Alfredo Oriani
La rivolta ideale
Cappelli, Bologna 1937
Indice
Prefazione di Benito Mussolini
I. II motivo
II. La pregiudiziale storica
II. Il primo secolo mondiale
IV. L'aristocrazia
V. L'aristocrazia moderna
VI. Trionfo e degradazione industriale
VII. La nostra composizione unitaria
VII. L'affermazione
PREFAZIONE di Benito Mussolini
(1)
(1) Il 27 aprile 1924 l'Italia nuova porgeva colla «Marcia al
Cardollo»
il suo omaggio reverente e grato alla Memoria di
Alfredo Oriani. Ii discorso' pronunciato in quella storica
giornata da Benito Mussolini sulla tomba soli
taria è ora per Sua
volontà, premesso alla nostra ristampa di «Rivolta
Ideale»: né più
degna prefazione poteva augurarsi a questa potente opera
dello
scrittore romagnolo.
(L'editore)
Siamo venuti noi che apparteniamo alla generazione di Alfredo
Oriani a rendergli il nostro reverente omaggio. Si dirà dai nostri
avversari, da quelli che appartengono all'Italia paralitica, che noi
celebriamo i nostri eroi marciando lungo le grandi strade. E
appunto questa la caratteristica delle nuove generazioni: quella di
marciare; di essere sempre pronti a marciare: di non sostare se non
per il tempo strettamente necessario, a precisare le mète per più
rapidamente raggiungerle.
I soliti pedanti che sono incapaci della sintesi e si perdono
troppo spesso nelle analisi, hanno domandato se noi fascisti
avessimo le carte in regola per commemorare il grandissimo Oriani.
Il fatto che il figlio di Alfredo Oriani indossi la camicia nera è
la risposta più eloquente che si possa dare ai nostri avversari di
tutti i colori
Più gli anni passano, più le generazioni si susseguono e più
splende questo astro, luminoso, anche quando i tempi sembravano
oscuri. Nei tempi in cui la politica del «piede di casa» sembrava
il capolavoro della saggezza umana Alfredo Oriani sognò l'impero;
in tempi in cui si credeva alla pace universale perpetua, Alfredo
Oriani avvertì che grandi bufere erano imminenti le quali
avrebbero sconvolto i popoli di tutto il mondo; in tempi in cui i
nostri dirigenti esibivano la loro debolezza più o meno
congenita, Alfredo Oriani fu un esaltatore di tutte le energie
della razza; in tempi in cui trionfava un sordido
anticlericalismo, che non arerà alcuna luce ideale, Alfredo Oriani
volle morire col Crocifisso sul petto a dimostrare che dopo le
grandi parole dettate dal Cristianesimo, altre così solenni, così
universali non furono più pronunciate sulla faccia della terra.
Noi che, dal punto di vista della cronologia, non siamo più fra i
giovani che si affacciano ora alla vita, ma, dal punto di vista
del coraggio e della solidità fisica, ci sentiamo sempre
giovanissimi, noi ci siamo nutriti delle pagine di Alfredo
Oriani. Quella storia d'Italia così accidentata e tormentata, che
è tutto un seguito di guerre civili e di rivoluzioni — e mai il
genio italiano fu così potente come quando i cittadini lottavano
dentro le mura delle loro stesse città — quella storia che a
taluni può apparire misteriosa e paradossale, a noi fu chiara ed
apparve logica, di una logica formidabile attraverso i volumi
della «Lotta politica». Intristiva la coscienza italiana:
Garibaldi era morto, Mazzini sembrava lontanissimo alle nuove
generazioni che correvano dietro ad un profeta di dubbia razza
tedesca.
La politica del materialismo e del positivismo trionfava dalle
cattedre, dai giornali; nei partiti e nelle coscienze intorpidiva
l'anima italiana; fu questo il momento in cui Alfredo Oriani
gettò alle folle italiane il volume de «La rivolta ideale», nel
quale tutti i problemi, tutte le passioni, tutte le angoscie e
tutte le speranze del nostro tempo vengono prospettate,
illustrate, in uno stile conciso, tacitiano che basterebbe da
solo a costituire la gloria di uno scrittore.
Ci siamo nutriti di quelle pagine e consideriamo Alfredo Oriani
come un Poeta della Patria, come un anticipatore del Fascismo,
come un esaltatore delle energie italiane. Oso affermare che, se
Alfredo Oriani fosse ancora fra i vivi, egli avrebbe preso il suo
posto all'ombra dei gloriosi gagliardetti del littorio.
Ben fa il popolo di Romagna a rendergli onore, perché egli, e
nel fisico e nel morale, aveva le specifiche qualità della nostra
stirpe. Non è sol tanto una gloria della Romagna, ma una gloria
dell'Italia: non solo una gloria dell'Italia, ma a poco a poco il
suo nome viene conosciuto anche oltre le frontiere e si considera
la sua opera di letterato, di filosofo, di storico, come uno dei
momenti più singolari della storia nello spirito italiano
dell'ultimo cinquantennio.
Salutiamo la sua memoria, o giovani camicie nere, alziamo in suo
onore i nostri gagliardetti e giuriamo su questo tumulo glorioso
che a qualunque costo noi vogliamo che l'Italia sia grande.
Benito Mussolini.
Parte prima
I
Il motivo
Esso è eterno.
Sempre, a qualunque ora della vigilia, dinanzi agli inviti
dell'alba o sotto le ombre cadenti della sera, una voce si leva dal
fondo della coscienza, e i nostri occhi quasi a un appello
improvviso guardano in alto. Vanamente nella stanchezza pigra del
disinganno, nella superbia della disperazione, mormorammo colle
labbra chiuse la suprema parola della incredulità, mentre
l'indifferenza della natura alla nostra umana tragedia pareva farsi
più silenziosa, e un altro silenzio si dilatava nelle solitudini del
pensiero.
La vita fino all'ultimo passo e la luce fino all'estremo bagliore
sono un moto dell'ideale.
Coloro che negano il Dio della creazione, presente nelle anime
semplici, ne inventano un altro nel cosmo, esaurendo il proprio
orgoglio nel non dargli alcun nome, o credendosi profondamente poeti
nel confonderlo colla vita, che sorride a se stessa. E nella natura
immaginano leggi, che sono soltanto una sua apparenza nel pensiero,
e alla nostra vita d'individui danno per ragione quella
dell'umanità, individuo anch'essa che vivrà un qualche millennio
senza sapere d'onde abbia cominciato ne ove debba finire, sempre
giovane e caduco, irresistibilmente sospinto all'avvenire, e
costretto ad obliare il passato, nel quale sparirono coi morti
tutti i dolori, che li avevano uccisi. Nullameno l'amore riaccende
alla propria fiaccola ogni anima nuova, e una speranza più forte di
qualunque certezza risuscita dalle ceneri delle illusioni il
desiderio della vita come di una conquista, che ci darà la
padronanza del mistero e il segreto della felicità.
Quindi la storia non è che una proiezione della nostra vita.
L'una e l'altra ci appaiono un romanzo, nel quale l'individuo
singolo o collettivo si atteggia come dinanzi allo specchio del
pensiero, senza che le scene quasi si differenzino. Filosofia e
religione, arte e scienza, leggi e costumi salgono e discendono: le
epoche si distendono in quadri, e alcune sono fosche, altre
luminose; qualche volta l'ascensione è così rapidamente
gloriosa che la meta sembra dover esser vicina, ma nessun genio
della mente o del cuore, per qualunque potenza di opera o di
sentimento, potrà mai mutare la condizione o spezzare l'unità del
genere umano. Il più grande fra gli uomini non ha nel pensiero una
categoria che non sia nella mente del più piccolo, e come nessun dei
due sa dominare il problema del proprio essere, così sotto tutte le
bontà durano curvi da un tragico sforzo tutti i vizi, che
soverchiano altre anime senza spegnervi la luce ideale. Qualunque
tempo nella storia è segnato dalla parabola di un'idea, che
l'incendia e tramonta; ogni progresso umano sposta col suo grado
l'altro dalla meta, cosicché la distanza ne rimane ugualmente
immutata. Tutto comincia in noi e nulla finisce: la scienza
costretta nella parentesi del microscopio e del telescopio la
dilata, senza garantire a se stessa se quanto vi appare dentro sia
uguale all'illimitato che ne resta fuori: la filosofia dopo aver
chiesto al pensiero il segreto delle cose demandò alle
cose il segreto del pensiero, ma le cose tacquero, e il pensiero non
potè rispondere a se stesso, perché ignora la propria essenza, e sa
soltanto che la verità immutabile sarà per lui tutto quanto non può
non pensare. Il resto è figurazione come di paesaggi sulle superfici
dell'oceano o del cielo, enigmatico giuoco della natura, che illude
e delude i nostri occhi addoppiando il velo della propria apparenza
con un capriccio di donna e di poeta.
Noi abbiamo l'idea della bellezza e viviamo della sua passione
soccombendo sempre al suo problema: impossibile per noi del pari il
definirla e il realizzarla; un modello misterioso ci sorge nella
mente al confronto di ogni figura, ma si abbuia appena tentiamo
tradurlo in una qualche opera. Una idea di giustizia giudica ogni
nostro atto così vivamente che nessun sofisma può ingannarci: la
nostra coscienza è un teatro e un fòro, nel quale recitiamo il
nostro dramma cedendo alle passioni o immolandole al dovere in uno
spasimo di olocausto senza "che la giustizia verso noi stessi e
verso gli altri compia mai la propria formula. Al di sopra di tutta
la natura, che si rinnova dalla morte, anche noi amiamo per tutta la
durata e al di là della nostra esistenza; giovani, il nostro amore
ha il sorriso dell'alba, il murmure dei fiori, il fresco della
rugiada, l'incanto dell'eterna novità. Nel meriggio,quando la vita
ci ha rapiti nel proprio vortice; amiamo ancora con la violenza
delle fiamme, e l'amore rugge in noi come i torrenti? lacera e
feconda: è bello come le bufere che sconvolgono i cieli e li
spazzano per farne più puro il sereno, attraverso il quale gli occhi
cercano l'altissimo segreto. Vecchi, già curvi ai richiami della
terra, amiamo sempre, col rimpianto del pellegrino cui fu conteso
ovunque il riposo, coll'angoscia dell'assetato che sente la lunga
arsura chiudergli la gola: amiamo la giovinezza che non può amarci
più, e ci sorride e deride; amiamo i figli che già amano altrove, la
patria nella quale la nostra opera si è anonimamente perduta, la
gloria che non saprebbe più nemmeno scaldarci il sangue, la
ricchezza inutile alla nostra impotenza; amiamo tutta la vita
fuggente e misteriosa, e l'amiamo colla suprema frenesia del
naufrago, che le onde sferzano, il vento insulta e le stelle
guardano indifferenti dalle lontananze infinite.
Perché dunque?
È l'ideale della vita, che dentro di noi rimane intero sino
all'ultimo istante, anche colla parola ridotta ad un soffio e il
pensiero ottenebrato come uno di quei fanali, sui vetri dei quali la
bufera gittò lungamente la polvere e il fango: è l'enigma
dell'essere cominciato altrove e altrove destinato a risolversi.
Qualche volta una fede gli ha dato un nome, sempre la speranza gli
rinnovò la passione. Possiamo essere e vantarci increduli, ma il
dolore della incredulità cresce dalle domande che avventiamo contro
il mistero. Perché questa nostra vita? Perché questa nostra
tragedia? Perché abbiamo un pensiero, che sa il nome dell'infinito
e indarno dà un nome alle cose, delle quali non può sapere
l'essenza? Perché in noi questo senso duplice della bellezza e della
giustizia? Solamente noi aggiungiamo alla natura il dramma dello
spirito. Essa non è né buona né cattiva, né bella né brutta;
effimeri, noi abbiamo invece bisogno dell'eterno: deboli, tutto il
nostro sforzo è nella conquista della potenza: vivi, vogliamo un
amore che superi la morte: morti, una vita che duri immutabile nella
pienezza dello spirito.
La religione è ospizio ai credenti, mentre gli increduli debbono
egualmente camminare senza riposo sulla stessa strada, finché vinti
dalla stanchezza girano sopra se stessi,
lamentandosi e cercando ancora cogli occhi la meta sempre negata. Il
loro eroismo è quindi inutile come il dolore della vita, ma questa
inutilità diventa così il dolore del dolore, l'estremo ineffabile
momento della tragedia umana. Che importa l'accettarlo o il
ricusarlo, se il sacrificio rimane per tutti inevitabile? I
credenti vi sentono una prova, gl'increduli vi rispondono come a
una sfida; negli uni il coraggio è pazienza, negli altri superbia;
quelli sono sudditi, questi ribelli.
Questo libro non esprime né la fede né l'incredulità: sarà più
piccolo e più basso.
La vita e la storia hanno forme e sentimento ideali immutabili,
benché a certe epoche, nello sforzo di una rivoluzione o di una
ascensione, sembrino scomporsi e cangiare: ma non è che un errore
inevitabile, una illusione necessaria. Ecco il motivo del libro.
Non vengo ad affermare una fede, a rinnovare una speranza: come
tutti io non so, come tutti sono sospinto: ho sofferto e negato. La
vita è tragica senza né mutamento né tregua, lo spirito così
profondo che ogni rivelazione raddoppia il suo mistero.
Ma noi chiamiamo legge della natura le apparenze costanti dei suoi
fenomeni, e guardando nella storia siamo costretti a scegliere le
sue verità nei fatti e nelle forme che non vi mutano: poi la
bellezza.e la giustizia irresistibili nell'istinto diventano
l'inconsapevole norma dei nostri giudizi, l'illusione ed insieme la
certezza del nostro ideale.
Quale, è dunque l'ideale-presente? Sarà una insurrezione dei deboli
o una rivolta dei forti, che deciderà del suo trionfo?
II
La pregiudiziale storica.
Volgiamo le spalle agli eterni, massimi problemi.
Finché duri la vita nella umanità, la sua religione e la sua
filosofia ritenteranno sempre il mistero delle origini e della fine
per accertare il grado dell'uomo nella natura, e quale sia il
significato della sua tragedia spirituale. Ma se filosofie e
religioni, quelle creando un sistema e queste rappresentandolo, non
poterono mai contenere nella propria orbita tutti i raggi fuggenti
della vita: se le più alte concezioni della metafìsica e le più
larghe generalizzazioni della scienza non furono che episodiche
dinanzi all'infinito e all'eterno, che è dentro e fuori di noi,
tuttavia una. costanza di idee e una fissità di sentimenti
conciliarono nell'opera della vita le più profonde irreducibili
antitesi del nostro pensiero. Non una filosofia,
non una religione, non una scienza, che discedendo o salendo la
gamma della propria logica, non finisse a concludere contro i più
necessari esercizi della vita: dal culto più puro dell'idea, nel
quale tutta la materia del mondo si dissolve come in un vapore e le
sue forme in una visione effìmera di larve, al più primitivo culto
della natura, nel quale ogni sua forza di venerazione e di
distruzione fu adorata fra spasimi di terrore e di voluttà, le
religioni sublimarono l'uomo oltre i limiti della materia e della
morte, e lo degradarono fra gli animali curvando la sua fronte sulla
terra, dalla quale vaporavano le ebbrezze dei profumi e dei miasmi.
Né le scienze, così più basse delle religioni e fatalmente ancora
più unilaterali, mutilarono meno sulla falsariga delle proprie
ipotesi la vita umana, che resistè trionfalmente accettando con
logica istintiva soltanto quello che poteva giovare al suo sviluppo
spirituale, e pagando tutto il resto come un'imposta con lungo e
mostruoso sacrificio.
Infatti nella nostra tragedia nulla appare gratuito e l’errore si
ripete come una forma necessaria della verità nella storia mentre
ad ogni progresso di questa tutto è ugualmente necessario di quanto
in noi vive, il vizio e la virtù, gli eroismi della più eccelsa
spiritualità e le più brutali prepotenze dell'istinto.
La storia non è che la biografia dell'umanità, ancora giovane dopo
tanti millenni, ma non ancora arrivata alla pienezza di una
coscienza mondiale.
Comunque, cominci, dal mito, nel quale Dio creò l'uomo libero e puro
con la facoltà di decadere così che la sua vita sarebbe poi stata
una resurrezione, o dall'altra ipotesi egualmente arbitraria che
la vita salga dall'infime inconoscibile individuandosi nei gradi
sino alla formazione dell'uomo, che identifica in se stesso materia
e spirito, la storia non ci appare che come un immenso dramma, nel
quale le passioni e le idee rivelano la nostra spiritualità. Ogni
popolo è un attore che vi recita una scena, vi si perfeziona e vi
soccombe: ogni epoca non ha che uno scopo, lo sviluppo di un
carattere umano: religione, filosofia, scienza, politica, guerra e
pace vi concorrono in varia misura: qualche volta tutto pare
sacrificato ad un dogma, che conquista il proprio impero nel sangue
e col sangue assoggettando ogni attività dell'anima; tal'altra una
libertà ilare e lieve sembra liberare il mondo dagli incubi del
soprannaturale, e la politica diventa facile, l’arte solleva da
tutta la terra e gitta a tutti i venti i proprii capolavori, la
scienza s'inebria di superbia moltiplicando le grandi ipotesi e i
piccoli risultati, mentre la vita contenta di se stessa nelle
brevità di un istante dimentica passato e futuro per proclamare la
gioia del presente. Nella lotta individui e popoli si urtano e si
sovrappongono; la vittoria se tocca sempre al più forte non esprime
sempre il più grande, perché il presente essendo conclusione del
passato ed inizio dell'avvenire, al vincitore basta di a-vere sul
vinto la superiorità di un modo momentaneamente il più necessario
allo sviluppo dell'idea. Roma ancora barbara conquista la Grecia
sapiente; ma Roma era già il futuro diritto romano e l'unità
mediterranea del mondo, mentre la Grecia non viveva più che di
ricordi, quando il genio del pensiero sollevava così alto il suo
piccolo popolo che per tutti i secoli della storia vi avrebbe
brillato come un astro.
La formazione dello spirito umano è duplice con due massimi aspetti:
il carattere domestico e il carattere politico, che preparano
nell'opera immediata della vita quella lontana della storia. Ma tale
formazione lenta e dolorosa è così complessa che nessuno seppe
ancora rilevarne chiaramente le linee, perché la storia si compone
con quanto resta dei quadri, nei quali la vita si atteggiò; e come
nella loro improvvisa fioritura è difficile distinguerne
l'originalità, così nella confusione del loro dissolversi
diventa anche più difficile lo scoprirne i residui immortali
attraverso le ombre del passato. Lo sviluppo dei tipi rudimentari
nella famiglia e nello Stato occupa tutta la preistoria e preoccupa
la storia insino quasi ai nostri giorni; e questi caratteri di
padre, di madre, di figlio, di fratello, di parente, oggi così
limpidi in ogni coscienza e sicuri come norma a giudicare delle
nostre azioni morali, hanno stancato la pazienza dei secoli per dare
a se stessi l'attuale
fisonomia. Molti popoli, lunghe epoche sono
state sacrificate a tale formazione. Così la poliandria fu
necessaria a determinare il tipo della madre e la poligamia a
fissare quello del padre: la gradazione fra le mogli e i
figli preparò nella superiorità di una madre la monogamia; la
concezione e lo stadio della famiglia si ripercossero sullo Stato, e
la condizione spirituale di questo dominò la
famiglia.
L'uomo doveva creare contemporaneamente la verità astratta del mondo
e la propria personalità giovandosi della loro azione e reazione
reciproca.
Ogni scoperta filosofica o scientifica menava al medesimo risultato,
una legge, cioè una astrazione: di mano in mano che i viaggi
dilatavano il mondo e le meditazioni allargavano il pensiero, ogni
rapporto sorpreso nello spirito ne stabiliva un altro nella società,
mentre l'ideale involatosi dalla realtà vi ridiscendeva per risalire
ancora e ridiscendere da un'altezza sempre maggiore sopra una cima
sempre più alta. Prima che tutto il mondo fosse conosciuto, il
nostro attuale concetto dell'umanità non era possibile; prima che
l'astronomia desse un ordine all'universo e la biologia un disegno
alla vita, il mondo troppo piccolo entro i confini della terra, la
vita troppo angusta nella circoscrizione delle razze superiori,
dovevano limitare l'espansione i molte idee, il volo di molti
sentimenti. L'eternità vuota, l'infinito deserto delle prime
filosofie non potevano avere sul nostro spirito l'effetto della
vita senza limiti di tempo e di spazio, che noi sentiamo oggi nella
realtà. Bisognava che tutte le razze si mescolassero per ottenere
dalla somma delle differenze e delle loro analogie il totale
dell'eguaglianza: che le passioni si scatenassero, perché la
costanza del loro equilibrio assicurasse l'idea della giustizia: che
tutti i dolori ci provassero come loro malgrado la vita possa non
sembrare un male, e tutte le gioie non bastassero a farcela credere
un bene. La filosofia indovinando un sistema nella storia rese nel
secolo scorso alla politica lo stesso servizio dell'astronomia alla
filosofia del secolo XVI: l'arbitrio desse il luogo alla legge, e
nel coordinarsi delle visioni la vita dell'uomo e dell'umanità
apparve tragicamente una. La superficie della terra come quella del
cielo è piena di punti brillanti fra masse oscure: in alto sono
astri, in basso nazioni: i popoli si aggruppano come le
costellazioni, formano dei sistemi che sono imperi, hanno un moto di
rotazione sopra se stessi e di traslazione verso gli altri che
modifica la densità della loro massa e la forma del loro volume:
hanno nuclei luminosi che sono città, delle orbite che sono
confini, dei bolidi che sono frammenti di tribù limitrofe, attratti
da una medesima legge di gravitazione, o bande che si coagulano
nella loro atmosfera politica e si dissolvono traversandola.
Poi vi sono le comete che migrano come le orde, gli astri a luce
propria e i pianeti a luce riflessa come i regni di civiltà
originale o importata: i satelliti o le provincie tributarie: i
colori delle razze che esprimono il loro clima come i colori delle
stelle rivelano la loro composizione chimica. Il nostro sole cammina
verso la costellazione di Ercole, la nostra civiltà viene dà oriente
a occidente: nel sistema solare la terra, uno dei corpi minori, è
spiritualmente il primo: l'Europa, una .delle più piccole parti
della terra, vi è storicamente la più importante.
La formazione del carattere morale nella domesticità è l'essenza e
lo scopo della famiglia.
La sua prima forma nella più lontana preistoria è la promiscuità
animale; l'uomo non vi è che maschio, la donna madre ad intervalli,
la tribù nomade e acefala non ha interesse costante
nell'allevamento del bambino. La vita è breve e sanguinosa per
tutti: la mortalità dei bambini vi assume carattere di strage.
Nessun membro della famiglia esprime ancora il proprio tipo morale.
Ma la tribù si coordina, la. vita assicurandosi negli alimenti
determina varie funzioni: le gerarchie accennano a stabilirsi, le
forme famigliari cominciano a precisarsi. La poliandria
stringe forse il primo gruppo domestico: il primo gruppo doveva
essere di maschi, i più forti. La figura della madre si contorna, il
bambino allattato dalla donna e difeso da quattro o cinque uomini
acquista maggiori probabilità di vita: dentro l’associazione dei
mariti le preferenze della moglie preparano l’amante. Poi la
Poliandria sale perfezionandosi: il gruppo avventizio dei mariti
finisce ad un gruppo di fratelli, alla superiorità del primogenito o
del più forte, e la paternità si annunzia consanguinea. Ma la
famiglia progredisce ancora: la poligamia succede alla poliandria
con un grande sviluppo di ordini politici e l'uomo si asside
stabilmente nella famiglia assumendone la direzione, che non lascerà
più. La parentela è assicurata per tutte le linee nella prevalenza
del sangue paterno: il gruppo domestico è già un'associazione
politica, perché il padre vi è patriarca, re e sacerdote. La capanna
diventa casa, la casa opificio e fortezza.
Però la preistoria non andrà oltre. Il suo periodo e il suo ufficio
si chiudono colla formazione dei vari caratteri domestici, per lo
sviluppo dei quali occorreranno tutte le forze sociali. La storia»
incomincerà dallo Stato come organismo di idee universali e parrà
nel suo inizio arrestare lo sviluppo spirituale della famiglia.
Finché lo Stato non abbia elaborato i propri grandi principi,
stabilite le religioni, coordinate le gerarchie, determinate le
funzioni, educate le arti, preparate le scienze, la sua opera non
potrà sollevare la famiglia. La quale vi rimane come organo
secondario per la trasmissione delle idee universali sotto forme di
sentimenti.
La famiglia prepara l'uomo allo Stato, lo Stato prepara il cittadino
all'umanità.
Individui, famiglia, tribù, nazioni, regni, imperi tutto è
signoreggiato da un'oscura necessità; e come la preistoria nella
famiglia sacrificava spesso tutti i membri per sviluppare tutto il
carattere di uno solo, così la storia immolerà secoli e genti ad
una sola idea astratta, il beneficio della quale si verificherà
forse sotto altro cielo in popolo lontano ed immemore. La lotta
dell'elemento individuale coll'elemento sociale costituisce la
sostanza della storia: finché l'individuo non sia libero nello
Stato, non lo sarà nella famiglia; l'emancipazione dal tiranno
diventerà un'emancipazione del padre, il riconoscimento di un
diritto politico produrrà una ricognizione del di
ritto domestico.
Bisogna quindi seguire attraverso alla storia universale dello
Stato quella particolare della famiglia per comprendere
lo sviluppo e il significato delle sue
leggi. Così la famiglia raggiunge come organo e come gruppo
la propria perfezione nella monogamia la quale ha due epoche, il
diritto romano e il cristianesimo. Col primo si stabilisce come
costume nel campo storico, col secondo come idea nel campo
spirituale: ma a Roma il padre è ancora il tiranno irresponsabile
della moglie e dei figli per una autorità identica a quella dello
Stato: nel matrimonio cristiano invece l'uomo e la donna non sono
più che due anime congiunte in Dio, genitori e figli egualmente
sudditi della legge non violabile da alcuna differenza umana.
La famiglia cominciata necessariamente come
sistema di allevamento diviene un istituto
spirituale, che perfeziona l'uomo in se stesso educando il
.cittadino. Quindi ripete lo Stato nella struttura, nella storia,
nelle funzioni, nella popolazione, nei caratteri, nei tipi.
Autorità e libertà vi si contraddicono; al pari dello Stato non è
la somma dei propri individui ma una loro superiore unità: tutti i
suoi membri debbono cederle una parte del proprio interesse,
affinché colle quote dei presenti possa
accumulare il capitale dei futuri: il suo centro è quasi alla
periferia, fra coloro che vivono e coloro che vivranno: il suo
individuo importante non è il padre, ma il bambino. L'allevamento
più fisico che spirituale nella preistoria, diventa nella storia più
spirituale che fisico. Poiché nel suo momento l'uomo è un fanciullo
della vita e della storia, l'educazione si esprime per simboli e si
insinua per affetti: la giustizia del padre, la misericordia della
madre, l'amore tra fratelli, l'amicizia tra congiunti, la simpatia
cogli inferiori, ecco i suoi sentimenti. La prevalenza del padre
sulla madre cioè della giustizia sulla misericordia, l'uguaglianza
dell'amore tra fratelli, la solidarietà nello scambio fra congiunti,
la graduazione dello scambio coi servi, ecco le sue idee: poi il
senso storico nella tradizione domestica, la necessità dei sacrifici
nelle sue vicende, l'inevitabilità delle differenze nelle sue
distribuzioni, la prima forza collettiva nel suo nome, la prima
disciplina nella sua soggezione, la prima libertà nel suo rispetto
per tutti i mèmbri.
L'uomo sostanzialmente non è che pensiero: "prima di esercitarlo è
ancora un animale, nel suo ultimo esercizio non è nemmeno un
individuo, giacché nelle formule metafisiche e nei teoremi
matematici non la presenza dell'individuo ma tutta la sua vita
umana è inavvertibile. Nessun istinto, nessuna passione altera una
questione sull'essere o sul numero: dal come l'uomo pensò se
medesimo nel mondo dipese il come visse: la sua vita crebbe dallo
svolgimento di questo pensiero. Il quale fu una creazione.
Ma ogni popolo ha un'anima collettiva, un genius, come dicevano gli
antichi, che si manifesta per caratteri in una data zona di tempo e
di spazio: quindi, compita la sua funzione, tramonta. Il suo occaso
può essere lungo quanto il suo mattino e il suo meriggio come in
China o nelle Indie, ma la sua presenza resta inferiore nel mondo.
Contemporaneo dei viventi quel popolo è già il passato della loro
storia. La civiltà si sposta sempre: sbocciata nel lembo più caldo e
più florido della zona temperata indietreggia lentamente: le sue
stazioni si chiamano col nome di città, le sue soste con quello di
epoche. Ma l'uomo e la civiltà scendono dagli altipiani coll'acqua;
il commercio apre la società come l'acqua aperse la terra, e vi
forma correnti sottomesse ad uguali leggi d'inclinazione. Individuo
e goccia sono identici; né l'uno né l'altra esistono per sé e
possono contrapporsi alla propria massa deviandone il corso. Per
uscire dal fiume la goccia deve discendere entro la terra o sparire
nel cielo: per uscire dal popolo l'individuo deve calare nel
sepolcro o sollevarsi nella storia: nel primo caso è la morte, nel
secondo l'immortalità. La goccia si risolve in vapore, l'uomo in
pensiero.
La libertà è dunque il principio e lo scopo della storia: gli stati
ne elaborano l'idea, i governi ne esplicano le forme: l'oriente
sapeva che uno solo era libero, il mondo greco-romano sapeva
che alcuni erano liberi, il mondo moderno sa che tutti sono
liberi. Ma lo Stato essendo la vita spirituale unitaria di
quelli che vi entrano colla nascita, bisogna anzitutto distinguere
se la sua ragione passando in essa risolva la contraddizione della
loro, e la legge sottoposta a tale dibattito venga riconosciuta come
una necessità ideale anziché subita come un ordine. Nel primo caso
l'individuo è libero, perché la libertà non è che la coscienza
della necessità; nel secondo è schiavo. L'oriente non ebbe che
l'unità dello Stato. L'individuo non vi era come un'altra unità
capace di accogliere la prima, ma un frammento dominato da
un'irresistibile forza di attrazione, e nella
coscienza del quale la legge non induceva che un sentimento di
coazione propria. Il mondo greco invece creando l'individualità
diventa la giovinezza. Il suo costume non determinato come
l'asiatico dalla massa, ma improntato sugli individui, esprime la
loro volontà: se la bellezza artistica vi risulta da un'eguale
intuizione dell'idea e della forma, la legge vi deriva da un accordo
spontaneo della coscienza pubblica colla privata.
Questo momento della più bella armonia dovrà nullameno scomporsi
appena una delle due coscienze si elevi al concetto
dell'universalità: ed ecco il periodo romano, l'ardua fatica della
maturità nella storia. In esso lo Stato comincia a rilevarsi
astrattamente in se medesimo formandosi uno scopo, cui sacrifica
gl'individui. Il dominio romano è un costante e penoso lavoro, nel
quale l'interesse diviene universale, e gl'individui immolandosi
consciamente acquistano l'universalità come persona giuridica. Ma
l'unità dell'impero fondendosi per necessità di governo nella
persona dell'imperatore si contraddice, e lo porta più in alto del
despota orientale, perché nega così un diritto già realizzato.
L'imperatore padrone del mondo domina le coscienze — quod Principi
placuit legis habet vigorem — dice la legge regia, formula
categorica di questo momento. Allora lo spirito respinto in se
stesso dal dolore della schiavitù, abbandona il mondo sconsacrato
per cercare nelle proprie profondità la riconciliazione colla vita,
e crea con assiduo latente processo il regno spirituale contro
l'impero mondiale. La libertà si salva questa volta per sempre: il
Golgota ne fu il nuovo Campidoglio, il cristianesimo la religione.
Ma collo sfasciarsi dell'impero e il sommergersi dello Stato sotto
l'onda incessante delle invasioni, l'ideale cristiano urta nella
mostruosa contraddizione della realtà barbarica. Mentre l'individuo
è salito fino alla personalità divina, il mondo ha perduto la
propria individualità storica frantumandosi. Lo Stato per risorgere
deve quindi appoggiarsi alla Chiesa che lo protegge e lo vincola,
finché rinvigorito dalla lotta di tale educazione durata tutto il
medio evo riconquista nella filosofia e nella scienza l'unità, che
solo l'impero romano aveva potuto dargli, e contrapponendo l'ideale
mondano al divino si afferma nella unità umana.
Così nella lunga notte medioevale largamente illuminata come dà
baleni vulcanici, si elabora il mondo moderno; 1 barbari del nord
gli danno la propria personalità primitiva, la Chiesa una
universalità divina, il rimescolamento delle razze una originalità
di fìsonomia e di opere non paragonabile ad altra. Nelle rovine
dell'impero romano i frammenti ancora vivi s'individuano; le case si
stringono intorno alle chiese, le borgate sotto il castello; il
vescovo protegge il popolo contro il castellano, l'industria e il
commercio rinascenti, alimentando la continua guerra di tutti
contro tutti, finiscono a dominarlo, e il comune spunta, e col
comune il nuovo cittadino più piccolo ma ben più universale che non
l'antico cittadino romano. Egli porta seco una libertà e una legge
nuova: la sua coscienza inviolabile nella religione mantiene una
politica di rivolta: il comune si spezza e si ricompone, tutte le
prepotenze v'imperano nella labilità d'un i-stante, ma le sue
tirannie non somigliano più alle antiche e la sua
libertà non consente più schiavi. Tutto si
rinnova: ogni patria pare un mondo contro il mondo, ma questo è
soltanto un inevitabile eccesso di passione nella continuità' della
piccola tragedia politica, perché l'uomo ha già la patria in se
stesso. Poi i comuni si fonderanno nelle signorie, queste nei
principati e finalmente negli stati; lungamente, dal risorgere
della coltura antica, che troppo spesso storpiò e isterilì la nuova,
le larve dell'impero e del diritto romano sembreranno dominare
l'infanzia della modernità: il cristianesimo, che aveva emancipato
il mondo, parrà col cattolicismo volarlo daccapo asservire, però lo
spirito nuovo gli opporrà sempre più liberi miracoli umani. Si
scopriranno le forme e l'età della terra, che, detronizzata,
diverrà un satellite del sole, mentre il nostro pensiero dominerà il
cielo: gl'inviolabili oceani saranno attraversati, e altri
continenti, altre razze scoperte alla storia. Il cattolicismo si
spezzerà perché la libertà religiosa prepari nella Riforma quella
politica: le monarchie, unificati i popoli, cadranno tutte in
Europa sotto la grande rivoluzione francese condotta alla vittoria
dall'ultimo imperatore. Ma, prima delle monarchie tutte le vecchie
aristocrazie feudali saranno state sorpassate dalla crescente
civiltà, e l'uomo moderno sarà così dissimile dall'antico che
nessuno, neppure fra i più dotti, può oggi davvero riprodurre nel
proprio pensiero la vita della Palestina o dell'Egitto, di Atene o
di Roma.
L'ideale umano è salito: le nostre chiese hanno un'altra
architettura, la nostra pittura un'altra bellezza, la nostra poesia
un'altra passione, la nostra scienza un'altra verità, la nostra
filosofia un altro uomo. I caratteri domestici e politici sono
incancellabilmente delineati: se i nostri vizi ripetono gli
antichi, le nostre virtù hanno altri impulsi ed altre forme: il
nostro amore serba la nostalgia, dell'ideale anche nel fango più
viscido, la nostra libertà comincia e si compie nell'impero di noi
stessi sotto la necessità della legge, nella quale siamo legislatori
o sudditi: finalmente la nostra storia è davvero universale e la
geografìa senza misteri. Una religione umana uguaglia tutti gli
uomini al di fuori di ogni altra religione: il lavoro è oramai il
primo orgoglio di tutti e la ricchezza un premio che non basta più
al lavoro: il comando irradia dal pensiero che aduna le
volontà, la potenza esprime una perfezione dell'individuo che
nessuno può né fingere né impedire.
La prima guerra ideale moderna scoppiò nelle Crociate, quando per
tutte le distanze della barbarie medioevale un fremito di poesia
sollevò le nazioni acquetandone le risse, e le gittò verso oriente a
riconquistare il vuoto sepolcro di Gesù. Né prima né dopo altra
guerra fu come questa una pura necessità dello spirito.
L'ideale solo è vero.
Tutto quanto nel presente sopravvive fu una virtù nel passato, la
quale si compì nel sacrificio e trionfò del proprio tempo: il vizio
invece si rinnova, non si trasmette, l'errore si trasmette, ma è
effimero perché nelle linee spirituali dell'edifìcio umano soltanto
quelle durano che segnano una perfezione. La verità attraverso i
secoli si forma dalla poca certezza che i secoli stessi non
possono scrollare: la bellezza di una generazione è raccolta
dall'arte e rimane nei capolavori: Roma impera eterna nel suo
diritto, la giovinezza della Grecia si riafferma ad ogni giorno
nelle sue statue e nelle sue poesie; gli ebrei si condensarono e si
esaurirono nello sforzo di creare il Dio creatore, poi Gesù li
disciolse per plasmare il mondo sulla propria figura: i primi comuni
d'Italia o di Germania non sono più che città volgari, ma
l'originalità dei loro cittadini è immortale dentro di noi. Benché
non si combattano più guerre sanguinose per un dogma, la battaglia
fra il pensiero umano e il mistero divino proseguirà sino a
l'ultima sera insanguinando le anime: tutte le rivoluzioni del
passato furono un momento nella creazione della nostra personalità,
tutte le rivoluzioni del futuro non faranno che svilupparla
diminuendo la nostra servitù alla materia per dilatare i confini del
nostro impero ideale.
Ma ora e sempre la verità come la bellezza saranno più sentite che
formulate; la vita le contiene e le esprime, arte e filosofia
invece non potranno mai circoscriverle.
Anche se la nostra esistenza non abbia scopo al di là di se stessa,
e la sua tragedia non trascenda nel significato i limiti della
propria azione, questo è ben certo nell'esperienza e nella
coscienza, che la vita sale per gradi, e l'idealità è l'anima del
nostro pensiero come il pensiero l'anima del nostro corpo.
La verità è dunque in alto come la gioia e il dolore, nel sacrificio
della bontà, nella bellezza che è forse la prima rivelazione del
mistero, nella unanimità inconsapevole della vita, che forma la
coscienza della storia, e si esprime soltanto nell'eroismo del
pensiero.
III
Il primo secolo mondiale.
Quando la prospettiva del tempo ne avrà rilevato le linee, nessun
secolo della storia apparirà forse grande come il secolo XIX.
Esso fu il secolo dell'individualità e diventò quindi il più
mondiale di tutti, quello che doveva davvero iniziare la grande
epoca della storia universale.
Cominciò colla rivoluzione francese che rinnovando l'Europa finì
all'avvento del Giappone, meravigliosa, quasi inverosimile
improvvisazione di civiltà, nella quale prelude il rinascimento del
mondo asiatico. La rivoluzione francese creò nell'elettore il
cittadino moderno; negò la monarchia cristiana nella sua trinità,
di re, aristocrazia e clero per sostituirvi la sovranità popolare,
il governo della borghesia e l'indipendenza della giustizia laica da
ogni culto religioso. La sua passione era la libertà, le sue forze
quelle dell'industrialismo contro il militarismo, il suo programma
l'uguaglianza civile: il suo spirito era classico, il suo
temperamento insubordinato. Appena comparsa sulla scena storica,
entro le vecchie forme dei parlamenti, le ruppe ed invase
rovesciando tutti gli ordini. Incalcolabili dolori, inesauribili
speranze lo sospingevano. La monarchia borbonica, rappresentata dal
meno cattivo forse dei suoi re, scese al disotto del ridicolo nella
propria resistenza trincerandosi dentro la bigotteria ed invocando
lo straniero. La plebe ruggì; sessantamila banditi, prodotti dalle
fiscalità incredibili dell'ultimo regime, accorsero in bande a
Parigi e s'improvvisarono eroi, carnefici, pubblico, sovrano.
L'aristocrazia o seguì nel tradimento di un volontario esilio la
corte, o si buttò per nativa generosità o per tarda ipocrisia nella
rivoluzione, e ovunque fu trucidata. Il clero incredulo e corrotto
disparve quasi nella prima lotta per ricomparire tuo tardi
coraggiosamente alla testa di insurrezioni realiste e parricide: la
borghesia vincitrice e vittoriosa fu travolta dallo stesso uragano,
che la portava a rovesciare tutto davanti a sé, e la successione
febbrile delle forme politiche nella rivoluzione superò ogni
tragedia sgominando previsioni di sapienti, abilità di pratici,
pretensioni di tribuni, combinazioni di partiti, intrepidezze di
fanatici, disperazioni di deboli e di forti.
Ma la rivoluzione trionfante a tutte le frontiere contro tutti i re
d'Europa non avrebbe potuto con l'impeto e nello squilibrio stesso
delle proprie passioni riorganizzare la Francia: quindi la storia
le impone la solita antitesi, e la rivoluzione crea l'impero.
Dentro questo sopravvivono tutte le sue idee, e la tempesta
acquetandosi permette ai superstiti di transigere nella modernità
della nuova vita. Ma l'impero è anch'esso una forma del passato
necessaria a rendere la rivoluzione universale: così Napoleone, che
generale della repubblica viveva in un miraggio imperiale, vorrà
regnare sull'Europa gettando in una demenza di volontà e di
fantasia il proprio pensiero sull'Africa e sull'Asia. Egli è
l'ultima maschera imperatoria sul volto dell'ultima democrazia: la
enormità del suo genio si parifica all'idea segreta, che lo incalza
e lo delude: sogna l'impero di Carlomagno, e geloso di Cesare,
nemico dell'Inghilterra, avversario del papa: distrugge il sacro
romano impero a Vienna, rovescia la monarchia di Federico II, assale
l'impero russo fino a Mosca, e vinto è inseguito fino a Parigi. Ma
come sotto un incubo egli ha rimescolato tutta la carta d'Europa, i
popoli lo hanno invocato e maledetto, i re servito e messo al
bando: improvvisatore, tutto è effimero intorno a lui: distruttore,
nulla di quanto tocca ritornerà come prima: imperatore, non è vero
che nel campo: soldato, ha il genio dell'espediente politico, e
l'occhio dell'organizzatore diplomatico, la violenza di un
avventuriero: dinasta, tutti i vìzi dell'uomo e le debolezze del
padre. Nulla rimarrà della sua opera come concetto personale, ma
in ogni creazione del secolo XIX qualche cosa del suo
spirito dura immortale. Questo despota, che vuol fondare il più
grande impero della storia, è invece il messo della democrazia che
annuncia la morte di tutti i regni; dinanzi a lui i re non sono che
fantasmi; dopo lui, davanti ai popoli, che li hanno
risollevati emancipandosi, saranno larve.
L'impero Napoleonico è il preludio delle monarchie costituzionali,
che non hanno più re. Ma Napoleone avrà tutto rinnovato: generale,
caccia l'Austria dall'Italia, rovescia il papa, cancella
principati e repubbliche superstiti, discende in Egitto, minaccia
la Siria; imperatore prende Vienna, Berlino,
Mosca, ma indarno sogna Costantinopoli e Londra. La Turchia
non potrà né risorgere né sparire dal secolo XIX, e quindi Napoleone
non può entrarvi: l'Inghilterra anticipò di mezzo secolo la propria
rivoluzione sulla francese, deve compiere la prima unità
commerciale del mondo, e Napoleone anziché abbattere l'Inghilterra
ne sarà abbattuto; la Spagna sopravvive a se stessa fra lo scenario
lacerato dell'impero di Carlo V, e Napoleone l'attraversa soltanto
sognatore dentro un sogno morto. Invece la sua opera di distruzione
è feconda sull'Italia, sull'Egitto, sulla Germania, sul Belgio,
sulla Prussia, sulla Russia; le idee della rivoluzione penetrano
dietro gli eserciti imperiali; il suo codice è un nuovo vangelo, la
sua improvvisazione rivela il nulla delle monarchie ancora
esistenti, la sua riapparizione dei cento giorni ricompensa nei
popoli la fede che i re non sono nemmeno uomini, e che il popolo
solo è persona.
La rivoluzione francese fu dopo il cristianesimo il maggiore
trionfo dell'individualità. Se la riforma aveva ottenuto la libertà
di esame dentro il dogma emancipando a mezzo il pensiero religioso;
se la rivoluzione inglese aveva compito l'opera lenta dell'antica
rivolta dei comuni contro l'assolutismo regio, e poco dopo quelli
degli Stati Uniti fondava nella verginità di un secolo quasi ignoto
e nell'oblio di tutto un passato una nuova libertà, la grande
Convenzione soltanto lacerò tutti 1 vecchi vincoli per creare
nell'elettore il cittadino moderno. La sua formula usciva dal
delirio dialettico del Contratto Sociale, ma doveva trionfare di
tutte le esagerazioni e di tutte le negazioni: la sovranità
passava così dal pensiero individuale a quello collettivo, dallo
spirito di un uomo all'anima di un popolo, dalla volontà alla
impersonalità. La legge non è più un ordine di qualcuno o una
rivelazione dall'alto, ma. un segreto che si chiarisce nella
coscienza, lampeggia nella discussione, si formula nel voto;
l'eletto è il mandatario dell'elettore, però l'uno e l'altro sono
egualmente servi della legge. La votazione esprimendo una libera
maggioranza significa soltanto la forma momentanea della legge, che
la coscienza pubblica potrà sempre perfezionare; dinanzi alla legge
individui e classi saranno uguali, perché l'attrito degli interessi
logorerà tutte le differenze; nella delegazione di ogni governo le
ultime monarchie ereditarie dipenderanno anche esse dall'assenso
tacito del popolo, tutte le religioni saranno libere e la
concorrenza deciderà della loro verità; tutti i diritti potranno
manifestarsi maturando nello sforzo stesso della propria
manifestazione; al segreto della vecchia politica succederà la
pubblicità di ogni atto, nella
famiglia l'eredità parificherà i figli, nei tribunali soltanto
il giurato identico all'elettore giudicherà sulla morte
fisica o civile degli accusati, perché il giudice togato non è più
che un perito, e un uomo non può davvero condannare un altro uomo.
11 cittadino elettore e giurato rappresenta invece l'impersonalità
del diritto pubblico. Ma l'individualità del cittadino crea di
contraccolpo quella della nazione; Napoleone nella vertigine della
propria corsa aveva violato tutti i popoli, il secolo XIX, avanzando
sulle sue orme, individuerà ogni popolo capace di uscire dalla
minorità storica.
Quindi le guerre del secolo XIX saranno quasi tutte nazionali: la
passione più nobile, l'eroismo più tragico, susciteranno nuovi tipi
di martiri e di eroi. La Grecia risorge dal sogno della sua gloria
e l'Europa intera delira d'entusiasmo all'eco delle sue piccole
battaglie mutandole in vittorie, il Belgio fra Olanda e Francia
ritrova e rassoda la propria scarsa originalità, l'Italia come la
Grecia risuscita dalle ceneri dei suoi monumenti, ma più forte
dell'antica madre balza nella modernità avendo pagato l'aiuto
dell'Europa coll'offerta della falange mazziniana e garibaldina; la
Prussia ne profitta e dall'Austria, che non è più il sacro romano
impero, trae il nuovo impero germanico; fra Austria, Russia e
Turchia, i Principati danubiani, anella fracassate dell'immenso
dragone slavo, si rianimano e si riannodano. Intanto la Russia cova
dolorosamente la modernità che Napoleone le cacciò colla spada
nel ventre, l'Inghilterra raddoppiando ogni anno il proprio
commercio allaccia tutto il mondo, nella Scandinavia la dinastia
di un generale napoleonico precipita con la rapidità di una marcia
imperiale la nazione all'avvenire, mentre l'America divisa fra
anglosassoni e latini non ha più bisogno dell'Europa, che con tutte
le proprie forze stringe ed incalza l'Africa.
Nella lunga incubazione della civiltà mediterranea l'Africa vi
partecipò soltanto dalle sponde, che una cintura di città marittime
aveva abbellite-e fecondate. La loro vita creata dal mare tendeva al
mare verso altri lidi, ove altre città rispondevano con una vita
più satura di elementi terrestri. Solo il Nilo aveva potuto,
accumulando sulle proprie rive molti germi africani, crescervi una
civiltà più che marittima, ma questa pure non aveva nemmeno risalito
tutto il corso del gran fiume, prigioniera ad occidente ed al sud di
paurosi deserti.
L'immensa Africa ignorava la gloria del proprio Egitto.
E quando questa tramontò dopo Cartagine, e il cristianesimo prima,
il maomettanesimo poi tentarono di penetrare nel centro del
continente nero, questo rimase nullameno un mistero; ambo le
religioni vi si depravarono in una sconcia interpretazione quasi
confessando l'impotenza del loro Dio dinanzi ai feticci dei selvaggi
cui un clima inesorabile sembrava negare per sempre ogni speranza
d'ideale.
Non per tanto Roma e la Mecca come centri religiosi rattenevano
sempre l'Africa sul margine della storia universale.
Gl'imperi litoranei, improvvisati dalla conquista saracena sulle
sue coste, avevano potuto dilatarvisi alquanto verso l'interno e
ubbidivano ancora alla voce di Costantinopoli; le flotte europee,
girato il Capo di Buona Speranza, avevano finalmente circoscritto
il continente nero fermandosi nei suoi golfi e risalendo i suoi
fiumi.
Oramai regni e reggenze barbaresche non erano più che una forma
consunta dalla feudalità, ridotta a vivere di brigantaggio terrestre
e marittimo. Napoleone tagliò l'ultimo nodo, che stringeva
l'Egitto a Costantinopoli, per consegnarlo all'Europa, giacché la
breve dinastia macedonica improvvisata al Cairo doveva presto
soccombere nella sua unica opera, il taglio dell'istmo di Suez.
Quindi la storia del secolo XIX in Africa è tutta europea: la
Francia vi conquista Algeri e Tunisi, l'Inghilterra vi regna in due
capitali a nord e a sud, l'Italia tenta indarno l'Abissinia e resta
sentinella ferita nell'Eritrea, il Belgio vi compra nel Congo un
podere più vasto di qualunque regno, i Boeri vi fondano una
repubblica a Pretoria e soccombono poco dopo all'immenso peso
dell'impero britannico. Un monile di ferrovie stringe le coste
africane, altre ferrovie fischiano fra i deserti, viaggiatori di
tutte le nazioni si sono inoltrati nel suo negro mistero, la
schiavitù vi è assalita negli ultimi ripari; un gigantesco disegno
innonda già il deserto di Sahara per farne un lago, un altro
congiunge i dorsi dello Zambese e del Congo spezzando il continente
in due immense isole. L'Africa fa il supremo sforzo e il massimo
risultato della storia europea del secolo XIX: e poi che tutto
procede verso l'unità, la storia universale non poteva essere una
davvero, se prima i suoi continenti divisi e sconosciuti Funo
all'altro non vi si fondessero nella medesima coscienza movendosi
al medesimo ritmo. Quindi il secolo XIX nel doppio trionfo
dell'individualità singola e nazionale divenne il secolo più
mondiale; tutto mutò, crebbe, salì, si diffuse nel suo tempo.
Le distanze parevano sparite sotto i vapori di terra e di mare, una
rete di strade strinse il mondo così che ogni suo moto vi si propagò
colla rapidità delle onde nervose, le parole raggiunsero quasi la
celerità della luce e più di essa forse penetrarono i corpi e le
anime; un'impazienza di creazione sollevò individui e popoli
riunendoli anche quando gli antagonismi degli interessi e le
contraddizioni dell'ideale sembravano dividerli. Arti, scienze,
commercio, industrie si uniformarono sul mercato: nessuna unità di
misura nel valore fu più nazionale, il circolo della ricchezza si
allargò quanto quello delle idee; il secolo della nazionalità, che
ebbe così intensa la passione della patria, sviluppò prodigiosamente
tutte le emigrazloni e permise a tutti di rinnovare dovunque la
propria vita.
L'orgoglio supremo fu di essere libero, l'ultimo trionfo sentirsi
il medesimo uomo dappertutto.
Dopo l'espansione dell'elettorato non vi sono quasi più classi, la
democrazia del costume pareggiò gli abiti e il linguaggio; oggi la
marsina del gentiluomo è quella medesima del cameriere. Ogni sovrano
per regnare sulla piazza deve sollecitarne il favore, qualunque
uomo per qualunque opera dipende dal voto degli altri; i giornali
sono l'effimero libro di tutti, l'opinione irresistibile del
momento con 'tutti gli errori e le falsità della improvvisazione. Ma
ogni avvenimento è mondiale, tutte le mattine tutti vogliono le
notizie di tutto il mondo; vi è un pubblico per qualsivoglia
impresa, ogni idea trova apostoli, qualunque follia una tribuna, si
alza un tribunale da qualunque crocchio. Attraverso le ultime
barriere doganali e linguistiche i mestieri irreggimentano i
lavoratori; una solidarietà formulata nei vangeli del nuovo partito
popolare e confermata dai suoi sinodi internazionali oppone una
politica operaia unitaria alla politica differenziale dei governi;
vi è ancora la guerra, ma non vi sono più guerrieri. Oggi il soldato
è il cittadino, che interrompe il proprio lavoro per difenderne la
libertà alle frontiere, non ama il sangue e non sogna più la gloria
dei rossi trionfi; la vita invece acquista nella coscienza dei
piccoli chiamati alla storia un immenso valore. Essi pretendono già
di discutere la necessità del sacrificio per negarla.
Una spiritualità illumina e riscalda ogni opera moderna, che deve
essere utile magari essendo brutta, senza più l'antica indipendenza
del capriccio: la rapidità della trasmissione e della dissoluzione
nella ricchezza costringe quasi tutti al calcolo del proprio valore,
poiché la ricchezza non basata nemmeno più a dare un'autorità sui
più poveri. La beneficenza della forma lirica della pietà privata
assurge a dovere dello Stato verso coloro che non possono ancora o
non possono più lavorare; il viaggio mentale sui libri e sui
giornali non basta più allo spirito, poiché tutti sentono che ad
essere uomini è necessaria la conoscenza della nostra terra e una
pratica delle sue più diverse società.
Non si riconoscono più capitali della civiltà; le metropoli sono
empori del commercio o sedi di governo, ma oggi nessuna idea per
prodursi e per crescere ha bisogno di un aiuto artificiale come
nell'antichità, che sacrificava cento popoli per formare in uno solo
la loro coscienza. Roma non è più che un nome nella poesia come
Atene e Benares, Babilonia e la Mecca; il papato sol tanto le dà
ancora un valore di universalità, ed anche esso dovette
spiritualizzarsi perdendo il minimo regno temporale. Un'atmosfera
ideale inyolge la vita pubblica, le scoperte grandinano ogni giorno,
la guerra delle idee è senza tregua, le alleanze degli interessi si
stringono e si rinnovano per tradimenti continui, nei quali nessuno
ha torto; la dominazione passò dalla feudalità monarchica a quella
industriale, ma oscilla nelle ribellioni continue delle classi,
operaie, che evocate alla storia vi pretendono già la; tirannia.
L'unico sovrano è il pubblico impersonale, infallibile nei grandi
istinti, inferiore nell'idea, infantile nel carattere: debole e
violento, ingenuo e falso, capace di tutte le adorazioni e di tutte
le ingratitudini, più effimero dei re nelle proprie generazioni, più
spaventevole di ogni tiranno nella propria responsabilità.
Il secolo XIX, che resterà nella storia il più grande di tutti i
secoli, non vi porterà nome di uomo perché le massime creazioni sono
anonime; il genio può riassumere l'incoscienza di un popolo, non
dare la propria fìsonomia alla sua coscienza.
IV
L'aristocrazia.
Quale apparve e si manterrà nella storia essa è una superiorità
dello spirito organizzata dalla volontà nel comando.
In ogni tempo e in ogni gruppo umano l'eccellenza di alcuni
individui li alzò dominatori sugli altri, che ubbidendo barattavano
istintivamente la libertà in una nuova sicurezza: quindi le prime
aristocrazie furono religiose e guerriere per garantire ai deboli
una certa pace nell'anima e un aiuto nella lotta per la vita.
L'istinto della razza e la necessità della storia creavano
così nell'aristocrazia una classe responsabile della. vita di tutti
e depositaria della sua tradizione; l'aristocrazia doveva pensare e
volere per gli altri, costituiva la patria e la religione,
vincolava individui e famiglie, organizzava proprietà e lavoro. Col
privilegio nobilitava il privilegiato imponendogli azioni che
superavano il suo egoismo, preparava la poesia e la politica; in
lei i pensieri salivano di un grado e le virtù cominciavano a
diventare sociali; era già un governo essendo appena un gruppo,
conteneva già un re unificando un popolo.
Questo infatti vedeva nell'aristocrazia se stesso più alto e più
lontano, il suo istinto vi diventava pensiero, le sue bramosie
volontà; poteva amarla o odiarla secondo la pressione del momento,
ma non farne a meno, perché nel suo nucleo più possentemente
organizzato stava la migliore garanzia di tutti per il futuro.
Spesso lo scotto di tale difesa ne superava il valore immediato,
specialmente se l'aristocrazia impari a se stessa si consumava nelle
degradazioni di un comando senza pensiero: ma anche allora da una
aristocrazia ne rampollava un'altra o saliva un re; l'unificazione
diventava unità, mentre l'ordine allargando i propri limiti
cresceva dentro d'intensità.
E questa aristocrazia primordiale somigliava già all'ultima; si
costituiva spontaneamente dalla superiorità degli individui in gara
sotto l'aculeo di un bisogno o la stretta di un pericolo: accettava
tutti i modi di prova, consentiva tutte le contraddizioni
risolvendole nel trionfo di una forza vitale e micidiale, che
nobilitava l'individuo come il rappresentante epico o tragico di ma
società incapace di avere fuori di lui una Coscienza.
Sarebbe qui inutile schizzare a grandi linee i profili delle antiche
aristocrazie, adesso che il problema aristocratico si ripresenta
quasi nella primitiva semplicità. Se il sistema rappresentativo,
quale funziona in ogni governo, era già in germe dentro tutti quelli
del passato formandone la segreta verità e dirigendone la lenta
dolorosa evoluzione: se oggi non sapremmo nemmeno più pensare altro
governo, così chiara è nella nostra coscienza la sovrana identità
dell'elettore e dell'eletto, l'aristocrazia fu e rimarrà invece la
prima ed ultima forma d'impero in tutte le società. La sua
delegazione può passare per tutte le contraddizioni dell'assenso, ma
la sua radice e la sua forza stanno nella differenza fra individuo
ed individuo, che impone agli uni il comando e agli altri
l'obbedienza, rilegando gli istinti ad un pensiero e costringendo
sempre la verità a trionfare in una incarnazione. I miti religiosi
non ne sono che la più profonda ed universale delle prove.
Come ogni religione non può fare a meno di una idolatria, e la vita
ha bisogno di contemplarsi nello specchio dell'arte per apprendere
il proprio secreto, così la società per governarsi e progredire si
solleva in una aristocrazia, alla quale trasmette più limpide le
forme del passato e dalla quale riceve meno torbide le prime
significazioni del futuro. Nell'immenso numero di correnti, che
aggirano una moltitudine raggruppandola o diffondendola secondo le
oscure necessità della sua massa, ve n'è una più larga e sicura, che
attira tutti i più forti, e stringendoli come dentro la spirale di
un vortice impedisce loro di rifondersi nella indistinta
oscillazione delle onde.
Ogni vera superiorità finisce coll'essere una differenza
inconciliabile colla vita degli inferiori: la diversità di pensiero
diventa contrasto di linguaggio, le parole stesse vi mutano
significato; l'ascensione del sentimento rende insopportabile ciò
che prima era gradevole, il pensiero nobilitando la responsabilità
della propria opera, altera la solidarietà funzionale fra
rappresentante e rappresentato.
La vita ha due supreme necessità, salire e durare, e poiché l'una
presuppone l'altra, si vedono spesso nelle società i bisogni della
durata soverchiare quelle della ascensione. Quindi nella folla
scarsa è l'intelligenza e più scarso ancora il sentimento: un
egoismo limita tutte le opere e sconsiglia dai sacrifìci, l'amore
stesso movendosi sotto l'impulso della voluttà non cede ai figli se
non le cure più indispensabili per la loro sopravvivenza; ed è
l'istinto di razza che li salva così mentre i caratteri della
paternità e della maternità sono ancora rudimentali. Lo stesso
egoismo regola ogni altra azione; tutte le avarìzie sono lecite,
tutte le ingratitudini consentite, tutti i tradimenti assolti; gli
individui della folla non possono sentire che se stessi e non
pensano che nel pensiero loro trasmesso dalla tradizione. Una
insensibilità conserva in essi integre le poche forze; sono creduli
e diffidenti, adorano il forte che li guida e lo immolano alia viltà
del primo dubbio. Poi un istinto sembra avvertirli che in essi
solamente è lo scopo ultimo della storia, mentre la superiorità
delle minoranze aristocratiche non serve collo sforzo dell'ingegno
e l'olocausto della vita che a produrre appunto nella moltitudine
lo spostamento o l'ascensione di un grado. La sua vita vegetativa e
animale oppone nnindi una resistenza invincibile alle impazienze
dello spirito, che avendo conquistato una verità vorrebbe subito
tradurla in atto; una ignobile interpretazione degrada nella folla
ogni forma più bella, ogni idea più pura; filosofia e religione,
arte e scienza non si diffondono e non vi operano che
deformandosi.
Se nel popolo vi è un istinto superiore al genio dèi più alto
individuo, e un inconsapevole criterio al quale debbono
rettificarsi tutte le concezioni ideali, nella plebe, che è
quasi tutto il popolo, la contraddizione fra materia e spirito si
esprime sempre nel trionfo della materia. Nessun corpo è
impermeabile come l'anima plebea, nessun peso più inerte del suo
cuore, nessun moto più lento che nel suo cervello. Ma tale
lentezza, che diventa poi la causa di tutte le tragedie negli
individui superiori, è la garanzia più sicura per la sopravvivenza
della massa, che non può desiderare al di là dei propri appetiti e
volere più di quanto pensa. Così la politica quasi sempre l'inganna
e quando una qualche idea è matura all'evento, vita e storia
debbono scatenare nella folla tutte le passioni ed accendere un
miraggio per attirarla nell'azione ed immolarla nel sacrificio del
trionfo. L'antitesi della democrazia e della aristocrazia è dunque
più apparente che reale, e significa soltanto l'alzarsi di uno
strato sopra un altro, la novità di una forma superiore, perché
l'aristocrazia se per agire politicamente ebbe sempre bisogno di
separarsi in classe, dentro la quale l'egoismo degli individui
viziò fino a contraddirlo, lo scopo della sua funzione, come
superiorità naturale è diffuso in tutte le classi e vi forma
assiduamente i gruppi ubbidendo alla legge segreta della ascensione.
È difficile quindi nella storia sceverare l'opera di una
aristocrazia dalle contraddizioni dei suoi interessi, più difficile
ancora se la sua idea ebbe carattere universale e un lungo periodo
di sviluppo. Nel comando iimmediato, la volontà preponderando sul
pensiero, l'abuso conduce presto alla tirannia; l'ebrezza
dell'ascensione produce in quasi tutti un inganno micidiale, quindi
abbassano gli altri invece di alzare se stessi misurandoli proprio
orgoglio su tale dislivello. È questa la formola latente di ogni
dispotismo che succede ad un despota creatore; fra tutte le forme
del comando la più facile fu sempre di comandare a schiavi, fra le
illusioni della vanità l'ultima a venire sarà quella di sentirsi
più alti quando la gente si curva nella ipocrisia dell'interesse o
nella sottomissione della paura.
Ma ogni aristocrazia espresse sempre se medesima nel carattere dei
propri migliori rappresentanti dentro l'idea, che informava la sua
epoca. Così l'eroismo dei tempi epici, rimasto immortale nel verso
dei poeti primitivi, non somigliò a quello dei tempi civili, quando
la vita più satura di pensiero impose alla virtù più meditati ed
impersonali sacrifìci! così il martirio animato ancora dalla bravura
guerriera nelle religioni selvagge mutò lentamente sino alla soave
pazienza dei martiri cristiani, che fra i tormenti pregavano per i
tormentatori; così la devozione alla scienza ebbe più austera
semplicità che non quella alla religione, e significò il più alto
olocausto perché l'egoismo non poteva nemmeno sperarvi compensi di
oltretomba; così l'errante cavaliere medioevale e la suora
francescana superarono il venturiero barbarico e la vestale romana
di quanto il cristianesimo sintetizzando in se stesso tutte le
civiltà antiche le superava nell'idealità del dogma e della morale.
Ma l'aristocrazia, perciò solo che contiene una superiorità, deve
esprimerla anche nella decadenza, e allora la parola succede agli
atti, l'eleganza alla forza, il pregio della decorazione al valore
della bellezza. In tale modo quasi 'tutte le aristocrazie
tramontarono nelle monarchie, finché la dissoluzione della stessa
forma monarchica le riconfuse col volgo.
L'ultimo tempo della decadenza aristocratica si segnalò coi
gentiluomini e colle dame, che non vivevano oramai più che di
parata; né mai più inutile ed amabile artificio fu più lungamente
rispettato e lasciò più vivi ricordi se oggi ancora il superstite
patriziato ne fa il proprio titolo migliore, e l'orgoglio di quanti
salgono col danaro si esercita nella imitazione di quell'antico e
fragile vezzo.
Il patriziato romano invece si putrefece quasi istantaneamente
nell'impero senza improvvisare alcuna bellezza: ma forse era stato
troppo forte nel comando e troppo povero di genialità artistica per
trovare nella propria estrema miseria la grazia dei piccoli e la
delicatezza dei deboli. Era una aristocrazia di re e finì in una
corte di schiavi.
L'onore aristocratico fu allora salvato dagli ultimi storici per
ricominciare nei primi cristiani.
La vita si atteggia sempre nell'opera dal concetto che l'uomo si fa
di se medesimo e del mondo: la sua religione e la sua politica sono
quindi la conseguenza della sua filosofia più intima, e il suo
carattere morale una necessità di tale coscienza. Per operare
efficacemente bisogna sentire quanto si pensa, la potenza dell'atto
è quasi sempre pari alla sua potenzialità. Certamente ogni popolo si
assimila altre qualità da altri: una sintesi di tradizioni e di
originalità circostanti si forma dentro di lui, ma la missione
storica gli deriva soltanto dalla individualità e non può andare
oltre questa. Il compierla più presto e più largamente è dunque
legge suprema: la gerarchia degli ordini non esprime che la
graduazione degli individui in tale funzione. La natura li prepara,
la vita li elegge.
Non tutti gli eleggibili vengono però eletti; molti anzi che
meriterebbero i gradi più alti, rimangono in basso, o perché un
ostacolo esterno sbarrò loro la strada nel migliore momento e
furono così sorpassati dal rivale, o perché un difetto bastò a
paralizzare in essi l'accordo delle più grandi qualità, o una più
severa virtù li rese inadatti alle inevitabili degradazioni di tutti
gli inizi, agli ignobili sottintesi di tutti i compromessi. Ma
invisibili nella prospettiva storica essi compiono egualmente la
loro funzione aristocratica con una irradiazione spirituale, che
illumina e riscalda le anime, confermando l'anonima virtù della
massa incapace d'intendere l'insegnamento astratto.
La religione accoglie il maggior numero di questi individui
superiori, che non domandano alla vita il prezzo della loro
superiorità, l'arte, li attira colle seduzioni della bellezza, la
scienza li tenta col mistero; tratto tratto una catastrofe li
solleva e appaiono nell'eroismo o nel martirio.
La funzione aristocratica è adunque doppia: sviluppare l'idea che
forma l'essenza di un popolo, ed in quella atteggiare il proprio
carattere. Spesso vi è antagonismo fra virtù politica e virtù
morale: a certi momenti l'eroismo dì razza o di nazione deve essere
senza pietà verso i vinti destinati a sparire; talvolta la
costruzione dello Stato non lascia la libertà che in alto, e ogni
mestiere discende nella schiavitù; talaltra invece la frode è più
indispensabile della forza, e l'immobilità delle religioni più
necessaria del progresso delle scienze. Quasi sempre una rivoluzione
morale esige la dissoluzione di un mondo politico nel pieno meriggio
della sua civiltà, mentre la rivoluzione sale da turbe abbiette, si
annunzia per apostoli, ignari, negando e sognando.
Ed era questo il caso del cristianesimo davanti a Roma.
Ma ogni aristocrazia saprà sempre affermare la propria idea e
rappresentarne la bellezza: vivrà alta nell'orgoglio di un ideale,
che le impone altri modi di vita e di morte, combattendo sempre lo
stesso avversario nei nemici esterni che le contrastano l'espansione
del dominio e nei nemici interni che vorrebbero abbassare il suo
grado per attingerlo più facilmente, nessuna aristocrazia però è
tutta eroica se non a grandi intervalli, o impronta sugli eroi la
propria fisonomla; non si deve credere che la civiltà sia
irradiazione di pochi. Aristocrazia e genio vi sono egualmente
necessari ed indifettibili; sospingono e riassumono la massa; sembra
avere nel dramma la parte decisiva, perché rivelano le figure e vi
lasciano il nome. Invece dietro la virtualità dell'aristocrazia e
del genio era l'istinto e la potenza anonima della moltitudine:
l'aristocrazia è la coscienza di questo istinto, il genio la sua
personificazione.
Tutto si elabora in basso e si compie nell'alto, ma l'uomo non può
andare oltre l'uomo; la grandezza dei più grandi è fatta dalla forza
dei piccoli. Gettate un grand'uomo fuori della corrente storica che
lo porta ed avrete la misura esatta del suo valore individuale;
Napoleone I dopo Waterloo, Mazzini dopo il trionfo della monarchia
di Savoia ne sono due fra gli esempi più appariscenti; si può essere
sempre superiore, ma non si appare grandi se una pubblica forza non
moltiplica la nostra aggiungendo alla voce di un uomo l'eco di un
popolo.
Ecco perché i precursori passano inosservati o soccombono nel
martirio; la loro grandezza si frange nella impossibilità del
riconoscimento, e sconta nella lunga asfissia della vita il lontano
trionfo della immortalità.
Qualunque sia la forma del governo una aristocrazia ne elaborò
sempre le leggi: il dispotismo monarchico scorona, non decapita
l'aristocrazia, perché senza di questa nessuna vitalità sarebbe
possibile, e comunque possa apparire un patriziato, di impiegati
come in China o di feudatari come in Inghilterra, la sua sovranità
spirituale sarà sempre più intensa che non quella dell'imperatore.
Invece questo è quasi sempre una figura simbolica, dietro la quale
il ministro è un uomo, sotto la quale un ordine di intelligenze e di
caratteri forma la base storica dello Stato. Al di fuori
dell'aristocrazia cresce o scema la vita del popolo, immenso
vivaio, donde tutto sale, idee ed individui, e ove tutto discende a
discomporsi per risorgere; il suo enigma è così profondo che nessuno
seppe ancora risolverlo. Le sue creazioni rimangono tutte anonime;
per parlare inventa una lingua, per adorare plasma un Dio. La sua
originalità è una linea nell'architettura, un ritmo nella musica,
una intuizione nella filosofia, un costume nella politica; quando ha
bisogno di un'idea solleva un uomo o innalza un monumento;"i suoi
legislatori distillano i suoi proverbi; egli è un personaggio nel
coro dell'umanità, la quale da millenni leva un inno di dolore e di
speranza verso il sole, oltre le stelle scintillanti sulla soglia
dell'infinito.
I caratteri dell'aristocrazia antica rivelano l'antagonismo
che separa i popoli individuandoli, ma le sue varietà si riassumono
tutte nel binomio, o religiosa o guerriera. Soltanto nelle città
della Grecia e nei comuni d'Italia la sua flsonomia è più
spiccatamente intellettuale, perché nella piccolezza dello Stato
1'universalità del principio cristiano o il particolarismo del
paganesimo ellenico lasciano una quiete più sicura alla coscienza.
Ma nei secoli lontani la schiavitù dividendo gli uomini in due
nature dava ad ogni aristocrazia una durezza ed una angustia oggi
appena intelligibili. Indarno nelle figurazioni dell'arte noi
tentiamo ancora di rap presentarci quelle vecchie società pagane e
di farne rivivere gli eroi, giacché il concetto del mondo fisico e
l'idea del mondo morale sono così profondamente mutati nella nostra
coscienza, che involontariamente a personaggi d'allora diamo colle
parole anche l'anima del nostro tempo.
L'Ifigenia di Goethe, che vi si preparò vivendo nei musei e
disegnando statue greche, è forse greca? Le odi e i poemi barbari di
Carducci e di Lecomte de Lisle sono forse pagani così che Orazio
leggendoli potesse crederli di un grande poeta suo contemporaneo?
Religiosa, l'aristocrazia ebbe tutte le grandezze delle religioni;
guerriera, tutta la poesia e la potenza della morte; il disprezzo
della vita era la sua maggiore virtù, il culto della nobiltà umana
la sua prima forza.
Naturalmente più conservatrice che iniziatrice, perché ogni
creazione è inconsapevole e sale dall'istinto popolare, essa
elaborava e raffinava; nella politica era la tradizione e
l'originalità del popolo, e doveva significarle senza pietà per
tutto quanto contrastasse, intrattabile nella superbia della propria
fisonomia, capace di qualunque eccesso per sopravvivere. Quindi il
genio popolare per ringiovanirle il sangue o l'idea spesso le
suscitò contro i propri maggiori individui, che dovettero perdere
nella lotta appunto perché travalicavano l'orbita del popolo stesso.
Quando a Roma l'enorme dilatazione della conquista impose
l'uniformità del comando, l'aristocrazia non fu più che di
funzionari; nell'India l'irrigidimento delle classi la spezzò come
in una scala di vita, che Buddha soltanto con uno sforzo pari a
quello posteriore di Gesù mutò in un clivio, sulla vetta del quale
ogni anima si per deva nell'estasi muta della contemplazione; nel la
Persia, che inizia la storia integrando le differenze umane nella
prima unità morale, l'aristocrazia è una paternità che illumina e
guida, o-pera e consola; nell'Egitto, terra della morte, la casta
dominatrice è di sacerdoti che ne sanno solo il segreto, e al suo
terrore sottomettono la vita; nella Palestina l'aristocrazia è di
guerrieri intorno al Dio creatore, che il genio semitico ha
finalmente espresso opponendolo come un nemico a tutto il mondo; la
Grecia, invece se ne compone una di artisti e di pensatori, che
fanno continuamente oscillare la politica e compromettono gli
Stati; Roma ha un senato di re, che sanno alzare tutte le funzioni
nelle unità del comando.
Ma dopo il cristianesimo il mondo cangia.
Dall'uguaglianza di tutti gli uomini nella legge divina
l'aristocrazia sale spiritualizzandosi così che quando i barbari
l'arrestano nella forma della feudalità può ancora creare il
cavaliere fra i vincitori e il cittadino fra i vinti: e con questi
due eroi rinnova la storia. Il comune riproduce nella propria
angustia le antiche civiltà industriali e marinare, intorno al
castello ricominciano le geste epiche; poi la barbarie si logora,
l'oscurità si rischiara e dal cavaliere esce il gentiluomo, dal
cittadino l'elettore. Nella Spagna una aristocrazia, militare
arresta la conquista moresca, nella Russia una aristocrazia terriera
dilata l'impero sino à dargli l'estensione della luna, nell'Olanda
una aristocrazia mercantile evoca dal fondo del mare il suolo della
patria e crea la terra di un regno marittimo; nell'Inghilterra una
aristocrazia di venturieri stringe sul mondo la printa unità
commerciale; negli Stati Uniti una plutocrazia improvvisa una
repubblica vasta come l'Europa e più ricca in una modernità senza
passato; la Francia, terra della monarchia, nella quale il re non fu
mai che un pari fra pari, alza col proprio orgoglio aristocratico
il primo popolo sovrano; e ovunque l'aristocrazia fu la coscienza e
la figura di ogni nazione.
Quindi tutti vi appartennero che la natura aveva eletti alla
superiorità, poco importa se la divisione delle classi parve
escluderli o il loro urto li schiacciò, perché nell'inevitabile
cooperazione della vita le differenze vere degli individui vi
producono una gerarchia, che quella esteriore dei titoli deve
subire malgrado tutte le riluttanze della vanità. Così il re,
grande come individuo, non era che il capo della aristocrazia:
piccolo, ne rimaneva lo schiavo anche sembrandone il tiranno.
Il popolo solo, allora come adesso, era tutta la vita e tutta la
storia come un mare battuto da tutte le tempeste, aperto a tutti i
vascelli, indifferente a tutti" i naufragi, inesauribile,
incontenibile, senza altro limite, secondo il grande versetto del
poeta biblico, che la parola di Dio,
Vi è ancora un patriziato? Quali sono i suoi caratteri?
V
L'aristocrazia moderna.
Ancora sopravvive nelle vecchie forme del rinascimento, ma la
sua opeera è consunta. .
Negli Stati monarchici e in quelli che passarono già alla
repubblica, l'aristocrazia pare composta di superstiti; la sua
superbia non è più che una vanità e quindi una debolezza, i suoi
titoli falsificati quasi tutti attraverso la morte nelle famiglie
ricordano glorie ed imprese così lontane e difficili che nemmeno
dalla moderna forza più temeraria potrebbero essere ritentate; le
sue ricchezze sono d'accatto, mantenute o reintegrate da
transazioni degradanti colla nuova borghesia cresciuta rapidamente
col danaro e nel danaro. Come classe politica costituisce ancora
fra i tedeschi e gli inglesi un senato, che serba privilegi
nominali sulle Camere dei Comuni, ma l'impero derivando
dall'elettorato ogni vera; virtù e la sovranità essendo tutta
nell'elettore, i senati patrizi non funzionano che come una
decorazione, alla quale l'intangibilità è indispensabile per
sopravvivere. Toccati anche lievemente si discioglierebbero come
quei cadaveri antichissimi nel primo contatto dell'aria. Qualche
volta compiono opera utile arrestando una-intempestiva volontà dei
parlamenti troppo aperti a tutte le bufere della piazza e facili a
scambiare per un ordine della storia le velleità passionate della
pubblica opinione: spesso dal loro seno sorgono uomini superiori
meravigliosamente atti al comando per la lunga consuetudine
spirituale di considerare dall'alto i problemi politici.
Ma nel nobile rigore della parola non vi è più aristocrazia.
La sua classe non ha un interesse così individuato dentro la somma
di tutti gli altri da potere sopra di esso foggiare una coscienza: i
suoi privilegi medesimi esprimono piuttosto il passato che il
presente. Echi di una voce, che non sarebbe più intelligibile, la
loro seduzione si esercita sugli spiriti deboli della modernità, le
donne che vorrebbero essere dame, gli uomini forti soltanto
all'acquisto del danaro e che dal danaro non sanno trarre una
potenza di pensiero. Nelle turbe invece dura tuttavia il rispetto
dei nomi e dei blasoni, mentre un'invidia quasi di rivincita si
accanisce a distruggere la bellezza artistica delle antiche
differenze; ma tale rispetto, se contiene ancora qualche atavico
residuo della servilità plebea è più spesso un'ironica espressione
del disprezzo, che la servitù moderna al danaro provoca nell'anima
del popolo contro ai padroni soltanto della ricchezza.
L'aristocrazia già decaduta politicamente non ha più né dame né
signori. Alla raffinatezza del loro tipo era indispensabile una
funzione superiore, la responsabilità di un impero che alla loro
coscienza imponesse più alte virtù di vita e di morte. Invece l'ozio
nella segregazione del lusso o il lavoro nella sottomissione
democratica hanno uguagliato il fondo aristocratico a quello della
borghesia; la superficie stessa nella parità della coltura e della
ricchezza non si differenzia che per il valore dell'individuo.
L'eleganza dei modi e degli atti è soltanto un dono naturale non
contristato dalle miserie della vita, ma nessuna
aristocrazia decadendo può serbarlo in una povertà che le tolga
l'indipendenza. Finché una aristocrazia dura, l'occasionale povertà
dei suoi membri viene coperta coll'assisa di qualche grado: quando
invece l'aristocrazia non è più un un potere vivente, la ricchezza
diviene la prima necessità della sua appariscenza decorativa.
Indarno qualcuno ha creduto che un patriziato possa ritemprarsi
nella forma nuova della classe, che lo ha spodestato traendone una
seconda giovinezza, e molte predicazioni si fecero dappertutto su
tale argomento, mentre ogni
classe e ogni epoca hanno invece caratteri originali, che solo
dalla sincerità delle anime attendono vigore di bellezza o di
ascensione. Il patriziato, disceso nella lotta economica a
cercarvi i guadagni della ricchezza o l'eleggibilità alle alte
funzioni politiche, vi perdette più presto la propria coscienza che
non riuscisse a lasciare nella modernità delle
altre una qualche impronta; la rivalità lo
costringeva ad accettare la bassezza di tutti i mezzi, mentre
qualche ripugnanza gli contendeva sempre la vittoria finale; spesso
tale adattamento fu una lustra, ed allora affrettò la decadenza
della famiglia stessa che vi cercava una risorsa, o fu un atto vero,
e nel patriziato mancò un patrizio di più. Non so, e pochi forse
affermeranno di saperlo, se avesse potuto accadere altrimenti in un
moto concorde di tutta l'aristocrazia, ma ne dubito per
quell'ordine supremo, che accorda
in ogni tempo il trionfo alla
forma più recente ed originale. Per rinnovare la funzione
dell'aristocrazia nella vita bisogna prima ricostituirle una
coscienza di classe, che nobiliti il carattere e metta nel pensiero
1 autorità del comando. Quelle aristocrazie, che una rivoluzione
popolare gittò nella prova della morte, vi soccombettero
spiritualmente: dalla Francia fuggirono esuli per tornare parricide,
nel-Pltalia stettero incerte cogli stranieri e coi tiranni contro la
patria senza che la contraddizione dei loro migliori individui
potesse mutare 'tale contegno e impedire la condanna della storia.
Una aristocrazia o è il corpo più scelto di una nazione o non è
nulla: dall'avanguardia irrompono i precursori, nella retroguardia
si trascinano i più deboli, nel mezzo la massa oblia la tragedia
della marcia nella sua stessa fatica, mentre lo stato maggiore delle
guide insegna e punisce, frena ed incita, sostenuto ed estenuato
dall'incessante responsabilità.
Se l'ultima regalità non avesse logorato l'anima dell'aristocrazia
negli ozi delle corti, si sarebbero forse veduti i patrizi
superstiti capitanare la vittoria della borghesia dopo il grande
rinnovamento della rivoluzione e dell'impero napoleonico. Ma la
reazione legittimista succeduta in tutti gli Stati d'Europa provò
che l'aristocrazia era anche più morta della regalità. Contro le
estreme resistenze dell'una e dell'altra, la borghesia nella prima
metà del secolo XIX dovette condurre la guerra ideale delle riforme
e compiere una rivoluzione forse ancora più grande
coll'improvvisazione dell'industrialismo moderno. La ricchezza
diventò quindi il primo esponente sociale della forza, e nulla
bastò contro di essa; il genio e l'eroismo medesimo le si
sottomisero, le idoneità al suo lavoro prevalsero sulle migliori
qualità di pensiero e di sentimento: e questa ricchezza, che creava
una nuova libertà e una civiltà universale, fu il grande originale
segno dell'epoca moderna.
L'aristocrazia italiana nel periodo eroico della rivoluzione si
espresse come il popolo soltanto per individui rimanendo come classe
ligia al passato; la inettitudine spirituale del lungo decadimento
le toglieva di sentire il nuovo soffio tragico, la nullaggine della
sua educazione le rendeva inaccessibile pressoché ogni idea. La
borghesia sola quindi, e di essa un'esigua minoranza, partecipò
alle congiure e alle battaglie del nostro risorgimento; la massa
popolare vi assistè inerte, il clero era vilmente ma francamente
nemico, e così gli aiuti stranieri decisero veramente della
vittoria. Dopo l'aristocrazia accorse; il governo
anziché rivoluzionario si annunziava liberale aprendo a tutti tutte
le porte quasi per farsi una clientela; negli Stati borbonici e
papali invece il patriziato più putrido di ozio e più debole di
fibra si chiuse in una muta opposizione. Poi al nord la febbre del
lavoro riscaldò anche il sangue delle nobili famiglie, e si videro
presto i più antichi nomi apparire sui manifesti delle nuove società
industriali; al sud la forma feudale sopravvissuta nel rispetto del
popolo e nell'orgoglio delle grandi case mantenne l'aristocrazia
quasi straniera al paese. La sua vasta ricchezza territoriale e la
distanza dal popolo cam-pagnuolo la riconfermarono nell'assenteismo;
le campagne erano quasi selvagge, Napoli e Palermo funzionavano
come due capitali del lusso, corti senza re, nelle quali i maggiori
cortigiani potevano apparire più alti. L'aristocrazia liberale
invece si contentò dei pochi vantaggi regalati alla recente
libertà; così ottenne facilmente tutte le sinecure, fu decorativa e
servizievole, interiore alla borghesia che costituiva l'era
novella, mai pratica del popolo che si moveva assimilando e
migliorando.
Le forze vive infatti crescevano dal popolo e dalla borghesia.
L'importanza degli uffici politici dava ai borghesi la precedenza
sugli aristocratici, la corte costretta a calcolare sull'assenso in
basso rimaneva prona: il suo liberalismo più necessario che
meritorio era una fatalità del tempo. Nell'improvvisarsi delle
industrie e nel rifiorire delle antiche forze paesane, che
fondevano tutte le classi, cresceva all'aristocrazia un bisogno
sempre più urgente di ricchezza.
Senza questa non era più possibile ottenere dalla moltitudine il
rispetto: le deputazioni e le ambascerie esigevano adesso troppa
tenacia di lavoro e pratica d'affari, perché il patriziato potesse
farvi buona prova: nelle provincie e nei comuni la piccola rivalità
borghese e artigiana cacciava da ogni seggio i patrizi per farsi
largo e salire. L'aristocrazia retrocesse davanti ai tempi nuovi:
non aveva nel senato una rocca, dal passato non poteva trarre
argomenti di gratitudini patriottiche; forse in lei la superstite
delicatezza signorile ripugnava alla volgarità bottegaia e
curiale, tribunizia e pedante; la coscienza, che nessuna classe
nella rivoluzione aveva fatto veramente il proprio dovere, le
diminuiva nell'anima il senso della propria inferiorità; il rapace
affannare di quanti lottavano a salire e a comandare le persuadeva
nell'estensione una prova di più antica moralità.
Ma l'uguaglianza dei figli dinanzi all'eredità spezzò nel
moltiplicarsi di tutti i bisogni e di tutte le spese l'avvenire
della famiglia aristocratica. Il lusso meno appariscente e più
costoso rimaneva come l'ultima distinzione possibile nella eleganza
personale, quindi il patriziato, inadatto al lavoro e incapace di
comando, vendette i blasoni per mantenersi ancora nell'apparenza di
un primato. Ma la viltà di tale compromesso e la vera forza politica
della borghesia costrinsero
i più aristocratici saloni ad aprire le porte e le fronti più
altere ed abbassarsi.
Nel secolo dell'individualità la miseria si era fatta più
intollerabile che in ogni altro tempo, perché livellava tutti in
basso, e a dominare in questo primo avvento della ricchezza,
l'ingegno stesso non bastava sempre senza le significazioni
esteriori della potenza. Soltanto verso la fine del secolo XIX il
clericalismo mutò la politica di astensione accettando tacitamente
la conquista dell'unità e la caduta del potere temporale: così uno
spostamento politico si produsse nell'aristocrazia.
Ma l'Italia non ne ha più una nella vita moderna. I grandi nomi
adesso non figurano che nelle cronache del carnevale e dello sport:
lusso senza personalità, passione decorativa soltanto. Poi la
enormità delle spese ridusse già lo sport ad un'industria, la
signorilità manca persino nelle intenzioni, e gli esercizi vengono
quasi sempre compiti da servi pagati meglio di più illustri
professori. Se l'aristocrazia avesse ancora avuto una forza vi
avrebbe trovato sfogo nelle campagne, poiché i patrimoni
aristocratici sono quasi tutti territoriali: invece le affittanze
resero più costante l'assenteismo, mentre il trasformarsi
dell'agricoltura in industria e il suo crescente bisogno di
scienza rendevano sempre più inadatto il tipo del vecchio padrone.
Nell'esercizio dei campi solamente l'aristocrazia avrebbe potuto
rimodernarsi costituendo fra il popolo delle campagne ancora
integro un partito robustamente conservatore e nobilmente liberale:
invece nella decadenza patrimoniale avviò i figli alle professioni
universitarie gettandoli alla concorrenza più aspra e più bassa:
l'esercito nella miseria di tutte le sue lente carriere non era più
un rifugio, il valore dei nomi storici vaniva, mentre la vivacità
della nuova vita respingeva istintivamente gli avanzi della vecchia
società sbertando la loro decorazione piena di muffe e di strappi.
Nell'ozio povero o mal ricco dame e signori finirono di
pervertirsi; la bigotteria aveva già ucciso il coraggio del duello,
l'astensione politica spense ogni capacità, lo sport non rianimò che
i più bassi istinti. Nel mercato dei blasoni la galanteria si
degradò, e l'adulterio pagato anticipatamente nel contratto di
nozze divenne uno degli affari più facili nel secolo più facile agli
affari; il lusso senza fasto non ebbe arte, non si fabbricarono più
palazzi, nei vecchi le botteghe spezzarono i muri e le insegne
commerciali si allargarono come ulceri su per gli stipiti e pei
cornicioni. Nella uniformità degli abiti anche le livree diminuirono
sin quasi a divenire irriconoscibili; il padrone non sentiva di
valere più del servitore, mentre gl'impiegati d'amministrazione
nella sua casa patrizia valevano più di lui. I viaggi, una volta
nobile privilegio, adesso erano diventati un mestiere commerciale; i
giornali, dispensar! della celebrità, s'imponevano al patriziato,
che voleva note le proprie feste e più note le beneficenze.
Quando un servo è elettore, il padrone non può superarlo più che
come uomo: quando una casa patrizia non ha una vita più nobile delle
altre, il suo primato è una illusione senza illusi, della quale si
ride anche accettandola.
L'aristocrazia è dunque morta.
Il suo ultimo compito storico era stato nel dominio sul popolo
contro il dispotismo del re; poi l'aristocrazia aveva tiranneggiata
essa medesima mutando la propria funzione di tutela in ostacolo al
progresso popolare, e la monarchia schiacciò,
assorbì, l'aristocrazia. Senza più comando allora brillò nei
gentiluomini e nelle dame tra fioriture di lusso e preziosità
sentimentali, o ricusandosi alla degradazione cortigiana si rifugiò
nelle provincie a dominarvi colla elettezza dei modi e la
signorilità della vita. Era troppo poco: nullameno vi è sempre una
poesia nella luce crepuscolare dei tramonti.
Adesso si vedono ancora dei blasoni, ma non vi sono più né grandi
dame né grandi signori.
VI.
Trionfo e degradazione industriale.
Quantunque aperto da Napoleone e chiuso dal Mikado con due delle più
grandi fra le guerre della storia moderna, il secolo XIX fu
essenzialmente industriale nei modi e nei risultati; i suoi
eserciti molte volte raggiunsero la cifra spaventevole delle orde
primitive e le battaglie una mortalità antica: i suoi popoli a
certe ore si sollevarono nell'impeto del più puro eroismo; alcune
guerre parvero avere soltanto un motivo di morta poesia come nella
prima insurrezione greca, altre come l'impresa di Mosca rinnovarono
le gesta di un eroe, altre ancora come negli Stati Uniti
ricominciarono dal problema della schiavitù: alcune come nel Belgio
salirono da un coro di opera, molte divamparono indarno come in
Italia, nella Germania, in Austria dalle fiaccole di un carnevale
di piazza per riaccendersi all'orgoglio di una resurrezione
nazionale; qualcuna illuminò di effimeri bagliori il cimitero di un
popolo come in Polonia; e nell'Africa e nell'Asia le guerre
ripeterono fra i miracoli dell'avventura eroica le ferocie più
selvagge, i più atavici errori.
Nullameno la guerra del secolo XIX fu ancora più subordinata che in
altre epoche all'immediato trionfo dell'industrialismo; né mai
forse le sue spese e le sue cicatrici più prestamente vennero
dimenticate.
Se i più acuti investigatori non seppero ancora sceverare nella vita
di una nazione il reciproco prevalere del tipo industriale o
militare, così strettamente uniti che nessuna loro funzione
essenziale può svilupparsi senza l'aiuto di un'altra apparentemente
contradittoria, più difficile sarebbe lo schizzare anche
grossolanamente le differenze fra i caratteri guerreschi moderni e
quelli antichi: impossibile forse cogliere nella somiglianza delle
forme le profonde antitesi, che rendono così diverso il nostro
industrialismo nel confronto di ogni epoca.
Gli ultimi scrittori positivisti dietro le orme di Spencer hanno fin
troppo marcato le similarità e le dissimiglianze fra la struttura
militare o industriale di una civiltà, ingannandosi secondo il
solito nel credere la sua fìsonomia un risultato di tale differenza,
mentre non l'organo e la funzione distinguono tanto il carattere di
un popolo quanto l'unità della sua concezione ideale e la
personalità della sua coscienza.
Così nel secolo XIX le guerre eroiche della indipendenza arrivano
con Garibaldi alla forma di una solidarietà più profonda che non il
più cordiale fra i sentimenti sviluppati dalla reciprocità
commerciale: e le guerre del più puro motivo industriale come quella
di secessione degli Stati Uniti esprimono dal più moderno di tutti
i popoli il più ignobile egoismo e la più stupida ferocia.
Che l'industrialismo impossibile senza una relativa libertà
dell'individuo, il quale deve trarre dal proprio fondo tutte le
iniziative efficaci, sia più favorevole della guerra allo sviluppo
della solidarietà umana: che la parità dei diritti e l'uguaglianza
delle leggi crescano più rapidamente nelle libere società del
lavoro che in quelle dominate dalla ferrea necessità della guerra, è
da secoli un luogo comune dell'esperienza e della rettorica, ma la
vita e la morte non si differenziano nei propri momenti che per la
differenza stessa, colla quale lo spirito è costretto ad
accettarle. Nel segreto d'ogni anima sta il concetto essenziale,
che l'individuo ha di se medesimo dinanzi al doppio mistero della
natura e dell'indefinito: e dal come soltanto l'uomo sente e pensa
se medesimo derivano i modi della sua azione quasi sempre
inconsapevole.
L'industrialismo moderno supera di tanto l'antico, che pure ebbe
floridissime epoche e lasciò nel mondo incancellabili tracce, di
quanto la personalità del cittadino moderno sovrasta a tutte le
altre della storia.
Divenuto sovrano nell'elettorato, l'Individuo sentì di dover creare
da solo l'avvenire: la sua forza invece di attendere da altri
l'impulso l'aveva in se stessa, il risvegliarsi quasi famelico di
tutti i nuovi bisogni civili eccitava in lui l'energia del lavoro:
voleva crescere per non essere inferiore ad alcun altro, pretendeva
ovunque e sempre, nelle condizioni sociali più basse e nella più
povera inferiorità nativa, di essere pari coi maggiori appunto
perché non vi erano più artifiziali maggiorenti. Virtù di
orgoglio e vizio d'invidia lo spronavano del pari. Nell'elettorato
la sovranità uguagliata dentro gl'individui si esprimeva per masse:
il numero diventava la massima forza e nel numero ricominciava
quindi l'illusione della verità. Apparentemente l'elettorato era
ridotto all'atomismo e la sua idealità sembrava destinata a
soccombere nelle false equazioni dell'elezione, ma i danni temuti
non si verificarono che in piccola parte, perché l'unità dello
spirito umano seguitava a dominare sicuramente tutti gli
antagonismi delle vanità e degli interessi più ripugnanti.
Il secolo XIX nel suo doppio compito d'individuazione singola e
collettiva fu quindi il secolo più umano della storia.
La sua opera e il suo trionfo ebbero nel prologo il massimo
splendore d'originalità: nulla e nessuno sfuggì alla sua
rinnovazione, e il mutamento fu così rapido, l'ascensione così
alta, l'universalità così vera che nell'abbacinamento dei primi
risultati sembrò quasi che il passato dileguasse e l'avvenire
medesimo non potesse avere altro progresso. Ogni assisa dell'antica
società fu sommossa o capovolta, non una classe conservò la propria
base, non una coscienza il tradizionale atteggiamento; nello Stato
le monarchie rimasero soltanto una decorazione, e le aristocrazie
un residuo di morte fortune, contro il quale si accanivano le forze
dissolventi della vita: nel governo ogni funzione venne delegata,
nella legislazione civile la moralità viva dominò il diritto morto
e non si riconobbero quasi più stranieri davanti ai codici, dentro
la legislazione penale la pena diminuì sino a non essere che una
guarantigia, e il delitto sino a una inferiorità dell'individuo. Un
diritto internazionale sovrastò alla licenza della guerra che vi
prescrisse i modi. «La rivoluzione!, che dalla Francia sconvolgeva
rinnovando l'Europa, irruppe nelle forme letterarie e delirò col
romanticismo nel trionfo dell'individualità: penetrò
nella storia e l'interpretò con una nuova filosofia, che ne faceva
una tragedia, mentre Kant dissolveva nella critica più pura i vecchi
sistemi ripetendo più in alto l'opera distruttrice di Napoleone ed
ignorandola.
Tutte le scienze si levarono quasi in un risveglio improvviso per
gettare la natura sotto un esame, dal quale doveva uscire più
libera ed insieme più misteriosa. La geologia scoperse la storia del
nostro pianeta, e spezzandola in capitoli per ogni specie di viventi
riunì in un altro panorama tutti i suoi individui: a torme, a
falangi, i poeti dell'avventura s'inoltrarono per i
deserti ancora inesplorati dei continenti e nelle
oscurità impervie della storia: molti innamorati della
morte le dettero la posta ai poli, fra uno scenario di ghiaccio,
sotto un sole spento, in una notte di penombra, soli davanti a Dio.
Poi dalla libertà proruppe un grido, che negava la schiavitù delle
razze inferiori: ogni limite parve ingiusto, ogni
sottomissione diventò penosa. L'uguaglianza
civile e politica improvvisava in tutti un orgoglio regale.
Popoli, città, villaggi, campagne mutarono veste: le scienze,
offrendo ogni giorno all'industria un'altra forza domata della
natura, centuplicarono quella dell'uomo; il mondo rovistato in
ogni parte più segreta risulta piccolo alla nostra opera, i viaggi
una volta così difficili si confusero in una mobilità universale:
la miseria gittò a tutti i venti come un pulviscolo fecondatore i
più poveri, e coi più poveri si aggiunsero i più audaci, coloro ai
quali l'originalità dello spirito non consentiva la quiete
nemmeno nell'ampiezza dei recenti gironi sociali.
Le strade saldavano i paesi alle città e le città alle capitali, il
telegrafo produceva il miracolo continuo di una ubiquità, la
fotografia fissava nella fuga di un attimo la fisonomia degli
uomini e delle cose rilevando i segreti dell'ombra e i misteri
degli astri; poi la meteorologia segnò le vie dei venti e scoperse
i capricci delle tempeste: la chimica constatò un vivente in ogni
cosa, la biologia ne raccontò il romanzo, la medicina invertendo la
propria base negò il male e ridusse la malattia ad un conflitto di
minimi viventi coi grandi. La patria restò più nello spirito che
nella materia malgrado l'eroica contraddizione che accendeva
ovunque guerre nazionali, nessun bisogno rimase indigeno, la
ricchezza ondulò nel ritmo in un mercato universale.
Dopo la vittoria borghese, nella seconda metà del secolo XIX,
scoppiò l'insurrezione proletaria colla stessa arma dell'elettorato,
nella forma militare dell' irreggimentazione per mestieri dentro
fabbriche più grandi delle caserme, fra il tumulto di una politica
unilaterale nell'interesse, miope nel pensiero, avara nel cuore, ma
sicura della propria fecondità. La massa operaia volle partecipare
al governo pur dichiarandolo nemico mentre era invece un
liberatore, insultò le classi superiori che l'avevano battezzata,
sognò nel passato gli eden di tutte le utopie, sofferse
nell'attualità le disillusioni spasmodiche di ogni inizio. Ma
intanto le idee si divulgavano colle merci, coi viaggi, coi giornali
e coi libri dalle assemblee e dalle predicazioni, e il veicolo era
sempre la ricchezza e l'attrito delle discussioni libere levigava
l'asprezza delle coscienze, e la sovranità democratica
sottomettendo governi e individui ad un esame continuo di se
stessi li costringeva ad un rendiconto dell'opera propria sempre
più esatto.
Un gaudio di orgoglio, un'ebbrezza di creazione sollevarono le
anime, le moltitudini disertarono quasi le religioni che la scienza
si vantava di aver sconfìtto. Al solito l'uomo si affermò migliore
che non fosse, capace di ogni diritto, degno di tutte le
funzioni: come sovrano ebbe la corte in piazza e per
cortigiani i suoi stessi superiori. Una febbre gli
ardeva i polsi e la fantasia: essere il proprio re, non
piegare innanzi ad alcuno, creare a se stesso la legge, dominare
la natura e vivere immortale nell'umanità.
In nessun'epoca il progresso fu tanto rapido e profondo.
Ma i suoi fattori più attivi anziché dall'alto dello spirito
derivarono la potenza dalle più facili spontaneità industriali: le
strade e gli opifìci valsero più delle scuole e delle chiese,
l'agiatezza delle prime conquiste cangiò gli atteggiamenti e le
attitudini delle masse meglio di qualunque persuasione
intellettuale: la mobilità della vita moderna moltiplicò ovunque
ogni uomo per ogni nuovo ambiente, la mancanza di padroni emancipò
dalla servilità dopo l'abolizione della servitù.
Nessun secolo ebbe forse più grandi uomini e in maggior numero del
secolo XIX, ma la loro opera vi apparve meno distintamente: come la
facilità quasi eccessiva delle comunicazioni scemava valore alle
notizie, così la prontezza della diffusione diminuiva l'importanza
delle idee: poi la ressa dei mediocri e degli uomini superiori
intorno ai grandi impediva loro di essere veduti nella differenza
dell'altezza nativa, quindi tutto diventava quasi impersonale: la
vita invece di esprimere e di assicurare le proprie fasi, nei
monumenti era un monumento a se stessa, fluido, mutevole, perenne,
saliente nella luce. Quando la personalità è in tutti, anche quelle
più alte ed eroiche non sembrano più così vere: in un governo,
quando la massa elegge deputati e ministri, questi paiono piuttosto
guidati che guide; quando una merce trionfa lungi nell'adattamento
di tutti i mercati e nella sottomissione a tutti i prezzi, malgrado
qualunque nome e qualunque marca, la fabbrica rimane impersonale
così negli operai come nei padroni: quando il pubblico è giudice di
tutto e di tutti, anche sulle cime a lui inaccessibili,
l'originalità degli individui senza scemare diviene meno visibile.
La democrazia è fatalmente una livellazione, che per alzare il fondo
deve abbassare le cime: bisogna accettarla così. Come le acque
scrostando i monti formano le pianure, gli interessi rodendo le
idee se ne fanno un humus ed un cemento, mentre i grandi uomini
quasi lampade nelle grandi distanze si perdono a uno a uno dentro lo
splendore dei lumicini accesi alla loro fiamma e tumultuanti come
lucciole sul piano.
Certamente in tutti i tempi le idee si diffusero per correnti
misteriose, sotterranee o aeree, se fra i popoli i confini erano
ancora baluardi inviolabili; ma come il contatto continuo dei popoli
solamente poteva produrre in loro l'unità della coscienza, così la
libertà e la ricchezza soltanto erano veicoli sufficienti alle idee
della personalità moderna. Prima ogni gente doveva vivere di se
stessa martellando sull'incudine della storia il proprio
carattere, quindi ogni sviluppo pareva avere per unico scopo la
formazione di una fìsonomia nazionale: le nazioni furono allora
così distinte che alcune restarono incancellabili. Nel secolo XIX
invece l'originalità si attenua, i lineamenti si levigano e la
distinzione rimane nelle sfumature.
Una volta la politica e la religione erano le due
massime forze unificatrici:
livellavano schiacciando e saldavano colle
catene, mentre arte, filosofia e scienza rivelavano coi
teoremi e colle immagini riunendo le anime nella astrazione di una
verità superiore: ma quest'opera, la più eccelsa fra tutte, era
fatalmente penosa e pigra. Egoismo ed ignoranza contrastavano e
contrastano: l'egoismo è costretto a preferire sempre la
maggior somma di benessere estraendolo con ogni mezzo dalla
attualità, l'ignoranza si adagia in ogni vecchia forma come in un
letto ricusando perfino di mutarvi fianco.
La libertà solamente e la ricchezza eccitando fino alla febbre vizi
e virtù potevano improvvisare l'immensa civiltà del secolo XIX: la
libertà con tutti i suoi difetti e i suoi pericoli sprigiona le
forze dell'individualità, la ricchezza mettendo una gioia in ogni
bisogno e un'invidia in ogni desiderio eccita anche le inerzie più
vili. La massa, che sente di non essere bella, vorrà quindi
apparire, decente; siccome il miglioramento interno è troppo lungo
e difficile, il costume si ingentilisce e lo simula nella
esteriorità. L'elettorato sovrano obbliga la moltitudine ad avere
un pensiero magari di accatto, uscendo così dalla passività storica;
la verità non attinge la più alta cima che nella dedizione di se
stesso alla debolezza degli altri, e la politica tenta forzatamente
tutti i riscatti proletari, e la popolarità premia indistintamente
tutti coloro che vi siadoperano. L'arte ha una bellezza troppo
pura, e l'industria degradandola nella decorazione la rende
universale: la filosofia sistemi troppo grandi, e la dottrina li
spezza per far servire i loro cocci come ciotole: la scienza
scoperte troppo astruse, e la cupidigia industriale accanendosi al
guadagno delle loro applicazioni vi penetra quasi rinnovandole in
una seconda rivelazione.
Tutto quanto era possibile all'influenza della filosofia,
all'eroismo della religione, all'impersonalità della scienza, alla
personalità dell'arte per la elevazione delle masse riempì la
vecchia storia; l'attuale, incomparabile sviluppo civile invece
cominciò dalla personalità sovrana del cittadino, crebbe dalla
facilità degli scambi, che mutarono in universali le idee e gli
interessi di ogni luogo. Oggi l'umanità è daccapo in viaggio lungi
dai ripari ove resistette tanti secoli agli eccidi della guerra con
se stessa e colla natura, ma le sue file sono confuse, i suoi ordini
sconnessi: s'avanza e non sa dove, guarda in alto e il cielo è
vuoto, non ha più fede ed invoca un'altra rivelazione: è libera e
non sa comandare se stessa, più ricca che in ogni altro tempo e il
senso della miseria le si acuisce ogni giorno più nell'anima. Una
rivoluzione ideale si prepara nella crisi stessa della libertà, un
pessimismo monta dall'ebbrezza della conquista, nella quale
esultano le moltitudini. I conventi si moltiplicano mentre tutti
affermano la vicinanza di un paradiso terrestre, ma i conventi sono
l'asilo di coloro che non sentono più abbastanza la bontà della vita
per conservare il coraggio di riprodurla, e incapaci di suicidarsi
si riuniscono per lenire negli altri il dolore inconsolabile nel
fondo dei loro cuori. Nell'assenza di ogni aristocrazia gli spiriti
migliori si sentono già esuli dentro
la volgarità della moltitudine; alcuni delirano nel sogno di una
tirannide al disopra di ogni morale e al di fuori di ogni
responsabilità: altri si isolano nel disprezzo o si rifugiano nel
passato dalla miseria della nuova ricchezza, dalla falsità degli
ultimi verbi.
Perché l'industrialismo trionfante discende le gemònie
della degradazione.
La sua parola è stata breve.
Ogni forma predominante nella società si misura dal proprio ideale,
ma l'industrialismo non poteva avere che quello della ricchezza. I
suoi due principi della libertà e della sovranità individuale non
erano rampollati dalla sua essenza: l'una ottenne la massima
littoria nel cristianesimo, quando tutti gli uomini
uguali nella legge divina furono in essa sovrani col rischio
della propria eterna responsabilità: l'altra conquistò nella
riforma di Lutero la più importante emancipazione, giacché
l'esame del testo divino ne implicava la possibile negazione
nel riconoscimento dell'inviolabilità spirituale. Le
conseguenze diventavano facili. Ma nella tragedia dello spirito per
la determinazione della morale e del diritto bisognava attingere le
forze alle più pure sorgenti del pensiero: nell'antitesi fra
la segreta dolorante regalità dei migliori individui
e il palese materiale impero della
legge e dei suoi mandatari era necessario che quelli fossero
costantemente più alti di questi. Così in qualunque campo, con
qualsivoglia arme, la lotta era sempre per un'idea, che nobilitava
lo spirito anticipandogli la libertà di se stesso nel sacrificio ed
affermando la sua sovranità oltre le potenze della terra.
L'appello aveva dunque gli squilli dell'epopea e la morte una
grandiosità, che superava viriti e vincitori, mentre ogni vittoria
rimaneva inutile a coloro che contrastavano l'ascensione umana, e
ogni sconfitta si mutava l'Indomani in trionfo per quelli che vi
erano periti.
Naturalmente un progresso materiale seguiva questa corsa dello
spirito verso l'irraggiungibile meta: e come dalle scoperte delle
scienze giorno per giorno si avvantaggiavano nelle applicazioni
industriali i modi della vita, così dalle rivelazioni della
coscienza saliva la nostra personalità libera e sovrana.
Il grande avvento industriale del secolo XIX cominciò dalla
rivoluzione francese sviluppandosi negli immediati contatti di
tutte le nazioni. L'elettorato colla sua formula categorica
ripeteva nella vita politica l'uguaglianza già annunziata dal
cristianesimo nella vita religiosa: tutti i cittadini erano uguali
davanti al diritto massimo della legislazione, le poche differenze
mantenute fra loro dai primi statuti dovevano presto scomparire in
un continuo allargamento di suffragio, mentre la libertà degli
eletti come interpetri diminuiva grado a grado sino ad una servilità
di mandatari.
Tale uguaglianza, giustissima teoricamente, si contraddiceva nella
pratica: l'elettore riconosciuto dalla legge non era spesso un
eletto né della natura né della vita: quello lo aveva formato
inferiore a tale funzione, questa lo aveva lasciato così. Quindi il
nuovo sovrano, incapace di comprendere la propria sovranità invece
di esercitarla, la vendeva o esercitandola non la riempiva come gli
antichi tiranni che di capricci, e poiché i voti si sommano e non si
pesano, il numero diventava la forza e la forza al solito deliberava
nell'arbitrio. La borghesia guidò la rivoluzione nella sua prima
fase mantenendole
una certa spiritualità di intenzioni e di idee; nella seconda
l'irruzione operaia la degradò alla soddisfazione immediata di una
primizia plebea.
Ma la borghesia stessa ne era complice.
Tutta la sua nobiltà interiore si era consumata nello sforzo delle
guerre nazionali e nella conquista della libertà: la sua vita
ingigantita dalle fortune dell'industrialismo
seppe mantenersi pari al grande compito traendo dal proprio fondo
un nuovo ideale. Tutte le aristocrazie dalla Grecia a Roma,
dal medioevo al rinascimento, crearono ammirabili tipi: la
responsabilità del potere e la coscienza di
sintetizzare un'epoca diedero ai loro rappresentanti la
virtù del comando: superbi sino ad un disprezzo inumano del
volgo pagavano tale superbia col sacrificio della volgarità insita
anche nelle loro nature e dando ai propri vizi un qualche carattere
superiore: regnavano e perivano
nell'impero. La borghesia invece volle istantaneamente
godere; la sua larghezza nel gittare al popolo i privilegi stessi
pei quali governava, anziché derivare da una generosità rivelò una
debolezza esaurendo in quest'opera tutto lo sforzo della piccola
borghesia contro la grande: questa giovandosi di poche
tradizioni, di maggiore coltura e di una innegabile
superiorità dello spirito tendeva a formarsi in
aristocrazia; quella ròsa dall'invidia, inferiore nell'anima
e nella vita, si gettò alla testa delle moltitudini per
insegnarle le prime rivolte avvelenandole tutte le concupiscenze.
Nessuna delle due aveva un solido contenuto di classe e si sentiva
responsabile dinanzi alla idealità della storia.
Quindi la formula del guadagno pervase tutti gli ordini, livellò
tutte le opere.
Siccome a diventare elettore bastava essere uomo, così ad essere
eletto bagttò la somma del suffragi; il merito inutile in ambo i
casi e la responsabilità, diluita per l'immenso numero dei
responsabili si perdette nell'anonimo delle assemblee. Il lavoro
aumentò e la sua nobiltà diminuì; la borghesia incapace di superare
la loro eleganza volle soperchiare nel lusso gli ultimi superstiti
aristocratici, invece il popolo •scimmiottò l'anodina eleganza
borghese smarrendovi l'originalità del proprio carattere:
l'istruzione prodigata a tutti confondeva come in una nuova
volgarità di decenza ogni rivelatrice distinzione individuale,
mentre la prepotente importanza del danaro toglieva il rispetto
alle più squisite delicatezze della vita.
La religione si corruppe anch'essa: ammalata di ricchezza deformò
ogni giorno più la propria idolatria contrapponendosi soltanto per
avarizia alle migliori riforme liberali della rivoluzione. Una
incredulità bruta e viziosa, fatta di avanzi dottrinali e d'ignobili
sottintesi, la costituì quasi dappertutto sottomettendo gli spiriti
ad una peggiore servitù; salari e guadagni montarono
vertiginosamente, e le professioni più nobili come quelle della
medicina e della giurisprudenza vi perdettero ogni ritegno
nell'insaziabilità del lucro, mentre la scienza le migliorava
-quotidianamente nel contenuto. Per guadagnare, l'aforisma era di
produrre e vendere a miglior mercato; per avere un merito efficace
bisognava crearne la fede nella credulità del pubblico, che
ingannato non si sarebbe doluto avendo esso pure la medesima febbre
d'inganno nel sangue.
Quindi nel secolo più democratico tutti vollero prevalere, e il
lavoro manuale reso sempre più lieve dalle macchine fu dispettato
come stigma d'inferiorità: nella disparizione troppo
rapida delle vecchie gerarchie il solo ordine patrizio rimasto era
degli immuni dal lavoro delle mani, anche se inetti a quello troppo
alto del pensiero. Mentre la sollecitudine politica si addensava
intorno alla classe operaia e la rettorica della democrazia vantava
nel popolo l'eccellenza del nuovo sovrano, la nuova superbia per
tutti era di non essere più fra la sua moltitudine e di cancellare
in se medesimi le impronte del suo lavoro. Questo stesso non era
considerato che nelle risultanze del salario, al di fuori e al
disotto di ogni ideale: il codice aveva già degradato il principio
(famigliare identificandolo con un contratto, la vita si abbassava
nella sostituzione dei mezzi al fine.
Ma il suo valore al solito parve crescere dalla sua minore
importanza; nelle epoche eroiche l'individuo gitta facilmente la
vita come un aroma sul rogo dell'ideale, in quelle decadenti la vita
ridotta nella angustia delle funzioni materiali vi si trincera e
ricusa ogni sacrificio.
L'estrema mobilità del lavoro e dei viaggi passò nelle fortune della
gente: i patrimoni si coagularono e si dissiparono come in tumulto
di sogno; poiché nessuno guardava oltre se stesso, tutto parve
provvisorio e posticcio, la ricchezza avendo una meta di
soddisfazione immediata dimenticò l'orgoglio delle opere durature:
la politica costringendosi dentro il successo personale si
impicciolì nelle vittorie e nelle sconfitte.
Dopo l'enorme abbacinante filosofia di Hegel, riassunse tutta
l'antichità e aperse l'era moderna, la degradazione fu precipitosa;
Hegel aveva sollevato il mondo nelle idee, i positivisti
distrussero le idee nei fatti; la loro filosofia era la sola
conveniente ad una fase industriale, che isolava gli individui
livellandoli invece di unificarli;
L'inconoscibile, del quale l'interpretazione istintiva è ideale e
pregio della vita, venne dichiarato inutile, la storia cessò di
chiedere le rivelazioni del passato ai grandi pensieri per impararle
dalla parzialità dei piccoli documenti, le leggi non furono che
disposizioni nelle apparenze fenomeniche, la morale un mutare di
costume, le idee una metamorfosi delle sensazioni. La
superficialità rese tutto facile, e la volgarità parve la sicurezza
del reale. L'uomo senza lo spasimo dell'infinito nel cuore e la luce
divina nel pensiero, ridiscese nell'animalità, ultimogenito di una
serie anziché primogenito nella creazione. Il darvinismo, oggi
consunto, tradusse tale filosofia nella scienza, e rivelò
l'impotenza del metodo sperimentale coll'arbitrio delle ipotesi e la
sofìstica delle argomentazioni per negare o riempire le lacune
della evoluzione, sostituendo al mistero antico l'assurda facilità
di una spiegazione materialistica. Poi il positivismo della
filosofia divenne naturalismo nell'arte, e l'uomo invece delle
passioni non ebbe più che dei vizi: i suoi drammi senza libertà
morale rovinarono nella catastrofe dei temperamenti, la sua poesia
agonizzò.
Dopo Victor Hugo, retore sovrano e poeta re, sempre librato sulle
tempeste, e coll'anima accesa da tutti i baleni del cielo e bagnata
da tutte le lagrime della terra, non si vide più un grande poeta;
accanto a lui Balzac aveva forse superato Shakespeare, Musset
consumato dalla febbre di tutte le passioni sopravviveva in tutti i
cuori dolenti, Beranger era stato la sola voce popolare, Dickens
aveva scoperto il dolore degli umili; lungi sulla torbida linea
dell'orizzonte russo Dostojewski e Tolstoi annunziavano già la
tragedia di un popolo nuovo, ma nell'Italia i due veri poeti
della rivoluzione erano stati Mazzini e Garibaldi. Nessuno aveva
saputo cantarli.
Nella borghesia coloro che facevano professione di arte o di
scienza, non sentivano il bisogno di stringersi in falange contro
la volgarità: alcuni grandi stavano ancora solitari, gli altri
erano un'altra categoria di industriali preoccupati soltanto nella
vendita di una merce, che aumentava di prezzo scemando di valore. Le
più vaste ambizioni si limitavano a rappresentare qualche cosa o
qualcuno; nella politica erano ministri, nei quali la morte uccideva
anche il nome, nell'industria erano miliardari, che ricchi quanto
un popolo lottavano nel lusso dei cavalli e dei yachts cogli ultimi
piccoli re. La gloria venne decretata dai giornali, che vendevano
parole e idee: i libri da essi taciuti erano come non stampati per
il pubblico pur preparando nel segreto e nell'atto una nuova
rivoluzione. Cancellate le differenze di classe le donne pretesero
la parità cogli uomini nel nome della stessa astrazione elettorale,
poi costrette a vivere di un nuovo lavoro si gettarono su quello dei
maschi inferiori; la loro femminilità si deformò senza che il loro
spirito si allargasse, furono meno amanti e meno madri, inferiori
alle donne vere nel sentimento, senza sesso spirituale nell'opera.
Le virtù militari scomparvero prime.
Dopo le guerre nazionali la parità degli elettori li fece tutti
soldati abbreviando il tempo della milizia, ma soldati provvisori se
gregari, simili agli altri impiegati se ufficiali: il criterio
democratico della anzianità dell'esame giudicò della loro carriera,
le lunghe paci disabituarono dalla necessità della guerra appannando
lo splendore delle armi; la prevalenza dell'industrialismo, la
nuova importanza di ognuno in se stesso aumentarono le ripugnanze
alla vita militare, e l'esercito non fu più che una spesa
inevitabile quanto insopportabile. La patria era soltanto
nell'interesse di ognuno significato dall'effimero accordo di una
maggioranza: si sorrideva di ogni soldato pur esigendolo eroe ad
ogni apparire di pericolo, ma non si sarebbe voluto morire della sua
morte considerata oramai in lui un inconveniente del mestiere.
Attraverso l'accademia dei ricordi e le figurazioni delle feste
nazionali uno scetticismo sbertava gli eroismi dei padri senza
intendere nemmeno come fossero stati più felici in una vita più
alta; la fratellanza democratica non aveva fraternità, la nuova
dedizione ad un partito non valeva l'antica devozione alla patria.
Nell'ultima fase la poesia perdette la voce, e la musica non ebbe
più melodia: i poeti soppressero quasi il ritmo nei versi, i
musicisti affogarono la canzone nei recitativi.
Nessuna famiglia si conservò così grande da sentire il bisogno di un
palazzo duraturo quanto il nome: i monumenti decretati per
partigianeria, assegnati democraticamente per concorso come gli
appalti, furono raramente simboli di gloria e figure di bellezza;
alla carità, che nascondeva la mano, successe una filantropia che
conteggiava pubblicamente la vanità degli oblatori; la sapienza
greca aveva scritto sul frontone del massimo tempio — Conosci te
stesso — la coscienza industriale adottò il motto inglese — Chi non
ha non è.
Già la classica economia borghese era trascesa oltre i limiti della
libertà sino all'oblio dell'uomo considerandolo come una merce, di
rimpasto l'economia rivoluzionaria negò le leggi impersonali del
lavoro e del capitale per non vedere che il diritto dei lavoratori
più bassi; lo Stato identificato dalle vecchie monarchie del despota
ed alzato dalla filosofia idealistica a personalità giuridica della
nazione, ridiscese, nell'interpretazione industriale sino a
confondersi col governo, e il governo colla maggioranza di un giorno
nelle elezioni, di un anno nel parlamento.
Nella storia diventata finalmente universale ogni popolo non poteva
più provare il suo valore che aiutandolo nei problemi più vasti
oltre i propri confini, ma l'industrialismo pretendendo alla
prevalenza delle questioni economiche sulle politiche si ricusava
alle conquiste: dietro di lui la democrazia plebea recalcitrava per
paura della morte nella concupiscenza dei primi guadagni. Gli
eroismi dei viaggiatori, non divertivano nemmeno come le leggende
antiche della cavalleria; Andrée volato sino al polo in pallone, e
scomparso per sempre nel mistero, fu giudicato un pazzo; Stanley,
che traversò diagonalmente l'Africa aprendosi la via col ferro, un
assassino. Intanto una oscura, ineluttabile necessità imponeva una
pace più armata di qualunque guerra, e della guerra rimutava
perfezionandoli ogni giorno gli strumenti; non si voleva la morte,
ma la sua ombra oscurava tutti i sogni, e i rintocchi funebri delle
sue campane interrompevano tratto tratto la gaiezza delle diane
esultanti sui colli. La ricchezza, supremo scopo
dell'industrialismo, ne diventava l'ultimo termine; la sua
filosofia era morta, le sue scienze incespicavano nel ridicolo, le
sue arti si deformavano nella volgarità. La grande ascensione della
borghesia liberale era precipitata col secondo impero napoleonico;
da Hegel il pensiero discese sino a Spencer, il romanzo da Balzac a
Zola, la poesia da Hugo a D'Annunzio, la musica da Wagner a nessuno:
nella prima metà del secolo decimonono l'imperatore si chiamava
Napoleone; l'eroe Garibaldi, l'apostolo Mazzini: la Grecia si
sollevava sola contro la Turchia, Cavour fondava l'Italia, Bismarck
la Germania, poi Gambetta la terza repubblica francese; dopo
l'Inghilterra non bastò quasi contro i Boeri, gli Stati Uniti
ebbero una flotta ed un esercito, nei quali ad ogni guerra i
pensionati diventavano più numerosi dei combattenti, la Eussia
perdette tutte le battaglie contro il Giappone.
L'Italia fuggì davanti all'Abissinia, ma non potè ritirarsi
dall'Africa.
Il grande industrialismo aveva vinto, le grandi nazioni non
vincevano più.
VII
La nostra composizione unitaria.
La prima metà del secolo XIX fu per l'Italia una delle più belle
fioriture di ingegni, una delle messi più ricche di caratteri.
La necessità sempre crescente della rivoluzione metteva negli
eletti della vita una forza di rappresentanza che le funzioni
parlamentari cercarono poi d'imitare inutilmente e non
raggiungeranno mai. Ognuno di essi sentì di riassumere qualche
bisogno, di esprimere una idea nazionale: molti furono i grandi,
moltissimi gli illustri. Come se l'Italia volesse conquistare
l'ammirazione dell'Europa per strapparle in un applauso il
permesso di resuscitare, profuse i pensatori e gli artisti, i
martiri e gli eroi: quindi dopo la rivolta del trentuno esplose
l'insurrezione del quarantotto e scoppiò la rivoluzione de]
cinquantanove.
L'epoca fu così meravigliosa che parve un miracolo e resterà una
favola, ma nessuno potè fare ancora il calcolo di tutte le forze
che vi cooperarono, di tutti i sacrifici che vi contribuirono. Vi
furono libri che valsero battaglie, battaglie che nessun libro ha
saputo narrare: si udirono motti che erano poemi, si fecero poemi,
dei quali nemmeno un motto fu scritto. Accanto ai grandi del
pensiero si drizzarono i forti dell'azione, le corone dell'alloro
furono posposte alle ghirlande del martirio, il sangue scialacquato
come il danaro, le parole ebbero efficacia di fatti, i fatti
prontezza di parole. E il sogno colorato dalla luce di tante
fantasie si solidificò come per incanto sotto lo sforzo di tutte le
volontà, mentre l'Europa guardava attonita dalle Alpi e Koma si
levava trasognata sul Tevere.
Ma, appena compiuto il prodigio, tutti si guardavano in faccia e
nessuno più si riconobbe; quasi tutti i caratteri piegarono e
gl'ingegni decaddero: gli eroi diventavano soldati, i martiri si
trasformarono in impiegati. L'epopea finiva fatalmente alla
commedia, dacché l'idea si era tradotta nel fatto e il sentimento si
riabbassava verso il senso.
Era una legge della vita e della storia.
La rivoluzione italiana anziché opera di popolo aveva trionfato per
un sopruso eroico della sua minoranza aiutata da incidenze e
coincidenze straniere, prima attirando nella propria orbita
l'avventura del secondo impero napoleonico, poi profittando
dall'antagonismo di questo col nuovo impero germanico. Ma il popolo
nella massa era rimasto come inerte; scarsi i volontari fino a
non superare il numero e la fortuna di una milizia cavalleresca,
poche le battaglie e quasi sempre decise dalla preponderanza degli
alleati: malgrado la putredine di tutti i governi abbandonati
dall'Austria non vere insurrezioni contro di essi, nemmeno dopo la
sua sconfitta sul piano lombardo; nell'impresa del mezzogiorno giovò
meglio la viltà borbonica che l'eroismo garibaldino; l'opposizione
papale al comporsi dell'unità non ebbe fede né di odio né di amore,
e si ricusò ai pericoli di una difesa contro le impazienze
rivoluzionarie sottomettendosi piuttosto ad un protettorato
francese.
Sui primi del cinquantanove Mazzini era già politicamente
sorpassato, perché la sua predicazione repubblicana imponeva al
paese di essere eroico contro tiranni interni ed esterni bastando a.
se stesso nella rivoluzione, ed invece l'Italia non vi era matura, e
il suo spirito militare morto da gran tempo non era pronto a
risorgere, e la sua miseria morale più triste ancora dell'altra, che
manteneva quasi inerti città e campagne. Se la ribellione del
quarantotto aveva liquidato tutto il passato, rivelando l'inanità di
tutti gli schemi rivoluzionari, cosicché nel ritorno dei principi il
solo risultato di tanti mali apparve nella consolidazione dello
statuto albertino: dopo, alla ripresa unitaria, la monarchia di
Savoia fu accettata dalla nazione, come la formula più economica
di ingegno, di sangue e di danaro per conquistare l'indipendenza e
l'unità della patria. La monarchia dispensava dall'eroismo
repubblicano; 3on essa e per essa si potevano ottenere alleanze di
eserciti, ma bisognava destreggiarsi nell'umiltà di guadagni,
aspettare il beneplacito dei protettori nascondendo i propositi e
tradendo i principi.
Cavour fu il genio di questo periodo, e compiè dentro l'opera
dell'unificazione nazionale il più stupefacente miracolo della
politica nel secolo XIX: non credeva nel popolo e sentiva tutta la
debolezza storica e personale della dinastia savoiarda, quindi
rinunciando alla bellezza delle forme e dei principi rivoluzionari
ne inventava quotidianamente un'altra più feconda negli espedienti
di un'azione costretta sempre a contraddirsi senza deviare dalla
strada o perdere di vista la meta. All'impotenza della sua abilità,
che i fatti spesso opprimevano, gli eroismi di Mazzini e di
Garibaldi soccorsero come una integrazione, e anche questi parvero
iniziative popolari, mentre erano soltanto il capolavoro
improvvisato di una minoranza lirica e tragica, che superiore al
paese e al suo periodo non avrebbe potuto né riassumerlo né
capitanarlo.
La rivoluzione trionfò.
Tutti i principi furono spodestati, ultimo il papa; entro
l'unificazione dinastica si compose l'unità nazionale; parlamento,
esercito, burocrazia funzionavano come crogiuoli a disciogliere le
centenarie ancora ostili diffidenze regionali, per le strade
improvvisate come per nuove vene passò un nuovo sangue; la
soggezione alla Francia imperiale, che ci faceva scontare nelle
umiliazioni i benefici del suo interesse avventuriero, ci
insegnarono la subdola abilità dei nuovi affari ridestando nei
ricordi la scienza delle diplomazie al-'epoca dei comuni e dei
principati; lo scetticismo, che ci aveva spesso fatto sorridere
dinanzi alle congiure di Mazzini e alle scaramucce di Garibaldi,
diventò una buona qualità in tale tempo di transizione e di
transazione, mentre bisognava fondere passato e futuro in un
presente ancora troppo incerto e senza difesa,
Il risveglio nazionale avvenne quindi nell'industrialismo, che la
libertà rendeva facile: si trattava di vivere liberi lavorando per
se medesimi a preparare una grande nazione moderna, appunto perché
non si era potuto fare autonoma la sua rivoluzione.
Nulla è più pronto nei popoli come negl'individui che l'oblio dei
benefici e delle umiliazioni; l'Italia dimenticò.
Istinto e senno la mantennero stretta intorno alla monarchia di
Savoia; l'indistruttibile personalità italiana sviluppandosi nella
libertà trovò ben presto i modi di nuove affermazioni per un mondo
industriale, che metteva la perfezione nella media e la saggezza
delle intenzioni nell'utilità immediata dei risultati; bastava
quindi riaprire una a una le piccole sorgenti della vita nazionale,
facendo una politica d'interessi con migliori metodi di lavoro,
serbandosi liberi dopo aver ricevuto la libertà in dono senza
nemmeno restare in debito col donatore. Il secondo impero
napoleonico era caduto, e morto nell'esilio il secondo imperatore.
Quindi Mazzini fu dimenticato a Londra e si assegnarono una pensione
al Papa e un'altra a Garibaldi. Roma, così grande nella rettorica di
tutti i tempi, non era adesso che la città più improduttiva
d'Italia dopo Napoli, un centro storico ma senza influenza sulla
nazione, una capitale burocratica cui il papato soltanto dava
ancora una gloria universale. Infatti Roma non domina nemmeno oggi
la politica delle provincie, non ha carattere, una moda, un'arte,
un'aristocrazia, una ricchezza preponderanti. La sua grandezza è
soltanto nei ricordi, la sua beltà dura nella morte: immenso quadro
dell'antichità mediterranea sfondato dagli uragani e divenuto
cornice di un quadretto moderno,
Nei partiti un'uguale contraddizione impediva l'allargarsi
della base e il migliorare dell'opera; quello conservatore era
soltanto tale contro le inutili escandescenze dei
rivoluzionari, ma più rivoluzionario di loro nella realtà
cacciava principi e papa sopprimendo confini e conventi,
inventando una legislazione laica, cancellando
privilegi e caratteri
regionali, improvvisando una nazione nella
libertà. Quindi un giacobinismo
istintivo ed insieme teorico gli
faceva spesso smarrire la misura: non aveva una vera
fede monarchica, soffriva ancora di velleità anticlericali, tratto
tratto prorompeva in impeti rivoluzionari. Poi la monarchia di
Savoia era stata troppo avventurata nella umiltà delle alleanze,
nelle frequenze delle menzogne e delle ingratitudini; la sua
invincibile verità cresceva appunto dalla somiglianza alla nazione,
la quale non volendo ne pagare né morire pel proprio riscatto,
abilmente si ingegnava colle idee e coi fatti altrui. I migliori tra
i monarchici l'avevano malinconicamente accettata, come una
necessità alla miseria spirituale d'Italia,
Invece il partito liberale sino alla fortunata presa di Roma non
aveva potuto essere che una opposizione critica; la necessità di
accettare la monarchia gli toglieva quasi ogni influenza sul popolo,
che meno responsabile e più ingenuo accasava in essa le proprie
insufficienze, e rendeva più lungo il tirocinio parlamentare delle
sinistre rivaleggianti fra uomini ancora di congiure. La loro
politica doveva quindi essere più di impazienze che di iniziative,
di parole che di fatti; urlavano ad ogni viltà monarchica, che i
ministri non avrebbero potuto impedire, mentre come deputati
sentivano che la sua causa prima stava nel fondo della nazione.
Intanto qualche cosa del carattere rivoluzionario si perdeva in loro
per la pratica degli affari; giacobini anch'essi o girondini, quasi
tutti colorati ancora dai riflessi dell'epopea garibaldina e
tonanti di eloquenza mazziniana pur nell'oblio del maestro. Il loro
programma era una democrazia teoretica: riformare, uguagliare, con
una segreta invidia agli ultimi privilegi patrizi, con una ostilità
impermalita verso la monarchia, con una fede rettorica nella
capacità del popolo.
I repubblicani rimasti come i clericali fuori della nuova orbita
politica si sentivano troppo pochi per mantenersi partito, dacché
Garibaldi aveva accettata la bandiera di Vittorio Emanuele e Mazzini
era morto. La loro vita era stata di sogno: con Mazzini avevano
sognato un'Italia repubblicana cercandone la culla nelle tombe dei
primi comuni, con Garibaldi avevano combattuto in un altro sogno di
vittoria contro tutti i nemici e contro la monarchia stessa, come se
il popolo d'Italia potesse veramente rinnovarsi in un simile sforzo:
e invece il popolo aveva accettato egualmente ogni beneficio da Pio
IX e da Napoleone III, da Mazzini e da Cavour, da Garibaldi e da
Bismarck, ilare nell'incoscienza della propria bassezza, superbo
nella coscienza della propria resurrezione.
Questo partito di poeti doveva quindi finire nel tramonto della
poesia alla più uggiosa rettorica: Mazzini, natura lirica e
tragica, non lasciava né scuola né scolari; i seguaci erano
pedanti e i pretendenti al suo posto ombre, non figure. Uno ad uno
i migliori se n'erano andati agli appelli della storia e ai richiami
dell'ambizione; Cavour arruolò i più forti, coloro stessi che
Mazzini non aveva potuto assorbire; alcuni nobili e poveri
caratteri, rimasero immutati, e scomparvero nell'indifferenza del
pubblico, per un giorno soltanto servendo col proprio cadavere ad un
espediente teatrale di opposizione.
I socialisti apparvero dieci anni dopo la Comune di Parigi,
francesi anch'essi nell'abito rivoluzionario e tedeschi nell'idea
di Marx; ma Pisacane, che somigliava a Proudhon come un maestro
elementare ad un maestro vero, aveva già battezzato nella morte una
prima ribellione subordinandola alla necessità della patria ed
uguagliandola nel carattere alle imprese di Garibaldi. Egli era
però un principe cadetto ed un borghese povero; pochi contadini
borbonici bastarono a massacrare la sua banda nella campagna di
Sapri senza che l'Italia domandasse nemmeno il nome del morto
capitano; né oggi ancora il socialismo, divenuto il più nuovo fra i
partiti, sente l'orgoglio di affermare la propria tradizione nel
nome del suo unico eroe.
Ultimi i clericali, inerti e sorpassati, non erano nemmeno un
partito, giacché perdendo il predominio politico non ne avevano
rimasta la coscienza. Del popolo avevano formato una massa bruta,
della borghesia una clientela d'affari, del patriziato una corte
d'anticamera: la loro religione rimasta poco più di una bigotteria
non aveva più né luce di fede né calore di carità; sottomessa alla
politica di principi soggetti allo straniero, vivevano di
parassitismo acuendo nell'ozio le facoltà scettiche della critica;
odiavano istintivamente la rivoluzione e tremavano dei
rivoluzionari senza comprenderli. Fortunatamente il clero anche
peggiore non contrastò alla fortuna così meravigliosa ed incerta
d'Italia; soltanto nel regno napoletano entrò non visto ad aizzare
il brigantaggio stipendiato dal Papa e dai Borboni, troppo inetti
entrambi per suscitare una vera guerra come già nella Vandea. Quindi
Roma alzò a precetto l'astensione politica rivelando la debolezza
del proprio principio.
Ma lentamente popolo, borghesia e patriziato clericale furono
attirati nell'orbita rivoluzionaria; l'Italia era fatta e niente
poteva più disfarla, la vita migliorava e cangiava, bisognava
lavorare ed arricchire, le energie regionali si ridestavano all'eco
dei pubblici dibattii, la coscienza nuova cominciava nella
necessità di partecipare ai benefici prodigati dal governo. L'unità
vera si formava da questo rimescolio di interessi e di caretteri, di
cit'tà e di campagna, di principati ridotti a provincie, di
Provincie decadute e risorte. Per quanto equivoci ancora i vantaggi
delle prime libertà negli inconvenienti del primo squilibrio
costavano troppo poco a tutti perché non venissero accettati;
siccome i pochi eroi erano stati i primi ad essere vinti dalla
rivoluzione, il loro idealismo non aveva più alcuna seduzione.
Le potenzialità della razza si risvegliarono presto. Se i più
ostinati e ribelli del partito rivoluzionario contrastavano ancora
arrochendosi in aspre ed inutili predicazioni, se i più nobili
rappresentanti del partito liberale, quasi sgomenti della ressa,
che miseria ed avarizia facevano a tutte le porte forzandone tutte
le consegne per cacciare di posto precursori e vincitori, si
ritiravano malinconicamente, un'altra generazione giovane,
impaziente, spregiudicata era già pronta a sostituirli.
La politica doveva intonare all'interesse, il regionalismo
utilizzava le superstiti forze federali, la morale rimaneva quella
di prima, perché l'eroismo dei pochi rivoluzionari non era bastato
ad alzarla. Insino alla presa di Roma il governo fu inferiore; dopo,
la sproporzione colle maggiori potenze europee gli impose una
preparazione costosa e difficile, che contrastava all'egoismo della
moltitudine coll'imposizione di sempre nuovi sacrifìci, e non
permetteva ancora alcun atteggiamento di vera indipendenza. Poi la
febbre del mutare salì; ogni mutamento conteneva la possibilità di
altri impieghi e di altri uffici, il governo ammalava di elenf
antiasi, la politica imperversava nelle cabale, mentre il paese
invece compiva un miracolo inaspettato rinnovellandosl davvero, e
non consacrando alla politica che le forze e gli uomini inferiori.
Nel confronto d'oggi l'Italia del '59 è già un paese lontano nella
leggenda; la terra dei cantanti e dei morti, la nazione carnevale,
che gli stranieri visitavano mesti ed ironici, fra postriboli e
monumenti, è oggi uno dei più moderni e vitali paesi. La
nostra popolazione cresce così che in cinquantanni sarebbe quasi
raddoppiata senza l'emigrazione, la nostra ricchezza è forse
decuplicata; fronteggiammo un debito inverosimile, creammo
tutto, scuole, esercito, marina, improvvisammo
senza miniere opifìci e fabbriche accettando la sfida della
concorrenza estera: le ferrovie furono alla nostra miseria una
creazione forse più meravigliosa delle ferrovie americane, giacché
le costruimmo senza danaro e prima ancora che le reti stradali
potessero congiungerle. Torino perdendo la capitale raddoppiò di
valore economico. Roma tornando italiana risorse a magnifica
capitale.
Ma la nostra coscienza ideale decadde: ci ammirammo nei risultati
senza dolore per le frequenti viltà del loro processo, la borghesia
abdicò all'orgoglio del comando, il popolo, che aveva ricevuto
tutto in dono dalla rivoluzione, accusò tutti di parassitismo; una
critica troppo facile dissolveva leggende e fatti, caratteri e
superiorità; la predicazione della pace diventò scusa all'ozio e
alla paura; la fortuna degli abili rese così miope l'abilità che si
vollero sottomettere piccoli e grandi eventi alla sola regola dei
bilanci. Accadde quindi che le più alte funzioni furono le più
bassamente servite; nell'elettorato e nel parlamento la decadenza
troppo rapida provocò Filarità quasi di una caduta: poteva dirsi
che la selezione vi si compiesse a rovescio, mentre i partiti vi si
dissolvevano e i ministeri vi susseguivano incolori ed effimeri.
Infatti se industria,, commercio, agricoltura, scienze tutto si
fosse ritmato sul governo, nemmeno sarebbe stato possibile la
improvvisazione della ricchezza. Ma stato e governo non salgono che
per la forza latente nel fondo della coscienza nazionale: alla
fioritura Sella superficie basta la fortuna delle stagioni, i grandi
alberi invece esprimono la potenza accumulata dai secoli nel
terreno.
L'Italia non potè stimare la monarchia né credere alla repubblica:
quella era un avventuroso compromesso di tutte le forze e le
insufficienze paesane, questa un ideale di poeti prima, un pretesto
di politicastri poi. Già nella retrogradazione dello sviluppo
nazionale l'Italia non significava se stessa che per minoranze,
dacché l'iniziativa e il primato politico europeo erano passati
nella Spagna, quindi in Francia, in Inghilterra, in Austria, in
Prussia. Noi ci accodammo allora servi e clienti, la rivoluzione
francese ci mutò i padroni, l'impero napoleonico non volle e non
potè ricostruirci. Laonde il nostro risorgimento si manifestò per
eroi: congiure, insurrezioni e guerre, ogni fatto collettivo fu
povero: di rimpiatto negli individui trionfò la più incantevole
originalità. Così dopo la vittoria del '59 ci trovammo soli davanti
a noi stessi, il passato ci
aveva tolto ogni coscienza e il
presente non po
teva restituircela; invece la nostra razza aveva
ammirabili qualità di resistenza e di iniziativa,
che si
esplicarono nella pratica immediata della
modernità.
Sciaguratamente fallimmo la prima grande prova nell'Africa.
L'Europa, che quattro secoli or sono discendeva dalla vecchia
caravella di Cristoforo Colombo all'America per costringerla ad
entrare nell'orbita della propria storia, assediò l'Africa da ogni
costa per tutto il secolo XIX. Dopo le antiche barche fenicie le
prime flotte intorno al misterioso continente nero erano state
italiane; i pennoni di Amalfi e di Pisa, di Genova e di Venezia, di
Roma e di Palermo si gonfiavano superbamente ai venti del deserto;
alcuni veneziani del secolo XV offersero ad un sultano di tagliare
l'istmo di Suez; miracolo di audacia allora, prodigio di scienza
poi e che avrebbe senza dubbio potuto compirsi anche allora. Mentre
Colombo e Vespucci scendevano in America, Cadamosto veneto
penetrava nel Senegal e nella Gambia, ma l'Italia già esaurita dal
rinascimento non poteva seguirlo; quindi sulle sue orme proseguirono
inglesi, portoghesi, francesi sino a Napoleone e dopo Napoleone.
L'Italia invece non vi mantenne che ideali relazioni: Rosellini
disegnò forse le migliori tavole egiziane, Bolzoni e Caviglia
entrarono delle piramidi, Servolini, un mio compatriota, succeduto
a Champollion, lo superò quasi nell'intepretazione dei geroglifici:
Passalacqua portò la prima mummia a Torino, recentemente Maspero
disseppeliva quella del grande Sesostri e ne leggeva l'iscrizione al
mondo meravigliato. Dopo il '59 le colonie italiane a Tunisi, al
Cairo
ad-Alessandria aumentarono d'importanza: qualche cosa sollevava
l'anima della nazione, un vento misterioso -la portava lungi. La
febbre delle scoperte, la passione dei viaggi si riaccendevano e
l'Italia si precipitava anche essa nell'arringo. Era fatalità ed
istinto, una legge della vita e della storia.
Piaggia, Antinori, Gessi risalgono il Nilo origliando e stringendo
le ciglia verso il centro dell'Africa; là è il mistero, di là
soffiano le tentazioni. Ma la gloria di sfondarlo rimase divisa fra
Stanley e Pellegrino Matteucci, il mio mite ed eroico compagno di
scuola. Stanley raccontò poi il viaggio con epica e superba
sobrietà, Matteucci ne morì a Londra quasi senza parlare. Dopo lui
altri si slanciarono indarno; Chiarini, Giulietti, Porro, Bianchi
furono trucidati; Cecchi, più fortunato sul principio, mutò
l'epopea in romanzo rimanendo per cinque anni prigioniero amante
della regina di Ghera: poi libero ritentò l'impresa e vi perì
abbandonato come gli altri.
Nel parlamento e nel governo infatti niente e nessuno sembrava
sentire questa irresistibile e tragica attrazione del continente
nero; eravamo stati battuti diplomaticamente dall'Inghilterra a
Cipro, dalla Francia a Tunisi e a Tripoli: avevamo ricusato di
cooperare nell'Egitto coll'Inghilterra dopo la rivoluzione abortita
di Arabibey, mantenevamo sulla costa di Assab una minima fattoria
senza nemmeno una bandiera. Ad ogni interpellanza sul massacro di un
nostro eroico viaggiatore, i ministri rispondevano negando ogni
solidarietà mentre nel paese saliva un fervore di poesia e di
orgoglio. Si cominciava a sentire oscuramente che tutti gli sforzi
millenari dell'Italia per costituirsi in nazione, il sangue del suo
eroismo e le tragedie del suo genio, non miravano che a ridarle una
fìsonomia e un valore di attrice nella storia europea: che la
cooperazione della Francia e della Prussia nel nostro risorgimento
-non potevano avere altro significato; che l'Italia risorta e chiusa
nei propri confini come dentro una tomba sarebbe spettacolo più
doloroso dell'Italia morta. Bisogna quindi affermarsi in una
impresa oltre i limiti nazionali; oramai la preparazione durava da
trent'anni e poiché lo sforzo maggiore dell'Europa era in Africa,
l'Italia non doveva mancarvi. Dopo secoli e secoli la nostra
bandiera tornerebbe minacciando sui mari che l'avevano dimenticata,
e non sarebbe più la bandiera di Venezia o di Genova che avevano
scoperta l'America e salito le mura di Costantinopoli, non quella
di Roma che aveva annichilito i turchi a Lepanto, ma la bandiera
d'Italia sventolante sulle aste delle aquile romane.
Una grande ora stava per discendere sul quadrante della storia.
Andare in Africa significava tornarci, perché l'Italia vi aveva
vinto Annibale, imprigionato Giugurta, sottomessi i Tolomei,
sconfitti i Saraceni, dissipati i Barbareschi: altra volta l'Italia
sintetizzando l'Europa e profetandone l'avvenire si era battuta
contro tutto lo sforzo d'oriente e aveva trionfato. Ma Garibaldi e
Mazzini erano morti: una volgare democrazia snaturava la grandezza
del loro genio e del loro carattere nelle più' miserevoli
interpretazioni: non si voleva nessuna guerra coll'Africa
riconoscendole lo stesso diritto nazionale dell'Italia: si
confondevano storia e preistoria, si pareggiavano le loro diverse
epoche e le loro contradittorie personalità. Si dimenticava che se
i più civili non avessero sempre conquistato i più barbari la
civiltà non sarebbe mai cresciuta.
Nutrita dal principio di egua-glianza morale e
politica, la democrazia non comprendeva che tale alta verità
diventava falsa fuori del proprio periodo, e che la storia anziché
consacrare l'intangibilità di alcun popolo distrusse sempre quelli
che non potevano sottométtersi al suo disegno.
Nell'impero d'Africa, come per la massima prova passarono quindi
governo, partiti e classi: la monarchia vi perdette la propria
ragione ideale, giacché il paese l'aveva nella rivoluzione
preferita alla repubblica soltanto per una più efficace virtù
davanti ai problemi di politica estera e per il suo stesso difetto
di mantenere l'estrema punta del potere esecutivo al disopra delle
competizioni elettorali. Una monarchia incapace di rendere alla
nazione simili servigi può durarvi ancora, ma non vi è più vivente.
Nel parlamento la destra non vi sentì il bisogno di riscatto dalle
umiliazioni di Villafranca e di Aspromonte, dì Custoza e di Mentana:
la sinistra non vi indovinò la modernità lontana, come già
Garibaldi che per aiutare l'Italia era andato a costituirle un
esercito e una gloria a Montevideo; i repubblicani di fronte
all'insufficienza monarchica accusarono scioccamente la monarchia
di aver voluto tale conquista, il Senato non si alzò sulla Camera
ad ammonire superbo, il popolo solo urlava vendetta ad ogni eco di
sconfitta, e si sarebbe forse scagliato alla guerra nella prima
febbre del sangue se i caporali di tutti i partiti non lo avessero
ingannando frenato.
Il disastro spirituale era enorme. Se ad Aspromonte la monarchia
incapace di risolvere il problema di Roma doveva contenderne
l'onore a Garibaldi per evitare una collisione col secondo impero
napoleonico, e nel '66 la sconfitta di Custoza si poteva spiegare
coll'inferiorità del nostro esercito composto di reclute ancora
inconsapevoli e di residui borbonici e granducali contro la potenza
dell'Austria non abbattuta nemmeno da Napoleone I, dopo trent'anni
di preparazione, con Roma capitale, l'insufficienza dimostrata in
Africa provava ancora una volta la troppa fortuna del nostro
risorgimento nazionale. Anche laggiù, nel deserto, qualcuno dei
nostri capitani e molti soldati erano morti eroicamente, nei libri e
pei giornali alcune voci eloquenti di collera e di dolore si erano
alzate a rimproverare, ma il popolo migliore del proprio governo non
lo era abbastanza per sospingerlo, e il governo aveva indietreggiato
dinanzi alla inevitabilità del pericolo senza coscienza della
grande ora. Avevamo superata la crisi mortale dei debiti, ma ci
mancava ancora quell'orgoglio che impone ad un popolo di
arrischiare la testa piuttosto che abbassarla; giudicammo avventura
ogni impresa lontana, retorica imperiale ogni necessità d'impero,
si dimenticò che la grande politica è un inganno del genio al buon
senso della folla e all'avarizia del suo interesse per condurla ove
deve e non saprebbe andare.
Ma dall'Africa non potevamo più tornare: intorno a Vittorio
Emanuele II le falangi eroiche di Cavour, di Mazzini, di Garibaldi
erano bastate a integrare la incapacità della dinastia e della
nazione; Umberto I, re dell'Italia moderna, non vi trovò né un
istinto, né una coscienza per la grande prova.
La borghesia non regnava, il popolo cominciava già a sollevarsi
contro di essa.
VIII
L'affermazione.
Il secolo XX si è affermato colla grande crociata bianca d'Europa
contro la China e la successiva vittoria de1 Giappone sulla Russia:
evidentemente l'Asia sarà per lungo tempo il problema più
importante come l'Africa lo fu nel secolo scorso e per gli altri
l'America: fors'anche l'integrazione delle nazionalità europee,
poiché l'Europa è sempre il centro ideale del mondo, non ebbe
più alto scopo. La misura del valore in ogni popolo è data soltanto
dalla cooperazione ai problemi che lo superano, quindi nella sua
politica estera si esprime la sua maggiore potenza di primato e di
gloria.
E poiché in ogni epoca della storia preparazione ed azione si
equilibrano, il secolo XX sarà un grande secolo.
A risollevare il continente asiatico nessuna singolare forza di
popolo poteva bastare: esso era troppo vasto, antico, vario ed
inerte perché il braccio di un eroe o l'anima di una gente vi
fossero valida leva: dall'Asia crebbe e si diffuse per razze
l'umanità, dall'Asia tutto incominciò e sul suo suolo eternamente
fecondo nulla finì. Cuna delle prime civiltà essa doveva poi
rimanere come segregata dalle loro stazioni più luminose nella
lontananza dei secoli e delle genti, sino a velarsi nel mito e a
chiudersi nel mistero': la sua antichità superava ogni memoria di
tradizioni e di monumenti, la sua ampiezza non potè mai essere
riempita, la sua varietà pare anche adesso quella di una prima
matrice, il suo peso stancò tutti i suoi popoli e prostrò le forze
di tutti gl'invasori. Senza l'Asia la storia europea diventa
inintelligibile; guerre ed invasioni mantennero il contatto fra
oriente ed occidente, le colonie furono come fari accesi nella
notte, le ultime conquiste dell'Olanda, del Portogallo, della
Francia e dell'Inghilterra come accampamenti sui confini
dell'immenso nemico.
Ma nessuna nazione europea era più abbastanza giovine e numerosa
per poter all'infuori della Russia esercitare sul continente giallo
una immediata influenza di razza; nelle Indie l'Inghilterra
sostituitasi agli ultimi conquistatori non li superò che nella
abilità degli affari, ma essa è appena un'isola remota, dalla quale
un piccolo popolo di grandi mercanti può soltanto diffondere merci,
idee, danaro. Il suo commercio e la sua industria sono universali
solo superficialmente: trovano vie è le dilatano, scovano le
ricchezze e le moltiplicano, portano seco una civiltà incomunicabile
nel carattere nazionale e quasi impersonale nell'azione. Il numero
del popolo inglese è troppo scarso, e il suo spirito troppo
individuato per avere ancora una vera forza di attrazione, quella
strapotenza di razza, che coagula, assorbe, e fonde. Quindi
l'Inghilterra, come già i Tartari invadendo la China, rimase
essa medesima prigioniera dentro la grandezza delle Indie, immensa
fattoria, nella quale i padroni debbono contentarsi della debolezza
dei servi, senza pretendere ad un comando distruttore o creatore.
La Russia invece era da tempo l'ultima razza vergine in Europa: la
grande civiltà antica fu greco-romana, poi dalla lunga incubazione
medioevale crebbe nella razza dei germani, giacché le fioriture
neolatine non ebbero dentro se stesse una individualità abbastanza
capace di conquista. Gl'inglesi prevalsero nell'azione, i tedeschi
nel pensiero: quelli da lungi ripeterono i romani, questi i greci:
il periodo di entrambi non fu lungo, nell'opera caratteristica come
ai secoli di Pericle e di Augusto, perché nel nostro mondo una
mistura sempre più densa e profonda affrettava l'avvento
dell'unità.
Il problema europeo una volta dibattuto sul Reno, sul Po, sul
Danubio, ribolle ora alla foce di quest'ultimo e sulle sponde del
Mar Nero, che dopo essere stato uno stagno turco sta forse per
diventare un lago russo, se il panslavismo nella sua incalcolabile
forza di espansione, trionfando delle opposizioni austriache ed
inglesi, offra alle popolazioni slave del sud più pronta
indipendenza dalla Porta.
Quindi l'avvenire della storia europea non potrà avere che dalla
Slavia una terza originalità.
Un immenso popolo disseminato sulla metà del nostro continente sta
per aprirvi un periodo di civiltà pari al latino e al germanico. Il
suo numero enorme è tuttavia piccolo per il suo territorio: la sua
orbita abbraccia gran parte dell'Asia e si spiega dal mare di
Bering al mare glaciale sino al Baltico, penetra nella Scandinavia
e nella Prussia, dal Mar Nero tende al Mediterraneo e da questo
all'Adriatico e all'Oceano Indiano. Le avanguardie slave vigilano
nella Dalmazia, sono accampate nel cuore dell'Asia: gli eserciti
russi corsero già vittoriosi tutta l'Europa da Parigi a
Costantinopoli: l'impero degli czar ha l'estensione e la varietà di
un mondo. Nella sua spaventevole unità governativa presenta ancora
la più salda compattezza attraverso le antitesi di tutte le forme
della vita primitiva colla moderna: religione e politica vi sono
fuse ria secoli nello Czar pontefice e imperatore, che regna,
governa, giudica, rivela a nome di Dio. La forza dell'impero è al di
là di ogni calcolo come l'autorità del suo governo al di sopra e al
disotto di ogni critica, nessuna guerra può vincerlo, nessuna
rivoluzione rovesciarlo. Entrato da poco più di un secolo nella
storia europea ne domina già le vicende; ha indagato la rivoluzione
francese, cancellato il primo impero napoleonico, organizzata nella
santa Alleanza la reazione monarchica liberata la Grecia, sottratti
i Principati danubiani alla Turchia: colla voracità del barbari
divora tutti i prodotti della nostra civiltà per meglio
assimilarsene la sostanza: ha già una scienza, una
letteratura, una musica, una politica, della quale i
disegni sorpassano tutte le complicazioni diplomatiche degli
altri governi. Con un orgoglio intrattabile minaccia
simultaneamente Asia ed Europa: il suo sogno è di espandersi
dall'India all'Illiria; la sua marcia attraversa regioni di tutti i
climi e di tutte le storie, lenta, calcolatrice, senza mai
indietreggiare, assodando la conquista prima di aumentarla,
aiutandosi egualmente colla barbarie servile della propria
moltitudine e colla raffinata cultura del proprio governo.
Nessuna tirannia forse è più terribile e meno capricciosa della sua,
che ubbidisce ancora più fanaticamente del popolo all'idea di un
mondo russo.
Di fronte al suo impero quello austriaco pare una piccola confusione
burocratica e quello della Germania un accampamento militare;
entrambi debbono destreggiarsi nella politica. La Russia sa di non
poter essere mutata da alcuna guerra.
La terribilità della sua forza si rivela tratto tratto nelle
esplosioni dei suoi rivoluzionari, che in un sogno di occidente
vorrebbero trarla dalla propria base; ma il panslavismo è ancora
adesso la più larga, profonda idea nazionale della storia. Se
l'Europa avrà una terza civiltà, probabilmente l'ultima, giacche le
epoche debbono sempre trarre dal fondo dei popoli la propria
originalità e nell'Europa soltanto la Russia è ancora originale,
questa civiltà sarà slava o non sarà.
Noi latini ci esprimiamo già per individui
da gran tempo e nella nostra coscienza tutti gli strati
furono sommossi, e sulla nostra superficie tutti i lineamenti si
confusero in una fisonomia incerta di secoli e di razze; gl'inglesi
ancora più individualisti di noi si consumano nell'opera e
non possono rinnovarsi nel numero, nella fibra, nell'idea.
I tedeschi nel secolo scorso diedero al
mondo moderno la sua sintesi ideale oltre i confini delle lingue e
i limiti delle religioni; Goethe, Beethoven, Hegel, ecco il grande
ternario germanico; Bismarck, Moltke, Marx,
ecco la triade prussiana: Bismarck che concepisce
l'impero, Moltke che lo fonda nella vittoria, Marx che lo dissolve
in una negazione universale.
Nella recente guerra col Giappone la Russia era l'ultimo e massimo
campione d'Europa: dominava già tutto il nord dell'Asia, vigilava
da Porto. Arthur e da Vladivostok sul mare, si avanzava come
un'alluvione, colonizzava romanamente dando un'impronta alla terra
ed assorbendone l'anima. Davanti ad essa la China non aveva che la
resistenza delle cose morte: poi la Russia era discesa verso la
Persia, toccava già all'Afganistan; essa sola aveva un popolo
agricolo ancora vibrante nella passione dei nomadi e così
innamorato della terra da cercarvi sempre nuove regioni e da
riempirle: essa sola sulla fine del secolo XIX possedeva ancora
l'unità barbarica del comando necessaria alle lunghe imprese, e
quella ingenuità fors'anco più barbara nelle masse guidate
dall'istinto e sollevate dall'obbedienza.
La guerra fu combattuta per primato di conquista e di influenza sul
continente asiatico; il campione bianco rappresentava tutta la
civiltà europea e l'originalità del suo estremo popolo; il piccolo
campione giallo era già il primo risorto della sua immensa razza,
provando che la immobilità ne era solo apparente, e che l'antica
madre poteva ancora essere fecondata. Il trionfo giapponese ha
rivelato con una serie ininterrotta di vittorie, che nella civiltà
bianca la coscienza è già inferiore all'intelletto, e l'unità ideale
della storia non basta più a dominarvi l'antagonismo delle nazioni e
a sollevare l'anima delle genti. Infatti nessuno volle sentire che
la sconfitta russa era un'umiliazione europea, giacché nessun altro
popolo vi avrebbe fatto una prova migliore, mentre tale prova
inevitabile ricadeva su tutti per solidarietà di razza.
Il Giappone è adesso il più alto protettore asiatico, la Russia
invece dal disastro della potenza e della gloria imperiale trarrà
forse un irresistibile motivo di rinnovamento democratico, che
liberi le magnifiche originalità della sua natura, ripreparandole a
un non lontano trionfo. Certamente lo czarismo non potrà esservi
sostituito, né la democrazia svolgersi colle forme e col ritmo
d'occidente, ma qualche gran cosa matura in quest'ultimo impero, il
più vasto della storia.
La sua disfatta dopo quella della Spagna a Cuba e dell'Inghilterra
coi Boeri ai quali finì col prevalere soltanto perché il loro numero
inferiore a quello di una mediocre città si era consumato nella
guerra; la disastrosa ritirata dell'Italia davanti al Negus
d'Abissinia, le umili sottomissioni della Francia a qualunque
minaccia. dinanzi ad ogni pericolo; la viltà della Grecia insorta
per Creta e caduta subito alle ginocchia del primo reggimento turco,
la ridicola vittoria degli Stati Uniti contro la Spagna che non si
batteva più, e contro il piccolo Aguinaldo, avventuriero e
bandito, non vinto ma comprato a tradimento rivelano che Fu omo
civile non guarda più come una volta alteramente la faccia della
morte.
Invece la vertigine degli armamenti aggira e precipita ogni paese,
la pace armata costa annualmente al mondo il doppio di qualunque
guerra; ma non vi è quasi più spirito militare e tuttavia non sembra
possibile concludere che così lunga-vasta unanime preparazione debba
riuscire alla chiarità di un disinganno, che proclama il disarmo
universale. La vita e la storia anziché ingannarsi sul mezzo e sul
fine uguagliarono sempre quello a questo, lasciando talvolta
indovinare nello sforzo della preparazione l'importanza del
risultato. Gli Stati Uniti geograficamente al coperto d'ogni
pericolo hanno proclamata la necessità di un esercito e di
un'armata, l'Inghilterra sta per assoggettarsi alla coscrizione,
nessuna nazione osa nonché disarmare credere alla sufficienza delle
vecchie armi: ma la preoccupazione di tutti è sul mare.
Ciò annunzia che la lotta suprema avverrà forse lungi nei continenti
inferiori, sui quali i popoli prevalenti saranno quelli di una più
originale personalità: fors'anco tutta la nostra vita economica
dipenderà ben presto dai contraccolpi della nostra azione
all'estero, più probabilmente ancora ogni vita ideale non avrà altra
ampiezza che quella conquistata dalla forza della volontà.
Nel passato l'individuo era sostenuto e protetto dai gruppi
sociali, di lui più antichi, se non immutabili quasi immobili. La
stratificazione delle classi, l'antagonismo delle patrie,
l'inimicizia delle religioni, la precisione delle idee comuni,
l'onnipotenza delle leggi garantivano la vita pur limitandone lo
sviluppo.
Oggi la libertà disciolse gli ultimi vincoli e rimise l'uomo dinanzi
al problema di se stesso. Nulla è cancellato né si cancellerà nella
sua coscienza, ma tutto vi ondeggia: la sua responsabilità
d'individuo è incalcolabilmente maggiore: può mutare tutti i paesi
sottrarsi a tutti gli obblighi, diventare impersonale nella
rinunzia a tutte le cittadinanze; ovunque lo stesso danaro, la
stessa libertà, lo stesso codice gli garantiscono la stessa vita; il
suo egoismo d'incredulo, di nomade, senza patria, senza
famiglia, senza Dio non ha più limiti esteriori. Gli è
permesso di profittare di tutto senza dover nulla a nessuno. Però la
sua responsabilità non fu mai più grave, né la sua personalità ebbe
un bisogno più intenso di vincoli ideali. Ridotto ad un atomo come
nella concezione del Contratto Sociale l'individuo vanisce;
disciolto dalla razza, dalle tradizioni della sua gente, diviene
inintelligibile a se stesso; libero dalle coercizioni delle leggi
deve imporne altre a se medesimo e sentire nella propria vita
quella del proprio popolo, amando nella sua passione, innalzandosi
nella sua fede, sognando nella sua speranza. Solo, non
vivrebbe né fasicamente, né spiritualmente, perché le necessità
dello spirito sono più profonde ancora che non quelle del corpo.
Adesso la sovranità elettorale facendo di ogni uomo un legislatore
lo solleva in un'idea e in una coscienza comune.
Cittadino e soldato gli è consentito di abdicare il diritto e di
gittarne il dovere, ma dopo sarà uno straniero parassita dappertutto
e giacché lo straniero spirituale è un intruso e il parassita una
malattia, verrà respinto ad ogni istante in se stesso, condannato a
riempire della propria ombra la propria solitudine. Vi è invece
dentro ognuno di noi una terra, che s'illumina anche di notte e
fiorisce in tutte le stagioni, quella dove seppellimmo nostro padre
e che bagnammo bambini delle nostre prime lagrime. Si può esprimere
lo stesso pensiero in tutte le lingue, come si possono adattare
tutte le bare al medesimo cadavere, ma una parola sola è vivente
dentro di noi, nella profondità della razza e può solo significare
tutta la nostra anima rivelandone l'individuale secreto nel tremito
di un accento, nello squillo di una vocale.
Qualcuno disse già che nel mondo antico l'uomo era triplo,
individuo, famiglia, patria, e che nel mondo moderno sarà duplice
soltanto, individuo e umanità, l'atomo e la massa, lo spirito
singolo e l'universale.
Ma non può essere vero.
L'individualità nuda è un'ipotesi falsa, l'umanità identica sarebbe
l'umanità vuota.
L'individuo invece non è tale che nella unità delle proprie
antitesi; sopprimete in lui il temperamento della famiglia, e la
sua originalità si annebbia: tutta la differenza fra il mondo
antico e il moderno sarà soltanto in questo, che allora qualità e
funzioni native erano come solidificate esteriormente e adesso
ridiventano ideali, senza coercizione, quindi pili forti e più
belle.
Ubbidire alla legge, che sentiamo dentro di noi e possiamo formulare
contro il nostro difetto, è il più alto grado della libertà;
appartiene ad un gruppo per una intima, irrefutabile coscienza di
rapporti primitivi e per la necessità di una
cooperazione vitale, è un attributo della regalità. Il re era primo
fra tutti, perché solo significava il loro passato e il loro
avvenire identificando il proprio interesse con quello di una gente.
L'affermazione ideale, che dovrà costituire in falange cavalleresca
senza capitano e senza bandiera la nuova aristocrazia dispersa in
tutti i gruppi sociali, sarà quindi una parola eterna, vera
ieri come domani, l'affermazione che vita e storia non possono
essere mutate nell'essenza, ma debbono sempre nobilitarsi nelle
forme: che la vita è tragedia e la storia poema; nell'una
l'individuo soccombe davanti a se stesso, nell'altro s'immola alla
continuità della propria gente. Bisogna affermare che la libertà
non è che la coscienza della necessità, e come la scienza emancipa
la natura dalle superstizioni rilevando le sue leggi immutabili per
preci e per bestemmie, così la libertà emancipa lo spirito nella
sottomissione alle leggi morali e intellettuali.
Bisogna affermare che l'amore è motivo della generazione e gli
sposi debbono sparire nei genitori, sacrificandosi alla devozione
pei figli; bisogna affermare che tutto quanto forma il nostro
spirito è un legato della storia per le generazioni future, quindi
il nostro interesse nel presente soltanto un'eco del passato, che
ridiventerà voce nell'avvenire. Ogni cooperazione umana aumenta di
responsabilità crescendo di importanza, giacché la superiorità non
è che il diritto di soffrire più in alto, pensando per quelli che
non pensano, amando per quelli che non amano, lavorando per quelli
che non lo possono.
La grandezza dell'individuo si misura alla quantità delle anime, che
può assorbire e significare: nessun individuo ha niente da dire
finché parla di se stesso.
Se la vita e la storia avessero sbagliato fino a ieri, non potremmo
conoscerne l'errore, perché la vita e la storia fummo noi stessi e
siamo come fummo: il progresso perfeziona non contraddice, le
verità si rivelano non s'inventano. Le nostre ultime religioni non
dicono nulla più rnelle prime a chi sappia interrogare il passato,
ma lo dicono meglio; le recenti scoperte della scienza, che ci
sembrano così abbacinati, balenarono come intuizioni nella mente
dei primi pensatori; i più vasti sistemi della filosofia si
espressero già per proverbi e per dogmi. Dovunque vada l'umanità
l'individuo vi è come la goccia nell'oceano, non può uscirne e ne
sente tutte le vibrazioni: è libero dentro le sue correnti,
s'innalza nei suol vapori, si perde assorbito dalla terra
eternamente in gestazione.
Adesso bisogna affermare che le moltitudini emancipate prima ancora
di essere libere hanno bisogno di vedere in una aristocrazia morale
ed intellettuale la figurazione della propria vita per intenderla, e
che nella libertà nessuno può redimere un altro. La rendenzione
invece è dentro tutti, in alto, nel cuore che si sacrifica, nella
mente che crea.
La sovranità popolare sarà più falsa e dolorosa di ogni passata
tirannide, se l'elettore non affermi contro se stesso che il suo
diritto è vero soltanto nella verità della coscienza.
Per noi italiani la prima grande affermazione
sarà questa: che la
nostra rivoluzione non trion
fò per la nostra virtù di popolo, e
che la sua
f ortuna c'impone addesso di fare
un'Italia
grande.