Volume III
LIBRO SETTIMO
LA RIVOLUZIONE UNITARIA
Capitolo Primo
La grande vigilia
Esaurimento della reazione.
Le condizioni della politica generale italiana al finire dell'anno
1857 non avevano mutato.
Se la diffusione sempre più rapida delle idee liberali
accresceva il fermento dell'insubordinazione contro i governi
reazionari, non bastava ancora a schiarire nella coscienza delle
masse l'idea della rivoluzione, infiammandovi le necessarie
passioni. Si accettava l'egemonia del Piemonte, ma non si vedeva
modo a disfarsi di tanti principi e dell'Austria: il mazzinianismo
decresceva senza che la Società Nazionale capitanata dal La
Farina potesse sostituirlo.
Nessun segno di vita politica appariva nei governi reazionari: solo
qualche volgo nelle campagne, o qualche frazione di borghesi intenti
a razzolare guadagni tra le immondizie delle pubbliche
amministrazioni, o preti fanatici di reazione inquisitoriale li
sostenevano ancora.
A Napoli re Ferdinando, sbigottito dall'attentato di Agesilao Milano
e dall'incendio della polveriera del Molo e della fregata Carlo III,
si era rinchiuso nel magnifico palazzo di Caserta, abbandonando il
governo alla ferocia della polizia: quindi la tragica impresa di
Pisacane venne a moltiplicargli i terrori e a provocare nuove
rappresaglie contro i liberali, mentre una difficile contenzione
diplomatica si protraeva da quasi un anno col Piemonte per la
restituzione del Cagliari sequestrato dalle navi borboniche. I
terremoti desolavano le provincie; la Sicilia dopo il moto infelice
del Bentivegna dava ancora qualche crollo; le diplomazie dopo il
Congresso di Parigi non restavano dal reclamare a favore
degl'illustri prigionieri politici, così che il governo per
non inimicarsi anche l'opinione delle Cancellerie dovette risolversi
a mutare nel bando perpetuo la pena ad ottantotto detenuti. Ma anche
questo cangiavasi per arbitraria determinazione dei ministri in una
deportazione nell'America settentrionale: fortunatamente il capitano
della nave americana che li deportava, minacciato di processo dagli
esuli, li scaricò in Irlanda, ove il governo inglese fu loro
largo di soccorsi. Re Ferdinando nel giorno stesso della loro grazia
commetteva ad un nuovo consiglio di guerra il giudizio degli
attentati contro la sicurezza interna dello stato. Fu questo
l'ultimo decreto del tiranno: le sue estreme parole, fra gli spasimi
di una tarda cancrena, poco prima della guerra franco-sarda contro
l'Austria, parvero al tempo stesso una profezia e una confessione,
giacchè, come di Giuliano l'Apostata, si narra esclamasse
disperatamente: hanno vinto la causa!
Con eguale presentimento di sconfitta Pio IX, ubbidendo ai
suggerimenti del cardinale Antonelli, tentava un viaggio nei propri
dominî per rialzarvi col fascino religioso della propria
presenza il prestigio della caduta autorità. Così il
pontefice intendeva rispondere con una serie di feste ufficiali al
triste quadro del proprio governo, esibito da Cavour al congresso di
Parigi. Le campagne se ne commossero e corsero esultanti ad
inginocchiarsi dinanzi al demiurgo, ma le città rimasero
fredde. Sciaguratamente il partito moderato di Bologna, di Ravenna e
più tardi di Roma stessa, tolse valore a quella freddezza col
presentare al papa indirizzi politici, nei quali, invocando con
incorreggibile ingenuità le solite riforme, veniva a
riconoscere la sovranità pontificia. Tra i firmatari di
questi indirizzi, che avrebbero voluto essere di protesta ed invece
erano di sudditanza, fu pure Marco Minghetti.
Dalle Romagne passando nella Toscana, Pio IX, benchè
sollecitato vivamente dal clero, non seppe abbastanza adoprarsi per
ottenere dal granduca l'abbandono delle ultime leggi leopoldine: i
ministri di questo ricalcitrarono a tale suprema concessione, che
avrebbe reso la Toscana non meno soggetta alla Santa Sede che
all'Austria. Infatti sino allora tutta la politica del granduca era
stata di sottomissione così incondizionata all'imperatore da
ricusare persino ambasciatore sardo il conte Antonio Casati,
perchè figlio di un fuoruscito lombardo. E il Piemonte aveva
sopportato lo sfregio. Più piccolo e peggiore il duca di
Modena, resistendo alle molte pressioni diplomatiche provocate dal
conte di Cavour, cui la profluvie degli emigrati sfuggenti ai
governi della penisola cominciava a procurare gravi imbarazzi nella
politica interna, mantenne il Wiederkehrn nel Comando di Carrara.
Quest'ultima reazione superava di crudeltà ogni altra,
giacchè il truce soldato vi poteva giudicare arbitrariamente
di qualunque crimine, applicando senza appello la pena capitale
eseguibile ventiquattro ore dopo la sentenza anche per solo reato di
ritenzione d'armi, persino su minorenni e per delitti anteriori allo
stato d'assedio.
La duchessa di Parma con logica femminile aveva riassunto tutte le
leggi in quella stataria.
Invece nel Lombardo-Veneto il rigore tirannico e poliziesco scemava.
La cancelleria imperiale, avvisando lo scacco sofferto al Congresso
di Parigi e l'invadente influenza del Piemonte, dopo aver revocato i
sequestri sui beni dei fuorusciti, pensò destramente di
giovarsi colle superstiti idee federaliste contro il pericolo
dell'unificazione piemontese. Quindi nominò vicerè
l'arciduca Massimiliano, gentile ed onesto cavaliere, lasciando
intravedere la lusinga di una costituzione del Lombardo-Veneto in
regno separato sotto l'alta sovranità dell'imperatore. Il
nuovo principe sarebbe così stato l'unica virtù di
questa cattiva idea. Molti però del partito moderato, ai
quali la tradizione servile ed un falso orgoglio municipale
toglievano di comprendere la verità dell'idea nazionale tanto
da non fare differenza fra una conquista piemontese e una
semi-autonomia austriaca, aderirono al disegno come Cesare
Cantù: alcuni di essi giunsero a mandare legati presso il
conte di Cavour per convincerlo a dimettere ogni altra idea sul
Lombardo-Veneto, che sarebbe stato felicissimo sotto Massimiliano
d'Asburgo, re o vicerè indipendente. Però il popolo
proseguì nell'ostilità sdegnosamente passiva ed
irreconciliabile coll'Austria, mentre un gruppo di publicisti
capitanati da Carlo Tenca sosteneva nel giornale Il Crepuscolo i
principii dell'indipendenza e della nazionalità.
Tutto il buon volere dell'arciduca, ricondottosi a Vienna per
carpire al sospettoso imperatore qualche altra concessione politica,
si franse contro il sentimento patriottico del popolo, che, pure
riconoscendogli il merito delle intenzioni, seguitò a
cogliere tutte le occasioni per esprimere il proprio odio alla
tirannia straniera.
D'altronde la vicinanza del Piemonte alimentava troppe speranze.
Se le cospirazioni, specialmente dopo gli ultimi insuccessi, non
attiravano più che giovani inesperti o veterani indomabili,
un'altra maggiore lusinga di guerra veniva dal Piemonte, che,
malgrado l'esiguità del proprio stato, ingrossava sempre il
bilancio militare. Si attendevano alleanze, si guardava alla
Francia. L'ultimo attentato di Felice Orsini contro Napoleone III
scatenò una fiera tempesta: i repubblicani applaudirono al
forte regicida: i moderati imprecarono al settario, che per
vendicare la omai lontana offesa alla repubblica romana aveva quasi
tolto all'Italia l'unico possibile alleato. Nella politica estera
del conte di Cavour si stringevano tutti i nodi dell'aggrovigliata
politica nazionale. Intanto per naturale reazione al temperarsi del
rigore austriaco nel Lombardo-Veneto s'inasprirono i rapporti fra i
due governi di Vienna e di Torino.
Ultime difficoltà del Piemonte.
La stampa torinese sbertava le nuove benignità imperiali; i
diari governativi di Milano e di Venezia vilipendevano stato e
dinastia sarda. La ragione stava nello scontro di due idee politiche
implacabilmente nemiche e costrette a servirsi di un medesimo
disegno. Così il conte di Cavour, nella contenzione
diplomatica col conte di Buol per reciproci lagni di contumelie
suggerite o permesse ai propri giornali, potè ancora avere il
sopravvento; mentre, per scusarsi del monumento offerto dai milanesi
ai reduci della Crimea, nel medesimo giorno dell'ingresso
dell'imperatore Francesco Giuseppe a Milano, dovette rigettarne la
responsabilità sul municipio di Torino, cui il dono era
mandato e proibire che sopra vi si mettesse «alcuna
iscrizione, dalla quale potesse risultare che quel monumento era un
dono d'Italiani sudditi dell'Austria». Nullameno le relazioni
diplomatiche furono troncate fra i due governi. La guerra pareva
imminente, quando la congiura di Felice Orsini venne forse ad
affrettarla. Questo ardente e formidabile cospiratore, dopo la
più romanzesca vita di avventure politiche e militari e un
ultimo dissidio con Mazzini, volle con bombe da lui stesso inventate
tentare l'eccidio di Napoleone III a postuma vendetta della
republica romana, e a fomento di nuova republica francese.
L'attentato al solito abortì (14 gennaio 1858), massacrando
un numero veramente eccessivo di innocenti. Napoleone, forse ancora
più irritato che atterrito, stabilì per tutta la
Francia lo stato d'assedio, dividendola in cinque grandi
maresciallati; insistette a tutti i gabinetti per concordare una
legge internazionale contro i settari; reclamò con burbanza
dall'Inghilterra, ospite antica di tutti i fuorusciti,
l'estradizione di Mazzini, di Ledru-Rollin, di Kossuth e di Blanc.
L'Inghilterra rispose sdegnosamente col rovesciare il ministero
Palmerston chiaritosi favorevole a tali pretensioni: il Piemonte,
anche più vessato dell'Inghilterra, dovette cedere
destreggiandosi.
Forse nessun momento della sua storia fu politicamente e
diplomaticamente più difficile. Tutta la politica cavouriana,
intesa da quasi otto anni alla preparazione di una riscossa
nazionale mercè un'alleanza francese, si trovava compromessa:
disgustare Napoleone III era un perdere ogni speranza; acconsentire
alle sue pretese un venir meno alla propria autonomia. L'imperatore
esigeva la soppressione del giornale mazziniano L'Italia del Popolo,
la proibizione ai fuorusciti di scrivere nelle effemeridi politiche,
il giudizio pei reati di stampa contro sovrani stranieri sottratto
ai giurati e attribuito ai giudici senza nemmeno richiesta della
parte offesa, e l'espulsione dal regno degli esuli republicani.
Cavour resistè. I clericali vincitori alle ultime elezioni lo
urgevano con recriminazioni reazionarie; i radicali lo insultavano
per avere con una politica servile perduta la causa italiana e
condotto il Piemonte alla soggezione francese; l'Austria alla testa
di tutti i governi italiani denunciava Torino per un covo di
settari; i successi della guerra di Crimea e del Congresso di Parigi
tornavano in nulla. Ma il suo spirito agile raddoppiò di
elasticità: accusò tutti i governi reazionari italiani
di moltiplicare le espulsioni politiche dei loro sudditi per creare
imbarazzi al Piemonte; ai clericali rispose facendo stampare le
lettere diplomatiche di Giuseppe de Maistre, nelle quali il
terribile papista profetizzava alla Sardegna la necessità di
combattere l'Austria e di guidare in Italia una rivoluzione
nazionale; con fine lentezza tenne a bada il gabinetto francese,
trattando colla diplomazia privata dell'imperatore, cui
riuscì ad ammansire; ricusò di sopprimere L'Italia del
Popolo e seppe ucciderla colla persecuzione abusando della
condiscendenza dei magistrati, giacchè dei centocinquanta
sequestri subìti dal giornale quelli giudicati dai giurati
conclusero sempre all'assolutoria, mentre tutti gli altri esauriti
dai giudici finirono in condanne; con una legge De Foresta restrinse
la libertà di stampa e largheggiò di pene contro
coloro, che attaccassero i governi stranieri o elogiassero anche
storicamente fatti o teoriche di regicidio; al Villamarina legato
sardo a Parigi scrisse con ammirabile nobiltà di resistere a
tutte le pressioni imperiali, perchè Vittorio Emanuele
sarebbe pronto piuttosto a perdere la corona andando ramingo per le
Americhe che a tradire l'autonomia del proprio stato o a menomarne
l'indipendenza. Poi nella seduta del 16 aprile (1858), difendendo la
nuova legge sulla stampa, accusò con terribile abilità
di menzogna tutto il partito mazziniano di aver sempre sostenuto la
teorica dell'assassinio politico e di macchinare in quei giorni
stessi un complotto contro la vita di Vittorio Emanuele.
Quest'ultima assurda calunnia finiva di esautorare moralmente il
partito republicano.
Tutte le ire e le recriminazioni di Napoleone III contro i
rivoluzionari non valsero questa denunzia contro di essi del massimo
ministro rivoluzionario italiano, che ligio alla costituzione aveva
pure osato di arrischiare ogni interesse della propria politica per
resistergli. La publica opinione nazionale ne fu scossa: Mazzini in
una lettera apologetica ribattè indarno l'atroce accusa,
giacchè poco dopo due altre lettere di Felice Orsini
all'imperatore prima di salire il patibolo, e da questi licenziate
alla stampa, venivano a riconfermare nel volgo la medesima sinistra
impressione. In esse il fortissimo ribelle, còlto da
improvviso pentimento, scongiurava i rivoluzionari dal sistema
dell'assassinio politico, ed affidava con fatidico voto
all'imperatore la missione di liberare l'Italia.
Dopo l'accusa di Manin, la denuncia di Cavour, la confessione di
Orsini, fu quasi perduto ogni credito morale pel partito
republicano. Tutta la rivoluzione passava nel campo monarchico: la
tradizione regia aveva vinto.
Le simpatie guadagnate da Cavour nei maggiori governi europei gli
derivavano dalla sua guerra implacabile al partito rivoluzionario.
Nullameno nessuna alleanza era ancora stretta. La lunga e disastrosa
preparazione minacciava di esaurire il piccolo stato: in parlamento,
nelle ultime discussioni pel prestito dei quaranta milioni necessari
al compimento delle opere del Cenisio e della Spezia, solo una
suprema speranza d'imminente guerra nazionale aveva potuto decidere
della votazione.
La politica apparente del gabinetto francese, presieduto dal conte
Walewski, era tutt'altro che rivoluzionaria; quella personale
dell'imperatore si nascondeva fra ambagi inintelligibili anche ai
più abili diplomatici. Il conte di Cavour non poteva sperare
che in questa, ma nessuna destrezza di espedienti o di suggestioni
sarebbe mai riuscita a decidere l'imperatore ad una guerra contro
l'Austria in pro della rivoluzione italiana, senza l'oscura
necessità che spingeva il secondo impero entro l'orbita del
primo, condannandolo ad essere rivoluzionario suo malgrado, e a
dover vivere e morire di guerre.
L'idea napoleonica.
Dopo pochi anni, il prestigio ottenuto dall'impero coll'impresa di
Crimea e col congresso di Parigi accennava a decrescere
paurosamente. Il sodalizio delle dinastie non aveva ancora accettato
nel proprio seno l'imperatore; l'opposizione scarsa di
rappresentanti nelle Camere era guidata dai maggiori uomini
francesi: Victor Hugo esule bastava solo a mantenere contro l'impero
l'odio della coscienza nazionale, attirandogli, coll'irresistibile
potenza di una lirica unica nella storia d'Europa, il disprezzo
della coscienza universale. Il partito clericale, sostenendo
Napoleone per l'appoggio da lui prestato al papa, si scindeva in
legittimisti ed orleanisti, irreconciliabili per interessi
dinastici; la borghesia avida di lucri non poteva sognarli al solito
che da una effimera supremazia francese; il popolo sempre avido di
gloria aspettava la pompa di nuovi trionfi. Nell'opinione europea
l'impero napoleonico restava ancora un'avventura. L'Austria era
uscita più forte dal congresso di Parigi; la Russia esausta
ed indarno blandita da Napoleone gli teneva il broncio;
l'Inghilterra, malgrado l'oscillazione de' suoi partiti wigh e tory
al potere, si ostinava nei trattati del 1815; la Prussia si
manteneva ligia all'Austria e alle tradizioni reazionarie:
l'iniziativa rivoluzionaria doveva quindi venire dalla Francia
ridivenuta imperiale come all'indomani della sua grande rivoluzione
dell'89. Nato di rivoluzione, l'impero bonapartista non poteva
vivere che di rivoluzione: l'inerzia lo avrebbe ucciso e un ritorno
a maggior reazione rovesciato. La iniziativa Francese cominciata
coll'89 doveva proseguire: tutte le rivoluzioni europee del secolo
ne erano derivate, svolgendosi con processo più o meno simile
al suo: ad una sistematica contraddizione di questa iniziativa la
coscienza francese si sarebbe ritirata al tutto dall'impero: senza
il sogno napoleonico di dominare nuovi stati con nuovi protettorati
dinastici o politici, l'impero perdeva il proprio carattere europeo
per restringersi ad un'interna prepotenza militare, incompatibile
cogl'istinti della moderna democrazia.
L'Italia già conquistata dalla prima rivoluzione e dal primo
impero francese, smembrata, sottomessa all'Austria, matura alla
propria rivoluzione, si presentava come una fatalità di
politica e di guerra a Napoleone III. In Italia solamente il secondo
impero poteva espandersi e rinvigorirsi. Le mene murattiane a Napoli
tradivano già il rinnovarsi di questo disegno bonapartista;
la politica oramai decennale del Piemonte mirava alla Francia; lo
spirito italiano guardava alla stella dell'impero come a quella di
un nuovo mattino; la costituzione in Italia d'un forte stato boreale
e costituzionale, e l'impianto a Firenze e a Napoli d'altri principi
bonapartisti darebbe alla Francia, colla gloria d'aver risuscitato a
vita politica il popolo più illustre del mondo, il vantaggio
d'un'alleanza perpetua italiana contro l'Austria e di un predominio
incontestabile sul Mediterraneo. La Francia riaprirebbe così
un'altra epoca d'ascendente universale. Il cesarismo, effimera
mistura di reazione e di rivoluzione, di dispotismo e di democrazia,
non poteva sottrarsi alla fatalità di questa politica
apparentemente avventuriera e anticipatamente condannata a produrre
risultati troppo diversi dalle intenzioni. Nè il terrore
dell'attentato, nè l'estremo voto di Orsini decisero dunque
l'imperatore Napoleone III alla guerra d'Italia come vantarono con
puerile rettorica molti scrittori radicali: tutta la meravigliosa
destrezza del conte di Cavour non sarebbe bastata ad impigliarvelo.
Alleanza Franco-Sarda.
Infatti l'imperatore mandò spontaneamente al conte di Cavour
le due ultime lettere di Orsini perchè le stampasse nella
Gazzetta Ufficiale: poco dopo gli fece rimettere da uno dei propri
diplomatici più familiari un'altra lettera con un disegno
d'alleanza e una proposta di matrimonio fra il principe Girolamo
Napoleone e una figlia di Vittorio Emanuele. Costantino Nigra fu il
primo inviato del conte di Cavour a Parigi per studiare il terreno;
il dottor Conneau si mutò in agente diplomatico per recare al
conte di Cavour l'invito al convegno di Plombières nei Vosgi,
ove si gettarono le vere basi dell'alleanza: il trattato si strinse
quattro mesi dopo. Per esso l'imperatore s'impegnava a condurre in
Italia duecentomila soldati contro l'Austria; suo sarebbe il comando
superiore delle schiere alleate; a guerra vinta il Piemonte si
aggregherebbe il Lombardo-Veneto, i Ducati, le Legazioni e le
Marche; il Piemonte cedeva fin d'ora la Savoia e s'impegnava
moralmente a cedere Nizza. Era fatalmente un disegno federativo;
nè l'imperatore, nè il conte di Cavour potevano andare
oltre. Quegli anzi, nascondendo la parte maggiore del proprio
pensiero politico, intendeva a fondare un secondo regno d'Etruria
per mezzo delle velleità autonomistiche dei federali toscani
guidati dal Salvagnoli e dal Montanelli, aggregandovi i Ducati e
molta porzione dello stato pontificio; a Napoli possibilmente si
sarebbe installato Luciano Murat. Ma l'imperatore e il conte di
Cavour tentavano reciprocamente d'impaniarsi in questa trama.
D'unità d'Italia sarebbe stato assurdo parlare,
giacchè l'impero non aveva altra base morale che il clero, e
non poteva togliere Roma al papa; la Russia proteggeva per
tradizione i Borboni; una vera rivoluzione era impossibile in Italia
ed inaccettabile alle diplomazie. Anzi l'avversione al partito
rivoluzionario era tale che nella convenzione militare susseguita al
trattato politico fra il generale Niel e il generale Lamarmora si
sarebbe escluso ogni concorso di volontari, se il conte di Cavour
con sapiente patriottismo non si fosse ostinato a volerlo. Solo le
milizie volontarie potevano dare alla guerra franco-sarda guidata
dall'imperatore il carattere d'una impresa nazionale, creando
probabilmente ostacoli ai segreti disegni di nuovi stati
bonapartisti.
Nei prodromi della nuova rivoluzione sembrava dominare ancora il
principio federalista. Utopie diplomatiche e partigiane vi si
imbrogliavano: dopo il matrimonio del principe Girolamo colla
principessa Clotilde di Savoia il concetto d'un regno d'Etruria per
essi si popolarizzò; a Parigi Laguerronière, letterato
cortigiano, stampò un opuscolo enigmatico inspirato da
Napoleone, nel quale si trattava d'una confederazione italiana fuori
d'ogni dominio straniero, sul tipo di quella presentata dal Gioberti
con la presidenza del papa, e intesa precipuamente a rattenere la
rivoluzione. Poichè l'Inghilterra sarebbe ostile ad un altro
regno bonapartista nel sud, si pensava di lasciarvi ad essa la
scelta del nuovo re; nessuno all'infuori di Mazzini osava reclamare
Roma. Il conte di Cavour, per resistere a questa eccessiva
dilatazione bonapartista, non aveva di primo tempo trovato altro
espediente che il maritare la principessa Clotilde al principe
Leopoldo Hohenzollern, nato di Stefania Beauharnais «onde
farne un re dell'Italia centrale, ove i Lorenesi si mantenessero
ligi all'Austria».
Intanto si disponevano gli approcci.
A Varsavia fu mandato il principe Girolamo per spingere la Russia a
guerra coll'Austria, lasciandola libera ai padroneggiare il moto
delle genti slave, mentre la Francia dominerebbe quello delle
schiatte latine: ed era ancora il vecchio sogno di Napoleone I. Ma
la Russia declinò l'invito per dichiararsi neutrale ed
imporre la conservazione a Napoli dei Borboni; la Prussia non volle
staccarsi dall'Austria e propose di provvedere alle cose d'Italia
per comuni accordi pacifici; nell'Inghilterra l'opinione liberale
del pubblico frenava a stento il mal volere del recente gabinetto
tory.
Poichè Napoleone si era riserbato di scegliere il modo ed il
momento d'una rottura coll'Austria, il conte di Cavour badava
alacremente a crescere in Italia il fermento rivoluzionario,
però dominandolo. In questo gli fu di largo giovamento la
Società Nazionale del La Farina, che riassumendo il proprio
programma politico nel motto: «Indipendenza, Unità e
Casa Savoia», preparava possibili accordi per altri disegni
durante o dopo la guerra. Nello scadimento del partito mazziniano la
sua opera divenne improvvisamente più franca e feconda:
Giuseppe Garibaldi entrò nel suo comitato centrate a Torino,
altri comitati raggrupparono i migliori patrioti nelle provincie
suscitandovi una disciplinata agitazione unitaria, mentre il conte
di Cavour si riserbava il diritto di poterla in caso di pericolo
rinnegare in parlamento. In un manifesto del 14 dicembre 1858 la
Società Nazionale chiese all'Italia la dittatura di Vittorio
Emanuele durante la guerra, affermando che la sollevazione italiana
non implicherebbe nessuna questione di libertà e di
ordinamento sociale atta a spaurire i governi: abile mossa, che
abituava all'unificazione morale. L'idea piemontese giganteggiava:
le acclamazioni a Vittorio Emanuele prorompevano da tutte le piazze;
nessuna critica poteva turbare la nuova fede, le speranze
deliravano.
Si dimenticava l'umiliazione di sorgere dietro un'iniziativa
francese; l'unità d'Italia, alla quale tutti aspiravano, era
momentaneamente negletta per concentrare ogni sforzo all'espulsione
dell'Austria. Il mirabile fenomeno politico di questo vasto moto
nazionale, che s'indigava volontariamente entro le linee ancora
incerte di un disegno di Napoleone III riveduto da Cavour, tradiva,
attraverso l'incredibile docilità d'una disciplina
improvvisata, la fiacchezza della coscienza nazionale e dell'idea
rivoluzionaria: la nuova passione di guerra piuttosto che ira di
schiavi appariva bramosia di liberti. L'adesione alla monarchia di
Savoia era sudditanza, quella all'impero francese sommissione. I
superstiti mazziniani avvampavano di sdegno; l'intera massa dei
patrioti abbandonava invece ogni ideale per il possibile, preparando
nella aspettazione dell'iniziativa franco-sarda nuove virtù
di guerra e di concordia, senza chiedersi come l'Italia sarebbe
all'indomani di un trionfo o di un abbandono francese.
Cavour, aggiungendo disegno a disegno, complicazione a
complicazione, aveva sollecitato indarno l'alleanza dei Borboni e
dei Lorenesi contro l'Austria.
Il discorso di Vittorio Emanuele all'apertura del parlamento (10
gennaio 1859) affermava che il re, malgrado il rispetto ai trattati,
non poteva essere insensibile al grido di dolore che s'alzava verso
di lui da tante parti d'Italia; e parve un grido di guerra.
L'Austria, cullatasi fino allora nel dispregio del piccolo nemico e
nell'orgoglio della propria posizione tanto migliore di quella di
Francia, si riscosse: le diplomazie s'impensierirono; l'Italia si
esaltò.
Sir James Hudson con motto profondo disse: «È la
folgore che cade sui trattati del 1815». Infatti il moderno
diritto di nazionalità doveva ottenere dalla rivoluzione
italiana la sua prima grande consacrazione.
Il risveglio dell'Austria precipitò gli armamenti e
complicò l'opera delle diplomazie. Nel Lombardo-Veneto
ricominciarono i rigori: corpi d'esercito s'ammassarono di giorno in
giorno alla frontiera, mentre la gioventù patriottica guadava
a torme il Ticino per arruolarsi nell'esercito sardo. Cavour aveva
richiamato Garibaldi per commettergli la costituzione d'un corpo di
volontari; così lo avrebbe avuto nella guerra alleato ed
ostaggio.
Ma la politica sempre più ambigua dell'imperatore, arbitro
della situazione, gettava il Piemonte nelle più umilianti
perplessità. Da Londra il gabinetto tory di lord Malmesbury
lo ammoniva, quasi minacciando, di guardarsi da ogni provocazione
all'Austria; a Napoleone invece mostrava lo spettro rosso della
demagogia pronto a ricomparire fra le imprevedibili
difficoltà d'una guerra; quindi a Vienna ingrossava la voce
perchè l'Austria rinunziasse all'intervento nello stato
pontificio e spingesse i principi sulla via delle riforme.
Di rimpatto Napoleone prometteva all'Inghilterra di non soccorrere
il Piemonte, se questo fosse primo alla guerra.
Si parlò d'un congresso per la pace: la proposta venne da
Pietroburgo; Napoleone parve accettarla. Ma la questione
peggiorò; l'Austria, che si ricusava superbamente alle
esortazioni pacifiche dell'Inghilterra, aderendo all'idea del
congresso, ne volle escluso il Piemonte come incapace di
rappresentare l'Italia, della quale gli altri principi, per
suggestione della cancelleria viennese, non v'interverrebbero. Ma le
potenze, dopo aver accolto il Piemonte al congresso per la pace di
Crimea, non potevano eliminarlo da quest'altro per la pacificazione
d'Italia: allora l'Austria pretese che il Piemonte disarmasse e,
poichè anche questo non le fu concesso, propose un disarmo
simultaneo. Bisognava cedere; Cavour abilmente volle però
sottrarre al disarmo le milizie volontarie, affermandosi pronto a
raccoglierle sotto le Alpi e a licenziarle quando le potenze si
fossero accordate sullo scioglimento della questione italiana.
Così l'idea nazionale, incarnata nelle milizie volontarie,
sovrastava alla stessa alleanza franco-sarda. L'Austria
rifiutò questa condizione, ed impose bruscamente il disarmo.
La crisi diplomatica fu lunga e dolorosa. Napoleone sempre
oscillante di spirito, non osava risolvere: per un momento impose a
Cavour di cedere a tutte le pretese austriache, questi gli rispose
con parole d'obbedienza: tutto sembrava perduto. Forse la situazione
politica costringeva l'imperatore a questa alternativa di spinte e
di controspinte al Piemonte, per lasciare all'Austria la
responsabilità dell'attacco e preparare in Francia la publica
opinione alla guerra. Infatti la Francia non vi pareva ben disposta.
Il partito clericale temeva di Roma, malgrado le publiche
assicurazioni che l'imperatore aveva fatto dare a Pio IX dal
generale Goyon; il partito conservatore abborriva da una guerra
fatalmente rivoluzionaria nell'idea e nei risultati; il partito
d'opposizione la qualificava d'avventura dinastica, giacchè
modi e concetti rivoluzionari ne erano negati clamorosamente anche
dal conte di Cavour.
La burbanzosa bruscherìa dell'Austria nel concedere tre soli
giorni al Piemonte per la risposta sul disarmo troncò ogni
difficoltà. Coll'assalire per la prima, essa violava i
trattati del 1815, e la guerra rivoluzionaria dell'alleanza
franco-sarda si mutava diplomaticamente in una guerra di difesa.
Intanto il conte di Cavour, spingendo vivamente i preparativi di
guerra, otteneva dal parlamento poteri straordinari di governo: per
contrastare alle mene bonapartiste in Firenze e in Napoli, allargava
il moto rivoluzionario; accusava i mazziniani intransigenti di fare
le parti dell'Austria; aveva nominato Enrico Cialdini comandante
supremo del corpo di volontari costituito da Garibaldi. Questi
doveva rimanere subalterno attirando la gioventù colla gloria
del proprio nome, ma non guidarla alla vittoria: Lamarmora ministro
della guerra negò con tanta ostinazione di riconoscere i
gradi agli ufficiali garibaldini che i loro brevetti dovettero
essere firmati dal ministro dell'interno. Poi i volontari furono
male armati, frazionati, sospettosamente sorvegliati.
L'effervescenza degli animi cresceva d'ora in ora; la
gioventù scaldavasi a questi primi clamori di guerra; solo i
mazziniani resistevano nel nome dell'unità nazionale negata
dal trattato franco-sardo e della democrazia compromessa dai
momentanei dispotismi regii ed imperiali. Da Londra emanarono una
protesta di astensione dalla guerra, cui fallirono poco dopo
generosamente accorrendo da ogni parte sotto le bandiere.
Il Piemonte esausto faceva gli ultimi sforzi, ma sottomesso
fatalmente alla Francia. Quindi l'incendio rivoluzionario, che
avrebbe dovuto avvampare per tutte le città d'Italia come nel
1848, non scoppiava: i volontari corsi in Piemonte non superavano i
trentamila; le Provincie libere non si ribellavano, quantunque
sicure che l'Austria impegnata in tanta guerra non avrebbe potuto
invaderle per sostenere i principi alleati. E questi avevano milizie
troppo scarse e fiacche per resistere ad una vera insurrezione
popolare.
L'Austria accennava già a ritirare le truppe da tutti i
luoghi occupati per concentrarle nel teatro della guerra: le
ammonizioni di Cavour sconsiglianti da iniziative popolari non
sarebbero bastate ad impedirle, se più intensa fosse stata
nella nazione la coscienza dì patria e maggiore l'energia del
carattere. I patrioti abitatori delle Provincie negli ultimi dieci
anni erano tutti in Piemonte, onde lo spirito delle masse non mai da
tormenti di tirannide spinte alla disperazione della rivolta, si
effondeva ora nei vanti delle future vittorie francesi: mentre ai
tirannelli abbandonati dall'Austria non restava più nemmeno
il coraggio di sostenere con essa una guerra decisiva per la loro
esistenza.
Solo la Toscana e le provincie limitrofe di Massa e Carrara, troppo
straziate dal duca di Modena, tumultuarono all'annunzio della
dichiarazione di guerra. Il granduca Leopoldo non osò
resistere; il principe Carlo suo secondogenito non seppe farsi
ubbidire dagli artiglieri, ordinando loro di bombardare Firenze dal
forte di Belvedere: quindi il tumulto si sciolse in chiasso
pacifico, e il popolo con berta ancora rispettosa augurò il
buon viaggio al granduca fuggente.
I governi provvisorii di Firenze e di Massa e Carrara offersero la
dittatura a Vittorio Emanuele; ma questi sottoposto alla
volontà dell'imperatore, non osò accettare, malgrado
la dittatura conferitagli dalla Società nazionale e dal
parlamento.
Così cominciava la nuova rivoluzione unitaria.
Capitolo Secondo.
La conquista regia
Guerra Franco-Sarda.
L'intimazione dell'Austria al Piemonte, irritando
l'orgoglio francese, agevolò a Napoleone il concorso
della publica opinione. Se nelle sfere politiche e nei saloni
mondani di Parigi la nuova guerra trovava vivi oppositori per
complicate ragioni d'interessi, quelli fra i maggiori spiriti che
per modernità di pensiero e di coscienza, da Flaubert a
Quinet e da Michelet ad Hugo, rappresentavano l'iniziativa francese,
vi erano favorevoli. La contraddizione del disegno napoleonico collo
spirito democratico di quest'impresa non bastava a nasconderne loro
la verità. L'esercito era fremente di entusiasmo; il popolo,
attraverso le vanterie inguaribili della propria indole, insuperbiva
di ridiscendere ad una guerra di emancipazione. L'eroica coscienza
francese sentiva di riaffermare così il proprio primato sulla
coscienza europea.
E la guerra incominciò.
Il 29 aprile 1859 il generale austriaco Giulay passa il Ticino con
100,000 soldati, avanzando senza incontrare resistenza verso
Vercelli: la Lomellina è stata con patriottica abnegazione
inondata, l'esercito piemontese, forte di 70,000 uomini e appoggiato
sulle fortezze di Casale e di Alessandria, evita lo scontro,
giacchè una dolorosa sfiducia sta per consigliare ai suoi
generali una ritirata; ma Alfonso Lamarmora, cui un rancore di
Vittorio Emanuele aveva negato l'onore meritato di un seggio al
consiglio di guerra, riesce ad impedirla. Il 12 maggio Napoleone
sbarca a Genova fra deliranti acclamazioni di popolo; le prime
colonne dell'esercito francese sono già calate dalle Alpi ed
entrate a Torino. Il generale austriaco, che con un attacco rapido e
vigoroso avrebbe potuto sgominare l'esercito sardo impedendone la
congiunzione col francese, ora stenta a fronteggiare gli alleati.
D'ambo i lati le forze si pareggiano. L'imperatore Napoleone assume
il comando dell'esercito italiano umiliando l'orgoglio nazionale
d'Italia, ma ottiene migliore unità di disegno e di opera; il
generale austriaco deve al solito dipendere dal consiglio aulico di
guerra residente a Vienna. D'altronde la sua incapacità lo
predestina alla sconfitta, mentre una nobile emulazione raddoppia il
valore degli alleati, e l'entusiasmo di patria muta le inesperte
milizie volontarie in eroi.
A Montebello la cavalleria piemontese, sostenendo bravamente un
forte assalto del generale Urban, dà tempo al generale
francese Forey di accorrere colla propria divisione e di
respingerlo: poi le battaglie si succedono con terribile crescendo.
Mentre il generalissimo austriaco si concentra ostinatamente sul Po
e sul Ticino, l'esercito francese coperto dalle truppe piemontesi
gira inosservato il fianco destro del nemico; il Generale Cialdini
con quattro divisioni italiane sostenute da un reggimento di zuavi
sloggia da Palestro il presidio tedesco; poi, riassalito l'indomani
da più forti colonne le schiaccia, e passa oltre. Vittorio
Emanuele, umiliato come re di Piemonte dal supremo comando
dell'imperatore, non è più che un soldato, ma vi ha
sfolgorato di gloria improvvisa, gettandosi alla testa dei zuavi
entro la Sesia rigonfia dalle piogge e trascinandoli furenti alla
vittoria. Quindi gli alleati, concentrati a Novara, costringono il
nemico a ritirarsi sulla riva del Ticino: la battaglia ripresa
presso il villaggio di Magenta si risolve in maggiore sconfitta per
gli austriaci; i granatieri della guardia imperiale francese vi
sfoggiano eroismo, il generale Mac-Mahon vi conquista il titolo di
duca; però una sola divisione italiana col generale Fanti ha
potuto cooperarvi a vittoria già sicura.
Tutta la Lombardia è conquistata: gli austriaci sgombrano
simultaneamente da Milano, dai Ducati, dalle Legazioni.
Intanto Giuseppe Garibaldi nel giorno stesso della vittoria di
Montebello aveva passato arditamente la Sesia per gettarsi sulla
Lombardia. La sua opera contraddetta da Mazzini, quasi strangolata
da Cavour quantunque bene accetta al re, era passata per tutta una
triste filiera di umiliazioni e di disinganni. Garibaldi, chiamato
al ministero per la costituzione di un corpo di volontari, aveva
dovuto sottomettersi al comando del generale Cialdini; gli si era
proibito di formare i corpi; era stato relegato a Rivoli verso Susa,
mentre si stabilivano due depositi di volontari a Cuneo e a
Savigliano. La commissione di arruolamento istituita a Torino
sceglieva la più forte gioventù pei corpi di linea e
ne abbandonava i meno prestanti ai battaglioni di volontari: poi,
siccome questi aumentavano, si chiamò dalla Toscana
già ribellatasi il generale Ulloa per costituire un secondo
corpo di cacciatori degli Appennini. Quelli di Garibaldi si
chiamavano cacciatori delle Alpi. Una feroce gelosia di caserma
irritava contro di lui tutte le vanità accademiche degli
altri generali: dopo il comando di Cialdini chiamato alla difesa di
Casale, Garibaldi dovette subire quello del vecchio generale De
Sonnaz; malgrado gli ordini del re, Cavour ricusò di
concedergli i volontari rimasti inerti ai depositi; per un momento
gli si fè sperare di gettarlo attraverso i Ducati per
sollevare l'Italia centrale, ma Cavour si oppose ancora.
L'abile ministro comprendeva fin troppo bene la necessità di
avere una truppa rivoluzionaria per italianizzare la guerra
franco-sarda, ma di tenerla subalterna per non perdere nel
sentimento delle masse il prestigio delle future vittorie.
Il conte di Campello, ministro della republica romana, aveva
decretato che la legione di Garibaldi non dovesse oltrepassare i
cinquecento uomini; il conte di Cavour con migliore ragione politica
la volle limitata a tremila.
Nullameno la piccola truppa riuscì mirabile. V'erano
volontari d'ogni grado, d'ogni classe, d'ogni merito: veterani del
quarantotto come Medici e Cosenz, giovani come Bronzetti e De
Cristoforis che dovevano improvvisarsi eroi, milionari ed artisti,
intere famiglie di fratelli come i Cairoli, politici ignorati che
poi divennero ministri, popolani fieramente poveri, aristocratici
squisitamente liberali, gente di mare e di terra, di un coraggio
intrattabile come Bixio o di una mitezza poetica come Gradenigo.
Tutta la loro politica si riassumeva nell'amore di patria: non
discutevano di bandiera, sopportavano ogni ingiustizia senza
lamento, non chiedevano gradi, non aspiravano ad onori. Una
democrazia incredibile regnava nel loro campo, l'entusiasmo vi
teneva luogo di disciplina, l'amicizia e la fede vi rendevano gli
ordini indiscussi. La gloria del generale era la superbia di tutti:
nobili e prodi come i paladini delle antiche leggende, ignoravano
d'iniziarne un'altra: cavalieri di una democrazia reclutata fra
tutte le classi sociali, anelavano colla più moderna delle
contraddizioni alla guerra senza risentirne le malvagie passioni: e
così creavano col più generoso degli eroismi la
più bella originalità della rivoluzione italiana.
Ad un ordine del re, Garibaldi passa finalmente la Sesia, delude
abilmente gli austriaci al guado del Ticino, da Sesto Calende si
difila su Varese. Ma nemmeno la sua presenza basta a decidere il
popolo lombardo ad una vera insurrezione: i villani gli ricusano
quelle spiegazioni che dànno spontaneamente agli austriaci; i
paesi lo accolgono festanti come un liberatore e tacciono sgomenti
appena nella sua rapida marcia li oltrepassa. Emilio
Visconti-Venosta, un mazziniano convertito non troppo onorevolmente
alla monarchia sarda, segue quale commissario cavouriano Garibaldi
per istituire governi provvisori e sorvegliare le sue mosse.
Ma Urban, uno dei più fieri generali austriaci, è
spiccato contro Garibaldi con oltre quindicimila uomini. Questi, che
a Varese aveva con un pugno di volontari respinto un corpo della
guarnigione di Milano, forte di tremila uomini, vi si trincera
intrepidamente senza cannoni, senza cavalleria, con fucili poco
servibili. Il 25 maggio fuga alla baionetta le prime colonne
nemiche; quindi, ingannando con marcia coperta Urban, inteso a
sorprendere la piccola città, lo persegue a San Fermo, entra
a Como. Di là, padrone del lago, diffonde l'insurrezione per
tutti i paesi delle sue rive fino su alla Valtellina, tenta di
sorprendere con ardita fazione il forte di Laveno sui Lago Maggiore,
ma fallisce perchè il maggiore Bixio non può decidere
le barche doganiere della sponda piemontese a secondarlo
nell'assalto. Poco dopo, stretto da nuove mosse dell'Urban vincitore
di Varese e minacciante Como, può a stento fronteggiarlo,
finchè alla notizia della vittoria di Magenta questi è
costretto a ritirarsi; e Garibaldi risale il lago, da Lecco marcia
su Bergamo, ributta una colonna austriaca a Seriate, occupa Brescia.
Il suo piccolo esercito è raddoppiato, la Lombardia quasi
tutta sgombra. Nello stesso giorno che Garibaldi libera Brescia,
l'esercito francese proseguendo la vittoria di Magenta sconfigge a
Melegnano l'ottavo corpo austriaco comandato dal generale Benedek, e
Napoleone e Vittorio Emanuele entrano trionfatori in Milano.
La grossa metropoli lombarda, istrutta dai dolorosi ricordi
dell'ultima rivoluzione, e conscia di essere lo scopo della guerra,
appena evacuata dal nemico proclamava a delirio di popolo la propria
annessione al Piemonte secondo il plebiscito del quarantotto,
deputando assessori municipali al campo di Vittorio Emanuele come
ambasciatori del voto popolare.
Il proclama di Napoleone III alto nei concetti e sonoro nelle frasi,
indirizzandosi ai milanesi, si volgeva a tutti gl'italiani per
invitarli ad arruolarsi sotto il vessillo di Vittorio Emanuele, e
diceva: «Io non vengo tra voi con un sistema preconcetto, per
spodestare sovrani e per imporre la mia volontà: il mio
esercito non si occuperà che di due cose: combattere i vostri
nemici e mantenere l'ordine interno; esso non porrà ostacolo
alcuno alla libera manifestazione dei vostri voti».
Sotto la cortesia delle parole s'intendeva già l'accento del
padrone; ma la passione rivoluzionaria del momento, lusingata da
quell'invocazione agli italiani, che sembrava associare alla
liberazione di Milano tutti i popoli delle altre Provincie, non
l'intendeva.
Per contrario il proclama di Vittorio Emanuele, invece di esprimere
l'italianità di quella guerra emancipatrice, non
s'indirizzava che ai Lombardo-Veneti e non prometteva loro che un
libero e durevole reggimento, appena si fosse assicurata
l'indipendenza della patria.
La guerra franco-sarda non era ancora italiana nè di idea
nè di scopo.
Infatti, ripresa poco dopo con maggiore alacrità, doveva
arrestarsi troppo presto a rovescio d'ogni previsione.
Gli austriaci, intesi a forte concentramento sul Mincio, sgombrano
Pavia, Piacenza, Pizzighettone, il castello di Brescia, Bologna,
Ferrara, Ancona, riordinando con nuovi contingenti l'esercito ed
ingrossandolo di altri centomila uomini; lo stesso imperatore
Francesco dal proprio campo di Verona assume il comando supremo. Gli
alleati, sospettosi di un tranello nella troppo precipitosa
ritirata, si avanzano lentamente con marcia parallela verso il
Mincio. Gli austriaci chiusi nel formidabile quadrilatero avrebbero
potuto resistere con molto vantaggio e ristabilire le sorti della
guerra; invece, riprendendo improvvisamente l'offensiva, occupano le
alture di Solferino e di San Martino. La battaglia vi scoppia quindi
il 24 giugno sopra cinque leghe di estensione, impegnando tutte le
forze d'ambo le parti; l'accanimento più feroce vi moltiplica
la strage, cinquantamila fra morti e feriti ingombrano il terreno,
ma la vittoria rimane agli alleati; gli austriaci, ricacciati da
tutti i poggi, debbono ripassare il Mincio.
Garibaldi, battuto pochi giorni prima dall'Urban a Castenedolo per
aver ubbidito ad un ordine dal quartier generale di occupare Lonato
in presenza di tutto l'esercito austriaco forte di duecentomila
uomini, e che parve insidioso persino al generale Cialdini, era
stato mandato nella Valtellina col pretesto di presidiarvi i passi
delle Alpi contro una impossibile invasione di nuovo esercito
tedesco, e vi aveva sloggiato le ultime guarnigioni nemiche dallo
Stelvio.
La pace francese.
Mentre la vittoria di Solferino raddoppiava le speranze d'Italia, la
guerra si arrestò bruscamente. La sera del 7 luglio il
generale Fleury aveva portato al campo austriaco di Verona una
proposta di armistizio: quattro giorni dopo i due imperatori
segnarono a Villafranca i preliminari di pace; a Zurigo se ne
sarebbe firmato il trattato.
Vittorio Emanuele re ed alleato non ne era stato nemmeno avvisato.
Fu uno schianto: si urlò al tradimento. Vittorio Emanuele
gemè tristamente: povera Italia! Cavour, dimenticando la
tanto vantata prudenza, diè nelle furie. Nullameno le
necessità del proprio disegno e la logica inesorabile dei
fatti imponevano all'imperatore Napoleone questo abbandono, che
Mazzini solo aveva preveduto colla chiaroveggenza dell'odio
partigiano.
I preliminari di pace stabilivano:
«L'imperatore d'Austria e l'imperatore dei Francesi favorivano
la creazione di una confederazione italiana: questa confederazione
sarà sotto la presidenza onoraria del Santo Padre.
«L'imperatore d'Austria cede all'imperatore dei Francesi i
suoi diritti sulla Lombardia, ad eccezione delle fortezze di Mantova
e di Peschiera, dimodochè la frontiera dei possedimenti
austriaci partendo dall'estremo raggio della fortezza di Peschiera
si estenda in linea diretta lungo il Mincio sino alle Grazie e di
là a Scorzarolo e a Luzzara sul Po, dove le frontiere
presenti continueranno a formare i limiti dell'Austria. L'imperatore
dei francesi rimetterà i territori ceduti al re di Sardegna.
«La Venezia farà parte della confederazione italiana,
restando sotto la corona dell'imperatore d'Austria. Il granduca di
Toscana e il duca di Modena entreranno nei loro stati concedendo
un'amnistia generale.
«I due imperatori chiederanno al Santo Padre d'introdurre ne'
suoi stati le riforme indispensabili.
«È concessa d'ambe le parti piena ed intera amnistia
alle persone compromesse in occasione degli ultimi avvenimenti nei
territori delle parti belligeranti».
Vittorio Emanuele, apponendovi la propria firma, v'aggiunse questa,
inintelligibile riserva: «Accetto per ciò che mi
riguarda»; Cavour mormorò con mal represso sdegno
rivoluzionario: «Torneremo a cospirare». Napoleone III,
accomiatandosi, disse al re: «Il vostro governo mi
pagherà le spese e non penseremo più a Nizza e a
Savoia; ora vedremo che cosa gl'italiani sapranno fare da
soli».
Queste ultime parole parevano al tempo stesso una sfida ed un
sarcasmo.
Nullameno la condotta politica dell'imperatore, fra l'odio
dell'inattesa delusione che riuniva contro di lui moderati e
rivoluzionari, non rivelava nè l'una nè l'altro. Se
discendendo alla guerra di Lombardia, egli aveva promesso
solennemente di respingere gli austriaci al di là
dell'Adriatico, aveva del pari negato ogni unità italiana
riaffermando il diritto supremo del papa su Roma e respingendo ogni
partecipazione rivoluzionaria. Nel suo segreto disegno bonapartista
d'insediare il principe Girolamo a Firenze e Luciano Murat a Napoli,
riunendo l'Italia in una confederazione, della quale il papa sarebbe
presidente onorario ed egli il padrone, la guerra all'Austria non
poteva essere che una espansione dell'impero napoleonico sottoposto
non già alle leggi storiche d'Italia, ma alla
necessità del proprio assetto europeo. E tutto gli era
mancato. Aveva lasciato in Alessandria il principe Napoleone ad
organizzarvi un quinto corpo d'armata per ignota destinazione; poi
lo aveva mandato in Toscana, malgrado tutte le istanze di Cavour
come rappresentante di Vittorio Emanuele, dopo aver proibito a
questo di accettarne la dittatura. Il principe Napoleone si era
presentato a Firenze come un pretendente inviato dall'imperatore, ed
aveva dovuto ritirarsi davanti all'invincibile avversione del
popolo. Il ritorno dei whigs al potere, favorevoli all'unificazione
italiana ed ostili all'impero, toglievano all'imperatore ogni
speranza sul reame di Napoli; il suo disegno con Kossuth per
sollevare l'Ungheria contro l'Austria, e pel quale erasi già
costituita una forte legione ungherese con soccorsi francesi e con
contratti favoreggiati a Torino da Cavour, aveva urtato nei disegni
dello czar sui Principati Danubiani; la Germania, ostinata come nel
'48 nelle idee della propria confederazione, considerava il possesso
austriaco del Veneto come necessario alla sicurezza della sua
frontiera meridionale; la Prussia, che prima della guerra aveva
indarno proposto all'Austria di garantirle con una mediazione armata
i possedimenti italiani secondo i trattati del 1815 se le fosse
ceduta la primazia sulla confederazione, ora, sollecitata d'alleanza
offensiva e difensiva dall'Austria, pur ricusandovisi, aveva
ottenuto dalla dieta di Francoforte d'incorporare nel proprio
esercito le milizie federali sotto il comando del reggente, e con
una così rapida mobilitazione, che parve allora un miracolo
del suo grande generale ancora sconosciuto von Moltke, ammassava in
pochi giorni duecentomila soldati sul Reno. L'Austria, anche dopo la
disfatta di Solferino, quantunque accettasse la pace per diffidenza
dell'Inghilterra e per non lasciare alla Prussia il vantaggio di
frenare la Francia conquistando così un primato morale nella
confederazione germanica, rimaneva intatta come potenza militare. Il
suo imprendibile quadrilatero le avrebbe dato tempo a rifare
l'esercito e ripiombare più forte sulla Lombardia.
Il disegno napoleonico sull'Italia doveva dunque svanire,
dacchè l'impero bonapartista era minacciato.
Una guerra francamente rivoluzionaria, che avesse sollevato Italia
ed Ungheria associandole alla Francia, poteva solo permettere a
Napoleone di correre i nuovi rischi di una coalizione europea: ed
era l'impossibile idea di Mazzini. La guerra iniziata col re di
Piemonte nel proposito di una federazione italica su tipo
giobertiano e con minacce contro ogni iniziativa rivoluzionaria per
conquistare al Piemonte tutto il Lombardo-Veneto, non poteva
proseguirsi nelle mutate condizioni della politica europea.
La guerra d'Italia non era più che una brillante avventura
del secondo impero da interrompersi alla massima vittoria. Vittorio
Emanuele, diventato vassallo nell'alleanza e subalterno nel comando,
non meritava riguardi di pari; l'Austria, cedendo la Lombardia a
Napoleone, dava all'Europa la misura del proprio avversario
italiano; questi, costretto ad accettarla dalle mani di un alleato,
che aveva concluso la pace senza nemmeno avvisarnelo, confessava la
propria impotenza; la rivoluzione italiana veniva francamente
negata, dacchè la guerra iniziata dall'imperatore con una
alleanza segreta, quindi da lui ritardata nelle diplomazie e guidata
finalmente sino al Mincio, era stata vinta quasi dalle sole armi
francesi. Il valore delle truppe sarde e l'eroismo dei pochi
volontarii garibaldini non aveva potuto decidere della campagna; il
numero dei francesi periti in essa non solo superava di troppo
quello dei piemontesi, ma vi uguagliava l'altro di tutti gli
italiani morti per la rivoluzione, dal ventuno sino alla gloriosa
giornata di San Martino.
Lo smacco del disegno napoleonico produceva la catastrofe dell'idea
piemontese.
Catastrofe dell'idea piemontese.
La politica cavouriana aveva concluso al peggiore dei disastri,
malgrado una incontestabile abilità. Fatalmente falsa nei
principii e nei mezzi, giacchè mirava ad una rivoluzione
rinnegandone l'idea per giungere ad una impossibile conquista regia,
aveva dovuto combattere i mazziniani ed accodarsi quasi inutilmente
alla fortuna dell'impero napoleonico. Laonde l'idea piemontese
soccombeva. Venezia restava in mano all'Austria; la confederazione
dei principi colla presidenza del papa era impossibile; il duca di
Modena e il granduca di Toscana, rientrando nei propri stati,
dovevano scacciarne i commissari piemontesi; e il Pallieri era
già stato inviato da Cavour a Parma, Luigi Carlo Farini a
Modena, Massimo D'Azeglio a Bologna. Il loro ritiro secondo la
convenzione di Villafranca avrebbe coperto d'infamia il Piemonte.
Infatti la sua politica sottomessa agli ordini di Napoleone aveva
fin troppo umiliato l'onore italiano: malgrado il voto delle
popolazioni per una annessione immediata e la dittatura
conferitagli, Vittorio Emanuele non aveva osato affermarsi re di
quelle Provincie. Perugia, sollevatasi generosamente contro il
governo papale, aveva subìto dagli sgherri pontifici
saccheggi e massacri, mentre Cavour faceva insultare gli insorti dai
propri giornali, e riconosceva altamente il diritto sovrano del
papa; la persecuzione dei mazziniani era stata spinta all'assurdo:
si era espulso Aurelio Saffi e carcerato Alberto Mario. Le grandi
promesse della Società Nazionale racchiuse nel triplice motto
- Unità, Indipendenza e Casa Savoia - svanivano: il
trattamento usato a Garibaldi diventava ridicolo dopo quello
inflitto da Napoleone III a Vittorio Emanuele. La guerra era stata
inutile. Il Piemonte vi avrebbe guadagnato il Milanese, ricevendolo
come una elemosina dalle mani del potente alleato che lo aveva
conquistato, ma avrebbe dovuto poi cedere a questo Nizza e Savoia,
giacchè l'imperatore sarebbe stato presto o tardi costretto
ad esigerle, malgrado la propria rinuncia verbale, per giustificarsi
davanti alla opinione publica francese.
Cavour sentiva tutto questo.
L'edificio alzato in dieci anni d'instancabile operosità
crollava improvvisamente, seppellendolo sotto una rovina senza
poesia. La sua mirabile politica della preparazione piemontese, il
coraggio di tante iniziative parlamentari, la splendida
temerità della spedizione in Crimea, il trionfo al congresso
di Parigi, il forte esercito ricostituito, le Alpi traforate,
l'arsenale della Spezia, la stessa guerra franco-sarda si
ritorcevano contro di lui. Invano, durante questa egli aveva preso
tutti i portafogli della marina, dell'interno, della guerra, delle
finanze, ed era bastato a tutto compiendo ogni giorno miracoli di
lavoro e di espedienti; invano il suo patriottismo non aveva
indietreggiato davanti a nessun rischio del Piemonte; più
invano la sua destrezza aveva sottratta al mazzinianismo i migliori
elementi, ora che la sua idea piemontese cadeva miseramente davanti
all'idea italiana.
Mazzini, l'indomabile suo avversario, si rialzava contro di lui come
un profeta vendicatore.
La politica di Cavour, concentrata nello sforzo dì espellere
l'Austria dall'Italia, mentre invece questa vi restava formidabile
nel quadrilatero minacciando la Lombardia se la convenzione di
Villafranca non fosse rispettata, diventava assurda. Come mai Cavour
non aveva previsto che la Germania si opporrebbe alla conquista
della Venezia, dichiarata intangibile dalla Dieta di Francoforte nel
1848, e, sospettando in un eccessivo ingrandimento dell'impero
francese un pericolo per le proprie provincie renane, avrebbe potuto
durante la guerra di Lombardia minacciare la Francia sul Reno? Come
mai Cavour aveva potuto accettare il disegno della confederazione
italiana tracciato da Napoleone? Perchè aveva sollecitato, ed
invano, l'alleanza del Borbone e del granduca di Toscana nella
guerra contro l'Austria? Perchè aveva tanto mortificato la
rivoluzione italiana e sottomesso il Piemonte a Napoleone III per
essere poi da questo abbandonato, e lasciare l'Italia in un disastro
peggiore di quello del quarantotto, sotto la minaccia di una
confederazione, che le avrebbe tolto ogni avvenire?
La pubblica opinione tempestava.
I rivoluzionarii reclamavano contro il vinto ministro colla
nobiltà della loro fede unitaria e democratica: essi non
avevano creduto a Napoleone III, il carnefice di Roma, l'uomo del 2
dicembre, ed avevano avuto ragione. Avevano sempre proclamato che la
formula monarchica tradirebbe l'Italia, e il fatto dava loro fin
troppo ragione, giacchè il Piemonte stesso veniva diminuito.
La Lombardia non valeva Nizza e Savoia e il vassallaggio francese.
La fede d'Italia nel Piemonte arrivava alla stessa spasimante
delusione della fede in Pio IX dieci anni prima.
L'avaro e piccolo stato non aveva mai inteso che ad ingrandire se
stesso: Cavour, incredulo nell'unità ed avverso per istinto
alla rivoluzione democratica, non aveva seguitato che la politica
tradizionale di casa Savoia nella conquista della valle del Po. Il
suo ultimo grido alla convenzione di Villafranca raccolto da
Kossuth, «io sono disonorato in faccia al mio re!»,
mentre trattavasi invece dell'onore d'Italia, aveva tradito il
segreto del suo spirito. Non si credeva più alla sua
abilità, si rideva amaramente del suo patriottismo.
Mai posizione di ministro dittatore fu più triste; egli la
comprese, e si dimise, abbandonando il portafoglio ad Urbano
Rattazzi.
Non si comprendeva allora che gli errori della politica cavouriana
erano una conseguenza inevitabile della formula monarchica, e che il
fallimento dell'idea piemontese, provocato dall'abbandono di
Napoleone III, era la sconfitta definitiva del federalismo. L'idea
piemontese non doveva e non poteva essere l'idea italiana; la
rivoluzione nazionale non poteva e non doveva esser fatta dalla
Francia. L'immenso doloroso garrito della publica opinione era
ancora una prova umiliante dell'insufficienza italiana. Se la
Francia avesse scacciato l'Austria oltre l'Adriatico senza che
l'Europa vi si fosse opposta, l'Italia sarebbe caduta dalla
servitù austriaca al vassallaggio francese: il Piemonte
avrebbe avuto tutto il Lombardo-Veneto; la Toscana si sarebbe mutata
irresistibilmente in un grosso regno d'Etruria; a Napoli avrebbe
regnato un altro Murat troppo inferiore al primo; dopo i principi
prefetti dell'Austria, l'Italia avrebbe sopportato i re luogotenenti
di Francia; il papa, già subordinato all'impero per
l'occupazione francese di Roma, non sarebbe stato che un presidente
nominale della confederazione; tutta l'Italia una seconda Algeria.
Il trionfo della politica cavouriana avrebbe concluso ad un disastro
peggiore della sua sconfitta.
Così il Piemonte non veniva meno all'Italia, ma a se stesso:
gl'impegni assunti colla guerra all'Austria verso la nazione lo
costringevano ora a mutare di idea e di processo. Dopo le sue
alleanze coi governi doveva venire quella del popolo: lo spirito di
Mazzini correggerebbe l'intelletto di Cavour, e Garibaldi
prenderebbe il posto di Napoleone III come alleato di Vittorio
Emanuele.
Infatti, mentre il gran ministro piemontese si ritira vinto non
prostrato nella solitudine di Leri quasi ad attingere altre forze in
seno alla natura, Bettino Ricasoli a Firenze, e Luigi Carlo Farini a
Modena riprendono intrepidamente l'idea dell'unificazione;
Garibaldi, ingrossato di truppe, instà già ai confini
dello stato pontificio coll'audacia di un ribelle, che non conosce
altra autorità che il diritto, altra patria che la nazione,
altro dovere che la guerra; Mazzini, già penetrato incognito
a Firenze urla: «al centro, al centro», mirando al sud!
La Sicilia sta per scoppiare in aperta rivolta; a Napoli i
murattiani, atterriti dalla diserzione di Napoleone, perdono
terreno, mentre il nuovo re Francesco II non trova ancora una
politica per difendersi. Alla progettata confederazione nessuno
crede; si comincia a comprendere che Napoleone non potrà
indire guerra all'Italia se questa ricusi di seguire la convenzione
di Villafranca, che l'Austria ancora indolorita dalle recenti
percosse non potrà riprenderla. L'Inghilterra ora si
chiarisce favorevole; di governi reazionari non restano che il papa
e il Borbone, quegli fatalmente difeso dalla Francia, questi
pressochè abbandonato da tutti.
Il minacciato ritorno del granduca, del duca di Modena e della
duchessa di Parma diventa problematico, giacchè a Villafranca
l'intervento militare per ristabilirli sul trono, qualora le
popolazioni si mantenessero salde nella ribellione, non era stato
deciso. Quindi, sbolliti i primi rancori contro il Piemonte,
l'istinto delle masse afferra prontamente la necessità di
sostenerlo: impossibile pensare adesso a Venezia, più
impossibile ancora proseguire la rivoluzione nello stato pontificio.
Lo sforzo di tutti, prima diretto all'espulsione dell'Austria, si
riunisce ora a procurare le annessioni della Toscana e dei Ducati al
Piemonte. Se qualche velleità di autonomia federale contrasta
ancora, non è più che un ultimo tremito di
vanità di qualche quarantottista in ritardo. Il sentimento
nazionale urge tutte le coscienze; il Piemonte ingrossato della
Lombardia, della Toscana, dei Ducati e delle Legazioni
diventerà lo stato più forte d'Italia, e ne
sarà il nucleo per un'altra riscossa.
Cavour, vinto e maledetto, sta per essere invocato direttore
supremo: la sua destrezza è necessaria alle imminenti
complicazioni. Mentre tutto il paese sta per abbandonarsi alla
rivoluzione, egli, che ne era l'avversario, deve diventarne il
complice e la guida.
Capitolo Terzo.
Prime integrazioni rivoluzionarie
I governi provvisori nell'Italia centrale.
La situazione dell'Italia, all'indomani della pace di Villafranca,
era tale che nessun diplomatico avrebbe saputo definirla e nessuno
statista dominarla. Il federalismo, vinto nella coscienza nazionale,
sembrava risorgere per la volontà tirannica dei due
imperatori; ma una federazione di principi italiani, mentre il
Piemonte aveva già commissari propri nelle provincie insorte,
e Venezia restava sotto l'Austria, e il papa dopo aver massacrato
Perugia arruolava nuovi crociati per tutta l'Europa, era
impossibile. Se i popoli insorti odiavano i principi, questi
esecravano anche maggiormente il Piemonte.
Quindi non corsero subito trattative diplomatiche d'accordi.
Nelle provincie ribelli i governi provvisorii duravano. Parma e
Modena, quella compresa nel teatro della guerra, questa posta sul
suo confine, avevano ricevuto i primi contraccolpi della
rivoluzione. La duchessa Maria Luigia era indarno ricorsa alla
protezione dell'Inghilterra, giacchè il reazionario ministero
Malmesbury veniva indi a poco rovesciato: poi l'Austria, ritirando
le truppe dai Ducati per concentrarle sul Mincio, l'aveva
abbandonata. Laonde la duchessa esulò, dirigendo un proclama
ai propri sudditi, nel quale, dopo molti vanti sulle cure del
proprio governo per tutti i progressi «politici e saviamente
liberali», raccomandava al solito la nomina di una commissione
di governo per la tutela dell'ordine.
Il municipio aveva affidato il governo temporaneo ad un triumvirato
composto del conte Girolamo Cantelli, Pietro Bruni ed Evaristo
Armani, richiamando in vigore l'atto solenne di annessione al
Piemonte decretata dal plebiscito del 1848. Dei triumviri, il
Cantelli aveva servito insino allora alla Corte della duchessa, gli
altri non valevano molto meglio di lui. Si abrogarono tosto lo stato
d'assedio e i tribunali straordinari. A Piacenza, appena sgombrata
dagli austriaci, si improvvisò un uguale triumvirato; poi le
due città deputarono oratori a Torino, perchè si
accettasse il loro voto di annessione. Ma il veto di Napoleone a
Vittorio Emanuele lo impedì, benchè i Ducati fossero
compresi negli ingrandimenti stipulati a Plombières. Quindi
venne mandato commissario governativo nelle provincie parmensi il
conte Pallieri, abile magistrato. A questi, richiamato per ordine
dell'imperatore, successe il triumviro Giuseppe Manfredi.
Se la duchessa Maria Luisa aveva esulato senza resistenza, il duca
Francesco di Modena tentò di sbraveggiare da Brescello alla
testa di settemila uomini, ma alla notizia del concentramento sul
Mincio delle truppe austriache fuggì a Mantova. I suoi ultimi
atti di governo furono degni dei primi: vuotò l'erario,
saccheggiò musei e biblioteche, ed emanò un supremo
editto di minaccia contro tutti coloro che avessero attentato ai
suoi diritti sovrani.
Nullameno la città, risaputa la partenza del presidio
austriaco da Bologna, tumultuava e traeva con bandiera italiana al
palazzo ducale. I reggenti cedettero. Una eptarchia di cittadini
riunitasi a governo richiamò in vigore l'atto d'annessione al
Piemonte del 1848 per dimettere poco dopo ogni suo potere nelle mani
dello storico Luigi Zini, primo commissario governativo. Quindi
giungeva governatore regio Luigi Carlo Farini (20 giugno 1859).
Nelle legazioni e nelle Marche il pacifico moto insurrezionale si
era allargato facilmente. Mentre la Corte Romana, cullandosi nella
fiducia di una vittoria austriaca, respingeva burbanzosamente le
istanze francesi per una rinnovazione delle sue proteste del 1815
contro la nuova occupazione di Ferrara e di Comacchio, appena i
presidi tedeschi si ritirarono dalle provincie (11 giugno) vide
rovinare silenziosamente il proprio governo. A Bologna
s'instituì una Giunta provvisoria di quinqueviri, che
sfrattò il cardinale legato Milesi: la Romagna, le Marche,
l'Umbria s'associarono a Bologna nominandola metropoli. Nessuno
spargimento di sangue: solo ad Ancona il presidio pontificio
minacciò la moltitudine e conservò il castello.
Con unanime voto tutte le città insorte invocarono
inutilmente la dittatura di Vittorio Emanuele.
Allora la Corte Romana, irritata dalla sorpresa, benchè
scarsa di soldatesche, precipita a reazione. Il popolo non insorge;
Ancona e tutte le altre città delle Marche ricadono senza
sangue sotto il dominio pontificio; solo Perugia, assalita con 2500
mercenari dal colonnello svizzero Schmid, resiste debolmente ed
infelicemente. Gli ordini di Roma contro di essa sono atroci: la
Giunta improvvisata di governo si smarrisce invece nell'inazione: i
magistrati municipali l'abbandonano timidamente, lasciando ad alcuni
gruppi di popolani più risoluti preparare la battaglia. Ma
pochi, male armati, peggio guidati, fra lo sgomento della
moltitudine e l'odio dei villani, che in tutte le campagne
parteggiavano ancora per il papa, debbono soccombere. Un osceno e
truce saccheggio insanguina la città, si profanano chiese, si
violano ospedali, orfanotrofi, monasteri, mentre da Roma escono
vanti ribaldi dell'impresa, e il vescovo della città, oggi
papa col nome di Leone XIII, celebra pompose esequie ai pochi
sgherri caduti, scrivendo sul loro catafalco con satanica ironia:
Beati mortui qui in Domino moriuntur. Con non meno crudele
insensibilità il conte Cavour accusa i caduti di faziosi e
riconosce solennemente il diritto sovrano del papa.
Ma la reazione pontificia rattenuta dalla stessa volontà di
Napoleone, che frenava l'espansione piemontese, non osò
invadere le Romagne; la Cattolica, meschino villaggio marittimo fra
Rimini e Pesaro, segnò il limite della rivoluzione: da questo
vigilava il generale Luigi Mezzacapo coi volontari romagnoli
arruolati in Toscana. Napoleone III gli aveva permesso di difendersi
e proibito di assalire.
Pareva allora che lì sarebbe il confine del nuovo stato
piemontese. L'incertezza politica, che confondeva dolorosamente le
provincie insorte, si sbrogliava, ma più dolorosamente in
Toscana. Mentre i Ducati e le Legazioni, vedendo ricusato il loro
voto d'annessione al Piemonte, cominciavano a tremare nella fede al
nuovo re, in Firenze s'apriva la prima scena del dramma
bonapartista. L'urto delle diplomazie europee v'era cresciuto di
giorno in giorno dalla fuga del duca Leopoldo: Russia, Prussia ed
Inghilterra si ostinavano a riconoscerlo ancora sovrano: Vittorio
Emanuele ricusava la dittatura, promettendo un protettorato
indefinibile; il Buoncompagni, mandatovi commissario, male si
accontava coi governanti provvisori ancora ammalati di autonomia
amministrativa e intenti colla tradizionale avarizia del paese ad
economizzare fatica e denaro per la guerra dell'indipendenza.
Finalmente potè deciderli a ritirarsi e a nominare un altro
governo, del quale divenne mente e volontà il barone Bettino
Ricasoli: nell'impossibilità di convocare tosto il parlamento
si costituì una consulta di quarantadue membri per aiuto e
sindacato dei ministri; ne fu presidente venerato per sventura di
cecità e lustro di vita Gino Capponi.
I momenti erano difficili. I duchisti mestavano fra la plebe delle
campagne e dei borghi, il partito francese capitanato dal Salvagnoli
aumentava d'iniziativa, all'annessione col Piemonte non si vedeva
modo, un moto republicano repugnava, l'Europa proteggeva il
granduca. Improvvisamente il principe Girolamo Bonaparte si
presentò a Firenze come pretendente inviato dall'imperatore,
in assisa di generale, guidando un corpo d'esercito con ipocrito
pretesto di guerra nazionale. Ma Bettino Ricasoli, Gino Capponi e il
tribuno popolano Dolfi organizzarono una mirabile resistenza morale
intorno al principe, che dovette presto persuadersi
dell'impossibilità di crescere a re d'Etruria. Quindi venne
invitata la Consulta a decidere sulla proclamazione della
sovranità nazionale di Vittorio Emanuele, e il decreto ne era
già redatto, quando da Torino il conte di Cavour, soccombendo
da capo alle pressioni imperiali, vi oppose il veto. Allora il
popolo eccitato da Dolfi, mazziniano moderato ed agitatore
instancabile, forzò le troppe prudenze dei governi torinese e
fiorentino coll'ottenere che tutti i municipi deliberassero per
l'immediata unione della Toscana alla monarchia di Savoia. I
municipi votarono con patriottica unanimità la subita fusione
dei due paesi. Il voto popolare inanimì la Consulta, alla
quale il commissario potè finalmente proporre tre schemi di
legge per l'istituzione della milizia cittadina, per la riforma del
codice penale e per il rinnovamento degli ordini municipali.
L'inaspettata pace di Villafranca venne a sgominare il pacifico
lavoro. Il popolo tumultuò devastando per insana vendetta la
stamperia, donde era uscito il giornale colla triste novella; il
governo, cresciuto d'animo nel pericolo, affermò invece
solennemente che per qualsiasi dolorosa traversia mai la Toscana
sarebbe ricondotta sotto il giogo lorenese od austriaco.
Ma alla pace di Villafranca il problema delle annessioni si
complicò.
Iniziative dittatoriali.
Il Piemonte dovette subire l'umiliazione di richiamare i propri
commissari e di abbandonare una insurrezione compiutasi nel nome di
Vittorio Emanuele. Il conte di Cavour si dimise per sottrarsi
abilmente ai tristi risultati della propria politica; però,
mutando di tattica con robusta agilità, dopo aver tanto
mortificato la rivoluzione, l'incuorò. A prevenire tentativi
di ristorazione nei Ducati, mandò Lodovico Frappolli a Modena
per ordinarvi la difesa con Farini, dicendogli: «Fate arma di
ogni palo: respingete i soldati del duca quando egli tentasse di
rientrare; sono italiani, che hanno rinnegato la patria; cacciateli
nel Po». Farini, sprigionando improvvisamente l'energia
rivoluzionaria deposta nella sua coscienza dal mazzinianismo
giovanile, si dimise da commissario regio per proclamare l'indomani
la propria dittatura, alto gridando dal vecchio palazzo Estense:
«Avanti colla stella d'Italia, perchè l'Italia non ha
contrassegnato la pace di Villafranca».
Cavour dimissionario gli rispose: «Il ministro è morto,
l'amico applaude alla vostra risoluzione».
D'Azeglio, richiamato da Bologna, disobbedì generosamente,
mandando novemila soldati alla frontiera romagnola della Cattolica
contro un possibile attacco degli svizzeri di Perugia, e non si
ritirò che dopo munita la città di un altro governo.
Sciaguratamente, a lui successe Lionetto Cipriani, bonapartista
disonoratosi al quarantotto nella repressione di Livorno.
I reggitori provvisori di Toscana mandarono a Torino il segretario
Celestino Bianchi, al quale il re promise di ritentare a primavera
la guerra con le sole forze italiane, mentre Cavour gli consigliava
di costituire subito un governo deliberato di resistere a pressioni
diplomatiche e ad assalti armati. Di Firenze rimase ministro
dittatore Bettino Ricasoli.
Mentre a Zurigo stava per riunirsi il congresso della pace,
bisognava che le provincie abbandonate dai principi e dal Piemonte
affermassero vigorosamente il proprio diritto italiano e la propria
maturità civile, reggendosi da sole senza dare in eccessi.
Un'altra guerra sarebbe quindi stata necessaria per ricondurvi i
principi spodestati; ma l'imperatore Napoleone, ancora alleato del
Piemonte e compromesso da troppe affermazioni favorevoli alla
nazionalità italiana, non avrebbe potuto ridiscendervi;
l'Austria, non ancora rimessa dal disastro patito, col rivincere
un'altra guerra avrebbe riconquistato sull'Italia l'antica
supremazia, mentre la Francia non poteva consentirlo. Restava il
pericolo della costituzione nell'Italia centrale di un grosso stato
sotto un Bonaparte: a questo doveva opporsi il voto delle
popolazioni, secondato dall'interesse delle diplomazie europee.
La nuova politica delle provincie insorte era fatalmente designata
entro i due termini della rivoluzione e della monarchia.
Quindi Luigi Carlo Farini a Modena, quasi sotto il tiro dei cannoni
austriaci, vi si caccia risolutamente. Deciso a convocare i comizi e
a costituire parlamenti regionali, li previene con superba arditezza
promulgando subito lo statuto, i codici e le leggi del regno sardo:
apre gli archivi e getta al pubblico senza un commento le prove
infami delle passate signorie. Il 14 agosto raduna i comizi
modenesi; il 18 il Ducato di Parma gli offre la dittatura, ed ambo
le assemblee unanimemente deliberano la decadenza dei duchi e
l'annessione a Casa Savoia, riconfermando la dittatura al forte
rivoluzionario. Quindi i due parlamenti si prorogano per non essere
riconvocati che per chiamata del dittatore.
A Bologna Lionetto Cipriani, riuscito governatore per opera del
marchese Gioacchino Pepoli, uno dei tanti parenti cui l'imperatore
Napoleone aveva assegnato un piatto di cinquantamila lire annue,
costretto ad inaugurare col 1^o settembre il congresso dei
rappresentanti delle Romagne, arrivava al medesimo risultato:
l'assemblea eleggeva Marco Minghetti a presidente, votando
l'abolizione del governo temporale e l'annessione al regno sardo di
Vittorio Emanuele.
A Firenze, nella tornata del 20 agosto, l'assemblea uscita dai
comizi popolari decretava unanimemente la decadenza dei Lorenesi e
l'annessione della Toscana al Piemonte, raccomandando la giustizia
della propria causa allo stesso senno di Napoleone III e delle altre
maggiori potenze. Infatti si erano già mandati oratori a
Londra, Parigi, Berlino e Pietroburgo.
Quindi i quattro piccoli stati si stringono a lega militare. Farini,
più ardente e teatrale, vorrebbe raddoppiarla con una lega
politica, ma Ricasoli vi si oppone. Nella lega militare erano tosto
cominciati gli screzi: Farini stesso temeva di ammettervi le Romagne
che in una rivendicazione pontificia consentita dai grossi governi
avrebbero potuto trascinare nella propria rovina gli altri stati.
Marco Minghetti, plenipotenziario per la Toscana, trovò col
Farini questo meschino ripiego, che Bologna dovesse formulare la
propria domanda di accessione alla lega militare in guisa che Modena
e la Toscana rimanessero svincolate verso di essa da qualunque
impegno, nel caso di un intervento militare europeo nello stato
pontificio «o di gagliardo assalto dell'esercito
papale». Così l'egoismo regionale e lo spirito regio
viziavano ancora l'idea rivoluzionaria. Alla lega politica Ricasoli
si oppose con profonda sagacia per non offrire alle diplomazie
maggiore facilità di costituire un regno nell'Italia
centrale. Capitano della lega militare il Piemonte mandò in
Manfredo Fanti il proprio generale migliore; Garibaldi, preso
congedo il 7 agosto dall'esercito sardo, aveva assunto, per invito
di Ricasoli, il comando delle truppe toscane, sotto gli ordini di
Fanti.
Al quesito del come presentare al re i voti delle popolazioni,
Farini rispose colla proposta di una sola deputazione, Ricasoli si
ostinò alle quattro: vinse Ricasoli. Ma Vittorio Emanuele non
osò accettarli e si limitò a promettere poveramente di
patrocinare la causa delle provincie presso l'Europa. L'iniziativa
piemontese era dunque cessata. Le assemblee dei quattro stati
riconvocati proclamarono allora il principe di Carignano loro
reggente in nome di Vittorio Emanuele (6-9 novembre); Napoleone
sempre avviluppato nelle stesse ambagi, dopo aver risposto che non
si farebbe violenza alla volontà degl'italiani,
telegrafò al re di ricusare la reggenza poichè
manderebbe a monte il congresso di Zurigo e gli farebbe perdere
l'Italia. Cavour nella solitudine di Leri fu invocato consigliere.
Naturalmente il problema così posto essendo insolubile, si
dovette bizantineggiare: d'accordo con Napoleone Vittorio Emanuele
invece di accettare i voti delle popolazioni li accolse, e il
Boncompagni fu nominato reggente per il principe di Carignano
reggente pel re.
Mentre la diplomazia piemontese discendeva a così umili
sofisticherie, le popolazioni fremevano d'impazienza, ma senza
passione di guerra. Mazzini, penetrato in Toscana, aveva dovuto
chiudersi prigioniero incognito in casa del tribuno Dolfi sotto
sicurtà data da questo al Ricasoli che niuno lo avrebbe
saputo. Aurelio Saffi, arrestato a Torino, aveva dovuto ripassare la
frontiera; Alberto Mario e sua moglie, nobile scrittrice inglese
fervida d'entusiasmo italiano, erano incarcerati a Bologna per
ordine di Lionetto Cipriani. Altri illustri mazziniani venivano
espulsi o imprigionati. Mazzini, aiutando generosamente il moto,
avrebbe voluto dal paese qualche prudente riserva prima di
abbandonarsi alla dinastia di Savoia, che non osava nemmeno
accettarlo; e non comprendeva come ogni riserva essendo un passo
verso la republica, ne fosse parimenti un altro contro la monarchia.
Tutta la elasticità del suo sentimento patriottico non poteva
vincere l'inflessibilità del suo sistema republicano. Il
disegno da lui proposto di fondere i quattro piccoli stati in uno e
di trasformare la loro assemblea in nocciolo di futura assemblea
nazionale, proseguendo la guerra contro l'Austria e spingendo la
rivoluzione nel reame per decidere poi, dopo la vittoria, se
l'Italia dovesse reggersi a monarchia o a republica, esautorava
anticipatamente il Piemonte. Le annessioni non potevano essere
allora che incondizionate: la monarchia discussa avrebbe conchiuso
alla republica, la quale era impossibile. Egli stesso, intransigente
eroico, comprendendo la necessità per l'impero napoleonico di
conservare Roma al papa consigliava alla grande urbe di non muoversi
per non complicare il già troppo aggrovigliato problema
italiano.
Ma se il suo spirito rivoluzionario manteneva le Provincie salde nel
proposito di formare col Piemonte un grosso regno nazionale, il suo
sistema, reso più inapplicabile dalle complicazioni
diplomatiche, accresceva le difficoltà delle annessioni colla
trascendenza di una democrazia republicana, che si risolveva in una
critica sanguinante di tutte le necessarie affermazioni del momento.
La generosità del suo sacrificio in favore della monarchia
savoiarda, pur di sottrarre le provincie al pericolo di un regno
buonapartista, non era creduta; la sua propaganda esorbitava
fatalmente la sua popolarità; i suoi seguaci, il suo genio
stesso, lo rendevano altrettanto necessario allo spirito nazionale
che impossibile nell'azione politica.
Quindi dovette riprendere la via dell'esilio, scrivendo una lettera
a Vittorio Emanuele per eccitarlo con malinconica eloquenza
all'impresa d'Italia.
Garibaldi, sorvegliato da Ricasoli, tenuto a bada da Farini,
sottomesso a Fanti, quasi prigioniero del proprio stato maggiore,
abbindolato con buone parole dal re, insisteva indarno a Modena per
aprire la campagna contro il papa. La politica cavouriana, che lo
aveva chiamato a Torino per la guerra contro l'Austria senza
lasciargli nè iniziative nè glorie, lo perseguitava
abilmente nei nuovi governi: si voleva la sua presenza, non la sua
opera. Cipriani per ordine di Napoleone III lo angariava; si
bistrattavano i Cacciatori delle Alpi; i generali Mezzacapo e
Rosselli, subordinati a Garibaldi, avevano ordini dal ministero
piemontese di non ubbidirgli, mentre lo si mandava al confine di
Rimini come ad iniziarvi la guerra. Le popolazioni si agitavano;
dalle incertezze crescevano i sospetti. Finalmente, l'opera
antipatriottica del Cipriani offese, l'Assemblea lo costrinse a
dimettersi, ed acclamò dittatore Farini proposto prima da
Garibaldi stesso. Allora la lotta scoppiò fra i due
rivoluzionari: Farini, incredulo dell'unità italiana, non
mirava che a costituire col Piemonte un più grosso stato;
Garibaldi, sprezzante di tutte le difficoltà diplomatiche,
voleva appunto nell'inerte imbroglio di tutti i governi compiere la
rivoluzione italiana marciando al sud. Questi gl'intimò di
cedergli la dittatura, ma il dittatore resistè, il re
s'interpose e Garibaldi si dimise.
La sua grande ora non era suonata.
Intanto la destituzione del Cipriani a Bologna finiva di persuadere
a Napoleone III l'impossibilità di un regno d'Etruria: le
popolazioni dell'Italia centrale vi erano francamente avverse e
contraria l'Europa. La sua doppia politica, colla quale faceva
costringere insolentemente dal ministro Walewski il Piemonte e le
altre provincie all'osservanza dei preliminari di Villafranca,
mentre lusingava personalmente i legati italiani sul rispetto ai
voti delle popolazioni, si sbrogliò: bisognava cedere
l'Italia centrale al Piemonte e trarne come prezzo la già
rinunciata cessione di Nizza e di Savoia. Il congresso di Zurigo, al
quale l'Austria si presentava col linguaggio di Metternich, non
doveva dunque riunirsi, giacchè Prussia e Russia l'avrebbero
irresistibilmente sostenuta. Laonde, mentendo il proprio pensiero,
scrisse a Vittorio Emanuele una lettera, nella quale peggiorava la
confederazione proposta dall'Austria, col tramutare Modena dalla
casa d'Este alla duchessa di Parma, col riconsegnare la Toscana
accresciuta di alcuni territori pontifici all'arciduca Ferdinando, e
col dichiarare Mantova e Peschiera fortezze federali. Vittorio
Emanuele e l'Austria protestarono. Poco dopo, in un opuscolo come
quello ispirato al Laguerronière sul principio della guerra,
esortò la Santa Sede a contentarsi d'un dominio più
ristretto, poichè l'imminente congresso avrebbe dovuto
fatalmente toglierle le Legazioni: all'ultimo giorno dell'anno
(1859), in una lettera autografa a Pio IX, con frasi più miti
ripetè la stessa idea. L'Austria chiese al gabinetto francese
se sosterrebbe tali proposte al congresso, e dietro risposta
affermativa dichiarò di non intervenirvi, protestando a nome
dei principi spodestati: il papa svillaneggiava in un discorso
solenne l'opuscolo imperiale. L'imperatore sostituì nel
ministero il Thouvenel al Walewski; quindi il congresso
abortì.
Contemporaneamente il conte di Cavour risaliva sulla scena politica.
Le annessioni dell'Italia centrale.
Già nel proprio ritiro di Leri aveva conservato la direzione
spirituale del moto. Corte, ministero, deputazione lo consultavano.
L'atteggiamento risoluto delle provincie contro l'installazione di
un principe buonapartista a Firenze, la forzata inazione
dell'Austria, l'impossibilità per la Francia di un'altra
guerra contro l'Italia, la gelosia di tutta Europa contro ogni
ingrandimento napoleonico, gli scopersero la possibilità di
ottenere l'annessione dell'Italia centrale al Piemonte. Il
mazzinianismo era troppo debole per contrastarla republicanamente,
Garibaldi troppo generoso per ribellarsi al re, i governatori delle
provincie insorte troppo abili per lasciar sviare il moto
annessionista.
La stella di Cavour risorgeva, tutti sentivano in lui il più
destro dei negoziatori.
Il ministero Rattazzi-Lamarmora, succeduto al suo, aveva stentato a
fronteggiare la situazione. Sessantamila francesi accampavano ancora
in Lombardia a difesa contro l'Austria e dei patti di Villafranca,
fors'anche a nuova conquista napoleonica nell'Italia centrale;
l'Austria domandava oltre l'indennità di guerra 600 milioni
come quota del debito generale dell'impero e di quello particolare
di Lombardia; le provincie insorte basivano sotto l'incubo di una
minacciata restaurazione; tutte le diplomazie d'Europa insistevano
per l'esecuzione della pace di Villafranca.
Naturalmente il ministero, colla tradizionale ambiguità della
politica savoiarda, dovette favoreggiare segretamente le annessioni
ed osservare apertamente i patti di Villafranca. Bisognava anzitutto
negoziare la pace coll'Austria imbaldanzita dal contegno remissivo
dell'impero francese. Il Piemonte, vincitore subalterno, veniva
trattato come un vinto. Dacchè la Lombardia era stata ceduta
a Napoleone III, Vittorio Emanuele doveva pagarne il prezzo; dopo
molte trattative si convenne che il Piemonte assumesse 3/5 del
debito del Monte Lombardo-Veneto e una quota di 40 milioni di
fiorini sul prestito nazionale del 1854. Il letto del Mincio
restò diviso fra le frontiere dei due stati, e il raggio
della fortezza di Peschiera fu ridotto da sette a tre chilometri.
Il 10 dicembre si segnarono i tre trattati di pace: il primo tra
Francia ed Austria risolveva la questione politica e territoriale
d'Italia, riconfermando il disegno di una confederazione sotto la
presidenza onoraria del pontefice e mantenendo intatti i diritti dei
principi spodestati: però non si stabiliva intervento
militare per ricondurre costoro sul trono, quantunque il Piemonte
avesse dovuto aderire a tale disegno federativo. Il secondo tra
Francia e Piemonte trattava della cessione della Lombardia a
quest'ultimo. Il terzo fra le tre potenze unite assettava tutti
gl'interessi estranei alla clausola posta dal re di Sardegna ai
preliminari di Villafranca. Colla stipulazione della pace di Zurigo
cessavano i pieni poteri accordati dal parlamento subalpino alla
Corona; ma il ministero, fingendo di non accorgersene,
proseguì a legiferare per decreto reale.
Però, se una rapida unificazione legislativa era il maggior
bisogno del momento, il ministero nell'abbandonarvisi impetuosamente
commise un triplo errore; anzitutto volle applicare tosto alla
Lombardia le leggi amministrative piemontesi, non solo inferiori a
quelle sopravissute della sua antica vita municipale e rispettate
persino dall'Austria, ma peggiori della medesima amministrazione
austriaca. Così falsavasi ogni originalità paesana per
vanità di un cattivo modello. Poi le leggi emanate a fasci
generarono una indicibile confusione e un maggiore dispendio, mentre
il paese doveva sopportare l'aumento di spese per la guerra patita e
per l'impianto del nuovo governo. Finalmente le leggi piemontesi,
nella loro asprezza monarchica e col carattere reazionario del
passato, parvero dettate da un pensiero di conquista regia:
l'arbitrio ministeriale, col prescindere in esse dal concorso del
parlamento, finiva d'esasperare la publica opinione. L'antagonismo
regionale rifermentò; i lagni di Lombardia echeggiarono
nell'Italia centrale.
Il conte di Cavour, tutto inteso a riaffermare la direzione degli
affari, sollevò la questione della riconvocazione del
parlamento, ponendola come ultimatum alla sua accettazione di
ministro plenipotenziario al congresso di Parigi; ma per meglio
offendere i ministri, invece di scrivere loro, dettò la
lettera a sir James Hudson. Questo stratagemma decise della ritirata
del ministero, che vide nella lettera del legato inglese una
insolente ingerenza di diplomatico straniero nelle cose di stato.
Cavour chiamò seco al ministero il generale Manfredo Fanti
per la guerra, Stefano Jacini pei lavori publici, Terenzio Mamiani
per la publica istruzione. Il suo disegno politico era semplice:
barattare francamente Nizza e Savoia coll'Italia centrale; ma la
politica annessionista aveva d'uopo del concorso parlamentare per
perdere l'arbitrario carattere regio.
Così Cavour, passando sopra ogni regolarità di
procedura, decise di ammettere al parlamento i deputati dell'Italia
centrale.
Napoleone stesso suggerì a Cavour l'idea di un nuovo
plebiscito delle provincie. Il risultato ne fu splendido. I comizi
della Toscana e dell'Emilia convocati (11-12 marzo 1860) per
pronunziarsi tra l'unione al regno costituzionale di Vittorio
Emanuele e il regno separato diedero questi risultati: nell'Emilia
su 526,258 elettori iscritti votarono 427,512, dei quali 426,006 per
l'unione alla monarchia sarda; in Toscana votarono 386,445, dei
quali 366,571 per l'annessione e 14,925 pel regno separato. Il voto
fu a suffragio universale, mentre l'elettorato politico nello
statuto piemontese era il più ristretto d'Europa. In questa
contraddizione stava il riconoscimento della sovranità
nazionale tanto caldeggiato da Mazzini; lo statuto era la monarchia,
il suffragio universale la rivoluzione; quella la forma, questa
l'idea: il cittadino votando pel re si affermava sovrano,
così che la monarchia costituzionale non avrebbe mai
più potuto soverchiare il diritto popolare.
Compita l'annessione dell'Italia centrale, facendo riaffermare dal
re la propria devozione al pontefice come principe cattolico, Cavour
potè sciogliere finalmente la vecchia camera sarda ridotta da
oltre un anno a poco più di un nome, e bandire le elezioni in
tutte le provincie del nuovo regno. Farini passò al ministero
dell'interno, Ricasoli rimase come governatore generale al fianco
del principe di Carignano luogotenente del re a Firenze.
Cessione di Nizza e di Savoia.
Senonchè, ottenute le provincie, si dovette subito pagarne il
prezzo. La Savoia, fino dal trattato di Brosolo considerata come
scotto alla Francia per un qualunque ingrandimento piemontese nella
valle del Po, sebbene situata al di là delle Alpi, e francese
di spirito, e annessa alla Francia dalla grande rivoluzione del'89,
aveva dato il nome, la bandiera e la storia alla dinastia che stava
per diventare nazionale: Nizza, conquistata dal Conte Rosso nel
1388, era doppiamente italiana come patria di Garibaldi; poi la loro
cessione da re ad imperatore negava tutto il diritto politico della
nuova rivoluzione. Fra i trionfi della sovranità popolare
ricominciavano i mercati di popolo. Napoleone, col disertare la
causa italiana al Mincio e col cercare ogni via ad impedire le
annessioni dell'Italia centrale al Piemonte, aveva perduto anche i
diritti stipulati a Plombières.
Tutta la democrazia italiana si scosse: il popolo ne fu malinconico.
Invano i giornali del ministero affettarono il più mercantile
cinismo per persuadere la cessione; l'offesa alla coscienza
nazionale anzichè placarsi s'inveleniva. Re Vittorio
mormorò con poetica tristezza, alludendo a Napoleone:
«Dopo avergli data la figlia bisognerà cedergliene la
culla!»; Garibaldi ruggì; Mazzini moltiplicò
articoli, invettive, proteste; alle Camere l'opposizione si
disciplinò a battaglia. Per un momento parve che l'Europa
medesima si opponesse alla cessione: l'Inghilterra per poco non
trascorse a minaccie; Thouvenel la vinse, rispondendo che
l'annessione della Savoia alla Francia non era politicamente diversa
da quella della Toscana al Piemonte; l'Austria invece per dispetto
la favoreggiò; la Svizzera invocò indarno i trattati
di Vienna, pei quali alcuni territori savoini essendo stati
introdotti nella sua neutralità, essa resterebbe così
colle frontiere indifese.
Napoleone ammansì l'Inghilterra con un trattato di commercio
libero-scambista, non tenne calcolo della Svizzera, minacciò
coi propri giornali il Piemonte. La fatalità della politica
cavouriana costrinse questo a cedere: il conte di Cavour stesso,
assumendo arditamente alla Camera la responsabilità del
triste atto, ebbe il coraggio di confessarlo.
Alla Camera, ove sedevano per la prima volta i deputati delle
provincie annesse, la discussione fu tempestosa: Guerrazzi vi
gettò lampi di eloquenza fra scrosci di sarcasmi, ai quali
nullameno Cavour potè efficacemente rispondere; Urbano
Rattazzi riapparve terribile di logica e di abilità,
accusando i ministri dell'inutile ed indegno mercato; ma la
fatalità del sistema regio prevalse: 229 voti su 262 votanti
approvarono la cessione (22 maggio 1860).
Il trattato era stato sottoscritto il 24 marzo dal ministro
Benedetti e dal principe di Talleyrand per l'imperatore, da Cavour e
da Farini per Vittorio Emanuele; siccome però statuiva che
l'annessione delle due provincie alla Francia dovesse effettuarsi
col consenso dei popoli, a larvarlo nella publica opinione
s'indissero a Nizza e nella Savoia plebisciti, che oro e pressioni
di governo fecero riuscire a favore della Francia.
Così finiva la conquista regia: nel suo primo giorno Vittorio
Emanuele non aveva osato accettare la Toscana, nell'ultimo cedeva la
Savoia; l'iniziativa francese aveva voluto la guerra, l'iniziativa
piemontese vi si era associata; la Francia aveva respinto l'Austria
dalla Lombardia, il Piemonte aveva ricevuto in regalo dal vincitore
il campo di battaglia; l'Italia centrale era sfuggita mercè
la propria energia alle lusinghe e alla minaccia di un regno
bonapartista, ma la dinastia sarda, che non aveva ardito nè
conquistarla nè accettarla, la otteneva ora dalle mani del
proprio prepotente alleato col baratto di altre due provincie. La
rivoluzione soccombeva alla monarchia, il Piemonte alla Francia,
mentre l'Italia rimaneva divisa in quattro stati coll'Austria, il
papa e il Borbone.
La politica regia non poteva andare oltre, l'Italia non pareva
capace di sforzo maggiore.
Lo scarso numero de' suoi volontari alla guerra, che non
superò i cinquantamila, la sommissione mostrata nel periodo
annessionista, l'inerzia del reame che nemmeno le vittorie sui campi
lombardi avevano potuto sollevare, l'atonia di Roma, la fiacchezza
delle provincie pontificie riconquistate da un pugno di sgherri fra
l'indifferenza di tutte le altre, l'abbandono dell'ideale
republicano come troppo costoso di denaro e di sangue, la pazienza
per tutte le prepotenze francesi, la stessa calma, che aveva reso
ammirabile all'Europa il contegno del popolo, tradivano la debolezza
della nazione.
Mazzini veniva abbandonato da tutti. Garibaldi non era ancora
seguìto che da pochi.
Si era fidato nella Francia e nel Piemonte, accettando da entrambi
quanto potevano dare. Invece di eserciti improvvisati ed
irresistibili di passione si erano mobilizzate le guardie nazionali,
innocua ed inartistica parata di teatro. L'esercito regolare sardo
era stato bello di disciplina e di valore, i volontari garibaldini
incomparabili di originalità e di eroismo, ma della guerra
popolare era mancato persino il fermento. Mazzini aveva sperato in
cinquecentomila volontari; Garibaldi ne chiedeva centomila, e non
era arrivato che ai dodicimila. L'iniziativa regia aveva in certo
modo disinteressata l'iniziativa popolare.
Rivoluzionari, regii e republicani non erano che una minoranza, la
quale senza l'intervento francese non avrebbe mai potuto fare
nè la guerra nè la rivoluzione.
Il Piemonte, uscendo ingrossato dall'una e dall'altra, aveva di poco
migliorato la propria condizione. L'Austria non aveva che a
ripassare il Mincio per riprendere in una settimana tutta la
Lombardia; verso Francia il nuovo stato era senza frontiere, mancava
di comunicazioni col sud; il vassallaggio all'impero napoleonico gli
scemava l'antica indipendenza; l'ostilità alla rivoluzione lo
indeboliva all'interno; aveva esauste le finanze, fallito il
programma, assunti impegni ineseguibili. L'unità d'Italia era
negata come al quarantotto.
Le prime integrazioni rivoluzionarie non avevano potuto attuare che
una parte dello stesso disegno regio di Plombières: ma senza
Venezia, senza la Sicilia, senza Napoli e senza Roma l'Italia non
era. La prodezza di Vittorio Emanuele, l'abilità diplomatica
di Cavour, non bastavano all'Italia: la fusione della valle del Po
era la parte più facile dell'unificazione nazionale; ma
poichè nè Roma era insorta, nè Napoli si era
sollevata durante la guerra franco-sarda, a fonderle coll'Italia
bisognava conquistarle.
L'iniziativa regia non era da tanto. Infatti il primo atto della
nuova politica piemontese fu di sollecitare l'alleanza di Francesco
II, per impedire a Napoli ogni moto rivoluzionario.
Solo un'impresa temeraria come un'avventura, splendida come una
visione, irresistibile come una profezia, improvvisa, piccola,
assurda, raccolta su due barconi sconnessi come quelli di Cristoforo
Colombo, con un esercito non maggiore di quello di Cortez,
senz'altra fede che la vittoria, altro amore che di patria, altra
probabilità che di morte, con un capitano invincibile come un
messia, senza danaro, quasi senz'armi, poteva approdando in Sicilia
appiccarvi il fuoco della rivolta, assalire fortezze, liberare
città, moltiplicare le battaglie come spari di festa; quindi
più forte, più rossa del proprio e del sangue nemico,
lanciarsi pazzamente fra Scilla e Cariddi, afferrare il continente,
passare come una vampa per le Calabrie, correre su Napoli,
sbaragliando eserciti, stordendo popoli, ministri, re, e, sollevando
tutto un regno, che sentimenti, idee, costumi, storia rendevano
tanto dissimile dal resto d'Italia, gettarlo in seno alla nazione e
farne una patria sola.
Giuseppe Garibaldi doveva guidare quest'impresa
Capitolo Quarto.
La conquista rivoluzionaria
I mille di Marsala.
Il vasto reame delle due Sicilie sembrava assistere con ignava
curiosità al grande dramma della liberazione d'Italia: dopo
tanto fervore di congiure, non vi restava abbastanza passione
patriottica per osare d'insorgere contro il governo borbonico in
tanta facilità di momento. L'Austria vinta non avrebbe potuto
soccorrere re Francesco II; la Francia sarebbe stata favorevole per
ambizione di un altro regno murattiano; l'Inghilterra per
antagonismo coll'impero napoleonico avrebbe invece favorito un moto
nazionale; Garibaldi era pronto ad accorrere colle bande rosse; il
Piemonte, volente o nolente, avrebbe dovuto spingere sino al
mezzogiorno la propria politica annessionista.
Re Francesco II, salendo al trono, aveva dichiarato all'ambasciatore
russo Kisselef di ignorare che cosa potesse significare la
indipendenza italiana; quindi, sollecitato d'alleanza dal Piemonte
prima e dopo la guerra, aveva ricusato per chiudersi in una
sprezzante neutralità; più tardi, costretto a mutare i
vecchi cattivi ministri, ne aveva scelti di peggiori; e fingendo
colla duplicità paterna di cassare la legge sugli attendibili
o sospettabili politici l'aveva invece mantenuta con una circolare
segreta del direttore di polizia, che poi dovette sconfessare. Un
ignobile egoismo ed una insensata alterigia gli toglievano di
comprendere il significato fin troppo evidente di una situazione
politica, nella quale la sua corona era minacciata da nemici di ogni
sorta. La sua fede all'Austria e al papa, che avrebbe potuto essere
cavalleresca alleandosi con loro contro la rivoluzione, non era che
servilità di bigotto e di vassallo; la sua avversione alla
libertà non derivava che da una vanità di despota
senza carattere e senza ingegno. Ultimo di una famiglia di tiranni e
di malvagi, al pari di tutte le vittime designate all'espiazione di
una decadenza, non era più che un melenso, cui la rivoluzione
trionfante spazzerebbe fra poco come un'immondizia, invece di
spezzare come un ostacolo.
La sua sola idea politica in tanto frangente di guerra fu di una
spedizione a favore del papa per aiutarlo a risottomettere le
Romagne, ma nemmeno questa eseguì. Quindi, essendosi
ammutinati gli svizzeri pel decreto del governo federale elvetico,
che dopo le stragi di Perugia vietava il nome patrio e gli stemmi
cantonali ai mercenari militanti per la Santa Sede e pel Borbone,
egli disciolse il loro corpo grosso di 14,000 soldati, e lo
sostituì portando la leva ordinaria della milizia stanziale a
18,000 coscritti. Al finire dell'anno (1860) l'esercito borbonico
sommava a 100,000 uomini, ma senza merito negli ufficiali, senza
valore nei soldati, senza patria, senza ideale. Una indescrivibile
indisciplina no sconnetteva gli ordini: i volontari vi erano ribaldi
di piazza o di polizia, i coscritti piuttosto fantocci che fanti,
poco disposti a battersi, incapaci di morire combattendo.
Nullameno il loro numero bastava per togliere ai rivoluzionari del
paese, così pronti a contarsi per migliaia, ogni
velleità di rivolta. I più forti fra questi credettero
far molto costituendo coll'inguaribile bizantinismo delle loro
procedure un comitato a doppia assemblea dei iuniori e dei seniori,
che più tardi si mutò in quello dell'Ordine per
spargere qualche bollettino anonimo o gettare nei teatri qualche
nastro tricolore col motto: «Italia e Vittorio
Emanuele».
D'altronde il conte di Cavour, mandando il Villamarina a Napoli, gli
raccomandava vivamente di sconsigliare i liberali da moti violenti,
«giacchè qualsiasi rivoluzione nelle due Sicilie
riuscirebbe rovinosa all'Italia». Allora l'illustre statista
non vedeva altra salute alla politica nazionale contro le tendenze
republicane che nell'alleanza del Piemonte col Borbone.
Ma la rivoluzione urgeva. La prima mossa ne venne dalla Sicilia.
Già dopo i casi del '57 essendosi sciolto il comitato di
Londra, nell'impossibilità di ritentare efficacemente altra
insurrezione in Lombardia, il partito rivoluzionario non
tardò a comprendere, che per resistere all'egemonia
piemontese bisognava creare una forte base alla politica unitaria
nel Reame. Nicola Fabrizi, Alberto Mario, Francesco Crispi, Maurizio
Quadrio, Michele Amari si diedero con forte proposito al difficile
lavoro: comitati aiutavano da Malta e da Genova; patrioti come
Emilio Sceberras, Giorgio Tamaio, Onofrio Giuliano, Emanuele
Pancaldo cooperavano con nobile coraggio all'interno. Ma le
difficoltà erano troppe. Le popolazioni bigotte e svogliate,
ignoranti e servili; mal compreso il nome d'Italia, incompreso
affatto quello di democrazia; difficili le comunicazioni fra paesi e
paesi separati ancora da fieri odi municipali; il feudalismo
economico e politico tuttora vigile nell'angustia dei propri
privilegi; i Borboni più temuti che odiati; nessuna abitudine
di guerra malgrado il costume del brigantaggio; gli stessi liberali
divisi nelle fazioni murattiana e piemontese. Di questa era capitano
attivo e di molto seguito il La Farina. Nè il continente
nè l'isola erano pronti a vera rivoluzione: nullameno colla
guerra franco-sarda si spinse più vivamente il lavoro delle
cospirazioni. Francesco Crispi, aiutato dal Fabrizi reduce in Modena
sua patria dal lungo esilio, ne tenne discorso al dittatore Farini,
che si mostrò favorevole ad un'impresa nel sud: già
cimentando intrepidamente la vita, Crispi era penetrato parecchie
volte nella Sicilia per introdurvi armi e bombe all'Orsini. Ma la
politica cavouriana venne ad impedire l'opera, facendo dal La Farina
dissuadere ogni moto violento per non imbrogliare il problema
già difficile delle annessioni al nord. Questo consiglio
bastò naturalmente a scusare la troppa prudenza dei
più; i pochi intrepidi rimasero abbandonati e sbandati.
Oramai l'insurrezione era piuttosto contrastata dal partito moderato
che dal borbonico.
Un'ispirazione giovanile trionfò della ragione di tutti. Un
gruppo di giovani scrisse spontaneamente e segretamente a Garibaldi,
scongiurandolo «ad affacciarsi sul loro continente con un
pugno di uomini e una bandiera consacrata dal suo alito». Il
generale da Bologna (2 settembre 1859) rispose incoraggiando e
promettendo. Intanto Crispi coi comitati di Genova, di Firenze e di
Malta ordiva per il 4 ottobre (1859) un'insurrezione a Palermo;
Messina e Catania dovevano seguire; ma anche questa volta la
cospirazione abortì, e la colpa al solito ne fu gettata sui
contrordini del partito lafariniano. Allora Crispi e Fabrizi
ritentarono l'animo di Farini: si convenne fra loro di una
spedizione di volontari nel sud. Farini promise un milione, previo
il consenso del ministero piemontese; siccome i Cacciatori delle
Alpi potevano facilmente formare il nuovo corpo di spedizione, si
pensò di radunarli all'isola d'Elba, mentre Garibaldi era
già ritornato a Caprera. Ma Crispi non potè persuadere
il ministro Rattazzi all'impresa: fu negato ogni denaro, conteso
ogni aiuto. Cavour risalito al potere si chiarì anche
più ostile, vessando così indegnamente colla polizia
il Crispi da costringerlo ad abbandonare Torino.
Garibaldi, conscio di tutti questi maneggi, addolorato della
cessione di Nizza e Savoia, isolato dalla vita politica con ogni
intrigo da Cavour, meditava incerto del risolvere. Mazzini invece,
spinto all'ultimo sacrificio di se medesimo dalla rovina di tutti
gl'ideali, insisteva per una pronta azione del sud, rinunciando alla
republica pur di raggiungere l'unità della patria. Le sue
lettere ai palermitani, nelle quali scopriva con mano sicura i
viluppi della politica cavouriana e bonapartesca, non parlavano
più che di unità nazionale: il republicano era vinto,
il patriota lottava ancora.
L'abdicazione di Mazzini, l'impotenza di Cavour, l'inerzia forzata
di Napoleone, il fermento di tutta la penisola, la fatalità
della rivoluzione affrettavano silenziosamente l'azione di
Garibaldi.
Oramai tutte le gradazioni dei partiti politici si fondevano in lui.
La sua formula «Italia e Vittorio Emanuele», rimasta
inalterata malgrado l'esosità dei trattamenti usatigli dal
governo, riuniva le forze regie e democratiche per un programma,
che, esorbitando dall'angustia della politica piemontese, ne
riconfermava l'idea di una conquista regia. Il suo primo disegno
della nazione armata, per organizzare militarmente davvero le
guardie nazionali e pacificare i partiti, aveva naturalmente
fallito, giacchè una organizzazione politica e militare
d'Italia con metodo popolare era impossibile; nullameno egli restava
programma vivente della nazione, altrettanto infallibile
nell'intuizione che malleabile nell'eroismo.
All'alleanza franco-sarda, che aveva battuto l'Austria senza
cacciarla da tutti i confini d'Italia, doveva succedere l'alleanza
sardo-italiana, che caccerebbe i Borboni senza poter rovesciare il
papa. Napoleone III aveva bistrattato Vittorio Emanuele: questi
maltratterebbe Giuseppe Garibaldi.
La rivoluzione italiana, ispirata da Mazzini, guidata da Cavour,
concentrata da Vittorio Emanuele, signoreggiata da Napoleone, si era
arrestata fatalmente alle annessioni dei Ducati nell'imbroglio della
propria politica, per ritornare nazionale e popolare con Garibaldi,
unitario come Mazzini, monarchico quanto Cavour, più prode di
Vittorio Emanuele e più avventuriero di Napoleone III. Mentre
tutte le diplomazie d'Europa si spiavano temendo di nuova guerra,
egli solo poteva riaccenderla per conquistare un regno al Piemonte,
che avrebbe cercato sino all'ultimo d'impedirlo; egli solo, sotto
tanto cumulo di pregiudizi, di dolori, di viltà, poteva
trovare il cuore del popolo italiano e, infiammandolo
coll'entusiasmo di una fede indefinibile, dargli la trionfatrice
energia delle più incredibili fra le vittorie di questo
secolo.
Infatti la necessità di questa impresa meridionale lo stringe
più forte ogni giorno. Mentre il governo piemontese
contrasta, i patrioti siciliani incalzano. Rosolino Pilo e Giovanni
Corrao si offrono per un viaggio nella Sicilia, esploratori di
libertà fra pericoli ed episodi degni di un poema. Il 4
aprile (1860) Palermo tenta una rivolta presto soffocata nel sangue;
la polizia trionfa ancora; i congiurati, raccolti nel convento della
Gancia e soccorsi dagli stessi frati, sono trucidati o imprigionati.
Nullameno qualche banda di essi può guadagnare i monti. A
Genova le notizie dell'insurrezione si ripercotono in tumulto, le
fantasie si esaltano, i cuori si scaldano. La Legione Sacra composta
di vecchi patrioti e di giovani volontari vi si aduna, proclamandosi
disposta a partire con Garibaldi ed anche senza lui: Mazzini offre a
Nino Bixio e a Giacomo Medici il comando dell'impresa, se Garibaldi
ricusi: Cavour, temendo che questi accetti e non potendo palesemente
impedirlo, cerca ne sia capo il Ribotti. Ma Garibaldi solo
può guidarla, rappresentando tutto il popolo italiano;
Ribotti non è che un prode venturiero della libertà;
Nino Bixio, coraggioso sino alla demenza, non può essere che
un luogotenente; Medici, caduto nell'orbita della politica
cavouriana, non saprebbe capitanare la rivoluzione.
Ma Garibaldi, cui la coscienza della grande responsabilità
non scema il coraggio, tituba ancora: dopo le vittorie franco-sarde
in Lombardia, il disastro di un'altra spedizione Pisacane
annullerebbe la rivoluzione. Nullameno la grande ora sta per
discendere sul quadrante della storia; l'impresa è
inevitabile. Il colonnello Frappolli e Giacomo Medici mandati da
Cavour la combattono: Nino Bixio invece minaccia di andarvi solo.
Garibaldi si decide.
A Crispi, che, ostinato nello spronarlo, pure temeva di un incontro
colla flotta nemica, Garibaldi risponde:
- Io vi garantisco sul mare.
- E io vi garantisco per terra.
Epilogo di una scena degna di Eschilo!
Ma il governo piemontese moltiplica taccagnerie ed obbiezioni.
Poichè nel primo slancio della rivoluzione si era iniziata
una sottoscrizione per comperare un milione di fucili, le armi e i
primi denari non sarebbero mancati all'impresa; sciaguratamente
Cavour ordinò a Massimo D'Azeglio di sequestrare le
quindicimila carabine depositate a Milano e Massimo D'Azeglio,
persuaso che l'annessione del regno napoletano al Piemonte sarebbe
la maggiore delle disgrazie possibili, ubbidì. Rubattino,
ricco armatore di Genova, prestò due vecchi vapori,
nascondendosi mercantilmente dietro il nome di Segrè, austero
patriota. La Farina, stretto dagli esuli siciliani, diede finalmente
mille fucili quasi inservibili e ottomila lire; Agostino Depretis,
prefetto a Brescia, violando gli ordini ricevuti, consegnò a
Giuseppe Guerzoni mandatario di Garibaldi, qualche altro denaro.
Cavour, osteggiando e permettendo al tempo stesso l'eroica
avventura, ne calcolava con terribile freddezza di statista tutte le
conseguenze. Se Garibaldi falliva, il governo piemontese si
pompeggierebbe presso il resto d'Italia e le cancellerie europee
delle difficoltà oppostegli; ma la rivoluzione avrebbe
così perduto il suo grande capitano, e alla nazione non
resterebbe più altra speranza che il Piemonte: con Garibaldi
periva il fiore della democrazia italiana, che non aveva ancora
accettato o subiva non senza riserve la preponderanza della
monarchia piemontese. Se Garibaldi conquistava la Sicilia, il motto
«Italia e Vittorio Emanuele» scritto sulla sua bandiera
lo avrebbe costretto a cedere l'isola al Piemonte, cui il voto del
parlamento siciliano nella rivoluzione del quarantotto aveva in
certo modo aderito, offrendo la corona al duca di Genova.
L'ammirabile perfidia, che dall'epoca dei comuni sino al finire del
rinascimento aveva dato alla politica italiana così
irresistibile ascendente su quella di Francia e di Germania da
rendere a queste grandi potenze impossibile la conquista d'Italia, e
più tardi aveva permesso al Piemonte di crescere nel
decadimento d'Italia fra le voraci gelosie dei più grossi
vicini, trapelava dalle contraddizioni del conte di Cavour, rimasto
ministro piemontese in piena rivoluzione italiana. Egli, primo in
Italia a giudicare il Guicciardini molto miglior politico del
Machiavelli, ne seguiva i criteri anche in questo supremo momento di
epica iniziativa: per lui la monarchia piemontese non aveva in
Italia peggior nemico della democrazia e maggior pericolo di una
vittoria rivoluzionaria.
L'impresa era unitaria. Garibaldi intendeva sbarcare in Sicilia,
gettando un corpo d'armati nello stato pontificio. Non si osava
ancora l'idea di marciare direttamente su Roma, ma si voleva
sottrarle tutte le provincie. Bisognava come Cesare passare un'altra
volta il Rubicone: si sperava che Medici o Cosenz potessero invadere
il territorio pontificio; Cavour pareva secondare il disegno. Il
papa era in armi, il generale Lamoricière ne guidava
l'esercito più grosso che valoroso; il conte De Pimodan
capitanava gli zuavi volontari, ribaldi o legittimisti di gran nome,
raccolti per tutte le contrade d'Europa. All'ultima crociata papale
si contrapponeva così la crociata garibaldina: entrambe nel
nome di un'idea mondiale, quella senz'altro principio che il
privilegio ed altra virtù che la superstizione, questa colla
fede della libertà e un entusiasmo di amore che perdonava ai
nemici anche prima di averli vinti.
A Genova Agostino Bertani, medico già celebre,
costituì il comitato di soccorso all'impresa, spiegandovi la
più prodigiosa energia. I volontari eran quasi tutti giovani
colti, ricchi, fanatici di libertà, superstiziosi d'amore al
generale come i sicari del Vecchio della Montagna; fra essi
brillavano illustri stranieri: Türr e Tuköry ungheresi
primeggiavano per nome già famoso di capitani; Sirtori era
capo di stato maggiore; Nino Bixio doveva guidare una delle navi, il
Lombardo; sull'altra, il Piemonte, precederebbe Garibaldi. Ippolito
Nievo, poco più che giovinetto, già immortale per
scritti d'arte, era il poeta della spedizione, e doveva perirvi al
ritorno miseramente annegato come Shelley; Giuseppe Cesare Abba,
quasi un fanciullo, allora ignoto anche a se stesso, doveva invece
scriverne i commentari fra il pericolo delle battaglie e la poesia
delle veglie; v'erano Acerbi, Mosto, Schiaffino, Nullo bello ed
avventato come un moschettiere da romanzo, Fabrizi austero come un
duce biblico, i Cairoli, tutti i più prodi, i superstiti
legionari di Montevideo, i Cacciatori delle Alpi, i carabinieri
genovesi, manipoli di artisti e di letterati, di principi e di
cospiratori sopravvissuti alla tortura delle carceri, di esuli
frementi nella stanchezza dell'esilio, di politici che cessavano di
pensare per votarsi ai rischi dell'azione, di popolani poveri ed
ignari che l'improvvisa epopea sollevava fra i più grandi
cuori nell'uguaglianza del sacrificio, di disertori dell'esercito
piemontese, di republicani, di monarchici: falange uscita dalla
nazione come un getto dalle mani di uno scultore, altera, vibrante,
serena. Non arrivavano a mille, vestivano borghesemente. Garibaldi
non ne aveva voluto altro numero, giacchè anche decuplo
sarebbe stato insufficiente, se il popolo laggiù non avesse
poi secondato l'impresa. Allora non portavano che un fucile
rugginoso e sedici cartucce; nessuna provvigione, non salmerie. La
bandiera, dono d'italiani residenti a Valparaiso, ricordava le
vittorie d'America, augurando maggiori trionfi.
Il motto era: «Italia e Vittorio Emanuele».
Il 3 maggio (1860), anniversario della morte di Napoleone I,
salpavano silenziosamente da Quarto. Il governo piemontese, pur
fingendo d'ignorarla, cercò con inutile inganno di
contrastare l'imbarcazione; il mare fu propizio. A Talamone, ove
approdarono per rifornirsi d'acqua, non rinvennero che poche armi
quasi disutili; ad Orbetello un gruppo di republicani intransigenti,
capitanati da Brusco Onnis, si separò per non combattere
sotto bandiera piemontese; un altro più grosso manipolo
s'inoltrò nel territorio pontificio con Zambianchi
sanguinario trucidatore di monaci a Roma nel '48 per sollevare le
popolazioni; e fu indi a poco disperso dai dragoni papalini.
Ma non ostante le vigili crociere napoletane, Garibaldi potè
sbarcare a Marsala. Allora la Sicilia, dapprima attonita, si
solleva: Rosolino Pilo e Corrao tengono la campagna con forti bande;
a Salemi Garibaldi proclama la propria dittatura e riceve il saluto
di una truppa d'insorti, forte di quasi tremila uomini; a Calatafimi
rovescia alla baionetta una colonna di cinquemila borbonici; la
giornata terribile di ardimento prostra l'animo del nemico; alcuni
monaci e qualche picciotto si sono mescolati ai garibaldini, ma i
tremila siciliani hanno assistito dalla cima dei colli circostanti
alla battaglia, sinistramente equivoci, coll'arma al piede. Presto
l'odio popolare contro borbonici e napoletani esplode, scene atroci
di sangue vituperano le prime vittorie; ma Garibaldi, raddoppiando
di audacia, si drizza su Palermo. I borbonici tengono l'isola con
trentamila uomini; ventimila difendono la capitale. Con abili marcie
egli inganna quindi il nemico, accenna ad assalire la città
dalla parte di Monreale, vi rumoreggia intorno tre giorni, sfianca
su Corleone, si tira dietro il generale Bosco con una falsa
ritirata, lo allontana da Palermo, lo tiene a bada con pochi
legionari, finchè il 27 maggio per vie impraticabili
ricompare dinanzi alla città già percossa dalla voce
erronea della sua disfatta.
Però la sorpresa essendo fallita, l'assalto diventa al tempo
stesso impossibile ed inevitabile.
La guerra, appena incominciata, sta per essere finita colla presa
della capitale; la battaglia si muta in delirio. I garibaldini
stremati, male armati, poco ordinati, si slanciano all'assalto;
tutto cede al loro impeto; entrano travolti dalla fuga del nemico
nella città. Ma il presidio, forte di quindicimila uomini,
resiste ancora dominando e tuonando dal castello colle artiglierie;
la popolazione tituba; s'improvvisano barricate. I borbonici
bombardano; per tre giorni una bufera di fuoco e di sangue rugge per
l'antica metropoli, drammi sublimi ed orribili vi si amalgamano,
monaci e suore incuorano i ribelli; i regi sguinzagliati nelle vie
si ostinano alla difesa e si vendicano colla strage. I generali
Bosco e Mekel delusi a Corleone ritornano su Palermo, la flotta dal
porto fulmina le vie diritte della città; le munizioni
scarseggiano; i palermitani, malgrado il crescente entusiasmo, non
si armano e non combattono abbastanza. Per un momento tutto parve
perduto. Una fregata sarda, alla quale Garibaldi chiese aiuto di
munizioni, lo rifiutò mentre l'ammiraglio inglese Mundy con
magnanima improntitudine imponeva alla flotta borbonica di cessare
il fuoco contro la città. Fortunatamente la viltà del
generale borbonico Lanza ridonò la vittoria a Garibaldi,
domandandogli un armistizio per ventiquattro ore e prolungandolo poi
per tre giorni. In questo tempo venne da Napoli l'ordine di
capitolare, sgombrando Palermo. Lo sgombro durò tredici
giorni, dal 7 al 20 giugno.
Allora a Palermo tra una festa frenetica, nella quale il popolo
smantella notte e giorno l'antica fortezza, si allestisce il
governo. Francesco Crispi, il più ostinato persuasore
dell'impresa, ne diviene braccio e mente. Anzitutto bisogna spingere
oltre la rivoluzione, propagandone l'entusiasmo che alla
necessità dei primi sacrifici sta per agghiacciarsi, e domare
ripetute atroci reazioni di brigantaggio, nelle quali si prepara
forse una regia sollevazione. La minaccia della coscrizione
sureccita già gli animi della moltitudine; l'egoismo di una
mal celata autonomia vorrebbe sottrarsi alle spese di denaro e di
sangue necessarie al compimento della rivoluzione. Fortunatamente, i
comitati organizzati per tutta Italia e diretti da Agostino Bertani
suppliscono miracolosamente ai bisogni. La Società Nazionale
del La Farina, d'accordo con Cavour non aveva dato che poche
migliaia di lire: Bertani ne raccolse presto ottocentocinquantamila.
Fra difficoltà politiche, economiche, commerciali, militari,
tecniche, questo medico nel quale la scienza sperava un illustre e
la patria trovò un eroe, seppe improvvisarsi organizzatore
come Carnot. Alla prima spedizione dei Mille ne seguirono a minimi
intervalli altre. Il disegno, suggerito da Garibaldi prima della
partenza e caldeggiato con disperato amore da Mazzini, di una
invasione negli stati pontifici per discendere dagli Abruzzi nel
Napoletano, mentre il dittatore vittorioso lo risalirebbe dalla
punta delle Calabrie, diventava l'inevitabile corollario della
spedizione di Marsala, dopo la vittoria di Palermo. Per assicurare
la Sicilia bisognava assalire il Reame.
Il fermento aumentava nel paese: volontari accorrevano da ogni parte
a Genova per salpare verso il sud, e s'addensavano sui confini dello
stato pontificio a minaccia; nell'esercito piemontese spesseggiavano
le diserzioni; ufficiali e colonnelli entrativi colla rivoluzione si
dimettevano per cacciarsi nella nuova guerra; il moto unitario si
dilatava veemente ed irresistibile. Mazzini, sempre più
infervorato per un pronto assalto nello stato pontificio, s'era
condotto a Genova, e vi operava, nascosto dall'amore dei popolani
alla vigilanza della polizia piemontese; d'accordo con Bertani,
cercava un altro capitano, cui affidare l'impresa del centro. Medici
era già partito con 2000 uomini per la Sicilia; il 2 luglio
Cosenz lo seguì con altrettanta truppa; poco dopo il
colonnello Corte vi sbarcò con un terzo reggimento.
Garibaldi, agile fra tante difficoltà politiche del governo
improvvisato, si sbarazza del La Farina. Poichè la gelosia
dell'ascendente guadagnato da Crispi nell'isola spingeva questo
agente cavouriano a precipitare le annessioni, per impegolare la
rivoluzione entro un immediato impianto di governo piemontese, il
dittatore lo imprigiona, lo rimanda in Piemonte, e nomina al suo
posto Agostino Depretis, abile parlamentare, più atto ad
intendersi col Crispi. Naturalmente questa improvvisazione di
governo procede sbattuta fra le contraddizioni delle tendenze
piemontesi e rivoluzionarie: quelle, temendo di una dichiarazione di
autonoma o di una proclamazione republicana malgrado la ripetuta
abdicazione di Mazzini e il motto di Garibaldi: «Italia e
Vittorio Emanuele», tirano a sminuire l'opera e l'importanza
del dittatore. Si teme il contagio dell'entusiasmo, si diffida
sopratutto dei consiglieri di Garibaldi, tutti republicani o quasi;
ma questi, più generosi e trascinati dalla fatalità
dell'impresa, badano invece ai mezzi di compierla; hanno forse in
cuore riserve democratiche, ma sentono già che la monarchia
è invincibile.
La guerra ricomincia. Colla stessa rapidità della prima mossa
da Calatafimi a Palermo, Garibaldi si dirige dalla capitale su
Messina: il suo esercito diviso in tre colonne, traversando l'isola
con marcia convergente, deve riunirsi all'assalto della grossa
città, dalla quale il generale Bosco, unico prode fra i regi,
s'inoltra minacciosamente. La battaglia scoppia (20 luglio) a
Milazzo, ostinata, sanguinosa, perchè i borbonici questa
volta si battono davvero entro formidabili posizioni: Garibaldi
stesso ci resterebbe prigioniero, se Missori e Statella, due
ufficiali delle sue guide, con valore ariostesco non lo salvassero
da un viluppo di cavalieri; ma finalmente l'irresistibile valore dei
volontari trionfa. Milazzo è presa, Messina poco dopo
capitola.
Ultime resistenze dei governi borbonico e piemontese.
La Sicilia è conquistata; ma staccata dal Reame e annessa al
Piemonte non sarebbe che un'altra Sardegna. L'impresa di Napoli
diventa fatale, l'unità italiana è imminente. A Napoli
il meraviglioso approdo di Marsala, la presa di Palermo, la cacciata
dei 30,000 regi esaltano le fantasie; gli echi della stampa europea,
sonante di inni al vincitore, coprono le critiche più
ostinate; l'esercito, diffidente dei generali e mal disposto a
guerra, tituba; la corruttela di tutti gli impiegati moltiplica i
tradimenti alla vigilia del pericolo; la corte in preda al terrore
non osa alcun partito. Russia e Prussia non le prestano più
che un appoggio morale, l'Austria non ardisce ridiscendere in
guerra, Napoleone III le consiglia di ridare la costituzione
secondando l'idea nazionale. Troppo tardi! Il giovane re, incapace
di mettersi alla testa dell'esercito e di gettarsi alle campagne per
infiammarne la superstizione politico-religiosa, soffoca fra
l'imbroglio dei partiti. La costituzione concessa il 25 giugno non
contenta e non persuade alcuno; nel ministero composto dallo
Spinelli compaiono uomini ignoti; De Martino, scaltro diplomatico,
assume il portafoglio degli esteri, don Liborio Romano, settario
amnistiato da Ferdinando II nel 1854, prende la direzione della
polizia. Naturalmente i dissidenti liberali aumentano d'importanza e
di numero; patrioti esuli o prigionieri ritornano frementi di
vendetta e di libertà; la plebaglia venduta ai sanfedisti
tenta indarno una delle solite reazioni al grido di: «Viva il
re e abbasso la costituzione!», irritando maggiormente gli
animi di tutti i partiti contro la corte. In questa pure scoppiano
dissidi: i conti di Aquila e di Siracusa liberaleggiano, quello di
Trapani invece si accanisce a reazione. La milizia civica, tosto
costituita, tutela la sicurezza publica, mentre il ministro di
polizia si acconta coi liberali, e mercenari stranieri difendono
ancora la reggia. I comizi indetti pel 19 agosto e il parlamento
convocato pel 10 settembre sembrano a tutti l'ultima insidia e
l'estrema farsa della decadenza borbonica; le defezioni aumentano
tutti i giorni; il generale Nunziante, già insanguinatosi
tristamente in repressioni contro i patrioti e poco dianzi offertosi
al re per spazzare dalla Sicilia i filibustieri di Garibaldi, per
gelosia del generale Pianell nominato ministro della guerra, si
dimette con ignobile teatralità dall'esercito, dirigendogli
un proclama di rivolta.
Naturalmente la politica del nuovo governo napoletano non poteva
essere che un'alleanza col Piemonte per resistere a Garibaldi. Il
ministro Manna e il barone Winspeare, mandati a Torino per
concertare una lega, offerivano di riconoscere le annessioni
dell'Italia centrale alla Sardegna, di costituire nello stato
pontificio due vicariati, uno delle Legazioni pel re di Piemonte e
l'altro delle Marche pel re di Napoli, libera la Sicilia di
convocare il proprio parlamento secondo la costituzione del 1812 per
darsi governo proprio con un principe della casa regnante per
vicerè, alleanza offensiva e difensiva contro l'Austria per
la futura liberazione di Venezia.
Era l'antico disegno cavouriano, riproposto a Cavour quando
già l'impresa dell'unità cominciava a trionfare; ma
l'abile statista, pur fingendo di non respingere quest'alleanza,
seguitava a trattare coi liberali di Napoli, per tenersi aperta la
via a maggiori speranze. Puntellare il trono dei Borboni in tal
momento sarebbe stato uno scrollare le basi di quello del Piemonte,
scriveva egli apertamente in una nota al legato sardo a Pietroburgo.
La sua intensa preoccupazione era invece la rivoluzione di Sicilia.
Garibaldi, per forzare la mano al governo piemontese, vi ritardava
le annessioni, dichiarando che si farebbero ad impresa finita:
bisognava ancora conquistare Napoli, e dopo Napoli, Roma. Il partito
rivoluzionario faceva miracoli d'organizzazione e di valore;
esercito e governo borbonico non potevano presentare oramai seria
resistenza; la conquista di tutto il Reame, compiuta in due mesi da
Garibaldi, avrebbe potuto produrre un ultimo duello fra republica e
monarchia. Cavour sapeva Garibaldi incapace di tradire; ma il solo
principio politico del grande dittatore era il rispetto della
volontà popolare, e se questa avesse proclamata la republica,
Garibaldi ne sarebbe stato l'invincibile generale. Quindi il disegno
di Cavour non poteva essere che doppio: impedire a Garibaldi il
passaggio sul continente, lasciando compiere ai Borboni l'ultimo
esperimento costituzionale ed aspettando dalla prima complicazione
che il Piemonte potesse impadronirsi di Napoli, o promuovervi, prima
ancora che Garibaldi vi entrasse vittorioso, una rivoluzione in
senso monarchico-unitario.
Cavour spiegò indarno tutta la propria abilità; l'ora
delle scaltrezze diplomatiche era passata.
Napoleone III, per un'ultima speranza di regno murattiano, aveva
mandato una flotta per impedire a Garibaldi il passaggio sul
continente; ma era rattenuto dalle dichiarazioni dell'Inghilterra,
minacciante di entrare nella contesa se la Francia violasse nel
Reame il principio del non intervento. Cavour, dietro ordine di
Napoleone, fece scrivere da Vittorio Emanuele una lettera per
imporre a Garibaldi di non valicare lo stretto; il dittatore rispose
con magnanima semplicità che compirebbe l'impresa e
deporrebbe ai piedi del re l'autorità conferitagli dalle
circostanze. Cavour, che avrebbe voluto l'impresa senza Garibaldi,
proseguì negli intrighi, scrisse al Villamarina e al Persano
«facessero ogni possibile per impedire la dittatura di
Garibaldi. Se la dittatura veniva offerta al Villamarina
accettasse... Se si presentasse certo pericolo di veder cadere il
governo in mani perfide od inette, Persano assumesse il maneggio
della cosa publica. In caso estremo si costituisse un governo
provvisorio con a capo il principe di Siracusa. Che ove il re
(Francesco II) o il corpo diplomatico desiderassero di sottrarre
Napoli all'occupazione di Garibaldi, si accettasse di occupare i
luoghi più minuti della città coi soldati
(piemontesi). Se la rivoluzione non si compie prima dell'arrivo di
Garibaldi, saremo in condizioni gravissime. Ma per ciò non ci
turberemo punto. L'ammiraglio Persano s'impadronirà,
potendolo, dei castelli del porto, riunirà alla sua la flotta
napoletana e farà che si presti subito giuramento di
fedeltà al re e allo statuto. Poi vedremo».
Già poco prima aveva indirizzato al Villamarina in Napoli una
specie di questionario: «Nel caso di un moto insurrezionale
quale sarà il partito che avrà il sopravvento? Credete
voi alla possibilità di un moto annessionista, simile a
quello compiutosi in Toscana? Il murattismo novera esso molti
partigiani nell'esercito e nella borghesia? I republicani sono
ancora numerosi e influenti nelle Calabrie? Voi comprendete,
signore, quanto mi debba interessare di conoscere questi diversi
elementi di una soluzione, alla quale non possiamo rimanere
estranei. Voi sapete che io non bramo minimamente di sospingere la
questione napoletana ad uno scioglimento prematuro. Credo al
contrario, che ci converrebbe che lo stato attuale delle cose
durasse ancora per qualche anno».
L'illustre statista era non solo impreparato, ma avverso ad una
rivoluzione del sud.
Nell'angustia della propria decennale politica non si era procurato
nè contatti nè precedenti nel mezzogiorno: l'impresa
garibaldina lo sorprendeva al pari dei Borboni; ma, troppo maggiore
di essi, non potendo impedirla cercava sfruttarla. La sua
attività in questo periodo fu tanto meravigliosa di
accanimento quanto vana nel risultato. A Napoli tutti gli sforzi per
suscitarvi una rivoluzione riuscirono vani: i liberali del comitato
dell'Ordine non osarono muoversi, mentre i patrioti radicali,
più generosi e più coraggiosi, pure non ribellandosi
apertamente, riuscirono ad impadronirsi dello scarso moto liberale e
a dirigerlo verso Garibaldi. Bertani da Genova spingeva la
rivoluzione. Dopo la spedizione di Medici e di Cosenz nella Sicilia,
gli arruolamenti proseguiti con maggiore alacrità avevano
prodotto un altro esercito: duemila volontari erano pronti nelle
Romagne e nella Toscana; altri novemila dovevano partire da Genova
per scendere nello stato pontificio. Bertani aveva saputo provvedere
armi, munizioni, vestiti, vascelli. Si era offerto il comando al
celebre Charras, rivale di Lamoricière, ma quegli aveva
ricusato, perchè ancora troppo debole il numero delle truppe:
poi si pensò di affidarlo al Pianciani, mettendogli a fianco
il Rüstow, allora eccellente ufficiale e più tardi
insigne scrittore di guerra, come capo di stato maggiore; Giovanni
Nicotera, superstite capitano dell'impresa di Pisacane, uscito
allora di carcere, guiderebbe la legione toscana. Ma Cavour,
spaventato da siffatto aire, vi si opponeva in mille modi.
Poichè non poteva apertamente contrastare a questo moto
divenuto nazionale, cercava di togliergli anzitutto il significato:
la sua stampa ministeriale bersagliava ogni giorno con satanica
malvagità Mazzini e Bertani, come intesi a cospirare per la
republica e a smembrare così l'Italia: li accusava di feroce
giacobinismo e d'ignobili ladrerie. Nullameno Bertani poteva seguire
nell'opera, mentre Mazzini era costretto a nascondersi. Cavour,
infatuato di arrestarlo, ne aveva dato l'ordine a Medici, che
ricusò generosamente di ubbidire, e a Persano, che non seppe
ubbidire.
A questo, da lui spedito in Sicilia, scriveva: «Il governo del
re non farà chiassi, ma non intende di lasciarsi giuocare in
tal guisa; quindi, dopo la spedizione di Cosenz già in corso,
disporrà che nulla più per parte sua vada in Sicilia,
sino a che non sia affatto tolta al Bertani ogni sua ingerenza negli
invii». Farini, mandato a Genova, cercò di persuadere
al Bertani come riguardi diplomatici costringessero il governo ad
impedire che i novemila volontari sbarcassero da Genova nello stato
pontificio; veleggiassero invece al golfo degli Aranci, poi
toccassero la Sicilia.
Allora Bertani corse al Faro ad avvisarne Garibaldi: questi,
sentendo la necessità di una più pronta operazione nel
Reame, invece d'invadere lo stato pontificio, ebbe per un momento
l'idea di un colpo ardito su Napoli; ma dei novemila volontari
cinquemila soli erano al golfo degli Aranci; gli altri, per ordine
del governo piemontese, erano già sbarcati a Palermo.
Giovanni Nicotera, col consenso di Ricasoli, aveva radunato in
Toscana un corpo di duemila volontari, pattuendo ai primi
contrordini da Torino di non sbarcare nè sul litorale
toscano, nè sul romano, se prima non avesse preso terra nello
stato napoletano; ed invece poco dopo sentiva intimarsi di
sciogliere la brigata. Il fiero rivoluzionario ricusò, i
volontari rumoreggiarono così forte che Ricasoli dovette
riconsentire il primo patto: senonchè la brigata a Livorno
non trovò che due bastimenti francesi sprovveduti di viveri e
noleggiati dal governo per condurli in Sicilia. Un bastimento sardo
da guerra, entrato nel porto, strinse d'appresso i due vapori; la
batteria del molo puntò contro di essi le proprie batterie:
il Nicotera, per evitare una battaglia fratricida, dovette cedere e
andare in Sicilia, protestando con veemenza di republicano contro il
tradimento del governo.
Ma il conte di Cavour, sospinto dalle circostanze, precipitava la
propria azione monarchica: nel costringere tutto lo sforzo della
rivoluzione al sud, si manteneva aperto l'adito a penetrarvi primo e
solo per lo stato pontificio. Le sue vessazioni al partito
rivoluzionario, mentre le vittorie garibaldine lo illuminavano di
poesia, gli avevano svelato tutta la debolezza della rivoluzione. Il
ministro Farini in una circolare aveva potuto calunniare e
minacciare impunemente i comitati rivoluzionari, si erano
bistrattati i volontari, si domandavano loro i passaporti da paese a
paese italiano, si erano sequestrate cartucce quando Garibaldi ne
mancava al fuoco; a Genova si erano persino imprigionati alcuni
fabbricanti di polvere, senza che alcuno dei rivoluzionari osasse
reagire; Garibaldi seguitava nella fede al re, Mazzini non chiedeva
più che «lasciateci fare anche per voi». Le
provincie romane tacevano sotto le minacce di Lamoricière
forte appena di ventimila uomini; il Napoletano ciarlava, guardando
Garibaldi armeggiare invano per passare lo stretto.
Il Piemonte dominava sempre l'Italia coll'apparenza di forte stato
nazionale.
Ma la sua politica si sbrogliava al soffio della rivoluzione.
L'impresa ormai inevitabile di Garibaldi su Napoli obbligava il
Piemonte ad intervenirvi. Garibaldi vittorioso dei Borboni potrebbe
marciare su Roma, attirando sull'Italia una guerra colla Francia.
Per salvare il papa e schiacciare contemporaneamente la rivoluzione,
bisognava dunque invadere lo stato pontificio, cansare Roma,
arrivare su Napoli a tappe forzate, e, prima ancora che l'Europa si
riavesse dallo sbalordimento, risponderle collo spettacolo del
governo costituzionale già stabilito, e del papa libero entro
più ristretto territorio.
Di questo era d'uopo però persuadere anzitutto Napoleone.
Impresa di Napoli.
Intanto Garibaldi la notte del 9 agosto, sopra settanta barchette
lancia in mare 200 volontari guidati da Mario, da Nullo, da Missori,
e da Musolino, per sorprendere il forte di Alta Fiumara all'estrema
punta di Calabria, e assicurarsi così il passaggio con tutto
l'esercito: ma la temeraria impresa fallisce, onde quei prodi
possono appena inerpicarsi sui gioghi dell'Aspromonte destinati alla
gloria di maggiore tragedia. La piccola banda, soccorsa dai villani,
malissimo armata, scaramuccia all'intorno sfuggendo al nemico e
perseguitandolo, finchè Garibaldi, reduce con nuova truppa
dal golfo degli Aranci, sopra due piroscafi sbarca il 20 agosto
colla divisione Bixio a Melito. L'esercito borbonico supera i
trentamila uomini con cavalleria, artiglieria, armi e munizioni
eccellenti; Garibaldi, sommando tutte le proprie forze di Sicilia,
non arriva a mezzo, con pochi cavalli, quasi senza cannoni.
La guerra ricomincia, ma non pare nemmeno più guerra. Reggio,
attaccata dalle divisioni Eberhardt e Bixio, capitola subito; al
rombo delle prime cannonate Medici e Cosenz rimasti in Sicilia
traghettano fra Scilla e Bagnara, a Villa S. Giovanni cinquemila
garibaldini accerchiano e fanno prigionieri quasi senza colpo ferire
novemila regi, mentre il generale Vial si ritira con altri
dodicimila su Monteleone. Nel Cosentino, nella Basilicata, nella
Capitanata, nelle Puglie tumultua la sommossa. Garibaldi, con
avvedutezza politica di condottiero, anzichè aspreggiare il
nemico, ne seduce i soldati prosciogliendo i corpi prigionieri.
Allora le defezioni si moltiplicano: invece di combattere le truppe
fraternizzano, scene di romanzo dànno alla guerra l'apparenza
d'una innocua e divertente teatralità, capitani ed aiutanti
garibaldini intimano soli o con scarsi drappelli a generali nemici
la resa, e l'ottengono. Il generale Ghio, crudele trucidatore di
Pisacane a Padula, si arrende con dodicimila uomini a Soveria, il
generale Caldarelli ha di già capitolato a Cosenza, una
fiamma d'entusiasmo si leva per tutti i paesi ove passano i
volontari, mentre i soldati regi si sbandavano con allegria
brigantesca, obliando egualmente i doveri verso il proprio re e
verso la patria. Ma se nella Sicilia il popolo aveva salutato i
garibaldini come liberatori per l'odio secolare verso la signoria
napoletana, nel Regno Garibaldi non è acclamato che come
vincitore. La sua gloria, la sua mitezza, le favole sulla sua vita,
esaltano la veemente immaginazione popolare; il valore dei
volontari, meraviglioso nei fatti parziali, l'incredibile
viltà dei regi, la prestezza delle marcie che precedono
persino il grido delle vittorie, la singolarità d'un trionfo
ottenuto anche troppo facilmente, la temerità infine di
Garibaldi, che dinanzi al proprio esercito, con una scorta piuttosto
d'onore che di battaglia, in carrozza di posta, galoppa verso
Napoli, finiscono di dare all'impresa l'irresistibile fascino di un
miracolo. Tutta la parte meridionale del Regno è già
conquistata: i calabresi, ardenti di odio verso i Borboni, sono i
soli napoletani che si battano. La marina regia, colpita dalla
stessa defezione dell'esercito, lascia avvicinare a Napoli i
piroscafi, che portano i garibaldini.
Nella capitale terrore ed entusiasmo sconvolgono le coscienze. La
corte allibisce, i sanfedisti si rimpiattano, la plebe attende con
ansia fantastica il nuovo Messia. Invano il generale Pianell
consiglia a Francesco II di mettersi alla testa dei quarantamila
uomini che ancora gli rimangono, per tentare un colpo supremo o
almeno perire gloriosamente: fortunatamente la viltà del re
paralizza l'intelligenza del ministro. Infatti, se Francesco II si
fosse messo alla campagna, la superstizione religiosa e politica era
ancora tale in molta parte di questa, da ristabilire le sorti della
guerra. Bastava una sola sconfitta per dissipare il prestigio di
Garibaldi. Il Regno si lasciava solcare dalla rivoluzione senza
parteciparvi, i patrioti v'erano in minoranza debolissima, la
moltitudine non intendeva gran cosa al nome d'Italia e meno ancora a
quello di libertà. La inettitudine del popolo veniva ora
rivelata dalla codardia dell'esercito regio, contro il quale non si
era osato alcun tentativo di rivolta, e che poche bande garibaldine
erano bastate a sopraffare.
Intanto il sentimento della paura universale invade il partito di
corte. Mentre il conte d'Aquila e la regina vedova vorrebbero
scatenare lazzaroni e mercenari a furibonda reazione, il conte
Leopoldo di Siracusa consiglia il re, suo nipote, ad uscire dal
Reame sciogliendo i sudditi dall'obbedienza, e, non ascoltato, parte
sfrontatamente per Torino a ricevervi da quella corte le
congratulazioni del vile tradimento. Don Liborio Romano perfeziona
con scaltrezza settaria il consiglio del conte di Siracusa col
suggerire al re di allontanarsi e d'investire della reggenza un
nuovo ministero: lo stesso generale Bosco caduto d'animo scongiura
il re a salvarsi nella Spagna. Tutto è perduto.
Nullameno il partito moderato non si leva ad alcuna iniziativa nel
nome di Vittorio Emanuele, prima che tutta Napoli si accalchi
intorno a Garibaldi vittorioso. Le vivissime istanze di Cavour, che
in quei giorni apriva arditamente la campagna contro il papa
passando il Rubicone, non valsero a comunicargli il coraggio di
ribellarsi ad un re che fuggiva, ad un esercito che non combatteva,
ad una polizia complice nel tradimento. Nè i patrioti
radicali furono più audaci. Francesco II, dopo molto
titubare, abbandonò la capitale per chiudersi nella fortezza
di Gaeta. Il giorno dopo (7 settembre) don Liborio Romano scriveva a
Garibaldi per invitarlo a Napoli, e Garibaldi con temerità
indefinibile, mentre la guarnigione borbonica teneva ancora la
città, vi entrava con soli quattordici compagni. Le milizie
regie vedendoli passare presentavano attonite le armi, il popolo
urlava, la guerra si riassumeva in un chiasso di trionfo, il dramma
delirava nell'apoteosi finale.
Nella lunga storia d'Italia nessuna conquista era stata più
facile e pronta di questa: un regno di oltre dieci milioni, una
flotta di quaranta navi, un esercito di centomila uomini,
coll'appoggio di tutte le diplomazie europee, con una vecchia
dinastia non potuta sradicare nè dalla rivoluzione francese
nè dall'impero napoleonico, cadevano in potere di pochi
drappelli garibaldini, armati alla meglio da un comitato di Genova
malgrado i divieti del Piemonte. Un uomo solo era bastato al
miracolo. Il suo spirito era rivoluzione, il suo nome legione: aveva
appena combattuto e le vittorie gli avevano preceduto le battaglie;
era un conquistatore, ed era entrato nella capitale senza esercito,
come viaggiatore che si lasci dietro il più grosso bagaglio.
Intanto che i generali dei suoi scarsi reggimenti marciavano ancora
contro i resti dell'esercito borbonico concentrati tra le fortezze
di Capua e di Gaeta, egli, dimentico di loro, assettava già
dittatoriamente la capitale e tutto il Regno. Pareva un sogno. Fra i
garibaldini si udivano favelle di tutta l'Europa: polacchi,
francesi, ungheresi, spagnuoli, vinti in patria combattendo per la
libertà, avevano seguito Garibaldi quasi ad imparare da lui
la vittoria. Alessandro Dumas, il maggiore novelliere di avventure,
era capitato a questa, incredibile e vera come le più belle
de' suoi capolavori: così, dietro il più grande eroe,
brillava la più eroica fantasia del secolo.
L'impresa era davvero un romanzo fatto di storia, di poema, di
dramma, di commedia, con una sceneggiatura multiforme e una violenta
preponderanza di pochi individui sulla massa, che rappresentava
appena lo sfondo e l'ambiente.
Un giorno avrebbero dovuto chiamarla conquista garibaldina; allora
con ingenua vanteria il popolo la diceva rivoluzione napoletana.
La giovane democrazia europea, riunita dall'apostolato di Mazzini,
trionfava per la prima volta nel campo di Garibaldi.
Il dittatore, comprendendo la necessità di rivoluzionare
immediatamente il Regno per rendervi stranieri i Borboni e
più difficile l'intervento della diplomazia europea,
allentò la guerra. I suoi primi decreti furono decisivi.
Aggregò la flotta napoletana alla squadra piemontese
comandata da Persano; chiamò al ministero il Pisanelli, lo
Scialoia, il Conforti, liberali cavouriani; tolse la polizia a don
Liborio Romano, cui sottopose alla vigilanza di Bertani, venuto a
Napoli primo segretario di governo; ordinò che ogni editto
emanasse nel nome di Vittorio Emanuele, vietò il cumulo degli
uffici pubblici stipendiati; proclamò l'intangibilità
del debito pubblico. Quindi con assennato arbitrio abolì
l'ordine dei gesuiti, dichiarando nazionali i loro beni e cassando
ogni loro contratto fino al giorno del primo sbarco in Sicilia;
incamerò i patrimoni della casa reale e dei maggioraschi
regi; instituì i giurati; invece di assalire i forti ancora
tenuti dalle milizie regie, le prosciolse, e allora queste si
sbandarono: qualche battaglione si unì al resto dell'esercito
borbonico, la maggior parte rincasarono e si buttarono a
brigantaggio.
Il conte di Cavour, con agile mutamento di tattica, ordinava intanto
al proprio partito di circuire Garibaldi, allontanando da lui o
sopraffacendo i più attivi consiglieri democratici. Cattaneo,
Mazzini, Saffi erano già accorsi a Napoli: ogni speranza di
republica era svanita; ma, democratici inflessibili, volevano almeno
salvare nella procedura delle inoppugnabili annessioni il principio
della sovranità popolare. Così domandavano illuminato
e cauto il voto delle provincie meridionali, o per mezzo di
un'assemblea transitoria o con plebiscito veramente sovrano, nel
quale fossero punti fondamentali del patto fra popolo e re il
compimento dell'unità della patria con Roma e Venezia e la
convocazione d'una costituente deputata a dar forma alla nuova vita
della nazione. Sciaguratamente era troppo e troppo tardi, dopo che
Garibaldi aveva già preso possesso di Napoli in nome di
Vittorio Emanuele, e questi si avanzava attraverso lo stato
pontificio per cacciare il dittatore. Un patto fra popolo e re con
riserve e procedura democratica diventava assurdo: se il popolo ne
fosse stato capace, avrebbe poi dovuto votare la republica.
Ora di tutta Italia il paese più superstiziosamente
monarchico era appunto il napoletano.
Ma la guerra mossa dal partito moderato ai consiglieri democratici
fu atroce: Bertani svillaneggiato, accusato di furto dopo i prodigi
dell'organizzazione rivoluzionaria, dovette dimettersi; si
mandò la plebaglia a gridare sotto le finestre di Mazzini:
mora, mora! e s'indusse l'ingenuo Pallavicini a scrivergli una
lettera, perchè riprendesse la via dell'esilio. Cattaneo fu
coperto d'obbrobrii; Crispi cacciato da Palermo e sostituito col
Mordini prodittatore. Nemmeno Garibaldi rimase rispettato. Mentre
popolo, borghesia, aristocrazia coll'ignobile servilità
dell'antico costume s'addensavano nelle sue anticamere
prosternandosi a domandare impieghi ed onori, si accusavano i
più puri eroi garibaldini di scroccheria: sembrava che la
viltà universale, offesa dal loro coraggio, avesse d'uopo di
negarlo. Il dittatore inetto a così laida guerra e mal destro
in amministrazione, perdeva terreno: l'avvicinarsi dell'esercito
piemontese trionfante scemava prestigio alle sue vittorie.
D'altronde si rifletteva che a Francesco II restavano ancora
quarantamila uomini e due fortezze inespugnabili alle milizie
volontarie per difetto d'artiglierie.
Lo stesso disegno, publicato temerariamente dal dittatore di
marciare su Roma sfidando la Francia, atterriva. Ogni volgare
politico sentiva che quest'impresa avrebbe riattirato l'Italia in
una conflagrazione europea, poichè l'impero buonapartesco non
poteva abbandonare il papa. Quindi il pensiero di Cavour avviluppava
e dominava l'opera di Garibaldi.
Questi però, fra tante cure di governo, non dimenticava il
nemico ingrossante ogni giorno sul Volturno: così verso la
metà di settembre, riprendendo l'offensiva, mandò il
Türr con tre brigate a Santa Maria e San Leucio. Si
tentò felicemente l'occupazione di Caiazzo ad oriente di
Capua, ma avendovi lasciato troppo debole presidio, i borbonici
ripresero la piazza. Era la prima sconfitta. Garibaldi, richiamato a
Palermo per placarvi i dissensi politici fra democratici e
cavouriani, non aveva potuto impedirla. Intanto una reazione
selvaggia di superstizione s'accendeva nelle campagne del regno, ove
il clero aizzava i villani: le soldatesche prosciolte vi si
raccozzavano a bande di briganti; un odio feroce scoppiava contro i
garibaldini conquistatori, ora che s'avanzavano a più stabile
conquista i piemontesi. Si faceva con assurde dicerìe temere
al popolo per le proprie case; lo si lancinava coll'idea della
coscrizione oltre i confini del Reame, come se il resto d'Italia
fosse stato un altro mondo lontano; lo si fanatizzava a difendere i
vecchi idoli di villaggio minacciati d'imminente distruzione. Ariano
e Avellino erano insorte; ad Isernia un manipolo di volontari
capitanati da Mario e da Nullo era stato rotto dai cafoni che si
erano battuti con bravura di antichi Sanniti, infellonendo poi sui
cadaveri.
Bisognava quindi riattirare i regi in una suprema battaglia e
prostrarli.
Dopo il disastro di Caiazzo, Garibaldi, per meglio ingannarli, finse
di accerchiare Capua, fortificandosi a Santa Maria, San Tommaso e
Sant'Angelo, e munendo invece la via di Napoli: il suo esercito era
appena di ventimila uomini con trenta cannoni, i borbonici menavano
in campo quarantamila uomini con quaranta cannoni. Questa volta (1^o
ottobre) la mischia fu aspra; i borbonici si batterono
accanitamente, respingendo su tutti i punti i volontarii; ed
avrebbero forse vinto, se i loro generali meno inetti avessero dato
una battaglia obliqua anzichè parallela, e Garibaldi, volando
su tutti i punti più combattuti, non avesse raddoppiato il
valore dei propri soldati, mentre il maggiore Bronzetti con duecento
uomini rinnovava a Castel Morone il prodigio di Leonida, arrestando
per tutta la giornata un corpo di quattromila borbonici. Non un solo
dell'eroico manipolo volle rendersi prigioniero, quasi nessuno
sfuggì alla morte. Garibaldi vincitore al Volturno sperdeva
l'indomani quella regia brigata sulle alture di Caserta vecchia con
un'ultima vittoria.
Il generale Cialdini era già penetrato nel Reame sconfiggendo
al Macerone quegli stessi cafoni, che avevano rotto il drappello di
Nullo ad Isernia.
L'intervento piemontese mutava l'impresa garibaldina in conquista
regia.
Campagna piemontese nelle Marche.
Infatti il problema italiano non poteva avere allora altra
soluzione.
L'annessione del Napoletano, ritardata nella procedura del voto da
Garibaldi, minacciava di compromettere tutti i risultati della
rivoluzione. Il disegno del dittatore di procrastinare i plebisciti
sino alla conquista di Roma implicava una intimazione di guerra alla
Francia e una sottomissione del re a Garibaldi. La monarchia
piemontese, già vassalla dell'imperatore francese, perderebbe
ogni prestigio in Italia, se Garibaldi potesse non solo conquistarle
un regno, ma ritrascinarla a guerra contro Napoleone. Il dittatore,
alla testa di ventimila volontari, circondato da un ammirabile stato
maggiore, con un consiglio di grandi democratici intorno, trattando
con diplomatici esteri, nominando prodittatori, maneggiando il
denaro dello stato, legiferando e battagliando, era più re
del re. Il partito moderato napoletano, che non aveva osato
insorgere prima del suo ingresso in Napoli, non poteva ora dominare
il vincitore; anzi, obbedendo alle istruzioni di Cavour, non
riusciva che a precipitare la crisi.
Solo l'esercito piemontese poteva fermare Garibaldi sulla via di
Roma. Quindi Cavour, sapendo Napoleone a Chambéry, gli aveva
mandato oratori Farini e Cialdini: la missione era stata difficile.
Forse l'imperatore non aveva ancora abbandonato tutte le speranze di
un regno murattiano, fors'anco questo eccessivo ingrandimento del
Piemonte contraddiceva a tutti i calcoli della sua politica
generale. Ma Garibaldi aveva spinto così oltre la rivoluzione
nazionale nel Reame, da rendervi impossibile l'impianto di una
dinastia straniera, mentre una sua marcia su Roma poteva gettare
l'impero in male prevedibili complicazioni. L'imperatore non voleva
abbandonare il papa, e non poteva combattere la rivoluzione italiana
per non ridestare le questioni sopite di Villafranca. D'altronde il
Piemonte per annettersi il Napoletano aveva bisogno di una linea di
comunicazione per terra: ad esautorare Garibaldi anche in faccia
all'Italia nessun miglior modo che di far conchiudere la sua guerra
da Vittorio Emanuele: fortunatamente n'era ancora il tempo.
L'impresa di Garibaldi, aiutato da tutta la democrazia europea,
riaccendeva le speranze della democrazia francese: se una
rivoluzione republicana scoppiasse in Italia, la Francia non vi
resterebbe forse estranea. L'impero non era abbastanza sicuro per
trascurare questa possibilità. Intanto l'anarchia tempestava
già a Napoli, secondo le bugiarde notizie dei giornali
moderati; i più ardenti republicani circuivano il generale,
la marcia su Roma determinerebbe lo scoppio della rivolta:
poichè il Piemonte non avrebbe potuto allearsi con Garibaldi
contro la Francia, nè con questa1 contro Garibaldi per non
accendere una guerra civile, una seconda republica italiana
diventava inevitabile.
I legati piemontesi insistevano vivamente, dipingendo a foschi
colori la situazione del Piemonte condannato a diventare tutta
l'Italia o perire.
L'imperatore non acconsentì senza dichiarare che, se
l'Austria fosse intervenuta, la Francia non sarebbe discesa a
combatterla.
Contro tal pericolo il conte di Cavour, riprendendo il disegno
già combinato l'anno prima con Kossuth per eccitare la
rivoluzione in Ungheria, mandò da Genova alla volta del
Danubio cinque bastimenti carichi d'armi e il Klapka a
Costantinopoli.
Quindi precipitò gl'indugi.
Il generale Lamoricière, dopo aver paragonato la rivoluzione
italiana all'Islamismo e dichiarata la causa del papa essere quella
della civiltà e della libertà del mondo, con editti
crudeli seguitava a terrorizzare le provincie: ordini di morte
fioccavano dappertutto e contro tutti. Questa demenza di repressione
facilitò al conte di Cavour i pretesti di guerra. Quindi con
nota del 7 settembre, nel giorno medesimo dell'ingresso di Garibaldi
a Napoli, aveva già chiesto al cardinale Antonelli lo
scioglimento della bande mercenarie rese infami dall'eccidio di
Perugia. Naturalmente il cardinale aveva ricusato con alterigia. La
Santa Sede si credeva allora in condizioni migliori del Piemonte:
l'imperatore Napoleone, sempre ravvolto nelle stesse
ambiguità, richiamava da Torino il proprio ambasciatore ed
ingrossava il presidio francese a Roma, facendo dichiarare dal duca
di Grammont al papa che si opporrebbe ad ogni aggressione del re di
Sardegna. Ma quando il 9 settembre il generale Fanti, nominato
comandante supremo, aveva annunziato al Lamoricière che
occuperebbe le Marche e l'Umbria nel caso che le truppe pontificie
vi contrastassero le manifestazioni nazionali, e questi aveva
scritto all'Antonelli di far avanzare il presidio francese, il duca
di Grammont vi si era ricusato. L'imperatore Napoleone non aveva
inteso che di difendere Roma e il territorio occupato dai propri
soldati.
Intanto il conte di Cavour aveva diramato un Memorandum a tutte le
cancellerie, spiegando come, per liberare le popolazioni dalle
tirannidi secolari e per impedire alla rivoluzione di sciorsi nella
peggiore delle anarchie, nell'interesse d'Italia e di Europa, fosse
costretto a questa nuova guerra.
I nemici questa volta erano Pio IX e Garibaldi, la Santa Sede e la
rivoluzione.
La campagna era stata rapida.
L'esercito papalino arrivava appena a ventimila uomini, quello sardo
quasi al doppio. Il Lamoricière, prode generale educato alla
scuola d'Africa, invece d'afforzarsi in Ancona, tentò
d'impedire la congiunzione dei due corpi nemici; ma Cialdini con
celere marcia oltrepassò Ancona, mentre Fanti, prostrato lo
Schmid a Perugia, scendeva ad incontrarlo. Tutti i presidii della
città avevano capitolato quasi senza colpo ferire,
arrendendosi sino a bande di volontari romagnoli, mescolate in abito
borghese e con armi da caccia a questa guerra come ad un'ottobrata.
Lamoricière prima di avere combattuto era già chiuso
fuori d'Ancona. Cialdini occupava Castelfidardo: il conte De Pimodan
comandante degli zuavi pontifici volle attaccarlo, e morì
bravamente nella battaglia colla fede di un antico crociato; il suo
corpo si sbandò, molti riparati a Loreto vi si arresero
l'indomani; Lamoricière potè a stento guadagnare
Ancona.
Tutta la guerra si era così costretta ad un assedio. La
piazza, fortissima per natura e ben munita, aveva ancora un presidio
di 7000 uomini; nullameno, bersagliata vivamente dalla squadra del
Persano, aveva dovuto soccombere indi a poco (29 settembre).
La campagna non era durata che diciotto giorni, e non aveva costato
che seicento soldati tra morti e feriti.
Contemporaneamente Garibaldi, esasperato dalla guerra dei moderati
al suo governo, aveva mandato il marchese Pallavicino al re, per
chiedergli le dimissioni del ministero di Cavour e di Farini. Questa
esorbitanza, giustificando tutte le accuse dei monarchici, aveva
permesso a Cavour di perdere facilmente l'ingenuo e pericoloso
avversario: infatti, mentre questi si affermava francamente in una
dittatura rivoluzionaria, l'abile ministro, contro ogni consiglio di
sospendere la costituzione, si era appellato al parlamento. La
libertà dal campo di Garibaldi era passata in quella di
Cavour. Il parlamento, convocato il 2 ottobre, aveva votato:
«Il governo del re è autorizzato ad accettare e
stabilire per decreti reali l'annessione allo stato di quelle
provincie dell'Italia centrale e meridionale, nelle quali si
manifesti liberamente per suffragio universale diretto la
volontà delle popolazioni di far parte integrante della
nostra monarchia costituzionale».
Nella relazione su tale disegno di legge il conte di Cavour, dopo
alcuni elogi di Garibaldi, attribuiva con audace sofistica alla
politica di Casa Savoia, iniziata da Carlo Alberto, anche le ultime
mirabili conquiste del mezzogiorno: quindi, dichiarata impossibile
ogni nuova guerra per la liberazione della Venezia o per la
conquista di Roma, denunciava l'anarchia settaria già
scoppiata a Napoli per la colpa di Garibaldi nel ritardare
l'annessione, e chiamava giudice il parlamento nella propria contesa
col dittatore, pindareggiando nullameno sulla generosità di
lui.
Infatti Garibaldi, coll'infallibile buon senso della propria natura,
che la passione di patria e l'entusiasmo della vittoria avevano
esaltato per un momento, prima ancora che la legge fosse sancita,
convocava con decreto dell'8 ottobre tutti i comizi del Reame a
votare su questa formula: «Il popolo vuole l'Italia una ed
indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale e i suoi
legittimi discendenti».
Il plebiscito era a suffragio universale: agli squittini risultarono
nelle provincie napolitane 1,302,064 sì e 10,312 no, nella
Sicilia 432,053 sì e 667 no; nelle Marche 133,807 sì e
1212 no; nell'Umbria 97,040 sì e 380 no.
Frattanto re Vittorio Emanuele, commessa la luogotenenza generale
del regno al principe di Carignano, annunciava da Ancona, in un
primo proclama ai popoli del mezzogiorno, il suo prossimo arrivo per
tutelare l'ordine e far rispettare la loro volontà. Tale
proclama era il commentario della lettera, colla quale Farini
comunicava all'imperatore Napoleone la marcia su Napoli per
sottrarre la grande città all'anarchia delle bande rosse.
L'epopea garibaldina era finita. Bertani, tanto calunniato, aveva
già votato generosamente nella camera piemontese la legge
proposta da Cavour per fare le annessioni con decreti reali; Mazzini
riprendeva più desolato la via dell'esilio, lasciando stretta
a Napoli una vasta colleganza popolare col titolo di Associazione
Unitaria Nazionale, e affidando al Nicotera la direzione del nuovo
giornale L'Italia del Popolo. Garibaldi, dopo la vittoria del
Volturno, restava inerte. Il disprezzo, col quale la monarchia
affettava di trattarlo, lo isolava nell'ingratitudine dei
più.
La monarchia trionfava.
Annessione del Reame.
Nessuna delle molte querele diplomatiche fioccanti allora
sull'Italia potè ritardare il compimento della nuova
conquista regia.
L'Austria tentò di riunire una conferenza a Varsavia per
abolire il non intervento, ma Napoleone III ne dissuase lo czar
Alessandro; la Prussia rumoreggiò più a lungo,
però Cavour, proclamandosi con giusta vanteria unico
restauratore in Italia del principio monarchico quasi cancellatovi
dalla rivoluzione, potè rispondere finalmente al ministro
Schleinitz di dargli un esempio che egli sarebbe ben fortunato di
imitare fra poco; l'Inghilterra invece era così favorevole
alla rivoluzione italiana che il suo primo ministro lord Russell
potè affermare con superba originalità di diplomatico
in una nota al legato inglese a Torino il diritto dei popoli
all'insurrezione.
Intanto Vittorio Emanuele era già penetrato nel regno
napoletano passando il Tronto (15 ottobre); Garibaldi venne ad
incontrarlo a Teano; il generale borbonico Ritucci stava non molto
lontano, schierato a battaglia. La situazione era epica: un mattino
freddo, Capua antica e minacciosa da lungi, alta sovra di essa
l'ombra immensa di Annibale; Garibaldi con un fazzoletto annodato
sotto il collo e ravvolto nel povero mantello dinanzi alle bande
rosse, Vittorio Emanuele sulla fronte del primo esercito italiano:
la rivoluzione e la tradizione, la democrazia e la monarchia; un
popolano che donava un regno ad un re, il quale accettandolo creava
una nazione.
Garibaldi, mostrando Vittorio Emanuele al proprio esercito,
gridò: - Ecco il re d'Italia!
Vittorio Emanuele, incapace di comprendere la grandezza di quella
scena e la generosità di quel riconoscimento, tacque
villanamente, e più villanamente ingelosito degli applausi,
che i contadini accorsi levavano dinanzi a Garibaldi, spronò
il cavallo. Più tardi la letteratura cortigiana sentì
il bisogno di raccontare diversamente tale incontro.
Il generale Ritucci, per non sostenere da solo l'urto dei due
eserciti riuniti, si ripiegò dietro la linea del Garigliano,
lasciando diecimila uomini a presidio di Capua. Vittorio Emanuele,
dietro l'esempio di Garibaldi, mandò Cialdini al Salzana,
generalissimo dei borbonici, per tentarlo, ma invano; allora
s'investì Capua e s'incalzò l'esercito borbonico, che
nella notte ripassò il Garigliano. Garibaldi venne messo alla
coda, mentre l'ammiraglio francese De Tinau, mandato da Napoleone
nelle acque di Gaeta ad impedire che le navi sarde la distruggessero
per mare, vietò alla squadra italiana di correre da Terracina
alla foce del Garigliano per proteggere la strada della marina.
Vittorio Emanuele, dopo l'umiliazione del vietato investimento di
Gaeta per mare, dovette nuovamente abbassarsi a pregare l'imperatore
di un contrordine all'ammiraglio Tinau. L'imperatore,
nell'impossibilità di ritardare più oltre la conquista
piemontese, acconsentì. Poco dopo il Garigliano era
guadagnato; la legione De Sonnaz rompeva il campo del Salzana, che
si rifugiava vilmente oltre la frontiera pontificia; Capua
s'arrendeva dopo quattro giorni d'assedio; il 7 novembre Vittorio
Emanuele entrava trionfalmente in Napoli, e Garibaldi, dimessosi
dalla dittatura ricusando ogni ricompensa, ne usciva nel cuore della
notte, povero come quando v'era entrato conquistatore, ravvolto
nell'ingratitudine dei partiti, ma col gran cuore d'Italia nel
petto, gridando ai pochi compagni dal ponte del vascello che lo
riconduce a Caprera: - Arrivederci sulla via di Roma!
Alla fine di novembre Vittorio Emanuele ricevette le deputazioni
delle Marche e dell'Umbria; il 1^o decembre visitò Palermo,
emanandovi un proclama, nel quale, dopo molti vanti sul regno di
Vittorio Amedeo II, si taceva con scempia ingratitudine di
Garibaldi. Al prodittatore Mordini, malviso, fu sostituito il
marchese di Montezemolo col Cadorna e La Farina, come consiglieri di
luogotenenza. A Napoli governava Luigi Carlo Farini, ma per maggior
lustro monarchico vi fu mandato il principe di Carignano.
Tutto il regno era già annesso al Piemonte, mentre Francesco
II resisteva ancora a Gaeta. L'assedio, incominciato il 6 novembre,
malgrado tutti gli sforzi dei generali Menabrea e Valfrè,
procedeva lentamente a cagione del mare mantenuto aperto agli
assediati dalla flotta francese. Questo tardo intervento napoleonico
umiliava il governo italiano, senza salvare la dinastia borbonica.
L'imperatore, stretto dalle istanze dell'Inghilterra, dovette
finalmente persuadersene e consigliare al re di rendere la piazza;
questi, fiducioso in una reazione delle campagne, rispose
alteramente; allora Napoleone propose un armistizio di quindici
giorni, che Francesco II ricusò ancora e, atterrito dal
bombardamento, accettò poco dopo per raccomandarsi in
quell'intervallo a tutti i governi d'Europa. Spirato l'armistizio e
riprese le ostilità, cominciò il blocco per mare: il
bombardamento seguitò, una polveriera della fortezza
scoppiò, un altro armistizio di quarantotto ore fu concesso
per seppellire i morti; ma gli assediati essendosene giovati
proditoriamente per riparare la breccia delle mura, Cialdini spinse
così vigorosamente l'attacco che la fortezza dovette
capitolare (13 febbraio).
Re Francesco II esulò: i Borboni avevano finalmente cessato
di regnare sull'Italia.
La grande annessione delle due Sicilie creava politicamente la
nazione italiana: Venezia restava sotto l'Austria, Roma in mano del
papa, ma un regno di ventidue milioni d'italiani era cresciuto
nell'Europa. Le diplomazie dovevano riconoscerlo. La
sovranità popolare vi aveva sconfitto il diritto divino; la
rivoluzione, giovandosi di tutte le forme e di tutte le forze, vi
aveva costretto a rimutarsi in se medesima principato e democrazia;
i plebisciti a suffragio universale vi contrastavano ancora
coll'elettorato incredibilmente ristretto dello statuto; lo stato,
emancipatosi dalla chiesa, le aveva ritolto prerogative e territori;
le guerre avevano rimessa una certa energia nel popolo; il
federalismo era cessato; l'unificazione aveva condotto
all'unità. La monarchia piemontese, forzata dalla rivoluzione
a diventare monarchia italiana, aveva dovuto accettare la base
democratica dei plebisciti, ed ora il cittadino sovrastava al re: la
regalità era mutata in funzione dello stato, la dinastia in
una rappresentanza resa simpatica dal coraggio mostrato. Se
l'alleanza del Piemonte colla Francia aveva aperto a questo l'adito
al consesso delle grandi potenze d'Europa, l'altra della monarchia
colla rivoluzione, di Vittorio Emanuele con Garibaldi, aveva creato
la nazione.
Il re, secondando e più spesso subendo gli avvenimenti, aveva
meritato dal popolo in tanto discredito della regalità il
titolo originale di galantuomo; ma Garibaldi, solo fra l'impossibile
republica unitaria di Mazzini e l'impotente monarchia piemontese,
opponendosi ad entrambe, abbassando l'idea dell'una e slargando la
realtà dell'altra, sfidando le diplomazie e sollevando il
popolo, era stato tutta l'Italia. Vittorio Emanuele, Cavour e
Mazzini non vi significavano che particolari tendenze fra
contraddizioni, che limitavano la loro opera ad un sistema.
Così, nell'infallibilità dell'istinto, Garibaldi aveva
invece operato più di tutti loro quando la rivoluzione pareva
esaurita; ma, troppo grande per aspirare a ricompense e troppo forte
per serbare rancori, aveva resistito persino al proprio trionfo,
ritirandosi dalla guerra appena le battaglie vi diventavano inutili,
pronto a ricominciarla l'indomani con una sconfitta maggiore di ogni
vittoria. Ora, nell'inevitabile gazzarra dell'improvvisazione
monarchica, si era ritirato a Caprera, non trasportando sulla
piccola barca, frutto di tante conquiste, che pochi legumi da
seminare fra gli scogli dell'isola vigilata dalla sospettosa
ingratitudine della monarchia.
LIBRO OTTAVO
IL REGNO D'ITALIA
Capitolo Primo.
Il primo assetto
Insufficienza storica della nuova monarchia.
Il nuovo regno non era ancora l'Italia.
Se il principio della nazionalità aveva trionfato, riunendo
intorno al Piemonte la maggior parte delle province italiche,
Venezia rimasta soggetta all'Austria e Roma sottoposta al papa
toglievano alla nazione la coscienza della propria integrità
individuale. Attraverso la clamorosa vicenda di tante vittorie si
intendevano tuttavia i lamenti di una grande speranza caduta. Un
doloroso peccato d'origine turbava la conquista regia anche nella
gloria degli insperati trionfi. L'alleanza offerta dada Francia al
piccolo Piemonte e la discesa in Lombardia per cacciarne l'Austria
avevano tolto all'egemonia piemontese la simpatica
originalità dei primi ardimenti. Quindi la pace imprevista di
Villafranca l'aveva umiliata: re Vittorio Emanuele vi era sembrato
appena un vassallo, come gli antichi suoi avi, che gl'imperatori si
associavano nelle guerre, donando o ritogliendo loro qualche
provincia.
Mentre il Piemonte, prima della guerra lombarda, era un minimo stato
ammirabile di iniziativa e di patriottismo, che, improvvisando tra
le servitù millenarie d'Italia una nuova epoca di
libertà costituzionale, si metteva all'avanguardia d'Europa
ancora impacciata nei trattati della Santa Alleanza, dopo la guerra
lombarda era caduto come un satellite nell'orbita del secondo impero
napoleonico. La fortuna delle prime annessioni era così poco
bastata a ridargli l'antica libertà che l'impresa garibaldina
nel mezzogiorno, raddoppiandogli il problema, lo sottoponeva ora
più supinamente all'arbitrio dell'imperatore. Nullameno il
fatto nazionale aveva potuto concretarsi in una rudimentaria
organizzazione.
La nuova monarchia vincitrice quasi senza vittorie proprie,
giacchè nessuna battaglia piemontese era stata decisiva,
restava in difetto dinanzi all'Europa e dinanzi alla rivoluzione:
per quella, la soggezione alla Francia le toglieva di essere
considerata potenza di primo ordine come per grandezza di storia e
di territorio avrebbe meritato; per questa, l'abdicazione verso il
papa e il vassallaggio a Napoleone le scemavano tristamente la
necessaria legittimità.
Il profondo mutamento avvenuto nella storia nazionale cogli ultimi
fatti non era ancora abbastanza visibile.
La monarchia piemontese, annullando in se stessa i Ducati e il regno
delle due Sicilie, non aveva sollevato la nazione nella
modernità di un fatto pari a quello di Francia e
d'Inghilterra. Certo la dinastia di Savoia si era mostrata
incomparabilmente migliore di ogni altra lorenese o borbonica, ma
l'idealità italiana non aveva potuto incarnarsi in essa. Il
moto rivoluzionario ispirato da Mazzini e guidato da Garibaldi la
trascendeva; la spontaneità popolare, quantunque scarsa, era
bastata a sopraffare la sua iniziativa; quindi la sua opera vi era
stata più necessaria che benefica, la sua abilità
più egoistica che feconda, i suoi guadagni più grossi
che legittimi. Nessuna grandezza epica consacrava i suoi trionfi,
nessuna superbia di pensiero o di carattere poteva dare alle sue
prime parole in Europa quell'accento baldo dei popoli, che si
affacciano alla storia. Anzi il suo atteggiamento era anche
più umile di prima, le diplomazie le negavano tuttavia il
riconoscimento ufficiale, la rivoluzione le rifiutava persino quel
rispetto, che tutti i vinti sentono involontariamente pel vincitore.
Garibaldi, malgrado il divieto dell'Europa, aveva potuto conquistare
il regno delle due Sicilie; la monarchia, per bloccare l'ultima
fortezza di Gaeta, aveva dovuto implorare il permesso di Napoleone
III.
Alla servitù austriaca sarebbe quindi succeduto il
vassallaggio francese; dopo una politica di schiavi un'altra di
liberti; ad una rivoluzione provocata da un'avventura napoleonica e
compita da una avventura garibaldina seguirebbe fatalmente una
monarchia senza tradizione e senza principii, costretta a ridere
dell'idealità rivoluzionaria e a carpire i modi della propria
resistenza ad un imperatore, più sensibile ai pericoli che
alle vergogne, con poco credito in Europa, senza frontiere a ponente
e a levante, con uno straniero nemico sul petto, uno straniero
protettore sulle spalle, uno straniero indigeno nel cuore.
Non pertanto il nuovo regno doveva funzionare come se fosse tutta
l'Italia: dal 1849 al 1859 si era svolto il periodo della
preparazione piemontese; dal 1860 al 1870 si svolgerebbe quello
dell'organizzazione nazionale.
I suoi dati ne erano immutabili come in tutti i periodi storici.
I dati della politica monarchica.
La nuova monarchia doveva per necessità della propria forma
combattere con ogni mezzo la rivoluzione, assorbendone i migliori
elementi per creare nel popolo la fede a se medesima, e nullameno
subire il programma rivoluzionario, che metteva a scopo immediato di
ogni azione la conquista di Venezia e di Roma. La fatalità
dell'unità spingeva a queste due ultime annessioni senza che
la monarchia potesse nè sottrarsi alla politica clericale di
Napoleone, nè combattere da sola contro l'Austria. Il suo
programma si dibatteva in un'antitesi insolubile a qualunque
abilità di statista. La monarchia, come risultato
dell'insufficienza rivoluzionaria della nazione, era destinata a
fallire dinanzi ai due problemi nei quali la stessa rivoluzione si
era infranta. Per conquistare Roma bisognava rovesciare l'impero
napoleonico, per liberare Venezia era d'uopo sconfiggere l'impero
austriaco.
La politica monarchica si sarebbe dunque trascinata d'espediente in
espediente, aspettando in Europa un'altra alleanza che le
permettesse di combattere l'Austria, ed augurando un caso
indefinibile che le concedesse Roma. Intanto all'interno, dopo
l'unificazione plebiscitaria, bisognava ricominciare quella
più efficace delle leggi e dei costumi: la nuova dinastia,
assorbendo il prestigio di tutte le altre dalla millenaria
servilità del popolo, doveva conservare l'aureola
rivoluzionaria. A ciò era prima difficoltà lo stesso
carattere dell'egemonia piemontese e della conquista regia, che,
irritando la vanità delle altre provincie, dava al piccolo
stato sardo un'ombrosa sembianza di usurpatore. Torino era troppo
piemontese per poter restare la capitale d'Italia: la casa di
Savoia, più antica che illustre, non era mai penetrata
abbastanza nella storia italiana per iniziarne la nuova epoca da
Torino, ove aveva molto regnato nel più chiuso egoismo
dinastico e con tendenze antinazionali. La tradizione monarchica e
il diritto statutario non bastavano a risolvere il problema ideale
di Roma: il re era piccolo in faccia al papa, l'idea regia vaniva
dinanzi all'idea cattolica. Solo la rivoluzione poteva proclamare
Roma capitale d'Italia, giacchè proclamarla tale e non
conquistarla sarebbe la più dolorosa e ridicola confessione
d'impotenza; solo l'idea democratica era maggiore dell'idea
cattolica. La monarchia ricadeva quindi in una seconda antitesi per
l'impossibilità di restare a Torino e di andare a Roma.
D'altronde la rivoluzione, forzata a vivere di idealità dopo
la sconfitta toccata alla republica mazziniana, si sarebbe giovata
di questa impotenza monarchica per compromettere il governo con vani
tentativi di guerra contro Venezia e contro Roma; così che la
monarchia, impedendoli con le armi, avrebbe pericolato nel disonore
della guerra civile.
Se la monarchia non aveva nemici terribili all'interno, non contava
dai piemontesi in fuori altri sudditi devoti: tutta la sua forza
stava nella necessità di una maggiore unificazione politica e
nell'impossibilità di una republica mazziniana.
Il popolo non afferrava ancora il significato della rivoluzione.
Accettava piacevolmente lo sfratto degli austriaci e degli altri
tirannelli, ma non sentiva vergogna di doverlo all'intervento della
Francia; applaudiva le vittorie di Garibaldi, ma non si era levato e
non si leverebbe in massa per seguirlo, trovando naturale che la
monarchia arrestasse la sua opera per meglio sfruttarla. La
rivoluzione non era per la maggior parte della gente che un
buonissimo affare politico, dal quale bisognava trarre il maggior
profitto senza compromettersi in nuovi rischi. Il magnanimo
idealismo della minoranza rivoluzionaria pareva rettorica all'ottuso
senso morale e alla istintiva furberia della moltitudine. Cavour,
massimo rappresentante degli interessi, soverchiava Mazzini, supremo
apostolo delle idee. La rivoluzione non si chiariva ancora nella
propria opposizione coll'idea cattolica del papa; non si capiva che
il principio della sovranità popolare doveva tradursi nella
sfera della religione come sovranità del pensiero civile; che
emancipandosi dal diritto divino bisognava liberarsi dal diritto
papale; che la regalità dell'elettore in faccia al re
produceva la libertà del credente contro il papa.
Il clero italiano, antinazionale a cagione del potere temporale,
avrebbe dovuto essere considerato doppiamente nemico.
Invece dopo le vittorie in quasi tutti i paesi si cantarono Tedeum
per le piazze; l'esercito piemontese doveva ancora recitare le
orazioni mattina e sera nelle caserme, ed assistere tutte le feste
alla messa; Garibaldi medesimo a Napoli aveva dovuto visitare San
Gennaro, che colla solita compiacenza a tutti i vincitori
ripetè per lui il miracolo della ebullizione del sangue. Il
popolo tutt'altro che rivoluzionario sembrava invece non volere
accettare la rivoluzione che consacrata dalla religione. Quindi la
teatralità dei trionfi si spiegava nelle più
grottesche forme: molti preti liberaleggiavano, la maggior parte
degli elettori dopo il plebiscito andavano ad accusarsi del voto
come di un peccato, e ne ricevevano la penitenza. Appunto
perchè il popolo aveva dato un numero troppo scarso di
volontari imbizzarriva ora sotto le assise della guardia nazionale
chiamandola al palladio della nazione. E queste guardie nazionali
furono mandate a guarnigione da paese a paese come una specie di
presentazione che ogni città facesse all'altra dei propri
cittadini. Invece la coscrizione venne accolta con tristissima
ripugnanza: nella sola Sicilia i renitenti alla leva giunsero presto
a seimila, nelle Romagne superarono il migliaio; e se ad essi si
aggiunga, come purtroppo si aggiunsero, quelli delle altre provincie
e le innumerevoli bande di briganti che infestarono lungamente il
Napoletano dandovi combattimenti quasi grandi come battaglie,
nell'indomani trionfale della rivoluzione il numero dei ribelli
reazionari pareggiò quasi quello dei volontari. Certamente
Garibaldi non ne ebbe seco di più.
Eppure la coscrizione a lunga ferma secondo l'antico sistema non
colpiva che un numero ristretto di giovani, conservando l'ignobile
privilegio borghese della surrogazione per denaro.
Le campagne erano specialmente ostili al nuovo governo per la
coscrizione e per l'immediato aumento delle imposte. Si sarebbe
voluta la libertà senza pagarne le spese: i preti aizzavano,
la borghesia chiusa nell'egoismo economico dubitava ancora di
affidarsi in massa al nuovo governo, che nessuna potenza d'Europa
aveva riconosciuto. Sotto la baldoria delle feste si sentiva un
certo scoramento; poichè la rivoluzione non era frutto
dell'energia nazionale, solo coloro che avevano combattuto erano
forti nella sua fede. Però nella rivoluzione il capo
più saldo essendo la monarchia piemontese, non si credeva che
ad essa. Garibaldi aveva piuttosto colpito le immaginazioni che
persuaso gli intelletti. Le sue incredibili vittorie erano in gran
parte risultate, come nel Napoletano, dalla viltà dei nemici:
i suoi volontari erano o giovani colti e signorili, o spostati di
piazza pronti sempre ad accorrere in tutti i tumulti. Quindi l'avaro
buon senso della borghesia ricusava di credere a queste forze
rivoluzionarie, se maggiori complicazioni avessero ricondotto
l'Italia ad una guerra contro l'Austria o contro la Francia. Il
programma rivoluzionario pareva assurdo, il principio democratico
diventava paradossale in un paese, ove il popolo non esisteva ancora
come classe politica.
Bisognava quindi disfarsi al più presto degli elementi
rivoluzionari.
Dopo aver ottenuto l'indipendenza per un aiuto francese, era suprema
necessità carpire all'Europa il riconoscimento ufficiale con
una politica di moderazione che non desse ombra alle maggiori
potenze: i rivoluzionari, indispensabili alle prime vittorie,
diventavano adesso d'impaccio e di pericolo. Sola la borghesia
dietro la scorta infallibile degli interessi materiali poteva,
entrando nella rivoluzione, assodarne la base e regolarizzarne il
governo. I suoi istinti commerciali ed industriali avrebbero
mirabilmente assecondato il moto di unificazione nelle leggi;
l'abitudine dell'ordine, antica in essa, avrebbe creato la nuova
disciplina politica; la sua chiaroveggenza finanziaria avrebbe
permesso nella necessità di un nuovo immenso debito il meno
disastroso esercizio di spese. Però la borghesia avrebbe
voluto naturalmente arricchirvisi.
Il conte di Cavour lo comprese mirabilmente.
La sua prima politica interna fu di seduzione ai borghesi e di
ostilità ai rivoluzionari. Per passare dalla rivoluzione alla
organizzazione era d'uopo accogliere nel governo il maggior numero
dei più forti interessi; l'esercito dovrebbe funzionare come
un crogiuolo assimilatore per le differenze morali delle varie
provincie, disciplinando la tradizionale insubordinazione italiana.
La burocrazia, ingrossata celermente ed elefantescamente, avrebbe
fornito un altro esercito d'impiegati, più mobile, meglio
aderente al governo perchè cointeressatovi come in una
azienda commerciale. Da questi due corpi bisognava escludere tutti i
rivoluzionari, che per altezza d'ingegno o purezza di carattere o
riottosità di sentimento non si convertissero alla monarchia:
e a questi irreconciliabili infliggere quel disprezzo che tutte le
società hanno per i propri scarti.
Il moto di condensazione intorno alla monarchia riuscì
poderosamente.
Nessuno si preoccupò che Mazzini, ancora sotto l'onta
dell'ultima condanna a morte per la spedizione di Pisacane, restasse
in esilio: a Garibaldi l'istinto borghese cercò un rivale
prima nel Fanti, poi nel Cialdini; malleabile e destro il primo,
satrapesco e pretoriano il secondo, ambedue mediocri d'ingegno e di
opere. I giornali moderati crebbero d'importanza, di numero e di
abilità; naturalmente difendendo il fatto attuale del
governo, la loro argomentazione fu sempre nella realtà,
mentre i giornali radicali condannati ad una critica intransigente
caddero nella rettorica: quelli furono satanicamente abili nel
denigrare le glorie della rivoluzione aggravando il pervertimento
morale della nazione; questi stancarono anche i buoni intelletti
colla ripetizione monotona di idealità incompatibili colla
vita reale.
La rivoluzione non ebbe quindi espressione artistica nel trionfo. Il
popolo non vi trovò ispirazioni: l'inno garibaldino e l'inno
reale furono due marcie peggio che volgari; di maggior estro la
fanfara dei bersaglieri, truppa ammirabile di severa eleganza,
creata dal Lamarmora, e che la monarchia oppose invano alle bande
rosse destinate a rimanere il tipo più originale di soldato
nel secolo decimonono. La poesia ammutolì. Vittorio Emanuele
in tanta aureola di fortuna non commosse la fantasia nazionale;
tutti sentivano che l'uomo, quantunque onesto d'intenzioni, non era
pari nè all'idea nè al fatto della rivoluzione: il suo
valore di soldato non bastava a compensare la sua sommissione di re
a Napoleone III; l'inevitabile egoismo dinastico, avendolo
subordinato a tutte le umiliazioni politiche del governo durante il
periodo delle annessioni, gli toglieva ogni carattere eroico.
Finalmente la sua necessaria e mostruosa ingratitudine a Garibaldi,
che più tardi cortesie intermittenti ed ineleganti non
poterono velare, mentre l'incomparabile eroe seguitava a tributargli
il più affettuoso rispetto, finirono di scoprire il fondo
volgare della sua natura. L'eccesso medesimo della fortuna lo
perdè nel sentimento poetico della nazione: Manzoni e
Niccolini tacquero, Giosuè Carducci, allora giovinetto e poco
dopo non meno grande di loro, lo salutò tribuno armato del
popolo, ma quel saluto fu complimento peggiore del silenzio. Oggi
stesso, dopo molti anni dalla sua morte, non una pagina immortale
della moderna letteratura è ispirata dal suo nome. Il re di
Savoia, diventato re d'Italia, non ebbe quindi la consacrazione
della poesia perchè l'elemento poetico era tutto nella
rivoluzione, dalla quale la monarchia usciva come un fatale processo
prosastico. Le dinastie cadute non destarono lamenti, il papa non
eccitò entusiasmi, Napoleone al di fuori dei circoli
officiali non ottenne riconoscenza avendo guastato il beneficio col
contrastarne le conseguenze.
Caratteri parlamentari.
Il primo parlamento italiano, radunatosi a Torino nell'ambito
angusto del parlamento subalpino, non potè organizzare
costituzionalmente i propri partiti.
La destra raccolse fra i vecchi monarchici tutti i nuovi convertiti
alla monarchia; la sinistra, prigioniera del governo nei propri
scanni, non seppe e non volle essere francamente antidinastica,
avendo implicitamente accettato la monarchia col giurarle fede.
Quindi il suo programma, suggerito dai comitati rivoluzionari, che
si affaccendavano ancora per le piazze, riuscì assurdo nelle
idee e grottesco nei mezzi. Mentre il governo rifaceva ogni giorno
con nuovi espedienti una politica di sommissione all'estero e di
compressione all'interno, la sinistra per combatterlo efficacemente
avrebbe dovuto oppugnare la monarchia; ma poichè la sua
posizione di partito parlamentare subordinato ai plebisciti lo
vietava, ne usciva una critica qualche volta eloquente, sempre
inutile. D'altronde in quelle prime e multiple difficoltà di
governo la sinistra non ebbe uomini di abbastanza pratica
abilità per influire potentemente nella discussione: la
stessa povertà della stampa radicale, senza nè
economisti, nè finanzieri, nè giuristi, nè
tecnici di altra maniera, intristiva la sinistra parlamentare. I
suoi migliori personaggi, cresciuti nelle congiure e nelle
battaglie, non erano che magnanimi d'intenzioni e rettorici nei
mezzi, quando le condizioni della politica esigevano caratteri
supini ed ingegni destri, coscienze elastiche e sentimenti volgari.
La destra parlamentare, accampata nella devozione monarchica e
nell'egoismo borghese, appariva incomparabilmente più forte.
Il suo programma fu semplice: sommissione all'estero evitando
qualunque nuova guerra che compromettesse le sorti del giovane
stato, ed esautoramento della rivoluzione all'interno. Nelle sue
file s'addensarono per coscienza di necessità storica ed
avidità di lucro o di potere gli uomini più colti e
più abili. Naturalmente i nuovi convertiti alla monarchia
furono più aspri dei vecchi monarchici contro i rivoluzionari
intransigenti: la compressione giunse spesso alla persecuzione; si
ebbero ribalderie poliziesche, leggi di sospetto, che parvero
richiamare i tempi borbonici. La misura, suprema gloria dei governi
parlamentari, mancò troppo spesso anche per l'ignavia del
paese, che lasciava maltrattare inutilmente i suoi eroi più
ammirati.
Nell'unificazione legislativa la destra per istinto di governo fu
più rivoluzionaria della sinistra, la quale per
necessità di opposizione oppugnò la violenta
centralizzazione e quel sopprimere subitaneo tutte le consuetudini e
gli statuti locali sovente migliori dei nuovi. Ma senza questa
violenta ed affrettata unificazione, la coscienza unitaria avrebbe
forse pericolato. Il modello legislativo, al solito accattato in
Francia dai tempi del primo impero, non poteva in quel momento
essere più adatto. Bisognava al governo un maneggio rapido ed
assoluto di quasi tutta la vita publica per dominarla,
giacchè la reazione clericale avrebbe potuto appiattarsi
nemica in ogni istituto indipendente, o la rivoluzione farsi di
questo una cittadella, dalla quale compromettere o sfidare la
monarchia. I comuni, antica gloria italiana, vennero quindi
mortificati sotto le prefetture; ogni autonomia provinciale
inceppata; contese tutte le attività e le iniziative singole
a pro dell'opera governativa. In questa inevitabile frenesia di
rinnovamento legislativo le leggi grandinarono informi, disformi,
deformi: fu un tumulto, nel quale la verità degli studi si
confuse, la proporzione dei fatti colle idee si alterò. Il
governo, invece di rappresentare la vita nazionale nella
varietà delle sue tendenze e de' suoi atteggiamenti, parve
una immane azienda nella quale pochi direttori manipolassero uomini
e cose. Ma se la destra era politicamente reazionaria osteggiando la
rivoluzione, che esigeva la conquista immediata di Roma e di
Venezia, e mantenendo nel vecchio statuto l'elettorato così
assurdamente ristretto che appena cinquecentomila erano gli elettori
politici, nella sua opera penetrarono largamente i principii
rivoluzionarii. Lo stesso assorbimento governativo ne fu causa.
Così, presto si fe' strada la gratuità e
obbligatorietà della istruzione elementare, la giurìa
fu applicata dappertutto anche nelle provincie meno atte a
così alto magistrato. Le strettezze del bilancio spinsero
all'abolizione degli ordini religiosi coll'incameramento dei loro
beni; la necessità di combattere il clero condusse a
restringerne i privilegi; la promulgazione di tutti i codici nuovi,
alla accettazione di moltissimi principii liberali non ancora
accolti nella maggior parte delle legislazioni europee. Burocrazia
ed esercito riuscirono efficaci strumenti di livellazione
democratica; si dovettero moltiplicare con paradossale energia
strade, ferrovie, telegrafi, scuole; ogni creazione conteneva
fatalmente un'idea democratica per quanto smezzata; ogni mutamento
anche sbagliato era un progresso. Il passato, respinto da sforzi
prodigiosi, dileguava a perdita d'occhio.
Urgeva rinnovare tutto e rinnovare presto: poi si sarebbe ricorretto
e migliorato.
Altro terribile strumento di livellazione e di unificazione fu la
imposta. Nel crescendo fantastico di spese e di debiti, malgrado le
più dolorose sproporzioni di quote, i contribuenti sentirono
la solidarietà italiana cui venivano sacrificati.
Naturalmente le provincie del nord più ricche e civili, ove
per ragioni di catasto o di altri congegni amministrativi era molto
più facile colpire il contribuente, pagarono per le provincie
meridionali più povere, e nelle quali mancavano le più
necessarie opere pubbliche e i redditi erano di più difficile
accertamento.
Così l'ignavia di coloro, che avevano assistito come
spettatori alla liberazione d'Italia, trovò la pena nel
trionfo; quelli, che non avevano sofferto sui campi di battaglia,
patirono nel campo economico; chi non pagò di sangue
pagò di borsa. Ma in questa crisi economica, nella quale
perirono molte industrie e si disfecero parecchie classi di
proprietari, altre ne crebbero: sotto la pressione del bisogno
aumentò il lavoro; le vie di comunicazione, la soppressione
di tutte le dogane interne, la diffusione delle idee, degli scambi e
delle forze, le opere pubbliche, la concorrenza straniera e sopra
tutto l'energia della nuova coscienza nazionale trionfarono delle
micidiali esazioni. La ricchezza si sviluppò. Dall'arringo
parlamentare, ove si discutevano publicamente gli interessi della
nazione, derivò a questa la passione della vita publica: si
cominciò a comprendere che il governo non era più un
nemico come pel passato e che nel popolo, sebbene ancora
amministrato da pochi borghesi, stava tutto il diritto. Entro i
partiti belligeranti per le grandi idee politiche se ne formarono
altri con intendimenti minori di economia e di libertà
interna: la partecipazione al governo diventò mano mano
desiderio anche nelle masse; il nuovo assolutismo borghese
trovò presto degli avversari.
Difficoltà politiche.
Ma le questioni politiche soverchiavano. Mentre il governo a forza
di procrastinarla rinunciava quasi alla conquista di Venezia e di
Roma, si doveva nullameno sacrificare il paese all'improvvisazione
di un esercito e di una marina capaci di maggior guerra appena se ne
presentasse il destro. Il problema della riorganizzazione militare,
già difficile in un periodo nel quale la scoperta di sempre
nuove armi impone radicali e subiti mutamenti, diventava
difficilissima in Italia per la fusione dei vecchi eserciti in
quello piemontese. Mancavano illustri generali ed abili
organizzatori: v'erano rivalità pericolose di milizia,
tristissime abitudini da sradicare, odiosi privilegi da concedere.
Si dovevano accogliere reggimenti e generali, che avevano combattuto
contro l'Italia o tradito i propri sovrani all'ultima ora, riformare
i quadri, sottomettere gelosie, graduare meriti male definibili,
fabbricare un numero immenso di armi, stabilire una nuova
disciplina, creare la fede nella bandiera tricolore, profondere
denaro, e nullameno dar paghe esigue fino al ridicolo.
Il partito piemontese, più forte ancora nell'esercito che
nella camera, poteva diventare pericoloso; però l'esercito
piemontese, per conseguenza della propria monarchia, doveva essere
nucleo e tipo dell'esercito italiano. La flotta napoletana, maggiore
della savoiarda, pretendeva al primato e lo meritava; ma non si
poteva concederglielo per lo scarso patriottismo e la mala condotta
del suo personale. Bisognava schiacciare nelle bande garibaldine il
fiore della vita militare italiana. perchè il suo profumo non
inebriasse pericolosamente le altre milizie.
Sotto l'insistente proclamazione di idee e di sentimenti militari il
morto federalismo risorgeva odiosamente, formandosi in camorre
regionali, che la cresciuta facilità di lucri e di onori
stimolavano avaramente. Se i piemontesi affettavano la loro
conquista sino ad irritare in molte provincie il sentimento
politico, di rimpatto queste si gettavano sul governo nazionale come
sopra una preda: in tanto inevitabile sperpero di milioni e di
miliardi ognuno voleva accaparrarsi la parte più grossa.
E questa rapacità e vanità provinciale intralciava
l'opera già difficile del governo: nel parlamento destra e
sinistra si scindevano per interessi regionali; nei ministeri
bisognava proporzionare il numero dei ministri all'importanza delle
regioni, cui appartenevano come deputati, sotto pena di una
coalizione di opposizione altrettanto assurda che invincibile.
Nessun ministero si sarebbe sostenuto, se composto di uomini nati a
caso in una sola parte d'Italia. Naturalmente nei ministeri
preponderava l'elemento piemontese, cui contrastava poderosamente
l'elemento napoletano come il più numeroso e compatto nella
camera. Al senato invece, nell'assenza di un'aristocrazia davvero
dirigente come in Inghilterra, la battaglia si risolveva in una
accademia, giacchè il privilegio di nomina regia permetteva
di non introdurvi che senatori o nulli o della più ortodossa
devozione monarchica. Esso non funzionava quindi che come una
valvola di sicurezza per dare sfogo ai troppi vapori della camera, e
come un magazzino di scarti politici, dai quali trarne ancora
qualcuno servibile.
L'opposizione francamente antimonarchica rimasta a combattere il
governo perdeva terreno ogni giorno, poichè la
quantità possibile di rivoluzione pel paese penetrava
abbastanza facilmente nelle leggi e nei costumi della vita nuova.
Già le defezioni di coloro, che si sentivano o si credevano
atti alla vita parlamentare, e quelle dei moltissimi attirati
dall'esercito, dalla burocrazia o da altri interessi trionfanti nei
governo l'avevano miseramente assottigliata. Il mazzinianismo si
restringeva sempre più a setta, l'ingrossare dell'esercito
nazionale scemava l'importanza di altre future milizie garibaldine.
L'epopea era finita: alla rivoluzione non rimaneva che la sublime
risorsa di qualche ultima tragedia.
Gli stessi disertori della rivoluzione nobilitavano contro di essa
la monarchia agli occhi delle masse giudicanti sempre coll'istinto:
nessun tentativo di rivolta avrebbe quindi trovato ribelli; Mazzini
stesso non osava predicarla, Garibaldi non l'avrebbe capitanata. La
parte rivoluzionaria era costretta a pretendere sulla monarchia una
priorità d'iniziativa, alla quale il buon senso e la
fiacchezza delle moltitudini si ricusavano; il nuovo regno d'Italia,
entrando nel sinedrio delle potenze d'Europa, doveva d'ora innanzi
agire diplomaticamente.
Le temerarie iniziative del momento venivano dall'opera legislativa,
che sommoveva violentemente l'antico assetto italiano, pareggiando
politicamente provincie differentissime per periodi di
civiltà, per indole di storia e per irrigidimento di
carattere. Lo stesso confuso e febbrile lavoro di costruzioni,
comunicato dal governo alle provincie e ai comuni a guisa di un
contagio, nascondeva all'occhio dei più iniziative non meno
ammirabili delle più temerarie imprese garibaldine, come
l'impianto delle ferrovie a rovescio d'ogni ragione economica e
scientifica attraverso regioni quasi prive di ogni altra strada e
quindi incapaci di alimentarle. Solo l'America aveva osato questo,
ma l'America era ricca: l'Italia povera, in ritardo con ogni
produzione, costretta ad improvvisare tutti i propri organi politici
a un tempo, moltiplicando i debiti oltre qualunque elasticità
di credito, esagerando le imposte, preparandosi ad altre guerre, coi
terribili problemi di Roma e di Venezia insoluti, ancora smembrata e
pericolante in uno stato provvisorio, era magnifica di ardimento nel
gettare miliardi per ferrovie che saldando la sua unità
dovevano, anzichè coronare il sistema stradale, svilupparlo
ove era appena abbozzato.
Scientificamente e finanziariamente quelle ferrovie erano un errore;
politicamente furono il maggiore dei vantaggi, e resteranno malgrado
gli immensi difetti una delle migliori glorie del nostro
risorgimento.
Capitolo Secondo.
La proclamazione di Roma capitale
Trattative diplomatiche.
Colla resa di Gaeta, cui seguì poco dopo quella del castello
di Messina e di Civitella del Tronto, la conquista regia era
compita. La nuova camera adunata a Torino si componeva di 443
deputati, ma nel primo fervore di adesione monarchica Guerrazzi,
Bertani, Cattaneo, Montanelli ne rimasero esclusi. Il discorso di
apertura corteggiò tutte le nazioni d'Europa per trarle al
riconoscimento ufficiale del nuovo regno, tacque di Roma e di
Venezia ammonendo severamente i volontari a non agitare
ulteriormente il paese per una guerra.
La prima legge fu di un solo articolo: «Re Vittorio Emanuele
II prende per sè e pe' suoi successori il titolo di re
d'Italia», formula infelice, giacche il titolo di secondo,
conservato dal re nella cronologia della propria stirpe, ribadiva il
concetto della conquista piemontese: Vittorio Emanuele non poteva
essere che il primo re d'Italia. Un'altra legge gli riconobbe il
diritto dalla grazia di Dio e dalla volontà della nazione; e
fu espressione assurda ma inevitabile ad un regno costituzionale, in
cui la sovranità nazionale si amalgamava al diritto divino.
Alla proclamazione del regno fioccarono le proteste dell'Austria,
del papa e degli altri principi spodestati. La Francia sembrava
tenere il broncio: nullameno ricusò la proposta spagnuola ed
austriaca di convocare un congresso delle tre primarie potenze
cattoliche per assicurare i diritti sovrani della chiesa. La Prussia
si manteneva sul diniego, la Russia proseguì nelle
ostilità: solo l'Inghilterra fra i grandi stati aveva
riconosciuto il nuovo regno.
Cavour, raddoppiando di attività, si accinse ad assettarlo.
Allontanato Garibaldi, mantenuto in esilio Mazzini, impedito a
Cattaneo il parlamento, domata la rivoluzione e scompaginato il
partito rivoluzionario, egli rinunciò abilmente ad insistere
per il ricupero della Venezia, sulla quale la Germania manteneva
ancora troppe pretese, per tentare invece il problema di Roma. Il
tumulto dei nuovi elementi parlamentari non lo stordiva. Egli
comprendeva benissimo, quantunque monarchico e piemontese, che il
nuovo regno non poteva organizzarsi intorno a Torino: tutto il
mezzogiorno avrebbe recalcitrato contro questa eccessiva
preponderanza piemontese, mentre una pericolosa incertezza come di
provvisorio avrebbe sempre pesato sul nuovo regno.
L'italianità era in Roma. Ma dinanzi a questo problema il suo
destro ingegno di statista doveva fatalmente venir meno.
Già prima dell'occupazione delle Marche e dell'Umbria, nel
subito tumultuare della rivoluzione, egli aveva mandato a Roma
l'abate Stellardi, elemosiniere del re, con una lettera di Vittorio
Emanuele al pontefice e con facoltà di esibire queste
proposte: il papa conserverebbe l'alto dominio sulle Romagne, le
Marche e l'Umbria, e ne affiderebbe il governo al re di Sardegna
come vicario. Era un'esumazione dei concetti medioevali, che
naturalmente abortì, e una rinuncia a Roma capitale. Cavour,
sempre incredulo nell'unità d'Italia, insidiando queste
provincie al papa, non mirava che ad un'altra forma d'annessione.
Infatti l'alto dominio del pontefice si sarebbe nel fatto ridotto a
meno che nulla.
Ma la rivoluzione avendo con Garibaldi conquistato le due Sicilie e
prodotto il regno d'Italia, il problema di Roma capitale s'imponeva
alla politica monarchica. Il conte di Cavour, troppo grande statista
per non sentirlo, non lo era nullameno abbastanza per comprendere
che solo la rivoluzione avrebbe potuto idealmente risolverlo. Quindi
tentò. La sua formula: «libera chiesa in libero
stato», avrebbe dovuto fare il miracolo. Diplomatico in queste
trattative entrò il dott. Diomede Pantaleoni, residente in
Roma e ben ricevuto nei circoli vaticani: il padre Passaglia,
gesuita cresciuto di nome per la difesa del dogma dell'Immacolata
Concezione, e più tardi di fama per una mezza apostasia,
assecondava.
Il disegno era una specie di alleanza fra il papato e l'Italia col
principio: «libera chiesa in libero stato»; quindi
abolizione di tutte le leggi giuseppine, tanuccine, leopoldine;
tutti i vescovi eletti senza intromissione del governo, assoluta
libertà alla chiesa d'insegnare e predicare, il patrimonio
ecclesiastico dichiarato intangibile, garantita al Santo Padre ogni
immunità nell'esercizio spirituale, assicurata ai fedeli di
tutto l'orbe la comunicazione col Vaticano, ministri e nunzi
pontifici inviolabili, creato un lauto patrimonio alla Santa Sede.
In compenso essa rinuncierebbe al potere temporale.
La curia Vaticana resistè.
Allora il conte di Cavour si torse verso Francia: questa volta
intervenne diplomatico il principe Girolamo Napoleone, genero del
re. Non potendo ottenere Roma dal papa, l'astuto ministro cercava di
sottrarre Roma al protettorato francese: le basi delle nuove
convenzioni, senza adesione della corte romana, erano: la Francia,
garantito il papa da qualsivoglia intervento straniero, ritirerebbe
da Roma le proprie truppe; l'Italia s'impegnerebbe a non aggredire e
a non permettere aggressioni esteriori contro il territorio attuale
del pontefice, non reclamerebbe contro l'organamento di un esercito
pontificio con volontari cattolici stranieri, purchè non
superasse i diecimila soldati e non trascorresse a minacce contro il
regno; infine accetterebbe di trattare col governo romano per
assumere la propria parte proporzionale nelle passività delle
antiche provincie pontificie. Ma nemmeno questa convenzione fu
conchiusa, giacchè l'imperatore non voleva ancora nè
abbandonare il papa, nè emancipare al tutto l'Italia. Con
tale convenzione, che pochi anni dopo doveva generarne una ben
più triste, il conte di Cavour senza rinunciare formalmente a
Roma nè proclamarla officialmente capitale, avrebbe ottenuto
di potersene facilmente impossessare appena ne capitasse il destro,
senza rompere guerra alla Francia.
Poi, nel dicembre dell'anno 1860, rimandò a Roma Omero
Bozzino a ritentare la prova delle prime offerte sulla fede di
qualche cardinale, come il Santucci, che sembrava mantenersi
propizio agli accordi. Lo stesso segretario Antonelli si
prestò furbescamente al giuoco per meglio umiliare la
politica piemontese; ma, dopo aver finto di patteggiare persino il
prezzo delle proprie condiscendenze, troncò bruscamente la
pratica esiliando il Pantaleoni.
Questa volta il fino diplomatico piemontese aveva trovato nel
prelato romano una scaltrezza anche più perfida.
L'ordine del giorno Buoncompagni.
Intanto la parte rivoluzionaria agitava vivamente nel paese la
questione di Roma: si moltiplicavano indirizzi e proteste al re e
all'imperatore; l'Inghilterra per gelosia del cesarismo bonapartesco
insisteva officialmente per lo sgombro da Roma del presidio
francese; il governo doveva uscire dal silenzio con più alta
affermazione italiana sotto pena di soccombere nella coscienza
nazionale.
Cavour ebbe tutta l'audacia consentitagli dal proprio sistema e dal
proprio temperamento politico: combinò col deputato bolognese
Audinot un'interpellanza e coll'ex-ministro Buoncompagni un ordine
del giorno, nel quale era scritto: «La camera, udite le
dichiarazioni del ministero, confidando che, assicurata
l'indipendenza, la dignità e il decoro del pontefice e la
piena libertà della chiesa, abbia luogo di concerto colla
Francia l'applicazione del principio di non intervento e che Roma,
capitale acclamata dall'opinione nazionale, sia resa all'Italia,
passa all'ordine del giorno» (27 marzo 1861).
Tutta l'insufficienza e l'astuzia italiana erano riassunte in questo
ordine del giorno. Il diritto nazionale su Roma vi diventava
opinione, quello del non intervento cessava di essere un principio
per ridiventare materia di accordi, la sudditanza alla Francia nella
ragione più intima della vita e della storia nazionale era
proclamata in faccia a tutto il mondo; ma con questo così
umile ed umiliante ordine del giorno il governo persuadeva al paese
di aver compiuto un atto magnifico di audacia. Nella coscienza
confusa della borghesia Roma diventava legalmente capitale d'Italia,
l'occupazione dei francesi vi era segnalata come un arbitrio,
l'agitazione rivoluzionaria perdeva quasi totalmente ogni efficacia
di persuasione per una nuova impresa su Roma, che la monarchia si
appropriava rimettendone la presa di possesso alla prima favorevole
occasione.
Infatti la publica opinione esultò: solo Mazzini e Garibaldi,
il genio e il cuore d'Italia, sentirono l'ineffabile offesa. La pace
di Villafranca non aveva tradito che il Piemonte, troppo piccolo
allora per resistere solo contro Austria e Francia: il
riconoscimento officiale del diritto alla Francia di occupare
militarmente Roma, e la proclamazione di non ricevere questa che
dalle sua mani, annullava la neonata individualità
dell'Italia.
Nullameno tacere di Roma sarebbe stato impossibile ed altrettanto
miserevole per il governo, che nei primi dubbi delle annessioni
meridionali per propiziarsi la Francia aveva dovuto lusingarla con
un'altra possibile cessione della Sardegna: per fortuna le veementi
proteste dell'Inghilterra, irritata dal pericolo che il Mediterraneo
si mutasse così in lago francese, salvarono questa isola
all'Italia, e il ministro potè in seguito mentire alteramente
respingendo tale accusa.
Ma colla proclamazione di Roma capitale d'Italia il conte di Cavour
otteneva l'incomparabile vantaggio di consacrare italiana la
monarchia sarda: l'umiliazione di quell'ordine del giorno,
così profonda che sfuggì al sentimento delle masse, ne
impediva una peggiore di una rinuncia a Roma capitale. La monarchia
trionfava un'altra volta della rivoluzione, la quale conquistando
Roma non avrebbe potuto che conquistarla per essa. La politica regia
era da troppi secoli abituata a vincere colla sola astuzia e a
guadagnare anche con la sola viltà, perchè quella
formale abdicazione del più alto fra i diritti nazionali
potesse sgomentare la sua coscienza; la giovane nazione era troppo
poco rivoluzionaria per imporle una politica più nobile, e
troppo memore della passata servitù per offendersi di un
vassallaggio ideale, cui sentiva nel proprio istinto di potersi fra
non molto sottrarre.
Il conte di Cavour in questa campagna parlamentare manovrò
colla stessa prontezza di decisione e rapidità di cangiamenti
tattici che in quella dell'invasione nel territorio pontificio per
impossessarsi di Napoli: difetti di forma e insufficienza d'idea vi
derivavano meno dal suo spirito che dal sistema monarchico. Se egli
lo avesse trasceso coll'ingegno o col carattere, non ne sarebbe
stato il massimo politico: quindi stretto in un'antitesi insolubile,
invece di lasciarvisi schiacciare, italianamente scivolò fra
i due termini.
La nazione, che aveva con Garibaldi e con Mazzini mostrato al mondo
il più eccelso esempio di epica semplicità, poteva
giovarsi impunemente della doppiezza di Cavour.
Ultima lotta fra Garibaldi e Cavour.
Intanto le difficoltà politiche del primo assetto urgevano:
bisognava abbreviare con ogni mezzo possibile i governi
luogotenenziali, pacificare il mezzogiorno ove il brigantaggio era
già scoppiato, assimilare politicamente ed
amministrativamente tante provincie diverse, fondere sette bilanci
in uno solo e già oberato da un passivo di mezzo miliardo,
organizzare il nuovo esercito.
Il conte di Cavour fu ammirabile di destrezza e di coraggio. Il suo
profondo acume politico gli scoprì che di tutti gli elementi
rivoluzionari il più pericoloso per la monarchia era allora
il più nobile, quello che con prodigi di valore e di fortuna
aveva conquistato più che mezzo il regno. I mazziniani
battuti idealmente e politicamente non erano ormai altro che una
setta; i garibaldini invece rimanevano ancora maggiori di un
partito. La loro incorporazione nell'esercito piemontese vi avrebbe
dissipato il prestigio monarchico e distrutta la devozione al re: la
politica, entrando nelle caserme, avrebbe resa la sinistra
parlamentare arbitra della camera, tristissimi pronunciamenti alla
spagnola sarebbero scoppiati ad ogni difficile questione di governo.
Bisognava dunque rifiutare nell'esercito le bande garibaldine,
accogliendovene quei capi più illustri che si convertissero
alla monarchia: così, prive dei migliori capitani e
disorganizzate dalle defezioni, non potrebbero che difficilmente
riordinarsi per una ribellione. Questa politica era la conseguenza
della campagna delle Marche e dell'ingresso delle truppe piemontesi
nel Napoletano per soffocarvi la anarchia rossa: dopo aver
disonorata l'impresa garibaldina in faccia all'Europa, era d'uopo
esautorarla nell'opinione d'Italia col respingere dall'esercito
nazionale i reggimenti vincitori.
Garibaldi, rinunciando nelle mani del re la dittatura, gli aveva
raccomandato con passione di capitano i propri soldati; quindi,
conscio delle nuove trame, aveva già protestato da Caprera e
minacciava di venire in parlamento a farvi uno scandalo pericoloso.
Tutta la sua magnanimità non poteva tollerare che gli eroi di
Calatafimi e del Volturno fossero peggio trattati dei loro
prigionieri borbonici. Egli poteva sorridere vedendo generali
d'Italia Nunziante e Pianell, l'uno ferocemente reazionario prima
della rivoluzione e vilmente disertore del proprio re nell'ora delle
battaglie, l'altro ministro di Francesco II durante la conquista del
regno napoletano, entrambi a lui preferiti dalla nuova politica
ministeriale; ma per coscienza di generale e di cittadino, per
carità di soldato e di patriota, non doveva sopportare che le
ferite e i gradi guadagnati dai propri soldati sul campo di
battaglia fossero senza valore per quello stesso governo, che
profittava delle loro vittorie.
Nullameno una più alta ragione imponeva agli eroi delle sue
imprese questo nuovo sacrificio.
Garibaldi coll'impetuosità del proprio carattere soldatesco,
e stimolato da molti partigiani, aveva esorbitato nei primi attacchi
al ministero. Egli, nizzardo, non poteva perdonare a Cavour la
cessione di Nizza; egli, italiano e democratico, odiava eroicamente
Napoleone III, che dopo aver tradito il Piemonte a Villafranca,
impedendo la liberazione della Venezia ed esigendo come prezzo del
tradimento Nizza e Savoia, negava ancora Roma all'Italia.
Nella superba ingenuità del proprio istinto rivoluzionario
egli non comprendeva nulla delle difficoltà diplomatiche del
nuovo regno: per lui ottenere il riconoscimento officiale dalle
grandi potenze monarchiche d'Europa non era nemmeno un problema.
Esaltato dall'entusiasmo delle ultime vittorie, domandava ad alte
grida l'armamento di tutta la nazione, confidando di battere con
essa tutta l'Europa. Cavour con più sicuro senso della
realtà giudicava invece l'Italia incapace di sostenere altra
guerra con l'Austria e, siccome questa cercava di esservi provocata,
non voleva fornirle pretesti. Nei primi giorni del 1861 per
l'incoronazione del principe reggente e futuro imperatore, Guglielmo
I, aveva mandato a Berlino il generale Lamarmora per sedurre la
Prussia coll'esempio della rivoluzione italiana a conquistare contro
l'Austria l'egemonia germanica; ma il nuovo re, tardo di mente e di
cuore, non ne rimaneva persuaso, quantunque il ministro Schleinitz
si lasciasse piegare. La Russia rimaneva pur troppo ostile, la
Francia sempre oppressiva nella propria politica tergiversante
tardava a rannodare col governo piemontese le relazioni officiali,
mentre una vera anarchia reazionaria scoppiava nel mezzogiorno in
mezzo al più scandaloso disordine dei partiti, compromettendo
all'estero la dignità del nuovo regno. Il Farini, il principe
di Carignano, poi il conte Ponza di San Martino, mandati l'uno dopo
l'altro a reggere Napoli, vi avevano ripetuto lo stesso infelice
esperimento; il Napoletano pareva diventare una nuova Irlanda
saldata dalla rivoluzione ai fianchi del regno d'Italia.
Cavour, malgrado la coraggiosa elasticità del proprio
ingegno, piegava ogni tanto sotto il peso dell'enorme problema:
l'intervento di Garibaldi nella politica interna poteva produrre la
guerra civile. Il dittatore rappresentava in quel momento la
passione rivoluzionaria della nazione, non ancora domata dalla
proclamazione e dall'assetto della monarchia: le sue invettive al
ministero, giuste nel concetto rivoluzionario, esaltavano la publica
opinione malcontenta della troppa viltà di quell'ora;
l'aureola di tante vittorie lo rendeva un rivale pericoloso pel re.
Intanto il parlamento frustato dalle accuse di Garibaldi nella
coscienza della propria servilità s'impennava, minacciando di
voler mettere il generale in accusa: ribellione di liberti contro il
liberatore, che nessuna regolarità di procedura
costituzionale avrebbe potuto giustificare! Il parlamento era allora
troppo poca cosa in Italia per farsi arbitro della contesa fra
rivoluzione e monarchia. Il conte di Cavour già vincitore di
Garibaldi alla camera, quando questi da Napoli aveva chiesto al re
di cacciare il ministero, trovò anche questa volta un ottimo
espediente. Fra tutti gli uomini parlamentari di allora il
più illustre per nome, per opera, per carattere, era il
barone Bettino Ricasoli. La sua austerità aristocratica, la
sua alterezza patriottica, il suo coraggio politico, lo rendevano
altrettanto stimato che temuto: in quella gazzarra di conversioni e
di transazioni, nella quale i migliori caratteri si dissolvevano,
egli restava fermamente saldo nel proprio concetto rivoluzionario e
monarchico, impaziente contro il vassallaggio francese, favorevole
per ingenita intrepidezza ad una ripresa di guerra.
Il conte di Cavour oppose Bettino Ricasoli a Giuseppe Garibaldi.
Con profonda abilità di parlamentare Ricasoli, anzichè
accusare Garibaldi, affermò in una interpellanza di crederlo
calunniato. «Io, disse, gli ho stretto la mano dal momento, in
cui prese il comando dell'esercito dell'Italia centrale: noi eravamo
allora animati dagli stessi sentimenti, noi eravamo tutti e due
egualmente devoti al re. Noi abbiamo giurato entrambi di fare il
nostro dovere: io ho fatto il mio. Chi dunque potrebbe reclamare il
privilegio di patriottismo e d'innalzarsi sopra gli altri? Una sola
testa fra noi deve dominare su tutte le altre, quella del re.
Davanti al re tutti debbono inchinarsi, ogni altro atteggiamento
sarebbe di ribelle... Chi ebbe la fortuna di compiere il proprio
dovere più generosamente, in una più larga sfera
d'azione, in una maniera più proficua alla patria, e l'ha
veramente compito, questi ha un dovere anche più grande, di
ringraziar Dio d'avergli accordato così prezioso privilegio,
concesso a pochi cittadini e di poter dire: ho servito bene la mia
patria, ho interamente compito il mio dovere».
Garibaldi da accusatore diventava accusato: la solennità
dell'intimazione fattagli dal Ricasoli lo costringeva a venire in
parlamento per sostenere quanto aveva scritto. Garibaldi, che non
voleva e non poteva ribellarsi, era già vinto: prima ancora
di giungere a Torino pubblicò una lettera, smentendo ogni
intenzione di attacco contro il re e il parlamento. Non gli restava
quindi di fronte che il ministero, il quale nella camera era sicuro
della vittoria.
Nullameno la giornata fu aspra.
Il parlamento, costretto dalla propria dedizione incondizionata a
seguire una politica servile all'estero ed ingiusta all'interno, era
tuttavia affollato di uomini illustri per ingegno e per sacrifici,
che sentivano di non meritare le accuse di Garibaldi. Il loro
risentimento, giustificato dall'orgoglio delle opere compiute ed
inasprito dalla coscienza del torto presente, degenerava in aperta
ed ingenerosa ostilità. Si dimenticavano i titoli di
Garibaldi alla riconoscenza nazionale per non vedere più in
lui che un volgare vanesio ed uno scapigliato ribelle.
Quando entrò nella sala colla camicia rossa e il solito
poncho americano, la singolarità dell'abito parve una brutta
teatralità. Il suo primo doloroso rimprovero a Cavour per la
cessione di Nizza provocò la tempesta; alla sua accusa contro
il ministero di avere arrestato la rivoluzione trionfante nel
mezzogiorno con ogni maniera d'insidie e colla provocazione di una
guerra civile l'uragano scoppiò. Solo Garibaldi rimase calmo.
L'accusa era troppo vera perchè non bisognasse smentirla. Ma
Garibaldi non poteva andare oltre. La stessa ragione, che lo aveva
sottomesso in Napoli agli ordini del re, lo costringeva ad accettare
ora le spiegazioni di Cavour. Il generale Fanti, ministro della
guerra, si destreggiò abilmente nell'esposizione dei motivi,
che impedivano la incorporazione in massa dei garibaldini
nell'esercito; si respinse l'altro progetto di Garibaldi di formare
coi giovani non compresi nell'esercito dai 18 ai 35 anni una guardia
nazionale mobile, cui lo stato fornisse d'armi, di cavalli e di
materiali inscrivendo in bilancio una somma di trenta milioni.
Cavour, pronto a servirsi di tutta la propria superiorità in
quel momento, riassunse con sobrietà magistrale la propria
politica, chiudendo il parlamento nel dilemma o di accettarla intera
o di buttarsi ai rischi immediati di un'altra guerra o di un'altra
rivoluzione.
Garibaldi piegò: i garibaldini furono sacrificati. Invano,
nell'abboccamento con Cavour procuratogli dal re, egli tornò
malinconicamente ad insistere per un migliore trattamento dei propri
soldati; l'abile ministro rimase inflessibile.
L'indomani il generale Cialdini, tristamente ammalato d'invidia per
l'eroe, credendo propizio il momento per levarsi contro di lui come
campione della monarchia, lo apostrofò con una lettera
altrettanto assurda che arrogante.
Cavour con questa suprema vittoria assicurava la propria politica di
moderazione. Ma egli stesso era fiaccato dalla immensa opera.
Le Regioni.
Nel disegno di riforme amministrative presentato al parlamento,
appena risoluta la questione militare, il suo ingegno parve
rimettere del solito coraggio. Quel potente senso di accentramento
governativo cresciutogli dal fatto dell'unità nazionale, che
lo spingeva alla più rapida delle unificazioni legislative,
gli venne improvvisamente meno nel maggior problema delle
circoscrizioni. Forse in nessun paese d'Europa per troppe complesse
ragioni di storia la divisione e l'aggruppamento dei comuni e delle
provincie era più assurda che in Italia: tutta la lunga
guerra federale era ancora visibile nei loro reparti: nè
monti, nè fiumi determinavano i confini. Divisioni politiche
e diocesane intralciavano gli scambi reciproci, la mancanza di
strade rendeva spesso impossibili molti esercizi di doveri e di
diritti, rivalità municipali e provinciali si alimentavano
tuttavia di odii storici, che la pacificazione dell'unità
sembrava riconfermare nella teatralità di un perdono
reciproco. Alcune città si barattavano come pegno di pace
trofei di guerre medioevali.
Le nuove circoscrizioni avrebbero dovuto distruggere tali differenze
spersonalizzando parecchi comuni ed alcune provincie. Invece il
ministero proponeva una nuova istituzione di regioni, tagliate nello
stato a capriccio, senza nè fondamento di tradizione,
nè ragioni di modernità. L'idea era stata del Farini,
che prima delle annessioni meridionali aveva proposto di dividere il
regno in sei regioni: ma innanzi a lui, fino dal 1833, Mazzini
nell'opuscolo sull'Unità Italiana proponeva di sopprimere le
provincie, riducendo gli ottomila comuni a milleduecento con circa
ventimila abitanti ciascuno e spezzando l'Italia in dodici regioni
di cento comuni. Così, per combattere il federalismo storico,
si creava un federalismo artificiale. Nell'impossibilità di
correggere subito i limiti dei comuni e delle Provincie era miglior
sistema negli inizi del governo nazionale raggrupparli il più
naturalmente possibile sotto le prefetture. Nelle regioni gli
antagonismi federali si sarebbero serviti delle nuove libertà
contro l'unificazione: le facoltà legislative, loro concesse
inevitabilmente, vi avrebbero creato tanti piccoli stati nello stato
in opposizione col governo centrale.
L'istinto rivoluzionario del parlamento supplì al difetto di
Cavour, che aveva permesso al Minghetti, ministro dell'interno, di
ripresentare raffazzonato e peggiorato il primo disegno di Farini;
la legge fu scartata. L'unità trionfava attraverso tutti gli
errori. Poco dopo lo stesso ministro proponeva che la festa dello
Statuto dichiarata civile si solennizzasse col clero, il quale vi si
ricusò.
Il ministero scopriva già le proprie tendenze bigotte.
Improvvisamente il grande statista morì. La divorante
attività di una vita politica, per dieci anni senza un'ora di
riposo, aveva logorato il suo superbo temperamento di atleta; ma
fino agli ultimi giorni pensò e lavorò con lo stesso
impeto. La moltitudine rinascente dei problemi non potè mai
sopraffarlo: contemporaneamente rannodava le relazioni diplomatiche
colla Svezia, colla Danimarca e col Portogallo; spingeva le
trattative con Napoleone III per l'evacuazione di Roma, vegliava sui
disordini di Napoli, dirigeva le finanze, preparava la marina,
lottava nelle camere per tutte le questioni. La maggioranza docile
ma inesperta aveva d'uopo della sua presenza. Il 28 maggio
respingeva ancora un disegno di legge in favore dei veterani delle
repubbliche del quarantotto, nel quale si ripresentava la questione
pericolosa sollevata da Garibaldi. «La sola ragione, per cui
il governo non può riconoscere il grado degli ufficiali
veneti è perchè non vuole riconoscere anche quelli
della republica romana... Non credo che si debba andare incontro a
tutti quelli, che hanno combattuto sotto una bandiera, che non era
la nostra. Non tutti fecero adesione alla monarchia... Possiamo
rispettarli, ma per noi sono avversari, nemici. Non consentiremo mai
che si faccia nulla a pro di loro». Queste intrepide parole
furono la sua ultima bravata di ministro monarchico.
Una febbre violenta lo colpì: ogni rimedio fu presto inutile,
il delirio sorprese il suo pensiero, che aveva resistito a tutti i
turbini della rivoluzione. Però anche nell'agonia il grande
politico riaffermò il proprio sistema: «L'Italia del
nord è fatta, non vi sono più nè lombardi,
nè piemontesi, nè toscani, nè romagnoli: ma vi
sono ancora napoletani. Oh! vi è molta corruzione
laggiù nel loro paese! Bisogna moralizzarli... ma non stato
d'assedio, non mezzi violenti di governo assoluto. Tutti sanno
governare collo stato d'assedio».
Agli ultimi momenti chiamò un frate, col quale sette anni
prima si era accordato per non vedersi negati i conforti della
religione come il ministro Santa Rosa: volle morire cristianamente e
che tutta Italia lo sapesse. Il frate raccontò poi che il
conte Cavour gli avesse risposto nelle estreme preghiere degli
agonizzanti: «Frate, frate, libera chiesa in libero
stato». Così morì (6 giugno 1861).
Il dolore d'Italia fu profondo, la costernazione maggiore del
dolore. L'Europa suonò d'encomii; lord Palmerston vinse ogni
altro oratore tessendogli l'elogio funebre; Napoleone III ne trasse
argomento per accordare finalmente all'Italia il riconoscimento
officiale; la monarchia trepidò; gli avversari democratici,
vinti ed oppressi dal ministro vivo, s'inchinarono al suo feretro
come ad una delle più grandi ed improvvise rovine della
storia moderna. Allora la sua gloria, balenando come una rivelazione
fra uno sgomento di ammirazione e di rimpianto, diede all'opera
della sua politica così prepotentemente personale l'apparenza
di un miracolo.
Ma attraverso le generose ed inevitabili esagerazioni
d'un'ammirazione, che cercava già nel solco tracciato dal suo
pensiero nel passato la sola via sicura dell'avvenire, si
riaffermava nella coscienza nazionale il sentimento
dell'unità. Per la prima volta dopo tanti secoli un dolore
italiano era veramente nazionale: Cavour era stato l'unità
vivente della rivoluzione, organizzando nella realtà
immortale della propria opera i risultati di tutte le iniziative.
Come Cesare, egli aveva dominato il maggiore periodo politico
d'Italia: l'antico impero romano non aveva mai potuto uscire
dall'orbita cesarea, la moderna monarchia italiana conserverebbe
fino all'ultimo giorno l'impronta cavouriana.
L'Italia, collocando Cavour fra Mazzini e Garibaldi, comporrebbe la
triade politica più perfetta del secolo decimonono.
Capitolo Terzo.
I luogotenenti di Cavour
L'ambiente politico.
La morte del conte di Cavour tolse al governo quella potente
unità d'azione che, dopo i miracoli della preparazione
piemontese gli aveva permesso di assimilarsi senza scosse tutta
l'opera rivoluzionaria. La paura fu tale nei primi momenti che corte
e paese dubitarono della propria fortuna: si temette che la
rivoluzione insorgente per il ricupero immediato di Roma e di
Venezia travolgesse l'Italia ad irreparabile ruina. Il parlamento
inesperto, frazionato da rivalità d'interessi regionali,
affollato di recenti convertiti alla monarchia, impotente ad
assorbire la rivoluzione con una politica indipendente all'estero e
liberale all'interno, non era abbastanza forte per dominare il
trambusto dell'opinione: la dinastia, amata per la gloria degli
ultimi fatti ed ammirata dalla moltitudine per il tradizionale
rispetto a tutti i re, non poteva esorbitare efficacemente dalla
costituzione senza eccitare pericolosi sospetti di dispotismo dopo
il trionfo della propria conquista piemontese: nessun uomo politico
aveva allora abbastanza autorità per sostituire il conte di
Cavour.
Nullameno nè la monarchia, nè la nazione dovevano
pericolare dopo la morte del grande statista. L'Italia era
essenzialmente monarchica.
Malgrado le vanterie rettoriche di tutti i partiti unanimi
nell'esagerare la grandezza della rivoluzione italiana, questa era
stata piuttosto una insurrezione contro gli stranieri per
conquistare l'indipendenza che una vera rivoluzione. Anzitutto la
stessa insurrezione non aveva potuto scoppiare che dopo l'intervento
francese: l'impresa garibaldina non aveva trovato ostacoli politici
alla propria espansione; l'esercito borbonico si era pochissimo
battuto; il popolo aveva assistito festeggiando alla caduta delle
vecchie dinastie e all'impianto della nuova. I partigiani dei
governi abbattuti come non li avevano difesi nel pericolo,
così non erano stati attaccati nè prima nè dopo
dai pochi rivoluzionari combattenti; nessuno spostamento di classe
era avvenuto, nessuna idea originale aveva cangiato col proprio
trionfo la fisonomia storica della nazione. Tale comoda e simpatica
rivoluzione senza spargimento di sangue era l'argomento più
evidente contro la rivoluzione: la storia non ebbe e non avrà
mai rivoluzioni incruente. La passione democratica vi si era
condensata nello sforzo militare, acquetandosi sotto una monarchia
costretta alla più mostruosa delle ingratitudini. La sola
idea originale della rivoluzione italiana sarebbe stata l'abolizione
del regno papale, ma la rivoluzione non aveva osato tampoco
assalirlo.
La rivoluzione italiana non poteva paragonarsi a nessuna vera
rivoluzione popolare, nè alla inglese, nè alla
olandese, nè alla americana, nè alla francese,
nè alla greca.
L'Italia era essenzialmente monarchica. Nello stesso partito
rivoluzionario, Mazzini era il re dell'idea e Garibaldi l'imperatore
della spada: il partito volontariamente soggetto alla più
rigorosa disciplina s'unificava nei due capi; nessuno aveva osato
mai una vera mossa politica senza il consenso di Mazzini; nessuno
avrebbe tentato un moto militare senza la guida di Garibaldi.
L'incapacità del popolo si rivelava in questa dedizione di
tutta la propria parte migliore ai due maggiori individui: Mazzini
era sinonimo di republica, Garibaldi di guerra.
Però la morte di Cavour toglieva al governo la superba
consapevolezza della propria superiorità sul partito
mazziniano e garibaldino: dopo Cavour nessun altro uomo della
monarchia poteva affrontare il paragone con Mazzini e con Garibaldi.
La politica cavouriana doveva nullameno proseguire non solo come
inevitabile illazione della grande opera dello statista, ma come un
risultato fatale dell'ambiente nel quale la monarchia si era
formata. I dati della sua politica restavano immutati. I successori
del conte di Cavour, definiti da Giuseppe Ferrari con fine ironia i
generali di Alessandro, avrebbero nella loro altalena ministeriale
subìto le oscillazioni di questi dati senza poterli
modificare: la varietà dei loro caratteri personali si
presterebbe alle antinomie del progresso, che trionfa sovente
coll'errore; le loro parziali ed ammirabili facoltà si
addestrerebbero nei molteplici particolari delle grandi questioni,
creando una scuola politica e spremendo le proprie primizie
spirituali senza potersi irrigidire nei propri falli. Così,
dopo la potente unità politica di Cavour, che a lungo andare
avrebbe colla propria supremazia ritardato il progresso del
parlamento, apparvero meglio le correnti della pubblica opinione: i
ministeri diventarono crogiuoli, ove gli interessi nazionali
neutralizzandosi dovettero fondersi nell'interesse nazionale; la
medesima incertezza di criteri concesse più facile il saggio
di tutti i problemi: la partecipazione alla vita pubblica fu
più intensa dacchè la mediocre autorità dei
successori di Cavour mise nella nazione come uno sgomento
vigilatore: le insufficienze della monarchia nelle quistioni di Roma
e di Venezia servirono a ridonare prestigio all'idea democratica; le
impotenze del sistema mazziniano persuasero che la republica non
poteva derivare da un uomo per quanto sublime di spirito; le
tragedie patriottiche di Garibaldi ridiedero al popolo la coscienza
che l'eroismo è la verità suprema della storia.
Il partito cavouriano, intitolandosi dalla moderazione, fu come
tutti i partiti impropriamente definito. La sua moderazione nei
grandi problemi di Roma e di Venezia non era fatalmente che
sommissione alla prepotenza straniera; nelle questioni interne la
febbre della unificazione lo rendeva talvolta più che
rivoluzionario. L'opera politica della ricostituzione nazionale
subì quindi l'influsso di due metodi antagonisti: si
cercò con ogni studio di tener lontano il popolo dagli uffici
pubblici, e si spinse la rivoluzione nelle leggi. Mentre i governi
passati erano stati sempre contro il popolo, il nuovo fu pel popolo
ma non del popolo. La violenta unificazione, cassando molti errori,
molti ne produsse: la burocrazia invece di essere un organo di
tutela e di trasmissione, limitato al minimo di personale e di
spese, crebbe smisuratamente per la necessità di assettare
gli spostati, di compensare i vincitori, di sedurre gli avversari.
Nei salarii specialmente imperversò l'ingiustizia, sebbene
tutti rimanessero sproporzionati ed esigui. Si dovette subire una
seconda più disastrosa preparazione di guerra; le finanze
parvero diventare un problema insolubile; le imposte depauperarono
molti campi di produzione, mentre le spese nelle opere pubbliche ne
fecondavano altri; i trattati di commercio subirono i contraccolpi
dell'inferiorità politica; l'agricoltura, così
sproporzionata in Italia da raggiungere in alcune provincie il
reddito di duemila lire per ettaro e in altre di cinque, sofferse
anche maggiormente per la sproporzione anche più assurda
delle aliquote.
Il governo, ridotto ad una clientela, venne sfruttato dalla classe
governante; la plutocrazia germogliò vigorosamente dalla
politica.
Nullameno il rinnovellamento della nazione procedeva. Era una guerra
incessante, minuta, universale, nella quale era impossibile contare
i morti e i vincitori: idee e fatti fermentavano e sparivano come in
una improvvisazione fantastica, per riprodursi con sempre nuovi
aspetti; le attitudini si svegliavano, la esistenza nazionale
maturava la vita politica.
I primi ministeri.
Se nella cronologia del regno d'Italia il primo ministero era stato
quello di Cavour, l'assorbente preponderanza del grande ministro lo
rendeva nullameno troppo simile agli altri del piccolo regno sardo
per cominciare da esso la nuova storia parlamentare. Così il
primo ministero veramente italiano fu di Bettino Ricasoli, eletto
dal re fra i tanti luogotenenti di Cavour. La scelta, eccellente in
quanto toglieva al ministero l'eccessivo carattere piemontese, non
modificò la situazione parlamentare: il Minghetti, il
Bastogi, il Peruzzi, il De Sanctis vi rimasero: il Ricasoli tenne
gli esteri, la presidenza e l'interim della guerra, dando la marina
al Menabrea. Per una malsana imitazione del conte di Cavour, che nel
periodo della preparazione piemontese aveva assunto quasi tutti i
portafogli, si cominciò ad attribuirli fuori d'ogni criterio
tecnico: Ricasoli, agricoltore e diplomatico, successe al Fanti, il
migliore organizzatore militare d'Italia. Più tardi questo
difetto giunse a tale che si videro avvocati e generali di
cavalleria al ministero della marina, criminalisti ai lavori
pubblici, filosofi al commercio.
Nell'impossibilità pel governo di un vero programma politico
abbracciante Venezia e Roma, il nuovo ministero non fece che
promesse generiche e contraddittorie per l'interno: fortificare
l'esercito, instaurare la finanza, unificare leggi e governo,
decentrare l'amministrazione. Dal bilancio 1861, nel quale non erano
comprese le provincie del mezzogiorno rette ancora da governi
luogotenenziali, risultava già un deficit di 344 milioni: il
governo propose un debito di 500 milioni al tasso di 75 lire per 5
di rendita, che detratte tutte le spese non diedero poi che 495
milioni di incasso. Quindi s'unificarono i debiti dei singoli stati
nel gran Libro del Debito pubblico, malgrado le loro differenze,
giacchè quelli del Piemonte essendo maggiori avevano pure la
scusa di essere stati contratti per fondare il regno d'Italia,
mentre gli altri di Napoli e della Toscana non avevano servito che a
pagare le soldatesche straniere. Scartato il disegno delle regioni,
il ministero dichiarò di fondare gli ordini interni sulle
basi naturali dei comuni e delle provincie, affermando alteramente,
a proposito delle voci circolanti intorno ad una possibile cessione
della Sardegna alla Francia, di non conoscere «palmo di terra
italiana da cedere, bensì un territorio nazionale da
ricuperare». Tale nobile dichiarazione dissipò molte
paure nella pubblica opinione, ma non potè essere che una
frase. Tutto l'orgoglio baronale ed italiano del Ricasoli non
bastava a trovare una soluzione pei problemi di Roma e di Venezia.
Il suo stesso altero contegno verso la Spagna, ricusantesi alla
consegna degli archivi consolari del già regno delle due
Sicilie, e dalla quale richiamò minacciando l'ambasciatore;
le severe parole onde alla camera e in una nota diplomatica
denunciò al mondo civile le orribili trame ordite dal
Vaticano per alimentare il brigantaggio scoppiato in alcune
provincie napoletane, non facevano che rendere più umiliante
la posizione del governo costretto a subirle, mentre Garibaldi
agitava il paese per un'impresa immediata su Roma, e il Minghetti
con una infelicissima circolare proibiva una protesta contro
l'occupazione francese. Un'altra ripresa di trattative col papa a
mezzo del padre Passaglia, dal quale per rivincita dello smacco si
fece poi combattere con inutile pompa di erudizione il potere
temporale promuovendo persino fra il clero un'assurda sottoscrizione
per indurre il pontefice alla cessione di Roma, tolse alla politica
di Ricasoli la simpatica originalità del suo carattere
aristocratico e patriottico.
Mentre la diplomazia francese lo faceva svillaneggiare dalla propria
stampa, la corte male lo sopportava per la sua poca arrendevolezza,
i moderati lo sospettavano per le sue simpatie garibaldine e i
rivoluzionari lo urgevano di critiche magnanime, egli era
segretamente il più vivo oppositore di se stesso: in lui le
qualità del gentiluomo e la generosità del patriota
contrastavano dolorosamente colle remissività inevitabili pel
ministro. Abbastanza destro negli affari, rotto alla diplomazia,
atto al comando, pronto a grandi cose se l'ora le avesse consentite,
egli era fra gli eredi di Cavour il meno idoneo alla politica di
quel periodo. La sua posizione parlamentare non poteva consolidarsi.
Mancavano tempo e mezzo a misure potenti: non si erano ancora potuti
abolire i governi luogotenenziali nel sud, il brigantaggio vi
assumeva proporzioni di vera guerra, in Sicilia un moto separatista
era scoppiato al grido assurdo di: viva la republica e morte ai
liberali, ed era durato tre giorni, malgrado le milizie avessero
dovuto inferocire per reprimerlo; la sinistra tempestava per
l'accatto pontificio dell'Obolo di San Pietro destinato a combattere
l'Italia; la destra inveiva pei Comitati d'azione instituiti da
Garibaldi collo scopo di forzare il governo alla guerra. Il
ministero, composto di elementi discordi e sprovvisto di vero
programma, invece di stringersi intorno al Ricasoli, oscillava
scompaginandosi all'urto delle correnti. Il fermento dei
rivoluzionari cresceva, le pressioni estere si aggravavano sulla
corte. Urbano Rattazzi, natura subdola e temeraria, avido di potere
e di azione, combatteva il ministero da Parigi, ove si era recato a
corteggiare l'imperatore, di là spaventando il re con una
relazione machiavellicamente arguta.
Ricasoli si dimise prima di essere costretto ad arrendersi.
In questo secondo periodo decennale di preparazione italiana, tra i
luogotenenti di Cavour, Ricasoli rimase il carattere più
nobile, e il suo esperimento fu il più generoso: dopo di lui
Urbano Rattazzi, che da Cavour aveva ereditata l'arditezza delle
combinazioni equivoche, si arrischiò tristamente a Sarnico,
ad Aspromonte e a Mentana opponendo la monarchia alla rivoluzione,
mentre Cavour con quella era sempre riuscito a signoreggiare questa;
ma i problemi di Venezia e di Roma rimasero insoluti. Marco
Minghetti, salito alla presidenza a cagione della follìa di
Luigi Carlo Farini, ritentò la questione romana per
concludere colla Convenzione di settembre al trasporto della
capitale a Firenze, abdicando a Roma e decapitando la nazione;
Alfonso Lamarmora, alleato colla Prussia, condusse il primo esercito
italiano alla sconfitta, ed umiliò nuovamente l'Italia a
Napoleone, ricevendo dalle sue mani Venezia. Giovanni Lanza, solo
fortunato tra tutti, alla caduta del secondo impero napoleonico,
potè entrare vittorioso a Roma per la breccia di Porta Pia.
La tradizione di Cavour fu il principio direttivo di tutti i
ministeri, ma la sua prodigiosa abilità non si rinnovò
in nessuno de' suoi successori. Solamente Quintino Sella, geologo
improvvisatosi finanziere, parve rinnovare coll'arditezza di alcune
imposte e la tenacia del volere il suo mirabile empirismo, mentre
economisti illustri come lo Scialoia, il Ferrara e il Minghetti si
mostrarono nel ministero poco più che mediocri; nella
diplomazia ebbe vanto di destrezza Emilio Visconti-Venosta, ma alle
sue combinazioni mancò la grandezza dell'idea e la fortuna
del risultato. Il Menabrea, sempre reazionario come nei primi giorni
del parlamento subalpino, rinnovò all'indomani di Mentana
l'inutile prova di un bigottismo politico senza nobiltà di
sentimento religioso e senza elevatezza di sentimento monarchico;
Agostino Depretis conservò di Cavour la destrezza
parlamentare e la pratica di tutti i portafogli; però come
tutti i solamente abili fu piccolo. Nessuno di essi si mostrò
personalmente disonesto, malgrado la inevitabile corruttela di un
governo costretto a vivere d'espedienti.
Empirismo legislativo.
Il crescendo della rivoluzione legislativa s'impose a tutti i metodi
e a tutti i sistemi, giacchè per conservare si dovette
innovare continuamente. Le affermazioni di principii furono torbide.
La gratuità, la laicità e l'obbligatorietà
trionfarono nelle scuole elementari, senza che al problema della
istruzione nazionale si cercasse una vera soluzione. Il governo,
anzichè assumere le scuole elementari per impiantarle ovunque
e secondo il bisogno, le affidò all'ignoranza, all'avarizia e
alla miseria dei comuni; le scuole tecniche rimasero mal definite e
peggio organizzate, le classiche si mantennero confuse, troppe e
male distribuite; fra queste e quelle non vi ebbero le distinzioni
di metodo e d'indirizzo reclamate da tutti i grandi spiriti. Per un
postumo rispetto al federalismo si conservarono tutte le
università, lasciandone la maggior parte senza materiali
scientifici, senza professori e senza scolari.
Nella soppressione degli ordini religiosi e nell'incameramento dei
loro beni si rispettarono gli ordini insegnanti, sebbene dovessero
essere aboliti primi per sottrarre il paese all'influenza
dell'insegnamento clericale; ma il sentimento conservatore della
monarchia e la bigotteria borghese li vollero invece soli
superstiti. Non si osò spingere l'incameramento ai beni
parrocchiali che avrebbe reso più docile il clero
costringendolo lentamente a tornare all'antico costume cristiano di
vivere colle sole elemosine dei fedeli: nella vendita dei beni
incamerati non si ebbe alcun criterio politico per sollevare la
miseria delle popolazioni agricole.
Nelle opere pie si lasciò l'amministrazione in mano alla
borghesia con intervento del clero, rispettando, per una infelice
superstizione del diritto di proprietà, gli antichi
testamenti incompatibili colla vita moderna: così
dall'immenso patrimonio della carità publica la miseria
publica non ebbe quasi sollievo; la burocrazia ne assorbì in
media il 75 per cento delle rendite, spese con spirito di clientela
in disaccordo colla filantropia e colla scienza. Nelle ferrovie,
massimo fra i benefizi della rivoluzione, in pochi anni cresciute a
quattordici mila chilometri, pur tentando la magnifica audacia
d'iniziare con esse in molte provincie il sistema stradale invece di
compirlo, si dovette sottostare a deviazioni politico-federali:
quindi la loro costruzione fu simultanea con raddoppiamento di spese
e di tempo, di difetti e di disastri per ignoranza d'ingegneri e
rapacità di appaltatori. Scandali obbrobriosi ne nacquero
sino in parlamento, dal quale alcuni deputati ebbero a dimettersi
convinti di truffa.
Fra i balzelli il più originale e il più giusto fu
quello della ricchezza mobile; ma, ripartito per contingenti
anzichè per quotità, produsse nelle applicazioni le
maggiori ingiustizie: fra i peggiori quello del macinato
aggravò la miseria dei più miseri, ma salvò le
finanze dal fallimento. Della perequazione fondiaria, presto
promessa, non si ardì organizzare gli studi, giacchè
le provincie meridionali, fortunate della mancanza o della
insufficienza dei catasti, ricalcitrarono. Nella rovina della crisi
finanziaria il governo si sgravò di molti oneri, addossandoli
ai comuni già fortemente gravati e in preda essi medesimi
alla febbre dei debiti e delle opere pubbliche. Il consolidato
nazionale, colpito dal discredito, discese sino al saggio del 39 per
cento; il corso forzoso della moneta cartacea, inevitabile in tanto
stremo della moneta metallica, passò attraverso la più
incredibile sregolatezza di metodo, dall'anarchia delle banche al
monopolio quasi assoluto della Banca Nazionale. Nell'esercito, sino
alla guerra infelice del 1866, s'imitò pedissequamente
l'organizzazione francese, dopo si copiò quella prussiana;
nella marina sino al disastro di Lissa non si ebbero idee di sorta;
poi, con splendida spontaneità di genio, si mutò tutto
radicalmente, improvvisando le più forti navi che il mondo
vanti tuttora. Migliori furono i nuovi codici derivanti per la
massima parte da quelli del primo Napoleone, ma la loro applicazione
incontrò ancora resistenze federali: la Toscana serbò
il proprio codice penale non perchè migliore, ma
perchè toscano; si temette di abolire la pena di morte e di
ammodernare la penalità, così che mentre il codice
civile rivoluzionava la società moderna, quello penale
esprimeva tuttavia una società passata. L'ordinamento
giudiziario, sminuzzato alle base in un numero immenso ed assurdo di
preture, rimase scisso al vertice in quattro o cinque supreme Corti
di cassazione, che perpetuarono nell'unità della
giurisprudenza le rivalità federali delle antiche provincie:
la magistratura troppo numerosa, male distribuita in circoli
arbitrari, peggio pagata, quasi sempre sottomessa alla preponderanza
del governo, se per opera di alcuni illustri mantenne la gloria
della tradizione italiana, funzionò poco più che
mediocremente come servigio pubblico.
Potente motivo di unità e di progresso commerciale divenne
invece la unificazione dei pesi, delle misure e delle monete sul
sistema metrico decimale, imposto con pronta e sicura energia dal
governo alla disparità ricalcitrante delle abitudini storiche
e regionali.
Comuni e provincie, mortificati sotto le prefetture, perdettero
quasi ogni autonomia: il sindaco fu di nomina regia, necessario alle
convocazioni consigliari il permesso governativo, ogni atto
controllato, fissata la materia e il limite delle imposte, contesa
ogni iniziativa, imposto qualunque onere al governo piacesse.
Ma attraverso tanto tumulto legislativo e siffatto disastro di
improvvisazione politica, fra le umiliazioni della politica estera e
le pressure della politica interna, l'Italia diede all'Europa il
superbo spettacolo di un progresso, del quale nemmeno i suoi antichi
ammiratori l'avrebbero supposta capace. Il governo costituzionale,
malgrado crisi d'ogni maniera, funzionò regolarmente; la
ricchezza pubblica crebbe col deficit delle finanze dello stato;
agricoltura, industria, commercio risorsero; le città si
abbellirono; la cultura si rialzò, quantunque il numero dei
grandi intelletti scemasse. La coscienza politica si schiarì
nei cittadini esercenti l'elettorato, e si preparò negli
altri a riceverlo. Nè il brigantaggio del mezzogiorno,
nè la tragedia di Aspromonte, nè la sconfitta di
Custoza, nè l'ecatombe di Mentana, impedirono alla nazione di
prendere il proprio posto nel consesso delle grandi potenze europee.
La dinastia non distrusse con troppo gravi peccati il prestigio
datole dalla conquista regia: la democrazia dalle congiure di
Mazzini e dai campi di Garibaldi passò nel parlamento e nella
stampa.
A Roma solamente, dopo la preparazione piemontese di Cavour e la
preparazione nazionale de' suoi luogotenenti, doveva cominciare la
moderna vita italiana.
Capitolo Quarto.
La reazione del brigantaggio nel Mezzogiorno
L'impresa garibaldina non aveva ancora trionfato nel Mezzogiorno che
una reazione borbonica e brigantesca vi era già scoppiata.
In Sicilia Nino Bixio e il maggiore Bassini avevano dovuto
soffocarla con terribile prontezza nel sangue; sul continente i
cafoni avevano sconfitto il manipolo garibaldino guidato da
Francesco Nullo e da Alberto Mario: Ariano e Avellino erano insorte,
sebbene non troppo pericolosamente. Il patriottismo italiano delle
provincie meridionali era per lo meno di una lega male definibile.
Le bande siciliane, presentatesi a Garibaldi in Salemi, assistettero
alla battaglia di Calatafimi coll'arma al piede in numero di oltre
tremila, incerte fra le parti combattenti, e forse pronte a
schierarsi col vincitore; almeno così credettero molti
garibaldini siciliani, che conoscevano bene l'indole di quegli
insorti. I picciotti, arruolatisi coi Mille, si batterono poco: i
morti garibaldini venivano spogliati ignudi dagli abitanti del
paese. Se l'odio dei siciliani contro borbonici e napoletani era
profondo, il loro amore all'Italia era troppo superficiale. Solo
Garibaldi, col fascino del nome e coll'irradiazione simpatica del
proprio spirito, poteva appassionare i loro cuori così da
trascinarli alla rivoluzione.
Nell'intendimento delle masse e di gran numero fra gli stessi
maggiorenti politici, che poi lo negarono, la Sicilia avrebbe dovuto
compiere una rivoluzione separatista: forse le simpatie
dell'Inghilterra per l'insurrezione siciliana nascondevano il
proposito, se non d'impossessarsi politicamente dell'isola, almeno
di dominarla economicamente sfruttandola.
A ogni modo i più fra quei pochi siciliani, che combatterono
coi Mille, si stancarono presto della guerra; quindi tornarono alle
proprie case, ritennero armi, munizioni, quanto poterono. Certo non
mancarono alla Sicilia patriotti del più nobile eroismo, e
basterebbe alla sua gloria il solo Rosolino Pilo; ma
l'italianità del sentimento era scarsissima nel popolo, che,
invece di levarsi dopo le vittorie di Palermo e di Milazzo per
seguire Garibaldi sul continente, imbroncì fieramente alla
prima parola di coscrizione. Infatti, quando il governo ve la
stabilì, i renitenti raggiunsero presto l'enorme cifra di
seimila, onde si dovette dar loro la caccia come ad assassini,
trattando famiglie e villaggi con crudeltà così
borbonica, che Garibaldi indignato si dimise dal parlamento (1864).
Sul continente il concorso dei volontari napoletani riuscì
altrettanto scarso che inefficace: i calabresi del barone Stocco
furono fra i pochi che meglio si batterono; bande di insorti nel
nome di Garibaldi commisero ogni sorta d'angherie e di ladronecci;
alcune esattorie vennero saccheggiate. Moto rivoluzionario e
militare non v'ebbe e non poteva esservi. La superstizione politica
e religiosa era troppo profonda nel paese, ove gli stessi liberali
odiavano il governo borbonico meglio che non comprendessero la nuova
idea democratica, e tutti si sentivano più napoletani che
italiani. Il trionfo dell'unità vi si dovette alla doppia
conquista garibaldina e regia, dalle quali Napoli fu sopraffatta. Il
popolo festeggiò, acclamò, menò la più
scapigliata gazzarra, sperando dalla libertà venuto il tempo
della licenza. L'aristocrazia potentissima, specialmente sulle
campagne, fu trascinata nel moto dall'elemento monarchico: se
l'Italia si fosse costituita a republica, una reazione forse
indomabile sarebbe scoppiata nel mezzogiorno. La celebre frase, che
Francesco Crispi doveva pronunciare nel 1864: «la monarchia ci
unisce e la republica ci dividerebbe», a cui Mazzini rispose
con eloquenza terribile di ironia, conteneva nullameno una
verità altrettanto umiliante che terribile.
Infatti i governi luogotenenziali di Palermo e di Napoli non erano
ancora assisi che la reazione divampava in molte terre con impeto
anche maggiore della rivoluzione: questa era stata una festa
teatrale, mentre l'esercito borbonico indietreggiava sbandandosi,
quella erompeva da un odio regionale contro i nuovi conquistatori,
che il feudalismo dell'aristocrazia, la corruzione del governo
cessato, la superstizione religiosa, il costume brigantesco e la
barbarie del paese spiegavano e purtroppo giustificavano. Il clero,
aizzato da Roma, aizzava; i grossi signori legittimisti aiutavano
sotto mano; lo stato pontificio era rifugio alle bande e magazzino
per armi e munizioni; la dinastia decaduta dava carattere di rivolta
politica all'insurrezione, coprendola col manto della propria
legittimità; l'assassina abitudine della camorra e della
mafia favoriva l'organizzarsi dei banditi; un patriottismo di
municipio e di regione, ignorante, aspro, inconciliabile, metteva
nella rivolta una poesia capace di rinnovare i prodigi del valore
garibaldino. Infatti Garibaldi, il miglior giudice d'insurrezione e
di guerra, in un libro che scrisse poi, rese omaggio al valore dei
briganti napoletani, i quali, non raggruppati dal re ad esercito,
senza altri capitani che i propri capi, senza programma e senza
bandiera, resistettero siffattamente per anni a tutti gli sforzi del
governo nazionale da costringerlo all'umiliazione di dovere per essi
sospendere le guarantigie statutarie, sostituendo a Napoli
luogotenenti a luogotenenti, mutando nella campagna più di un
generale, discendendo finalmente a una guerra di esterminio
così orribile di ferocia che si dovette e si deve ancora
nasconderla alla storia.
Le prime bande erano manipoli degli eserciti borbonici congedati da
Garibaldi, che dalla condizione di gendarme, unico ufficio dei
soldati sotto il governo di Ferdinando II e di Francesco II,
passavano naturalmente a quella del bandito. Il momento non poteva
essere per loro più propizio: i municipi abbandonati a se
medesimi, disciolta la polizia, la guerra ancora accesa, il
saccheggio facile, preti, signori e re complici del disordine per
speranza di recupero.
All'infuori delle più grosse città, ove la cultura
delle idee aveva sviluppato l'italianità del sentimento,
tutto il resto del paese si sentiva conquistato come da signoria
straniera. Infatti l'accentramento del nuovo governo in queste
provincie, abituate alla rilassatezza dell'antico regime, si
annunciava al sentimento insubordinato delle masse come una
servitù: il servire nell'esercito piemontese fuori dai
confini del reame differiva troppo dal servire nella milizia
borbonica, che non aveva in questo secolo mai date vere battaglie;
l'aumento delle imposte, inintelligibile allo spirito oscuro della
moltitudine, diventava spogliazione; la guerra dell'Italia al papa
si mutava nella superstizione popolare in guerra di religione;
l'unità italiana minacciava d'annullamento
l'individualità napoletana rimasta distinta da ogni altra in
tutti i lunghi periodi della storia italica. Il popolo napoletano
non era più affine ai piemontesi di Vittorio Emanuele che ai
francesi di Murat; ma quelli, invece che mercenari ai servigi di una
dinastia desiderosa di fondersi nel paese, erano tutta l'Italia del
nord, che invadeva in mezzogiorno preparandosi a mutarlo,
battendogli già sull'intelletto e sul cuore col martello
della modernità.
La reazione scoppiò feroce, spontanea, simultanea.
Se Francesco II, invece di riparare a Roma, ospite di Pio IX nel
bruno palazzo dei Farnesi, si fosse subito presentato nelle
provincie insorte, lanciando un proclama all'esercito disciolto poco
accortamente dalla monarchia, che avrebbe invece dovuto internarlo e
sorvegliarlo nelle provincie del nord, forse nè Vittorio
Emanuele, nè Garibaldi sarebbero bastati a tenere salda la
conquistata unità. Alla rivoluzione per agire faceva d'uopo
di potersi gridare spontanea, alla monarchia di essere invocata;
forse l'Austria e la Francia, quella per la tradizionale politica
dello smembramento italiano, questa per le aspirazioni del
bonapartismo, avrebbero secondata la reazione.
Ma a Francesco II due grandi difetti impedivano l'impresa:
un'assoluta incapacità militare e politica e una
intransigenza politica che lo condannava al più antiquato ed
impossibile legittimismo. I Vandeani, insorti contro la grande
Convenzione francese, avevano avuto una bandiera e un principio; i
ribelli napoletani, senza l'uno e senza l'altra, non erano e non
poterono essere che briganti. La guerra durata più anni si
sminuzzò quindi in atroci fazioni, e fu guerra della barbarie
contro la civiltà, del feudalismo contro la democrazia, del
federalismo contro l'unità.
Il conte Ponza di S. Martino2 , mandato luogotenente a Napoli da
Cavour, pensò di richiamare sotto le bandiere i borbonici
congedati, ma non avendo provvisto a tempo i denari per le paghe, i
soldati disertarono in massa diffondendo il discredito sul governo.
Al Ponza di San Martino succedette il Cialdini. Dalla Terra di
Lavoro il brigantaggio si era già propagato in tutto il
mezzogiorno. Se quegli aveva corteggiato gli aristocratici per
amicarli al governo, irritando i radicali, questi lusingò i
rivoluzionari, inasprendo i signori: onde il brigantaggio
infierì. A domarlo, Cialdini costituì un corpo di
guardie nazionali mobili in ogni distretto, coll'intedimento di
opporre napoletani a napoletani, e così interessarne almeno
una parte in favore del governo; ma l'espediente non fu troppo
benefico. Le guardie nazionali, poco disposte ai rischi di una
guerra nella quale i briganti non concedevano quartiere e il governo
non premiava con gradi militari il valore, non potevano odiare tanto
improvvisamente i propri compaesani da combatterli a vantaggio dei
piemontesi incapaci di tenerli soggetti. La prima mossa strategica
di Cialdini fu di occupare il Principato Ulteriore e la Capitanata
per mantenersi aperte le comunicazioni colle Puglie e l'Adriatico,
tagliando in due la rete del brigantaggio e chiudendo alle bande del
mezzogiorno il rifugio dello stato pontificio. Nelle guerre si
mescolarono congiure: a Roma si ordì un complotto per
sorprendere in Napoli il Castello Nuovo, quello di Sant'Elmo e il
palazzo reale; Cialdini, avvertitone a tempo, potè arrestare
e mandare l'arcivescovo prigioniero a Civitavecchia, licenziare lo
Spaventa capo della polizia, sbarazzarsi del Castelli, grande
consigliere d'amministrazione, e sostituirlo col Visone, governatore
di Piacenza.
La Francia, sempre con la stessa politica tergiversante, ora vessata
dalle rimostranze inglesi più vivaci delle italiane ammoniva
severamente i Borboni rifugiati in Roma di non aizzare il
brigantaggio, ora chiedeva altezzosamente spiegazioni al ministro
Ricasoli, che le ricusò, sulle sevizie usate contro i
briganti dal generale Pinelli. Infatti queste furono tali da far
dimenticare quelle del francese Manhés. Soldati e briganti,
invece di combattersi apertamente, si cacciavano come selvaggi:
nessuna legge, nessun quartiere. Il generale Pinelli e il maggiore
Fumel opposero terrore a terrore. I briganti sorprendendo qualche
manipolo di soldati li martoriavano, li mutilavano vivi, li
vituperavano morti; scene di cannibalismo desolavano campagne e
villaggi; si vendeva sui mercati, si mangiava carne di soldati;
mezze compagnie di bersaglieri accolte a festa in qualche borgo
erano convitate ed avvelenate dalle stesse autorità
municipali. Quindi il generale Pinelli e il maggiore Fumel,
sferzando la giusta ira delle milizie, le spinsero a tutti gli
eccessi. Vennero saccheggiati paesi, arse a dozzina le borgate senza
pietà nè agli infermi, nè ai fanciulli,
nè ai vecchi; si fucilò a caso, per qualunque
sospetto; non si vollero prigionieri ma cadaveri. Ai briganti
forniti di cavalleria si oppose la cavalleria regolare, si dovettero
usare i cannoni, si profuse l'oro comprando tradimenti, massacrando
famiglie intere per colpa di uno solo. Nella strage non si contarono
le vittime, benchè i soldati vi morissero in troppo maggior
numero che non nella campagna delle Marche e in tutta l'impresa
garibaldina; il governo vergognando taceva dei propri morti e degli
altri.
Nullameno le stragi e gl'incendi del generale Pinelli furono tali
che il governo dovette richiamarlo. Il brigantaggio era soffocato,
non vinto: dagli immensi boschi della Sila sbucavano sempre bande
nuove; l'odio ai piemontesi cresceva coi danni e coi dolori patiti:
una ostinazione demente dava talora al coraggio delle bande e alla
bravura assassina dei loro capi una sinistra poesia non senza
grandezza.
Ma gli eccessi medesimi di questa guerra ne impedivano lo sviluppo.
La viltà di re Francesco, appiattato in Roma e dilapidante il
proprio patrimonio fra i briganti più accorti che gli
promettevano vittorie per mungergli denaro, rendeva inutile lo
stupido e crudele fanatismo dei cafoni; la loro organizzazione,
nell'assenza del re e di veri ufficiali, non divenne mai militare;
le città sbigottite non si mossero; i legittimisti3 imitarono
la codardia del re.
Il moto separatista, scoppiato a Castellamare di Sicilia sui primi
dell'anno 1862 e soffocato furiosamente nel sangue dal governo,
persuase della inutilità della rivolta: le rimostranze severe
di Napoleone a re Francesco, lo sfratto di quattro generali
borbonici da Roma finirono per avvilire il partito reazionario;
l'energia spiegata dal governo contro i renitenti alla leva anche
nelle altre provincie diede alla coscrizione il carattere di una
ineluttabile necessità. Infatti non solo i renitenti venivano
cacciati come assassini, ma a togliere loro l'appoggio delle
famiglie si mandava in queste un manipolo di soldati col diritto di
farsi alloggiare e nutrire finchè il renitente fosse preso o
si consegnasse da se medesimo. A questo rigore di giustizia
medievale, che aveva almeno l'utilità di incutere spavento,
il governo, sempre incerto nei criteri, faceva poi succedere la
più umiliante confessione d'impotenza bandendo una
sottoscrizione nazionale a favore dei danneggiati dal brigantaggio:
così, fatto accattone per coloro, che non aveva saputo
guarantire, invitava il popolo a legalizzare colla propria elemosina
l'insufficienza della legge e l'inettitudine del potere. Nullameno
la sottoscrizione fruttò un milione: l'idea era stata del
Peruzzi.
Naturalmente il credito della nazione ne scapitava moltissimo
all'estero e all'interno: là si cominciava a dubitare della
rivoluzione italiana; qua si accresceva il dispregio per un governo,
che, affettando rigore contro i rivoluzionari sino ad imprigionare
Garibaldi dopo averlo ferito in Aspromonte, non sapeva sperdere
qualche banda di briganti.
La giunta parlamentare, inviata nel Mezzogiorno a studiare sul luogo
le cagioni e i rimedi del brigantaggio, lesse alla Camera in
adunanza segreta la propria relazione dettata dal Massari. La quale
onestamente dotta ed arguta non scoperse cosa che già non si
sapesse, e non trovò cura al male: i suoi due modi di
provvedimenti furono, per l'avvenire l'affrancazione dei beni di
manomorta onde mutare i cafoni in possessori, la costruzione di
strade, l'impianto di scuole, il taglio dei boschi ed altre di
simile fatta; pel presente la ripresa del metodo di Pinelli
cacciando i briganti come belve, massacrando i sospetti, sospendendo
ogni giurisdizione, riassumendo tutte le pene in quella della morte
e della galera.
La legge a tal uopo votata, e che prese il nome di Pica dal deputato
proponente, importava la soppressione di qualunque giustizia nelle
provincie infette di brigantaggio, mutando poco accortamente in
misura legale quelle che avrebbero dovuto essere più
prontamente provvisioni di guerra. Pinelli aveva commesso stragi ed
incendi da soldato, che si potevano ufficialmente negare o scusare:
i nuovi disonorerebbero insieme parlamento, giustizia ed esercito
nazionale.
Fortunatamente Napoleone, perduta ogni speranza di effetto politico
dalla reazione del brigantaggio pei suoi tardi sogni bonapartisti,
sentì la necessità di purgarsene in faccia all'Europa
coll'imporre più severamente al papa e al Borbone di cessare
dall'alimentarlo. Le bande, abbandonate dal partito reazionario, non
furono più che di volgari assassini: il paese stesso, esausto
da tante vessazioni, se ne stancò; si comprese
l'impossibilità di scrollare il governo; i primi benefici
effetti della libertà scemaron l'odio ai piemontesi ed
accrebbero le adesioni alla monarchia. I capibanda vennero ad uno ad
uno traditi o trucidati: la reazione capitolò.
V'ebbe ancora qualche ripresa; nei paesi più malmenati dalla
repressione militare covarono lunghi odii ai liberali sotto la
paura; quindi la stessa coscrizione, mescolando la gioventù
napoletana a quella delle altre provincie, ne migliorò il
carattere; clero e signori da reazionari intransigenti si mutarono
in partigiani del governo per sfruttarlo, mentre il progresso della
vita penetrava come un soffio di primavera fra la caliginosa
aridezza delle provincie più brigantesche.
Così la reazione legittimista, dopo una guerra di masnadieri,
finiva piuttosto vinta dall'influenza benefica della libertà
che da una rapida e logica azione della monarchia: governo borbonico
e papale erano stati battuti in pochi giorni quasi senza combattere;
essa invece lottò parecchi anni con ferocia pari al coraggio,
con perversità forse maggiore della stupidaggine, per
acquetarsi lentamente come una di quelle convulsioni, che, dopo aver
dato al malato la violenza di un delirio e lo spasimo di un'agonia,
lo lasciano spossato ma senza nessun organo offeso e colla fisonomia
di prima.
Verso il 1866, al rompere della guerra contro l'Austria, la reazione
del brigantaggio nel napoletano era quasi finita.
Capitolo Quinto.
La tragedia di Aspromonte
L'avventura di Sarnico.
Il trionfo della monarchia, prostrando la parte rivoluzionaria,
l'aveva divisa.
A Mazzini non era rimasto intorno che un manipolo di republicani
magnanimi ed impotenti: Garibaldi, licenziate le bande rosse,
dirigeva loro ogni tanto la parola per accennare a nuove imprese.
Quegli, convinto dell'impossibilità politica di snidare
Napoleone da Roma, avrebbe voluto trascinare la monarchia ad
un'ultima guerra contro l'Austria minacciata a tutte le frontiere
orientali da moti slavi e minata all'interno dall'odio ungherese;
questi pensava essere per l'Italia più urgente la conquista
di Roma. Così anche questa volta l'istinto di Garibaldi era
più sicuro del genio di Mazzini. Ad una guerra contro
l'Austria nè paese, nè governo erano preparati: quindi
una vittoria di questa avrebbe potuto rimettere in questione la
conquistata unità, che l'Europa diplomatica non aveva ancora
riconosciuto officialmente; una vittoria per quanto improbabile
della monarchia avrebbe invece compita la distruzione del già
sconfitto partito republicano. All'impresa di Roma la politica
sempre incerta di Napoleone e il favore manifesto dell'Inghilterra
potevano aiutare; nè l'Europa cattolica avrebbe probabilmente
difeso il papa, nè la Francia democratica permesso a
Napoleone una seconda spedizione di Oudinot. A ogni modo se
l'impresa falliva secondo le maggiori probabilità, l'Italia
vi guadagnerebbe in faccia all'Europa di avere affermato eroicamente
il proprio diritto nazionale, e la monarchia vi perderebbe,
opponendovisi, la propria legittimità rivoluzionaria.
All'eroe e all'apostolo della rivoluzione contrastava allora potente
in Cavour lo statista.
Quindi alla morte di questi i rivoluzionari sentirono più
forte il dovere d'una iniziativa. Il Ricasoli per orgoglio di
patriottismo pareva favorevole a nuove agitazioni; lord Russell a
nome dell'Inghilterra bersagliava di note diplomatiche il gabinetto
francese perchè ritirasse da Roma ogni presidio, e il vigore
delle sue rimostranze rendeva col paragone più supina la
remissività italiana. Mazzini al solito mandava in giro una
protesta del popolo contro l'occupazione francese in Roma, e
un'altra in forma di lettera ne indirizzava allo stesso Napoleone,
arcadicamente nobili entrambe ed inefficaci. Poscia, scendendo a
più precisi propositi ma sempre col vecchio metodo delle
congiure, per iniziare l'impresa veneta chiedeva indarno al popolo
un piccolo prestito di 300.000 lire; un altro suo tentativo per
fondere in un'associazione generale emancipatrice tutte le forze
della democrazia abortì a cagione di parecchie differenze di
vedute fra lui e Garibaldi; non maggiore risultato ebbero i comitati
di provvedimento, imitati su quelli del Bertani. Si tentò
pure un'istituzione di tiro a segno per eccitare il sentimento
marziale delle masse, che non vi scorsero se non una
teatralità resa occasionalmente simpatica dalla presenza di
Garibaldi.
L'agitazione rivoluzionaria si svolgeva tristamente sopra se stessa.
Nè Mazzini nè Garibaldi potevano credere seriamente
alla possibilità d'una guerra all'Austria senza il soccorso
della monarchia; nè questa, ancora incerta della propria
posizione in Europa, lasciarsi in così pericolosa contingenza
sopraffare dai rivoluzionari. Infatti un'altra guerra,
anzichè riprodurre il momento epico nell'impresa garibaldina
nel sud, ora che il regno d'Italia era costituito, avrebbe dovuto
esprimere la potenza del nuovo stato: la monarchia vi sarebbe quindi
assolutamente sovrana per la scelta del momento e dei mezzi. Re
Vittorio Emanuele, che con incerta imitazione della politica
napoleonica ordiva trame segrete coi rivoluzionari d'Ungheria, era
egli stesso troppo poco padrone per forzare la politica remissiva
dei propri ministeri: nè potendolo lo avrebbe forse osato. Il
doppio problema di Venezia e di Roma non lasciava allora scorgere
soluzioni di sorta. Ad una guerra di governo era assurdo pensare
coll'esercito scompaginato dalle fusioni di tutte le milizie
granducali e borboniche; in una guerra popolare, dopo lo scarso
numero di volontari offerto dal paese nella rivoluzione, nemmeno la
fantasia di Mazzini e l'eroismo di Garibaldi potevano davvero
sperare. D'altronde la monarchia vi si sarebbe opposta.
Nullameno nuove congiure solcavano le provincie venete. Al solito si
dipingeva l'Austria presso a sprofondare, si esageravano
ingenuamente gli antagonismi antichi nel suo impero, si calcolava
sopra una rivolta imminente degli ungheresi per concludere che pochi
drappelli insorgenti nel Cadore, mentre il governo austriaco
vegliava attento nelle armi, basterebbero a provocare colla guerra
la vittoria. Intanto il partito rivoluzionario restava scisso
all'interno: i suoi capi republicani bersagliavano d'invettive la
monarchia; gli altri, divenuti parlamentari, avrebbero voluto invece
concordare prima ogni mossa col governo. La rivalità di
Garibaldi con Mazzini, abilmente avvelenata dalle insinuazioni del
governo finiva di guastare gli ultimi accordi per l'azione.
Già si buccinava che Garibaldi malcontento dell'Italia
andasse in Grecia o tornasse in America a combattere per altre
libertà: lo sfacelo del partito rivoluzionario degenerava in
corruzione. La maggioranza della nazione, pochissimo disposta a
sacrifici di nuova guerra, non vedeva più che una setta nei
mazziniani ed un avventuriero in Garibaldi: tutti sentivano che
Venezia e Roma non si potevano conquistare come Palermo e Napoli.
Intanto il ritorno di Urbano Rattazzi al potere parve rianimare
molte speranze. Si sapeva che lo stesso imperatore Napoleone lo
aveva imposto al governo di Torino, quindi se ne traevano argomenti
per fantasticare di prossime complicazioni politiche. Alcune frasi
di Rattazzi a Parigi sulla fratellanza dalle razze latine e sulla
missione dell'impero bonapartista in Europa, altri suoi precedenti
nella Camera di lusinga ai partiti d'opposizione, l'indole del suo
ingegno altrettanto facile ai brogli che ai rischi, promettevano nel
nuovo anno (1862) importanti avvenimenti. In Grecia, in Rumenia, nel
Montenegro, in Dalmazia, in Albania era già scoppiata la
lotta: l'imperatore d'Austria aveva licenziata la Dieta d'Ungheria
respingendone le deliberazioni ed applicando al paese la legge
marziale: si prevedeva d'ora in ora la rivolta dei Magiari.
Già l'assemblea delle associazioni unitarie riunite a Genova
arieggiava i clubs della grande Rivoluzione francese, mirando a
creare un governo nel governo: la sua proposta di affidare a
Garibaldi la repressione del brigantaggio con una ricostituzione
dell'esercito garibaldino era stato un primo agguato pel ministero
Ricasoli; il nuovo ministero subì il fascino dell'avventura
rivoluzionaria.
Rattazzi, fiducioso nella propria conoscenza della politica
napoleonica, sperò di poterla forzare come era riuscito
felicemente al Cavour: le pericolanti condizioni dell'Austria lo
sedussero, la debolezza del partito rivoluzionario lo
lusingò. Il suo piano era semplice e temerario: chiudere la
sessione parlamentare; mortificare apparentemente la rivoluzione col
mantenere Mazzini in esilio e col processare alcuni capi
dell'associazione unitaria; maneggiare destramente Garibaldi,
perchè infiammasse il paese e tentasse un moto nel Trentino
come all'insaputa del governo; sedurre la Prussia colla speranza del
primato germanico; prendere l'Austria fra due fuochi, e strapparle
forse senza guerra, con un semplice trattato, la Venezia.
Di questo disegno ordito fra Garibaldi, Rattazzi e il re non si
è ancora potuto risapere i termini, nè forse si
sapranno. A ogni modo Rattazzi ingannava, e Garibaldi fu ingannato.
Fu affermato che il ministero promettesse a Garibaldi un milione per
l'impresa; certo gli si permise di allestirla, assicurando
contemporaneamente, con una circolare a tutte le regie legazioni, le
potenze sulle intenzioni pacifiche del governo. Intanto Garibaldi
infiammava gli animi scorrendo per le città di Lombardia,
mentre l'imperatore d'Austria visitava le provincie venete, e
Vittorio Emanuele viaggiava nel mezzogiorno.
L'avventura guerresca procedeva alacremente, malgrado frequenti
dissidii fra gli iniziatori garibaldini e i mazziniani: alcuni fra i
migliori ufficiali delle sciolte legioni volontarie raccoglievano
munizioni ed armati sulla frontiera del Trentino; Garibaldi da
Trescorre, ove era sembrato condursi per curarsi le vecchie ferite,
stava pronto ad assumere il comando; il giorno 15 maggio (1862)
veniva stabilito per l'entrata in campagna. Quando improvvisamente,
per ordine del governo, il 15 maggio viene arrestato a Palazzolo il
colonnello Nullo con altri capi. A Trescorre e a Sarnico
s'imprigionano i volontari, si dichiara officialmente Garibaldi
estraneo all'impresa insensata: questi, tradito, smentisce il
governo, e con una delle solite esorbitanze dittatoriali decreta che
i volontari sono incolpevoli avendo agito sotto i suoi ordini: nei
più fervidi fra i paesi lombardi il popolo si sdegna; a
Brescia si tumultua per forzare la prigione del colonnello Nullo, ma
le guardie tirano sulla popolazione inerme assassinando. Garibaldi,
per protestare contro la strage fratricida, svillaneggia l'esercito;
quindi visita Como, Lecco, Varese, luoghi memorandi delle sue prime
vittorie, minaccia nuovi scandali in parlamento, finchè
rabbonito dal re riparte per Genova.
A questo infelice conato di guerra contro l'Austria scoppiano in
parlamento le battaglie dei partiti: il ministero, scosso dalle
disapprovazioni di tutti i liberali, allenta i freni della
sùbita reazione e rilascia senza processo i prigionieri, ma
nè governo, nè opposizione osano rivelare tutta la
verità. Garibaldi, vittima dei propri accordi col re,
è costretto a mentire in una lettera al presidente della
Camera, dichiarando che l'assembramento di volontari non aveva per
scopo una spedizione nel Tirolo, bensì una serie di esercizi
militari in attesa di nuovi eventi; Giuseppe Sirtori definisce
severamente il ministero una sventura nazionale, ma la Camera sopra
un ordine del giorno presentato dal Minghetti lo assolve.
L'Austria aveva trionfato un'altra volta dell'Italia patteggiando
col partito moderato ungherese capitanato dal Deak, lusingato con
una conciliazione i Magiari, proclamandosi solidale colla Prussia
nelle cose germaniche e sventando così i disegni di Napoleone
III sulle Provincie renane, col limitare la rivolta nei Principati
danubiani. Il ministro Rattazzi usciva malconcio dalla prova.
D'altronde vero disegno di guerra non v'era stato nè pel
governo, nè pei rivoluzionari: si era sperato in uno
smarrimento dell'Austria, quindi si dovette indietreggiare nella
reazione di un tradimento verso i più ingenui fra gli accorsi
garibaldini, per calmare i sospetti delle cancellerie auliche.
Seconda spedizione garibaldina.
Questo triste esperimento, che prese nome da Sarnico, svelò
all'Europa le umilianti condizioni della politica interna italiana:
sessantamila soldati regolari non erano ancora riusciti a domare la
reazione brigantesca, mentre gli arrestati per la spedizione del
Tirolo non oltrepassavano i sessanta, e a seicento non era giunto
tutto l'assembramento. La nazione stava quasi indifferentemente fra
governo e rivoluzionarii; la stampa europea sogghignava; in Vaticano
vescovi e prelati di tutto l'orbe, raccolti nel pretesto di
canonizzare alcuni martiri del Giappone del secolo XVI, firmavano
una nuova protesta in favore del potere temporale. Napoleone III,
sempre colla stessa politica equivoca, per riavvicinare la chiesa
all'Italia, giungeva sino a proporre a Pio IX una nostra rinuncia a
Roma (30 maggio 1862). A quest'ingiuria il parlamento rispose
umilmente col riconfermare il 18 giugno l'ordine del giorno
Buoncompagni che dichiarava Roma capitale d'Italia subordinandone
l'acquisto al beneplacito della Francia.
Ma nelle file del partito d'azione cresceva il fervore: le
inevitabili bassezze del governo esasperavano l'eroica
generosità, che aveva prodotto i miracoli dell'epopea
garibaldina. Se la monarchia, impotente a lottare contro l'Austria e
la Francia, espiava colle presenti umiliazioni il proprio peccato
d'origine, la rivoluzione sentiva di dovere daccapo soccorrere alla
sua impotenza con un'alta affermazione del diritto nazionale. Una
vera guerra era impossibile; ad un'impresa come quella di Napoli
mancavano il momento ed il modo; non restava quindi che un'avventura
tragica. Nè disegno politico, nè preparazione militare
vi occorrevano; l'obbiettivo doveva essere Roma, giacche là
batteva il cuore della nazione e stava il principio della nuova vita
nazionale.
Così, mentre il ministero appena rimesso dal fortunale di
Sarnico, sembrava intento a riparare le più grosse avarie
amministrative e finanziarie, Garibaldi capitava improvvisamente a
Palermo: la notizia sbalordiva tutta Italia, si temevano o si
speravano altre complicazioni politiche. Lord Palmerston in un
memorabile discorso alla Camera dei Comuni aveva già
segnalato in quei giorni all'Europa lo scandalo in Roma del
principio, predicato e disconosciuto ad un tempo dal Bonaparte, del
non intervento, e Garibaldi gli aveva risposto nobilmente a nome
dell'Italia; nel parlamento italiano il generale Durando dava esca
all'aspettazione proferendo officialmente queste gravi parole:
«Oso promettere che fra non molto saremo a Roma». Si
buccinava di un'alleanza franco-russa, poichè si era allora
ricevuto per gli uffizi di Napoleone il riconoscimento della nuova
monarchia da parte dello czar, pagandolo però con un
principio di persecuzioni agli esuli polacchi rifugiati nel regno.
A Palermo si era mandato Giorgio Pallavicino; Garibaldi vi arrivava
con intenzioni di guerra. Per quanto è oggi permesso di
arguire si trattava di un nuovo imbroglio rattazziano: lo scaltro
ministro per disfarsi del pericoloso generale gli aveva fatto
promettere dal re aiuti per una spedizione in Grecia; Garibaldi
aveva chiesto trentamila lire per mandare colà alcuni
ufficiali, diecimila fucili, diecimila paia di scarpe, diecimila
camicie rosse e una fregata. Così il governo si sarebbe
liberato del partito rivoluzionario, mentre Garibaldi, sfiduciato
dell'Italia, si disponeva a combattere per la libertà del
più glorioso fra tutti i popoli.
Ad una spedizione su Roma egli allora non pensava e non poteva
pensare dalla Sicilia, ove il governo avrebbe potuto bloccarlo con
ogni comodo.
Ma toccato Palermo, l'entusiasmo avvampa sotto i suoi passi, le
memorie della prima impresa rifiammeggiano, i figli del re allora in
visita per l'isola s'inchinano al dittatore; nella squadra
dell'ammiraglio Albini fra marinai si parla liberamente di
arruolarsi coi nuovi volontari per la Grecia; Garibaldi passa in
rivista (10 luglio 1862) la guardia nazionale, e, trascinato
dall'impeto del proprio patriottismo e dai propositi del 1860,
quando vincitore a Palermo si preparava alla liberazione di tutta
Italia, ricorda con parole di fuoco, al popolo dell'antico vespro,
Roma. Il suo grido è sempre: Italia e Vittorio Emanuele.
Pochi giorni dopo, accolto con ovazioni deliranti a Marsala, riparla
ancora di Roma al popolo: una voce gli risponde - o Roma o morte - ;
e il motto si muta in programma. L'effervescenza degli animi cresce
a contagio. Nel tempio della Vergine della Cava il garibaldino frate
Pantaleo celebra una messa invitando generale e popolo a ripetere
sull'altare il giuramento: o Roma o morte. Così, da popolo
cattolico, in tempio cattolico, con rito cattolico, per una bizzarra
antitesi della storia, si giurava la distruzione del cattolicismo
romano; ed anche questo era indizio di quanto fosse torbida nella
coscienza popolare l'idea della rivoluzione.
Intanto a Palermo si ordina la legione romana con tanta
publicità che i carabinieri accompagnano al bosco della
Ficuzza i marinai della squadra in uniforme, perchè cangino
il camiciotto azzurro nel rosso: a bordo delle navi i mancanti alla
chiamata serale non si reputano disertori.
Trentamila fucili sono mandati e sbarcati senza mistero dal governo;
nel continente molti vecchi e nuovi garibaldini disertano dai
reggimenti per raggiungere Garibaldi in Sicilia. Tutti credono il
ministro d'accordo col generale.
Ma l'equivoco di Sarnico ricomincia; Rattazzi vorrebbe un'agitazione
abbastanza seria da persuadere i governi d'Europa a cedere Roma
all'Italia per cansare i pericoli di nuove rivoluzioni, se non che,
aiutandola sottomano, arrischia e teme di essere trascinato troppo
oltre. I suoi ordini sono quindi equivoci e contradditorii peggio
del disegno di una guerra in Grecia, col quale aveva cercato di
sviare Garibaldi: la Sicilia, galvanizzata momentaneamente dalla
presenza del proprio liberatore, s'infervora nell'idea di Roma,
quantunque male comprendendola. Non vi è preparazione di
guerra ma tumulto teatrale: da Genova la commissione esecutiva
dell'associazione unitaria riprepara aiuti ed organizza a Roma un
comitato contro quello dell'associazione lafariniana sempre ligia al
governo ed ostile all'iniziativa rivoluzionaria, manda a Garibaldi
un piroscafo rimorchiatore con bandiera inglese, e raccozza
volontari; Mazzini avverso all'impresa ne rimane sorpreso, e poco
giova; i deputati Fabrizi, Mordini e Cadolini spediti a Garibaldi
per dissuaderlo finiscono col convertirsi all'avventura. Garibaldi,
trascinato dall'istinto tragico della situazione, dimentica
improvvisamente il vecchio senno militare e politico di tutte le sue
imprese: l'idea di Roma lo affascina, la coscienza di essere nesso
fra la nazione e il re per compiere i destini d'Italia lo assolve
anticipatamente di ogni illegalità e di ogni errore. La sua
fede in Vittorio Emanuele giunge all'assurdo. Così, quando
questi emana da Torino (3 aprile) un proclama di disapprovazione e
di minaccia, Garibaldi, memore della lettera colla quale due anni
prima gli aveva proibito di passare il continente alla conquista di
Napoli, lo crede una lustra, e lo legge alla propria legione. Il
ritiro di Giorgio Pallavicino dalla prefettura di Palermo lo lascia
indifferente, la disapprovazione del parlamento non lo turba.
Allora comincia la tragica avventura. Il governo, impacciato nei
propri equivoci, non sa nè impedirla, nè permetterla:
concede al generale Lamarmora, che li domanda da Napoli, i pieni
poteri, manda proconsole a Palermo il generale Efisio Cugia,
richiama dalle terme di Valdieri il generale Cialdini per affidare
al suo odio invidioso la repressione della nuova impresa
garibaldina. Il partito moderato reso feroce dalla paura di
complicazioni colla Francia, avventa vituperii contro il partito
d'azione, ed accusa Garibaldi di voler rovesciare la monarchia.
Questi invece, evitando accuratamente ogni conflitto coi regii, che
nullameno avrebbero potuto accerchiarlo, traversa incolume tutta
l'isola dal bosco della Ficuzza a Catania; il suo esercito è
una turba di giovinetti, d'entusiasti, di discepoli, fra i quali i
pochi veterani del '59 e del '60 appaiono dispersi. A Messina un
comitato apre pubbliche sottoscrizioni ed arruolamenti; l'idea degli
accordi col re occupa da per tutto la mente popolare; il contegno
dell'esercito regio ribadisce questa opinione. Il prefetto di
Messina chiede per favore notizie del campo garibaldino al comitato
di provvedimento; quello di Catania dopo un colloquio col generale
lascia la città per trasportarsi sulla nave Duca di Genova;
Garibaldi deve improvvisare nella città un governo
provvisorio con a capo Giovanni Nicotera.
Fabrizi e Mordini, recatisi al campo del generale regio Mella per
parlamentare, si sentono rispondere che non vi sono ordini per
combattere Garibaldi; anzi il generale offre di rimandare gli
spedati in camiciotto rosso fatti prigionieri dalle proprie
avanguardie, pregando come ricambio di cortesia che gli sia permesso
di provvedersi di viveri a Catania. Poi l'esercito regio accenna a
levare le tende da Misterbianco, e Garibaldi asserragliandosi nella
città ripete al popolo i due gridi - Italia e Vittorio
Emanuele - Roma o morte - .
L'equivoco diventa così torbido che nessuno può
trovarne l'uscita.
La fregata inglese Amphion lo raddoppia, ormeggiandosi fra la
città e la fregata italiana Maria Adelaide, quasi per
proteggere Garibaldi; il 24 agosto questi, emanato un proclama nel
quale annuncia di marciare su Roma e riconferma la propria fede alla
monarchia, cattura nella rada il Generale Abbatucci francese e il
Dispaccio italiano, due vapori postali, sotto gli occhi della nave
ammiraglia Maria Adelaide, che invece esce dal porto lasciando alle
fregate Duca di Genova e Vittorio Emanuele l'istruzione sibillina
«di operare a norma dei casi, ricordando il bene inseparabile
della patria e del re».
A mezzanotte Garibaldi salpa dal porto coi due vapori e tremila
uomini salutato da un'immensa ovazione di popolo: le fregate lo
lasciano passare, ma i due capitani cadono così sotto
consiglio di guerra. Garibaldi presa terra presso la spiaggia di
Melito si è difilato su Reggio; se non che, bersagliato
mollemente dalla Maria Adelaide ripara sul pianoro d'Aspromonte. I
suoi ordini agli uffiziali sino dalla partenza da Palermo sono
«evitare l'esercito e, in caso d'incontro, non
combattere»; di rimpatto Cialdini gli manda contro il
colonnello marchese Pallavicini di Priola come a brigante con ordine
«di schiacciarlo e di non concedergli resa che a
discrezione». A mezzogiorno del 29 i bersaglieri cingono in
catena i pendii dell'Aspromonte, aprendo sui garibaldini un vivo
fuoco di moschetteria: qualcuno di questi risponde a fucilate, ma
Garibaldi ordina la cessazione del fuoco; allora i bersaglieri
tristamente aizzati si slanciano alla carica, mentre Garibaldi,
ferito da due palle alla coscia sinistra e al malleolo del piede
destro, cade urlando sempre: «Viva l'Italia, non fate
fuoco!».
I morti di ambe le parti sono dodici, i feriti cinquanta.
La tragedia è compita: Aspromonte, mutato in calvario della
rivoluzione italiana, resterà la cima più alta della
storia moderna.
Il marchese Pallavicini in tanta sventura, ultimo gentiluomo di un
esercito che tirando primo su Garibaldi macchiava il proprio onore,
fu ammirabile di rispetto e di devozione al ferito. La legione venne
disarmata e scortata: Garibaldi imbarcato sopra una lancia del Duca
di Genova, passando al traverso della Stella d'Italia, ove superbo
della misera vittoria s'impettiva il Cialdini, salutò con
epica cortesia; l'altro non rispose al saluto. L'Italia monarchica
si rivelava intera nel contegno di Cialdini. Infatti questi
annunziò la propria vittoria così: «Garibaldi,
raggiunto in Aspromonte in formidabile posizione, attaccato dalle
truppe italiane comandate dal colonnello Pallavicini, dopo vivo
combattimento, pienamente sconfitto, ferito, prigioniero con tutti i
suoi.» La stampa moderata vantò il trionfo. Al
Varignano, lazzaretto e galera a mezza costiera di ponente nel golfo
della Spezia, ove Garibaldi fu trasportato, mancava ogni decenza ed
ogni comodo di alloggio per il ferito, mentre vi si largheggiava di
conforti ai cospiratori borbonici. Intanto una reazione senza nome
insaniva contro i garibaldini; a Catania s'arrestavano i membri del
comitato, patrioti, giornalisti, si disarmava la popolazione, si
perseguitavano ferocemente i volontari fuggitivi. Lamarmora,
imprigionati a Napoli Fabrizi, Mordini e Calvino, telegrafava a
Rattazzi: «Ho arrestato i deputati; li fucilo?» E il
ministro più scaltro rispondeva: «li metta in
libertà e si scusi». Il generale Pinelli in un
caffè di Messina brindò alla palla di Aspromonte; a
Fantina un maggiore De Villata, truce brigante, sorpresi alcuni
volontari fuggitivi, li fucilava dileggiando; il ministero, pazzo di
orgoglio fratricida, promuoveva sul campo il Pallavicini a generale;
in parlamento e nei circoli politici si disputava seriamente sul
come processare Garibaldi, e si pendeva incerti fra il senato
costituito in alta corte di giustizia e il magistrato ordinario.
Prevaleva già il secondo partito; la corte di cassazione di
Napoli dietro invito del governo aveva richiesto quella di Milano
per la designazione della corte d'assise giudicante.
L'Italia taceva. Solo Giosuè Carducci, il suo giovane e
maggior poeta, avventò un'ode che stridè come una
saetta per la morta atmosfera di quei giorni, ma il silenzio del
popolo tradì il segreto della rivoluzione. Le proteste del
partito rivoluzionario, le veementi invettive di Mazzini, gli sdegni
di Cattaneo, le minacce di Nicotera chiedente alla Camera di mettere
il ministero in istato d'accusa, non sembravano e non erano che
rimpianti e rimbrotti di vinti: il popolo taceva. Il popolo, al
quale Garibaldi aveva dato l'unità, non ebbe allora una
rivolta nè di amore nè di onore. II governo
potè moltiplicare pazzamente errori e provocazioni, ma il
popolo indifferente per Venezia, dimentico di Roma, inconsapevole
della rivoluzione dalla quale era uscito, vedeva nella monarchia il
miglior riparo alla propria fortuna, e le abbandonava Garibaldi come
un volgare disertore.
La monarchia italiana e il papato.
Con questo popolo e per questo popolo Mazzini sognava ancora una
republica italiana per strappare alla Francia l'iniziativa storica,
ed aprire un'altra epoca di civiltà in Europa! I Borboni
avevano trovato migliaia di briganti per una reazione antinazionale
ed inumana; Garibaldi ferito e prigioniero non provocò in
nessuna città d'Italia il più piccolo moto di
ribellione. Le sue bande rosse soccombettero all'ignavia nazionale.
Se la monarchia fosse stata veramente un principio nella rivoluzione
italiana, non si sarebbe trovata costretta a fucilare Garibaldi
sulla via di Roma proclamata capitale da un voto ripetuto del
parlamento; ma se l'Italia non comprendeva allora il sublime
significato di Garibaldi moschettato per ordine di Vittorio
Emanuele, mentre si accingeva ad aprirgli l'eterna capitale del
mondo e ad incoronarlo in Campidoglio respingendo con ultimo sforzo
tutto il medio evo cattolico dalla storia moderna, le venienti
generazioni cresciute a migliore democrazia forse non potrebbero mai
più riconciliare nella propria coscienza la monarchia
piemontese coll'idea italiana, la sovranità nazionale col
diritto regio.
Intanto l'Europa si esaltava d'amore per l'eroe ferito, cui il
ministero lesinava così ignominiosamente ogni conforto di
cura che un impiegato dell'arsenale dovette faticare più
giorni per fornirgli un letto di ricambio, e il dottore Riboli ebbe
ad elemosinare per lui la biancheria da una signora della Spezia.
Quindi lord Palmerston mandò al ferito un letto
dall'Inghilterra, affrancato come una lettera perchè
viaggiasse colla massima rapidità, e per non umiliare il
governo italiano volle serbarsi incognito donatore; Partridge, primo
chirurgo di Londra, fu pagato con mille sterline dai propri clienti
perchè venisse a visitare il ferito; la Russia spedì
il chirurgo Plougoff, Drouyn de Lhuys inviò Nélaton;
un mondiale plebiscito di carità vendicò Garibaldi
dell'ingratitudine italiana.
Allora il governo comprese il pericolo di processarlo: il sentimento
popolare si sarebbe probabilmente appassionato alla
teatralità di così grande dibattito, mentre l'eroe,
chiuso fino allora nel più magnanimo silenzio, avrebbe forse
dovuto rivelare fra le morse di un interrogatorio qualcuno dei molti
imbrogli della politica regia, scoprendo al disprezzo del paese la
figura del re. Peggio ancora tutte le giurìe del regno lo
avrebbero certamente assolto di un delitto, del quale nessuna
abilità di magistrato avrebbe potuto definire la natura.
Fortunatamente le nozze della figlia secondogenita del re con don
Luigi di Portogallo offersero l'occasione di una amnistia; questa fu
conceduta il 5 ottobre a tutti i colpevoli di Aspromonte, meno i
disertori che condannati a morte ebbero commutata la pena in una
prigionia prima a vita, poscia a tre anni.
Il ministero, infatuato della propria vittoria su Garibaldi,
credette potersene giovare dopo siffatta reazione per chiedere la
restituzione di Roma all'Italia, come se le popolazioni avessero
secondato il governo nella repressione del tentativo garibaldino
solo per la fede che il governo del re sapesse meglio risolvere
tanto problema. Ma a tale querula questua, vantata dalla stampa
moderata di allora quale una protesta ammirabile di orgoglio
italiano, Napoleone rispose al solito con un opuscolo del
Laguerronière, L'Europa e il Papato, ribadendo la vecchia
utopia, Roma essere indispensabile all'esercizio del potere
spirituale, e riproponendo un congresso europeo per dividere
l'Italia in tre stati. Il ministero tentò replicare: allora
Napoleone chiamò al Ministero il Drouyn de Lhuys, e
mandò ambasciatori al Vaticano il La Tour d'Auvergne,
entrambi nemici d'Italia.
Così, in poco più di un anno dalla morte di Cavour, il
partito rivoluzionario aveva tentato indarno i due massimi problemi
di Venezia e di Roma contro la monarchia. A Sarnico il minuscolo
moto aveva abortito siffattamente che nel ridicolo della sua
insufficienza militare svanivano le brutture della reazione
monarchica; ad Aspromonte invece la tragedia del diritto nazionale
era salita più alta dell'epopea rivoluzionaria. Garibaldi,
ritentando la distruzione del papato difeso ancora da un impero
francese, diventava l'ultimo martire di una lunga storia di eroi. Da
Arnaldo da Brescia a Cola da Rienzi, da Porcari a Burlamacchi, da
Dante a Machiavelli, da Bruno a Giannone, attraverso la storia
millenaria di un federalismo sempre tendente all'unità e di
una lotta fra la libertà del pensiero civile e
l'autorità del pensiero religioso, Roma era stata il centro
della guerra e della vita italiana. Il patto della chiesa
coll'impero, di Leone con Carlomagno, si riproduceva enorme,
assurdo, mezzo secolo dopo la rivoluzione francese. L'Italia, alla
quale quel patto aveva tolto di essere nazione, non poteva
diventarlo che lacerandolo.
Garibaldi, l'eroe più italiano e più universale della
democrazia moderna, marciando su Roma assaliva contemporaneamente
papato ed impero: tutto il diritto moderno giustificava la sua
impresa, tutte le libertà erano scritte sulla sua bandiera.
Fra l'antico patto della chiesa coll'impero erano sorti prima vinti,
poi vittoriosi i comuni; Garibaldi, campione della
nazionalità era insorto fra il nuovo, ed era stato vinto
dalla monarchia nazionale d'Italia nel nome della chiesa e
dell'impero.
Onesta fatale mostruosità diventava più dolorosa al
ricordo che la democrazia italiana aveva già fino dal 1849
decretato a Roma l'abolizione del potere temporale e la republica.
Il pensiero italiano parve quindi indietreggiare di molti secoli.
Mazzini stesso, protestando contro la bassezza del governo,
criticava con meschini criteri di opportunità politica il
disegno di Garibaldi.
Intanto il ministero Rattazzi, sbattuto da troppe correnti,
sprofondava. Dalle simpatie di tutta l'Europa per Garibaldi il
popolo riprendendo coraggio, cominciava ad appassionarsi pel ferito.
Le ultime umiliazioni inflitte al governo dalla diplomazia francese
rendevano più amaro il lutto prodotto dagli equivoci
ministeriali; le necessità dei nuovi balzelli, fra i quali
odiatissimo quello della ricchezza mobile, aumentavano i pretesti al
malcontento; le ladrerie moltiplicantisi nella vendita dei beni
demaniali, che a rovescio di ogni legalità si facevano troppo
spesso per ordinanza di ministro anzichè per decreto reale,
sminuivano la già scarsa fiducia nell'amministrazione
centrale; la paura della destra per una politica troppo complicata
nella diplomazia, compromessa colla rivoluzione, e pericolosa nei
risultati, l'odio della sinistra per il tradimento sofferto e per la
raddoppiata sommissione alla Francia, il trionfo del papato vantato
dal clero oscenamente, tutte queste colpe e queste forze si unirono
contro il ministero, che dovette dimettersi fra l'esecrazione
universale.
Ma anche nella disperata difesa dell'ultima discussione Rattazzi
mantenne la propria superiorità parlamentare, destreggiandosi
con insuperata agilità fra tanta tempesta di accuse e di
accusatori.
Capitolo Sesto.
Soluzione monarchica del problema di Roma
Roma durante la rivoluzione.
La tragedia d'Aspromonte, travolgendo il ministero Rattazzi, rese
nella coscienza publica più urgente il problema di Roma.
Rivoluzione e monarchia sentirono del pari la necessità di
uscire da una situazione che infirmava ogni fatto della nuova vita
italiana. A Torino la monarchia correva rischio d'immobilizzarsi nel
piemontesismo reso più odioso dall'obbligo di difendere il
papato contro qualunque rivendicazione nazionale. In parlamento la
posizione dei ministeri diventava sempre più precaria. I
partiti, esagitati da inconciliabili passioni, si combattevano senza
vera distinzione di programma: quello rivoluzionario difendeva per
opposizione dialettica tutte le piccole autonomie, e rispondeva col
grido di Venezia e di Roma alle continue domande di spese militari;
la moltitudine si cullava ancora nell'illusione di una quasi segreta
ricchezza nazionale, mentre le finanze mal rinsanguate da imposte
poco esigibili e pessimamente distribuite declinavano verso il
fallimento.
La formazione del nuovo ministero fu tra le più laboriose. Il
conte Ponza di San Martino, primo a riceverne l'incarico, avrebbe
voluto un programma di raccoglimento, limitando tutte le spese ed
aggiornando la soluzione di tutti i problemi, ma dovette ritirarsi,
anche perchè la sua qualità di piemontese l'avrebbe
reso impossibile in quel momento. Si ricorse al Farini, già
ammalato di spinite, e gli si diedero compagni il Minghetti, il
Peruzzi, il Pasolini, il Pisanelli, il Menabrea, l'Amari, lo
Spaventa. Il ministero così composto parve più
italiano dei precedenti, sebbene la sua azione non potesse spiegarsi
con più italiani intendimenti: si sarebbe bramato una tregua
alle questioni politiche quando invece queste incalzavano sempre
più fiere.
L'insurrezione della Polonia, della quale il partito rivoluzionario
si servì per riscaldare il sentimento patriottico delle masse
con sottoscrizioni, con comizi ed arruolamenti, mise il governo nel
più difficile imbarazzo diplomatico collo czar, che aveva in
quei giorni riconosciuto il nuovo regno. Emilio Visconti-Venosta,
succeduto al ministero degli esteri, pur giuocando di destrezza,
dovette concludere collo Spaventa, direttore generale della polizia,
ad un'altra persecuzione dei liberali: anzi questi nella violenza
della propria fede monarchica vi risuscitò concetti ed
abitudini della polizia borbonica con un dizionario di sospettati e
di sospetti e con istruzioni assurdamente inquisitoriali a tutte le
prefetture.
Alla reazione militare di Aspromonte seguiva così un'altra
reazione poliziesca: la monarchia sembrava aver paura, il popolo
affettava di disprezzarla; nella vita dell'una e dell'altro non
pareva che il formarsi del nuovo stato avesse prodotto radicali
mutamenti.
Da Roma il papato sbraveggiava e l'antica metropoli invece durava
nella propria oramai storica indifferenza.
Dalla caduta della republica e durante il lungo periodo della
occupazione francese, Roma non aveva dato alcun segno di vita
politica. La ripristinazione del papato, malgrado la subdola ferocia
di un'ultima reazione, non aveva potuto scuotere il suo scetticismo:
vi erano state molte feste religiose affollate al solito come
spettacoli di circo, e null'altro. Poi il popolo superstizioso ed
incredulo, la borghesia ignorante ed ignara, l'aristocrazia altera
ed impotente, il clero, onnipotente ed inetto, avevano ripreso la
propria vita di ozio e di disordini. In mezzo al deserto dell'agro,
Roma non era più che un'immensa necropoli, nella quale la
republica del 1849 aveva durato appena il tempo di
un'improvvisazione teatrale, cadendo senza lasciare rovine.
Nullameno qualche lievito indefinibile sembrava fermentare nella sua
coscienza. L'antico orgoglio quiritario, sopravvissuto nel popolo
alle umiliazioni di tanti secoli, gli rendeva odiosa l'occupazione
francese; la viltà mostrata nella crisi della republica dal
clero aveva scemato a questo il prestigio di padrone; l'antagonismo
fra le truppe papaline e francesi irrompente spesso in piccole
mischie, nelle quali la bravura brigantesca degl'individui dava a
quelle, un vantaggio sul valore collettivo di queste, aizzava nella
moltitudine l'odio allo straniero. Il quale, pure essendo diverso
dall'odio generoso dei lombardi per gli austriaci, non si mostrava
molto meno vivo, giacchè i francesi, costretti a fare da
gendarmi al papa contro l'Italia, dovevano per sospetti di mene
liberali vessare il popolo come gendarmeria papalina. L'odio
menò al sangue: la plebe con perfida crudeltà si diede
a circuire i soldati vaganti per le vie nei primi giorni
dell'arrivo, e col pretesto di spiegar loro i monumenti antichi li
traeva in agguato, gittandoli dai ponti nel Tevere o trucidandoli
nei vicoli più deserti.
Ma ogni tentativo per mezzo di congiure mazziniane vi fallì.
Il bolognese Petroni lasciatovi da Mazzini a rannodare le fila delle
antiche cospirazioni era stato presto imprigionato; i migliori
liberali emigrarono; gli altri finsero di adoprarsi alla rivoluzione
ed invece si studiarono d'impedirla per non correrne i rischi.
Così, quando ad esautorare Mazzini anche nelle cospirazioni,
Cavour per mezzo del La Farina fondò la Società
Nazionale, aggregandovi tutti quei liberali che volevano aspettare
di essere liberati dalla monarchia sarda, a Roma si formò
presto un comitato per contrastare l'azione dei mazziniani, magari
coll'infamia di denunzie alla polizia papalina.
Fu questo uno degli spettacoli più miserandi della
rivoluzione italiana.
Quindi al suo scoppiare, mentre le Romagne, le Marche e l'Umbria
insorgevano, Roma non si mosse: le Romagne fortunate di più
sollecita annessione non ricaddero più sotto al gioco papale,
ma le Marche e l'Umbria patirono stragi di guerra; e Roma non si
mosse. Dopo la sconfitta di Lamoricière e di De Pimodan,
quando gli eserciti piemontesi trionfanti passavano al suo traverso
per congiungersi alle bande rosse di Garibaldi, Roma, paurosa del
presidio francese e ubbidiente alla parola di Cavour, non si mosse.
La città dalla quale in una storia di tremila anni era
derivata la nazionalità dell'Italia, non parve italiana: dopo
aver assistito con colpevole accidia alla tragedia della republica
mazziniana, Roma si manteneva indifferente alla formazione del
grande regno italico. Dai suoi mille monumenti di gloria non un
sentimento le venne della grandezza moderna. Eppure un'insurrezione
popolare le sarebbe stata quasi troppo facile per meritare le lodi
d'Italia. Forse il presidio francese non avrebbe osato battersi per
il papa, giacchè Napoleone III per difendere Roma dalla
conquista regia aveva insino allora dovuto persuadere l'Europa della
fedeltà dei romani verso il pontefice. O Garibaldi o Cavour,
quegli in nome della rivoluzione, questi col pretesto dell'ordine,
vi sarebbero entrati evitando di scontrarsi col presidio francese e
salvaguardando il papa: quindi l'imperatore, costretto a combattere
il proprio alleato di ieri per rimettere in trono il papa, avrebbe
probabilmente ceduto al doppio principio del non intervento e dei
fatti compiuti.
Ma se il popolo romano venne meno al dovere della propria gloria, il
governo papale in tanta rovina di se stesso non trovò
nè coraggio per resistere, nè dignità per
cadere. Anzitutto l'ignavia del popolo egualmente incredulo
all'Italia e al papato gli tolse di poterlo chiamare alle armi: poi
l'esercito raccolto fu di mercenari e di volontari stranieri,
comandati da generale straniero. Ogni apparenza di
legittimità mancò alla difesa dello stato; per mezzi
politici si usarono scomuniche e preci; vi furono processioni per
l'assedio d'Ancona e per quello di Capua, quasi la causa del Borbone
fosse identica a quella della chiesa; la stampa papalina
mentì e vituperò fanciullescamente tutti gli eroismi
della rivoluzione.
Per l'Italia non s'ebbe che qualche dimostrazione di strada e di
teatro: in questi si gridava monellescamente «viva
Verdi», facendo col nome dell'illustre maestro un anagramma:
Viva Vittorio Emanuele re d'Italia. Nel carnevale del 1860, la
popolazione avendo disertato come a protesta il corso di porta del
Popolo per riempire quello di porta Pia, il cardinale segretario
Antonelli con satanica ironia mandò a quella passeggiata
politica in carrozza di gala il carnefice mastro Titta. Nullameno la
popolazione divorò in pace l'insulto. In sostanza la
metropoli non soffriva di agitazione rivoluzionaria: il residuo del
suo stato circoscritto dalle maremme toscane, dall'Umbria, l'Abruzzo
e la Terra di Lavoro, non aveva altra vita politica che quella del
brigantaggio. Le condizioni delle provincie erano miserande come pel
passato; la feudalità dei grandi signori romani vi
spadroneggiava d'accordo colla strapotenza del clero. Il
brigantaggio antico come costume vi rifioriva ora per aiuti del papa
e del Borbone, compiendo di corrompere la brutalità delle
popolazioni.
La decadenza del governo papale diventava anche più
scandalosa al paragone del risveglio di ogni attività,
prodotto dalla rivoluzione in tutto il regno d'Italia.
Nella metropoli popolo e borghesia vivevano della chiesa; la
burocrazia v'era così cresciuta che si contavano quasi
sessantamila impiegati; il resto era plebe e servitorame; l'esercito
raccogliticcio e straniero, e piuttosto di parata che di guerra; la
flotta composta di una sola corvetta ancorata nel Tevere; l'antica
università ridotta a poco più di un seminario; i
conventi innumerevoli e vasti come paesi: migliore se non unica
speculazione quella degli alberghi: Roma non viveva più che
d'ospitalità e di feste religiose.
Una vasta e torbida malinconia pesava sulla città eterna,
fasciata dal deserto inconsolabile del proprio agro come da un
immenso mantello luttuoso: le sue cattedrali, miracolo di genio e di
grandezza, parevano esse pure sopravvissute alla religione del
popolo che le aveva erette: la fede non vivificava più alcuno
dei loro riti; le arti non abbellivano più nessuna delle loro
forme. La romanità era morta da secoli. I grandi intelletti
stranieri visitando Roma rimanevano colpiti dal silenzio della sua
vita, nella quale i costumi della plebe parevano di villaggio, e
quelli dell'aristocrazia riproducevano entro la più severa
delle cornici storiche il quadro effimero delle eleganze parigine.
Della republica del '49 non restava altra traccia che il Vascello
ancora rovinante: in Campidoglio durava, superstite maschera, un
senatore del quale nessuno si occupava, e che a certi giorni usciva
in grande pompa di carrozze e di valletti, come idolo vivente nella
città di tutte le idolatrie.
Questa era la capitale assegnata da tremila anni di storia
all'Italia divenuta finalmente nazione. Quando Garibaldi cadeva
moschettato dai bersaglieri sul pianoro di Aspromonte, Roma papale
non avvertì nè il pericolo, nè la speranza
dell'avventura rivoluzionaria: i clericali ne sorrisero
sprezzantemente, i liberali indettati dal La Farina se ne
rallegrarono come di un trionfo della monarchia piemontese.
La convenzione di settembre.
Infatti poco dopo il ministero Minghetti, dal quale il Farini aveva
dovuto uscire per malattia incurabile, dava al problema di Roma
capitale la sola possibile soluzione per la monarchia.
Anche questa volta l'iniziativa venne dall'Inghilterra e dalla
Francia. All'indomani di Aspromonte lord Russell, proseguendo nella
politica di ostilità all'espansione dell'impero bonapartesco,
che colla spedizione al Messico accennava ad un'azione potente anche
nel nuovo mondo, protestava vigorosamente contro l'occupazione
francese a Roma, dichiarando la Francia responsabile del
brigantaggio napoletano e di ogni possibile complicazione europea
nella questione italiana. Il legato francese De Sartiges, succeduto
al Benedetti, invitò quindi il gabinetto di Torino a
riprendere gli studi per una conveniente soluzione del problema
romano.
Il ministero, angustiato dalle agitazioni in favore della Polonia,
dai risultati dell'inchiesta parlamentare sul brigantaggio, dagli
scandali di ladrerie negli appalti delle strade ferrate pei quali
l'ex-ministro Bastogi e troppi altri deputati avevano dovuto
ignominiosamente dimettersi; sferzato dalle accoglienze
entusiastiche fatte a Giuseppe Garibaldi (marzo 1864) a Londra
nell'intendimento di osteggiare l'alleanza austro-prussiana a danno
della Danimarca; sopraffatto dall'avvilimento del nome italiano in
Europa, credette necessario a salvarsi un grande colpo politico.
Le trattative su Roma furono riprese.
Napoleone III, persuaso finalmente che la perfidia della curia
romana e l'indomabile istinto della rivoluzione italiana avrebbero
potuto suscitare dall'occupazione francese in Roma motivi di guerra
europea, pensò a trarsi dal cattivo passo senz'offendere le
facili suscettibilità dei clericali francesi. Il suo disegno
finissimo per eccessiva semplicità consisteva nel ritirare le
truppe da Roma, incaricando la monarchia italiana della salvaguardia
del papa, e chiedendole un pegno tale delle proprie promesse che
significasse in faccia all'Italia e all'Europa una tacita rinunzia a
Roma. Cotesto pegno doveva essere nell'elezione di un'altra
capitale.
Alle prime aperture del governo francese il gabinetto italiano
ripropose la già fallita convenzione di Cavour: sgombro delle
milizie francesi da Roma e dal territorio pontificio, impegno per
l'Italia di non assalire e di non tollerare che altri assalisse il
dominio del pontefice. Era un'abdicazione al diritto nazionale col
solito sottinteso di mancare al trattato qualora eventi fortunati lo
permettessero: la politica regia non poteva sottrarsi a siffatto
espediente. Ma l'imperatore, indovinando il facile giuoco, pretese
dall'Italia l'elezione di un'altra capitale per esautorare
simultaneamente la tradizione piemontese e il diritto nazionale. Il
ministero accettò. La subdola convenzione del conte di
Cavour, che all'indomani della proclamazione del regno italico
mirava con ogni sforzo e a qualunque prezzo di contraddizioni a
trarre i francesi da Roma, diventava coll'elezione di una nuova
capitale un'esplicita rinunzia a Roma: la presenza nel ministero del
Minghetti, ex-ministro papalino, e del Peruzzi, toscano tardi
convertito all'idea dell'unità, spiegava anche troppo
chiaramente il pensiero politico del governo. Non si voleva andare a
Roma; dopo la Francia si temeva dell'Europa; il papato, istituzione
millenaria, cosmopolita, necessaria al cattolicismo, era giudicato
inseparabile dal dominio di Roma; la monarchia italiana non osava
abbatterlo. Si sentiva che la rivendicazione di Roma avrebbe reso
per sempre inconciliabili monarchia e religione; il bigottismo del
re rabbrividiva all'idea di così terribile guerra; si
esagerava il sentimento religioso delle popolazioni; non si credeva
al già visibile declino dell'impero napoleonico; non
s'intravedeva, e sarebbe stato facile e Mazzini da anni l'aveva
annunziata, la lotta imminente fra Prussia ed Austria, che doveva
ripetersi maggiore fra Germania e Francia. Il dottrinarismo
monarchico, effimera ed assurda miscela di tradizioni regie e d'idee
rivoluzionarie, di classicismo accademico e di empirismo plateale,
doveva soccombere nel grande problema di Roma.
D'altronde la necessità di trarre da Torino la capitale
coonestava l'espediente. Quanto all'umiliazione e
all'impossibilità di proteggere il papa da nuovi assalti
italiani, dopo la triste vittoria di Aspromonte non ci si pensava:
all'accusa di abdicazione con sottigliezza parlamentare si
rispondeva invocando i plebisciti e proclamando che colla nuova
convenzione Roma ridiverrebbe dei romani: a questi il pronunziarsi
contro il papa in favore dell'Italia. Ma poichè li si
conosceva incapaci di tanto, si ripeteva con orgoglio l'insidioso
argomento.
Negoziatori italiani della convenzione, che prese nome dal 15
settembre 1864, erano il Nigra, allievo del Cavour, ambasciatore a
Parigi, e il marchese Gioacchino Pepoli, parente dell'imperatore,
laido per vizi, vano nella depravazione del poco ingegno; pel
governo francese firmò il ministro Drouyn de Lhuys. Dei
cinque articoli il primo statuiva che l'Italia nè
assalirebbe, nè tollererebbe assalti al territorio
pontificio; il secondo fissava allo sgombro delle truppe francesi da
Roma il termine di due anni; il terzo assentiva al papa la
formazione di un esercito anche di mercenari stranieri; il quarto
obbligava l'Italia a negoziare colla Santa Sede per l'assunzione di
una parte dei debiti delle antiche provincie pontificie; il quinto
stabiliva la ratificazione della convenzione nel termine di quindici
giorni. Un protocollo esigeva però, ad ingiuria della fede
italiana, che la convenzione non avrebbe effetto, se non quando il
re d'Italia avesse decretato il trasferimento della capitale in
altra città.
Per tale convenzione risorgeva a Roma il federalismo: invano
governo, parlamento e plebisciti avevano sino allora decretato una
l'Italia e Roma sua metropoli. Il papa acquistava il diritto di
armarsi contro l'Italia, alla quale da anni faceva un'orribile
guerra di brigantaggio, mentre la nazione veniva condannata ad
essere il suo gendarme e a ripetere indefinitamente la tragedia di
Aspromonte, se tutti gl'italiani non rinunciassero unanimemente ai
patrii diritti.
Ma all'infuori di Roma nessun'altra città poteva essere
capitale d'Italia. Torino rappresentava la conquista regia, tutte le
altre erano state conquistate; Firenze non era più che la
maggiore prefettura di Toscana, illustre di gloria antica quanto
povera di significato moderno; Napoli, capitale delle due Sicilie,
mancava di affinità col resto d'Italia: trasportarvi la
capitale sarebbe stato un cadere dall'assorbente prepotenza
piemontese nella più inorganica preponderanza napoletana.
Senza Roma capitale la rivoluzione italiana non era più che
una conquista piemontese.
Ma la monarchia, che aveva vinto come negazione della rivoluzione,
era spinta irresistibilmente alla rinunzia di Roma. Il Pasolini,
uscito allora dal ministero degli esteri, l'affermava
esplicitamente; D'Azeglio, nel più misero dei propri
opuscoli, lo dichiarava con inconscio candore; il Boggio, deputato e
pubblicista eminente fra i moderati, aveva già confessato
durante la tragedia di Aspromonte, che Roma conquistata da Garibaldi
all'Italia sarebbe stata una sventura per la monarchia; e infatti
questa non avrebbe avuto al proprio attivo che il tradimento
francese di Villafranca. Il Peruzzi con astuzia toscana preparava
già per Firenze il fasto e l'enorme debito di una capitale
immutabile; il Minghetti diplomatizzava accennando in un
indefinibile avvenire alla possibilità di ottenere Roma, ma
lavorando con energia ad assidere stabilmente il governo a Firenze.
L'Italia taceva come per Aspromonte.
La formula ipocrita: «Roma dei romani», contro la quale
i pochi mazziniani di Roma protestarono nobilmente, era l'argomento
rivoluzionario per sedurre i più ingenui; la perfida riserva
di tradire la convenzione dopo lo sgombro dei francesi, e appena se
ne presentasse il destro, l'argomento politico per convincere i
più restii.
Fortunatamente per la monarchia, il papato, pauroso di un vero
abbandono da parte della Francia, protestava contro la convenzione
dandole l'apparenza di un falso patto.
Ma il modo col quale il governo l'annunziò al paese, ne
tradì il triste segreto: invece di publicarne francamente il
testo, si credette furberia preavvisare nell'Opinione, organo
massimo del partito moderato, che nel termine di due anni cesserebbe
l'occupazione dei francesi in Roma. Pochi giorni dopo la Gazzetta di
Torino, altro giornale officioso, in un articolo apologetico della
convenzione, s'abbandonava a minacce contro Torino, se mai osasse
per grettezza municipale contrastare al trasferimento della
capitale. Allora la vecchia metropoli piemontese, che credeva
ingenuamente di aver conquistato l'Italia, s'inquietò: si
sapeva che Vittorio Emanuele era contrario alla convenzione per
dignità di re italiano e più per orgoglio di principe
savoiardo; una ressa di popolo tumultuante assalì gli uffici
della Gazzetta di Torino, e non si sperdette che sotto i colpi di
daga dei poliziotti; il consiglio municipale raccolto a seduta
improvvisa protestò; circolavano voci di altre cessioni
territoriali alla Francia; si temeva per l'integrità
piemontese; il ministero con singolare inettezza, non prevedendo
tanto subbuglio, non aveva preso precauzioni, e non osava prenderne.
Il tumulto degenerò in ribellione, la legione degli allievi
carabinieri tirò sul popolo inerme che gridava:
«Abbasso il ministero!»; la sera appresso nuove
rappresaglie ed altro sangue. Si contarono 23 morti e 80 feriti, fra
i quali un colonnello. La guardia nazionale potè a stento
frenare la strage. Finalmente il re costrinse il ministero a
dimettersi, incaricando il Lamarmora di formare il nuovo gabinetto,
e lo sdegno municipale della città si placò in una
indefinibile speranza sul nome di questo illustre piemontese.
Trasporto della capitale a Firenze.
Nel resto d'Italia le solite proteste e null'altro.
Mazzini in articoli roventi di dolore patriottico encomiò il
tumulto torinese fingendo di crederlo ispirato da un alto senso di
italianità; la publica opinione invece, mal disposta verso
Torino, accettò piacevolmente l'idea di una nuova capitale a
Firenze, e rise colla tradizionale furberia politica dello spirito
italiano sul papa e sull'imperatore, che potevano credere sul serio
alla rinunzia a Roma.
I massacri di Torino vendicavano in certo modo i morti di
Aspromonte.
Il Lamarmora, benchè avverso alla convenzione, dovette
subirla; solamente a sgravarsi della troppa responsabilità
ottenne che il trasferimento della capitale si compiesse per legge
anzichè per decreto reale, e la decorrenza del termine per lo
sgombro delle truppe francesi da Roma cominciasse dal giorno della
sua promulgazione. Il parlamento, convocato per discutere questa
legge, recriminò sul ministero caduto votando una inchiesta;
il municipio torinese di rimpatto ne iniziò un'altra. Quindi
il gabinetto francese, commentando in una nota diplomatica la
convenzione per rendere più evidente la rinunzia italiana a
Roma, dichiarò fra i mezzi violenti interdetti all'Italia per
entrare in Roma anche i maneggi di agenti rivoluzionari; e si
riservò, nel caso di una spontanea rivoluzione nella
città eterna, ogni libertà d'azione.
Allora il Lamarmora in una nota di risposta dovette riaffermare che
eseguendo la convenzione alla lettera non intendeva contraddire alle
aspirazioni nazionali, nè vincolarsi qualora scoppiasse in
Roma una simile rivoluzione.
La discussione della legge in parlamento durò tempestosa dal
7 al 19 novembre.
Il ministero vi si mostrò al di sotto della propria
dignità. Si sarebbe voluto, e il Boggio ne fu uno fra i
più caldi oratori, che la Camera accettasse senza controllo
la convenzione già firmata dal re e dall'imperatore; il
ministro Giovanni Lanza sostenne con ingenua improntitudine che la
convenzione avendo avuto l'assenso dell'imperatore non poteva
decentemente discutersi dal parlamento; la sinistra combattè
abbastanza nobilmente invocando i plebisciti, che la convenzione
avrebbe distrutti, ma, soffocata nella propria antitesi di partito
rivoluzionario e parlamentare, rimase senza efficacia. In
così suprema questione le sarebbe bisognato il coraggio di
dimettersi in massa per appellarsi al paese; ed invece, malgrado la
rinuncia a Roma, Francesco Crispi, uno de' suoi capi più
autorevoli, sostenne che la monarchia ci unificava e la republica ci
avrebbe divisi. Mazzini gli rispose invano con una lettera tremenda
d'ironia. Il Mordini, simpatico oratore e rivoluzionario di recente
convertito alla monarchia, votò la convenzione scusandosi col
sofisma traditore che le transazioni temporanee della politica
officiale non infirmavano la sanzione popolare della nazione alla
sua capitale; Giuseppe Ferrari, genio scetticamente profondo,
l'accettò giudicando Roma piuttosto sepolcro del cattolicismo
che culla di una terza Italia.
Poco dopo la Camera su proposta di Ricasoli rinunciava a discutere i
risultati dell'inchiesta sui casi di Torino, lasciando i ministri
colpevoli atteggiarsi a Catoni. Quindi una voce circolante, ed era
forse vera, commosse vivamente la publica opinione. Si temette che
colla rinunzia a Roma e cogl'impegni assunti di difendere il papa da
qualsiasi atto esteriore, il governo si fosse pure vincolato ad
impedire qualunque attacco al Veneto e, nel caso propizio di un
ricupero di questa provincia, a rettificare nuovamente le frontiere
piemontesi colla Francia sulla linea della Sesia. Mazzini sempre
bene informato denunciò particolareggiandolo questo segreto
protocollo; il Villa, oratore piemontese di parte democratica,
commentò questa rivelazione, che un discorso imperiale al
parlamento francese parve riconfermare: il ministero respinse
alteramente tale accusa.
Intanto l'odio municipale di Torino cresceva a segno da mutarsi in
fervido amore d'italianità per dispetto a Firenze e alla
monarchia. Una vasta associazione politica coagulatasi
improvvisamente coi più vari elementi piemontesi scomponeva i
partiti della Camera: il suo motto d'ordine era il grido
d'Aspromonte - Roma o morte! - Moderati e democratici si stringevano
in falange per combattere tutti i ministeri, nei quali governassero
gli uomini che avevano offeso Torino, e spingerli a forza, come per
vendetta, su Roma. Così la rivoluzione traeva nella propria
orbita i più restii conservatori di quel Piemonte che aveva
sempre considerato l'Italia come terra di conquista. La cosa giunse
a tale che si vide persino il Boggio, uno fra i più accaniti
nemici di Mazzini, trattare col grande esule a nome di questa
associazione per eccitare nuovi moti di ribellione nel Veneto.
Invero il governo, ostinato nel proprio concetto di una rinunzia a
Roma, non solo ritirava un incertissimo schema di legge sull'asse
ecclesiastico onde non sopprimere le corporazioni religiose, i beni
delle quali avrebbero rinsanguato le finanze, ma ritentava una
riconciliazione col papato. Nè l'ultima enciclica Quanta
cura, stridente di recriminazione contro l'Italia, nè il
Sillabo, ove si condannavano in ottanta proposizioni quasi tutti i
postulati del pensiero civile moderno, parevano nuovi ostacoli ai
ministri. La Curia romana colla solita malizia si prestò al
giuoco: Pio IX scrisse una lettera a Vittorio Emanuele per
provvedere di buon accordo alle numerose vacanze delle sedi
vescovili nel regno; il governo deputò a Roma il Vegezzi,
magistrato illustre; corsero cortesie d'ambo le parti, e si
finì necessariamente ad una rottura, giacchè la Curia
ricusò ostinatamente al re il diritto all'exequatur e al
giuramento dei vescovi.
Ma nemmeno quest'ultimo smacco persuase al governo migliore
politica; anzi il Lanza uscì dal ministero per non averlo
potuto spingere a maggiori concessioni verso il Vaticano, mentre il
ministro Natoli sospendeva la guerra aperta contro i seminarii.
Nel giugno del 1865 la capitale s'insediava a Firenze, ma i
francesi, secondo i termini della convenzione, rimanevano ancora a
Roma nè alleati, nè mercenari, nè presidio del
pontefice, che la monarchia italiana avrebbe dovuto tutelare e i
romani sostenere. La loro presenza, dopo il sacrificio di Torino e
l'abdicazione a Roma, diventava il peggiore degli oltraggi pel
governo di Firenze così guardato a vista dagli austriaci e
dai francesi, sbertato dal papa, accusato di tradimento dalla
rivoluzione. Se a Torino l'Italia soffocava nell'angustia dell'idea
piemontese, a Firenze avrebbe dovuto perire per la mancanza di una
qualunque idea: da Torino si poteva guardare fiso a Roma aspettando
il momento per lanciarsi al suo assalto; a Firenze non rimaneva
più che aspettare nuovi ordini dalla Francia.
Intanto la piccola e bella metropoli coll'audacia mercantile dei
suoi tempi migliori si gettava a spese d'ogni sorta per ospitare
nobilmente il governo nazionale; nessuno credeva sul serio alla
precarietà della nuova capitale; corte e ministeri
incuoravano il municipio; si demoliva, si fabbricava, si abbelliva,
si lussureggiava così che in pochi anni il debito municipale
raggiunse la cifra enorme di centocinque milioni.
Questo scandalo trascinò altri municipii; i debiti parvero un
contagio; all'imminente fallimento del governo si aggiunse il
dissesto delle provincie e delle più grosse città,
mentre il giovane regno minacciato simultaneamente dall'Austria,
dalla Francia e dal papa, perdeva colla sincerità del proprio
principio rivoluzionario la sola originalità, che potesse
crescergli la vita.
Capitolo Settimo.
La prima guerra italiana nel Veneto.
Cospirazioni regie e democratiche.
Ambo le politiche avevano fallito davanti al problema di Roma.
Quindi Mazzini in una protesta veemente dichiarò di
riprendere tutta la propria libertà d'azione pel compimento
dell'unità nazionale senza o contro la monarchia: Garibaldi
invece seguitò a tacere per non provocare altri conflitti
fratricidi fra governo e paese. Quegli e questi cercarono aiuti
nella democrazia estera mirando a coordinare i nuovi moti italiani
ad una rivoluzione di tutti i popoli, specialmente slavi, aspiranti
alla nazionalità.
La politica delle alleanze passava così dalla tradizione
cavouriana nell'azione rivoluzionaria a riconfermare che l'Italia
con un esercito di trecentomila uomini e quasi venticinque milioni
di popolazione non bastava ancora a riconquistare le proprie
provincie di Roma e di Venezia.
Dal proprio canto Vittorio Emanuele, insofferente delle troppe
umiliazioni, imitando da lungi i tortuosi avvolgimenti della
politica napoleonica, ordiva trame segrete con rivoluzionari esteri
e nazionali. Nella bramosia d'integrare al più presto
possibile il grosso regno regalatogli dalla fortuna, egli per
scrupoli invincibili di cattolico intendeva anzitutto al Veneto.
Contro l'Austria ferveva tutto il suo coraggio di soldato e il suo
patriottismo di re: per opposte ragioni i suoi disegni concordavano
quindi con quelli di Mazzini persuaso dell'impossibilità per
Napoleone di cedere Roma all'Italia. Re e republicano, di
cospirazione in cospirazione, tra ungheresi e galiziani, serbi e
rumeni agitantisi ad oriente dell'Austria, finirono
coll'incontrarsi. Un segreto ascendente di re patriota, superiore
alla politica della propria monarchia, dava a Vittorio Emanuele un
forte vantaggio nelle nuove trattative con Mazzini, dacchè
Garibaldi, malgrado i tradimenti sofferti, seguitava a credere nella
sua parola. La glorificazione del re, prodotta da tutte le glorie
assorbite dalla rivoluzione, dominava inconsciamente l'uno e l'altro
sino a farli credere che Vittorio Emanuele potesse davvero
contrapporsi con nobile iniziativa al proprio governo. La sua
bravura di soldato nelle battaglie dell'indipendenza quando tutti
gli altri re fuggivano, il suo generoso cordoglio per la pace di
Villafranca, l'alterezza ingenita di certi sentimenti significati
nelle crisi più dolorose della patria, e sopratutto il
bisogno istintivo di trovare qualche epica grandezza nella forma
politica prescelta dall'Italia a risorgere, persuadevano a molti che
nel re fosse qualche geniale originalità d'eroismo.
L'evidenza di troppi fatti contrarii non bastava in quell'orgasmo
del dover risolvere in qualche modo i due ultimi e massimi problemi
della rivoluzione.
Diplomatico onesto e fine degli accordi fra Mazzini e Vittorio
Emanuele fu l'ingegnere Diamilla Müller: l'occasione ne venne
dal conflitto dano-germanico, nel quale Austria e Prussia si
allearono momentaneamente quasi a conquistare nelle provincie dello
Schleswig e Holstein il pretesto della terribile guerra, che doveva
indi a poco rimutare tutte le condizioni politiche della Germania.
L'Inghilterra, impensierita dalle minacce dell'espansione tedesca,
spiava di mal occhio la guerra danese, favoreggiando con magnifiche
accoglienze in Londra a Garibaldi le aspirazioni italiane; Napoleone
III al solito aveva proposto indarno un congresso europeo e blandiva
la Russia accarezzando contemporaneamente le democrazie slave per
tener l'Austria in freno. I rivoluzionari italiani tornavano ad
agitarsi in speranze di guerra: Vittorio Emanuele avrebbe desiderato
una qualunque iniziativa, ma non osava assumerne la
responsabilità. Quindi nelle trattative con Mazzini tentava
trascinare le forze del partito rivoluzionario entro l'orbita della
propria politica regia senza abbandonarsi a concessioni. Il suo
disegno era che Mazzini spingesse a rivolta la Galizia, l'Ungheria e
gli altri principati lasciando il Veneto in calma, perchè il
governo potesse poi scegliere con maggior comodo e rischio minore il
momento di romper guerra all'Austria. Naturalmente Mazzini non
potè piegarsi a questo egoismo di re, che non voleva nel
proprio regno la rivoluzione per non correrne i pericoli, mentre
invece l'Italia, avendola già compita nella massima parte, si
trovava contro l'Austria in migliori condizioni di rivolta che gli
altri popoli.
Le trattative andarono in lungo. Intanto che il re cospirava
segretamente, il ministero proseguiva nella persecuzione dei
rivoluzionari: si sequestravano le armi raccolte per una
insurrezione veneta dai comitati mazziniani e garibaldini; i
moderati della Società Nazionale dentro e fuori delle
provincie venete spargevano semi di discordia e di scoraggiamento;
Vittorio Emanuele stesso dichiarava di esser pronto a reprimere con
qualunque mezzo ogni tentativo ribelle non solo verso il Veneto, ma
nell'interno del Veneto.
La politica segreta del re non era che un dilettantismo
rivoluzionario, troppo poco dissimile da quella del suo governo:
giacchè, dopo aver profittato di tutti i sacrifici della
rivoluzione italiana, egli avrebbe voluto con ingenua furberia
sfruttare in un primo accordo tutta la democrazia europea senza
nè sottrarsi davvero al vassallaggio francese, nè
assalire il papato, nè largheggiare di libertà cogli
stessi rivoluzionari nazionali. Infatti a capo della polizia
sbraveggiava sempre contro questi Silvio Spaventa. Nullameno
Vittorio Emanuele non cessò dalle trame nella Galizia e
nell'Ungheria; da Parigi Napoleone III vi mestava anche più
vivamente.
Il governo segreto della rivoluzione polacca aveva proposto a
Garibaldi di assumere il mandato di capo morale dell'insurrezione,
conferendo al figlio Menotti il comando di una legione italiana per
la Galizia, e Garibaldi aveva accettato: nella Serbia, nella
Moldavia, nel Montenegro, nell'Albania si raccozzarono bande di
armati: un Bulewsky venne a Torino per accordarsi col re, il quale,
avendo finito col rivelare la cospirazione al ministero, ne
accettò il consiglio di servirsi di questa «per
allontanare dal regno torbidi elementi, indisciplinati agitatori e
pericolosi cercatori di novità».
Intanto si era trattato con Napoleone III la rinunzia a Roma col
trasferimento della capitale a Firenze.
Garibaldi, sempre confidente nella parola del re, aveva promesso di
seguire immediatamente i successi delle cose di Galizia e di
Ungheria colla guerra nella Venezia, e si preparava già a
capitanare personalmente la rivoluzione slava: nel suo concetto
doveva essere questo il primo pegno della nuova vita italiana
all'Europa. Ma alla voce della sua partenza dall'Italia i più
chiaroveggenti fra i patrioti, sospettando dopo gli esempi di
Sarnico e d'Aspromonte il tranello, iniziarono pubbliche proteste:
il re spaventato mandò allora a Garibaldi un ordine di
soprassedere; questi piegò. Intanto la Polonia soccombette
alle repressioni del feroce Murawieff, la Danimarca cadde sotto la
strapotenza dell'alleanza austro-prussiana; in Italia proseguirono
le persecuzioni ai patrioti: Mazzini fu accusato dai più puri
fra i suoi seguaci per i tentati accordi col re; Garibaldi,
piuttosto che raggirato da perfidie diplomatiche, parve come sempre
pronto a tutti i sacrifici per la libertà universale.
Nullameno l'orgasmo di queste cospirazioni non si acquetò nei
rivoluzionari. Tutto il Trentino sembrava pronto ad insorgere,
quando certo Rossi negoziante denunziò la congiura
all'Austria: v'ebbero al solito arresti e condanne, che
paralizzarono l'imminente moto nel Veneto; solo nel Friuli alcune
bande guidate da un Tolazzi e da un Andreuzzi, intrepidi fra i
più intrepidi garibaldini, insorsero. La novella della
piccola insurrezione ingigantita dai racconti di piazza agitò
Milano e qualche altra grossa città lombarda: il Comitato
centrale del partito d'azione, allora presieduto a Torino da
Benedetto Cairoli, titubò malgrado tutte le istanze di
Mazzini; Ergisto Bezzi, uno fra i più sperimentati ufficiali
garibaldini, arruolava emigrati veneti, trentini e quanti volontari
lombardi potesse. Il nuovo disegno di guerra tracciato da Mazzini
era di formare bande su tutte le località montuose del
Friuli, del Cadore e dei Sette Comuni per congiungersi a quelle che
sorgessero nel Trentino, tenere a bada con grosse dimostrazioni i
presidii nelle città venete serbando Brescia a centro di
riunione. Ergisto Bezzi con rapida marcia doveva da Bagolino
guadagnare Tione, mentre altri marcerebbero da Limone a Riva per
muovere uniti su Trento.
Invece il Comitato centrale di Torino, composto di uomini
parlamentari, dichiarò intempestiva la spedizione negandovi
soccorsi: parve tradimento e non era che debolezza; il governo
moltiplicò ostacoli e minacce. Garibaldi tacque sfiduciato,
il resto d'Italia derise l'impresa. Però Ergisto Bezzi,
troppo compromesso, dovette tentarla con i più animosi, e
partito il giorno 13 novembre (1864) da Brescia con centocinquanta
volontari fu arrestato il 16 da un capitano dei carabinieri sul
giogo del Manivo, trascinato ad Alessandria con tutta la banda,
minacciato di condanna, e finalmente liberato per ordine del
Ministero poco disposto allo scandalo di così grande
processo.
Gli altri insorti del Friuli, occupate il 16 ottobre le grosse terre
di Spilimbergo, Aviano e Maniago disarmandone i presidii senza colpo
ferire, dopo qualche fortunata scaramuccia contro le soldatesche
austriache spedite a perseguirli, mentre i commissari imperiali di
Venezia e di Udine ponevano con bandi feroci sotto la legge stataria
i distretti della rivolta, dovettero disperare dell'impresa. La
cattiva stagione, le poche armi, la terribilità del nemico,
l'abbandono di tutti, vinsero il loro giovanile coraggio; quindi la
piccola truppa si sciolse senza onore di battaglia.
A questo aveva concluso l'iniziativa rivoluzionaria italiana, nella
quale Vittorio Emanuele, Mazzini, Garibaldi e tutti i migliori si
erano intesi per affrettare colle armi la soluzione del problema
veneto.
Poco dopo Mazzini subì due altre grandi disillusioni circa
l'appoggio dell'agitazione piemontese ai suoi disegni, e nel
tentativo di una confederazione di tutte le società
democratiche nazionali. Il patriotismo di Torino, inspirato da un
rancore municipale, si stancò presto di un lavoro
rivoluzionario, pel quale non aveva sincerità nè di
fede nè di passione: la federazione delle forze republicane
venne meno al doppio scopo politico e finanziario. Mazzini non ne
ricavò che l'inventario delle miserie della propria parte: fu
impossibile trarne denaro per altri tentativi di insurrezione, e
precisare loro una qualunque azione dentro o fuori del parlamento. I
più abili vi erano entrati indarno, i più puri non
avrebbero voluto nemmeno partecipare alle elezioni contro l'opinione
di Mazzini stesso, che sostenne contraddicendosi il concorso alle
urne per le prime elezioni di Firenze.
Il dualismo fra Garibaldi e Mazzini impediva nel partito
rivoluzionario qualunque azione: senza Garibaldi, sempre fedele alla
monarchia, non una banda di volontari si sarebbe raccozzata; senza
Mazzini, tornato avversario implacabile della monarchia, nessun
programma politico era possibile. La nuova Camera, uscita dalle
elezioni generali dell'ottobre 1865, si compose quindi della
sinistra democratica, della vecchia consorteria moderata, e dei
dissidenti piemontesi capitanati da Rattazzi col nome di terzo
partito: Mazzini, eletto replicatamente a Messina, fu mantenuto in
esilio dal parlamento malgrado ogni giustizia, perchè la sua
presenza in Italia vi avrebbe prodotto agitazioni dolorose ed
inutili. Naturalmente la discussione alla Camera fu desolante di
sofisticheria e di calunnie; il partito piemontese, dianzi suo
alleato, votò il suo esilio ad un cenno di Rattazzi.
La preparazione prussiana.
Dalla guerra franco-sarda del 1859 le condizioni politiche non erano
cangiate.
Come quella non era stata possibile senza il concorso della
monarchia piemontese e dell'impero napoleonico, così un'altra
guerra per la conquista della Venezia non poteva arrischiarsi senza
l'aiuto di una nuova grossa alleanza. Fortunatamente il principio
rivoluzionario del secolo, urgendo con diverso processo e misura
tutti i popoli d'Europa all'integrale costituzione delle proprie
nazionalità, preparava la Germania al soccorso della
rivoluzione italiana.
Necessità di sbocchi marittimi e pretese nazionali spingevano
la Germania oltre i propri confini settentrionali verso la regione
danese e il mare del Nord. Incentivo a questa passione erano le
provincie di Holstein Lauenburg e dello Schleswig, quasi tutta
tedesca la prima, danese per la maggior parte la seconda, entrambe
dipendenti per combinazioni dinastiche dalla Danimarca e per
combinazioni politiche dalla Confederazione germanica. Secondo il
trattato di Londra (1852), alla morte di Federico VII essendo
succeduto alla corona danese il principe Cristiano di
Schleswig-Holstein, e avendo il parlamento negli ultimi giorni del
regno precedente colla riforma della costituzione considerato il
ducato di Schleswig come libero dai vincoli che stringevano
l'Holstein-Lauenburg alla Germania, la lite dei confini non mai
composta con questa si rinfocolò. La Dieta germanica
minacciò l'esecuzione federale sui due Ducati dell'Elba: il
governo danese rispose alle minaccie con forti preparativi di guerra
fidando nell'appoggio della Svezia e dell'Inghilterra. Il conflitto
parve scongiurato per un istante, ma Ottone di Bismarck divenuto in
quei giorni grande cancelliere della Prussia, potè
abilissimamente eliminarne la Dieta associandosi l'Austria ad una
guerra di conquista contro la Danimarca (gennaio 1864). Naturalmente
la vittoria rimase ai due forti alleati, però con siffatte
difficoltà di ordinamento politico nei due Ducati, da
provocare presto fra i vincitori più vasta guerra.
Infatti la rivoluzione germanica, dopo la prova infelice della Dieta
di Francoforte e le reazioni sanguinose di Berlino e di Vienna,
spingeva la Prussia a mutarsi in campione dell'unità contro
la egemonia austriaca. La grande tradizione di Federico II pesava
sulla sua dinastia: la Prussia doveva diventare il Piemonte della
Germania con tutti gli equivoci di una eguale politica regia
peggiorata da più retrive ripugnanze nella corte alla grande
opera di un nuovo impero tedesco. Ottone di Bismarck, forse meno
destro ma più forte del conte di Cavour, appena chiamato al
governo si era accinto alla guerra contro l'Austria. La sua alleanza
con questa contro la Danimarca non era stata che un espediente per
rialzare la Prussia dalla lunga soggezione austriaca in faccia alla
Germania e dare un pubblico saggio della sua nuova forza militare.
Sciaguratamente corte e parlamento gli contrastavano con pari
ostinazione il disegno. La corte imbevuta ancora delle idee
assolutiste proclamate dalla Santa Alleanza aborriva dalla
rivoluzione: il nuovo re Guglielmo, macchiatosi di sangue nella
repressione di Berlino, era odiato dal popolo e odiava ogni
libertà popolare: di rimpatto il parlamento, proseguendo nel
dottrinarismo infecondo della Dieta di Francoforte, combatteva il
governo fino a ricusargli il voto dei bilanci per chiedergli
libertà costituzionali prima che l'unità della patria
fosse conquistata.
In Prussia come in Italia i rivoluzionari sognavano d'iniziative
popolari trionfanti con metodi costituzionali, mentre invece le
rivalità federali e l'impreparazione del popolo in ambo i
paesi costringevano la rivoluzione ad organizzarsi entro una salda
monarchia per trovarvi le forze militari e politiche necessarie alla
guerra contro l'Austria. Ma se in Italia la preparazione piemontese
potè svolgersi colla dittatura parlamentare del conte di
Cavour, conservando alla Camera l'apparenza della libertà
costituzionale, nella Prussia, più tenace delle proprie
tradizioni feudali, con una dinastia più reazionaria della
sabauda, con una democrazia troppo dotta d'idealismo nei borghesi e
così povera di sentimento nel popolo da non avere
rappresentanti che nemmeno lontanamente somigliassero a Garibaldi e
a Mazzini, la preparazione si addensò segreta e violenta
nella duplice opera del ministro Bismarck e del generale Roon.
Rendere inevitabile un conflitto coll'Austria sottraendo prima alla
sua influenza quanti stati minori si potesse, sconfiggere in una
guerra improvvisa con un esercito superiormente organizzato questo
impero debole e superbo della propria eterogeneità,
travolgere in questa guerra la dinastia prussiana costringendola suo
malgrado ad allearsi colla rivoluzione germanica per fondare un
nuovo impero, impadronirsi delle forze latenti della rivoluzione
negandola apertamente e forzandola a convergere per passione di
patria nel governo, ecco il disegno del più originale fra gli
uomini politici di questo secolo. A volta a volta prepotente nella
volontà come Napoleone e pur serbandosi agile nella
diplomazia quanto Talleyrand; tiranneggiando simultaneamente corte,
parlamento e popolo; più inflessibile nell'orgoglio dell'idea
germanica che nella sicurezza del proprio metodo, egli potè
da prima non sospettato, poi deriso, quindi temuto, ammirato, quasi
adorato dalla propria nazione, farne la prima potenza militare
d'Europa, e rovesciare due imperi, compiere la rivoluzione italiana,
dominare per vent'anni tutte le rivoluzioni balcaniche, sempre
vittorioso su tutti i campi, senza che la sua politica dovesse mai
degradarsi come l'italiana in negazioni antipatriottiche, o
mendicare indarno da stranieri alleati rispetto ai propri diritti
dopo aver subìto il loro concorso come un protettorato e
ottenuto dalle loro mani alcune provincie come una elemosina.
Alla guerra di Danimarca, che Napoleone III e l'Inghilterra
avrebbero voluto impedire, successe la pace di Vienna (1864), colla
quale il re di Danimarca rinunziava ad ogni diritto sui Ducati di
Schleswig-Holstein e Lauenburg, e si obbligava a riconoscere quanto
su questi potessero disporre i sovrani d'Austria e di Prussia.
Quindi i conquistatori col trattato di Gastein, riserbata la
sovranità comune sui Ducati, se ne divisero
l'amministrazione: quella dell'Holstein toccò
provvisoriamente all'Austria, l'altra dello Schleswig alla Prussia.
Questa convenzione, definita con disprezzo da Bismarck una
cazzuolata alle screpolature dell'edificio, doveva procurargli anche
troppo presto il motivo della grande guerra. Infatti i due
governatori dei Ducati proseguirono ad osteggiarsi apertamente
appoggiando ed oppugnando il pretendente principe di Augustenburg:
il maresciallo austriaco Gablenz nell'Holstein spingeva a
dimostrazioni popolari verso il principe per riunire sotto il
governo nominale di questo i Ducati alla confederazione; il generale
prussiano Manteuffel nello Schleswig reprimeva tali manifestazioni
manovrando a trarre i Ducati sotto il dominio esclusivo della
Prussia.
Ma per combattere l'Austria, ancora in credito di grande potenza
militare, Bismarck, malgrado la temerità del proprio ingegno
sentiva il bisogno di un'alleanza. Da molti anni la sua idea
politica mirava ad isolare l'Austria: quindi, appena salito al
governo, aveva dato mano alla Russia per soffocare l'ultima
rivoluzione polacca e farsela così propizia contro l'Austria,
cui lo czar non poteva perdonare il contegno subdolo e minaccioso
tenuto nella guerra d'Oriente. Poi a Biarritz aveva saputo
neutralizzare Napoleone III, facendosi credere poco meno di un pazzo
nell'esporgli francamente i propri disegni contro l'Austria.
Ma solo un'alleanza italiana, prendendo l'Austria fra due fuochi,
poteva garantire una pronta vittoria prussiana. Già sino
dalla guerra franco-sarda Bismarck, mandato ambasciatore a
Pietroburgo, aveva consigliato il proprio governo ad aiutare la
liberazione dell'Italia per prendere il posto dell'Austria in
Germania: non ascoltato allora dal ministro Schleinitz e dal re,
aveva nullameno maturato la propria idea. Al principio del 1864, per
la prossima scadenza dello Zollverein, aveva aperto pratiche col
governo italiano onde stringere un trattato di commercio, che i
dissidi della confederazione e la guerra colla Danimarca gli
imposero di sospendere: quindi nel maggio del 1865 lo riproponeva.
Il governo italiano, accettandolo prontamente, vi poneva a solo
patto l'adesione di tutti gli stati componenti lo Zollverein per
trarli così al riconoscimento del regno d'Italia. Baviera e
Sassonia premute dalla Prussia aderirono; Annover e Nassau
ossequienti agli ordini di Vienna ricusarono. Pochi mesi dopo
Bismarck faceva chiedere dal ministro prussiano in Firenze al
Lamarmora se, date certe contingenze, l'Italia unirebbesi alla
Prussia per fare la guerra all'Austria.
Era la ripetizione delle prime proposte d'alleanza francese nel
1858.
Trattative ed apparecchi.
Il Lamarmora rispose con soverchia circospezione domandando
più chiare proposte: quindi alla convenzione di Gastein,
frutto delle esitanze della corte berlinese, che obbligò
Bismarck a sospendere qualunque trattativa d'alleanza, rimase come
acciecato dal bagliore di così grande speranza. Infatti, con
inescusabile cecità non solo tentò la corte di Vienna
per un componimento amichevole della questione veneta attirandosi
dalla cancelleria il più sprezzante diniego, ma con
tristissimo espediente finanziario consentì, per riguardi di
bilancio, a ritardare la leva dell'anno e a vendere un grosso numero
di cavalli, indebolendo il già debole esercito.
Da Parigi l'ambasciatore Nigra con non maggiore intelletto della
situazione europea mandava a Firenze consigli di disarmo e di
rinuncia ad ogni prossima soluzione del problema veneto.
Giammai la politica italiana si era mostrata più inane. Ma il
disegno di Bismarck stava per trionfare anche di lui stesso
costringendolo, benchè nemico della rivoluzione, a proporre
nella Confederazione un parlamento nazionale a base di suffragio
universale e diretto. Idea germanica e idea nazionale vi si
fondevano così nella più irresistibile unità:
l'Austria veniva respinta dalla Confederazione; la Prussia, vindice
del diritto moderno, assurgeva campione della Germania.
La proposta di questo parlamento nazionale, equivalente ad una
dichiarazione di guerra, era la prima conseguenza dell'alleanza
italo-prussiana, che Bismarck aveva potuto finalmente persuadere ai
due governi. In essa però l'Italia con scarsa dignità
aveva dichiarato di non impegnarsi per oltre tre mesi e, come
condizione essenziale, di non intimare guerra all'Austria se non
quando la Prussia avesse già aperte le ostilità. Tale
eccessiva circospezione rendeva naturalmente l'Italia satellite
della Prussia. Infatti le umiliazioni le fioccarono sopra anche
prima che la guerra fosse cominciata.
La diplomazia europea, spaventata dalle conseguenze del vasto
conflitto, tentò coi soliti espedienti di impedirlo: una
prima proposta di disarmo cui Bismarck dovette cedere per riguardo
della propria corte ancora repugnante alla guerra, scoperse
l'Italia, giacchè l'Austria ormai sicura al nord mandò
giù nel Veneto un grosso corpo di soldatesche. Da Londra lord
Clarendon, persuaso che l'Austria fosse necessaria all'equilibrio
della politica europea, accusava il gabinetto italiano di
provocazioni; a Parigi il ministro degli esteri, spingendo
l'improntitudine oltre tutti i confini dell'ingiuria, mallevava al
legato austriaco Metternich che l'Italia non avrebbe mai assalito
per la prima; da Berlino Bismarck per comando del proprio re,
disdiceva l'obbligo di soccorrere l'Italia anche se aggredita
dall'Austria.
A queste oltraggiose ingiustizie il ministro Lamarmora rispondeva
colla più donchisciottesca cavalleria, giacchè
l'Austria, fatta persuasa indi a poco della inevitabilità di
una guerra colla Prussia, per meglio vincere la partita, offriva
d'accordo con Napoleone III la cessione spontanea del Veneto; e il
gabinetto di Firenze ricusava. Dopo il tradimento di Bismarck parve
al Lamarmora nobile politica rifiutare la Venezia dalle mani
dell'Austria per arrischiare una guerra, che non poteva giovare se
non all'infedele alleato; mentre diritto nazionale ed internazionale
avrebbero permesso all'Italia di ritirarsi da un'alleanza già
disonestamente disdetta.
La grande tradizione di Cavour non assisteva più la politica
italiana ridotta ad un'alternativa di servilità troppo basse
e di preziosità cavalleresche troppo retoriche.
I maneggi diplomatici non s'arrestarono a questa guasconata d'onore:
un congresso fu indetto a Parigi per comporre la vertenza (27 maggio
1866); l'Italia vi acconsentì, dichiarando di sperare dal
congresso la retrocessione della Venezia; la Prussia vi aderì
senza riserve; la Dieta germanica invece ricusava di sottomettere
tali questioni della propria politica interna ad alcun arbitrato;
l'Austria domandava, insistendo per l'invito della corte di Roma al
congresso, che nessuna potenza vi potesse chiedere aumenti di
territori, e si fosse stabilito il trattato di Zurigo per punto di
partenza alle nuove trattative.
Naturalmente il congresso fallì.
Quindi (7 giugno 1866) il generale prussiano Manteuffel passava
l'Eider invadendo l'Holstein.
In Italia gli apparecchi furono spinti alacremente: si
consentì un prestito forzoso di 50 milioni all'interno e un
mutuo di 250 milioni colla banca nazionale all'1-1/2% con cedole al
corso forzoso: espediente, che, reso più triste dai disastri
militari, doveva far discendere il consolidato italiano verso il
40%, e rimanere lunghi anni come balzello esiziale su tutte le
produzioni e i commerci nazionali. Con insano terrore di nuova
reazione borbonica si permise al governo di mandare a domicilio
coatto per semplici indizi quanti individui fossero sospetti di
ostilità al nuovo ordine di cose: la facoltà durava al
governo tre mesi, e la relegazione ai sospettati un anno. Con
decreto reale si autorizzò la formazione di dieci reggimenti
di volontari con Garibaldi a duce supremo, si mobilitarono le
milizie nazionali, si apprestò in poche settimane un esercito
di 300 mila uomini. Commessa la luogotenenza del regno al principe
di Carignano, e partito il generale Lamarmora pel campo, il
ministero dovette rimpastarsi: n'ebbero la presidenza il Ricasoli,
il Visconti-Venosta gli esteri, il Depretis avvocato la marina.
Il parlamento, largheggiando colla corona, accordò al governo
ogni straordinario potere durante la guerra: esigere nuove imposte,
anche se votate da un ramo solo del parlamento; promulgare la legge
per la soppressione delle corporazioni religiose e il riordinamento
dell'asse ecclesiastico, quantunque non discusso nel senato, che non
lo avrebbe forse approvato; provvedere per decreto reale alle grandi
opere pubbliche specialmente ferroviarie. Così malgrado la
guerra e la crisi economica, si poterono compiere il breve tempo e
senza maggior onere dell'erario, congiungendo con l'Italia centrale
le provincie venete, le linee da Ferrara a Rovigo, da Firenze a
Napoli per Roma, da Messina a Catania, da Pavia per Cremona a
Brescia.
Era quasi una dedizione parlamentare giustificata dall'entusiasmo
del momento e dalla coscienza di una necessaria dittatura.
Ma la guerra si apprestava con tristi auspicii. Politicamente la
posizione dell'Italia era già guasta dall'arbitrario
intervento di Napoleone, cui l'Austria aveva offerto di cedere la
Venezia perchè la rimettesse al governo di Vittorio Emanuele:
si sentiva oscuramente da tutti che l'azione italiana non era
più libera, dacchè il protettorato francese tendeva
ora a salvare l'Austria da un ultimo sfacelo. L'esercito, non ancora
ben fuso, nè abbastanza addestrato, era minato da
rivalità di generali e di regioni: non buone le armi,
migliore la disciplina, ma scarsa la fede nei capi, e in questi
l'abilità e la gloria. Il concorso dei volontari, che
avrebbero potuto crescere sino a centomila e si vollero ridotti
appena ad un terzo, era giudicato dal governo piuttosto un pericolo
che un aiuto: malgrado la fede in Garibaldi, si temeva sempre di
qualche moto rivoluzionario, se una sconfitta avesse compromesso la
monarchia. Perciò si era pensato prima a gittare Garibaldi
sulla Dalmazia per sollevare alle spalle dell'Austria con forte
diversione Slavi ed Ungheresi, ma questo ardito proposito venne
presto mutato perchè importava un attacco aggirante
anzichè diretto del quadrilatero. La guerra avrebbe allora
dovuto procedere colla massima celerità, proteggendo con due
corpi Milano e Firenze, marciando su Venezia per attirare il nemico
in campo aperto, e minacciando Vienna. Era questo il disegno
proposto dal grande stratega Moltke per mezzo del legato Usedom, e
suggerito con opposte intenzioni rivoluzionarie ma pari intuizioni
di guerra da Mazzini: Garibaldi sulle coste dalmate avrebbe potuto
con cinquantamila volontari essere di valido aiuto. Invece si volle,
malgrado l'esperienza infelice del 1848 e 1859, tentare l'attacco
diretto sul quadrilatero reso imprendibile da nuove fortificazioni.
Il Lamarmora ricusò per orgoglio di generale il disegno
offerto da Moltke, e piegò come ministro agli intendimenti di
Napoleone, che voleva la guerra italiana limitata al minore sforzo
possibile: sciaguratamente la rivalità col Cialdini, cui si
era con inescusabile parzialità conferito pari comando,
finì di guastare il disegno di guerra adottato. Garibaldi,
internato nel Tirolo con scarse forze, malissimo armate al solito e
contrastate con ogni maniera d'intrighi, non era più che un
prigioniero della monarchia, abbastanza furba per trarre la
gioventù rivoluzionaria in tale nobile domicilio coatto.
La marina, della quale pel vantaggio numerico delle navi si menavano
grandi vanti, avrebbe dovuto essere uno dei maggiori nerbi della
guerra: l'Austria, scarsissima di armata, non avrebbe potuto
nell'angustia dell'Adriatico evitare nè la battaglia,
nè la sconfitta: facilissimo quindi l'impossessarsi di
Venezia e di Trieste. Ma a capo della flotta invece del Galli della
Mantica, illustre e potente marinaio, si volle mantenere il Persano,
timido ed inetto, mentre al ministero della marina con disinvolta
insipienza armeggiava il Depretis.
Nullameno tale era la superiorità numerica dell'esercito e
dell'armata italiana sull'austriaca che la vittoria sarebbe stata
ancora possibile senza quel capitale errore di un attacco diretto
sul Mincio, e con una maggiore indipendenza politica. Già
dalle prime ore, attraverso l'entusiasmo della guerra, era penetrata
una snervante sfiducia; la generosità donchisciottesca del
Lamarmora nel ricusare l'offerta cessione della Venezia riduceva la
guerra quasi ad un torneo, del quale il premio fosse in certo modo
assicurato, e nel quale Napoleone era giudice di campo; il disegno
dell'attacco diretto sul Mincio ribadiva il sospetto che non si
volesse marciare su Venezia; l'inazione imposta a Garibaldi nelle
gole del Tirolo, la lentezza delle prime mosse, quel limitarsi a
poco più di una difesa, mentre la posta data all'esercito
italiano sotto le mura di Vienna dall'esercito prussiano avrebbe
raddoppiato l'entusiasmo nazionale, l'impossibilità di
credere a nessun generale regio, preparavano in una inconscia
diffidenza quella tempesta di ire magnanime e partigiane, che poi
scoppiò alle prime sconfitte.
Ma nella maggioranza il vecchio scetticismo italiano si apprestava
invece a profittare delle vittorie prussiane, e a contentarsi della
cessione della sola Venezia anche per mezzo di Napoleone, se l'altra
del Tirolo e dell'Istria non fossero possibili per le pretese della
Germania.
La campagna.
La guerra cominciò sul Mincio.
Tre corpi di esercito ne tentarono il guado, mentre il quarto
comandato da Cialdini avrebbe dovuto passare il Po a Ferrara per
prendere forte posizione fra Vicenza e Verona, ed assaltare il
quadrilatero alle spalle; Garibaldi dal lago di Garda risaliva la
valle del Tirolo; l'ammiraglio Persano colla flotta aveva incarico
di assalire l'armata nemica a Pola. L'arciduca Alberto,
generalissimo degli austriaci e meritamente in voce di buon
stratega, aveva messo a guardia del Tirolo dodici battaglioni di
cacciatori imperiali e ventidue centurie di cacciatori tirolesi,
aspettando col grosso dell'esercito nel quadrilatero. Le sue truppe
arrivavano appena alla metà delle nostre, ma erano più
forti per posizioni, per armi, per disciplina, per fede nel
generale; l'esercito italiano sommava a 300 mila uomini, la flotta a
36 vascelli, tra i quali 12 corazzate. Un telegramma del re la sera
del 22 giugno mandato al Ricasoli, e da questo letto in senato per
iattanza teatrale, finì di chiarire all'arciduca Alberto il
disegno dell'attacco: e però, ingannando abilmente il
Lamarmora, che dalle campagne deserte oltre il Mincio lo giudicava
concentrato fra l'Adige e il Po, egli lo lascia avanzare a bell'agio
in ventaglio sopra una zona di quaranta chilometri in mezzo al
triangolo formato da Peschiera, Mantova e Verona. Le colline di
Salionze, Oliosi, San Giorgio in Salice e Sommacampagna, obbiettivo
del Lamarmora, sono già occupate dagli austriaci sino dalla
notte del 22; un'incredibile illusione persuade al Lamarmora che la
battaglia sia ancora lontana; la marcia in avanti è ripresa
senza indicarne nemmeno con precisione le strade: ignoranza e
disordine la sviano. La divisione del generale Sirtori rimane senza
avanguardia, l'altra del generale Cerale con due, mentre il nemico,
spiegato a mezzaluna sopra un arco di quindici chilometri, s'inoltra
all'attacco. La battaglia (24 giugno) non prevista e male ordinata,
si risolve in un disastro; il principe ereditario Umberto vi corre
rischio della vita, ed è appena salvato dal valore di un
reggimento che si schiera in quadrato per resistere ad un assalto
disperato di cavalieri ulani; i generali Villarey e Cerale
soccombono ad Oliosi, il generale Dezza capitola coi resti della
divisione alle Maragnotte; giù nei piani di Custoza il
generale Durando, respinto da tutte le posizioni, deve cedere il
campo. Lo sgomento dai soldati, dei quali molti gettarono i fucili,
e dal treno borghese, che fuggì tagliando le tirelle ai
cavalli, sale ai generali: si teme già un'invasione
austriaca. Lamarmora telegrafa a Garibaldi che avanzava lentamente
su pel Tirolo: - Salvate l'eroica Brescia - e a Cialdini inerte
oltre il Po: - Coprite Firenze - : quindi ordina la ritirata di
là dal Mincio per assicurare l'esercito nel forte triangolo
di Cremona, Pizzighettone e Piacenza.
Giammai battaglia più insensata e rotta minore prostrarono
più grosso esercito e più giovane nazione.
Il paese, giudicando la battaglia dal numero dei combattenti e dei
morti, appena un cinquantamila degli uni ed un migliaio degli altri,
non può comprendere quella fuga, e fantastica d'infami
accordi con Napoleone III. Le prime trattative per la cessione della
Venezia sembrano ora il prologo di una guerra, nella quale si ricusi
di combattere: trecentomila uomini infatti che si ritirano dinanzi a
settantamila; una flotta padrona ed inerte sull'Adriatico; Garibaldi
confinato nel Tirolo, poi richiamato, quasi il suo piccolo corpo
potesse proteggere davvero quello anche troppo grosso dell'esercito
regio; Cialdini sempre immobile davanti al Po, quindi in ritirata
egli pure senza aver sparato un solo colpo; tutte le speranze
svanite, tutte le vanterie cadute e, tremendo aculeo nella coscienza
popolare, le rapide e strepitose vittorie dei Prussiani rovescianti
in sette giorni l'impero austriaco. Moltke invece, rivaleggiando con
Napoleone I, aveva vendicato sull'Austria l'umiliazione sofferta
dalla Prussia nella campagna del 1807; nessuna guerra in nessun
secolo era forse stata condotta con più chiara
semplicità di disegno e più mirabile puntualità
di esecuzione.
Difatti, intimato entro dodici ore il disarmo ai re di Sassonia e di
Annover e all'Elettore di Assia Cassel, che nella Dieta avevano
votato per la mobilitazione delle truppe federali, alle prime
equivoche risposte Moltke aveva gittato i generali Vogel von
Falckenstein e Manteuffel sull'Annover e di là sul Meno
contro altri corpi di soldati tratti dalla Baviera, dal
Würtemberg, dal Baden, dall'Assia-Darmstadt e dal Nassau,
sfasciandoli al primo urto. I sassoni atterriti si ripiegavano
allora sulla Boemia, ma Moltke li perseguiva con tre eserciti di
circa ducentocinquantamila uomini. Tutto piegava davanti alla loro
marcia: a Münchengrätz, a Nachod, a Skalitz, a Soor, ogni
scontro si risolveva in una vittoria; a Gitschin i tre eserciti
vittoriosi si congiungevano per la suprema battaglia scoppiata
quattro giorni dopo a Königsgrätz (3 luglio). L'impero
austriaco vi soccombeva per sempre, la Prussia vi si mutava in
centro della nuova Germania. Napoleone III, che avrebbe voluto
diplomaticamente arrestare i vincitori, non era nemmeno ascoltato:
con foga irresistibile i prussiani cacciavano già gli
austriaci fino sotto le mura di Vienna, e da Blumenau presso
Presburgo minacciavano l'Ungheria.
Allora in Italia si comprese improvvisamente tutta la verità
e la grandezza del disegno strategico suggerito da Moltke a
Lamarmora dandogli la posta sotto le mura di Vienna.
Ma l'Austria, anche più vinta dell'Italia, era costretta a
capitolare, accettando la propria esclusione dalla Confederazione
germanica e consentendo alla Prussia le annessioni di Cassel,
Nassau, Annover, Schleswig-Holstein e Francoforte; Napoleone,
sopraffatto dalla politica di Bismarck e dalla strategia di Moltke,
s'argomentava indarno a risollevare l'impero austriaco per mantenere
l'antico equilibrio europeo, e sovra di esso la propria
preponderanza; ma il suo ultimo imbroglio diplomatico non concludeva
più che ad una inutile umiliazione coll'Italia e ad
un'inimicizia pericolosa colla Prussia.
L'imperatore d'Austria dovette bensì cedergli la Venezia
perchè la rimettesse all'Italia, e così distrarre
questa dalla guerra per ritentare colla Prussia una suprema
rivincita o migliori condizioni di pace; ma la cessione della
Venezia alla Francia dopo il disastro di Custoza era tale offesa
all'Italia che nessun ministro poteva accettare. Nullameno Napoleone
l'aveva resa anche più odiosa coll'inserirne l'annunzio nel
Monitore francese, e mostrando all'Europa il governo italiano
ridotto a meno di un governo tributario.
Lamarmora per resistere non trovò più quell'accento di
alterigia cavalleresca, col quale aveva ricusato le prime proposte
di tale cessione; parve dimesso al paese, sospetto alla Prussia,
inabile a tutti. Quindi la sua ripresa delle ostilità, quando
i prussiani incalzavano con impeto sempre maggiore i residui
dell'esercito sgominato, fu tarda, inefficace e non creduta da
coloro stessi che dovevano eseguirla. Il generale Cialdini
all'ordine di passare il Po, mentre non era più nessun dubbio
sull'esito della guerra prussiana e sulla cessione della Venezia pel
tramite dell'imperatore francese, rispose con soldatesca amarezza: -
È una buffonata! - Nino Bixio, il solo non vinto a Custoza,
ruggì: - Siamo disonorati! - L'ammiraglio Persano invece,
all'indomani della rotta di Custoza, aveva dal quartiere reale della
Torre di Malimberti ricevuto l'ordine «di fare subito qualche
impresa», ma restava inattivo ad Ancona sotto tutte le
provocazioni della flotta nemica. In tale strana ripresa di
ostilità, allorchè gli austriaci avevano già
cominciato a ritirarsi, e il Cialdini si avanzava liberamente fino
sotto Padova sognando di valicare le Alpi e scendere per la valle
della Drava incontro all'esercito vittorioso di Moltke, quello del
Mincio, lasciata la divisione Nunziante all'impresa di Borgoforte,
metteva il campo a Ferrara per aspettare gli avvenimenti.
Come sempre, la più onorevole guerra doveva essere combattuta
da Garibaldi su per le valli del Tirolo.
Garibaldi nel Tirolo.
Già al primo rompere delle ostilità il governo, per
insano terrore di rivoluzioni, aveva limitato i novantacinquemila
volontarii inscritti a soli trentacinquemila, assegnando loro
Barletta a campo di formazione per tenerli lontani dal teatro della
guerra. L'entusiasmo scoppiato ai primi appelli di Garibaldi si era
quindi venuto agghiacciando: d'altronde i nuovi volontarii non
avevano più quell'eroico spirito d'impresa, che aveva resi
così originali e potenti i garibaldini della difesa di Roma e
della spedizione di Marsala. Il soverchio numero di adolescenti
accorsi sotto le bandiere, la scarsa uffizialità dei veterani
impotenti per indole e per brevità di tempo ad addestrarli,
la vecchiaia del generale costretto poi a seguire l'esercito in
carrozza, un'abbondanza pericolosa di politicanti venuti per
vanità di onorificenze e per seminare dissidii, sopratutto la
coscienza che un'impresa anche fortunata nel Tirolo non avrebbe
potuto influire decisivamente sulle sorti della guerra, infirmavano
l'opera della nuova campagna garibaldina.
La quale, aprendosi per le gole dirute del Tirolo, avrebbe voluto
molta sapienza di stato maggiore e perseveranza nei soldati. Invece,
il merito patriottico soverchiando nella comune estimazione la
conoscenza dell'arte di guerra, s'ebbero nomine a comandanti di
troppi invalidi o incapaci; e si vide il Picchi d'Ancona, oramai
disadatto a fazioni campali, assumere il comando di una divisione;
Giovanni Nicotera, già segnalatosi buon parlamentare dopo le
tragiche prove delle congiure, guidare con meravigliosa insipienza
una brigata.
Quella selezione naturale di ufficiali, onde è costituita
tutta la forza dei corpi volontarii, mancò ai reggimenti del
1866, che esprimevano l'ibrida combinazione dell'entusiasmo del 1860
colla regolamentarità degli anni successivi. Il generale
stesso, meglio atto a strappare la vittoria coll'irresistibile
violenza di una improvvisazione che colla pazienza di studi tecnici,
parve minore di se medesimo in questa guerra di montagna, ove la
pratica dei luoghi dava ai nemici impareggiabili vantaggi, e le
vittorie non bastavano a dilatare la zona d'operazione.
Al rompere delle ostilità Garibaldi non disponeva che di
seimila uomini scaglionati su lunga fronte, fra i punti estremi di
Tiarno in Val d'Adda e Salò sul Benaco: erano punti intermedi
Edolo nella valle d'Oglio e Rocca dell'Anfo in quella del Chiese,
ove dovevano concentrarsi tutte le forze volontarie. La flottiglia
austriaca sul lago di Garda contava otto piroscafi con quarantotto
cannoni e buoni equipaggi: quella italiana su cinque navi non ne
aveva che una sola pronta, e con un solo cannone.
Le scaramucce, cominciate sino dal 22 giugno, avevano conchiuso alla
fortunata occupazione del ponte del Caffaro e di Monte Suello,
quando il telegramma del Lamarmora, annunziante la rotta di Custoza
coll'ordine di coprire Brescia, obbligava Garibaldi a richiamare
l'avanguardia e a concentrarsi su Lonato. La maggior parte dei
garibaldini inerti per colpa del governo nei depositi meridionali
mancavano al campo, così che una subita irruzione di
austriaci avrebbe potuto costringere Garibaldi ad una ritirata
peggiore di quella di Lamarmora. Ma l'indomabile condottiero,
riprendendo presto l'offensiva, si reca a Salò per far uomini
ed impedire che la minima flottiglia lacustre sia distrutta dai
piroscafi nemici e dal primo panico prodotto dai dispacci regi;
quindi, persuaso che la miglior prudenza nel triste caso è la
temerità, fronteggia il nemico, lascia il generale Avezzana e
la flottiglia a difendere la riva sinistra del lago, e con
dodicimila uomini irrompe nuovamente nel Tirolo. Il 14 luglio si
drizza su Trento, ove convergeva anche il generale Medici con
un'altra divisione risalendo la valle del Brenta. Il 3 luglio
attacca indarno Monte Suello, ma ferito nella confusione di un
panico improvviso dai propri soldati, deve cedere il comando al
generale Corte; l'indomani il nemico sloggia dalle posizioni
contrastate, e si occupano Bagolino e il Caffaro. La poca attitudine
dei volontari a quella guerra alpestre e le armi quasi inservibili
rendono difficili gli assalti: Ponte Dazio e Storo, piccolo
villaggio al confluente delle valli Giudicaria e d'Ampola, cadono in
mano dei volontari. Garibaldi v'impianta il quartier generale; poi,
per non essere tagliato fuori da Brescia, attacca coll'artiglieria
del maggiore Dogliotti il forte d'Ampola; Giovanni Nicotera per
vanità di bravura s'inoltra, disobbedendo, sino al ponte del
Chiese, ma è respinto in isbaraglio; nullameno il forte
d'Ampola capitola, e la via di Val di Ledro rimasta aperta permette
di stendere la testa della colonna sino a Tiarno e a Bezzecca.
Infatti Garibaldi con rapido movimento a destra per Val di Ledro
mirava a proteggere la giunzione del 2^o reggimento ingolfatosi a
rovescio degli ordini per Monte Nota verso Pieve; il 10^o reggimento
marciava per Val Testina a salirne la giogaia e discendere per Val
Lorina su Ampola. Intanto il nemico con viva prontezza aveva riunito
da seimila uomini nella valle di Conzei e, scendendo su Bezzecca per
impedire la giunzione del 2^o reggimento, ricacciava il battaglione
Martinelli fin dietro le sue mura (21 agosto): ma Garibaldi vi fa
testa, risospinge il nemico, lo sbaraglia dopo sanguinosa giornata.
La valle Giudicaria dopo altri combattimenti fortunati di Fabrizi a
Condino, è già sgombra, il forte Ledro sta per
capitolare, il generale austriaco Kuhn si ripiega frettolosamente
sul Tirolo tedesco, e Garibaldi marcia già sopra Riva quando
l'annunzio dell'armistizio sottoscritto lo arresta.
Era la fine.
Battaglia di Lissa.
Infatti anche la flotta comandata da Persano aveva già col
più doloroso disastro tolto ogni onorata speranza alla
guerra.
Questi, rimasto lungamente inoperoso in Ancona assordando di
querimonie il governo per difetto o di cannoni, o di carbone, o di
macchinisti, mentre il suo avversario Tegethoff osava il 27 giugno
inoltrarsi sino a due chilometri dalla città per sfidarlo a
battaglia, non solo aveva ricusato la sfida, ma, dissuadendo i
capitani con ignobili pretesti da ogni animoso consiglio, si era poi
vantato al ministero di aver costretto il nemico a ritirarsi. E il
ministro Depretis, credendo al vanto inverecondo, aveva consigliato
più lunga attesa insino a che l'esercito del Po riprendesse
l'offensiva. Naturalmente ciurme e capitani si demoralizzavano in
questa inazione: la codardia dello ammiraglio, oramai nota anche ai
mozzi, finiva di prostrare gli animi più saldi.
Il Lamarmora invece, combattuto fra il proprio coraggio di soldato e
la inevitabile remissività di ministro, urgeva l'ammiraglio
di consigli per una pronta azione contro la flotta nemica, ma
proibendogli di minacciare Venezia o Trieste, l'una perchè
già ceduta, l'altra perchè la Dieta germanica vi
manteneva ancora pretese. Così la guerra, ridotta ad inabile
torneo, scivolava in una sanguinosa commedia. La stessa riserva
aveva impedito al generale Medici, malgrado le istanze del Ricasoli
ripetente con orgoglio l'antico motto del Lamberti «cosa fatta
capo ha», di spingersi come avrebbe potuto su Trento prima
ancora che Garibaldi minacciasse Riva.
Il Persano, incalzato da tutte le parti, salpò finalmente da
Ancona l'8 luglio per ritornarvi dopo cinque giorni d'inutili
volteggi: quindi, minacciato di destituzione, ne salpò
nuovamente per l'impresa di Lissa, isola montuosa a scirocco
d'Ancona sul 43^o parallelo con un circuito di 30 chilometri,
fortilizi, torri, e una rocca così forte da meritarle il nome
di Gibilterra dell'Adriatico. Invano il vice-ammiraglio Albini lo
sconsigliò dall'impresa militarmente insensata: il Persano vi
si ostinò due giorni, e vi fu sorpreso la mattina del 20
luglio dalla squadra nemica. Allora, reso pazzo dalla paura, dopo
aver ordinato su due file distanti l'una dall'altra mille metri i
propri vascelli, abbandonò la nave ammiraglia Re d'Italia per
riparare sull'Affondatore, grossa corazzata comprata dal governo in
America e allora creduta invincibile, sulla quale fece inalberare il
pennone di vice-ammiraglio. Così la flotta senza ammiraglio
non ebbe più comandi, e la battaglia degenerò in tanti
duelli navali. Faà di Bruno, capitano del Re d'Italia, dopo
strenua difesa, sentendo il proprio vascello orrendamente squarciato
affondare, s'uccise con un colpo di pistola; Alfredo Capellini,
capitano della Palestro incendiata, mise in salvo malati e feriti, e
si votò con tutto l'equipaggio alla morte sparendo sublime di
disperazione in un incendio di gloria.
La battaglia era perduta, ma l'onore del nome italiano era salvo.
L'ammiraglio chiuso nelle torri del suo «monitor» non
aveva veduto nulla; poi, a combattimento finito, mentre l'armata
austriaca stava ordinata davanti al canale di Lissa, e alcuni fra i
più valenti capitani gli consigliavano non imprudentemente di
tentare una riscossa, vi si ricusò dichiarandosi vincitore
per essere ancora padrone delle stesse acque.
La notizia della vittoria, complice il ministro Depretis, corse per
tutta l'Italia a rendere ridicolo un disastro nobilitato
dall'eroismo di Faà di Bruno e di Alfredo Capellini.
L'ammiraglio Persano fu più tardi condannato dal senato
costituitosi in alta corte di giustizia; il ministro Depretis
potè invece, coll'avvento della sinistra al potere, diventare
presidente del consiglio e morire all'indomani di un'altra
catastrofe militare, in Africa, provocata dalla sua insipienza.
La pace di Vienna.
L'intervento napoleonico dopo la grande vittoria prussiana di Sadowa
precipitò le sorti della guerra, giacchè tutta
Germania, sollevatasi contro tale intromissione straniera, permise a
Moltke di stringere più da presso il nemico. In Italia invece
il governo piegò, quantunque il Lamarmora per onestà
cavalleresca ricusasse di trattare primo di pace coll'Austria
abbandonando l'alleato: ma le ostilità riprese senza vera
intenzione di guerra non mirarono che ad occupare il terreno
già consegnato dall'Austria nelle mani di Napoleone. A
convincerne anche i più restii il principe Girolamo Napoleone
venne tosto al campo di Ferrara per stringere gli ultimi accordi con
Vittorio Emanuele, e il Grandguillot, altro diplomatico confidente
di Napoleone, fu mandato a Firenze presso il Ricasoli ripugnante
alla nuova vergogna.
In tutta Europa una satira spietata mordeva il nome italiano:
Austria, Prussia, Francia, persino l'amica Inghilterra,
vilipendevano l'Italia mostratasi alla prima guerra nazionale ancora
più inetta che non nella secolare servitù: le si
rinfacciava l'inanità di tutte le sue rivoluzioni anteriori,
le vittorie francesi del 1859, gli stessi miracoli dell'epopea
garibaldina nel 1860 siccome compiuti da un pugno di eroi contro gli
ordini del governo e l'opinione di tutti: il nome di Machiavelli,
infame di codarda perfidia nel gergo delle scuole, era la
definizione della nuova Italia; si compiangeva Garibaldi moschettato
ad Aspromonte ed ora relegato fra le rocce del Tirolo, non si
credeva più all'onestà di Lamarmora, non si trovavano
confronti per la ritirata di Custoza e la rotta di Lissa. Le
fulminee vittorie della Prussia rendevano anche più umiliante
il giudizio sull'Italia. Il governo di Firenze non somigliava neppur
lontanamente a quello di Torino, quando il conte di Cavour vi
preparava l'egemonia piemontese.
La publica opinione italiana, anzichè reagire contro
sì terribili accuse, le inveleniva: tutti sentivano che
quella prima guerra nazionale aveva deciso dell'onore della patria,
e che l'onore era macchiato; nessun eroismo individuale bastava
più a salvare la nazione. Nell'impeto magnanimo e partigiano
dello sdegno si gettava naturalmente la responsabilità sopra
pochi: si gridava che Lamarmora aveva patteggiato la sconfitta, che
la corte aveva tradito il paese.
Intanto la Prussia, persuasa che l'Italia non andrebbe militarmente
oltre i limiti assegnati dalla cessione della Venezia alla Francia,
dopo aver risposto a Napoleone colla minaccia di una seconda guerra
sul Reno, il 22 luglio segnava un armistizio coll'Austria, e quattro
giorni dopo segnava a Nikolsburg i preliminari della pace. Gli
articoli di questa dicevano: scioglimento della Confederazione
germanica e assenso dato dall'Austria a un nuovo assetto politico
della Germania senza di essa; costituzione degli stati tedeschi al
nord del Meno in una confederazione sotto la direzione militare e
politica della Prussia; facoltà negli stati del sud di
confederarsi conservando la loro autonomia; annessione alla Prussia
dei ducati dell'Elba, dell'Annover, dell'Assia-Cassel e Nassau;
conservazione e integrità dell'impero austro-ungarico ad
eccezione della Venezia. In un articolo separato il re di Prussia si
faceva mallevadore dell'adesione del governo italiano all'armistizio
e alla pace, tosto che il Veneto fosse per una dichiarazione
dell'imperatore dei Francesi messo a disposizione di Vittorio
Emanuele.
La Prussia, guarantendo l'adesione del governo italiano, non aveva
degnato nemmeno d'interrogarlo.
Quindi l'Austria, imbaldanzita subitamente contro l'Italia, le
negò per l'armistizio la concessione dell'uti possidetis,
già consentita nelle prime trattative con Napoleone; nuovi
corpi d'esercito si drizzarono minacciosamente sul Veneto, si
parlò di una seconda guerra fra l'Austria e l'Italia. Sarebbe
stata la rivincita per l'Italia e la riconquista di tutto il suo
territorio, se nella nazione l'entusiasmo guerriero avesse potuto
costringere il governo a più risoluto atteggiamento: questo
invece piegò un'altra volta alle ingiunzioni austriache. Si
ordinò a Garibaldi, unico vincitore, di sgombrare il Tirolo;
e Garibaldi, condensando tutta l'amarezza del proprio patriottismo
in una sola parola, rispose: «Obbedisco». Spirato il
secondo armistizio, ne venne segnato un terzo a Cormons (12 agosto)
di quattro settimane, durante il quale fu sottoscritta a Praga la
pace fra Austria e Prussia, e a Vienna la cessione formale della
Venezia alla Francia colla condizione che il debito publico delle
provincie lombarde comprese nel Veneto fosse liquidato secondo il
trattato di Zurigo.
In tanto vilipendio di se stesso il governo aveva invano cercato di
migliorare le condizioni del trattato col chiedere «che le
discussioni per le ratifiche dei confini fossero riserbate alle
trattative della pace», giacchè tale allusione al
Tirolo meridionale venne subito respinta dalla Francia e dalla
Prussia.
Napoleone, per la vanità di figurare arbitro nella grande
contesa, non si accorgeva di offendere mortalmente l'Italia colla
propria mediazione; Vittorio Emanuele, che aveva serbato
dignità nell'abbandono di Villafranca, s'arrese questa volta
prontamente, ma il Ricasoli resistette fino all'ultimo, e non
cedette che al pericolo di una vergogna maggiore. Infatti i veneti,
inerti durante tutta la guerra, chiedevano ora ad alte grida di
venire accolti nel regno minacciando di costituirsi in stato
indipendente sotto la protezione della Francia: sottoscrizioni
coperte di molte ed illustri firme viaggiavano a Parigi per
sollecitare l'imperatore alla ricostituzione dell'antico stato
veneto.
Nel Tirolo invece la popolazione non solo non si era sollevata, ma
aveva strenuamente combattuto contro i garibaldini con ventidue
centurie di cacciatori indigeni sotto gli ordini del generale Kuhn.
La stipulazione della pace fu lunga e laboriosa. L'Austria, malgrado
la dichiarazione di liquidare il debito delle provincie cedute a
norma del trattato di Zurigo, esigeva altri 36 milioni di fiorini
come loro quota proporzionale dei debiti da essa contratti dopo tale
trattato: per gli uffici di Francia e di Prussia si potè
venirne a capo, ma si dovette abbandonarle nella questione delle
frontiere la linea dell'Isonzo ed accettare quella dei confini
amministrativi. Così l'Italia, senza frontiere verso la
Francia dopo la cessione della Savoia, non ne ebbe contro l'Austria,
che ad una nuova guerra avrebbe potuto riprendersi il Veneto colla
massima facilità. Finalmente il 3 ottobre fu sottoscritto a
Vienna il trattato di pace: per esso l'Italia si addossava un debito
di 99 milioni, e l'imperatore d'Austria con tarda cortesia rimetteva
al re d'Italia la corona ferrea trafugata nel 1859; i sudditi veneti
addetti al servizio dell'impero ebbero facoltà di rimpatriare
conservando gradi e stipendi presso il nuovo governo; furono resi
gli archivi della republica veneta, ma quasi a memoria insolente
della lunga conquista restituita non perduta, l'Austria si ritenne i
palazzi di Roma e di Costantinopoli già appartenenti alla
republica.
Eseguite tutte le ratifiche, il generale Leboeuf, commissario per
l'imperatore Napoleone III a Venezia, dichiarò di consegnare
a se stesso il paese, affinchè il popolo manifestasse
liberamente la propria volontà di aggregarsi alla nazione
italiana: dopo tale dichiarazione il generale Aleman cogli avanzi
del presidio austriaco s'imbarcava per Trieste. I comizi
plebiscitari tenuti il 21 e il 22 diedero 647.246 sì per la
fusione col regno costituzionale di Vittorio Emanuele contro soli 69
no.
E quasi a così triste pace mancasse ancora un anacronismo,
Vittorio Emanuele con serotina vanità di re savoiardo volle
ricevere gli oratori veneti piuttosto a Torino che a Firenze, per
affermare contro il concetto della cresciuta italianità la
nuova conquista regia.
Il difficile problema veneto, che nessuna delle due politiche
italiane era bastata a disciorre con forze proprie, si era risolto
coll'intervento di un'altra grande rivoluzione europea inspirata dal
medesimo principio di nazionalità. Ma la giovane nazione vi
aveva fatto una prova ben dolorosa della propria incapacità.
Monarchia e rivoluzione, unite momentaneamente nell'accordo
migliore, non avevano saputo trovarvi più le eroiche energie
dei loro primi momenti, quando il conte di Cavour col piccolo
Piemonte osava la spedizione in Crimea, o Garibaldi, contro
l'opinione di questo, arrischiava l'impresa dei Mille. Il soffio
epico, che aveva reso ammirabile il partito rivoluzionario nella
ricostituzione della patria, era cessato coll'avvento delle masse
alla nuova vita publica, mentre il governo caduto nel più
tristo vassallaggio francese vi aveva smarrito col senso dell'antico
orgoglio savoiardo la dignità di nuovo regno italiano. La
potenza collettiva della monarchia e della rivoluzione in
quell'incerta fusione di elementi ancora troppo eterogenei era
riuscita minore della loro autonoma potenzialità.
Nell'esercito, altrettanto grosso di numero che fiacco d'organismo,
si era rivelata specialmente l'impotenza della nazione. Il governo,
costretto da una politica antipatriottica all'equivoco di Sarnico,
alla tragedia di Aspromonte, alla resa della Convenzione di
settembre, rispecchiava sciaguratamente nella propria insufficienza
quella anche maggiore del parlamento; la nazione non migliore
nè dell'uno nè dell'altro finiva colla propria
passività ad imporre loro quella medesima politica, della
quale ora il danno e il disonore l'offendevano.
La nuova guerra aveva abbassato l'Italia. Il piccolo Piemonte,
abbandonato a Villafranca, aveva dovuto subire nel 1859 la pace
coll'Austria, ma dopo aver combattuto a fianco dei francesi con pari
valore; e la sua spedizione in Crimea, i suoi trionfi diplomatici,
la fine alterezza della sua politica negli anni anteriori, le
intrepide iniziative, tutto deponeva in suo favore. L'Italia, con un
esercito maggiore di quello austriaco, con un numero di volontari
che avrebbe potuto raggiungere i centomila, con una flotta doppia
dell'inimica, senza i pericoli interni, con un alleato capace di
prostrare da solo l'impero austro-ungarico in sette giorni: l'Italia
vinta a Custoza, sconfitta a Lissa, accettante la Venezia dalle mani
di Napoleone, doveva fatalmente decadere nel concetto dell'Europa,
che in questo secolo aveva veduto le insurrezioni di Spagna e le
ribellioni di Grecia, e vedeva ora la rivoluzione della Germania
organizzata nel più ammirabile capolavoro del genio di
Bismarck.
Bisognava quindi all'Italia riconcentrarsi nel silenzio di un'altra
migliore preparazione. Ma finchè il periodo rivoluzionario,
aperto colla guerra franco-sarda, non si conchiudesse con la
conquista di Roma esaurendo la propria generazione, era impossibile
sperare nella immobilità dei suoi dati politici un rialzo
nella coscienza nazionale.
Comunque ricomposta, l'Italia era troppo importante alla generazione
del suo risorgimento perchè questa ardisse avventurarla nel
pericolo di una più nobile politica.
Capitolo Ottavo.
Ultima ripresa rivoluzionaria
Ultima reazione brigantesca a Palermo.
Si era appena sottoscritto il trattato di pace a Vienna, e nella
Venezia si preparavano già febbrilmente le feste
plebiscitarie, che un'altra reazione brigantesca scoppiava a
Palermo.
Forse il nuovo discredito del governo contribuì ad
accelerarne l'esplosione.
I nuovi metodi politici di centralizzazione violavano troppe
tradizioni, specialmente nelle provincie meridionali, separate dal
resto del regno da lunga distanza di periodi civili, per non
produrvi un vivo malcontento. La coscrizione militare, la
moltiplicità grandinante delle tasse, la soppressione delle
corporazioni monacali, vi irritavano tutte quelle passioni piuttosto
compresse che soffocate dalla guerra spietata contro il
brigantaggio. La stessa epopea garibaldina, che sugli albori della
rivoluzione vi aveva infiammato la fantasia delle moltitudini, non
era più per esse che un ricordo di lontane vittorie dopo la
catastrofe di Aspromonte.
Una mortificazione d'indefinibili speranze inaspriva i dolori di una
cronica miseria, alla quale il governo non aveva potuto sino allora
che domandare sacrifici. Le vanità tradizionali
dell'autonomia duravano ancora nell'isola, la lunga reazione
brigantesca del Napoletano, cresciuta quasi a guerra civile, vi
sostituiva lentamente nelle immaginazioni la magnifica
teatralità delle imprese garibaldine: tutto e tutti
contribuivano a preparare una nuova ribellione, la plebe delle
campagne colla brutalità, quella cittadina coll'abbiettezza,
la borghesia coll'avarizia, il patriziato colla superbia e
coll'ignoranza, il clero colla superstizione e colla perfidia.
Il governo, ancora sotto il peso delle ultime umiliazioni, non solo
non s'accorgeva del nuovo pericolo, ma, avvisatone dai propri
funzionari, temeva di raddoppiarlo mostrando di premunirsi.
La reazione brigantesca esplose naturalmente a Palermo, ove le
velleità di autonomia rifermentavano ad ogni coazione
dell'unità contro l'egoistica indipendenza regionale. La
rivolta fu breve, ma violenta, facinorosa, incredibile di odio e di
insania. Già profittando della guerra nel Veneto, per la
quale tutti i presidii delle città erano stati ridotti al
minimo, dalle congiure sordamente riprese all'indomani
dell'annessione si era venuti alle bande armate: mancava un disegno,
un uomo, una bandiera. Non si sapeva neppure chiaramente lo scopo
della rivolta; non vi erano intese con altre regioni, non accordi
diplomatici, non vera preparazione di guerra. Ma un odio
indefinibile riuniva tutte le classi contro il governo: si sognava
di autonomia senza il coraggio di precisarla nemmeno come sogno: si
moltiplicavano i pretesti alle ribellioni traendoli da ogni
novità. Il brigantaggio napoletano era stato una reazione
legittimista: la reazione siciliana doveva essere un malandrinaggio
senza aspirazione nè al passato nè all'avvenire.
Il 16 settembre (1866) le bande armate aggirantisi da molte
settimane sui monti si raccozzarono improvvisamente ed entrarono a
Monreale mettendo a rumore la città: quindi irruppero su
Palermo, ne sollevarono la plebaglia, ne asserragliarono le vie, vi
assediarono nel palazzo il prefetto Torelli colla poca truppa
accorsa a difenderlo, e composero un governo provvisorio. Parve, ed
era il rovescio della conquista dei Mille. Tutta l'isola ne fu
commossa, ma per mancanza di un disegno e di una bandiera il moto
non potè espandersi. Il governo, che alle istanze reiterate
del prefetto non aveva voluto accrescere il presidio della
città ridotto a 3500 uomini, dovette quindi mandare su
Palermo il generale Cadorna con grosso nerbo di truppa per
soffocarvi la guerra civile. L'orribile tumulto durò sei
giorni: la vittoria rimase naturalmente al governo, ma il
combattimento fu indescrivibile di ferocia e grande la strage: si
dovette riconquistare ogni via, ogni casa; dai conventi mutati in
fortezze frati e monache combattevano per gli insorti; la plebaglia,
che non aveva seguìto Garibaldi nel 1860, si ostinava adesso
con atroce temerità contro l'esercito regolare. Di questo
perirono nella mischia quasi cento soldati e trecento furono feriti;
degli altri non si volle fare il conto perchè sarebbe stato
troppo difficile e vergognoso.
L'ordine fu ristabilito. Gli autonomisti, che avevano mestato nella
congiura e fornito le bande, spaventati essi medesimi dalla truce
anarchia, riaderirono prontamente al governo. Per prudenza politica
questo non volle indagare nè le vere origini, nè quali
fossero i maggiori colpevoli della rivolta.
Nelle provincie napoletane più infette dal brigantaggio quel
moto siciliano non ebbe ripercussione: con esso finì la
reazione meridionale separatista.
Il gabinetto Ricasoli, già indebolito dai disastri della
guerra, ne ricevette un colpo mortale.
La politica ecclesiastica.
Le illusioni create nei più ingenui di parte moderata dalla
Convenzione di settembre dovettero dissiparsi alle nuove
dichiarazioni di Napoleone III, che ritirando momentaneamente il
presidio da Roma non intendeva assumere altri impegni per
l'avvenire. Il sacrificio del diritto nazionale consumato dal
governo per eliminare i francesi da Roma, nella speranza di potervi
un giorno entrare dietro qualche imprevedibile avvenimento, tornava
quindi inutile dopo questa minaccia di altro intervento. Infatti non
appena l'esercito regolare francese si fu ritirato da Roma, una
grossa mano di finti volontari racimolati fra esso vi rientrava a
costituire una legione, chiamata poi dal nome di Antibo e salutata
dal generale francese Dumont, venuto da Parigi a passarla in
rivista, come nuova legione tebana.
La teorica cavouriana della conquista di Roma con mezzi morali,
infelicemente interpretata da' suoi successori, sembrava finire nel
più doloroso ridicolo, ora che l'ottenuta soluzione del
problema veneto rendeva più urgente quella della questione
romana. Si comprendeva da tutti che là stava il principio
della rivoluzione italiana e la sola possibile rivincita degli
errori e delle umiliazioni patite dal periodo delle annessioni sino
allora. Bisognava a qualunque costo forzare Roma, per dare
all'Italia colla sua capitale storica una vera coscienza di nazione.
Ricasoli vi si accinse: ma come all'indomani della Convenzione di
settembre il Lamarmora aveva deputato a Roma il Vegezzi, così
egli vi mandò il Tonello per trattare delle sedi vescovili
vacanti. Poi, lusingato dalla nomina di due prelati liberali alle
chiese metropolitane di Torino e di Milano, si spinse oltre sulla
via di una conciliazione. Il concetto suo e dei partigiani
neo-guelfi era d'indurre il papa ad una spontanea rinuncia del
potere temporale, largheggiando siffattamente con lui di concessioni
nella politica ecclesiastica da assicurargli un'immensa
preponderanza sulla vita civile. A scusa di questo disegno
s'invocava la necessità di liberarsi dalla Francia col
ridurre la questione romana ad un problema di ordine interno,
giacchè ottenere Roma colle armi non si poteva. Ma un errore
più profondo si nascondeva in quest'idea, ed era la
soggezione del pensiero civile al pensiero religioso con questo
riconoscimento della suprema autorità cattolica come fonte di
tutti i diritti regii, e colla negazione del principio
rivoluzionario il quale non aveva altra originalità dal
disconoscimento della supremazia religiosa in fuori. La
libertà di pensiero, conquistata religiosamente dalla Riforma
e civilmente dalla rivoluzione francese, sarebbe stata così
sconfessata dalla rivoluzione italiana. Era l'ultima riapparizione
dell'idea giobertiana del Primato: ma la vasta utopia del filosofo
piemontese non riusciva nella politica del gabinetto di Firenze che
a mascherare i pregiudizi della corte incapace di concepire la
propria autorità senza sanzione religiosa, e cercante nella
forte compagine del cattolicismo un baluardo contro i flutti della
rivoluzione.
Intanto il ministero aveva già firmato la convenzione
finanziaria derivata dalla Convenzione di settembre, e per la quale
l'Italia assumeva il debito delle provincie pontificie annesse senza
nemmeno chiedere la libertà di quei cittadini italiani che,
come il bolognese Petroni, da quindici anni soffrivano nelle carceri
romane. Nullameno il governo francese, per quel brutto vizio di
aggiungere sempre al danno lo scorno, non fidandosi nè alla
firma reale nè all'onore della nazione, aveva forzato il
gabinetto a deporre venti milioni nella Cassa-depositi a Parigi.
L'occasione ai nuovi tentativi di accordi con Roma venne dalla legge
sull'alienazione dell'asse ecclesiastico, che lo Scialoia, reggente
allora il portafoglio delle finanze, doveva presentare alle Camere.
In essa, poi giustamente definita una singolare mistura di
santimonia neo-guelfa e di speculazione bancaria, si rimetteva nelle
mani dei vescovi, se volessero accettarla, la vendita dei beni del
clero nel termine di dieci anni, e la conversione del ricavato, e
l'amministrazione e la distribuzione delle rendite agli usi del
culto e al mantenimento delle persone, salvo il pagamento di 600
milioni di lire italiane allo Stato in rate semestrali di cinquanta
milioni l'una, quasi per quota-parte delle appartenenze della
società laica nella destinazione di tali beni. Era assuntore
della vasta operazione bancaria il banchiere belga
Langrand-Dumonceau di parte ultramontana.
Contemporaneamente i nuovi diplomatici mandati a Roma offrivano al
pontefice per parte del governo italiano la rinunzia alla
presentazione dei candidati alle sedi vescovili e alle guarentigie
tradizionali del placet, dell'exequatur e del giuramento.
L'abbandono di queste viete riserve della sovranità regia
contro l'autorità ecclesiastica, logico secondo i principii
della rivoluzione, pei quali ogni religione nello stato non deve
essere che un'opinione perfettamente libera come tutte le altre,
diventava nelle intenzioni e nel fatto di tale politica un
privilegio alla chiesa romana, che col maneggio dell'alienazione e
della disposizione del patrimonio ecclesiastico si sarebbe
costituita centro di enorme clientela, esercitando la più
sconfinata influenza specialmente coll'elettorato ristretto
d'allora.
Gregorio VII, il fiero tribuno del papato, non avrebbe potuto
chiedere di più. Fortunatamente la stessa legge storica della
decadenza nel papato impedì alla corte romana di accettare
l'improvvida offerta: la Camera, malgrado il bigottismo
monarchico-religioso della propria maggioranza, respinse il progetto
Scialoia, contro cui si levavano proteste specialmente dalle
provincie venete: quindi Ricasoli, violento d'orgoglio, ottenne dal
re lo scioglimento della Camera, ma le elezioni essendoglisi
chiarite avverse dovette dimettersi.
Durante la lotta di queste, Garibaldi, dietro consiglio della
sinistra parlamentare, si era recato sul continente per pubblicarvi
un manifesto politico sull'urgenza di conquistare Roma all'Italia
colle vie legali, ed aveva percorse tutte le provincie venete
arringando i popoli inutilmente: la nuova Camera, da lui sognata
tutta piena di rappresentanti decisi a sciogliere magari con una
guerra nazionale alla Francia il problema di Roma, risultò
invece poco diversa dalle altre, sebbene ostile al ministero.
Ministero Rattazzi.
Col ritorno del Rattazzi al potere doveva svolgersi in un ultimo
equivoco della politica monarchica il supremo tentativo
rivoluzionario per la conquista di Roma.
Difetti e qualità rendevano il nuovo ministro singolarmente
adatto alla tragica avventura. La sua prontezza così a
sedurre come a lasciarsi sedurre da grandi imprese, trovando sempre
in un tradimento finale la soluzione ad un intrigo divenuto
inestricabile, faceva di lui egualmente sperare e temere. Lo si
sapeva infatti giacobino contro il papa e cortigiano con Vittorio
Emanuele, ligio a Napoleone e avverso alla destra, compromesso colla
sinistra e odiato dal popolo; ma così abile parlamentare e
scaltro diplomatico da reggersi nelle più difficili
situazioni non ostante lo squilibrio dell'ingegno.
La sua presenza al ministero, anzichè rinfocolare gli odii di
Aspromonte, parve quindi al partito d'azione arra di più
coraggiose e feconde iniziative.
Roma, ritornata colla partenza del presidio francese in signoria di
se medesima, mutava apparentemente le condizioni del proprio
problema politico. Se infino allora le sarebbe stato difficile ogni
moto rivoluzionario, giacchè il governo pontificio
denunciandolo come tumulto plateale avrebbe avuto, a schiacciarlo,
irresistibile concorso dalle truppe francesi, ora non trovandosi
sopra altri nemici che i pochi mercenari papalini poteva senza
troppa difficoltà e con molta speranza di buon successo,
levarsi a rivoluzione. La Convenzione di settembre, coll'assicurarle
il reciproco non intervento della Francia e dell'Italia, le lasciava
tutto il merito della iniziativa. Malgrado le compromissioni di
Napoleone col clero francese, difficilmente ad una spontanea
rivoluzione dei romani egli avrebbe potuto allora, nel rifermentare
delle passioni republicane a Parigi, ripetere la spedizione del
1849; quindi l'Italia invocata liberamente da Roma avrebbe risposto
occupandola colle proprie truppe. L'impero buonapartesco, prima di
scendere ad una guerra contro l'Italia, avrebbe dovuto pensare
seriamente alla posizione fattagli in Europa dalla rivalità
della Prussia.
Era questa l'idea di Mazzini e da lui eloquentemente sua indarno
predicata ai romani.
Poco segreti e meno efficaci si adoperavano in Roma tre comitati
liberali, moderato l'uno, mazziniano il secondo, garibaldino il
terzo. Il primo sottoposto agli ordini del governo italiano badava
piuttosto ad impedire che altri facesse che a fare, giustificando
tratto tratto la propria esistenza con dimostrazioni puerili contro
il papa; il secondo, impegolato nelle formule mazziniane, riusciva
ad un'accademia; l'ultimo, combattuto con diverse intenzioni ma pari
accanimento da entrambi, rimaneva impotente all'azione malgrado la
praticità dei propri propositi.
Mancava sopratutto il denaro. Mazzini se ne arrovellava senza poter
intendere questa avarizia della nazione, nella quale Garibaldi aveva
trovato seguaci pronti a morire sotto le sue bandiere piuttosto che
oblatori capaci di sacrificare somme anche tenui alle sue imprese.
Nullameno si riordirono le file di una più vasta congiura,
dacchè il ministero sembrava favorirla. Comitato moderato e
garibaldino si accordarono in Roma; dal Regno si mandavano aiuti, il
governo papale vegliava denunciando i complotti all'ambasciata
francese, ma senza temerne davvero per troppo esatta conoscenza
delle persone e dei mezzi. Il ministero Rattazzi, lusingato dalla
possibilità di una nuova guerra europea, si cacciava
risolutamente nel più cieco degli imbrogli politici: una
guerra era discussa a corte, invocata come rivincita dall'esercito,
suggerita dalle condizioni dell'impero buonapartesco. Il caso ne
poteva venire dalla non osservanza dell'articolo 5^o del trattato di
Praga da parte della Prussia, e allora per l'impero le alleanze
sarebbero state in Italia e nella Germania del sud minacciata di
assorbimento dalla nuova Confederazione del nord. L'Italia avrebbe
potuto essere egualmente o colla Francia o colla Prussia. Ma se a
questa guardava, per odio contro Napoleone, il partito
rivoluzionario incline a fidarsi piuttosto del franco dispotismo del
conte di Bismarck, col quale Mazzini aveva già aperte
trattative, corte e governo per tradizioni e per opinione rimanevano
fedeli alla Francia. Non si credeva allora ad una possibile disfatta
dell'Impero francese; bisognava quindi destreggiarsi per vendere al
miglior prezzo e al più solvibile offerente la propria
alleanza. Così mentre il Vaticano con più sicuro senso
della realtà calcolava sull'influenza del clero francese,
giovandosi del bigottismo fanatico dell'Imperatrice Eugenia e della
regina spagnuola Isabella, Rattazzi alle rimostranze del gabinetto
francese sui raggiri rivoluzionari contro Roma rispondeva
publicamente di voler rispettata la Convenzione di settembre, e
segretamente tentava di sollevare la Spagna per mezzo di un
pronunciamento militare col generale Prim, e dava denari per una
spedizione rivoluzionaria contro Orvieto.
Nel suo disegno semplice malgrado i troppi viluppi era idea
principale suscitare moti a Roma e nel regno fingendo frenarli, e
magari frenandoli ove eccedessero, per costringere Napoleone a
cedere Roma all'Italia come pegno d'alleanza. Senza compensi infatti
l'Italia non avrebbe potuto accettare il nuovo peso di un'alleanza
francese contro la Prussia per una guerra, della quale era
impossibile calcolare le catastrofi.
Le trattative perplesse e subdole d'ambo le parti non chiarivano
condizioni; si accennava ad una occupazione del resto dello stato
pontificio facendo di Roma una specie di città anseatica, e
ad un altro trasporto della capitale a Napoli.
Ad ogni modo Rattazzi sperava in una qualche mutazione; ma tenuto in
freno dalla corte e dal parlamento, sospetto ai liberali e non
abbastanza risoluto egli medesimo, male dominava le contraddizioni
del proprio disegno. La Francia colla formazione della legione
d'Antibo, nella quale i soldati conservavano il giuramento di
fedeltà all'imperatore e i libretti dell'esercito francese,
non solo violava la Convenzione di settembre, ma subendo le
pressioni del proprio clero guidato dal vescovo d'Orléans,
monsignore Dupanloup, era costretta ad insultare l'Italia con
affermazioni bellicose in favore del papato. Laonde il ministero
Rattazzi ne perdeva credito presso il partito rivoluzionario, e la
publica opinione si confondeva.
Garibaldi invece, già dimentico di Aspromonte, da Ginevra ove
era accorso al congresso della pace per dichiararvi con Bakunine,
Büchner, Pietro Leroux, Edgardo Quinet, Stefano Arago, ed altri
maggiori democratici d'Europa la decadenza del potere temporale,
parlava di guerra e la preparava. Quindi coll'impeto della propria
natura di condottiero, non appena ritornato in Italia, vi aveva
aperti arruolamenti, e s'aggirava fremendo sulla frontiera papalina.
I suoi proclami ai romani erano così espliciti, e la sua
azione così libera nel regno, che tutti necessariamente vi
sentivano la complicità del ministero. Da comizi popolari a
Milano, a Genova, a Firenze, a Napoli, sorgeva minaccioso il grido:
a Roma!; il contagio guadagnava l'esercito regolare, la situazione
si tendeva talmente che uno scoppio diventava inevitabile.
Garibaldi, malgrado l'immutata fedeltà alla propria formula
Italia e Vittorio Emanuele, per placare i più intransigenti
fra i cospiratori del centro romano d'insurrezione, aveva questa
volta ripreso il titolo di generale della republica romana.
Una grande illusione involgeva tutta la politica di quell'ora, ma in
realtà Roma era impreparata. Le poche armi raccoltevi erano
state sequestrate, un tentativo del comitato mazziniano di Genova
per introdurvene altre aveva fallito; i varii comitati vi si
combattevano tristamente, il ministero Rattazzi era costretto a
frenare qualunque spedizione al di fuori, poichè dentro di
quella nessuna insurrezione scoppiava a giustificarla; mentre
Garibaldi insofferente d'indugio anelava epicamente a morire sotto
le sue mura se ogni vittoria fosse negata, e l'Italia non ostante il
nuovo fermento di volontari era tutt'altro che disposta ad una
guerra eventuale colla Francia.
Mazzini, reso più chiaroveggente dall'odio alla monarchia,
sconsigliava invece dall'impresa scoprendovi l'agguato teso dal
ministero alla rivoluzione. Infatti se la Francia avesse consentito
la spedizione, ed era impossibile, la monarchia vi ripeterebbe come
a Napoli il proprio intervento colla scusa di salvare il papa dalla
demagogia e s'insedierebbe a Roma; se la spedizione fallisse, e la
Francia scendesse con un corpo d'esercito a difendere il papato, la
monarchia assisterebbe impassibile all'ecatombe dei garibaldini. In
ambo i casi per Mazzini la rivoluzione era perduta. Laonde, cercando
in Roma una iniziativa per l'Italia, egli dichiarava che, se quella
dovesse venire aggregata come il resto al Piemonte, preferiva
rimanesse del papa per altri tre anni. «O fare a danno della
monarchia o non fare» era adesso il suo motto.
L'urgenza di tale iniziativa republicana lo spingeva sino a
rampognare coloro che si arruolavano con Garibaldi, e a consigliare
loro l'insubordinazione o la diserzione, appena entrati nello stato
pontificio, per gridare la republica. La sua antica vanità di
capitano, ancora sotto il peso della sciagurata spedizione in
Savoia, s'irritava contro questa suprema imprudenza di Garibaldi,
che avrebbe perduto l'Italia per rendere un servigio alla monarchia.
Quindi sognava di sbarcare egli stesso con altri mille e con
bandiera republicana sopra un punto della costa romana, ora che
tutti esitavano ancora, e superando tutti resuscitare nella grande
città la republica del '49.
Intanto i volontari arruolati publicamente nelle città e
mandati in truppa ai confini vi si irreggimentavano.
Il governo publicava minacce e lasciava espandersi il moto. Quasi
tutti i maggiori rivoluzionari dissuadevano Garibaldi dall'impresa.
Acerbi, Crispi, Mario, Fabrizi gliene illustravano con terribile
evidenza i pericoli e gli equivoci; ma egli si ostinava sublimamente
muto, vincendo la loro ragione col fascino della propria
volontà. Nella infallibilità dell'istinto egli solo
sentiva che la rivoluzione doveva a se medesima, dopo la inonorata
conquista monarchica del Veneto, un supremo tentativo su Roma, alla
quale la monarchia aveva abdicato colla Convenzione di settembre e
il trasporto della capitale a Firenze. Sulle condizioni dell'impresa
la sua vecchia esperienza s'ingannava ancora meno di quella degli
altri rivoluzionari, quantunque la nobile speranza di trascinare con
questa iniziativa Vittorio Emanuele in campo lo illudesse ancora. Ma
la rivoluzione non poteva, come la monarchia, rinunziare a Roma
sotto pena di rendere ridicola la tragedia di Aspromonte: la morte
di Garibaldi e una ecatombe di garibaldini sotto le mura di quella
per mano dei francesi avrebbe invece staccato per sempre l'Italia da
Napoleone, e resa inevitabile la guerra al papato.
Garibaldi voleva morire. A mezzo settembre (1867) Giovanni Nicotera
era già a capo di una colonna mirante su Velletri; Menotti
Garibaldi col corpo centrale dei volontari si teneva pronto a
marciare su Monterotondo; Acerbi con l'ala destra minacciava
Viterbo; e Garibaldi scorreva la frontiera attendendo da Roma un
segnale d'insurrezione, pronto a varcarla anche senza di questo. Ma
il ministero, stretto dalle minacce francesi, decide di arrestarlo
quantunque deputato e violando lo statuto: ad Arezzo l'accoglienza
entusiastica del popolo lo protegge, ma nel villaggio di Sinalunga
presso il lago Trasimeno è catturato con parte del suo stato
maggiore (23 settembre). Soldati dell'esercito regolare che lo
veggono passare prigioniero urlano: «A Roma, a Roma!»;
il popolo di Firenze tumultua; però Garibaldi viene chiuso
momentaneamente nella fortezza d'Alessandria. Allora i suoi
luogotenenti si mordono l'uno l'altro per gelosia di comando; nella
confusione centuplicata dall'arresto del generale nè
volontari, nè esercito, nè parlamento, nè paese
comprendono più nulla. Siccome il ministero non disperde i
volontari alle frontiere papaline, i più suppongono
quell'arresto una lustra diplomatica per ritardare la spedizione,
dar tempo a Roma d'insorgere, e al governo d'intervenire col proprio
esercito.
Garibaldi, indignato del tradimento, dimentica se stesso al punto di
chiedere protezione all'Inghilterra, agli Stati Uniti e
all'Argentina come loro cittadino, Rattazzi impaurito dello scandalo
gli manda il generale Pescetto, ministro della marina, per offrirgli
di tornare libero a Caprera senza condizioni; Garibaldi accetta, ed
invece rimane prigioniero nell'isola bloccata dalle navi regie.
Ma siccome dalla cittadella di Alessandria aveva già promesso
ai romani di raggiungerli a qualunque costo, appena cominciate le
ostilità fugge, a notte, romanzescamente, sopra uno schifo;
approda in Sardegna; di là sbarca a Livorno, ricompare a
Firenze (19 ottobre) che la guerra è già scoppiata
alla frontiera pontificia. Infatti il 28 settembre alcune bande di
garibaldini, varcato il confine, avevano già costretto i
gendarmi di Acquapendente ad arrendersi; quindi, entrate in Viterbo,
vi avevano costituito un comitato d'insurrezione col nome di governo
provvisorio, mentre altre si erano insignorite di Bolsena e
minacciavano Pontecorvo.
Rattazzi, messo al bivio dalla riapparizione di Garibaldi o di
ripetere Aspromonte marciando contro i volontari, o di sorpassare la
loro iniziativa invadendo lo stato pontificio, si dimette. Ma tutto
era già perduto prima. Napoleone aveva annunziato il proprio
intervento armato; Vittorio Emanuele per mezzo dell'ambasciatore
Nigra era stato forzato a proporgli un intervento misto, poi il 19
ottobre gli aveva ripetuto l'offerta dichiarandosi pronto a
riconoscere francamente in un proclama l'appoggio francese, e
chiudendo il dispaccio col rimettersi all'alta saggezza
dell'imperatore. Il 22 Napoleone rispondeva ancora che «una
occupazione mista non farebbe che complicare la questione dei due
governi»; e Vittorio Emanuele proibiva a Rattazzi d'invadere
lo stato pontificio.
Nullameno l'imperatore titubava ancora. Ma la monarchia, sottomessa
da quasi dieci anni alla sua volontà, non poteva osare di
soverchiarlo accettando il consiglio dato da Garibaldi a Rattazzi:
«invadere Roma coll'esercito italiano e subito». Pio IX
invece, conoscendo meglio del gabinetto di Firenze l'animo
dell'imperatore, aveva esclamato con quella scettica
bonarietà divenuta già celebre: «Imbecilli!
aveva loro concesso otto giorni!».
Rattazzi, abbastanza abilmente sgusciato dalla oramai bieca
situazione col dimettersi dopo aver compromesso impero, monarchia e
rivoluzione, in mezzo al turbamento universale pareva ancora un
forte ministro sagrificato dalla viltà del proprio governo.
Il generale Cialdini, incaricato di racimolare un nuovo ministero,
non essendo riuscito a dissuadere Garibaldi dall'impresa, declinava
il troppo difficile mandato.
Gli successe quindi il generale Menabrea con un ministero
reazionario; però non si ardì nè arrestare
Garibaldi, nè impedire altrimenti la spedizione. Pel primo
caso s'invocavano difficoltà insuperabili, e si diceva
cavillando che nessuno poteva imprigionarlo, non il Rattazzi
perchè ministro dimissionario, non il Cialdini siccome
ricusatosi a formare il nuovo ministero, non il Menabrea che non
l'aveva ancora formato del tutto; pel secondo il governo seguiva
tuttavia la spinta datagli dalla politica di Rattazzi fra le
contrarie correnti di Francia e della rivoluzione.
L'eclissi della coscienza publica era totale. Mentre il governo
minacciava repressioni, i comitati mandavano soccorsi e diramavano
proclami; il potere legislativo era sospeso, quello esecutivo
diventato problematico.
Mentana.
Tutto l'eroismo italiano fremeva nel campo di Garibaldi, ma la
nazione rimaneva inerte così agli eccitamenti del generale
come alle recriminazioni del governo. Vittorio Emanuele pareva
dimenticato.
Però il moto garibaldino si veniva a mano a mano
agghiacciando: i volontarii erano pochi, malissimo armati con vecchi
fucili delle guardie nazionali, quasi senza cannoni e senza
cavalleria. Fra loro brillavano veterani e neofiti superbi
d'entusiasmo, qualche vecchio principe come il duca Lante di
Montefeltro, qualche giovane aristocratico come il principe di
Piombino esule romano, gli ultimi della famiglia dei Cairoli, che
dovevano morirvi. Ma lo spirito militare vi era scarso, un dissidio
politico separava garibaldini e mazziniani, il contegno oramai
apertamente ostile della monarchia disanimava i più, la
certezza di un intervento francese toglieva finalmente ogni speranza
all'impresa.
Non era più una guerra ma un sacrificio.
Una lugubre ed altera poesia dava allo stesso disordine di quelle
rosse falangi una maggiore solennità: si sentivano nel
silenzio delle marcie i presagi dell'ecatombe, e nel furore dei
primi assalti la frenesia della morte imminente.
Il 22 ottobre settantacinque giovani guidati da Giovanni e da Enrico
Cairoli s'avanzano, tragica avanguardia, su Roma: il loro disegno
è di promuovervi una sollevazione che tolga alla Francia la
ragione d'intervenire, e forzi la monarchia ad associarsi alla
rivoluzione. Ma la metropoli cattolica non esce nemmeno in quest'ora
suprema dalla propria ignavia; la polizia papalina vi ha già
arrestato alcuni capi della cospirazione; altri gliene hanno
già venduto il segreto; il governatore Zappi mura sei porte
della città, raddoppia i presidii di piazza Colonna e del
Campidoglio, intercettando ogni comunicazione colla campagna.
I Cairoli, scesi di notte pel Tevere, si accampano sull'altura di
Villa Glori aspettando invano il segnale dell'insurrezione: invece
le loro vedette segnalano l'avanzarsi di alcune compagnie di
antiboini. L'ecatombe incomincia, i settantacinque si votano alla
morte: una mischia degna dei Maccabei glorifica per sempre quel
piccolo poggio, e i due Cairoli cadono morenti sopra un mucchio di
cadaveri.
- Muoio, sai. Saluta mammina. Il problema è sciolto! -
mormora Enrico nell'agonia.
Poichè il loro impeto aveva fugato le due compagnie di
antiboini, i rimasti poterono scampare a notte recando la triste
notizia a Garibaldi.
Ma Roma non si è mossa. Solo in un lanificio di Trastevere
alcuni cospiratori, sorpresi poco dopo (25 ottobre), resistono
coraggiosamente animati dal coraggio di una donna, Giuditta Arquati
Tavani, ultima romana nella decadenza papale che aveva precipitato
Roma più basso dell'antica decadenza imperiale.
Garibaldi all'annunzio dell'eccidio dei Cairoli li immortala nel
più bello dei propri proclami; quindi rassegnate le truppe
(24 ottobre) a Passo Corese, ordina ai maggiori Valzania e Caldesi,
romagnoli entrambi, l'assalto di Monterotondo. Il 25 ve li raggiunge
con Mosto, Frigerio, Canzio ed altri capitani di battaglioni;
Menotti, degno di lui, si è inoltrato sino a millecinquecento
metri dal Pincio. Benchè quattrocento legionari antiboini
guarniscano Monterotondo, mirabilmente asserragliati, dopo solo
tredici ore di combattimento micidiale per i garibaldini la porta
della piccola città è incendiata, e attraverso le
fiamme i volontari irrompono vittoriosi. Dopo altre quattordici ore
anche il castello dominante la città si arrende, ma il popolo
conserva il più ostile mutismo verso i vincitori.
Nelle campagne l'odio ai ai garibaldini è anche più
vivo ed assurdo: impossibile ad essi di chiedere una informazione ed
ottenere una guida.
Fu l'unica, ultima vittoria garibaldina. L'indomani una divisione
francese agli ordini dei generale De-Failly salpava da Tolone, e a
Firenze s'insediava il ministero reazionario Menabrea.
Incomincia la settimana di passione. Francia e Italia si uniscono
contro Garibaldi. La squadra del Riboty, che da Rattazzi aveva avuto
l'avviso di tenersi pronta a sbarrare l'approdo francese, riceve
contrordini; l'esercito italiano si prepara a varcare il Confine per
assistere impassibile alla carneficina dei volontari, il re emana un
proclama nel quale li sconfessa minacciandoli come ribelli e
chiamando i francesi alleati e fratelli. Garibaldi già in
marcia su Roma, dopo la vittoria di Monterotondo, riceve a Casal de'
Pazzi contemporaneamente il proclama del re e le informazioni di
Adamoli e di Guerzoni, penetrati in Roma travestiti e ritornati
senza più speranza d'insurrezione. Per la prima volta
l'audace condottiero deve battere in ritirata, mentre all'annunzio
dei francesi sbarcati a Civitavecchia l'esercito regio passa il
confine per dividere con loro l'occupazione del territorio
pontificio e «poter imprendere in situazione pari a quella di
Francia nuovi negoziati», secondo una nota diplomatica del
ministro Menabrea a tutte le potenze. Ma di questo intervento, del
quale allora la parte moderata si vantò come di un atto
risoluto, la storia ignora ancora la ragione. Dacchè il
governo intendeva di non combattere i garibaldini e di lasciarli
schiacciare dai francesi, la sua presenza sul campo di battaglia
diventava un anacronismo inutile ed ingeneroso. Ma alla ritirata da
Casal de' Pazzi la confusione entra nella piccola truppa dei
volontari. Vanita la speranza della conquista di Roma,
l'insufficienza dell'impresa scoppia in tutte le coscienze come una
rivelazione: i mazziniani memori delle ammonizioni di Mazzini
sull'esito doloroso, si sbandano gettando le armi; Garibaldi,
esacerbato dalla diserzione, accusa Mazzini, il quale colla solita
magnanimità di sacrificio, dopo aver avversato la spedizione,
aveva da ultimo ordinato di aiutarla a quelli di parte propria.
Senonchè nell'incertezza di quell'ora i mazziniani si
scusano, invocando le sue parole di altri giorni e fingendo
d'ubbidire ad un suo ordine. Altri abbandonano il campo, ove erano
accorsi sulla fede di un aiuto monarchico: una voce sinistra propala
che l'esercito italiano appiedato alle spalle dei volontari attende
che i francesi li attacchino di fronte per accerchiarli. La rotta
precede la battaglia: da ottomila la piccola truppa discende a poco
più di cinquemila, disperati della patria, reluttanti a
morire invano e nullameno pronti a cercare in una suprema battaglia
una fine a quell'impresa, nella quale di chiaro non v'era che la
necessità di sacrificio.
Allora Garibaldi grandeggia. La sua ritirata da Roma non è
che una sua mossa strategica; l'idea di ripassare il confine
italiano, arrendendosi all'esercito regio senza aver combattuto i
nuovi invasori, non gli passa nemmeno per il capo. Bisogna che
l'Italia si riaffermi contro l'abbandono della monarchia e la
prepotenza della Francia. Da Monterotondo, ove si era ripiegato,
sfianca quindi su Tivoli, ove i colli gli offrono miglior terreno: i
suoi ventisei battaglioni non avevano più che la metà
dei soldati, la sua cavalleria è di sole dodici guide, le sue
munizioni per l'artiglieria non superano le settanta cariche. Il 5
novembre la sua avanguardia è sorpresa al villaggio di
Mentana da quella del generale papalino Kanzler: Garibaldi,
costretto a mutare la linea di marcia in quella di battaglia,
ritrova la migliore energia delle sue guerre d'America, ma i
volontari mal destri si scompongono, gli zuavi pontifici ardenti di
fanatismo assaltano con impeto: Garibaldi s'avventa egli stesso ad
una carica alla baionetta, ma saettati di faccia e di fianco dai
cannoni delle alture e dai nuovi fucili Chassepot a tiro rapido, i
garibaldini debbono indietreggiare.
Nullameno la loro ritirata impone rispetto al nemico, che non sa
occupare Mentana, terra aperta.
Garibaldi, sorpreso come Napoleone I a Waterloo dalla passione della
morte, si precipita solo contro il nemico, e come Napoleone trova
nei propri luogotenenti chi lo ferma.
La sera alle otto si decide la ritirata da Monterotondo su Passo
Corese. La mattina seguente i volontari depongono i fucili sul ponte
di confine per ritornare sbandati alle proprie case, e Garibaldi
arrestato a Figline viene chiuso nuovamente al Varignano. La
Convenzione di settembre era lacerata, Roma nuovamente in mano ai
francesi, le sue chiese echeggiavano alle preghiere della vittoria,
mentre l'Italia stava muta guardando un corpo del proprio esercito
appiedato entro i confini del territorio pontificio.
Ma il governo francese protestò così superbamente
contro tale violazione che il re dovette ordinare al generale
Cadorna di ripassare la frontiera.
Contraccolpi parlamentari.
Questa umiliazione non fu l'ultima.
Vittorio Emanuele con ingenua servilità scrisse ancora
all'imperatore Napoleone una lettera per scongiurarlo nel nome dei
medesimi interessi bonapartisti a richiamare le truppe da Roma e per
offrirgli l'alleanza italiana, se rinunciasse ad ogni ulteriore
protezione del papato. Questa lettera singolare diceva:
«...gli ultimi avvenimenti hanno sopito ogni rimembranza di
gratitudine nel cuore dell'Italia. L'alleanza della Francia non
è più nelle mani del governo! Il fucile Chassepot a
Mentana l'ha ferita mortalmente. Ma questa alleanza non è
spregevole. Sire: essa è alleanza più sicura e
più efficace, che non sia quella del partito clericale. Ora
Vostra Maestà senza offendere la volontà della nazione
può, se vuole ravvivarla o secondarla» (6 novembre).
Così scrive il re d'Italia al difensore del pontefice, al
vincitore di Garibaldi, all'alleato, che primo colla formazione
della legione d'Antibo aveva violato la Convenzione del settembre.
Il ministro francese degli esteri Rouher, rispose brutalmente
all'umile lettera del re dichiarando fra gli applausi della camera
che gli italiani non si impadronirebbero di Roma giammai!
Questa parola suonò come uno schiaffo sulla fronte della
nazione. Garibaldi, ancora prigioniero, veniva pregato dal ministro
Gualterio di scegliersi un esilio spontaneo per non suscitare
imbarazzi al governo.
Il paese intanto si manteneva calmo. I reduci garibaldini vi erano
considerati come pazzi che avessero voluto forzare l'impossibile, si
giudicava severamente l'opera di Garibaldi, si accusava Rattazzi di
aver compromesso le sorti delle istituzioni, non si misurava
abbastanza bene la nuova bassezza, alla quale era sceso Vittorio
Emanuele; mentre per una delle solite contraddizioni spiacevano le
compiacenze servili del Menabrea alla Francia, e i suoi postumi
rigori contro i volontari. Naturalmente la discussione degli ultimi
avvenimenti si restrinse alla camera, senza guadagnarvi nè di
logica nè di nobiltà. La destra intransigente vi si
accanì contro Garibaldi e più contro Rattazzi, capo
della sinistra: pareva ad essa un sacrilegio l'aver tentato contro
il volere della monarchia la questione di Roma: quindi colla
vanteria di una praticità fatta di sommissione e di
pedanteria derideva come rettorica le magnanime affermazioni del
diritto nazionale su Roma, e respingeva come ingratitudine le
pretese di una emancipazione dall'impero francese ancora arbitro
d'Europa. Di rimpatto la sinistra, giustamente sospettata di riserve
republicane, accusando la destra di partito antinazionale, ricadeva
sotto il sospetto di voler abbattere le istituzioni, mentre i veri
rivoluzionari si lagnavano invece che avesse tradito la rivoluzione
a profitto della monarchia. La colpa, palleggiata da partito a
partito, da ministero a ministero, dal re a Garibaldi, era uguale in
tutti. Questi solo aveva voluto dar Roma all'Italia malgrado il
papa, l'impero e la monarchia, ed era stato battuto, ma la sua
sconfitta isolava Napoleone in Europa togliendogli ogni
possibilità di nuova alleanza coll'Italia, infamava il papato
ed abbassava la monarchia.
Il motto di Enrico Cairoli morente - il problema è sciolto! -
era stata una di quelle rivelazioni, che la storia talora accorda
all'agonia degli eroi.
Il linguaggio insolente della Francia, cui il ministro Menabrea
opponeva i più sciatti complimenti, compiva il discredito del
governo: le arringhe abilissime del Rattazzi dichiarante di avere
per rispetto alla Convenzione, sebbene violata dalla Francia,
cercato d'impedire la spedizione di Garibaldi e voluto poi
intrepidamente prevenirla colle truppe regie occupando il territorio
pontificio onde evitare l'intervento francese, rendevano col
paragone più supine le dichiarazioni del nuovo ministero:
Quintino Sella, ammirabile di calma risoluta fra tanta incertezza di
passioni e di idee, proponeva indarno, e per quanto povero era
ancora il solo rimedio, un ordine del giorno puro e semplice che
riconfermasse Roma capitale d'Italia come risposta al jamais del
ministro francese. Finalmente il Bonfadini ne presentava un altro
mostruosamente contradditorio che, riaffermando indirettamente Roma
capitale e deplorando che si fosse voluto ottenerla con mezzi
contrari alle leggi dello stato e ai voti del parlamento,
conchiudeva coll'approvare l'opera del ministero.
La camera respinse anche questo, il ministero cadde, e il re
incaricò daccapo il Menabrea di formarne un altro.
Così la Corona, intervenendo nelle lotte parlamentari per
troncarne colla propria autorità un dibattito pericoloso,
riconfermava il vassallaggio della nazione alla Francia.
Fu questa l'ultima e non meno triste scena del tristissimo dramma.
Mentana rimaneva l'ipogeo della politica regia, come Marsala era
stata l'apogeo della politica rivoluzionaria. Il moto rivoluzionario
troppo vantato dai giornali radicali non aveva dato che poche
migliaia di volontari e un inconcludente soccorso pecuniario:
Rattazzi assecondandolo senza aver preparato l'esercito alla
possibilità di uno scontro colla Francia, aveva reso
inevitabile il disastro: per la monarchia non vi sarebbe stata altra
salute che nell'imitare la semplice e fulminea politica del conte di
Bismarck, occupando Roma con tale prestezza da mettere l'impero
francese nell'impaccio di rompere guerra all'Italia, e forse allora
la Prussia avrebbe potuto rattenerlo con una sola minaccia di
attacco sul Reno. Ma la monarchia non aveva sola la
responsabilità della catastrofe. I volontari erano stati
scarsi alla guerra, avevano disertato dal campo, si erano battuti
malamente a Mentana malgrado l'eroismo degli ufficiali, si erano
sbandati nella ritirata da Monterotondo strappando a Garibaldi
parole roventi di biasimo. I mazziniani con insensata gelosia
seguitavano ancora a vituperare Garibaldi di aver voluto combattere
nuovamente con bandiera regia, quando egli stesso venendo meno
questa volta al solito buon senso politico aveva alzato bandiera
neutra, assunto il titolo equivoco di generale della republica
romana e taciuto del re nei proclami da Monterotondo. Nell'esercito
regolare, malgrado qualche applauso a Garibaldi prima del rompere
delle ostilità, nessun vero entusiasmo: al comando di varcare
i confini pontifici, quando già i francesi marciavano con
forze triple contro i garibaldini, tutti avevano freddamente
obbedito: non un battaglione si era sollevato per correre in
soccorso ai volontari, non uno dei tanti ufficiali garibaldini, che
vi coprivano alti gradi, aveva rotto la spada piuttosto che ubbidire
all'ordine di assistere impassibile all'eccidio degli antichi
commilitoni sotto le mura di Roma per mano dei francesi e a difesa
del papa. L'esercito come la nazione aveva sentito l'onta
divorandola in silenzio.
Il re, indarno paragonato da letterati cortigiani a Guglielmo
d'Orange, si era eclissato nei lunghi preliminari dell'azione invece
di mostrarvisi con cauta risolutezza, e aveva poi subìto,
scongiurandole con inutile umiltà, tutte le prepotenze
francesi; il parlamento aveva difeso Francia e papato contro la
rivoluzione. Il popolo, incapace di sentire l'idealità di
Roma e di volere un'altra guerra nazionale, era povero, e non
domandava che ristori alla propria miseria: era libero, e non si
curava ancora della propria libertà: era padrone, ed ubbidiva
a chiunque lo comandasse, sfuggendo ai pericoli di tutte le
combinazioni politiche colla propria inerzia, e aspettando con
inconscia sicurezza il compimento dei propri destini da un'altra
coincidenza europea.
Nullameno il suo odio era adesso per la Francia: Mentana cancellava
Solferino.
Nel dramma di Mentana si erano addensate tutte le antinomie della
rivoluzione per risolversi in una impotenza finale: il papato, per
sottrarsi alla libertà italiana, aveva dovuto abbandonarsi
incondizionatamente all'arbitrio francese; l'impero napoleonico, per
resistere alla democrazia, aveva perduto l'Italia; Mazzini, per
tentare l'estrema prova della propria astratta republica, aveva
dovuto sconsigliare l'ultimo assalto al papato; la monarchia per
sostenersi aveva dovuto schierarsi fra i difensori di questo; la
destra parlamentare per salvare il governo si era mostrata come
partito antinazionale: la sinistra, mantenendosi nell'orbita legale
e separandosi così dalla rivoluzione, si era mutata in
partito di governo.
Però la decadenza di questo periodo, che dall'iniziativa
francese del 1859 doveva andare sino all'acquisto di Roma nel 1870
nella ruina dell'impero bonapartesco, s'arrestava a Mentana dinanzi
al crescere di nuove forze dal seno stesso della nazione.
Ultimi conati mazziniani.
Garibaldinismo e mazzinianismo erano consunti. Appena intorno ai due
grandi duci si stringeva ancora qualche manipolo di veterani.
Una nuova generazione stava per sorgere, che non avendo partecipato
alle lotte del risorgimento, non si impigliava nelle sue
contraddizioni e non comprendeva i suoi eroi. L'ultimo tentativo di
Mentana aveva provato che solamente l'impero napoleonico difendeva
il papato: nella Francia stessa i maggiori spiriti, da Michelet ad
Hugo, applaudivano Garibaldi, mentre il congresso proposto da
Napoleone per una nuova soluzione della questione romana falliva
dinanzi all'influenza di tutti gli stati. Il sole dei Bonaparte
declinava per sempre all'orizzonte europeo.
Roma tornerebbe indubbiamente all'Italia; questa convinzione era
persino in coloro che non lo avrebbero voluto, e da Roma si
inizierebbe per l'Italia il vero periodo dell'unità. Per ora,
aspettando che un altro trionfo della rivoluzione in Europa
rovesciasse l'impero francese, bisognava aiutare l'intima formazione
nazionale con altre forze e con nuovi elementi. Alla grande poesia
delle congiure e delle battaglie succedeva la passione prosaica
degli interessi con iniziative inavvertite, che dovevano mutare
lentamente le condizioni politiche e sociali del paese. Si
cominciava ad accusare di enfasi ogni entusiasmo politico e di
rettorica ogni eloquenza: i mutati modi di guerra rendevano inutile
tutto l'eroismo di Garibaldi, le battaglie del quale, dopo la grande
campagna di Moltke, non erano più che scaramucce: anche nella
guerra la prosa della scienza succedeva alla poesia
dell'ispirazione. L'apostolato di Mazzini non pareva più che
una predicazione di catechismo: nella sua utopia di una terza epoca
italiana in Europa spirava l'ultimo romanticismo filosofico di una
scuola morta col Gioberti. Già la democrazia europea aveva
sorpassato con più vaste formule socialistiche il grande
tribuno, che, rivoluzionario in Italia, era costretto ad essere ora
reazionario in Europa. Dalla Francia, dalla Germania, dalla Russia,
grandi scrittori si levavano contro di lui, mentre le masse sorde
alla sua voce rompevano già i confini loro assegnati dalla
sua libertà deridendo la fede nel suo Dio.
Le tendenze positiviste del secolo respingevano l'idealismo da ogni
campo. Economia privata e pubblica attiravano tutte le forze; alle
battaglie dei libri e delle insurrezioni succedevano quelle
dell'industria e del commercio; i lavori si specializzavano, i
patrioti diventavano importuni; si brontolava contro le cariche loro
concesse per meriti di sacrifici, si gridava alla necessità
di svecchiare il mondo dacchè una stessa pedanteria inceppava
rivoluzionari e moderati, e secondo gli uni dissentire da Mazzini,
secondo gli altri discutere il re era un delitto.
Solo Garibaldi, uomo d'istinto e di passioni, restava giovane.
La decadenza mazziniana precipitava. Nullameno la logica del sistema
premeva Mazzini. Egli sentiva con nuova angoscia la necessità
e l'impossibilità di altri conati republicani: ma ritirarsi
di fronte alla monarchia dopo Mentana sarebbe stato un discendere
più basso di essa senza nemmeno le attenuanti della sua
situazione politica, e a combatterla le condizioni del partito
repubblicano e della nazione non davano forze. La Società
dell'Alleanza Republicana, da lui fondata negli ultimi anni, non si
diffondeva che alla superficie del paese, quando invece il governo
cresceva ogni giorno d'importanza, malgrado tutti gli errori della
sua politica estera ed interna. Al mazzinianismo non restava che
prendere il malcontento provocato dalle tasse per una opposizione
ideale alla politica monarchica, e soffiarvi sopra con equivoco
patriottismo. Ma il ministero Menabrea vigilava fieramente
sostituendo nelle maggiori città generali a prefetti,
sciogliendo arbitrariamente società politiche, arrestando i
più sospetti patrioti, moschettando le turbe insorgenti
contro la tassa del macinato e della ricchezza mobile.
Un'insurrezione era impossibile: oramai Mazzini non conosceva
più l'Italia. Intorno a lui vivente da oltre trent'anni
nell'esilio, si stringeva un sinedrio d'incondizionati devoti e di
abili sfruttatori, che gli falsavano al giudizio la realtà
delle cose; gli si carpivano tristamente lodi, biasimi, ordini e
sopratutto i pochi denari senza che egli nemmeno lo sospettasse.
Dopo l'applicazione delle armi a tiro celere nessuna insurrezione
poteva più prescindere da una specie di pronunciamento
militare; si cercò quindi di sedurre l'esercito ma la
propaganda rivoluzionaria, invece di cominciarvi in alto dai
comandanti, fu iniziata nella bassa forza fra giovani caporali e
sergenti senza capacità e senza credito. Era lavoro
pericoloso, immorale ed inutile, che doveva naturalmente concludere
a qualche insubordinazione di caserma punita colla fucilazione come
avvenne poi nel caso del caporale Barsanti disgustando la grande
maggioranza del paese, che dopo le umilianti sconfitte della guerra
veneta seguiva con passione gli sforzi del governo per il
riordinamento militare. Con più assurda idea si pensò
ad un grosso comizio milanese per protestare contro le nuove
restrizioni alla libertà di stampa e di riunione, e vi si
invitarono rappresentanti di tutta l'Italia proclamando che alle
provocazioni immancabili della polizia si sarebbe risposto colle
armi. Naturalmente il governo proibì il comizio; quindi lo
infamò per bocca del ministro Cantelli coll'assurda accusa
che dovessero adunarvisi duecento accoltellatori. Nell'eccesso di
questa reazione il ministero giunse persino ad esigere dalla
Svizzera l'espulsione di Mazzini venuto a Lugano; e la republica,
contraddicendo alle vecchie glorie della propria libertà,
cedette all'ingiusta pressione.
Il partito mazziniano, galvanizzato da tali minute persecuzioni,
parve allora rianimarsi. Invincibile nelle accuse alla monarchia di
non sapere e di non volere compiere l'unità della patria
colla conquista di Roma, esso ritorceva con logica superba contro il
governo tutti gli espedienti della sua politica. Infatti il Menabrea
nella prima calma succeduta al disastro di Mentana tornava daccapo a
chiedere i buoni uffici della Francia per stabilire un modus vivendi
fra il regno d'Italia e la Santa Sede, offrendosi di garantire al
papa la più illimitata libertà e di assumersi una
grossa parte del debito pontificio, solo che il nuovo presidio
francese si ritirasse da Roma. L'impero respinse colla solita
alterigia l'impossibile accordo e mantenne il corpo d'occupazione a
Roma, come se la Convenzione di settembre non fosse avvenuta. Con
non migliore proposito Vittorio Emanuele tentò di propria
iniziativa una alleanza fra Italia, Francia ed Austria contro la
Prussia ponendovi a condizioni fondamentali per l'Italia lo sgombero
di Roma delle truppe francesi, la consacrazione del principio del
non intervento per le cose italiane, e nel caso di una guerra una
rettificazione delle frontiere del Varo e delle alpi tirolesi. Si
sarebbero così ricuperate Nizza e Trento rinunciando per
sempre a Trieste, e lasciando in sospeso la questione di Roma. Dopo
molto tergiversare Austria e Francia ricusarono. Ma l'Italia dopo
Custoza e Mentana alleata coll'Austria e colla Francia a danno della
nazionalità germanica, che stava per rovesciare l'impero
napoleonico, sarebbe stato l'assurdo più ripugnante nella
storia del secolo.
Nel 1868 nuove congiure intendevano ad un moto rivoluzionario, ma
senza più alcuna delle potenti energie di un tempo: non
sincerità di fede, non passione di odio al governo, non
chiarezza nello scopo, non vera preparazione di mezzi. Si congiurava
quasi all'aria aperta sorridendone; si sarebbe detta una Fronda, se
il problema ne fosse stato meno solenne e lo spirito dei congiurati
più elegante. Mazzini non osava risolvere: proclamava la
necessità di assalire la monarchia, e indietreggiava dinanzi
alla guerra civile; credeva sempre nel valore del popolo, e
diffidava delle proprie bande. Quindi i primi moti nel Comasco, a
Piacenza e a Pavia (marzo 1869), cominciati contro la sua
volontà, furono così inani che non destarono la menoma
apprensione; a Bologna e nelle Romagne finirono in una innocua
scampagnata; il ridicolo ne colpiva i reduci, che ne ridevano essi
stessi. Poi Mazzini da Genova, ove aveva riparato all'insaputa del
governo, meditò un'insurrezione nella Sicilia.
Era l'ultimo errore della sua politica rivoluzionaria. La Sicilia,
calda ancora della propria rivolta brigantesca e staccata dal
continente, non avrebbe potuto espandere il moto, pur riuscendo a
dargli in se stessa vera forza espansiva. L'imitazione della grande
iniziativa garibaldina diventava così evidente che pareva
suggerita dalla rivalità; però nè egli era
l'uomo, nè i tempi e il problema più i medesimi.
Mentre la guerra fra la Prussia e la Francia stava per scoppiare,
Mazzini senza accorgersene era vittima di un intrigo diplomatico di
Bismarck, che per staccare l'Italia dalla Francia intendeva a
fomentarvi disordini promettendo aiuti segreti di armi e di denari
alla rivoluzione. Poco dopo l'astuto cancelliere prussiano, essendo
invece riuscito ad assicurarsi la neutralità dell'Italia,
troncava bruscamente ogni trattativa, e ne avvisava il gabinetto di
Firenze.
Mazzini, arrestato nelle acque di Palermo prima d'aver toccato
terra, venne chiuso nella fortezza di Gaeta; il capitano generale
scelto da lui all'impresa, certo Wolf, era un agente segreto del
governo.
Così finiva fra un tradimento diplomatico e un tradimento
rivoluzionario l'opera politica del grande agitatore, che primo in
Italia fra riformisti, federali, neoguelfi e carbonari vi aveva
nettamente formulato il principio dell'unità politica.
Nessuno aveva cooperato più validamente di lui al
risorgimento d'Italia, e nessuno vi restava come lui straniero nella
fatale decadenza del proprio sistema, fra l'ingrata indifferenza del
popolo, nel momento che la monarchia stava per essere spinta su Roma
da un'altra rivoluzione europea.
Capitolo Nono.
La crisi finanziaria
L'ambiente economico.
Mentre tutti i partiti si esaurivano nell'impossibilità di
frangere l'orbita napoleonica, al di fuori di essa la vita ridesta
dal grande trionfo dell'unità vigoreggiava. Nella stessa
scettica indifferenza della nazione per le scene finali del proprio
dramma politico era una superbia giovanile, che guardando più
lontano, quando per l'imminente pienezza dei tempi l'Italia sarebbe
in Roma sovrana assoluta di se medesima, si preparava a lottare su
tutti i campi della civiltà colle nazioni più avanzate
d'Europa.
Un potente moto era da tempo incominciato nella produzione
nazionale. I nuovi mezzi di comunicazione, le due grandi
mobilitazioni dell'esercito e della burocrazia, un maggiore contatto
cogli altri popoli d'Europa, la diffusione delle idee, la
libertà in ogni opera, e sopratutto una nuova coscienza
avevano già mutata la fisonomia della vecchia Italia
straniera a se stessa da regione a regione. Tutto era a rifare, e a
tutto si poneva mano. Il governo spingeva prodigamente le opere
pubbliche; comuni e provincie seguivano con maggior febbre e peggior
metodo l'esempio: nelle provincie del nord più culte ed
alacri tutte le industrie pigliavano nuovo slancio. Una larga e
subita applicazione delle macchine a vapore raddoppiava i primi
saggi di grande manifattura; il Moncenisio non era ancora aperto che
già si preparava il foro del Gottardo; Genova, cresciuta
così a porto di tutta l'Europa centrale, moltiplicava il
proprio commercio; Torino si vendicava nobilmente della decadenza da
capitale sviluppandosi come città manifatturiera; Milano
diventava centro di tutti gli scambi; a Firenze la vita della
capitale galvanizzava il fiacco costume antico; a Napoli le strade
aperte nel vecchio reame attiravano nuovi e fecondi elementi. Al
calore di questa giovane vita e sotto la sferza del bisogno cresceva
l'attività: tutte le carriere aperte a tutti mutavano gli
individui in cittadini, le attitudini si rivelavano nell'esercizio,
le capacità erano prodotte dalle stesse cariche moltiplicate
in quel fervore oltre ogni misura.
Dacchè la formazione dell'unità nazionale doveva
fatalmente compiersi col mezzo della monarchia piemontese e di
iniziative straniere, la nuova operosità italiana, invece di
svolgersi appassionatamente nella politica per forzarne i dati,
doveva esplicarsi per valori individuali nella sfera più
bassa dell'economia, come a preparazione di più alto periodo
storico. Fra il bisbiglio accademico dei partiti il grosso della
gente non sentiva e non badava che al problema finanziario: chi
aveva risparmiato il sangue doveva prodigare il denaro, e di denaro
non solo aveva d'uopo incessantemente il governo per allestire i
nuovi servizi publici, ma tutti gli altri campi
dell'attività. La grandine delle tasse doveva quindi cadere
su mèssi non ancora mature, e talvolta su terreni appena
aperti dal primo aratro.
Nel problema delle finanze s'aggruppavano tutti gli altri, ma senza
speranza di benefiche coincidenze europee e di aiuti avventurieri.
Nel governo diventava suprema difficoltà l'imposizione e
l'esazione delle imposte in tanto squilibrio della nazione fra
provincie e provincie: per l'imposta prediale o antiquati o monchi o
mancanti i catasti; incredibilmente dispari il saggio della
produzione anche per la differenza nei mezzi di scambio; per le
ricchezze mobili più difficile ancora saper dove e come
colpire con giustizia approssimativa senza arrestare il circolo
dell'operosità. Poi in molte regioni il nuovo governo
tutt'altro che benviso, e quindi facile ad essere odiato al primo
aumento di pesi: abitudini inveterate e privilegi da togliere a
molti paesi come ultimi caratteri autonomici; nei politicanti e nei
parlamentari dottrinarismo di teorie inapplicabili al momento e al
luogo; più in basso rettorica a favore del popolo per
sottrarlo ai sacrifici inevitabili della crisi; in nessuna classe
spontaneità di offerta e conoscenza vera delle condizioni
dello stato.
Finanziariamente il primo fatto della rivoluzione fu il sommarsi di
tutti i debiti dei vecchi stati, e delle spese incontrate per
rovesciarli, in una prima unità ottenuta non senza contrasto:
poi venne quella delle tariffe e delle imposte. Guai e guaiti si
moltiplicarono allora. La formazione italica essendo rimasta a
mezzo, bisognava crescere armi a difesa della nazione e
contemporaneamente spremerla per fecondarla con opere pubbliche. Ma
il capitale indigeno si nascondeva ancora, il risparmio era male
organizzato, il capitale straniero si presentava usuraio e
diffidente. Impossibile quindi ogni tentativo di vera rivoluzione
finanziaria. Nelle imposte anzichè alla scienza e alla
giustizia bisognava badare all'incasso, poichè al loro
assetto logico mancavano gli studi, e alla loro equità
distributiva contrastava lo stesso egoismo della borghesia
trionfante. Congegni e leggi amministrative s'incagliavano
reciprocamente per difetti di struttura rendendo più
difficile ogni esazione. Così ne venne una guerra fra governo
e contribuenti piena di frodi e di violenza d'ambo i lati: il
malcontento politico vi si mescolò per coprire di nobili
pretesti le più tristi avarizie e le truffe più
sfrontate.
La sinistra parlamentare, che come partito rivoluzionario avrebbe
dovuto conservare maggior coraggio nei sacrifici, fu
dall'opposizione sistematica trascinata nella più odiosa
rettorica, approvando sempre le spese e negando sempre le tasse; la
destra invece, che contrastando politicamente alle piazze ne aveva
perduto il favore e non sperava riacquistarlo, trovò nel
proprio orgoglio di comando l'energia necessaria a sostenere il
governo; ma destra e sinistra, camera e senato, non ebbero mai vero
programma finanziario.
Alcune tasse sorpassarono i massimi più assurdi: v'ebbero
provincie nelle quali l'imposta prediale raggiunse sino al 76% sulla
rendita, quella dei fabbricati toccò il 50%, i dazi di
consumazione inasprirono la miseria dei più poveri; alle
dogane i trattati di commercio stretti nelle prime ore, quando
bisognava impetrare dai grandi stati il riconoscimento del nuovo
regno, diedero la peggiore forma d'imposta, giacchè la merce
straniera vi ottenne trattamento non reso alla nostra dagli altri
paesi. I primi prestiti furono contratti a frutti esorbitanti, le
prime emissioni di rendita subirono disastrosi ribassi; dai prestiti
volontari si dovette venire ai forzati, si ricorse col macinato
all'atroce espediente di colpire tutti i più miseri, mentre
alla tassa della ricchezza mobile da principio quasi tutti i redditi
sfuggivano meno quelli degli impiegati. La vendita dei beni
ecclesiastici parve olio sul fuoco, il corso forzoso della moneta
cartacea fu la maggiore risorsa di cassa, quando tutte furono
esaurite dal crescendo delle spese, alle quali le ultime conquiste
della nazione davano uno spaventevole aire.
Allora da questo abisso senza fondo si affacciò lo spettro
del fallimento. L'Europa, che aveva giudicato simpaticamente la
fortuna politica d'Italia nel suo risorgere a nazione, credette di
essersi ingannata vedendola vacillare sotto il peso
dell'improvvisazione economica.
Fortunatamente la nazione trovò in Quintino Sella l'eroe
della propria finanza.
Quintino Sella.
Egli solo nell'entusiasmo delle prime feste patriottiche,
all'indomani della proclamazione del nuovo regno, aveva osato
pronunciare la stridula e minacciosa parola del fallimento. La
finanza, maneggiata intrepidamente dal conte di Cavour come
istrumento di guerra, doveva dopo la vittoria diventare la base del
nuovo stato. Illusioni classiche e rivoluzionarie dicevano allora
l'Italia ricca; non si comprendeva ancora la differenza fra la
moderna vita industriale e l'antica, non si conoscevano abbastanza
l'assetto e le forze delle altre nazioni; lo stesso orgoglio, che ci
aveva fatto credere sino all'ultimo di essere sempre alla testa
della civiltà europea, ci persuadeva di possedere risorse
capaci di resistere a ben altro che alla nostra rivoluzione.
Così le prime ammonizioni del Sella parvero pedantescamente
brutali.
Ma l'irosa meraviglia del pubblico non arrestò l'austero
finanziere. La sua gagliarda fibra montanara di mercante cresciuto
da una famiglia, nella quale l'industria della lana esercitata da
secoli diventava come un titolo di nobiltà, era di quelle che
si temprano nelle battaglie, e vi si fanno infrangibili e
squillanti. Nato nel 1827 e ministro delle finanze nel 1862 col
ministero Rattazzi, era ancor giovane, di una natura media potente
di equilibrio e di salute. Lo dicevano già illustre
naturalista e matematico. Aveva studiato a Parigi durante la
rivoluzione del '48 e ne era ritornato per offrire il proprio
braccio alla patria, ma il ministro sardo Desambrois lo aveva
aspramente redarguito. Le sue prime impressioni politiche erano
state a Parigi una grande diffidenza delle sommosse popolari, e in
Italia una entusiastica ammirazione per Garibaldi nella difesa di
Roma, quando invece il conte di Cavour già infervorato di
egemonia piemontese si rallegrava alla caduta di quella republica
mazziniana. Ma della ultima rivoluzione federale italiana Sella non
aveva ben sentito che il dolore del disastro finale, consolandosene
austeramente cogli studi. Quindi ingegnere presto celebre per alcune
memorie sui cristalli, professore di matematiche, deputato,
segretario al ministero della pubblica istruzione, il suo ingegno
calmo e il suo carattere tenacemente onesto lo trassero al ministero
delle finanze. Fra tutti i luogotenenti di Cavour, egli il
più giovane, era quello che meno gli somigliava e doveva
maggiormente giovare alla sua tradizione. Mentre il Minghetti, il
Farini, il Ricasoli, il Rattazzi, tendevano a destreggiarsi nella
diplomazia, in essa riponendo gloria e salute, il Sella libero da
dottrine economiche e da vincoli partigiani rappresentava
inconsapevolmente la parte sana di quella borghesia, che avendo
trionfato colla rivoluzione doveva mutarla in governo regolare. Il
suo patriottismo era quindi egualmente alieno dagli eroici fervori
mazziniani e dalle subdole riserve monarchiche: amava con
lealtà antica la dinastia di Savoia, ma voleva annullarne la
conquista regia in una più vasta opera italiana.
Il problema delle finanze diventava perciò non solo un
problema di vita economica, ma di vita morale. Tutte le fortune
della rivoluzione sarebbero state indarno, se la nazione abbandonata
a se medesima non avesse saputo ordinarsi internamente.
In mezzo alle preoccupazioni rivoluzionarie, che dovevano poi
risolversi nell'alta tragedia di Aspromonte, egli pensò tosto
ad assodare la prima unità del regno nelle finanze col
richiamare gli spiriti alla serietà di un lavoro collettivo
dal torneo ormai inutile delle armi popolari. Uomo politico nel
senso corrivo della parola non era: nella fredda onestà
dell'ingegno, cui l'arguzia dava tratto tratto un lampo cristallino,
egli giudicava troppo severamente uomini e cose per acquistare nel
parlamento seguito di capitano. Incrollabile nelle proprie
convinzioni ed ostinato al trionfo delle proprie idee, gli mancava
quella qualità del corrompere e del lasciarsi corrompere
senza la quale riesce impossibile raccozzare intorno a se medesimo
abbastanza interessi per farli servire, spesso loro malgrado, ad un
principio.
Egli stesso giudicandosi più tardi «così alieno
dal comandare come da ubbidire» spiegava chiaramente le
vicende della propria altalena ministeriale e di quel soccombere suo
nel parlamento, mentre le sue idee finivano sempre per trionfarvi.
Ma se malgrado una incontestabile abilità di parlamentare
nelle discussioni gli falliva per fortunata mancanza di
qualità negative quella di capo-partito, a certi momenti,
quando nell'addensarsi dei pericoli la destrezza volgare non serviva
più e bisognava per superare le crisi attingere
nell'onestà della coscienza la forza di sfidare ingiustizie
di corte, di parlamento o di piazza, forzando i partiti a frangere
la propria orbita, allora Sella diventava il più forte uomo
politico del proprio periodo.
Come la borghesia, che incarnava, egli aveva quindi più
istinti che idee e più carattere che ingegno; era così
democratico da non sentire vanità per nessuna carica, ed
abbastanza aristocratico per appassionarsi a tutte le più
fini bellezze dello spirito; adorava la propria famiglia come un
antico; esercitava la politica come un dovere, ritornando ne' suoi
intervalli alla scienza e conservando sino agli ultimi giorni la
passione delle Alpi e delle miniere, senza chiedere alla nazione
nè premio nè giustizia per la propria opera.
Se Mazzini e Garibaldi erano la grande originale poesia della
rivoluzione, e il conte di Cavour vi aveva rappresentato la
tradizione monarchica, Quintino Sella vi mostrò il carattere
borghese nella sua più complessa potenza di mercantilismo e
di scienza, di onestà e di lavoro, d'iniziative e
d'equilibrio.
L'ingresso alla vita politica non poteva essere più difficile
per un uomo della sua tempra. Non essendo nè economista,
nè finanziere, egli non portava al ministero delle finanze
che una rettitudine di matematico e di mercante: conosceva poco i
partiti e non li amava. Nella politica, credeva con assennata
lealtà all'egemonia della casa di Savoia come al solo mezzo
capace di unificare l'Italia; ammirava Garibaldi e Cavour,
riconosceva l'altezza morale di Mazzini, calcolava sulla sodezza
costituzionale di Vittorio Emanuele, senza troppo illudersi sulla
capacità o sulla nobiltà del parlamento, quantunque vi
stimasse molti individui. L'assordante rettorica delle discussioni
non gli nascondeva la povertà dei caratteri e degli ingegni
stordentisi di frasi. Il suo metodo, angustamente ma fortemente
sperimentale, consisteva tutto nell'applicare allo stato i dettami
dell'economia domestica; la sua eloquenza piuttosto che dall'arte
prendeva vigore dalla profondità delle convinzioni; la sua
libertà veniva da una specie d'isolamento politico abbastanza
giustificato dalla qualità del suo ufficio. La finanza, che
non può mai essere un'opinione, doveva allora imporsi a tutti
i partiti come una realtà trascendente.
Il pericolo del fallimento.
Al primo sguardo Sella vi scoperse il fallimento. Una lotta eroica
diventava quindi inevitabile colla nazione per salvarla dall'abisso,
ove avarizia e ignoranza la spingevano.
Politicamente pochi problemi in questo secolo furono più
difficili.
Il paese gavazzava allora nella prima illusione della
libertà: era povero e si credeva ricco, era stato fortunato e
non voleva cessare di esserlo; ignorava se medesimo, non capiva gran
cosa nella propria rivoluzione e si ricusava risolutamente agli
ultimi sacrifici necessari per compierla. Mazzini e Garibaldi
avevano trovato più volontarii che denaro alle proprie
imprese. Quindi domandare sempre e dappertutto denari all'Italia era
allora il più aspro problema e il più generoso
ardimento. Nè partiti, nè ministeri, preoccupati della
politica estera ed interna, avevano un concetto chiaro della
situazione finanziaria.
Nella sua prima esposizione finanziaria del 1862 Sella provò
che il disavanzo previsto dal suo antecessore Bastogi in 317
milioni, era invece di 433; gli esercizi antecedenti al 1861 avevano
lasciato un vuoto di 530 milioni riempito da un prestito mediante
alienazione di rendita. In due soli anni il debito pubblico era
aumentato di 924 milioni, precisamente il doppio della rendita
annuale. A fronteggiarlo era impossibile contare su risparmi di
spese militari o di opere pubbliche nelle attuali condizioni del
paese o su prestiti che avrebbero subìto un ribasso del 40%
deprimendo il corso della rendita; alle imposte, unico rimedio, il
parlamento recalcitrava. Sella ebbe appena il tempo di preparane
alcune abbastanza lievi che, travolto col ministero Rattazzi dalla
catastrofe di Aspromonte, dovette rassegnare le dimissioni. Ma la
situazione era così peggiorata che il disavanzo complessivo
di cassa per gli anni 1862-63 saliva a circa 772 milioni; fra i
mezzi straordinari, cui egli accennava allora per provvedere a tale
somma, 150 milioni di una nuova emissione di buoni del tesoro, un
prestito di 550 milioni su altre cartelle del debito pubblico, 150
milioni anticipati per locazione di ferrovie e 150 milioni di altre
imposte, s'annunciava già l'idea del macinato. Provvedimenti
però che egli stesso dichiarava insufficienti, e proponeva
solo perchè maggiori sarebbero stati respinti dal parlamento.
Il Minghetti, che gli succedette alle finanze nel ministero Farini,
era economista di grido nelle sfere governative, ma di tempra troppo
fiacca e d'ingegno troppo leggero per sopportare tanta soma di
rovina economica. Quindi come tutti gli agili girò intorno al
problema invece di affrontarlo. Mentre il Sella giudicava
severamente questione di vita o di morte il raggiungere tosto il
pareggio fra le spese e le entrate ordinarie, egli credeva abile
politica procrastinarlo sino al 1867, illudendosi su risparmi
impossibili e non calcolando sulle nuove imposte che per due quinti.
Così la finanza cedeva alla politica parlamentare invece di
signoreggiarla: ma tutte le rosee previsioni del Minghetti sfumarono
e del suo passaggio al ministero non rimase altra traccia che in un
prestito di 700 milioni. Il Sella, fisso nella necessità
d'imporre al paese i più duri sacrifici, si ripiegava allora
dalla sinistra sulla destra, come su partito più disposto a
sfidare l'impopolarità delle tasse, ma appoggiò
patriotticamente alla Camera il ministero Minghetti sostenendone le
proposte, frutto in gran parte delle precedenti amministrazioni, pel
riordinamento del lotto, per le aspettative e disponibilità
degli impiegati, per la ricchezza mobile e pel dazio consumo; le
quali ultime sarebbero riuscite più logiche ed efficaci, se
tutte le sue idee vi avessero trionfato.
Però nell'acuirsi della crisi finanziaria il Sella fu
ricondotto al ministero delle finanze dal Lamarmora, incaricato di
liquidare la triste eredità della Convenzione di settembre.
La sua posizione già difficile di finanziere poco disposto a
transigere sulle tasse, diventava pericolosa colla nuova
responsabilità di un patto rinnegante il maggiore diritto
della nazione. Ma non abbastanza rivoluzionario per sentirne tutta
l'intima tragedia, pur dolendosene in segreto, egli credeva
anzitutto impedire peggiori conseguenze coll'eseguirlo per allora
fedelmente; quindi si volse a fronteggiare la tristissima situazione
di cassa. Il disavanzo era tale che in quell'ottobre (1864)
mancavano circa 200 milioni per pagare le imminenti scadenze del
dicembre. Nella crisi monetaria allora travagliante l'Europa, era
impossibile pensare a prestiti per le gravissime condizioni che i
prestatori avrebbero imposto; il servizio del debito pubblico,
appena di 90 milioni nel 1860, era già salito a 220. Sella
non si scoraggì: propose di procurare al tesoro 70 milioni
mediante una anticipazione del prezzo ricavato dalla vendita dei
beni demaniali e una alienazione di altri buoni; quindi di esigere
dal paese l'anticipazione dell'imposta fondiaria del 1865.
Quest'ultimo provvedimento era così grave che il Ricasoli da
lui interpellato non osò approvarlo. Nondimeno fu
insufficiente. In quella febbre del fallimento Sella, spingendo sino
alla minuzia il proprio sistema di risparmio, ritagliò la
lista civile del re e lo stipendio dei ministri, affermando di
volere 60 milioni di economie su tutti i bilanci oltre 40 milioni di
aumento nelle imposte esistenti. Al principio del 1865 mancavano
sempre 625 milioni pel servizio di cassa, e che bisognava ottenere
vendendo per 200 milioni di beni demaniali e contraendo un prestito
di altri 425 milioni. Il problema delle finanze italiane pareva
riprodurre quello del mitico Sisifo.
Malgrado tale sinistra evidenza il Minghetti, e con lui la maggior
parte degli economisti parlamentari, si stordivano ancora nella
speranza che con alcune riforme, economie, piccole tasse nuove e
ritocchi alle vecchie si potesse arrivare al pareggio. Non si osava
affrontare la verità finanziaria e si giuocava di equivoca
abilità per nasconderla al paese, onde colui, che si
arrischiasse di esporla per cercarvi i rimedi, ne fosse come
l'inventore ed il responsabile. Invece la situazione peggiorava: nel
1865 era già più difficile ridurre il disavanzo da 265
a 165 milioni che non nel 1863 raggiungere il pareggio. Nessuna
delle grandi tasse vigenti aveva ancora abbastanza elasticità
per forzarne di altri 100 milioni il reddito. Dopo aver diviso le
spese in tangibili ed intangibili, quelle per 485 e queste per 443
milioni, si doveva convenire che anche sulle prime diventavano
impossibili serie economie, giacchè esercito e marina avevano
continuamente d'uopo di aumenti, e le opere pubbliche si dovevano
proseguire per sviluppare la ricchezza nazionale. A conti fatti lo
stato spendeva annualmente circa 300 milioni più delle
proprie entrate.
In tali condizioni, mentre la borghesia gravata precipuamente dalla
fondiaria, dalla ricchezza mobile e dal bollo e registro, inalberava
ad ogni nuovo accenno di tasse, non restava più che colpire
la massa del popolo con un'imposta sulla macinazione dei cereali,
sebbene il governo avesse già dovuto abolirla in tutte le
provincie annesse come per anticipazione di maggiore benessere
materiale. Il Sella, abbastanza bene istrutto della miseria delle
popolazioni agricole, sulle quali il nuovo balzello avrebbe
più duramente pesato, esitò a proporlo, e non vi si
risolse che attirato egli stesso dalla vertigine di una più
profonda tragedia finanziaria. Nessun altro mezzo finanziario si
presentava allora capace di produrre 100 milioni all'erario; la
camera, bigottamente proclive ad accordi con Roma, riservava la
vendita dei beni delle corporazioni religiose per una convenzione
anche peggiore di quella di settembre, e che andò poi
fortunatamente fallita: impossibile pensare ad un incameramento dei
beni delle parrocchie. Solo una tassa del macinato, gravando
indistintamente tutti i contribuenti, poteva supplire ai più
urgenti bisogni dell'erario. Di giustizia distributiva nel sistema
finanziario d'allora non era il caso di parlare; ma per una delle
solite contraddizioni politiche quella stessa borghesia, che
spingendo il bilancio dello stato a precipizio sulla china delle
spese cercava con egoistica avvedutezza di sottrarsi alle imposte
necessarie, si opponeva al macinato in nome del popolo, meno ancora
per pietà della sua condizione che per un rimasuglio di
classicismo economico non scevro di qualche timore. Infatti nessun
balzello poteva in quel momento essere più doloroso al popolo
delle campagne. Al primo parlarne fu quindi un tolle generale:
l'opposizione scoppiò nel seno stesso del ministero. Il Lanza
si dimise dagli interni: il Sella, travolto dall'improvvisa bufera,
dovette anch'egli ritirarsi fra la disapprovazione della camera e le
maledizioni del paese, che lo accusava d'insensata ferocia per aver
voluto tentare una cura radicale del male fatto da tutti.
Gli succedette lo Scialoia.
Ma poichè la situazione rimaneva la stessa, questi dovette
cacciarsi nel medesimo solco pur non osando sostenere il disegno del
macinato e cercando indarno di sostituirlo con una imposta sulle
bevande. Il pubblico percosso da tanti allarmi pensò allora
con infantile rettorica di rimediare ogni male per mezzo di un
consorzio nazionale costituito in Torino a raccogliere offerte e
capitalizzarle sino a poter saldare tutto il debito nazionale.
Così, mentre la nazione rifiutava di assoggettarsi alle
imposte necessarie, si credeva da alcuni che avrebbe potuto offrire
volontariamente più delle imposte. Intanto l'alleanza colla
Prussia e l'imminenza della nuova guerra contro l'Austria rendevano
più difficile la situazione finanziaria. Si dovette ottenere
dal parlamento la facoltà di provvedere alle finanze con
mezzi straordinari, e si giunse al corso forzoso autorizzando con
decreto reale la banca nazionale ad emettere per 250 milioni di
biglietti. Quindi la guerra distrasse l'attenzione del paese a
maggiori pericoli.
Sella, cui si voleva dare il ministero della marina, lo
ricusò per andare commissario nel Veneto, ove rese segnalati
servigi. Finita la guerra, si trovarono enormemente cresciuti il
debito pubblico e le spese. Lo Scialoia soccombette dopo aver
proposto qualche scarso espediente e rinnovato le illusioni del
Minghetti; il Depretis, passando dal ministero della marina a quello
delle finanze, non vi fece molto miglior figura. Poi venne la volta
del Ferrara, il maggiore economista d'Italia, che dopo aver difeso
teoreticamente la tassa del macinato aiutandovi persino il Sella
negli studi, non osò imporla alla Camera. Nel 1867 il
disavanzo era ancora di 260 milioni e si prevedeva nel 1868 di altri
180: al dicembre dello stesso anno occorrevano 580 milioni. Non si
ardiva nè ricorrere a prestiti, nè aumentare la
circolazione cartacea: i 600 milioni, che si potevano ricavare
dall'asse ecclesiastico, bastavano appena a liquidare il passato.
La caduta del ministero Rattazzi per la catastrofe di Mentana
salvò il Ferrara dalle finanze, e vi trasse il Cambray-Digny.
Nessuno aveva arrischiato di attuare quanto il Sella aveva proposto;
ma le condizioni dello stato seguitavano a peggiorare. Il nuovo
ministro, segnalando il disavanzo del 1869 in 240 milioni,
dichiarò che negli anni seguenti sarebbe sempre aumentato
sino a rendere impossibile ogni rimedio. Allora la tassa del
macinato, ripresentata dal ministero con parecchie e non buone
modificazioni, passò per opera specialmente di Sella. Questo
tardo trionfo di finanziere segnò la sua condanna di uomo
politico: tutti gli odii si scaricarono sopra di lui perchè
tutti sapevano come alla sua tenacia si dovessero precipuamente i
continui sacrifici di denaro imposti al paese. Ma nemmeno l'imposta
del macinato bastava più a vincere il disavanzo: si dovette
aumentare il corso forzoso, cedere per 180 milioni anticipati il
monopolio dei tabacchi ad una regìa cointeressata, con patti
così onerosi per lo stato e con sì loschi intendimenti
che il Sella e il Lanza offesi nell'onestà vi si opposero
accanitamente quantunque invano.
Intanto la lotta dei partiti alla camera rendeva sempre più
difficile l'accettazione di un vero disegno finanziario. Il Sella
per il liberalismo delle proprie idee avrebbe dovuto sedere a
sinistra, ed era respinto a destra dall'opposizione rivoluzionaria
di quella; la destra invece lo accusava di giacobinismo; la sua
indipendenza dai partiti lo rendeva malviso a tutti;
l'austerità di qualche rimprovero sfuggitogli aveva irritato
contro di lui la corte, mentre nella stampa quotidiana e su dalle
piazze saliva un ignobile coro d'improperi intorno al suo nome. Fra
tanti nemici non un amico dei molti allora in favore del pubblico
che lo difendesse. Nella fantasia popolare e nell'opinione stessa
della camera egli solo rappresentava la necessità di sempre
nuovi sacrifici, offendendo simultaneamente l'egoismo delle masse e
la falsa abilità dei politicanti.
Quindi il Cambray-Digny potè troppo tardi applicare alcune
idee del Sella, quando anche i più riottosi dovevano
assoggettarvisi, senza esserne odiato e ottenendo presto il perdono
dell'oblio; mentre a Sella tornato ministro alla vigilia della
conquista di Roma crebbero gli odii plateali e le inimicizie
parlamentari.
Il suo terzo ministero delle finanze fu il più glorioso.
Senza tener conto della sua influenza decisiva sulla corte per
impedirle una alleanza colla Francia e per spingerla alla conquista
di Roma, in esso meritò l'eterna riconoscenza della patria
col trascinare finalmente tutti i partiti a seguirlo nell'opera
suprema della ricostituzione finanziaria. Gli insuccessi di tutti i
ministri, succedutisi dopo di lui alle finanze e costretti
direttamente o indirettamente a riconfermare i suoi disegni, aveva
persuaso anche i suoi più intransigenti avversari che egli
solo era abbastanza onesto d'ingegno e potente di volontà per
salvare la nazione dal fallimento. Se le resistenze dottrinarie
della sinistra e le subdole riserve della destra lo impacciavano
ancora nell'opera, quella da lui prestata alla conquista di Roma e
l'eroica prova di oramai dieci anni contro la crescente rovina della
nazione toglievano ai nemici l'autorità necessaria per
abbatterlo.
Così, assumendo il portafoglio delle finanze, prima ancora
che l'immane conflitto fra Prussia e Francia fosse scoppiato,
nell'esposizione del 10 marzo 1870 egli presentò il conto
generale dell'amministrazione dal 1862 al 1867 e la situazione del
tesoro 1868-69. In tale quadro duramente colorito, la vita pubblica
e segreta della nazione si rivelava per la prima volta alla
coscienza pubblica. Naturalmente il conto risentiva della confusione
rivoluzionaria, nella quale la nazione si era costituita, ma
spiegava abbastanza chiaramente la lotta sostenuta dalla nazione per
accrescere le entrate ordinarie e diminuire le spese di
amministrazione. Dal 1862 al 1870 le prime erano salite da 471 a 880
milioni, mentre le seconde, quelle tangibili, erano discese da 681 a
441 milioni. Il miglioramento avrebbe quindi dovuto essere di 649
milioni, e dacchè il disavanzo ordinario del 1864 era di 210
milioni, l'avanzo finale non poteva non raggiungere i 200 milioni.
Invece il disavanzo era di 450 milioni, perchè negli ultimi
otto anni per riparare alle deficienze dei bilanci si erano
contratti per 4 miliardi di debiti e cresciute le spese intangibili
da 239 a 670 milioni.
Si erano fatti sacrifizi enormi, ma non a tempo e con giusti
criteri.
Malgrado tutti gli sforzi il disavanzo del 1871, detratti i rimborsi
dei debiti redimibili, rimaneva sempre di 110 milioni: Sella ne
chiedeva 25 alle economie, 10 di più al macinato, 2 alle
volture catastali, 40 ai centesimi addizionali della ricchezza
mobile sottratti ai comuni e alle provincie per attribuirli allo
stato, altri 10 al dazio consumo e gli altri a minori provvedimenti.
Pei 200 milioni mancanti alla cassa presentava una nuova convenzione
colla banca nazionale, che portava a 500 milioni il debito dello
stato verso di essa e la dispensava dall'obbligo della riserva
metallica, pari all'ammontare dei mutui.
Per garanzia il governo le avrebbe concesso in deposito 588 milioni
di obbligazioni dell'asse ecclesiastico.
Così si sarebbe raggiunto non già un pareggio assoluto
nel bilancio, ma un equilibrio fra l'attivo e il passivo, mettendo
fuori conto i rimborsi dei debiti estinguibili ai quali si sarebbe
provveduto con operazioni di credito. La camera votò questo
«omnibus» finanziario, ma il Sella, oppugnato vivamente
dalla sinistra, dovette imprigionare per sempre la propria
libertà nella destra.
L'Italia aveva finalmente superata l'ardua prova economica.
La conquista di Roma venne a scomporre da capo tale disegno
finanziario. Nuovi debiti dallo stato pontificio passarono nel regno
d'Italia; altre spese per l'impianto della capitale e per aumenti
nell'esercito e nell'armata, resi necessari dalle inimicizie create
alla nazione dalla sua ultima fortuna, tornarono ad ingrossare il
passivo nei bilanci. Nullameno la potenza economica della nazione
pigliava il sopravvento. Il debito pubblico in un decennio era
salito da 2300 milioni a 8200, cosicchè la parte intangibile
del bilancio da 200 milioni toccava i 719; il movimento commerciale
da 1400 milioni sommava ora a 1960; le esportazioni, prima inferiori
di quasi 400 milioni alle importazioni, ora le superavano di
più che 100; i vaglia postali da 22 milioni era ascesi a 260,
triplicato il movimento telegrafico, le ferrovie da 2200 chilometri
allungate a 6200 e i loro viaggiatori da 15 milioni aumentati a 25.
Gli stessi buoni del tesoro in provincie, che appena li conoscevano,
oltrepassavano adesso i 130 milioni.
Questa la situazione nazionale al cominciare del l'anno 1871.
Il pareggio era ancora lontano. Altri 200 milioni mancavano al
servizio di cassa per l'anno 1872. Sella dovette rammendare tutto il
proprio disegno finanziario per ripresentare un secondo
«omnibus» di cinque anni così: passare il
servizio di tesoreria alle banche con un risparmio di 100 milioni di
fondo di cassa; esigere i proventi delle obbligazioni ecclesiastiche
destinate a diminuire il credito della banca nazionale, assegnando a
questa altrettanta rendita publica ed accrescendo così
l'entrata durante il quinquennio di circa altri 100 milioni;
aumentare la circolazione cartacea della banca nazionale per conto
dello Stato; ottenere ancora 100 milioni da aumenti sul bollo e
registro e sopra alcuni dazi; diminuire la spesa di 130 milioni
mediante la conversione facoltativa del prestito nazionale in
rendita consolidata.
Gli oppositori, che sino allora avevano accusato il Sella di troppo
corta vista, gli contrastavano ora questo disegno di un quinquennio;
la battaglia alla camera fu vivissima: solo la paura in tutti di
rovesciare con lui il ministero gli lasciò anche per questa
volta la vittoria. Poi nell'ultima esposizione del 1873 egli vinse
ancora salvando il pareggio da altri aumenti di spese militari e
soffocando la Camera con disperata energia nelle strette dell'eterno
dilemma, o restare nell'orbita dell'«omnibus» già
votato o perire nel mare senza riva del disavanzo. Ma la sua
posizione politica era diventata insostenibile. Sella potè
ancora resistere qualche tempo, poi travolto da una coalizione
parlamentare, quando già il pareggio finanziario, al
raggiungimento del quale aveva sacrificato tutto se stesso, era in
vista, cadde dal ministero per non più risalirvi.
Questo onore del pareggio doveva qualche anno dopo toccare al
Minghetti, perchè dietro ogni Cristoforo Colombo vi è
sempre un Amerigo Vespucci.
Ma l'eroe della finanza italiana, in questa lotta decennale senza
tregua e senza conforto, fu il Sella. Aspro, agile, indomito, egli
resistè a tutto, alle diserzioni di partito, agli odii di
corte, alle esecrazioni di piazza: gli avvolgimenti della politica
non poterono mai impaniarlo; volle onestamente, immutabilmente,
salvare l'onore della nazione nel campo economico, come Garibaldi
l'aveva salvato nel campo militare e Mazzini in quello morale.
Ministro e deputato, egli fu l'incubo del parlamento, che non
potè mai sottrarsi all'influenza del suo pensiero e della sua
volontà. La sua media natura spiegò nella
mutabilità di questa lotta virtù imprevedibili. Di
geologo egli si mutò improvvisamente in finanziere, crebbe a
uomo di stato quando alla caduta dell'impero napoleonico il governo
stremato dalla lunga abitudine del vassallaggio alla Francia tremava
ancora dell'andare a Roma. Sdegnò popolarità e fama:
fu austero, ironico come la più parte dei moralisti che
passano dall'ammonizione all'azione; ebbe attività
incomparabile, che lo rese vecchio a cinquant'anni, e l'uccise anzi
tempo.
Mentre la politica di tutti i partiti del risorgimento nazionale si
esauriva in una fatale decadenza, l'Italia affermò con Sella
la propria vitalità economica e civile. La resistenza provata
dal paese in tale arringo fu delle più ammirabili in questo
secolo, giacchè sotto la minaccia continua del fallimento,
dal fondo dell'antica miseria e coll'incapacità secolare
della vecchia educazione, si pose mano all'improvvisazione di un
grande stato. Agricoltura, commercio, industria, esercito, armata,
scuole, banche, casse postali, associazioni operaie di mutuo
soccorso, ferrovie, strade provinciali e comunali, fori alpini ed
appenninici, porti, canali, arsenali, tutto fu simultaneamente
improvvisato. L'emancipazione dai mercati stranieri seguì
all'indipendenza politica, la concorrenza ci animò invece di
prostrarci, nei rischi delle nuove imprese mescemmo il coraggio del
ricco alla temerità del povero; onde l'Europa, che dopo
averci rimessi in piedi si aspettava forse ad una seconda Grecia o
ad un altro Belgio, si trovò dopo dieci anni davanti una
terza Italia, seduta fieramente a Roma sulle rovine del potere
temporale, pronta a difendere le proprie Alpi con un milione di
soldati, e a gettare in mare dai propri cantieri le più
grandi corazzate del mondo.
Capitolo Decimo.
La presa di Roma
Rivalità della Francia colla Prussia.
Mentre nella dissoluzione dei partiti l'Italia cresceva a forte
stato costituzionale, la grande occasione politica, che doveva
risolvere il suo problema di Roma, maturava.
La tradizione di Richelieu non era morta nella diplomazia francese.
L'impero napoleonico giudicava ancora indispensabile alla propria
fortuna la divisione e l'abbassamento di tutti i vicini, onde questa
sua teoria rafforzata da lunghi esempi storici cresceva a passione
nell'orgoglio della nazione per mantenere sull'Europa un primato
impossibile. La millenaria antitesi della storia francese, sempre
rivoluzionaria e sempre monarchica, peggiorava il carattere geloso
di tale pretesa. La Francia era pronta a tendere la mano a tutti i
popoli, ma per mutarli in proprii clienti: quindi la forma quasi
sempre militare delle sue iniziative la tirava a maniera di
conquista, o l'antagonismo dei propri interessi coi loro la fermava
a mezzo delle migliori imprese. Generosa ed insolente, prodiga e
speculatrice, fanatica di libertà e di dittatura mobile,
avventuriera, ricca, altrettanto imprudente nell'ira dell'attacco
che incerta nel coraggio della resistenza, la Francia era
però sempre il centro della politica europea, e non
sospettava nemmeno che, il progresso dell'Europa essendo appunto
nella creazione di altri centri indipendenti, il principio di
nazionalità dovesse riprenderle sul Reno due provincie.
Nulla poteva più arrestare la decadenza dell'impero
napoleonico.
Succeduto con sanguinario processo alla impotente republica del 1848
promettendo al popolo ordine ed uguaglianza, gloria e
prosperità, esso non era in fondo che una forma della
democrazia non ancora arrivata alla capacità di governare se
stessa. La sua missione era quindi di fortificare la coscienza
nazionale in altri vent'anni di opposizione politica interna, e di
mantenere alla Francia le iniziative di nazionalità nella
politica estera; e l'impero si era sdebitato abbastanza bene di
questi due compiti, fondando l'Italia e l'Internazionale, il maggior
fatto politico e il maggior fatto sociale del secolo in Europa. Ma
la sua base, fatalmente clericale, poichè i monarchici
legittimisti e orleanisti l'osteggiavano, e la sua vita
signoreggiata da irresistibili tendenze militari ed avventuriere,
erano consunte. Così dopo aver difeso la Turchia contro la
Russia per conservare contro di questa il proprio primato in Europa,
e improvvisata l'Italia per mutarla in una quasi luogotenenza
francese, l'impero era stato trascinato dal gran sogno napoleonico
al Messico per creare coll'arciduca Massimiliano d'Austria un altro
impero e un'altra supremazia francese nel nuovo mondo. Ma la Russia,
arrestata un istante a Sebastopoli, proseguiva e prosegue tutt'ora
nel proprio irresistibile moto d'espansione; l'Italia agglomeratasi
a regno oltre e contro i disegni napoleonici accennava già
per rigoglioso ed irrefrenabile sviluppo di modernità a porsi
come rivale della Francia: nel Messico Benito Juarez, dopo aver
fucilato l'imperatore Massimiliano a Queretaro e costretto
l'esercito francese a rimpatriare, proclamava una repubblica poco
minore di quella degli Stati Uniti.
La necessità per l'impero francese di appoggiarsi sul
clericalismo contro l'irrompere della nuova democrazia, vietando
Roma agli italiani, aveva tolto a questi dopo la tragedia
d'Aspromonte e l'eccidio di Mentana ogni gratitudine; mentre la
Prussia, cacciatasi finalmente alla testa della Germania, dopo le
proprie strepitose vittorie del 1866 minacciava di costituire nel
centro di Europa un impero nazionale più vasto e poderoso di
quello napoleonico.
In Francia l'opposizione liberale e antidinastica era sempre venuta
guadagnando terreno: il socialismo imperiale sorpassato da quello
operaio si mutava nelle mani di Carlo Marx nella più vasta e
minacciosa associazione internazionale non solo contro l'impero ma
contro tutti i governi. Le vittorie prussiane avevano annebbiato lo
splendore delle ultime glorie francesi, la supremazia diplomatica
dell'impero era già scossa, nessuna classe lo sosteneva
più all'interno, nessuna idea all'estero. Il guasto del
metodo corruttore e le contraddizioni della politica dinastica con
quella nazionale affrettavano fatalmente la sua decadenza.
L'imperatore, ammalato, fra una corte di bigotti e d'impiegati, non
aveva in se stesso potenza capace di trascinare la nazione.
Poichè non era mai stato nè generale nè
statista, cominciava ora a fallire come uomo di governo e come
diplomatico: una inguaribile rilassatezza intorpidiva il suo
pensiero. Così, prima di essere espulso quale sovrano,
dovette decadere da imperatore, abbassandosi volontariamente a
subire un ultimo esperimento di governo costituzionale.
Ma contro l'impero napoleonico sorgeva minacciando la monarchia
prussiana.
Già all'indomani della vittoria di Sadowa il conte di
Bismarck aveva esclamato orgogliosamente: «il giuoco non
è ancor vinto, non è che raddoppiata la posta»;
in Francia invece quella vittoria produceva la dolorosa impressione
di una sconfitta nazionale. L'intromissione diplomatica tentata da
Napoleone a favore dell'Austria piuttosto che salvare la
dignità della supremazia francese l'aveva compromessa,
poichè il conte di Bismarck, avendo potuto prima della guerra
abbindolarlo con una vaga promessa di cessione del territorio fra la
Mosella e il Reno senza Coblenza e senza Magonza, era poi riuscito a
tenerlo a bada per tutti i preliminari della pace di Praga: quindi,
sicuro della nuova Confederazione del nord, lo aveva duramente
respinto. Ma la politica imperiale francese, qualificata
sdegnosamente dal grande cancelliere prussiano come una politica di
mancie, doveva subire in Germania una serie di smacchi sempre
più umilianti. Poichè sino dal 1863 il conte di
Bismarck aveva contrapposto al disegno austriaco di riforma federale
l'idea di un parlamento a suffragio universale diretto, fu sollecito
di aggiungere a questo Reichstag un Bundesrath o Consiglio federale,
composto dei delegati dei vari stati della Confederazione, formando
così una specie di corpo legislativo bicamerale. In esso la
Prussia dominava con una popolazione di 24 milioni sopra 6 milioni
degli altri ventuno Stati confederati. Poco dopo un altro parlamento
doganale sostituiva l'antico Zollverein cementando l'unità
economica della Germania; quella politica non poteva tardare molto a
trionfarvi.
Tale rudimentario ordinamento risultava da una serie di compromessi,
nei quali i partiti rivoluzionari si acconciavano a subordinare le
questioni astratte di libertà a quelle della costituzione
nazionale. Le pretese dell'impero napoleonico sulla riva sinistra
del Reno, che la Prussia avrebbe dovuto cedergli come scotto della
propria egemonia, urtavano quindi nel sentimento patriottico della
Germania ben più forte che non quello d'Italia nel 1859, e
risoluto dopo le vittorie sull'Austria a non patire diminuzioni.
Tutto il genio del conte di Bismarck, mutatosi da rappresentante del
Junkerthum prussiano in atleta dell'unità germanica, si
tendeva nell'opposizione contro la Francia, rispondendo col
più intrattabile orgoglio di patria alle minacce di una
diplomazia oramai divenuta impotente. La risolutezza del carattere e
la semplicità di una politica inflessibile nel proprio scopo
dovevano necessariamente assicurargli la vittoria sopra un
avversario come Napoleone, da lui paragonato ironicamente a
Tiefenbacher, il più irresoluto dei generali di Wallenstein.
E poichè Napoleone, malgrado le sollecitazioni della regina
d'Olanda e del ministro Drouyn de Lhuys, non aveva osato marciare
sul Reno mentre la Prussia convergendo nel 1866 ogni sforzo su
Vienna aveva lasciato indifese tutte le proprie frontiere,
l'insufficienza della Francia contro di quella si era già
rivelata. Quindi l'ostilità svolgendosi in una lotta
diplomatica permise al conte di Bismarck di prepararsi meglio alla
guerra.
Il suo disegno non poteva essere più semplice. Mentre la
Russia per punire Austria e Francia della guerra di Crimea fingeva
di non occuparsi del centro d'Europa, e l'Austria, affranta dalle
ultime sconfitte, e la Francia nuovamente imbarazzata di un serotino
esperimento costituzionale non avrebbero potuto arrischiarsi
così presto in campo, egli badava ad attirare la
Confederazione del sud, rimasta indipendente col trattato di Praga,
in una lega militare che preparasse quella politica. Le pretese e le
minacce della Francia capitavano a buon punto.
Il conte di Bismarck si destreggiò in tale torneo con una
abilità pari se non superiore a quella del conte di Cavour.
Quindi, dopo aver ricusato superbamente ogni cessione di territorio
sulla riva sinistra del Reno, per forzare gli stati del sud a
stringere colla Confederazione del nord una lega militare,
rivelò loro il disegno presentato dalla Francia nei
preliminari di Nikolsburg, col quale si chiedeva una striscia dei
territori dell'Assia e della Baviera, e che l'ingenuità del
diplomatico francese De Benedetti gli aveva lasciato nelle mani.
Naturalmente gli stati del sud, spaventati dai pericoli di questa
rivelazione, strinsero colla Prussia un segreto trattato militare
per la garanzia reciproca dei proprii territori, mettendo a sua
disposizione tutte le loro truppe in caso di guerra contro lo
straniero.
L'intimazione di Thiers, che a nome della pubblica opinione francese
aveva gridato a Bismarck dall'alto della tribuna accennando al Meno:
«fin qui e non oltre!», non era più che una frase
insulsamente spavalda come il jamais minacciato da Rouher agli
italiani.
Ma Bismarck, per togliere alla Francia ogni aureola di liberalismo,
finse abilmente di secondarla nelle mire invaditrici sino a
prometterle in un trattato, cui non appose mai la firma, il proprio
aiuto per annettersi il Belgio e il Lussemburgo; poi, nel momento
che Napoleone credeva di restaurare il proprio credito in Europa con
tali acquisti, egli si ritrasse bruscamente eccitando la pubblica
opinione in Germania a così fiere proteste contro la cessione
del Lussemburgo da essere costretto a minacciare l'Olanda come di un
casus belli, se mai vi consentisse. Alla diplomazia francese non
restava quindi altro terreno di lotta che il trattato di Praga,
accusando il nuovo parlamento doganale germanico di contrastare alla
Confederazione del sud ed eccitando in questa gli elementi
separatisti. Ma il sentimento patriottico della Germania, esasperato
da queste intromissioni straniere, precipitava nell'unità
prussiana non senza qualche sorda minaccia alla Francia. Di rimpatto
questa usava ogni modo di amicarsi l'Austria: un convegno a
Salisburgo (27 agosto 1867) fra i due imperatori era già
sembrato il prologo di un'alleanza, che l'antagonismo degli
interessi non aveva permesso; poco dopo l'eccidio di Mentana
Vittorio Emanuele aveva tentato di rannodare tali pratiche. I tre
sovrani trattavano segretamente con diplomatici di corte; nè
ministeri, nè parlamenti da principio sapevano delle
trattative, ma l'impossibilità per Napoleone di fare qualche
concessione all'Italia su Roma impedì ogni alleanza.
Allora si diffuse per tutta Europa una grande illusione di pace come
una di quelle abbaglianti serenità che sogliono precedere le
tempeste.
Fine del Papato temporale.
Contemporaneamente in Italia il partito mazziniano dava gli ultimi
tratti e il papato, quasi presago della fine del proprio regno,
riuniva in San Pietro un concilio ecumenico per stabilire il dogma
dell'infallibilità pontificia. Il principio
dell'autorità divina, rappresentato per tanti secoli da
pontefici e da re, doveva necessariamente ripiegarsi, dai campi
della politica conquistati dal principio razionalista della
sovranità popolare, sul cattolicismo come sulla religione
più alta dell'umanità e nella quale il governo diretto
di Dio era più evidente. I miti della redenzione di Cristo e
della sua delegazione a San Pietro avevano fino dai primi tempi dato
alla chiesa un forte carattere monarchico: l'unità da questa
assorbita nell'impero romano, la sua intuizione di Roma come centro
del mondo, l'importanza acquistatavi grado grado, l'alleanza cogli
imperi medioevali, avevano messo il papato al disopra della chiesa
stessa in una sfera di autorità che abbracciava tutta la vita
umana. Naturalmente il papato vi si sviluppò a monarchia.
L'antico principio democratico della chiesa cristiana perì
nella sua stessa vittoria sul mondo. I primitivi modi democratici
d'elezione dovettero cangiarsi, quando nel troppo vasto e molteplice
impero cattolico diventò impossibile ai fedeli raccogliersi
regolarmente in comizi per nominare il capo e i maggiorenti della
chiesa. Il mondo era troppo immenso e scarso allora di mezzi di
comunicazione perchè tale procedura fosse anche solo
materialmente possibile.
Quindi più alte necessità teoretiche nelle guerre
impegnate successivamente colla decadenza romana, coi barbari, colle
eresie, costrinsero la chiesa a sempre maggiore unità di
comando. La sovranità del papa vi derivava già dallo
stesso concetto monarchico del Dio cristiano: una essendo la
rivelazione, una doveva essere la sua interpretazione; la
rivelazione essendo stata precisa doveva esserne preciso
l'interprete; un concilio di vescovi sarebbe stato fatalmente
democratico, e col fluttuare delle opinioni avrebbe scosso la fede
nei credenti. Il cristianesimo discendendo dal mosaismo era
unitario. Il papato lentamente, irresistibilmente, assorbì
tutti i poteri della chiesa: le corporazioni monastiche lo aiutarono
nella lotta contro il clero regolare, Roma gli dette tradizione e
prestigio di unità, le guerre incessanti della chiesa
abituarono amici e nemici a riconoscere nel suo generale supremo il
rappresentante assoluto dell'istituzione: quindi il papato crebbe al
più ideale e vasto impero, che mai il mondo avesse
conosciuto. L'organizzazione gerarchica restringendosi
vieppiù, cinse il papa di un senato di cardinali, fra i quali
e dai quali solamente poteva essere eletto: i vescovi furono come
gli antichi prefetti romani nelle Provincie, i monaci vi
rappresentarono gli accampamenti stabiliti dalle legioni, i parroci
vi tennero il più minuto governo, mentre tutto si accentrava
a Roma, donde il papa con un solo ordine, in una lingua morta e
abilmente mantenuta come espressione della prima unità
mondiale, poteva imprimere un moto a tutto l'orbe.
Durante il lungo tumulto medioevale il papato per istinto e per
ragione fu quasi sempre guelfo, favorendo lo sviluppo dei principii
popolari: i suoi pontefici vi esaurirono tutte le varietà dei
vizi e delle virtù, delle verità e degli errori, senza
che l'istituzione potesse seriamente pericolare. Ma il Rinascimento,
sorpassando teoricamente il cristianesimo, diminuì il papato
quantunque gli ampliasse il regno. Il mondo fu scoperto più
vasto della missione di Cristo, l'universo maggiore della creazione
di Dio. Allora la guerra delle eresie si mutò in guerra
d'incredulità; il cristianesimo di rivoluzione si
cangiò in reazione, il pensiero si sottrasse a ogni dogma, la
scienza ruppe tutti i limiti ecclesiastici, la filosofia
sorpassò le maggiori altezze delle religioni, il diritto
politico ritemprandosi nel diritto naturale tornò
democratico.
In questa ultima guerra la vittoria decisiva fu guadagnata dalla
grande rivoluzione francese. Il papato vi perì idealmente con
tutte le monarchie.
La Santa Alleanza rappresentò la reazione del pensiero
cattolico nella coalizione di tutte le monarchie; ma il papato,
essendo più alto di loro nella lotta politica e toccando
davvero al divino, doveva restringersi in se medesimo per spingere
il proprio principio monarchico al disopra di ogni contatto umano,
mentre esse cadevano nell'inevitabile ed assurda transazione del
costituzionalismo. L'infallibilità pontificale, sempre
latente nel cattolicismo, era l'ultima risposta del principio
monarchico al principio democratico. Così l'eterno dualismo
della storia ritornava alla semplicità dei propri dati. Il
concilio ecumenico riunito in San Pietro (1869) compiva l'evoluzione
del papato nel momento che l'impero napoleonico, ultima larva
dell'impero di Carlomagno, stava per sparire, e il principio
democratico di Lutero per trionfare in Germania fondandone un altro.
Nelle Spagne l'impero di Carlo V aveva ceduto il luogo ad una
republica effimera, arra di republica avvenire; il Sacro Romano
Impero non era più a Vienna che un impero eteroclito; solo
l'impero russo si dilatava potente di avvenire, e l'Italia
riprendeva per un istante il proprio posto all'avanguardia della
civiltà disponendosi ad inaugurare in Roma l'èra del
diritto popolare.
Infatti il concilio ecumenico, sorpreso dalla rivoluzione,
potè appena proclamarvi l'infallibilità del papa;
quindi dovette aggiornarsi per essere riconvocato chi sa quando.
Ma se il papato saliva così a più alta sfera di
idealità, il suo governo a Roma era caduto dopo Mentana nella
più umiliante insignificanza. Roma non era più che
un'immortale rovina cinta dal deserto del proprio agro. Le
locomotive solcandolo parevano sperdute in un lembo di storia antica
tra mandriani vestiti ancora come ai tempi delle Georgiche, e che le
guardavano passare nere e fumiganti colla stessa indifferenza dei
bufali. Dell'antica università restava appena il vestigio; in
essa non si trovava che un solo microscopio di vecchissimo modello;
pel gabinetto o laboratorio di fisica non si spendevano che 1151
lire, per quello di zoologia e di anatomia comparata 1347, per
l'altro di mineralogia 274, per la biblioteca Alessandrina, l'unica
che fosse dello stato, 1453. Mancavano cattedre, professori, libri,
studenti. Non più arti, nè artisti all'infuori degli
stranieri che vi convenivano a studio; deserto il municipio, mentre
nel Vaticano si affollavano prelati di ogni lingua, inconsapevoli
dell'epoca nella quale vivevano, e superbi dei ventimila mercenari
sbraveggianti per la città.
L'odio della curia romana alla democrazia era minore deò suo
disprezzo per il regno d'Italia. Infatti le umiliazioni inflitte a
questa dall'impero napoleonico per mantenere Roma sotto la
sovranità del papa erano poco adatte a far concepire del
giovane stato una idea lusinghiera. La stessa ultima lunga crisi
ministeriale, dalla quale era uscito finalmente il ministero
Lanza-Sella, faceva sperare ai più reazionari fra i prelati
una prossima dissoluzione del regno. La fede nella solidità
dell'impero napoleonico era loro cresciuta da che la reazione,
guidata dall'imperatrice Eugenia, vi dominava maggiormente nella
politica; la fortuna nascente della Prussia non inquietava; si
sapeva che l'Austria si era risollevata da ben altri rovesci, e che
la Francia era intatta. Nell'eventualità di una guerra di
questa colla Prussia non solo i voti, ma tutte le convinzioni
stavano per una vittoria francese.
I maggiori generali d'Italia non opinavano allora diversamente.
Guerra franco-prussiana.
Intanto le probabilità di questa guerra aumentavano di giorno
in giorno.
Attraverso le reiterate affermazioni di pace Austria e Francia
spiavano un'occasione propizia all'attacco: non v'era fra loro
alleanza, perchè ognuna avrebbe voluto profittare del
vantaggio di entrare seconda nella lizza; in Italia l'esercito e la
dinastia per bisogno di rivincita erano favorevoli alla guerra; la
borghesia per interesse e i patrioti per sentimento vi si chiarivano
invece contrari. Ma poichè all'Italia come all'Austria e alla
Francia mancava una vera cagione di guerra, in nessuna delle tre
nazioni se ne spingevano alacremente i preparativi; solo la Prussia
sentendone profondamente la necessità per compiere la propria
unità nazionale, vi si accingeva con superba passione di
patria.
Il caso fu pòrto dalla Spagna coll'offerta della propria
corona al principe Leopoldo di Hohenzollern. La Francia, che nel
secolo scorso aveva trapiantato un ramo della propria dinastia sul
trono di Carlo V, inalberò alla minaccia di questa nuova
espansione prussiana; tutte le diplomazie d'Europa n'andarono
sossopra per impedire il conflitto; Bismarck indietreggiando
abilmente provocò la iattanza della Francia; questa, non
contenta della rinunzia spontanea del principe di Hohenzollern,
avrebbe preteso dal re Guglielmo una categorica dichiarazione di
proibire per sempre a chiunque della propria famiglia di accettare
una simile candidatura.
A quest'assurda violenza il re rispose chiudendo la porta
all'ambasciatore francese, e scoppiò la guerra più
immane che la storia ricordi dopo migliaia di anni. La sua
brevità fu vertiginosa. La Prussia avventò sulla
Francia in pochi giorni un milione di soldati, ai quali l'impero non
seppe opporne che la metà: tutto era in esso corruzione e
sfacelo. Napoleone affidò la reggenza all'imperatrice per
assumere nominalmente il comando dell'esercito: sotto l'immenso
plateale tumulto francese di guerra s'intendevano chiaramente gli
urli di odio all'impero così efferati da invocare la sua
sconfitta anche a danno della patria.
Il 2 agosto (1870) i francesi occuparono scaramucciando
Saarbrück, ma il 4 agosto il principe ereditario di Prussia
piombava sovra essi a Weissenburg e li batteva; il 6 prostrava
così Mac-Mahon a Wörth da lasciarlo appena riparare nel
massimo disordine a Châlons; contemporaneamente il generale
Steinmetz, superate le alture di Spichern, annientava il corpo del
generale francese Frossard. La guerra era già vinta. Mentre
Mac-Mahon si era ritirato per Nancy a Châlons e le reliquie
del corpo Frossard si ripiegavano su Metz, il maresciallo Bazaine
postovi a presidio con 250,000 uomini tentava di uscirne per non
lasciarvisi bloccare; ma l'incomparabile stratega prussiano
maresciallo Moltke con mosse fulminee ed impreviste lo rinserrava in
un cerchio di fuoco, lo arrestava il 16 agosto a Mars-la-Tour, lo
ributtava il 18 da Gravelotte su Metz, chiudendovelo prigioniero.
Quindi tutto lo sforzo di Mac-Mahon, che con lunga marcia circolare
tentava di congiungersi a Bazaine, era non solo perduto, ma si
risolveva nel più disastroso degli errori; giacchè
Moltke, indovinando abilmente quel disegno, con un movimento di
fianco a destra e una marcia di tre giorni lo raggiungeva a
Beaumont, lo stringeva, lo catturava a Sedan (1^o settembre) con
tutto l'esercito di 70,000 uomini.
La Francia era vinta, l'impero napoleonico distrutto. L'indomani il
vincitore, pubblicando l'inventario delle prede, lo cominciava con
epica brutalità così: 1 imperatore!
Napoleone III vinto e prigioniero non aveva saputo nè
combattere, nè vincere, nè morire: la caduta del primo
Bonaparte era stata una rovina, quella del terzo fu un dilanio:
quegli aveva fondato l'impero, questi lo aveva esaurito. Dopo
Augusto, Augustolo.
Esitazioni monarchiche.
L'Europa rimase per qualche tempo stupita: a Roma il papato,
rialzato come altare votivo della vittoria dal primo impero
napoleonico, si sentì trascinato dalla lavina del secondo.
Malgrado la catastrofe di Mentana e le ripetute infrazioni della
Convenzione di settembre, la politica governativa italiana non
accennava a mutare d'indirizzo; in essa la diffidenza verso la
rivoluzione era più viva che non il dispetto per le
incessanti vessazioni imperiali; Mazzini restava sempre un ribelle
specialmente dopo i conati delle ultime bande, e Garibaldi un
avventuriero pericoloso, al quale si erano dovute sottrarre tutte le
conquiste per ragioni di ordine pubblico, e del quale le imprudenze
avevano più di una volta compromesso la monarchia. Dopo tanti
ordini del giorno su Roma capitale d'Italia non si voleva
arrischiare mossa alcuna per giungervi. Si diceva che il sentimento
cattolico di tutto il mondo la difendeva, mentre invece
l'Inghilterra era protestante, protestante la Prussia, eterodossa la
Russia, la Spagna si era già ribellata in republica, e la
Francia stava per imitarla. L'Austria sola aveva un governo
cattolico, ma dopo le ultime sconfitte non era più nè
capace nè vogliosa di ritentare una guerra di santa alleanza.
Nullameno ministero e maggioranza parlamentare avrebbero voluto
allearsi coll'impero caduto per cansare la responsabilità di
sopprimere il papato temporale.
Vittorio Emanuele, così freddamente ingrato con Garibaldi,
affettava la più cavalleresca riconoscenza per Napoleone III.
Orgoglio ed egoismo di piccolo re gli persuadevano questa differenza
verso i due alleati, che gli avevano composto il regno. Malgrado
l'abbandono di Villafranca, l'oltraggiosa cessione della Venezia,
Aspromonte e Mentana, egli avrebbe voluto marciare con tutto
l'esercito in aiuto dell'impero, lasciando Roma in mano del papa ed
ingannando la nazione colla speranza che l'imperatore concederebbe
poi un giorno spontaneamente all'Italia la propria capitale.
Infatti alla proclamazione di guerra nella Camera francese, Vittorio
Emanuele telegrafò subito al presidente del consiglio da
Valsavaranche, ove cacciava, avvisandolo del proprio ritorno alla
capitale per deliberare sul da farsi: «si ricordasse
però che egli (il re) aveva degli impegni». A corte e
negli alti circoli governativi si era così fermamente
convinti del trionfo dei francesi da non ammettere nemmeno l'ipotesi
contraria: quindi da un'alleanza colla Francia vincitrice si sperava
qualche rettificazione delle frontiere verso Nizza o verso il
Tirolo. Quanto a Roma si evitava di pensarci, ripetendo la formula
cavouriana della conquista per mezzi morali. Solo il Sella, convinto
di un'altra vittoria prussiana, sosteneva pertinacemente l'idea
della neutralità, nascondendo le proprie idee sullo
scioglimento della questione romana, del quale sentiva giunta l'ora.
Il ministro degli esteri Visconti-Venosta si destreggiava intorno
all'idea della neutralità senza osare di risolvere; il Lanza
presidente del consiglio vi si mostrava da principio favorevole per
abitudine di circospezione.
In tutti prevaleva una deferenza spassionata per Napoleone III, come
al primo fattore e al miglior patrono d'Italia. Vittorio Emanuele
sempre più accalorato in questo sentimento discese alle
più grossolane ingiurie contro il Sella.
- Si vede bene che ella viene da mercanti di panni, gli urlò
una volta sul viso, dopo avergli detto sprezzantemente che per fare
la guerra ci voleva del coraggio.
- Sì, maestà, rispose con altera ironia il ministro;
ma da mercanti di panno che hanno sempre fatto onore alla propria
firma, mentre questa volta vostra maestà firmerebbe una
cambiale che non sarebbe sicura di poter pagare.
E ogni giorno la lotta fra Sella e Vittorio Emanuele si faceva
più aspra.
Napoleone stringeva il re d'istanze per deciderlo alla guerra;
l'Austria egualmente sollecitata si diceva pronta ad una alleanza,
qualora l'Italia v'entrasse prima, e consigliava di modificare la
Convenzione di settembre in favore di questa. Ma Napoleone non osava
romperla col partito clericale; tutt'al più avrebbe
condisceso ad eseguire puntualmente la Convenzione ritirando una
seconda volta le truppe da Roma. Allora il Sella, che aveva
già dovuto consentire alla chiamata di due classi sotto le
armi, fu pronto a giovarsi di questa pervicacia imperiale per
spingere il ministero sull'esempio dell'Inghilterra e dell'Austria a
pubbliche dichiarazioni di neutralità, mentre il conte di
Bismarck in accordi segreti col partito mazziniano intendeva a
provocare ribellioni in Italia per impedirle di allearsi colla
Francia. Ma poco dopo, persuaso dell'influenza di Sella sul
ministero, il gran cancelliere troncava le trattative con Mazzini
denunciandolo. Intanto le dichiarazioni (25 luglio) del
Visconti-Venosta alla camera, che il pessimo dei partiti per
l'Italia sarebbe quello di approfittare dei momentanei imbarazzi
della Francia per sciogliere colle armi la questione romana,
scoprivano tutta la debolezza della politica governativa: la destra
altrettanto favorevole alla Francia quanto ritrosa a marciare su
Roma avrebbe voluto rovesciare il ministero, e non l'osò; la
sinistra invece lo sostenne per timore di un ministero militare di
corte col Cialdini. Il re, bloccato abilmente da Sella, seguitava a
trattare coll'ambasciatore francese Malaret, assicurando
l'imperatore che presto avrebbe vinto la resistenza del ministero.
Questo, per secondare il ritiro del presidio francese da Roma,
riaderì alla Convenzione di settembre «confidando in
una giusta reciprocità della Francia a conformarsi ai propri
impegni»: si credette allora in Europa a segreti accordi fra i
due governi. Infatti il partito della guerra a corte aumentava
d'importanza: il 30 luglio, sotto l'impressione della scaramuccia di
Saarbrück vinta dai francesi, fu proposta nel consiglio dei
ministri la mediazione armata, che Sella potè impedire
solamente colla minaccia delle proprie dimissioni.
Quindi nell'impossibilità di stringere colla Francia e
coll'Austria una triplice alleanza, si ricorse all'idea di un
accordo con quest'ultima da trasformarsi in alleanza offensiva, se
le circostanze lo avessero richiesto, V'ebbero trattative segrete di
corte: il re mandò a Vienna, poi a Metz, il conte Vimercati,
suo aiutante di campo; il ministro austriaco De Beust spedì a
Firenze il conte De Vitzthum con un disegno di otto articoli, pel
quale l'Italia, impegnandosi ad una mediazione magari armata nella
guerra franco-prussiana, sarebbe rimasta a rimorchio dell'Austria
con alcune vaghe promesse di buoni uffici nella questione romana. Ma
Sella rese abilmente tale disegno impossibile coll'aggiunta di un
articolo pel quale l'Austria assumeva l'impegno del «non
intervento nel territorio romano e di favorire l'applicazione dei
provvedimenti più atti a soddisfare i voti dei romani e
gl'interessi d'Italia» e con alcune clausole segrete nel caso
di guerra guerreggiata in comune per una rettificazione di frontiere
nel Tirolo e sull'Isonzo.
Naturalmente l'Austria ricusò.
Non meglio approdò la missione segreta affidata da Vittorio
Emanuele al Vimercati. Il disegno era di una triplice alleanza: ai
15 di settembre Italia e Austria avrebbero dovuto imporre alla
Prussia con un Ultimatum di rispettare lo statu quo, definito dal
trattato di Praga: poi, non appena le truppe francesi fossero
penetrate nella Confederazione del sud, l'esercito italiano
attraverso il Tirolo sarebbe andato a raggiungerle nei pressi di
Monaco appoggiandosi sulle truppe austriache; a Napoleone non si
chiedeva che d'impegnarsi in un articolo segreto a fare accettare
dal papa un modus vivendi coll'Italia.
Napoleone a guerra già cominciata non cedette; poco dopo il
cannone di Wörth rompeva tutti questi inani accordi, e la
logica fatale della storia trionfava di tutte le trattative
diplomatiche.
Il partito della guerra, pel quale il Cialdini spalleggiato dalla
corte aveva osato persino di minacciare il ministero in senato con
un discorso che parve un pronunciamento, e cui il Sella rispose con
terribile severità, era vinto: vi fu ancora una lettera di
Napoleone al re, scritta nell'amarezza delle prime sconfitte; se ne
discusse nel consiglio dei ministri, s'interrogò il generale
Lamarmora perchè indicasse un modo qualunque di soccorrere
l'imperatore; ma quegli confessò piangendo di non vederne
alcuno.
Quintino Sella aveva salvato l'Italia contro la corte dal
partecipare alla guerra franco-prussiana; poco dopo doveva salvare
la corte contro l'Italia persuadendo al re la necessità di
conquistare Roma.
Il ritorno puro e semplice alla Convenzione di settembre aveva
giustamente esasperato la pubblica opinione scoprendole sotto quelle
eccessive simpatie verso il pericolante impero di Francia il
proposito di cansare a ogni modo il problema di Roma.
La partenza dei francesi da questa cominciò il 29 luglio; il
19 agosto la città n'era sgombra. Naturalmente clero vaticano
e francese ne levarono alte grida, quantunque persuasi che il
governo italiano non oserebbe mai scendere a violenze. Ma il
fermento cresceva nella nazione: il partito mazziniano agitava
vivamente le piazze; da un momento all'altro si aspettava che nuove
bande di volontari varcassero il confine pontificio; il governo
incerto del risolvere sembrava incantato nella rovina dell'impero
francese; mentre il Sella giovandosi del suo turbamento lo spingeva
a nuovi armamenti col pretesto di poter così fronteggiare la
rivoluzione.
Il 31 luglio i ministri della guerra e della marina chiedevano un
prestito di 16 milioni: si cominciavano accolte di cavalli, di
viveri e di attrezzi militari. Il 2 agosto le prime truppe italiane
si dirigevano verso la frontiera pontificia; il 10 il consiglio dei
ministri decideva la chiamata di altre due classi sotto le armi e la
convocazione della camera, allora in licenza, per farle votare un
prestito di 40 milioni; il 14 le truppe mobilizzate e già
concentrate in alcuni punti del confine erano poste sotto gli ordini
del generale Cadorna.
Il 16 agosto la camera concedeva al governo i mezzi necessari per
mettersi in misura «di proteggere in qualsiasi evento la
sicurezza dello stato, l'indipendenza della nostra politica e gli
interessi d'Italia». L'opposizione parlamentare fu aspra: si
sapeva che gli uomini più influenti della così detta
consorteria ricusavano assolutamente di occupare Roma: il
Visconti-Venosta, sempre ligio alla Convenzione di settembre,
affettava di fare per l'Italia un punto d'onore di non venir meno
alle proprie promesse; il Lanza dichiarava anche dieci giorni dopo
che il governo non poteva accettare dalla camera nessun ordine del
giorno che lo invitasse ad occupare colle armi gli stati della
chiesa, perchè se v'era nel parlamento chi voleva andare a
Roma colla forza, v'era però anche una grande maggioranza che
credeva non si dovessero adoperare se non mezzi morali.
Quindi non era lecito sperare che in una rivolta dei romani
riconosciuta da tutti impossibile.
Tutto pur d'evitare la violenza, era il pensiero di Visconti-Venosta
e di Lanza d'accordo col re; tutto pur di andare a Roma, era il
programma di Sella.
Il 20 agosto la camera votava con 214 voti contro 152 il seguente
ordine: «La camera, approvando l'indirizzo politico del
ministero, confida che esso si adoprerà a risolvere la
questione romana secondo le aspirazioni nazionali»: formula
equivoca nella quale s'indovinava l'intenzione del governo di non
assumere alcuna iniziativa contro Roma. Laonde la sinistra si
radunò in comitato per deliberare sul contegno da tenersi di
fronte al governo: un pericoloso dualismo minacciava di scoppiare.
Malgrado la propria inerzia il paese cominciava ad irritarsi di
queste calcolate lentezze; gli esuli romani impazienti d'indugio si
preparavano a qualche impresa arrischiata, il popolo si addensava in
comizi per tutte le città acclamando Roma capitale. La lunga
e dolorosa contraddizione della monarchia colla rivoluzione si
rivelava improvvisamente alla coscienza pubblica; le memorie
sanguinose d'Aspromonte e di Mentana accusavano il re che avrebbe
voluto abbandonare Roma per soccorrere Napoleone III; l'arresto di
Mazzini e il silenzio di Garibaldi, già in moto per
soccorrere la imminente republica francese, commentavano
sinistramente tale contegno. Quindi dall'assemblea della sinistra
uscì una commissione composta dei deputati Rattazzi, Cairoli,
Crispi, Bertani e Fabrizi coll'incarico di presentare «un
progetto di risoluzione conforme alle intenzioni prevalenti nella
sinistra e alle necessità della situazione». Il
pericolo pel governo era grave, giacchè la sinistra era
decisa ad un appello al paese. Sarebbe stata la guerra civile con
Garibaldi, Mazzini e tutti i monarchici più liberali da un
canto, e la corte co' suoi più reazionari adepti dall'altro.
Ma poichè la republica stava per essere proclamata in
Francia, e la Spagna era già republicana, la monarchia di
Savoia insino allora più fortunata che meritevole, non
avrebbe avuto troppe probabilità di vittoria.
Quindi Sella persuase la commissione di sinistra a sospendere ogni
precipitosa risoluzione assicurandole che, ove non riuscisse a
vincere la resistenza del ministero, se ne sarebbe dimesso per
unirsi alla rivoluzione.
Roma si mantenne inerte.
Intanto al ministero degli esteri si preparava una circolare agli
agenti diplomatici per rigettare sul contegno ostile sino allora
tenuto dalla curia romana la responsabilità delle misure, che
il governo fosse costretto a prendere. Nel mattino del 3 settembre
giunse la notizia della resa di Sédan. Ogni ulteriore indugio
diventava impossibile. Sella dichiarò nel consiglio dei
ministri che, qualora non si occupasse immediatamente il territorio
pontificio, si sarebbe dimesso seduta stante: il Visconti-Venosta
ricalcitrava, Lanza si opponeva, il re si mostrava irremovibile. Il
falso argomento adoperato dal Sella di un pericolo, che l'imminente
republica francese facendo di Roma un centro d'insurrezione mirasse
a rovesciare la monarchia per ottenere mediante la republica una
alleanza offensiva coll'Italia, non bastava a persuaderli. Nullameno
bisognava risolvere: o marciare tosto su Roma, o disporsi alla
guerra civile contro la rivoluzione. Come sempre accade nei casi
dubbi fra persone dubbie, si venne a reciproche concessioni
stabilendo che le nostre truppe si sarebbero fermate alle mura della
città, e non avrebbero cercato di entrarvi se non colla
cooperazione dei romani. Il re inoltre avrebbe mandato al papa un
legato straordinario con una lettera per avvertirlo delle intenzioni
del governo, ed esortarlo ad accettare da questo la protezione
necessaria al proprio ministero.
La lettera fu redatta da Celestino Bianchi e portata dal conte Ponza
di San Martino. In essa Vittorio Emanuele confessava ingenuamente
attraverso molte frasi equivoche di essere rimorchiato dalla
rivoluzione, e rigettava sovra di essa la responsabilità di
una impresa disapprovata dalla sua coscienza di re e di cattolico.
Tale umile ed umiliante confessione dinanzi al papato nel momento
stesso di sostituirlo nella sovranità di Roma tradiva il
segreto della monarchia. I riguardi dovuti al pontefice cattolico
per l'esercizio della sua altissima funzione non avrebbero dovuto
impedire a Vittorio Emanuele di affermare con solennità
regale il diritto dell'Italia su Roma. Mai si era presentato momento
più propizio e glorioso per la sua casa dopo le umiliazioni
di Villafranca, delle annessioni centrali, d'Aspromonte, della
Convenzione di settembre, della cessione del Veneto, e di Mentana.
Vittorio Emanuele cavalcante sotto le mura di Roma e spronante il
cavallo su per la prima breccia aperta dalle artiglierie, col
coraggio mostrato alla battaglia di Palestro quando si
slanciò cogli zuavi francesi nella Sesietta, sarebbe stata la
più epica figura del secolo, degna di appaiarsi con
Garibaldi; invece la sua lettera di scusa al pontefice e dal
pontefice sdegnosamente respinta, le sue tergiversazioni
diplomatiche, la sua inutile opposizione a Quintino Sella,
scopersero in lui il piccolo re di Piemonte, cui la rivoluzione
aveva potuto dare l'Italia, ma non la grande coscienza della sua
nuova èra.
La seconda circolare mandata agli agenti diplomatici all'estero
colla data del 7 settembre spiegava come l'occupazione del
territorio pontificio fosse piuttosto una necessità di ordine
pubblico per garantire l'inviolabilità del pontefice e il suo
libero ministero che una rivendicazione del diritto nazionale. Le
garanzie, cui allora si accennava, si riassumevano in un privilegio
di extra-territorialità, conservando al papa la condizione di
sovrano, ai cardinali il grado di principi, ed offrendo persino una
lista civile garantita da un trattato.
Tale extra-territorialità doveva consistere nel possesso
della città Leonina: così il potere temporale sarebbe
stato diminuito sino oltre il ridicolo, ma rispettato nell'idea. Il
nuovo minimo regno avrebbe quindi fatto il paio colla republica di
San Marino.
E in questa idea nè giusta nè pratica, giacchè
avrebbe mantenuto in Roma il dualismo di due re, era dovuto
convenire anche il Sella per decidere il ministero ad invadere lo
stato pontificio. La sua politica di quei giorni era tutta in un
solo argomento: spaventare il governo colla minaccia di una
rivoluzione. Infatti per opera segreta sua i comizi crescevano di
numero e di violenza, la stampa unanime spingeva il governo ad una
pronta iniziativa, il vecchio filosofo Mamiani andava di ministero
in ministero pregando e rimproverando. Marco Minghetti scriveva da
Vienna: andate a Roma. Il generale Lamarmora formulava il problema
monarchico così: poichè abbiamo l'abisso dinanzi e di
dietro, dunque avanti! Il nuovo governo republicano francese,
interrogato dal Nigra, rispondeva che ci vedrebbe fare con simpatia.
Solo il conte d'Arnim, ambasciatore prussiano presso la Santa Sede,
parlava vagamente di difficoltà; ma si sapeva troppo bene che
questa era una sua iattanza personale.
Annessione di Roma.
Finalmente la campagna fu aperta l'11 settembre. La marcia su Roma
si compì senza battaglie, poichè il papa aveva deciso
di resistere solamente nella città per costringere i nemici
ad aprirvi una breccia. Il conte d'Arnim ottenne indarno una
dilazione di ventiquattro ore per un supremo tentativo di
conciliazione presso la corte vaticana: il 20 settembre la
città fu investita dalle artiglierie fra porta Pia e porta
Salara, porta San Giovanni e porta San Pancrazio; appena aperta una
breccia a porta Pia, cessò la resistenza troppo debole per
una battaglia e troppo sanguinosa per una dimostrazione.
Fra le due parti i morti e i feriti non sommarono a duecento.
Il regno dei papi era caduto per sempre senza trovare nell'ultima
ora nessuno di quei grandi atti, che immortalano i vinti.
Nella capitolazione firmata fra il generale Cadorna e il generale
Kanzler si accordarono alle milizie papaline gli onori di guerra, e
non si parlava della città Leonina. Questa intenzione di
lasciar sussistere il papato temporale in tale specie di ghetto
cattolico, permise ad un gruppo di falsi rivoluzionari capitanato da
certo Luciani, finito poi nelle galere, di agitare la plebe in quel
primo fermento e d'insediare una giunta provvisoria in Campidoglio
per decretarvi la decadenza del potere temporale. Si convocava
già il popolo a un comizio nel Colosseo, sebbene la
città si conservasse nella solita inerzia. Quindi il generale
Cadorna, giustamente impensierito, s'affrettava a nominare una
giunta provvisoria di diciotto fra i più noti moderati della
città con alla testa Michelangelo Caetani, duca di Sermoneta,
noto favorevolmente per innocui sentimenti liberali e per studi
pedanteschi sulla Divina Commedia. Il 2 ottobre venne fissato il
plebiscito, che riuscì naturalmente in favore del regno
italiano: sopra 167,548 inscritti della provincia di Roma risposero
all'appello 135,291; gli squittinii diedero 133,681 sì e 1507
no: nella sola città i sì furono 40,805 e i no 46. Ma
i trasteverini, còlti da subito entusiasmo politico,
vergognando di rimanere come un gregge nell'appannaggio del
pontefice, diedero anch'essi contro il malvolere del governo il
proprio voto. Il 9 ottobre la deputazione romana recava il risultato
del plebiscito a palazzo Pitti; a reggere provvisoriamente Roma era
deputato il generale Lamarmora.
Benchè Roma fosse materialmente conquistata e il potere
temporale abbattuto, la monarchia non osava ancora affermare
solennemente il proprio trionfo. Una profonda e complessa
superstizione occupava tutti gli spiriti: l'immensa importanza del
papato, signore di duecento milioni di cattolici, sgomentava la
corte. Già la prima formula del plebiscito trasmessa a Roma
dal ministero dell'interno lo avrebbe reso condizionato, ed era del
seguente tenore: «colla certezza che il governo italiano
assicurerà l'indipendenza dell'autorità spirituale del
papa, dichiariamo la nostra unione al regno d'Italia sotto il
governo monarchico costituzionale del re Vittorio Emanuele e dei
suoi successori». Così pei romani l'idea del papato
avrebbe dovuto prevalere su quella di Roma. Fortunatamente l'istinto
rivoluzionario delle masse vi si oppose: la Giunta provvisoria
rispose nobilmente che Roma non aveva nessun diritto d'imporre
condizioni alla patria per la propria annessione: se il governo
intendeva garantire l'autorità spirituale del pontefice
farebbe opera savia, ma non spettava al popolo romano tale
iniziativa.
Si era dovuto discendere ad accordi: da Firenze venivano proposte
altre dizioni dello stesso tenore: allora la Giunta provvisoria
aveva minacciato di dimettersi se non si fosse adottata una formula
di plebiscito incondizionato. Poi la sera del 26 settembre erano
stati inviati a Firenze don Emanuele dei principi Ruspoli e Vincenzo
Tittoni per trattare col governo: il ministero aveva fatto pompa
d'asprezza rimproverando loro che gente liberata appena appena dalla
servitù per opera del governo italiano non facesse che creare
imbarazzi e dar segni di malcontento. Ma Quintino Sella intervenne
risolutamente nel dibattito, imponendo una formula plebiscitaria
semplice e categorica: «vogliamo la nostra unione al regno
d'Italia sotto il governo monarchico costituzionale di Vittorio
Emanuele e dei suoi successori». Non per tanto la Giunta
dovette consentire nel proclama, col quale invitava il popolo al
plebiscito, questa frase: «sotto l'egida di libere istituzioni
lasciamo al senno del governo italiano di assicurare l'indipendenza
dell'autorità spirituale del pontefice».
Durante tali trattative era giunta la protesta della città
Leonina risoluta a non voler restare sotto il dominio del papa. Il
ministero, che aveva fermamente deciso di sbarazzarsi del papa,
lasciandolo sovrano in quella specie di borgo sacro, ne fu sossopra;
avventuratamente il Vaticano stesso soccorse al suo imbarazzo. Il 25
settembre il cardinale Antonelli dichiarava spontaneamente al barone
Blanc, segretario generale al ministero degli esteri e venuto a Roma
col Cadorna, che «il progetto di lasciare al papa la
città Leonina offriva difficoltà insormontabili.
Quella parte della città priva di qualsiasi autorità
regolare stava per divenire un centro di facinorosi: essere urgente
che il generale Cadorna vi stabilisse, come nelle altre parti di
Roma, dei posti di pubblica sicurezza, esser urgente sopratutto che
gli italiani avessero occupato Castel Sant'Angelo, ove
quantità considerevoli di polvere erano mal custodite da
qualche veterano pontificio contro possibili attentati. Pregare in
pari tempo che le autorità militari italiane togliessero dai
giardini del Vaticano alcune casse di polvere, la cui presenza
allarmava il pontefice».
La senile paura della curia vaticana, associandosi al confuso
sentimento rivoluzionario del popolo, trionfò di ogni riserva
del gabinetto di Firenze, e diede tutta Roma all'Italia.
Ingresso di Vittorio Emanuele a Roma.
In mezzo all'effervescenza destata nella nazione dalla conquista di
Roma il contegno della monarchia appariva anche più dimesso;
non si capiva come Vittorio Emanuele, affrettatosi nel 1859 ad
entrare trionfante in Milano, e nel 1860 a cacciare Garibaldi da
Napoli, non osasse ora, vincitore per sola virtù del proprio
governo, fare il proprio ingresso solenne nella città eterna.
Gli immaginari pericoli inventati dalla stampa ministeriale per
giustificare l'inazione del re a Firenze svanivano al primo esame.
Anzitutto nel primo sbigottimento della caduta la curia vaticana si
mostrava così arrendevole, che dopo aver sollecitato essa
medesima l'occupazione della città Leonina, si prestava di
buon garbo a risolvere le mille questioni pullulanti dal mutamento
sopravvenuto nella città. Il cardinale Antonelli, già
così sdegnoso coi ministri italiani in ogni tentativo
d'accordo, riceveva adesso più volte al giorno il barone
Blanc: meglio ancora il Giacomelli, mandato in Roma ad organizzarvi
il sistema finanziario, era riuscito, mediante la cortese cessione
di cinque milioni dell'obolo di San Pietro trovati nella tesoreria
pontificia, a fargli accettare una prima rata dei cinquanta mila
scudi mensili inscritti nel bilancio dello stato pontificio sotto il
titolo: «Mantenimento del papa, del Sacro Collegio, dei
Palazzi Apostolici, delle guardie, ecc., ecc.». Era quindi
naturale che, vanito quel primo spavento, alla nuova pace fattasi in
Europa la curia alzasse la voce a protestare: si poteva temere che
la Prussia, costretta da necessità interne a qualche
concessione verso il partito clericale, fosse per appoggiare quei
reclami; era quasi sicuro che la Francia, sdegnata dei nostri
rifiuti a soccorrerla durante la guerra, ci tenesse il broncio e
minacciasse, se la reazione che doveva succedere all'impero
giungesse al potere; era certo che l'Austria, estrema potenza
cattolica, per la sua rivalità contro la Prussia protestante
moltiplicherebbe difficoltà e rimostranze.
Il Sella, prevedendo con molto senno pratico tutto questo, sino
dalla prima ora voleva che il trasporto della capitale avesse luogo
«subito, anche prima di subito», giacchè il
potere temporale non poteva considerarsi abolito finché Roma
non fosse davvero capitale d'Italia; e quantunque il re e il
ministero unanimi vi si ricusassero, non cessò
dall'insistere. A questo lo spronava lo stesso ambasciatore inglese
sir Paget. Non bastò l'osservare, che ritardando l'ingresso
del re a Roma si dava tempo alla curia vaticana di rimettersi sulla
difensiva, che si sarebbe poi dovuto invitarvi tutto il corpo
diplomatico senza essere sicuri che l'invito fosse tenuto, che
finalmente non lo si potrebbe più fare se non dopo avere con
legge apposita assicurato al papa guarentigie sovrane. E allora
Roma, invece di essere una conquista d'Italia, ne diverrebbe un
acquisto mediante un mercato diplomatico.
Tutto fu inutile. Il Lamarmora, governatore a Roma, si unì al
partito della corte: Sella, che aveva ancora una volta forzato il
ministero colla minaccia delle proprie dimissioni a deliberare che
il re si recherebbe a Roma il 30 novembre, dovette recedere davanti
alle dimissioni del Lanza, il quale giovandosi di una sua assenza
aveva condotto il ministero a disdirsi.
Ma come tutto cospirasse ad aiutare la monarchia, che si aiutava
così poco, in sul finire dell'anno una piena del Tevere,
sommergendo mezza la città, offerse al re un pretesto
caritatevole per entrarvi. La piena cresceva e pioveva a dirotto,
quando un tardo manifesto, al quale pochi avevano badato, vi
annunziò la venuta del re d'Italia. Mai più grande
avvenimento ottenne minore attenzione. Il re giunse nel pomeriggio;
pochissima gente era ad attenderlo sul piazzale della stazione, ed
era piuttosto plebe che popolo, giacchè le miserie e i
pericoli dell'inondazione preoccupavano tutti. Quando il re scese di
carrozza nell'atrio del Quirinale, volgendosi al Lamarmora con atto
di viaggiatore seccato del viaggio mormorò in piemontese:
finalment i suma4.
Questa esclamazione fu poi corretta con avveduto spirito cortigiano
nel famoso motto: Finalmente ci siamo, e ci resteremo.
Garibaldi in Francia.
Mentre Vittorio Emanuele procrastinava così il proprio
ingresso a Roma e il papato atterrito dai pericoli immaginari di un
rivoluzione cittadina ricusava l'offerta della città Leonina
per meglio essere protetto dal governo italiano, il mazzinianismo
vaniva come partito d'opposizione. Il suo programma republicano,
smentito dai continui successi della monarchia, perdeva colla
risoluzione del problema romano ogni forza di attualità.
Quindi il ministero si affrettò ad amnistiare Mazzini, che
dal carcere di Gaeta traversò inconsolabile tutta l'Italia
per riprendere più solo di prima la via dell'esilio. Il
grande rivoluzionario era vinto per l'ultima volta: come Napoleone I
dopo Waterloo, egli doveva abbandonare la terra delle proprie
glorie, troppo piccola ancora per poterlo contenere vivo fra i
piccoli vincitori di Roma.
Ma poichè la rivoluzione italiana, malgrado la contraddizione
deprimente del proprio processo monarchico, doveva anche questa
volta avere nella storia un significato universale, Giuseppe
Garibaldi da Caprera, ove s'era ridotto infermo dopo Mentana, al
primo grido di republica scoppiato a Parigi scriveva alla Francia
offrendole con sublime ingenuità «ciò che ancora
restava» di lui. L'impero francese era caduto, l'impero
germanico stava per essere proclamato nella grande sala del Trianon
dedicata a tutte le glorie della Francia: nell'irresistibile
tempesta delle vittorie prussiane pareva perduta ogni idea
democratica, dacchè alla guerra contro il cesarismo
napoleonico ne succedeva un'altra contro la Francia republicana.
L'Italia che avrebbe dovuto soccorrerla, e non lo poteva per la
propria antinomia monarchica, entrava trepida a Roma quasi
sentendosi minore del papato; la Spagna republicana stava riparata
dietro l'alta muraglia dei Pirenei; Russia ed Austria quantunque
gelose del vincitore assistevano con gioia segreta alla rovina di
quella Francia che circa un secolo prima aveva scardinato e per
sempre le loro divine monarchie; la liberale Inghilterra calcolava
già i vantaggi che la diminuzione dell'antica rivale potrebbe
arrecare al proprio commercio.
Nè la Francia iniziatrice in Europa della moderna democrazia
era senza colpe. Il suo primo impero aveva violentato l'indipendenza
di tutti i popoli, la sua seconda republica aveva proditoriamente
rovesciato la prima republica romana, il suo secondo impero aveva
imposto all'Italia il sacrificio d'Aspromonte e l'ecatombe di
Mentana per negarle Roma e con Roma l'unità. Mentre il papato
rovinava come una tarlata impalcatura sotto il palco improvvisato
della monarchia italiana, Garibaldi, il ferito d'Aspromonte, il
vinto di Mentana, offriva alla Francia in nome dell'Italia la
propria spada di cavaliere dell'umanità. Il suo appello ai
volontari di tutto il mondo affermava nel silenzio di tutte le
monarchie la solidarietà delle nazioni nell'idea republicana.
Francia e Italia erano sempre unite, malgrado le colpe dei propri
governi. Mentana non aveva cancellato Solferino, giacchè
là contro l'Italia aveva vinto l'impero napoleonico, qua per
l'Italia aveva vinto la Francia.
Quindi Garibaldi, lasciando alla monarchia italiana raccogliere per
le vie di Roma i cenci del papato, accorreva in aiuto della
republica francese. Se la sua spada di condottiero non poteva pesare
molto sulle bilancie della guerra, la sua presenza nel campo
francese era di un immenso valore ideale.
Non tutti però anche fra i migliori intelletti lo compresero.
Poiché la guerra era per la Francia irremissibilmente
perduta, pareva alla prudenza sottile dei pratici che l'offerta di
Garibaldi, vecchio ed oramai impotente capitano di poche migliaia di
volontari, non fosse che una senile bravata: il suo proclama al
popolo tedesco contro la guerra fu giudicato un vaniloquio; persino
Mazzini si dolse di questa andata in Francia, mentre la monarchia
italiana occupava così umilmente Roma. L'inflessibile e
mistico republicano non poteva perdonare alla Francia republicana
del 1848 il tradimento usato alla republica romana; e siccome la
nuova republica francese, nell'immensa anarchia di quel momento, non
si atteggiava secondo il suo ideale democratico, egli giudicava non
solo inutile ma nocivo ogni sacrificio fatto per essa. Il popolo non
se ne sarebbe giovato. Ma l'istinto di Garibaldi, anche questa volta
più sicuro del genio di Mazzini, non si curava nemmeno delle
intenzioni o degli atti dei nuovi governanti republicani: egli
sentiva solamente che l'Italia doveva pagare Solferino e vendicare
Mentana con una vittoria in Francia contro i prussiani. La republica
anche meglio delle monarchie è superiore ai propri governi.
Ma quella improvvisata dal Gambetta a Tours non usò verso
Garibaldi molto meglio dei governi italiani del 1848-59. Si
tardò più d'un mese a rispondergli; si sarebbe voluto
ricusarlo e non si osò; malgrado l'ovazione entusiastica
fattagli dal popolo di Marsiglia si tentò di stancarlo
moltiplicando contraddizioni ed indecisioni. Pareva che la sua
generosità umiliasse l'orgoglio nazionale francese.
Nullameno il favore popolare costrinse i governanti a permettergli
di comporre un esercito, che ebbe nome dai Vosgi, e sul principio
non superava gli ottomila uomini. Il suo nucleo più compatto,
formato da volontarii italiani che avevano seguìto per
l'ultima volta il loro vecchio capitano, n'era come il battaglione
sacro, nel quale si confondevano veterani sfregiati da cento
battaglie e adolescenti come Giorgio Imbriani votati alla morte del
campo, venturieri di buona lega, miscredenti iconoclasti che dal
lungo odio al papato avendo sorbito un disprezzo aggressivo per
tutte le religioni, dovevano attirarsi l'odio delle campagne
francesi ligie alla chiesa romana. Intorno a questo nucleo
s'aggruppavano battaglioni di franchi tiratori, reggimenti di marcia
disordinati come sciami e composti cogli avanzi degli immensi
eserciti distrutti, truppe di nuove leve poco vogliose di
combattere, marinai, doganieri, studenti, villani e plebei. Lo stato
maggiore era anche più eterogeneo: comandanti italiani e
francesi di provenienze diverse vi si astiavano; i nuovi ufficiali
republicani nominati da Gambetta accusavano di ogni disastro gli
ufficiali dell'impero capitati nel nuovo esercito dei Vosgi; gli uni
e gli altri soffrivano della generosità degli italiani venuti
a vendicare Mentana sui prussiani. Reggeva lo stato maggiore il
generale Bordone, forte d'ingegno quanto debole di moralità.
Ma l'organizzazione dell'esercito non potè riuscire che
fiacca: Gambetta pretendeva dirigere egli medesimo la guerra,
dislocando colonne a colpi di telegrafo e limitando con ogni mezzo
l'azione di Garibaldi. Infatti, malgrado l'opinione del prefetto
Ordinaire e della popolazione di Besançon, la quale avendo
accolto Garibaldi con entusiasmo intendeva affidargli il comando di
tutti i corpi del dipartimento, egli li volle sottoposti al generale
Cambriels invocante indarno di essere messo a riposo per curarsi di
una pericolosa ferita al capo.
L'esercito garibaldino cresciuto di parecchie migliaia, secondo il
solito malissimo armato, non poteva fare che una campagna difensiva.
Le forze, la scienza e l'incomparabile organamento rendevano i
prussiani più esperti sul terreno invaso che non gli stessi
difensori, ed assicuravano loro anticipatamente il trionfo finale.
Nullameno Garibaldi, infondendo parte della propria grande anima in
quelle informi cerne raccogliticce, riuscì a riprendere
l'offensiva con una celerità di mosse che meravigliò
gli stessi nemici.
Da Autun, suo quartiere generale, il 28 dicembre mosse alla difesa
di Dijon, battè le avanguardie tedesche a Prenois e a Darois;
senonchè Dijon arrendendosi ai prussiani lo costrinse ad
indietreggiare dopo un inutile assalto notturno sino ad Autun e a
difendervisi strenuamente da ogni attacco nemico. Ma troppo scarso
di forze per poter arrischiare un vero disegno di campagna, dovette
quindi regolarsi piuttosto su quello del grande esercito di
Bourbaki, estrema speranza della Francia: così non appena il
generale prussiano Werder si ripiega abilmente sulle proprie linee
di Gray-Vesoul, Garibaldi con marcia rapida e ardita rioccupa Dijon,
ne guarnisce la fronte di colonne staccate, ne compie le
fortificazioni attendendo di congiungersi all'esercito di Bourbaki e
con esso minacciare il fianco dei prussiani. Intanto la guerra
precipita alla fine; i generali francesi Faidherbe e Chanzy sono
già stati schiacciati in Piccardia e nell'Orleanese, Parigi
affamata sta per discutere la propria resa, il generale prussiano
Manteuffel con un movimento parallelo a quello di Bourbaki e molto
meglio eseguito malgrado il verno rigidissimo raddoppia le linee di
Werder per accerchiare Bourbaki e Garibaldi. Ma se quegli finisce
miseramente gettandosi sulla Svizzera, questi assalito lotta invece
tre giorni respingendo ogni assalto, assalendo alla propria volta,
togliendo al 61^o reggimento prussiano la bandiera, finchè
sorpreso dall'armistizio, nel quale per proditoria dimenticanza del
Favre e per felina sottigliezza del Bismarck non è tampoco
nominato, sfugge a 150.000 nemici con una delle più
ammirabili ritirate che vanti la storia della guerra.
Allora l'ingratitudine della Francia ufficiale lo persegue; lo si
accusa d'incapacità e di ladreria; si negano le sue
battaglie; generali e fuggiaschi come Dudrot si levano contro di lui
publici insultatori; il suo esercito, sospetto di essere troppo
republicano, è disciolto come una banda di briganti; i
giornali moderati d'Italia tengono bordone al turpe vilipendio,
mentre il popolo francese con uno slancio irresistibile del cuore lo
manda, benchè straniero, deputato all'assemblea di Bordeaux,
e i prussiani s'inchinano con guerresca nobiltà al suo
valore. All'assemblea di Bordeaux, ove la reazione monarchica
rumoreggia già prepotentemente, le calunnie e gli sfregi
diventano così ignobili che Victor Hugo, alzatosi a
protestare in nome della Francia coll'autorità del proprio
genio, è costretto a dimettersi da deputato.
Ma Garibaldi, che dall'Italia aveva già sopportato quanto di
più crudele potesse inventare l'ingratitudine patria, non
ebbe una parola di lamento: ricusò la deputazione offertagli
dal popolo francese; poco dopo acclamato generalissimo dalla Comune
scoppiata a Parigi, pur riconoscendo l'intima giustizia di quella
improvvida rivoluzione, vi si rifiuta come generale e come soldato,
per chiudersi fra gli scogli di Caprera più povero dei propri
commilitoni, e più incompreso di prima alla volgare coscienza
dei governi.
Se Vittorio Emanuele si era sentito troppo piccolo per guidare
contro Roma il proprio esercito, Garibaldi era stato abbastanza
grande per comprendere che alla caduta del papato bisognava
contrapporre l'affermazione di una più vasta idea; e in nome
della storia latina, universale da tremila anni, era corso in
Francia a frenare l'ultima invasione germanica, opponendo agli
eccessi di un popolo, fatto esercito ed impero per diventare
nazione, la democrazia republicana di tutte le nazioni d'Europa.
La legge delle guarentigie.
Malgrado il diffondersi del pensiero democratico, la magnifica
storia del cattolicismo e l'ammirabile unità del suo potere
esecutivo, inspiravano non solo alle masse ma agli stessi avversari
un superstizioso rispetto. A ciò contribuiva forse per
massima parte la coscienza del vuoto teoretico della irreligione,
che spremendo convulsamente scienze e filosofia, non aveva ancora
trovato nulla da sostituire alle soluzioni offerte dal cattolicismo.
Quindi il papato, glorioso per una guerra di quasi duemila anni
contro tutta l'umana varietà di nemici, soverchiava ancora la
coscienza pubblica con una specie di fatalità resa più
terribile da una interpretazione di provvidenza divina.
Le repugnanze della monarchia alla conquista di Roma, e la deferenza
al papato delle maggiori potenze mondiali anche non cristiane,
dovevano rendere più difficile lo stabilire con una legge i
nuovi rapporti della chiesa collo stato. Fra i dogmi più
orgogliosi del pensiero italiano primeggiava quello
dell'universalità di Roma. Nella storia antica, almeno quale
era ancora insegnata nelle scuole e sentita nelle masse, Roma era
stata l'unità del mondo: il cristianesimo, abbandonando
Gerusalemme per Roma, aveva raddoppiato questa unità
dilatandola sino agli ultimi confini della geografia; nella lunga
preparazione medioevale Roma era stata la città santa e la
capitale del diritto popolare; al rinascimento Roma aveva egualmente
contenuto i viaggi di Colombo sul mare e di Galileo nel cielo; lo
schianto del protestantesimo non era bastato a dimezzarla; la
rivoluzione francese era caduta sotto la Santa Alleanza, mentre il
papato risaliva radiosamente al disopra di questa.
A Roma tutto il mondo cattolico stava ancora sottomesso. Nel periodo
semi-secolare della rivoluzione italiana. Roma aveva sempre
sovrastato al dibattito fra popolo e monarchia: l'unità
politica d'Italia non era mai stata assolutamente creduta per la
difficoltà di mutare la capitale del papato in capitale della
nazione. Coloro medesimi, che per irreligiosità di pensiero
sfuggivano alla sua influenza, non osavano concepire la conquista di
Roma pari a quella di Palermo o di Napoli. Cesare Correnti
sconsigliava dall'andare a Roma per non impegnare il governo in un
dibattito contro i terribili teologi della curia vaticana;
D'Azeglio, mascherando la timidezza di prudenza, aveva già
voluto fare di Roma una città anseatica; Cavour non aveva
ardito proclamarla capitale d'Italia che sperandone la cessione
spontanea dal papato e dalla Francia; i suoi successori nel
ministero si erano affrettati a rinunziarvi trasportando la capitale
a Firenze; Giuseppe Mazzini stesso, affermando per la conquista di
Roma la necessità di una rivoluzione intimamente democratica,
veniva a riconfermare la sua inviolabilità, giacchè
l'Italia non era ancora capace di tale progresso. Persino Giuseppe
Ferrari, fuorviato dalla propria interpretazione delle rivoluzioni
italiche, dissuadeva dall'andare a Roma ridotta come Benares e
Gerusalemme a città sacra di una morta religione, per non
mettere la nuova culla d'Italia nel più antico dei suoi
sepolcri. L'acuto filosofo non s'accorgeva che tale rinuncia a Roma
avrebbe mantenuto la superiorità del pensiero religioso sul
pensiero civile. Teodoro Mommsen, protestante di religione e
razionalista di pensiero, domandava febbrilmente a Quintino Sella:
«Che cosa farete a Roma? A Roma non si sta senza un'idea
universale».
Nessuno fra i più intrepidi miscredenti della politica
pensava allora che andando a Roma si potesse non tener conto del
papato. Fra il volgo dei liberi pensatori, che avrebbero voluto
distruggervi tutti gli altari, e la monarchia che sostituendovi il
papato nel governo temporale tendeva a diminuire con quello il
numero degli scontri, non vi era ancora un partito democratico
abbastanza forte per comprendere che la rivoluzione italiana non
avrebbe avuto significato mondiale se non col risottomettere il
cattolicismo alla legge comune pareggiandolo con tutte le altre
religioni. Allora il cattolicismo avrebbe dovuto provare contro
tutte queste la propria superiorità senza alcun aiuto di
privilegi nella lotta, sotto pena di perdere il proprio primato
storico. Un'immensa rivoluzione sarebbe avvenuta nei costumi e nelle
idee: il cattolicismo, costretto a vivere delle oblazioni dei fedeli
nella nuova miseria procuratagli dall'incameramento di tutti i beni,
sarebbe disceso alla più ignobile idolatria, o salito nelle
proprie migliori idealità. L'Italia avrebbe dato in Europa un
esempio di libertà religiosa, quale la giovane America non ha
ancora saputo: solamente così la caduta del potere temporale
dei papi avrebbe segnato un'epoca nella storia civile dei popoli.
Ma da molti secoli, non ostante la sede del papato, Roma non era
più universale.
Il progresso umano stava appunto in questa decadenza di Roma, mentre
in Europa e in America fiorivano a centinaia i centri del pensiero e
dell'azione civile. Oramai era facile comprendere che il papato non
dava più a Roma altro vantaggio sulle grandi città
moderne che quello abbastanza equivoco di una Mecca, e che nel
secolo decimonono sognare ancora una città universale, e
quindi un popolo eletto, era un indietreggiare al di là dello
stesso cristianesimo, il quale aveva annullato l'elezione del popolo
ebreo.
L'Italia, terra classica di un diritto divenuto universale prima
ancora che il cristianesimo vi si annidasse, avrebbe dovuto alla
propria gloria millenaria di spersonalizzare la chiesa cattolica. Ma
la monarchia, conservando nella ricevuta delegazione dal popolo
l'antica pretesa della delegazione divina, alla quale il papato era
tramite necessario, si affrettò a riconoscergli non solo un
primato su tutte le religioni, ma ad investirlo di una indefinibile
sovranità poco conveniente alla religione ed incompatibile
collo stato.
Le rivoluzioni sopprimono, le monarchie transigono.
Vittorio Emanuele dinanzi a Pio IX era ancora nell'attitudine di
Carlomagno davanti a Leone III; l'ultimo re ritirava la donazione
fatta dal primo imperatore, ma chiesa ed impero, pontefice e
sovrano, trattavano sempre entro la stessa orbita, mentre la
rivoluzione civile, vincitrice da tempo di tutti i miti religiosi e
politici, non era peranco giunta a conquistare un governo pari a se
stessa.
Le condizioni della politica europea erano favorevoli
all'esperimento della coesistenza in Roma dei due sovrani e dei due
poteri. La Francia si affaticava contro la Comune di Parigi, la
Spagna avendo eletto re il secondogenito di Vittorio Emanuele era
frenata nelle proprie escandescenze cattoliche dalla politica di
corte, l'Inghilterra protestante applaudiva alla caduta del papato,
Prussia ed Austria si sorvegliavano reciprocamente.
D'altronde il governo italiano era disposto a concedere più
di quanto le diplomazie estere potessero chiedere. La
procrastinazione dell'ingresso solenne del re a Roma era arra
sufficiente delle sue e delle intenzioni della nazione.
La nuova legge, che si disse delle Guarentigie, votata dalle camere
il 5 aprile 1871, dichiarò la persona del papa sacra ed
inviolabile; a lui si mantennero tutti gli onori reali: si permise
che nello stato tenesse armati a propria difesa; la sua dotazione di
cinquantamila scudi mensili fu conservata esente da ogni onere
governativo, provinciale o comunale; gli si attribuirono i palazzi
vaticani e lateranensi colla villa di Castel Gandolfo e in essi
nessun ufficiale italiano di pubblica autorità potrebbe mai
introdursi; si riconobbero inviolabili i cardinali nella vacanza
della sede pontificia, gli ecclesiastici partecipanti all'emanazione
degli atti del ministero spirituale della Santa Sede non soggetti a
molestia o sindacato delle autorità italiane; si mantennero
agli ambasciatori presso la Santa Sede le solite prerogative; poste
e telegrafi furono gratuiti pel pontefice nella città di Roma
e nelle sei sedi suburbicarie; ogni istituto per l'educazione degli
ecclesiastici venne preservato dall'ingerenza delle autorità
italiane. Quindi abolita ogni restrizione speciale all'esercizio del
diritto di riunione pei membri del clero cattolico, dispensati i
vescovi dal giuramento regio, eccettuate Roma e le sedi suburbicarie
dall'obbligo di conferire i benefizi maggiori e minori a cittadini
del regno, aboliti gli exequatur e i placet per la pubblicazione ed
esecuzione degli atti dell'autorità ecclesiastica non
riguardanti la destinazione dei beni ecclesiastici; in materia
spirituale e disciplinare nè riconosciuto appello, nè
concessa esecuzione coatta; riserbato a legge ulteriore il
riordinamento delle proprietà ecclesiastiche nel regno.
Così papato e monarchia, costretti a guerra mortale dalla
rivoluzione, patteggiavano ancora barattandosi immunità e
privilegi: il cattolicismo cresceva come religione di stato fino ad
equiparare il proprio papato alla monarchia.
Quindi al trattarsi dell'abolizione dei monasteri vennero preservate
a Roma tutte le case generalizie, riconoscendo loro la
personalità negata agli ordini: un'altra legge
dichiarò proprietà nazionale i musei apostolici senza
sottrarli all'arbitrio del papa.
Ma anche questa volta la monarchia aveva interpretato abilmente il
pensiero nazionale che voleva Roma capitale senza la distruzione del
papato. Il trasporto della capitale e l'ingresso solenne del re a
Roma riuscirono a fredde feste officiali: governo, parlamento e
corte s'accamparono ove poterono; questa al Quirinale, ma Vittorio
Emanuele non osò mai dormire negli appartamenti del papa, e
vi morì per caso in una cameretta sopra una altana; quello
alzò nel cortile di Montecitorio la propria aula in legno,
quasi dubitando di fidare il proprio danaro a più duraturo
monumento; l'altro ridusse molti conventi ad uffici.
Solo Quintino Sella ebbe allora un concetto chiaro della
trasformazione necessaria a Roma per diventare davvero capitale
d'Italia, ma nè il governo nè il municipio seppero
secondarlo. La iscrizione liviana da lui scolpita sotto la statua
del legionario romano nel nuovo palazzo delle finanze - Signifer,
statue signum, hic manebimus optime - fu il suo ultimo grido di
battaglia contro il partito, cui aveva imposto la gloria di condurre
la monarchia in Campidoglio.
Una grande nazione s'era aggiunta all'Europa; la più gloriosa
delle città mondiali tornava ad essere una delle sue capitali
civili. Se l'Italia non aveva nella propria rivoluzione potuto
diventare republica e proclamare a Roma la superiorità del
pensiero civile sul pensiero religioso, mettendosi all'avanguardia
delle razze latine, nullameno il fatto della sua ricostituzione
unitaria e la caduta del potere temporale le davano un significato
maggiore che non quello stesso del nuovo impero germanico. Il
principio della nazionalità e della sovranità popolare
avevano trionfato in Italia meglio che in Germania, ove gli antichi
ordini feudali e il nuovo ordinamento militare viziavano ancora
dolorosamente la vita moderna.
Il trionfo del principio democratico era meraviglioso. Dopo la
caduta dell'impero napoleonico, fra la selvaggia rivolta dei
comunisti e l'insensata reazione degli elementi monarchici, la
Francia restava republica; l'Italia aveva chiamato con un plebiscito
Vittorio Emanuele a Roma, la Spagna con un altro plebiscito aveva
nominato a proprio re il duca d'Aosta, la Germania con un terzo
plebiscito militare aveva promosso il re di Prussia ad imperatore, e
queste tre monarchiche elezioni esprimevano il principio della
sovranità popolare. L'Europa era profondamente mutata; ogni
possibilità di nuova Santa Alleanza vi diveniva
inconcepibile. La Francia sempre all'avanguardia, con un milione di
prussiani bivaccanti su tutte le sue campagne, aveva osato
proclamare in una rivoluzione comunista, degenerata necessariamente
nella più bestiale delle guerre civili, un principio di
libertà economica superiore ad ogni ordine di classi e a ogni
idea di nazione.
L'Austria, ultima potenza del diritto cattolico, respinta dal centro
d'Europa, doveva inorientarsi, contrapponendo l'eterogeneità
del proprio federalismo alla unità russa nel problema della
ricostituzione nazionale dei Principati Danubiani.
La profezia di Napoleone I, morente a Sant'Elena, che fra mezzo
secolo l'Europa sarebbe o republicana o cosacca, quasi che la Russia
potesse davvero svolgersi nella storia come negazione della
democrazia, attraverso l'errore del proprio dilemma si era dunque
puntualmente avverata.
L'Europa ancora divisa da monarchie era già concorde nel
più irresistibile sentimento democratico.
Capitolo Undecimo.
L'opposizione ideale
Decadenza letteraria.
In questo periodo di unificazione monarchica l'opposizione politica
dalle sfere governative, ove soccombeva ogni giorno in nuove
transazioni, non potè salire più alto traendo seco
tanto pensiero da atteggiarne la letteratura nazionale. Molte cause
storiche vi si opponevano.
Anzitutto il mazzinianismo, come la più vecchia ed importante
delle opposizioni, era pressochè la sola, cui il popolo
prestasse qualche attenzione; ma se Mazzini per la grandezza
dell'ingegno letterario e per l'eroismo del carattere vi aveva
meritamente acquistato una gloria immortale, i suoi scolari,
chiudendosi nella più servile imitazione di lui, si vietavano
spontaneamente ogni valore. Accadeva ai mazziniani nella politica
come ai manzoniani nella letteratura: in ambo le scuole una stessa
pedanteria morale vi aveva isterilita la produzione: gli uni di
Manzoni non avevano voluto ammirare che l'onestà religiosa
del sistema, e dimenticavano gli istinti scetticamente
naturalistici, allora meravigliosi in tanta voga di romanticismo;
gli altri in Mazzini veneravano la dogmatica deistica e il
classicismo republicano, mentre filosofia e scienza sgretolavano
questo e quello, e un'altra democrazia, più impetuosa di
passioni e larga di metodo, chiamava le plebi a nuove conquiste
economiche.
Al difuori del mazzinianismo non v'era altra opposizione. La grande
fioritura letteraria era caduta: Manzoni, Leopardi, Niccolini,
Guerrazzi, Giusti, tacevano o morti o esauriti: nella filosofia
cresceva in Napoli un hegelianismo, dal quale Francesco Fiorentino
tentava di staccarsi con scettiche intenzioni e con studi storici,
mentre Terenzio Mamiani chiudeva il proprio dilettantismo nelle
Confessioni di un metafisico, insufficiente ripresa di vecchie
verità diminuite da una incertezza anche più
insufficiente di metodo, e Camillo de Meis in un libro sui tipi
vegetali ed animali dava la più originale e profonda critica
del sistema darwiniano. Le scuole di Gioberti e di Rosmini erano
cessate: solo quest'ultima durava nei seminari entro una lotta
teologica inavvertita dal grosso publico. La poesia languiva nel
romanzo, nel teatro e nella lirica; nessuno fra i giovani aveva
saputo prendere il posto dei grandi morti. Prati, travolto
dall'abbondanza della propria vena, cadeva di poema in poema, avendo
smarrito ogni senso politico nell'ammirazione incondizionata del re
e della corte: Aleardi si disfaceva in un sentimentalismo serotino,
nel quale la volgarità delle idee traeva alla sciatteria
della forma: l'Uberti, integro ed aspro, aveva dovuto miserevolmente
suicidarsi senza speranza di immortalità nell'arte e senza
conforto di vera azione esercitata sul pubblico: il Praga con senso
schietto di modernità ma scarso valore artistico tentava le
prime rappresentazioni della nuova vita: il Zanella, ultimo prete
liberale, cantava con minore estro e forma più eletta un
ultimo accordo fra scienza e religione. Nievo e Tarchetti, dopo aver
solcato il romanzo, come stelle filanti, dileguavano quasi senza
traccia, sebbene il primo, più vasto d'ingegno e di indole
più sana, meritasse più lungo tempo nella vita e
maggiore importanza dopo la morte: Giacometti, Ferrari e Cicconi
tentavano indarno di galvanizzare il teatro accumulandovi residui
classici e romantici, nazionali e stranieri, senza intuizione della
società moderna e senza originalità di fattura.
Se davanti all'informe sembianza di Vittorio Emanuele, trionfante
come primo re d'Italia, i vecchi grandi poeti avevano serbato un
silenzio solenne, come sentendo l'assurda sproporzione dell'uomo
cogli avvenimenti, mentre i cantori di corte tentavano invano di
rappresentarlo alla nazione come il suo redentore, nemmeno le due
maggiori figure di Mazzini e di Garibaldi, sintetizzanti nella
propria originalità tutta la rivoluzione italiana, avevano
potuto accendere l'estro poetico della nazione. Vittorio Emanuele
era troppo più piccolo dei fatti, cui apponeva spesso nolente
la propria firma: Mazzini e Garibaldi li trascendevano troppo
perchè l'Italia potesse comprendere giustamente l'opera loro.
Infatti l'unificazione nazionale aveva dovuto compiersi tragicamente
contro di essi.
Mentre dal 1821 al 1870 congiure e battaglie, piazze e campi, esigli
e patiboli, vittorie e sconfitte, offrivano la più ricca
messe artistica di questo secolo, la letteratura italiana
pretestando mancanza d'argomenti si trascinava ancora alla
retroguardia di quella francese; e poichè il grande avvento
della letteratura europea era già cominciato, inducendo in
ogni altra nazionale la maggior dose di umanesimo con una più
libera varietà di forme, l'Italia letteraria correva pericolo
di perdere ogni caratteristica dietro troppe imitazioni. D'altronde
la rivoluzione non era abbastanza derivata dalla massa del popolo
per avergli così toccato il cuore da rinnovare tutti i suoi
artisti. L'opera monarchica, ristretta in un partito di corte e di
parlamento, con esclusione del popolo da qualunque ufficio politico,
malgrado la fortuna dei propri risultati era stata troppo umiliante
nel processo per suscitare veri entusiasmi.
La nazione rimaneva quindi inconsapevole: si adattava con mirabile
destrezza ai nuovi modi di vita senza indagare quanto sangue o genio
costassero; si buttava alacremente a lavori d'ogni genere sotto lo
stimolo della concorrenza europea e nell'oblìo più
ingiusto dell'epopea, dalla quale era uscita la sua libertà.
Tutto concorreva a togliere lo spirito nazionale dalla
concentrazione necessaria allo sbocciare di una vera letteratura.
Una goffa ed inevitabile rettorica dominava ambo i partiti. Il
monarchico, affettando la superbia del senno nel trionfo del proprio
governo, cercava di rianimare i vecchi sentimenti di sudditanza a
favore dell'unica vincitrice dinastia col prodigare scherni e
calunnie ai pochi eroi della rivoluzione; il partito rivoluzionario,
non volendo confessare la propria impotenza d'organizzazione,
rinfacciava alteramente alla monarchia le bassezze del suo governo,
e spingeva inutilmente a rivolte che avrebbero tolto alla nazione di
quetarsi in quel primo assetto. In fondo non si ammirava Vittorio
Emanuele; Cavour era quasi dimenticato nel rapido avvicendarsi de'
suoi successori; si lasciava indifferentemente Mazzini nell'esilio,
e si sorrideva argutamente quando Garibaldi da Caprera mandava
ancora qualche monito con stile reso donchisciottesco dalla
contraddizione di un'effervescenza sempre giovanile con una
senilità oramai esausta.
Mentre dietro l'orme di Napoleone I era sorta la più
splendida di tutte le letterature nella storia francese, dai campi
di Garibaldi e di Vittorio Emanuele non crescevano fiori, e non
salivano voci. Quella fiacchezza di coscienza nazionale, che dopo
Dante aveva impedito all'Italia di trarre dalle innumerevoli
tragedie delle proprie cronache un teatro come quello di
Shakespeare, e aveva ristretto a mano a mano tutta la letteratura
nelle scuole, durava ancora.
Manzoni, Niccolini e Guerrazzi erano stati la passione di una
speranza vanita nella volgarità del trionfo.
Garibaldi, il più alto degli eroi, e Mazzini, il più
forte degli scrittori, vi rimanevano egualmente incompresi: la
letteratura usava verso di loro come la politica: siccome non si era
saputo seguirli, non si seppe poi rappresentarli: il popolo li amava
istintivamente. mentre la ragione degli studiosi, volendo
interpretarli, li falsificava.
Dal 1859 al 1870, come dal 1848 al 1859, non v'ebbe quindi vera
produzione letteraria: in questo periodo la minuta preparazione
all'ultima lotta soffocò le grandi passioni e distolse dai
supremi ideali; in quello la febbre e la fatica dell'organizzazione
governativa distrassero dalla meditazione dei fatti e dallo studio
del loro significato.
Cavour dominò il primo, Sella riassunse il secondo; destrezza
diplomatica e destrezza finanziaria condussero al trionfo
d'entrambi.
Ma se l'opposizione politica non potè disciplinarsi a vero
partito contro la monarchia per organizzare in se medesima come in
un campo trincerato tutta la nuova vita moderna, l'Italia che per
lungo e misterioso affinamento di razze e di spirito aveva potuto
produrre non solo Mazzini e Garibaldi, ma individualizzare intorno
ad essi le più nobili virtù in un ciclo meraviglioso
di cavalieri, trovò in Giosue Carducci un altro grande poeta.
Con lui l'opposizione si mutò di politica in ideale.
Giosue Carducci.
Egli non era però e non poteva essere un combattente come
Mameli, nel quale la passione dei fatti sopraffacesse la loro
meditazione.
Se cresciuto fanciullo fra la rivoluzione del '48, ne aveva rimasto
negli orecchi e negli occhi il tumulto, nella Toscana ove era nato e
nella modesta famiglia che intendeva allevarlo quietamente, queste
prime impressioni non bastarono a turbare lo sviluppo del suo
temperamento. La sua gioventù si svolse ostinatamente
studiosa, quasi imbalsamata di classicismo, trovando in esso una
nuova fonte di orgoglio patriottico. I suoi primi odii di toscano
furono quindi per la scuola lombarda, nella quale Manzoni aveva
fatto una rivoluzione romantica così grande da sorpassare lo
stesso romanticismo: ma poichè in essa si era annidata la
scuola neo-guelfa, mentre Niccolini e Guerrazzi, classici e ribelli,
si mantenevano ghibellini, il giovane poeta fondeva già nella
propria ira di classico contro i degeneri romantici cattolici lo
sdegno patriottico e superbamente irreligioso, che aveva ispirato
l'Arnaldo da Brescia e l'Assedio di Firenze. Tutta Toscana era
classica per necessità forse di natura e per superbia di
tradizione.
Mentre in Giusti e in Guerrazzi, trovatisi nel tafferuglio
dell'azione, la molle fibra toscana aveva ceduto lasciandoli troppo
minori nell'opera che nel pensiero, nel Carducci una natura
più concentrata e tempi relativamente più ordinati
dovevano accumulare maggiore dottrina e più salda coscienza.
Nulla da principio tradiva in lui il rivoluzionario. La sua
gioventù, come quella del Leopardi, era cresciuta nell'Ellade
fra i grandi poeti e i grandi eroi dell'antica libertà: la
sua virtù era un riflesso della loro, la sua arte non
insuperbiva che nell'imitarli. Se l'immensa storia di Roma slargava
poi il suo pensiero apprendendo al suo cuore una più nobile
alterezza di patria, la letteratura latina restava fatalmente
secondaria per il suo gusto, e di Roma egli non sentiva veramente
che la gloria pagana. Il cristianesimo gli pareva una forma della
decadenza e una mortificazione del pensiero romano. Nella splendente
serenità della propria fantasia il giovane poeta fuggiva
istintivamente le tenebre cristiane e tutta quella religione, che,
nata di peccato e di martirio, proscriveva il mondo in nome di
un'ideale senza figura e di una virtù senza bellezza. Il
medioevo come epoca classica del papato gli restava chiuso; solo ai
primi albori del rinascimento, nella primavera dell'arte novella,
egli tornava a sentire nell'Italia la propria patria; ma allora la
passione di Dante rifomentando la sua antipatia al cristianesimo,
aizzava il suo odio moderno al papato.
Nel fervore dei primi studi la recente interpretazione medioevale
della scuola neo-guelfa gli pareva una tarda ipocrisia politica per
giustificare il bigottismo delle corti e dell'aristocrazia italiana,
mentre tutti i magni spiriti, da Dante a Machiavelli, da Bruno ad
Alfieri, da Foscolo a Mazzini, avevano sempre combattuto la
tradizione papale per proclamare una libera unità di patria.
Intorno a lui, nella Toscana, fra lo scadimento del carattere e
degli ingegni, la grande scuola ghibellina durava tuttavia. Le
liriche tragedie di Niccolini e i tempestosi romanzi di Guerrazzi
erano ancora le due più efficaci originalità della
letteratura nazionale, le sole due forme di romanticismo che non gli
repugnassero assolutamente.
Ma questo letterato, che aveva cominciato coll'appassionarsi alle
più fini e recondite bellezze della forma, non era un arcade
da smarrire nella plastica della bellezza il senso della sua
verità interiore. Se la sua squisita natura artistica gli
permetteva di riprodurre le molli ed indefinibili venustà del
Petrarca e del Poliziano, i suoi poeti prediletti restavano quelli
che a Roma, in Grecia e nell'Italia classica avevano espresso la
maggiore verità e nobiltà della natura umana.
L'eleganza della sua stessa severità di aristocratico
cresceva valore alla modernità del suo sentimento
republicano, mentre irrequieti istinti di novità, sommovendo
la simmetria della sua classica cultura, lo traevano pei campi delle
letterature europee.
Così egli era la natura artistica più composita di
questo secolo in Italia: intimamente gran signore come Alfieri e
gran cittadino come Parini, senza la stramba albagia dell'uno e la
soverchia remissività borghese dell'altro; la passione
moderna di Foscolo in preda a tutti i delirii del cuore e a tutte le
tempeste di una vita politica, alla quale era conteso ogni
equilibrio, agitava la sua anima fra quel dissolversi dell'Italia
antica federale e l'organizzarsi della nuova Italia unitaria; l'odio
popolano di Guerrazzi contro tutte le autorità dava al suo
classico sdegno la precisione e la vivezza dell'accento, mentre
dalle grandi tragedie di Niccolini gli veniva l'abitudine dei
più alti voli lirici, e dal Bini e dal Giusti qualche
amarezza scettica e satirica ad impedire che l'ira gli si guastasse
nella declamazione.
La sua varia e potente cultura, ben diversa da quella dei vecchi
letterati, trascendeva la sua stessa potenza poetica, e doveva poi
permettergli di rinnovare pressochè tutta la critica
letteraria toccando i temi più svariati con sicura
originalità.
E poichè la rivoluzione italiana, della quale resterà
il massimo poeta, era una conseguenza della rivoluzione francese,
questa diventò per il suo pensiero adulto una stazione come
l'Ellade e Roma. Tutte le libertà spesso disgiunte, talora
contradditorie, mai identiche, che aveva appreso nel vecchio mondo
greco e italiano si armonizzavano allora nel suo pensiero; la sua
coscienza vi trovò la propria unità, le sue passioni
di poeta e di uomo si esaltarono in quell'immenso dramma, al quale
l'impero napoleonico non aveva aggiunto che un atto, e nel quale
tutta l'Europa era entrata gettandovi, attori inconsapevoli, popoli
e re fra un uragano di battaglie meno terribili ancora delle stragi
cittadine. Il suo classicismo ne andò quindi rotto. Gli
istinti rivoluzionari della sua arte, inconsapevolmente prigioniera
nelle forme del passato, aiutandosi delle nuove convinzioni
montagnarde, gli fransero la cerchia della nazionale tradizione
letteraria per suggerirgli altri motivi e ritmi poetici. Ghibellino
con Dante, egli divenne giacobino con Victor Hugo e con Michelet;
Barbier gli insegnò a condensare l'ira patriottica nei
giambi; Heine, un francese d'elezione, gli apprese ad avvelenare
l'invettiva; la sua prosa ancora agghindata si snodò come
quella di Manzoni e di Mazzini al contatto della francese, la storia
della grande rivoluzione dell'89 gli fornì argomenti a
chiarire quella che si compiva in Italia; l'opposizione al secondo
impero gli prestò forme e concetti ad oppugnare la monarchia
di Savoia.
Il suo forte ingegno fece il resto.
Così, mentre l'Italia ascoltava distratta le fantasie di
Prati e le elegie di Aleardi, egli, ancora sconosciuto malgrado una
classica ode, nella quale aveva acclamato a Vittorio Emanuele come
tribuno armato del popolo, le gittò i Decennali e i Levia
Gravia, primi saggi di una poesia politica, cui la severità
del classicismo giovava quanto la modernità del pensiero.
L'opposizione ideale al processo di unificazione monarchica era
finalmente sorta. La coscienza italiana, incerta fra le critiche
sistematiche di Mazzini, le invettive intermittenti di Garibaldi, le
accuse contradditorie della sinistra e le subdole difese della
destra, trovava in un poeta la sincerità del proprio ideale
superiore a tutte le antitesi partigiane.
Ma questo poeta era troppo classico per poter diventare mai
popolare, e non abbastanza originale per essere il poeta del popolo.
Se la sua opposizione era sincera, i modi della sua arte erano
ancora troppo antichi, e i suoi modelli di guerra quasi tutti
stranieri. Dante, assalendo i propri nemici politici nell'Inferno,
aveva fuso insuperabilmente linguaggio e pensiero popolare, non
rifuggendo da alcuna immagine, accettando tutte le parole, non
rattenendo mai l'impeto della collera per cesellare una terzina.
Victor Hugo nei Châtiments investendo il secondo impero era
stato brutale e sublime come Dante e come la Bibbia: la sua ira
aveva superato l'enormità di quella del mare trovando tutte
le voci, tutti i ritmi, tutte le forme, tutte le forze; nessun
confronto gli era parso troppo alto o troppo basso per umiliare
imperatore e impero; nessun particolare per quanto ignobile, nessun
motto per quanto osceno, nessuna rivelazione per quanto ribalda,
avevano arrestato la foga o irritato il gusto della sua poesia. E i
Châtiments erano e saranno la più grande poesia
politica di tutte le letterature. Ma Victor Hugo odiava per amore di
due grandi republiche, quella dell'89 e del '48, aveva intorno il
popolo più democratico del mondo, e rovesciava un impero che
era l'ultimo inevitabile e miserabile esperimento di un sistema
consunto; il poeta italiano non poteva odiare la monarchia di Savoia
come quegli Napoleone III. Tutta Italia aveva accettato dinastia e
governo piemontese per organizzarsi meno dispendiosamente e
più facilmente in nazione: le insufficienze e le brutture di
tale forma politica erano adunque per lo meno pari, se non maggiori,
nel popolo che nel governo. Il contegno del re verso Mazzini e
Garibaldi, malgrado molti atti villani, era ancora meno ingrato di
quello della nazione. Quindi il poeta che non poteva colpire la
dinastia nella monarchia trovando sempre in questa la nazione, che
avrebbe indarno mentito coll'accusare di decadenza la rivoluzione,
che non si sentiva intorno le proprie collere a certe umiliazioni
nazionali, che malgrado una troppo lunga serie di errori politici
vedeva sempre paese e governo avvantaggiarsi verso l'unità,
era costretto a ruminare nella solitudine il proprio sdegno per
immortalarlo nella più squisita forma classica, e sbatterlo a
un dato momento sul viso alla patria come un guanto. La sua
alterezza signorile di cittadino, la sua preziosa severità di
artista republicano, l'isolamento della sua vita di professore
ancora incompreso concordavano a crescergli l'energia poetica; il
contatto stesso colle Romagne, ove da Bologna si mescolava spesso
coi più ardenti rivoluzionari, doveva forse giovargli
più che tutto il resto.
Ma se la natura troppo composita gli toglieva di essere popolare
come Victor Hugo in Francia e Heine in Germania, le sue mirabili
attitudini artistiche, perfezionandosi nello sforzo continuo di
tradurre nel verso i fatti politici del momento, dovevano fare di
lui il miglior poeta lirico e il più efficace poeta civile di
questo secolo in Italia. La borghesia, più attiva del popolo
nella rivoluzione, e perciò più capace di intenderne
le antinomie, dimenticò finalmente nei suoi canti il proprio
soverchio culto pel Manzoni. Allora non v'ebbe più
avvenimento lieto o giocondo per la patria, al quale Carducci non
prestasse la propria voce. La sua lirica si atteggiò in tutte
le forme, rinnovò tutti i ritmi, ebbe lamentazioni superbe di
dolore, singulti di satira, ruggiti d'imprecazione, grandinò
sui fiacchi e sugli ipocriti che indietreggiavano davanti a Roma, vi
percosse d'anatema il pontefice, tuonò sui palazzi del re,
gettò urli d'entusiasmo per Garibaldi; poi, divagando
apparentemente in Francia, ne rappresentò i fasti
rivoluzionari e le infamie borboniche a rimprovero per l'Italia;
parve discendere nel medio evo ad evocarvi le grandezze republicane
dei comuni; s'allontanò a Roma e in Grecia; e sempre fervida
di entusiasmo patriottico e di passione democratica fu appello ed
ammaestramento, monito e preghiera, per la libertà della
patria e per la sua gloria.
La donna, questo eterno tema della poesia, non vi ottenne che pochi
canti e non i migliori.
Una febbre di grandezza animava il poeta. Si sarebbe detto che tutta
la sua collera e il suo rimpianto derivassero dal non essersi egli
pure battuto per l'Italia, dal non avere cospirato con Mazzini, dal
non avere marciato con Garibaldi: ed anche in questo amaro
sentimento egli era il poeta della borghesia, che sentiva di non
aver fatto abbastanza per la rivoluzione. Quindi la sua
onestà di uomo povero e di gran signore soffriva alla
gazzarra dei primi affari, di cui il governo si serviva come di una
corruzione: la sua generosità popolana si mutava in rabbia ad
ogni ingiustizia usata verso Garibaldi o Mazzini.
Nullameno il suo temperamento artistico dominava sempre la tempesta
del suo pensiero politico, permettendogli d'immergersi in studi
filologici e critici sino a mutarlo in uno fra i massimi professori
d'Europa, e a fargli rinnovare la prosodia italiana colla latina in
una assimilazione sempre più organica di idee nuove con forme
antiche, e di forme estere con modi nazionali.
Ma la sua opera poetica non potè avere in Europa un potente
significato di originalità.
Mancava ad essa la schiettezza moderna dell'ispirazione colla
caratteristica di una vera passione nazionale. Il poeta soffriva ma
non odiava; non comprendeva il popolo e restava al popolo
incompreso; peggio ancora il popolo odiava meno di lui. La borghesia
poteva intenderlo, ma non seguirlo, dacchè la monarchia era
la forma da essa imposta alla rivoluzione. Mentre Hugo e Heine,
guidati dall'istinto infallibile dell'odio, trapassavano ad ogni
colpo il proprio avversario, egli, costretto ad una critica ideale,
riusciva spesso meno terribile di Mazzini malgrado il vantaggio
della forma poetica, e meno franco di Garibaldi che poteva dare ad
una ingiuria plebea il valore di una rivelazione.
Come la rivoluzione italiana, egli fu dunque troppo composito e non
abbastanza democratico per essere originale; le passioni gli
bruciarono più la testa che il cuore; la dottrina
perfezionandogli l'ingegno glielo restrinse; fu classico,
aristocratico e borghese, mai veramente nè popolano nè
popolare. Laonde, classico, mantenne nell'arte la tradizione regia,
che la monarchia di Savoia sovrapponeva alla rivoluzione;
aristocratico, ebbe le superstiti delicatezze della propria classe
con tutte le sue impotenze; borghese, fu al tempo stesso mazziniano
e garibaldino contrastando alla monarchia ed accettandola come
Mazzini e Garibaldi.
La sua ultima poesia politica Ça ira, mirabile epopea di
pochi sonetti, invece di essere garibaldina fu francese.
Nell'immenso campo poetico del risorgimento nazionale egli non colse
che pochi fiori e non ripercosse che alcune voci. Garibaldi ebbe da
lui qualche ode; Mazzini una iscrizione, un sonetto, e da morto. La
sua poesia politica, incomparabile nella nostra letteratura, non
bastò al confronto di quella francese: malgrado la
magnanimità dei propositi e l'elevatezza dei sentimenti, non
osò tutti i confronti fra rivoluzione e monarchia,
mancò di amore e di odio, ebbe più riflessione che
istinto per finire in una critica, che compostezza e ricercatezza di
forma rendevano spesso poco accessibile.
La rivoluzione italiana, trovando in Carducci il poeta del proprio
periodo di unificazione, non potè quindi tradursi intera
nella sua opera, come intera non aveva potuto svolgersi nella forma
monarchica: letteratura e politica la dimezzarono. Le sue imprese
più miracolose, le sue più tragiche catastrofi, le sue
più cupe umiliazioni, fraintese o poco intese, non trassero
dalla coscienza nazionale la passione necessaria a rinnovare la vita
e l'arte italiana.
Mazzini e Garibaldi come eroi universali, trascendenti la stessa
rivoluzione, vi rimasero incompresi.
L'Italia aspetta ancora il poeta, che come Hugo ed Heine le riveli
l'epopea rivoluzionaria e la decadenza del papato nell'effimero e
contradditorio trionfo della monarchia di Savoia. Le avventure
americane di Garibaldi, la sua difesa di Roma, la ritirata sino alla
pineta di Ravenna, l'impresa dei Mille, la tragedia d'Aspromonte,
l'ecatombe di Mentana, la vittoria di Digione, la solitudine di
Caprera, saranno un giorno le massime glorie della lirica nazionale:
le cospirazioni, l'esilio, l'apostolato fra congiure e patiboli, la
fede superiore a tutte le smentite, la generosità più
tenace di tutte le ingratitudini, la democrazia italiana e mondiale
di Mazzini, inspireranno una drammatica più profonda e nobile
di quella di Shakespeare; le rappresaglie ignobili ed assassine del
papato alla sua ultima ora, le senili ribalderie di tutte le corti
italiane, la fortuna troppo spesso fraudolenta della monarchia di
Savoia costretta alla gloria dell'unificazione italica, le
incertezze bigotte dell'aristocrazia, l'avara prudenza della
borghesia, la bruta incoscienza del popolo, l'abbietta reazione del
clero produrranno una satira ben più tetra e vivace che non
quella del Giusti e del Carducci.
Ora l'illustre poeta, respinto come Mazzini dalla nuova passione
rivoluzionaria, si è ritirato con alterezza signorile nel
castello incantato della propria arte, e come Tennyson vi si oblia
nell'ingannevole riproduzione di ogni forma di poesia. La nazione lo
venera come pochi anni or sono venerava il Manzoni, ma origlia
già per cogliere qualche nuova voce fra la cantilena delle
proprie scuole.
Però anche in questa ritirata il Carducci ha potuto
significare il trapasso borghese dalla monarchia di Vittorio
Emanuele a quella di Umberto I, mentre nel dissolversi di tutti i
partiti storici, che avevano cooperato al trionfo dell'unità
nazionale, la borghesia, come sorpresa dalla lassitudine dell'opera
compita e nell'assenza di ogni alto preciso ideale, si è
abbandonata con giocondità teatrale ad un vano entusiasmo per
la propria dinastia. Una ebbrezza di pace ha quindi colto il poeta
della rivoluzione, mutandogli la cetra di Alceo nella lira di
Metastasio: qualche ombra delle antiche malinconie gli è
rimasta in fondo al cuore, qualche gemito e qualche urlo gli
sfuggono ancora come rimbombi dai crepacci che i fiori del recente
prato non hanno potuto chiudere, ma l'artista squisito se ne serve
abilmente come di una dissonanza, e, dimentico del popolo e della
rivoluzione, modula soavi canzoni alla regina d'Italia5.
LIBRO NONO
IL SECONDO PERIODO MONARCHICO
Capitolo Primo.
Le due monarchie
Esaurimento della destra.
La presa di Roma chiudeva il periodo dell'unificazione.
Se Trento e Trieste restavano ancora in mano all'Austria, e Nizza
era stata ceduta alla Francia che già da oltre mezzo secolo
possedeva la Corsica, nullameno l'Italia col sostituirsi in Roma al
potere temporale compiva la propria unità. Una dissoluzione
dei partiti politici era quindi inevitabile. L'impero francese,
rovesciato a Sedan dalle armi vittoriose del nuovo impero germanico,
non trascinava più l'Italia come un satellite nella propria
orbita; l'opposizione mazziniana vaniva nello stesso risultato
dell'unità; Garibaldi aveva scritto l'ultimo canto della
propria epopea sulle mura di Digione.
L'Italia era monarchica.
Ma la monarchia, che aveva imposto alla rivoluzione la propria
forma, doveva a Roma mutare d'indirizzo e di metodo. Alla fortuna
delle armi e delle diplomazie, ora, nel dissolversi di ogni
opposizione e nella conquistata libertà di se medesima, stava
per succedere una più calma e feconda applicazione dei
principii rivoluzionari. L'esclusione del popolo dagli uffici
politici diventava impossibile: lo statuto strappato a Carlo Alberto
dal Piemonte non bastava più all'Italia. Colla risoluzione
dei massimi problemi pregiudiziali, onde monarchia e rivoluzione si
erano reciprocamente mortificate, cresceva la necessità di
meglio riordinare il primo assetto, sottoponendo tutte le leggi
improvvisate nel trambusto della formazione nazionale a nuova
critica.
In Roma l'Italia doveva a se stessa e all'Europa la medesima opera
civile delle maggiori nazioni.
Nullameno un profondo squilibrio turbava ancora la sua vita. Il suo
governo reazionario contro la rivoluzione mazziniana era stato,
malgrado molte inevitabili contraddizioni, anche troppo
rivoluzionario rispetto alla massa delle popolazioni, specialmente
in alcune provincie. Gran parte delle leggi liberali, anzichè
domandate, erano state imposte al paese: l'antagonismo regionale non
era al tutto scomparso, la differenza di cultura e di costume fra il
sud e il nord aveva reso impossibile il beneficio di molte riforme.
L'insufficienza rivoluzionaria della nazione proseguiva tuttavia
nella vita politica: fra parlamento e paese il rapporto di
rappresentanza si era alterato anche troppo e troppo spesso, mentre
fra l'Italia legale e l'Italia reale l'abisso, invece di
restringersi, in molti punti si allargava.
Dell'antica scuola dei riformisti, mutati in costituzionali
dall'influenza dell'opera cavouriana, non rimanevano più che
pochi manipoli apparentemente dominanti ancora nella camera e nel
ministero, ma Quintino Sella, imponendo loro la conquista di Roma,
li aveva esautorati. Quindi il loro odio più segreto e
più forte era per l'illustre finanziere, che dopo dieci anni
di lotta stava per raggiungere finalmente in Roma il pareggio del
bilancio. La destra più monarchica che democratica non poteva
iniziare il nuovo periodo parlamentare per dare alla monarchia
l'elasticità e la facilità di una republica.
La legge delle Guarentigie aveva dichiarato per l'ultima volta tutto
il suo pensiero politico.
Nella rapida e profonda dissoluzione di tutti i partiti, programmi e
capi andavano sperduti.
Al di fuori del parlamento il disordine sopravvenuto colla
rivoluzione nell'assetto secolare delle classi non si era ancora
calmato in un altro ordinamento, la destra non era mai stata vero
partito conservatore giacchè i conservatori, che avrebbero
dovuto sostenerla, l'oppugnavano invece o per antipatia a' suoi
metodi violenti e alle idee succhiate dalla rivoluzione, o per
devozione alle monarchie cadute. Il clero si manteneva
antipatriottico ed antinazionale, l'aristocrazia non possedeva
influenza politica, la corte si componeva di uomini nuovi come
quella del primo e del secondo impero napoleonico. Troppi pregiudizi
sociali, politici e religiosi inceppavano ancora il pensiero della
destra, e falsavano il suo carattere: però nell'urgenza di
una nuova più vasta riforma politica dovette darne qualche
accenno nell'istruzione pubblica e nell'esercito e cominciare
inconsapevolmente una conquista nell'Africa.
La sinistra, rinchiusa nell'orbita legale dalla conquista di Roma,
si liberava finalmente dalle troppe equivoche aderenze al partito
republicano, rendendosi non solo possibile ma necessaria al potere.
Il suo addestramento, cominciato nel parlamento piemontese, aveva
durato abbastanza per attenderne ora qualche frutto; ma, costretta a
precisare il proprio programma, essa non sapeva ancora estrarlo
dalla tumultuante congerie di tutte le proposte accumulate in tanti
anni di opposizione. Rancori e sottintesi dividevano i suoi
capitani; molte diffidenze li colpivano a corte e nel paese per il
loro passato rivoluzionario. D'altronde nemmeno la sinistra aveva al
di fuori del parlamento un partito numeroso e compatto che la
sostenesse. Tutti sentivano la necessità di un altro
indirizzo politico, ma pochi ne vedevano la direzione, e ne
avrebbero saputo calcolare la velocità.
I dati politici del nuovo periodo dovevano essere tutti di ordine
interno, giacchè Trento e Trieste rimaste in mano dello
straniero non avevano più tale importanza da dominare la vita
della nazione; nè l'Italia, nè la monarchia correvano
pericoli. Bisognava riorganizzare tutti i servizi pubblici,
ricostituire esercito e armata, raddoppiare le ferrovie, triplicare
o quadruplicare l'elettorato politico ed amministrativo, riordinare
le opere pie sottraendole al clero e preparandole ai bisogni della
vita moderna, correggere i riparti comunali, provinciali,
amministrativi e giudiziari, sintetizzare la magistratura
migliorandone l'ordinamento colla diminuzione delle preture,
raddoppiare la vita all'istruzione elementare, costituire quella
tecnica, portare l'altra superiore al livello delle odierne
condizioni europee, raggiungere il pareggio nel bilancio e, appena
raggiunto, abolire i più ingiusti balzelli come il macinato e
il corso forzoso, decentrare l'amministrazione emancipando comuni e
provincie, diminuire la tutela del governo sul paese per abituarlo a
reggersi da sè e a contare sulle proprie forze, disciplinare
parlamento e partiti entro la regolarità delle funzioni
costituzionali, arrestare il diffondersi della burocrazia, sottrarre
nei trattati il commercio nazionale al vassallaggio estero, aiutare
lo sviluppo della vita e della coscienza italiana.
A questo programma era votata la sinistra.
Doveva quindi accadere che essa, arrivando al potere ancora nel
disordine delle proprie abitudini di opposizione, vi si trovasse
così a disagio da non sapervisi reggere solidamente da
principio.
L'antica destra si era formata di tutti quei riformisti, che nella
rivoluzione del quarantotto credevano ancora al federalismo e al
costituzionalismo dei principi; la sinistra si componeva per massima
di transfugi dal campo rivoluzionario. La monarchia assorbendo l'una
e l'altra, fondeva nella propria unità le due più
vivaci differenze della nazione, ma la rivoluzione trionfava
così della monarchia imponendole le proprie idee per mezzo
degli stessi disertori. Così nella nuova gamma dei ministeri
di sinistra si sarebbe indubbiamente cominciato da quelli, che
più si avvicinavano alla destra sino a toccare cogli ultimi
la Montagna; la monarchia di Vittorio Emanuele non potè avere
alcun vero ministero di sinistra, quella di Umberto I non ne
avrà forse alcuno di vera destra.
In questa seconda fase la monarchia sembrerà perciò
trionfare di tutto e di tutti. La sua forza di assorbimento si
eserciterà sulle cose e sulle idee, sui partiti e sugli
individui, con tale potenza che solamente coloro sempre ad essa
nemici, anche nel periodo dell'unificazione, potranno sottrarlesi.
Il segreto della sua forza sarà nella sincerità de'
suoi voleri democratici, che le permetteranno di concedere al paese
riforme politiche più larghe delle sue stesse pretensioni, e
nella impossibilità logica per l'Italia di mutare governo
prima di averlo esaurito. Una improvvisa fortuna portando il duca
d'Aosta al trono di Spagna per un effimero ed inglorioso esperimento
regio sembrerà dare alla dinastia avventurosa dei Savoia
qualche barbaglio della gloria napoleonica: Austria e Germania,
accogliendola nella propria alleanza, la renderanno compartecipe al
dominio sulla politica europea, mentre la Francia dovrà
raccogliersi in se medesima per superare la prime difficoltà
della propria republica, e la Russia rimetterà
momentaneamente della propria preponderanza. Nella calma succeduta
alla lunga crisi dell'unificazione, il governo della sinistra
soddisferà tutte le passioni dei vecchi oppositori senza
irritare quelle della gioventù, per la quale le maggiori
colpe della monarchia verso la rivoluzione saranno già un
passato incredibilmente lontano. E tutti si sottometteranno al nuovo
re Umberto I, ammirabile figura di gentiluomo e di borghese, che
intuendo con fino senso di attore il carattere del re moderno,
sarà come il sindaco d'Italia, bonario e signorile,
sottomesso al parlamento e ai ministeri, ma soverchiando l'uno e gli
altri con una popolarità conquistata da incessanti
dimostrazioni di affetto per tutte le sventure della nazione.
I prigionieri della monarchia.
Come nella rivoluzione federale del quarantotto tutti gli uomini
politici avevano dovuto egualmente fallire travolti dalla
liquidazione del passato, così nel secondo periodo monarchico
della unificazione tutti i partiti dovevano essere assorbiti dal
governo. Solo coloro, che come Alberto Mario, discepolo di Cattaneo,
risognavano un federalismo republicano, o come Maurizio Quadrio e
Federico Campanella rimpiccolivano nell'intrattabile onestà
del carattere e nell'angustia dell'ingegno il già angusto
classicismo republicano di Mazzini, potevano, isolandosi in una
critica melanconica ed inascoltata, sottrarsi al fascino monarchico,
e morire ravvolti nella propria bandiera. Tutti gli altri,
abbandonati al grande corso della storia, dovevano finire col
cooperare nella monarchia all'organizzazione del governo. Quindi la
loro dedizione, precoce o tarda, si drammatizzò per tutta la
varietà dei loro caratteri e dei loro ingegni, non senza
aumentare lo scetticismo delle masse, alle quali le solitarie e
tragiche grandezze della rivoluzione non avevano potuto infondere
una forte fede politica.
Conversioni e voltafaccia si moltiplicarono opportuni ed
inopportuni, ingiustificabili e nullameno giustificati. I bisogni
della vita privata e le necessità di quella pubblica
trionfarono di tutte le resistenze; i rancori reciproci si calmarono
nell'oblio onde il popolo copriva tutte le opere individuali; i
dibattiti parlamentari abituarono alla prevalenza delle idee sui
sentimenti e dei fatti sui sistemi. D'altronde il governo, seguendo
l'abile indirizzo cavouriano di sedurre tutti gli avversari e di
restare implacabile a tutti i nemici, si giovava di qualunque
espediente. Coloro fra i rivoluzionari, che non cedettero alle
multiple lusinghe del denaro, soccombettero alla bramosia del potere
o alla invidia della fortuna guadagnata dai primi ad arrendersi. I
più alti e nobili caratteri compirono il proprio passaggio
dalla rivoluzione alla monarchia, dalla Montagna al ministero,
sacrificando le loro inattuabili idealità alla pratica del
governo, come nella vigilia della guerra avevano immolato la
republica all'unità; altri, che nella rivoluzione avevano
portato solamente il tumulto delle passioni e l'energia del
temperamento, si stancarono presto del mestiere di tribuno, e si
umiliarono alla monarchia non potendo umiliarla; molti le chiesero
il prezzo di servigi resi più alla nazione che ad essa;
troppi vi si rifugiarono dal disprezzo del popolo. Le dedizioni
assunsero spesso forma di tradimenti anche per la violenza della
critica, onde i pochi incrollabili republicani le perseguitarono: i
neo-convertiti, costretti dalla necessità di persuadere il
governo e di ribattere gli antichi compagni ad esagerare la nuova
fede, discesero sovente a ribalderie senza scusa. Si videro quindi
uniti in una inqualificabile amicizia ex-ministri delle cadute
dinastie con ribelli da essi già condannati alla morte e alla
galera, e gli uni e gli altri sottomessi alla monarchia di Savoia, e
daccapo ostili al popolo.
In questo inevitabile crescendo di conversioni la monarchia venne
diventando come il capo saldo della nazione: la sua importanza
aumentò in Europa giorno per giorno; il suo liberalismo e la
sua popolarità le diedero una sembianza simpatica di
originalità, che seduceva egualmente popoli e re. Se la sua
corte era tutta di transfugi dalle altre corti rovinate, il suo
governo si componeva quasi interamente di prigionieri fatti alla
rivoluzione.
Tale drammatico fenomeno di un governo servito fedelmente da tutti i
recenti avversari sarebbe però stato impossibile, qualora nel
paese non vi avesse corrisposto una così larga evoluzione
costituzionale da avviluppare quasi tutta la vecchia e la nuova
generazione.
Fra questi prigionieri della monarchia, e che essa gettava nel
trambusto del parlamento, o deponeva nel senato come in un museo di
figure di cera, o allontanava nelle ambasciate, o disseminava nelle
prefetture, o isolava nell'esercito, o comprometteva in posti
subalterni, brillavano ancora nel vigore della forza figure di
soldati e di cospiratori, di artisti e di scienziati, capaci
d'imporre rispetto al popolo e alla corte. L'imprudenza di qualche
frase tradiva ogni tanto in essi l'uomo antico; il ritorno di
qualche motivo eroico nella politica li univa improvvisamente in una
affermazione non solo superiore ma contraria alla monarchia; poi la
fatalità costituzionale li gravava nuovamente, e piegavano il
capo pensosi forse di un tempo migliore.
Alla rivoluzione non restava più nè il maestro,
nè il capitano, nè programma, nè bandiera.
Mazzini, rifuggitosi nell'esilio dopo l'amnistia di Gaeta quasi a
punire l'Italia morendo in terra straniera, si era confessato vinto
coll'affermare che la monarchia una volta entrata a Roma vi
dominerebbe «chi sa per quante generazioni», e tornava
inconsolabile di amore italiano a morire in Pisa accettando dal
governo l'apoteosi dei funerali, e riconoscendo così la sua
libertà costituzionale; Garibaldi, dopo aver tutto ricusato
dalla monarchia fuorché la condanna a morte, la fucilazione
d'Aspromonte e la prigionia del Varignano, soffocato dalle angustie
e dai disordini della propria casa accettava finalmente due milioni,
e veniva paralitico a Roma per salutare in Umberto I e nel
principino ereditario i re d'Italia. Dopo la resa dei due grandi
capitani le capitolazioni dei minori rivoluzionari precipitarono:
Alberto Mario, pur combattendo la monarchia sino all'ultima ora, non
le augurò più che un placido tramonto; Aurelio Saffi,
modesto Aronne del nuovo Mosè che aveva potuto morire nella
terra promessa, succedendo nella direzione del partito republicano
non fu più che un pontefice riverito ed inefficace: e
recentemente, quando re Umberto visitò le Romagne (1888)
rimaste sempre ostili alla monarchia, persuase al popolo ogni
più onesta e lieta accoglienza al sovrano. Giovanni Nicotera,
già violento di odio contro tutti i re, salì al
ministero, e vi si mostrò violento contro i republicani
immutati; Benedetto Cairoli, ultimo della propria eroica famiglia,
fu presidente dei ministri, e fece scudo a re Umberto della propria
popolarità nel primo viaggio reale di riconoscimento;
Agostino Depretis, cospirante nel 1853 per rapire in Lombardia
l'imperatore d'Austria, e Francesco Crispi cacciato da Torino per
ordine di Cavour, saliti colla sinistra al potere, vi divennero i
più abili e fieri difensori della monarchia alleata
coll'Austria; Giuseppe Ferrari tramontò nel senato accettando
dal re, egli filosofo della legislazione, un mandato legislativo;
Emilio Visconti-Venosta e Giacomo Medici ottennero di essere
marchesi; le decorazioni fioccarono sugli altri, la Camera accolse
coloro che si credevano ancora un avvenire, il senato ospitò
gli invalidi, e un'aura di pace rasserenò tutte le fisonomie,
mentre il partito republicano dileguava come un ricordo, e quello
socialista mandava per le piazze i primi vagiti.
La monarchia aveva vinto. Allora Giosue Carducci, che aveva cantato
contro di essa le glorie più giacobine della rivoluzione, e
serbato il più sdegnoso silenzio dinanzi a Vittorio Emanuele,
si arrese anch'egli prigioniero deponendo, simbolo di pace, una
corona di fiori poetici sulla fronte della regina d'Italia.
Ultimo ministero Minghetti.
Malgrado l'entrata a Roma e il pareggio oramai in vista, la
posizione del ministero Lanza-Sella era perduta. La destra non
poteva perdonare al Sella di averla violentata nella questione
romana; la sinistra prossima ad afferrare il potere raddoppiava di
ostilità: entrambe si unirono contro il ministero col gruppo
toscano, che accennava a riprendere il triste ufficio della
Permanente piemontese per la medesima pessima ragione del trasloco
della capitale da Firenze a Roma. Costoro chiedevano una somma
enorme di compensi, quasi la nazione dovesse pagare all'abbandonata
metropoli tutte le pazzie del suo lusso improvvisato per le vie.
Una prima crisi scoppiò per la costruzione di un arsenale
militare a Taranto, cui il ministero assegnava 6 milioni, mentre una
commissione parlamentare glie ne attribuiva prima 70, poi 23. Il
ministero si dimise, ma la battaglia essendosi accesa come
inconsapevolmente, il re lo riconfermò. Ne venne così
una tregua brevissima, della quale la destra profittò per
prepararsi a più vigoroso assalto contro i provvedimenti
finanziari presentati dal ministero per fronteggiare le nuove spese
introdotte nel bilancio. Agostino Depretis, nominato capo della
sinistra alla morte di Urbano Rattazzi, si associò al
Minghetti, ultimo capitano della destra, e il ministero cadde.
La destra si suicidava uccidendolo.
Infatti il nuovo ministero Minghetti non potè, malgrado
l'abilità parlamentare di molti suoi membri, avere alcuna
vitalità politica. Di tutta la destra l'unico uomo di stato
moderno per intendimenti e principii era il Sella. Se il suo
carattere fosse stato più malleabile e la sua coscienza meno
delicata, come nel conte di Cavour, avrebbe dovuto associarsi a
Depretis nel comando della sinistra, recandole la sincerità
del proprio metodo finanziario col nobile disdegno di ogni falsa
popolarità.
Il nuovo ministero fu quindi fatalmente di reazione: Minghetti, il
più tardo dei riformisti a credere nel processo cavouriano di
unificazione, assunse colla presidenza il portafoglio delle finanze;
Visconti-Venosta vi rimase agli esteri; Silvio Spaventa, mal viso
per gli eccessivi rigori polizieschi di un tempo, ebbe benchè
non pratico, i lavori pubblici, Cantelli, inetto legittimista
cresciuto alla corte della duchessa di Parma, governò
l'interno.
Poichè la Francia nella rovina dell'impero napoleonico e
della rivoluzione comunarda era caduta alle mani di una reazione
monarchica doppiamente irritata coll'Italia per la conquista di
Roma, ne venne che le relazioni politiche fra le due nazioni si
guastarono. La Francia accusava l'Italia d'ingratitudine
rinfacciandole la campagna del 1859; questa rimbeccava aspramente
ricordandole Nizza e Savoia, Villafranca e Mentana. Da Versailles,
nuova capitale politica, questa reazione rinfrancata di tutti gli
elementi più conservatori del legittimismo, dell'orleanismo e
del bonapartismo, affettò quindi di voler riaprire in certo
modo la questione di Roma: il conte di Choiseul ministro francese a
Firenze partì in congedo per non accompagnare Vittorio
Emanuele nell'ingresso solenne a Roma; petizioni dalle campagne
fioccavano all'assemblea di Versailles per un intervento in favore
del potere temporale.
Naturalmente la politica italiana, impressionata di queste
ostilità, si torse verso la Germania. Vittorio Emanuele,
così deferente a tutti i voleri di Napoleone III,
s'irrigidì altezzosamente dinanzi a Thiers, diventato
presidente della republica francese; e quando Sella, nell'occasione
delle feste per il traforo del Cenisio, tentò combinare fra
loro un abboccamento, il vecchio re piemontese si rifiutò
all'etichetta, che gli avrebbe imposto di muovere incontro al
presidente della republica francese. «Il re d'Italia, egli
rispose al Sella, sta di casa a Torino e il signor Thiers sa dove
trovarlo, se ha bisogno di conferire con lui». Ma
poichè la Francia accennava a contrastarci il pacifico
possesso di Roma, il re d'Italia avrebbe dovuto almeno rispondere
che avrebbe atteso il signor Thiers al Quirinale.
Il primo atto del nuovo ministero Minghetti fu di condurre in visita
il Re a Vienna e a Berlino come per risposta alle ingiuste
recriminazioni francesi. Il governo di Versailles ritirò da
Roma il proprio ministro Fournier, e mandò nelle acque di
Civitavecchia la fregata Orénoque; la stampa delle due
nazioni si accapigliò; gli animi si invelenirono così
che quando l'imperatore d'Austria venne a Venezia e quello di
Germania a Milano per rendere la visita a Vittorio Emanuele,
l'Italia non s'accorse dell'ingiuria fatta a Roma.
Parve invece trionfo insperabile che due imperatori visitassero
l'Italia, pur disconoscendone la capitale col rifiuto di entrarvi.
Il secondo atto del ministero fu la cattura di Aurelio Saffi e di
altri ventinove republicani mazziniani, convenuti in una villa Ruffi
della campagna riminese per discutere sull'attitudine del loro
partito davanti alla monarchia. Quest'assurda violenza poliziesca,
cui tennero dietro altre molte, finì di screditare il governo
della destra, reso già odioso dall'ostinata opposizione ai
più necessari sviluppi democratici della rivoluzione e da una
durata di quasi quindici anni.
La lotta parlamentare riarse più viva alla riapertura del
parlamento (novembre 1875): Agostino Depretis aveva da Stradella
promulgato in un magistrale discorso il verbo della nuova sinistra.
Fra le riforme promesse vi si annunciavano come più urgenti:
l'affidare ai laici l'amministrazione delle proprietà
ecclesiastiche, l'obbligo dell'exequatur eseguito con rigore,
l'istruzione laica resa obbligatoria e gratuita, l'allargamento del
voto politico ed amministrativo, la determinazione per legge delle
incompatibilità parlamentari e la diminuzione del numero dei
deputati impiegati, un pronto inizio di decentramento abbandonando
ai comuni e alle provincie la nomina dei propri sindaci e dei propri
presidenti, l'abolizione delle sottoprefetture e dei consigli di
prefettura, la correzione delle leggi tributarie e delle norme per
la compilazione dei bilanci, la revisione dei trattati di commercio
secondo il principio del libero scambio, una correzione della legge
di pubblica sicurezza, il miglioramento delle circoscrizioni
giudiziarie, e finalmente una legge sulla responsabilità dei
pubblici funzionari.
A questo largo programma di riforme il ministero non seppe
contrapporre che la propria apologia e l'annunzio del pareggio,
dovuto all'opera sagace e coraggiosa del Sella. Quindi cadde per
tradimento del gruppo toscano, che passò a sinistra, donde
gli venivano molte promesse di aiuti a Firenze.
Così si chiudeva la prima fase parlamentare del regno
d'Italia.
In mezzo alle accuse che la colpivano caduta, la destra poteva
nullameno vantare la gloria di avere stabilito il primo assetto. Le
sue colpe maggiori verso la rivoluzione derivavano piuttosto dalla
monarchia impotente a seguire una politica più nobile e
più democratica: gli altri suoi difetti politici erano una
conseguenza delle scuole e delle classi, nelle quali si era
reclutata. La contraddizione di dovere simultaneamente essere
rivoluzionaria e conservatrice viziò il processo della sua
legislazione e della sua politica estera sino a compromettere
più volte l'onore d'Italia. Come partito essa non credette
mai sinceramente alla possibilità di unire l'Italia in una
sola nazione, contrastò a tutte le imprese di Garibaldi,
rinnegò tutto l'apostolato di Mazzini, si sottomise
all'impero Napoleonico, arretrò dinanzi al pontefice,
mancò d'audacia anche quando era prudenza l'averne, e
stimò sempre lo sviluppo della democrazia un errore ed un
pericolo: nullameno il suo patriottismo e la sua pratica
abilità furono mirabili in tanta inesperienza della nazione.
Nelle sue file agirono colti ingegni e severi caratteri, che la
corruttela e le troppe conversioni politiche dei primi giorni non
poterono guastare; l'aristocrazia vi rifulse coi propri migliori
individui, la borghesia ne fu lo spirito e il numero, la corte
l'avvolse nella propria decorazione.
La necessità della sua caduta era la prima conseguenza del
regime costituzionale da essa organizzato, giacchè
l'indirizzo del governo verso la nuova generazione non poteva essere
dato che dai più liberali fra gli uomini che avevano
ricostituito l'Italia. I riformisti del quarantotto avevano troppo
creduto ai principi per credere abbastanza al popolo e chiamarlo con
più largo voto a parte della vita politica; i costituzionali,
ostinati nel giudizio che la nazione sussistesse nella monarchia e
per la monarchia, non potevano fidarsi alla democrazia ed ammettere
che solo coll'accettarne francamente i principii e col favorirne
coraggiosamente lo sviluppo la monarchia durerebbe utile e gloriosa
all'Italia.
Fra gli uomini della prima destra italiana il conte di Cavour
resterà nella storia l'unico grande statista, Ricasoli il
più nobile, Rattazzi il più equivoco, Sella il
più efficace, Minghetti il più eloquente de' suoi
successori: gli altri saranno e sono già dimenticati. Ma
della loro opera minuta, incerta ed oscura, proseguiranno lungo
tempo i benefizii; mentre il loro manipolo stretto intorno a
Vittorio Emanuele appare tuttora bello nella varietà delle
fisonomie e nel vigore degli atteggiamenti, quantunque la coorte dei
cavalieri garibaldini lo veli passando oltre col barbaglio delle
proprie armi, e Mazzini solitario lo copra dall'alto colla propria
ombra grande.
Avvento della sinistra.
L'avvento della sinistra capitanata da Agostino Depretis si
compiè fra le più liete speranze: pareva a tutti che
lo svolgimento dei principii democratici da essa invano propugnati
per sedici anni avverrebbe senza scosse e con feconda prontezza.
Questa doveva essere la necessità del nuovo periodo
parlamentare, ma il brusco passaggio dell'opposizione al governo vi
traeva inesperienze ed abitudini troppo tribunizie, perchè
l'opera legislativa non avesse a soffrirne. Anzitutto il partito
della sinistra, lungi dall'essere ben organizzato nel parlamento,
mancava pure di vera base nel paese: i radicali ne speravano troppo,
i moderati ne temevano ancora più; il bisogno di conservare
nel pubblico la popolarità acquistata colla critica
sistematica a tutti i passati ministeri costringeva la sinistra a
considerare le imminenti riforme piuttosto come illazioni di
principii, che quali adattamenti alle condizioni reali del paese.
Nella politica estera, mentre la destra si era sempre mantenuta
servile alla Francia imperiale per influsso del principio dinastico,
la sinistra aveva negli ultimi anni guardato alla Prussia; e
poichè le vittorie di questa ci avevano permesso la conquista
di Roma contro i divieti dell'impero napoleonico, e ora la Francia
republicana e reazionaria sembrava voler contrastarci il conseguito
trionfo dell'unità, il nuovo ministero liberale doveva
esagerare le simpatie verso l'una e le diffidenze verso l'altra
anche per mostrarsi dinastico quanto la destra. Non valeva osservare
che la reazione nell'assemblea francese sarebbe effimera, che la
republica non vi era ancora assettata, che la Francia isolata in
Europa dall'ostilità diplomatica della Prussia non potrebbe
seriamente pensare a contenderci Roma, che solo i reazionari
orleanisti e legittimisti impadronitisi del ministero lo risognavano
indarno: si volle credere al pericolo di una guerra imminente, e
nell'ammirazione destata dalle meravigliose vittorie prussiane si
cercò di essere clienti a Berlino dopo essere stati vassalli
a Parigi.
Naturalmente la corte spingeva il governo in tale direzione. Si
temeva dall'amicizia della Francia il contagio republicano: nella
Spagna il ripristinamento della dinastia borbonica con Alfonso XII
figlio di Isabella la cattolica non dava abbastanza garanzie di
stabilità monarchica: un secondo scoppio republicano a Madrid
avrebbe potuto destare qualche eco a Roma.
Dinastia e governo, temendo ingannevolmente di un moto republicano
nel paese, si rifugiavano fra le più forti monarchie di
Europa.
D'altronde la Francia, offesa dalle intenzioni anche troppo
manifeste del nostro governo, offendeva: la nostra aderenza al suo
nemico vittorioso le sembrava una inutile mostruosità
d'ingratitudine dopo tanta nostra devozione a Napoleone III; non
intendeva la nostra presente inimicizia se non come odio istintivo
di monarchia alla republica.
Nel nostro popolo invece duravano ancora i rancori per le offese a
cagione di Roma, mentre una crescente ammirazione per la Prussia gli
faceva parere una gran cosa l'essere accolto nella sua alleanza.
Non sarebbe stato difficile comprendere piuttosto che all'indomani
della grande guerra del 1870, colla Francia esausta, colla Prussia
affranta e preoccupata gravissimamente del proprio problema interno,
coll'Austria scaduta, colla Russia tutta intesa ad un imminente
attacco contro la Turchia, coll'Inghilterra oramai inefficace in
tutte le questioni continentali, l'Italia avrebbe potuto con una
politica forte d'indipendenza e d'iniziative conquistare un grande
posto in Europa. La sua posizione oramai assicurata contro tutti i
nemici la rendevano necessaria in Europa: tutti i popoli l'avrebbero
guardata con irresistibile simpatia, tutti i governi avrebbero
subìto i suoi impulsi. Ma perchè l'Italia si ponesse
alla testa dei popoli faticanti per la costituzione della propria
nazionalità le occorreva una coscienza di se medesima e della
propria missione, quale Mazzini aveva indarno cercato d'infonderle.
Le sue condizioni interne non erano abbastanza floride. Il pareggio
raggiunto era piuttosto di cassa che di rendita; e le teorie
economiche del nuovo governo costringendo all'abolizione del
macinato e del corso forzoso, l'avrebbero certamente compromesso.
Dopo l'esperienza delle armi prussiane l'esercito andava riordinato,
riarmato, portato ad un milione; la flotta era sempre allo studio;
le maggiori reti ferroviarie incompiute; l'esperimento di un voto
più largo nel popolo ancora da tentarsi.
Nella Camera il nuovo partito di governo si componeva in gran parte
di transfugi di destra, perchè i radicali, pur aspettando con
simpatica deferenza, non avevano dimenticato tutti i sottintesi
republicani. Bisognava non gettare il paese in una doppia prova di
politica estera ed interna, ma largheggiando con esso di riforme
liberali, mantenerlo con opportune pressioni sotto la tutela del
governo. La sinistra doveva proseguire il giuoco della destra con
poste maggiori: il principio monarchico rimaneva a pernio della vita
nazionale. Ma poichè la destra odiava ciecamente il nuovo
governo, questo era forzato a compromettersi coi radicali e ad
appoggiarsi sopra una mobile maggioranza ottenuta con ogni sorta
d'espedienti. La sua azione si esercitava naturalmente per
corruzioni: la sincerità sperata dal paese in questo secondo
partito si perdeva in un più tristo scetticismo, l'orgoglio
nazionale veniva nuovamente umiliato dalla Germania, il programma
delle nazionalità era abbandonato per una alleanza
coll'Austria posseditrice di Trento e di Trieste, l'ostilità
alla Francia ci traeva al disconoscimento di ogni moto nazionale nei
Principati Danubiani e nella Grecia.
Da principio i ministeri di sinistra, anzichè succedersi in
una gamma razionale di liberalismo, si alternarono tristamente per
inescusabili gare fra i capi: la vanità del potere vi
guastò i migliori caratteri, la necessità degli
espedienti vi falsò più d'un principio. Si vide allora
la destra allearsi con assurda partigianeria ai radicali, reclamando
il suffragio universale per non accettare l'equo allargamento
proposto dal ministro Depretis; questi trascinare re Umberto a
Vienna, perchè il Minghetti vi aveva condotto Vittorio
Emanuele, e subire uno smacco anche più oltraggioso,
giacchè a Vittorio Emanuele la visita fu resa a Venezia e ad
Umberto promessa a Roma e non restituita. Una rettorica finanziaria,
nel crescendo delle spese, che doveva raddoppiare il numero dei
chilometri ferroviari e portare il bilancio della guerra a oltre
settecento milioni, volle abolito con grave squilibrio del bilancio
il macinato ed il corso forzoso; una rettorica politica non seppe
considerare il voto concesso al popolo nè come diritto
nè come funzione, e negò il suffragio universale per
riconoscerlo poi abbassando fin sotto l'assurdo il livello e le
prove della capacità elettorale.
Nel nuovo grande disegno ferroviario i criteri regionali prevalsero
ancora agli scientifici.
Molte delle riforme promesse andarono perdute; quelle attuate lo
furono non bene.
Non si osò giustamente toccare lo statuto per non rimettere
in questione la monarchia, ma lo si violò in più di un
articolo, dichiarandolo intangibile. Il senato, assurdo come
istituzione storica in Italia, rimase immutato, ultimo baluardo
della regalità e superstite forma del diritto divino,
giacchè il potere legislativo gli viene delegato dal re e non
dal popolo. Le opere pie, di cui solamente ora (1889) il ministero
Crispi studia una riforma, seguitarono nell'antico andazzo piuttosto
a beneficio della borghesia e del clero che dei poveri, con
anacronismi di fondazioni religiose e con falsità di
intendimenti economici condannati egualmente dalla scienza e dalla
vita moderna. Non si osò ancora condensare le troppe
università nei loro centri storici, differenziando
chiaramente la cultura classica dalla tecnica e riassumendo nelle
mani del governo l'istruzione elementare abbandonata ai comuni e da
questi trascurata per insufficienza di denaro o di coscienza civile.
Nullameno in questa seconda fase d'organizzazione le idee si
slargarono, e l'orgoglio nazionale si ridestò. Si comprese la
necessità di atteggiarsi a grande nazione: l'esercito,
cresciuto pari a quello delle maggiori potenze, ci diede il senso di
un'altra forza politica; nella flotta il vecchio genio italiano
improvvisò la più moderna e miracolosa architettura
navale sorpassando Inghilterra ed America; il foro del Gottardo,
chiamato da Carlo Cattaneo la via delle genti, decise
all'ampliamento del porto di Genova, che potè rivaleggiare
con quello di Marsiglia e diventerà l'emporio di tutta
l'Europa centrale. Industria e commercio prosperarono attraverso
pericoli di crisi incessanti; l'emancipazione manifatturiera fu
conquistata più che a mezzo; l'agricoltura, della quale una
mirabile inchiesta parlamentare svelò tutte le piaghe, si
guarì di alcune, e passò dallo stadio empirico a
migliori e più diffuse intenzioni scientifiche. Le ferrovie,
cresciute in breve a 14,000 chilometri, aiutarono
l'uniformità dello sviluppo nazionale; s'iniziò la
perequazione fondiaria, lunga e costosa impresa, senza la quale
nessun vero miglioramento tributario era possibile; nell'esercito si
abolì l'ignobile privilegio della surrogazione per denaro, e
la coscrizione fu estesa a tutti gli individui validi; non si
osò ancora il sistema più economico
dell'irreggimentazione regionale per dubbi di pericolosi
antagonismi, ma si tende ora a provarla; si popolarizzò
l'istituzione dei tiri a segno, primo addestramento della futura
nazione armata; le associazioni operaie moltiplicarono di numero e
di valore; l'avvento dei nuovi elettori politici ed amministrativi
togliendo al governo l'odioso carattere di clientela, lo
ritemprò nella realtà della vita popolare; si
unificarono le Cassazioni, ma solamente in materia penale per
rispetto ingiusto al regionalismo: si ricorressero pressochè
tutti i codici guadagnando all'Italia il nome di prima fra le
nazioni liberali; si accennò ad una legislazione sociale del
lavoro, la quale arenò fra i pregiudizi politici della
borghesia e gli apriorismi della scuola liberista.
Colla sinistra al potere cessò la minore età della
nazione.
L'opposizione clericale stessa parve diminuire di intensità.
Si parlò di transazioni e di conciliazioni; il papato, fermo
nelle viete dichiarazioni, ne raddolcì la forma e in molti
atti le contraddisse; la libertà del suo esercizio spirituale
fu riconosciuta anche dai cattolici ultramontani, ma papato e
monarchia non poterono ancora conciliarsi. Il papato non
abbandonerà tutte le proprie pretese se non perdendo tutti i
privilegi: bisognerà quindi che una rivoluzione riduca prima
il cattolicismo a non essere più che una opinione e un rito
sostenuto dai credenti ma destituito di ogni personalità
civile: finchè il cattolicismo avrà beni e gradi
consacrati dalla legge pretenderà di riacquistare quanto ha
perduto.
L'Italia è ora una delle grandi nazioni d'Europa: la sua
monarchia, sorta da una insufficienza rivoluzionaria e democratica,
è la più popolare e liberale del mondo.
La coscienza nazionale, sonnolenta nel periodo epico
dell'unificazione, riconquista oggi nel culto degli eroi il proprio
passato. Mazzini e Garibaldi giganteggiano sulle piazze di tutte le
città; le commemorazioni dei grandi morti popolarizzano la
storia dell'unità gettando i semi di una futura poesia in
racconti di eroismi e di magnificenze morali prima non sospettate;
Vittorio Emanuele si trasfigura nella luce dell'epopea perdendovi
ogni volgarità; Cavour, obliato un momento nel trambusto dei
suoi successori, riappare astro di prima grandezza nel cielo
d'Europa. L'Italia è fatta: la sua storia si riapre per una
terza epoca di operosità politica internazionale. Infatti
l'Italia, trent'anni or sono conquista di stranieri e schiava di
tiranni, è entrata ieri conquistatrice nell'Africa.
Capitolo Secondo.
La conquista africana
Attrazione della storia europea.
L'unità della storia mondiale, che scoperte scientifiche e
geografiche hanno da gran tempo assicurato, attira con mirabile
rapidità tutti i continenti nell'orbita di una stessa
politica.
Nessuna nazione potrebbe o vorrebbe più circoscriversi in se
stessa: religione, commercio, scienza, hanno aperto alla
civiltà tutte le terre; ogni mercato subisce le oscillazioni
dello scambio internazionale; oramai non vi sono più segreti
per la geografia, nè sconosciuti per la storia. La nave
svedese di Nordenskjöld girando il polo artico ha rivelato la
presenza degli ultimi abitatori dei ghiacci; viaggiatori di tutti i
paesi hanno traversato i deserti centri dell'Africa e
dell'Australia; l'Asia si apre davanti alle marcie concordi e rivali
della Russia e dell'Inghilterra, mentre l'America scoperta appena da
quattro secoli non ha più selvaggi.
L'Europa, rimasta ancora, malgrado il miracoloso sviluppo di questa
ultima, il centro ideale del mondo, organizza in se medesima i
propri popoli nell'orbita della nazionalità e coi principii
di una democrazia più universale di tutte le religioni, per
attirare gli altri continenti nei periodi della propria
civiltà. L'America, instancabile ed incomparabile traduttrice
di idee, non ne ha ancora prodotto alcuna veramente originale,
giacche la sproporzione fra la grandezza del suo suolo e il numero
della sua popolazione la costringe a convergere in se medesima quasi
tutte le proprie forze. L'Europa, sola, piccola, affollata, sempre
gestante, deve bastare a tutto, ritrovare il significato
dell'antichità, e rinnovare continuamente se stessa per
potere del proprio futuro fare un'epoca mondiale. Quindi il suo
sforzo sempre crescente nei secoli, dacchè il cristianesimo
le diede a Roma la sicurezza di una seconda unità, si
è moltiplicato dopo il Rinascimento e la scoperta d'America,
così da imprimere alla storia universale un acceleramento
inapprezzabile.
Quando la scienza storica, imitando i progressi dell'astronomia,
potrà calcolare entro l'orbita di periodi universali la
velocità delle idee per tradurre in cifra la vita e il valore
di ogni popolo, quello dell'Europa dall'epoca greca al Rinascimento
italiano varrà non solo più che tutti gli altri, ma la
sua potenza d'irradiazione dovrà esprimere nella
velocità dei propri raggi la differenza della durata
cronologica della sua civiltà colle altre. E mentre quella
asiatica in cinquanta secoli non avrà potuto sorpassare i
confini del proprio continente, la civiltà europea in meno di
venti avrà già dato al mondo due unità ideali:
quindi dal Rinascimento ad oggi i suoi ultimi quattro secoli,
attuandovi l'unità reale in una conscia cooperazione di tutti
i popoli, supereranno di velocità gli altri venti forse di
quanto nel sistema solare i periodi di Venere vincono quelli di
Urano.
Mentre nel secolo decimosesto, settimo ed ottavo, spingendosi in
tutte le direzioni ad incontrare le incognite dei popoli inerti
fuori del raggio della sua storia, l'Europa faceva ogni maggiore
sforzo sull'America quasi ad affrettare in essa una rivalità
che le potesse più presto giovare in questa missione
d'incivilimento universale, dal principio di questo secolo la sua
passione e la sua opera si sono rivolte più specialmente
all'Africa. L'America, divenuta già moderna, piuttosto che
aver bisogno dell'Europa per svilupparsi, ne segue la vita
ampliandola in se medesima per tutta l'immensità del proprio
teatro coll'ebbrezza superba di sentirsi già all'avanguardia
del progresso mondiale.
La costituzione delle nazionalità, provocata dalla
rivoluzione francese, sembra accennare che l'Europa in questo fatale
acceleramento dell'opera propria sul mondo, invece di procedere come
nel passato per costante irradiazione d'individui, tardi e non
sempre susseguita dalla cooperazione dei loro stati, voglia
più presto, individualizzando tutti i propri popoli,
costringerli ad agire come individui collettivi. Infatti l'opera
storica di un popolo non costituito in nazione è non solo
male apprezzabile, ma scarsa ed intermittente oltre le sue
frontiere, mentre quella delle nazioni, più intensa e
costante, determina coll'incontro della propria in altre
originalità la formazione di nuovi caratteri.
Quindi il principio dell'uguaglianza civile e della sovranità
popolare, ricostituendo in nazioni i popoli ancora frantumati dalle
conquiste medioevali, impone loro per una fatale contraddizione di
affrontare fuori d'Europa le genti barbare, o conglomerate in imperi
eterogenei, o riunite a gruppi nazionali, o disperse in
tribù, per sottoporle alla prova della civiltà
europea.
Storia e preistoria, storia moderna e storia antica, debbono in
questo secolo sviluppare la loro guerra immortale. Finchè la
preistoria vivente era ignorata dalla storia, e la storia antica
lungi dal contatto della storia moderna, il mondo abbastanza grande
per ambedue poteva mantenerle contemporanee nella propria
cronologia; ma scontrandosi per il continuo dilatarsi dell'orbita
europea, dovevano urtarsi in una guerra di distruzione. Preistoria e
storia antica o si rimuterebbero entro la storia moderna
assimilandosi le sue idee, o indietreggerebbero lentamente cedendo
il terreno ai popoli superiori.
La storia, lungi dal consacrare l'intangibilità di alcun
popolo, ha sempre distrutto quelli che non potevano adattarsi al suo
disegno.
Nel diffondersi della civiltà rappresentata dalla razza
bianca una medesima conquista strappò sempre ai popoli
selvaggi o esauriti i terreni atti a ricevere il quadro di una
più alta vita. Invasioni e colonie furono sino dalla
più tarda antichità i mezzi più efficaci
d'espansione: nelle prime il progresso avveniva per la
sovrapposizione di un popolo ad un altro; nelle seconde per focolari
d'irradiazione ideale, che dovevano aiutare la natura dei popoli
circostanti a più intellettuale sviluppo. Tutto quindi
servì in questa caccia dell'uomo civile all'uomo barbaro, del
popolo giovane al popolo decrepito; irresistibili attrazioni
dell'ignoto geografico, passioni religiose, curiosità
scientifiche, avarizie commerciali, fantasie guerriere. Naturalmente
la civiltà, svolgendosi col processo inevitabile di una
guerra, trattava le colonie come avanguardia di scoperte o
sentinelle morte, mentre le invasioni giungevano sui campi di
battaglia all'ora assegnata, vincendo, struggendo, fecondando.
Influenza europea sull'Africa.
Nella lunga incubazione della civiltà mediterranea, alla
quale l'Asia già immobile nel trionfo di un'epoca poco
più perfettibile coi propri dati restava lontana ed estranea,
l'Africa non aveva concorso che colle proprie sponde. Una cintura di
città marittime le aveva abbellite e fecondate senza poter
allargarsi all'interno. La loro vita creata dal mare tendeva quindi
al mare verso altri lidi, ove altre città rispondevano loro
con una vita più satura di elementi terrestri. Solo il Nilo
aveva potuto, accumulando sulle proprie rive molti germi africani,
crescervi una civiltà più che marittima; ma questa
pure non aveva saputo risalire nemmeno tutto il corso del gran
fiume, prigioniera ad occidente ed al sud di paurosi deserti.
L'immensa Africa ignorava la gloria del proprio Egitto.
E quando questo tramontò dopo Cartagine entro lo splendore
della civiltà romana, e il cristianesimo prima e il
maomettanesimo poi, tentarono di penetrare nel centro del continente
nero, questo rimase nullameno un mistero: ambo le religioni vi si
depravarono in una sconcia interpretazione quasi confessando
l'impotenza del proprio Dio innanzi ai feticci di selvaggi, cui un
clima inesorabile sembrava negare per sempre ogni speranza di
ideale.
Ma l'azione della storia sull'Africa non cessò.
Quattro secoli or sono, quando Cristoforo Colombo discendeva dalla
vecchia caravella all'America, Cadamosto veneto penetrava nel
Senegal e nella Gambia, e la republica veneta offriva ad un sultano
di tagliare l'istmo di Suez, miracolo di audacia allora, miracolo di
scienza oggi, e che senza forse si sarebbe avverato anche allora.
L'Italia, dopo aver attirato con Roma tutta la civiltà
africana nella propria orbita, e mediante le republiche del medioevo
mantenuto con essa commerci quasi inosservati dall'Europa barbarica,
parve allora arrestarsi: Africa ed America sfuggirono
simultaneamente alla sua influenza.
Nonpertanto Roma e la Mecca, come centri religiosi, rattenevano
sempre l'Africa nella storia universale; gl'imperi litoranei
improvvisati dalla conquista saracena sulle sue coste avevano potuto
dilatarvisi alquanto verso l'interno, e ubbidivano ancora alla voce
di Costantinopoli: Spagna, Francia, Portogallo, Inghilterra, girando
il capo di Buona Speranza, avevano finalmente circoscritto il
continente nero, fermandosi su tutte le sue sponde e risalendo tutti
i suoi fiumi.
Se la grande speculazione mercantile europea si riversava
sull'America attratta dall'incanto delle sue terre e dalla
facilità di sfruttarle, un'acuta curiosità spingeva
sempre nuovi esploratori nell'Africa, sulle rive della quale il
moltiplicato commercio colle Indie creava stazioni navali e
stabilimenti coloniali. La supremazia mondiale dell'Europa,
chiamando all'azione tutti i popoli germanici per controbilanciare
la fatale decadenza delle nazioni latine, aveva già colle
ultime vittorie su Costantinopoli tolto ogni pericolo alla barbarica
espansione del maomettanesimo, che un giorno dall'Africa invadeva le
Spagne e, superati i Pirenei, si spingeva fino a Poitiers contro
Carlo Martello.
Oramai imperi e reggenze barbaresche non erano più che una
forma consunta della feudalità saracena, ridotta a vivere di
brigantaggio terrestre e marittimo.
Quindi la grande rivoluzione francese, prima ancora di condensarsi
nell'impero militare di Napoleone I per meglio rovesciare tutte le
monarchie di diritto divino, discese in Africa e vi sottomise
l'Egitto. L'impresa parve un'avventura di condottiero antico, ma era
invece una conquista moderna. Napoleone tagliava così
l'ultimo nodo, che stringendo l'Africa a Costantinopoli la manteneva
ancora più soggetta all'influenza orientale del
maomettanesimo che all'azione europea: la Sublime Porta dopo la
perdita dell'Egitto non conserverebbe più che una
sovranità nominale sulle altre terre limitrofe. La conquista
fu momentaneamente perduta, ma la Turchia non potè più
ristabilire il proprio potere sull'Egitto. Una dinastia macedonica
v'improvvisò un trono con barbariche imitazioni della
monarchia napoleonica, e vi si sarebbe proclamata al tutto
indipendente se rivalità d'interessi europei non l'avessero
impedito per mantenere ancora alla Turchia una specie di diritto
imperiale.
Nonpertanto l'Egitto divenne europeo.
L'archeologia ricostituì tutta la sua antichità, la
geografia ritrovò le sorgenti misteriose del suo Nilo, la
matematica tagliò il suo istmo di Suez. La dinastia di
Mehemet Alì, che ebbe in lui l'uomo di stato e nel figlio
Ibrahim il generale, durò appena il tempo necessario alla
prima fase dell'incivilimento moderno in Egitto, per cadere
all'indomani dell'apertura del canale sotto il protettorato
dell'Inghilterra (1882), la quale aveva già conquistata pochi
anni prima l'Abissinia. La Francia sino dagli ultimi giorni della
restaurazione (luglio 1830) si era impossessata d'Algeri, e
dominava col Portogallo nella Senegambia, conquistava più che
mezza l'immensa isola del Madagascar, s'impadroniva (1878) della
Tunisia. La Spagna preponderava al Marocco; l'Olanda spesseggiava di
colonie come l'Inghilterra sulle coste del doppio oceano africano;
persino la Russia e la Germania tentano ora di stabilirvene.
La storia africana di questo secolo è tutta europea: l'Asia
non vi agisce più che col maomettanesimo provocandovi guerre
feroci di religione, come l'ultima del Mahdy; i napoleonidi vi hanno
iniziato e compito il loro breve ciclo solare, l'americano Stanley
vi ha scoperto il Congo, vasto quanto l'Europa, e che il piccolo re
del Belgio vi ha acquistato come un podere; i Boeri, di origine
olandese, vi hanno già una republica; viaggiatori di tutte le
nazioni si sono inoltrati per tutti i suoi deserti superando tutte
le montagne, affrontando tutte le tribù, rivelando tutta la
preistoria. Il loro eroismo è stato sublime quanto benefico,
il risultato delle loro scoperte immenso quanto imprevedibile.
Un'Africa orribilmente nera e selvaggia si è rivelata alla
storia, ma il suo clima che in molti luoghi è una vampa, i
suoi deserti che hanno l'ampiezza dei mari, la loro aridità
che fa pensare ad una maledizione e che una volta si supponevano
uniformi in tutto il suo centro, non sono che una varietà
della sua natura. Ora si sa che fra le sue montagne si trovano
territori incantevoli, regioni prodigiose di bellezza e di
feracità, sulle quali vive ancora la più feroce razza,
che il sole abbia mai annerito. Una feudalità primitiva vi
sminuzza l'impero in minime tirannie di tribù, una
sanguinaria incoscienza vi fa della guerra l'unica industria e della
strage il supremo divertimento; vi si incontrano ancora monumenti di
teschi, e vie segnate da ossa. L'antica favola delle amazzoni vi
è tuttora una realtà nell'impero del Dahomey, che ha
il proprio esercito composto di donne; i sacrifici di Moloch, nausea
e terrore del mondo antico, vi si celebrano sempre ai funerali dei
re trucidando migliaia di mogli e di servi. La servitù vi
è istituzione millenaria, più feroce che in Asia non
sia mai stata; il commercio degli schiavi, vietato sul mare, vi
prospera all'interno così che si calcolano a molti milioni i
venduti di ogni anno. Per quest'Africa tutto quanto avvenne nella
storia del mondo è come se non sia avvenuto: la sua vita
è ancora nel sole che brucia il sangue e dissecca nell'animo
ogni sentimento; il popolo, che vi cresce nudo come i deserti e con
una coscienza egualmente arida, vi è la fiera più
crudele della sua fauna.
Quanti miliardi di vittime in quante migliaia di anni ha consumato
questa preistoria africana, che, immobile nelle proprie idee
rudimentarie, si ripete, colla disperata monotonia di un vagito e di
un rantolo, di un bambino che nasce e di un uomo che muore?
Ma l'Europa dopo molti secoli di assedio ha potuto penetrare tutte
le contrade dell'Africa e sta per sostituirvi la propria storia:
tutte le grandi nazioni europee si sono gettate a questa conquista
sfogando magari in essa le loro antiche rivalità: denaro,
sangue, genio, tutto vi è profuso. Le ferrovie cingono fin
d'ora tutte le sue coste con un monile di ferro, entro il quale
l'Africa prigioniera della civiltà non può più
ricusarne i benefizi: dopo il grande taglio del canale di Suez un
disegno anche più grande allaga già il deserto di
Sahara, e vi crea sulle sponde fecondate una cintura di città
pari a quella del Mediterraneo; un altro congiunge i corsi dello
Zambese e del Congo, spezzando il continente in due grandi isole per
meglio irradiarle da tutto il litorale e dal centro. L'Italia
risorta nazione non poteva ricusarsi a questo problema africano, che
domina la politica estera dell'Europa: il suo concorso doveva anzi
rappresentarvi il primo risultato della sua nuova vita
internazionale.
Iniziativa italiana.
Quindi, prima ancora di aver ripreso agli stranieri tutta la propria
terra, l'Italia si torse verso l'Africa.
Già il conte di Cavour nel periodo della grande preparazione
piemontese, sentendo l'attrazione di questo nuovo mondo, aveva
cercato di avviare un servizio postale fra Cagliari e Tunisi;
Garibaldi, esiliato dal governo sardo dopo la difesa di Roma, aveva
scelto per residenza Tangeri; un illustre cappuccino, il padre
Massaia, testè morto cardinale, era penetrato da molti anni
nell'Abissinia, recandovi nel fervore dell'apostolato religioso
parecchi intendimenti civili. Altri viaggiatori, còlti
improvvisamente dalla nostalgia del deserto, approdarono in Africa,
e la percorsero superando indicibili difficoltà: Beccari,
Piaggia, Antinori, Gessi, senza aiuti di governo, vi compierono
miracoli d'eroismo; quest'ultimo, ammirabile fibra di romagnolo
antico, vi si mutò in generale, e vinse nelle guerre del
Sudan più d'una battaglia. Allora nel fermento lasciato dalle
imprese garibaldine, crebbe istantaneamente una passione misteriosa
per il terribile continente nero: si fondarono società
geografiche, si organizzarono come in tutto il resto d'Europa
spedizioni di nuovi esploratori, i giornali si appassionarono di
racconti africani, come quattro secoli prima tutte le conversazioni
favoleggiavano dell'America e delle Indie. Un'indefinibile poesia
trasfigurava agli occhi della moltitudine i giovani viaggiatori che
partivano per l'Africa; una pietà inconsolabile si destava
alla novella della loro morte.
Pareva a tutti che questo fervore di scoperte e di iniziative fosse
una prova di nuova gioventù nella nazione, che stava
ricostruendo con temerità pari all'ingegno nella propria
flotta la prima armata del mondo. La marina mercantile cresceva, e
cresceva pure l'emigrazione. Chè se a questa, salita ora
all'altissima cifra annuale di 200.000 emigranti, era in molte
provincie sprone la miseria agricola, in molte altre tale coraggiosa
facilità ad abbandonare la patria per un mondo ignoto e
lontano, era ancora un sintomo della nuova vita italiana. Pochi anni
addietro, nella stessa miseria, al popolo sarebbe sembrato un
suicidio l'emigrare. Ma l'emigrazione si dirigeva di preferenza
sull'America del sud dominata da colonie latine.
Nell'Africa, tanto più vicina, Cairo ed Alessandria erano le
stazioni predilette dagli italiani.
Ma la nazione sentiva oscuramente la necessità di uscire di
se stessa per affermarsi politicamente nell'opera internazionale
delle maggiori potenze. L'Italia aveva scritto in Africa troppi
capitoli della propria storia antica, per non ritornarvi nella
guerra di conquista ripresa così vivacemente dall'Europa al
principio del secolo. La via aperta alle Indie per il canale di
Suez, l'ampliamento del porto di Genova, il doppio traforo delle
Alpi le suggerivano le prime ragioni: la storia spingeva colla
propria fatalità.
Però le coste africane non presentavano in alcun punto
facilità e ricchezza di conquista: l'Italia, ultima
cooperatrice, vi troverebbe forse le maggiori difficoltà
nelle gelosie delle nazioni che ve l'avevano preceduta. D'altronde
nè il suo popolo, nè il suo governo erano ancora
abbastanza consapevoli per gettarsi con molta fortezza d'animo e
larghezza d'intendimenti ad imprese coloniali.
Quindi i principii dell'impresa furono meno che modesti.
Prima ancora che le camere di commercio, riunite in congresso a
Genova nell'ottobre del 1869, proponessero al governo di stabilire
in un porto del Mar Rosso una fattoria di commercio e di transito,
il professore Giuseppe Sapeto, che aveva lungamente soggiornato
nelle regioni dei Danakil e dei Somali, insisteva in una relazione
al generale Menabrea, allora presidente dei ministri, per un
acquisto di tal genere. Vittorio Emanuele protesse l'idea spingendo
ad un contratto col sultano Berehan, indipendente dalla Porta e
dall'Egitto, per la compra della baia d'Assab e dell'isola
Darmakieh. Il pagamento della somma abbastanza esigua di L. 47,000,
fornite dal governo, venne eseguito dal genovese Rubattino, il
più ricco e patriottico fra gli armatori d'Italia. Quindi
l'11 marzo 1870 due pali solidamente conficcati ai capi nord e sud
del terreno acquistato e portanti su due tasselli di legno
l'epigrafe - Proprietà Rubattino - segnavano dopo tanti
secoli il nuovo ingresso dell'Italia nella storia coloniale.
Questo grosso e quasi deserto podere era a 64 chilometri da Perim e
a 240 da Aden.
Il fatto rimase inavvertito: appena Nino Bixio, sempre fervido di
avventure marinaresche e militari, se ne congratulò vivamente
col governo, augurando bene per l'Italia e chiedendo subito che si
occupasse soldatescamente Assab per guarantire le persone e le
merci, che vi avrebbero affluito.
Ma il khedivè d'Egitto aveva già protestato contro
l'occupazione di Assab: il Visconti-Venosta, allora ministro degli
esteri, oppose l'indipendenza di questo piccolo territorio da ogni
alta giurisdizione, poichè le caimacanie di Suakin e di
Massaua, delle quali il khedivè era stato investito dalla
Sublime Porta, non giungevano sino ad Assab; questi replicò
nominando governatore di Massaua lo svizzero Munzinger ed estendendo
i limiti di quella provincia sino a Berbera. Allora il governo
italiano, troppo presto impacciato da così piccole
difficoltà, rinunciò ad ogni assetto pratico e
definito dello stabilimento di Assab, per consigliare alla compagnia
Rubattino di ampliare i propri servizi marittimi verso Oriente.
Difficoltà diplomatiche.
Così durò per parecchi anni sino agli ultimi mesi del
1879.
All'indomani del trattato di Berlino (marzo 1878) una più
grossa questione minacciò di rompere le relazioni fra
l'Italia e la Francia. Poichè il congresso aveva scartata la
proposta russa di una grande Bulgaria accampata fra l'Egeo e il
Danubio, mentre all'Austria si sarebbero date la Bosnia e
l'Erzegovina con grave offesa dell'Italia, che avrebbe così
veduto crescere senza aver partecipato alla guerra turco-russa la
sua secolare nemica ancora padrona di Trento e di Trieste, si
credette che fra le quinte del congresso fosse stato offerto
all'Italia Tunisi per compenso. La Francia, che già vi
mirava, stimò invece favorevole ad una propria iniziativa su
questa reggenza posta ai confini dell'Algeria il disinteressarvisi
unanime di tutte le potenze. Vero è che a Tunisi la colonia
italiana, molto più numerosa ed importante delle altre, e
cresciuta di speranze col crescere della madre patria, chiedeva a
questa una più efficace protezione.
Una convenzione marittima stretta nel 1877 col governo beylicale
aveva riconfermato l'antica linea Genova-Cagliari-Tunisi; un'altra
linea era stata instituita in partenza da Palermo: la vicinanza
della costa africana, visibile nei giorni limpidi dagli estremi
monti siculi, consigliava a proteggervi i nostri interessi
mediterranei. L'Inghilterra, insignorendosi di Cipro, aveva ferito
le suscettibilità francesi, e ne temeva per il suo canale di
Suez qualche rappresaglia collo stabilimento di nuove stazioni
militari sulle coste vicine per parte della Francia; quindi
consigliava all'Italia di occupare Tunisi e Tripoli. Naturalmente,
vicino per vicino, essa preferiva l'Italia perché meno
temibile. Ma il ministero Cairoli, repugnante per convinzioni
democratiche a qualsivoglia forma di conquista estera, non osava
assumerne la doppia responsabilità della spesa e del rischio.
La Francia, sino allora in relazioni poco amichevoli coll'Italia,
mutava improvvisamente di maniere, affermando replicatamente con
documenti e colloquii officiali di non mirare ad occupazione di
sorta sulla costa africana, o, mirandovi un giorno, di non vi si
disporre se non d'accordo coll'Italia.
Queste assicurazioni sorpresero l'ingenua lealtà del Cairoli:
egli credette che la republica francese, fatta accorta dell'errore
commesso coll'inimicarsi l'Italia, intendesse a riconquistarne
l'amicizia: infatti tutto sembrava consigliarle tale condotta.
Ma si dimenticavano l'indomabile vivacità e le inesauribili
risorse del popolo francese. Vinto dai prussiani in una delle
più grandi guerre della storia, travolto nella rovina
dell'impero napoleonico, riarso e lacerato dallo scoppio della
Comune, combattuto da tutte le frazioni monarchiche, esso aveva
nullameno in pochi anni pagato l'enorme debito di cinque miliardi,
assicurata la propria republica, rinnovato l'esercito, rinsanguate
le finanze. Una febbre di orgoglio e di lavoro lo spingeva a nuove
conquiste per interrompere con qualche fatto glorioso l'ignominiosa
tradizione di Sedan.
Il gabinetto Cairoli credette la Francia, come l'Italia, occupata
solamente a rimarginare le proprie ferite. Ma il suo disinganno
avrebbe potuto essere sollecito, quando ai primi accordi col bey per
allacciare con un filo telegrafico la rete sicula alla tunisina, la
Francia si oppose bruscamente col pretesto che la sua
amministrazione algerina godeva già nella Tunisia il
monopolio dei servizi telegrafici. Tale pretesto, fiacco
politicamente, non era neppure sicuro in diritto. Nullameno il
gabinetto Cairoli cedette e i telegrammi fra Roma e Tunisi
seguitarono a passare per Parigi, Marsiglia, Algeri e Bona.
Poco dopo l'armatore Rubattino offriva al ministero di comprare il
tronco ferroviario Goletta-Tunisi della società
concessionaria inglese ridotta al fallimento, se il governo gli
concedesse il medesimo trattamento di guarentigia in uso per le
linee italiane. Cotesto breve tronco era il prolungamento naturale
della linea italiana di navigazione sussidiata dal governo,
poiché le nostre navi per le tristi condizioni del porto di
Tunisi dovevano arrestarsi alla Goletta. II contratto era facile e
tenue la somma. Il ministero annuì. Ma il contratto era
appena firmato che già la società francese des
Batignolles, proprietaria della grande arteria algerina di
Bona-Guelma, prolungata in quel momento coi soccorsi della republica
sino a Tunisi, ne stringeva un secondo ricomprando per maggior somma
la linea già venduta. Evidentemente una intenzione politica
aveva provocato questa truffa: la questione, recata prima ai
tribunali ordinari, fu quindi riassunta dalla corte di cancelleria a
Londra. Il magistrato inglese sentenziò imponendo una nuova
licitazione fra i due contendenti. Il gabinetto Cairoli, tardi
accorto del pericolo e impaurito della doppia responsabilità,
chiamò a consiglio i migliori uomini parlamentari, che furono
unanimi nel mantenere ogni appoggio al Rubattino. Laonde un disegno
di legge (12 luglio 1880) fu presentato al parlamento per una rete
complementare di linee di navigazione e per garanzia alla
società Rubattino di un interesse chilometrico per la
ferrovia Goletta-Tunisi. La camera con un silenzio più
espressivo di ogni parola votò la legge.
L'onore nazionale era impegnato.
Ma la Francia passò oltre: avventurieri e speculatori
parigini piombarono su Tunisi; i giornali francesi alzarono la voce.
Non per tanto il gabinetto Cairoli, saldo nel convincimento che la
Francia rifuggisse da pericolose avventure, e troppo credulo alle
assicurazioni diplomatiche dell'ambasciatore marchese di Noailles,
non badò a premunirsi. La sua politica del momento, chiamata
poi ironicamente della mano libera, consisteva nel voler essere a
qualunque costo in amichevoli rapporti con tutti: in fondo si voleva
la pace non sentendosi pronti alla guerra. Ma siccome le voci di
occupazione francese aumentavano, si dovettero chiedere spiegazioni
a Parigi; il generale Cialdini, allora ambasciatore colà,
diede nella pania; il ministero francese protestò sino
all'ultimo contro ogni diceria; però pochi mesi dopo,
inventando una tribù barbara di Krumiri, che dal territorio
tunisino avrebbero fatto scorribande in Algeria, spedì contro
di essi un corpo di truppe. Il gabinetto Cairoli, credendo ancora
questo cattivo pretesto una buona ragione, non si mosse: la
diplomazia francese affermava sempre di non pretendere tutto al
più che una rettificazione di frontiere nel paese dei
Krumiri, e mentre il suo ambasciatore lo ripeteva per l'ultima volta
al Cairoli nel palazzo della Consulta, il generale Bréard
s'impadroniva di Tunisi costringendo il bey a firmare un trattato,
che lo riduceva a funzionario francese.
Si disse allora, e non senza fondamento, che il principe di Bismarck
spingesse la Francia a questa violenza per impedirle ogni possibile
alleanza coll'Italia e mantenerla nell'isolamento.
Per l'Italia questo avrebbe dovuto essere caso di guerra, ma
Cairoli, altrettanto eroico patriota che insufficiente diplomatico,
non sapendovela preparata, preferì dimettersi in mezzo ad una
tempesta d'ingiurie, e tacere. La pubblica opinione giudicò
che tutta la colpa fosse sua, ma non seppe di essere corsa sino alla
guerra se non quando il pericolo ne fu passato. L'ultimo dei Cairoli
aveva fatto alla patria l'ultimo dei sacrifici, immolando al suo
interesse l'onore del proprio nome: Garibaldi, rimasto solo a
comprenderlo fra l'equivoco di tutti, si dolse della sua opera e
plaudì al suo silenzio.
Questo doveva essere il nostro primo insuccesso africano.
I partiti strepitarono, l'Africa divenne popolare. Dacchè
tutte le nazioni europee vi davano l'esempio di continue imprese, si
cominciò ad ammettere la possibilità di una conquista,
che riaprisse la nostra gloriosa storia coloniale: il crescere della
marina militare e mercantile secondava le speranze; i recenti
rancori contro la Francia, eccitati dal governo per odio alla sua
republica, spronavano ad una rivincita. Altri viaggiatori
seguitavano a partire pel continente nero: Pellegrino Matteucci, che
doveva poi disputare a Stanley la gloria di traversarlo da oriente
ad occidente spirando a Londra vittorioso dell'incredibile viaggio,
si avventurava in una prima spedizione ai paesi dei Gallas; il
capitano Antonio Cecchi rimaneva per quattro anni prigioniero della
regina di Ghera, che esigeva sultanescamente l'omaggio dell'amore da
tutti i bianchi pellegrinanti pel suo regno; Giulietti e Bisleri
ritentavano una nuova via per l'Abissinia; Chiarini, Bianchi, Diana,
Monari, punti d'eroica invidia, si disponevano a partire e nessuno
di essi doveva più ritornare.
Il governo si sentiva spinto.
Malgrado la politica di pace ad ogni costo, che lo attirava
nell'alleanza degl'imperi tedeschi per odio alla Francia, facendogli
scordare le supreme rivendicazioni del diritto nazionale, dal
Mediterraneo gli venivano continui richiami all'azione: la Francia
stessa dopo l'occupazione di Tunisi sembrava offrirgli in compenso
quella della Tripolitania.
Intanto la necessità di assettare Assab di qualche maniera
per non subirvi un secondo smacco tunisino urgeva.
L'Inghilterra, gelosa del proprio predominio indiviso sul mar Rosso,
sosteneva le pretese del governo khediviale e moltiplicava a studio
le difficoltà diplomatiche contro il gabinetto Cairoli, che,
senza mutare il tono remissivo delle proprie risposte, tentava di
passare di straforo. Infatti, dopo aver mandato nelle acque di Assab
la fregata Varese col capitano De Amezaga per compiervi gli studi
necessari all'assetto del nuovo stabilimento, la sostituì con
un semplice avviso, l'Esploratore, perchè Gordon, governatore
inglese del Sudan, aveva protestato da Massaua. Questa
ostilità inglese energicamente accentuata dal ministro
Salisbury bastò a rattenere nuovamente il gabinetto Cairoli.
Intanto alla camera qualche interpellanza veniva ad incoraggiarlo:
la Francia minacciava di attivare uno stabilimento commerciale nel
proprio possesso di Obok; poi la caduta quasi simultanea dei
ministri Salisbury e Cairoli permise ai successori di ritentare un
accordo. Infatti i gabinetti Gladstone e Depretis parvero più
vicini ad intendersi: l'eccidio della spedizione Giulietti nel
territorio egiziano di Beilul, e di cui il governo khediviale non
diede alcuna soddisfazione per quanto costretto ad accettare
nell'inchiesta un commissario italiano, aumentò gli
addentellati nella questione: un tentativo dell'Egitto per
ristabilire la propria sovranità a Rabeita sopra il sultano
Berehan, che aveva venduto all'Italia la baia di Assab, fu sventato
mercè l'intervento del nuovo gabinetto inglese: finalmente si
firmò una convenzione fra l'Italia e l'Inghilterra pel
riconoscimento della nostra sovranità ad Assab, e la camera
con apposito disegno di legge potè gettare le basi politiche
di un primo stabilimento commerciale.
In tutto questo lungo dibattito la nostra diplomazia non aveva avuto
di meritevole che la tenacia del proposito.
La rivoluzione militare provocata al Cairo da Araby-bey
sollevò in Europa la questione di un intervento egiziano:
Leone Gambetta, il maggiore dei republicani francesi moderni, allora
al potere, propose subito a lord Granville un accordo per
intervenire a favore del khedive e crescere così la
già vasta preponderanza della Francia e dell'Inghilterra
sull'Egitto; ma il gabinetto inglese, temendo che la Francia meglio
fornita di forze militari terrestri potesse guadagnare troppo in
tale impresa, declinò l'offerta. Il signor De Freycinet,
succeduto poco dopo al Gambetta, si mostrò alieno da ogni
intervento armato: quindi venne fuori la proposta di una conferenza
a Costantinopoli per riordinare la situazione egiziana. Il ministero
Depretis-Mancini l'accolse con trasporto siccome l'unico mezzo per
evitare le complicazioni di una guerra, ma naturalmente la
conferenza abortì. Allora l'Inghilterra, pigliando
ardimentosamente l'iniziativa, ripropose un intervento armato prima
alla Francia, poi all'Italia: entrambe ricusarono.
Era questo il secondo rifiuto opposto dall'Italia all'Inghilterra
sempre per la stessa timidezza politica: col primo aveva ricusato al
tempo della guerra russo-turca (1877) d'intervenire nel mare e negli
stretti per preservarvi gli interessi commerciali e politici,
coll'altro rifiutava di conquistare sull'Egitto una preponderanza
che avrebbe incredibilmente migliorata la sua posizione nel
Mediterraneo.
L'errore questa volta era così grave che la Germania stessa e
l'Austria, per rispetto delle quali siccome alleate il ministero
Depretis-Mancini non aveva ardito concorrere nell'iniziativa
inglese, lo disapprovarono. Mentre la diplomazia italiana aspettava
quindi che la Sublime Porta, vincendo la oramai proverbiale inerzia,
intervenisse colle armi a difendere il proprio potere imperiale
minacciato dalla rivoluzione, l'Inghilterra sconfiggeva il 13
settembre l'esercito di Araby-bey a Tel-el-kebir, bombardava
Alessandria, e s'insignoriva alteramente dell'Egitto.
Tale facile trionfo rese più evidente la ingiustificabile
timidezza del ministero che aveva ricusato parteciparvi. Quindi il
problema africano si acuì ancora nella coscienza del paese:
alla camera voci autorevoli si levarono per accusare il troppo
riguardoso ministro, si citarono l'impresa di Crimea e le più
temerarie e feconde iniziative garibaldine. Dopo tanti anni di
inazione, malgrado i guasti mal riparati della finanza, si sentiva
da tutti la necessità di far concorrere l'Italia ad una
qualche opera internazionale.
La guerra accesa dal Mahdy nel Sudan, e vampeggiante per tutti i
territorii dell'alto Egitto, parve riaprire all'Italia le porte
dell'Africa, giacché l'Inghilterra regnante sull'Egitto per
mezzo del khedive vi si dovette mescolare. Già l'esercito
egiziano forte di circa 30,000 uomini aveva dovuto ripiegarsi sulle
fortezze: un indomabile fanatismo dava alle orde del Mahdy
l'entusiasmo delle prime invasioni mussulmane in climi e luoghi che
sembravano dover vincere ogni resistenza di soldati e qualunque
abilità di generali europei. La guerra d'Abissinia contro
l'imperatore Teodoros, costata da 300 milioni senza produrre alcun
risultato politico, persuadeva l'Inghilterra ad essere più
circospetta in questa del Sudan ben più lunga e difficile per
la vastità del territorio e l'indole dei combattenti. Essa si
limitò quindi a dissuadere il vicerè, ridotto a poco
più di un personaggio decorativo, da ogni conato per
riconquistare le posizioni perdute e a mantenersi sulla difensiva
nella valle del Nilo e sulle coste del mar Rosso. Nullameno, cedendo
alla generosa iniziativa di Gordon, illustre generale e viaggiatore
che per aver soggiornato lungamente nel Sudan vi aveva acquistato
pratica di guerra e molta influenza politica, gli consentì
una spedizione armata per tentare una rivolta d'indigeni contro il
Mahdy. Intanto mandava un'altra ambasceria in Abissinia presso
l'imperatore Giovanni, rimesso da lord Napier sul trono usurpato da
Teodoros, per trascinarlo alla guerra contro i mahdisti coll'offerta
cessione di qualche territorio disputato sull'alto confine
dell'Egitto. L'ammiraglio Hewett, abbastanza fortunato in questa
missione, potè persuadere l'imperatore ad aiutare la ritirata
attraverso l'Etiopia e a Massaua delle truppe khediviali in
guarnigione a Kassala-Amedib-Senahit, abbandonandogli queste piazze
con tutto il paese dei Bogos, e garantendogli colla protezione
britannica il libero transito d'ogni merce per e dall'Abissinia. Un
trattato, al quale restò poi il nome dell'ammiraglio Hewett,
fu quindi firmato fra l'Egitto, l'Abissinia e la Gran Brettagna il 3
giugno 1884.
Ma la guerra del Sudan anzichè arrestarsi dilagò. Il
generale Gordon fu presto assediato a Khartum dalle orde
soverchianti del Mahdy; la sua posizione, militarmente
insostenibile, era già politicamente perduta malgrado tutti
gli sforzi del suo ingegno e del suo carattere di eroe. La pubblica
opinione inglese se ne commosse vivacemente; ma il governo,
riconoscendo per l'Inghilterra, troppo scarsa di truppe terrestri,
insuperabili le difficoltà di una guerra nel Sudan contro
popolazioni fanatiche e fierissime, disconobbe ogni carattere
ufficiale all'impresa di Gordon, e resistette parecchi mesi
freddamente alle istanze della pietà popolare. Però
questa insistè talmente che il governo dovette rassegnarsi a
mandare in Africa il generale Wolseley (20 settembre 1884) con
diecimila uomini per tentare di aprirgli una ritirata.
Contemporaneamente la Francia, dimentica sino allora del proprio
stabilimento di Obok, improvvisamente volle farne un posto militare
e commerciale assegnandovi la somma di 800.000 lire nel bilancio del
1885, e cercando d'impadronirsi di tutta la costa dei Somali per
meglio penetrare nell'Harrar. A ciò le bastava ribellare quei
selvaggi contro le deboli guarnigioni egiziane, e prendere
immediatamente il posto di queste nei porti di Berbera, Zeila e
Tagiura. Naturalmente l'Inghilterra tentò d'impedire e di
prevenire: provvide rapidamente all'occupazione di Berbera e di
Zeila, ma i francesi con non minore rapidità s'impossessarono
di Ras-Alì, Angar, Sagallo, Gubet Harab e di Tagiura. Da
Massaua il governatore civile Mason bey telegrafava che la
tribù degli Habab aveva raggiunto il Mahdy, e chiedeva
rinforzi. Era impossibile anche all'Inghilterra fronteggiare tante
difficoltà, mantenersi nell'Egitto, combattere nel Sudan,
occupare tutti i porti africani nel mar Rosso senza attirarsi altre
controversie in Europa.
Quindi tornò a sollecitare l'intervento dell'Italia
spingendola ad ingrandirsi intorno ad Assab per impedire alla
Francia, più temibile rivale, di crescere sul mar Rosso, e
per giovarsi dei nostri soldati nella guerra contro il Mahdy. Il
ministero Depretis-Mancini, sempre troppo riguardoso in tale materia
anche dopo gli esempi francesi ed inglesi, non osava risolvere;
quando il nuovo eccidio della spedizione Bianchi nel territorio di
Aussa venne ad eccitarlo. Si decise di occupare Beilul. Poi nuove
titubanze: l'Inghilterra ci proponeva segretamente anche Zula e
Massaua; la Turchia, sola in diritto di opporsi, non avrebbe potuto
protestare che inefficacemente.
Come accade quasi sempre agli incerti, dalle troppe riserve si
passò a disegni temerari: non si era osato di cooperare
all'impresa d'Egitto contro Araby-bey e si pensò di
affrontare nel Sudan il Mahdy. L'intrepido viaggiatore Antonio
Cecchi, già sulle mosse per un viaggio di esplorazione al
Congo, fu mandato sollecitamente a Massaua per studiarvi un
itinerario per le truppe italiane, che in numero di 20.000 avrebbero
dovuto marciare da questo porto su Kassala.
Tutta Europa non s'occupava allora che dell'Africa. A Berlino si
teneva una conferenza (dicembre 1884) per distribuire l'azione di
ogni stato nel continente nero, e più specialmente costituire
lo stato del Congo conteso fra i viaggiatori Brazza e Stanley: la
Germania entrava anch'essa nell'arringo, piantando la propria
bandiera nell'Africa occidentale ovunque esistevano fattorie di
commercianti tedeschi sopra un territorio più vasto
dell'Italia. Questa non poteva più a lungo mancare agli
appelli della storia. La compromissione di un primo possesso in
Assab, le sollecitazioni dell'Inghilterra, l'irritante
rivalità della Francia, le ultime carneficine dei nostri
viaggiatori, gli accordi diplomatici, prima evitati, poi cercati,
finalmente assunti, spingevano irresistibilmente il suo governo
sulla via del mar Rosso.
All'annunzio che si sarebbe occupata Massaua, nei giornali e alla
camera scoppiò una veemente discussione: la maggioranza delle
voci vi era favorevole, quantunque si sentisse da tutti che la
diplomazia del ministero, come non aveva salvaguardato bene sino
allora la dignità della nazione, così non le
prometterebbe in questa oscura impresa africana abbastanza
risolutezza e sapienza di modi. Francia e Turchia tentarono presso
l'Inghilterra di sbarrarci ancora una volta il cammino: finalmente
il ministero spedì nel mar Rosso il contrammiraglio Caimi con
due navi cariche di mille soldati da sbarco. L'Inghilterra
mandò nelle acque di Massaua il Condor col mandato di
osservare e riferire, e in sostanza di proteggerci.
Il colonnello inglese Chermside, governatore generale degli egiziani
nel mar Rosso, ci accolse favorevolmente a Massaua (5 febbraio
1885): la bandiera egiziana vi fu momentaneamente conservata.
Battaglia di Dogali.
La prima fase della nostra politica coloniale era conchiusa. La
fatalità storica aveva trionfato di tutte le inesperienze del
paese e di tutte le esitazioni del governo. Bisognava ora prepararsi
ad un'impresa di conquista, dalla quale ci verrebbero guerre cogli
indigeni e dissidi cogli altri grossi stati coloniali.
Però l'Italia era in Africa: nessun popolo in nessuna storia
aveva in trent'anni compito più mirabile progresso passando
dalla schiavitù alla conquista.
Nel medesimo giorno che le truppe italiane occupavano Massaua, il
Mahdy trucidava a Khartum il generale Gordon con tutta la
guarnigione. Il disegno di una cooperazione italiana nel Sudan,
sulla quale il ministero aveva contato per ottenere più vasti
possedimenti, vaniva dunque dinanzi al fermo proposito del gabinetto
inglese di rinunciare a questa guerra sudanese. Allora la pubblica
opinione italiana mutò: all'orgoglio di conquista successe un
improvviso scoramento; si temette di essere abbandonati
dall'Inghilterra in un agguato; le forze vittoriose del Mahdy
crebbero nelle fantasie della gente; si seppe che nel primo proclama
affisso a Massaua dal contrammiraglio Caimi, essendoci vantati
imprudentemente amici dei turchi, avevamo riunito contro di noi le
ostilità reciproche di tutte le tribù limitrofe, e che
l'Abissinia ci spiava con minacciosa diffidenza. L'opposizione
parlamentare rinfacciava al governo di cercare conquiste in Africa,
mentre alleandosi coll'Austria abbandonava Trento e Trieste; i lagni
rettorici per lo sciupio del poco danaro della nazione in imprese
illiberali crescevano. Il ministero, sbigottito dall'abbandono della
Inghilterra, la sollecitò a ritentare l'impresa di Khartum
col generale Wolseley, e spedì a Massaua il generale Agostino
Ricci per studiare una marcia su Kassala con un corpo d'esercito, se
mai gli inglesi ripigliassero l'offensiva: quindi, smentendo alla
camera ogni arditezza d'iniziativa, il ministro Mancini
ripetè sino all'umiliazione la necessità per l'Italia
di fare in Africa la più modesta di tutte le politiche
coloniali.
Una incertezza fastidiosa agitava paese e governo. Era impossibile e
ridicolo restare a Massaua senza acquistarvi un vasto territorio con
sbocchi sicuri per il commercio interno. La bandiera egiziana
sventolante ancora daccanto alla nostra toglieva credito al nostro
indefinibile diritto di occupazione; ogni altro acquisto ci
susciterebbe contro l'Abissinia; la Russia, aspirante a coprire
quest'ultima del proprio protettorato, teneva già verso di
noi una riserva di mal augurio; la Francia aizzava la Turchia alle
proteste e alle armi; l'Inghilterra, minacciata bruscamente dalla
Russia verso l'Afganistan, sospendeva in Africa ogni lotta.
Il ministero pensò quindi di premunirsi contro il maggior
pericolo, seducendo con larghe promesse di pace e di commerci il
negus d'Abissinia, presso il quale legati di Francia e di Grecia
s'argomentavano a crearci diffidenze e difficoltà. Gli si
deputò in missione con molti regali il capitano Ferrari, ma
se le assicurazioni di questo parvero calmarlo un istante, non
poterono togliergli il sospetto della conquista da noi iniziata sul
confine del suo impero. Infatti all'annunzio del nostro continuo
dilatarci ad Arafali ed Arkiko, e dell'intenzione di occupare Saati
e Amba, il negus s'irritò nuovamente: razzie di abissini nei
pressi di Massaua parvero prodromi di guerra. Nel parlamento e nel
paese le apprensioni divennero più vive; il ministero,
incapace di dare all'impresa africana un rapido ed imponente
sviluppo militare, si sentiva trascinato alla guerra, e volendo
nasconderne la fatalità si imbrogliava ad ogni interpellanza.
Nei partiti l'idea africana era non meno torbida che nel governo, le
discussioni tiravano all'accademico. A complicare la situazione
venne il ritiro di Gladstone dal ministero inglese, nel quale
successe il marchese di Salisbury pertinacemente ostile sino dalla
prim'ora ad ogni nostro intervento in Africa.
Il ministero Depretis ne fu scosso, il ministro Mancini dovette
dimettersi.
L'occupazione di Saati da noi compita con basci-buzuck assoldati dal
comando superiore di Massaua produsse nuovi scoppi di ira alla corte
d'Abissinia. Tale villaggio preso dagli egiziani nel 1866, quando
posero piede a Massaua, da essi abbandonato nei disastri del
1875-76, rioccupato al tempo della missione Hewett, ritolto loro
alla firma del trattato che ne derivò e nullameno rimasto
loro, era ancora difeso da alcuni buluck di basci-buzuck, quando il
colonnello Saletta decise d'impadronirsene contro ogni possibile
sorpresa degli abissini su Monkullo, che è la chiave di
Massaua. Per quanto il danno immediato di questa occupazione fosse
degli egiziani, e gli abissini considerassero questi come i loro
più antichi nemici, era impossibile al negus non sospettare
gravi pericoli da questa nuova espansione degli italiani sui confini
del proprio regno. Il nostro contegno verso le tribù degli
Habab, dei Belad-el-sek e dei Mensa, sui quali l'Abissinia
pretendeva esercitare una assoluta supremazia e alle quali noi
concedemmo il nostro protettorato, punse oltre l'orgoglio del negus
anche le gelosie di ras Alula, il suo miglior generale. L'imperatore
Giovanni scrisse a Menelik re dello Scioa, suo tributario, per
lagnarsi degl'italiani e denunziargli la loro imminente cacciata
dall'Africa; agenti egiziani e greci soffiavano su queste ire.
Intanto a reggere il ministero degli esteri il Depretis chiamava il
conte di Robilant, generale ed ambasciatore a Vienna, di credito
superiore al valore poichè aveva consigliato la visita di re
Umberto a Francesco Giuseppe e da questo non restituita con grave
sfregio di Roma. I primi atti del nuovo ministro furono nullameno
abbastanza risoluti: unificò il comando militare di Massaua
sino allora diviso fra le forze di terra e di mare, vi mise a capo
il generale Genè imponendogli di profittare del primo
conflitto colle autorità egiziane per impadronirsi del
governo e dell'amministrazione diretta sui territori da noi
occupati, ma vietandogli categoricamente di allargarne i confini.
Tale minimo colpo di stato avvenne senza difficoltà da parte
degli egiziani: la Sublime Porta cessò da ogni protesta alla
prima minaccia di guerra.
Il governo negava sempre ogni intenzione di conquista territoriale
affermando che solo le colonie commerciali sono veramente utili e
che il porto di Massaua, come emporio necessario dell'Abissinia, ce
ne offrirebbe una delle più utili. Intanto si era dovuto
allargare sensibilmente il raggio del suo territorio; si temeva
già una guerra e non si ardiva prevenirla con spedizioni di
nuovi soldati e coll'occupazione dei luoghi più strategici.
Un futile orgoglio aristocratico rendeva il conte di Robilant
sprezzante verso le barbare potenze africane. Tuttavia, uomo
piuttosto di diplomazia che di politica, pensò di spedire
presso il negus in più vistosa missione il deputato generale
Pozzolini perchè coll'aiuto del capitano Harrison Smith,
mandato per accordo segreto dall'Inghilterra, potesse ammansirlo. Ma
ras Alula moltiplicando le razzie intorno ai nostri territori, ed
essendo scoppiata una insurrezione all'estrema parte meridionale
dell'Abissinia, il ministro temette che un altro massacro di una
missione capitanata da un generale deputato potesse impegnarci in
una guerra col negus, e telegrafò a Massaua ordini di
soprassedere. Ne venne che il negus, avvisato della missione e non
vedendola arrivare, si stimasse sbertato, e che il capitano
Harrison, presentandoglisi solo dopo venti giorni di marcie, gli
facesse involontariamente giudicare molto timide le ambascerie
italiane.
Alla camera questo nuovo smacco provocò critiche a destra e
scherni a sinistra. La democrazia rettorica, impigliandosi nelle
contraddizioni del diritto politico col diritto storico, non avrebbe
voluto nessuna guerra coll'Africa: si paragonava la nostra
occupazione di Massaua a quella austriaca di Trento e di Trieste, si
dimenticava che se i più civili non avessero sempre
conquistato i più barbari la civiltà non sarebbe mai
cresciuta. La scoperta di Colombo non giovò all'America
già scoperta dai groenlandesi, dai giapponesi e dagli
indiani, se non perchè fu susseguita dalla conquista europea.
I brevi calcoli dell'interesse nazionale e la minuta scienza
d'analisi economica sui vantaggi e sui danni delle colonie non
bastavano a giudicare di questa impresa africana, giacchè
ogni colonia deve trovare la propria giustificazione non nel
presente ma nel futuro, non nell'utile della nazione che la fonda,
ma in quello della nazione che da essa deve sorgere.
Senonchè il governo, quasi sperando di rendere inavvertita la
propria azione in Africa col diminuirla, vi aveva sospeso i lavori
di una piccola ferrovia di congiunzione fra i pochi posti militari,
e malgrado l'esempio del cavo telegrafico sottomarino gettato
dall'Inghilterra fra Suakin e Perim all'indomani della sua
occupazione nell'Egitto, lasciava per ingiustificabile gretteria
Massaua senza mezzi di comunicazione diretta telegrafica, dopo
avervi diminuito il già scarso presidio.
Una stessa politica di riserbi e di iattanze faceva credere che con
due battaglioni si sarebbe resistito a tutto l'esercito abissino,
mentre non si voleva guerra con esso a nessun costo; si dichiarava
di voler attirare un grande commercio a Massaua assicurando le vie
di terra dai predoni, e si lasciava ras Alula fare stragi e razzie
sulle popolazioni sottomesse al nostro protettorato; si sconfessava
con crudele indifferenza ogni rapporto colla spedizione Porro,
massacrata nell'Harrar al mese di aprile del 1886, e se ne
permetteva un'altra al conte Salimbeni, al maggiore Piano e al
tenente Savoiroux presso il re del Goggiam con carattere quasi
officiale.
E anche questa fu catturata da ras Alula per sospetto di spionaggio.
La nuova occupazione di Uà sempre per tutela delle carovane
commerciali attirò a Massaua nuove minaccie da ras Alula: il
pericolo incalzava. La scarsezza delle guarnigioni obbligò il
generale Genè a munire Uà e Saati con soldati regolari
e con pochi cannoni, poichè da parecchi mesi aveva chiesto
indarno al ministero, sebbene senza sollecitarlo troppo, un rinforzo
di duemila uomini. Finalmente un telegramma di sconfitta già
pubblicato dai giornali inglesi giunse a Roma.
Il 24 gennaio (1887) ras Alula, movendo da Ghinda, aveva tentato
invano l'assalto di Saati; quindi il 26 tre compagnie e cinquanta
irregolari sotto il comando del colonnello De Cristoforis, accorse
da Monkullo per vettovagliare Saati, erano state sorprese e
trucidate sulle alture di Dogali. Il capitano Tanturi non aveva
potuto giungere colla propria compagnia sul campo di battaglia se
non quando il massacro era già consumato: «Tutti i
nostri soldati giacevano in ordine come fossero allineati!»
egli scrisse poi nel proprio rapporto.
Questo incredibile eroismo di coscritti morti senza indietreggiare,
allineati come ad una rivista, gonfiò di tragico orgoglio il
cuore della nazione. Qualcuno dei superstiti, lasciati per morti dal
nemico, raccontò che il colonnello rimasto degli ultimi a
cadere, nell'ebbrezza di una morte resa dall'eroismo dei suoi
soldati più bella di tutte le vittorie, avrebbe ordinato al
manipolo, che ancora lo difendeva, di salutare i caduti:
- Presentate le armi! -
La commozione nel parlamento e nel paese fu maggiore del fatto. Il
ministero si scompose, parecchi ministri dovettero uscirne, si
dichiarò la guerra all'Abissinia, e non si chiesero alla
camera più di cinque milioni; si ordinò al generale
Genè di mercanteggiare con ras Alula, minacciante di
trucidare la spedizione Salimbeni se tutta l'Africa non fosse
immediatamente sgombra dagli italiani: si dovettero consegnare al
barbaro un migliaio di fucili a lui diretti, dianzi sequestrati, e
cinque capi di tribù assaortine, a lui nemici, riparati nel
nostro campo sotto la protezione dell'onore italiano.
E nemmeno così si ottenne subito il riscatto dei tre
prigionieri.
Ma questo tragico episodio di Dogali troncava finalmente tutte le
ambagi della nostra politica coloniale: guerra e conquista
diventavano inevitabili.
L'Italia risorta nazione aveva ripreso il proprio posto
d'avanguardia nella guerra immortale della civiltà contro la
barbarie: Dogali era stata la prima conseguenza di Solferino.
Capitolo Terzo.
L'Italia in Europa
Così l'Italia in quindici secoli di una storia, la più
complessa fra tutte, aveva potuto raggiungere la propria
individualità politica costituendosi in nazione.
Splendidi e squallidi i suoi avvenimenti si erano succeduti con foga
precipite attraverso le scene di un dramma, nel quale tutte le leggi
della vita per lungo tempo erano sembrate capovolgersi. Nessuna
unità apparente fra tante avventure, nessun carattere
dominante nel suo popolo composto dalla sintesi di tutte le razze.
Già prima ancora che Roma, dilatandosi a città
universale, desse al mondo la prima unità politica, quando
nell'Europa la barbarie era più antica e più fitta, il
popolo misterioso degli Etruschi aveva improvvisato fra il Tevere e
il Po una civiltà meravigliosa d'arte e di scienza, di
politica e di religione. Roma, costituita in una immensa
città militare, che imporrebbe poi a tutto il mondo la
propria giurisprudenza, non aveva potuto fondere in un solo getto le
troppe genti d'Italia: la sua azione politica restava loro
fatalmente esterna, mentre il suo orgoglio quiritario considerandole
come materia di conquista, le respingeva dall'eguaglianza civile dei
suoi cittadini, che era tutto il resultato della sua vita storica.
Ma quando Roma, cresciuta ad impero universale, dovette diventare
come il centro neutro del mondo, e le sue legioni composte di
sudditi ribellandosi al governo dei Cesari nominarono i propri
imperatori e s'impadronirono dell'orbe, una nuova eguaglianza
avvenne fra cittadini e concittadini, fra capitale e provincie.
Naturalmente queste, conservando contro quella un residuo di
originalità etnografica, si giovarono dei suoi elementi
civili per rinnovellarsi in nazioni indipendenti. La grande
religione del cristianesimo aiutò singolarmente col principio
della propria eguaglianza morale e della libertà di coscienza
questo processo d'individuazione già affrettato dalla
decadenza imperiale cogli orrori di una corruzione, nella quale con
Roma sembrava perire la coscienza umana. E quando per l'inevitabile
spostamento di governo determinato dalla necessità di
resistere alle frontiere orientali più vivamente minacciate
dai barbari, la capitale da Roma emigrò a Bisanzio, l'Italia,
pur conservandosi nominalmente centro dell'impero occidentale, non
fu più che una provincia come tutte le altre. Roma passava
per lungo ed incerto tramite dall'impero al papato, dal paganesimo
al cristianesimo, mentre Ravenna, antico villaggio lacustre e
mediocre stazione navale, s'ingigantiva con improvvisa ed effimera
fortuna a capitale d'occidente. Allora irruppero le invasioni che
rinnovarono il mondo antico preparando il moderno. Popoli barbari
cresciuti in una selvaggia verginità dilagarono sulle terre
romane, e ne assorbirono la civiltà, disparendo per dar luogo
ad una razza più mista, nella quale un sangue giovane beveva
tutti gli aromi vaporanti dalla rovina di una antica civiltà.
Il mondo fu quindi e dovunque federale.
Bisanzio, perduta sul confine dell'Asia, cessò quasi di
appartenere alla storia europea per attendere fra gli orrori e gli
splendori della più spirituale decadenza quella rinnovazione
mussulmana, che doveva poi imporre al cristianesimo d'occidente
l'ultima e più difficile prova.
Ma se nell'Europa il mareggiare delle invasioni sembra ubbidire
piuttosto alle leggi fisiche della gravitazione che a quelle ideali
della storia, nell'Italia, ove a Roma dura ancora l'idealità
dell'impero e splende più pura ed universale l'altra della
chiesa, le invasioni s'illuminano d'incandescenti chiarori, e si
sottopongono quasi con umiltà di olocausto a questi due
supremi poteri. Senonchè il loro tumulto è così
sanguinario, le loro battaglie così spaventevolmente
effimere, le loro stratificazioni storiche sul suolo italiano
così confuse, la loro inconsapevolezza così ingenua,
le loro catastrofi così ritmiche, mentre i due concetti della
chiesa e dell'impero s'alzano sempre nelle tenebre medioevali sino a
parere due stelle di una medesima costellazione, che nè
cronisti, nè storici, nè vincitori, nè vinti,
nè barbari, nè latini, nè politici, nè
sacerdoti, nè poeti, nè filosofi possono comprenderne
l'idea o apprezzarne almeno approssimativamente il risultato.
Al momento, in cui s'attendono le conseguenze più previste
nel dramma dei personaggi e nella tragedia dei popoli, altre
invasioni irrompono, nuovi prologhi scompongono gli epiloghi, la
narrazione s'interrompe nello sbigottimento di un nuovo racconto,
altre geste disperdono le immagini delle quali la leggenda stava
rivestendo le imprese degli ultimi trionfatori. Goti, Longobardi,
Franchi, Alemanni si succedono scacciandosi, schiacciandosi,
sovrapponendosi gli uni agli altri: Normanni, Angioini, Aragonesi,
Francesi perpetuano queste invasioni, che interventi pontifici e
discese imperiali trasformano in disastri periodici. Ogni mattina i
popoli sembrano ricominciare la trama della propria storia: le loro
città si trasformano in teatro di glorie straniere, i loro
campi servono a battaglie di una guerra scoppiata nella Scandinavia
o nella Germania, nella Francia o nella Spagna.
Quindi una confusione inestricabile di forme e di periodi politici
rende inintelligibile la storia di questi primi tempi. Guerre ed
invasioni sono così continue che non si discernono più
nè vincitori nè vinti, nè invasi nè
invasori: chiesa ed impero sovrastano, municipii romani e
città militari si osteggiano, il moto indigeno è come
una corrente di fiume nel mare, che vi diventi inavvertibile a pochi
passi dalla foce. I governi, che s'improvvisano sul suolo ancora
tutto pregno di elementi romani e solcato da tutti gl'istrumenti
della nuova religione cristiana, sono qua comunali, là
feudali, normanno in Sicilia, bizantino a Venezia, teocratico a
Roma, regio a Pavia: o s'irrigidiscono in fragili regni, si
stemperano in labili republiche, si distaccano in villaggi
indipendenti, si sminuzzano in gruppi abbaziali, urtandosi coi
più imprevedibili contrasti nella più abbacinante
fantasmagoria.
Un dualismo riprodotto dappertutto dalla più eterogenea
multiplicità rovescia l'alta Italia sulla bassa, municipii
contro municipii, città contro città, castelli contro
castelli: gli odii s'invertono per rianimarsi, le guerre stancano i
secoli senza una tregua, gli eserciti compaiono talora come
indipendenti dai popoli, questi vigoreggiano sballottati da
convulsioni troppo lunghe per essere un morbo, l'anarchia rinnova
tutti i governi senza soccombere ad alcuno di essi, l'impero
è impotente come la chiesa e non per tanto chiesa ed impero
sono le due sole idee e i due unici poteri invincibili.
L'Italia ha dimenticato il mondo sul quale regnava con Roma, e
ridotta Roma sede del pontefice e capitale di una piccola regione
turbolenta quanto Genova, meno colta di Firenze, più povera
di Milano, quasi nulla politicamente di fronte a Venezia.
Ma dopo quattro o cinque secoli la lava delle invasioni si è
già solidificata amalgamandosi col terreno, dal quale
germoglia una nuova flora. Una razza mista di sangue e di colore, di
tendenze, d'abitudini, di tradizioni, d'ideali è disseminata
per l'Italia in tanti piccoli stati con governi di tutti i modi, con
dimensioni che sfuggono a tutti i calcoli. Un particolarismo angusto
e fratricida costituisce la loro forza e la loro originalità:
il comune è una idea, che vale quella dell'antica urbe e la
supera potendosi riprodurre da per tutto, mentre Roma era condannata
ad essere unica nel mondo e contro il mondo. Il comune nega
inconsciamente la tradizione pagana, le invasioni barbariche, le
trasformazioni dell'impero romano, la feudalità, il papa, la
nazione, il mondo. La sua vita, circoscritta al suo territorio, si
fortifica nell'oblio di ogni universalità: i suoi nuovi
cittadini imbevuti di tutte le superstizioni medioevali, oppongono
una indipendenza capace di qualunque bassezza e di qualunque eroismo
a tutte le autorità religiose e politiche; la loro tenacia
stanca tutte le inimicizie, la loro passione li mette a paro con
tutte le idee, la loro originalità li sovrappone a tutti i
poteri. Quindi il nuovo federalismo si organizza nei comuni
attraverso rivoluzioni, nelle quali i partiti pullulano e le
sètte si suddividono; dittatori, tiranni, signori, si
moltiplicano; le epopee si specializzano, le politiche si
frantumano, e ogni comune diventa un governo, uno stato, una
nazione, un mondo separato ed antagonista, che solo la legge arcana
della federazione avvince a tutti gli altri, e che nell'orgoglio
della propria individualità pretenderebbe ad una storia
speciale come Roma ed Atene. La guerra, che come una bufera sbatte
gli uni sugli altri i comuni, sprigiona dalla loro idea scintille
che rischarano ed incendiano: la loro prima vittoria è contro
i castelli, la seconda contro le città militari, la terza dei
comuni più grandi e spirituali sui più piccoli e meno
intelligenti. Laonde la loro storia riproduce a distanza di secoli
quella dell'antica Grecia; la Toscana supera l'Attica nella
molteplicità del genio, e basta da sola ad iniziare una terza
epoca di incivilimento mondiale. Tutti i borghi hanno grandezze che
illustrerebbero una grande nazione: la loro vita resiste a tutte le
sventure, prospera fra tutti i delitti, si decora di tutte le
virtù, si scinde in tutte le varietà per riunirsi in
unico risultato. Nè la chiesa nè l'impero possono
prevalere contro i comuni, che sono il nocciolo infrangibile della
patria e della nazione futura.
La guerra, invece di distruggerli, li amalgama in corpi sempre
maggiori, che vittorie e sconfitte consolidano: alleanze ed esigli
stringono le prime fratellanze politiche; le stesse rivalità
inconciliabili, incatenandoli l'uno all'altro, li preparano a sempre
maggiore unità.
Mentre i loro cronisti sembrano chiudersi ognuno nella cerchia
angusta delle proprie mura, la storia invisibile li appaia e li
coordina: il loro racconto inintelligibile diventa chiaro
proseguendo oltre i confini dei loro territori e della loro epoca
nel racconto degli altri: malgrado l'intrattabilità degli
odii, che lo esagerano, nell'assenza di ogni preconcetto e di ogni
giudizio morale riesce quasi sempre vero.
Coll'impero, col papato e coi comuni l'Italia è ancora il
centro della nuova civiltà. Ogni moto viene all'Europa
dall'Italia: Cesari e pontefici debbono incoronarsi a Roma; da Roma
si diffondono il diritto e la religione, la tradizione e l'avvenire.
Tutti gli altri popoli, usciti appena dalla preistoria e oscillanti
ancora nella marea delle invasioni, aspettano da Roma e dall'Italia
le idee: il loro istinto non può diventare coscienza che per
mezzo di una rivelazione italiana, la loro bravura mutarsi in
virtù che al contatto del sentimento italiano, la loro forza
essere creatrice che sotto la direzione del genio italiano. L'Italia
sola è classica: impero, papato, religione, scienza, arte,
politica, tutto prosegue in essa e la trascende senza stremarla.
L'Italia basta al mondo, e si serve indifferentemente dei Cesari e
dei papi, doma la propria religione coll'incredulità,
respinge l'ateismo coll'arte, sgretola tutti i dispotismi con una
libertà, alla quale concede l'efferatezza di tutte le
tirannidi; è dotta, marinara, tribunizia, bancaria, agricola,
democratica, mentre l'Europa non ha ancora che barbari alle prese
colla propria gerarchia militare e colla nuova religione cristiana.
Il numero delle rivoluzioni italiane è così enorme che
oggi stesso la scienza storica stenta ad accettarlo, la gamma delle
sue forme politiche così ricca che nessun progresso vi
può essere impedito, la folla de' suoi grandi uomini
così densa che la fortuna e non il merito deve assegnare loro
l'immortalità. Appena i suoi comuni, respingendo come un
cuneo la doppia barriera del papato e dell'impero, arrivano alla
grande libertà di potere decorare se stessi, una primavera di
bellezza comincia per tutta l'Europa: l'epoca della barbarie
è conchiusa, l'Italia ha trionfato del mondo.
Le altre nazioni riunite dalla guerra a grandi unità con
pochi ma potenti e contrari caratteri potranno dietro l'impulso
italiano proseguire nell'opera dell'incivilimento. L'Italia, come
stanca della propria immensa elaborazione, si riposa in un'orgia di
bellezza, moltiplicando i propri artisti ed imponendo loro come a
soldati la conquista quotidiana di un capolavoro. I suoi comuni
divenuti signorie stanno per sparire nei principati, la sua
religione romana per essere spezzata da uno scisma, del quale la
coscienza umana si coprirà come di uno scudo; il suo Cesare
non è più che un simbolo, il suo papa un vescovo, le
sue republiche non sono più una libertà, i suoi regni
non hanno ancora unità, perchè il federalismo
necessario alla sua vita per la produzione di tante idee e di tante
forme non può sparire che sotto l'azione di un'idea maggiore
della chiesa e dell'impero.
Ma l'Italia, indietreggiando dall'avanguardia della civiltà,
copre la propria ritirata col lanciare Colombo alla scoperta
dell'America e Galileo a quella del cielo: così, dopo aver
dato al mondo l'unità romana e cristiana, vi aggiunge quella
geografica e l'universalità planetaria sorpassando lo stesso
cristianesimo, col quale l'aveva salvato dalla barbarie medioevale.
La sua immensa storia di venti secoli s'impicciolisce quindi in
quella del Piemonte e della Sicilia; Firenze non è più
che una stazione ove le belle arti essendosi troppo a lungo fermate,
hanno perduto ogni energia di progresso; Venezia s'irrigidisce in
una inutile difesa contro i turchi, dando al proprio governo
l'immutabilità dei marmi, coi quali ha costrutto i propri
incantevoli palazzi; Milano decade a provincia francese o spagnola;
Roma è appena la capitale di uno stato pontificio senza
potere, senza nazionalità e senza governo.
La storia italiana, mutata in eco della storia europea, deve
ripetere le voci di Francia, di Germania, d'Austria, di tutti. Il
suo federalismo si è arrestato all'ultimo termine, e s'inizia
segretamente il periodo dell'unità. L'Italia, che colle
proprie idee universali ha dato all'istinto individualistico degli
altri stati la profondità di una coscienza nazionale, attende
dai contraccolpi della propria opera l'energia di organizzarsi in
nazione. Per ora la diffrazione delle sue tendenze e l'esaurimento
delle sue forze lo contendono. Come nel medio evo, la sua grande
valle del Po seguita quindi ad esser il teatro ove si decidono le
massime contese europee, ma nelle quali solo il Piemonte si mescola
per educarsi all'abilità necessaria di una futura egemonia
italiana. Mentre la Germania s'insanguina nella rivoluzione della
Riforma per togliere a Roma il primato religioso e l'estrema
fattizia unità mondiale all'Italia, questa dalla festa della
bellezza durata tutto il cinquecento è già tornata
all'azione, dando ai propri scienziati l'impeto degli antichi
legionari romani.
Il seicento è l'epoca eroica delle scienze, l'ultimo trionfo
del genio italiano. Dopo questo sforzo supremo l'Italia pare
cancellata dalla storia: Inghilterra, Francia, Spagna, Olanda,
Portogallo, Austria, Russia, si dividono il mondo: l'America
è già misurata, girata l'Africa, contornata l'Asia,
scoperta l'Australia: il mondo, libero da ogni antica unità
religiosa o politica, è aperto a tutte le carriere, ma solo
quei popoli, che vi raggiunsero l'indipendenza e la libertà
di nazione, possono agirvi efficacemente. L'Europa in preda ad una
febbre di operosità urge tutte le proprie genti. La Spagna,
succeduta nel posto dell'Italia all'avanguardia della storia, non ha
potuto durarvi più di un secolo; la Francia, rimasta sola a
difendere il primato delle razze latine, sembra perdere terreno
dinanzi agli sforzi giganteschi della razza teutonica rappresentata
dall'Inghilterra e dalla Germania; ma poichè il genio romano
è inesauribile, la Francia contrappone presto alla Riforma,
che aveva emancipato la coscienza religiosa, una rivoluzione, che
crea la coscienza civile.
E l'Italia ritorna nella storia con Napoleone I, ultimo Cesare e
ultimo condottiero, che dilata la rivoluzione francese con due
antichi concetti romani, l'universalità imperiale e la
democrazia militare.
La nazionalità italiana riappare quindi fugacemente entro
l'impero napoleonico nei limiti di un regno, nel quale persino il
papa è scomparso, e sul quale comanda un fanciullo col titolo
di re di Roma. Ogni traccia di federalismo vi è cancellata:
l'Italia, presa nell'orbita della rivoluzione francese, ha ricevuto
dal suo urto la forza di conglomerarsi politicamente in nazione;
l'impero napoleonico si scomporrà come un immenso bolide; ma
l'Italia, aggirandosi sempre in quell'orbita, potrà in solo
mezzo secolo consolidarsi in nazione.
Tale è oggi in Europa.
Ma quale è in questo glorioso continente il suo posto e la
sua missione?
La moderna Europa civile non somiglia all'antica: questa guardava il
Mediterraneo, quella fronteggia tutto il mondo. Dopo il Rinascimento
l'Europa si creò nel mare Baltico un secondo centro, ove
Olanda, Germania, Inghilterra, Scandinavia, Russia si fusero come le
antiche nazioni mediterranee; ora tutte le coste dei suoi mari
brillano di fari civili, all'interno tutte le sue grandi
città sono centri di scienza e di vita. Le sue vittorie
sull'Islamismo, col quale l'Asia aveva tentato più volte di
sopraffarla, le hanno da quasi due secoli assicurata la primazia su
tutti i continenti; i suoi popoli organizzati in nazione offrono lo
spettacolo di una forza, alla quale l'antichità non saprebbe
trovare in se stessa alcun paragone. L'Inghilterra possiede un
impero maggiore del romano, la Russia ha un territorio quasi pari a
quello della Cina, piccoli paesi come il Portogallo e l'Olanda
posseggono colonie decuple di loro stessi.
L'Europa libera non ubbidisce a nessuno dei propri popoli, non
soccombe più ad alcuna loro preponderanza fattizia, ma
conquista, illumina, rinnova tutti gli altri continenti. L'America
è già tutta europea di spirito, figlia primogenita e
rivale dell'Europa: questa vi possiede ancora qualche colonia, che
può sfruttare come una fattoria, ma che perderà presto
come tutte le altre. L'America è democratica: l'altro ieri
fucilava al Messico l'ultimo imperatore avventuriero, ieri
distruggeva nel Brasile l'ultimo impero e rinviava in Europa Pietro
I di Braganza, come un servitore pensionato.
I due grandi problemi esteri per l'Europa sono l'Africa e l'Asia,
che essa deve attirare l'una dalla preistoria nella storia, l'altra
dalla storia antica nella storia moderna. Tutte le nazioni europee
si sono date in questo secolo la posta sul continente nero; Russia
ed Inghilterra si contendono la gloria e l'utile di trasformare
l'Asia; il secolare problema della Turchia sul Bosforo non è
che un dato del problema orientale. Ma la Russia, già distesa
nell'Asia sovra immensi territori, cinge colla Siberia la Cina a
nord-ovest, e dal Caucaso discendendo per la Persia e l'Afganistan
minaccia di asserragliarla al sud per sopraffarvi l'Inghilterra; una
ferrovia russa, miracolo d'improvvisazione, in pochi anni, tocca
già al Tibet; Annenkoff, il generale che l'ha costrutta, ne
sta disegnando un'altra sino all'estrema frontiera chinese verso il
Giappone. L'America ha offerto i miliardi dei propri banchieri al
Celeste Impero per aprirvi le prime grandi arterie ferroviarie; gli
inglesi solcano di ferrovie l'India; il commercio ha dischiusi tutti
i porti asiatici; la Francia, sempre liricamente avventuriera,
è penetrata vittoriosa fino a Pechino e si è ritirata
fermandosi conquistatrice nell'Annam, nella Cocincina e nel Tonkino.
Mentre l'Europa penetra con sì irresistibile espansione nei
due vastissimi continenti, che quasi l'imprigionano, raddoppia in
sè medesima con rapido processo le proprie forze. Tutti i
suoi popoli in questo secolo si sono rinnovati al contatto della
rivoluzione francese. Teocrazie, monarchie, aristocrazie, hanno
dovuto soccombere ad una democrazia multiforme: appena costituite le
nazioni, si pensa a confederazioni per razze. Nel Baltico un disegno
di federazione presentato dal re di Svezia (1864) congiunge Svezia,
Norvegia e Danimarca; l'avanguardia della democrazia latina ne
propone un altro per stringere in un solo fascio Spagna, Francia e
Italia; la Germania, riunitasi intorno alla Prussia in un impero di
45 milioni di cittadini, aspetta l'occasione di assorbire gli altri
12 milioni di tedeschi predominanti ancora nell'impero austriaco.
Questo, scacciato dal centro d'Europa, tende ad inorientarsi, e per
resistere al moto delle nazionalità comincia a concedere
qualche autonomia ai maggiori popoli, onde è composto:
l'Ungheria è già in possesso di un proprio parlamento,
gli czechi di Boemia lo reclamano ad alte grida e propongono Praga a
loro capitale, nei Principati Danubiani guerre e rivoluzioni vi
educano le forti popolazioni a libertà. Bulgaria, Romania,
Serbia, Montenegro, vi sono già indipendenti e con dinastie
proprie; la Bosnia e l'Erzegovina, cedute in amministrazione
all'Austria dal trattato di Berlino (1878), non intendono
acconciarsi al nuovo padrone, che tutti gli slavi di Polonia, di
Transilvania, di Gallizia, di Slavonia, di Dalmazia, guardano con
occhio nemico. La Grecia ostinata nell'eroismo delle proprie
rivendicazioni, tiene sempre la mano sull'elsa per slanciarsi contro
il turco, del quale l'impero europeo, caduto nel fondo della
più orribile rovina economica, si sfascia politicamente sotto
l'azione combinata dell'idea greco-slava e dei propri principii
barbarici. Ora le rivalità dell'Austria, della Russia e
dell'Inghilterra lo proteggono ancora, ma l'irresistibile moto
nazionale delle sue popolazioni cristiane non può essere
arrestato da alcuna combinazione diplomatica. Qualunque sia dunque
per essere il carattere che dominerà la formazione di questi
nuovi stati divisi ancora da odii di sètte religiose e da
gelosie storiche di razza; vi preponderi la influenza greca o slava,
l'unità panslavistica di Pietroburgo, o una federazione
più democratica che vi rispetti le originalità
regionali; l'Austria si dissolva in questo moto o vi si rinnovi
entrando coi proprii popoli in questa lega che potrebbe avere
altrettante capitali che gli Stati Uniti d'America, Praga,
Buda-Pest, Belgrado, Bucarest, Sofia, Atene, Costantinopoli, mentre
Vienna sarebbe la seconda città della Germania: è
impossibile che il processo d'individuazione si fermi in questi
stati, cui l'islamismo non potè fondere, e che la moderna
democrazia deve integrare.
Se nei primi passi all'indipendenza essi tutti, come il Belgio, la
Grecia e l'Italia, accettarono o accattarono dinastie indigene o
straniere, le quali naturalmente si destreggiarono diplomaticamente
fra loro medesime e più forti vicini per timore di essere
fuse in un grosso getto monarchico; questo tirocinio politico era
necessario per addestrarli ai governi rappresentativi e per
convergere in una fattizia unità di comando i loro sforzi
sempre infranti da troppo minuti antagonismi.
Quindi il grande problema europeo, una volta dibattuto sul Reno, sul
Po e sull'alto Danubio, ribolle ora alla foce di questo ultimo e
sulle sponde del mare Nero, che dopo essere stato uno stagno turco
sta per diventare un lago russo, se il panslavismo,
nell'incalcolabile sua forza di espansione trionfando delle
opposizioni riunite dell'Austria e dell'Inghilterra, offra alle
popolazioni slave del sud più pronta indipendenza della Porta
e maggiore fortuna politica coll'annessione all'impero degli czar.
L'avvenire della politica e della storia europea è dunque
slavo.
Un immenso popolo, disseminato sulla metà del nostro
continente, sta per aprirvi un periodo di civiltà pari al
latino e al germanico. Il suo numero enorme è tuttavia
piccolo per il suo territorio: la sua orbita abbraccia già
una gran parte dell'Asia, e si piega dal mare di Behring al mar
Glaciale sino al Baltico, penetra nella Scandinavia e nella Prussia,
dal mar Nero tende al Mediterraneo e da questo all'Adriatico e
all'Oceano Indiano. Le avanguardie slave vigilano già nella
Dalmazia, sono accampate nel cuore dell'Austria, gli eserciti russi
hanno già corso vittoriosi tutta l'Europa da Parigi a
Costantinopoli. L'impero degli czar ha l'estensione e la
varietà di un mondo. Nella sua spaventevole unità
governativa presenta la più salda compattezza attraverso le
antitesi di tutte le forme della vita primitiva colla vita moderna;
religione e politica vi sono fuse da secoli nello czar, pontefice ed
imperatore, che regna, governa, giudica, rivela a nome di Dio. La
forza dell'impero è incalcolabile come l'autorità del
suo governo: nessuna guerra può vincerlo, nessuna rivoluzione
rovesciarlo. Entrato da poco più di un secolo nella storia
europea, esso ne domina già le vicende: ha indigato la
rivoluzione francese, cancellato il primo impero napoleonico,
organizzato nella Santa Alleanza la reazione monarchica, liberata la
Grecia, sottratti colla propria influenza i Principati Danubiani
alla Turchia; colla voracità dei barbari divora tutti i
prodotti della nostra civiltà per meglio assimilarsene la
sostanza; ha già una scienza, una letteratura, una musica,
una politica, della quale i disegni sorpassano tutte le combinazioni
diplomatiche degli altri governi. Il suo raccoglimento è
sublime di promesse, la sua attività miracolosa d'ardimenti.
Coll'istinto infallibile dell'avvenire minaccia simultaneamente Asia
ed Europa: il suo sogno è di espandersi dall'India
all'Illiria, la sua marcia attraversa regioni di tutti i climi e di
tutte le storie, lenta, calcolatrice, senza mai indietreggiare,
assodando la conquista prima di aumentarla, aiutandosi egualmente
colla barbarie ubbidiente della propria moltitudine e colla
raffinata cultura del proprio governo. Nessuna tirannia è
più terribile e meno capricciosa della sua, che ubbidisce
ancora più fanaticamente del popolo all'idea di un mondo
russo. Roma non era che una città di soldati, Londra non
è che una città di mercanti, Pietroburgo è una
città di padroni, che invece di soggiogare il mondo o di
sfruttarlo, vogliono riempirlo di se medesimi. La loro devozione
allo czar è fatta di fede in se stessi. Di fronte all'impero
russo l'impero austriaco pare una piccola confusione burocratica, e
quello germanico un accampamento militare: entrambi debbono
destreggiarsi nella politica per difendere la propria importanza,
mentre la Russia sa di essere inattaccabile.
La terribilità della sua forza si rivela ad intervalli nelle
esplosioni de' suoi rivoluzionari, che col nome inesplicabile di
nihilisti vorrebbero trarla dalla sua base per farne una
improvvisata democrazia moderna. Solo il cristianesimo alla prima
guerra contro Roma potè mostrare nei propri neofiti una pompa
di volontà e una gloria di passione pari a quella dei moderni
nihilisti.
Il moto delle nazionalità raddoppia la potenza della Russia,
facendola centro di tutti gli slavi dispersi nel mezzo o nel sud
dell'Europa: il panslavismo è la più vasta, profonda
idea nazionale della storia europea. Grecia, Belgio, Italia,
Germania, non vi prelusero che come saggi.
All'immensa iniziativa della rivoluzione francese solo il moto
panslavista è degno risultato.
Quindi l'Europa non ha che due fuochi, Parigi e Pietroburgo: due
originalità, la republica e lo czarismo: tutti gli altri
governi costituzionali sono transizioni di epoche e transazioni di
principii. Nessuna guerra se non russa può mutare
sensibilmente la carta europea; nessun problema è più
vitale per tutti i governi del come gli slavi del sud si riuniranno
in nazione. I popoli occidentali d'Europa possono perfezionarsi
piuttosto che crescere; il popolo russo può emigrare
all'interno per una varietà sconfinata di terre, ove tutti i
climi gli promettono tutte le ricchezze, prima che le collisioni del
lavoro col capitale vi producano la tormenta politica delle nostre
anguste democrazie.
Ora per quasi tutti i governi d'Europa la questione pregiudiziale
è quella della loro forma monarchica, alla quale mancando la
consacrazione religiosa e la giustificazione teoretica crescono ogni
giorno le ostilità. Negli stati, ove le monarchie furono
necessario strumento alla rivoluzione, la lotta è meno
violenta per l'elasticità delle une e dell'altra; ma in
quelli, ove le monarchie preesistevano alla rivoluzione, la lotta si
accanisce nelle antinomie dei principii, che le costituzioni
irritano cogli stessi espedienti di conciliazione.
Fra cittadino e re la guerra è anche più fiera che non
fra operaio e capitalista, giacchè alle rivoluzioni sociali
debbono sempre aprire il passo le rivoluzioni politiche.
Dopo la proclamazione della sovranità popolare tutte le
monarchie sono idealmente reazionarie. Il loro ufficio in questo
secolo fu di prestare alla rivoluzione il proprio ambiente per
attuarvi l'originalità dell'idea democratica nella
sproporzione pericolosa fra la coscienza culta delle classi
dirigenti e la coscienza bruta delle classi dirette. Le monarchie
diventarono come il punto neutro, ove s'accordarono le ragioni del
passato e le istanze dell'avvenire, i pregiudizi e i privilegi
storici colle uguaglianze e colle giustizie sociali. Nella garanzia
di ordine offerta dalle monarchie si acquetarono le diffidenze delle
plebi e gli odii delle aristocrazie contro il pareggiamento
democratico; ma le contraddizioni della sovranità popolare
col diritto divino dovevano mutare la pace costituzionale fra
monarchi e popoli in una guerra parlamentare con interventi di
piazza, appena le battaglie rompessero i confini statutari.
Le monarchie più gloriose furono in Piemonte e in Prussia, e
dureranno più lungamente, finchè un egoismo dinastico
o un errore di metodo inimicandole colla patria le rompa come il
bozzolo, dal quale deve involarsi la farfalla.
In fondo a tutte le monarchie costituzionali sta la stessa
republica.
Quale è dunque il posto e la missione dell'Italia monarchica
in questa Europa, nella quale la popolazione aumenta da un secolo
con nuova proporzione, e il militarismo prodotto dalle guerre di
nazionalità mantiene armati nella pace tre o quattro milioni
di soldati, e può raddoppiarli al primo scoppio di
ostilità? L'Italia, che va liquidando la sovranità
temporale del papato, e ha raggiunta fra tutti gli stati risorti a
nazione la più intensa unità politica, con oltre
duemila anni di storia la più gloriosa, e in breve territorio
la più spiccata varietà di attitudini nel proprio
popolo, quali idee e quale forza può recare nella politica
europea? In questo secolo non è più possibile parlare
di primati come quelli antichi di Roma; la civiltà futura
d'Europa potrà colorarsi vivamente ai riflessi del mondo
slavo, ma non sparirà più nel carattere di un solo
popolo.
Ora all'avanguardia del progresso democratico sta ancora la Francia
colla propria republica, mentre la Russia, attardata nella
più arcaica forma di governo, addensa promesse su promesse di
civili originalità: unità republicana e unità
ieratica chiudono l'Europa come in una parentesi. Nella Germania il
federalismo imperiale non ha altra vera unità che l'esercito;
il lavoro dell'assimilazione politica, cui non basterà una
sola generazione, converge all'interno tutte le forze nazionali; la
Spagna non entra più nel concerto europeo che per risolvervi
qualche difficoltà coloniale; l'Inghilterra non vi è
spinta che da contraccolpi della questione orientale; l'Austria
cerca una nuova base federalista per non uscirne. L'Italia,
costretta dal proprio diritto nazionale alla conquista di Trento e
di Trieste, e dalle proprie origini rivoluzionarie ad una politica
democratica, dovrà attraverso le oscillazioni delle correnti
parlamentari seguire una politica che secondi il liberalismo
francese e le nazionalità slave. La sua opera nel
Mediterraneo può essere prevalente: i suoi addentellati
storici col mondo greco-slavo le permettono un'ingerenza altrettanto
fortunata che gloriosa, le sue affinità colla Francia e colla
Spagna le assicurano con una alleanza l'invincibilità.
Il suo nemico immutato è l'Austria; il mare, che può e
deve essere suo, è l'Adriatico, mentre la Germania
avrà il Baltico.
La sua monarchia dei Savoia potrà accompagnare la rivoluzione
nazionale dell'unità sino alla conquista di Trento e di
Trieste?
La scienza della storia non può rispondere a questo problema.
Ora l'Italia elabora in se stessa la propria coscienza di grande
nazione. Se la forma monarchica del suo governo è
naturalmente reazionaria, il suo spirito rivoluzionario ha potuto
produrre in questo secolo le due maggiori originalità
politiche con Napoleone I e con Garibaldi: il suo governo è
ancora all'avanguardia della nazione, ma questa si affretta per
raggiungerlo, e non può tardare molto a sorpassarlo.
L'alleanza attuale dell'Italia colla Germania e coll'Austria contro
la Francia e la Russia non esprime più che l'ultimo stadio
della sua inferiorità politica, nella contraddizione della
sua posizione diplomatica colle sue tendenze storiche.
L'avvenire d'Italia sarà di assoluta libertà, e quindi
fecondo di grandi iniziative.
La Germania all'indomani del proprio trionfo sul secondo impero
napoleonico, nell'ebbrezza superba di sentirsi finalmente libera ed
una, alzava a se medesima una statua colossale sulle rive del Reno
fisa minacciosamente verso Francia; nè paga a questo
monumento di un'ultima gloria militare, esorbitando dalla propria
idea, ne levava un'altra ad Arminio che tagliava a pezzi le due
legioni di Varo, quasi con quella vittoria aneddotica di un
condottiero selvaggio volesse opporre se medesima all'immensa storia
ideale di Roma. Quindi, bandendo per l'iscrizione latina, che doveva
spiegare quel monumento, un concorso mondiale, con spavalda ironia
dava il premio al romagnolo Ferrucci, retore latinista e abbastanza
vacuo italiano per non sentire la vergogna di vantare una sconfitta
romana così:
Hic, ubi romano rubuerunt sanguine valles,
Duxque datus saevae cum legione neci
Hostibus hic terror post saecula multa resurgo
Vindex Germani nominis Arminius.
L'Italia tacque.
Quando l'Italia avrà conquistata intera la coscienza della
sua nuova grandezza in Europa, sentendo meglio quella antica nella
quale fu centro a tutto il mondo, risponderà alla Germania
col mettere in Campidoglio, al posto di Marco Aurelio,
l'incomparabile statua di Giulio Cesare confusa ora nel museo
capitolino fra troppi capolavori, e vi scriverà sotto con
romana brevità:
DIVO
Caio Julio Caesari
URBS ET ORBIS
E ora esaminiamo le condizioni della lotta politica attuale.
Casola Valsenio, 2 giugno 1888-29 settembre 1890.
INDICE
LIBRO SETTIMO: La rivoluzione unitaria
Capitolo primo: La grande vigilia
- Esaurimento della reazione
- Ultime difficoltà del Piemonte
- L'idea napoleonica
- Alleanza Franco-Sarda
Capitolo secondo: La conquista regia
- Guerra Franco-Sarda
- La pace francese
- Catastrofe dell'idea piemontese
Capitolo terzo: Prime integrazioni rivoluzionarie
- Iniziative dittatoriali
- Le annessioni dell'Italia centrale
- Cessione di Nizza e di Savoia
Capitolo quarto: La conquista rivoluzionaria
- I mille di Marsala
- Ultime resistenze dei governi borbonico e piemontese
- Impresa di Napoli
- Campagna piemontese nelle Marche
- Annessione del reame
LIBRO OTTAVO: Il regno d'Italia
Capitolo primo: Il primo assetto
- Insufficienza storica della nuova monarchia
Capitolo primo: I dati della politica monarchica
- Caratteri parlamentari
- Difficoltà politiche
Capitolo secondo: La proclamazione di Roma capitale
- Trattative diplomatiche
- L'ordine del giorno Buoncompagni
- Ultima lotta fra Garibaldi e Cavour
- Le Regioni
Capitolo terzo: I luogotenenti di Cavour
- L'ambiente politico
- I primi ministeri
- Empirismo legislativo
Capitolo quarto: La reazione del brigantaggio nel mezzogiorno
Capitolo quinto: La tragedia d'Aspromonte
- L'avventura di Sarnico
- Seconda spedizione garibaldina
- La monarchia italiana e il papato
Capitolo sesto: Soluzione monarchica del problema di Roma
- Roma durante la rivoluzione
- La convenzione di settembre
- Trasporto della capitale a Firenze
Capitolo settimo: La prima guerra italiana nel veneto
- Cospirazioni regie e democratiche
- La preparazione prussiana
- Trattative ed apparecchi
- La campagna
- Garibaldi nel Tirolo
- Battaglia di Lissa
- La pace di Vienna
Capitolo ottavo: Ultima ripresa rivoluzionaria
- Ultima reazione brigantesca a Palermo
- La politica ecclesiastica
- Ministero Rattazzi
- Mentana
- Contraccolpi parlamentari
- Ultimi conati mazziniani
Capitolo nono: La crisi finanziaria
- L'ambiente economico
- Quintino Sella
- Il pericolo del fallimento
Capitolo decimo: La presa di Roma
- Rivalità della Francia colla Prussia
- Fine del papato temporale
- Guerra Franco-Prussiana
- Esitazioni monarchiche
- Annessione di Roma
- Ingresso di Vittorio Emanuele a Roma
- Garibaldi in Francia
- La legge delle Guarentigie
Capitolo undecimo: L'opposizione ideale
- Decadenza letteraria
- Giosuè Carducci
LIBRO NONO: Il secondo periodo monarchico
Capitolo primo: Le due monarchie
- Esaurimento della destra
- I prigionieri della monarchia
- Ultimo ministero Minghetti
- Avvento della sinistra
Capitolo secondo: La conquista africana
- Attrazione della storia europea
- Influenza europea sull'Africa
- Iniziativa italiana
- Difficoltà diplomatiche
- Battaglia di Dogali
Capitolo terzo: L'Italia in Europa