Alfredo Oriani


La rivolta ideale

Cappelli, Bologna 1937


Indice

 
Prefazione di Benito Mussolini
 
I. II motivo 

    II. La pregiudiziale storica 

    II. Il primo secolo mondiale

     IV. L'aristocrazia
 
    V. L'aristocrazia  moderna 

    VI. Trionfo e degradazione industriale

VII. La nostra composizione unitaria

VII. L'affermazione  

PREFAZIONE di Benito Mussolini   (1)

(1) Il 27 aprile 1924 l'Italia nuova porgeva colla «Marcia al Cardollo» 
il suo omaggio reverente e grato alla Memoria di Alfredo Oriani. Ii discorso' pronunciato in quella storica giornata da Benito Mussolini sulla tomba soli­
taria è ora per Sua volontà, premesso alla nostra ristampa di «Rivolta
Ideale»: né più degna prefazione poteva augurarsi a questa potente opera
 dello scrittore romagnolo.   
(L'editore)

Siamo venuti noi che apparteniamo alla generazione di Alfredo Oriani a rendergli il nostro reverente omaggio. Si dirà dai nostri avversari, da quelli che appartengono all'Italia paralitica, che noi celebriamo i nostri eroi mar­ciando lungo le grandi strade. E appunto questa la caratteristica delle nuove generazioni: quella di marciare; di essere sempre pronti a marciare: di non sostare se non per il tempo strettamente necessario, a precisare le mète per più rapida­mente raggiungerle.

I soliti pedanti che sono incapaci della sintesi e si perdono troppo spesso nelle analisi, hanno domandato se noi fascisti avessimo le carte in regola per commemorare il grandissimo Oriani. Il fatto che il figlio di Alfredo Oriani indossi la camicia nera è la risposta più eloquente che si possa dare ai nostri avversari di tutti i colori

Più gli anni passano, più le generazioni si susseguono e più splende questo astro, luminoso, anche quando i tempi sembravano oscuri. Nei tempi in cui la politica del «piede di casa» sembrava il capolavoro della saggezza umana Alfredo Oriani sognò l'impero; in tempi in cui si credeva alla pace universale perpetua, Alfredo Oriani avvertì che grandi bufere erano imminenti le quali avrebbero sconvolto i popoli di tutto il mondo; in tempi in cui i nostri dirigenti esibi­vano la loro debolezza più o meno congenita, Alfredo Oriani fu un esaltatore di tutte le ener­gie della razza; in tempi in cui trionfava un sor­dido anticlericalismo, che non arerà alcuna luce ideale, Alfredo Oriani volle morire col Crocifisso sul petto a dimostrare che dopo le grandi parole dettate dal Cristianesimo, altre così solenni, così universali non furono più pronunciate sulla faccia della terra.

Noi che, dal punto di vista della cronologia, non siamo più fra i giovani che si affacciano ora alla vita, ma, dal punto di vista del coraggio e della solidità fisica, ci sentiamo sempre giovanis­simi, noi ci siamo nutriti delle pagine di Alfredo Oriani. Quella storia d'Italia così accidentata e tormentata, che è tutto un seguito di guerre civili e di rivoluzioni — e mai il genio italiano fu così potente come quando i cittadini lottavano dentro le mura delle loro stesse città — quella storia che a taluni può apparire misteriosa e paradossale, a noi fu chiara ed apparve logica, di una logica formidabile attraverso i volumi della «Lotta po­litica». Intristiva la coscienza italiana: Garibal­di era morto, Mazzini sembrava lontanissimo alle nuove generazioni che correvano dietro ad un pro­feta di dubbia razza tedesca.

La politica del ma­terialismo e del positivismo trionfava dalle cattedre, dai giornali; nei partiti e nelle coscienze intorpidiva l'anima italiana; fu questo il mo­mento in cui Alfredo Oriani gettò alle folle ita­liane il volume de «La rivolta ideale», nel quale tutti i problemi, tutte le passioni, tutte le angoscie e tutte le speranze del nostro tempo vengono prospettate, illustrate, in uno stile conciso, taci­tiano che basterebbe da solo a costituire la gloria di uno scrittore.

Ci siamo nutriti di quelle pagine e conside­riamo Alfredo Oriani come un Poeta della Patria, come un anticipatore del Fascismo, come un esal­tatore delle energie italiane. Oso affermare che, se Alfredo Oriani fosse ancora fra i vivi, egli avrebbe preso il suo posto all'ombra dei gloriosi gagliardetti del littorio.

Ben fa il popolo di Romagna a rendergli ono­re, perché egli, e nel fisico e nel morale, aveva le specifiche qualità della nostra stirpe. Non è sol tanto una gloria della Romagna, ma una gloria dell'Italia: non solo una gloria dell'Italia, ma a poco a poco il suo nome viene conosciuto anche oltre le frontiere e si considera la sua opera di letterato, di filosofo, di storico, come uno dei momenti più singolari della storia nello spirito italiano dell'ultimo  cinquantennio.

Salutiamo la sua memoria, o giovani camicie nere, alziamo in suo onore i nostri gagliardetti e giuriamo su questo tumulo glorioso che a qualun­que costo noi vogliamo che l'Italia sia grande.

Benito Mussolini.


Parte prima


I
Il motivo
Esso è eterno.

Sempre, a qualunque ora della vigilia, di­nanzi agli inviti dell'alba o sotto le ombre cadenti della sera, una voce si leva dal fondo della co­scienza, e i nostri occhi quasi a un appello im­provviso guardano in alto. Vanamente nella stanchezza pigra del disinganno, nella superbia della disperazione, mormorammo colle labbra chiuse la suprema parola della incredulità, men­tre l'indifferenza della natura alla nostra umana tragedia pareva farsi più silenziosa, e un altro silenzio si dilatava nelle solitudini del pensiero.

La vita fino all'ultimo passo e la luce fino all'estremo bagliore sono un moto dell'ideale.

Coloro che negano il Dio della creazione, pre­sente nelle anime semplici, ne inventano un altro nel cosmo, esaurendo il proprio orgoglio nel non dargli alcun nome, o credendosi profondamente poeti nel confonderlo colla vita, che sorride a se stessa. E nella natura immaginano leggi, che so­no soltanto una sua apparenza nel pensiero, e alla nostra vita d'individui danno per ragione quella dell'umanità, individuo anch'essa che vivrà un qualche millennio senza sapere d'onde abbia cominciato ne ove debba finire, sempre gio­vane e caduco, irresistibilmente sospinto all'av­venire, e costretto ad obliare il passato, nel qua­le sparirono coi morti tutti i dolori, che li ave­vano uccisi. Nullameno l'amore riaccende alla propria fiaccola ogni anima nuova, e una spe­ranza più forte di qualunque certezza risuscita dalle ceneri delle illusioni il desiderio della vita come di una conquista, che ci darà la padronanza del mistero e il segreto della felicità.

Quindi la storia non è che una proiezione del­la nostra vita.

L'una e l'altra ci appaiono un romanzo, nel quale l'individuo singolo o collettivo si atteggia come dinanzi allo specchio del pensiero, senza che le scene quasi si differenzino. Filosofia e re­ligione, arte e scienza, leggi e costumi salgono e discendono: le epoche si distendono in quadri, e alcune sono fosche, altre luminose; qualche volta l'ascensione  è così rapidamente gloriosa che la meta sembra dover esser vicina, ma nessun genio della mente o del cuore, per qualunque potenza di opera o di sentimento, potrà mai mu­tare la condizione o spezzare l'unità del genere umano. Il più grande fra gli uomini non ha nel pensiero una categoria che non sia nella mente del più piccolo, e come nessun dei due sa domi­nare il problema del proprio essere, così sotto tutte le bontà durano curvi da un tragico sforzo tutti i vizi, che soverchiano altre anime senza spe­gnervi la luce ideale. Qualunque tempo nella sto­ria è segnato dalla parabola di un'idea, che l'in­cendia e tramonta; ogni progresso umano sposta col suo grado l'altro dalla meta, cosicché la di­stanza ne rimane ugualmente immutata. Tutto comincia in noi e nulla finisce:  la scienza costretta nella parentesi del microscopio e del telescopio la dilata, senza garantire a se stessa se quanto vi appare dentro sia uguale all'illimitato che ne resta fuori: la filosofia dopo aver chiesto al pensiero il  segreto  delle cose demandò alle cose il segreto del pensiero, ma le cose tacquero, e il pensiero non potè rispondere a se stesso, perché ignora la propria essenza, e sa soltanto che la verità immutabile sarà per lui tutto quanto non può non pensare. Il resto è figurazione come di paesaggi sulle superfici dell'oceano o del cielo, enigmatico giuoco della natura, che illude e de­lude i nostri occhi addoppiando il velo della propria apparenza con un capriccio di donna e di poeta.
   
Noi abbiamo l'idea della bellezza e viviamo della sua passione soccombendo sempre al suo problema: impossibile per noi del pari il definirla e il realizzarla; un modello misterioso ci sorge nella mente al confronto di ogni figura, ma si abbuia appena tentiamo tradurlo in una qualche opera. Una idea di giustizia giudica ogni nostro atto così vivamente che nessun sofisma può in­gannarci: la nostra coscienza è un teatro e un fòro, nel quale recitiamo il nostro dramma ce­dendo alle passioni o immolandole al dovere in uno spasimo di olocausto senza "che la giustizia verso noi stessi e verso gli altri compia mai la propria formula. Al di sopra di tutta la natura, che si rinnova dalla morte, anche noi amiamo per tutta la durata e al di là della nostra esistenza; giovani, il nostro amore ha il sorriso dell'alba, il murmure dei fiori, il fresco della rugiada, l'incanto dell'eterna novità. Nel meriggio,quando la vita ci ha rapiti nel proprio vortice; amiamo ancora con la violenza delle fiamme, e l'amore rugge in noi come i torrenti? lacera e feconda: è bello come le bufere che sconvolgono i cieli e li spazzano per farne più puro il sereno, attraverso il quale gli occhi cercano l'altissimo segreto. Vecchi, già curvi ai richiami della terra, amiamo sempre, col rimpianto del pellegrino cui fu conteso ovun­que il riposo, coll'angoscia dell'assetato che sente la lunga arsura chiudergli la gola: amiamo la giovinezza che non può amarci più, e ci sorride e deride; amiamo i figli che già amano altrove, la patria nella quale la nostra opera si è anonima­mente perduta, la gloria che non saprebbe più nemmeno scaldarci il sangue, la ricchezza inutile alla nostra impotenza; amiamo tutta la vita fug­gente e misteriosa, e l'amiamo colla suprema fre­nesia del naufrago, che le onde sferzano, il vento insulta e le stelle guardano indifferenti dalle lontananze infinite.

Perché dunque?

È l'ideale della vita, che dentro di noi rimane intero sino all'ultimo istante, anche colla parola ridotta ad un soffio e il pensiero ottenebrato come uno di quei fanali, sui vetri dei quali la bufera gittò lungamente la polvere e il fango: è l'enig­ma dell'essere cominciato altrove e altrove desti­nato a risolversi. Qualche volta una fede gli ha dato un nome, sempre la speranza gli rinnovò la passione. Possiamo essere e vantarci increduli, ma il dolore della incredulità cresce dalle do­mande che avventiamo contro il mistero. Perché questa nostra vita? Perché questa nostra trage­dia? Perché abbiamo un pensiero, che sa il nome dell'infinito e indarno dà un nome alle cose, delle quali non può sapere l'essenza? Perché in noi questo senso duplice della bellezza e della giu­stizia? Solamente noi aggiungiamo alla natura il dramma dello spirito. Essa non è né buona né cat­tiva, né bella né brutta; effimeri, noi abbiamo invece bisogno dell'eterno: deboli, tutto il nostro sforzo è nella conquista della potenza: vivi, vogliamo un amore che superi la morte: morti, una vita che duri immutabile nella pienezza dello spirito.

La religione è ospizio ai credenti, mentre gli increduli debbono egualmente camminare senza riposo sulla stessa strada, finché vinti dalla stan­chezza girano  sopra  se  stessi,  lamentandosi e cercando ancora cogli occhi la meta sempre negata. Il loro eroismo è quindi inutile come il do­lore della vita, ma questa inutilità diventa così il dolore del dolore, l'estremo ineffabile momento della tragedia umana. Che importa l'accettarlo o il ricusarlo, se il sacrificio rimane per tutti inevi­tabile? I credenti vi sentono una prova, gl'incre­duli vi rispondono come a una sfida; negli uni il coraggio è pazienza, negli altri superbia; quelli sono sudditi, questi ribelli.

Questo libro non esprime né la fede né l'in­credulità: sarà più piccolo e più basso.
La vita e la storia hanno forme e sentimento ideali immutabili, benché a certe epoche, nello sforzo di una rivoluzione o di una ascensione, sembrino scomporsi e cangiare: ma non è che un errore inevitabile, una illusione necessaria. Ecco il motivo del libro.

Non vengo ad affermare una fede, a rinnovare una speranza: come tutti io non so, come tutti sono sospinto: ho sofferto e negato. La vita è tra­gica senza né mutamento né tregua, lo spirito così profondo che ogni rivelazione raddoppia il suo mistero.

Ma noi chiamiamo legge della natura le appa­renze costanti dei suoi fenomeni, e guardando nel­la storia siamo costretti a scegliere le sue verità nei fatti e nelle forme che non vi mutano: poi la bellezza.e la giustizia irresistibili nell'istinto di­ventano l'inconsapevole norma dei nostri giu­dizi, l'illusione ed insieme la certezza del nostro ideale.
Quale, è dunque l'ideale-presente? Sarà una insurrezione dei deboli o una rivolta dei forti, che deciderà del suo trionfo?
II
La pregiudiziale storica.

Volgiamo le spalle agli eterni, massimi pro­blemi.

Finché duri la vita nella umanità, la sua reli­gione e la sua filosofia ritenteranno sempre il mi­stero delle origini e della fine per accertare il grado dell'uomo nella natura, e quale sia il signi­ficato della sua tragedia spirituale. Ma se filo­sofie e religioni, quelle creando un sistema e que­ste rappresentandolo, non poterono mai conte­nere nella propria orbita tutti i raggi fuggenti della vita: se le più alte concezioni della meta­fìsica e le più larghe generalizzazioni della scien­za non furono che episodiche dinanzi all'infinito e all'eterno, che è dentro e fuori di noi, tuttavia una. costanza di idee e una fissità di sentimenti conciliarono nell'opera della vita le più profonde irreducibili antitesi  del  nostro pensiero.  Non una filosofia, non una religione, non una scienza, che discedendo o salendo la gamma della propria logica, non finisse a concludere contro i più necessari esercizi della vita: dal culto più puro dell'idea, nel quale tutta la materia del mondo si dissolve come in un vapore e le sue forme in una visione effìmera di larve, al più primitivo culto della natura, nel quale ogni sua forza di venerazione e di distruzione fu adorata fra spa­simi di terrore e di voluttà, le religioni sublima­rono l'uomo oltre i limiti della materia e della morte, e lo degradarono fra gli animali curvando la sua fronte sulla terra, dalla quale vaporava­no le ebbrezze dei profumi e dei miasmi.

Né le scienze, così più basse delle religioni e fa­talmente ancora più unilaterali, mutilarono meno sulla falsariga delle proprie ipotesi la vita umana, che resistè trionfalmente accettando con logica istintiva soltanto quello che poteva giovare al suo sviluppo spirituale, e pagando tutto il re­sto come un'imposta con lungo e mostruoso sa­crificio.

Infatti nella nostra tragedia nulla appare gra­tuito e l’errore si ripete come una forma neces­saria della verità nella storia mentre ad ogni pro­gresso di questa tutto è ugualmente necessario di quanto in noi vive, il vizio e la virtù, gli eroi­smi della più eccelsa spiritualità e le più brutali prepotenze dell'istinto.

La storia non è che la biografia dell'umanità, ancora giovane dopo tanti millenni, ma non an­cora arrivata alla pienezza di una coscienza mon­diale.

Comunque, cominci, dal mito, nel quale Dio creò l'uomo libero e puro con la facoltà di deca­dere così che la sua vita sarebbe poi stata una re­surrezione, o dall'altra ipotesi egualmente arbi­traria che la vita salga dall'infime inconoscibile individuandosi nei gradi sino alla formazione dell'uomo, che identifica in se stesso materia e spirito, la storia non ci appare che come un im­menso dramma, nel quale le passioni e le idee rivelano la nostra spiritualità. Ogni popolo è un attore che vi recita una scena, vi si perfeziona e vi soccombe: ogni epoca non ha che uno scopo, lo sviluppo di un carattere umano: religione, filosofia, scienza, politica, guerra e pace vi con­corrono in varia misura: qualche volta tutto pare sacrificato ad un dogma, che conquista il proprio impero nel sangue e col sangue assog­gettando ogni attività dell'anima; tal'altra una libertà ilare e lieve sembra liberare il mondo dagli incubi del soprannaturale, e la politica di­venta facile, l’arte solleva da tutta la terra e gitta a tutti i venti i proprii capolavori, la scienza s'inebria di superbia moltiplicando le grandi ipo­tesi e i piccoli risultati, mentre la vita contenta di se stessa nelle brevità di un istante dimentica passato e futuro per proclamare la gioia del pre­sente. Nella lotta individui e popoli si urtano e si sovrappongono; la vittoria se tocca sempre al più forte non esprime sempre il più grande, perché il presente essendo conclusione del passato ed inizio dell'avvenire, al vincitore basta di a-vere sul vinto la superiorità di un modo momen­taneamente il più necessario allo sviluppo del­l'idea. Roma ancora barbara conquista la Gre­cia sapiente; ma Roma era già il futuro diritto romano e l'unità mediterranea del mondo, men­tre la Grecia non viveva più che di ricordi, quando il genio del pensiero sollevava così alto il suo piccolo popolo che per tutti i secoli della storia vi avrebbe brillato come un astro.

La formazione dello spirito umano è duplice con due massimi aspetti: il carattere domestico e il carattere politico, che preparano nell'opera immediata della vita quella lontana della storia. Ma tale formazione lenta e dolorosa è così com­plessa che nessuno seppe ancora rilevarne chia­ramente le linee, perché la storia si compone con quanto resta dei quadri, nei quali la vita si atteggiò; e come nella loro improvvisa fioritura è difficile distinguerne l'originalità, così nella con­fusione del  loro dissolversi diventa anche più difficile lo scoprirne i residui immortali attraverso le ombre del passato. Lo sviluppo dei tipi rudimentari nella famiglia e nello Stato occupa tutta la preistoria e preoccupa la storia insino quasi ai nostri giorni; e questi caratteri di pa­dre, di madre, di figlio, di fratello, di parente, oggi così limpidi in ogni coscienza e sicuri come norma a giudicare delle nostre azioni morali, hanno stancato la pazienza dei secoli per dare a se   stessi   l'attuale   fisonomia.   Molti   popoli, lunghe epoche sono state sacrificate a tale for­mazione. Così la poliandria fu necessaria a determinare il tipo della madre e la poligamia a fissare quello  del padre:  la gradazione fra le mogli e i figli preparò nella superiorità di una madre la monogamia; la concezione e lo stadio della famiglia si ripercossero sullo Stato, e la condizione spirituale  di questo  dominò  la fa­miglia.

L'uomo doveva creare contemporaneamente la verità astratta del mondo e la propria persona­lità giovandosi della loro azione e reazione re­ciproca.

Ogni scoperta filosofica o scientifica menava al medesimo risultato, una legge, cioè una astra­zione: di mano in mano che i viaggi dilatavano il mondo e le meditazioni allargavano il pensiero, ogni rapporto sorpreso nello spirito ne stabiliva un altro nella società, mentre l'ideale involatosi dalla realtà vi ridiscendeva per risalire ancora e ridiscendere da un'altezza sempre maggiore so­pra una cima sempre più alta. Prima che tutto il mondo fosse conosciuto, il nostro attuale concetto dell'umanità non era possibile; prima che l'astronomia desse un ordine all'universo e la biologia un disegno alla vita, il mondo troppo piccolo entro i confini della terra, la vita troppo angusta nella circoscrizione delle razze superiori, dovevano limitare l'espansione i molte idee, il volo di molti sentimenti. L'eternità vuota, l'infinito deserto delle prime filosofie non pote­vano avere sul nostro spirito l'effetto della vita senza limiti di tempo e di spazio, che noi sentia­mo oggi nella realtà. Bisognava che tutte le razze si mescolassero per ottenere dalla somma delle differenze e delle loro analogie il totale dell'e­guaglianza: che le passioni si scatenassero, perché la costanza del loro equilibrio assicurasse l'idea della giustizia: che tutti i dolori ci pro­vassero come loro malgrado la vita possa non sembrare un male, e tutte le gioie non bastassero a farcela credere un bene. La filosofia indovinando un sistema nella storia rese nel secolo scorso alla politica lo stesso servizio dell'astro­nomia alla filosofia del secolo XVI: l'arbitrio desse il luogo alla legge, e nel coordinarsi delle visioni la vita dell'uomo e dell'umanità apparve tragicamente una. La superficie della terra come quella del cielo è piena di punti brillanti fra masse oscure: in alto sono astri, in basso na­zioni: i popoli si aggruppano come le costellazioni, formano dei sistemi che sono imperi, hanno un moto di rotazione sopra se stessi e di trasla­zione verso gli altri che modifica la densità della loro massa e la forma del loro volume: hanno nu­clei luminosi che sono città, delle orbite che sono confini, dei bolidi che sono frammenti di tribù limitrofe, attratti da una medesima legge di gra­vitazione, o bande che si coagulano nella loro atmosfera politica e si dissolvono traversandola.

Poi vi sono le comete che migrano come le orde, gli astri a luce propria e i pianeti a luce riflessa come i regni di civiltà originale o importata: i satelliti o le provincie tributarie: i colori delle razze che esprimono il loro clima come i colori delle stelle rivelano la loro composizione chimica. Il nostro sole cammina verso la costellazione di Ercole, la nostra civiltà viene dà oriente a occi­dente: nel sistema solare la terra, uno dei corpi minori, è spiritualmente il primo: l'Europa, una .delle più piccole parti della terra, vi è storica­mente la più importante.

La formazione del carattere morale nella do­mesticità è l'essenza e lo scopo della famiglia.

La sua prima forma nella più lontana preisto­ria è la promiscuità animale; l'uomo non vi è che maschio, la donna madre ad intervalli, la tribù nomade e acefala non ha interesse costante nel­l'allevamento del bambino. La vita è breve e sanguinosa per tutti:  la mortalità dei bambini vi assume carattere di strage. Nessun membro della famiglia esprime ancora il proprio tipo morale. Ma la tribù si coordina, la. vita assicurandosi ne­gli alimenti determina varie funzioni: le gerarchie accennano a stabilirsi, le forme famigliari cominciano a precisarsi.  La poliandria stringe forse il primo gruppo domestico: il primo gruppo doveva essere di maschi, i più forti. La figura della madre si contorna, il bambino allattato dalla donna e difeso da quattro o cinque uomini acquista maggiori probabilità di vita: dentro l’associazione dei mariti le preferenze della moglie preparano l’amante. Poi la Poliandria sale perfezionandosi: il gruppo avventizio dei mariti finisce ad un gruppo di fratelli, alla superiorità del primogenito o del più forte, e la paternità si annunzia consanguinea. Ma la famiglia progredisce ancora: la poligamia succede alla po­liandria con un grande sviluppo di ordini poli­tici e l'uomo si asside stabilmente nella famiglia assumendone la direzione, che non lascerà più. La parentela è assicurata per tutte le linee nella prevalenza del sangue paterno: il gruppo dome­stico è già un'associazione politica, perché il padre vi è patriarca, re e sacerdote. La capanna diventa casa, la casa opificio e fortezza.

Però la preistoria non andrà oltre. Il suo pe­riodo e il suo ufficio si chiudono colla formazione dei vari caratteri domestici, per lo sviluppo dei quali occorreranno tutte le forze sociali. La storia» incomincerà dallo Stato come organismo di idee universali e parrà nel suo inizio arrestare lo svi­luppo spirituale della famiglia. Finché lo Stato non abbia elaborato i propri grandi principi, sta­bilite le religioni, coordinate le gerarchie, deter­minate le funzioni, educate le arti, preparate le scienze, la sua opera non potrà sollevare la fami­glia. La quale vi rimane come organo secondario per la trasmissione delle idee universali sotto forme di sentimenti.

La famiglia prepara l'uomo allo Stato, lo Stato prepara il cittadino all'umanità.

Individui, famiglia, tribù, nazioni, regni, im­peri tutto è signoreggiato da un'oscura necessità; e come la preistoria nella famiglia sacrificava spesso tutti i membri per sviluppare tutto il ca­rattere di uno solo, così la storia immolerà secoli e genti ad una sola idea astratta, il beneficio della quale si verificherà forse sotto altro cielo in po­polo lontano ed immemore. La lotta dell'elemento individuale coll'elemento sociale costituisce la sostanza della storia: finché l'individuo non sia libero nello Stato, non lo sarà nella famiglia; l'emancipazione dal tiranno diventerà un'emancipazione del padre, il riconoscimento di un diritto politico produrrà una ricognizione del di­
ritto domestico.

Bisogna quindi seguire attraverso alla storia universale dello  Stato  quella  particolare della famiglia per comprendere lo  sviluppo  e  il  si­gnificato delle sue leggi.  Così la famiglia rag­giunge come organo e come gruppo la propria perfezione nella monogamia la quale ha due epoche, il diritto romano e il cristianesimo. Col primo si stabilisce come costume nel campo sto­rico, col secondo come idea nel campo spirituale: ma a Roma il padre è ancora il tiranno irrespon­sabile della moglie e dei figli per una autorità identica a quella dello Stato: nel matrimonio cri­stiano invece l'uomo e la donna non sono più che due anime congiunte in Dio, genitori e figli egualmente sudditi della legge non violabile da alcuna differenza umana.  La famiglia   comin­ciata necessariamente come   sistema   di   alleva­mento diviene un istituto spirituale, che perfe­ziona l'uomo in se stesso educando il .cittadino. Quindi ripete lo Stato nella struttura, nella sto­ria, nelle funzioni, nella popolazione, nei carat­teri, nei tipi. Autorità e libertà vi si contraddi­cono; al pari dello Stato non è la somma dei propri individui ma una loro superiore unità: tutti i suoi membri debbono cederle una parte del proprio interesse,  affinché   colle   quote dei presenti possa accumulare il capitale dei futuri: il suo centro è quasi alla periferia, fra coloro che vivono e coloro che vivranno: il suo indi­viduo importante non è il padre, ma il bambino. L'allevamento più fisico che spirituale nella preistoria, diventa nella storia più spirituale che fisico. Poiché nel suo momento l'uomo è un fan­ciullo della vita e della storia, l'educazione si esprime per simboli e si insinua per affetti: la giustizia del padre, la misericordia della madre, l'amore tra fratelli, l'amicizia tra congiunti, la simpatia cogli inferiori, ecco i suoi sentimenti. La prevalenza del padre sulla madre cioè della giustizia sulla misericordia, l'uguaglianza dell'amore tra fratelli, la solidarietà nello scambio fra congiunti, la graduazione dello scambio coi servi, ecco le sue idee: poi il senso storico nella tradizione domestica, la necessità dei sacrifici nelle sue vicende, l'inevitabilità delle differenze nelle sue distribuzioni, la prima forza collettiva nel suo nome, la prima disciplina nella sua sog­gezione, la prima libertà nel suo rispetto per tutti i mèmbri.

L'uomo sostanzialmente non è che pensiero: "prima di esercitarlo è ancora un animale, nel suo ultimo esercizio non è nemmeno un indivi­duo, giacché nelle formule metafisiche e nei teo­remi matematici non la presenza dell'individuo  ma tutta la sua vita umana è inavvertibile. Nes­sun istinto, nessuna passione altera una questione sull'essere o sul numero: dal come l'uomo pensò se medesimo nel mondo dipese il come visse: la sua vita crebbe dallo svolgimento di questo pen­siero. Il quale fu una creazione.

Ma ogni popolo ha un'anima collettiva, un genius, come dicevano gli antichi, che si mani­festa per caratteri in una data zona di tempo e di spazio: quindi, compita la sua funzione, tra­monta. Il suo occaso può essere lungo quanto il suo mattino e il suo meriggio come in China o nelle Indie, ma la sua presenza resta inferiore nel mondo. Contemporaneo dei viventi quel popolo è già il passato della loro storia. La civiltà si sposta sempre: sbocciata nel lembo più caldo e più florido della zona temperata indietreggia lentamente: le sue stazioni si chiamano col nome di città, le sue soste con quello di epoche. Ma l'uomo e la civiltà scendono dagli altipiani coll'acqua; il commercio apre la società come l'ac­qua aperse la terra, e vi forma correnti sotto­messe ad uguali leggi d'inclinazione. Individuo e goccia sono identici; né l'uno né l'altra esi­stono per sé e possono contrapporsi alla propria massa deviandone il corso. Per uscire dal fiume la goccia deve discendere entro la terra o spa­rire nel cielo: per uscire dal popolo l'individuo deve calare nel sepolcro o sollevarsi nella storia: nel primo caso è la morte, nel secondo l'immor­talità. La goccia si risolve in vapore, l'uomo in pensiero.

La libertà è dunque il principio e lo scopo del­la storia: gli stati ne elaborano l'idea, i governi ne esplicano le forme: l'oriente sapeva che uno solo era libero,  il mondo greco-romano sapeva che alcuni erano liberi, il mondo moderno sa che tutti sono liberi.  Ma lo Stato essendo la vita spirituale unitaria di quelli che vi entrano colla nascita, bisogna anzitutto distinguere se la sua ragione passando in essa risolva la contraddizio­ne della loro, e la legge sottoposta a tale dibattito venga riconosciuta come una necessità ideale an­ziché subita come un ordine. Nel primo caso l'in­dividuo è libero, perché la libertà non è che la coscienza della necessità; nel secondo è schiavo. L'oriente non ebbe che l'unità dello Stato. L'individuo non vi era come un'altra unità capace di accogliere la prima, ma un frammento dominato da  un'irresistibile forza  di  attrazione,  e nella coscienza del quale la legge non induceva che un sentimento di coazione propria. Il mondo greco invece creando l'individualità diventa la giovinezza. Il suo costume non determinato come l'asiatico dalla massa, ma improntato sugli individui, esprime la loro vo­lontà: se la bellezza artistica vi risulta da un'e­guale intuizione dell'idea e della forma, la legge vi deriva da un accordo spontaneo della coscien­za pubblica colla privata.

Questo momento della più bella armonia do­vrà nullameno scomporsi appena una delle due coscienze si elevi al concetto dell'universalità: ed ecco il periodo romano, l'ardua fatica della maturità nella storia. In esso lo Stato comincia a rilevarsi astrattamente in se medesimo forman­dosi uno scopo, cui sacrifica gl'individui. Il do­minio romano è un costante e penoso lavoro, nel quale l'interesse diviene universale, e gl'individui immolandosi consciamente acquistano l'uni­versalità come persona giuridica. Ma l'unità del­l'impero fondendosi per necessità di governo nella persona dell'imperatore si contraddice, e lo porta più in alto del despota orientale, perché nega così un diritto già realizzato. L'imperatore padrone del mondo domina le coscienze — quod Principi placuit legis habet vigorem — dice la legge regia, formula categorica di questo momento. Allora lo spirito respinto in se stesso dal do­lore della schiavitù, abbandona il mondo scon­sacrato per cercare nelle proprie profondità la riconciliazione colla vita, e crea con assiduo la­tente processo il regno spirituale contro l'impe­ro mondiale. La libertà si salva questa volta per sempre: il Golgota ne fu il nuovo Campidoglio, il cristianesimo la religione. Ma collo sfasciarsi dell'impero e il sommergersi dello Stato sotto l'onda incessante delle invasioni, l'ideale cri­stiano urta nella mostruosa contraddizione della realtà barbarica. Mentre l'individuo è salito fino alla personalità divina, il mondo ha perduto la propria individualità storica frantumandosi. Lo Stato per risorgere deve quindi appoggiarsi alla Chiesa che lo protegge e lo vincola, finché rin­vigorito dalla lotta di tale educazione durata tut­to il medio evo riconquista nella filosofia e nella scienza l'unità, che solo l'impero romano aveva potuto dargli, e contrapponendo l'ideale monda­no al divino si afferma nella unità umana.

Così nella lunga notte medioevale largamente illuminata come dà baleni vulcanici, si elabora il mondo moderno; 1 barbari del nord gli danno la propria personalità primitiva, la Chiesa una universalità divina, il rimescolamento delle raz­ze una originalità di fìsonomia e di opere non paragonabile ad altra. Nelle rovine dell'impero romano i frammenti ancora vivi s'individuano; le case si stringono intorno alle chiese, le bor­gate sotto il castello; il vescovo protegge il po­polo contro il castellano, l'industria e il commer­cio rinascenti, alimentando la continua guerra di tutti contro tutti, finiscono a dominarlo, e il comune spunta, e col comune il nuovo cittadino più piccolo ma ben più universale che non l'an­tico cittadino romano. Egli porta seco una liber­tà e una legge nuova: la sua coscienza inviola­bile nella religione mantiene una politica di ri­volta: il comune si spezza e si ricompone, tutte le prepotenze v'imperano nella labilità d'un i-stante, ma le sue tirannie non somigliano più alle antiche e la sua libertà   non  consente  più schiavi. Tutto si rinnova: ogni patria pare un mondo contro il mondo, ma questo è soltanto un inevitabile eccesso di passione nella continuità' della piccola tragedia politica, perché l'uomo ha già la patria in se stesso. Poi i comuni si fonderanno nelle signorie, queste nei principati e fi­nalmente negli stati; lungamente, dal risorgere della coltura antica, che troppo spesso storpiò e isterilì la nuova, le larve dell'impero e del di­ritto romano sembreranno dominare l'infanzia della modernità: il cristianesimo, che aveva emancipato il mondo, parrà col cattolicismo vo­larlo daccapo asservire, però lo spirito nuovo gli opporrà sempre più liberi miracoli umani. Si scopriranno le forme e l'età della terra, che, de­tronizzata, diverrà un satellite del sole, mentre il nostro pensiero dominerà il cielo: gl'inviola­bili oceani saranno attraversati, e altri conti­nenti, altre razze scoperte alla storia. Il cattolicismo si spezzerà perché la libertà religiosa prepari nella Riforma quella politica: le monar­chie, unificati i popoli, cadranno tutte in Eu­ropa sotto la grande rivoluzione francese con­dotta alla vittoria dall'ultimo imperatore. Ma, prima delle monarchie tutte le vecchie aristocra­zie feudali saranno state sorpassate dalla cre­scente civiltà, e l'uomo moderno sarà così dis­simile dall'antico che nessuno, neppure fra i più dotti, può oggi davvero riprodurre nel proprio pensiero la vita della Palestina o dell'Egitto, di Atene o di Roma.

L'ideale umano è salito: le nostre chiese han­no un'altra architettura, la nostra pittura un'al­tra bellezza, la nostra poesia un'altra passione, la nostra scienza un'altra verità, la nostra filosofia un altro uomo. I caratteri domestici e poli­tici sono incancellabilmente delineati: se i no­stri vizi ripetono gli antichi, le nostre virtù han­no altri impulsi ed altre forme: il nostro amore serba la nostalgia, dell'ideale anche nel fango più viscido, la nostra libertà comincia e si com­pie nell'impero di noi stessi sotto la necessità della legge, nella quale siamo legislatori o sudditi: finalmente la nostra storia è davvero uni­versale e la geografìa senza misteri. Una religio­ne umana uguaglia tutti gli uomini al di fuori di ogni altra religione: il lavoro è oramai il pri­mo orgoglio di tutti e la ricchezza un premio che non basta più al lavoro: il comando irradia dal pensiero che aduna le volontà,  la potenza esprime una perfezione dell'individuo che nessu­no può né fingere né impedire.

La prima guerra ideale moderna scoppiò nel­le Crociate, quando per tutte le distanze della barbarie medioevale un fremito di poesia sollevò le nazioni acquetandone le risse, e le gittò verso oriente a riconquistare il vuoto sepolcro di Ge­sù. Né prima né dopo altra guerra fu come questa una pura necessità dello spirito.

L'ideale solo è vero.

Tutto quanto nel presente sopravvive fu una virtù nel passato, la quale si compì nel sacrificio e trionfò del proprio tempo: il vizio invece si rinnova, non si trasmette, l'errore si trasmet­te, ma è effimero perché nelle linee spirituali del­l'edifìcio umano soltanto quelle durano che se­gnano una perfezione. La verità attraverso i se­coli si forma dalla poca certezza che i secoli stes­si non possono scrollare: la bellezza di una ge­nerazione è raccolta dall'arte e rimane nei capo­lavori: Roma impera eterna nel suo diritto, la giovinezza della Grecia si riafferma ad ogni gior­no nelle sue statue e nelle sue poesie; gli ebrei si condensarono e si esaurirono nello sforzo di  creare il Dio creatore, poi Gesù li disciolse per plasmare il mondo sulla propria figura: i primi comuni d'Italia o di Germania non sono più che città volgari, ma l'originalità dei loro cittadini è immortale dentro di noi. Benché non si combattano più guerre sanguinose per un dogma, la battaglia fra il pensiero umano e il mistero di­vino proseguirà sino a l'ultima sera insangui­nando le anime: tutte le rivoluzioni del passato furono un momento nella creazione della nostra personalità, tutte le rivoluzioni del futuro non faranno che svilupparla diminuendo la nostra servitù alla materia per dilatare i confini del nostro impero ideale.

Ma ora e sempre la verità come la bellezza sa­ranno più sentite che formulate; la vita le con­tiene e le esprime, arte e filosofia invece non po­tranno mai circoscriverle.

Anche se la nostra esistenza non abbia scopo al di là di se stessa, e la sua tragedia non tra­scenda nel significato i limiti della propria azio­ne, questo è ben certo nell'esperienza e nella co­scienza, che la vita sale per gradi, e l'idealità è l'anima del nostro pensiero come il pensiero l'a­nima del nostro corpo.

La verità è dunque in alto come la gioia e il dolore, nel sacrificio della bontà, nella bellezza che è forse la prima rivelazione del mistero, nella unanimità inconsapevole della vita, che forma la coscienza della storia, e si esprime soltanto nel­l'eroismo del pensiero.
III
Il primo secolo mondiale.

Quando la prospettiva del tempo ne avrà ri­levato le linee, nessun secolo della storia apparirà forse grande come il secolo XIX.
Esso fu il secolo dell'individualità e diventò quindi il più mondiale di tutti, quello che dove­va davvero iniziare la grande epoca della storia universale.  

Cominciò colla rivoluzione francese che rin­novando l'Europa finì all'avvento del Giappone, meravigliosa, quasi inverosimile improvvisazio­ne di civiltà, nella quale prelude il rinascimento del mondo asiatico. La rivoluzione francese creò nell'elettore il cittadino moderno; negò la mo­narchia cristiana nella sua trinità, di re, aristo­crazia e clero per sostituirvi la sovranità popo­lare, il governo della borghesia e l'indipendenza della giustizia laica da ogni culto religioso. La sua passione era la libertà, le sue forze quelle dell'industrialismo contro il militarismo, il suo programma l'uguaglianza civile: il suo spirito era classico, il suo temperamento insubordinato. Appena comparsa sulla scena storica, entro le vecchie forme dei parlamenti, le ruppe ed in­vase rovesciando tutti gli ordini. Incalcolabili dolori, inesauribili speranze lo sospingevano. La monarchia borbonica, rappresentata dal meno cattivo forse dei suoi re, scese al disotto del ri­dicolo nella propria resistenza trincerandosi dentro la bigotteria ed invocando lo straniero. La plebe ruggì; sessantamila banditi, prodotti dalle fiscalità incredibili dell'ultimo regime, ac­corsero in bande a Parigi e s'improvvisarono eroi, carnefici, pubblico, sovrano. L'aristocrazia o seguì nel tradimento di un volontario esilio la corte, o si buttò per nativa generosità o per tar­da ipocrisia nella rivoluzione, e ovunque fu tru­cidata. Il clero incredulo e corrotto disparve quasi nella prima lotta per ricomparire tuo tar­di coraggiosamente alla testa di insurrezioni rea­liste e parricide: la borghesia vincitrice e vitto­riosa fu travolta dallo stesso uragano, che la portava a rovesciare tutto davanti a sé, e la suc­cessione febbrile delle forme politiche nella rivoluzione superò ogni tragedia sgominando pre­visioni di sapienti, abilità di pratici, pretensioni di tribuni, combinazioni di partiti, intrepidezze di fanatici, disperazioni di deboli e di forti.

Ma la rivoluzione trionfante a tutte le fron­tiere contro tutti i re d'Europa non avrebbe po­tuto con l'impeto e nello squilibrio stesso delle proprie passioni riorganizzare la Francia: quin­di la storia le impone la solita antitesi, e la ri­voluzione crea  l'impero. Dentro questo soprav­vivono tutte le sue idee, e la tempesta acque­tandosi permette ai superstiti di transigere nel­la modernità della nuova vita. Ma l'impero è anch'esso una forma del passato necessaria a rendere la rivoluzione universale: così Napoleo­ne, che generale della repubblica viveva in un miraggio imperiale, vorrà regnare sull'Europa gettando in una demenza di volontà e di fanta­sia il proprio pensiero sull'Africa e sull'Asia. Egli è l'ultima maschera imperatoria sul volto dell'ultima democrazia: la enormità del suo ge­nio si parifica all'idea segreta, che lo incalza e lo delude: sogna l'impero di Carlomagno, e ge­loso di Cesare, nemico dell'Inghilterra, avversa­rio del papa: distrugge il sacro romano impero a Vienna, rovescia la monarchia di Federico II, assale l'impero russo fino a Mosca, e vinto è in­seguito fino a Parigi. Ma come sotto un incubo egli ha rimescolato tutta la carta d'Europa, i po­poli lo hanno invocato e maledetto, i re servito e messo al bando: improvvisatore, tutto è effimero intorno a lui: distruttore, nulla di quanto tocca ritornerà come prima: imperatore, non è vero che nel campo: soldato, ha il genio dell'e­spediente politico, e l'occhio dell'organizzatore diplomatico, la violenza di un avventuriero: di­nasta, tutti i vìzi dell'uomo e le debolezze del pa­dre. Nulla rimarrà della sua opera come concet­to personale, ma in ogni creazione del   secolo XIX qualche cosa del suo spirito dura immortale. Questo despota, che vuol fondare il più grande impero della storia, è invece il messo della de­mocrazia che annuncia la morte di tutti i regni; dinanzi a lui i re non sono che fantasmi; dopo lui,  davanti ai popoli, che li hanno risollevati emancipandosi,  saranno larve.
L'impero Napoleonico è il preludio delle mo­narchie costituzionali, che non hanno più re. Ma Napoleone avrà tutto rinnovato: generale, cac­cia l'Austria dall'Italia, rovescia il papa, can­cella principati e repubbliche superstiti, discen­de in Egitto, minaccia la Siria; imperatore pren­de Vienna,  Berlino,  Mosca,  ma indarno sogna Costantinopoli e Londra. La Turchia non potrà né risorgere né sparire dal secolo XIX, e quindi Napoleone non può entrarvi: l'Inghilterra anti­cipò di mezzo secolo la propria rivoluzione sulla francese, deve compiere la prima unità commer­ciale del mondo, e Napoleone anziché abbattere l'Inghilterra ne sarà abbattuto; la Spagna so­pravvive a se stessa fra lo scenario lacerato del­l'impero di Carlo V, e Napoleone l'attraversa soltanto sognatore dentro un sogno morto. Invece la sua opera di distruzione è feconda sull'Italia, sull'Egitto, sulla Germania, sul Bel­gio, sulla Prussia, sulla Russia; le idee della ri­voluzione penetrano dietro gli eserciti imperiali; il suo codice è un nuovo vangelo, la sua improv­visazione rivela il nulla delle monarchie ancora esistenti, la sua riapparizione dei cento giorni ricompensa nei popoli la fede che i re non sono nemmeno uomini, e che il popolo solo è persona.

La rivoluzione francese fu dopo il cristiane­simo il maggiore trionfo dell'individualità. Se la riforma aveva ottenuto la libertà di esame den­tro il dogma emancipando a mezzo il pensiero religioso; se la rivoluzione inglese aveva com­pito l'opera lenta dell'antica rivolta dei comuni contro l'assolutismo regio, e poco dopo quelli degli Stati Uniti fondava nella verginità di un secolo quasi ignoto e nell'oblio di tutto un pas­sato una nuova libertà, la grande Convenzione soltanto lacerò tutti 1 vecchi vincoli per creare nell'elettore il cittadino moderno. La sua for­mula usciva dal delirio dialettico del Contratto Sociale, ma doveva trionfare di tutte le esagera­zioni e di tutte le negazioni: la sovranità pas­sava così dal pensiero individuale a quello collettivo, dallo spirito di un uomo all'anima di un popolo, dalla volontà alla impersonalità. La leg­ge non è più un ordine di qualcuno o una rive­lazione dall'alto, ma. un segreto che si chiarisce nella coscienza, lampeggia nella discussione, si formula nel voto; l'eletto è il mandatario del­l'elettore, però l'uno e l'altro sono egualmente servi della legge. La votazione esprimendo una libera maggioranza significa soltanto la forma momentanea della legge, che la coscienza pub­blica potrà sempre perfezionare; dinanzi alla legge individui e classi saranno uguali, perché l'attrito degli interessi logorerà tutte le diffe­renze; nella delegazione di ogni governo le ulti­me monarchie ereditarie dipenderanno anche es­se dall'assenso tacito del popolo, tutte le reli­gioni saranno libere e la concorrenza deciderà della loro verità; tutti i diritti potranno mani­festarsi maturando nello sforzo stesso della pro­pria manifestazione; al segreto della vecchia po­litica succederà la pubblicità di ogni atto, nella
famiglia l'eredità parificherà i figli, nei tribunali soltanto il  giurato identico all'elettore giu­dicherà sulla morte fisica o civile degli accusati, perché il giudice togato non è più che un perito, e un uomo non può davvero condannare un al­tro uomo. 11 cittadino elettore e giurato rappre­senta invece l'impersonalità del diritto pubblico. Ma l'individualità del cittadino crea di con­traccolpo quella della nazione; Napoleone nella vertigine della propria corsa aveva violato tutti i popoli, il secolo XIX, avanzando sulle sue or­me, individuerà ogni popolo capace di uscire dal­la minorità storica.

Quindi le guerre del secolo XIX saranno qua­si tutte nazionali: la passione più nobile, l'eroi­smo più tragico, susciteranno nuovi tipi di mar­tiri e di eroi. La Grecia risorge dal sogno del­la sua gloria e l'Europa intera delira d'entusia­smo all'eco delle sue piccole battaglie mutando­le in vittorie, il Belgio fra Olanda e Francia ri­trova e rassoda la propria scarsa originalità, l'I­talia come la Grecia risuscita dalle ceneri dei suoi monumenti,  ma più forte dell'antica ma­dre balza nella modernità avendo pagato l'aiuto dell'Europa coll'offerta della falange mazzinia­na e garibaldina; la Prussia ne profitta e dal­l'Austria, che non è più il sacro romano impero, trae il nuovo impero germanico;  fra Austria, Russia e Turchia, i Principati danubiani, anella fracassate dell'immenso dragone slavo, si riani­mano e si riannodano. Intanto la Russia cova dolorosamente la modernità che  Napoleone le cacciò colla spada nel ventre, l'Inghilterra rad­doppiando ogni anno il proprio commercio al­laccia tutto il mondo, nella Scandinavia la dina­stia di un generale napoleonico precipita con la rapidità di una marcia imperiale la nazione all'avvenire, mentre l'America divisa fra anglo­sassoni e latini non ha più bisogno dell'Europa, che con tutte le proprie forze stringe ed incalza l'Africa.

Nella lunga incubazione della civiltà mediter­ranea l'Africa vi partecipò soltanto dalle sponde, che una cintura di città marittime aveva abbellite-e fecondate. La loro vita creata dal mare tendeva al mare verso altri lidi, ove altre città risponde­vano con una vita più satura di elementi terre­stri. Solo il Nilo aveva potuto, accumulando sulle proprie rive molti germi africani, crescervi una civiltà più che marittima, ma questa pure non aveva nemmeno risalito tutto il corso del gran fiume, prigioniera ad occidente ed al sud di paurosi deserti.

L'immensa Africa ignorava la gloria del pro­prio Egitto.

E quando questa tramontò dopo Cartagine, e il cristianesimo prima, il maomettanesimo poi tentarono di penetrare nel centro del continente nero, questo rimase nullameno un mistero; ambo le religioni vi si depravarono in una sconcia in­terpretazione quasi confessando l'impotenza del loro Dio dinanzi ai feticci dei selvaggi cui un clima inesorabile sembrava negare per sempre ogni speranza d'ideale.

Non per tanto Roma e la Mecca come centri religiosi rattenevano sempre l'Africa sul mar­gine della storia universale.

Gl'imperi litoranei, improvvisati dalla con­quista saracena sulle sue coste, avevano potuto dilatarvisi alquanto verso l'interno e ubbidivano ancora alla voce di Costantinopoli; le flotte eu­ropee, girato il Capo di Buona Speranza, ave­vano finalmente circoscritto il continente nero fermandosi nei suoi golfi e risalendo i suoi fiumi.

Oramai regni e reggenze barbaresche non era­no più che una forma consunta dalla feudalità, ridotta a vivere di brigantaggio terrestre e ma­rittimo. Napoleone tagliò l'ultimo nodo, che strin­geva l'Egitto a Costantinopoli, per consegnarlo all'Europa, giacché la breve dinastia macedonica improvvisata al Cairo doveva presto soccombere nella sua unica opera, il taglio dell'istmo di Suez.

Quindi la storia del secolo XIX in Africa è tut­ta europea: la Francia vi conquista Algeri e Tu­nisi, l'Inghilterra vi regna in due capitali a nord e a sud, l'Italia tenta indarno l'Abissinia e resta sentinella ferita nell'Eritrea, il Belgio vi compra nel Congo un podere più vasto di qualunque re­gno, i Boeri vi fondano una repubblica a Preto­ria e soccombono poco dopo all'immenso peso dell'impero britannico. Un monile di ferrovie stringe le coste africane, altre ferrovie fischiano fra i deserti, viaggiatori di tutte le nazioni si sono inoltrati nel suo negro mistero, la schia­vitù vi è assalita negli ultimi ripari; un gi­gantesco disegno innonda già il deserto di Sahara per farne un lago, un altro congiunge i dorsi dello Zambese e del Congo spezzando il conti­nente in due immense isole. L'Africa fa il su­premo sforzo e il massimo risultato della storia europea del secolo XIX: e poi che tutto procede verso l'unità, la storia universale non poteva es­sere una davvero, se prima i suoi continenti di­visi e sconosciuti Funo all'altro non vi si fon­dessero nella medesima coscienza movendosi al medesimo ritmo. Quindi il secolo XIX nel doppio trionfo dell'individualità singola e nazionale di­venne il secolo più mondiale; tutto mutò, crebbe, salì, si diffuse nel suo tempo.

Le distanze parevano sparite sotto i vapori di terra e di mare, una rete di strade strinse il mondo così che ogni suo moto vi si propagò colla rapidità delle onde nervose, le parole raggiunsero quasi la celerità della luce e più di essa forse pe­netrarono i corpi e le anime; un'impazienza di creazione sollevò individui e popoli riunendoli anche quando gli antagonismi degli interessi e le contraddizioni dell'ideale sembravano dividerli. Arti, scienze, commercio, industrie si uniforma­rono sul mercato: nessuna unità di misura nel valore fu più nazionale, il circolo della ricchezza si allargò quanto quello delle idee; il secolo della nazionalità, che ebbe così intensa la passione della patria, sviluppò prodigiosamente tutte le emigrazloni e permise a tutti di rinnovare dovun­que la propria vita.

L'orgoglio supremo fu di essere libero, l'ulti­mo trionfo sentirsi il medesimo uomo dapper­tutto.

Dopo l'espansione dell'elettorato non vi sono quasi più classi, la democrazia del costume pa­reggiò gli abiti e il linguaggio; oggi la marsina del gentiluomo è quella medesima del cameriere. Ogni sovrano per regnare sulla piazza deve sol­lecitarne il favore, qualunque uomo per qualun­que opera dipende dal voto degli altri; i gior­nali sono l'effimero libro di tutti, l'opinione ir­resistibile del momento con 'tutti gli errori e le falsità della improvvisazione. Ma ogni avveni­mento è mondiale, tutte le mattine tutti vogliono le notizie di tutto il mondo; vi è un pubblico per qualsivoglia impresa, ogni idea trova apostoli, qualunque follia una tribuna, si alza un tribu­nale da qualunque crocchio. Attraverso le ul­time barriere doganali e linguistiche i mestieri irreggimentano i lavoratori; una solidarietà for­mulata nei vangeli del nuovo partito popolare e confermata dai suoi sinodi internazionali oppone una politica operaia unitaria alla politica diffe­renziale dei governi; vi è ancora la guerra, ma non vi sono più guerrieri. Oggi il soldato è il cit­tadino, che interrompe il proprio lavoro per di­fenderne la libertà alle frontiere, non ama il sangue e non sogna più la gloria dei rossi trionfi; la vita invece acquista nella coscienza dei piccoli chiamati alla storia un immenso valore. Essi pre­tendono già di discutere la necessità del sacrifi­cio per negarla.

Una spiritualità illumina e riscalda ogni opera moderna, che deve essere utile magari essendo brutta, senza più l'antica indipendenza del ca­priccio: la rapidità della trasmissione e della dissoluzione nella ricchezza costringe quasi tutti al calcolo del proprio valore, poiché la ricchezza non basata nemmeno più a dare un'autorità sui più poveri. La beneficenza della forma lirica della pietà privata assurge a dovere dello Stato verso coloro che non possono ancora o non possono più lavorare; il viaggio mentale sui libri e sui gior­nali non basta più allo spirito, poiché tutti sen­tono che ad essere uomini è necessaria la cono­scenza della nostra terra e una pratica delle sue più diverse società.

Non si riconoscono più capitali della civiltà; le metropoli sono empori del commercio o sedi di governo, ma oggi nessuna idea per prodursi e per crescere ha bisogno di un aiuto artificiale come nell'antichità, che sacrificava cento popoli per formare in uno solo la loro coscienza. Roma non è più che un nome nella poesia come Atene e Benares, Babilonia e la Mecca; il papato sol tanto le dà ancora un valore di universalità, ed anche esso dovette spiritualizzarsi perdendo il minimo regno temporale. Un'atmosfera ideale inyolge la vita pubblica, le scoperte grandinano ogni giorno, la guerra delle idee è senza tregua, le alleanze degli interessi si stringono e si rin­novano per tradimenti continui, nei quali nessuno ha torto; la dominazione passò dalla feudalità monarchica a quella industriale, ma oscilla nelle ribellioni continue delle classi, operaie, che evo­cate alla storia vi pretendono già la; tirannia. L'unico sovrano è il pubblico impersonale, in­fallibile nei grandi istinti, inferiore nell'idea, in­fantile nel carattere: debole e violento, ingenuo e falso, capace di tutte le adorazioni e di tutte le ingratitudini, più effimero dei re nelle proprie generazioni, più spaventevole di ogni tiranno nella propria responsabilità.

Il secolo XIX, che resterà nella storia il più grande di tutti i secoli, non vi porterà nome di uomo perché le massime creazioni sono anonime; il genio può riassumere l'incoscienza di un po­polo, non dare la propria fìsonomia alla sua coscienza.
IV
L'aristocrazia.

Quale apparve e si manterrà nella storia essa è una superiorità dello spirito organizzata dalla volontà nel comando.

In ogni tempo e in ogni gruppo umano l'ec­cellenza di alcuni individui li alzò dominatori sugli altri, che ubbidendo barattavano istintiva­mente la libertà in una nuova sicurezza: quindi le prime aristocrazie furono religiose e guerriere per garantire ai deboli una certa pace nell'ani­ma e un aiuto nella lotta per la vita. L'istinto della razza e la necessità della storia creavano
così nell'aristocrazia una classe responsabile della. vita di tutti e depositaria della sua tradizione; l'aristocrazia doveva pensare e volere per gli altri, costituiva la patria e la religione, vinco­lava individui e famiglie, organizzava proprietà e lavoro. Col privilegio nobilitava il privilegiato imponendogli azioni che superavano il suo egoi­smo, preparava la poesia e la politica; in lei i pensieri salivano di un grado e le virtù comin­ciavano a diventare sociali; era già un governo essendo appena un gruppo, conteneva già un re unificando un popolo.

Questo infatti vedeva nell'aristocrazia se stes­so più alto e più lontano, il suo istinto vi diventava pensiero, le sue bramosie volontà; po­teva amarla o odiarla secondo la pressione del momento, ma non farne a meno, perché nel suo nucleo più possentemente organizzato stava la migliore garanzia di tutti per il futuro. Spesso lo scotto di tale difesa ne superava il valore im­mediato, specialmente se l'aristocrazia impari a se stessa si consumava nelle degradazioni di un comando senza pensiero: ma anche allora da una aristocrazia ne rampollava un'altra o saliva un re; l'unificazione diventava unità, mentre l'or­dine allargando i propri limiti cresceva dentro d'intensità.

E questa aristocrazia primordiale somigliava già all'ultima; si costituiva spontaneamente dalla superiorità degli individui in gara sotto l'aculeo di un bisogno o la stretta di un pericolo: accet­tava tutti i modi di prova, consentiva tutte le contraddizioni risolvendole nel trionfo di una forza vitale e micidiale, che nobilitava l'individuo come il rappresentante epico o tragico di ma società incapace di avere fuori di lui una Coscienza.

Sarebbe qui inutile schizzare a grandi linee i profili delle antiche aristocrazie, adesso che il problema aristocratico si ripresenta quasi nella primitiva semplicità. Se il sistema rappresenta­tivo, quale funziona in ogni governo, era già in germe dentro tutti quelli del passato forman­done la segreta verità e dirigendone la lenta dolorosa evoluzione: se oggi non sapremmo nem­meno più pensare altro governo, così chiara è nella nostra coscienza la sovrana identità del­l'elettore e dell'eletto, l'aristocrazia fu e rimarrà invece la prima ed ultima forma d'impero in tutte le società. La sua delegazione può passare per tutte le contraddizioni dell'assenso, ma la sua radice e la sua forza stanno nella differenza fra individuo ed individuo, che impone agli uni il comando e agli altri l'obbedienza, rilegando gli istinti ad un pensiero e costringendo sempre la verità a trionfare in una incarnazione. I miti religiosi non ne sono che la più profonda ed uni­versale delle prove.

Come ogni religione non può fare a meno di una idolatria, e la vita ha bisogno di contemplarsi nello specchio dell'arte per apprendere il pro­prio secreto, così la società per governarsi e pro­gredire si solleva in una aristocrazia, alla quale trasmette più limpide le forme del passato e dalla quale riceve meno torbide le prime significazioni del futuro. Nell'immenso numero di correnti, che aggirano una moltitudine raggruppandola o diffondendola secondo le oscure necessità della sua massa, ve n'è una più larga e sicura, che attira tutti i più forti, e stringendoli come dentro la spirale di un vortice impedisce loro di rifondersi nella indistinta oscillazione delle onde.

Ogni vera superiorità finisce coll'essere una differenza inconciliabile colla vita degli inferiori: la diversità di pensiero diventa contrasto di lin­guaggio, le parole stesse vi mutano significato; l'ascensione del sentimento rende insopportabile ciò che prima era gradevole, il pensiero nobili­tando la responsabilità della propria opera, al­tera la solidarietà funzionale fra rappresentante e rappresentato.

La vita ha due supreme necessità, salire e du­rare, e poiché l'una presuppone l'altra, si vedono spesso nelle società i bisogni della durata sover­chiare quelle della ascensione. Quindi nella folla scarsa è l'intelligenza e più scarso ancora il sen­timento: un egoismo limita tutte le opere e scon­siglia dai sacrifìci, l'amore stesso movendosi sotto l'impulso della voluttà non cede ai figli se non le cure più indispensabili per la loro sopravviven­za; ed è l'istinto di razza che li salva così mentre i caratteri della paternità e della maternità sono ancora rudimentali. Lo stesso egoismo regola ogni altra azione; tutte le avarìzie sono lecite, tutte le ingratitudini consentite, tutti i tradi­menti assolti; gli individui della folla non pos­sono sentire che se stessi e non pensano che nel pensiero loro trasmesso dalla tradizione. Una insensibilità conserva in essi integre le poche forze; sono creduli e diffidenti, adorano il forte che li guida e lo immolano alia viltà del primo dubbio. Poi un istinto sembra avvertirli che in essi solamente è lo scopo ultimo della storia, mentre la superiorità delle minoranze aristocra­tiche non serve collo sforzo dell'ingegno e l'olo­causto della vita che a produrre appunto nella moltitudine lo spostamento o l'ascensione di un grado. La sua vita vegetativa e animale oppone nnindi una resistenza invincibile alle impazienze dello spirito, che avendo conquistato una verità vorrebbe subito tradurla in atto; una ignobile interpretazione degrada nella folla ogni forma più bella, ogni idea più pura; filosofia e religione, arte e scienza non si diffondono e non vi ope­rano che deformandosi.  

Se nel popolo vi è un istinto superiore al genio dèi più alto individuo, e un inconsapevole criterio al quale debbono ret­tificarsi tutte le concezioni ideali,  nella plebe, che è quasi tutto il popolo, la contraddizione fra materia e spirito si esprime sempre nel trionfo della materia. Nessun corpo è impermeabile co­me l'anima plebea, nessun peso più inerte del suo cuore, nessun moto più lento che nel suo cervello.  Ma tale lentezza,  che diventa poi la causa di tutte le tragedie negli individui supe­riori, è la garanzia più sicura per la sopravvi­venza della massa, che non può desiderare al di là dei propri appetiti e volere più di quanto pensa. Così la politica quasi sempre l'inganna e quan­do una qualche idea è matura all'evento, vita e storia debbono scatenare nella folla tutte le pas­sioni ed accendere un miraggio per attirarla nel­l'azione ed immolarla nel sacrificio del trionfo. L'antitesi della democrazia e della aristocra­zia è dunque più apparente che reale, e significa soltanto l'alzarsi di uno strato sopra un altro, la novità di una forma superiore, perché l'aristo­crazia se per agire politicamente ebbe sempre bisogno di separarsi in classe, dentro la quale l'egoismo  degli individui viziò fino a contrad­dirlo, lo scopo della sua funzione, come superio­rità naturale è diffuso in tutte le classi e vi for­ma assiduamente i gruppi ubbidendo alla legge segreta della ascensione.

È difficile quindi nella storia sceverare l'opera di una aristocrazia dalle contraddizioni dei suoi interessi, più difficile an­cora se la sua idea ebbe carattere universale e un lungo periodo di sviluppo. Nel comando iimmediato, la volontà preponderando sul pensiero, l'abuso conduce presto alla tirannia; l'ebrezza dell'ascensione produce in quasi tutti un inganno micidiale, quindi abbassano gli altri invece di alzare se stessi misurandoli proprio orgoglio su tale dislivello. È questa la formola latente di ogni dispotismo che succede ad un despota crea­tore; fra tutte le forme del comando la più fa­cile fu sempre di comandare a schiavi, fra le illu­sioni della vanità l'ultima a venire sarà quella di sentirsi più alti quando la gente si curva nella ipocrisia dell'interesse o nella sottomissione della paura.

Ma ogni aristocrazia espresse sempre se me­desima nel carattere dei propri migliori rappre­sentanti dentro l'idea, che informava la sua epo­ca. Così l'eroismo dei tempi epici, rimasto immor­tale nel verso dei poeti primitivi, non somigliò a quello dei tempi civili, quando la vita più sa­tura di pensiero impose alla virtù più meditati ed impersonali sacrifìci! così il martirio animato ancora dalla bravura guerriera nelle religioni selvagge mutò lentamente sino alla soave pa­zienza dei martiri cristiani, che fra i tormenti pregavano per i tormentatori; così la devozione alla scienza ebbe più austera semplicità che non quella alla religione, e significò il più alto olo­causto perché l'egoismo non poteva nemmeno sperarvi compensi di oltretomba; così l'errante cavaliere medioevale e la suora francescana su­perarono il venturiero barbarico e la vestale ro­mana di quanto il cristianesimo sintetizzando in se stesso tutte le civiltà antiche le superava nell'idealità del dogma e della morale.

Ma l'aristocrazia, perciò solo che contiene una superiorità, deve esprimerla anche nella deca­denza, e allora la parola succede agli atti, l'eleganza alla forza, il pregio della decorazione al valore della bellezza. In tale modo quasi 'tutte le aristocrazie tramontarono nelle monarchie, fin­ché la dissoluzione della stessa forma monarchica le riconfuse col volgo.

L'ultimo tempo della decadenza aristocratica si segnalò coi gentiluomini e colle dame, che non vivevano oramai più che di parata; né mai più inutile ed amabile artificio fu più lungamente rispettato e lasciò più vivi ricordi se oggi ancora il superstite patriziato ne fa il proprio titolo mi­gliore, e l'orgoglio di quanti salgono col danaro si esercita nella imitazione di quell'antico e fra­gile vezzo.

Il patriziato romano invece si putrefece quasi istantaneamente nell'impero senza improvvisare alcuna bellezza: ma forse era stato troppo forte nel comando e troppo povero di genialità arti­stica per trovare nella propria estrema miseria la grazia dei piccoli e la delicatezza dei deboli. Era una aristocrazia di re e finì in una corte di schiavi.

L'onore aristocratico fu allora salvato dagli ultimi storici per ricominciare nei primi cristiani.

La vita si atteggia sempre nell'opera dal con­cetto che l'uomo si fa di se medesimo e del mon­do: la sua religione e la sua politica sono quindi la conseguenza della sua filosofia più intima, e il suo carattere morale una necessità di tale coscienza. Per operare efficacemente bisogna sen­tire quanto si pensa, la potenza dell'atto è quasi sempre pari alla sua potenzialità. Certamente ogni popolo si assimila altre qualità da altri: una sintesi di tradizioni e di originalità circo­stanti si forma dentro di lui, ma la missione sto­rica gli deriva soltanto dalla individualità e non può andare oltre questa. Il compierla più presto e più largamente è dunque legge suprema: la gerarchia degli ordini non esprime che la gradua­zione degli individui in tale funzione. La natura li prepara, la vita li elegge.

Non tutti gli eleggibili vengono però eletti; molti anzi che meriterebbero i gradi più alti, ri­mangono in basso, o perché un ostacolo esterno sbarrò loro la strada nel migliore momento e fu­rono così sorpassati dal rivale, o perché un di­fetto bastò a paralizzare in essi l'accordo delle più grandi qualità, o una più severa virtù li rese inadatti alle inevitabili degradazioni di tutti gli inizi, agli ignobili sottintesi di tutti i compro­messi. Ma invisibili nella prospettiva storica essi compiono egualmente la loro funzione aristocra­tica con una irradiazione spirituale, che illumina e riscalda le anime, confermando l'anonima virtù della massa incapace d'intendere l'insegnamento astratto.

La religione accoglie il maggior numero di questi individui superiori, che non domandano alla vita il prezzo della loro superiorità, l'arte, li attira colle seduzioni della bellezza, la scienza li tenta col mistero; tratto tratto una catastrofe li solleva e appaiono nell'eroismo o nel martirio.

La funzione aristocratica è adunque doppia: sviluppare l'idea che forma l'essenza di un po­polo, ed in quella atteggiare il proprio caratte­re. Spesso vi è antagonismo fra virtù politica e virtù morale: a certi momenti l'eroismo dì razza o di nazione deve essere senza pietà verso i vinti destinati a sparire; talvolta la costruzione dello Stato non lascia la libertà che in alto, e ogni mestiere discende nella schiavitù; talaltra inve­ce la frode è più indispensabile della forza, e l'immobilità delle religioni più necessaria del progresso delle scienze. Quasi sempre una rivoluzione morale esige la dissoluzione di un mondo politico nel pieno meriggio della sua civiltà, mentre la rivoluzione sale da turbe abbiette, si annunzia per apostoli, ignari, negando e so­gnando.

Ed era questo il caso del cristianesimo da­vanti a Roma.

Ma ogni aristocrazia saprà sempre affermare la propria idea e rappresentarne la bellezza: vi­vrà alta nell'orgoglio di un ideale, che le impo­ne altri modi di vita e di morte, combattendo sempre lo stesso avversario nei nemici esterni che le contrastano l'espansione del dominio e nei nemici interni che vorrebbero abbassare il suo grado per attingerlo più facilmente, nessuna aristocrazia però è tutta eroica se non a grandi intervalli, o impronta sugli eroi la propria fisonomla; non si deve credere che la civiltà sia ir­radiazione di pochi. Aristocrazia e genio vi sono egualmente necessari ed indifettibili; sospingono e riassumono la massa; sembra avere nel dram­ma la parte decisiva, perché rivelano le figure e vi lasciano il nome. Invece dietro la virtualità dell'aristocrazia e del genio era l'istinto e la po­tenza anonima della moltitudine: l'aristocra­zia è la coscienza di questo istinto, il genio la sua personificazione.

Tutto si elabora in basso e si compie nell'alto, ma l'uomo non può andare oltre l'uomo; la grandezza dei più grandi è fatta dalla forza dei piccoli. Gettate un grand'uomo fuori della cor­rente storica che lo porta ed avrete la misura esatta del suo valore individuale; Napoleone I dopo Waterloo, Mazzini dopo il trionfo della monarchia di Savoia ne sono due fra gli esempi più appariscenti; si può essere sempre superiore, ma non si appare grandi se una pubblica forza non moltiplica la nostra aggiungendo alla voce di un uomo l'eco di un popolo.

Ecco perché i precursori passano inosservati o soccombono nel martirio; la loro grandezza si frange nella impossibilità del riconoscimento, e sconta nella lunga asfissia della vita il lontano trionfo della immortalità.

Qualunque sia la forma del governo una ari­stocrazia ne elaborò sempre le leggi: il dispo­tismo monarchico scorona, non decapita l'ari­stocrazia, perché senza di questa nessuna vita­lità sarebbe possibile, e comunque possa appa­rire un patriziato, di impiegati come in China o di feudatari come in Inghilterra, la sua so­vranità spirituale sarà sempre più intensa che non quella dell'imperatore. Invece questo è quasi sempre una figura simbolica, dietro la quale il ministro è un uomo, sotto la quale un ordine di intelligenze e di caratteri forma la base sto­rica dello Stato. Al di fuori dell'aristocrazia cresce o scema la vita del popolo, immenso vi­vaio, donde tutto sale, idee ed individui, e ove tutto discende a discomporsi per risorgere; il suo enigma è così profondo che nessuno seppe ancora risolverlo. Le sue creazioni rimangono tutte anonime; per parlare inventa una lingua, per adorare plasma un Dio. La sua originalità è una linea nell'architettura, un ritmo nella mu­sica, una intuizione nella filosofia, un costume nella politica; quando ha bisogno di un'idea sol­leva un uomo o innalza un monumento;"i suoi legislatori distillano i suoi proverbi; egli è un personaggio nel coro dell'umanità, la quale da millenni leva un inno di dolore e di speranza verso il sole, oltre le stelle scintillanti sulla so­glia dell'infinito.

I caratteri  dell'aristocrazia antica rivelano l'antagonismo che separa i popoli individuan­doli, ma le sue varietà si riassumono tutte nel binomio, o religiosa o guerriera. Soltanto nel­le città della Grecia e nei comuni d'Italia la sua flsonomia è più spiccatamente intellettuale, perché nella piccolezza dello Stato 1'universalità del principio cristiano o il particolarismo del paganesimo ellenico lasciano una quiete più si­cura alla coscienza. Ma nei secoli lontani la schiavitù dividendo gli uomini in due nature da­va ad ogni aristocrazia una durezza ed una an­gustia oggi appena intelligibili. Indarno nelle figurazioni dell'arte noi tentiamo ancora di rap presentarci quelle vecchie società pagane e di farne rivivere gli eroi, giacché il concetto del mondo fisico e l'idea del mondo morale sono co­sì profondamente mutati nella nostra coscienza, che involontariamente a personaggi d'allora dia­mo colle parole anche l'anima del nostro tempo.

L'Ifigenia di Goethe, che vi si preparò viven­do nei musei e disegnando statue greche, è forse greca? Le odi e i poemi barbari di Carducci e di Lecomte de Lisle sono forse pagani così che Ora­zio leggendoli potesse crederli di un grande poe­ta suo contemporaneo?

Religiosa, l'aristocrazia ebbe tutte le gran­dezze delle religioni; guerriera, tutta la poesia e la potenza della morte; il disprezzo della vita era la sua maggiore virtù, il culto della nobiltà umana la sua prima forza.

Naturalmente più conservatrice che inizia­trice, perché ogni creazione è inconsapevole e sa­le dall'istinto popolare, essa elaborava e raffi­nava; nella politica era la tradizione e l'origina­lità del popolo, e doveva significarle senza pietà per tutto quanto contrastasse, intrattabile nella superbia della propria fisonomia, capace di qualunque eccesso per sopravvivere. Quindi il genio popolare per ringiovanirle il sangue o l'idea spesso le suscitò contro i propri maggiori indi­vidui, che dovettero perdere nella lotta appunto perché travalicavano l'orbita del popolo stesso. Quando a Roma l'enorme dilatazione della con­quista impose l'uniformità del comando, l'ari­stocrazia non fu più che di funzionari; nell'India l'irrigidimento delle classi la spezzò come in una scala di vita, che Buddha soltanto con uno sfor­zo pari a quello posteriore di Gesù mutò in un clivio, sulla vetta del quale ogni anima si per deva nell'estasi muta della contemplazione; nel la Persia, che inizia la storia integrando le diffe­renze umane nella prima unità morale, l'aristo­crazia è una paternità che illumina e guida, o-pera e consola; nell'Egitto, terra della morte, la casta dominatrice è di sacerdoti che ne sanno solo il segreto, e al suo terrore sottomettono la vita; nella Palestina l'aristocrazia è di guerrieri intorno al Dio creatore, che il genio semitico ha finalmente espresso opponendolo come un ne­mico a tutto il mondo; la Grecia, invece se ne compone una di artisti e di pensatori, che fanno continuamente oscillare la politica e compromet­tono gli Stati; Roma ha un senato di re, che sanno alzare tutte le funzioni nelle unità del comando.

Ma dopo il cristianesimo il mondo cangia.

Dall'uguaglianza di tutti gli uomini nella legge divina l'aristocrazia sale spiritualizzandosi così che quando i barbari l'arrestano nella forma della feudalità può ancora creare il cavaliere fra i vincitori e il cittadino fra i vinti: e con questi due eroi rinnova la storia. Il comune riproduce nella propria angustia le antiche civiltà indu­striali e marinare, intorno al castello ricominciano le geste epiche; poi la barbarie si logora, l'oscurità si rischiara e dal cavaliere esce il gen­tiluomo, dal cittadino l'elettore. Nella Spagna una aristocrazia, militare arresta la conquista moresca, nella Russia una aristocrazia terriera dilata l'impero sino à dargli l'estensione della luna, nell'Olanda una aristocrazia mercantile evoca dal fondo del mare il suolo della patria e crea la terra di un regno marittimo; nell'Inghil­terra una aristocrazia di venturieri stringe sul mondo la printa unità commerciale; negli Stati Uniti una plutocrazia improvvisa una repubbli­ca vasta come l'Europa e più ricca in una modernità senza passato; la Francia, terra della monarchia, nella quale il re non fu mai che un pari fra pari, alza col proprio orgoglio aristo­cratico il primo popolo sovrano; e ovunque l'a­ristocrazia fu la coscienza e la figura di ogni na­zione.

Quindi tutti vi appartennero che la natura aveva eletti alla superiorità, poco importa se la divisione delle classi parve escluderli o il loro urto li schiacciò, perché nell'inevitabile coope­razione della vita le differenze vere degli indivi­dui vi producono una gerarchia, che quella este­riore dei titoli deve subire malgrado tutte le ri­luttanze della vanità. Così il re, grande come individuo, non era che il capo della aristocrazia: piccolo, ne rimaneva lo schiavo anche sembran­done il tiranno.

Il popolo solo, allora come adesso, era tutta la vita e tutta la storia come un mare battuto da tutte le tempeste, aperto a tutti i vascelli, indifferente a tutti" i naufragi, inesauribile, in­contenibile, senza altro limite, secondo il grande versetto del poeta biblico, che la parola di Dio,
Vi è ancora un patriziato? Quali sono i suoi caratteri?
V
L'aristocrazia moderna.

Ancora sopravvive nelle vecchie forme del ri­nascimento,  ma la sua opeera è consunta.   .

Negli Stati monarchici e in quelli che passa­rono già alla repubblica, l'aristocrazia pare com­posta di superstiti; la sua superbia non è più che una vanità e quindi una debolezza, i suoi titoli falsificati quasi tutti attraverso la morte nelle famiglie ricordano glorie ed imprese così lonta­ne e difficili che nemmeno dalla moderna forza più temeraria potrebbero essere ritentate; le sue ricchezze sono d'accatto, mantenute o reintegra­te da transazioni degradanti colla nuova borghe­sia cresciuta rapidamente col danaro e nel da­naro. Come classe politica costituisce ancora fra i tedeschi e gli inglesi un senato, che serba pri­vilegi nominali sulle Camere dei Comuni, ma l'impero derivando dall'elettorato ogni vera; virtù e la sovranità essendo tutta nell'elettore, i senati patrizi non funzionano che come una decorazione, alla quale l'intangibilità è indi­spensabile per sopravvivere. Toccati anche lieve­mente si discioglierebbero come quei cadaveri antichissimi nel primo contatto dell'aria. Qual­che volta compiono opera utile arrestando una-intempestiva volontà dei parlamenti troppo aperti a tutte le bufere della piazza e facili a scambiare per un ordine della storia le velleità passionate della pubblica opinione: spesso dal loro seno sorgono uomini superiori meravigliosamente atti al comando per la lunga consuetudine spirituale di considerare dall'alto i problemi po­litici.

Ma nel nobile rigore della parola non vi è più aristocrazia.

La sua classe non ha un interesse così indivi­duato dentro la somma di tutti gli altri da potere sopra di esso foggiare una coscienza: i suoi pri­vilegi medesimi esprimono piuttosto il passato che il presente. Echi di una voce, che non sarebbe più intelligibile, la loro seduzione si esercita su­gli spiriti deboli della modernità, le donne che vorrebbero essere dame, gli uomini forti soltan­to all'acquisto del danaro e che dal danaro non sanno trarre una potenza di pensiero. Nelle tur­be invece dura tuttavia il rispetto dei nomi e dei blasoni, mentre un'invidia quasi di rivincita si accanisce a distruggere la bellezza artistica delle antiche differenze; ma tale rispetto, se con­tiene ancora qualche atavico residuo della ser­vilità plebea è più spesso un'ironica espressione del disprezzo, che la servitù moderna al danaro provoca nell'anima del popolo contro ai padroni soltanto della ricchezza.

L'aristocrazia già decaduta politicamente non ha più né dame né signori. Alla raffinatezza del loro tipo era indispensabile una funzione supe­riore, la responsabilità di un impero che alla loro coscienza imponesse più alte virtù di vita e di morte. Invece l'ozio nella segregazione del lusso o il lavoro nella sottomissione democratica han­no uguagliato il fondo aristocratico a quello della borghesia; la superficie stessa nella parità della coltura e della ricchezza non si differenzia che per il valore dell'individuo. L'eleganza dei modi e degli atti è soltanto un dono naturale non contristato dalle miserie della vita, ma nessuna
aristocrazia decadendo può serbarlo in una po­vertà che le tolga l'indipendenza. Finché una aristocrazia dura, l'occasionale povertà dei suoi membri viene coperta coll'assisa di qualche gra­do: quando invece l'aristocrazia non è più un un potere vivente, la ricchezza diviene la prima ne­cessità della  sua appariscenza decorativa.

Indarno qualcuno ha creduto che un patri­ziato possa ritemprarsi nella forma nuova della classe, che lo ha spodestato traendone una se­conda giovinezza, e molte predicazioni si fecero dappertutto su tale   argomento,   mentre   ogni classe e ogni epoca hanno invece caratteri origi­nali, che solo dalla sincerità delle anime atten­dono vigore di bellezza o di ascensione. Il patri­ziato,  disceso nella lotta economica a cercarvi i guadagni della ricchezza o l'eleggibilità alle alte funzioni politiche, vi perdette più presto la propria coscienza che non riuscisse a lasciare nella modernità   delle altre   una  qualche im­pronta; la rivalità lo costringeva ad accettare la bassezza di tutti i mezzi, mentre qualche ripu­gnanza gli contendeva sempre la vittoria finale; spesso tale adattamento fu una lustra, ed allora affrettò la decadenza della famiglia stessa che vi cercava una risorsa, o fu un atto vero, e nel patriziato mancò un patrizio di più. Non so, e pochi forse affermeranno di saperlo, se avesse potuto accadere altrimenti in un moto concorde di tutta l'aristocrazia, ma ne dubito per quell'or­dine supremo,   che   accorda  in   ogni   tempo   il trionfo alla forma più recente ed originale. Per rinnovare la funzione dell'aristocrazia nella vita bisogna prima ricostituirle una coscienza di clas­se, che nobiliti il carattere e metta nel pensiero 1 autorità del comando. Quelle aristocrazie, che una rivoluzione popolare gittò nella prova della morte, vi soccombettero spiritualmente: dalla Francia fuggirono esuli per tornare parricide, nel-Pltalia stettero incerte cogli stranieri e coi tiranni contro la patria senza che la contraddizione dei loro migliori individui potesse mutare 'tale con­tegno e impedire la condanna della storia. Una aristocrazia o è il corpo più scelto di una nazione o non è nulla: dall'avanguardia irrompono i pre­cursori, nella retroguardia si trascinano i più deboli, nel mezzo la massa oblia la tragedia della marcia nella sua stessa fatica, mentre lo stato maggiore delle guide insegna e punisce, frena ed incita, sostenuto ed estenuato dall'incessante responsabilità.

Se l'ultima regalità non avesse logorato l'ani­ma dell'aristocrazia negli ozi delle corti, si sa­rebbero forse veduti i patrizi superstiti capitanare la vittoria della borghesia dopo il grande rinno­vamento della rivoluzione e dell'impero napo­leonico. Ma la reazione legittimista succeduta in tutti gli Stati d'Europa provò che l'aristocrazia era anche più morta della regalità. Contro le estreme resistenze dell'una e dell'altra, la bor­ghesia nella prima metà del secolo XIX dovette condurre la guerra ideale delle riforme e com­piere una rivoluzione forse ancora più grande coll'improvvisazione dell'industrialismo moder­no. La ricchezza diventò quindi il primo espo­nente sociale della forza, e nulla bastò contro di essa; il genio e l'eroismo medesimo le si sotto­misero, le idoneità al suo lavoro prevalsero sul­le migliori qualità di pensiero e di sentimento: e questa ricchezza, che creava una nuova libertà e una civiltà universale, fu il grande originale segno dell'epoca moderna.

L'aristocrazia italiana nel periodo eroico del­la rivoluzione si espresse come il popolo soltanto per individui rimanendo come classe ligia al pas­sato; la inettitudine spirituale del lungo decadi­mento le toglieva di sentire il nuovo soffio tra­gico, la nullaggine della sua educazione le ren­deva inaccessibile pressoché ogni idea. La bor­ghesia sola quindi, e di essa un'esigua minoran­za, partecipò alle congiure e alle battaglie del nostro risorgimento; la massa popolare vi assistè inerte, il clero era vilmente ma francamente ne­mico, e così gli aiuti stranieri decisero veramente della vittoria.   Dopo l'aristocrazia accorse;  il governo anziché rivoluzionario si annunziava li­berale aprendo a tutti tutte le porte quasi per farsi una clientela; negli Stati borbonici e papali invece il patriziato più putrido di ozio e più de­bole di fibra si chiuse in una muta opposizione. Poi al nord la febbre del lavoro riscaldò anche il sangue delle nobili famiglie, e si videro presto i più antichi nomi apparire sui manifesti delle nuove società industriali; al sud la forma feu­dale sopravvissuta nel rispetto del popolo e nel­l'orgoglio delle grandi case mantenne l'aristocra­zia quasi straniera al paese. La sua vasta ric­chezza territoriale e la distanza dal popolo cam-pagnuolo la riconfermarono nell'assenteismo; le campagne erano quasi selvagge, Napoli e Paler­mo funzionavano come due capitali del lusso, corti senza re, nelle quali i maggiori cortigiani potevano apparire più alti. L'aristocrazia libe­rale invece si contentò dei pochi vantaggi rega­lati alla recente libertà; così ottenne facilmente tutte le sinecure, fu decorativa e servizievole, in­teriore alla borghesia che costituiva l'era novella, mai pratica del popolo che si moveva assimilando e migliorando.

Le forze vive infatti crescevano dal popolo e dalla borghesia. L'importanza degli uffici politici dava ai borghesi la precedenza sugli aristocra­tici, la corte costretta a calcolare sull'assenso in basso rimaneva prona: il suo liberalismo più necessario che meritorio era una fatalità del tempo. Nell'improvvisarsi delle industrie e nel rifiorire delle antiche forze paesane, che fonde­vano tutte le classi, cresceva all'aristocrazia un bisogno sempre più urgente di ricchezza.

Senza questa non era più possibile ottenere dalla moltitudine il rispetto: le deputazioni e le ambascerie esigevano adesso troppa tenacia di lavoro e pratica d'affari, perché il patriziato po­tesse farvi buona prova: nelle provincie e nei comuni la piccola rivalità borghese e artigiana cacciava da ogni seggio i patrizi per farsi largo e salire. L'aristocrazia retrocesse davanti ai tem­pi nuovi: non aveva nel senato una rocca, dal passato non poteva trarre argomenti di gratitu­dini patriottiche; forse in lei la superstite deli­catezza signorile ripugnava alla volgarità botte­gaia e curiale, tribunizia e pedante; la coscienza, che nessuna classe nella rivoluzione aveva fatto veramente il proprio dovere, le diminuiva nel­l'anima il senso della propria inferiorità; il rapace affannare di quanti lottavano a salire e a comandare le persuadeva nell'estensione una prova di più antica moralità.
Ma l'uguaglianza dei figli dinanzi all'eredità spezzò nel moltiplicarsi di tutti i bisogni e di tutte le spese l'avvenire della famiglia aristocra­tica. Il lusso meno appariscente e più costoso rimaneva come l'ultima distinzione possibile nel­la eleganza personale, quindi il patriziato, ina­datto al lavoro e incapace di comando, vendette i blasoni per mantenersi ancora nell'apparenza di un primato. Ma la viltà di tale compromesso e la vera forza politica della borghesia costrinsero
i più aristocratici saloni ad aprire le porte e le fronti più altere ed abbassarsi.

Nel secolo dell'individualità la miseria si era fatta più intollerabile che in ogni altro tempo, perché livellava tutti in basso, e a dominare in questo primo avvento della ricchezza, l'ingegno stesso non bastava sempre senza le significazioni esteriori della potenza. Soltanto verso la fine del secolo XIX il clericalismo mutò la politica di astensione accettando tacitamente la conquista dell'unità e la caduta del potere temporale: così uno spostamento politico si produsse nell'aristo­crazia.

Ma l'Italia non ne ha più una nella vita mo­derna. I grandi nomi adesso non figurano che nelle cronache del carnevale e dello sport: lusso senza personalità, passione decorativa soltanto. Poi la enormità delle spese ridusse già lo sport ad un'industria, la signorilità manca persino nel­le intenzioni, e gli esercizi vengono quasi sempre compiti da servi pagati meglio di più illustri pro­fessori. Se l'aristocrazia avesse ancora avuto una forza vi avrebbe trovato sfogo nelle campagne, poiché i patrimoni aristocratici sono quasi tutti territoriali: invece le affittanze resero più co­stante l'assenteismo, mentre il trasformarsi del­l'agricoltura in industria e il suo crescente biso­gno di scienza rendevano sempre più inadatto il tipo del vecchio padrone. Nell'esercizio dei campi solamente l'aristocrazia avrebbe potuto rimoder­narsi costituendo fra il popolo delle campagne ancora integro un partito robustamente conser­vatore e nobilmente liberale: invece nella deca­denza patrimoniale avviò i figli alle professioni universitarie gettandoli alla concorrenza più aspra e più bassa: l'esercito nella miseria di tutte le sue lente carriere non era più un rifugio, il valore dei nomi storici vaniva, mentre la viva­cità della nuova vita respingeva istintivamente gli avanzi della vecchia società sbertando la loro decorazione piena di muffe e di strappi.

Nell'ozio povero o mal ricco dame e signori fi­nirono di pervertirsi; la bigotteria aveva già uc­ciso il coraggio del duello, l'astensione politica spense ogni capacità, lo sport non rianimò che i più bassi istinti. Nel mercato dei blasoni la ga­lanteria si degradò, e l'adulterio pagato antici­patamente nel contratto di nozze divenne uno degli affari più facili nel secolo più facile agli affari; il lusso senza fasto non ebbe arte, non si fabbricarono più palazzi, nei vecchi le botteghe spezzarono i muri e le insegne commerciali si allargarono come ulceri su per gli stipiti e pei cornicioni. Nella uniformità degli abiti anche le livree diminuirono sin quasi a divenire irrico­noscibili; il padrone non sentiva di valere più del servitore, mentre gl'impiegati d'amministrazione nella sua casa patrizia valevano più di lui. I viaggi, una volta nobile privilegio, adesso erano diventati un mestiere commerciale; i giornali, dispensar! della celebrità, s'imponevano al pa­triziato, che voleva note le proprie feste e più note le beneficenze.

Quando un servo è elettore, il padrone non può superarlo più che come uomo: quando una casa patrizia non ha una vita più nobile delle altre, il suo primato è una illusione senza illusi, della quale si ride anche accettandola.

L'aristocrazia è dunque morta.

Il suo ultimo compito storico era stato nel do­minio sul popolo contro il dispotismo del re; poi l'aristocrazia aveva tiranneggiata essa medesima mutando la propria funzione di tutela in ostacolo al progresso popolare, e la monarchia schiacciò,
assorbì, l'aristocrazia. Senza più comando al­lora brillò nei gentiluomini e nelle dame tra fioriture di lusso e preziosità sentimentali, o ricusandosi alla degradazione cortigiana si ri­fugiò nelle provincie a dominarvi colla elettezza dei modi e la signorilità della vita. Era troppo poco: nullameno vi è sempre una poesia nella luce crepuscolare dei tramonti.

Adesso si vedono ancora dei blasoni, ma non vi sono più né grandi dame né grandi signori.
VI.
Trionfo e degradazione industriale.

Quantunque aperto da Napoleone e chiuso dal Mikado con due delle più grandi fra le guerre della storia moderna, il secolo XIX fu essenzial­mente industriale nei modi e nei risultati; i suoi eserciti molte volte raggiunsero la cifra spavente­vole delle orde primitive e le battaglie una mor­talità antica: i suoi popoli a certe ore si solleva­rono nell'impeto del più puro eroismo; alcune guerre parvero avere soltanto un motivo di morta poesia come nella prima insurrezione greca, altre come l'impresa di Mosca rinnovarono le gesta di un eroe, altre ancora come negli Stati Uniti rico­minciarono dal problema della schiavitù: alcune come nel Belgio salirono da un coro di opera, molte divamparono indarno come in Italia, nella Germania, in Austria dalle fiaccole di un carne­vale di piazza per riaccendersi all'orgoglio di una resurrezione nazionale; qualcuna illuminò di ef­fimeri bagliori il cimitero di un popolo come in Polonia; e nell'Africa e nell'Asia le guerre ripeterono fra i miracoli dell'avventura eroica le fe­rocie più selvagge, i più atavici errori.

Nullameno la guerra del secolo XIX fu ancora più subordinata che in altre epoche all'imme­diato trionfo dell'industrialismo; né mai forse le sue spese e le sue cicatrici più prestamente ven­nero dimenticate.

Se i più acuti investigatori non seppero ancora sceverare nella vita di una nazione il reciproco prevalere del tipo industriale o militare, così strettamente uniti che nessuna loro funzione es­senziale può svilupparsi senza l'aiuto di un'altra apparentemente contradittoria, più difficile sa­rebbe lo schizzare anche grossolanamente le dif­ferenze fra i caratteri guerreschi moderni e quelli antichi: impossibile forse cogliere nella somi­glianza delle forme le profonde antitesi, che ren­dono così diverso il nostro industrialismo nel confronto di ogni epoca.

Gli ultimi scrittori positivisti dietro le orme di Spencer hanno fin troppo marcato le similarità e le dissimiglianze fra la struttura militare o in­dustriale di una civiltà, ingannandosi secondo il solito nel credere la sua fìsonomia un risultato di tale differenza, mentre non l'organo e la fun­zione distinguono tanto il carattere di un popolo quanto l'unità della sua concezione ideale e la personalità della sua coscienza.

Così nel secolo XIX le guerre eroiche della in­dipendenza arrivano con Garibaldi alla forma di una solidarietà più profonda che non il più cordiale fra i sentimenti sviluppati dalla reci­procità commerciale: e le guerre del più puro motivo industriale come quella di secessione de­gli Stati Uniti esprimono dal più moderno di tutti i popoli il più ignobile egoismo e la più stupida ferocia.

Che l'industrialismo impossibile senza una re­lativa libertà dell'individuo, il quale deve trarre dal proprio fondo tutte le iniziative efficaci, sia più favorevole della guerra allo sviluppo della solidarietà umana: che la parità dei diritti e l'uguaglianza delle leggi crescano più rapida­mente nelle libere società del lavoro che in quelle dominate dalla ferrea necessità della guerra, è da secoli un luogo comune dell'esperienza e della rettorica, ma la vita e la morte non si differen­ziano nei propri momenti che per la differenza stessa, colla quale lo spirito è costretto ad accet­tarle. Nel segreto d'ogni anima sta il concetto essenziale, che l'individuo ha di se medesimo di­nanzi al doppio mistero della natura e dell'inde­finito: e dal come soltanto l'uomo sente e pensa se medesimo derivano i modi della sua azione quasi sempre inconsapevole.

L'industrialismo moderno supera di tanto l'an­tico, che pure ebbe floridissime epoche e lasciò nel mondo incancellabili tracce, di quanto la personalità del cittadino moderno sovrasta a tutte le altre della storia.

Divenuto sovrano nell'elettorato, l'Individuo sentì di dover creare da solo l'avvenire: la sua forza invece di attendere da altri l'impulso l'a­veva in se stessa, il risvegliarsi quasi famelico di tutti i nuovi bisogni civili eccitava in lui l'energia del lavoro: voleva crescere per non essere inferiore ad alcun altro, pretendeva ovunque e sempre, nelle condizioni sociali più basse e nella più povera inferiorità nativa, di essere pari coi maggiori appunto perché non vi erano più artifiziali maggiorenti.  Virtù di orgoglio e vizio d'invidia lo spronavano del pari. Nell'elettorato la sovranità uguagliata dentro gl'individui si esprimeva per masse: il numero diventava la massima forza e nel numero rico­minciava quindi l'illusione della verità. Appa­rentemente l'elettorato era ridotto all'atomismo e la sua idealità sembrava destinata a soccom­bere nelle false equazioni dell'elezione, ma i danni temuti non si verificarono che in piccola parte, perché l'unità dello spirito umano segui­tava a dominare sicuramente tutti gli antago­nismi delle vanità e degli interessi più ripu­gnanti.

Il secolo XIX nel suo doppio compito d'indi­viduazione singola e collettiva fu quindi il se­colo più umano della storia.

La sua opera e il suo trionfo ebbero nel pro­logo il massimo splendore d'originalità: nulla e nessuno sfuggì alla sua rinnovazione, e il muta­mento fu così rapido, l'ascensione così alta, l'u­niversalità così vera che nell'abbacinamento dei primi risultati sembrò quasi che il passato dile­guasse e l'avvenire medesimo non potesse avere altro progresso. Ogni assisa dell'antica società fu sommossa o capovolta, non una classe con­servò la propria base, non una coscienza il tra­dizionale atteggiamento; nello Stato le monar­chie rimasero soltanto una decorazione, e le ari­stocrazie un residuo di morte fortune, contro il quale si accanivano le forze dissolventi della vita: nel governo ogni funzione venne delegata, nella legislazione civile la moralità viva domi­nò il diritto morto e non si riconobbero quasi più stranieri davanti ai codici, dentro la legisla­zione penale la pena diminuì sino a non essere che una guarantigia, e il delitto sino a una in­feriorità dell'individuo. Un diritto internazio­nale sovrastò alla licenza della guerra che vi prescrisse i modi. «La rivoluzione!, che dalla Francia sconvolgeva rinnovando l'Europa, irruppe nelle forme letterarie e delirò col roman­ticismo nel trionfo  dell'individualità:   penetrò nella storia e l'interpretò con una nuova filo­sofia, che ne faceva una tragedia, mentre Kant dissolveva nella critica più pura i vecchi sistemi ripetendo più in alto l'opera distruttrice di Na­poleone ed ignorandola.

Tutte le scienze si le­varono quasi in un risveglio improvviso per get­tare la natura sotto un esame, dal quale doveva uscire più libera ed insieme più misteriosa. La geologia scoperse la storia del nostro pianeta, e spezzandola in capitoli per ogni specie di viventi riunì in un altro panorama tutti i suoi indivi­dui:  a torme, a falangi, i poeti dell'avventura s'inoltrarono  per i  deserti  ancora inesplorati dei continenti  e nelle oscurità  impervie  della storia: molti innamorati della morte le dettero la posta ai poli, fra uno scenario di ghiaccio, sotto un sole spento, in una notte di penombra, soli davanti a Dio. Poi dalla libertà proruppe un grido, che negava la schiavitù delle razze in­feriori:  ogni limite parve ingiusto, ogni sotto­missione  diventò penosa.   L'uguaglianza civile e politica improvvisava in tutti un orgoglio re­gale.

Popoli, città, villaggi, campagne mutarono veste: le scienze, offrendo ogni giorno all'indu­stria un'altra forza domata della natura, cen­tuplicarono quella dell'uomo; il mondo rovi­stato in ogni parte più segreta risulta piccolo alla nostra opera, i viaggi una volta così diffi­cili si confusero in una mobilità universale: la miseria gittò a tutti i venti come un pulviscolo fecondatore i più poveri, e coi più poveri si aggiunsero i più audaci, coloro ai quali l'ori­ginalità dello spirito non consentiva la quiete
nemmeno nell'ampiezza dei recenti gironi  so­ciali.

Le strade saldavano i paesi alle città e le città alle capitali, il telegrafo produceva il miracolo continuo di una ubiquità, la fotografia fissava nella fuga di un attimo la fisonomia degli uo­mini e delle cose rilevando i segreti dell'ombra e i misteri degli astri; poi la meteorologia se­gnò le vie dei venti e scoperse i capricci delle tempeste: la chimica constatò un vivente in ogni cosa, la biologia ne raccontò il romanzo, la medicina invertendo la propria base negò il male e ridusse la malattia ad un conflitto di minimi viventi coi grandi. La patria restò più nello spirito che nella materia malgrado l'eroi­ca contraddizione che accendeva ovunque guerre nazionali, nessun bisogno rimase indigeno, la ricchezza ondulò nel ritmo in un mercato uni­versale.

Dopo la vittoria borghese, nella seconda metà del secolo XIX, scoppiò l'insurrezione proletaria colla stessa arma dell'elettorato, nella forma militare dell' irreggimentazione per mestieri dentro fabbriche più grandi delle caserme, fra il tumulto di una politica unilaterale nell'inte­resse, miope nel pensiero, avara nel cuore, ma sicura della propria fecondità. La massa ope­raia volle partecipare al governo pur dichiaran­dolo nemico mentre era invece un liberatore, insultò le classi superiori che l'avevano bat­tezzata, sognò nel passato gli eden di tutte le utopie, sofferse nell'attualità le disillusioni spa­smodiche di ogni inizio. Ma intanto le idee si divulgavano colle merci, coi viaggi, coi giornali e coi libri dalle assemblee e dalle predicazioni, e il veicolo era sempre la ricchezza e l'attrito delle discussioni libere levigava l'asprezza delle coscienze, e la sovranità democratica sottomet­tendo governi e individui ad un esame continuo  di se stessi li costringeva ad un rendiconto del­l'opera propria sempre più esatto.

Un gaudio di orgoglio, un'ebbrezza di crea­zione sollevarono le anime, le moltitudini diser­tarono quasi le religioni che la scienza si van­tava di aver sconfìtto. Al solito l'uomo si affer­mò migliore che non fosse, capace di ogni diritto, degno di tutte le funzioni:  come sovrano ebbe la corte in piazza e per cortigiani i suoi stessi superiori.  Una febbre  gli  ardeva i polsi e la fantasia:  essere il proprio re, non piegare in­nanzi ad alcuno, creare a se stesso la legge, do­minare la natura e vivere immortale nell'uma­nità.

In nessun'epoca il progresso fu tanto rapido e profondo.

Ma i suoi fattori più attivi anziché dall'alto dello spirito derivarono la potenza dalle più fa­cili spontaneità industriali: le strade e gli opi­fìci valsero più delle scuole e delle chiese, l'a­giatezza delle prime conquiste cangiò gli atteg­giamenti e le attitudini delle masse meglio di qualunque persuasione intellettuale: la mobi­lità della vita moderna moltiplicò ovunque ogni uomo per ogni nuovo ambiente, la mancanza di padroni emancipò dalla servilità dopo l'abo­lizione della servitù.

Nessun secolo ebbe forse più grandi uomini e in maggior numero del secolo XIX, ma la loro opera vi apparve meno distintamente: come la facilità quasi eccessiva delle comunicazioni sce­mava valore alle notizie, così la prontezza della diffusione diminuiva l'importanza delle idee: poi la ressa dei mediocri e degli uomini supe­riori intorno ai grandi impediva loro di essere veduti nella differenza dell'altezza nativa, quindi tutto diventava quasi impersonale: la vita in­vece di esprimere e di assicurare le proprie fasi, nei monumenti era un monumento a se stessa, fluido, mutevole, perenne, saliente nella luce. Quando la personalità è in tutti, anche quelle più alte ed eroiche non sembrano più così vere: in un governo, quando la massa elegge deputati e ministri, questi paiono piuttosto guidati che guide; quando una merce trionfa lungi nel­l'adattamento di tutti i mercati e nella sotto­missione a tutti i prezzi, malgrado qualunque nome e qualunque marca, la fabbrica rimane impersonale così negli operai come nei padroni: quando il pubblico è giudice di tutto e di tutti, anche sulle cime a lui inaccessibili, l'originalità degli individui senza scemare diviene meno vi­sibile.

La democrazia è fatalmente una livellazione, che per alzare il fondo deve abbassare le cime: bisogna accettarla così. Come le acque scro­stando i monti formano le pianure, gli interessi rodendo le idee se ne fanno un humus ed un cemento, mentre i grandi uomini quasi lampade nelle grandi distanze si perdono a uno a uno dentro lo splendore dei lumicini accesi alla loro fiamma e tumultuanti come lucciole sul piano.

Certamente in tutti i tempi le idee si diffu­sero per correnti misteriose, sotterranee o aeree, se fra i popoli i confini erano ancora baluardi inviolabili; ma come il contatto continuo dei popoli solamente poteva produrre in loro l'unità della coscienza, così la libertà e la ricchezza soltanto erano veicoli sufficienti alle idee della personalità moderna. Prima ogni gente doveva vivere di se stessa martellando sull'incudine della  storia il proprio carattere, quindi ogni sviluppo pareva avere per unico scopo la formazione di una fìsonomia nazionale: le nazioni fu­rono allora così distinte che alcune restarono incancellabili. Nel secolo XIX invece l'origina­lità si attenua, i lineamenti si levigano e la di­stinzione rimane nelle sfumature.

Una volta la politica e la religione erano le due   massime   forze   unificatrici:    livellavano schiacciando   e saldavano colle catene,   mentre arte, filosofia e scienza rivelavano coi teoremi e colle immagini riunendo le anime nella astra­zione di una verità superiore: ma quest'opera, la più eccelsa fra tutte, era fatalmente penosa e pigra. Egoismo ed ignoranza contrastavano e contrastano:  l'egoismo  è costretto a preferire sempre la maggior somma di benessere estraendolo con ogni mezzo dalla attualità, l'ignoranza si adagia in ogni vecchia forma come in un letto ricusando perfino di mutarvi fianco.

La libertà solamente e la ricchezza eccitando fino alla febbre vizi e virtù potevano improvvi­sare l'immensa civiltà del secolo XIX: la libertà con tutti i suoi difetti e i suoi pericoli sprigiona le forze dell'individualità, la ricchezza mettendo una gioia in ogni bisogno e un'invidia in ogni desiderio eccita anche le inerzie più vili. La mas­sa, che sente di non essere bella, vorrà quindi apparire, decente; siccome il miglioramento in­terno è troppo lungo e difficile,  il costume si ingentilisce e lo simula nella esteriorità. L'elet­torato sovrano obbliga la moltitudine ad avere un pensiero magari di accatto, uscendo così dalla passività storica; la verità non attinge la più alta cima che nella dedizione di se stesso alla debolezza degli altri, e la politica tenta forza­tamente tutti i riscatti proletari, e la popola­rità premia indistintamente tutti coloro che vi si adoperano. L'arte ha una bellezza troppo pura, e l'industria degradandola nella decorazione la rende universale: la filosofia sistemi troppo grandi, e la dottrina li spezza per far servire i loro cocci come ciotole: la scienza scoperte trop­po astruse, e la cupidigia industriale accanen­dosi al guadagno delle loro applicazioni vi penetra quasi rinnovandole in una seconda rivelazione.

Tutto quanto era possibile all'influenza della filosofia, all'eroismo della religione, all'imperso­nalità della scienza, alla personalità dell'arte per la elevazione delle masse riempì la vecchia storia; l'attuale, incomparabile sviluppo civile in­vece cominciò dalla personalità sovrana del citta­dino, crebbe dalla facilità degli scambi, che muta­rono in universali le idee e gli interessi di ogni luogo. Oggi l'umanità è daccapo in viaggio lungi dai ripari ove resistette tanti secoli agli eccidi della guerra con se stessa e colla natura, ma le sue file sono confuse, i suoi ordini sconnessi: s'a­vanza e non sa dove, guarda in alto e il cielo è vuoto, non ha più fede ed invoca un'altra rive­lazione: è libera e non sa comandare se stessa, più ricca che in ogni altro tempo e il senso della miseria le si acuisce ogni giorno più nell'anima. Una rivoluzione ideale si prepara nella crisi stessa della libertà, un pessimismo monta dal­l'ebbrezza della conquista, nella quale esultano le moltitudini. I conventi si moltiplicano men­tre tutti affermano la vicinanza di un paradiso terrestre, ma i conventi sono l'asilo di coloro che non sentono più abbastanza la bontà della vita per conservare il coraggio di riprodurla, e incapaci di suicidarsi si riuniscono per lenire negli altri il dolore inconsolabile nel fondo dei loro cuori. Nell'assenza di ogni aristocrazia gli spiriti migliori si sentono già esuli dentro
la volgarità della moltitudine; alcuni delirano nel sogno di una tirannide al disopra di ogni morale e al di fuori di ogni responsabilità: al­tri si isolano nel disprezzo o si rifugiano nel passato dalla miseria della nuova ricchezza, dalla falsità degli ultimi verbi.

Perché  l'industrialismo  trionfante discende le gemònie della degradazione.

La sua parola è stata breve.

Ogni forma predominante nella società si mi­sura dal proprio ideale, ma l'industrialismo non poteva avere che quello della ricchezza. I suoi due principi della libertà e della sovranità in­dividuale non erano rampollati dalla sua essenza:   l'una ottenne la massima littoria nel cristianesimo,   quando tutti gli uomini uguali nella legge divina furono in essa  sovrani col rischio della propria eterna responsabilità: l'al­tra conquistò  nella riforma  di Lutero la più importante emancipazione, giacché l'esame  del testo divino ne implicava la possibile negazione nel riconoscimento  dell'inviolabilità spirituale. Le conseguenze diventavano facili. Ma nella tra­gedia dello spirito per la determinazione della morale e del diritto bisognava attingere le forze alle più pure sorgenti del pensiero:  nell'anti­tesi fra la segreta dolorante regalità dei mi­gliori  individui  e  il   palese materiale   impero della legge e dei suoi mandatari era necessario che quelli fossero costantemente più alti di questi. Così in qualunque campo, con qualsivoglia arme, la lotta era sempre per un'idea, che no­bilitava lo spirito anticipandogli la libertà di se stesso nel sacrificio ed affermando la sua so­vranità oltre le potenze della terra.  L'appello aveva dunque gli squilli dell'epopea e la morte una grandiosità, che superava viriti e vincitori, mentre ogni vittoria rimaneva inutile a coloro che contrastavano l'ascensione umana, e ogni sconfitta si mutava l'Indomani in trionfo per quelli che vi erano periti.

Naturalmente un progresso materiale seguiva questa corsa dello spirito verso l'irraggiungibile meta: e come dalle scoperte delle scienze giorno per giorno si avvantaggiavano nelle ap­plicazioni industriali i modi della vita, così dalle rivelazioni della coscienza saliva la nostra per­sonalità libera e sovrana.

Il grande avvento industriale del secolo XIX cominciò dalla rivoluzione francese svilup­pandosi negli immediati contatti di tutte le na­zioni. L'elettorato colla sua formula categorica ripeteva nella vita politica l'uguaglianza già an­nunziata dal cristianesimo nella vita religiosa: tutti i cittadini erano uguali davanti al diritto massimo della legislazione, le poche differenze mantenute fra loro dai primi statuti dovevano presto scomparire in un continuo allargamento di suffragio, mentre la libertà degli eletti come interpetri diminuiva grado a grado sino ad una servilità di mandatari.

Tale uguaglianza, giustissima teoricamente, si contraddiceva nella pratica: l'elettore ricono­sciuto dalla legge non era spesso un eletto né della natura né della vita: quello lo aveva for­mato inferiore a tale funzione, questa lo aveva lasciato così. Quindi il nuovo sovrano, incapace di comprendere la propria sovranità invece di esercitarla, la vendeva o esercitandola non la riempiva come gli antichi tiranni che di capricci, e poiché i voti si sommano e non si pesano, il numero diventava la forza e la forza al solito deliberava nell'arbitrio. La borghesia guidò la rivoluzione nella sua prima fase mantenendole
una certa spiritualità di intenzioni e di idee; nella seconda l'irruzione operaia la degradò alla soddisfazione immediata di una primizia plebea.

Ma la borghesia stessa ne era complice.

Tutta la sua nobiltà interiore si era consu­mata nello sforzo delle guerre nazionali e nella conquista della libertà:  la sua vita ingigantita dalle  fortune  dell'industrialismo  seppe mante­nersi pari al grande compito traendo dal proprio fondo un nuovo ideale. Tutte le aristocrazie dalla Grecia a Roma,  dal medioevo al rinascimento, crearono ammirabili tipi:  la responsabilità del potere e la coscienza di   sintetizzare   un'epoca diedero ai loro rappresentanti la virtù del co­mando:  superbi sino ad un disprezzo inumano del volgo pagavano tale superbia col sacrificio della volgarità insita anche nelle loro nature e dando ai propri vizi un qualche carattere supe­riore:    regnavano e perivano   nell'impero.   La borghesia invece volle istantaneamente godere; la sua larghezza nel gittare al popolo i privilegi stessi pei quali governava, anziché derivare da una generosità rivelò una debolezza esaurendo in quest'opera tutto lo sforzo della piccola bor­ghesia contro la grande:  questa giovandosi di poche tradizioni, di maggiore coltura e di una innegabile  superiorità  dello  spirito tendeva  a formarsi in aristocrazia;  quella ròsa dall'invi­dia, inferiore nell'anima e nella vita,  si gettò alla testa delle moltitudini per insegnarle le pri­me rivolte avvelenandole tutte le concupiscenze. Nessuna delle due aveva un solido contenuto di classe e si sentiva responsabile dinanzi alla idea­lità della storia.

Quindi la formula del guadagno pervase tut­ti gli ordini, livellò tutte le opere.

Siccome a diventare elettore bastava essere uomo, così ad essere eletto bagttò la somma del suffragi; il merito inutile in ambo i casi e la responsabilità, diluita per l'immenso numero dei responsabili si perdette nell'anonimo delle assemblee. Il lavoro aumentò e la sua nobiltà diminuì; la borghesia incapace di superare la loro eleganza volle soperchiare nel lusso gli ul­timi superstiti aristocratici, invece il popolo •scimmiottò l'anodina eleganza borghese smarren­dovi l'originalità del proprio carattere: l'istru­zione prodigata a tutti confondeva come in una nuova volgarità di decenza ogni rivelatrice di­stinzione individuale, mentre la prepotente im­portanza del danaro toglieva il rispetto alle più squisite delicatezze della vita.

La religione si corruppe anch'essa: ammala­ta di ricchezza deformò ogni giorno più la pro­pria idolatria contrapponendosi soltanto per avarizia alle migliori riforme liberali della rivo­luzione. Una incredulità bruta e viziosa, fatta di avanzi dottrinali e d'ignobili sottintesi, la costituì quasi dappertutto sottomettendo gli spi­riti ad una peggiore servitù; salari e guadagni montarono vertiginosamente, e le professioni più nobili come quelle della medicina e della giuri­sprudenza vi perdettero ogni ritegno nell'insazia­bilità del lucro, mentre la scienza le migliorava -quotidianamente nel contenuto. Per guadagnare, l'aforisma era di produrre e vendere a miglior mercato; per avere un merito efficace bisognava crearne la fede nella credulità del pubblico, che ingannato non si sarebbe doluto avendo esso pure la medesima febbre d'inganno nel sangue.

Quindi nel secolo più democratico tutti vol­lero prevalere, e il lavoro manuale reso sempre più lieve dalle macchine fu dispettato come stigma d'inferiorità:  nella  disparizione troppo rapida delle vecchie gerarchie il solo ordine pa­trizio rimasto era degli immuni dal lavoro delle mani, anche se inetti a quello troppo alto del pensiero. Mentre la sollecitudine politica si addensava intorno alla classe operaia e la rettorica della democrazia vantava nel popolo l'eccellenza del nuovo sovrano, la nuova superbia per tutti era di non essere più fra la sua moltitudine e di cancellare in se medesimi le impronte del suo lavoro. Questo stesso non era considerato che nelle risultanze del salario, al di fuori e al disotto di ogni ideale: il codice aveva già degradato il principio (famigliare identificandolo con un contratto, la vita si abbassava nella sostituzione dei mezzi al fine.
Ma il suo valore al solito parve crescere dal­la sua minore importanza; nelle epoche eroiche l'individuo gitta facilmente la vita come un aroma sul rogo dell'ideale, in quelle decadenti la vita ridotta nella angustia delle funzioni ma­teriali vi si trincera e ricusa ogni sacrificio.

L'estrema mobilità del lavoro e dei viaggi passò nelle fortune della gente: i patrimoni si coagularono e si dissiparono come in tumulto di sogno; poiché nessuno guardava oltre se stesso, tutto parve provvisorio e posticcio, la ricchezza avendo una meta di soddisfazione immediata di­menticò l'orgoglio delle opere durature: la poli­tica costringendosi dentro il successo personale si impicciolì nelle vittorie e nelle sconfitte.

Dopo l'enorme abbacinante filosofia di Hegel, riassunse tutta l'antichità e aperse l'era moder­na, la degradazione fu precipitosa; Hegel aveva sollevato il mondo nelle idee, i positivisti distrus­sero le idee nei fatti; la loro filosofia era la sola conveniente ad una fase industriale, che isolava gli individui  livellandoli  invece  di  unificarli;

L'inconoscibile, del quale l'interpretazione istin­tiva è ideale e pregio della vita, venne dichiarato inutile, la storia cessò di chiedere le rivelazioni del passato ai grandi pensieri per impararle dalla parzialità dei piccoli documenti, le leggi non furono che disposizioni nelle apparenze fenomeniche, la morale un mutare di costume, le idee una metamorfosi delle sensazioni. La super­ficialità rese tutto facile, e la volgarità parve la sicurezza del reale. L'uomo senza lo spasimo dell'infinito nel cuore e la luce divina nel pensie­ro, ridiscese nell'animalità, ultimogenito di una serie anziché primogenito nella creazione. Il darvinismo, oggi consunto, tradusse tale filosofia nella scienza, e rivelò l'impotenza del metodo sperimentale coll'arbitrio delle ipotesi e la sofì­stica delle argomentazioni per negare o riem­pire le lacune della evoluzione, sostituendo al mistero antico l'assurda facilità di una spiega­zione materialistica. Poi il positivismo della fi­losofia divenne naturalismo nell'arte, e l'uomo invece delle passioni non ebbe più che dei vizi: i suoi drammi senza libertà morale rovinarono nella catastrofe dei temperamenti, la sua poesia agonizzò.

Dopo Victor Hugo, retore sovrano e poeta re, sempre librato sulle tempeste, e coll'anima accesa da tutti i baleni del cielo e bagnata da tutte le lagrime della terra, non si vide più un grande poeta; accanto a lui Balzac aveva forse superato Shakespeare, Musset consumato dalla febbre di tutte le passioni sopravviveva in tutti i cuori dolenti, Beranger era stato la sola voce popolare, Dickens aveva scoperto il dolore de­gli umili; lungi sulla torbida linea dell'orizzonte russo Dostojewski e Tolstoi annunziavano già la tragedia di un popolo nuovo,  ma nell'Italia i due veri poeti della rivoluzione erano stati Maz­zini e Garibaldi. Nessuno aveva saputo cantarli.

Nella borghesia coloro che facevano profes­sione di arte o di scienza, non sentivano il bi­sogno di stringersi in falange contro la volga­rità: alcuni grandi stavano ancora solitari, gli altri erano un'altra categoria di industriali preoccupati soltanto nella vendita di una merce, che aumentava di prezzo scemando di valore. Le più vaste ambizioni si limitavano a rappre­sentare qualche cosa o qualcuno; nella politica erano ministri, nei quali la morte uccideva an­che il nome, nell'industria erano miliardari, che ricchi quanto un popolo lottavano nel lusso dei cavalli e dei yachts cogli ultimi piccoli re. La glo­ria venne decretata dai giornali, che vendevano parole e idee: i libri da essi taciuti erano come non stampati per il pubblico pur preparando nel segreto e nell'atto una nuova rivoluzione. Cancellate le differenze di classe le donne pre­tesero la parità cogli uomini nel nome della stessa astrazione elettorale, poi costrette a vivere di un nuovo lavoro si gettarono su quello dei maschi inferiori; la loro femminilità si deformò senza che il loro spirito si allargasse, furono meno amanti e meno madri, inferiori alle donne vere nel sentimento, senza sesso spirituale nel­l'opera.

Le virtù militari scomparvero prime.

Dopo le guerre nazionali la parità degli elet­tori li fece tutti soldati abbreviando il tempo della milizia, ma soldati provvisori se gregari, simili agli altri impiegati se ufficiali: il criterio democratico della anzianità dell'esame giudicò della loro carriera, le lunghe paci disabituarono dalla necessità della guerra appannando lo splendore delle armi;  la prevalenza dell'industrialismo, la nuova importanza di ognuno in se stesso aumentarono le ripugnanze alla vita mili­tare, e l'esercito non fu più che una spesa ine­vitabile quanto insopportabile. La patria era soltanto nell'interesse di ognuno significato dal­l'effimero accordo di una maggioranza: si sorri­deva di ogni soldato pur esigendolo eroe ad ogni apparire di pericolo, ma non si sarebbe voluto morire della sua morte considerata oramai in lui un inconveniente del mestiere. Attraverso l'accademia dei ricordi e le figurazioni delle feste nazionali uno scetticismo sbertava gli eroismi dei padri senza intendere nemmeno come fosse­ro stati più felici in una vita più alta; la fra­tellanza democratica non aveva fraternità, la nuova dedizione ad un partito non valeva l'an­tica devozione alla patria.

Nell'ultima fase la poesia perdette la voce, e la musica non ebbe più melodia: i poeti sop­pressero quasi il ritmo nei versi, i musicisti affo­garono la canzone nei recitativi.

Nessuna famiglia si conservò così grande da sentire il bisogno di un palazzo duraturo quan­to il nome: i monumenti decretati per partigia­neria, assegnati democraticamente per concorso come gli appalti, furono raramente simboli di gloria e figure di bellezza; alla carità, che na­scondeva la mano, successe una filantropia che conteggiava pubblicamente la vanità degli obla­tori; la sapienza greca aveva scritto sul fronto­ne del massimo tempio — Conosci te stesso — la coscienza industriale adottò il motto inglese — Chi non ha non è.

Già la classica economia borghese era tra­scesa oltre i limiti della libertà sino all'oblio dell'uomo considerandolo come una merce, di rimpasto l'economia rivoluzionaria negò le leggi impersonali del lavoro e del capitale per non ve­dere che il diritto dei lavoratori più bassi; lo Stato identificato dalle vecchie monarchie del despota ed alzato dalla filosofia idealistica a per­sonalità giuridica della nazione, ridiscese, nel­l'interpretazione industriale sino a confondersi col governo, e il governo colla maggioranza di un giorno nelle elezioni, di un anno nel parla­mento.

Nella storia diventata finalmente universale ogni popolo non poteva più provare il suo valore che aiutandolo nei problemi più vasti oltre i pro­pri confini, ma l'industrialismo pretendendo alla prevalenza delle questioni economiche sulle poli­tiche si ricusava alle conquiste: dietro di lui la democrazia plebea recalcitrava per paura della morte nella concupiscenza dei primi guadagni. Gli eroismi dei viaggiatori, non divertivano nemmeno come le leggende antiche della cavalle­ria; Andrée volato sino al polo in pallone, e scomparso per sempre nel mistero, fu giudicato un pazzo; Stanley, che traversò diagonalmente l'Africa aprendosi la via col ferro, un assas­sino. Intanto una oscura, ineluttabile necessità imponeva una pace più armata di qualunque guerra, e della guerra rimutava perfezionandoli ogni giorno gli strumenti; non si voleva la mor­te, ma la sua ombra oscurava tutti i sogni, e i rintocchi funebri delle sue campane interrompe­vano tratto tratto la gaiezza delle diane esul­tanti sui colli. La ricchezza, supremo scopo del­l'industrialismo, ne diventava l'ultimo termine; la sua filosofia era morta, le sue scienze ince­spicavano nel ridicolo, le sue arti si deformavano nella volgarità. La grande ascensione della bor­ghesia liberale era precipitata col secondo im­pero napoleonico; da Hegel il pensiero discese sino a Spencer, il romanzo da Balzac a Zola, la poesia da Hugo a D'Annunzio, la musica da Wagner a nessuno: nella prima metà del secolo decimonono l'imperatore si chiamava Napoleone; l'eroe Garibaldi, l'apostolo Mazzini: la Grecia si sollevava sola contro la Turchia, Cavour fon­dava l'Italia, Bismarck la Germania, poi Gam­betta la terza repubblica francese; dopo l'In­ghilterra non bastò quasi contro i Boeri, gli Sta­ti Uniti ebbero una flotta ed un esercito, nei quali ad ogni guerra i pensionati diventavano più numerosi dei combattenti, la Eussia perdette tutte le battaglie contro il Giappone.

L'Italia fuggì davanti all'Abissinia, ma non potè ritirarsi dall'Africa.

Il grande industrialismo aveva vinto, le gran­di nazioni non vincevano più.
VII
La nostra composizione unitaria.

La prima metà del secolo XIX fu per l'Italia una delle più belle fioriture di ingegni, una delle messi più ricche di caratteri.
La necessità sempre crescente della rivolu­zione metteva negli eletti della vita una forza di rappresentanza che le funzioni parlamentari cercarono poi d'imitare inutilmente e non rag­giungeranno mai. Ognuno di essi sentì di riassu­mere qualche bisogno, di esprimere una idea na­zionale: molti furono i grandi, moltissimi gli illustri. Come se l'Italia volesse conquistare l'am­mirazione dell'Europa per strapparle in un ap­plauso il permesso di resuscitare, profuse i pensatori e gli artisti, i martiri e gli eroi: quindi dopo la rivolta del trentuno esplose l'insurre­zione del quarantotto e scoppiò la rivoluzione de] cinquantanove.

L'epoca fu così meravigliosa che parve un miracolo e resterà una favola, ma nes­suno potè fare ancora il calcolo di tutte le forze che vi cooperarono, di tutti i sacrifici che vi con­tribuirono. Vi furono libri che valsero battaglie, battaglie che nessun libro ha saputo narrare: si udirono motti che erano poemi, si fecero poemi, dei quali nemmeno un motto fu scritto. Accanto ai grandi del pensiero si drizzarono i forti del­l'azione, le corone dell'alloro furono posposte alle ghirlande del martirio, il sangue scialacquato co­me il danaro, le parole ebbero efficacia di fatti, i fatti prontezza di parole. E il sogno colorato dalla luce di tante fantasie si solidificò come per incanto sotto lo sforzo di tutte le volontà, men­tre l'Europa guardava attonita dalle Alpi e Koma si levava trasognata sul Tevere.

Ma, appena compiuto il prodigio, tutti si guardavano in faccia e nessuno più si riconobbe; quasi tutti i caratteri piegarono e gl'ingegni de­caddero: gli eroi diventavano soldati, i martiri si trasformarono in impiegati. L'epopea finiva fatalmente alla commedia, dacché l'idea si era tradotta nel fatto e il sentimento si riabbassava verso il senso.

Era una legge della vita e della storia.

La rivoluzione italiana anziché opera di po­polo aveva trionfato per un sopruso eroico della sua minoranza aiutata da incidenze e coincidenze straniere, prima attirando nella propria orbita l'avventura del secondo impero napoleonico, poi profittando dall'antagonismo di questo col nuovo impero germanico. Ma il popolo nella massa era rimasto come inerte;  scarsi i volontari fino a non superare il numero e la fortuna di una mi­lizia cavalleresca, poche le battaglie e quasi sem­pre decise dalla preponderanza degli alleati: malgrado la putredine di tutti i governi abban­donati dall'Austria non vere insurrezioni contro di essi, nemmeno dopo la sua sconfitta sul piano lombardo; nell'impresa del mezzogiorno giovò meglio la viltà borbonica che l'eroismo garibal­dino; l'opposizione papale al comporsi dell'u­nità non ebbe fede né di odio né di amore, e si ricusò ai pericoli di una difesa contro le impa­zienze rivoluzionarie sottomettendosi piuttosto ad un protettorato francese.

Sui primi del cinquantanove Mazzini era già politicamente sorpassato, perché la sua predica­zione repubblicana imponeva al paese di essere eroico contro tiranni interni ed esterni bastando a. se stesso nella rivoluzione, ed invece l'Italia non vi era matura, e il suo spirito militare morto da gran tempo non era pronto a risorgere, e la sua miseria morale più triste ancora dell'altra, che manteneva quasi inerti città e campagne. Se la ribellione del quarantotto aveva liquidato tutto il passato, rivelando l'inanità di tutti gli schemi rivoluzionari, cosicché nel ritorno dei principi il solo risultato di tanti mali apparve nella conso­lidazione dello statuto albertino: dopo, alla ri­presa unitaria, la monarchia di Savoia fu accet­tata dalla nazione, come la formula più econo­mica di ingegno, di sangue e di danaro per con­quistare l'indipendenza e l'unità della patria. La monarchia dispensava dall'eroismo repubblicano; 3on essa e per essa si potevano ottenere alleanze di eserciti, ma bisognava destreggiarsi nell'u­miltà di guadagni, aspettare il beneplacito dei protettori nascondendo i propositi e tradendo i principi.

Cavour fu il genio di questo periodo, e com­piè dentro l'opera dell'unificazione nazionale il più stupefacente miracolo della politica nel se­colo XIX: non credeva nel popolo e sentiva tutta la debolezza storica e personale della dinastia savoiarda, quindi rinunciando alla bellezza delle forme e dei principi rivoluzionari ne inventava quotidianamente un'altra più feconda negli espe­dienti di un'azione costretta sempre a contrad­dirsi senza deviare dalla strada o perdere di vista la meta. All'impotenza della sua abilità, che i fatti spesso opprimevano, gli eroismi di Mazzini e di Garibaldi soccorsero come una integrazione, e anche questi parvero iniziative popolari, mentre erano soltanto il capolavoro improvvisato di una minoranza lirica e tragica, che superiore al paese e al suo periodo non avrebbe potuto né riassu­merlo né capitanarlo.

La rivoluzione trionfò.

Tutti i principi furono spodestati, ultimo il papa; entro l'unificazione dinastica si compose l'unità nazionale; parlamento, esercito, burocra­zia funzionavano come crogiuoli a disciogliere le centenarie ancora ostili diffidenze regionali, per le strade improvvisate come per nuove vene passò un nuovo sangue; la soggezione alla Francia imperiale, che ci faceva scontare nelle umiliazioni i benefici del suo interesse avventuriero, ci in­segnarono la subdola abilità dei nuovi affari ride­stando nei ricordi la scienza delle diplomazie al-'epoca dei comuni e dei principati; lo scetticismo, che ci aveva spesso fatto sorridere dinanzi alle congiure di Mazzini e alle scaramucce di Gari­baldi, diventò una buona qualità in tale tempo di transizione e di transazione, mentre bisognava fondere passato e futuro in un presente ancora troppo incerto e senza difesa,

Il risveglio nazionale avvenne quindi nell'in­dustrialismo, che la libertà rendeva facile: si trattava di vivere liberi lavorando per se mede­simi a preparare una grande nazione moderna, appunto perché non si era potuto fare autonoma la sua rivoluzione.

Nulla è più pronto nei popoli come negl'individui che l'oblio dei benefici e delle umiliazioni; l'Italia dimenticò.

Istinto e senno la mantennero stretta intorno alla monarchia di Savoia; l'indistruttibile perso­nalità italiana sviluppandosi nella libertà trovò ben presto i modi di nuove affermazioni per un mondo industriale, che metteva la perfezione nella media e la saggezza delle intenzioni nell'utilità immediata dei risultati; bastava quindi riaprire una a una le piccole sorgenti della vita nazionale, facendo una politica d'interessi con mi­gliori metodi di lavoro, serbandosi liberi dopo aver ricevuto la libertà in dono senza nemmeno restare in debito col donatore. Il secondo impero napoleonico era caduto, e morto nell'esilio il se­condo imperatore.

Quindi Mazzini fu dimenticato a Londra e si assegnarono una pensione al Papa e un'altra a Garibaldi. Roma, così grande nella rettorica di tutti i tempi, non era adesso che la città più im­produttiva d'Italia dopo Napoli, un centro sto­rico ma senza influenza sulla nazione, una capi­tale burocratica cui il papato soltanto dava an­cora una gloria universale. Infatti Roma non do­mina nemmeno oggi la politica delle provincie, non ha carattere, una moda, un'arte, un'ari­stocrazia, una ricchezza preponderanti. La sua grandezza è soltanto nei ricordi, la sua beltà dura nella morte: immenso quadro dell'antichità me­diterranea sfondato dagli uragani e divenuto cor­nice di un quadretto moderno,

Nei partiti un'uguale contraddizione impediva  l'allargarsi della base e il migliorare dell'opera; quello conservatore era soltanto tale contro le inutili escandescenze dei rivoluzionari,  ma più rivoluzionario di loro nella realtà cacciava prin­cipi e papa sopprimendo confini e conventi, inven­tando una legislazione laica, cancellando privi­legi   e   caratteri   regionali,   improvvisando   una nazione nella libertà.   Quindi  un   giacobinismo istintivo   ed insieme   teorico gli   faceva   spesso smarrire la misura: non aveva una vera fede mo­narchica, soffriva ancora di velleità anticlericali, tratto tratto prorompeva in impeti rivoluzionari. Poi la monarchia di Savoia era stata troppo av­venturata nella umiltà delle alleanze, nelle fre­quenze delle menzogne e delle ingratitudini; la sua invincibile verità cresceva appunto dalla so­miglianza alla nazione, la quale non volendo ne pagare né morire pel proprio riscatto, abilmente si ingegnava colle idee e coi fatti altrui. I migliori tra i monarchici l'avevano malinconicamente ac­cettata, come una necessità alla miseria spirituale d'Italia,

Invece il partito liberale sino alla fortunata presa di Roma non aveva potuto essere che una opposizione critica; la necessità di accettare la monarchia gli toglieva quasi ogni influenza sul popolo, che meno responsabile e più ingenuo ac­casava in essa le proprie insufficienze, e rendeva più lungo il tirocinio parlamentare delle sinistre rivaleggianti fra uomini ancora di congiure. La loro politica doveva quindi essere più di impa­zienze che di iniziative, di parole che di fatti; urlavano ad ogni viltà monarchica, che i ministri non avrebbero potuto impedire, mentre come de­putati sentivano che la sua causa prima stava nel fondo della nazione. Intanto qualche cosa del carattere rivoluzionario si perdeva in loro per la pratica degli affari; giacobini anch'essi o giron­dini, quasi tutti colorati ancora dai riflessi del­l'epopea garibaldina e tonanti di eloquenza maz­ziniana pur nell'oblio del maestro. Il loro pro­gramma era una democrazia teoretica: riformare, uguagliare, con una segreta invidia agli ultimi privilegi patrizi, con una ostilità impermalita verso la monarchia, con una fede rettorica nella capacità del popolo.

I repubblicani rimasti come i clericali fuori della nuova orbita politica si sentivano troppo pochi per mantenersi partito, dacché Garibaldi aveva accettata la bandiera di Vittorio Emanuele e Mazzini era morto. La loro vita era stata di sogno: con Mazzini avevano sognato un'Italia re­pubblicana cercandone la culla nelle tombe dei primi comuni, con Garibaldi avevano combattuto in un altro sogno di vittoria contro tutti i nemici e contro la monarchia stessa, come se il popolo d'Italia potesse veramente rinnovarsi in un simile sforzo: e invece il popolo aveva accettato egual­mente ogni beneficio da Pio IX e da Napoleone III, da Mazzini e da Cavour, da Garibaldi e da Bismarck, ilare nell'incoscienza della propria bassezza, superbo nella coscienza della propria resurrezione.

Questo partito di poeti doveva quindi finire nel tramonto della poesia alla più uggiosa retto­rica: Mazzini, natura lirica e tragica, non la­sciava né scuola né scolari; i seguaci erano pe­danti e i pretendenti al suo posto ombre, non figure. Uno ad uno i migliori se n'erano andati agli appelli della storia e ai richiami dell'ambi­zione; Cavour arruolò i più forti, coloro stessi che Mazzini non aveva potuto assorbire; alcuni nobili e poveri caratteri, rimasero immutati, e scomparvero nell'indifferenza del pubblico, per un giorno soltanto servendo col proprio cadavere ad un espediente teatrale di opposizione.

I socialisti apparvero dieci anni dopo la Co­mune di Parigi, francesi anch'essi nell'abito rivo­luzionario e tedeschi nell'idea di Marx; ma Pisacane, che somigliava a Proudhon come un maestro elementare ad un maestro vero, aveva già battez­zato nella morte una prima ribellione subordi­nandola alla necessità della patria ed uguaglian­dola nel carattere alle imprese di Garibaldi. Egli era però un principe cadetto ed un borghese po­vero; pochi contadini borbonici bastarono a mas­sacrare la sua banda nella campagna di Sapri senza che l'Italia domandasse nemmeno il nome del morto capitano; né oggi ancora il socialismo, divenuto il più nuovo fra i partiti, sente l'orgo­glio di affermare la propria tradizione nel nome del suo unico eroe.

Ultimi i clericali, inerti e sorpassati, non era­no nemmeno un partito, giacché perdendo il pre­dominio politico non ne avevano rimasta la co­scienza. Del popolo avevano formato una massa bruta, della borghesia una clientela d'affari, del patriziato una corte d'anticamera: la loro reli­gione rimasta poco più di una bigotteria non ave­va più né luce di fede né calore di carità; sotto­messa alla politica di principi soggetti allo stra­niero, vivevano di parassitismo acuendo nell'ozio le facoltà scettiche della critica; odiavano istin­tivamente la rivoluzione e tremavano dei rivo­luzionari senza comprenderli. Fortunatamente il clero anche peggiore non contrastò alla fortuna così meravigliosa ed incerta d'Italia; soltanto nel regno napoletano entrò non visto ad aizzare il brigantaggio stipendiato dal Papa e dai Borboni, troppo inetti entrambi per suscitare una vera guerra come già nella Vandea. Quindi Roma alzò a precetto l'astensione politica rivelando la de­bolezza del proprio principio.

Ma lentamente po­polo, borghesia e patriziato clericale furono atti­rati nell'orbita rivoluzionaria; l'Italia era fatta e niente poteva più disfarla, la vita migliorava e cangiava, bisognava lavorare ed arricchire, le energie regionali si ridestavano all'eco dei pub­blici dibattii, la coscienza nuova cominciava nel­la necessità di partecipare ai benefici prodigati dal governo. L'unità vera si formava da questo rimescolio di interessi e di caretteri, di cit'tà e di campagna, di principati ridotti a provincie, di Provincie decadute e risorte. Per quanto equivoci ancora i vantaggi delle prime libertà negli incon­venienti del primo squilibrio costavano troppo poco a tutti perché non venissero accettati; sic­come i pochi eroi erano stati i primi ad essere vinti dalla rivoluzione, il loro idealismo non ave­va più alcuna seduzione.

Le potenzialità della razza si risvegliarono presto. Se i più ostinati e ribelli del partito rivo­luzionario contrastavano ancora arrochendosi in aspre ed inutili predicazioni, se i più nobili rap­presentanti del partito liberale, quasi sgomenti della ressa, che miseria ed avarizia facevano a tutte le porte forzandone tutte le consegne per cacciare di posto precursori e vincitori, si ritira­vano malinconicamente, un'altra generazione gio­vane, impaziente, spregiudicata era già pronta a sostituirli.

La politica doveva intonare all'interesse, il regionalismo utilizzava le superstiti forze fede­rali, la morale rimaneva quella di prima, perché l'eroismo dei pochi rivoluzionari non era bastato ad alzarla. Insino alla presa di Roma il governo fu inferiore; dopo, la sproporzione colle maggiori potenze europee gli impose una preparazione co­stosa e difficile, che contrastava all'egoismo della moltitudine coll'imposizione di sempre nuovi sa­crifìci, e non permetteva ancora alcun atteggia­mento di vera indipendenza. Poi la febbre del mutare salì; ogni mutamento conteneva la pos­sibilità di altri impieghi e di altri uffici, il go­verno ammalava di elenf antiasi, la politica imper­versava nelle cabale, mentre il paese invece com­piva un miracolo inaspettato rinnovellandosl davvero, e non consacrando alla politica che le forze e gli uomini inferiori.

Nel confronto d'oggi l'Italia del '59 è già un paese lontano nella leggenda; la terra dei can­tanti e dei morti, la nazione carnevale, che gli stranieri visitavano mesti ed ironici, fra postri­boli e monumenti, è oggi uno dei più moderni e vitali paesi.  La nostra popolazione cresce così che in cinquantanni sarebbe quasi raddoppiata senza l'emigrazione, la nostra ricchezza è forse decuplicata; fronteggiammo un debito inverosi­mile,  creammo tutto,  scuole,  esercito,  marina, improvvisammo senza miniere opifìci e fabbriche accettando la sfida della concorrenza estera: le ferrovie furono alla nostra miseria una creazione forse più meravigliosa delle ferrovie americane, giacché le costruimmo senza danaro e prima an­cora che le reti stradali potessero congiungerle. Torino perdendo la capitale raddoppiò di valore economico. Roma tornando italiana risorse a ma­gnifica capitale.

Ma la nostra coscienza ideale decadde: ci am­mirammo nei risultati senza dolore per le fre­quenti viltà del loro processo, la borghesia abdicò all'orgoglio del comando, il popolo, che aveva ri­cevuto tutto in dono dalla rivoluzione, accusò tutti di parassitismo; una critica troppo facile dissolveva leggende e fatti, caratteri e superio­rità; la predicazione della pace diventò scusa al­l'ozio e alla paura; la fortuna degli abili rese così miope l'abilità che si vollero sottomettere piccoli e grandi eventi alla sola regola dei bi­lanci. Accadde quindi che le più alte funzioni fu­rono le più bassamente servite; nell'elettorato e nel parlamento la decadenza troppo rapida pro­vocò Filarità quasi di una caduta: poteva dirsi che la selezione vi si compiesse a rovescio, mentre i partiti vi si dissolvevano e i ministeri vi susse­guivano incolori ed effimeri. Infatti se industria,, commercio, agricoltura, scienze tutto si fosse rit­mato sul governo, nemmeno sarebbe stato pos­sibile la improvvisazione della ricchezza. Ma stato e governo non salgono che per la forza latente nel fondo della coscienza nazionale: alla fioritura Sella superficie basta la fortuna delle stagioni, i grandi alberi invece esprimono la potenza accu­mulata dai secoli nel terreno.

L'Italia non potè stimare la monarchia né cre­dere alla repubblica: quella era un avventuroso compromesso di tutte le forze e le insufficienze paesane, questa un ideale di poeti prima, un pre­testo di politicastri poi. Già nella retrogradazione dello sviluppo nazionale l'Italia non significava se stessa che per minoranze, dacché l'iniziativa e il primato politico europeo erano passati nella Spagna, quindi in Francia, in Inghilterra, in Austria, in Prussia. Noi ci accodammo allora servi e clienti, la rivoluzione francese ci mutò i padroni, l'impero napoleonico non volle e non potè ricostruirci. Laonde il nostro risorgimento si manifestò per eroi: congiure, insurrezioni e guerre, ogni fatto collettivo fu povero: di rim­piatto negli individui trionfò la più incantevole originalità. Così dopo la vittoria del '59 ci trovammo soli davanti a noi stessi, il passato ci
 aveva tolto ogni coscienza e il presente non po­
teva restituircela; invece la nostra razza aveva 
ammirabili qualità di resistenza e di iniziativa,
 che si esplicarono nella pratica immediata della 
modernità.
  
Sciaguratamente fallimmo la prima grande prova nell'Africa.

L'Europa, che quattro secoli or sono discen­deva dalla vecchia caravella di Cristoforo Colom­bo all'America per costringerla ad entrare nel­l'orbita della propria storia, assediò l'Africa da ogni costa per tutto il secolo XIX. Dopo le anti­che barche fenicie le prime flotte intorno al mi­sterioso continente nero erano state italiane; i pennoni di Amalfi e di Pisa, di Genova e di Ve­nezia, di Roma e di Palermo si gonfiavano super­bamente ai venti del deserto; alcuni veneziani del secolo XV offersero ad un sultano di tagliare l'istmo di Suez; miracolo di audacia allora, pro­digio di scienza poi e che avrebbe senza dubbio potuto compirsi anche allora. Mentre Colombo e Vespucci scendevano in America, Cadamosto ve­neto penetrava nel Senegal e nella Gambia, ma l'Italia già esaurita dal rinascimento non poteva seguirlo; quindi sulle sue orme proseguirono in­glesi, portoghesi, francesi sino a Napoleone e dopo Napoleone. L'Italia invece non vi mantenne che ideali relazioni: Rosellini disegnò forse le mi­gliori tavole egiziane, Bolzoni e Caviglia entra­rono delle piramidi, Servolini, un mio compa­triota, succeduto a Champollion, lo superò quasi nell'intepretazione dei geroglifici: Passalacqua portò la prima mummia a Torino, recentemente Maspero disseppeliva quella del grande Sesostri e ne leggeva l'iscrizione al mondo meravigliato. Dopo il '59 le colonie italiane a Tunisi, al Cairo
ad-Alessandria aumentarono d'importanza: qual­che cosa sollevava l'anima della nazione, un vento misterioso -la portava lungi. La febbre delle sco­perte, la passione dei viaggi si riaccendevano e l'Italia si precipitava anche essa nell'arringo. Era fatalità ed istinto, una legge della vita e della storia.

Piaggia, Antinori, Gessi risalgono il Nilo origliando e stringendo le ciglia verso il centro dell'Africa; là è il mistero, di là soffiano le ten­tazioni. Ma la gloria di sfondarlo rimase divisa fra Stanley e Pellegrino Matteucci, il mio mite ed eroico compagno di scuola. Stanley raccontò poi il viaggio con epica e superba sobrietà, Matteucci ne morì a Londra quasi senza parlare. Dopo lui altri si slanciarono indarno; Chiarini, Giulietti, Porro, Bianchi furono trucidati; Cecchi, più for­tunato sul principio, mutò l'epopea in romanzo rimanendo per cinque anni prigioniero amante della regina di Ghera: poi libero ritentò l'im­presa e vi perì abbandonato come gli altri.

Nel parlamento e nel governo infatti niente e nessuno sembrava sentire questa irresistibile e tragica attrazione del continente nero; eravamo stati battuti diplomaticamente dall'Inghilterra a Cipro, dalla Francia a Tunisi e a Tripoli: ave­vamo ricusato di cooperare nell'Egitto coll'Inghilterra dopo la rivoluzione abortita di Arabibey, mantenevamo sulla costa di Assab una minima fattoria senza nemmeno una bandiera. Ad ogni interpellanza sul massacro di un nostro eroico viaggiatore, i ministri rispondevano negando ogni solidarietà mentre nel paese saliva un fervore di poesia e di orgoglio. Si cominciava a sentire oscuramente che tutti gli sforzi millenari dell'Italia per costituirsi in nazione, il sangue del suo eroi­smo e le tragedie del suo genio, non miravano che a ridarle una fìsonomia e un valore di attrice nella storia europea: che la cooperazione della Francia e della Prussia nel nostro risorgimento -non potevano avere altro significato; che l'Italia risorta e chiusa nei propri confini come dentro una tomba sarebbe spettacolo più doloroso del­l'Italia morta. Bisogna quindi affermarsi in una impresa oltre i limiti nazionali; oramai la prepa­razione durava da trent'anni e poiché lo sforzo maggiore dell'Europa era in Africa, l'Italia non doveva mancarvi. Dopo secoli e secoli la nostra bandiera tornerebbe minacciando sui mari che l'avevano dimenticata, e non sarebbe più la ban­diera di Venezia o di Genova che avevano sco­perta l'America e salito le mura di Costantinopoli, non quella di Roma che aveva annichilito i turchi a Lepanto, ma la bandiera d'Italia sven­tolante sulle aste delle aquile romane.

Una grande ora stava per discendere sul qua­drante della storia.

Andare in Africa significava tornarci, perché l'Italia vi aveva vinto Annibale, imprigionato Giugurta, sottomessi i Tolomei, sconfitti i Saraceni, dissipati i Barbareschi: altra volta l'Italia sintetizzando l'Europa e profetandone l'avvenire si era battuta contro tutto lo sforzo d'oriente e aveva trionfato. Ma Garibaldi e Mazzini erano morti: una volgare democrazia snaturava la grandezza del loro genio e del loro carattere nelle più' miserevoli interpretazioni: non si voleva nes­suna guerra coll'Africa riconoscendole lo stesso diritto nazionale dell'Italia: si confondevano sto­ria e preistoria, si pareggiavano le loro diverse epoche e le loro contradittorie personalità. Si di­menticava che se i più civili non avessero sempre conquistato i più barbari la civiltà non sarebbe mai  cresciuta. 

Nutrita dal  principio  di  egua-glianza morale e politica, la democrazia non com­prendeva che tale alta verità diventava falsa fuori del proprio periodo, e che la storia anziché consacrare l'intangibilità di alcun popolo di­strusse sempre quelli che non potevano sottomét­tersi al suo disegno.

Nell'impero d'Africa, come per la massima prova passarono quindi governo, partiti e classi: la monarchia vi perdette la propria ragione idea­le, giacché il paese l'aveva nella rivoluzione pre­ferita alla repubblica soltanto per una più effi­cace virtù davanti ai problemi di politica estera e per il suo stesso difetto di mantenere l'estrema punta del potere esecutivo al disopra delle com­petizioni elettorali. Una monarchia incapace di rendere alla nazione simili servigi può durarvi ancora, ma non vi è più vivente. Nel parlamento la destra non vi sentì il bisogno di riscatto dalle umiliazioni di Villafranca e di Aspromonte, dì Custoza e di Mentana: la sinistra non vi indo­vinò la modernità lontana, come già Garibaldi che per aiutare l'Italia era andato a costituirle un esercito e una gloria a Montevideo; i repub­blicani di fronte all'insufficienza monarchica ac­cusarono scioccamente la monarchia di aver vo­luto tale conquista, il Senato non si alzò sulla Camera ad ammonire superbo, il popolo solo ur­lava vendetta ad ogni eco di sconfitta, e si sa­rebbe forse scagliato alla guerra nella prima feb­bre del sangue se i caporali di tutti i partiti non lo avessero ingannando frenato.

Il disastro spirituale era enorme. Se ad Aspro­monte la monarchia incapace di risolvere il pro­blema di Roma doveva contenderne l'onore a Garibaldi per evitare una collisione col secondo impero napoleonico, e nel '66 la sconfitta di Cu­stoza si poteva spiegare coll'inferiorità del nostro esercito composto di reclute ancora inconsapevoli e di residui borbonici e granducali contro la po­tenza dell'Austria non abbattuta nemmeno da Napoleone I, dopo trent'anni di preparazione, con Roma capitale, l'insufficienza dimostrata in Africa provava ancora una volta la troppa for­tuna del nostro risorgimento nazionale. Anche laggiù, nel deserto, qualcuno dei nostri capitani e molti soldati erano morti eroicamente, nei libri e pei giornali alcune voci eloquenti di collera e di dolore si erano alzate a rimproverare, ma il popolo migliore del proprio governo non lo era abbastanza per sospingerlo, e il governo aveva indietreggiato dinanzi alla inevitabilità del peri­colo senza coscienza della grande ora. Avevamo superata la crisi mortale dei debiti, ma ci man­cava ancora quell'orgoglio che impone ad un popolo di arrischiare la testa piuttosto che ab­bassarla; giudicammo avventura ogni impresa lontana, retorica imperiale ogni necessità d'im­pero, si dimenticò che la grande politica è un inganno del genio al buon senso della folla e all'avarizia del suo interesse per condurla ove deve e non saprebbe andare.

Ma dall'Africa non potevamo più tornare: in­torno a Vittorio Emanuele II le falangi eroiche di Cavour, di Mazzini, di Garibaldi erano bastate a integrare la incapacità della dinastia e della nazione; Umberto I, re dell'Italia moderna, non vi trovò né un istinto, né una coscienza per la grande prova.

La borghesia non regnava, il popolo comin­ciava già a sollevarsi contro di essa.
VIII
L'affermazione.

Il secolo XX si è affermato colla grande cro­ciata bianca d'Europa contro la China e la suc­cessiva vittoria de1 Giappone sulla Russia: evi­dentemente l'Asia sarà per lungo tempo il pro­blema più importante come l'Africa lo fu nel secolo scorso e per gli altri l'America: fors'anche l'integrazione delle nazionalità europee, poiché  l'Europa è sempre il centro ideale del mondo, non ebbe più alto scopo. La misura del valore in ogni popolo è data soltanto dalla cooperazione ai problemi che lo superano, quindi nella sua po­litica estera si esprime la sua maggiore potenza di primato e di gloria.

E poiché in ogni epoca della storia prepara­zione ed azione si equilibrano, il secolo XX sarà un grande secolo.

A risollevare il continente asiatico nessuna singolare forza di popolo poteva bastare: esso era troppo vasto, antico, vario ed inerte perché il braccio di un eroe o l'anima di una gente vi fos­sero valida leva: dall'Asia crebbe e si diffuse per razze l'umanità, dall'Asia tutto incominciò e sul suo suolo eternamente fecondo nulla finì. Cuna delle prime civiltà essa doveva poi rimanere co­me segregata dalle loro stazioni più luminose nella lontananza dei secoli e delle genti, sino a velarsi nel mito e a chiudersi nel mistero': la sua antichità superava ogni memoria di tradizioni e di monumenti, la sua ampiezza non potè mai es­sere riempita, la sua varietà pare anche adesso quella di una prima matrice, il suo peso stancò tutti i suoi popoli e prostrò le forze di tutti gl'in­vasori.  Senza l'Asia la storia europea diventa inintelligibile; guerre ed invasioni mantennero il contatto fra oriente ed occidente, le colonie furono come fari accesi nella notte, le ultime conquiste dell'Olanda, del Portogallo, della Fran­cia e dell'Inghilterra come accampamenti sui confini dell'immenso nemico. 

Ma nessuna na­zione europea era più abbastanza giovine e nu­merosa per poter all'infuori della Russia eserci­tare sul continente giallo una immediata influ­enza di razza; nelle Indie l'Inghilterra sostitui­tasi agli ultimi conquistatori non li superò che nella abilità degli affari, ma essa è appena un'iso­la remota, dalla quale un piccolo popolo di gran­di mercanti può soltanto diffondere merci, idee, danaro. Il suo commercio e la sua industria sono universali solo superficialmente: trovano vie è le dilatano, scovano le ricchezze e le moltiplicano, portano seco una civiltà incomunicabile nel ca­rattere nazionale e quasi impersonale nell'azione. Il numero del popolo inglese è troppo scarso, e il suo spirito troppo individuato per avere an­cora una vera forza di attrazione, quella stra­potenza di razza, che coagula, assorbe, e fonde. Quindi l'Inghilterra, come già i Tartari inva­dendo la China,  rimase essa medesima prigio­niera dentro la grandezza delle Indie, immensa fattoria, nella quale i padroni debbono conten­tarsi della debolezza dei servi, senza pretendere ad un comando distruttore o creatore.

La Russia invece era da tempo l'ultima razza vergine in Europa: la grande civiltà antica fu greco-romana, poi dalla lunga incubazione me­dioevale crebbe nella razza dei germani, giacché le fioriture neolatine non ebbero dentro se stesse una individualità abbastanza capace di conquista. Gl'inglesi prevalsero nell'azione, i tedeschi nel pensiero: quelli da lungi ripeterono i romani, questi i greci: il periodo di entrambi non fu lungo, nell'opera caratteristica come ai secoli di Pericle e di Augusto, perché nel nostro mondo una mistura sempre più densa e profonda affret­tava l'avvento dell'unità.
Il problema europeo una volta dibattuto sul Reno, sul Po, sul Danubio, ribolle ora alla foce di quest'ultimo e sulle sponde del Mar Nero, che dopo essere stato uno stagno turco sta forse per diventare un lago russo, se il panslavismo nella sua incalcolabile forza di espansione, trionfando delle opposizioni austriache ed inglesi, offra alle popolazioni slave del sud più pronta indipen­denza dalla Porta.

Quindi l'avvenire della storia europea non potrà avere che dalla Slavia una terza originalità.
Un immenso popolo disseminato sulla metà del nostro continente sta per aprirvi un periodo di civiltà pari al latino e al germanico. Il suo numero enorme è tuttavia piccolo per il suo ter­ritorio: la sua orbita abbraccia gran parte del­l'Asia e si spiega dal mare di Bering al mare gla­ciale sino al Baltico, penetra nella Scandinavia e nella Prussia, dal Mar Nero tende al Mediter­raneo e da questo all'Adriatico e all'Oceano In­diano. Le avanguardie slave vigilano nella Dal­mazia, sono accampate nel cuore dell'Asia: gli eserciti russi corsero già vittoriosi tutta l'Eu­ropa da Parigi a Costantinopoli: l'impero degli czar ha l'estensione e la varietà di un mondo. Nella sua spaventevole unità governativa pre­senta ancora la più salda compattezza attraverso le antitesi di tutte le forme della vita primitiva colla moderna: religione e politica vi sono fuse ria secoli nello Czar pontefice e imperatore, che regna, governa, giudica, rivela a nome di Dio. La forza dell'impero è al di là di ogni calcolo come l'autorità del suo governo al di sopra e al disotto di ogni critica, nessuna guerra può vin­cerlo, nessuna rivoluzione rovesciarlo. Entrato da poco più di un secolo nella storia europea ne domina già le vicende; ha indagato la rivoluzione francese, cancellato il primo impero napoleonico, organizzata nella santa Alleanza la reazione mo­narchica liberata la Grecia, sottratti i Princi­pati danubiani alla Turchia: colla voracità del barbari divora tutti i prodotti della nostra ci­viltà per meglio assimilarsene la sostanza:  ha già una scienza, una letteratura,  una musica, una politica,  della quale i disegni sorpassano tutte le complicazioni diplomatiche degli  altri governi.  Con un orgoglio intrattabile minaccia simultaneamente Asia ed Europa: il suo sogno è di espandersi dall'India all'Illiria; la sua mar­cia attraversa regioni di tutti i climi e di tutte le storie, lenta, calcolatrice, senza mai indietreg­giare, assodando la conquista prima di aumen­tarla, aiutandosi egualmente colla barbarie ser­vile della propria moltitudine e colla raffinata cultura del proprio governo.  Nessuna tirannia forse è più terribile e meno capricciosa della sua, che ubbidisce ancora più fanaticamente del po­polo all'idea di un mondo russo.

Di fronte al suo impero quello austriaco pare una piccola confusione burocratica e quello della Germania un accampamento militare; entrambi debbono destreggiarsi nella politica. La Russia sa di non poter essere mutata da alcuna guerra.
La terribilità della sua forza si rivela tratto tratto nelle esplosioni dei suoi rivoluzionari, che in un sogno di occidente vorrebbero trarla dalla propria base; ma il panslavismo è ancora adesso la più larga, profonda idea nazionale della storia. Se l'Europa avrà una terza civiltà, probabil­mente l'ultima, giacche le epoche debbono sempre trarre dal fondo dei popoli la propria originalità e nell'Europa soltanto la Russia è ancora origi­nale, questa civiltà sarà slava o non sarà.

Noi la­tini ci  esprimiamo  già per individui  da  gran tempo e nella nostra coscienza tutti gli strati fu­rono sommossi, e sulla nostra superficie tutti i lineamenti si confusero in una fisonomia incerta di secoli e di razze; gl'inglesi ancora più indivi­dualisti  di noi si consumano nell'opera e non possono rinnovarsi nel numero, nella fibra, nel­l'idea.  I  tedeschi nel  secolo scorso  diedero  al mondo moderno la sua sintesi ideale oltre i con­fini delle lingue e i limiti delle religioni; Goethe, Beethoven, Hegel, ecco il grande ternario germa­nico;  Bismarck,  Moltke,  Marx,  ecco la triade prussiana:   Bismarck  che concepisce  l'impero, Moltke che lo fonda nella vittoria, Marx che lo dissolve in una negazione universale.

Nella recente guerra col Giappone la Russia era l'ultimo e massimo campione d'Europa: do­minava già tutto il nord dell'Asia, vigilava da Porto. Arthur e da Vladivostok sul mare, si avanzava come un'alluvione, colonizzava roma­namente dando un'impronta alla terra ed assor­bendone l'anima. Davanti ad essa la China non aveva che la resistenza delle cose morte: poi la Russia era discesa verso la Persia, toccava già all'Afganistan; essa sola aveva un popolo agri­colo ancora vibrante nella passione dei nomadi e così innamorato della terra da cercarvi sempre nuove regioni e da riempirle: essa sola sulla fine del secolo XIX possedeva ancora l'unità bar­barica del comando necessaria alle lunghe im­prese, e quella ingenuità fors'anco più barbara nelle masse guidate dall'istinto e sollevate dal­l'obbedienza.

La guerra fu combattuta per primato di con­quista e di influenza sul continente asiatico; il campione bianco rappresentava tutta la civiltà europea e l'originalità del suo estremo popolo; il piccolo campione giallo era già il primo risorto della sua immensa razza, provando che la immo­bilità ne era solo apparente, e che l'antica madre poteva ancora essere fecondata. Il trionfo giap­ponese ha rivelato con una serie ininterrotta di vittorie, che nella civiltà bianca la coscienza è già inferiore all'intelletto, e l'unità ideale della storia non basta più a dominarvi l'antagonismo delle nazioni e a sollevare l'anima delle genti. Infatti nessuno volle sentire che la sconfitta russa era un'umiliazione europea, giacché nessun altro popolo vi avrebbe fatto una prova migliore, men­tre tale prova inevitabile ricadeva su tutti per solidarietà di razza.

Il Giappone è adesso il più alto protettore asiatico, la Russia invece dal disastro della po­tenza e della gloria imperiale trarrà forse un ir­resistibile motivo di rinnovamento democratico, che liberi le magnifiche originalità della sua na­tura, ripreparandole a un non lontano trionfo. Certamente lo czarismo non potrà esservi sosti­tuito, né la democrazia svolgersi colle forme e col ritmo d'occidente, ma qualche gran cosa matura in quest'ultimo impero, il più vasto della storia.

La sua disfatta dopo quella della Spagna a Cuba e dell'Inghilterra coi Boeri ai quali finì col prevalere soltanto perché il loro numero infe­riore a quello di una mediocre città si era consu­mato nella guerra; la disastrosa ritirata dell'Ita­lia davanti al Negus d'Abissinia, le umili sotto­missioni della Francia a qualunque minaccia. dinanzi ad ogni pericolo; la viltà della Grecia insorta per Creta e caduta subito alle ginocchia del primo reggimento turco, la ridicola vittoria degli Stati Uniti contro la Spagna che non si bat­teva più, e contro il piccolo Aguinaldo, avven­turiero e bandito, non vinto ma comprato a tra­dimento rivelano che Fu omo civile non guarda più come una volta alteramente la faccia della morte.

Invece la vertigine degli armamenti aggira e precipita ogni paese, la pace armata costa annual­mente al mondo il doppio di qualunque guerra; ma non vi è quasi più spirito militare e tuttavia non sembra possibile concludere che così lunga-vasta unanime preparazione debba riuscire alla chiarità di un disinganno, che proclama il di­sarmo universale. La vita e la storia anziché in­gannarsi sul mezzo e sul fine uguagliarono sem­pre quello a questo, lasciando talvolta indovinare nello sforzo della preparazione l'importanza del risultato. Gli Stati Uniti geograficamente al co­perto d'ogni pericolo hanno proclamata la ne­cessità di un esercito e di un'armata, l'Inghil­terra sta per assoggettarsi alla coscrizione, nessuna nazione osa nonché disarmare credere alla sufficienza delle vecchie armi: ma la preoccupa­zione di tutti è sul mare.

Ciò annunzia che la lotta suprema avverrà forse lungi nei continenti inferiori, sui quali i popoli prevalenti saranno quelli di una più ori­ginale personalità: fors'anco tutta la nostra vita economica dipenderà ben presto dai contraccolpi della nostra azione all'estero, più probabilmente ancora ogni vita ideale non avrà altra ampiezza che quella conquistata dalla forza della volontà.
Nel passato l'individuo era sostenuto e pro­tetto dai gruppi sociali, di lui più antichi, se non immutabili quasi immobili. La stratificazione delle classi, l'antagonismo delle patrie, l'inimi­cizia delle religioni, la precisione delle idee co­muni, l'onnipotenza delle leggi garantivano la vita pur limitandone lo sviluppo.

Oggi la libertà disciolse gli ultimi vincoli e rimise l'uomo dinanzi al problema di se stesso. Nulla è cancellato né si cancellerà nella sua co­scienza, ma tutto vi ondeggia: la sua responsa­bilità d'individuo è incalcolabilmente maggiore: può mutare tutti i paesi sottrarsi a tutti gli ob­blighi, diventare impersonale nella rinunzia a tutte le cittadinanze; ovunque lo stesso danaro, la stessa libertà, lo stesso codice gli garantiscono la stessa vita; il suo egoismo d'incredulo, di no­made, senza patria, senza famiglia,  senza Dio non ha più limiti esteriori. Gli è permesso di profittare di tutto senza dover nulla a nessuno. Però la sua responsabilità non fu mai più gra­ve, né la sua personalità ebbe un bisogno più intenso di vincoli ideali. Ridotto ad un atomo come nella concezione del Contratto Sociale l'in­dividuo vanisce; disciolto dalla razza, dalle tradi­zioni della sua gente, diviene inintelligibile a se stesso; libero dalle coercizioni delle leggi deve imporne altre a se medesimo e sentire nella pro­pria vita quella del proprio popolo, amando nella sua passione, innalzandosi nella sua fede,  so­gnando nella sua speranza. Solo, non vivrebbe né fasicamente, né spiritualmente, perché le neces­sità dello spirito sono più profonde ancora che non quelle del corpo. Adesso la sovranità eletto­rale facendo di ogni uomo un legislatore lo sol­leva in un'idea e in una coscienza comune.

Cittadino e soldato gli è consentito di abdicare il di­ritto e di gittarne il dovere, ma dopo sarà uno straniero parassita dappertutto e giacché lo straniero spirituale è un intruso e il parassita una malattia, verrà respinto ad ogni istante in se stesso, condannato a riempire della propria om­bra la propria solitudine. Vi è invece dentro ognuno di noi una terra, che s'illumina anche di notte e fiorisce in tutte le stagioni, quella dove seppellimmo nostro padre e che bagnammo bam­bini delle nostre prime lagrime. Si può esprimere lo stesso pensiero in tutte le lingue, come si pos­sono adattare tutte le bare al medesimo cada­vere, ma una parola sola è vivente dentro di noi, nella profondità della razza e può solo significare tutta la nostra anima rivelandone l'individuale secreto nel tremito di un accento, nello squillo di una vocale.

Qualcuno disse già che nel mondo antico l'uo­mo era triplo, individuo, famiglia, patria, e che nel mondo moderno sarà duplice soltanto, indi­viduo e umanità, l'atomo e la massa, lo spirito singolo e l'universale.

Ma non può essere vero.

L'individualità nuda è un'ipotesi falsa, l'u­manità identica sarebbe l'umanità vuota.

L'individuo invece non è tale che nella unità delle proprie antitesi; sopprimete in lui il tem­peramento della famiglia, e la sua originalità si annebbia: tutta la differenza fra il mondo an­tico e il moderno sarà soltanto in questo, che al­lora qualità e funzioni native erano come solidi­ficate esteriormente e adesso ridiventano ideali, senza coercizione, quindi pili forti e più belle.

Ubbidire alla legge, che sentiamo dentro di noi e possiamo formulare contro il nostro difetto, è il più alto grado della libertà; appartiene ad un gruppo per una intima, irrefutabile coscienza di rapporti primitivi e per la necessità di una
cooperazione vitale, è un attributo della regalità. Il re era primo fra tutti, perché solo significava il loro passato e il loro avvenire identificando il proprio interesse con quello di una gente.

L'affermazione ideale, che dovrà costituire in falange cavalleresca senza capitano e senza ban­diera la nuova aristocrazia dispersa in tutti i gruppi sociali,  sarà quindi una parola eterna, vera ieri come domani, l'affermazione che vita e storia non possono essere mutate nell'essenza, ma debbono sempre nobilitarsi nelle forme: che la vita è tragedia e la storia poema; nell'una l'in­dividuo soccombe davanti a se stesso, nell'altro s'immola alla continuità della propria gente. Bi­sogna affermare che la libertà non è che la co­scienza della necessità, e come la scienza eman­cipa la natura dalle superstizioni rilevando le sue leggi immutabili per preci e per bestemmie, così la libertà emancipa lo spirito nella sottomissione alle leggi morali e intellettuali.

Bisogna affer­mare che l'amore è motivo della generazione e gli sposi debbono sparire nei genitori, sacrifican­dosi alla devozione pei figli; bisogna affermare che tutto quanto forma il nostro spirito è un le­gato della storia per le generazioni future, quindi il nostro interesse nel presente soltanto un'eco del passato, che ridiventerà voce nell'avvenire. Ogni cooperazione umana aumenta di responsa­bilità crescendo di importanza, giacché la superio­rità non è che il diritto di soffrire più in alto, pensando per quelli che non pensano, amando per quelli che non amano, lavorando per quelli che non lo possono.

La grandezza dell'individuo si misura alla quantità delle anime, che può assorbire e signi­ficare: nessun individuo ha niente da dire finché parla di se stesso.

Se la vita e la storia avessero sbagliato fino a ieri, non potremmo conoscerne l'errore, perché la vita e la storia fummo noi stessi e siamo come fummo: il progresso perfeziona non con­traddice, le verità si rivelano non s'inventano. Le nostre ultime religioni non dicono nulla più rnelle prime a chi sappia interrogare il passato, ma lo dicono meglio; le recenti scoperte della scienza, che ci sembrano così abbacinati, balena­rono come intuizioni nella mente dei primi pen­satori; i più vasti sistemi della filosofia si espres­sero già per proverbi e per dogmi. Dovunque vada l'umanità l'individuo vi è come la goccia nel­l'oceano, non può uscirne e ne sente tutte le vi­brazioni: è libero dentro le sue correnti, s'in­nalza nei suol vapori, si perde assorbito dalla terra eternamente in gestazione.

Adesso bisogna affermare che le moltitudini emancipate prima ancora di essere libere hanno bisogno di vedere in una aristocrazia morale ed intellettuale la figurazione della propria vita per intenderla, e che nella libertà nessuno può redi­mere un altro. La rendenzione invece è dentro tutti, in alto, nel cuore che si sacrifica, nella men­te che crea.

La sovranità popolare sarà più falsa e dolo­rosa di ogni passata tirannide, se l'elettore non affermi contro se stesso che il suo diritto è vero soltanto nella verità della coscienza.

Per noi italiani la prima grande affermazione
 sarà questa: che la nostra rivoluzione non trion­
fò per la nostra virtù di popolo, e che la sua
f ortuna c'impone addesso di fare un'Italia
grande.