a sé la difesa della famiglia. Per ogni altra
differenza di ricchezza, di forza, d'ingegno, di fortuna lo Stato né
può né deve intervenire.
La carità soltanto serba un tale diritto: guai ancora alla carità,
se il suo sentimento non sia davvero infallibile!
— La bella parola di Gesù «la tua mano sinistra non sappia il dono
della tua mano dritta», l'altro precetto egualmente bello « la
carità deve chiudere gli occhi e aprire le braccia» non sono veri
che nell'eroismo. La carità è al disopra della legge, però la sua
opera compiendosi nella vita vi produce conseguenze soggette alla
critica; e se non falla davanti a se medesima prodigando soccorso
agli immeritevoli, o raggiunge anzi la perfezione preferendo i
colpevoli agli innocenti, nella società la sua azione può
determinare un pericoloso aumento di mali.
La recente troppo facile larghezza nel soccorso ai bambini, ai
malati, ai vecchi, non ha prodotto altro vero risultato che di
rilassare o tagliare gli ultimi vincoli domestici. Per qualche
bambino, che poteva essere incolpevolmente senza scarpe e senza
colazione, si istituirono società di patronato e refezioni
scolastiche, che furono premio all'egoismo dei peggiori parenti,
giustificazione alla negligenza degli altri, mentre il fanciullo si
sentì nel cuore diminuire il dovere di figlio. Poi dai bambini il
danaro ricadde sui vecchi, giacché col moltiplicarsi dei ricoveri
crebbe l'ignominia dell'avarizia domestica nei figli, che non
vollero più provvedere ai padri.
Ma la rettorica democratica seguita a vantare tali ricoveri come
tanti eden; invece i vecchi sono così insociabili che non possono
vivere insieme, e la peggior vita domestica ridiventa per loro
preferibile a quella del migliore ospizio. Non li avete mai visti?
Non ricordate di aver parlato con qualunque? Prima l'impossibilità
di scacciarli li rendeva tollerati in una vita tollerabile.
Poi in questa sostituzione del dovere di Stato al dovere domestico
non è possibile mantenere alcuna misura; la vanità dei preposti al
beneficio cresce dal numero stesso delle concessioni, la politica
vi si mescola, i ricordi di carità cristiana aiutano, i clamori
delle utopie sociali incalzano, si afferma che ad ogni infelice
basta essere tale per avere diritto al soccorso, che il decoro
pubblico non può permettere la oscenità pietosa di certi scandali,
che la società è madre di tutti, il bene sempre bene.
Invece una funzione legale non è e non può essere che nella
precisione della forma: al di là si corrompe.
Nel presente periodo industriale, fra tanta ascensione di idee e di
uomini, la morale non superò certamente l'antico limite cristiano.
Nel volgo l'incredulità fu quasi sempre emancipazione del dovere, lo
scherno alle pene e alle ricompense d'oltre tomba rese più facile
l'irresponsabilità del male acuendo sino allo spasimo la bramosia
dei beni immediati: l'uguaglianza della sovranità politica,
pareggiando nel costume classi ed individui, accese in tutti più
viva la passione della vanità, così che il non raggiungere la
comune eleganza fu più doloroso del sapere il proprio padre in un
ricovero di mendichi.
Non poteva essere altrimenti: ogni idea, ogni periodo sociale ha le
proprie bassezze.
Non vi è più aristocrazia, ma la dignità umana scema
nell'interpretazione di se stessa senza che nemmeno i partiti
d'avanguardia ne diano l'allarme.
Infatti quale di questi fece ancora della beneficenza una questione
pregiudiziale nel proprio programma, mentre pei poveri, pei più
infelici, che tutti fingono d'amare e così pochi amano, vi è già un
patrimonio di un miliardo e mezzo, col quale potrebbero quietarsi le
più stridule miserie? Tale patrimonio frazionato, polverizzato in
un numero folle di motivi e di istituti, non serve oramai più che ad
alimentare la propria burocrazia; le sue rendite asservite per
quasi tre quarti dalle spese di amministrazione vengono per l'altro
quarto distribuite col capriccio e nel capriccio; le delegazioni
comunali e provinciali non vi portarono che una indifferenza di
egoismo individuale o una qualche subdola passione d'intervento
politico. Nessuna legge vi potrà provvedere, se non liquidi tale
patrimonio gettandolo sul mercato per trasformarlo in rendita
pubblica. E adesso il mercato è forse abbastanza ricco per
sopportare la prova.
Ma anche in questo caso sarebbe difficile rifare la distribuzione
del grande patrimonio per provincie e per comuni provvedendo nella
più necessaria misura alle tre grandi categorie della miseria
umana, il bambino, il malato, il vecchio. Egoismi di religioni e di
città insorgerebbero brandendo tutte le bandiere, perché
nell'egoismo tutte le idee e tutti i simboli ridiventano pari. La
filantropia non vi ha forse sostituito la carità?
Gettate una rosa nel pantano, lasciatela putrefare, e raccoglietela
ancora per farne una decorazione; ecco la carità diventata
filantropia. La carità, dimentica se stessa, cerca il dolore per
consolarlo, non vuol sapere che è invincibile; non distingue fra
dolore e dolore, si abbandona alla prima pietà, sorride contenta nel
primo conforto. La filantropia invece fu la virtù di un vizio in
coloro che negavano la religione per odio dei suoi torti storici
senza avere penetrato il suo segreto. Quindi visse nell'esteriorità:
come un mantello di teatro coperse le macchie sugli abiti degli
attori, che si ritiravano dalla vita: diventò blasone alle vanità
bisognose di far dimenticare la propria origine, compiè
l'apostolato fra le mercuriali, profittò nella nascita come di un
motivo idilliaco, si drappeggiò nelle gramaglie come in un abito di
gala. Atei, ribelli, democratici la vantarono come una modernità,
ed invece era più antica della carità, se l'ombra fu prima della
luce.
Nel vecchio proverbio la mano che dà è al di sopra di quella che
riceve; nella filantropia invece il gesto fu disegnato più
largamente nell'aria perché si vedesse più da lungi la mano del
donatore. Poi la ricchezza industriale gonfiandola ne fece una delle
forme più caratteristiche della propria epoca: nulla potè quindi
resisterle, l'antica delicatezza si ottuse e la carità si nascose.
La politica parve aiutare riconoscendo nella filantropia come una
decima, che la ricchezza pagava alla miseria; i ricchi, i gaudenti
ne furono allegri, perché tale decima davanti alla loro coscienza
giustificava molti torti, calmava indefinibili inquietudini. Essi
sapevano fin troppo che la legittimità della loro ricchezza non era
senza peccato e che il suo comandò non esprimeva abbastanza né un
pensiero, né una volontà. Al disotto la nuova immensa massa umana
aveva già dei clamori di gorgo, che si apre e si chiude
voracemente: al disopra il cielo era vuoto.
La borghesia costretta dalla propria fortuna ad assumere l'impero
della storia ne aveva soltanto il genio industriale; la sua bella
tradizione era troppo lontana, il suo eroismo rivoluzionario già
consunto, il costume senza nobiltà, il carattere senza quella
rigidezza, che essendo limite al di dentro può segnarne altri ed
altri.
La filantropia fu la sua carità.
E volle quindi che del proprio danaro non un suono, non un raggio
andasse perduto. Il trionfo laico contro la Chiesa aiutò nondimeno
la trasformazione della beneficenza: brefotrofi, ospizi, ospedali,
istituti si rinnovarono in una lindura, con una agiatezza insperata,
ma il povero meglio trattato fu più straniero di prima, mentre la
filantropia non amava, non curava davvero che i filantropi. Il
perfezionamento esteriore dei modi se giovò ai corpi, non giunse
alle anime, la nuova milizia sostituita a quella antica della
carità si compose soltanto di impiegati e di professionisti.
Quale e quanta sia stata davvero nei risultati la vittoria della
filantropia sulla carità è difficile accertare nell'abbondanza
stessa dei documenti per la loro poca sincerità; ma fra ricco e
povero forse la distanza spirituale non si allungò mai più
disperatamente. Che avranno pensato, sentito gli abbandonati, i
malati, per quelle dame, che credendo di dover loro un qualche aiuto
avevano bisogno di acuire, di allargare la gioia della propria
festa, profondendovi tesori e distraendone per loro solo pochi
centesimi? A chi i più riconoscenti, nei quali lo spasimo condensa
il bisogno della devozione, avranno potuto mandare dal cuore il
muto grido, l'indicibile parola?
Purtroppo il dolore soltanto va al dolore; solamente gli occhi, che
hanno pianto, veggono negli altri occhi le traccie delle lacrime.
La filantropia è la carità di chi non offre, non ama, non pensa: non
si può chiederle più di quanto possa dare, non bisogna condannarla
nella sua opera, nella nullità del proprio segreto. Come tutte le
idee istintive e le forme spontanee, essa è una virtù nella
fisonomia di un'epoca, nel carattere di una classe; borghese ed
industriale non doveva avere le belle doti della aristocrazia e
della religione; poteva più facilmente allargare la borsa che il
cuore, dimenticare la vanagloria del dono che sentirne
l'insufficienza.
Il suo egoismo ingenuo, la sua prodigalità cailcolata, la sua
volgarità superba sono essenzialmente del nostro tempo, ma forse
non lo oltrepasseranno.
— Perché sorridi tu sempre così a quella vec
chia
signora, che non ti ha mai dato un soldo?
— chiedeva sull'uscio
della chiesa un mendicante
ad un compagno.
— Ma il sorriso è così triste e mi fa così bene !
Forse nessun giudizio somiglia così a quello di Dio come il giudizio
di un povero. .
XIII
La lotta per la vita.
Questa lotta, alla quale Darwin potè quasi dare il proprio nome,
arrivando ultimo in una serie di scienziati a rinnovare il concetto
della natura, e che dalla natura fu costretto malgrado ogni riserva
a riconoscere nella storia, è davvero la legge della vita nell'una e
nell'altra? L'evoluzione sostituita alla creazione risolve nel
nostro spirito il problema delle origini e delle apparenze? Quale è
il posto che l'uomo occupa nell'universo? Quale davvero in lui il
pensiero inevitabile di se stesso?
Il suo primato pareva avvinto a quello della terra: bisognava che
esso fosse il centro della vita, perché lo spirito umano potesse
darle una coscienza e la regalità di un pensiero capace di affermare
l'infinito e di conoscere Dio. Tutte le antiche grandi religioni
esprimono questo concetto: nella nostra terra solo si rivela il
segreto della creazione, sul suo teatro soltanto l'uomo svolge il
proprio dramma dentro l'evidenza di una legge, e nella rivolta della
sua volontà a questa legge medesima. Il resto, all'intorno, nelle
solitudini dell'azzurro, attraverso gli oceani delle stelle, tra le
fiamme dei soli e sotto l'ombra delle notti, non è che decorazione.
Quando Galileo delucidando la parola di Copernico detronizzò la
terra, la Chiesa cristiana si sentì mortalmente ferita e colpì, ma
troppo tardi, il bestemmiatore: la decadenza della 'terra trascinava
fatalmente quella dell'uomo. Quindi le coscienze urlavano di paura,
mentre le menti più temerarie si gettavano passionatamente innanzi a
scoprire qualche nuova verità nell'universo così dilatato. E le
ipotesi fiorirono intorno alla nuova idea.
Disperso Dio, ridotta la terra ad un satellite del sole, l'uomo
ricaduto nella serie animale, parve che lo spirito stesso
naufragasse nella natura: questa, solamente, più misteriosa ancora
del vecchio Dio, più potente di lui, eterna,
infinita, creava, la vita e le sue forme, non arrivando che sino
all'uomo; ma anche in lui, il più perfetto fra tutte, il pensiero
non era che un risultato di alcune combinazioni, effimero,
inintelligibile, senz'altra verità in se stesso che la inutilità del
proprio giuoco.
Però tutte le religioni e tutte le filosofie resistettero con
uguale sicurezza a questa distruzione.
La pluralità dei mondi, raddoppiando il mistero del nostro, non
tolse il significato nella sua natura e non prevalse sulle leggi del
nostro spirito: la graziosa puerilità della genesi del mito mosaico
vanendo sotto i soffi della critica, che sembrava accanirsi
goffamente con una violenza di uragano contro il tenue prodigio di
una bolla di sapone, lasciò intatta la pregiudiziale di una logica
realizzata del mondo e quindi preesistente come necessità; Dio
spogliandosi delle vesti umane che l'uomo gli aveva gittato sopra,
si allontanò senza che la sua idea tramontasse nel nostro pensiero,
e la nostra azione potesse sottrarsi al giudizio della legge
incancellabile nella nostra coscienza. Poi scienza e religione si
composero in pace; questa seguitò ad affermare oltre il limite, al
quale quella si arrestava; l'una proseguì le indagini dentro al
mistero con eroica, caparbietà e vantandosi tratto tratto di
averlo dissipato; l'altra seguitò ad accendere nel mistero tutte le
proprie fiaccole, gridando trionfalmente alla rivelazione
nell'agitarsi di ogni ombra.
Adesso l'uomo si ripete ancora: chi sono dunque? quale è il mio
posto nell'universo?.
La pluralità dei mondi, sulla quale mediocri letterati della scienza
e piccoli poeti dell'arte hanno tessuto tante fole recenti,
riproducendovi la nostra esistenza nella privazione o nella
esagerazione di qualche elemento, non pare più agli ultimi studi
capace di ospitare la nostra vita, e nemmeno di produrne un'altra
simile a quella della natura terrena. Non si crede più al numero
infinito delle stelle, ma il loro immenso arcipelago, tagliando dal
cerchio equatoriale della via lattea, è una massa unica, finita, nel
mare senza sponda dello spazio sotto l'occhio del tempo: si era
notato, e lord Kelvin lo dimostrò coi calcoli, che se il numero
delle stelle senza grandi variazioni nelle distanze si
moltiplicasse oltre quelle visibili o delle quali si può avere un
ragguaglio diretto, la forza di gravità verso il centro dovrebbe
produrre un movimento più rapido di quello, che le stelle hanno
generalmente. Il nostro sistema solare si trova quasi al centro.
Senza dubbio bisogna riferire a questa prima posizione il
meraviglioso armonico intreccio di condizioni propizie alla vita
sulla terra, e quindi i rapporti della sua massa, del suo volume, la
distanza dal sole, l'inclinazione dell'asse sulla eclittica, la
distribuzione dei mari, la formazione dell'atmosfera, l'elettricità
atmosferica, per la quale soltanto sono possibili le forme
superiori della vita. Nessuno degli altri pianeti, insiste il
Wallace, antico darviniano, presenta un'armonia egualmente fortunata
di combinazioni: Marte troppo piccolo non può contenere vapori
acquei, Venere gira sul proprio asse di un tempo uguale a
quello che impiega nel suo movimento di rivoluzione intorno al sole.
La terra sola era dunque l'area predestinata alla vita; nessun
pianeta, le cui fasi non siano sincrone a quelle della terra e il
cui sviluppo si effettui troppo lentamente o celermente, potrebbe
accogliere la vita.
Così tutta l'esistenza del sole come propagatore di luce e di
calore fu necessaria alla nostra possibilità sulla terra.
È vero?
Al pari di ogni scienza l'astronomia afferma o nega troppo
facilmente in se stessa; le osservazioni sullo stato e sulla natura
dei pianeti non sono che sensazioni filtrate da un telescopio e
rettificate da un ragionamento analogico, nel quale è difficile,
forse impossibile, sottrarci alle suggestioni della vita, quale
soltanto la sentiamo in noi e fuori di noi: quindi le conclusioni si
alzano sempre dalla stessa ipotesi, che quanto appare nel raggio
del nostro migliore esame sia identico a quanto ne è fuori, e il
dubbio delle lontane apparenze si possa risolvere colla
somiglianza di aspetti circostanti.
Certamente questa smentita della più nuova scienza alla scienza di
ieri, e che pare un'eco sonante dagli intercolonnii della bibbia,
turberà molte coscienze tranquille nella pluralità dei mondi, per la
quale la vita migrava di pianeta in pianeta, senza sapere mai il
proprio scopo, senza una relazione cosciente da stazione a stazione.
Questo infinito materiale, restringendosi alla immensità di un
cosmo galleggiante nello spazio e quindi limitato nel tempo lascia
agli occhi del nostro spirito riapparire il problema religioso
dell'infinito, nel cielo trapunto di astri come un velo sulla faccia
di Dio, mentre la terra così piecola, povera, giovane, unica matrice
della vita, spettatrice impassibile alla tragedia dell'uomo,
ridiventa il centro e la ragione dell'universo avendo preparato
nella propria creazione un corpo umano allo spirito perché vi
esprimesse una coscienza.
È vero?
L'uomo non pensa l'universo che in se medesimo e non può non
sentirsi il suo centro: malgrado la realtà della materia
involontariamente la spiritualizza; poiché l'ombra del mistero lo
recinge, egli fa dell'universo visibile un' altra ombra simbolica,
dalla quale traspare l'inconoscibile. La logica del nostro pensiero
ne mette un'altra nell'universo, e la nostra logica ha bisogno di
una finalità: il nostro spirito, che sente in se stesso le antitesi
della natura, umanizzò la terra nelle prime concezioni religiose, e
adesso vi ritorna disperato della propria abdicazione nella materia.
Dio sembra ancora lontano, ma l'ombra dell'uomo prolungandosi
nell'infinito tornerà ad incontrarlo.
Eppure è difficile nell'altero concetto, che la terra sia il centro
vitale dei cieli e l'uomo il motivo della terra, risolvere
l'equazione di un così immenso universo col nostro minimo pianeta
predestinato ad essere soltanto il nostro piedistallo. La prodigiosa
logica delle leggi astronomiche appare troppo grande come premessa
a quella che informa la vita terrena, la testimonianza degli astri
troppo inutile sul nostro dramma. Se uno spirito concorda
l'universo non può essere umano: se ci è impossibile comprendere
l'universo nella nostra logica, non ci è meno impossibile sospendere
la sua alla nostra esistenza riducendo le stelle ad una decorazione
delle nostre notti e il sole ad un focolare dei nostri giorni.
Una nuova idea, la più grande apparsa nella storia della scienza,
rivoluziona da pochi anni la fisica tentando di cancellare il
vecchio concetto della materia e la materia stessa. Dietro le
ultime conquiste della elettricità si afferma che la materia non è
se non una manifestazione dell'energia elettrica
universale, uno dei modi, coi quali gli
elettroni agiscono sui nostri sensi: che la forza d'inerzia inerente
alla materia è soltanto di origine elettrica, non già nell'atomo ma
neli-'elettrone, il quale dentro la luce potè essere constatato
mille volte più piccolo dell'atomo d'idrogeno sino a ieri il più
minuscolo; che non solo l'energia elettrica fa tutto, ma è
tutto. L'universo diventa quindi uno spazio, nel quale
un numero infinito di elettroni, piccoli turbini roteano
incessantemente isolati cornei nelle forme dell'energia radiante il
calore e la luce, o raggruppati più o meno strettamente o
stabilmente sino a formare gli atomi materiali. Alle evoluzioni e
alle migrazioni degli elettroni corrispondono le manifestazioni di
tutte le energie note, cosicché la materia creduta sinora il
sustrato del mondo fenomenico è appena una delle sue forme come la
luce e il calore, un modo della forza, una larva dell'essere.
Il verbo creatore, che la scienza credeva di aver ucciso nella
bibbia, ritorna dunque col suo soffio a dissipare tutte le teoriche
rivelando un'altra volta la creazione.
Ma tale magnifico inno idealistico, che dalle ultime conclusioni
della scienza compone nella ridda di un turbine: per un vuoto spazio
infinito il più adeguato dei simboli al nostro spirito
incessantemente agitato nell'immensità di un destino misterioso, è
vero? L'atomo è scomparso veramente nella propria diminuzione? Che
cosa è questa energia senza una materia se non un puro spirito? E il
fenomeno dell'estensione incancellabile nell'apparenza della natura
e nella necessità del pensiero come spiegarlo ancora?
Tale spiritualizzazione della materia è antica in tutte le
filosofie, e poiché la scienza si muta anch'essa in filosofia,
appena vuole dall'esame disgregato dei fatti salire coordinando le
spiegazioni in un sistema, un impeto d'illazione la trascina quasi
sempre nell'ebbrezza trionfale della eterna irraggiungibile verità,
e non si avvede che la sua logica distrugge il fatto per serbarne
soltanto l'eco nella parola. Il mistero della creazione questa volta
diventerebbe più profondo. Come il nostro pensiero è lo spirito
della vita, l'energia è bensì lo spirito della materia, ma uno
spirito divisibile, calcolabile, che ripete quindi in se stesso i
caratteri della estensione: non possiamo sorprendere il segreto
finale dei suoi modi, ma sappiamo che non è il pensiero e nemmeno la
vita. Senza la materia ci sarebbe impossibile pensarlo, invece
cogliamo le sue qualità come quelle della materia sottoponendole
egualmente al nostro intelletto: un'uguale irreducibile antitesi è
nella sua e nella nostra unione colla materia. Come il nostro
pensiero ha bisogno di un corpo, la materia ha bisogno di una forza
e l'uno e l'altro compongono la vita, che la forza non basta a
produrre e il pensiero a spiegare.
Che cosa è essa infatti? Nessuno potè nemmeno cominciarne la
definizione; ne constatiamo gli atti, molti processi, alcune leggi,
risalendo dal suo esame nel nostro pensiero, ma il principio,
l'essenza, ci sfuggirono sempre e ci sfuggiranno. Nella sfera della
metafisica l'eternità del mondo non ci presenta minori difficoltà
della sua creazione, giacché il problema muta diventando quello di
Dio: nella sfera della scienza invece il dibattito fra creazione ed.
evoluzione si presenta facile per la logica insostenibilità del
concetto evolutivo. Forse più che. le antitesi insolubili nell'idea
della creazione fu la ribellione ai miti e ai dogmi religiosi, che
decise del favore, col quale la scienza sembrò accogliere la teoria
della evoluzione negando di conoscervi soltanto un processo
descrittivo e spesso arbitrario. Il lungo dibattito
sull'individualità delle specie, irriducibili fra loro o salienti da
una prima forma rudimentale a differenziarsi su ogni punto nella
più miracolosa varietà, non era che secondario.
Nella natura il passaggio della materia organica alla inorganica non
appare visibile: un abisso sembra separare questi due
mondi, la vita incomincia senza precedenti, in mezzo a tutte le
forze, e senza che alcuna di esse o la loro somma bastino al suo
miracolo. Invece dall'esame scientifico spingendo più innanzi nel
mistero le ipotesi filosofiche sino all'affermazione
che la vita sia in ogni punto o in ogni modo della materia, la
difficoltà si dilata, giacché la vita, è fatalmente in dividuazione
pel nostro pensiero, e il principio della individualità non può
uscire dalla materia. Per lo spirito ogni vivente è un individuo,
che ha una materia, un moto e una forma: quindi un differenziamento
dovette avvenire prima nella materia producendovi tale moto e tale
forma, ma in questo distinguersi della materia una necessità
costringeva i suoi atomi a disporsi in certi modi che ne producevano
altri sino alla genesi di un organismo, e da questo salendo ancora
per la gamma della vita sino all'altissima individualità umana.
Una logica preesiste dunque sovrana in tutte le forme, che sono se
stesse appunto per averla realizzata: noi la cogliamo ammirando
dall'esame esteriore della loro struttura, ma il nostro pensiero è
costretto a preammetterla per sfuggire alla ridicola conclusione,
che non essendo in essa la causa intima degli organismi, questi
siano il risultato di azioni e reazioni esteriori, senza logica
alcuna.
La teoria dell'evoluzione infatti, annunziata da Darwin come una
abbreviazione semplicista nel pensiero creatore, che avrebbe
iniziata la creazione lasciandola nello sviluppo alle proprie forze
e ai propri accidenti, doveva per la sincerità stessa della
illazione negare ogni logica preordinatrice per concludere ad un
inintelligibile processo spontaneo di meccanica, cominciato
egualmente nel mistero, proseguito fra i contraccolpi del caso. La
frenesia dell'unità, questo pericolo permanente in tutte le
scienze, sospingeva maestri e discepoli: le ipotesi si accumulavano
sulle ipotesi. Si cominciò dall'affermare che le specie, considerate
come diverse e dai naturalisti riunite in un medesimo genere,
avevano un'origine comune e non formavano che tante varietà: che
tutta la fauna e la flora avevano potuto provenire per la via di
una generazione regolare da quattro o cinque forme primitive in
ciascuno dei due regni: che tutti i vegetali e tutti gli animali
derivavano da organismi primitivi somiglianti: che gli esseri
viventi non contenevano alcun principio speciale, ma era una
semplice trasformazione della materia organica: che l'animale era
soltanto materia raggruppata in un certo modo e l'uomo un animale
con caratteri speciali, sufficienti a spiegare 11 suo spirito come
un prodotto della materia. Invece ad ogni passo la osservazione
medesima dei fatti accumulava nuove prove contrarie: la variabilità
e la variazione non bastavano nemmeno a spiegare la possibilità di
nuove specie, l'unione dei sessi impediva nel proprio tumulto la
fissazione dei propri caratteri, la cernita non spiegava né lo
sviluppo né la riduzione degli organi: l'eredità non garantiva la
durata delle modificazioni, la lotta per la vita non esprimeva
sicuramente la vittoria del più forte.
La recente teoria incapace di segnare le strade per le quali sarebbe
passata l'evoluzione degli organismi, non poteva nemmeno assicurare
la sua realtà: nella paleontologia non vi era un solo fossile di
transizione fra i grandi tipi del regno animale: nella geologia
tutti i tipi ancora vivi furono presenti sino dalla prima epoca, e
nessuno altro è poi apparso, e la loro costanza ha stancato i
secoli, mentre il numero di questi rinculando non basterebbe alla
possibilità del loro apparire successivo; nella embriologia le
dissimiglianze si contrappongono sicure alle similarità; nella
filologia la voce dell'animale non può arrivare alla parola
dell'uomo. L'evoluzione lungi dallo spiegare il prodursi degli
esseri doveva addentrandosi nello studio della natura affermarvi ad
ogni passo una nuova legge contraria, sopprimere ogni logica o in
questa accettare insieme l'idea e la forma, l'individuo e la specie:
cancellare l'individualità o riconoscerla inconfondibile.
Che le specie si toccassero in differenze minime come gl'individui
di una stessa specie, ciò non permetteva di concludere alla loro
trasmutabilità: che il nostro intelletto non sappia dove e come lo
spirito abbia avuto la visione della vita prima ancora che la natura
ne realizzasse l'immane prodigio, e sia questo il più insolubile
dei problemi: che il fondersi del pensiero nel cosmo plasmandolo ed
animandolo ci appaia come il più tormentoso dei misteri, non basta a
consentirci la sua negazione. Il mondo dura dinanzi ai nostri occhi
e alla nostra logica come un miracoloso capolavoro, che c'impone
una ammirazione spaurita nel confronto di noi stessi, pur costretti
a sentirci dentro di esso come il solo pensiero e l'unica coscienza.
Se l'idea e il tipo non preesistono, la teoria dell'evoluzione deve
spiegare che cosa nella formazione di un corpo ne proporzioni il
disegno e ne coordini la struttura, passando per la successione
embrionale di molte forme sino all'assisa trionfale di una sola: se
la perfezione di ogni organismo e la sua fisionomia, non sono la
realizzazione di un'idea, saranno il risultato illogico del caso.o
di un pensiero incontrato per via. Nella prima ipotesi risorgono
tutte le obbiezioni alla creazione dal nulla; nella seconda questo
pensiero, che dalla semplicità della materia sospingendola,
arrestandola, dividendola, sintetizzandola', le darebbe tutta
la ricchezza e la bellezza della vita, è ancora più inintelligibile
del pensiero creatore, perché creerebbe egualmente senza un
disegno e senza una necessità. E di dove avrebbe preso la forma? Se
era dentro di lui, l'evoluzione è una creazione: se non v'era, come
si produsse? Supporre nella materia tale potenzialità significa
mettervi lo spirito senza il coraggio di confessarlo: sostenere la
creazione come un risultato esteriore anziché la realizzazione di un
pensiero e di una logica, è un dissolvere la logica stessa del
nostro pensiero nel nulla: trovare inaccettabile la creazione
dei tipi e degli individui, che si moltiplicherebbero
rimanendo inconfondibili, per dichiarare intelligibile il
prodursi di tutte le forme naturali da un primo
differenziamento
nella materia, senza modelli né dentro né fuori, senza una logica
che vigili l'esecuzione, senza una estetica che ne proporzioni le
parti, senza un motivo che decida del passaggio da una forma ad
un'altra, accettando invece tutte le forme, come la fioritura di
una sola forma primordiale, è anche più inaccettabile.
Ma se l'evoluzione non sarebbe così che una generazione spontanea,
inintelligente e tuttavia perfetta, la creazione invece presuppone
l'unità di un pensiero e di una volontà: ed ecco forse la ripugnanza
istintiva di molti scienziati e l'ostacolo teoretico di tutti i
filosofi materialisti: entrambi temono la resurrezione del vecchio
Dio dal fondo della creazione, giacché la forza della illazione
innalza la logica dalla unità alla personalità. Infatti il
problema, se questa sia davvero un perfezionamento di quella, è già
risolto anticipatamente nel nostro spirito costretto a sentire
nella propria persona il grado più alto dell'unità. Il problema
della creazione ne evoca dunque uno più profondo: il creatore è
nell'opera o fuori?
L'evoluzione, che doveva colla propria parola sostituire il verbo
misterioso della creazione, ha parlato come i bambini, che per
analizzare raccontano e per spiegare inventano; sarebbe fin troppo
facile classificare tutti i paralogismi della sua dialettica,
segnare il ritorno delle entità scolastiche nel suo gergo, i
capricci nella impalcatura delle ipotesi sorgenti l'una dall'altra,
la volgarità del suo metodo, che risolve i problemi col sopprimerli
sostituendo quasi sempre una descrizione dello sviluppo alla
spiegazione del processo. Ma il mistero della vita non si rivelerà.
La creazione può essere simultanea e successiva, i tipi come gli
individui avere origini separate e comuni, i loro caratteri
rinnovarsi o durare dentro le generazioni, la loro differenza
essere o non essere una superiorità, mentre dietro gl'individui,
oltre i tipi, al disopra e al disotto di quella che a noi appare la
gamma della vita, sentiamo che questa prosegue ancora più
misteriosa.
Darwin era un grande informatore, che volle essere maresciallo per
dare il disegno della battaglia: il caso è più frequente nella
scienza che nella guerra.
Così la sua teoria dell'evoluzione col principio della lotta per la
vita e la sopravvivenza dei più atti fallì egualmente nella natura e
nella storia. La lotta vi è innegabile, ma nella natura stessa, che
non può avere moralità, vita e morte non sono fra loro nel rapporto
presunto da Darwin. La morte è un punto d'arresto, senza il quale la
vita stessa non potrebbe rinnovarsi: verifica la identità
dell'inizio colla fine, e preesiste come necessità logica all'inizio
medesimo. Tutti i viventi debbono quindi compiendo la vita eseguire
la morte: tutti distruggono tutti, i forti i deboli, i piccoli i
grandi: le condizioni della resistenza sono preordinate nella loro
struttura, il rapporto del loro numero nel numero totale sarà sempre
un enigma. Come vi è una ragione per ogni individuo, ve n'è
indubbiamente un'altra più segreta nell'unità della vita e dei suoi
quadri: la successione dei viventi è regolata sulle epoche della
terra, la nostra esistenza sulla sua: noi rappresentiamo lo
spirito, ma il nostro corpo è immerso nella natura: siamo il
pensiero, ma un pensieri) che sa di non poter sapere il tutto, e che
pensandolo nell'astrazione ne pensa soltanto il cadavere. La lotta
per la vita spiega molte apparenze, ma non la loro ascensione; la
selezione dei sessi non dichiarerà mai l'unità del loro antagonismo,
i rapporti ancora sorprendigli fra specie e specie non basteranno
nemmeno alla spiegazione finale della più piccola fra le loro
funzioni.
Non bisogna però proclamare la bancarotta della scienza, che non
saprebbe farla nemmeno volendo; la sua opposizione alla religione è
ridicola, la sua pretesa di sostituirsi alla filosofia costruendo
nell'invisibile anche più assurda: la filosofia invece dovrà daccapo
ricorreggerle il metodo per riapprenderle, che come facoltà
d'intelletto essa è un'intuizione pari all'arte, e diversa
dall'arte soltanto per il dovere di riprovare coll'esperimento le
proprie intuizioni.
Nel sistema darwiniano la lotta per la vita doveva per necessità
dialettica passare dal campo della natura in quello della storia:
tutte le teorie materialistiche aiutarono tale sforzo.
La storia invece è la negazione della natura.
Se in questa la lotta pare abbandonata al capriccio delle forze e
decisa dal prevalere del loro grado, nella società anche al primo
inizio è evidente il contrario. L'essenza della società è la legge:
nella prima legge si manifesta già una negazione della natura nel
limite opposto alla volontà dei più forti per la virtù di
un'astrazione comunque simboleggiata: e quel limite è il primo
riparo dei deboli. Nella religione un limite superiore stringe
tutti, un comando dall'alto piega le teste, una giustizia
contraddice la libertà della lotta e giudica nell'assoluto qualche
rapporto fra uomo e uomo. La storia è creazione dello spirito. Essa
deve creare in noi con un ordine successivo di rivelazioni la nostra
personalità: tutto lo spirito umano è dentro di noi, nulla o quasi
ci verrà dalla natura, che presta la scena, influisce sulla tonalità
delle nostre azioni, ma non ne è la causa.
Il materialismo storico è soltanto inintelligenza della storia.
Le varianti di clima, di razza, non hanno creato nulla in noi;
composero soltanto in altri modi certi rapporti sociali ed
intellettuali esagerando o diminuendo, ma i loro principi sono gli
stessi in tutti i climi e in tutte le razze. Come la struttura
logica resta una nell'umanità, così la struttura morale, spremendo
tutte le religioni, si trova attraverso le antitesi dei divieti la
stessa essenza.
La lotta nella storia avviene per idee; generalmente si annunziano
prima nella religione o nella filosofia, ridiscendono nell'istinto,
risalgono a diventare interessi, perché il loro antagonismo stesso
le raffini e le maturi. Non vi sono davvero né vincitori né vinti
nella loro guerra, tutti invece vengono del pari immolati,
individui e popoli: l'edificio legislativo si alza lentamente.
Dentro di esso si compie la smentita della natura, poiché nella
legge gli uomini si uguagliano; ma la legge è una astrazione, ecco
la forza suprema della storia. I suoi codici sono il risultato delle
sue guerre, l'inventario delle vittorie dei deboli sui forti; di
secolo in secolo la legge sale nell'impersonalità: di secolo in
secolo la persona, che è dentro l'individuo, si rivela e si compone
una vita sempre più ideale.
L'uomo comincia come un animale e finisce come uno spirito.
La sua costruzione ideale aggiunge una creazione alla creazione: i
suoi edifici si alzano con linee che la natura non adopera, le sue
strade congiungono le terre che essa divise, la sua arte mette
un'anima in tutte le cose, la sua scienza isola le forze e le doma,
stacca dal tutto una parte e v'indovina un segreto. Nella vita
l'orrore della morte è istintivo, e l'anima accende nel desiderio
della morte la volontà dominatrice dell' eroe: nella natura
l'economia suggerisce ai forti l'immolazione dei deboli, nella
storia il diritto parifica gli uni agli altri, e il sentimento più
umano è la pietà: nella natura la forza è inconsapevole, nella
storia invece è ideale: negli animali il più forte è quello che può
resistere al maggior numero di avversari, fra gli uomini il più
forte è colui che rappresenta l'idea più grande.
Nella lotta della storia tutto è mezzo e tutto è scopo come nella
natura, ma a rovescio di questa il trionfo avviene fuori della
storia stessa, nella pura idealità di coloro, che hanno ucciso anche
l'uomo in se medesimi e non vivono più che nello spirito.
Tutta l'educazione storica è indirizzata a negare in noi l'animale;
la moralità è un titolo in noi più sicuro del pensiero stesso e il
più alto contro la natura. La nostra arte infatti non vince la
bellezza della sua, la nostra scienza non saprà mai ripetere il suo
sistema nel proprio, la nostra filosofia essere vasta e profonda
come la vita, ma la nostra libertà vi crea la virtù, che la natura
non aveva potuto creare e non potrà mai intendere.
L'uomo si sente meno straniero nella storia che nella natura. Come
un pellegrino egli attraversa la natura inebriandosi della sua
bellezza e sanguinando ai suoi ostacoli: sa che essa soltanto può
alimentarlo, ma unico fra i vivi sa ancora che tale alimento non gli
basterà: la sua vita vera comincia più in alto, nel pensiero sul
quale cadono le interrogazioni dell'universo, e che risponde.
Sapere, volere, ecco la sua vita. Figura del mistero, egli vorrebbe
lacerarlo dentro e fuori di sé: sovrano dell'idea, l'amore stesso
diventa in lui spasimo di dominazione.
Prima ancora di essere superiore agli altri, l'uomo ha bisogno di
superare se stesso; la prova più terribile è in noi, col nostro
pensiero, colle nostre passioni, colla carne che ci sospinge e ci
resiste, nello spirito che s'illude e ci delude. In ognuno di noi,
nella nostra breve biografia si ricondensa tutta la storia
dell'umanità; soffriamo nel suo passato e nel suo avvenire, sentiamo
la nostalgia dei morti e dei non nati: siamo l'effimero che invoca
l'eterno, un corridore della notte, che agita nella mano una
fiaccola ed urla di spasimo, quando la sua fiamma gli batte sugli
occhi.
VIX
Corporazioni e cooperative.
Quelle furono una forma imposta dalla guerra nell'opera multipla
della pace, queste sono una istintiva imitazione del parlamento.
Nell'incertezza, che la guerra incessante metteva in tutte le
funzioni e più ancora nell'enorme disparità delle classi, le più
inferiori dovettero presto stringersi militarmente per
necessità di difesa. L'individuo, libero nella propria forza, vi era
troppo debole per potersi sviluppare, quindi l'istinto della vita e
il genio della storia gli suggerirono una serie di ordini, dentro i
quali la potenza del gruppo poteva compensare la diminuzione della
sua individualità. Così il medioevo e il rinascimento espressero la
propria civiltà originale in una tragedia, che fondendo le razze e
le idee preparava il mondo moderno. Allora la nostra attuale
libertà non era nemmeno concepibile: liberi erano soltanto i più
forti, coloro che osavano più spesso sfidare la morte, e nei quali
la natura aveva messo la superiorità del comando. Per tutti gli
altri la corporazione era una scuola e una milizia, con assisa e con
armi inconfondibili; i privilegi conquistati vi diventavano
diritti:,negli ordini superiori la forza si misurava quasi sempre
all'attacco, negli inferiori dalla resistenza: in quelli
prevalevano gli elementi politici e guerrieri, in questi
aumentavano quotidianamente le forze della pace colla scienza e
coll'arte, coll'industria e col commercio: i padroni consumavano, i
clienti producevano, quindi la vittoria finale non poteva esser
dubbia.
Ma ad ogni conquista delle corporazioni e ad ogni sconfitta degli
ordini superiori una uguale dissolvimento li equilibrava, aiutando
collo sviluppo degli individui l'avvento di una più alta epoca,
nella quale il cittadino e lo Stato potessero più fecondamente
cooperare senza mortificazione nell'uno o violenza nell'altro.
Quindi nella gran luce della rivoluzione francese, che proclamava
la sovranità individuale, corporazioni e aristocrazie vanirono.
Oggi invece la guerra della libera concorrenza condensa nuovamente i
più deboli in una forma imitata dalle antiche cooperazioni, ma nella
quale la libertà politica si esprime parlamentarmente.
Le attuali cooperative infatti si compongono di azionisti pari agli
elettori, di un parlamento composto da delegati, di un consiglio
simile ad un ministero. Come elettori gli azionisti non vi hanno che
una funzione primordiale, sono il diritto e la materia, ma un
diritto poco più che astratto, una materia quasi greggia: un bisogno
li sospinse, un istinto li adunò, un'idea li compose. Così, solo
così, potevano difendersi sentendo che nella lotta della produzione
e della distribuzione la loro quota diminuiva, e la loro libertà,
soccombeva al monopolio dei più forti, perché la libertà, principio
supremo di vita, ne contiene la contraddizione, e senza nemmeno
ledere le proprie forme arriva talvolta agli estremi della
tirannide.
I più facili esempi e le conseguenze più immediate erano nel campo
economico, più libero di quello politico, nel quale l'ingombro dei
residui storici impedisce quasi sempre l'applicazione rigorosa dei
principi. Individui e partiti avevano già dall'inizio proclamato i
pericoli della libertà e la sua contraddizione al benessere degli
inferiori: reazionari e rivoluzionari all'indomani del
trionfo liberale attaccarono i trionfatori denunciando
nell'immutata servilità dei poveri una schiavitù pari all'antica: si
disse che era assurdo vantare l'uguaglianza dei diritti, quando la
disuguaglianza delle condizioni manteneva gli uni nella
dipendenza degli altri: che la libertà abbandonata all'arbitrio
individuale riproduceva il dispotismo delle vecchie
aristocrazie senza nemmeno la giustificazione di grandi fatti
e di più grandi idee. I reazionari concludevano contro la libertà,
perché l'individuo incapace di dominare se medesimo aveva bisogno di
sentire la verità in una autorità indiscutibile: i rivoluzionari
negavano l'attuale libertà accusandola di essere soltanto una
conquista della classe borghese, ancora padrona del capitale e del
lavoro.
Quindi avventavano accuse e profezie per scatenare contro di essa
le classi inferiori giovandosi del proletariato intellettuale come
di un'avanguardia di guastatori, e dello spontaneo irreggimentarsi
degli operai nelle immense fabbriche per disciplinarli alla guerra
contro tutti i governi coll'arma incruenta del voto prima e con
tutte le altre poi, se il momento apparisce propizio per la
negligenza o la viltà del nemico.
Fra queste due scuole estreme il termine medio, abbastanza ben
composto di verità e di illusione democratica,
fiorì nella cooperazipne fra leghe e sodalizi, banche e
botteghe.
Ma bisogna anzitutto affermare che questo mezzo termine non era una
risposta né ai reazionari né ai rivoluzionari; gli unì
argomentavano più alto, gli altri concludevano più lontano.
Le cooperative, come verità democratica, non esprimevano che
una difesa di alcuni, isolati, sbandati e quindi nell'impossibilità
di difendersi dagli eccessi, ai quali la forza individuale poteva '
arrivare dentro l'orbita della libertà. Quale difesa di deboli
organizzata da deboli la sua formula non poteva essere superiore,
mentre ogni , difesa per se stessa è quasi sempre minore
dell'attacco: questo può creare, quella
conserva, soltanto. Così il capitale fornito dal numero dei
piccoli difficilmente poteva
diventare grande: nell'istinto e nel bisogno, che li
adunava, sopravvivevano sempre le insufficienze e i vizi della loro
natura: poco la forza morale, più piccina ancora la capacità
intellettuale. Come tutti gli elettori questi azionisti,
oltrepassato un certo stadio, dovevano annullarsi negli eletti: ma
nella legge e nel fatto politico l'eletto si occupa
d'interessi dominati da una legge storica nella màssima òrbita
della nazione, e può quindi con una medio crità tollerabile compiere
la funzione, mentre l'elettore dimentico del
proprio giorno regale è già ricaduto nella monotonia
dell'esercizio,quotidiano. Fra l'uno e l'altro rara e difficile
dunque un'antitesi d'interessi personali.
Invece dentro le cooperative la contraddizione era inevitabile
nell'unità medesima dell'interesse.
Questo lasciava sempre l'eletto nella stessa condizione di
cooperatore al medesimo affare, in pari condizioni di diritto,
mentre l'uno non aveva più né potere di governo, né capacità vera di
controllo; e l'altro dominando tutto e tutti colla propria funzione
oligarchica doveva essere libero nelle iniziative, irresponsabile
nell'errore, fedele come un compagno, giusto come un padrone. Tali
virtù sono troppe e troppo alte.
Così accadde al solito che la nuova forma parlamentare concluse alla
onnipotenza del ministero, e questa dalla dittatura di un gruppo
alla tirannia di un uomo, o la cooperativa incerta, tumultuosa,
floscia, non seppe muoversi abbastanza per vivere, né serbare tanta
forza da morire decentemente. Nelle prime cooperative di consumo la
prova parve più facile, perché la passività del loro principio
esigeva minore potenza di carattere e d'intelletto nei ministri: le
difficoltà crebbero al contrario in quelle di produzione
raddoppiando per ogni grado, che le avvicinava alle libere forme
della concorrenza.
Come le leggi del lavoro e del capitale non esprimono né la volontà
né il pensiero del lavoratore o del capitalista, ma una necessità
ideale, così le leggi del commercio e dell'industria non possono
subordinarsi alla media spirituale di un gruppo senza unità,
composto d'individui quasi privi di qualità industriali e
commerciali. Commercio ed industria sono anch'esse due forme, che
esigono al trionfo vizi e virtù concordanti nelle iniziative della
passione e dell'idea.
Quindi l'attività prodotta in un gruppo dal dovere e dalla reciproca
simpatia dei soci non può quasi mai essere sufficiente nella lotta
contro la coalizione di forme individuali sollecitate da tutte le
concupiscenze del mondo. Nel primo caso
l'individuo sente la propria azione come aneddotica e secondaria:
la cooperativa non è il centro della sua vita, l'interesse vi è di
qualche piccolo risparmio soltanto. Se la cooperativa trionfa, la
sua vittoria rimane anonima e il suo profitto impersonale.
Nell'altro caso ogni individuo si batte per se stesso, non vuole
risparmiare ma guadagnare, se ama non ama che la propria cosa, e
questa passione gli raddoppia le forze; si sente libero, ha bisogno
di vincere, perché la vittoria è lo scopo della sua vita.
L'esempio fortunato di alcune cooperatile non basta a smentire la
superiorità dell'individuo sul gruppo; poi la cooperativa è un
gruppo inferiore alle stesse compagnie. Le chiamo così giacché tale
è nel commercio il loro nome. Ma le compagnie non nacquero da un
istinto di debolezza, con un motivo di reazione morale contro la
logica spietata dell'interesse, con una intenzione di beneficenza
ad alcuni piccoli sprovveduti; ma nel dilatarsi dei mercati per
l'immensa facilità delle comunicazioni, per l'eccesso medesimo del
lavoro, si coagularono spontaneamente intorno ad un uomo. Il loro
motivo d'azione era il guadagno come sempre è dappertutto: un uomo
ne aveva avuto prima l'idea e studiate le difficoltà: nell'orbita
troppo vasta, solo, si sarebbe perduto: l'affare lontano, lento,
difficile esigeva le più forti e disparate attitudini, somme
enormi, un numero male prevedibile di gente subordinata in una
ferrea gerarchia. Le compagnie d'affari rinnovarono quindi nella
storia le antiche compagnie di ventura; i loro condottieri dovevano
avere le stesse virtù e gli stessi vizi degli altri sopra altri
campi, sognare come essi nel trionfo un nuovo impero politico.
E così fu.
Oggi ogni grande affare si compie da compagnie.
La loro forza è enorme, anonima, impersonale, ma la legge e la
passione dell'opera loro hanno una individualità.
Naturalmente in queste compagnie di ventura commerciali e
industriali la logica dell'affare soffoca ogni sentimentalità: i
mezzi proporzionandosi al fine superano la responsabilità
individuale, ognuno vi opera come in una guerra, la politica vi
scarica come una cloaca le proprie impurità più deleterie, la posta
è sempre il danaro, gì'inferiori diventano strumenti, i superiori
spariscono quasi in un simbolo. Ma senza tale forma e tale
disciplina così grandi affari non sarebbero forse possibili, senza
questi grandi affari il mercato moderno non avrebbe attinto alla
unità mondiale.
Si può fremere d'orrore alla rivelazione dei loro scandali nei
processi quotidiani, non pretendere di sopprimere tali compagnie o
di sostituirle con tante cooperative.
Queste non hanno che una piccola bontà di rimedio preparato dalla
bonarietà democratica a coloro, che non essendo ricchi non sono
nemmeno poveri davvero, e per aumentare il loro benessere o il
loro minimo lusso hanno bisogno di non pagare la decima al piccolo
commercio o alla •grande industria. Idea e funzione certamente
utili, ma come tutte le idee critiche e le funzioni artificiali,
senza né originalità, né forza di creazione. Quelli, e sono molti
nell'attuale periodo di ascensione plebea, che veggono nella
'cooperazione e nelle cooperative un modo per trasformare
produzione e distribuzione, sottraendolo alla spietata dialettica
dell'egoismo e purificandole in una più alta equazione dell'uomo al
cittadino, non fanno che risognare l'eterno idillio di una società
senz'altra guerra che la gara generosa del dovere. Così la guerra
cesserebbe nella vita, mentre invece ne è l'essenza: i suoi modi
possono attenuarsi e là sua passione ingentilirsi, ma la guerra non
finirà!
Le cooperative hanno però provato che il dovere sociale può creare
nel campo appunto più sterile: da molti anni le cooperative vivono e
crescono, una poesia mattinale le circonda, la legge le privilegia,
il costume le aiuta; i socialisti le vantano come un primo saggio
delle loro affermazioni, i reazionari le sostengono come un rifugio
contro le incomposte demenze delle utopie; i governi affettano di
esserne i padrini, i municipi parlano già di cedere ad esse i propri
maggiori servigi. Ed anche tale prova probabilmente dovrà essere
fatta.
Ma l'inferiorità organica delle cooperative non permetterà mai loro
di sostituire gli organi creati dal genio istintivo della vita.
Già un decadimento comincia a manifestarsi.
Le cooperative di produzione fallirono quasi tutte o vissero per la
fortuna di qualche effimero privilegio legale o naturale; quelle di
lavoro ammalarono politicamente servendo come istrumento ai partiti
e discendendo nell'elezione del comando quasi tutta la scala
dell'inferiorità. I soci più aumentarono di numero e più scemarono
di valore, poiché i peggiori individui respinti dalla selezione
della concorrenza vi entravano più facilmente degli ottimi, che la
stessa concorrenza tende ad accapparare costantemente; quindi
nella forma parlamentare del loro governo la maggioranza
rappresentata dagli inferiori condanna già le cooperative a non
poter lottare coi lavoratori liberi assoldati dai liberi
intraprenditori.
Le cooperative hanno la media più bassa nella potenzialità del
lavoro: il suo limite nei soci aggruppati dall'istinto della
debolezza è il più vicino, giacché i più pigri, gl'inabili,
compongono e comporranno sempre la maggioranza. Già le cooperative,
non potendo nè scegliere prima né vagliare poi, cacciando almeno i
soci più tristi, arrivarono troppo presto alla necessità di proporre
nell'eccesso del numero i propri lavoratori per turno. E allora
tutti, anche i pessimi, furono possibili, ma il livello,
abbassandosi, toccò quasi il fondo.
Intanto un'idea politica aiutava; i governi largheggiano colle
cooperative e, simulando la neutralità nella lotta fra capitale e
lavoro, appoggiano spesso le loro pretese: la borghesia,
prigioniera del proprio danaro, non ha quasi più resistenza; la
plebe, esaltata dalle prime vittorie, tumultua ad ogni pretesto,
guadagnando sulla paura ciò che la ragione non potrebbe dare.
Commercio e industria salgono invece in una diuturna creazione.
Nessun'epoca antica vide mai tanta ricchezza e più miracolosa
potenza ne' suoi organi. La libertà assoluta del danaro e
dell'individuo decisero nella seconda metà del secolo XIX questo
trionfo della attività mondiale; nella politica di ogni governo i
motivi industriali e commerciali primeggiano, l'agricoltura stessa
si trasforma in industria e nella gara colle altre perde
dell'antica importanza, appunto perché non può al pari di essa
spostare le proprie forze. Tale immenso moto, che attinse già i
paesi più lontani nella geografia e nella storia, è la grande gloria
della libera individualità moderna: per un prodigio di volontà e di
pensiero, coloro che la rivoluzione emancipava nelle nazioni più
progredite, poterono, non solo mantenersi pari al nuovo compito
nazionale, ma, gittandosi con lirica audacia oltre tutti i confini
ritentare la più profonda e vasta conquista del mondo.
Basterebbe tale trionfo a fare dell'industrialismo un principio
creatore pari a quello delle epoche più grandi.
Ma tutto concorse all'improvvisazione di questo capolavoro, l'arte
come la scienza, gli eroismi come le infamie della politica, le
virtù e, maggiormente forse, i vizi della libertà, soprattutto
l'onnipotenza dell'egoismo individuale alzato dal diritto moderno a
sovranità.
Non si può nella vita, accettando il risultato, respingerne i mezzi
necessari: non bisogna nella tristezza della critica morale
condannare la modernità, perché nei suoi modi trionfano ancora le
parti inferiori della nostra natura.
La vita è creazione, e nella creazione i modi si pareggiano: vi è
forse gradazione di valore nella materia che ci compone? Vi sarà mai
selezione possibile fra i modi della storia? Ne dubito. In questa,
come nella vita, la bontà di un risultato non si esprime nel
miglioramento di coloro, che vi cooperano, ma da quello che ne
risulta alla massa: mentre la purificazione spirituale si compie
soltanto nell'alto, tra i migliori individui, è lecito, anzi
doveroso, sperare che il loro numero aumenti; lusingarsi invece che
nella lotta universale degli interessi e delle forme possa dominare
la norma morale del duello cavalleresco, l'accordo dell'amicizia o
almeno soltanto un'intesa fra soci, è ancora fanciullesco e non
diventerà mai virile.
Adesso le simpatie e i privilegi, che circondano le cooperative
come veli intorno alla cuna di un bambino lungamente invocato nelle
solitudini dell'amore, sono già una prova della loro bontà: una
nuova aristocrazia cresce dalla rinuncia al guadagno nel lavoro
individuale. Una solidarietà umana, fatta di sentimento e di
riflessione, vi sostituisce l'antico egoismo: l'idea di concordare
gli sforzi per sottrarre i deboli all'oppressione dei forti,
pareggiando, fra i deboli stessi le differenze naturali, è forse la
più profonda fra le idee morali. I primi fondatori di una
cooperativa furono certamente un gruppo di poeti e di sacerdoti, che
nel campo commerciale invece della bottega alzavano un tempio; ma
se molti illustri economisti avevano già vantata l'onnipotenza di
tale idea, la sua era piuttosto una forza morale che economica. La
forma invece resterà come una delle più belle originalità del
secolo XIX.
Dentro di essa, senza né attrazione né sanzione religiosa, uomini
diversi per indole, antagonisti per interesse, si saranno accordati
in un servigio reciproco, al di fuori di ogni gara, al disopra di
ogni primazia: se gl'inevitabili vizi umani e la prevalenza
degl'inferiori vi produssero subito enormi guasti compromettendone
la vita, questa nullameno resiste ancora e prospera. Una nobiltà
moderna la sostiene, senza alcun orgoglio di patriziato, senza
esaltazione di eroismo. Nella migliore epoca cristiana coloro che si
votavano al servigio degli altri, avevano quasi sempre bisogno di
negare il mondo, dissolvendone le leggi in un precetto divino: così
la storia vide i miracoli della santità nei volontari della croce.
Oggi la prova è più facile: si crede buona la vita, i migliori,
senza rinunziare alla guerra umana, stringono sopra un punto una
tregua a beneficio dei più deboli.
Bisogna essere alteri, levare alti gli auguri.
Quando rispuntano i fiori, l'estate non può essere lontana. Se la
fratellanza universale non é nemmeno un sogno, perché i sogni
debbono avere anch'essi una qualche realtà, negli individui questo
senso della solidarietà istintiva si dilata e si innalza: tutti
sentono già il bisogno di simularla maggiore che non sia.
Forse ogni fisonomia nella folla cominciò sempre coll'essere una
maschera: non importa. L'uomo è così fatto che la verità, quando non
può salire dal fondo del suo spirito, vi penetra dall'esterno e vi
discende; l'uomo vede, ripete senza capire, imita, si abitua e
finisce col fare ciò che indarno si sarebbe voluto persuadergli. Il
mimetismo è la legge di educazione per gl'inferiori.
Così la nuova aristocrazia avrà fondato nelle cooperative il suo
primo ordine cavalleresco collo stesso motto delle feudalità «par
paribus»: ma questa volta la parità, invece di essere fra padroni,
sarà stata fra liberi.
XV
La crisi cristiana.
Questa sarà storica; invece quella esaurita nella seconda metà del
secolo XIX fu critica, fra polemiche incomparabili di pensiero e di
forma.
Nell'improvviso, quasi irresistibile fiorire delle idee
materialistiche, era impossibile al cristianesimo evitare una nuova
guerra, giacché doveva apparire non solo una fra le più belle
incarnazioni dell'ideale, ma quasi tutto il deposito dell'autorità
umana e divina. I suoi dogmi, i suoi riti, le sue discipline,
l'infallibilità del papa quale conseguenza della rivelazione, la
sua inesausta potenza di conquista, la sua gloria di duemila anni,
le estreme sconfìtte che lo ricacciavano dai campi usurpati nella
politica entro i confini religiosi, eccitarono la passione della
battaglia e produssero una ira le più ammirabili guerre della sua
esistenza.
Il bando uscì dalla scuola di Tubinga, che, esorbitando dal
protestantesimo, pel quale era stata una fortezza, attaccava nel
libero esame tuto il cristianesimo, affermando di sottometterlo
colla impersonalità della critica alla esegesi di ogni altra storia.
E infatti mai la critica apparve più profonda e più ricca: tutti i
problemi, tutti i testi, tutte le ipotesi furono vagliate, discusse;
pareva, ed era forse vero, che la passione religiosa ardesse più
viva negli assalitori che nei difensori, ma l'imparzialità mancava,
come sempre in ogni questione di fede. Anzitutto la scienza storica
presumeva troppo di se stessa; era quello il tempo della sua grande
illusione nel documento e nell'erudizione; si pretendeva coll'uno e
coll'altra, di penetrare tutti i segreti e di ricostruire tutte le
epoche: invece la storia non sarà mai che filosofia ed arte;
l'esposizione del sistema ideale, che i fatti verificarono, è una
intuizione dei grandi caratteri che si atteggiarono nei fatti
stessi. Ricostruzione e resurrezione invece resteranno sempre
egualmente impossibili: ogni documento è separato, aneddotico,
quindi parziale, insufficiente: non esprime nemmeno l'uomo che vi
appare: è un atto o un giudizio frammentario, un'espressione
dell'effimero, un moto dell'illusione, che guidava un individuo o
una generazione.
Una massa di documenti, per quanto grande, è assurdamente piccola
nel confronto dei fatti, nel periodo che si vorrebbe evocare: tutta
la somma delle sue massime e delle sue minime biografie non potrebbe
darne il carattere generale, esprimendo il suo segreto. Bisogna
consultare i documenti, non chiedere ad essi la storia. Questa non
potrà essere vera, se non nei magni fatti e nelle massime idee, che
non hanno quasi necessità di documento: la spiegazione di un'epoca
è dentro le sue precedenti e conseguenti, nella linea, che forma
appunto la spira della storia. Il resto è materia di romanzo,
materia viva, nella quale il genio storico coll'intuizione
artistica può attingere molti segreti della bellezza e della verità:
non altro.
La nuova critica al cristianesimo si divise in due scuole, l'una
capeggiata dallo Strauss, l'altra dal Renan: pel primo la figura di
Cristo era mitica, per l'altro artistica; quegli scrisse un trattato
e questi un romanzo; entrambi un capolavoro. La scienza dello
Strauss fu giudicata più solida, la dottrina di Renan più
penetrante; il tedesco, educato alla scuola di Hegel, era fra tutti
il più terribile polemista; il francese era un grande poeta senza il
dono del verso, un artista della parola forse più squisito di
Platone, uno scettico che risognava la fede perduta, un retore
rimasto perfetto nel gusto, un apostata inconciliabile con tutte le
opinioni dominanti e che la solitudine della vita sembrava aver
preparato alla imparzialità.
Ma le ricerche sulle origini del cristianesimo rimasero quasi
impossibili: la storia non è mai davvero storia nelle origini, e,
fra queste, le più insondabili sono appunto le prime di tutte le
religioni. I loro più vecchi documenti sono assai posteriori al
giorno, nel quale suoné la loro parola e la loro azione si fece
visibile; un'ombra, come un vapore sacro, le involge; i fondatori
sono grandi anime, che pronunciano grandi parole; non somigliano
agli altri potenti, anzi davanti a questi non appaiono mai quali
sono; quasi sempre soltanto i piccoli e gli umili li intendono:
passano, operano, trasformano, muoiono, e dopo crescono in una
trasfigurazione, che rende irriconoscibile la loro vita.
La religione è il pensiero del mistero e dal mistero rampolla; il
suo carattere risalta nella moralità imposta all'opera umana, la
sua idea si rivela nel sistema dei dogmi espressi dai suoi riti. Una
religione non è tale se non si afferma rivelazione divina;
domandarle conto della propria origine, sarebbe come chiedere le
prove alla bellezza; il cristianesimo era la più alta fra le
religioni della storia, ma le sue forme documentabili non avrebbero
mai potuto provare né la sua rivelazione divina, né il suo primo
sviluppo umano.
Nelle religioni si crede o non si crede: per la filosofia esse sono
la rappresentazione poetica di un sistema e di una espressione del
divino, la quale deve pretendere alla materiale verità dei propri
simboli e vantarsi di avere in tutto la più precisa certezza; quindi
il cristianesimo, contenuto intero nel dogma della incarnazione,
non doveva dimostrare né la divinità né l'umanità di Gesù. La
critica ne avrebbe però cercato egualmente invano le prove
contrarie. La grande figura messianica doveva resistere alle pretese
della erudizione, che voleva ricondurla al proprio inizio: spiegarla
colla formazione dei miti, come tentò Strauss, era impossibile,
perché quella non era più un'epoca mitica. Negare nel cristianesimo
la realtà di una prima figura era il rinnovare nella religione il
principio contradittorio della creazione dal nulla, e un poggiare il
massimo degli edifici storici sopra una vuota parola: invece,
rimettendo in un romanzo la figura di Gesù, si fissava un bel sogno
di poeta, ma di poeta né lirico, né drammatico veramente, giacche
nell'uri caso e nell'altro l'istinto della parola e della figura
gliene avrebbero resa sensibile l'impossibilità.
Così Gesù nel nuovo romanzo riuscì inaccettabile, non abbastanza
reale per una cronaca, non abbastanza vero nell'immensità
dell'opera che porta il suo nome. Egli ha sollevato il mondo e lo
domina ancora; le proporzioni della sua figura non si possono più
restringere in quelle di un individuo nazareno, la trasfigurazione
della poesia e della gloria non permette di vedere l'uomo in lui:
nella propria religione egli è tutta l'umanità, il solo Dio, che il
cuore umano adesso possa amare. Attraverso i racconti del vangelo
passa sulla terra come uno straniero, che sdegna di conoscerla e che
essa non può conoscere: i suoi apostoli sono degli ignoti, i suoi
credenti degli ignari: egli non pronuncia una parola dotta, e le sue
parole hanno il dono della creazione; nega tutto il mondo e non vi
fonda nulla, di sé non lascia né una linea né una riga. Muore. Ma un
secolo dopo egli è il Dio invincibile della nuova umanità, tutto
piega davanti a lui, tutti si convertono: le civiltà di Grecia e di
Roma, i barbari del Nord e del Sud. La sua religione organizza il
proprio sistema, disegna le prime figure e, superando in esse tutte
le vecchie arti, appare così originale che il mondo le grida: credo!
La critica storica non poteva sezionare tali origini e tali figure,
poi negava a priori, concludendo il processo prima di averlo
incominciato. Come le analisi chimiche non sanno dare l'ultima
essenza dei corpi, così gli esami critici non sorprenderanno mai
l'anima di una rappresentazione. Cristo e il cristianesimo uscirono
infatti dalla crisi.
Certamente molto resterà di tale sforzo prodigioso nella disciplina
del metodo e nell'acume dell'investigazione; la Chiesa stessa vi
guadagné la correzione eli molti errori e la possibilità di più alte
interpretazioni; ma la scienza storica vi fallì giustamente.
Spesso le pretese sistematiche la trascinarono sino alle puerilità
nella dottrina e nella dialettica; a forza di analizzare si inventò,
alla imparzialità successe la più appassionata partigianeria,
mentre il problema storico si veniva insensibilmente mutando
nell'eterno conflitto tra filosofia e religione.
Adesso una tregua pare annunciata e Harnack, il più illustre fra gli
ultimi esegeti, cancellando la conclusione
di Strauss e di Kenan, riconcede la credibilità ai primi racconti e
alle prime leggende cristiane. Questa vittoria esalta già la vecchia
fede che si sente intorno un aiuto dalla reazione ideale contro
tutte le iattanze del materialismo filosofico e scientifico. Intanto
il catolicismo, libero dai vincoli del suo estremo regno mondano,
prosegue la trionfale rivincita contro i propri scismi; da secoli
questi si arrestarono e non
poterono più mantenere l'offensiva: la loro inferiorità
teorica, il difetto supremo di unità, lo stesso pregio liberale di
aver diminuito lo spessore degli intermediari fra uomo e Dio,
assicuravano già la vittoria finale al cattolicismo.
In questo soltanto è rimasta la grande poesia cristiana; il
protestantesimo invece inaridisce nella prosa e stagna in una
morale efficace sul costume, ma senza né delicatezza né tragicità
di eroismo; nel cattolicismo solo il problema dell'autorità è
risolto così da ridare la calma alle anime ansanti nel dubbio. Nelle
moltitudini l'antichità della religione è profondo motivo di fede, e
le eresie protestanti sono troppo documentate nella storia per
esercitare sulle anime la seduzione del mistero; poi il
cattolicismo solo è veramente cattolico, ha una politica e istituti
mondiali di guerra e di pace, una potenza creatrice di arte, una
mitologia di semidei per tutte le miserie del corpo e le
esaltazioni dell'anima, giacché la prima mediazione di Gesù si
raddoppiò in quella della madre, moltiplicandosi come per una
meravigliosa generazione spontanea nei martiri e nei santi di ogni
tempo.
Dopo aver distrutto l'impero romano e domato i barbari, il
cattolicismo resistette all'espansione
maomettana, salvando una
seconda volta l'Europa: vi educò tutte le
monarchie, parve naufragare fra guerre e scismi, soccombere
alla originalità cosmopolita del rinascimento, al trionfo della
scienza che rinnovava il concetto della natura, consumarsi
nel grande incendio della rivoluzione
francese; ma intanto aveva già conquistato nell'America
un continente ben più grande
dell'Europa, e con instancabile prontezza ripreparava dentro le
vecchie forme un nuovo adattamento alla democrazia moderna.
Solo la filosofia hegeliana superò il cattolicismo, dissolvendone i
dogmi e le figure nella propria idea; ma se questo non seppe oppore
un rivale al filosofo tedesco, il più grande nella storia,
legittimando così il sospetto di una prima insufficienza ideale,
poco sofferse nella coscienza delle genti. Quell'assalto era dato
sopra cime troppo alte, invisibili dalle bassure, con armi quasi
mute nella sottigliezza del taglio: poi l'hegelianesimo era una
metafisica, e le religioni non soccombono che alle religioni.
Superare una religione non è vincerla, bisogna invece
sostituirla.
Ma Hegel non poteva succedere a Gesù.
Così dopo aver affermato nel cristianesimo la religione definitiva
dell'umanità, sostenne nel protestantesimo la migliore correzione
del cattolicismo, malgrado l'evidente inferiorità storica. Il
protestantesimo è adesso senza espansione e senza milizia; il suo
clero ha perduto nella religione più che non abbia guadagnato col
patrimonio nella famiglia: la sua opera infatti, risottomettendosi
alla legge della generazione umana, non seppe più risalire nella
generazione divina; i suoi sacerdoti, mariti e padri, dissimili da
Gesù, non poterono più compiere i miracoli della paternità
spirituale.
Ogni abbassamento dell'ideale si risolve sempre in una nuova
debolezza, della vita; ma se il protestantesimo, volendo il
proprio sacerdozio più umano, non riuscì che a materializzarlo, il
cattolicismo, pur mantenendo fieramente il proprio ideale, non potè
in se medesimo alimentare la forza morale necessaria a sostenere il
proprio clero nella divina dignità dell' ufficio.
Adesso ancora nessuna milizia sotto la superba apparenza del numero
e delle armi è più debole della cattolica; la sua disciplina pare
severa, ma l'inerzia sola impedisce che si rompa; la sua cultura ha
perduto il senso dell'antico e non ancora ha appreso quello della
modernità: l'esercizio divino è quasi diventato una professione la
troppa lunga difesa del potere temporale degradò ogni
interpretazione, gli ordini monastici sono ospizi e accademie,
l'alto clero non ammaestra e non comanda; non si veggono più eroi,
non si rinnovano più i santi. Quelli che la Chiesa sollevò
recentemente sugli altari, erano quasi tutti oscuri missionari
morti fra i barbari della preistoria vivente; i pochi altri non
espressero come una volta la santità del loro tempo. La modernità è
senza santi e senza arte religiosa: le ultime chiese, gli ultimi
libri, le ultime devozioni significano fin troppo la pericolosa
inferiorità del cattolicismo davanti a se stesso. Ma la sua unità è
ancora intatta e la sua opera di conquista prosegue.
Se la sua dottrina non ebbe molto a soffrire dagli attacchi della
scienza, la sua bellezza invece scomparve quasi nella volgarità di
un clero, che non si sente più responsabile nel dolore umano e nel
pensiero divino: non una figura originale brilla da gran tempo fra
gli incensi cattolici: nessuna voce aduna più le genti nella pietà
come la voce di S. Francesco, che consolava gli inconsolabili e
metteva nei cuori felici la nostalgia dei dolori ideali: nessun
silenzio purificatore si espande più da un viso pallido come quello
di S. Luigi Gonzaga, che disciolse nella castità come in una luce
tutto quanto pesa sulla vita umana: nessun grido di angoscia
trionfale traversa la caligine dello spirito, come quelli che S.
Teresa gridava a Gesù nella febbre di una passione accesa da tutto
l'amore umano, inestinguibile anche nell'amore divino. Nessun eroe,
nessun martire ci ha ancora dato il segreto della vittoria sulla
nostra vita di oggi.
L'idolatria, questo linguaggio di tutte le religioni, nell'ultimo
tempo cattolico è diventata un dialetto ancora più impuro che
ignobile: gli estremi miracoli gettati alla moltitudine furono senza
poesia nel motivo e senza dignità nella rappresentazione.
Tuttavia nel ritorno dello spiritualismo qualche cosa si rinnova
anche nel vecchio spirito cattolico; la sua immobilità politica si
scuote, l'urlo della folla, che sale a branchi, minacciando,
osannando, l'erta della storia, ridesta dal lungo sonno le parole di
Gesù.
Ma se il cattolicismo porta solo in se medesimo la responsabilità
del cristianesimo, e dovrà dare alla modernità lo spettacolo di una
rinnovazione riaccordando la propria opera a quella della
democrazia per stabilire nel costume l'uguaglianza soltanto
affermata nelle leggi, un'altra più terribile crisi l'attende su
tutti i confini della sua conquista.
Il problema della religione sarà sempre per gli uomini il più
profondo ed il più appassionato.
Adesso il problema immediato della religione è nel cristianesimo:
questo diventerà davvero universale, sconfiggendo e sostituendo
tutte le altre grandi religioni? È davvero la religione definitiva
dell'umanità, o dal suo dualismo uscirà un'altra forma? Se la prima
del Padre si compose nel mosaismo e la seconda del Figlio nel
cristianesimo, vi sarà una terza religione dello Spirito? Questo
libro non può né deve mirare così lontano e così alto.
Sono come un pellegrino ritto sul lido, che guarda le navi
allontanarsi nella minaccia dell'ombra, e cerca collo sguardo le
ultime vie aperte dai raggi del sole.
Nessuna delle grandi religioni storiche è oggi problema universale
all'infuori del cristianesimo. Per quanto la cattolicità del suo
impero sia soltanto formale, esso è unanimemente creduto degno di
tentare la conquista del mondo; le altre religioni sono già vinte, e
lo confessano nell'inerzia; il cristianesimo invece deve subire la
prova suprema. La sua diffusione mediterranea fu aiutata dalla
civiltà greco-romana, l'individualità barbarica del nord si adattò
meravigliosamente alla nuova individualità cristiana, nell'America
non vi fu trionfo, perché la nostra razza vi distrusse le indigene,
nell'Asia il maomettanesimo vinse e il cristianesimo fallì. I suoi
apostoli non vi lasciarono traccia; dopo secoli e secoli i
missionari non vi apersero una breccia così larga che lo spirito
europeo potesse passarvi; ma adesso tutte le barriere asiatiche sono
cadute, e la nostra politica, la scienza, il commercio, l'industria
discendono a tutti i porti d'oriente, violano i confini,
soggiogano, mutano la millenaria civiltà gialla.
La parola di Gesù perché non vincerebbe quella di Brahama e di
Buddha, di Confucio e di Lao-tse? La prova inevitabile e decisiva:
se il cristianesimo non conquista tutto il resto del mondo, vi
perderà il proprio primato; una religione parziale è una religione
insufficiente. Prima, nella difficoltà dei contatti e della
propaganda, la cattolicità formale poteva bastare al cristianesimo;
domani tutta la critica scientifica affermerebbe nella sua
sconfìtta la prima inferiorità europea nel confronto coll'Asia. La
superiorità di un popolo si esprime nei principi e nelle forme più
alte; quindi la religione della razza bianca deve sostituire tutte
le altre attardate nell'oriente, come la nostra scienza vi dissipa
colle prime rivelazioni il millenario empirismo, o la nostra
scienza sarà più vera della nostra religione.
Certamente il problema è grande. Quasi due mila anni di sforzi
inutili pesano sulla coscienza cristiana, le scuse storiche delle
difficoltà maggiori in Asia che altrove non hanno abbastanza
credibilità per soffocare l'accusa, giacché le correnti ideali non
s'arrestano a confini e superano tutti gli ostacoli. Ma non si può
nemmeno proclamare anticipatamente la sconfitta cristiana. Forse la
perdita del minimo regno temporale fu un primo inconsapevole modo di
preparazione alla grande guerra; l'apparente contraddizione della
libertà democratica, che scaccia la Chiesa da tutti gli ordini
civili, come in Frància, negando al sacerdote-l'uguaglianza del
cittadino, è anch'essa un sintomo di rinnovazione, perché bisogna
sentire la paura di perdere tutto per prorompere alla passione di
tutto conquistare.
Non perdere la modernità e convertire quanti barbari ha ancora la
storia: ecco il nuovo problema cristiano. Le vecchie milizie
acquartierate nei conventi vi oziano senza pensiero e vi dormono
senza sogni: nessuno aspetta la diana, i confini sono troppo remoti,
la vita della penitenza meno aspra forse di quella del peccato. Chi
vigila nell'ombra? Quando un raggio, battendo sulle vetriate di una
cattedrale, farà dunque voltare tutte le teste come uno squillo? La
guerra è vicina: domani forse l'ideale riaprirà le grandi ali
bianche in alto, dove l'azzurro traluce e una linea quasi invisibile
appare come un'altra sponda.
Nessuno può dire che cosa prepari alla storia la magnifica vitalità
cristiana: l'epoca sarà ancora lunga, una terza religione dello
Spirito, già balenata alla fantasia di antichi eresiarchi,
gravemente discussa da qualche moderno filosofo, non è ancora nella
nostra vita un quesito. Hegel, contraddicendo la trinità del proprio
principio, l'avrebbe stranamente negata a favore del cristianesimo,
nel quale tutta l'azione religiosa si arresterebbe al secondo
termine: non era quindi diffìcile per la critica contestare al
grande pensatore la violenza dialettica di tale affermazione, meno
difficile ancora a queli che sognano, invece di pensare, un qualche
annunzio profetico su questa terza religione dello Spirito.
Nulla invece è più impossibile che il cogliere le prime linee e le
prime modulazioni di una religione fra la musica di tutte le altre
e l'ondeggiamento della vita quotidiana.
L'umanità non compie che a distanza di millenni lo sforzo di una
creazione religiosa: nessuno può adesso affermare se l'umanità
abbia ancora nel proprio grembo la potenza di partorire un altro
Dio.
Gesù vinse ieri contro coloro che cercavano nell'ombra della sua
vita e della sua morte motivi contro la verità del suo avvento;
creduli ed increduli, nessuno sa sottrarsi all'incanto della sua
figura; nessun dolore ha rinunciato sinceramente al fascino della
sua promessa. Lungamente egli sarà il Dio di tutti quelli che
credono perché soffrono e soffrono perché sono buoni: per quanto
stanca, la terra cristiana solleva ancora intorno alla sua croce i
gigli della purità e le rose del pentimento; invece lungi, oltre i
suoi confini, né la poesia né la scienza moderna seppero crescere
un fiore.
La grande potenza cristiana si rivela a due s'egni; nessuna
religione osa attaccarla, mentre essa mantiene l'offensiva contro
tutte: la sua morale è rimasta intatta in ogni anima incredula,
senza che nessuna filosofia abbia saputo, nonché fondare,
accennarne un'altra. Meglio ancora, il più acclamato condottiero del
positivismo, Hebert Spencer, morente confessò nelle ultime pagine
che la morale non è trasmissibile senza una religione. A quanti
negano per odio antico il cristianesimo, è necessario quindi negare
indarno la religiosità dello spirito umano.
Se il cristianesimo non è, secondo l'altera affermazione di Hegel,
la religione definitiva dell'umanità, oggi ancora si mantiene la
più universale e la più alta; per uscirne bisogna superarlo colla
filosofìa, per vincerlo sostituirgli una più profonda religione.
Preferire non significa nulla, negare meno ancora.
Tutto o quasi è cristiano nel mondo moderne Sotto le raffiche
dell'incredulità, dentro l'espansione inebbriante della ricchezza,
fra la gloria e la potenza della nuova coltura, le anime tornano a
sentire la nausea del mondo e si rifugiano nei conventi. Il loro
numero cresce infatti dovunque, si moltiplica paradossalmente
nell'America senza che uno solo dei vecchi ordini cada, mentre
altri, con nomi ignoti, avanzano in falangi serrate. La volgarità
dell'ottimismo positivista irrita i grandi dolori, che una falsa
scienza pretende di segnare nei cataloghi clinici; l'ideale terreno
si è impicciolito colla terra, e non basta più né a coloro che
pensano, né a coloro che amano.
Le anime origliano per intendere una nuova voce: donde verrà dunque
l'ideale?
Il cristianesimo aveva nobilitata la tragedia umana: ecco perché
tutti amano ancora Gesù.
Egli è crocifisso in tutti i cuori; gl'increduli sentono in lui che
il dolore può essere consolato soltanto dalla propria grandezza, i
credenti salgono in lui fino alla redenzione dalla colpa, al
trionfo del sacrificio.
Non cacciatelo dunque dai tribunali, perché la giustizia non è vera
che in un sogno divino: lasciatelo negli ospedali sul letto dei
morenti, per che la sua promessa sola può placare la loro suprema
disperazione davanti all' inutilità della vita e della morte.
A lui gridano anche i morti dentro di noi: egli è il vivo della
speranza, che incorona le culle e i sepolcri, il Dio di tutti coloro
ai quali la morte non basta contro il dolore.
Hanno torto? non lo so: ma chi potrebbe affermarlo?
XVI
Il carattere militare.
Vi sarà ancora la guerra, ma il guerriero non esiste più.
Il suo carattere mutato dal cristianesimo è scomparso lentamente,
senza che adesso sia possibile precisare il giorno e il motivo più
efficace alla sua sparizione. Il guerriero antico aveva un carattere
e una funzione immutabile; viveva dentro la forza e per la forza;
nella coscienza superba che la propria opera fosse la più
indispensabile alla vita, giacche ne garantiva la durata, si
metteva inevitabilmente al disopra di tutti. Se un'idea religiosa o
un disegno civile o una forza economica gli legavano talvolta la
spada nel fodero, o lo costringevano soltanto a non brandirla che
dietro un ordine, una volta brandita la spada il guerriero
ridiventava padrone, e la sua volontà non aveva altri limiti che
nella necessità stessa dell'impresa. In tutte le storie antiche il
dramma della guerra è il più evidente. La supremazia dei guerrieri
appare dovunque, anche se una gerarchia religiosa sembri
sovrastare, mentre non comanda invece che subdolamente,
contentandosi di far servire ai próprt scopi le forze dei guerrieri,
ai quali non potreb be resistere. Certamente la potenza militare,
non contenendo un'idea, non poteva presso alcun popolo essere la
più alta; ma, poiché, nel realizzarsi della storia, il fatto
momentaneamente prevale all'idea e questa prevalenza si rinnova
nella continuità della vita, l'importanza politica delle armi creò
in ogni Stato un diritto e una funzione privilegiata.
La necessità della guerra era immanente e permanente.
Ogni popolo per costituirsi si condensava prima militarmente; tutto
doveva esser per lui conquista, il territorio stesso, i suoi
confini, le sue strade, i suoi sbocchi: l'opera violenta di tale
conquista si compiva simultaneamente nella tribù e nell'orda, nella
nazione e nello stato: bisognava disciplinare, immolare al loro
servizio gli individui già adunati nel fatto e nell'idea, ili
possesso d'una patria o in pericolo di perderla. La vita non viveva
che di sacrifizio incessante alla morte: il guerriero, che di tale
sacrifizio faceva una funzione esclusiva per se stesso e per la
propria famiglia, doveva necessariamente prendere sugli altri un
impero.
Quindi un orgoglio ombroso, una sensibilità egoista, il culto della
forza, la passione della prepotenza, il disprezzo delle leggi,
poiché tutte avevano egualmente bisogno della sua forza per essere
tali, la ripugnanza al lavoro, furono tanti -lineamenti nel
carattere del guerriero. Abituato a vivere della morte e a chiederle
il primato sulla vita, diffìcilmente in questa poteva sentire la
creazione sempre nuova dei sentimenti e delle idee, riconoscendo
nelle piccole opere della pace lo scopo stesso delle proprie
imprese. Una disciplina infrangibile lo imprigionava nell'apparente
libertà della prepotenza, perché la cooperazione militare esigeva
sempre la più precisa sottomissione dell'individuo, mentre il suo
costume doveva necessariamente oscillare fra gli estremi
dell'obbedienza e della rivolta, della
regola e della licenza. I primi progressi
furono quindi assai lenti.
Alle società così costituite nella difesa di
se stesse non rimaneva altra potenza di creazione che,negli
individui più deboli, quelli stessi che servivano al
mantenimento dei guerrieri. Le loro forze e le loro abitudini
spirituali provvedevano a tutto, preparando ed inventando,
ricominciando per secoli all'indomani
l'opera cominciata nella vigilia. Probabilmente l'efficacia di
questa fu dapprincipio assai scarsa sull'anima dei guerrieri; più
attiva e profonda invece sarà stata l'altra della religione, che è
sempre un poema, e, parlando alla fantasia come ai sensi, può
dalla rappresentazione di un simbolo generare un sentimento.
Il primo progresso del carattere guerriero rimase così visibile
nelle epopee, che Giambattista Vico potè poi tanti secoli dopo
trarne il segreto della storia primitiva; infatti prima il
guerriero è un selvaggio, fors'anco antropofago, animale e
fanciullo, che vuole essere ammirato e si ammira, vittima dell'ozio
e della morte; dopo è un eroe.
Ma nell'eroe il selvaggio è rimasto.
Nell'uno e nell'altro le condizioni della vita sono sostanzialmente
le stesse; però l'eroe nel momento del sacrifìcio s'innalza e si
contraddice. Egli sente in se stesso qualche cosa che non è della
sua vita quotidiana, un orgoglio lo esalta, e nel dono della vita ne
apprende quasi la rivelazione. Egli, il forte, deve essere
immollato pei deboli, e i deboli solo, senza capirlo, possono
amarlo, perché tutti gli altri forti, rivali o nemici, lo guardano
come giudici. Nell'eroismo è già entrata la pietà: la forza deve
avere un bontà, la guerra una bellezza, la morte un segreto che
qualcuno dirà. Ecco il poeta.
Prima del poema non abbiamo che la preistoria, epoca oscura nella
quale l'umanità è così confusa nell'animalità che oggi ancora la
scienza, ingannandosi, la crede soltanto una forma un po' più alta;
dopo il poema il guerriero si perfeziona nella storia, ma non muta:
il suo modello è nell'eroismo, il suo fondo nella barbarie, il suo
carattere una mistura dell'uno e dell'altra.
Grattate il guerriero e scoprite il selvaggio; esaltate il
guerriero e compare l'eroe.
L'ascensione del carattere militare
nel carattere eroico meglio che nel poema si manifesta
dalla tragedia, forma più individuata, nella quale l'eroe è quasi
sempre un re o lotta con un re. Comunque la tragedia si svolga
e la catastrofe precipiti, l'eroe vorrà mantenere davanti a se
stesso ed agli altri la propria interezza; la sua lotta è ancora più
contro le invisibili forze del destino che contro coloro i quali le
rappresentano nell'antagonismo delle
passioni e delle idee: grande o piccolo, egli è già
l'uomo che dispera e non cede, col volto rigido e il cuore molle di
lagrime.
Ma la guerra, non interrompendosi mai nella storia ed
accompagnandosi a tutte le sue opere come una fiamma e come
un'ombra, muta i propri modi e quelli del guerriero. Certo i
caratteri essenziali resisteranno nel fondo dell'anima, e basterà
forse il più piccolo attrito alla loro esplosione; ma l'esercizio
civile della pace e l'ascensione stessa dei deboli, incapaci di
sottomettersi alle fatiche e di affrontare i rischi della guerra,
produrranno inconsapevolmente una trasformazione militare.
Nella civiltà l'importanza della guerra diminuisce non nella sua
necessità, che invece si è mantenuta quasi uguale sino ai nostri
giorni, ma col crescere della importanza nelle opere della pace. Lo
sviluppo spirituale crea contro l'aristocrazia della morte altre
aristocrazie della vita: il guerriero non può essere primo che
nella parità della barbarie, mentre per la vita il problema è tutto
o quasi nella durata: quando invece la durata non è più in
pericolo, ma solamente qualcuna delle sue forme come la estensione
del territorio o della giurisdizione, l'importanza di una supremazia
civile o politica, in tale difesa la guerra non è che un modo e
spesso non il più efficace. Allora grandeggiano accanto al guerriero
altre figure; la vita è diventata così complessa che anche più
complessa ne è la vittoria: quindi l'arte e la funzione militare si
specializzano, e specializzandosi si perfezionano, ma scemano
socialmente di valore, finché la società arriva talvolta a farne di
meno. Popoli assolutamente inetti alle armi hanno potuto vivere non
solo, ma raggiungere nella civiltà un certo sviluppo, sostituendo
alla guardia militare qualche altra difesa.
Poi la correlazione e la coordinazione politica, equilibrando le
forze, attenua col rapporto del numero fra difensori e difesi anche
quello fra combattenti e morti. Più l'arma è brutta e più uccide;
nelle antiche battaglie, ogni guerriero battendosi a corpo a corpo,
il duello ricominciava ad ogni vittoria; quindi la strage era quasi
identica nei vincitori e nei vinti, e il valore degli individui non
si moltiplicava che ben poco per quello della massa. Il progresso
diminuisce invece l'importanza del soldato, aumentando quella
dell'esercito: quando le armi furono finalmente a tiro lungo e gli
scontri per masse distanti, la vittoria dipese da incalcola-
bili virtù di resistenza nelle masse medesime. Una necessità di
educazione venne quindi a mutare l'opera militare: il soldato
dovette sempre più rientrare nella obbedienza, annullandosi in una
passività automatica: il valore e la forza non furono più
d'individui ma di gruppi: l'eroe nelle file inferiori rimase
secondario, in quelle superiori dovette essere intellettuale.
Ma in ambo i casi egli non era stimato che per i servigi resi; la
sua personalità non più temuta era subordinata ad un gruppo di
funzioni piùalte, rappresentate da individui spiritualmente più
forti.
La guerra per la guerra, malgrado l'apparenza capricciosa delle sue
decisioni, cessò presto, perché il progresso della storia non
sarebbe stato altrimenti possibile.
Poi una inversione si compì. Mentre neìla preistoria
tutte le arti e le industrie rudimentari debbono servire quasi
soltanto a mantenere i guerrieri, che sono come i depositari della
vita e della razza, nella storia arti ed industrie sviluppandosi
riducono i guerrieri alla propria soggezione, e la guerra non ha
oramai più altro scopo che di garantire ad un popolo una qualche
supremazia economica o civile. Questa anzi rimase la massima
funzione della guerra. I nobili apostoli, che adesso negano la
guerra, accusandola di essere il massimo delitto umano e l'ultimo
ostacolo alla libertà della vita, dimenticano che sino a ieri ogni
vittoria civile dovette prima cominciare da una vittoria militare, e
che la potenza della guerra fu in quasi tutti i popoli il migliore
indice della loro potenza
spirituale. Senza di quella non sarebbe stato possibile la
coagulazione e la livellazione degli imperi, che uguagliavano popoli
e razze: la guerra era un veicolo della civiltà, alla quale il
sangue, meglio dell'olio, scemando gli attriti, precipitava il
corso.
Non si può astrarre nella storia, o
peggio ancora sostituire alla
sua tragica successione una serie fantastica
d'ipotesi.
Certamente vi furono piccoli popoli, in regioni anche più "piccole,
che ebbero sulla civiltà universale maggiore influenza dei più
grandi imperi; ma nemmeno quelli stettero senza guerra, anzi nella
loro angusta cerchia il suo furore raddoppiò, mentre il pensiero vi
sfolgorava di luce divina.
È triste, ma bisogna pur confessarlo: nella storia, tutto o
quasi fu pagato col sangue. Ma nemmeno bisogna credere che il
sangue fosse solamente moneta di guerra, giacché in ogni altra
lotta l'individuo dovette quasi sempre arrischiare la vita per
guadagnare la vittoria. La gara, così apparentemente pacifica,
del commercio e dell'industria, dell'arte e della scienza, è
invece una guerra come tutte le altre, e tale resterà. Tutti vi si
battono disperatamente con tutti: la sconfitta, se non
produce la morte naturale, è una morte civile o economica,
quasi sempre senza rivincita; il vinto finisce prigioniero in
qualche funzione umiliante, o sopravvive come un
invalido fra gli scherni del pubblico e i rimbrotti della propria
famiglia. Vi sono ancora mestieri che danno annualmente una
mortalità superiore a quella delle più orribili battaglie, senza che
di essi si possa fare a meno o sia almeno permesso di sperare nei
rimedi della rettorica igienista: vi saranno sempre per ogni
lottatore le stesse condizioni di lotta, e in ultimo per
vincere dovrà sempre arrischiare tutto se stesso. Forse il rapporto
della mortalità colla vita,
indarno tentato da Maltus in una piccola e falsa legge di egoismo,
non muterebbe -sensibilmente col cessare della guerra e col trionfo
delle ultime speranze della medicina nella cura delle più micidiali
malattie, trasformando i malati in convalescenti: forse un ritmo
misterioso domina la vita e la morte, e questa finirebbe sempre col
riprendersi su quella, con altre armi, sotto altro nome, il
medesimo numero di vittime.
La morte della guerra è ancora la più spirituale, poiché l'uomo vi
soccombe alla forza di una idea, nella coscienza della propria
volontà: è quindi assurdo affermare che il soldato vi sia schiavo,
perché non può sottrarvisi che incorrendo nella disobbedienza il
medesimo rischio, mentre invece egli vi si muove come in ogni altra
opera, libero dentro una necessità spirituale.
Per coloro, che negano la guerra, il problema non è dunque di
sopprimerla come gara di morte fra individuo e individuo, popolo e
popolo, ma di sostituirvi modo a modo, arma ad arma. Nella guerra
commerciale una macchina, mutando le condizioni di lavoro, può
decimare una classe di lavoratori: una scoperta geografica,
spostando le correnti del traffico, ridurre quasi deserti certi
paesi prima fin troppo densi di popolazione: una idea religiosa
rovesciare i più forti imperi, o preparare come nelle missioni
cattoliche la distruzione dei popoli sopravvissuti ancora nella
preistoria, mettendoli colla più caritatevole delle intenzioni a
contatto della storia moderna.
Però è consolante constatare la diminuzione della guerra nella
storia, come veicolo di vita e strumento di civiltà: oggi infatti
non ha più capricci né di piazza né di corte, la sovranità del
pubblico domina tutti gli organi di governo, nella coscrizione
l'esercito non ha oramai altro spirito che quello della nazione. I
soldati vi soddisfano a malincuore un obbligo, del quale non
comprendono abbastanza bene l'idea, ma del quale sentono anche
troppo il peso; per loro non vi è speranza né di fortuna, né di
gloria nelle armi, in caserma non sognano che la propria casa,
conoscono poco i superiori, non li amano se buoni, li ricordano per
tutta la vita se cattivi. Quello, che si chiama spirito di corpo fra
le varie sezioni dell'esercito, non è che una piccola vanità di
superficie; nel fondo tutti i soldati ridono del proprio mestiere
in tempo di pace e lo temono pel tempo di guerra.
Eppure mai come ora il peso del servizio fu più leggiero, e questo
più breve. Ma lo spirito militare non vi è più.
Nell'Italia mancava ogni vivente tradizione di guerra, le ultime nel
periodo del risorgimento furono quasi tutte infelici, nell'Africa la
prima guerra veramente italiana concluse alla più umiliante
sconfitta. Ma una più profonda ragione impedisce che nella nazione e
nel soldato ferva uno spirito militare; l'uno e l'altro passarono
repentinamente dall'inerzia di una secolare schiavitù all'attività
febbrile di un periodo industriale, sollecitato da tutti gli aculei
della modernità. E poiché la caratteristica fra lo spirito
industriale e quello militare sta appunto nella cooperazione libera
dell'uno e forzata dell'altro, l'improvvisazione stessa di tutte le
libertà e l'orgoglio della coscienza sovrana, anche nei più bassi
individui, dovevano contrastare alla nuova formazione di sentimenti
e di abitudini guerresche.
Nell'esercito invece, l'ufficialità, è questa la recente parola, si
arrestò ad altri ostacoli. Essa procedeva non per coscrizione ma
perarruolamento, era un corpo .chiuso, nel quale pochissimi
penetravano salendo dalla caserma; gli. ufficiali uscivano quasi
tutti dalle famiglie della borghesia, nella quale la carriera
militare ricominciava a funzionare come un tempo l'ecclesiastica,
alleggerendo il peso o diminuendo il numero dei suoi membri.
Tradizioni militari non duravano che nel Piemonte, e quindi
offendevano le altre vanità regionali; le glorie più originali di
guerra si erano prodotte a fianco dell'esercito dietro a Garibaldi;
ma l'esercito dovette subito diventare grosso per necessità di
assetto e di difesa; e i soldati vi furono provvisori, gli
ufficiali vi si disposero come degli impiegati. Poi la lunga pace
spense dentro di loro, e intorno a loro, gli ultimi echi delle
guerre patriottiche, mentre la lentezza delle promozioni, il peso
della anzianità, la disattenzione del pubblico e le nuove
ripugnanze industriali vi intristivano la vita.
Ma se l'odio rivoluzionario altrove inventò la parola «militarismo»,
condensandovi tutte le critiche alla guerra e alla funzione delle
armi sino a denunciare negli ufficiali un nuovo ordine di nemici
intesi a tutto compromettere per la vanità della propria assisa,
nell'Italia la cordialità fra popolo ed esercito non fu mai rotta.
Questo non era forse molto stimato; si sorrideva del suo passato
troppo recente, si scherzava sulla probabilità di altri smacchi
futuri, salvo a sanguinare come nel riaprirsi di una ferita a
qualche nuova umiliazione della nostra bandiera.
Il vecchio scetticismo italiano ghignava ancora, ma il nuovo ideale
militare brillava nella coscienza di tutti.
Oggi il soldato non è più che il cittadino momentaneamente eletto a
questo ufficio di difesa come a qualunque altra funzione, senza che
il suo carattere e la sua vita ne vengano profondamente mutati. Il
soldato vi si assoggetta come ad una tassa, impara materialmente il
mestiere, ma ignora troppo i veri motivi della politica nazionale
per accettarne volentieri i rischi di morte. La sua paga è così
piccina che pare un'ironia, l'uniforme gli pesa come una livrea:
invece le necessità della disciplina irritano l'orgoglio del suo
individuo, e le inevitabili ingiustizie di corpo offendono la sua
coscienza. Egli serve scontento e nostalgico, distruggendo colla
critica le poche bellezze della propria funzione, esagerandone con
un risentimento di fanciullo e di servo i difetti.
Impossibile quindi parlare di spirito militare nei soldati.
Gli ufficiali invece dovrebbero averne uno soltanto perché
ufficiali. Essi formano nell'esercito come una fitta rete, che vi
rattiene i soldati; vi sono una aristocrazia intellettuale e morale;
su loro pesa tutta la responsabilità dell'azione, a loro soltanto ne
vanno tutti i profitti. Qualche cosa dell'antica casta guerriera
sopravvive in essi, isolandoli dal resto della gente: il loro
pensiero, la loro virtù e la loro vita dovrebbero crescere dalla
morte. Invece la segregazione, sottraendoli alla impurità degli
intrighi e dei guadagni comuni, ottunde spesso in loro il senso
della realtà quotidiana. Però nessuno degli antichi vizi guerrieri
offusca più il loro spirito. Nella pace come nella guerra la
coscienza moderna non tollera più eccessi di prepotenza; se
accadono, bisogna nasconderli, perché la stampa li denuncia, gli
avversari ne urlano e gli indifferenti stessi se ne offendono. Il
coraggio medesimo deve essere senza ferocia, dacché il patriottismo
non arriva più all'odio del nemico, nemmeno nella guerra fra i
fuochi fatui delle battaglie.
Gli ufficiali si arrolano giovani, vanno di reggimento in
reggimento, di guarnigione in guarnigione, oziando nella pace,
stancando la propria vita nell'attesa di una promozione, nei modi
comuni ad ogni altra categoria d'impiegati. Il tempo soffoca
presto la poesia giovanile, la disciplina livella le più nobili
originalità, le lunghe paci non consentono rivelazioni improvvise di
merito: come riempire la vita? A che aspirare? Le paghe sono povere,
urgenti le necessità della decenza, dolorose quelle della famiglia,
se l'ufficiale se ne componga una. Così in tutti o quasi comincia a
mezzo la carriera il rimorso di averla sbagliata: per uscirne è
troppo tardi, e l'ufficiale vi resta come deformato dalla propria
funzione, incapace di rientrare nella mobilità della vita. Davanti,
lontano, non vede che una pensione, quando gli anni lo abbiano
portato ai limiti estremi della carriera.
Ma sarà stato un guerriero?
Eppure nella vita moderna non vi è più nobile ordine della milizia:
la sua stessa miseria ne diventa la prima bellezza di un tempo, che
sacrifica tutte le altre alla appariscenza della ricchezza.
Qualunque possa essere quindi il motivo che spinge gli individui
alla carriera militare, il rimanervi al di fuori e al disopra della
vita comune eleva la coscienza. Forse nessun'altra è più povera e
migliore che quella di un soldato.
Si batterà egli? Tutta la sua vita è In questo problema di morte.
Non si batterà? E allora il suo sacrificio è stato indarno, come
quello delle zitellone, che allevano i figli altrui e sono sempre
egualmente sole.
Non importa: il carattere militare moderno non può essere che così.
Garibaldi ne fu la prima ideale figura, che apparve come in un
chiarore di visione al disopra dei monti, al di là degli oceani,
sino agli ultimi confini.
Egli era un guerriero che non amava la guerra, non portava assisa,
non si preoccupava delle armi: non fu quasi mai pagato, servì re e
repubbliche, comandando in battaglie che erano quasi sempre un
olocausto. Le sue sconfìtte potevano interrompere la sua opera, non
la sua fede; le vittorie non mutavano mai la sua condizione di
cittadino povero, che aveva una patria ovunque un diritto chiamava a
raccolta. Sapeva ubbidire quanto comandare contro se stesso anche
nel sogno più bello di gloria, nel momento più tragico di una
rivoluzione: tutti i posti erano uguali per lui nella guerra e nella
pace: poteva essere facchino ed ammiraglio, generale e maestro di
scuola, dittatore e bandito, agricoltore e ministro: come lui i
suoi soldati non chiedevano gradi e si accontentavano di qualunque
paga, si adunavano al primo pericolo di guerra e si disperdevano
nella pace, sparendo fra il popolo, non mutati per mutare di
fortune.
Ma questo eroe, che nella propria ingenuità avrebbe potuto essere di
ogni tempo, questo cittadino del mondo, che si sentiva solidale con
tutti i popoli, era l'anima più italiana dopo Dante. Non era entrato
in nessuna scuola, non si chiuse mai in una sola politica: sapeva
che la guerra è una necessità della morte, quindi vi serviva per gli
altri aiutando, e ne usciva senza aver odiato il nemico, non
chiedendo al vincitore che la libertà del vinto.
Nessun eroe fu mai così, nessun soldato sarà mai più moderno di lui.
Io domando dunque agli apostoli della pace: vi è qualcuno fra voi,
che abbia fatto per essa più di Garibaldi? In tutti i periodi
storici la guerra fu sempre la prova suprema della superiorità, e il
mondo vi si trovò come un uomo davanti alla morte per . trarre dalla
sua stessa tragedia le forze necessarie ai maggiori problemi della
vita: non basta quindi denunciare tale contraddizione per
toglierla, o conteggiarne i danni, perché la coscienza se ne
ritragga.
La guerra cesserà solamente quel giorno, nel quale nessuna idea per
realizzarsi abbia più bisogno di vincere colla forza le resistenze
brute d' un istinto o false di un interesse, quando cu l'anima di un
popolo possa sottomettersi alla necessità spirituale di un fatto,
come l'anima di un uomo superiore, accettando anche il danno e il
dolore. È necessario quindi alzare la coscienze morale ancor più
dell'intelletto per togliere alle passioni il diritto d'intervento
nel dibattito delle idee, e alla volontà la forza di resistere
contro l'evidenza del pensiero. Il progresso morale si realizza
appunto in una lenta, ma continua sostituzione del diritto alla
forza, in questa eroica prevalenza della carità sull'egoismo,
nell'aristocratica superbia di sentirsi superiore alla propria
condizione.
È inconsolabilmente triste che l'uomo debba uccidere l'uomo per il
trionfo della civiltà, giacché non la morte ripugna alla nostra
coscienza di mortali, ma l'uccisione umana. Nella vita delitto e
pena sono due forme correlative; l'assassino, ammazzando, non
usciva dalla lotta della natura, mentre il giudice, condannandolo a
morte, s'innalzava sopra di lui, oltre la sfera stessa dello
spirito, ad una onnipotenza che l'uomo non può avere sull'uomo.
Ecco perché abolimmo la pena di morte.
Contro la guerra ritornano quindi i più forti e più grandi tutte le
obbiezioni a quella pena. La guerra non deve essere negata per le
conseguenze del suo danno, mentre sarebbe forse impossibile
dimostrarlo sempre interiore al beneficio, se l'istinto e la logica
della storia se ne servirono ovunque sino ai nostri giorni, ma
contro la guerra debbono convergere tutti gli sforzi della nuova
rivolta ideale.
Il trionfo della libertà nell'umana coscienza verrà appunto dalla
sottomissione di tutti gli istinti e le passioni individuali alla
verità impersonale della storia, e nella sostituzione dei mezzi
morali ai mezzi materiali; il progresso non potrà essere rapido, ma,
come non si arrestò mai, così non si fermerà prima di aver toccata o
quasi la meta. La morte seguiterà a funzionare come l'aspra nutrice
della vita, senza che l'uomo sia più il carnefice dell'uomo.
Nell'attacco e nella difesa di guerra la spiritualità soccombeva
egualmente alla forza bruta: era come un eclissi, una notte
improvvisa, nella quale la vita si sentiva precipitare dentro la
tenebra antica: quindi lo spirito accese la fiaccola dell'eroismo a
mantenerle un barlume.
Adesso nella guerra resti soltanto la bella poesia eroica, che
riconosce nel nemico un fratello prima della battaglia e un
fratello dopo.
La divisa di Rama, l'antichissimo eroe indiano, era «vincere e
perdonare, attendere, che il nemico ferito si rialzi, dare e mai
ricevere»; quella dell'uomo moderno avrà un motto anche più alto «
accettare tutto dalla vita e dalla morte, vivere nello sforzo della
giustizia, morire nei sacrificio dell'amore».
XVII.
L'imperialismo,
L'Italia non potrà averne né la grandezza, né i vizi.
Qualcuno condanné recentemente l'idea imperiale dalla cattedra
della scuola diplomatica, ideata già dal De Sanctis, il più artista
fra i critici letterari, senza che tale condanna, sonando da Roma,
destasse echi nella penisola.
Il Loria, chiamato a tale cattedra, economista più celebre nella
scuola che novatore del pensiero, tentò affrontare alteramente il
vasto e nobile problema, che attraverso le più profonde differenze
etniche e storiche sospinge da una stessa meta le più opposte
nazioni, imponendo loro una strana similarità di metodi e di
fisonomia. Ma l'economia vi rimase soltanto tale, coll'orgoglio di
una scienza non ancora abbastanza sicura di sé malgrado due secoli e
una lunga serie di uomini celebri; quindi giudicò il nuovo fatto
col criterio e dal traguardo dell'interesse mercantile, cadendo
un'altra volta nell'illusione scolastica che il fattore economico
sia il massimo della vita e della storia.
Così era facile dimostrare come l'imperialismo non possa confondersi
colla colonizzazione, precorsa sempre o accompagnata dalla
emigrazione, mentre quello vi si aggiunge di rado e ha carattere
militare e violento. La sua moderna differenza dalle conquiste di
altri tempi è tale che non si può riaccordarlo né alle scoperte
geografiche, né al progresso delle comunicazioni, né alle forme di
governo; invece parrebbe un prodotto di cause economiche, più
precisamente una conseguenza del disagio che il capitale soffre fra
le strette di un reddito insufficiente.
Infatti l'enorme accumulazione capitalistica, la depressione
industriale, il movimento di ascensione nella classe operaia, hanno
rapidamente contribuito a ridurre troppo i guadagni del capitale,
che deve fatalmente cercare altrove, smanioso e violento, nuove
conquiste, oltre mare, nelle regioni non esauste della storia.
L'imperialismo appare dunque e grandeggia quasi sinistramente nei
paesi densi di popolazione come l'Inghilterra, o, nella loro immensa
vastità, stretti dalla più assoluta unità come la Eussia.
Ma l'imperialismo, assicurando uno sbocco al capitale disponibile
del paese conquistatore, danneggia il capitale non esportato, cui
le nuove industrie dei paesi transmarini contendono il mercato
nazionale ed internazionale colla riproduzione dei dazi, delle
federazioni coloniali, delle compagnie privilegiate, riducendo così
il produttore ad una servitù male dissimulata, schiacciandolo
sotto il peso di una infelice fatica, avvelenandolo coi prodotti
più falsi della stessa civiltà.
Quindi, impersonale e divoratore, l'imperialismo sembra corrompere
ogni moralità nella gente assoggettata e l'ultima onestà dei
conquistatori industriali, che rinnovano involontariamente il
culto della forza fisica e le velleità dei primati di razza; gonfia
l'espansione del potere esecutivo a danno di quello legislativo;
pompa le più vitali risorse del paese natale sino ad arrestarvi
l'ascensione delle riforme. E però la scienza lo condanna, mentre
l'arte, più debole, vi si degrada, scendendo dai canti così puri e
gentili di Longfellow alle brutali e sanguinanti canzoni di Kipling.
Tale la critica economista, né avrebbe potuto dire di più.
Eppure l'imperialismo ha ragioni più profonde e fisonomia più
nobile. La sua passione, che ha invaso ed infiammato tutti i più
forti popoli moderni, va dritta all'eterna meta della storia, la
unità del genere umano. Ogni nazione non è che una comparsa o un
attore nel suo dramma millenario; conquistatori e conquiste si
rinnovano e scompaiono; non vi sono nel risultato né vincitori né
vinti. Ma il valore di un popolo, dovendo misurarsi non
all'interno, ma all'esterno dalla vastità e dalla profondità
dell'espansione, il commercio, al pari di ogni altra guerra, non può
avere un segreto ideale diverso. Ogni popolo, capace di avvenire
sente nell'istinto questa necessità di uscire lungi da se stesso per
imprimere la propria orma su altri mercati, su altre terre: una
merce può essere un'arme come un cannone; una fabbrica innalzata fra
un popolo barbaro o soltanto inferiore vale una fortezza: ogni
strada, che solca il suo territorio, è una nuova vena per un nuovo
sangue che scorre nel suo corpo; ogni porto aperto pel commercio è
una breccia nell'antichità, che sopravvive a se medesima.
Se il problema mondiale del rinascimento fu l'America, e dopo la
rivoluzione francese, nel secolo scorso, l'Europa si gettò
sull'Africa sventrandola, illuminandola, per attirarla nell'orbita
della storia universale, nel secolo XX il problema sarà l'Asia.
Questo materno, immenso continente esige alla propria lunga
rinnovazione incalcolabili sforzi dall'Europa e dall'America: sola
l'Europa non vi sarebbe bastata: ecco perché il prologo del dramma
cominciò nei primi giorni del secolo, e attori di tutte le potenze
civili vi fecero una prima sanguinosa comparsa.
L'imperialismo è gara di valore fra questi attori, che si esprime
col bisogno di una più intensa organizzazione economica e politica;
un orgoglio di nazione e di razza vi soffia dentro, vizi e passioni
vi si infiammano, il danaro diviene prodigamente idealista e
conquistatore, l'industria e la scienza si mutano in armi, la
religione aiuta anche degradandosi: e un tumulto di contraddizioni
morali, economiche, politiche, di climi, di popoli vi confonde lo
sguardo dei più acuti pensatori.
Nell'Inghilterra tutti sentirono che la rivolta, così giusta ed
infelice dei Boeri, comprometteva l'impero, ed accettarono con un
coraggio troppo maggiore della bravura una guerra ruinosa ed
accanita: nell'America una ricchezza rapida, enorme, solleva l'anima
ancora giovane della nazione sopra il già vecchio, chiuso egoismo,
distogliendola dai problemi interni per farne una potenza militare
fra le più forti d'Europa, e vi improvvisa una politica di
conquista, una flotta, un esercito, uno spirito nuovo, un'altra
morale, un'altra filosofìa. Il Giappone ieri sembrava una copia
europea, oggi è forse la più potente originalità della storia.
Piccolo, ignorato, ha attaccato, respinto, domato l'immenso impero
russo, togliendogli il primato d'influenza sul rinnovamento
asiatico: il campione giallo provò colle proprie imprevedibili
vittorie la potenzialità della propria razza, dissipando ogni
dubbio sull'avvenire dell' Asia. L' Europa ammirata, quasi smarrita,
dinanzi all'incomparabile valore del Giappone, alla sapienza della
sua preparazione, alla sua moderazione nella pace, non ha ancora
saputo contrapporgli un'altra pari originalità ideale; l'Inghilterra
si umilia, affidandogli la difesa delle Indie, l'America gli offre
tutto il proprio danaro, la China trema, si prosterna, imita
silenziosamente ed aspetta.
La Germania, dopo la magnifica vittoria sul secondo impero
napoleonico, si getta sull'Africa, creò una flotta, un commercio,
una industria; lottò coll'Inghilterra e coll'America, vinse
d'accapo la Francia, s'inoltrò nell'Oriente, disegnando altere
nell'avvenire le linee di un più grande impero germanico: invece
vedete noi stessi. Fallimmo nell'Africa, ma vi restammo incatenati,
né in questo secolo ventesimo romperemo la catena: più timidamente
egoisti ancora che impreparati, fingemmo di non capire la fatalità
dell'impresa che la storia europea c'imponeva dopo averci
affrettato e pagato il risorgimento. Non eravamo stati abbastanza
soldati nella rivoluzione, non fummo abbastanza mercanti nella
politica mondiale.
L'imperialismo non è teoria di superuomini, lirica debole, sonora,
che un grande ingegno ammalato cantò non ha guari dalla Germania in
libri di filosofìa poetica, e se rugge nelle canzoni in Kipling o
folleggia nelle estetiche decadenti, rimane chiaroveggenza negli
uomini di Stato che sentono la necessità del dimani. Nella gara
mondiale delle nazioni le riforme interne non possono sempre
prevalere alle forme esterne: forse la ascensione operaia si.
arresterà, perché meglio e più presto venga facilitata l'elevazione
delle razze inferiori.
È assurdo accusare il capitale, sarebbe ridicolo imporgli una
politica, che la sua stessa impersonalità non consente.
Essere forti per diventare grandi, ecco il dovere: espandersi,
conquistare speritualmente, materialmente, coll'emigrazione, coi
trattati, coi commerci, coll'industria, colla scienza, coll'arte,
colla religione, colla guerra. Ritirarsi dalla gara è impossibile:
bisogna dunque trionfarvi. L'avvenire sarà di coloro che non lo
hanno temuto: la fortuna e la storia sono donne, e amano soltanto i
gagliardi capaci di violentarle, che accettano i rischi
dell'avventura per arrivare alla dominazione dell'amore.
Lasciate cantare Kipling: le sue aspre canzoni valgono bene i
sonetti che ancora cadono sul bel paese come nebbia sul pantano:
Kipling crede alla invincibilità dell'Inghilterra; qual giovane
poeta italiano crede almeno ad una vitto dell'Italia domani?
Ma l'Italia non può essere imperialista: l'anima dell'impero morì
sotto le rovine di Roma pagana, dalle quali salivano come voci di
trionfo le salmodie dei cristiani e gli urrà dei barbari.
Indarno quell'anima parve risorgere nel sacro romano impero di
Francia e di Lamagna come idea rivale della cattolica, che da Roma
dominava nuovamente il mondo, mentre nell'Italia invece il nuovo
spirito individualista creava l'originalità dei comuni e delle
signorie. Nulla fu quindi imperiale italianamente, nemmeno gli
imperatori, che tratto tratto scendevano contro le pretese del
papato; nessuna parola ebbe potenza evocatrice di impero, nemmeno
quella di Dante. La recente razza, formata da mille misture, non
poteva per la ricchezza stessa dei suoi germi arrivare alla unità di
pensiero e di comando; le sue forme politiche apparivano e
sparivano come in un caleidoscopio, la funzione italiana per secoli
fu nella storia, come quella di
Grecia, una maternità ideale sull' Europa in un continuo
tragico parto di idee. Forse la civiltà italiana ebbe mondialmente
più efficacia che quella magnifica di Roma nella repubblica e
nell'impero.
L'ultima forma imperiale d'Italia fu il papato rimasto sempre
elettivamente italiano dopo Adriano di Utrecht nel 1522. Certamente
tale gloria d'impero costò alla nazione la. schiavitù verso quasi
tutti gli stranieri, impedendo la sua unificazione, ma oggi ancora
dopo il trionfo della rivoluzione è il solo vanto che ci resti
contro le massime nazioni. Vedova del papato, che la rivoluzione
ricacciò beneficamente nell'ideale sfera religiosa, Roma non
sarebbe che una grossa ed insignificante città di provincia, senza
commercio né di terra né di mare, né industria né agricoltura; le
sue grandi rovine non avrebbero più fascino che quelle di Oriente,
la sua storia universale si sarebbe interrotta. Invece la fiera,
nobile testa di Roma sovrasta ancora al mondo: a Roma guardano o
gridano dall'invisibile confine le anime che temono e sperano: il
mondo ha ancora nell'urbe l'unità spirituale.
Che cosa vi rappresenterebbero soli i re di Savoia? La loro
montanara fortuna fra il Pantheon e San Pietro, il Colosseo e il
Vaticano, non vi ha che un significato provvisorio; sono troppo
antichi come conti della Savoia, troppo recenti come monarchi
d'Italia, troppo estranei alla grande tradizione nazionale per dare
davvero a Roma una incancellabile impronta di modernità; crebbero
nelle astuzie dell'accattonaggio, si giovarono di ogni alta
decadenza dinastica, salirono sospinti, quasi travolti dalla
rivoluzione. Ma l'idea unificatrice non era in loro, e nemmeno la
passione dell'eroismo. Adesso servono la mediocrità politica della
nazione, che si contenta nel proprio vecchio senno dei loro servigi.
L'esuberanza della razza si riversa sull'America a crearvi forse
un'altra Italia, senza che questa vi si interessi ancora come
nazione.
Eppure la superiorità della nostra razza su quelle di Francia e di
Spagna, l'esaurimento turco, l'inutile risorgimento greco, il tardo
e così lento processo dei nuovi regni al disotto del Danubio
assegnano all'Italia mediterranea una funzione ed un primato; non
mai fummo italiani come ora. Bisogna guardare in alto e lontano.
Nessuna nazione può contendere con noi negli ultimi quarant'anni.
L'Imperialismo non è sogno che nei deboli, e diventa vizio soltanto
negli incapaci al comando: i nostri ultimi eroi erano tutti grandi
avventurieri, i nostri recenti viaggiatori vedevano tutti
nell'avventura un lineamento d'impero; il romagnolo Romolo Gessi
fondò un effimero regno nell'Africa. Che cosa farebbe l'Italia
futura nell'angustia dei propri confini? L'avvenire dell'Europa è
negli altri continenti, là soltanto proverà l'eminenza della
propria anima: la guerra è di razza.
Coloro, che vogliono
ostinatamente essere grandi,
giungono a mantenersi umani, perché passione
e verità sono sempre in alto, oltre la meta, che il piacere assegna
all'amore e la ricchezza al lavoro.
La bellezza di un'opera non comincia forse dalla sua inutilità
all'uso? Le formule supreme della scienza non sono inutili?
Eppure da questa inutilità crescono le forze medie, annientatrici
della vita.
Si racconta che Vespasiano morente volle scen:dere dal talamo
dicendo: un imperatore muore in piedi.
Finché gl'imperatori parlano così, i confini
dell'impero sono
sicuri:
XVIII.
L'onore.
Montesquieu nello Spirito delle Leggi fece dell'onore l'anima delle
monarchie, pur non riconoscendo in esso se non un motivo di vanità
individuale, che l'uguaglianza dispotica della democrazia
soffocava dannosamente nell'uomo. Tale osservazione parve subito
così meravigliosa che diventò un aforisma, mentre non era invece
che una osservazione superficiale.
Vi è certamente un sentimento e una forma monarchica inconfondibile
con tutte le altre, e al tempo stesso di Montesquieu, nella
transizione tra la monarchia ancora barbara di Luigi XI e il regno
così civile di Luigi XIV, l'onore francese brillava in tutta la sua
bellezza, con una aristocrazia ancora abbastanza forte per
mantenere la propria originalità dinanzi al re, e abbastanza colta
per mettere una grazia in ogni sopruso. Ma l'illustre filosofo, pur
così penetrante nell'esame dei fatti politici, non si domandò come
un sentimento soltanto falso potesse assicurare alla monarchia,
immutata forma di governo in tutta la storia francese, una vita
capace di sorreggere lo Stato.
Invece l'onore, prima che monarchico, fu un. sentimento di tutti i
tempi nelle classi dominatrici, che sentirono la responsabilità del
potere. Nei miti e nei poemi l'eroe non è già tale se non per
l'orgoglio del proprio onore: tutta la iattanza delle sfide, la
fermezza nei pericoli, la prodigalità nel trionfo, esprimono il suo
onore di Uomo, che si è messo al disopra della folla per
compiere in uno sforzo più spirituale le imprese ad essa necessarie
ed impossibili. perché nell'eroismo l'opera deve sempre contenere
una qualche utilità, mentre il rischio per il rischio, la bravura
per la bravura soltanto, non soddisfano che un personale bisogno
dell'eroe.
Ma l'onore non è davvero tale se non quando diventa carattere di
classe: la forza, la ricchezza, il potere non bastano a dominare la
coscienza inferiore del popolo: egli ha bisogno di ammirare qualche
cosa, che giovando lo superi: una bellezza spirituale che il caso
della fortuna o della nascita non possa avere conferito, e non sia
solamente di un individuo, ma permanga attraverso le differenze
individuali come carattere comune ed inconfondibile, capace
d'imporre doveri più grandi ancora dei privilegi. L'onore a seconda
dei tempi e dei luoghi avrà quindi dovuto mutare nelle preferenze e
nelle ripugnanze, senzachè il suo principio potesse soffrirne; come
la morale, una nell'essenza, si contradice nell'azione, proibendo a
certi popoli ciò che consiglia ad altri, così l'onore, poesia lirica
e forma drammatica della morale, mutò colle epoche e nelle azioni
per una continua ascensione ideale.
Fra l'eroe di Omero e il cavaliere medioevale la differenza è di
trenta secoli, ma l'uno e l'altro, incontrandosi, si
riconoscerebbero subito del medesimo ordine: ricordate il cambio
della corazza fra Glauco e Diomede? Quella scelta si ripeterà in
tutti i romanzi di cappa e spada, e Glauco, l'eroe orientale, appare
già raffinato come un gentiluomo di qualche corte italiana o
francese.
L'aristocrazia di Roma e di Venezia, quel patriziato composto di
re, che si sentiva unico nello Stato e si negava tutte le
distinzioni esteriori, aveva un orgoglio sempre pari a se stesso
cogli inferiori e coi superiori: la feudalità arrestò coi propri
castelli l'onda lunga delle invasioni barbariche, e si compose in
minime monarchie con tanti re sempre chiusi nel ferro, ignari,
intrattabili, e che pure si creavano intorno una poesia, e
mettevano nella vita e nella morte un altro coraggio, un'altra
delicatezza. Che cosa vi è di comune fra l'amore greco e l'amore
medioevale, fra la nerezza di Tristano e quella di Achille?
Nell'amore medioevale è già entrata la carità cristiana, la donna vi
brilla come un ideale, al quale bisogna alzarsi col valore della
gesta e la finezza del sentimento: ogni dama regna, e tutti piegano
alla sua debolezza. Il cavaliere potrà essere ancora rozzo,
lordarsi di sangue in guerre che sono soltanto rapine, e, votandosi
cavallerescamente alla difesa dei deboli, trattare ancora
barbaramente i villani, ma egli ha già un amore che gli proibisce
quasi tutte le bassezze e gì'impone una generosità ignara del
danaro.
Infatti la feudalità visse soltanto di guerra. Sconfitta dal popolo
e deportata nelle città, si divide nei partigiani delle guerre
civili, suscitandovi l'arte e la politica: più tardi, vinta dai re,
tramonta nelle corti, riempiendole di gentiluomini e di
gentildonne, che non fanno quasi nulla, ma unici sanno ancora
battersi negli eserciti e nelle diplomazie, mentre popolo e
borghesia lavorano ingentilendosi sui modelli di corte, soffrendo
già nell'invidia di quella nobiltà spirituale. Tutte le
classi, anche più basse, imitano l'aristocrazia e vogliono avere un
onore; il valore individuale non basta più all'influenza
dell'individuo, gli bisogna esprimere qualche cosa che la sua gente
stimi, ed esprimerla così bene che possa essere imitata, trasmessa
per generazione. Ognuno nella propria funzione ha opere, che lo
degradano o l'innalzano, sentimenti che deve mostrare o nascondere,
una fisonomia, che per diventare bella ha bisogno di esser corretta:
ecco l'onore, fare qualche cosa meglio che non convenga
all'interesse, qualche cosa di più che l'interesse non permetta.
La virtù invece è più individuale, semplice e profonda: ignora se
stessa, si perde umilmente in qualche principio superiore, mentre
l'onore è mondano, una gloria della vita, alla quale occorrono
tutte le forze per sostenersi e tutti i teatri per atteggiarsi. Non
può, essendo falso, durare lungamente, o se ciò avvenga, sarà per un
riverbero della sua bellezza tramontata; così nella decadenza
delle corti l'onore non fu quasi mai che una grazia della debolezza,
o l'eleganza di un difetto, spesso copiato dal popolo
nell'inconsapevolezza della lunga servilità. Ma siccome l'onore è
una delle più profonde necessità, nel disfarsi di ogni sua forma ne
sorge un'altra da una qualche virtù eroica di pochi, che hanno già
in se stessi la coscienza di un tempo nuovo: e il dramma ne diventa
più bello e più vario. Nella rivoluzione francese quasi tutti i
demagoghi erano ammalati di amore per la bellezza formale della
aristocrazia: alcuni fra i più illustri vi si perdettero col
tradimento: a molte vittime il prestigio nobiliare salvò la vita, a
molti carnefici un sorriso fece sentire la pietà per la donna e la
devozione per la dama.
E questa contraddizione di amare la forma di una superiorità, contro
la quale s'insorge per passione di invidia e di dolore, è ancora una
prova, forse la più originale, della necessità in tutte le classi di
avere una bellezza di fisonomia tanto più fascinatrice, quanto è
ancora maggiore la distanza fra classe e classe. Nella rivoluzione
francese la distanza fra rivoluzionari e aristocrazia si
raddoppiava per le idee e per le forme: quelli potevano odiare, non
disprezzare, perché questa seppe anche nella morte mantenere la
stessa superiorità della vita.
Oggi, nel dissolversi di tutte le classi in una nuova unità di
lavoro, l'idealità di un altro onore si leva come una stella
mattutina nell'anima del popolo: egli sente che la sovranità
politica lo obbliga a dominare se stesso, e che alla sua antica
maschera di cliente deve sostituire una più nobile fisonomia. Il
lavoro, già invocato e maledetto come la morte, lasciava nel corpo
e nell'anima le stigmate di una degradazione; adesso invece è opera
di conquista e sogno di regno. In coloro, creati dalla natura alla
fatica manuale, il lavoro è coscienza di cooperazione sociale; nei
pochi, che dell'ideale sono i messaggeri nella storia, il lavoro è
solidarietà di vita, tragica preminenza d'impero che li condanna
quasi sempre ad un segreto ed inconsolabile olocausto. perché la
loro aristocrazia non può essere tirannica inimicizia di forti
contro i deboli, di veggenti sopra ciechi, ma piuttosto il loro
orgoglio di eletti si esprime nella gioia cordiale dell'eroe, cui la
fatica non deprime e il pericolo non turba, o nella malinconica
indulgenza del sapiente, che unico sa la segreta nullità di tutte le
vittorie. Coloro, invece, che per sentirsi superiori si separano dal
popolo, confessano umilmente di non essere nemmeno suoi pari,
giacché il popolo ha sempre grande l'istinto, e l'individuo non può
essere grande che nel genio.
Non vi furono e non vi saranno mai superuomini col diritto di
credersi diversi dalla folla, in un'altra vita e in un'altra
coscienza.
Se Nietzsche, forse il maggiore poeta della filosofìa, volle essere
l'araldo di tale orgoglio, e parve in libri abbacinanti come un
incendio chiamare a raccolta tutti i forti per costituire una nuova
aristocrazia contro i deboli, non fu invece che l'ultimo eroe
intellettuale di una superbia già tramontata nello spirito,
l'eloquente apostolo di quella filosofìa che metteva la volontà al
disopra del pensiero, diminuendo l'individuo sino a non essere più
che il rappresentante di se medesimo. Genio ed eroismo sono
nell'uomo come una fiamma, che illumina e riscalda intorno tutti
coloro che hanno freddo al cuore e buio nel pensiero; ma l'eroismo
consuma l'eroe e il genio quasi sempre accieca il pensatore, così
che entrambi nella loro vita di uomini soccombono più tristamente
degli altri alle più miserabili necessità.
Una aristocrazia di superuomini si esaurirebbe presto nella
sterilità del capriccio, giacché dalla profonda incoscienza del
popolo, soltanto gli individui superiori possono attingere i motivi
della rinnovazione e della originalità: essi sono la parola vivente
del suo pensiero muto, la realtà del suo sogno.
Nessun sofisma più povero dunque di quello che vanta come opera
solamente individuale il capolavoro dell'eroismo e del genio;
nessuna piccolezza più ignobile di quella che la tirannia rivela
nell'onnipotenza dei propri capricci. Dall'alto di un trono, nel
meriggio della propria virilità, Sardanapalo non sa che gridare
dolorosamente: il mio regno a chi m'inventa un piacere! Caligola a
Roma nel problema dell'impero, che il cristianesimo nega, i barbari
invadono a tutte le frontiere e la coscienza spaurita del mondo già
abbandona, sogna che il popolo abbia una testa sola per poterla
tagliare di un colpo solo.
La miseria del piacere e della volontà non può andare oltre questi
due esempi: tutti i superuomini finirebbero così.
L'onore moderno sarà quindi aristocratico come sempre, ma non più di
classe, perché tutte sono scomparse e nessuna saprebbe ricomporsi
nell'angustia dei confini che le separavano dalla folla, ma vi
saranno ancora gli eletti, i superiori, custodi della tradizione,
messaggeri dell'avvenire. Intorno ad essi, benché dispersi nel
numero della vita, tutti quanti ne sentono più alta la
responsabilità e più viva la bellezza formeranno la nuova
aristocrazia. Adesso due trionfanti volgarità si aggravano
sull'anima della democrazia, politica e industriale: nell'una
domina il sofisma della volontà, che, uguagliandosi nelle
votazioni, pretende di livellare nel numero il pensiero;
nell'altra il sofisma del danaro, che vanta nella propria vittoria
il più alto trionfo dello spirito.
La prima superbia della aristocrazia moderna sarà dunque nella
indipendenza dal volgo e nella libertà spirituale, che non
sottomette la propria opera al danaro, degradando l'arte sino al
gusto del pubblico, falsando la scienza nel commercio delle sue
applicazioni, comprando dalla viltà degli elettori il diritto
supremo della legislazione. Il matrimonio, che oggi è una ditta,
sarà domani senza onore, se la gente vi sentirà una vergogna nella
donna che ha mercanteggiato la propria bellezza, nell'uomo che vi
ha venduto la propria gioventù; l'amore, che è sempre passione
anche nella carne, sarà come una volta giuramento di battaglia fra
l'esaltazione dei pericoli e le ferite della morte.
Bisognerà diventare sempre più ricchi per sentirsi sempre più
liberi; invece di provare la gioia del comando dalla inferiorità di
chi ubbidisce, l'orgoglio sarà di essere pari fra i pari,
riconoscendo nell'obbedienza ad un nostro ordine una devozione al
nostro pensiero. E poiché nella folla il livello spirituale, pur
nell'ascensione, rimarrà sempre così basso che la volontà sola
possa esercitarvi una pressione e l'aristocrazia debba colla forza
imporle un pensiero, anche allora la violenza sarà senza disprezzo,
in una responsabilità di sacerdote e di padre, che comanda perché
sa e punisce perché ama.
La potenza dell'onore sta tutta nel contagio della sua forma: non
appena una superiorità è riconosciuta, comincia ad essere imitata, e
il suo fascino cresce dalla difficoltà stessa della imitazione. Il
popolo non piega che ai forti; bisogna quindi non ubbidire che alla
propria coscienza, se si vuol comandare: come sempre esso cerca le
guide e aspetta i modelli. Adesso manca una nobiltà alla democrazia
della politica e del lavoro, dacché gli ultimi cortigiani discesero
dagli scaloni delle corti nelle piazze, e i nuovi clienti
abbandonano i signori per i ricchi.
Tornate signori nella piazza, e cortigiani e clienti non vi
domineranno più.
La prima, più superba parola dell'onore moderno, fu pronunciata da
San Paolo davanti al tribuno di Gerusalemme: Civis romanus sum.
E invece era già il primo cittadino di un nuovo mordo.