VOLUME II

LIBRO QUARTO



IL RISORGIMENTO

Capitolo Primo.

I moti del 1821

Influenze europee.

L'Europa era anche più agitata dell'Italia dai moti sotterranei del liberalismo.

Il patto della Santa Alleanza uscito da una tragedia pareva prossimo ad attirarsi gli scherni di una farsa: il dispotismo dei re, per quanto agguerrito, non bastava ad atterrire la libertà dei popoli. La individualità civile e politica creata dalla rivoluzione francese col dogma della sovranità popolare, sorpassata la necessaria antitesi della dittatura napoleonica, passava dal cittadino alla nazione, dalla Francia all'Europa. Un nuovo diritto era proclamato tutti i giorni dai giornali e dalle cattedre, dalle esigenze industriali e commerciali, politiche e sociali. La rivoluzione francese avendo più o meno rivelato se medesima a tutti i popoli, ognuno di essi impadronendosi del proprio problema badava a trovarne la soluzione. E il problema era il medesimo per tutti attraverso ogni differenza di grado: emanciparsi dal passato costituendosi nell'indipendenza e nella libertà e mutando i propri despoti in funzionari.

La Carta conquistata dalla Francia nella propria sconfitta metteva il principio dell'elettorato popolare al disopra della monarchia: questa per combatterlo si logorerebbe fatalmente; mentre la nazione, percorrendo in mezzo secolo tutta la gamma delle monarchie costituzionali quasi a convincere il mondo della loro inconciliabilità colla moderna libertà, riconquisterebbe la republica. L'Inghilterra, rappresentante di un parlamentarismo nel quale la sovranità nazionale era ancora limitata al doppio patriziato dei lords e dei ricchi, guadagnata al contagio della democrazia francese, si preparava con discussioni di popoli e reazioni di governo alla grande rivoluzione legale del 1829; l'Irlanda s'insanguinava nell'eroica caparbietà di una emancipazione mal definita; interclusi dalla Russia dall'Austria e dalla Turchia, i Principati Danubiani, quasi anella fracassate dell'immenso dragone slavo, erano agitati da moti convulsi di congiunzione e cercavano sottrarsi alla tirannia turca invocando la libertà francese. Erano popolazioni quasi barbare che si avventuravano alla libertà coll'energia di una indipendenza selvaggia, mescolando sentimenti e tradizioni medioevali ad istinti meravigliosi di modernità. Dopo l'antica civiltà del Mediterraneo e del Baltico fermentava in essi quella del mar Nero. La Slavia del sud, avanguardia della Slavia del nord, combatteva precipuamente Turchia ed Austria, il potere più barbaro e la potenza più dispotica d'Europa, le due negazioni più assurde dell'individualità cristiana e moderna.

La Grecia, piccola, smembrata, appena colla popolazione d'una grande città, senza denaro e senz'armi, si scagliava sull'immane colosso dei Dardanelli: tutti i suoi figli erano eroi. Gli antichi poemi di Omero ammutolivano agli echi delle nuove gesta: le vecchie storie leggendarie diventavano pedestri dinanzi ai racconti delle presenti imprese; persino la tragedia napoleonica nella sua vastità non uguagliava questa angusta epopea, nella quale tutto un popolo si mutava in esercito, mentre tutte le sue città affogavano nel sangue, e flottiglie di brulotti incendiavano le armate nemiche incalcolabilmente numerose, e falangi di donne superavano d'ardimento gl'invincibili battaglioni dei klefti.

La Spagna si ribellava contro il tradimento di Ferdinando VII, re così ribaldo che al suo paragone quelli d'Italia sembravano magnanimi. Quiroga e Riego alla testa di una insurrezione militare lo forzano al rispetto della costituzione proclamata spontaneamente dalla nazione nel 1812 durante l'interregno e da lui accettata al ritorno nel 1814. Ma il costituzionalismo è impossibile anche alla Spagna troppo incolta e bigotta; quindi il partito liberale si spezza e, mentre i moderati aggirati dalla corte e dal clero mirano a sminuire rivoluzione e costituzione, i radicali esasperati mantengono la rivolta. La guerra civile avvampa sublime di orrore e di eroismo. Il moto si propaga al Portogallo: il colonnello Sepulveda vi si solleva, i costituzionali entrano trionfanti a Lisbona, e Giovanni VII vi sbarca dal Brasile per accettare la costituzione, lasciando quello emanciparsi e proclamare don Pedro imperatore.

L'Europa freme. La Polonia, ostinata nel sogno assurdo d'una rivoluzione aristocratica, nella quale al popolo viene sempre offerto il dispotismo dei propri signori in cambio della tirannide russa, affila le armi; la Germania si agita nelle società segrete, scuotendo con brividi poderosi i limiti dei propri molteplici stati come disadatte congiunture di troppo vecchia armatura.


La rivoluzione napoletana.


L'Italia, sempre da tre secoli accodata all'Europa, rabbrividisce al vento della rivolta, che soffia da tutte le sue sponde e discende dalle Alpi a sferzare i vapori del suo cielo sonnolento.

La carboneria cresciuta ad incredibile numero di adepti non poteva non risentirne. Nella dissoluzione dell'immensa unità, napoleonica, fra il doppio crepuscolo di un'epoca che finiva e di un'altra che incominciava, dopo aver sopportato la protezione e la persecuzione regia, non aveva ancora trovato il problema pel quale era nata. Il cosmopolitismo, togliendole la precisione degli obiettivi e il carattere nazionale, invece di una forza diventava una debolezza. Quantunque si reclutasse anche nelle file del popolo e fosse borghese per studi e tendenze, subiva ancora così il fascino dell'aristocrazia da cercare in essa i propri capi. Quindi anelava a sostituirsi nel governo anzichè a vera emancipazione politica; i suoi più illustri capitani furono Carlo Alberto di Carignano e Francesco duca di Calabria; avevano scritto sulla propria bandiera - Indipendenza, Libertà, e poi Unione invece di Unità - sfuggendo così al problema primordiale della ricostituzione italica. Del come stringere la federazione o fondare una republica una monarchia unitaria non discuteva, quasi di secondaria conseguenza lasciata alla decisione del capo al capriccio della vittoria. Moralmente la carboneria era nobile e generosa; ma intellettualmente retriva, affettava il classicismo nelle idee e nelle forme letterarie, romanticheggiava sulla tradizione italica, invanendo nel segreto teatrale delle proprie iniziazioni e nella rapida diffusione delle vendite. Se la sua forza avesse corrisposto alla sua cifra, la quale raggiungeva quasi il milione, e la sua fede fosse stata profonda, avrebbe potuto, mutandosi in esercito al momento della riscossa, assicurare la rivoluzione: invece non ne fu nulla. Questa cominciò come una insubordinazione, visse fra una festa e un'accademia, rinnegò nell'insulsaggine di un egoismo regionale l'unità italiana, si affidò ingenuamente ridicola alla parola di un re spergiuro, per finire fortunatamente in un massacro di reazione, che la riabilitò avvalorando con ineffabili dolori il carattere politico nazionale.

Come sètta politica la sua debolezza stava nel suo stesso numero eccessivo, giacchè prima di raggiungerlo avrebbe dovuto affermarsi per insurrezione; e peggiori erano le qualità dei suoi adepti in gran parte preti. Questo invece di essere un carattere religioso significava che l'antinomia del vaticanismo colla rivoluzione non era ancora sentita.

I primi fatti avvennero a Napoli. Guglielmo Pepe, strenuo soldato ma inetto generale e più inetto politico, vi sfoggiò teatralmente. Compromesso quasi da fanciullo in due cospirazioni, processato e gittato nelle orribili fosse del Marittimo e della Favignana, poi soldato a Marengo e nelle Spagne; di republicano mutato in costituzionale; colonnello al servizio di re Giuseppe e di Murat; contro questo mescolato nelle ultime cospirazioni per strappargli una costituzione; finalmente rimasto generale sotto Ferdinando di Borbone, era l'eroe della carboneria. Lo splendore delle sue gesta soldatesche, le sue prime congiure, la sua ultima conversione al costituzionalismo, i suoi pregi e i suoi difetti, lo destinavano a rappresentare il nuovo moto. Si sapeva che Pepe nel 1819, quando Francesco I d'Austria e Metternich vennero ospiti del re Ferdinando, aveva tramato di catturarli tutti ad una rivista che poi fallì. Ma la carboneria, dopo la costituzione della Vendita suprema di Salerno, incalzata dalla rivoluzione spagnuola, affretta le disposizioni per la rivolta: tradita da un miserabile Acconciagiuoco le precipita: l'esercito è quasi tutto carbonaro. Due sottotenenti del reggimento Borbone cavalleria, Michele Morelli e Giuseppe Silvati, sospinti dal canonico Menichini, lo sollevano al grido di: viva Dio, viva il re, viva la costituzione, ma il popolo non capisce quest'ultima parola. Il tenente colonnello Concili aderisce, si canta trionfalmente col vescovo il Te deum in Avellino. Di qui la colonna degli insorti s'avvia a Monforte, altri canonici carbonari la rinfiancano con bande raccogliticce; la Corte sgomentata deputa Pepe ai ribelli, poi, malcerta della sua fede, manda loro il generale Carrascosa senza soldati. Questi tratta coi rivoltosi aspettando rinforzi per batterli, ma l'insurrezione si propaga, altri reggimenti si ribellano eccitati da Pepe, la Corte trema, e cinque settari col duca Piccolelli alla testa, quasi nel finale di un melodramma, vi penetrano intimando al re di concedere la costituzione fra tre ore.

E Ferdinando la dà.

Allora è un'ebrezza: Pepe, dichiarato salvatore del re, fa retrocedere i calabresi già in marcia su Napoli, quindi vi entra, 9 luglio 1820, caracollando alla testa degli insorti fra nembi di fiori e cantici di osanna. L'eccitabile immaginazione del popolo lo paragona a Murat. Disceso a corte, bacia umilmente la mano al vecchio re Ferdinando che lo abbindola con volgari complimenti.

La costituzione giurata all'indomani dal re con invocazioni di fulmini divini sul proprio capo, se mai avesse a tradirla, esalta al delirio le fantasie: la costituzione era spagnuola e si era voluta fanaticamente quella, benchè nessuno la conoscesse e in tutta Napoli solamente l'ambasciatore spagnuolo ne avesse una copia. La Corte s'inganna, la carboneria s'illude, il popolo festeggia. Il poeta Gabriele Rossetti lancia la più bella delle sue odi a questa incruenta rivoluzione senza accorgersi che se adesso non vi è stilla di sangue su tante migliaia di spade, nel giorno prossimo della battaglia le stesse spade ricuseranno d'insanguinarsi. Tutti si affigliano alla grande setta: il duca di Calabria vi si fa iniziare da monsignor Marcello, i lazzari vi si arruolano a frotte. Ma la camorra, eterna peste di Napoli, vi si mesce, vendendo diplomi di carboneria agli stessi sanfedisti, intenti così al doppio scopo di salvarsi da possibili vendette e di penetrare nella rocca del nemico.

La diplomazia estera osteggia la rivoluzione: Sir William A' Court e il duca di Narbonne la disonorano nei propri rapporti, onde a mezzo agosto due flotte francesi ed inglesi compaiono nelle acque di Napoli per difendere la famiglia reale. I grandi maestri della carboneria congregata per avvisare ai nuovi pericoli ordinano ai carbonari e alle milizie di muovere su Napoli, e stabiliscono un comitato di salute publica di cinque membri col potere degli Efori spartani, eterno ricordo classico, che vigilino sui generali, sui ministri, sulla corte, su tutti.

Ma siccome la polizia reagisce contro la setta arrestandone qualcuno, questa non ardisce spingersi all'insurrezione.

Intanto la Sicilia, ostinata nella propria autonomia e sobillata dalla corte, profitta della rivoluzione di Napoli per ribellarsi; orribili scene di sangue disonorano Palermo. Mentre il re riconcede la costituzione del 1812, e il popolo reclama quella spagnuola proclamata a Napoli, mirando precipuamente a costituirsi in stato indipendente sotto la stessa dinastia, la guerra scoppiata fra soldati di presidio e popolani costringe il nuovo governo di Napoli ad intervenire. Le antinomie politiche si aggrovigliano: la Sicilia vuole essere indipendente secondo le tradizioni federaliste italiane e non comprende che a questo le occorrerebbe prima decretare la decadenza dei Borboni ed eleggersi altro re o costituirsi in repubblica; a Napoli la rivoluzione inspirata da un vago liberalismo cosmopolita, che sino alla vigilia della sommossa aveva sempre parlato d'Italia, si chiude con insipiente egoismo nella formula regionale contro le proprie inconscie tendenze nazionali sino a ricusare, per timore di Roma, la fusione con Benevento e Pontecorvo, città pontificie internate nelle terre napoletane. Ma verso la Sicilia, che vorrebbe usare a Napoli il trattamento da questa tenuto coll'Italia, l'antico orgoglio di capitale protesta in nome dell'unità. Così Florestano Pepe, fratello di Guglielmo, generale egli pure, viene deputato a soggiogare Palermo, e sbarca a Milazzo, s'accentra a Messina rimasta fedele a Napoli per tradizionale rivalità con Palermo. Senonchè scarso a soldati, tratta di componimento col principe di Villafranca; questi troppo ben disposto ad arrendersi è infamato subitamente dalla plebe col nome di giacobino, tanto nell'isola è ancora odiata la rivoluzione francese! Il tumulto cresce, si scarcerano i galeotti, si tempesta nelle guise più strane. Pepe, astutamente longanime, arriva nullameno a concludere un accordo, che Napoli infatuata della propria superbia di capitale cancella, mandando il Colletta, generale che poi doveva rimanere illustre come storico, a schiacciare la ribellione.

Il Colletta vinse, disciolse la giunta ribelle, fe' giurare la costituzione spagnuola, convocò gli elettori, ma indarno. Nella riottosa isola solo i pubblici funzionari giurarono e votarono: i deputati al parlamento di Napoli ricusarono il mandato.

Intanto a Napoli la rivoluzione stagna. Malgrado le dichiarazioni di cosmopolitismo e di nazionalismo la carboneria, anzichè eccitare la rivolta nel resto d'Italia, si racchiude nel regno come nella speranza di salvarsi, quindi fallisce al di fuori e peggiora al di dentro. Le vanterie teatrali della setta sull'esempio dei frammassoni di Spagna trasformano la Vendita di Napoli in un'assemblea permanente rivale del parlamento: rivoluzione di setta che pretende naturalmente a governo di setta! Il parlamento ricalcitra, ma ricusando il consiglio impostogli di armare i carcerati non osa e non può accettare il conflitto. Le minaccie d'Europa aumentano lo scompiglio; solo la Spagna, i Paesi Bassi, la Svezia e la Svizzera hanno riconosciuto il nuovo governo; la Francia, malgrado ogni speranza di giovarsene per riacquistare in Italia la perduta influenza, rattenuta dal principio legittimista del proprio governo, tergiversa; l'Inghilterra s'astiene e s'aggronda; lo czar sfugge alle insistenze liberali di Capodistria per arrendersi ai maneggi di Nesselrode e di Metternich, il quale ricusa di ricevere a Vienna l'ambasciatore napoletano. L'Austria, sempre insidiosa, sollecita tutte le corti italiane a dichiarare che la rivoluzione, mettendole in pericolo, accetteranno una guarnigione austriaca; e queste consentono alla prima parte della dichiarazione, ricusando il pericoloso presidio. S'adunano congressi: a quello di Troppau (ottobre 1820), non ostante le ipocrite riserve dell'Inghilterra, si afferma il principio dell'intervento armato in tutti gli stati, nei quali la rivoluzione rovesci il governo legittimo; quindi all'altro di Lubiana, cui intervengono il cardinale Spina per la Santa Sede, il conte d'Agliè e il marchese di San Marzano pel Piemonte, il principe Neri Corsini per la Toscana, il conte Molza per Modena; si stabilisce la guerra contro Napoli. Solo il legato pontificio ne dissente, per timore che le truppe austriache, passando sul territorio romano, non vi si fermino.

Re Ferdinando, riuscito nei preliminari di questo secondo congresso a farvisi invitare dagli alleati, ottiene il permesso di andarvi a patrocinare la causa della rivoluzione dalla miracolosa insipienza del proprio parlamento. Lo stesso Poerio decide l'assemblea a questa scempiaggine: Guglielmo Pepe francamente convertito al costituzionalismo rimane fedele al re, il generale Carrascosa si dichiara persino pronto a ripetere la scena del diciotto brumaio contro l'assemblea.

Intanto giù nella piazza si urla freneticamente: la costituzione di Spagna, o morte!

Ferdinando parte. Appena giunto in Firenze vi rinnega col duca la giurata costituzione, scusandosene come di violenza patita: da Lubiana manda il conte Del Gallo a significare il volere degli alleati; il reggente si trincera dietro la volontà del padre per sottrarsi a quella del parlamento, che convocato a sessione straordinaria, superando se stesso nell'ingenuità, dichiara il re prigioniero e coartata la sua lettera al figlio.

La guerra è dichiarata con frasi epiche, ma l'esercito, quantunque numeroso, poco vale: gli aiuti del generale Wilson inglese, offerentesi di comporre 4 reggimenti di volontari, per non essere stati accolti in tempo, non giovano; i volontari accorsi da altre parti d'Italia non bastano; i generali sono discordi e non sinceri. Carrascosa, regio di sentimento, sostiene la difensiva; Pepe, costituzionale inetto ma soldato impetuoso, declama di eroismi disperati; il Colletta ministro della guerra, invido di Pepe e sfiduciato forse di ogni resistenza, soffiando sul loro dissidio, disunisce la loro azione. Pepe, spintosi con mossa avventata su Rieti, è battuto: il corpo di Carrascosa si sbanda all'avvicinarsi del nemico; gli austriaci entrano in Napoli senza colpo ferire, mentre Poerio con incredibile puerilità protesta contro l'invasione, dichiarando «incostituzionale e quindi impossibile traslocare il parlamento senza il concorso del potere esecutivo, invocando la saviezza di sua altezza reale e del suo augusto genitore».

Questa fu la suprema affermazione della rivoluzione napoletana.

Ferdinando ritornato livido d'ira richiama il Canosa: grandinano le condanne di morte; nuovi patiboli s'inzuppano del sangue dei più generosi rivoluzionari che non seppero o non vollero fuggire; l'esodo degli esiliati, respinti dalle frontiere pontificie con cattolica crudeltà e vaganti nel terrore dell'abbandono e della morte, desola le provincie; la polizia infellonisce con sì sfacciata barbarie che lo stesso generale austriaco Frimont minaccia il re di ripassare la frontiera se non cacci il Canosa. E questi va ministro presso non migliore tiranno, Francesco IV di Modena.

Così finiva questa rivoluzione settaria, egoisticamente regionale malgrado alcune prime intenzioni nazionaliste, ferocemente unitaria contro la Sicilia, scioccamente costituzionale nella fede al re, ridicolmente guerriera nella resistenza all'invasione, senza che il popolo delle provincie e delle città v'intendesse cosa alcuna.

Rivoluzione piemontese.

Nessuno degli errori della rivoluzione napoletana fu evitato in Piemonte.

Bonapartisti e carbonari l'accesero senza accordi con Napoli, mentre la più volgare esperienza politica avrebbe dovuto suggerirli anche senza il lontano magnanimo scopo dell'unità d'Italia. Napoli aveva armato quarantamila uomini alla difesa, e quarantamila erano gli austriaci all'attacco: piombare alle spalle di questi ringagliardendo gli altri con una diversione, sollevare la Lombardia, gettare un grido alle Romagne sempre pronte ad ogni moto, tendere la mano alla Toscana, congiungere con una medesima parola di riscossa Venezia e Genova, antiche rivali di mare ora affratellate dalla sventura della servitù, doveva essere l'inevitabile programma della rivoluzione piemontese dopo gli errori commessi a Napoli. Invece non solo non si ebbe idea di una vera rivoluzione, ma nemmeno un concetto dell'impresa che ne uscirebbe.

Siccome qualche diplomatico come il Crotti di Brusasco, legato sardo a Pietroburgo, per ravvivare la tradizione della monarchia piemontese, consigliava al re di prendere con larvate riforme costituzionali la direzione delle forze liberali latenti nella penisola, così l'agitazione rivoluzionaria cominciò colla forma ingenua di due indirizzi al sovrano. Si sperava in tal modo di strappargli la benda dagli occhi e di persuadergli la costituzione spagnuola. Poi l'11 gennaio 1821 gli studenti di Torino tumultuavano per l'arresto di alcuni di loro comparsi al teatro d'Angennes con berretti rossi alla greca. La carboneria, sempre più accademia che setta, bizantineggiava ancora sulla scelta della costituzione da proclamarsi, perdendo tempo e circostanze per l'insurrezione: finalmente mandava deputati alla grande Vendita di Parigi, specie di sinodo europeo, cui convenivano i liberali di Spagna, i radicali d'Inghilterra, l'eterie di Grecia e ogni altra setta politica. I deputati, traditi forse dalla polizia francese, furono catturati al ritorno e i disegni di ribellione scoperti.

Carlo Alberto di Carignano, presunto erede dei Savoia rimasti tutti senza prole, era da tempo il capo e l'eroe predestinato della carboneria piemontese. Aveva ricevuto educazione cittadinesca a Ginevra; a 15 anni era entrato volontario nell'esercito napoleonico; poi richiamato dalla restaurazione del 1814 sui gradini del trono e odiato dalla corte meno ancora per la sua inevitabile qualità di erede che per la sua affettazione di sentimenti liberali, pareva a tutti l'uomo del destino italiano. Monti, servile ed incorreggibile retore, lo aveva già salutato come l'astro sorgente della patria: più tardi un altro poeta doveva colpirlo col fulmine di una maledizione che scosse tutta Italia. Carlo Alberto, senza fede nella libertà e senz'amore per la patria, tergiversava fra la gloria di compiere una rivoluzione e il timore di perdere un trono. La sua indecisione finiva di paralizzare il processo già lento della carboneria. La corte avvertita non osava risolversi; l'Austria più pronta mandava il generale Bubna a chiedere di occupare Alessandria: a questa domanda il re, già fanaticamente ostile alla rivoluzione tramata nel suo nome per farlo re costituzionale di tutta l'alta Italia, si riaffermava nei propositi di resistenza. Dalla Lombardia l'altra setta della federazione italiana, raccolta sotto la maschera della scienza o della letteratura nelle sale dei conti Gattinara e Confalonieri, spingeva il Piemonte all'insurrezione giurando seguirlo, ma non voleva essere prima all'esempio. Finalmente Alessandria si solleva al grido di: viva la costituzione, morte ai tedeschi! costituendo una Giunta della Federazione italica. Asti, Pinerolo ed altre città sono trascinate nel moto: a Torino un colpo di mano rende i federati padroni della fortezza. Carlo Alberto, che nel vile egoismo dell'anima dubbia aveva già tradito i rivoluzionari rivelando i loro disegni al ministro della guerra, non può sottrarsi alla propria parte di cospiratore; e mentre Torino si decide davvero in favore della rivoluzione, e Vittorio Emanuele si dimette per non rispondere all'appello che lo proclama re dell'alta Italia, diventa reggente per Carlo Felice succeduto al trono e residente in Modena.

Le antitesi della sua posizione come rappresentante della dinastia e delegato della rivoluzione trionfante, finiscono di scombuiarlo. Incalzato a scoprirsi, indugia, largisce amnistia come di una colpa alle truppe che lo hanno sollevato al nuovo governo; finchè, vinto da pressioni di ogni sorta, promulga la costituzione spagnuola «salvo le modificazioni che dalla rappresentanza nazionale in una con Sua Maestà il re verranno deliberate». Si crea una giunta provvisoria di governo, chiamando a capo del nuovo ministero Ferdinando Dal Pozzo, un regio che, dopo aver giustificato il tradimento di Carlo Emanuele III al Giannone, doveva poi vendere la penna all'Austria scrivendo un libro Sulla felicità che gli italiani possono e debbono dal governo austriaco procacciarsi.

Ma Carlo Felice, più retrivo e tiranno di Vittorio Emanuele, ordina alla truppa di concentrarsi a Novara sotto il generale Latour, fulmina da Modena condanne di ribellione contro tutti i sudditi aderenti al nuovo governo. Carlo Alberto, sempre falso ed incerto, non ha ancora nè convocati i collegi, nè dichiarata la guerra all'Austria; posto quindi nella necessità di ribellarsi o di sottomettersi, non sa essere nè francamente ribelle, nè astutamente traditore. Ricusa di ricevere Santarosa venuto da Alessandria per eccitarlo alla guerra; poi, vedendolo sostenuto dalla pubblica opinione, lo nomina ministro della guerra, e la medesima notte, fingendo di mandare il cardinale Morozzo a Carlo Felice per indurlo a mutar consiglio, fugge a Novara presso il generale austriaco Bubna, donde emana un proclama di ubbidienza al nuovo re.

Era un'infamia ed avrebbe potuto essere una fortuna. Ma la rivoluzione, libera dagl'intoppi della reggenza, non osa nè il proprio principio, nè i propri modi. Tutto peggiorava intorno ad essa: lo czar ordina al generale Jermolov di mettersi in marcia; quindici mila austriaci si avanzavano chiamati da Carlo Felice. A Torino non si pensa nemmeno a bandire la guerra popolare e si lasciano al conte Latour il governo di Novara e al conte di Andezeno quello della Savoia, sebbene entrambi nemici della rivoluzione; i carabinieri della capitale minacciano di sollevarsi in favore dell'assolutismo, il popolo assiste spettatore; Genova rivale tumultua per separarsi dal Piemonte; Nizza, ricovero di Vittorio Emanuele, tace; e le notizie di Napoli, finendo di prostrare gli spiriti, persuadono la sommessione. La Giunta incapace di alzarsi al disopra della legalità costituzionale decretando la decadenza del re, discende a trattare col conte Mocenigo, ambasciatore russo, del perdono, e avrebbe acconsentito ad ogni più duro patto senza la nobile fierezza del Santarosa, che dopo aver cercato inutilmente di risollevare gli animi perfino con false novelle d'insurrezioni lombarde e di vittorie napoletane, vedendo che tutto è perduto, vuole almeno salvare l'onore. E il suo fu salvo; ma la rivoluzione si disciolse dopo lo scontro di Novara, nel quale i generali Ferrero e San Marzano furono dispersi dopo fiacca resistenza dalle truppe austriache. Il 9 aprile il generale Latour entrava trionfante in Torino, mentre Carlo Alberto, salutato oltraggiosamente dai tedeschi col titolo di re d'Italia, trattato come valletto da Carlo Felice che respingesse le sue lettere sbattendole sul volto dei corrieri, riparava in Firenze sotto la protezione dell'ambasciatore francese, malgrado questi dichiarasse di accordargliela solo nel nome della legittimità.

Repressioni assolutiste.

Frattanto la Lombardia, per non aver osato muoversi, subiva egualmente i rigori della più feroce repressione. Già ai primi rumori della rivoluzione napoletana, l'Austria dichiarava rei di alto tradimento tutti i carbonari, e correi quanti omettessero di denunciarli; quindi si moltiplicarono gli arresti, mirando a colpire gli uomini più celebrati. Alessandro Andryane affigliato alla società dei maestri sublimi fondata a Ginevra da Buonarroti, còlto a Milano con tutte le carte, compromise un numero stragrande di liberali; altri accusarono Carlo Alberto di averli denunciati; i nuovi inquisitori Bolza e Salvotti peggiorarono con incredibili perfidie il disastro. Fra gli arrestati più insigni furono Pietro Maroncelli, Silvio Pellico, Melchiorre Gioia, Giandomenico Romagnosi, il conte Giovanni Arrivabene, il conte Confalonieri, il principe Pallavicini. Nel terribile dramma non tutti perirono: Gioia e Romagnosi si salvarono, Laderchi s'infamò eternamente come delatore, Silvio Pellico, Maroncelli, Oroboni, Foresti, don Fortini, Confalonieri furono seppelliti vivi nella rocca di Spielberg. In Piemonte le condanne di morte salirono a novantadue, per fortuna quasi tutte contumaciali; molte furono eseguite in effigie e fra esse quella del principe della Cisterna, una discendente del quale doveva poi arricchire coi propri milioni un nipote di Carlo Alberto. Più terribili ancora furono le misure contro gli uffiziali che avevano partecipato alla rivoluzione.

Negli Stati pontifici, focolare del Sanfedismo, la repressione scoppiò senza che rivoluzione vi fosse stata: di quattrocento processati molti vennero condannati specialmente per opera del Rusconi e del Sanseverino, legati a Ravenna ed a Forlì, alla pena capitale commutata poi nella reclusione. In Toscana il granduca non volle processi; Maria Luigia invece li permise a Parma e vi furono coinvolti Ferdinando Maestri e Jacopo Sanvitale illustri professori, cui le pene vennero commutate in esilio. A Modena la reazione s'infamò nel supplizio del prete Andreoli, simpatica figura di apostolo, che aprì il martirologio dei preti patrioti. Gli alleati, commossi al rapido trionfo, lo ascrissero «al terrore, onde la provvidenza colpì le ree coscienze», ed annunziarono con ingenua baldanza all'Europa che d'ora innanzi «i cambiamenti utili o necessari nelle legislazioni e nelle amministrazioni non devono emanare che dalla libera volontà, che Dio rese responsabile del potere».

Così l'assolutismo, separandosi dal diritto, giustificava qualunque futuro eccesso della rivoluzione.

L'Italia era oramai tutta soggetta all'Austria. Re Ferdinando, dopo aver nominato con abbietta gratitudine il generale austriaco Frimont principe di Antrodoco con duecentoventimila ducati di dote, per timore di nuovi pronunciamenti militari sciolse l'esercito affidando la custodia del regno a quattro reggimenti svizzeri e a trentacinquemila austriaci. Alla sua morte nel 1826 Carlo Felice, per compiacere a Metternich, si affrettò a persuadere re Francesco di prolungare l'occupazione austriaca, ma questi, sicuro del proprio stato e corto a quattrini, non potè consentirvi: nullameno il regno di Napoli dipendeva direttamente dall'Austria. A peggio ancora, per opera di Carlo Felice, era disceso il Piemonte. Il nuovo re, tirannicamente inflessibile coi sudditi, fu così servile verso l'Austria che non solo il generale Bubna, occupata Alessandria, potè mandarne la chiave della cittadella all'Imperatore, e questi pubblicarne la notizia nella gazzetta ufficiale, ma dopo tale insulto il legato sardo, conte di Pralormo, ebbe incarico di offrire all'Austria i più amichevoli accordi per mantenere la pace nella penisola contro lo spirito rivoluzionario. A questo intento Metternich propose un supremo magistrato d'inquisizione a Modena per cercare ed impadronirsi delle fila della cospirazione: i re di Sardegna e di Napoli si affrettarono ad aderire; ma le corti di Toscana e di Roma, sempre diffidenti dell'ingerenza, vi si ricusarono.

Metternich portò la questione al congresso di Verona.

Questo terzo congresso, come complemento di quelli di Troppau e di Lubiana, avrebbe dovuto decidere su la rivoluzione di Spagna, l'indipendenza delle colonie spagnuole, la tratta dei negri, la pirateria d'America, le controversie della Russia colla Turchia per l'Oriente, la rivoluzione greca e le condizioni interne dell'Italia.

Ma a questo congresso di cristiani, nel quale il pontefice di Roma aveva per legato il cardinale Spina, gli ambasciatori greci non furono nemmeno ricevuti. Gloria d'eroismi, santità di religione, ineffabili dolori di stragi patite, nulla valse a vincere l'egoismo politico dei congregati, tementi in ogni moto di popolo una ribellione al diritto divino.

Per l'Italia si decise lo sgombero degli austriaci dal Piemonte, che lo sollecitava meno per alterezza di regno che per sgravio delle finanze; poi si volle imporre alla Svizzera l'infamia di consegnare tutti i fuorusciti politici rifugiativisi sulla fede dell'onore republicano. L'accanimento del legato sardo conte Della Torre nel triste proposito, e la facile adesione di Chateaubriand, il nobile bardo cristiano che aveva saputo resistere alla seduttrice prepotenza di Napoleone, rivoltarono ogni spirito onesto. La Svizzera resistette degnamente; la Toscana, meno forte di essa, fu anche più magnanima, e respinse la codarda persecuzione ai vinti della rivoluzione con parole che parvero eco dei secoli morti, quando i magni spiriti de' suoi cittadini republicani rispondevano con invincibile orgoglio alla superbia dei re. Quindi il supremo magistrato d'Inquisizione in Italia fallì. Il cardinale Consalvi e il Fossombroni, quegli da Roma e questi da Firenze, vi si opposero con fortunata costanza. Per Napoli si convenne di ridurre l'occupazione a soli 35,000 austriaci, e che le due consulte di stato, residenti a Palermo e a Napoli, si accentrassero dietro istanza del principe Ruffo in quest'ultima, unica capitale del regno.

Su tutti gli altri argomenti poco si discusse e meno si decise: la tratta dei negri fu condannata platonicamente; sulle sollevazioni dell'America, malgrado le insistenze dell'Inghilterra, non fu preso alcun partito; su quella di Spagna si permise alla Francia la malaugurata spedizione del duca di Angoulème per dare alla inonorata orifiamma dei Borboni il battesimo della vittoria. Chateaubriand perdette in quest'impresa tutta la propria gloria di poeta, giacchè, sperando di riconciliare i Borboni colla Francia sul campo del trionfo, li rese strumenti odiosi della Santa Alleanza contro un popolo eroicamente ribelle al peggiore dei tiranni.

In Spagna erano già accorsi da ogni parte d'Italia i più generosi fra i vinti rivoluzionari, quasi a punire se medesimi di aver fallito nelle patrie rivoluzioni e ad apprendere dal più indomabile fra i popoli d'Europa il segreto della resistenza invincibile. Gl'italiani, secondo la dolorosa tradizione che li aveva sempre resi incomparabili come avventurieri e partigiani, si copersero di gloria; il nome d'Italia fu acclamato con ammirazione dagli spagnuoli così alteri del proprio coraggio, mentre da lungi con più epico grido rispondevano i greci raggruppati intorno a Santorre Santarosa e ad altri italiani. Ma nel campo dei crociati francesi che s'avanzavano sotto Madrid gridando: muoia la costituzione, viva il re assoluto!, Carlo Alberto di Carignano, volontario della tirannide, combatteva nuovamente contro i traditi compagni di cospirazione, per ottenere dalla Santa Alleanza il prezzo del primo tradimento raddoppiato dall'infamia di tale espiazione.

E vinse, e il papa, italiano degno di lui, mandò al duca di Angoulème, generale da palcoscenico, come premio delle vittorie spagnuole il berrettone e lo stocco che avevano santificato i trionfi di Giovanni d'Austria, di Sobieski e di Eugenio di Savoia contro i turchi.

Così cessarono i moti italiani del '20 e del '21. La insurrezione delle Calabrie aveva provocato la rivoluzione di Napoli, questa affrettata l'altra di Piemonte; la Lombardia inerte aveva lasciato agli austriaci ogni facilità nelle repressioni, Genova e Venezia vi avevano assistito spettatrici, la Toscana calma nella propria sicurezza, Parma sussultando appena, Modena rabbrividendo, il regno pontificio nella più svogliata disattenzione. L'Austria spalleggiata dalla Santa Alleanza doveva vincere militarmente, ma vinse anche politicamente. La carboneria non ebbe nè destrezza alla preparazione, nè audacia allo scoppio, nè dignità nella sconfitta. La rivoluzione parve a tutti quello che era, cioè una sommossa militare svanita al primo giungere in piazza. Vi si imitava la Spagna, si attendevano ordini dalla Vendita di Parigi, si proseguì a sperare negli aiuti della Francia. Il popolo, non consultato prima, non fu armato poi: Napoli non pensò a Torino, Torino a Milano, Milano ad alcun'altra città. L'Italia era così poco persuasa della propria nazionalità politica che i rivoluzionari, malgrado l'affratellamento delle sètte, entrando nella scena politica, ricadevano nelle abitudini del regionalismo.

L'Austria, militarmente poco stimata fra le memorie ancora sfolgoranti della grande epopea napoleonica, distendendo il proprio protettorato sull'Italia, vi aveva adottato la più sapiente delle politiche. Inesorabile ai liberali e ai demagoghi, frenava contemporaneamente gli eccessi della controrivoluzione, imponendo a Ferdinando di Napoli per due volte di cacciare il sanguinario Canosa: abbassava l'aristocrazia, seduceva la borghesia colla regolarità di un'amministrazione superiore a quella di ogni principe italiano, atterriva tutti colla vigilanza instancabile di una polizia, alla quale i codici non erano ostacolo e denari ed armi non mancavano mai. Il congresso di Vienna, dopo quelli di Troppau e di Lubiana, aveva persuaso ai popoli che ogni loro moto sarebbe inesorabilmente represso: ogni rivoluzione avrebbe quindi dovuto sentirsi sorella delle altre, invece di isolarsi quasi a cercare salute nella propria piccolezza.

L'esercito austriaco di occupazione si mostrava ammirabile per rispetto alle popolazioni, mentre i francesi della prima rivoluzione e dell'impero le avevano manomesse: i funzionari civili, ancora più disciplinati, non avevano iattanza di padroni, ma la glaciale terribilità di sudditi usi a non discutere mai gli ordini del sovrano e ad eseguirli contro tutti. Infine l'Austria assicurava la pace ardentemente voluta da tutte le classi, dispensando o quasi dalla coscrizione e rendendo ridicola alla ragione volgare ogni speranza di rivolta colla strapotenza del proprio impero. I due elementi d'insurrezione, pretese aristocratiche ed idee liberali, erano del pari combattute; distrutta ogni forma di vita politica, i municipii così schiavi da non poter prendere alcuna iniziativa. Con abile intendimento la letteratura fu da essa talmente disprezzata che il pensiero stesso ne soffrì: l'istruzione discese a mestiere meccanico. Gli avvocati, sempre pericolosi come classe e per lo studio del diritto e per la clientela degli affari, perdettero il diritto di arringa, per discendere al grado di procuratori soggetti alle regole di una carriera burocratica come i giudici. Quindi proibito il viaggiare a tutte le persone sospette, diffranta la società in un atonismo che lasciava ogni individuo solo contro la vasta organizzazione e la granitica compattezza dell'impero.

Era più di quanto bastava. L'esaltazione lasciata dalle idee rivoluzionarie e dalle imprese napoleoniche negli spiriti italiani non poteva resistere nè al freddo del nuovo ambiente, nè alla logica di un sistema opponente sempre la più innegabile realtà alla più incerta delle ipotesi.

Ma questa compressione, assicurando all'Austria il presente, le preparava un terribile futuro. Le franche dichiarazioni del congresso, separando i re dai popoli e il diritto divino dal diritto popolare, rendevano più chiare le idee nella coscienza dei popoli. La lotta si presentava inevitabile. La vita, scissa nella propria unità, ricominciava il processo dialettico della propria ricomposizione, e poichè tutto era negato dall'autorità dei padroni, i servi si persuadevano della razionalità di ogni muta aspirazione. La coscienza, costretta a nascondersi dietro le proprie porte, vi ricostruiva segretamente come ai primi tempi del cristianesimo un nuovo mondo ideale, riconciliandovi le antitesi storiche contrastanti al di fuori la vita dell'azione. Quindi la poesia e l'attività delle sètte non scemò. Un elemento tragico purificò la giovinezza di tutti coloro, cui l'eccellenza della natura non consentiva di putrefarsi nella inazione o di obliarsi nella volgarità della vita materiale. L'idea dell'unità d'Italia fu appunto suggerita dall'uniformità del dispotismo; non essendovi più alcuno Stato di carattere italiano per alzare contro l'Austria la bandiera della libertà, il popolo solo nell'unità della propria storia, della propria lingua, della propria servitù, dei propri dolori, delle proprie speranze, restava italiano. Allora ricominciò il fermento delle idee rivoluzionarie recate dai francesi della prima invasione; i prigionieri spariti nelle ròcche della Moravia, pei quali non si era osato un grido al momento della condanna, diventarono fratelli primogeniti di tutti gli oppressi; i fuorusciti corsi a combattere nella Spagna e nella Grecia giganteggiarono eroi nelle fantasie e nei racconti popolari; l'aristocrazia oppressa come il popolo gli si avvicinò; la borghesia, troppo attiva per stancarsi nelle bisogne materiali e anelante alla scienza e al potere, si dilatò riunendo in un pensiero comune i due estremi sociali; la letteratura crebbe, la filosofia si rialzò, le scienze ripresero l'interrotto lavoro. L'autorità fu tirannide straniera: il pensiero dell'indipendenza accomunò tutte le classi, ospitando nelle proprie pieghe tutte le passioni della libertà.



CAPITOLO SECONDO.

Trame ed insurrezioni del '

Incubazione liberale.

L'opposizione scoppiata in Francia fra liberali e realisti aveva aperto una palestra a tutti gli ingegni d'Europa.

Una discussione sapiente ed appassionata, vasta e minuta, caustica fino alla satira ed inesauribile come un pettegolezzo, obbligava tutti gli antichi diritti a produrre i propri titoli contro il mondo nuovo prodotto dalla rivoluzione e garantito dalla Carta. Le dispute delle Camere insegnavano ai popoli le teoriche di una sovranità popolare, che i disordini della rivoluzione e le guerre dell'impero avevano loro impedito di comprendere. Il nuovo liberalismo borghese in lotta colle ultime reazioni realiste appariva molto più bello e generoso di quanto poi doveva mostrarsi. Si reclamavano tutte le libertà, si voleva tutta l'uguaglianza legale. Gli antiquati privilegi, costretti a confessare il proprio principio, diventavano ancora più ridicoli che odiosi; il re prigioniero della Carta non era più che un funzionario insubordinato contrastandone l'applicazione, meritevole di espulsione come ogni altro se ardisse violarne i patti. L'aristocrazia, disonoratasi negli avari reclami, coi quali aveva ottenuto dalla Francia esausta un miliardo d'indennizzo, appariva codazzo di servitori a un re servo di stranieri, più straniera del re avendo per vent'anni combattuta la patria sotto tutte le insegne, ignorante di fronte alla nuova borghesia padrona di tutte le scienze, spregevole dinanzi all'esercito che un'altra aristocrazia di eroi aveva guidato alla vittoria su tutti i campi d'Europa, odiosa al popolo che l'aveva veduta fuggire ai primi gridi della rivoluzione e ritornare ai primi disastri dell'invasione. La parìa non rappresentava quindi che la corte, mentre il parlamento, per quanto l'elettorato ne fosse ristretto, rappresentava la nazione.

Aristocrazia e dinastia negavano rivoluzione ed impero: la Francia riaffermando l'una e l'altro voleva essere sovrana di se stessa per ritornare alla testa dell'Europa.

Laonde tutti i popoli agitati dall'idea rivoluzionaria miravano a lei, come aspettando la parola di nuove rivoluzioni.

Giornali e libri, aiutati dalle nuove facilità di comunicazioni, portavano ovunque la luce e il calore degli insegnamenti liberali. Una letteratura senza esempio in alcuna epoca della storia illuminava dalla Francia tutto il mondo, mentre il grande periodo filosofico della Germania chiudendosi apriva quello più vivace delle applicazioni politiche e scientifiche. La solidarietà, insegnata loro dalle guerre napoleoniche, rendeva i popoli più pronti ad accogliere i nuovi principii e ad intendersi nell'azione per trarne le conseguenze; la borghesia, ancora sola a combattere, era costretta dalla dialettica della storia ad affettare una democrazia migliore del proprio cuore e maggiore del proprio interesse. Il parlamentarismo, barcollante sulla doppia base della sovranità popolare e della regalità ancora consacrata dal diritto divino, si esauriva, addestrandosi a più alte prove nello sforzo quotidiano di conciliare le antitesi rinascenti da una costituzione considerata dalla corte come una concessione e dalla nazione come un diritto, nella quale il re si sentiva violato e il popolo si aspettava di essere ad ogni ora tradito. Religione e clero, ostili alla costituzione, vi si destreggiavano per comandare ed impinguarsi; i costumi mutati proseguivano l'opera livellatrice della rivoluzione; l'arringo politico, esigendo attitudini scientifiche e abitudini popolari, diventava sempre più difficile all'aristocrazia, mentre l'aumentata facilità dell'istruzione attirava il popolo a queste battaglie del pensiero. Naturalmente la Francia, discutendo per tutti dall'alto delle proprie tribune, congiurava per tutti nel segreto delle proprie sètte afforzate dai veterani della rivoluzione e dai soldati dell'impero coll'energia di gente usata a tutti i pericoli. Da Parigi muovevano gli ordini e si attendevano soccorsi. Spagna, Grecia, Germania, Polonia, Italia seguivano nell'armi contro tutti gli Stati feudali. La Grecia si ostinava nella propria guerra contro i turchi, aspettando nella sicurezza eroica dell'istinto da una contraddizione europea l'urto necessario a frangere a suo favore l'unità dispotica della Santa Alleanza; l'Italia, ricaduta dopo le meschine sollevazioni di Napoli e di Torino nella prima soggezione, seguitava con più nobile fervore l'opera segreta della propria ricostituzione.

Un fecondo disinganno era succeduto alla disperazione delle ultime sconfitte. Nè la corte di Torino, nè quella di Napoli avrebbero mai accettato di capitanare la rivoluzione; l'organismo delle sètte si era addimostrato insufficiente, l'isolamento dell'insurrezione aveva loro conteso persino l'onore di una morte eroica. Si cominciava a comprendere che il malcontento militare dei residui napoleonici e le pretese arcaicamente generose o ipocritamente egoiste dell'aristocrazia essendo senza forza, la borghesia sola avrebbe dovuto fare la rivoluzione, mentre il popolo seppellito nell'ignavia secolare vi assisterebbe quasi impassibile. Si potrebbe calcolare su qualche sua collera, non sulla sua fede rivoluzionaria; la miseria, l'ignoranza, un timore cieco dell'Austria, un rispetto superstizioso per Roma, gl'impedivano di comprendere l'idealità del mondo moderno. Le sue passioni erano ancora quelle delle antiche plebi; molte sue abitudini, specialmente nelle campagne infestate da banditi, si sarebbero prestate a virtù di guerra, ma gli mancavano ancora la passione indispensabile al coraggio d'insorgere e l'idea necessaria alla costanza di una rivoluzione. Lo stesso dispotismo dei governi era quasi senza oppressione per il popolo uso da secoli a servire, dacchè le nuove persecuzioni preferivano coloro più alti per grado di classe o elettezza di natura.

Nullameno l'idea d'Italia cresceva, aiutata dalle idee liberali. Si sentiva confusamente che qualche cosa doveva pur mutare, se l'opposizione fra la coscienza dei migliori e la prepotenza dei governanti aumentava ogni giorno d'intensità: ogni moto all'estero diventava promessa, il progresso commerciale ed industriale conduceva per la via sicura degl'interessi al liberalismo, la guerra al pensiero lo costringeva ad alzarsi sino ai principii e a destreggiarsi nell'abilità di espedienti che potessero sconfiggere la forza bruta dei governi. Le sètte ristringevano nuovi vincoli di fratellanza, che gli emigranti annodavano coll'estero; l'odiosità delle polizie irritando anche il popolo allentava in esso i vincoli dell'antica soggezione; le università si mutavano in focolari di congiura e in caserme, entro le quali si preparavano armi per tutte le battaglie. Oramai la vanità obbligava i giovani ad avversare i governi e ad evitarne gl'impieghi. I libri parlavano tutti d'Italia, ogni parola era un appello, ogni reticenza un'allusione. Quel bisogno di grandezza morale, eterno nella coscienza pubblica, non trovando modo di appagarsi nella vita politica dei governi mutati in prefetture austriache, rivolgeva gli spiriti altrove, nello spettacolo dei popoli liberi, derivandone una passione d'invidia, che era amore all'Italia e odio allo straniero.

Condizioni uniformi dei governi.

Napoli e Torino erano le due sedi peggiori della tirannide paesana, la Lombardia la provincia più serva, il regno pontificio il più spregiato e sconnesso, la Toscana il migliore ducato. Infatti Ferdinando III, ricondottovi dalla reazione del 1814, vi si mostrò così mite e generoso, accordando ospitalità ai proscritti e resistendo all'Austria, che la sua morte fu sinceramente pianta e il suo successore Leopoldo quasi amato per lunghi anni. Però questi, ipocrita e malvagio per natura, essendosi accordato segretamente con Vienna e con Modena contro i liberali, non li ospitava più che per denunziarli segretamente. Intanto la tradizione lorenese seguitava nelle migliorie amministrative e nell'abbandono di ogni carattere politico. Non rappresentanze popolari, nessuna milizia degna di tal nome, distrutta la marina; le scuole floride per ingenito vigore, ma l'istruzione non riconosciuta strada a cariche eminenti; nessun concetto di governo tranne quello della polizia; nessuna coscienza nè toscana nè italiana.

Peggiore di lui, Carlo Lodovico di Lucca, succeduto alla propria madre Maria Luisa di Borbone, si rotolava nelle più oscene demenze, nominando lo stalliere Tommaso Ward a ministro delle finanze, e sperperando il pubblico denaro con sì cinica rovina dello Stato che il granduca di Toscana, nella propria qualità di erede del ducato per diritto di riversione, dovette pubblicamente protestare di non riconoscerne i debiti. E a questa mala condotta il giovane duca era spinto dall'Austria, insignoritasi per mezzo del conte di Bombelles, destro ed ignobile diplomatico, del governo nel piccolo ducato. A Parma la duchessa Maria Luisa seguitava nelle eleganti dissipazioni, considerando il proprio Stato come un feudo austriaco.

In Piemonte Carlo Felice vi aveva dai primi giorni meritato il nome di Carlo Feroce. Reazionario sino alla crudeltà e fanatico oltre ogni ignoranza, dopo essersi reso proconsole dell'Austria, le umiliò quella corona, che la sua stirpe aveva sempre difeso con ogni maniera d'inganni e di battaglie contro le pretensioni imperiali. Forse nessun re d'Europa ebbe allora della propria regalità un concetto più antiquato ed angusto di Carlo Felice, e nessuno fu meno re di lui. Ristabiliti tutti i privilegi antichi, riconsegnò le scuole ai gesuiti quando nella stessa Francia borbonica questi venivano sfrattati dalle scuole laiche; così il Piemonte ripiombò in un'atonia intellettuale che gli sforzi di pochi pensatori solitari non valsero a scuotere. Dell'esercito, antica gloria e costante forza del Piemonte, non ebbe e non poteva avere concetto, dacchè il vero presidio d'Italia, secondo il suo spirito reazionario, era l'Austria. Per la nuova vita politica e civile non sentì che ripugnanze; e repugnante a tal punto gli era Carlo Alberto di Carignano, malgrado ogni suo pentimento ed umiliazione, che lo avrebbe escluso a favore dell'Austria dalla successione, se la vittoria della nuova rivoluzione francese (1830) e le minaccie del suo governo, pronto in tal caso ad invadere il Piemonte, non lo avessero finalmente deciso a serbare italiano il proprio trono. Così finiva la dinastia dei Savoia, cresciuta illustre fra battaglie ed intrighi, senza che mai il Piemonte fiorisse di quella civiltà che aveva reso immortali Firenze e Venezia, Milano e Genova. L'ultima speranza d'Italia sembrava vanire con questa dinastia abbastanza forte nel tramonto dei principati per costituirsi regno, quasi a preparare con esso il passaggio dalla federazione all'unità; mentre Napoli, separata dal resto d'Italia per l'enorme muraglione dello stato pontificio e troppo diversa d'indole, si era venuta a mano a mano isolando. Il centro ideale d'Italia passato da Pavia a Milano, da Milano a Firenze, da Firenze a Venezia, da Venezia a Torino, sul lembo estremo d'Italia, come nel luogo più adatto allo scambio delle influenze europee per mezzo della Francia, si dissolveva con questa dinastia di re guerrieri non mai distrutti da alcuna guerra, e che nessuna guerra sembrava poter più rimettere alla testa d'Italia.

Carlo Alberto di Carignano, che doveva innestarsi sovra di essa, si era già due volte infamato col tradimento e coll'espiazione.

A Napoli Francesco I, succeduto a Ferdinando, finiva colla più incredibile corruttela di rovinare il regno martoriato da tanti anni di guerra e di rivolte. L'ignominia del piccolo duca di Lucca nominante uno stalliere ministro delle finanze sparve negli scandali del governo napoletano trafficato da certo Michelangelo Viglia e da Caterina di Simone, entrambi camerieri del re e della regina. Francesco I, più falso e codardo del padre, ne ereditò gl'istinti feroci e la scempia bigotteria. Francesco Del Carretto, carbonaro convertito al sanfedismo, fu il più feroce de' suoi proconsoli; il Medici seguitò ad essergli ministro, ma con infernale ironia re Francesco I si compiacque a lasciare arbitro supremo del governo il proprio cameriere. Le rapine, le malversazioni, le atrocità poliziesche, l'ipocrisia religiosa, la miseria del popolo, l'oblio d'ogni legge, giunsero al colmo. Metternich stesso ne fu così indignato che, seguitando nell'abile politica di frenare gli eccessi della contro-rivoluzione per togliere al popolo ogni pretesto d'insorgere, ammonì severamente il perverso monarca. Alcune congiure, scoppiate piuttosto come esplosioni di dolore che quali tentativi rivoluzionari, vennero represse con inaudita ferocia: il paese di Bosco fu distrutto a cannonate da Del Carretto e fra le cruenti rovine vi sorse una colonna a perpetuo ricordo e minaccia; altre congiure furono simulate o fomentate dalla polizia, per atterrire simultaneamente il re ed il popolo. Nel 1827 la povertà delle finanze costrinse il re a rinunziare alla garanzia dell'occupazione austriaca, per fidarsi ad una guardia di 6000 svizzeri così dimentichi della loro antica libertà e così poco persuasi della nuova da servire come sicari di ogni tirannide; ma anche questa spesa bastava ad opprimere il troppo debole bilancio. La milizia napoletana, alquanto ritemprata dalla educazione delle guerre napoleoniche, ricadde nella antica ignavia; la marina, conservata piuttosto per fasto che per difesa, si coperse di vergogna dinanzi ai corsari di Tripoli; la polizia sola usò le armi contro il popolo della città e della campagna, insanguinandole per ogni più lieve pretesto. L'aristocrazia, ligia alla corte, si gettò nella corruttela per arraffarvi ricchezze; la borghesia abbandonata invilì sotto le minaccie di processi non guarentiti da alcuna procedura, e di condanne alle quali nessuna innocenza poteva essere ostacolo; il popolo rimase plebe quasi selvaggia nelle campagne, oziosa e viziosa nelle città.

La reazione proseguiva peggiorando giorno per giorno; fra governo e paese si allargava un abisso sul quale nessuna costituzione avrebbe più saputo gettare il proprio ponte, o gittandolo saldarlo così fortemente sulle ripe che la storia vi passasse. Le due maggiori monarchie italiane erano dunque decadute da ogni funzione politica, dopo avere per oltre due secoli riassunto tutta la vita politica nazionale: e questa, ricominciando non solo al di fuori ma contro di esse, accennava chiaramente che principio e forma del suo futuro governo avrebbero ad essere assolutamente diversi. Ma di questo principio e di questa forma nessuno ancora fra gli spiriti magnanimamente ribelli sapeva precisare qualcosa. Se i governi reazionari non erano più che una negazione assurda e feroce, la rivoluzione ancor rudimentaria non era che la negazione di questi governi, e nemmeno così vasta ancora da comprenderne gli Stati; il rispetto alla tradizione storica e la soggezione a tutte le autorità non permettevano che di sperare in piccole migliorìe amministrative o in cambiamenti di re per l'appagamento dei più immediati interessi. Occorrevano quindi molti altri anni di persecuzione e di studi per educare la nazione alla fede della propria sovranità politica.

Questo periodo fu il più torbido della storia italiana, perchè nè governi, nè Stati, nè popoli vi ebbero coscienza: Roma stessa, che, cosmopolita di carattere, avrebbe potuto ottenervi un forte significato, inducendo col proprio principio ieratico una specie di unità nella reazione monarchica, parve più meschina delle altre corti. Il cardinale Consalvi, istrutto dalle traversie della rivoluzione e dell'impero, avrebbe voluto nella ristorazione pontificia salvare qualcuna delle conquiste moderne, ma la sua opera e la sua politica ostile all'Austria furono tosto abbandonate. Un antico rancore diplomatico separava l'illustre segretario di Pio VII dal nuovo pontefice Leone XII, pallida ombra di Sisto V, che si accinse alla reazione senza accorgersi di annullarvi i resti della politica del proprio Stato. Il problema imposto dalla storia al papato sfuggì al pontefice. Nella reazione europea, che rimetteva in tanto credito la religione, il papato avrebbe dovuto costituirsi arbitro supremo delle monarchie per dirigerne e dominarne l'opera.

Bisognava, sceverando i miglioramenti inevitabili ai tempi dai principii rivoluzionari, contrapporre alla logica della rivoluzione la dialettica di un'autorità capace di sorpassare l'opera angusta e contraddittoria dei parlamenti con generose iniziative, nelle quali, dietro l'esempio napoleonico, le monarchie si fondessero con una democrazia arditamente progressista e al di sopra delle quali Roma cattolica brillasse come un faro. Se il papato fosse stato ancora storicamente vivo, forse quest'idea vi si sarebbe espressa, ma, rovesciato dalla conquista del direttorio, cacciato dall'altra dell'impero, quasi schiacciato dall'Austria al congresso di Vienna, poi ricondotto a Roma come un simulacro fra i tanti dell'arte che la Francia restituiva alla città eterna, non ebbe e non potè avere vita politica. Il papa non vi fu più che un sovranello come Ferdinando e Vittorio Emanuele, sottomesso all'Austria, timoroso dei propri sudditi, incapace di affrontare il gran problema del secolo, respinto fatalmente nei regni del passato come tutti coloro cui è chiuso l'avvenire. La reazione, invece che a Roma, ebbe il proprio centro a Vienna; ma poichè questa minacciava di assorbire nel proprio patronato tutti gli Stati italiani come la rivoluzione intendeva a minarli, la condotta dei principi e del pontefice si smarrì in un dedalo di contraddizioni inconciliabili. Roma rimase appena una grossa città come Napoli e Torino; la sua antica autorità non impose rispetto alla politica di Metternich, che intendeva a sottometterla; il suo primato italico andò perduto, il suo governo composto di preti e di vecchi fu vecchio di idee e di modi, la sua reazione malvagia e puerile non sventò alcun pericolo e non suscitò alcuna forza.

Leone XII, cominciando dal favoreggiare confraternite e congregazioni religiose, ridusse tutti gli studi sotto la gerarchia ecclesiastica: quindi, dietro il falso esempio dell'impero napoleonico che tentava imporre il francese, rese obbligatorio il latino alle cattedre e ai tribunali, cedette al clero ogni istituto di carità e gli riconfermò ed ampliò immunità, privilegi, giurisdizioni. Vennero tolti agli ebrei i diritti di proprietà e richiamati contro di essi i nefandi rigori medioevali, chiusi i loro ghetti con portoni e sottoposta la loro libertà all'arbitrio dei santo uffizio; si concessero nuove istituzioni di maggioraschi, e si sarebbero ripristinate le giurisdizioni baronali se il concistoro non vi si fosse opposto. Si distrussero i tribunali collegiati per avere giudizi di un solo giudice e questi più ligio: annullata ogni autonomia municipale, soppresso persino il magistrato della vaccinazione.

Ma questa reazione essenzialmente formale come non irrobustiva il governo, così non scemava le forze latenti della rivoluzione. Infatti tutte le campagne romane erano così infestate da grosse squadre di banditi che le milizie papaline ne andarono sconfitte come in regolari battaglie: poi vi si deputarono cardinali, che dopo feroci esperimenti dovettero scendere a patti coi briganti. Dall'altro canto la carboneria seguitava ad estendersi, malgrado l'opposizione dei sanfedisti organizzati a brigantaggio politico sotto la tutela del governo.

Un doppio lavorìo di società segrete minava quindi lo Stato pontificio: i sanfedisti si congregavano presso i curati e i devoti; i carbonari presso i nobili, i commercianti o i proprietari; ma la loro lotta a colpi di fucile o di coltello, illuminata da drammi di tribunale nei quali i vinti sparivano per sempre nelle carceri o spenzolavano dalle forche, rivelava tutta l'insufficienza politica del governo. Un'invincibile anarchia peggiorava ogni giorno lo Stato pontificio, rendendolo scandaloso all'Europa nei racconti degl'innumerevoli visitatori di Roma. Il giubileo (1825) inspirò deliranti angoscie al Vaticano: si temeva che i carbonari vi prendessero parte travestiti da pellegrini, e, occupata Roma, l'insanguinassero. Ma siccome Leone XII, piuttosto per riottosità di natura che per sentimento di regale dignità, recalcitrava agli imperiosi ammonimenti di Metternich, e la Francia lo consigliava d'impedire ogni commozione liberale per evitare i pericoli di un intervento tedesco, spiegò molta pompa di rigori contro il liberalismo. Il cardinale Rivarola, mandato legato a latere nella Legazione di Ravenna, memore della sua venuta nei primi giorni del 1814, v'insanì in persecuzioni ridicole malgrado la ferocia. Nell'agosto del 1825 vi condannò cinquecento e otto liberali, parecchi dei quali alla pena capitale e al carcere perpetuo: ed erano per la maggior parte nobili e borghesi, persone elette per nascita o per funzione.

Moltissimi altri subirono il precetto politico consistente nel non poter uscire di casa se non a certe ore, nell'obbligo di presentarsi ogni quindici giorni ad un ispettore e di confessarsi tutti i mesi ad un confessore approvato dalla polizia. Misure violente ed inefficaci, che confondendo governo e religione abituavano al dispregio dell'uno e dell'altra! Naturalmente i processi non avevano garanzia di sorta: i codici napoleonici soppressi dalla ristorazione del 1814 non erano ancora stati surrogati, i giudici venivano riconosciuti strumenti di polizia; naturalmente le popolazioni si disgustavano più che non s'intimorissero. Mentre il Rivarola finiva infatti d'impazzire volendo conciliare i secolari odii tra Faenza e il Borgo d'Urbecco con matrimoni imposti fra le più fiere famiglie d'ambo le parti, e la propaganda sanfedistica del giubileo menava una campagna di spionaggi e di minaccie contro le sètte liberali, queste attentarono per mano d'intrepidi sicari alla vita del timido e feroce cardinale, costringendolo a riparare in Genova. Gli successe monsignor Invernizzi con una commissione straordinaria di legulei e di soldati, che più destro riuscì a corrompere le sètte con una generale promessa di perdono a chiunque facesse spontanea confessione delle proprie colpe. Ma se l'espediente raggiunse in parte lo scopo, molti essendo stati i settari che vi si avvilirono, in parte fallì costringendo le sètte a migliore organizzazione: a Roma stessa si tentò una congiura, nella quale un Targhini e il medico Montanari lasciarono la vita.

La reazione pontifìcia diretta dal cardinale Bernetti, successore al Della Somaglia, non senza ingegno e temperandola con qualche miglioramento amministrativo, ispirava così poca fiducia a lui stesso, diplomatico rotto ai più difficili negozi e largamente istrutto degli altri governi, che lasciò sfuggirsi col Chateaubriand il celebre motto: Se campassi a lungo assisterei alla rovina del papato! Ma invece di cercarvi riparo, persuase al pontefice lo sciagurato motu proprio col quale, rianimando le classe dei nobili, si sopprimevano affatto i consigli provinciali.

Pio VIII dopo Leone XII trovò lo Stato senza codici e senza finanze in piena reazione contro l'opera iniziata contraddittoriamente da Pio VII per consiglio del Consalvi; quindi, reagendo sulla reazione del predecessore, cassò quanto questi aveva fatto di meno cattivo per abbandonarsi ciecamente nelle mani dell'Austria. Era l'ultima dedizione di Roma: il papa ne ebbe appena il tempo, e morì; quasi contemporaneamente cessavano di vivere Francesco I di Napoli e Carlo Felice di Piemonte.

Nuovi attori si presentavano per l'imminente rivoluzione.

La sommossa del centro.

La rivoluzione francese delle Tre Giornate di luglio rianimò in Europa le speranze liberali. Belgio, Polonia, Italia risposero con altrettanti moti, affidandosi a magnanime illusioni ben presto tradite: nella Francia stessa la rivoluzione deviò presto dalla propria mèta republicana per arrestarsi nell'insuperabile pantano di una nuova monarchia. Qualunque fossero le intenzioni dei capi rivoluzionari e per quanto facile si mostrasse l'Europa a riconoscerle, una republica francese non poteva allora trionfare per difetto di republicani, giacchè il popolo aveva piuttosto partecipato all'insurrezione parigina per insofferenza della scempia tirannide borbonica che per una ideale passione di libertà. Quindi la borghesia, prima iniziatrice della rivolta e rimasta prontamente sola nella vittoria, si scisse in due partiti: l'uno, composto di una immensa maggioranza inspirata da interessi pecuniari, anelante al potere, diffidente del popolo per egoismo di fortuna e per superiorità di coltura, imbevuta di parlamentarismo inglese e di economia classica, badò a consolidare il trionfo con una nuova dinastia sottomessa alle idee e ai voleri delle Camere; l'altro, scarsissimo di numero, torbido nei concetti, generoso nei sentimenti, innamorato del popolo e che pel popolo solo aveva combattuto, si frazionò in mille opinioni invece di proseguire nell'audacia rivoluzionaria, e, non trovando eco nelle masse incapaci di comprendere il suo moto settario, abdicò per rituffarsi nelle congiure e preparare una lontana republica.

Luigi Filippo d'Orléans, natura sordida ma ingegno destro, impersonò l'ideale borghese della involuzione, che lo nominava re, facendogli gettare sulle spalle un mantello republicano dal vecchio Lafayette, il più ingenuo fra i republicani aristocratici. Quindi la sua politica fu doppia. Sulle prime, incerto di ottenere dalle grandi corti d'Europa sempre collegate nella Santa Alleanza, il riconoscimento della propria nomina regale, liberaleggiò, prodigando promesse a tutti gli insorti e proclamando il non intervento ai monarchi contro le rivoluzioni. L'Europa sorpresa e mal preparata ad una rivoluzione continentale nicchiò: la Francia, benchè spossata ancora dagli ultimi sforzi dell'impero, atterriva le fantasie nordiche; le fiaccole rivoluzionarie agitate da Madrid a Bruxelles, da Bologna a Varsavia, turbavano le viste senili dei diplomatici: si temevano esplosioni; tutta l'Europa era minata, la Francia poteva rinnovare i miracoli del '93. Ma Luigi Filippo, che conosceva meglio di tutti la propria situazione, appena carpito all'Europa il riconoscimento, mutando linguaggio e modi aspreggiò la rivoluzione.

Quindi tutti i moti, che determinati dai primi impulsi francesi ne aspettavano altri per proseguire, si arrestarono: vi furono delusioni e sconfitte tragiche, abbiezioni e tradimenti senza nome. La Francia, riapparsa così bella e grande nelle Tre Giornate, cambiò ancora fisionomia, acconciandosi sulla magnifica testa rivoluzionaria la maschera scialba e falsa di Casimiro Périer. La prima controprova monarchica della grande rivoluzione era stata fatta dai Borboni del primo ramo; la seconda cominciava con quello degli Orléans e non doveva avere con più lunga vita miglior fortuna: l'ultima doveva essere quella del secondo impero. Solo dopo aver logorato in successivi esperimenti tutte le forme della monarchia, la Francia arriverebbe prima in Europa alla conquista della republica pel proprio principio democratico.

L'Italia si scosse. Ma se alla rivoluzione spagnuola del '20 erano insorte Napoli e Torino, i due maggiori regni nei quali più fermentavano i residui militari del napoleonismo e la carboneria, alla nuova rivoluzione francese non risposero che i ducati e le Romagne. Troppa era la forza militare dei due regni e l'energia della loro reazione, perchè si potesse contro di loro rinnovare il fallito tentativo. D'altronde se in questo decennio le idee politiche avevano progredito teoricamente, non si osava ancora iniziando una rivolta proclamare la decadenza dei sovrani e un vero mutamento degli Stati. Il regno pontificio, più scarso a soldati e più fiacco di ordini, si prestava meglio ad una sommossa, che doveva esprimere piuttosto una generosa impazienza di sentimento che un vero concetto politico. Ma anche questa volta la carboneria ripetè l'errore del '21, fidandosi ad un principe.

Francesco IV di Modena, crudele tempra di tiranno, non poverissimo d'ingegno e ricco d'ambizione, parve egli stesso cercare l'appoggio della carboneria per costituirsi nella media Italia un grosso Stato. Era il vecchio sogno dei Medici, dei Farnesi, degli Estensi colle stesse invincibili difficoltà. La storia non ha ancora potuto accertare quanta realtà di propositi e di mezzi fosse in questo ultimo sogno: i settari traditi lo ingrandirono forse nelle invettive contro il tiranno, questi spaventato lo negò. Nullameno fu chiaro che Francesco IV si era di qualche guisa accontato con Ciro Menotti, eroica ed ingenua natura di patriota, consacrato dal martirio all'onore della storia; e che, sbigottito dalle rivelazioni fatte contro di lui dallo stesso Luigi Filippo, già mescolato nelle sètte, al conte Appony ambasciatore austriaco a Parigi, si gettò colla ferocia della paura nella reazione. Parve, ed era una fazione medioevale. Ciro Menotti invano combattente rimase prigioniero; ma all'eco della ribalda ducale aggressione Bologna, agitata dalle novelle francesi, esplode: l'indomani (5 febbraio 1831) Modena riavutasi dallo stupore caccia il duca, che ripara a Mantova traendosi dietro Ciro Menotti, freno allora contro le vendette popolari, sfogo più tardi alla vendetta del tiranno. Imola, Faenza, Forlì, Cesena, Ravenna s'emancipano, Ferrara imita l'esempio; Parma, Pesaro, Fossombrone, Fano, Urbino licenziano i propri governatori; poi Macerata, Camerino, Ascoli, Perugia, Terni, Narni e finalmente Ancona seguono la rivolta. Il 25 febbraio un popolo di due milioni e mezzo di italiani liberi dovrebbe essere in armi e non vi è: Napoli, Torino, Milano, Venezia non si muovono. Una congiura, tentata a Roma nell'interregno del conclave dai principi Bonaparte, figli dell'ex-re d'Olanda, era fallita inonoratamente; un'altra capitanata a Firenze dal Libri, mirabile ingegno di scienziato cui la sordidezza del carattere doveva apprestare così miserabile fine, concluse ad una ridicola dimostrazione di teatro.

Quindi il moto si concentrò a Bologna, nella quale era costituito un governo provvisorio, ma giammai più nobile causa ebbe più inetti rappresentanti. Lo componevano aristocratici, professori d'università, grossi proprietari: Giovanni Vicini, volgare avvocato e peggiore politico, lo presiedeva. Il governo pontificio aveva ceduto con mollezza: i rivoluzionari furono anche più fiacchi. Del problema politico, quale loro s'imponeva, non solo non intesero nulla, ma per angustia di carattere ed insufficienza d'ingegno parvero intenti a contraddirlo. Anzitutto affermarono di essersi costituiti in governo per evitare l'anarchia dietro la dichiarazione di monsignor Clarelli prolegato abdicante all'amministrazione della provincia; poi il presidente Vicini diramò una sua scrittura di leguleio, nella quale, desumendo la libertà di Bologna dalla convenzione stretta nel 1447 fra la città e Niccolò V, finiva col paragonare le Tre Giornate francesi di luglio alle sei della creazione. Era una risurrezione del ghibellinismo federale, senza modernità nemmeno nelle frasi. A Parma e a Modena i governi costituiti si scusavano della propria esistenza, accusandone i sovrani fuggiti senza nominare altro governo. Non si pensava nè a leggi nè ad armi. La formula del non intervento, lanciata dalla Francia, pareva presidio sufficiente; non si capiva il doppio giuoco di Luigi Filippo, non si voleva aumentare la rivoluzione per non accrescerne i pericoli. Le vanità municipali si sbizzarrivano nelle teatralità di staterelli improvvisati: si mandavano deputazioni agli Stati vicini chiedendo e promettendo amicizia; ogni provincia si reggeva da sè; pareva una commedia e lo sarebbe stata, se gli austriaci intervenendo bruscamente non l'avessero mutata in dramma. Ma il governo non pensava più agli austriaci, che la formula francese del non intervento avrebbe dovuto rattenere.

L'Italia non esisteva ancora; Roma stessa, capitale del regno pontificio e quindi rivale di Bologna, era dimenticata, quantunque pel nuovo governo l'assenso e l'opposizione di Roma fosse della massima importanza. Ma l'Austria, così poco spaventata dal non intervento francese che lo avrebbe affrontato magari a costo di una guerra generale, uscì da Piacenza rimasta fedele alla duchessa per tradizionale ostilità a Parma insorta, e con poco più di un migliaio di soldati sbaragliò le scarse truppe rivoluzionarie a Firenzuola: questo bastò perchè tutto il ducato tornasse alla duchessa. Quindi toccò a Modena, che il generale Zucchi, buon veterano napoleonico disertato dagli austriaci per mettersi alla testa della rivoluzione, tentò invano difendere contro gli Estensi e gli austriaci vincitori a Carpi e a Novi. Il governo di Bologna, sempre fidente nelle promesse estere, aveva rinunciato non solo all'offesa ma alla difesa, quasi sperando dalla propria nullaggine meritare il permesso di vivere. Non si erano volute riattare le fortificazioni di Ancona; si era respinta l'idea di Sercognani, temerario colonnello faentino educato nelle guerre imperiali, che intendeva ad un'impresa decisiva su Roma; si era oppugnato il disegno di Zucchi per la formazione di sei reggimenti di fanteria e due di cavalleria. Quindi all'invasione di Modena il governo provvisorio di Bologna, rispose stupidamente che le cose dei modenesi non erano sue e che il non intervento era legge anche per lui: per quella di Ferrara replicò nel Precursore, organo governativo, che il non intervento non era stato violato perchè i trattati di Vienna vi concedevano all'Austria diritto di guarnigione; e quando finalmente Zucchi sconfitto si ripiegò su Bologna, il governo, che aveva ordinato di disarmare e d'internare quanti stranieri si presentassero armati alle frontiere, disarmò i 700 modenesi accorsi in suo aiuto. Poi il 20 marzo gli austriaci, dimenticando le derisorie promesse prodigate a quel ridicolo governo, si presentarono alle porte; e questo sempre eguale a se medesimo, intimato al paese di star quieto e alla guardia nazionale di mantenere l'ordine quale unico supremo intento, si ritirò ad Ancona col cardinale Benvenuti catturato, nelle mani del quale abdicò prontamente per chiedere amnistia. Nessuno dei membri del governo provvisorio si ricusò a firmare l'ignobile atto, nemmeno Terenzio Mamiani, anima ed ingegno tutt'altro che volgare. Il generale Zucchi, divisa la propria truppa in due corpi, ordinò la ritirata per la via Emilia e per la bassa Romagna. A Rimini, punto di congiunzione, avvenne uno scontro che salvò l'onore della bandiera, il solo che rimanesse: e poichè il generale Armandi, ministro della guerra, non aveva voluto riunire le forze dello Zucchi con quelle di Sercognani per assalire Roma, questi, spintosi fino a Rieti ed intesa la dedizione finale, dovette dar volta per la Toscana e rifuggirsi in Francia.

La rivoluzione, morta come era vissuta, non meritava rispetto e non l'ottenne. Gli austriaci violarono tosto la capitolazione, occupando Ancona un giorno prima e catturando la nave sulla quale erano saliti lo Zucchi e gli altri patrioti dirigendosi a Corfù. Comandava la corvetta austriaca in questa triste cattura il barone Bandiera, padre di Attilio e di Emilio, che dovevano dopo pochi anni immolarsi nella più arrisicata delle imprese patriottiche. Gregorio XVI, asceso al pontificato, richiamò il cardinale Benvenuti, e negò l'amnistia.

Quindi incrudelirono repressioni e vendette. Il duca di Modena chiamò al governo della polizia il Canosa, che rinfrescò la propria infame celebrità con nuovi orrori: Menotti, Borelli e troppi altri perirono; si promulgarono editti feroci sino all'assurdo, le condanne non si contarono più che a centinaia, mentre il popolo taceva allibito e il vescovo della città bandiva una lettera pastorale per additare nel duca un sovrano secondo il cuore di Dio. Maria Luigia di Parma con più mite animo si contentò invece di sospendere i magistrati partecipi della rivoluzione, e indi a poco perdonò a tutti. Gregorio XVI, dietro consiglio del cardinale Bernetti, incaricò due commissioni, l'una civile e l'altra militare, con pieni poteri di inquisire, e lasciando allo stesso cardinale di raccomandare loro la più sommaria delle procedure contro rei e sospetti: nè i giudici intesero a sordo. Un esodo di illustri propalò le sventure e le abbominazioni d'Italia; altri illustri nelle carceri meditarono e scrissero libri che valsero battaglie; molti illustri seguitarono nell'ombra il lento e solido lavoro per ridare all'Italia un pensiero nazionale.

Ma soffocata la ribellione, rimanevano a stabilire le provvidenze controrivoluzionarie. Quindi le diplomazie si accordarono, seguendo l'astuta politica dell'Austria in Italia, a chiedere con un Memorandum, rimasto celebre, alla corte di Roma alcune guarentigie municipali e giudiziarie a favore delle provincie pontificie fedeli o ribelli. Si voleva secondo l'idea più o meno espressa nei precedenti congressi ridurre lo Stato pontificio alle norme degli altri, senza accorgersi che con quest'atto implicante una certa secolarizzazione del governo papale si veniva a dar ragione ai rivoluzionari. Roma retriva e gelosa della propria tirannia interna recalcitrò, fingendo aderire: furono promesse l'elezione libera dei consigli comunali, l'istituzione di consigli provinciali, nuovi codici, la riforma dei tribunali, delle amministrazioni, delle finanze, l'ammissione dei secolari ai sommi uffici: sarebbe stata, come si disse, una èra novella. Se non che partiti gli austriaci Roma ritrattò ogni promessa; i liberali si sollevarono, i sanfedisti si armarono a combatterli. Furono inviati deputati a Roma per scongiurare la corte a mantenere la propria parola, ma questa non trattò che per guadagnar tempo: intanto le bande sanfediste ingrossavano. Il cardinale Albani, nominato legato a latere per le Romagne, attaccò gl'insorti a Cesena, e li disciolse; quindi infellonito invase Forlì, stuprando e uccidendo; gli austriaci ripassarono la frontiera accolti come liberatori dalle popolazioni tremanti per gli eccessi delle orde papaline. Al violato non intervento la Francia rispose occupando Ancona: il papa protestò, la Francia diede lo scambio ai due comandanti Combes e Galloy, troppo giacobini, col generale Cubières che si offerse sicario alla curia ma non evacuò la città. Nuovi processi si aggravarono sui vinti; gli ebrei d'Ancona dovettero pagare 600,000 franchi per l'accusa di aver veduto con piacere la rivoluzione del 1831; i sanfedisti vennero arruolati in corpi quasi regolari risuscitando una istituzione soldatesca, che Sisto V aveva cassato per ragioni di publica sicurezza. Questi strani volontari seguitavano ad abitare nelle proprie case, esenti da certe tasse e col permesso di tutto commettere. Tutto era loro consentito dalla polizia e dai tribunali; quindi rozzi e fanatici, perversi e pervertiti ne abusarono.

La diplomazia, fingendo riconoscerli sufficienti a garantire l'ordine nello Stato pontificio e dimenticando il proprio Memorandum, lasciò al papa ogni libertà di sgoverno: forse ella stessa aveva compreso l'impossibilità di spingere l'immobile amministrazione papale sulla via di una qualunque riforma, o forse la reazione universale la persuase in favore dell'assolutismo pontificio. Solo il ministro inglese lord Seymour si rifiutò di segnare la dichiarazione (gennaio 1832), colla quale si affermava che, avendo il pontefice pienamente adempito le proprie promesse di riformare lo Stato, occorrevano ora alla quiete d'Europa le misure repressive da lui prese contro gl'incontentabili ribelli.

Il risultato dell'intervenzione franco-austriaca negli Stati romani fu di costringere carboneria e sanfedismo ad uscire dal segreto delle sètte per combattersi all'aperto, precisando meglio l'antagonismo fra rivoluzione e governo: la rivoluzione degli Stati romani per contraccolpo modificò la condizione di tutti i partiti italiani. Quello assolutista si scisse: i sanfedisti degli Stati pontifici inclinavano all'Austria, mentre quasi tutte le altre società cattoliche d'Italia se ne staccavano impaurite, volgendosi ai principi indigeni. Il protettorato austriaco spaventò: si credette di poter resistere alla rivoluzione colla forza paesana della religione e della legittimità: era un primo passo all'emancipazione dello straniero, uno di quei mirabili accordi fra le forze antagoniste di una società, nei quali sembra spesso compiacersi la storia. Quindi il clero si alleò ovunque alle polizie paesane.

Il partito confusamente nazionale, da bonapartista e militare come al tempo della prima ristorazione, perdendo pressochè ogni spirito bellicoso, si mutò in riformista. Con questo spirito aveva governato l'ultima rivoluzione priva di forze soldatesche e quindi anche più inetta di quelle del '21. Laonde, non potendo sperare ulteriormente in sollevazioni o in costituzioni largite da principi, dei quali aveva fatto tanto misera esperienza, si volse a patrocinare le forze più vive della società, le lettere e le industrie, i congressi scientifici, le strade e le ferrovie. Così formò un'opinione publica intelligente ed operosa, che disarmò in parte il feroce terrore dei principi per ogni riforma, e, divulgando con efficacia idee e sentimenti politici, potè persino penetrare nelle corti. Il liberalismo, distinguendosi dalla rivoluzione, divenne come un campo, nel quale i due eccessi politici della nazione potevano incontrarsi per tentare qualche effimera conciliazione. Ma clero e nobiltà tiravano l'assolutismo italiano a nuove violenze, distruggendo i lenti e faticosi approcci del liberalismo riformista, costretto a consumarsi nello sforzo di riprodurli ogni giorno.

Il partito democratico invece fu rialzato vivamente dalla rivoluzione di luglio, nella quale apprese la necessità delle armi e di fare da sè. Il nuovo successo non fece che schiarirgli nella coscienza l'idea di una rivoluzione veramente italiana e simultanea contro preti, nobili, principi e stranieri. Gli ostacoli erano troppi e troppo forti. Nullameno il distinguerli e misurarli era già un immenso vantaggio; si usciva finalmente dalle ridicole teatralità della carboneria segreta, si smettevano gli inutili vanti degli avanzi napoleonici, si cercava sopratutto una nuova propaganda che affratellasse nella passione e nella fede. Contro tanti e sì potenti nemici non era difficile comprendere che solo il popolo, immenso di numero e di forze per quanto ignaro ed incerto, poteva combattere.

Il grido di Ciro Menotti morente: non vi fidate a stranieri! doveva fra poco essere raccolto dal genio eroico del risorgimento italiano.

Intanto le repressioni seguitavano infuriando. Il governo pontificio difeso da francesi, austriaci, truppe indigene, due reggimenti di svizzeri, volontari, centurioni, non avrebbe dovuto consigliarsi colla paura; nullameno punendo insanì. Chiuse le università per consentire poi l'insegnamento delle scienze a maestri privati, negò i gradi accademici a tutti i giovani anche minorenni mescolati alla rivoluzione, molti respinse dal fòro, a tutti attraversò ogni carriera onorata. Così aumentava il numero dei settari. Disciolti i consigli comunali e condannati quanti tale dissoluzione non approvassero, vennero mutate le già arbitrarie rappresentanze municipali in congreghe servili e faziose; perseguitati i liberali, negati i passaporti, sorvegliate le famiglie, violati i domicili. Finanze, industrie, commercio, polizia, tutto peggiorò.

La mite Toscana soppresse il giornale l'Antologia; fu bandito il Colletta moribondo; incarcerati il Salvagnoli, il Bini, il Guerrazzi; e si sarebbero perfino invocati gli austriaci, se il vecchio Fossombroni opponendovisi non fosse stato ancora tanto stimato da poterlo impedire. Nullameno altre condanne di esilio colpirono il La Cecilia, il Poerio, il Giordani: l'antica ospitalità, che aveva fatto della Toscana il paese più gentile ed amato d'Italia, cessò. Sull'animo poco schietto e meno coraggioso del granduca Leopoldo II pesavano le minaccie di Vienna e i suggerimenti del Piemonte, spingendolo a crudeli repressioni coll'accusa di usare clemenza per sedurre i liberali e diventare con l'opera loro re costituzionale di una Italia libera. Eroica ingiuria, che nessun sovrano d'Italia poteva allora meritare! Così re Carlo Felice, al quale nei primi rumori della rivoluzione di Bologna era stata presentata una supplica, secondo il remissivo procedere dei liberali piemontesi, per ottenere più liberi ordinamenti, rispose collo stringersi all'Austria contro ogni istanza di lord Palmerston e col cacciare in carcere i supplicanti: fra questi primeggiavano il Bersani, il Balestra, il Brofferio. Carlo Alberto succedutogli (21 aprile 1831) li prosciolse, ma lasciando nelle prigioni i traditi cospiratori del '21. Triste inizio di regno che doveva finire più tristamente! Il nuovo re per unica riforma diede un consiglio di stato di nomina regia e con voto consultivo su materie dal governo proposte: come prima idea politica si accodò all'Austria per sottrarsi ad ogni liberale influenza francese. Ma all'indomani della sua assunzione al vecchio trono di Savoia, ridotto negli ultimi anni ad insozzato predellino del trono imperiale degli Asburgo, gli scoppiava sul capo, violenta come una bufera ed abbagliante come un sole, la prima lettera di Giuseppe Mazzini, giovanissimo e già esule dall'Italia, per ricordargli il tradimento del '21 e promettergli il perdono da una vittoria italiana. Le più calde pagine di Machiavelli diventavano gelide al confronto di questa lettera, che bruciò quante coscienze la conobbero, e, passando anonima di mano in mano, parve scritta dall'Italia stessa al nuovo re di Piemonte. Chi poteva mai, scrivendo così, sottrarsi alla gloria del proprio genio?

A Napoli Ferdinando II, succeduto a Francesco I, sordidamente avaro e non meno simulatore del padre, finse onesti sentimenti con un'anmistia politica, che, alleviando le condizioni dei condannati, non mutò affatto i criteri del governo. Questi, cresciuto dai gesuiti alle più assurde idee del dispotismo, non ebbe e non potè avere alcun concetto politico. La sua affettata passione pei soldati non era che sfogo di giovanile iattanza e astuta misura per assicurarsi del loro favore dopo quello della plebe; infatti l'animo suo stupidamente malvagio si rivelò nella nomina di Del Carretto, il feroce incendiario di Vallo, il distruttore di Bosco, a successore dell'Intonti nel supremo magistrato della polizia, quando quest'ultimo per carpire al re una qualunque costituzione simulò coi propri agenti e d'accordo coi liberali congiure di rivolta. La nomina di Del Carretto fu la risposta del re, pronta ed inesorabile. Poco dopo a Messina, nel luglio del 1831, Ferdinando II, passando una rivista militare, ordinava una carica alla baionetta per cacciare nel mare metà della popolazione intenta allo spettacolo. E rise di questa sanguinaria ed imbecille imitazione di Caligola, che faceva precipitare dal ponte fra Baia e Pozzuoli la stipata moltitudine plaudente alla sua biga imperiale.

Questa rivoluzione del '31, se pure può chiamarsi così, chiuse il periodo dei moti regionali, liquidando tutti gli avanzi della rivoluzione e dell'impero francese. La sua inanità concettuale e l'inettitudine del suo processo, inevitabili allora, persuasero che nessuna indipendenza parziale sarebbe mai stata possibile in Italia, finchè l'Austria vi avesse dominato tutte le corti e Roma rattenuti nella servitù spirituale tutti gli spiriti. Naturalmente il progresso delle idee doveva condurre nella necessità di una ricostituzione italica a formule rivoluzionarie più vaste e positive: quindi la minoranza degli intelletti più audaci e dei cuori più generosi, gittando ogni prudenza e sorvolando ogni difficoltà, pensarono ad un'Italia una, libera, indipendente, republicana in una rivoluzione concepita come fine e mezzo a se medesima; confusero nello stesso sdegno eroico le tiranniche intimazioni dell'Austria e le fallaci promesse della Francia, l'esoso dispotismo dei principi e la subdola autorità di Roma. La maggioranza della gente, desiderosa di un meglio senza il coraggio di arrischiare il presente qualunque si fosse, e rispettosa dei diritti dei principi e dei papi, mirò ad una rigenerazione lenta con un accordo di tutti i poteri sociali, coi sovrani confederati contro lo straniero e largheggianti di riforme coi sudditi, con Roma banditrice di libertà in nome del vangelo e alla testa della confederazione. Ma erano ancora idee torbide e sentimenti indecisi. L'imminente partito dell'unità doveva essere lirico ed appassionato, ingenuo fino al ridicolo, ma parato sempre a riscattarlo col martirio, intrattabile nei compromessi ed assurdo nell'ostinazione: quello della confederazione invece calmo, dotto, rimpinzito di storia per sostenere la propria tesi irrompente da tutto il passato italiano, ma fiacco nell'azione, nascondendo nelle pieghe della prudenza molte viltà, spesso falso nelle intenzioni e nelle opere.

Nullameno per legge storica esso doveva riempire il nuovo periodo, perchè con un fallito esperimento di confederazione la coscienza nazionale si staccasse dalla formula antica della propria vita, avviandosi per quella dell'unità al conquisto del gran principio moderno proclamato dalla rivoluzione francese del dogma della sovranità popolare.



Capitolo Terzo.

Il pensiero politico nel moto letterario

I primi gruppi.

Questi rivolgimenti politici si ripercuotevano nel pensiero nazionale.

Al tempo dell'impero napoleonico l'opposizione non era rappresentata che da impiegati malcontenti e da giovani esaltati nelle classiche memorie dell'antichità: pei primi tutte le questioni diventavano amministrative, pei secondi svaporavano in prediche poetiche di ribellione indecisa contro le cose e le persone; giù nella massa il sentimento nazionale, volendo chiamarlo così, era intorbidato tanto dai benefizi delle nuove idee liberali quanto dalle inevitabili vessazioni della dittatura militare; peggio ancora pregiudizi regionali, religiosi e sociali falsavano ogni giudizio. Ma colla ristorazione austriaca la scena cangiò: alle angherie dei francesi, sempre larvate da promesse di un regno italico o consolate da speranze di facili miglioramenti, successe un'oppressione senza diritti e senza avvenire: l'Austria schiacciò popoli e principi, cancellando ogni idea liberale della rivoluzione francese. Naturalmente questo bastò perchè coloro medesimi, i quali da principio non simpatizzavano troppo con essa, ne capissero tosto il valore e la verità. Il pensiero si destò ai gridi di dolore della coscienza italiana. Quindi nella nuova ricomposizione dei partiti l'opposizione si spostò, formandosi a gruppi con elementi bonapartisti e liberali d'ogni gradazione, per passare indi a poco in ogni forma di letteratura. Al di fuori delle corti e delle polizie, nelle quali interessi privilegiati e coalizzati toglievano di sentire la contraddizione della politica governativa colla vita italiana per risognare un passato, che gli eccessi medesimi della reazione constatavano impossibile, ogni coscienza culta e disinteressata doveva fatalmente accorgersi che l'Italia aveva bisogno di maggiore libertà e di leggi migliori.

L'opposizione fu dunque in tutti, ma non si esplicò che nella azione dei più forti.

La scuola di Monti agonizzava entro la scenica decorazione, nella quale aveva ospitato con servile indifferenza avvenimenti e padroni d'ogni sorta: quella di Foscolo, nobile d'intenzioni ed austera nel carattere, cresceva nella passione dei giovani, che affacciandosi alla vita sentivano ventarsi sulla fronte l'aria di un secolo nuovo. La grande rivoluzione letteraria del romanticismo giunse anche in Italia a sommuovere gli ultimi strati classici, che Foscolo stesso aveva rispettati. Ma il romanticismo innovatore ed insieme reazionario, ritogliendo l'arte alla tradizione delle scuole per rituffarla nella vita del popolo e rivelarle con altra interpretazione tutto il passato, implicava un ritorno alla religione; e questa contraddizione agli istinti del secolo produceva una bizzarra ed intensa passione per tutte le antichità medioevali. Quindi un'altra divisione di scuole venne a scindere l'opposizione, che il dispotismo straniero avrebbe sempre più condensato. La tormenta della grande rivoluzione francese placandosi lasciava negli spiriti un immenso bisogno di pace e di fede; si cominciava a comprendere la falsità del metodo rivoluzionario altrettanto assoluto nella distruzione che assurdo nell'ateismo; s'inorridiva degli eccessi francesi, si diffidava del popolo, nel quale il carattere era ancora di plebe. Laonde la scuola francamente rivoluzionaria non ebbe più rappresentanti; invece quella romantica, malgrado le proprie inconciliabili antinomie, apportava una formula che la costrinse a rapido e magnifico sviluppo. Il romanticismo era anzitutto libertà letteraria.

In Italia il primo gruppo di combattenti si strinse a Milano, rimasta come capitale momentanea del regno italico il maggiore centro letterario, e fondò un giornale col titolo falso di Conciliatore. Lo scrivevano Confalonieri, Pellico, Romagnosi, Rasori, Ermes Visconti, Berchet, Borsieri e Pecchio. La loro prima battaglia fu contro la letteratura vacua e pretenziosa degli ultimi classicisti, che, perduta la pompa affascinante di Monti e la scarna austerità di Alfieri, rimbambivano nella pedanteria dei precetti scolastici o nelle puerilità armoniose della lingua. A costoro, che seguitavano ricantando i classici, opposero Camoens, Shakespeare, Byron, Schiller, Goethe; poi dalle questioni letterarie si discese alle pratiche, appassionando gli animi pel mutuo insegnamento, pei battelli a vapore, per l'illuminazione a gaz; si evocarono le memorie del regno italico: si toccò la linea che separa la politica dalla letteratura. Ma la disputa rinfocolandosi trasse i giovani combattenti fuori del campo, cosicchè si videro il giornale soppresso (1819) da un ordine della polizia, mentre badavano a combinare l'alleanza della politica colla letteratura accogliendo in un bizzarro eclettismo le idee più disparate, dalla costituzione spagnuola all'estetica tedesca e all'economia inglese.

Il gruppo si sbandò, molti perirono tragicamente. I processi del '21 dispersero nelle carceri o negli esigli gl'ingenui novatori: Rasori si rituffò nella medicina, illustrandosi ed illustrandola; Romagnosi, sfuggito alla condanna, si chiuse nell'operosità di studi filosofici; Borsieri suo discepolo, Confalonieri, Silvio Pellico sparirono negli antri dello Spielberg. Ma la breve propaganda aveva così poco toccato il popolo che i condannati furono coperti d'ingiurie attraversando Verona: quindi parvero dimenticati. Silvio Pellico, allora leggermente volterriano, fors'anco materialista, di tratto in tratto economista come scolaro di Gioia, amico di Foscolo, poeta più melodrammatico che tragico, anima più sensibile che appassionata, si fiaccò nel carcere. Quello sgomento, che già aveva sorpreso Manzoni meditando sulle tempestose tragedie della rivoluzione francese, lo colse negli squallidi silenzi della segreta, in quella eterna luce di tramonto che gli scendeva dall'alto delle inferriate come un gemito. Il romanticismo che covava nel suo spirito si sviluppò. Pellico si convertì alla religione dei propri carnefici e scrisse Le mie prigioni, spaventevole poema, con alcuni carcerieri, pochi personaggi muti, due o tre compagni d'infortunio, una prigione buia, un imperatore invisibile al disopra di tutti e Dio al disopra dell'imperatore. Il cospiratore era vinto, il nuovo cristiano predicava coll'antico fervore del congiurato la rassegnazione alla schiavitù, additando lo stesso cielo in nome del quale tiranni e preti opprimevano. L'immenso successo delle Mie prigioni, quando furono stampate nel 1831, rivelò lo stato della coscienza nazionale ancora troppo soggetta alla codarda morale del clero e troppo poco educata all'orgoglio delle battaglie.

Ma soppresso il Conciliatore, usciva a Firenze l'Antologia, raggruppando altri ingegni e riprendendo la guerra. Dante, che Monti aveva travisato in una sonante ed abbarbagliante imitazione, risorgeva come poeta nazionale per opera specialmente di Foscolo: si moltiplicavano le edizioni della Divina Commedia, nuovi commenti non più informati a piccinerie filosofiche o erudite apparvero; Arrivabene e Troya vi si distinsero, poi tutti vi si cacciarono falsando con intenzioni patriottiche il significato del poema, che nullameno giovò a ricostituire la coscienza letteraria. Un gran fervore di studi si apprese alla gioventù: le Accademie si dettero a utili e nobili lavori, si vollero forme moderne e idee nuove. L'antico tipo del letterato pretensioso e disutile scomparve, ogni libro ebbe uno scopo sociale; non fu più permessa la puerilità di quei diverbi letterari che avevano divertito l'ozio delle passate generazioni. Ma gli scrittori erano tuttavia divisi, oltre che per scuole, in gruppi regionali non senza lievito di ostilità: i libri più divulgati in Toscana erano appena noti in Lombardia, quelli di Napoli per giungere a Torino dovevano impiegare molti anni. Nè il mestiere dello scrittore era senza pericoli e dolori: i governi sospettosi vegliavano e censurando condannavano: la pubblica opinione poco giovava: la stessa coscienza degli autori, combattuta da principii inconciliabili di autorità e di emancipazione, non trovava sempre in se medesima l'energia di una lotta, nella quale il riposo era conteso e negato il trionfo.

Però un'intenzione italiana animava ogni scritto. I giornali scarsi, mal redatti, diretti da gazzettieri ligi alla polizia, non potevano diventare arma di battaglia contro i governi, o, tentandolo per opera di giovani animosi, erano presto soppressi. D'altronde il popolo in gran parte analfabeta non leggeva. I libri valevano meglio, perchè capaci di lasciare più profonde impressioni e di educare opinioni più durevoli. La grande massa del pubblico rimaneva nullameno svogliata: quelli che, leggendo per ozio di vita o cultura di spirito, partecipavano col pensiero alla vita spirituale della nazione, erano stati educati quasi tutti dal clero o nell'abitudine di famiglie egoisticamente chiuse in se medesime e timorose di ogni novità per troppo lunga esperienza di servitù. La bigotteria, profittando del nuovo fervore romantico verso la religione, affettava grande e signorile importanza; l'impossibilità materiale d'una rivoluzione, che i ripetuti tentativi infelici disonoravano nel timido buon senso dei più, rafforzava il rispetto ai principi, mentre lo spionaggio delle polizie assiderava ogni calda ed improvvisa risoluzione.

Il dualismo letterario.

Quindi delle due grandi scuole letterarie, che allora si divisero il campo, quella della rassegnazione e quella della rivolta, la prima fu la più numerosa ed accetta. A capo di essa splendeva Alessandro Manzoni, guidava la seconda Francesco Domenico Guerrazzi: entrambi poderosi nell'ingegno, profondamente e largamente originali. Intorno a Manzoni si strinsero Pellico, Grossi, Torti, Tommaseo, più tardi il Carcano e il D'Azeglio; con Guerrazzi instava scettico ed appassionato il Bini, tempestava il Berchet, poi folgoreggiò il Niccolini; da Napoli lanciava inni simili a girandole il Rossetti, quindi stridè la satira del Giusti; alto su tutti, più moderno e nulla meno antico quanto il dolore umano, si librava Leopardi, quasi immagine disperata della patria che quegli sforzi generosi non avrebbero salvato.

Ma se nel Manzoni un cattolicismo troppo più cristiano di quello politico di Roma attutiva le passioni esasperate dall'oppressione indigena e straniera, attirando l'egoistica prudenza dei molti piuttosto a speranze di riforme graduate che alla necessità di una rivoluzione nazionale, il sentimento di questa era pur così vivo nel grande poeta da ispirargli tra gl'inni dell'Adelchi la più rovente rampogna di battaglia. Nel suo stesso romanzo tanto lodato, attraverso la falsità di caratteri popolari che allora parvero meravigliosi di esattezza, e sotto il velo di una morale che sconsigliando la lotta conclude fatalmente alla tirannia dei malvagi responsabili solo in faccia a Dio, si coglie una onesta intenzione democratica, che riconosce unicamente nel popolo la poca virtù capace di albergare sulla terra. Ma contro Manzoni, del quale la coscienza religiosa e semi-rivoluzionaria, accordandosi con quella della massa, doveva rimanere come specchio di quella della nazione, sorgeva tempestando il Guerrazzi. Preso nell'orbita della grande cometa di Byron, egli è fosco e solenne, impetuoso e compassato, credulo e scettico: la sua collera come quella del mare gitta schiuma e ruggiti, la sua parola scoppia come il baleno, la sua passione ulula come una bufera. Libertà, odio allo straniero ed al prete, orgoglio italiano, antagonismo regionale, amore democratico e rancore plebeo, pessimismo ateo e deismo biblico, tutto fermenta nel suo spirito; incapace di misura, nullameno conserva sempre l'atteggiamento scultoriamente classico di un gladiatore; tribuno, fonde la veemenza dell'apostolo con quella del profeta. I suoi libri spesso pensati e scritti nelle carceri sono battaglie: il suo disprezzo per la gente è un tonico che la fortifica, le sue invettive hanno il vigore di un'argomentazione, la sua teatralità abitua ai pericoli delle parate per giungere a quello degli scontri.

Nessun scrittore fu allora utile e potente più di lui, nessuno pure doveva essere più presto dimenticato. E mentre il Guerrazzi, facendo dell'arte una catapulta, scagliava i propri libri come macigni sui nemici della patria, Berchet esule lanciava da lungi canzoni di guerra e di maledizioni che facevano stringere convulsamente le mani cercando un'arma a chiunque le ascoltasse; Niccolini risaliva sonante di lirica sul teatro di Alfieri, mutando la tragedia in una battaglia per la libertà, spesso a rovescio della storia, moltiplicando personaggi e fantasmi che parlavano contro i tiranni, come irrompono i torrenti e divampano gl'incendi; Giusti ravvolto nell'anonimo, come l'eterna satira popolare, gittava fra quelle ardenti declamazioni lo stridore di un sarcasmo che finiva di rendere spregevoli i nemici della patria, già diventati odiosi a forza di essere odiati. Vivido, leggero, infallibile nella malizia quanto l'antico popolo di Firenze, il nuovo poeta coglieva il falso di ogni partito, spingendo alla rivoluzione collo scherno a tutte le autorità, e con così intensa passione di patria da mutargli spesso il lazzo amaro in un eroico urlo di sfida.

Ma sulle due scuole della rassegnazione e della rivolta, sui nuovi guelfi e ghibellini, su coloro che non avrebbero voluto sacrificare il cattolicismo alla rivoluzione, e quelli che dichiaravano la libertà inconciliabile colla religione, Giuseppe Mazzini, alto nello sforzo di riassumere le due opposte tendenze, predicava l'insurrezione in nome del diritto e il martirio in nome di una religione che del cristianesimo accettava quasi tutta la parte essenziale. Scrittore politico più rivoluzionario ed efficace di tutti, dava corpo agl'incerti fantasmi delle due scuole colla doppia formula dell'unità e della republica italiana in una prosa serrata come una falange e nullameno sinuosa come un'onda, balenante e melodica, esatta come una geometria e capziosa come una pittura, italiana più che quella medesima di Machiavelli e tanto moderna che oggi pure nessun'altra ha ancora saputo ripeterne l'animosa ed animatrice naturalezza.

In tanta effervescenza di novità si rivangava naturalmente il passato; a ciò spingeva la passione romantica, e quella dialettica storica che costringe i popoli ad estrarre il futuro dalla coscienza del proprio passato. La morta erudizione si animava d'intenzioni creatrici, i congressi scientifici fingevano assemblee nazionali, i canti del popolo erano sfide alla tirannide, le allusioni dei libri e dei discorsi avevano l'improvviso e la precisione delle coltellate. La stessa questione della lingua dibattuta con tanto accanimento si mutava in problema nazionale, giacchè l'insurrezione di tutte le provincie contro la primazia toscana e la confusa difesa di quest'ultima menavano all'unità di un linguaggio piuttosto parlato che scritto, non più imbalsamato nella tradizione, ma vario e mobile come la vita. La critica, trascinata dall'istinto novatore della letteratura, cangiava i vecchi canoni delle scuole per accoglierne altri dalla storia e dalla filosofia; l'arte ribattezzata da Canova nel classicismo greco, spezzava con Bartolini il sacro fonte per avventarsi a mal comprese originalità; si moltiplicavano le storie regionali, s'investigavano gli archivi, si cercava il segreto delle epoche trascorse quasi per indovinare quello dei fatti imminenti.

Il contatto e la diffusione delle letterature europee spronavano a grandi cose col confronto umiliante dello stato attuale italiano, giacchè la boria del passato, diventando argomento contro l'oppressione straniera, non toglieva di sentire a quanta distanza si fosse ancora dalle nazioni che guidavano il movimento europeo.

Bisognava tutto rinnovare e tutto fu miracolosamente rinnovato. Giammai l'Italia ebbe più grande operosità spirituale; dalla ristorazione del '15 alla rivoluzione federale del '48 il numero dei grandi italiani è tale che fa battere il cuore di nobile orgoglio.

Colletta e Botta.

Nella letteratura politica, dopo il Conciliatore, le opere di Guglielmo Pepe e di Santorre Santarosa rivelano meglio di ogni altra le idee d'allora negli uomini d'azione, che, separati dalla vita nel segreto delle sètte, non solo vi diventano incapaci di afferrare il significato storico di un momento, ma non v'imparano nemmeno l'abilità necessaria alle cospirazioni. Al disopra di esse levasi per senno politico la storia della rivoluzione napoletana di Vincenzo Coco: dopo di essi il Colletta e il Botta, fra la turba degli storici accumulanti in lavori parziali l'immenso materiale della futura grande storia d'Italia, esprimono un altro momento dell'opinione publica italiana. Quegli bonapartista, nemico della carboneria e uomo del potere anzitutto, giudica la rivoluzione napoletana del '20 come una serie gratuita di errori, senza afferrare la causa recondita di un movimento storico, che pure riceve contraccolpi da tutto un moto europeo; non sente la fatalità dell'antitesi in quel processo rivoluzionario, al quale mancano i due grandi principii dell'unità e della sovranità nazionale; ma, nemico implacabile della monarchia borbonica, la trascina alla gogna dell'immortalità colla paziente passione di una analisi, cui nulla sfugge. Senonchè il suo pensiero si offusca alla fine: fra i regii sempre carnefici, e i rivoluzionari sempre inetti, l'avvenire è impossibile. Il bonapartismo fallito non può ripetersi; la religione ridotta dai preti ad arma di battaglia non saprebbe mutarsi in sostegno; il popolo non esiste e non esisterà; l'Italia non è, non fu, non sarà mai che una regione spezzata in singoli Stati; e lo storico, rifugiandosi indarno nell'angustia di un concetto puramente napoletano, muore senza risolvere il problema impostogli dalla propria storia. Quando questa uscì, il successo ne fu immenso: si parlò di Tacito, si ammirò la severa grandezza dello stile classico, al quale avevano collaborato il Giordani, il Niccolini e il Capponi; ma di nobile e d'importante davvero non ne scaturiva che l'odio alla monarchia borbonica, così intenso da propagarsi in contagio contro ogni altra monarchia.

La conclusione, che il Colletta non aveva osato di trarre dalla propria storia, la cavò il Botta, e fu un odio profondo ed ingenuo contro la rivoluzione francese venuta a turbare il naturale sviluppo della storia italiana. Colletta era rimasto vittima della crisi nell'impossibilità di conciliare la doppia impotenza dei regii e dei rivoluzionari in un'idea di progresso; Botta si cacciò risolutamente indietro, isolando il passato d'Italia ed isolandola da tutto il mondo. Egli non si domanda il perchè della rivoluzione o dell'impero francese: le tempeste e le disgrazie hanno forse sempre un perchè? Secondo lui la libertà era antica in Italia, le repubbliche di Genova e di Venezia l'avevano applicata coll'equa combinazione di un patriziato immobile e di una democrazia municipale. Perchè dunque erano finite così tristamente? Botta non se lo chiede. La Francia, compiendo di sopprimerle, non reca in Italia che leggi geometriche; ma l'assoluta uguaglianza civile, che sola può produrre la sovranità nazionale, ripugna al vecchio italiano. La rivoluzione francese non ha che a presentarsi per vincere, e Botta profondamente innamorato del proprio paese dimentica la propria autorità di storico, colla quale aveva condannato la nullaggine infame di tutte le corti italiane, per sposare subitamente la causa dei vinti contro i nuovi barbari. Ogni mossa dell'esercito francese per lui è un errore, ogni riforma una profanazione; i liberali sono parricidi, i reazionari possono essere assassini, ma in fondo hanno ragione. La caduta del potere temporale non soddisfa più in lui il giansenista, la sostituzione di Murat a Ferdinando IV non lo compensa, il benessere prodigato dal governo unitario dell'impero napoleonico non lo appaga. Il suo patriottismo italiano trionfa della sua ragione: le republiche improvvisate e morte eroicamente, come quella di Napoli, non vietano a lui democratico il rimpianto delle vecchie dinastie cadute senza decoro nè di diplomazia nè di battaglia. Quindi rifugiato nell'adorazione di Torino, spia la caduta dell'impero aspettando il ritorno dei Savoia, dai quali non chiede e non aspetta nulla, ma nei quali sembra sentire istintivamente la continuità della storia italiana: e alla fine della propria storia, scorato e confuso, conclude in un lamento sull'incorregibile perversità umana e sull'inutilità di seguirne le vicende.

L'esagerazione dell'odio alla Francia aveva già toccato gli ultimi termini nel libro stravagante di un altro piemontese, il conte Galiani di Cocconato, che paragonò l'invasione francese alle calate dei barbari.

L'influenza del Botta sul pensiero nazionale fu efficacissima. La sua sincerità nel rivelare gli orrori delle corti italiane scemava l'effetto del suo odio alla rivoluzione francese venuta a spazzarle, mentre il suo patriottismo, che aveva resistito a tutte le speranze della libertà per passione della patria indipendenza, rinfocolava l'odio all'Austria ben più tirannica di Napoleone. La sua irreligione, i suoi istinti democratici persistenti nella disperata difesa dell'aristocrazia per opporla alla demagogia straniera giovavano nella nuova guerra contro l'autorità dei papi e dei principi, cui il ravvivarsi della religione per opera della reazione romantica ridava forze più minacciose. Che se il suo scettico scoramento sminuiva nei lettori la fede ai destini della patria, il nuovo pessimismo della scuola romantica, ebbro di violenze patriottiche, bastava a temperarne l'effetto; mentre l'autorità dello storico, allora immensa, serviva come arma contro coloro che avrebbero voluto vedere la salvezza solo in un ritorno all'antico.

Il principio rivoluzionario abilissimo a giovarsi di tutto non derivava dai due storici che gli effetti della loro critica al passato, lasciando all'entusiasmo dei giovani scrittori aprire le porte del futuro colla magica chiave dei sogni. Perché il presente di quella reazione monarchico-austriaca fosse irremissibilmente condannato nella coscienza della nazione bastava che nessuno dei magni spiriti, combattendo il liberalismo per le tragiche ed incomprensibili contraddizioni de' suoi primi momenti, si ergesse difensore del passato: e nel passato si poteva come Botta condannare per patriottismo l'invasione francese, non assolvere i principii dei vecchi governi in nome dei quali si pretendeva ancora di governare.

Ma la corrente rivoluzionaria ingrossava tutti i giorni. Una turba di minori letterati, accodandosi ai grandi, ne rinforzava e ne diffondeva l'opera; il rispetto alla religione cresceva nei più per influenza della scuola manzoniana; ma il nuovo sentimento religioso, sorto come reazione contro l'empietà rivoluzionaria, non l'aveva al tutto dimenticata, e separava involontariamente la religione dal clero: questo non poteva più essere stimato che a patto di conformarsi interamente allo spirito di quella. I nuovi credenti non avevano che a ricordarsi per ritornare increduli: l'ingenuità della vecchia superstizione era finita; il cattolicismo profittava della crescente religiosità delle anime senza contenerla intera, giacchè la filosofia, la poesia e la patria stessa se ne toglievano gran parte. L'eroismo ateo della rivoluzione passava nella religione, che aveva ceduto così vilmente il campo alle prime bufere del 1793 per ritornare tremante fra i gendarmi dell'impero napoleonico e soccombere daccapo alla loro violenza. L'opposizione del clero al patriottismo liberale, costretta ad allearsi collo straniero oppressore, disgustava anche i più arrendevoli fra i credenti: le stesse plebi brutali malmenate dalla polizia cessavano di vedere nei liberali tanti eretici. Solo i contadini, lontani da tutte le influenze civilizzatrici dello spirito, rimanevano ligi al clero; ma, chiusi nell'inerte egoismo della propria segregazione, non potevano offrire, e non offersero poi, soldati nei giorni della battaglia.

La quale, diversificandosi per tutte le forme, che il pensiero può assumere nell'azione, si rinnovava ogni giorno e in ogni luogo, nel discorso e nel libro, nell'allusione e nella reticenza, negli scavi dell'erudizione e nelle visioni della poesia, nelle proposte commerciali e nelle ipotesi scientifiche, nell'italianità e nella nazionalità, che uomini e cose, affermazioni e negazioni, esprimevano contro la reazione monarchico-clericale guidata dall'Austria.

Rosmini e Gioberti.

Ma come fondamento al vasto e confuso edificio letterario, che la nuova coscienza nazionale alzava per disciplinarsi all'azione, una nuova filosofia allargava con sapiente lavoro le basi del pensiero. Mentre il Galluppi, fedele alla filosofia sperimentale inglese oppugnava la Genealogia del pensiero del Borelli attaccandosi a Kant senza troppo comprenderlo; e il Poli, con tentativo più generoso che fortunato, imbastiva un eclettismo universale per opporlo a quello prestigioso del Cousin; e il padre Ventura, obbedendo inconsciamente al moto risospingente gli spiriti nel passato per conquistare nuove idee, mirava a risuscitare la scolastica innestando la filosofia sulla rivelazione; e Terenzio Mamiani, ingegno forbito, mirabile per facilità di dilettantismo in ogni ramo del pensiero, affrettavasi a sciogliere tutte le questioni riducendole a quella sola del metodo, già noto secondo lui in tutta la sua assoluta verità agli antichi italiani; due primissimi intelletti stampavano nella storia del pensiero nazionale ben più vasta orma. Contemporanei, dottissimi, diversi nell'ingegno e nel carattere, furono avversari, e nullameno concorsero politicamente nello stesso concetto. Rosmini si oppose al criticismo dissolvente di Kant, Gioberti all'idealismo trascendente di Hegel; ma entrambi rimasero inferiori alla logica del primo e alla sintesi del secondo. Rosmini fondò il metodo psicologico con insuperata precisione di analisi; Gioberti salì impetuosamente sull'ontologia per dominare da essa tutto lo scibile, capovolgendolo spesso nelle più arbitrarie e bizzarre prospettive. Quegli era un intelletto, questi una fantasia filosofica; l'uno un carattere sacerdotale, l'altro un temperamento tribunizio irresistibilmente facondo e ciarlatano; l'opera di Rosmini prosegue, quella di Gioberti si è arrestata. Ambedue furono cattolici ed agguerrirono il sistema cristiano contro gli assalti della metafisica tedesca e della scienza moderna, per quanto era sistematicamente possibile.

Politicamente conclusero al neo-guelfismo: Rosmini vi arrivava lentamente e solidamente per deduzioni scolastiche lasciando la creazione nel mondo, la ragione sotto la rivelazione, la storia sotto la provvidenza, la politica sotto la morale, la morale sotto la religione, la religione sotto la santa sede, e questa sotto il pontefice come sotto la più alta, antica ed universale autorità italiana. Gioberti, sempre oscillante nelle opinioni, rivoluzionario a Torino, poi esiliato ed ultramontano nel Belgio, spregiatore d'ogni pensiero filosofico antico o moderno non suo, intricato come una foresta e proteiforme come il mare, nemico della Francia e poscia suo ammiratore, alleato di Rosmini quindi suo implacato nemico, si spinse all'ultra-cattolicismo. Siccome il papa era in Italia, a lui spettava, secondo Gioberti, di rialzarla, e a questa di redimere i popoli d'Europa dalla barbarie, nella quale erano piombati. «Roma essendo più ideale dell'Italia, l'Italia dell'Europa, l'Europa dell'Oriente e l'Oriente del mondo, ciascuno di questi aggregati viene ad essere il contenente ideale dell'altro, come l'anima del corpo, l'idea dello spirito e Dio dell'Universo». «L'Italia è l'organo della sovrana ragione, della parola regia e ideale, la sorgente, la regola, la guardia di ogni nazione, d'ogni lingua, poichè ivi risiede il capo che dirige, il braccio che muove, la lingua che insegna, il cuore che anima la cristianità». «Roma deve dominare la confederazione dei principi italiani, l'Italia deve sostituirsi alla supremazia francese, riprendere la sua superiorità su tutti i popoli, avere le proprie colonie, convertire la Russia, reintegrare la Germania nell'antica fede, soccorrere l'Inghilterra nell'imminente sua crisi». L'Italia diventava così universale, soprannaturale, sopranazione, capopolo: gl'italiani erano i leviti della cristianità, Roma l'ombelico della terra.

Era una risurrezione dell'antico primato cattolico prima che la grande riforma di Lutero lo spezzasse, e le nazioni si individualizzassero storicamente nel concetto della propria sovranità; ma doveva essere pure l'inevitabile termine di quella scuola reazionaria-religiosa, che, sbigottita dalla rivoluzione francese ed incapace di sbrogliarne i principii, cercava nella storia nazionale un centro ove fortificarsi. Infatti, rinunciando ai dogmi rivoluzionari dell'eguaglianza civile e della sovranità individuale e nazionale, e discendendo nel passato italiano, l'unica idea unitaria era ancora quella del papato. Per esso, come centro del cattolicismo, l'Italia era ancora una originalità e un valore nella storia moderna. Rosmini, meglio temprato e più equilibrato, tendeva alla costituzione di un partito nazionale guelfo, senza precisargli nè programma, nè fisonomia per opporlo all'oppressione straniera, lasciando nella Filosofia del Diritto il diritto politico sulle vecchie basi, e quindi la storia contemporanea nella vecchia assisa e colle immutate relazioni da suddito a sovrano di diritto divino: così egli sperava si sarebbe potuto addivenire ad una confederazione di principi italiani e ad una serie di riforme da essi largite ai popoli, senza riconoscere a questi il diritto di discutere i propri re. Per Gioberti, trascinato da un inconsapevole senso di unità, che in Giuseppe Mazzini era già coscienza politica, il papa come anima dell'Italia stretta intorno al papato come l'antica falange macedonica troverebbe la libertà nella più assoluta disciplina religiosa; i principi italiani non conservavano valore in faccia a Roma, lo straniero lo perderebbe dinanzi al primato italiano necessario al mondo come quello di Roma all'Italia; il popolo si comporrebbe nell'eguaglianza religiosa e in una democrazia cattolica, che gli assicurerebbe una specie di patriziato levitico.

Il genio latino, che, educato all'unità da oltre duemila anni di storia, trovava la propria moderna unità politica in Mazzini capace di comprendere nello stesso principio e nello stesso processo rivoluzionario tutti i popoli servi d'Europa mentre più specialmente s'adoperava al problema italiano, doveva così dare con Gioberti l'ultima formula dell'unità italo-cattolica nello splendore di un paradosso ingenuo a forza di fede, splendido nell'assurdo ed irresistibile di logica.

Questa grande scuola cattolica, nella quale Rosmini era il filosofo e Gioberti il tribuno, ebbe in Cesare Cantù lo storico mondiale. Giovane ancora e con una operosità spaventevole, questi si accinse alla storia universale accettandone per base i principii cattolici, il dualismo degli ebrei col mondo antico, dei cristiani col mondo di mezzo, dei cattolici col mondo moderno; e scrisse una opera immensa di mole, naturalmente più vasta che profonda, superando Bossuet di quanto un libro può superare un discorso, copiando, riassumendo, compilando, servile ed originale, sincero e partigiano, nobile nell'intenzione, altero nel metodo, fiacco nei criteri, ammirabile ed ammirato nella disposizione della materia e nel vigore dell'interpretazione religiosa. Egli fu ancora un campione di quell'unità che affaticava tutti gli spiriti italiani, e un rappresentante della reazione romantico-religiosa che gettava le coscienze in braccio a Roma col doppio spavento delle negoziazioni rivoluzionarie francesi e del trascendentalismo germanico.

Ma a questa corrente presto si opposero in nome di un nazionalismo scientifico e filosofico Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo, ai quali s'aggiunsero, minori d'ingegno e più veementi all'assalto, Bianchi-Giovini ed Ausonio Franchi, questi dialettico poderoso, quegli polemista stringato. Giuseppe Ferrari, ingegno di filosofo-storico ben altrimenti superiore a Cesare Balbo, che lo fu nella reazione religiosa investigando i primi secoli della letteratura cristiana, doveva poi dare all'Italia nella storia delle sue rivoluzioni il più profondo ed originale studio delle stesse, e vecchio tentare nella Teoria dei periodi politici l'estrazione della legge matematica dalla storia per assoggettarne tutti i momenti alle previsioni del calcolo. Cattaneo, filosofo della scienza, vi disseminò l'opera propria, richiamando gl'ingegni divaganti alle fatali modernità della vita e propagando nel disprezzo degli apriorismi metafisici le verità accertate dall'esperienza per educare al culto di una ragione, che bastasse a se stessa. Entrambi furono federalisti, iniziando una nuova scuola di rivoluzionari, che dalle ardenti utopie dell'unità republicana o cattolica e dalle timide sottomissioni dei riformisti ostinati a sperare dalla conversione dei principi miglioramenti politici od amministrativi, spingevano all'esame del passato italiano per associarlo non all'unità, primo termine della rivoluzione moderna, ma all'associazione che, essendone il secondo, ne diventerà il trionfo. Così dall'antica storia federale italiana, saltando il processo violento dell'unità, necessario a costituire la moderna individualità politica, arrivavano al futuro federalismo etnografico che esprimerà davvero tutte le varietà del popolo. Ma questo, che politicamente era allora un errore, diventava rivoluzionariamente una colpa, dividendo le forze della rivoluzione. Nullameno l'empietà del loro pensiero, illuminata dalla sincerità della loro vita, giovava all'emancipazione del carattere nazionale dalla schiavitù della morale religiosa, mutata in argomento politico dal clero e riconsacrata dalle affermazioni della scuola neo-guelfa.

Intanto l'efficacia della propaganda letteraria, che i capi della scuola della rivolta aumentavano ogni giorno scrivendo nuovi libri o patendo nuove torture, conciliava le divergenze dello stesso pensiero rivoluzionario nello scopo comune di un'indipendenza italiana. In questo convenivano tutti, meno i preti e i più abbietti cortigiani. E d'indipendenza fremevano i giovani infiammati dall'arte della parola, del pennello o della musica a più alti propositi; Bezzuoli dipingeva Carlo VIII come protestando; Sabbatelli malediceva nell'Aiace; Rossini dalla commedia di Figaro, vibrante d'immortale giocondità, saliva nel Mosè alla tragedia di un popolo schiavo, esalando nel pieno de' suoi cori la passione di un odio e di una speranza, che solo la morte dell'oppressore poteva consolare. Poi nel Guglielmo Tell la tragedia diventava radiosa epopea: il popolo era passato dalle congiure alle battaglie, e la sua vittoria squillava superba di balza in balza sino ai piani d'Italia ove quello stesso straniero invasore la sentiva rabbrividendo come una sfida. Bellini, strappato dal ciclone rivoluzionario alla soavità di un idillio ineffabile, e gittato come un sonnambulo in mezzo alle terribili tribù druidiche, ne ripeteva nella Norma gl'irresistibili inni di guerra contro Roma; mentre l'Italia fremente d'entusiasmo guerriero guardava alle Alpi lontane se i Galli le discendessero un'altra volta a combattere austriaci, principi e preti dietro un nuovo Napoleone.

La Francia non pensava forse sempre all'Italia? Lamennais non aveva esclamato, rivolgendosi dalle Alpi a contemplare gli incantevoli piani lombardi; «Dormi, bella Italia, dormi tranquilla su quello che chiamano il tuo sepolcro; io so che è la tua culla»? E questo augurio del grande apostolo non valeva la desolata ingiuria di Lamartine così baldamente rimbeccata dalla satira del Giusti? Napoleone I morente a Sant'Elena non aveva affermata la futura unità d'Italia? Byron morente a Missolungi non aveva proclamato la necessità d'una republica universale?

Intanto che la poesia ferveva nelle anime migliori, una rettorica inesauribile scorreva per ogni scritto o discorso a riscaldare i più freddi e ad eccitare i più restii; il romanticismo vi cooperava colle proprie smanie, la moda la consacrava colla propria irresponsabilità. Si declamava di guerre, di congiure, d'eroismo, di passioni, di genio; i giovani si drappeggiavano nei mantelli, portando con vanitosa voluttà armi nascoste; le poesie incendiarie sequestrate dalle polizie si leggevano nel segreto di circoli come in convegno di congiurati, il contrabbando dei libri proibiti dava loro il valore d'una battaglia vinta contro il nemico, gli esuli e i martiri diventavano santi nelle menti più fresche, l'odio allo straniero cresceva a furore mal rattenuto, quello al prete inveleniva nel disprezzo. Nelle scuole si coglievano a volo le allusioni dei professori liberali per esagerarle con strepitose ovazioni, le imprudenze abituavano al coraggio, il coraggio vero si addestrava al pericolo. Ma poichè il popolo non partecipava a questa effervescenza spirituale della borghesia, naturalmente la rettorica doveva esserne il difetto, quella ampollosità del pensiero e della parola, del sentimento e dell'azione, che sgonfiandosi al cozzo della realtà lascia tanto disgusto anche nei migliori; e nullameno quella rettorica, oggi così ridicola per la maggior parte de' critici, era allora non solamente l'inevitabile malattia d'un'idea costretta ad esagerare la propria passione per diffondersi, ma un vero ed efficace modo di diffusione nelle masse incapaci di sentirne la verità nella nuda ideale bellezza.


Capitolo Quarto.

Giuseppe Mazzini e la Giovine Italia

La rivoluzione dell'Italia centrale nel 1831, chiudendo il periodo dei tentativi regionali iniziato coi moti del '20 e del '21, aperse l'altro più fecondo del federalismo e dell'unità. Questa ebbe a campione Giuseppe Mazzini, del quale l'apparizione politica colla lettera anonima indirizzata a Carlo Alberto fu come uno scoppio di fulmine nell'atmosfera torbida della vita italiana, che diradandola lasciò vedere nell'avvenire un'idea precisa.

Niuno prima lo conosceva; all'indomani era già celebre.

La sua prima ed incancellabile impressione di fanciullo era stata l'esodo dei rivoluzionari vinti nel 1821; nel 1828 fondava un giornale letterario a Genova sua patria, l'Indicatore Genovese; soppresso questo, l'anno dopo con Guerrazzi e con Bini ritentava a Livorno l'Indicatore Livornese, agitandovi, fra questioni letterarie che rivelavano già una critica superiore, idee politiche incredibili di temerità e di precisione. Incarcerato alla rivoluzione di luglio con altri liberali come reo di carbonarismo, e lo era, quindi esigliato per sempre, riparava a Marsiglia. La continua pensierosità e il pallore, che lo avevano reso sospetto al governatore genovese Venanson, esercitavano sino d'allora uno strano fascino su quanti lo conoscevano. Quindi la fallita rivoluzione dell'Italia centrale lo rivela a se medesimo: l'Austria aveva già occupato metà della penisola, il governo papale, protetto da essa, si abbandonava a feroci reazioni, la Francia di Luigi Filippo tradita tradiva: gli italiani disperavano per l'ultima volta. Il momento è ineffabilmente tragico; a Torino, a Milano, a Modena, a Firenze, a Napoli il dispotismo si rialza spavaldo nella coscienza di essere invincibile; la forza morale dell'idea soccombe alla violenza brutale dei fatti. I più lucidi intelletti si abbuiano, i più forti cuori si accasciano. La carboneria esaurita nel ridicolo di tre sconfitte si disperde negli esigli, offrendo a popoli più capaci d'insorgere i più intrepidi fra i propri cospiratori; dalle corti nessuna lusinga di riforme costituzionali, nessuna possibilità di accordo federativo contro lo straniero. La bandiera nazionale, difesa strenuamente a Rimini dall'ultimo pugno di ribelli, è rimasta sotto un mucchio di cadaveri, lenzuolo troppo breve e non abbastanza glorioso per salvarli dalla ferocia del vincitore e dall'ironia del popolo educato al codardo rispetto di ogni tiranno.

Quindi Mazzini, afferrandola improvvisamente, la sbatte sul volto dei moderati, che l'avevano lasciata cadere nel fango, a Parma, a Modena, a Bologna, ad Ancona: si separa dalla carboneria, e solo, senz'altra autorità che la propria coscienza, altra forza che il proprio genio, sconosciuto a tutti, tratta quasi minaccioso con Carlo Alberto, nuovo re e vecchio traditore, gettandogli il perdono e la corona d'Italia, se la purghi dai despoti indigeni e stranieri; si rivolge alla sconosciuta gioventù, che educata fra il disastro di due rivoluzioni, vergine ed incolpevole, può sola ripararvi col trionfo di una terza. Le nuove persecuzioni che esasperano ogni onesta coscienza, e l'emigrazione di coloro che non possono e non vogliono sottomettersi all'insaziabile tirannide delle polizie, gli porgono le prime attenzioni e i primi compagni: lo stesso slancio republicano della Francia non era ancora al tutto represso. Qualche brivido scuoteva tuttavia l'Italia: Belgio e Polonia, l'uno vittorioso e nullameno in cerca di un padrone costituzionale, l'altra eroicamente ostinata in una insurrezione nazionale ma aristocratica e quindi senza speranza, contraddicevano alle affermazioni della Santa Alleanza; la recente monarchia di Luigi Filippo, nata di rivoluzione, conteneva in germe un'altra rivoluzione; un periodo storico stava per aprirsi alla gioventù, che, non avendo conosciuto la democrazia imperiale di Napoleone, era spinta dal moto del secolo verso la democrazia republicana.

Mazzini si gettò nella tormenta, fondando simultaneamente il giornale e la società della Giovane Italia.

L'uno e l'altra erano e dovevano restare la maggiore originalità politica e letteraria di questo secolo in Italia.

La sua idea è semplice ed universale.

All'unità romana che abbracciava tutto il mondo antico, all'unità cattolica che involgeva ancora il mondo moderno oltrepassando sempre l'Italia ed immobilizzandosi in Roma, all'Italia federale dei comuni, delle signorie, dei principati, dei regni, egli contrappone l'Italia una, individuata in nazione, colla sovranità del popolo, libera, originale nella modernità dei principii proclamati dalla rivoluzione francese, cancellando con ingenua ed eroica astrazione tutte le differenze storiche, gli antagonismi regionali, i dissidi politici, le rivalità economiche, le varietà etnografiche, che vecchie di tremila anni le componevano ancora tutto il presente. Nessuno non nato nel secolo può quindi appartenere alla nuova società, che sostituisce la carboneria sorta nell'impero e succeduta alla massoneria del medio evo. Questa non è condizione di capitano, che esige reclute giovani per arrivare a marcie più rapide, ma un distacco storico di principî e di epoca. Il passato è conchiuso: l'Italia o non sarà, o sarà nella rivoluzione e per la rivoluzione francese. Veterani e residui non sono più vitali; la libertà della nazione non può derivare che da quella dell'individuo come l'individualità collettiva dalla singolare; la sovranità popolare mena inevitabilmente alla republica. Ogni transazione sarebbe contraddizione, tappa inutile, consumo gratuito di forze. Il mito della redenzione di Cristo deve sostituirsi colla realtà di redenzione operata da ognuno in se stesso: tutti gli sforzi debbono concordarsi, ma nessuno può salvare un altro. Ogni individuo singolo o collettivo deve creare se stesso: l'Italia farà da sè.

Principi, governi, leggi, ogni forza pubblica del suo passato cessano di appartenerle, giacchè, cassate dalla rivoluzione francese e riconfermate dalla reazione della Santa Alleanza, hanno perduto persino la legittimità della tradizione: la storia non ha ripetizioni perchè la vita non può avere risorti. La rivoluzione sarà quindi contro spettri. L'Italia dominata da fantasmi non è più sottomessa che a pregiudizi: basterà pensare per non credere, sentire per resistere, muoversi per vincere. La coalizione degl'interessi come non arrestò mai così non arresterà l'espansione delle idee. La coscienza italiana fatta solamente di passato non ha che memorie; la coscienza rivoluzionaria le darà colle idee i sentimenti della vita moderna. Ma Dio è nella coscienza rivoluzionaria, perchè Dio è eterno, e la rivoluzione francese perì per averlo dimenticato.

La rivoluzione francese secondo Mazzini, è l'ultimo trionfo dell'individualismo, la formula suprema del diritto, alla quale deve succedere quella del dovere sociale.

La nuova società è dunque politica e religiosa: una riforma vi dovrebbe precedere la rivoluzione; l'educazione ne sarà mezzo e scopo, poichè la personalità morale è il primo e ultimo termine della storia e della vita. Se le altre sètte politiche non avevano mirato sino allora che a rimutare governi, opponendo coalizioni di diritti costituzionali a leghe di privilegi regali, e, costrette a concentrarsi nell'ombra, si erano poi miseramente disperse affacciandosi alla luce; la Giovane Italia si annunzia per proclami, publica statuti, battaglia nei giornali, si effonde in predicazioni. Parrebbe un moto religioso: la sua forma letteraria è biblica e romantica, la sua passione puritana, il suo proposito educatore, le sue armi le virtù. Dio, presente nella coscienza e nell'opera, è al tempo stesso rivelazione e ragione. Mancano dogmi, riti, l'esteriorità di una nuova religione, ma il principio cristiano vi si riconosce al primo sguardo nell'espressione vaga, che poi si condenserà senza precisarsi nella setta oggi celebre dell'unitarismo; deismo precettivo e morale, poesia fervida e pedante, generosità ed equità ammirabili.

Il mondo storico nelle sue varie composizioni politiche vi perde colla nettezza dei contorni ogni imponenza materiale; le difficoltà di mutarlo entro la nuova idea rivoluzionaria non hanno valore dal momento che il sacrificio diventa dogma e il martirio apoteosi; l'identità morale degl'individui cancella le rivalità storiche; ovunque e sempre, nell'individuo e nel popolo, la vita è missione cosciente e subordinata a un decalogo sempre morale anche nei mezzi, indirizzata al bene col bene, senza ricompensa sulla terra e senza premio nel cielo, collo scopo di un progresso senza meta, nel quale nessun grado potendo essere stazione, nessuna felicità è possibile a nessuna generazione. Non importa. La trascendenza dell'idea morale in Mazzini alza il nuovo politico ad apostolo: la sua visione non è di un'Italia libera e ricca, che si riunisca alle altre grandi nazioni per fare anzitutto il proprio interesse e guadagnare fra esse il posto migliore, ma di un popolo già schiavo e rigenerato da un'idea religiosa, il quale si levi sacerdote ed esempio all'umanità. L'utopia di Gioberti traspare sotto quella di Mazzini: l'uno è ultra-cattolico, l'altro ultra-morale, entrambi cristiani; quegli nel dogma, questi nei concetti; Gioberti nella tradizione, Mazzini nella rivoluzione: per ambedue la religiosità è base della politica, e la rigenerazione unico modo di risurrezione.

Impetuoso come Lutero, austero come Knox, inflessibile come Calvino, riformatore prima che rivoluzionario e nullameno separato dal secolo che vuol guidare, solitario come tutti gli apostoli malgrado la folla che lo circonda, malinconico e casto, poeta e filosofo, temerario ed incerto, ingenuo ed astuto, con istinti infallibili e colla percezione falsa o sublime del reale che distingue i profeti, Mazzini è al tempo stesso il padrone e la vittima della propria rivoluzione. Vi è della donna e del prete nel suo cuore. Artista incompiuto e pensatore eccelso quantunque angusto, rimane e rimarrà sempre inconciliabile colla sua stessa vita politica; così attraverso ammirabili vicende, che riveleranno in lui eccezionali virtù, non avrà mai l'irresistibile inconscio degli uomini d'azione come Napoleone I e Garibaldi, la serenità artistica di Goethe, l'impassibilità divina di Hegel, la duttilità infrangibile di Cavour, l'elasticità tribunizia di Gambetta; ma nullameno la sua parola si propagherà come un contagio, la sua purezza religiosa rischiarerà l'anima nazionale, l'eroismo della sua utopia spronerà alla vittoria dopo il martirio, la sua fede vincerà tutti i dubbi, la logica della sua argomentazione repubblicana, smentita in ultimo dal fatto della monarchia dei Savoia, avrà sconfitto la federazione coll'unità e ridotto il principio monarchico a non essere più che un accessorio dell'idea democratica.

Al pari di ogni novatore, Mazzini sarà al tempo stesso rivoluzionario e reazionario, respingendo e negando quante idee non s'accordino colla sua: credente nel popolo sino alla credulità, invece di coglierlo nella sua vera e sconfortante fisonomia di allora, lo vedrà sempre nel miraggio di una astrazione, e quindi capace d'insorgere ad ogni ora e d'intendere le nuove rivelazioni. Così egli accusa delle rivoluzioni fallite nel '21 e nel '31 solamente i capi: le masse erano tutte italiane, parate alla morte e alla vittoria. Nella sua democrazia geometrica quanto quella di Rousseau, col quale ha religiosamente molte somiglianze, egli concepisce l'uguaglianza politica come nel Contratto Sociale; tutti elettori e tutti eleggibili, rappresentanza unica e quindi costituente in permanenza: non classi e perciò non equilibrio e contrappesi parlamentari fra loro, educazione nazionale, dovere sempre superiore al diritto e la capacità nel popolo di compierlo sempre. Quindi l'utopia italiana, raddoppiata in lui dalla tradizione delle unità mondiali d'Italia, lo trae all'utopia europea: alleanza santa dei popoli contro quella dei re, qualunque differenza di grado nella civiltà e nella storia di ogni popolo cancellata, insurrezione europea concordata e simultanea. L'efficacia della sua riforma deve trionfare di tutto; imperi, regni, dinastie, diplomazie, antagonismi di razze, diversità di religione e di costume, tutto si dissolverà colla rivelazione del nuovo verbo. Il suo fervore religioso arriva al lirismo più poetico, sfolgora in formule di filosofia socratica e cristiana, che hanno la luce di un baleno e la soavità di un sorriso.

Poi, discendendo all'azione ed inculcandola, prosegue imperterrito nell'illusione dell'opera propria: la sua società della Giovine Italia, cresciuta a Giovine Europa, deve compiere il miracolo della trasformazione universale: egli non tien conto nè dello stato delle scienze nè di quello della filosofia; come incredulo di tutti i culti, non li calcola; sempre assorto nelle altezze della propria democrazia, giudica la rivoluzione francese piuttosto conclusione che inizio di epoca. Ma quando il socialismo gli si parerà dinanzi colla terribilità delle sue negazioni atee e passionate, inevitabili in tutte le novazioni, Mazzini indietreggerà inorridito, additando il cielo reso da lui stesso deserto coll'espulsione del Dio cattolico.

Ma in questo misticismo politico-religioso ferve l'anima più italiana che dopo Dante e Michelangelo sia apparsa nella storia. Le sue contraddizioni stesse formano la sua gloria, rispecchiando l'incalcolabile mistura del popolo da lui incarnato. Quindi Mazzini vuole essere tutto, si crede avere le più disparate attitudini: letteratura, critica, arte, filosofia, economia politica, poi la guerra, la cospirazione, l'erudizione, la filologia, la bibliografia; sentenzia su tutto, subordina tutto alla propria idea, livella tutto col traguardo di un solo teorema. Passioni, interessi, vizi per lui non sono forze e nemmeno realtà, perchè il difetto non è mai che negazione: li trascura, non s'accorge che, non mutandoli in armi per la rivoluzione, saranno armi contro di essa. Nella sua fede non vuole e non può ingannare il popolo; e la politica è l'inganno sublime, che il genio fa al buon senso angusto delle masse e all'avarizia del loro interesse, conducendole dove non intenderebbero o non saprebbero andare. In lui il riformatore vizia il rivoluzionario. Gli manca l'odio, questa forza suprema delle rivoluzioni: ha lo sdegno del profeta e il perdono del martire; se qualche volta sacrifica pochi cospiratori a un'impresa pericolosa, non giunge mai all'impassibilità pessimista di considerarli semplici strumenti. La moralità del suo cuore e del suo sistema lo inceppa; può arrivare al regicidio non alla strage, all'insurrezione non alla guerra civile, alla dittatura non al terrore; tradito non sa tradire, e si arrochisce in predicazioni spesso sublimi ed inutili; si batte inerme, ma sempre ferito non si arrende mai. Laonde isolato a poco a poco si falsa, la divinazione delle prime ore non gli si ripete più che a lunghi intervalli; profeta ed apostolo, pontefice e martire, non può essere il capitano delle moltitudini, delle quali non ha le passioni effimere e colle quali gli mancano le affinità irresistibili della vita. Invece di cogliere i fatti per adagiarsi in essi, bada a collocarvi le proprie formule e ad attuarvi il proprio sistema: è un poeta dell'azione che cerca uno scenario al proprio dramma, un accompagnamento al proprio canto.

Ma la sua influenza sulle anime è irresistibile. Alfieri, Foscolo, Berchet, Guerrazzi, gli spiriti più ardenti e sdegnosi paiono larve vicino a lui: egli solo è uomo; la sua penna gronda sangue, le sue lagrime abbruciano, la sua parola abbaglia. È impossibile non credere all'Italia, non sentirsi democratico, non voler soffrire e vincere con lui, dopo averlo letto o udito. Per quanto insufficienti le sue argomentazioni, e discutibili i suoi espedienti rivoluzionari, e poco probabile il disegno totale dell'impresa, e assurda ogni speranza nel risultato, bisogna credergli e seguirlo. Quindi nel giorno della battaglia tutti i volontari saranno suoi neofiti; quando si organizzerà la rivoluzione tutti i partiti politici, che lo tradiranno, saranno stati educati da lui. Ma allora il temperamento religioso e il genio poetico tradiranno Mazzini peggio de' suoi medesimi adepti; egli non saprà essere nè parlamentare, nè diplomatico; gli antagonismi politici lo coglieranno sprovveduto, le passioni e gli interessi non si accorderanno nella sua opera; parrà confuso, incerto, quasi piccolo, finchè il vento della catastrofe, dissipando il polverio delle quotidiane contraddizioni, non scopra nella caduta della repubblica romana la più grande tragedia della storia moderna. Allora Mazzini ne dirà gli ultimi versi, ed esulando da Roma, dopo avervi distrutto il papato, apparirà grande quanto S. Pietro, che diciotto secoli prima vi arrivava esule da Gerusalemme per distruggere Roma pagana e fondarlo.

Costituendo la Giovine Italia Mazzini afferma l'Italia una e repubblicana: il voto di Alfieri, di Parini, di Foscolo, di Monti, di Manzoni, di Berchet, di tutti i poeti si condensa in programma: l'unità accennata dal Romagnosi, propugnata confusamente dal Gioia in un opuscolo, non solo si muta in dogma, ma è finalmente sostenuta con fede incrollabile e con disciplina di argomenti storici e politici contro tutti i partiti italiani. Unità e repubblica: dunque guerra a tutta Italia e l'Europa di allora. Il passato è respinto; non esiste più che l'avvenire. La logica di Mazzini è tanto meravigliosa di lucidezza e di passione, quanto deboli le sue proposte per concretare la rivoluzione. Le antinomie della sua natura religiosa e rivoluzionaria peggiorano la sua già debole posizione. Rivoluzionario come Robespierre e Danton, non dovrebbe pensare che a distruggere, sbrigliando le passioni e versando veleno sulle piaghe del popolo: nel suo primo momento una rivoluzione non può essere che negativa, l'odio solo è la sua formula, tutte le armi, specialmente se cattive, le servono. Invece Mazzini è religioso, e mira piuttosto a rigenerare il popolo che ad emanciparlo: la rivoluzione politica per lui è mezzo, e i mezzi delle rivoluzioni, essendo fatalmente immorali, gli sfuggono. Egli non pensa nemmeno alla possibilità di giovarsi con interessi monarchici o aristocratici: non sa blandire le altre società liberali moderate per assalirle poi: non gli rimangono dunque che la propaganda degli scritti, la grandezza dell'idea e l'eroismo della vita.

Nell'esame storico, che egli fa dell'Italia, coglie bensì lo stato di putrefazione avanzata di tutte le monarchie, ma non indovina perchè il Belgio vittorioso nella propria rivoluzione s'imponga un re, perchè la Francia, dopo le trionfali giornate di luglio, si sottometta a Luigi Filippo, perchè la Grecia emancipata dal Turco accatti un re in Germania, perchè la Spagna in preda ad una rivoluzione permanente non voglia rinunciare alla propria infame dinastia. Per lui queste contraddizioni delle vittorie repubblicane, che concludono sempre all'elezione di un re, sono l'opera ribalda di pochi politicanti: il popolo schiettamente democratico è sempre stato tradito. Ma chi può tradire un popolo? Chi imporglisi? Di questa triste verità, che il popolo ancora dominato dalla tradizione autoritaria non può nè comprendere nè volere la repubblica, egli nemmeno sospetta: quindi non suppone che l'Italia, sorpassando la federazione, possa acquetarsi in una unità monarchica quanto la stessa federazione distrutta. E questo che era il termine più prossimo di progresso per allora, e che poi trionfò, gli pare non solo assurdo ma un regresso. Per lui la conquista d'Italia operata da una monarchia sarebbe un raddoppiamento di tirannide nel re e di abbassamento nel popolo.

L'unità è per Mazzini indipendenza, la repubblica libertà: inutili entrambe e paradossali se non siano unite.

Il programma della Giovine Italia non è dunque quello di un partito, ma di un sistema: anzi il partito è poco più di una scuola politica, con questo incalcolabile vantaggio sulle altre di essere una scuola in azione.

La nuova società si sviluppò vivacemente: i fratelli Ruffini, l'uno immortalatosi col suicidio, l'altro più tardi nelle lettere, corrispondevano da Genova con Marsiglia; da Livorno aiutavano il Guerrazzi e il Bini benchè per diversità d'indole poco inclini alla religiosità del nuovo moto: presto in Francia, in Spagna, in Svizzera, ovunque fossero emigrati, sorsero le nuove congreghe. Intorno a Mazzini stavano stretti il La Cecilia, il Modena moderno Roscio, il Campanella, il Benza ed altri. Il loro giornale, presto guerreggiato da Luigi Filippo, accontatosi colla santa alleanza per ottenere il proprio riconoscimento, dovette celarsi ed uscire di contrabbando. Tale lotta drammatica fu sostenuta dai giovani collaboratori con virtù pari all'ingegno.

La società, attraverso il misticismo un po' vuoto di formule morali e religiose, ricopiava nell'organizzazione segreta le sètte antecedenti, solo diminuendone la teatralità delle iniziazioni: il suo motto «ora e sempre» valeva la più bella delle odi patriottiche; la sua bandiera bianca rossa e verde, che diventò poi nazionale, era dono della duchessa Trivulzio, donna illustre per ingegno e per amori anche più illustri, e da un lato recava «Libertà Uguaglianza Umanità», dall'altro «Unità ed Indipendenza». Vi erano due gradi nella società, iniziato e propagatore, poi un giuramento lirico come un inno e rettorico come una declamazione, segni di riconoscimento, gerarchie di congreghe, tutto un organismo imitato dalla carboneria. Scopi della società erano la repubblica una ed indivisibile, la distruzione dell'alto clero per sostituirvi un semplice sistema parrocchiale, l'abolizione di ogni aristocrazia, la promozione illimitata della pubblica istruzione, una specie di nuova dichiarazione dei diritti dell'uomo, considerando transitori tutti i governi non repubblicani.

I mezzi d'azione consistevano nell'unanimità dei propositi, nella propaganda fra il popolo, nell'armamento di ogni confederato, pel quale era già stabilita l'assisa, con previdenza teatrale, nella speranza di costituire bande e di sedurre milizie regolari.

Evidentemente la nuova società non era un gran progresso sulle altre, nè come organismo nè come mezzi, ma il suo programma politico, sceverato dal paralogismo religioso, era una rivelazione. Per la prima volta in Italia intenzione, volontà, concetto, disegno, tutto era schiettamente democratico. Italia e repubblica, unità e libertà; il resto era romanticismo del tempo e che il tempo avrebbe guarito.

Mazzini stese il programma, dichiarando guerra a tutti i principi italiani e indirizzandosi al popolo. La nuova idea utopistica si divulgò colla rapidità di un uragano. Le declamazioni letterarie di tutti gli altri scrittori aiutavano: si poteva temerne impossibile l'applicazione, non ricusarsi a sperarla. I principi risposero male all'attacco, calunniando e perseguitando i nuovi rivoluzionari, che la persecuzione abbellì e fortificò. Il giornale, spedito con ammirabili sotterfugi, fu ricevuto e diffuso con rischi di morte; Mazzini grandeggiava di stile, sfolgorando nella passione delle battaglie e badando a scendere in campo davvero con una spedizione nell'alta Savoia. Le simpatie dell'Europa rivoluzionaria si rivolgevano a questa Giovine Italia, che nel proprio slancio poetico comprendeva già il problema della libertà europea in quello della liberazione italiana; le vecchie sètte liberali erano screditate dagl'insuccessi patiti e senza idee, le corti più odiate che temute, tutti i loro governi senz'altro programma che la reazione.

Il giornale della Giovine Italia dichiarò i sottintesi e compiè le reticenze degli scrittori, che rimasti in patria dovevano per forza conservarsi guardinghi: la sua sfida alla coalizione monarchica inorgoglì l'oppressa dignità di tutti gli italiani. Un uomo solo aveva osato dire e fare quello, cui un'intera nazione non era bastata. Il tono mistico di Mazzini, concordando colla religiosità della reazione cristiana succeduta alla rivoluzione francese, rendeva più accette le arditezze della sua democrazia; il suo coraggioso abbandono di ogni spirito regionale sollevava le anime dal peso di una tradizione, nella quale l'idea era morta. Se i governi non si sentirono istantaneamente scrollati dalla nuova setta, avvertirono però subito la giustezza terribile della nuova propaganda, senza potervi riparare efficacemente. La stessa debolezza del partito mazziniano ad agire lasciava più libera l'espansione delle sue idee, quasi non fosse che una propagazione letteraria. L'irritazione delle vecchie sètte liberali, spodestate dal favore crescente di questa nel popolo, bastò a condannarle nel sentimento generoso della gioventù.

Mazzini intanto facevasi nel giornale eco di tutti i lagni d'Italia, denunciando le infamie delle polizie e trattando ogni sorta di questioni; rimbeccava la gazzetta del duca di Modena, discuteva con Sismondi, allora riverita autorità, e passava oltre; annullava con critica superba di sdegno patriottico tutti i capi delle passate rivoluzioni, affermando nella propria idea della repubblica italiana il segreto di una imminente vittoria. Ma sopratutto parlava di popolo col popolo, che nessuna setta aveva ancora degnato di calcolare come elemento rivoluzionario; predicava una democrazia, che solo nelle masse poteva ottenere il proprio trionfo, perchè esse sole erano il popolo. Quindi, svisando storia e letteratura nazionale con una incomparabile sofistica, sincera a forza di essere passionata, mostrava a tutte le epoche il principio della libertà e della unità italiana e repubblicana come anima del popolo e di tutti i grandi, denunciava combattendole le fatalità tiranniche della monarchia e del papato, difendeva il cristianesimo e lo epurava, proponeva e stringeva alleanze a modo dei governi colla Giovine Allemagna e colla Giovine Francia, spiegava la missione degli individui e dei popoli in un vangelo contro il quale nessuna critica poteva prevalere. Naturalmente i liberali moderati ricalcitravano, ma i loro propositi troppo prudenti e le loro idee di federazione fra i principi italiani, egualmente utopistiche che l'immediata repubblica di Mazzini, non potevano lottare con questa nell'animo bollente della gioventù. Poi Mazzini tuonava alto sull'Europa, ed essi balbettavano appena, e nessuno di loro era ancora abbastanza italiano per posporre l'interesse della propria provincia a quello della nazione.

Nessuna figura di principe, di prete o di ribelle era allora in Italia che potesse rivaleggiare con quella di Mazzini: la sua popolarità divenne quindi immensa. Non si discusse, non si temè, non si sperò che in lui: la coalizione monarchica, guidata da Metternich, aiutata dal papa e da Luigi Filippo, non bastava contro questo profugo, di cui ogni scritto era una battaglia e ogni battaglia una vittoria.

Allora che il giornalismo in Italia era meno che rudimentario, l'opera di Mazzini, che vi discendeva collo splendore di una letteratura più potente di quella del Guerrazzi stesso e del Manzoni, avendo dell'uno una passione anche più nobile e dell'altro uno stile anche più vivo, ebbe i trionfi irresistibili del più originale fra i capolavori.

Forse la prima volta in Italia uno scrittore fu acclamato anzi che la critica lo avesse accolto; ma anche questa volta Mazzini, creando la prosa moderna, ripetè il miracolo di Machiavelli, che aveva trovata la propria dimenticando nella passione delle idee i lenocinii e le tradizioni delle scuole letterarie.

Capitolo Quinto.

Conati ed imprese rivoluzionarie.

La spedizione nella Savoia.

La rivoluzione dell'Italia centrale aveva lasciato nei patriotti un fermento, del quale Mazzini fu pronto a profittare. Oramai si cominciava a comprendere che i moti rivoluzionari non potevano essere nè spinti nè diretti da principi, e che senza un largo concorso di popolo non sarebbero mai per riuscire. Il nuovo programma della Giovine Italia aveva almeno il vantaggio di principii e di obiettivi fin troppo chiari: anzichè sognare l'indipendenza da impossibili combinazioni diplomatiche, la domandava a tutte le virtù degli individui e del popolo. Se la forma delle passate rivoluzioni era stata l'insurrezione, quella della imminente non sorpasserebbe naturalmente la sommossa, giacchè la grossa massa, popolare, incapace di assecondare la spinta rivoluzionaria, abbandonerebbe daccapo i nuovi ribelli.

Il lavoro di ricostituzione nella coscienza nazionale procedeva ancora troppo lentamente, malgrado la generosità dei molti che vi cooperavano, perchè il problema della patria indipendenza si presentasse solubile. L'Austria, immensa ed agguerrita, teneva l'Italia inerme tra le forti branche; tutte le corti italiane per codardo ed inevitabile egoismo si stringevano sotto il suo protettorato, preferendo la propria miserabile vita di prefetture imperiali ai pericoli di una rivolta, nella quale avrebbero dovuto assoggettarsi al popolo. Questo sentiva bensì gli incomodi materiali del dispotismo indigeno, ma la sua inesauribile pazienza di schiavo vi resisteva senza troppo dolore, mentre non intravedeva affatto le necessità ideali di una rivoluzione contro eserciti addestrati nelle armi e di tutte le armi muniti. L'antico rancore contro i privilegi dei grandi e quella poesia indefinibile, che lo attrae sempre verso l'avvenire, non bastavano a scuotere l'enorme massa della sua moltitudine entro l'àmbito angusto dei mestieri. Anzi nelle campagne, ove l'opera del clero era più efficace e più spontanea la superstizione, i villani odiavano i liberali come eretici, godendosi per egoismo avaro di mezzadri o invidia implacata di braccianti alle persecuzioni contro i padroni: a Napoli la plebaglia dei lazzaroni, sempre ostile ai signori, gettava con selvaggia compiacenza i propri lazzi sui condannati politici, come scorgendo nel feroce trattamento loro usato dal governo una tarda parificazione a quello sempre sofferto da essi.

D'altronde gli eserciti napoletani e piemontesi, quand'anche i loro re si fossero decisi alla rivoluzione, non avrebbero bastato contro l'Austria, potenza militare che Napoleone stesso non era riuscito a fiaccare. Mai l'Italia era stata militarmente in peggiori condizioni: il breve addestramento delle guerre napoleoniche, producendovi capitani di valore, non aveva creato nella penisola una scuola militare capace di mantenervi così grande tradizione. I principi richiamati dalla ristorazione si erano affrettati ad espellere i migliori soldati come sospetti giustamente di ostilità, riconfermando negli antichi gradi l'aristocrazia delle proprie corti: d'allora non più battaglie. Il nemico era diventato la rivoluzione, e l'esercito un accessorio della polizia: quindi fra esso e il popolo quella diffidenza fra cacciatore e selvaggina, che è sempre passata fra popolo e polizia.

Dopo la rivoluzione del '31 la reazione crebbe: il duca di Modena, la più forte testa di tiranno che fosse allora in Italia, spingeva al terrore; Ferdinando di Napoli, il più lontano e il più saldo sul trono, affidava il governo al truce Del Carretto; a Roma Gregorio XVI, energica e biliosa natura di teologo, riassumendo con vigore la rilassata autorità, si preparava a una suprema battaglia contro il liberalismo religioso che minacciava di sommergere Roma per purificarla; Carlo Alberto, arrampicatosi a stento sul vecchio trono dei Savoia, s'accingeva a cancellare le tracce sanguinose del proprio liberalismo giovanile con altro sangue, inebriandosi del nuovo potere di re, che la libertà da lui tradita minacciava nuovamente; l'Austria, proseguendo nell'astuta politica, dopo aver diviso amministrativamente la Venezia dalla Lombardia quasi a risuscitarvi le antiche rivalità, ed ingrossata Verona a massimo centro militare e come a terza capitale, vigilava con una polizia ammirabile di disciplina ed aiutata nell'opera da tutte le polizie d'Europa.

La situazione era disperata: Mazzini, temperamento lirico e religioso, trovò appunto in essa la propria forza.

Vessato, calunniato d'assassinio dalla polizia francese, quindi espulso, egli dovette riparare in Svizzera. L'opera della Giovine Italia si dilatava: in Lombardia, nel Genovesato, in Toscana, negli Stati Pontifici il fervore cresceva mirabilmente; più molle si mostrava la Venezia, più remoto e retrivo restava il Napoletano, malgrado il suo solito numero miracoloso di congiurati. Si pensò ad agire; i pareri oscillavano naturalmente: si prescelsero a campo le Provincie sarde. Giuseppe Garibaldi, arruolatosi a Nizza nella Giovine Italia, proponeva coll'infallibile istinto dell'uomo di guerra, di cominciare da Genova. Mazzini sostenne una invasione di esuli nella Savoia. Ma le trattative tiravano in lungo; le polizie sarda ed austriaca, sempre vigilanti, poterono per mezzo di spie scoprire la trama; Carlo Alberto, reso alacre dalla paura e feroce dalla coscienza degli antichi tradimenti, moltiplicò gli arresti, denigrò nella spaurita immaginazione della gente i cospiratori, condusse i processi con inaudita perversità; le condanne di morte e le esecuzioni capitali fioccarono; vi furono condannati nel capo, solo per aver letto il giornale della Giovine Italia, altri per aver avuto sentore di qualche trama e non averla tosto rivelata: alla morte si aggiunsero sevizie come pel povero Vochieri. Jacopo Ruffini arrestato a Genova, dalla quale aveva generosamente ricusato di porsi in salvo, si suicidò scrivendo col proprio sangue sulle mura del carcere: «la mia vendetta ai fratelli»; l'abate Gioberti fu esiliato. Mazzini condannato in contumacia e dichiarato nemico della patria. Carlo Alberto, ubbriacato dal sangue, conferiva le maggiori onorificenze ai carnefici: il conte Galateri, peggiore di tutti, ebbe persino il collare dell'Annunziata, che concede di salutare il re col nome di cugino.

A Milano, quasi contemporaneamente (1833), l'Austria sventava un disegno di cospirazione iniziato specialmente da un Albèra e un Tinelli. Il commissario Zajotti, scribacchiatore venduto all'Austria, infellonì, e nullameno parve mite in confronto del Galateri: diciannove furono i condannati a morte, ma a tutti fu commutata la pena nel carcere; così l'Austria dava lezioni di benignità al Piemonte. Napoli non si mosse: il Del Carretto arrestò un Leopardi e un Dragonetti, sospettati capi di vasta congiura, ma poi, non scoprendosi altro, le pene si limitarono a pochi esigli.

Veramente queste repressioni furono piuttosto una mossa poliziesca che un riparo contro un disegno di cospirazione politica. Nessun accordo di mezzi o di ordini aveva riunito i vari centri di congiura: erano impazienze che si scoprivano quasi spontanee prima di sapersi affermare, sogni d'imprese che ondeggiavano nella penombra romantica delle conventicole rivoluzionarie, senza precisarsi nemmeno nel concetto dei capi.

Quindi un tentativo colle armi parve a tutti come inevitabile rivincita. Mazzini, trasferitosi a Ginevra e accontatosi coi repubblicani di Francia per esserne spalleggiato, raccolse una mano di esuli polacchi, come primo e miglior nucleo di battaglia; poi vi si aggiunsero tedeschi, svizzeri, quanti italiani erano in Ginevra. Si sperava di sollevare la Savoia; e si era deciso che, vincendo, si sarebbe lasciato al voto della popolazione di serbarsi all'Italia o dichiararsi francese o congiungersi alla confederazione Svizzera. Mazzini consigliava quest'ultima soluzione: così la prima battaglia vinta dai patriotti avrebbe tolto all'Italia una provincia. Ma, infervorato nel pensiero di una ricostituzione europea, Mazzini, riconoscendo la Savoia non italiana, intendeva farne una federazione alpina colla Svizzera e il Tirolo tedesco come antemurale d'Italia contro la Francia e la Germania: buona idea di filosofo della storia, ma allora grosso errore politico, che avrebbe indebolito contro l'Austria il Piemonte, offendendo le suscettibilità italiane sull'integrità del territorio politicamente nazionale. Si congiurava in un albergo; mancavano i denari e le armi. I pareri divisi fra i maggiorenti imposero forse per invidia a Mazzini che generale dell'impresa fosse il Ramorino, avventuriero ritornato dalle guerre di Polonia con molta ma dubbia fama. Mazzini accusato d'orgoglio, perchè avverso a questa nomina, pianse come un poeta e se la lasciò imporre. Senonchè Ramorino, ottenute le prime 40,000 lire per formare la colonna, fuggì a Parigi a dissiparle nei bagordi; passarono altri mesi, le spie formicolavano fra i cospiratori; Buonarroti, l'inflessibile carbonaro, si dichiarava improvvisamente avverso all'impresa; finalmente Ramorino tornò (1834), ma, accontatosi forse colla polizia francese interessata al disastro della spedizione, la condusse così male che finì ad una ridicola dimostrazione militare a Bossey e ad Annemasse.

Mazzini, che sospettava giustamente il generale di tradimento, non ebbe l'energia di cacciarlo e mettersi al suo posto: poi, sorpreso dalla febbre, quasi ne morì. La sua prima spedizione aveva ripetuti peggiorandoli tutti gli errori da lui rinfacciati ai capi rivoluzionari del '21 e del '31: il popolo della Savoia non si era mosso, i volontari non si erano battuti, il generale aveva tradito; uno sbandamento aveva finito di disonorare un'impresa assurda nel disegno e nei mezzi. Bisognava insorgere a Torino o a Genova, meglio in questa che in quella per la vecchia tradizione republicana, sorprendere la corte, aver complici buona parte delle guarnigioni, o non insorgere perchè il popolo delle campagne non avrebbe certo secondato, come non secondò, l'insurrezione.

Mazzini invece s'illudeva sullo spirito popolare: l'energia e la fecondità del suo apostolato derivavano appunto da questa illusione, che lo rendeva così impari ad una vera azione di guerra o di sommossa.

Contemporaneamente il moto, che Garibaldi intendeva eccitare a Genova, veniva impedito dalla novella del disastro in Savoia, cosicchè egli potè appena scampare travestito da contadino e inseguito da una condanna a morte. Mazzini, abbandonato da quasi tutti gli amici, svillaneggiato dai gazzettieri, accusato di viltà dai settari e di tentato regicidio dalla corte francese mediante la più ignobile falsificazione di documenti, resistette eroicamente, rispondendo a tutti con un ammirabile opuscolo, Fede ed avvenire; ma, sottoscritto indi a poco in Berna il patto della Giovine Europa, dovette esulare a Londra. La Svizzera lo espelleva, cedendo finalmente alla pressione di tutte le diplomazie europee. Gli altri si dispersero: Nicola Fabrizi e Manfredo Fanti andarono a combattere in Spagna, Garibaldi valicò l'oceano per conquistare in America la più originale gloria di soldato in un secolo, che, cominciando con Napoleone, doveva chiudersi con Moltke.

La catastrofe della spedizione in Savoia rinforzava il partito dei riformisti liberali, togliendo a molti unitari la fede di una possibile iniziativa italiana. Il giudizio del Buonarroti, inspirato allora da troppa passione francese e giudicato empio da Mazzini nella bocca di un italiano, che l'Italia non potesse muoversi se non dietro la Francia antesignana della rivoluzione in Europa, era tanto giusto che tutte le rivoluzioni susseguenti lo verificarono. Una capacità di iniziativa politica nelle condizioni d'Italia vi avrebbe supposto un popolo così fortemente temprato e intensamente rivoluzionario, da non avere prima accettato senza guerra il mal governo di tutte le proprie corti.

Il moto rivoluzionario italiano era bensì spontaneo, ma, subordinato al francese, non trascinava ancora che la parte migliore e meno numerosa della borghesia.

Nullameno l'espansione liberale non si arrestava: il numero delle società politiche cresceva; a Milano si costituiva la Pantenna, mascherandosi d'intenzioni carnevalesche; Fabrizi fondava la Legione Italiana a Malta, reclutandola fra i soldati che specialmente avevano combattuto nelle Spagne; il carbonarismo riformato teneva centro a Pisa, i Veri Italiani a Livorno. Per contro i governi cercavano di stringere altre sètte: se ne tentò una borbonica col nome di Ferdinandea, persino un'altra austriaca, ma indarno.

Le condizioni politiche d'Italia, malgrado il lento formarsi di una nuova opinione politica, restavano le stesse, anzi parevano peggiorate in una più stretta lega di tutte le corti coll'Austria. Quindi ogni tentativo di rivolta doveva fatalmente rivelarsi altrettanto falso nel disegno che impari nei mezzi, e cadere abbandonato dal popolo. L'operosità delle sètte segrete, mirabile di ardire e di costanza, non poteva sostituirsi allo spontaneo accordo del popolo per fare una rivoluzione: i settari o precursori, o martiri, o arruffoni, secondo l'indole dell'animo, finivano a costituire una specie di segreto patriziato politico, che, vivendo separato dalla moltitudine, non ne rappresentava i bisogni e non ne comprendeva lo spirito. L'orgoglio di un principio politico superiore ai tempi e alle masse, lo stesso nobile rischio della vita, prolungato per anni e raddoppiato ad ogni ora da circostanze drammatiche, rendevano i cospiratori meno adatti che mai ad acquistare quella cieca confidenza del popolo così necessaria in ogni vera insurrezione. D'altronde il popolo non soffriva abbastanza per rivoltarsi contro gli antichi padroni, e la borghesia non voleva arrischiare di soffrire per un meglio, del quale non sentiva la grandezza che nell'immaginazione. Così, malgrado le declamazioni degli scrittori liberali, la vita nazionale in Italia non appariva agli stranieri molto peggiore che nei tempi andati, mentre qualche miglioramento materiale vi si veniva pure a grado a grado introducendo: la passione rivoluzionaria invece vi si mostrava così scarsa che non uno solo dei tanti suoi moti aveva saputo arrivare all'onore di una piccola battaglia. Questa dolorosa contraddizione fra tanto bollore di frasi e tanta freddezza di atti, tra la falange sacra degli scrittori e dei cospiratori che gettavano ogni fiore della loro anima sull'altare della patria per purificarlo dal contatto dei carnefici, e il popolo che non dava un grido nemmeno quando i martiri penzolavano dalle forche o i ribelli si presentavano audacemente armati alle porte della città urlando: Rivoluzione!, impressionavano sinistramente gli stranieri, attirando sull'Italia dispregi, che il genio e l'orgoglio di pochi grandi non bastavano a respingere. E l'Europa si ricordava che la Spagna sola era bastata contro Napoleone vincitore dell'Europa, che la Russia si era bruciata volontariamente perchè il suo invincibile invasore perisse per mancanza di ricovero, che la Grecia piccola come un villaggio e non più numerosa aveva resistito per cinque o sei anni a tutto l'impero turco: ricordava le lotte non antiche di Fiandra e la recente vittoria del Belgio, l'eroica caparbietà della Polonia, nella quale ogni insurrezione vampeggiava in guerra e ogni guerra s'insanguinava di battaglie senza paura e senza pietà; e, ascoltando i garriti d'Italia e vedendola sempre così inerte, sorrideva d'insultante compassione.

Nullameno l'eroismo italiano, per essere piuttosto individuale che collettivo, non era meno bello, e prometteva attraverso una tragedia ancora incompresa una incomparabile originalità di epopea.

Infatti, mentre l'accordo delle corti coll'Austria moltiplicava all'infinito le difficoltà di una qualunque vittoria per i cospiratori insorgenti, e la condiscendenza dell'Europa alla diplomazia austriaca toglieva ogni speranza in altra iniziativa europea, e lo stesso partito liberale, scindendosi in moderati e rivoluzionari, condannava fra le approvazioni dei più qualunque impresa ribelle col denunciare alla pubblica esecrazione i capi delle sètte, che, riparati nell'esilio o nell'ombra del mistero, votavano alla morte i più giovani adepti, il coraggio drammatico della rivolta aumentava tutti i giorni. Una nuova generazione di rivoluzionari cresceva, i quali, anzichè essere spinti dai capitani, li trascinavano essi medesimi all'azione. Quella poesia alta e severa dei migliori libri animava molte giovani vite, tirandole alla morte attraverso un pessimismo, nel quale il martirio riconfermava con nuove speranze le eterne verità dell'ideale. Come all'inizio di tutte le epoche rivoluzionarie, pullulavano i precursori: l'incertezza politica dei principii, che rendeva così contraddittori e spesso così assurdi i libri politici del tempo, scomponeva naturalmente anche i disegni delle cospirazioni, riducendoli piuttosto a scene drammatiche che a canti epici, traendoli ad appagare le infrenabili baldanze dei forti esasperati dall'ignavia dei più, anzichè a concordare le molte e disseminate forze per la penisola. L'oligarchia dei comitati sparsi in tutte le città, intendendo a combinare i mezzi, finiva più spesso a sperperarli per invidie e gelosie reciproche dei capi: le diffidenze delle molte spie intralciavano ogni accordo; nessuna classe di cittadini, nessuna corporazione di mestieri, nessuna provincia, nessuna città, nessun villaggio era unanime ad insorgere, pronto a capitanare una vittoria o a seppellirsi sotto la rovina di una sconfitta. L'iniziativa restava quindi individuale e romantica. Peggio ancora l'ignavia generale era siffatta che persino il danaro mancava sempre per ogni più piccola spedizione; e poco sarebbe bastato a ritentare quella fallita da Mazzini nella Savoia, che non aveva costato più di 50,000 lire.



Stato generale della penisola.

Così passarono quasi dieci anni, nei quali nessun fatto politico potè riempire di sè medesimo la vacua e malinconica storia d'Italia.

Nella sempre mite Toscana la reazione seguitava ad insinuarsi, evitando i rigori e contrapponendo alla febbre delle nuove idee i narcotici di una politica modellata sull'amministrazione d'una buona fattoria. Ma l'influenza del Fossombroni, ostile all'Austria per antico orgoglio paesano, decresceva sempre più nell'indirizzo del governo, quantunque il popolo si conservasse quieto e le stesse idee liberali inclinando alla federazione non minacciassero seriamente nè la dinastia nè il granducato. Le seconde nozze del granduca Leopoldo con Maria Antonietta di Napoli, e la nascita del principe ereditario, furono quindi solennizzate a Firenze con grande favore da tutti per abborrimento all'Austria, cui la Toscana sarebbe scaduta allo spegnersi della dinastia. Ma questa, sentendosi istintivamente separata dalla vita nuova d'Italia, guardava a Vienna come al gran centro della reazione e del dispotismo. Chè se l'agitazione di molti liberali toscani in favore del Walewski, figlio naturale di Napoleone, per farlo re costituzionale d'Italia, concludeva ad un povero manifesto incompreso dal popolo e ridicolo per coloro che l'intendevano, cosicchè bastarono al governo poche ammonizioni severe e pochi sfratti per trionfarne, nullameno il granduca come ogni altro sovrano d'Italia si accorgeva tratto tratto di non essere più sicuro in Toscana come il grande avo. Infatti quanti in essa pensavano, anche rivolgendosi al governo per invocarne riforme, le oltrepassavano, toccando quello stesso ideale de' rivoluzionari da loro oppugnati. Nella propria maggior perfezione d'istituti e di vita la Toscana era già arrivata da tempo a un punto che ogni vera riforma avrebbe dovuto esprimervi il principio rivoluzionario della sovranità popolare.

In Piemonte i pochi senati di Torino, di Casale e di Nizza eletti dal re non avevano che scarse e contraddittorie attribuzioni giuridiche: vigevano ancora le antiche legislazioni, producendo insoffribili contrasti di giurisprudenza e di sentenze. I governatori generali esercitavano l'autorità militare e politica; ovunque apparenza e affettazione guerresca: arma più odiata i carabinieri. Ma la polizia sola riassumeva tutto il governo, concedeva e toglieva, dietro anonime ed irreparabili informazioni, impieghi, onori, cattedre, passaporti; rovistava cinica e bugiarda nelle famiglie, violava segreti di lettere e di professioni, imprigionava per sospetti e liberava per capricci, comprava anime e corpi, vendeva infamie e tradimenti. Una dolorosa disformità amministrativa rendeva le provincie troppo vaste od anguste, soggette o libere dall'imposta prediale, fornite o prive di censimento; in alcune duravano ancora privilegi antichissimi e diritti regali. Più antiquata e meno italiana fra tutte la Savoia, culla della dinastia e ad essa vivamente affezionata malgrado un'irresistibile tendenza francese. Benchè le imposte non fossero gravi, era grave la miseria peggiorata da forti dazi e mal ripartite gabelle; commercio ed industria rantolavano stretti nelle fascie della tradizione, ignorato il credito, giudicate utopie ogni nuova grande opera o istituzione, l'alta burocrazia ignorante, lenta l'intermedia, bruta la bassa.

La censura civile ed ecclesiastica, assurda ed intrattabile nella sofisticheria, v'inceppava pensieri e scritti, così che nessuno dei migliori e più moderati libri stampati in Lombardia sarebbe stato permesso a Torino: non ultima superiorità questa dell'Austria sul Piemonte. L'aristocrazia altezzosa e ligia al clero spregiava plebe e popolo, pensatori e produttori, liberali d'ogni colore e valore, precipitandosi con voracità d'arpie sopra ogni carica civile e militare ben retribuita o capace di dare adito a corte. L'antico orgoglio guerriero animava ancora i suoi membri migliori, ma, ridotta a cenacolo di parassiti e di privilegiati, non vedeva più nella nazione che se stessa e nel re tutto il diritto e tutta l'autorità. Quei pochi fra essa, tratti dall'ingegno alle lettere o dalla forzata pratica di governo verso le idee moderne, considerava quasi transfugi e puniva con insani dispetti. La borghesia, laboriosa e scarsa d'ingegno, ignorava per mancanza d'esperienza la cosa pubblica e odiava l'aristocrazia bersagliata dal popolo con epigrammi senza veleno.

Carlo Alberto, ambiguo nelle idee e nei sentimenti, ora secondava il moto latente ed universale del progresso, ora ricalcitrando si impuntava per arrestarlo. Rispettoso agli averi altrui, era abbastanza savio amministratore; pedante e rigido nel dovere materialmente precisato, altero sino al ridicolo poichè alla grandezza dell'orgoglio gli mancava quella dell'ingegno, non ammetteva ai propri circoli che nobili autentici: nemmeno il segretario generale del governo, massimo fra tutti gl'impiegati, poteva penetrarvi. Leggeva e conosceva gli scrittori paesani. Tratto dalla sfrenata e sentimentale ambizione verso la marea delle idee per esserne sollevato ben alto, s'atterriva poi subito al dubbio di perdervi qualche briciola del proprio assoluto potere. Mentre nella prima giovinezza era stato galante e scioperato, ora un bigottismo non senza rimorsi lo spingeva a digiunare perennemente e a portare sulle vive carni un segreto cilicio. Della propria ammalata incertezza nelle opinioni si scaricava sulla responsabilità dei ministri, riunendo in un solo ministero i più disparati caratteri e le più opposte tendenze politiche. Il suo odio e al tempo stesso la sua paura erano verso l'Austria e la libertà. Nullameno il moto lo trascinava. Nel 1836 abolì la giustizia feudale nella Sardegna togliendovi i privilegi di fòro e d'asilo e la servitù del pabarile, peste dell'agricoltura, sradicando d'un sol colpo tanti vecchi abusi che i lagni dei danneggiati superarono le stesse ovazioni del popolo. Nel 1837 concesse finalmente i codici: nel civile unificò la giurisdizione cassando gli statuti locali, ed abolì le istituzioni fidecommissarie, che poi ripermise in un editto; nel criminale, ricalcato in parte sul francese e stupidamente spietato d'intolleranza religiosa, prodigò ogni sorta di pene, specialmente quella di morte, conservando le immunità ecclesiastiche e gli arbitrii dei giudici, proclamando obbligatoria la delazione sino contro i parenti nei delitti politici; ma non promulgò il codice di procedura così necessario alla buona applicazione degli altri. In quello militare, per istinto di despota e forse anche per nordica imitazione, stabilì la pena delle verghe sino a mille e ottocento colpi, mentre poi spendeva oltre un terzo delle rendite dello stato per la costituzione dell'esercito. Malgrado l'incomparabile postura del porto di Genova implacata nell'odio contro il Piemonte, la marina sarda rimase così povera che parve gran fatto quando una sua nave da guerra fece finalmente per la prima volta il giro del globo. A tale era discesa la grande nazione marinara che nel più fitto medio evo trasportava già le crociate in Terra Santa.

Qualche migliorìa ottennero pure le due università di Genova e di Torino, ma Carlo Alberto non vi concesse mai cattedra di storia, forse intendendo così di vietare a questa il diritto di giudicare anche i re morti; e negò persino a Silvio Pellico, malgrado la sua tanto acclamata conversione al più rigido cattolicismo, quella di eloquenza. Il consiglio di stato, eletto per discutere bilanci, contratti e ogni altra operazione di finanza, non aveva alcuna autorità nel governo; la statistica non esisteva o quasi, e così il catasto, onde si continuava l'imposta personale senza riguardo alla condizione del contribuente.

Nonpertanto le finanze erano così floride che secondo il conto del Revel (4 marzo 1848) le rendite superavano le uscite, e il debito di 95 milioni vinceva di poco l'entrata d'un anno.

Sui confini del Piemonte l'Austria, potenza eminentemente conservatrice, accettava i progressi materiali del tempo senza confessarli e vietandone ogni discussione. Il suo governo era burocraticamente un modello a paragone di tutti gli altri d'Italia, ma, per quanto vago di centralizzazione amministrativa, non pretendeva all'uniformità e rispettava molti costumi ed usi locali. In esso l'imperatore era tutto e la polizia unico mezzo; si provvedeva sempre per decreto imperiale; il popolo non poteva chiedere che per suppliche; i diritti civili chiaramente definiti e conservati incolumi, quelli politici non riconosciuti che dal codice criminale che li colpiva tutti con procedure arbitrarie e pene feroci. L'antico ordinamento municipale sopravvissuto alle rovine rivoluzionarie ma ridotto a mera burocrazia, funzionava con robusta regolarità, senza permettere mai alla vita paesana di rivelarvisi nell'originalità dei propri bisogni. Milano, nuova capitale austriaca in Italia, brillava d'ingegni piuttosto trascurati che malmenati dal governo: la censura vi era meno stupida che altrove, florido il commercio dei libri esteri, frequenti i congressi scientifici, abbastanza viva l'istruzione, i gesuiti ammessi ma sottomessi al clero ed al governo; nessuna eccezione di fòro o influenza di sagrestia. Il paese naturalmente florido prosperava materialmente sotto un governo che, conculcando ogni ispirazione nazionale, favoriva per sapiente egoismo d'economia politica lo sviluppo delle ricchezze e il perfezionamento dell'amministrazione: così la Lombardia vantava casse di risparmio, associazioni industriali e commerciali, eccellenti strade, buone norme idrauliche e forestali, mentre gli altri Stati d'Italia, all'infuori della Toscana, soffrivano ancora nell'antica incuria. Se le prime società ferroviarie nel 1837 vi fallirono, la colpa fu meno del governo austriaco che delle gelosie municipali.

Venezia invece, malgrado la sistemazione della sua laguna colla diga di Malamocco e l'ampliazione de' Murazzi, soccombeva alla concorrenza di Trieste diventata fatalmente il miglior scalo austriaco pel commercio orientale.

Se Francesco I a Lubiana aveva detto: «voglio sudditi obbedienti e non cittadini illuminati», il suo motto trasformato in programma politico era stato applicato nel Lombardo-Veneto col massimo rigore. L'eccessiva perfezione burocratica menava dritto all'automatismo: non si volevano nè originalità nè varietà, nè libertà di sorta, quindi si surrogava il sistema italiano di peso, misura e monetazione col tedesco, s'imponeva al commercio di trattare coll'impero rinunziando ai propri sbocchi naturali colle altre nazioni, e vi si creava così un esercito di contrabbandieri maggiore di quello dei doganieri. Si teneva la chiesa sottoposta come i comuni, al punto che parroci e vescovi, nominati sopra informazioni della polizia, non potevano comunicare con Roma senza il visto di un impiegato provinciale. Nella coscrizione invece di costituire corpi italiani s'incorporavano le reclute nei reggimenti tedeschi disseminandole a tutte le estremità dell'impero, ma concedendo la surrogazione per denaro: con questo l'Austria evitava di addestrare contro se stessa un esercito italiano, e l'Italia cansava il disonore d'essere tiranneggiata da forze proprie.

Morto Francesco I (1835), suo figlio Ferdinando salendo al trono concesse un'amnistia così insolita nelle abitudini del governo che in parte vi rimase impedita. Nullameno quando il nuovo imperatore venne a farsi coronare in Milano, vi furono grandi feste con tale concorso e vivezza di popolo che stupirono gli stranieri credenti nel patriottismo italiano, ed umiliarono i pochi grandi spiriti eroicamente votati alla resurrezione della patria. Ma il popolo minuto e la plebe delle campagne, anzichè essere allora ostili all'Austria, dovevano molti anni dopo la grande guerra del 1859 meravigliare Garibaldi di non poter trarre dalla bocca di un villano nessuna informazione sul nemico, mentre gli austriaci apprendevano subito dai contadini tutte le sue.

A Napoli invece le condizioni erano più tristi.

Le lustre di bonomia e di buon governo fatte dal nuovo re Ferdinando II durarono ben poco: il suo riordinamento dell'esercito, non essendo che vanità di principe e non mirando a scopo italiano, divenne un aggravio assurdo per le finanze e scisse ancora maggiormente il paese già troppo lacerato da tradizioni e idee antagoniste. Re Ferdinando non vide nell'esercito che una guardia contro il popolo, e quindi badò a separarnelo con privilegi: i soldati furono molti, bene armati, abbastanza ben addestrati, ma senza spirito nè militare, nè patriottico. La riforma finanziaria, provocata in lui da istinto avaro e annunciata clamorosamente colla rinunzia ai 360 mila ducati, che il padre percepiva a titolo di borsa privata per le elemosine, e colla tassa sugli stipendi degli alti impiegati che giungeva fino al cinquanta per cento, non ebbe nè criteri scientifici, nè basi morali. Infatti questa tassa non era che provvisoria per quindici anni, mentre i grossi impiegati seguitavano a rubacchiare sugli incerti, somme indefinibili nell'amministrazione e nell'economia politica, che si attribuivano con ingenuo cinismo. E siccome il re domandava a tutti i ministri i residui di cassa per ingrossarne la propria lista civile, i ministri ad ingraziosirsi col sovrano affettavano turpi sparagni compiendo ogni sorta di ladrerie nel suo nome. Ma Ferdinando, avidissimo di denaro, credeva assioma che nessun uomo potesse resistere alla tentazione dell'oro, e scherzava cinicamente sulla nota disonestà dei propri ministri come il Santangelo, finendo egli stesso più tardi a frodare con immane truffa, la quale per poco non gli attirò guerra dall'Inghilterra e rovinò molti commercianti, la società delle solfare di Sicilia.

La bigotteria, ingenita nella sua casa e in lui sviluppata da malvagi educatori gesuiti come l'Olivieri e il Cocle, vescovo di Patrasso e che fu poi suo direttore spirituale e politico, crebbe nel matrimonio con Cristina di Savoia sino alle adorazioni d'un lercio mantello attribuito dal Cocle a sant'Alfonso de' Liguori; ma queste nozze, che per un momento avevano lusingato le speranze dei riformisti, i quali vedevano già l'Italia riunita in due grossi regni del nord e del sud sotto l'alta direzione di Roma, furono di troppo breve durata. Nullameno bastarono ad introdurre nella corte maggiore costumatezza e a lenire la ferocia delle repressioni contro le prime congiure dei Rosaroll e di frate Peluso. Morta Cristina, e si disse sconciata da uno scherzo brutale del re, invelenirono a corte le dissenzioni tra fratelli, tutti perversi di indole, e che produssero quasi una guerra civile: quindi il re sposò un'arciduchessa d'Austria, per la quale si ridestarono nelle irritate fantasie napoletane i sanguinosi ricordi di Carolina. Finalmente lo scoppio del colera (1837) spinse il popolo alla disperazione, allorchè farneticandosi di veleno propinato dal governo si vide questo per odio verso la Sicilia, nella quale era stato proibito persino il monumento a Vincenzo Bellini, invertire contro di essa ogni misura di precauzione. Vampeggiarono fra l'enorme funerale tumulti ed insurrezioni prima a Messina poi a Siracusa e a Catania: Mario Adorno, illustre giureconsulto, capitanava la rivolta sempre ispirata da ricordi di autonomia e col grido: Viva la costituzione del 12! La corte fu pronta al riparo: Del Carretto sbarcò in Sicilia, la sommossa svampò, il popolo ricadde nel terrore di un doppio flagello. L'inumano ministro rinnovò le gesta di Fra Diavolo, fucilando, ardendo, straziando, spingendo l'artistica raffinatezza della ferocia sino ad ordinare che ad ogni esecuzione di condanne le bande militari suonassero il tragico motivo della Norma: «In mia mano alfin tu sei!».

Al Del Carretto succedettero il duca di Laurenzana scempio e bisbetico, poi il generale Tschudi, che parve umano. Del Carretto era passato nelle Calabrie e negli Abruzzi, per sopirvi collo spavento di morte peggiore i tumulti provocati dal colera.

Ma, cessato il colera, le condizioni del regno rimanevano pur sempre tristi. L'assolutismo della polizia, la dilapidazione della amministrazione che, se non scomponeva il bilancio governativo, isteriliva il paese, la poca viabilità, la nessuna istruzione tranne nei massimi centri ove i gesuiti, di essa padroni, non bastavano ad imporsi; la nobiltà dispotica e feudale, la borghesia corrotta e servile, il popolo depravato e selvatico, gli ordini religiosi ricostituiti in forte massa e disseminati ovunque come soldati d'una tirannide spirituale e politica senza riparo, i banditi sempre in armi e così potenti che il governo doveva scendere con essi a patti, l'isolamento dal resto d'Italia, per la quale le comunicazioni con Napoli erano più difficili che con Vienna e con Parigi, tutto concorreva a rendere miserabile un regno, che la natura sembrava aver prediletto, e sul quale la storia pesava da migliaia d'anni come una sventura. I pochi miglioramenti promossi dal governo e vantati da' suoi accoliti, come il primo saggio italiano di battelli a vapore, il primo ponte di ferro sul Garigliano, la prima ferrovia da Napoli a Caserta, giocattolo di sovrano anzichè nuovo tramite commerciale, la prima illuminazione a gaz, il riattamento del porto di Brindisi, i pochi favori alla marina mercantile, furono piuttosto capricci di fantasia regale che propositi politici. Nessuna legge veramente nuova mirò a curare le vecchie piaghe del paese. Corte e Governo, considerandosi in istato permanente di ostilità col popolo, non badavano che a fortificarsi colla corruzione e col terrore. Se le congiure erano frequenti e moltissimi i congiurati che corrispondevano colle altre sètte italiane, lo spirito pubblico napoletano restava nullameno regionale e non poteva nemmeno nel pensiero acconciarsi ad una rivoluzione, nella quale Napoli dovesse sottostare al Piemonte. Quindi i moti erano sempre paesani, provocati da ricordi e perduti da vanità indigene. Non si aveva abitudine alle armi, per quanto il brigantaggio fosse diffuso; non si intendeva se non da pochi una rivoluzione unitaria e liberale che mutasse radicalmente le condizioni della vita napoletana.

La Sicilia, implacabile nell'odio, risognava la propria indipendenza; sul continente Napoli, sudicia e bella, ricca ed oziosa, era il cuore e la testa del regno, assorbendovi quasi tutte le forze ed illanguidendone gli spiriti. Le fantasie pronte ad eccitarsi inchinavano a mutamenti come a genialità di teatro, ma la coscienza morale e politica necessaria all'energia disperata della lotta, il vigore del pensiero indispensabile a comprendere il fine e a coordinarne i mezzi, mancavano in una popolazione capace d'improvvisi eroismi e di più subite viltà, tenace nell'obbedienza malgrado un'incurabile insubordinazione, e chiusa in se medesima con una vanità egualmente intrattabile nel principe e nel lazzarone. Se Napoli avesse saputo fare la rivoluzione contro una corte non difesa che da pochi svizzeri e da una polizia sempre pronta a tradirla nel pericolo, non vi avrebbe avuto le stesse difficoltà di Torino, di Milano e di Firenze, più vicine e soggette all'Austria; lo Stato Pontificio, che la divideva dal resto d'Italia, sarebbe stato un momentaneo baluardo contro gli austriaci, e la corte avrebbe piegato a una rivoluzione. Ma con tanti vantaggi apparenti Napoli doveva esser in Italia il paese meno rivoluzionario, che non si scosse nemmeno alla guerra del 1859 e si lasciò poco dopo conquistare alla rivoluzione dall'epica apparizione di Giuseppe Garibaldi.

Roma rimaneva immobile: il suo governo dopo aver resistito alle influenze diplomatiche, che gli consigliavano nel celebre Memorandum le più miti ed urgenti riforme, reagiva ancora con Gregorio XVI. Il nobile tentativo di Lamennais per riconciliare in una nuova interpretazione il papato colla libertà e ridare così a Roma un'altra signoria cattolica, fallì contro la durezza del pontefice, il quale non vi scorse che una eresia. Quindi il partito liberale-religioso si scompaginò in sul formarsi. Roma rimaneva come uno scoglio alto sul mare agitato della storia. Il suo governo si ricompendiava nell'aristocrazia dei prelati, invariabile, inaccessibile, impeccabile: essi soli disimpegnavano tutte le funzioni; il clero minuto delle parrocchie, imbozzacchito nelle abitudini sedentarie di una cura senza pericoli e senza poesia, non conservava valore. La corte era come nel secolo XV: lo stesso fasto, la stessa etichetta, le stesse spese, la stessa amministrazione; ma le entrate erano troppo diminuite restringendosi a quelle del piccolo Stato. Idee politiche, scientifiche, religiose, erano in Roma reazionarie: nel 1828 il cardinale Giustiniani vescovo d'Imola condannava ancora i bestemmiatori alla perforazione della lingua, accordando dieci anni d'indulgenza ai loro delatori; nel 1834 l'inquisizione di Forlì condannava la negromanzia, l'astrologia, le cerimonie maomettane e pagane e la madre che offre il suo seno ad un lattante ebreo; il cardinale Cavalchini aveva restituito la tortura nei tribunali, il Consalvi l'aveva soppressa, poco più tardi il Pacca la surrogava col cavalletto. Certo i costumi fatti più miti e la pubblica opinione impedivano o limitavano in gran parte l'applicazione di tali idee, ma corte e governo pontificio non vi avevano ancora rinunciato.

Intanto con lo scemare delle rendite religiose a Roma crebbero naturalmente le esazioni sul popolo: ogni cardinale menava treno di re, ogni prelato affettava ricchezza ed importanza di principe. L'alta nobiltà romana orgogliosa della propria tradizione oligarchica si mostrava reverente al papato come ad istituzione, dalla quale riconosceva gradi, privilegi ed immunità di ogni sorta: qualunque grossa famiglia principesca era come uno Stato nello Stato che dominava comuni e talvolta intere provincie; ma nessuna virtù o sapere brillava in questa aristocrazia, che, drappeggiandosi nella storia di Roma, guardava dall'alto in basso tutti i patriziati d'Europa. Quella minore delle provincie, contendendo di primazia col clero ed essendo in maggior contatto col popolo e colla borghesia, facilmente liberaleggiava, inebriata nella gloriola di capitanare i cospiratori e di ottenere chi sa quale importanza paesana. Poca in Roma la borghesia indipendente per stato, e questa non ligia al governo, ma il resto erano clienti, impiegati, servitori prelatizi trafficanti di abusi; la curia servile e pettegola; nulla l'industria e il commercio; senza fede, senza carattere, tutti. Artigiani e popolo erano più devoti al pontefice che al principe, alteri del nome romano, ignavi, rissosi, inetti all'armi e al lavoro. Migliori d'assai i popolani delle provincie si mescolavano alle sètte, e scaltriti e resi ardimentosi dal contrabbando promettevano e mantennero poi audacie di guerra. I contadini quietavano dappertutto, devoti superstiziosamente al papa, brutali ma rispettosi al sacerdozio, scontenti delle tasse troppo grevi, incapaci, nonchè di comprendere, di bramare miglior governo. Il clero minore della capitale e delle provincie, rozzo ed indotto, mormorava degli abusi romani piuttosto per invidia di povertà che per sdegno di coscienza: rilassato nei costumi, inetto a sentire la poesia della propria missione e a prevedere la tempesta del proprio tempo. Il clero straniero, carezzato a Roma, peggiore di ogni altro, più turpe di passioni, fervido di intrighi, ignobile di propositi, ribaldo nella prepotenza. E in mezzo a questo clero qualche teologo solitario agitato dal dramma, che dopo Lamennais doveva travolgere Gioberti affaticando quanti pensatori fossero allora di cose divine, o qualche curato che schiettezza d'indole e salda bontà di carattere traevano inconsciamente a simpatizzare coi cospiratori nella speranza d'un meglio per la patria e pel popolo.

L'organismo politico era quale un'aristocrazia e un governo di prelati avevano potuto comporlo: nel comune, centro delle famiglie e delle proprietà, il governo stesso nominava prima i consiglieri cernendoli dai ceti dei nobili, dei possidenti, dei dotti e capi di arte; poi i gonfalonieri, i priori e gli anziani alle permanenti magistrature municipali. Nella stessa guisa venivano eletti i consiglieri provinciali scegliendone prima gli elettori: naturalmente candidati ed eletti erano sempre dell'opinione del governo. Questo accollò alle provincie e ai comuni le sue stesse spese maggiori, come strade, canali, porti di mare; e comuni e provincie subirono. Il governo non governava. In ogni distretto vi erano governatori laici, carica mista di questore e di sottoprefetto, che dipendevano dal prelato reggente la provincia; la polizia era massima funzione politica, ma quella segreta del clero contrastava e sovrastava a quella palese del governo; non garanzie pei sospettati, non difese per gli accusati. I tribunali erano così complicati e strani, che riesce difficile spiegarne evidentemente il meccanismo: la Sacra Rota ne era come la cassazione suprema, ma più spesso fungeva da accademia giuridica; la Sacra Consulta era il massimo tribunale criminale e politico; l'una e l'altra avevano procedure arbitrarie e si componevano esclusivamente di prelati. Poi un tribunale minore collegiale per ogni capoluogo, che giudicava di materie civili e criminali, ma in quelle erano permessi i dibattimenti, in queste no. Il tribunale della Sacra Inquisizione e del Santo Uffizio, mantenuti nella terribilità scenica dei tempi andati, vigilavano, inquisivano, incarceravano, condannavano segretamente ed inappellabilmente in materia di dogma e di fede: nullameno, per la rilassatezza del costume religioso, non era più che uno spauracchio e un luogo comune per la rettorica rivoluzionaria. Alla passione religiosa Roma aveva sostituito da un pezzo quella politica. Gli altri tribunali ecclesiastici mantenevano ai chierici il privilegio di fòro, mentre lo toglievano in parte ai laici colla polizia dei costumi e della religione.

Il Sacro Collegio dei cardinali era una specie di senato con voto consultivo, la prelatura uno stato maggiore politico, dal quale uscivano governatori e diplomatici, grossi impiegati e grossi giudici; le finanze erano governate da un prelato tesoriere insindacabile. L'ultima amministrazione del Tosti sotto Gregorio XVI fu un vero disastro per l'incredibile sua incapacità finanziaria: vi si contrasse persino un prestito col Rothschild al 65%; l'erario ne rimase quasi deserto, orribili disordini straricchirono molti furbi per usure, appalti e monopolii. Le tasse si aggravarono e la miseria peggiorò. Il contrabbando annullava i dazi, i barattieri scemavano le rendite. Nessuna nozione di scienza economica, nessuna statistica: le tasse quasi tutte sulla proprietà immobiliare, maggioraschi e conventi stagnanti nel moto agricolo già troppo contrastato; assoluta mancanza di codici, disuguaglianza dei cittadini nella legge, il governo chiuso ad essi, ovunque immunità e privilegi, la giustizia indefinibile, l'istruzione peggio che nulla nelle scuole e contesa ai privati colla proibizione dei libri; la milizia composta di stranieri mercenari o reclutata in bande facinorose di sanfedisti; ogni carriera ostacolata, la censura assurdamente severa sulla stampa, la polizia arbitra di tutti, commissioni militari in permanenza, vietata ogni associazione, a migliaia gli esigliati, gli ammoniti, i condannati politici; la vita morale depressa, quella politica negata, nel pensiero combattuta, nell'azione impedita ovunque e sempre. Da un canto il clero, dall'altro il popolo: non Stato e non governo, ma un dominio di prelati sopra una gente senza passato, senza presente e senza avvenire, mentre su Roma lontana stava il papa, re e demiurgo, onnipotente nella religione e prepotente sulla legge.

Allorchè Gregorio XVI scomunicò i polacchi morenti con disperato eroismo contro i russi, l'infamia dell'atto fu tale che anche le più timorate coscienze cattoliche ne rimasero offese; nullameno, quando più tardi a Roma rimproverò lo czar delle persecuzioni alla chiesa cattolica polacca, e non era che un battibecco fra due pontefici, tutti scordarono la perfidia di quella prima scomunica e la continuata viltà della diplomazia papale colla corte di Russia per non ammirare che un nuovo Leone davanti ad un altro Attila.

I fratelli Bandiera.

Intanto che la politica italiana del papato si restringeva coll'Austria, e per influsso di questa al cardinale Bernetti succedeva nel segretariato il Lambruschini, nel 1837 scoppiava il colera, e nel 1838, essendo ministro di Francia il Molé, i francesi si ritirarono da Ancona e gli austriaci dalle legazioni con molta allegrezza del popolo. Così cessava pure in Bologna il commissariato generale di contaminata memoria per opera dei cardinali Albani, Spinola e Brignole: i nuovi subentrati al governo parvero giustamente miti nel confronto. Laonde ne ringagliardirono d'animo i cospiratori, che, sollecitati dalle voci di grandi preparativi di rivolta nel regno delle due Sicilie, si accinsero a nuove imprese; Mazzini esule spronava cogli scritti e cogli emissari; a Bologna un comitato della Giovane Italia era all'avanguardia del moto spingendo i restii. Una passeggiata falsamente trionfale del pontefice attraverso le provincie pontificie, ma evitando le Romagne, parve nuovo segno di paura nel governo. Al solito i cospiratori correvano da uno Stato all'altro, sciupando tempo ed energia senza concludere a nulla. Le popolazioni attendevano fra svogliate e curiose: la polizia vigilava. Livio Zambeccari, ardito figlio dell'arditissimo aeronauta, aveva corso il Napoletano deludendo ogni vigilanza per concordare un moto generale, e ne era ritornato con grandi promesse. La Romagna doveva dare l'esempio, ma la trama fu scoperta anzi tempo. Quindi un medico Muratori, gettatosi all'Appennino con piccola squadra per tentare una sollevazione, dovette presto riparare in Toscana e di là in Francia; un Ribotti, ritornato con falso nome dalle guerre spagnuole ove s'era coperto di gloria, arrischiò una seconda impresa con grossa mano d'armati verso Imola, ma fu costretto a sbandarsi presso Ancona. Il governo implacabile nella repressione condannò venti dei cospiratori a morte: nullameno la sentenza non fu eseguita che sopra sette: e i maggiori capi avevano potuto mettersi in salvo.

Per tagliare un'altra radice alle speranze liberali, il governo (1843-44) comprò mediante nuovi debiti tutti i beni dell'appannaggio, che il figlio di Beauharnais conservava nello Stato pontificio: così veniva a mancare nel principe l'occasione di favorire i ribelli e in questi la fisima di costituirlo re dell'Italia centrale.

Alle sommosse romagnuole seguivano le napoletane. Prima era stata Aquila a ribellarsi contro il proprio governatore militare, un ribaldo delle bande di Ruffo, e a gridare: Costituzione e libertà! Soffocato ad Aquila nel sangue, poco appresso il tumulto scoppiò a Cosenza. Questa volta era provocato dalla congrega centrale di Napoli, nella quale sedevano fra gli altri Carlo Poerio e Francesco Bozzelli; ma al solito la congiura era stata fiutata dalla polizia. Vi furono ritardi ed equivoci fra i cospiratori, due bande di essi scontrandosi di notte si combatterono, la popolazione non si mosse, le truppe regie trionfarono dopo breve combattimento, nel quale Salfi, uno dei capi ribelli, morì; gli altri fuggirono.

Un ordine del governo, comunicato per telegrafo ai giudici della commissione militare, impose che degli arrestati si fucilassero non meno di sei e non più di nove: e fu eseguito. A Napoli intanto venivano imprigionati i maggiorenti della congrega centrale, ma il dualismo scoppiato fra il marchese di Pietracatella, ministro dell'interno, e il Del Carretto, ministro della polizia, li salvò.

Pochi mesi dopo i fratelli Emilio ed Attilio Bandiera, ritentando la stessa impresa, perivano nella più magnanima tragedia del risorgimento.

Figli di quell'ammiraglio, che nel 1831 catturava la nave dei rivoluzionari fuggenti da Ancona a Corfù, i due fratelli, uffiziali della marina austriaca a Venezia, prima tentarono con mirabile accordo di animi di spingere i compagni a ribellarsi; quindi, entrati in corrispondenza con Mazzini, vi si compromisero coraggiosamente sperando nel fermento rivoluzionario, che allora sollevava inutilmente tutta la penisola. Ma sospettati e costretti a salvarsi fuggirono a Corfù. Di là ricusarono il perdono, resistendo eroicamente alle preghiere della madre, si ostinarono contro i consigli di Mazzini, che fiaccato dalle disillusioni dell'esilio non osava accettare il loro olocausto di una spedizione nelle Calabrie. Nicola Ricciotti, uomo per l'adamantina semplicità dell'anima degno di Plutarco, mandato a dissuaderli si strinse ad essi; Domenico Moro e pochi altri li seguirono. Mancavano i denari, le polizie braccheggiavano, il governo inglese, questa volta peggiore d'ogni altro, tradiva il segreto delle proprie poste rivelando ai Borboni e all'Austria le lettere dei proscritti a Mazzini. Le spie formicolavano a Corfù: un Boccheciampe còrso, nipote di quelli che iniziarono la sanguinaria reazione di Ruffo nelle Calabrie, si mise traditore nell'impresa. I cospiratori non erano più di venti e speravano di sollevare tutta l'Italia!

Sbarcati a Cotrone, e tosto denunciati dal Boccheciampe, sono catturati dal popolo medesimo insorto contro di essi: tradotti prigionieri a Cosenza e giudicati sommariamente, rispondono e muoiono con epica serenità. Ma il popolo nel quale avevano sperato, se da ultimo si pentì di averli imprigionati e li rimpianse morti, non si accinse per allora a vendicarli. L'impresa aveva conchiuso ad un sacrificio, che il tradimento da un lato e una impossibile ingenuità dall'altra resero sublime.

Il governo borbonico accrebbe la propria infamia coll'eccidio dei generosi, dei quali più tardi nella reazione del 1848 profanò le ossa mescolandole a quelle dei giustiziati volgari: la rivoluzione si giovò del martirio, che infiammando tutti i cuori, li predispose ai pericoli di una imminente riscossa.

Alle vinte sollevazioni napoletane seguivano infatti altri moti romagnoli (1845). La robusta fibra del popolo e il suo spirito ribelle prevalsero ancora una volta alla prudenza dei più fra i molti congiurati. L'arresto di un Galletti e di un Montecchi, perpetrato dal governo, parve provocazione: le condanne della commissione militare mandata a Ravenna dal cardinale Massimi ruppero col terrore gl'indugi, precipitando una mano di patriotti dietro Pietro Renzi, che occupò Rimini e ne disarmò il presidio. Ma i nuovi ribelli erano così poco rivoluzionari che si affrettarono a pubblicare un manifesto dettato dal Farini nello stile classicamente pedante della scuola letteraria romagnola, col quale si riconosceva il diritto divino del pontefice e s'invocavano solo alcune riforme amministrative dal suo cuore di re e di padre. Fortunatamente poco dopo Aurelio Saffi, allora giovanissimo e sconosciuto, dettava con due canonici commissari di riforme una fiera protesta, che, affermando l'unità d'Italia, manteneva l'onore romagnolo compromesso dal manifesto del Farini. Naturalmente la sollevazione abortì: falsa nell'idea e nel processo, non fu intesa dalle popolazioni, spiacque ai veri rivoluzionari, sbigottì inutilmente la grassa borghesia. Pietro Renzi riparato con altri fuorusciti in Toscana fu poi dal granduca con ignobile tradimento consegnato al governo pontificio.

Quest'ultimo tentativo romagnolo, così erroneo nel concetto e povero nel risultato, rivelò lo stato della coscienza politica nella maggior parte di coloro che di politica si occupavano.

I riformisti.

Se la predicazione profondamente rivoluzionaria di Giuseppe Mazzini aveva nell'intelletto nazionale diradato le nebbie delle vecchie dottrine scolastiche, traendolo quasi a forza nell'idea del proprio secolo, la coscienza politica d'Italia non aveva potuto accordarvisi. Troppo era il peso della tradizione autoritaria e debole il fondamento morale del carattere perchè, accogliendo nel pensiero l'austerità eroica della nuova dottrina, i più sapessero trasmutarla in sentimento per discendere con essa all'azione. Mentre la letteratura echeggiava di fanfare guerresche, e i congressi scientifici moltiplicati a pretesto simulavano assemblee nazionali, e le congiure insistenti addestravano il coraggio a rischi di morte con una coreografia troppo spesso insanguinata, l'immensa maggioranza della nazione vi assisteva come ad uno spettacolo, nel quale il fulgore della poesia non toglieva di sentire la fragilità della trama. Si odiavano i governi, ma se ne riveriva ancora l'autorità; si chiedevano riforme, ma non s'intendeva una rivoluzione che spostando i termini della storia collocasse la sovranità dai principi nel popolo; si temeva che sguinzagliando questo nella rivoluzione si avessero a ripetere le atroci scene del '93 rese ornai famigliari da ogni forma di racconto e di critica. La reazione cattolica signoreggiava ancora quasi tutti gli spiriti, l'immane potenza militare dell'Austria li prostrava. Se i frequenti martirii dei giovani più animosi rinvigorivano con nuova passione le anime migliori, sbigottivano invece la massa, traendola a conclusioni malinconicamente assennate sull'inutilità di tragedie individuali in un problema, che tutta Italia era inetta a risolvere. Avarizie e codardie si coprivano quindi di questa prosaica assennatezza, servendosi della stessa altrui disperazione eroica per rifiutarsi nell'ignavia di una vita solleticata da tutte le lussurie della servitù. Quindi la voce fatidica di Mazzini passava su quelle coscienze sonnolente, irritandole senza destarle: la tragica magnanimità della sua vita e la stoica semplicità della sua predicazione erano con abile ipocrisia trattate di paradosso e di gloriola. Si rinfacciava al grande esule di spingere a mortali sacrifici, stando al sicuro in Londra. Lo si accusava di ambizione dittatoria, di assassinio sistematico, di demenza rivoluzionaria. Non si voleva intenderlo perchè intendendolo si sarebbe dovuto agire contro ogni prudenza egoistica nell'interesse supremo della patria.

Quindi sorsero altre voci ad accarezzare la debolezza nazionale, giustificandola colle tristi condizioni del presente. Rifiutati i principii fondamentali della rivoluzione francese e pigliando le mosse dallo stato attuale d'Italia, parecchi scrittori formularono i voti e le speranze della nazione in assurdi sistemi, che parvero allora miracoli di senno. Il problema nazionale era duplice, indipendenza dallo straniero e libertà interna; ma ambedue questi termini si sdoppiavano in una serie infinita di altri, moltiplicando le difficoltà per ognuno di essi sino all'impossibilità di una qualunque soluzione. Il problema dell'indipendenza imperniato sull'Austria traeva seco la guerra civile contro tutti i principi italiani, giacchè nessuno di essi avrebbe osato combattere l'Austria per timore di restare poi preda della rivoluzione. Una confederazione tra essi era egualmente impossibile, mentre il papato ligio a Vienna e fanatico di assolutismo non vi avrebbe convenuto, e il napoletano remoto e compatto sotto i Borboni non avrebbe nulla a guadagnarvi, e gli Stati centrali, grossi feudi austriaci rosi da gelosie intestine, vi avrebbero ripugnato: solo il Piemonte, ingordo del Lombardo-Veneto, vi avrebbe forse aderito, ma appunto per questo sospetto da tutti gli altri sarebbe stato respinto. Poi le corti essendo tutte egualmente reazionarie, una lega fra esse non sarebbe stata che conseguenza dell'idea rivoluzionaria; ma allora, mutando i consigli principeschi con uomini nuovi, scelti fra i liberali, il problema della libertà interna veniva improvvisamente a tempestare in quello dell'indipendenza dallo straniero. Fra popoli e governi non correva fiducia. Per combattere l'Austria si sarebbe dovuto armare il popolo, ma nessun governo lo avrebbe osato, perchè solo la parte rivoluzionaria era battagliera e si sarebbe servita delle armi per tentare l'unità e la libertà della patria. Finalmente dietro l'Austria stava l'Europa monarchica vigile ed ostile ad ogni mena di rivoluzione, terribilmente armata e pronta a qualunque eccesso.

Il problema dell'indipendenza era dunque insolubile. Quello della libertà presentava difficoltà anche più profonde. La libertà, fuori dei termini della rivoluzione francese che consacrava la sovranità nazionale ed individuale, era un non senso: circoscritta alle concessioni dei principi non avrebbe conciliato loro la fede del popolo, nè soddisfatto alcun vero bisogno di questo. D'altronde le riforme avrebbero dovuto chiamare al potere uomini popolari, proponendo così il quesito della loro elezione: ora ogni elezione implica il quesito del diritto elettorale, nel quale risiede tutta la sovranità; chiamati dal principe non avrebbero rappresentato il popolo; mandati da questo avrebbero annullato il diritto regio. Un inevitabile conflitto sarebbe scoppiato fra i due poteri, e la rivoluzione procrastinata dalle riforme si sarebbe servita di esse medesime per scoppiare più prontamente.

Solo la teorica mazziniana, dichiarando inseparabili la libertà e l'indipendenza, l'unità e la republica, era rigorosamente logica, ma appunto per questo merito sistematico non si prestava ad una immediata applicazione, mentre la storia a somiglianza della vita procede destreggiandosi fra antitesi apparentemente inconciliabili e traendo spesso dalla morte e dall'assurdo le proprie forze più vive. Contro i mazziniani, ultimi e più originali fra i giacobini, sorsero gli scrittori riformisti a tentare la conciliazione dei contrasti nazionali, fortificando coll'illusione d'incredibili sistemi il fiacco liberalismo della maggioranza.

Fondamento dei nuovi scrittori furono l'autorità papale e il diritto regio: la loro argomentazione derivò tutta dal passato, la loro rettorica dal romanticismo. Alcuni come il Gioberti ingigantirono il problema entro una visione sinteticamente poetica; altri come il D'Azeglio lo distrussero in un'analisi frammentaria: si dissero pratici in confronto ai mazziniani e nessuno di essi ebbe il senso della realtà, non compresero il popolo e svisarono i principii, per concludere nullameno a maturare la rivoluzione spingendo la nazione alla prova di una libertà statutaria e di una guerra federale contro l'Austria.

Anzitutto il giovamento della loro opera fu appunto nel combattere le teoriche rivoluzionarie, che spaventavano il senno volgare delle masse. Per essi si potè cominciare ad essere liberali senza compromettersi in rischi mortali di congiure, a separarsi dalla vita dei più. La classe aristocratica e la media, condannate dalla teorica mazziniana, che s'indirizzava schiettamente al popolo, riconoscendo in lui solo la fonte di tutti i diritti, si riconciliarono alla causa della libertà: i dissidi regionali, ancora così appassionati, si calmarono nell'illusione di un accordo federale che rispettasse tutte le vecchie autonomie, la religione accarezzata come fondamento della libertà si rasserenò lasciando a nudo il fanatismo reazionario del clero che parve tristo anche ai più indulgenti. Non si minacciarono più i principi, ma s'intese a persuaderli: si propose loro di essere più grandi, più liberi, più uniti ai loro popoli, confederati contro lo straniero, guidati da Roma nella santa crociata. Gioberti esule scriveva nel Primato un mostruoso poema politico intercalato di ditirambi, sonoro ed abbagliante: in esso l'Italia schiava diventava la nazione delle nazioni, e per una terza volta il centro della storia. Il papato, incomparabile ed immortale originalità della storia, doveva compiere il miracolo di una terza risurrezione italica; il papato che aveva rovesciato l'impero romano, guidato il medio evo, resistito a tutti gli scismi, trionfato della rivoluzione francese, assicurava l'avvenire d'Italia. I tempi erano maturi; l'Europa non poteva procedere oltre senza l'Italia: il papato era la stella polare della storia. Il libro si diffuse come un contagio, inebriò come una musica. Tutti gli elementi della reazione cattolica si addensarono in un partito guelfo, che l'erudizione storica venne a rinfiancare di antichi argomenti: la monarchia, rappresentante nel proprio maggiore significato l'antico mondo coi privilegi e le differenze di classe, rifulse anch'essa come un principio; l'ordine sociale non si comprese più al di fuori della monarchia e della gerarchia di classe, la rivoluzione parve sacrilegio mentre le riforme esprimevano lo svolgersi lento ed armonico del processo sociale. Quindi il popolo avrebbe partecipato al loro beneficio non alla loro opera: questa doveva esser fatica e merito delle classi colte. Non si pensava a guerra, si sperava nell'indipendenza cansando il problema militare e sognando combinazioni diplomatiche al tempo stesso favorevoli e difficili come quelle del lotto.

Cesare Balbo, letterato guelfo, storico e politico reazionario, si cacciò nell'arduo tema col celebre libro su Le Speranze d'Italia. Se Gioberti aveva delirato sul papato, Balbo vaneggiò sulla monarchia: nell'Italia non vide che il Piemonte, nella storia che il passato, evitò tutti i problemi dell'indipendenza, della libertà, della sovranità nazionale, dell'unità e della federazione, limitandosi a predicare ai popoli l'obbedienza e ad insegnare come scopo politico la consolidazione di tutti i governucoli peninsulari, guardando al papato come alla legge suprema d'Italia, e sperando che l'Austria coll'impossessarsi di una parte della Turchia potrebbe cedere graziosamente al Piemonte il Lombardo-Veneto. Intanto bisognava abborrire la rivoluzione, disciplinarsi e credere esclusivamente nella monarchia, qualunque ne fosse il sovrano. Più tardi nelle Lettere politiche inculcò il liberalismo moderato con volo più basso di fantasia politica, ma con più servilità di propositi e non meno torbida intuizione della realtà. Anzi le sue lettere alla vigilia dell'azione raggiunsero lo scopo opposto inasprendo il dissidio dei partiti, quantunque il Montanelli, benevolo spirito liberale, agile nei maneggi ma non resistente di fibra e sempre incerto nell'idee, corresse in aiuto, proclamando una specie di tregua finchè lo straniero non fosse cacciato d'Italia.

Più chiaro apparve il Durando nel libro sulla Nazionalità Italiana, dichiarando che il solo principio unificatore d'Italia era nel principato e il rigeneratore nella libertà, proponendo così una lega sincera fra popoli e principi per costituire la nazione in due regni della regione eridanica sotto casa Savoia, e del mezzogiorno sotto i Borboni. Roma col proprio Stato resterebbe al papa, gli altri principi spodestati troverebbero compensi nelle isole e nella Savoia. Ma questa divisione troppo facile veniva nullameno oppugnata dall'anonimo lombardo, che nei Pensieri sull'Italia dichiarava incompatibile coll'indipendenza italiana la sovranità temporale del papa, e opera vana ogni tentativo di riforma su questa. Quindi consigliava la formazione di tre regni: il primo col Piemonte, il Lombardo-Veneto e Parma con Torino residenza della corte e Milano sede del congresso nazionale; il secondo colla Toscana, Modena e lo Stato pontificio avrebbe Firenze per sede del principe e Bologna per quella del congresso; il terzo con Napoli sede del sovrano e Palermo sede del congresso. Roma città libera resterebbe al pontefice sotto la protezione dei tre sovrani. Uno statuto uniforme e una lega doganale dovevano stringere i tre regni. Altri, come il Galeotti nel libro della Sovranità temporale, erano invece d'avviso che a riformare gli Stati pontifici bastasse il richiamo delle antiche leggi e principalmente dei capitoli di Eugenio IV; Gino Capponi nelle Attuali condizioni della Romagna non dubitava nemmeno della necessità del governo temporale e si limitava ad augurare migliorie e riforme; il D'Azeglio nel celebre opuscolo sui Casi di Romagna, dopo una critica calma dell'orribile sgoverno di quelle provincie, concludeva poveramente a consigliare maggior pazienza ai sudditi e minore durezza al sovrano, non sospettando nemmeno che lo scopo dell'imminente rivoluzione nello Stato pontificio sarebbe appunto la doppia proclamazione della repubblica romana e dell'abolizione del potere temporale.

In tanti disegni nessuna idea chiara o proposta concreta. Nè il problema dell'indipendenza, nè quello della libertà erano posti nei loro veri termini. Se il concetto della federazione fosse stato organico avrebbe prima rampollato nelle corti che nel popolo, atteggiando diversamente la loro politica: invece corti e popoli erano così divisi dal sentimento inconscio della rivoluzione che la federazione proposta doveva risolversi in un agguato per entrambi. Se l'idea della libertà fosse stata cosciente nei popoli e nei principi, la loro doppia politica non si sarebbe svolta in così triste antagonismo e le costituzioni sarebbero state invocate e concesse con uguale sincerità e col magnanimo proposito di combattere l'Austria; ma la libertà era invece odio pei rivoluzionari, ribellione pei governi, peccato pei preti, disordini per la plebe, martirio pei pochi generosi che la ritentavano ogni giorno in tragedie isolate. E di libertà seguitava a fremere la letteratura coi drammi del Niccolini e colle satire del Giusti fra l'imbroglio di transazioni assurde e di combinazioni impossibili, di reticenze perfide e di sottintesi indicibili, mentre Mazzini sempre terribilmente limpido guidava il battaglione sacro delle idee e delle poche forze rivoluzionarie su per l'erta di una nuova epoca storica.


LIBRO QUINTO

L'ULTIMA RIVOLUZIONE FEDERALE




Capitolo Primo.

I prodromi.

Effervescenza dell'opinione.

Il fermento rivoluzionario cresceva.

Tutta l'Europa era corsa da fremiti di rivolta: in Francia l'ibrida monarchia di Luigi Filippo, logora da oltre quindici anni di corruzione e senza base nella coscienza del paese, era ridotta alla vita precaria dei propri ministeri; la democrazia accresciuta di tutte le forze del socialismo, che dalla gloria di un'ammirabile letteratura passava intrepidamente alla tragedia dell'azione, l'assaliva da ogni parte rivelandone con implacabile critica la perfidia delle trame e l'inanità delle idee. In Germania il lavoro della ricostituzione nazionale, avviluppato nel panneggiamento di troppi sistemi storici e filosofici, si veniva sbrogliando coll'aiuto delle idee francesi più terribilmente logiche e chiare. L'Austria, rappresentante dell'assolutismo e del più eteroclito impero europeo, veniva quotidianamente assalita dalla democrazia tedesca nel nome della nazionalità e della libertà, mentre la Prussia, incapace di comprendere ancora la propria missione storica, si vedeva al tempo stesso blandita e oppugnata dai rivoluzionari a seconda del loro metodo costituzionale o giacobino. La Polonia scuoteva tratto tratto le proprie catene con impeti disperati; l'Ungheria ligia alla propria aristocrazia magiara resisteva con minacciosa energia alla depressione uguagliatrice della burocrazia viennese, che mirava a stringere l'unità dell'impero schiacciandovi tutte le differenze etnografiche e nazionali; l'Italia, terra mista e campo aperto a tutte le idee più disparate, si sollevava con fede improvvisa verso un trionfo indefinibile che avrebbe dovuto risolvere miracolosamente tutti i suoi centenari problemi.

Le riforme concesse dopo il 1814, come espediente di governo per combattere la rivoluzione, sembravano ad un tratto divenute l'unico ideale dei popoli. L'indipendenza dallo straniero, nella quale si accordava ogni partito, era una tregua convenuta fra governo e rivoluzione nell'inconfutabile coscienza d'una necessità comune, una specie di campo chiuso al valore di tutti i combattenti e sventolante gioiosamente delle più varie bandiere. Il concetto di patria, così chiaro nella letteratura nazionale degli ultimi 30 anni e nullameno ancora così torbido nella coscienza delle masse, si effondeva improvvisamente come una poesia irresistibile nelle parole di tutti: non si ciarlava, non si cantava, non si ballava più che per l'Italia. Il sentimento nazionale educato dalla lunga opposizione all'Austria aveva finalmente conquistato la coscienza di se medesimo; nessuno osava più essere apertamente austriacante, poichè la logica del pensiero e l'onorabilità del carattere se ne sarebbero offese. Comunque l'Italia fosse infelice od oppressa, anzi per questo medesimo, bisognava essere italiani: l'orgoglio nazionale ridesto dal valore spiegato nei libri e nelle congiure degli ultimi tempi, osava finalmente riaffacciarsi alla storia. L'Italia ignota persino a se medesima nel secolo passato, poi invasa dallo strepito della rivoluzione francese come un immenso dormitorio, nel quale tutto un popolo d'infermi e di poveri sonnecchiava nell'ozio e nella fame, quindi riordinata violentemente a caserma dal primo impero, ridivenuta albergo dei propri principi fuggiti e degli antichi padroni stranieri nella ristorazione del '15, era adesso una terra inerme che parlava di armi, piena di dotti e di poeti, di congiurati e di politicanti, con una aristocrazia stretta intorno ai troni come per difenderli dalle estranie influenze, con una borghesia destatasi all'immenso moto europeo e confusamente conscia che ogni fatto futuro sarebbe per lei una conquista, con un popolo al quale il rombo delle idee e le frequenti percosse della polizia avevano messo l'orgasmo della ribellione contro l'autorità senza giustizia e senza carattere nazionale.

La necessità delle riforme, accresciuta tuttodì dall'esame delle condizioni politiche ma abbellita dalla improvvisa giocondità di un accordo fra popoli e governi, non presentava ancora nulla di troppo pericoloso; non si minacciavano più i principi; le classi non si astiavano più fra loro, una specie di benevolenza, metà ingenua e metà perfida, addormentava le diffidenze degl'interessi e le ripugnanze dei principii. Si capiva e si diceva che le riforme avrebbero condotto alle costituzioni, ma questa parola non molto meglio determinata delle altre non palesava ancora tutto il proprio contenuto rivoluzionario. L'aristocrazia sperava di conservarvi quasi tutti i vecchi privilegi, la borghesia di guadagnarvi parecchi diritti colla doppia forza del censo e della coltura, il popolo di liberarvisi da molte angherie. I veri rivoluzionari, ostinati nell'unità e nella republica, venivano giudicati alla stregua degli incorreggibili sanfedisti ed austriacanti: ogni regione d'Italia si accingeva al rinnovamento conservando nella vanità inevitabile della nuova opera le vecchie superbie delle autonomie. L'unità della patria, così bene affermata dalla letteratura, diventava unione nell'idea politica d'allora: si parlava di dieta, di lega doganale, di statuti uniformi; era una risurrezione medioevale che lasciava a Roma il papato, come se la rivoluzione e l'impero francese non l'avessero due volte soppresso, e tutte le antiche capitali nel loro storico antagonismo. Palermo risognava di emanciparsi da Napoli pur conservandone la dinastia, Genova vaneggiava contro Torino nei ricordi dell'antica repubblica, Firenze rimuginava i propri secolari disegni d'ingrandimento contro i ducati limitrofi, il Piemonte mirava al Lombardo-Veneto come a preda troppo lungamente agognata, mentre Milano rammentava, con palpiti superbi di donna, la sua ultima gloria di capitale del regno italico, e Venezia, isolata nel silenzio delle lagune, fantasticava la libertà dinanzi alla gloria immortale dei propri monumenti.

Era un idillio politico. Nessuna di quelle terribili passioni che covano le vere rivoluzioni, trapelava dalla scompostezza del nuovo moto: non fede religiosa, giacchè in Italia fu sempre scarsa, e il papato non fece che diminuirla e la religione cattolica era piuttosto ostile che favorevole ad ogni forma di rivoluzione italiana: non tradizione regia, capace di difendere le centenarie dinastie contro disegni giacobini e prepotenze imperiali; non odio al principato, disonoratosi nell'ultimo secolo con ogni bassezza morale e politica; non amore alla repubblica, che non fu mai italiana; non orgoglio di libertà, della quale era mistero il significato moderno; ma una irritazione prodotta dalla politica austriaca ed austriacante, e una velleità d'emancipazione che facesse senz'altre fatiche rifiorire il benessere materiale paesano. E il moto non era solamente federale per tradizione ma per un sottinteso ipocrita che, giudicandolo meno osteggiato così dai principi che dall'Austria, lo sperava più facile: forse quest'ultima, preoccupata da altre necessità interne, lo avrebbe lasciato passare e la rivoluzione si sarebbe svolta come una festa. Poi il caso o la fortuna d'Europa avrebbero aiutato.

Si desiderava da suddito diventare cittadino, ma si aspettava questo da una concessione generosa di principe; si sarebbe voluta l'espulsione dell'Austria, ma si ripugnava alla coscrizione, alle enormi spese e agli immensi disastri, che una guerra nazionale avrebbe costato. Idea e passione politica non erano limpide ed ardenti che nei pochi rivoluzionari: il grosso partito riformista non aveva come tale nè l'una nè l'altra, e non pensava ai problemi della nazionalità, della sovranità e del papato; sottomesso ai principi non vedeva in loro un principio ma un buon espediente contro l'avvento rivoluzionario del popolo; imbevuto di cattolicismo non ammetteva libertà religiosa, e ripugnava all'unità specialmente per terrore superstizioso di Roma; nemico dell'Austria, non la odiava abbastanza da accettare contro di essa una qualunque rivoluzione.

A quella federale, che si veniva preparando, dovevano quindi mancare l'idea, il sentimento e lo scopo. Se l'antica federazione aveva significato l'individualizzarsi dei comuni nella disgregazione dell'impero, ed era stata invincibile come tutti i progressi, la nuova dopo la rivoluzione francese, che tende a costituire i popoli prima per nazioni e poscia per razze, non avrebbe avuto altro significato che di un esperimento rivoluzionario, nel quale l'Italia liquidasse il proprio passato. Mentre i moti del '21 e del '31 erano stati egoisticamente regionali, l'imminente rivoluzione del '48, svolgendosi federalmente con concessioni di statuti e lega di principi e una egemonia del pontefice, doveva essere la loro inevitabile conclusione. Così svanirebbero tutte le resistenze del mondo storico; e l'Italia, ricredutasi nell'inutilità di questo sforzo supremo, al quale era inconsciamente spinta dallo spirito moderno, aprirebbe il proprio terzo periodo storico della nazionalità.

Nulla mancherà dunque dell'antica Italia in quest'ultima rivoluzione federale. Una stessa illusione vi accorderà tutti i partiti, costringendoli a fallare nel processo dell'azione rivoluzionaria perchè, meglio fusi da una sconfitta comune, si trovino nella necessità di ritentare più tardi una vera rivoluzione. Tutte le monarchie costrette a concedere lo stesso statuto, avanzandosi sul ponte infido del costituzionalismo verso la democrazia popolare, faranno la loro ultima riprova, ma quella solamente fra esse che saprà resistere all'esperimento costituzionale, avrà un avvenire. Naturalmente ciò dipenderà meno dalla sincerità del loro carattere in tutte egualmente ostile al riconoscimento della sovranità popolare, che dall'ambiente politico nel quale si compierà l'esperienza: quindi fra i due grossi regni napoletano e piemontese, intorno ai quali potrà agglomerarsi l'Italia futura, il vantaggio sarà per quest'ultimo.

Ma poichè l'imminente rivoluzione federale dovrà esaurire le secolari forme storiche d'Italia, il suo impulso apparente verrà dal papato. L'Italia, tentando rinnovarsi nella modernità, non poteva essere che neoguelfa e riassumersi entro la più antica delle proprie istituzioni con uno sforzo d'unione senza unità e di nazione senza individualità. Dacchè l'impero francese sfasciandosi l'aveva lasciata ricadere nel passato più povera e più divisa da interessi inconciliabilmente rivali, solo la grandezza del papato, assicurandole una primazia cattolica, le dava ancora una ideale unità. Quindi basterebbe al papa il cenno più lieve ed ambiguo di riscossa perchè a tutti sembrasse più chiaro d'ogni più esplicita affermazione. Qualunque parola di Roma parrebbe contenere un programma, ogni sua promessa sembrerebbe maggiore dello stesso fatto compiuto. L'effervescenza classica, la superstizione religiosa, l'antica fede, l'immutata soggezione, galvanizzate dall'indefinibile senso rivoluzionario del secolo, si condenserebbero intorno al papato per spingerlo inconsapevole ed inconsapevolmente sulla via della rivoluzione: si vorrebbe con esso una crociata politica, gli si domanderebbero come molti anni addietro benedizioni ed anatemi miracolosi, gli s'imporrebbe di costringere Dio alla complicità di combinazioni diplomatiche che nessuna scienza di stato o volgare prudenza d'individuo potrebbe approvare. Il papato, idealmente ucciso dalla rivoluzione francese, oscillerebbe quindi sotto la pressione del pubblico sentimento, compiendo di suicidarsi coll'accordare una costituzione inconciliabile colla propria essenza, finchè, di cosmopolita fatto italiano e costretto a tradire l'uno e l'altro carattere, finirebbe abrogato da una republica romana, assurda ed effimera quanto la stessa rivoluzione federale.

Intanto le corti italiane, travolte dall'impulso del papato all'esperimento delle costituzioni e di una impossibile lega militare contro l'Austria, si dibatteranno fra perfidie mostruose: la sollevazione contro lo straniero, precisando all'interno tutti coloro che non l'avranno aiutata o peggio l'avranno tradita, li designerà come nemici; l'impossibilità dell'unione spingerà all'unità, l'accordo giubilante coi principi si muterà in dissidio mortale coll'abrogazione degli statuti, il nuovo contatto colla rivoluzione europea spazzerà dalla coscienza nazionale gl'informi antichi concetti storici, i martirii delle successive congiure colpiranno molti riformisti divenuti rivoluzionari, mentre il Piemonte mantenendosi costituzionale diventerà il nocciolo della nazione futura.

Pio IX.

Alla morte di Gregorio XVI (1^o giugno 1846) le popolazioni dello stato pontificio, come presaghe dei tempi nuovi, respirarono gioiosamente. Al conclave tosto adunato furono spediti Memorandum e petizioni, che, sebbene male accolti, non scemarono la pubblica aspettazione; siccome si temevano sommosse, e il generale austriaco Radetzky si disponeva già ad occupare le Legazioni, grande era il fermento degli animi, ma il conclave, sbrogliandosi più sollecitamente del solito, proclamò pontefice contro ogni previsione il cardinale d'Imola, Mastai Ferretti. Era questi nuovo alla vita politica, senza nè partito nè capacità politica. Il Lambruschini, candidato austriaco, e il Gizzi, candidato popolare, rimasti esclusi, rappresentavano le due più grosse parti del conclave, che, inette a vincersi, avevano dovuto accordarsi sopra un nome neutro.

Il nuovo pontefice, che si chiamò Pio IX, doveva, malgrado la inanità del proprio spirito, lasciare nella storia del papato una delle orme più profonde. Mite di temperamento e gioviale nel carattere, vanitoso quanto un attore e facile come un dilettante, era l'uomo più adatto al carnevale del momento, che intendeva a fare di tutto una festa scordando i problemi della politica nel fracasso della rettorica e avanzando per una fantasmagoria di illusioni sceniche verso la scabra realtà d'una rivoluzione presto soffocata nel sangue d'una guerra. Se Gregorio XVI era stato un teologo ed un tiranno, Pio IX fu un retore della teologia e della politica, egualmente incapace di comprendere la posizione del papato nel secolo e in Italia. Quindi invece di una vera riforma religiosa, quale l'invocavano i più grandi spiriti cattolici, non mirò che alla teatralità di affermazioni dogmatiche, atte a sbalordire la plebe e tendenti a condensare l'assolutismo papale senza prevederne i contraccolpi politici. L'ultimo dogma dell'infallibilità pontificia, che annulla il potere legislativo dell'episcopato, contradice infatti ben stranamente alla concessione dello statuto, che doveva rendere il papato parlamentare. Ma nessun papa svolse nel proprio pontificato più ricco repertorio di scene. Riformatore, poi rivoluzionario colla promulgazione dello statuto, eroe nazionale e banditore della crociata contro l'Austria, quindi reazionario, traditore e fuggiasco a Gaeta sotto l'egida del peggior tiranno d'Italia; decaduto dal trono per decreto della republica romana che aboliva il potere temporale, e ricondottovi da una coalizione monarchica che preludeva al secondo impero: più tardi battuto dalla conquista savoiarda aiutata da Napoleone III, e nullameno protetto da questo entro Roma; due volte assalito da Garibaldi ad Aspromonte e a Mentana, e rovesciato finalmente dalla monarchia italiana l'indomani di Sedan, Pio IX dovette fingersi prigioniero entro il Vaticano dichiarato inviolabile. Gloria ed infamia, nulla gli fu risparmiato. Sollevato a tutte le apoteosi dalla illusione politica di un momento, e percosso poco dopo dagli anatemi di tutte le coscienze italiane, potè proclamare il dogma dell'infallibilità pontificia in un concilio ecumenico, che la rivoluzione del 1870 disperse; accattone d'aiuti parricidi dopo le più ingenue vanterie patriottiche, imbrattato di stragi come le perugine malgrado la gioviale bonarietà d'animo, dominato da ministri concussionari come Antonelli, aggirato dai liberali e dai gesuiti, fu l'ultimo condottiero del papato, e ne divenne il becchino fra la più scettica indifferenza mondiale.

Ma il mattimo del suo pontificato apparve così bello all'accesa fantasia d'Italia che tutto il mondo salutò acclamando.

I primi atti politici del pontefice, benchè per se stessi non meravigliosi, destarono i più fervidi entusiasmi. Concesse un'amnistia così umiliante per la formula che alcuni, come il Mamiani, sentirono di doverla ricusare; nullameno questo perdono di papa parve ultimo miracolo del cattolicismo. Quindi una indefinibile ed unanime congiura lo circuì. Lo si vantò più buono e liberale che davvero non fosse, apponendo le sue dichiarazioni assolutiste ai segretari; il partito clericale medesimo si scisse in due, dei gregoriani e dei pïani a seconda delle tendenze reazionarie o novatrici. Ambasciatori da ogni parte del mondo, persino del sultano, venivano a congratularsi dell'opera riformatrice col nuovo pontefice; ma ad essere riformatore gli mancavano insieme genio e carattere.

Infatti le prime commissioni consultive con ammissione di qualche laico illustre, come i giuristi Silvani e Pagani, l'una per lo studio della riforma processuale, l'altra con propositi meschini di educandato per la correzione dei costumi publici, e una terza per la costituzione del municipio romano, scoprirono tutta l'inanità de' suoi concetti politici. Ma il publico non potè e non volle accorgersene. Al suo entusiasmo bastavano alcuni mutamenti nel personale legatizio, poche e tenui modificazioni nella costituzione dei tribunali, e lo spiraglio aperto alla stampa colla nuova legge sulla censura, che parve illiberale persino al D'Azeglio.

Intanto il delirio delle feste e delle acclamazioni cresceva. Una poesia carnevalesca avvolgeva la figura del pontefice, mettendo nel suo nome misericordioso il significato di tutte le perfezioni. Ogni giorno recava nuovi spettacoli di adorazione; la piccola e la grande letteratura bamboleggiava in panegirici al papa; invece di osservarle, s'indovinavano attraverso i suoi atti e le sue parole le più spampanate promesse liberali. Pio IX era tutto, religione, patria, autorità e libertà fuse nel più stupendo accordo di genio e di santità. I giornali improvvisati, come il Contemporaneo e la Bilancia a Roma, il Felsineo e l'Italiano a Bologna, questo diretto dal Berti-Pichat insigne agronomo, e quello dal Minghetti, che divenne poi celebre parlamentare, ditirambeggiavano con patriottica e comica ingenuità. Persino Garibaldi dall'America e Mazzini da Londra credettero buona tattica del momento scrivere a Pio IX due lettere assurde d'incoraggiamenti e di devozione. Così, la fede al nuovo papa liberale si radicava nell'opinione non solo d'Italia ma d'Europa, malgrado la contraddizione di molti suoi atti, attribuiti puerilmente alla sua posizione di capo di una istituzione vecchia di diciotto secoli e quindi atteggiata da abitudini, che nessuno sforzo avrebbe potuto mutare in un giorno. Il pontefice, ebbro di tanta popolarità, vi si abbandonava con gioia di attore. La sua stessa bellezza fisica, la potenza musicale della sua voce, per la quale invaniva almeno quanto pel grado di primo fra i cattolici, l'ammirazione d'Europa, la costanza di un trionfo che sembrava dilatarsi di giorno in giorno, tutto contribuiva a trascinarlo giù per la lubrica china della rivoluzione. Il grande tentativo liberale, iniziato nel cattolicismo per opera di Chateaubriand, e spinto con sì ammirabile vigore di stile dal Lamennais alle ultime conseguenze, favoriva la nuova interpretazione liberale del papato.

I riformisti gongolavano. Gioberti era stimato profeta, Mazzini sembrava aver piegato, i principi guatavano stupiti il pontefice come attendendo un suo cenno per seguirlo, il mondo applaudiva, solo i più incorreggibili rivoluzionari tacevano soffocati dall'entusiasmo universale.

Intanto con editto del 14 aprile 1847, ispirato dal famoso Memorandum del 1831, s'instituiva la consulta di stato: tutti i legati e delegati dovevano presentare una terna, dalla quale il sovrano avrebbe scelto un consultore per ogni provincia: i consultori siederebbero due anni in Roma e darebbero voto consultivo sulla sua amministrazione, l'ordinamento del municipio e gli affari interni dello stato. Era una lustra, che non riconosceva al popolo nessun diritto d'elezione e non gli offriva alcuna guarentigia. Poco dopo un motuproprio ordinava il consiglio dei ministri costituendolo del segretario, presidente e ministro degli affari esteri ed interni, del camerlengo per l'industria e il commercio, del prefetto delle acque e strade, del prelato presidente della guerra, del tesoriere e del governatore di Roma per la polizia. Il governo pontificio restava adunque sulle vecchie basi e col medesimo organismo prelatizio. Nemmeno questo bastò. Il popolo, infallibile nell'istinto politico, sentiva che il pontefice sarebbe andato più oltre, e che questi decreti erano piuttosto l'espressione del partito vaticano che dell'inevitabile compromesso già stretto fra il papa e la rivoluzione. Infatti l'Austria spaventata aumentava in Lombardia l'esercito di occupazione facendo subdole proposte a Guizot, ministro francese, perchè si adoperasse presso il pontefice a frenare il moto delle riforme e ad impedire quindi sommosse rivoluzionarie in Italia. Nel Vaticano era scoppiato il dissidio fra il Gizzi segretario e il papa: questi alle provocazioni dell'Austria rispose istituendo la guardia civica a Roma e promettendola alle provincie. Il Gizzi si dimise profetando la caduta del papato; i gregoriani già ringalluzziti dagli aiuti austriaci allibirono e tacquero momentaneamente nell'odio. Frattanto lo stato male ordinato in passato peggiorava fra il vecchio e il nuovo; sanfedisti e rivoluzionari, gregoriani e pïani, nelle provincie si percuotevano a morte; le commissioni governative eternavano i propri lavori, l'azione governativa sprovveduta degli antichi terrori polizieschi procedeva molle ed incerta, l'azione popolare cresceva gagliarda.

Al Gizzi successe il cardinale Ferretti, legato a Pesaro. Quindi, per l'anniversario della concessa amnistia, una congiura, piuttosto desiderata che ordita dai residui polizieschi del governo gregoriano contro Pio IX, provocò tumulti liberali, che s'immaginarono di salvare il pontefice vincendo una battaglia cittadina. Così il popolo s'impossessò delle armi e il governo cadde in sua tutela, mentre l'Austria, troncando le ambagi, occupava risolutamente Ferrara. La prima grande scena del dramma era incominciata. Roma e Vienna inimicate avrebbero acceso la guerra fra l'Austria e l'Italia. Roma protestò energicamente, il gabinetto inglese la appoggiò; ma l'Austria tenne duro, giovandosi della Francia che per mezzo di Guizot consigliava al papa di restare amico dell'imperatore a qualunque costo. Senonchè la mossa spavalda di Metternich, anzichè frenare il papa sulla via pericolosa delle riforme, ve lo spinse più vivamente; le popolazioni frementi di sdegno all'odiosa provocazione si stringevano più fortemente al pontefice; tutti i municipii gli offrivano uomini e danari per una impresa di liberazione; la stampa, rompendo i confini della censura ed ampliando la questione, pindareggiava di unione d'Italia e d'indipendenza nazionale. Per la prima volta dopo tanti secoli un'ingiuria fatta al pontefice re di Roma veniva raccolta come un guanto da tutta la nazione.

Pio IX, trascinato dalla logica segreta della rivoluzione a farsi iniziatore di una lega doganale, che avrebbe naturalmente preluso ad una lega politica, segnava un trattato doganale con Firenze e con Torino, costituiva il municipio romano, riordinava il ministero precisando le attribuzioni e la responsabilità di ogni ministro, apriva la consulta tentando inutilmente di scemarle nel discorso inaugurale il significato politico. Infatti i consultori nell'indirizzo di risposta gli esposero nella forma più rispettosa un largo programma di tendenze costituzionali e patriottiche. La loro inattuabilità non compresa dal popolo, pel quale tutto era segno di rivoluzione, non sgomentava i consultori: si andò fino a pretendere che il papa scomunicasse l'imperatore; e la Bilancia, giornale dell'illustre Orioli, affermava essere la scomunica un'arma superiore a tutte le altre di guerra.

L'agitazione negli altri stati.

Una protesta dei professori allo studio di Pisa contro l'installazione delle monache del Sacro Cuore cresceva tutto dì nelle stampe clandestine di Toscana, che invocavano riforme fingendo motupropri dai quali fossero accordate; il granduca Leopoldo, prima rattenuto dal terrore cieco dell'Austria, era adesso trascinato dall'irresistibile esempio di Pio IX. Tutto diventava pretesto di unione con Roma, la sottoscrizione per gli amnistiati poveri dello stato romano, il terremoto di Pisa e l'inondazione di Roma stessa. In questa si istituì una ambasciata toscana distinta dall'austriaca, si stabilì a Pisa una scuola normale, si nominarono commissioni per diffondere l'istruzione elementare. L'Austria premeva sul granduca a spaventarlo; i rivoluzionari si servivano del nome di Pio IX come di una salvaguardia per ogni dimostrazione liberale. Una nuova legge sulla stampa, colla quale si concedeva l'esame degli atti governativi, abilmente maneggiata dal Montanelli in un opuscolo, diventò arma contro il governo: questo, sempre più stretto dal blocco, ordinò nuovi codici, promise l'allargamento della consulta, una revisione organica dei municipi.

I giornali pullularono: Salvagnoli nella Patria propugnava l'accordo della libertà col principato e quindi una lega di principi per la difesa dell'indipendenza italiana, La Farina nell'Alba republicaneggiava, Montanelli sognava nell'Italia dietro al papato di Gioberti. La prima grossa battaglia giornalistica fu per l'istituzione della guardia civica, alla quale il duca ripugnava per istinto e per minaccie austriache, ma nella quale dovette consentire, travolto dalla marea assordante della publica opinione. L'armamento del popolo era il primo passo del principato all'abdicazione, gli altri furono segnati dai preparativi e dalla concessione finale dello statuto. All'agitazione liberale crescevano adepti ed aiuti: il barone Bettino Ricasoli, che fu poi la più onesta ed altera figura fra i successori del conte di Cavour, scriveva petizioni al governo, guidando contro di esso la parte più assennata del paese, ma sperando tutto dalla persuasione; Gino Capponi, austero gentiluomo ed elegante letterato, capo di un'altra frazione del partito moderato, si riprometteva maggiormente da legali agitazioni. Il partito radicale aveva sede a Livorno, ove Guerrazzi ne era l'idolo e Bartelloni il più efficace tribuno; Centofanti e Montanelli guidavano l'università di Pisa. Intanto le scosse di Roma propagandosi, eccitavano le popolazioni e sbaldanzivano i governi: ogni avvenimento diventava festa, ogni festa dimostrazione; l'anniversario della morte dei Bandiera e della cacciata dei tedeschi da Genova, l'assunzione del papa, la morte a Genova del celebre agitatore irlandese O' Connell e di Confalonieri a Milano, la sconfitta del Sonderbund a Lucerna, i ricevimenti per tutte le capitali italiane di Cobden e di Cormenin, provocavano esplosioni di rettorica rivoluzionaria e patriottica. Guerrazzi, commemorando a Gavinana la morte di Ferruccio, produsse quasi una rivolta: il principe Bonaparte di Canino, volgare ma coraggioso istrione politico, traversò la Toscana, poi Genova e finalmente Venezia, vestito da guardia civica romana, arringando e tirando il publico a teatrali giuramenti colle spade sguainate nel nome d'Italia. Le riforme concesse troppo tardi, mal volentieri e a sbalzi, anzichè placare il fermento l'accrescevano; il nome d'Italia, gridato da tutti, minacciava di morte i governi regionali; da Livorno si mandò a Garibaldi, divenuto glorioso in America per battaglie vinte, una spada d'onore, e una medaglia d'oro ad Anzani che con lui aveva colà organizzato la legione italiana.

A Lucca, siccome Carlo Lodovico seguitava nei più turpi disordini, ricusandosi con insolente spavalderia a qualunque riforma liberale, il popolo offeso impegnava contro di lui una lotta, nella quale ebbe presto il sopravvento. Allora il duca, spaurito e vessato dagli enormi debiti, precipitò la cessione del ducato alla Toscana; l'Austria intervenne in nome dei vecchi trattati per ottenere al duca di Modena la Lunigiana, chiave strategica della media Italia. Corsero ribalde trattative da tutte le parti, ma la regione restò momentaneamente a Modena spalleggiata da Vienna. La mala condotta di Leopoldo verso gli abitanti di Fivizzano, che gli si erano rivolti per non essere ceduti al duca di Modena ed avevano poi invocato persino Carlo Alberto e Pio IX, determinarono a Livorno una esplosione popolare, nella quale soffiò il Guerrazzi. Ne venne quasi una guerra civile, ma il duca fu sollecito al riparo, invadendo con grosse soldatesche la città ed arrestandovi tutti i caporioni. Il moto si disse sedato, però il governo non ne divenne più forte.

Frattanto essendo morta (17 dicembre 1847) la duchessa di Parma, Maria Luigia, l'Austria ne profittò per prender maggior piede in Italia contro l'imminente rivoluzione. L'ex-duca di Lucca, divenuto duca di Parma per diritto di riversibilità, ne prese momentaneamente possesso, riconfermando dietro monito austriaco gli odiati ministri della defunta duchessa e rispondendo alle petizioni popolari, invocanti migliori leggi e municipii elettivi, col darsi in braccio a Vienna. Così, dopo aver venduto i propri sudditi di Lucca al granduca di Toscana al prezzo di uno scudo per testa, il 24 dicembre firmava un trattato coll'imperatore, concedendogli di occupare militarmente lo stato per interesse di comune difesa: al quale trattato avendo tosto acceduto il duca di Modena, l'Austria contro i patti del 1815 era fatta padrona del Po e degli Appennini. Quindi col pretesto di scortare il cadavere della duchessa trasportata alle tombe imperiali di Vienna, Metternich fece occupare colle artiglierie Parma, poi Modena.

Ma tutta Italia guardava insistentemente a Carlo Alberto. L'istinto politico della rivoluzione intuiva che solo il Piemonte avrebbe potuto guidare una guerra d'indipendenza contro l'Austria, qualunque fosse il passato e il carattere del suo re. Carlo Alberto, attorniato dai gesuiti e dominato dal conte Solaro della Margherita, il più reazionario fra i ministri italiani, si sentiva passare entro l'anima assiderata il vento caldo della rivoluzione a risvegliarvi vecchi rimorsi e speranze. L'orgoglio tradizionale della sua casa, la sua stessa alterigia romantica di re assoluto e di cavaliere, lo traevano alla fortuna di una guerra che gli raddoppiasse i dominii, dandogli una vera supremazia su tutti i principi della penisola; ma il terrore delle idee rivoluzionarie, la bigotteria regia e cattolica, l'inguaribile dubbiezza del suo spirito incapace di affrontare risolutamente alcun problema, lo rattenevano sulla china delle riforme, irritando la sua gelosia per Pio IX. Quindi proibiva persino le funzioni ecclesiastiche celebranti il nuovo pontefice, pure offerendoglisi cavaliere contro l'Austria già discesa a Ferrara e minacciosa al Piemonte con un nuovo aumento di dazi sopra i suoi vini, quasi a sfida: accoglieva trionfalmente l'inglese Cobden apostolo del libero scambio, e seguiva la dottrina opposta del List, che aveva fondata in Germania la lega doganale; si ricusava alle riforme e scriveva una lettera ai comizio agrario di Casale, provocatrice come un bando di guerra contro l'Austria. Perplesso fra la diplomazia inglese, che per mezzo di lord Minto lo incuorava ad una rivoluzione costituzionale, e la politica francese che per mezzo del conte de Mortier tirava a riconciliarlo coll'Austria, non si risolveva per nessuna delle due: avrebbe voluto la guerra senza rivoluzione, guidando l'esercito e tenendo il popolo nella stessa calma obbedienza mediante poche riforme concesse per decreto reale. Nullameno il moto lo travolse. Il suo scudo fantastico col leone di Savoia straziante l'aquila di Asburgo e il motto scritto in francese da lui italiano «J'attends mon astre» esprimeva tutta la torbida poesia del suo pensiero: una visione di cavaliere antico, chiuso nell'angustia del proprio spirito e della propria corazza, concependo la rivoluzione come una festa di popolo e la guerra come il glorioso capriccio di un prode. Ma la storia, sempre più forte di ogni disegno individuale, lo trasse irresistibilmente alle riforme, che dovevano in tutti i principati italiani precedere gli statuti; onde, fra gli osanna del popolo, i suggerimenti ingenui o perfidi dei liberali e le querimonie della reazione, dovette con una serie di ordinanze modificare la legge comunale mettendovi a principio l'elezione popolare, abolire le giurisdizioni eccezionali, unificare con una nuova corte di cassazione la giurisprudenza del regno, frenare l'arbitrio della polizia affidata al ministro della guerra, slargare la legge sulla stampa, stabilire registri per lo stato civile, democratizzare le promozioni militari.

Naturalmente queste riforme, anzichè recare immediati benefizi, sconvolsero il vecchio sistema politico, sollecitando le voglie rivoluzionarie dei liberali. La logica delle cose traeva irresistibilmente a maggiori concessioni: si denunciavano tutti gli abusi; l'orgoglio piemontese, vellicato dalla proclamazione nazionale del proprio re a generalissimo contro l'Austria, domandava insistentemente un altro più difficile primato colla promulgazione di uno statuto. Le questioni più vitali, dibattute quotidianamente nei giornali, esaltavano meglio che non illuminassero le menti; Valerio e Brofferio, l'uno nella Concordia, l'altro nel Messaggero, guidavano la falange più ardita dei liberali; Balbo e Cavour nel Risorgimento si destreggiavano in un liberalismo più tenero del principato che della libertà, più preoccupato dei mezzi che del fine. Il vecchio assetto della società sommossa da tante agitazioni politiche si screpolava; difettavano uomini e idee; la riforma scesa dai libri e dalle riunioni accademiche nelle strade non vi diveniva rivoluzione per difetto di passione e d'intelligenza nel popolo. Il sentimento più vivo di questo era l'avversione all'Austria, ma non l'odio vero capace dei miracoli di Grecia e di Spagna; la tradizione più salda era ancora regia, le aspirazioni liberali salivano dalla borghesia e si confondevano nell'incertezza della sua cultura e nella imperfezione del suo carattere. Tutta la violenza era di parole e tutta l'opera di feste. Si temeva pazzamente dei gesuiti, le fazioni inviperivano nelle più astiose e stolide polemiche, la diffidenza scendeva e saliva dal popolo al principe, la vertigine del vuoto faceva turbinare tutte le teste. Due soli vedevano chiaro in tale tramestio, Mazzini e Metternich: quegli affermando recisamente che tutti gli ordigni dei moderati crollerebbero ben presto, e il popolo proromperebbe con manifestazioni da obbligare l'Austria ad invadere i paesi vicini; questi scorgendovi una sovversione rivoluzionaria che avrebbe forse guidato alla republica, ed affrettandosi a dichiarare in un Memorandum alle potenze che l'Italia era una semplice espressione geografica e non sperando più che nelle inevitabili divisioni italiane. «Gli italiani fortunati s'invidieranno, sfortunati si malediranno, discordi sempre vincitori o vinti». E fu profezia.

A Napoli, terra votata da secoli al più efferato dispotismo, l'impulso dato inconsciamente da Pio IX alla rivoluzione vi peggiorò il governo. Il re, impantanato nella più scempia bigotteria, lasciava compiere a ministri truci o rapaci, come il Del Carretto e il Santangelo, qualunque infame prepotenza: unica politica la repressione. Nullameno l'opposizione dei patriotti, quantunque più napoletani che italiani, sempre egualmente scarsi di idee e di coraggio, si ostinava al cimento. Infatti nella celebre protesta elaborata dal comitato rivoluzionario e scritta dal Settembrini, forma e sostanza erano del pari insufficienti. Prolissa come una requisitoria, sparsa qua e là di frasi pietiste a Pio IX, minuta e pedante nell'accusa, non esciva dal popolo e al popolo non si rivolgeva: pareva un appello all'Europa e non era che un'arringa d'avvocato senza severità di stile e veemenza di passione; negava e non riaffermava; uscita dall'anonimo si perdeva nel vago, più lamento ancora che protesta, troppo lunga per un proclama e troppo scomposta per un Memorandum, non abbastanza rivoluzionaria nell'intenzione e troppo poco italiana nel sentimento. Non pertanto parve ai liberali un capolavoro e un pericolo al governo. Questo, infellonito dalle accuse consegnate così a tutta la stampa europea, cercò a morte gli autori, che esularono o si nascosero. Ma il fermento aumentava minaccioso nelle provincie. Ai primi di settembre (1847) una sommossa scoppiava per opera dei fratelli Plutino e di Romeo a Reggio e a Messina, prontamente e ferocemente repressa. I generali Landi e Nunziante vi si copersero d'obbrobrio; Domenico Romeo vi fu trucidato e un suo nipote costretto a portarne la testa in giro per le ville. Ma quasi l'immanità della repressione fosse insufficiente, il re con editto dell'otto settembre invitava tutti i cittadini a farsi spie del trono dando sicurtà «che i loro nomi resterebbero sepolti negli arcani della polizia, che proporzionata all'utile sarebbe la ricompensa, e che la sovrana clemenza non lascierebbe alcun servigio senza premio». Un altro editto poco dopo prometteva trecento ducati a chi uccidesse, e mille a chi consegnasse dieci ribelli, dei quali si davano i nomi. A queste tiranniche empietà rispondevano, elogiando, le corti di Vienna, di Berlino e di Pietroburgo, mentre Ferdinando II, come impazzito di ferocia e atterrito da una ovazione fattagli per il licenziamento del ministro Santangelo, proibiva con nuova ordinanza al popolo di gridare persino, Viva il re! Naturalmente l'ordinanza non fu obbedita e ne nacquero risse sanguinose fra il popolo e la sbirraglia.

La Sicilia, sempre implacabile nell'odio al governo napoletano, ne approfittava per insorgere un'altra volta. Uno scritto diffuso per Palermo il 12 gennaio 1848, vi chiamava tutti i siciliani alla rivolta, sfidando il governo come ad un torneo mortale. Il governatore militare bombardò prima la città; poi, trovata la resistenza troppo dura, tentò accordi; il conte d'Aquila sopraggiunto s'interpose chiedendo concessioni al re; Ferdinando spaventato alcune ne diede, molte altre ne promise; ma Palermo, fidente nel proprio sogno di autonomia, le respinse per tentare d'organizzarsi a governo. I comitati costituitisi nella prima ora della rivolta si restrinsero in uno solo: Ruggero Settimo ne fu presidente, Mariano Stabile segretario. La lotta proseguì feroce d'ambo le parti, ma le truppe napoletane dovettero indi a poco levare il campo. Per ultima orribile rappresaglia di guerra il generale De Sauget, prima d'imbarcarsi, fece aprire le carceri della città sguinzagliandovi dentro cinquemila galeotti. Frattanto la rivoluzione si era diffusa; solo qualche fortezza restava ancora ai regii nell'isola.

Il primo scoppio della rivoluzione federale vampeggiava dunque dalla Sicilia, che la storia non aveva mai potuto congiungere all'Italia, e nella quale nessuna conquista si era mai saldamente stabilita.

Gli statuti.

I fati incalzavano. L'insurrezione vittoriosa della Sicilia, atterrando la corte di Napoli, inanimì i liberali; l'Austria, inabilitata a soccorrere i Borboni, giacchè il papa offeso dell'occupazione di Ferrara vietava ogni transito pel proprio territorio, non bastava più a proteggerli; le provincie di terraferma tumultuavano, la plebe delle città era incerta, l'esercito per quanto numeroso non abbastanza solido. Il Cilento era in fiamme; Constabile Carducci con forte mano d'insorti minacciava Salerno; la resistenza avrebbe acceso la guerra, questa spaventò il re. A scongiurarla con vecchia abilità di famiglia, Ferdinando II pensò di concedere più che non gli si domandava, e diede la costituzione incaricandone Ferdinando Bozzelli, antico liberale che doveva poi disonorarsi nella cortigianeria di troppi tradimenti. I truci funzionari polizieschi furono congedati, s'instituì un nuovo ministero. A tanta prodigalità liberale il popolo esaltato proruppe in ovazioni: odii ed infamie furono dimenticate. I capi rivoluzionari al solito credettero nella lealtà del re, non si pensò al tradimento, si riprese l'idillio politico del '20 colla stessa ingenuità. La costituzione imitata sulla francese non era troppo liberale, e nullameno eccedeva forse la capacità politica del paese: unica religione riconosciuta la cattolica, il potere legislativo nel re e nel parlamento diviso in due bracci, senato a nomina regia e a numero illimitato, la camera dei comuni per elezione popolare. I collegi elettorali erano di 40,000 abitanti, gli elettori culti o censiti, ma entrambe queste loro qualità ancora indeterminate; liberi i comuni, vietato l'assoldamento delle milizie straniere, istituita la guardia nazionale, riconosciuto il diritto di petizione, uguaglianza dei cittadini in faccia alla legge; libera stampa meno che sovra argomenti religiosi; cancellato ogni precedente e condanna politica. Il potere esecutivo risiedeva nel re e nei ministri da lui nominati.

Questo, che stordiva i napoletani, non bastò alla Sicilia ostinata nella propria autonomia o nella fede alla costituzione del '12. Così la guerra proseguiva con vantaggio crescente degl'insorti, che il 20 febbraio 1848 indissero il proprio parlamento.

Ma la costituzione, concessa dal re con traditrice riserva e accettata dai liberali con fanciullesca ingordigia, poco adatta ai costumi e mal compresa dalle masse, non funzionava. La corte segretamente alla testa del partito retrivo moltiplicava gli ostacoli: v'erano due governi, l'uno palese e l'altro invisibile, quello debole ed impacciato, questo attivo e spregiudicato; il parlamento stava per diventare, come sempre, un'accademia, il ministero fra astrattezze liberali e servili cortigianerie mal poteva imporsi al paese e alla corte; i vecchi poteri restavano con nomi nuovi disobbedendo e falsando ogni mutazione; nelle campagne insubordinate e spinte a tumulti si rapinava; la guardia nazionale poco o punto armata, organizzata appena per qualche rivista e incapace di alcun vero servizio, non giovava; l'aristocrazia invecchiata negli usi dispotici ricalcitrava all'obbedienza della borghesia trionfante; il popolo aspettava lautezze e sbraitava profittando della nuova licenza. Dimostrazioni succedevano a dimostrazioni, peggiorando il disordine e disonorando la nuova libertà. Si espulsero i gesuiti; la stampa abbietta ed irruente insudiciò ogni più illibata reputazione.

Tra il tumulto senza la rivoluzione e il mutamento senza la rinnovazione, d'Italia non si parlava ancora: appena s'erano aggiunti alla bandiera borbonica i tre colori resi nazionali dalla propaganda della Giovane Italia.

La costituzione di Napoli scrollò tutti i principati italiani. La antica rivalità fra Napoli e Torino si riaccese fatalmente, mentre la logica della storia trionfava d'ogni loro egoistica resistenza. Carlo Alberto tentò indarno di reagire contro questa suprema necessità degli ordini costituzionali, che pure avevano fatto la potenza mondiale dell'Inghilterra e permesso alla monarchia di ripiantarsi in Francia sul terreno ancora rovente della rivoluzione. Quindi, scrivendo a Leopoldo di Toscana, che lo richiedeva di consiglio, gli scopriva tutto un disegno di riforme atte ad appagare le più insaziabili esigenze del popolo, senza scemare d'una dramma l'autorità assoluta del re: secondo lui la monarchia parlamentare era il peggiore dei governi. Ma il fiotto della rivoluzione saliva urlando e schiumando intorno al suo trono; Toscana e Romagna barcollavano, Roma sembrava in preda al delirio, il Piemonte fremeva. I libri di Gioberti avendo popolarizzato l'odio ai gesuiti, nei quali l'infallibile istinto popolare vedeva l'ultima milizia del dispotismo, tutti i paesi insorgevano per espellerli. Napoli li aveva cacciati tumultuando, Fano si levava contro di essi a furore, Ancona e Sinigaglia si avventavano contro gli Ignorantelli loro propaggine. Faenza, Camerino e Ferrara seguivano l'esempio, la Sardegna li prendeva a sassate, Genova e Torino si ammutinavano contro di loro. Era una nuova crociata contro gli ultimi giannizzeri del papato, una violenza della libertà costretta a diventare dispotica per potersi stabilire. Carlo Alberto, che fino allora aveva governato coi gesuiti, resistè: nullameno, per ovviare i tumulti, dovette armare la guardia nazionale, mentre i tumulti crescevano egualmente e la passione popolare trascinava tutte le classi. Il re cedette: cominciato l'abbrivo, il resto precipitò. La stampa, non emancipata che a mezzo, chiese in quell'immunità del momento la costituzione; i liberali urlavano libertà, i moderati indicavano il parlamento come l'unico asilo ove risolvere le questioni imbrogliate dalla piazza, la diplomazia inglese aiutava coi consigli, la Francia stava per rovesciare l'avvilente monarchia di Luigi Filippo per ritentare un infelice esperimento repubblicano. I due grandi municipii di Genova e di Torino presero l'iniziativa domandando al re uno statuto: Carlo Alberto chiese consiglio al confessore, s'inabissò in penitenze, e finalmente lo concesse di regia autorità per cansare l'obbligo di giurarlo. Il triste congiurato del '21 non era ancora morto nel nuovo re costituzionale.

Ma poichè la patria, come la religione, non conosce peccati inespiabili, il popolo proruppe all'entusiasmo: tutto fu dimenticato per non ricordarsi che della nuova costituzione e delle parole bellicose, colle quali il re minacciava l'Austria. Infatti all'indomani (5 marzo 1848) chiamava sotto le bandiere tre classi dei contingenti militari. Non era ancora una sfida, ma era già più che una precauzione di guerra. Il nuovo statuto, alquanto più liberale del napoletano, non ne differiva nell'essenza; però, sorto in ambiente politico migliore, potè, dilatandosi in una costante interpretazione liberale, emendarsi di molti difetti e neutralizzare qualcuno dei principii dispotici che lo rendevano piuttosto simile ad una capricciosa elargizione di re, che ad un patto fra questo e il popolo.

La Toscana, presa così tra due fuochi, dovette ardere anch'essa. Malgrado le minaccie del Metternich, il quale veniva ripetendo al granduca di non riconoscergli, come semplice usufruttuario di un patrimonio imperiale, la facoltà di scemarvi i diritti con colpevoli concessioni al popolo, Leopoldo II, atterrito dai casi di Livorno, spinto, sospinto, respinto d'ogni parte, s'arrese a discrezione del popolo, preparandosi a salvarsi colla fuga appena i tempi ingrossassero. Lo statuto toscano, ricalcato su quello napoletano e piemontese, fu migliore d'entrambi nella libertà religiosa.

Maggiori feste, perchè più profondo era il contrasto dei due principii politici ecclesiastico e civile, occupavano Roma senza stancarla. Le riforme concesse, ma non ancora praticate e nella più parte impraticabili, avevano rotto la decrepita compagine dello Stato, senza spirarvi dentro nessun alito di vita nuova. Come per lo innanzi i prelati soli reggevano il governo e dovevano guidare un popolo riscosso dal rombo di molte rivoluzioni. L'entusiasmo pel pontefice, infervorandosi ogni giorno più, lo metteva così alto che quasi lo disinteressava dal governo: e questa inconscia abilità dello spirito publico ingannava papa, corte e piazza. Il giacobinismo inveiva ragionacchiando di tutto: le imprecazioni ai gesuiti si mescevano cogli osanna a Pio IX, la guardia civica decorava teatralmente ogni processione politica, mentre molti moderati cominciavano già a spaventarsi di un moto, nel quale tratto tratto si sentiva la rivoluzione, e i mazziniani vi si cacciavano invece soffiandovi come sopra un polverìo che nascondesse al governo la direzione della strada. Una protesta per il riordinamento della milizia come risposta alle provocazioni dell'Austria fu quindi mandata alla consulta; questa la trasmise al governo, che credette rispondere mostrando ai tre milioni dei propri sudditi gli altri 200 milioni di cattolici pronti in caso di guerra a morire per il papa. Vecchia rettorica, che avrebbe dovuto far sorridere anche coloro che la usavano! Ma il governo cedette ancora, e finì col nominare un principe romano a ministro della guerra. Ogni giorno crescevano le difficoltà; le riforme concedute sembravano giustamente scarse dopo la promulgazione degli statuti negli stati vicini; il segretario cardinale Ferretti si dimise; il Bofondi, che lo sostituì, non potè fare di meglio; il governo scese a patti col popolo in un proclama nel quale si promettevano ministri laici. Proruppero altre feste: Pio IX dal proprio balcone arringò la moltitudine, che gli giurò fede in un urlo di demenza e si acquetò come per incanto alla benedizione papale.

L'antico governo prelatizio era dunque abbattuto, ma il fatto enorme non fu ben compreso in quella inesauribile baldoria. Il nuovo ministero, nel quale brillarono per ingegno Marco Minghetti e monsignor Morichini, non era già più moderato avendo ceduto la direzione della polizia al Galletti, rivoluzionario bolognese compromesso nei moti del 1844 ed affigliato ai circoli mazziniani. Tale ultima nomina era dovuta alla grande popolarità di questo, dietro la quale il neonato ministero provava già il bisogno di riparare. Galletti alla polizia e il tribuno Ciceruacchio in piazza formavano la parentesi della rivoluzione, che doveva soffocare il governo papale.

Ma poichè questo, non sentendo dentro di sè alcun principio di vita, aspettava come forma viscida e morta dal di fuori l'impronta, che doveva atteggiarlo in una nuova sembianza di vita, a Roma pure si cominciò a parlare altamente di costituzione. Era la pretesa dell'impossibile. Il partito moderato vi conveniva gongolando, i rivoluzionari con abile perfidia spingevano alla prova. I disegni fioccavano: l'illustre padre Ventura ne dette fuori uno, nel quale con ingenua serietà proponeva due camere, l'una eletta dai comizi, l'altra costituita dal collegio dei cardinali; Pellegrino Rossi, ammirabile ed ammirato letterato di scienze sociali, mandato da Luigi Filippo al papa come ambasciatore e consigliere, faceva pompa d'esperienza costituzionale in avvisi al pontefice e ai prelati sulle forme e sulle funzioni di un papa parlamentare. La utopia del Gioberti stava quindi per prendere corpo: la storia, per uccidere più sicuramente il papato, gl'imponeva coll'impossibile prova d'una costituzione il più mostruoso dei suicidi.

Al solito una rivoluzione di Parigi decise dell'ultima ambage del pontefice, e lo statuto fu promulgato.

I suoi principii politici, inconciliabili nell'essenza e nella forma, vi si urtarono entro le più inattuabili disposizioni: le camere invece di due furono tre, e la terza veniva formata dal collegio dei cardinali costituito in senato, e che discuteva e votava a scrutinio segreto. Le camere elettive non duravano in carica più di tre mesi: gli elettori erano una cerna assurda di censo e di capacità, che non rappresentava alcuna classe di popolo, e impediva anzi al popolo ogni rappresentanza. L'altro consiglio alto era vitalizio e di nomina sovrana; così i senati erano due, l'uno ecclesiastico e l'altro laico, entrambi ingranati nella stessa costituzione. Alle due camere erano vietate le leggi riguardanti gli affari ecclesiastici o misti, e tutto era misto nelle teoriche di Roma e nello stato romano: non dovevano influire sulle relazioni diplomatiche o religiose della santa sede, non potevano introdurre per qualsivoglia bisogno, alcuna variante nello statuto. Così l'immobilità caratteristica del governo papale si riaffermava nella nuova formula parlamentare essenzialmente progressiva. Lo statuto esprimeva il beneplacito del sovrano anzichè il diritto del popolo. Pio IX, concedendolo, aveva confessato di cedere all'andazzo dei tempi, ma, nonostante la promessa consegnata nell'ultimo articolo dello statuto, che questo sarebbe inserto in una bolla concistoriale secondo l'antico rito a perpetua memoria, non ne fu nulla. Pio IX, come Carlo Alberto e i Borboni, si teneva aperta una via al tradimento.

L'assurdità di tale esperimento costituzionale non parve evidente che a ben pochi: l'antitesi delle due sovranità popolare e papale sfuggiva all'inesperienza dei molti e veniva negata per odio alla rivoluzione. Non si pensava ancora alle conseguenze di sviluppo. Come avrebbe potuto ammettere la chiesa l'emancipazione degli acattolici, l'abolizione delle proprie leggi sul sacrilegio, la bestemmia, l'eresia, le immunità, i privilegi, le giurisdizioni, la sorveglianza episcopale ai beni delle opere pie? Come avrebbe consentito i matrimoni e i funerali civili, la libertà di religione e d'istruzione? Come lo stato vi si sarebbe determinato in faccia alla chiesa? Nel caso di un conflitto fra l'alto consiglio e il concistoro dei cardinali, chi avrebbe deciso? Il papa? E allora uno dei due corpi consultivi era inutile. In un conflitto più terribile, fra la camera elettiva e il papa, chi avrebbe sentenziato? Fatalmente gli elettori; e allora una rivoluzione avrebbe distrutto il barocco e artificioso edificio di questo statuto. Naturalmente il conflitto sarebbe scoppiato anche troppo presto. Nella imminente guerra coll'Austria Pio IX avrebbe agito da principe o da papa? Come pontefice era al di fuori e al di sopra di essa, come principe avrebbe dovuto guidarvi l'Italia. La distinzione fra questi due caratteri come si sarebbe espressa? Il mondo l'avrebbe intesa? All'Italia sarebbe bastata? Se lo statuto era una concessione del sovrano, non riconosceva diritti nel popolo; riconoscendogliene, il sovrano non era più che un rappresentante di esso come il parlamento. Ma allora il popolo aveva diritto di mutare anche questa nuova forma di governo, proclamando la repubblica: infatti questa fu proclamata molto più presto che gli stessi esaltati non si pensassero.

Intanto il partito moderato vaneggiava al governo col più giovanile entusiasmo: giù nelle piazze il baccano delle feste assordava gli orecchi anche più duri. Il nuovo ministero si accinse all'opera con eccellenti intenzioni, ma senza idee rivoluzionarie, quantunque la rivoluzione straripasse per tutta l'Europa. A mezzo il mese si sapeva già che il cantone di Neuchâtel si era mutato per sollevazione, la dieta di Francoforte aveva sancito la libertà di stampa per gli stati della confederazione germanica, il re di Baviera concedute più libere istituzioni: Amburgo, Vittemberga, Sassonia tumultuavano, Vienna era in fiamme; se ne diceva espulsa la dinastia, l'Ungheria in armi.

L'ora fatale per l'Italia era dunque discesa sul quadrante della storia. Unità o confederazione e guerra allo straniero, ecco il programma; armare il popolo, sollevarlo, profittando del suo entusiasmo, precipitarlo come una valanga sull'Austria atterrita e scomposta. riconquistare tutta Italia dimenticando in questa conquista ogni gelosia di principato, ogni riserva di statuto, ogni egoismo di regione, e l'Italia trionfante si ricomporrebbe, a seconda del proprio diritto. Solo una vera rivoluzione avrebbe potuto far questo, ma non era nell'anima nè dei popoli, nè dei principi. Così non si raggiunse nè l'unità, nè la federazione, e la guerra regia fu lombarda nelle sommosse, piemontese nelle battaglie, republicana negli assedi, italiana solo nei tradimenti e nelle sconfitte. Il numero dei volontari vi fu scarso, quasi nullo il carattere popolare, breve la durata, epico il valore dei rivoluzionari, infelice la condotta di tutti i governi traditori o traditi; gli statuti apparvero tranelli, la confederazione una lustra, le republiche un sogno, il principato piemontese insufficiente, quello napoletano straniero; Roma sola rappresentò tutto il mondo nell'abolizione del potere temporale, ma, accecata dal proprio lampo, volle essere romana anzichè italiana. Non vi fu rivoluzione interna giacchè nessuna classe ne sostituì un'altra al governo, carnevale e diplomazia viziarono la guerra, le campagne si scopersero austriacanti o clericali, l'idea rivoluzionaria impedì l'opera regia, questa vietò l'accordo nazionale, mentre libertà ed indipendenza si contraddicevano nella stessa impossibilità di attuazione, affrettando la disfatta di quest'ultima rivolta federale e costituzionale.

Intanto che tutta Italia si sbizzarriva nel baccanale degli statuti, sciupandovi forze preziose, nel Lombardo-Veneto la tensione degli spiriti cresceva tutto giorno. Il problema rivoluzionario, così involuto negli altri stati, si semplificava sulle terre occupate dallo straniero nella suprema necessità della sua espulsione. Il dibattito delle future forme politiche vi era piuttosto querela di accademia che di partito: la tirannide austriaca era troppo dolorosa per concedere agli spiriti l'ozio necessario ad una simile discussione. Il conte Fiquelmont, mandato a sorreggere il fiacco vicerè Ranieri, aveva reso più triste l'azione della polizia proibendo le ovazioni al nuovo pontefice, insidiando, violando coscienze e case. Una guerra si era accesa fra popolo e polizia, accanendosi coi più futili pretesti: i liberali immaginarono d'impoverire l'Austria non giuocando al lotto, non fumando e proibendo di fumare.

Erano rappresaglie piuttosto di scolari che di uomini, e parvero eroismi e alcuni ne produssero. Ma se la diplomazia europea commossa a queste violenze sanguinose s'intrometteva a placarle, e il vicerè scendeva a bugiarde promesse, il vecchio Radetzki invece con indomabile baldanza stringeva la spada pronto a colpire. Sui confini intanto il Piemonte raddoppiava le guardie; il clero, esacerbato contro l'Austria per la ferrea disciplina impostagli e per gli sfregi usati a Pio IX, si schierava dal canto del popolo; persino la rappresentanza municipale, sempre modello di servilità amministrativa, osava sporgere una protesta contro l'ultimo editto minacciante tutti i cittadini della deportazione. Ma il governo austriaco, quantunque minacciato in tutta la varietà delle proprie provincie dalla stessa rivoluzione e forte solamente nella propria unità dinastica e burocratica, non cedeva. La sua politica di mezzo secolo, rendendolo inetto ai sùbiti cambiamenti imposti dall'opinione dei piccoli principati d'Italia, lo tirava piuttosto al rischio di una guerra che alle conseguenze imprevedibili degli agguati costituzionali. Così, mentre Milano si preparava con orgasmo minaccioso ad un supremo tentativo di riscossa, e Venezia sempre più mite cominciava appena con Manin e con Tommaseo l'agitazione legale domandando per mezzo della propria congregazione centrale qualche riforma, la cancelleria imperiale rispondeva con truce risolutezza e promulgava la legge stataria incarcerando Manin e Tommaseo come ribelli.

La tensione era estrema in tutto l'impero. La rivoluzione scoppiata inaspettatamente a Vienna fugò prima l'onnipossente ministro, poi il debole imperatore.


Capitolo Secondo.

Le sommosse popolari e la guerra regia

Le cinque giornate di Milano.

Alla notizia della rivoluzione viennese il vicerè Ranieri (17 marzo 1848) fugge sbigottito a Verona; Milano, stupita, invece d'insorgere profittando delle agitazioni di quell'ora, parlamenta; i più autorevoli fra i patrioti moderati sognano ancora un principato autonomo in una specie di consorzio politico delle nazioni componenti l'impero, mentre il governo, falsificando dispacci, largheggia di promesse che tradiscono il suo timore. Nullameno l'ispirazione popolare guadagna i capi: ogni ora precipita le decisioni, si aduna un comitato senza nome, nel quale non si osa ancora la rivolta e si ricusano come insufficienti tutte le concessioni. Una dimostrazione sotto il palazzo del governo degenera in lotta, il governatore messo alle strette firma l'ordine che destituisce la polizia e affida al municipio la guardia della città, ma il maresciallo Radetzki, niente atterrito dal caso, sguinzaglia parte delle truppe nelle strade per atterrire la popolazione. Allora l'opposizione, già cresciuta a lotta, prorompe a mischia. In ogni canto sorgono barricate costrutte da inermi coll'infallibile ispirazione del momento, mentre di sui tetti, dai campanili, dalle finestre scoppia una battaglia ardente come un incendio, nella quale tutto il popolo è al tempo stesso capitano e soldato. Le campane, suonando a stormo con instancabile impeto, sembrano gettare all'Italia un appello disperato, il palazzo municipale preso e ripreso s'insanguina d'eroici cadaveri, ma la insurrezione domata in un punto vampeggia su tutti gli altri. Invano Radetzki minaccia di bombardare la città accerchiandone coi propri soldati i bastioni, più invano il municipio presieduto dal conte Gabrio Casati, obliqua figura di aristocratico liberale, vorrebbe patteggiare col nemico, giacchè Carlo Cattaneo, la mente più poderosa della città, cinto da uno stuolo di giovani, fra i quali primeggia Enrico Cernuschi, dirige con mirabile alacrità la battaglia. Teatri e musei privati forniscono le prime armi, che, troppo scarse al bisogno, sono sostituite da qualunque arnese di morte: nulla sgomenta i ribelli, si bruciano edifizi, si conquistano cannoni, ogni casa diventa fortezza, si assaltano le caserme con valore irresistibile e una scienza improvvisata di guerra. Il popolo potente di concordia supera se stesso nella generosità, rispettando prigionieri i più truci capi della polizia austriaca; non un misfatto guasta la vittoria, che Anfossi col proprio sangue e Luciano Manara con un eroismo foriero di eroismi maggiori consacrano: e mentre il municipio inguaribilmente timido sta per cadere nell'agguato tesogli da Radetzki con una proposta di armistizio, e si muta all'ultima ora in governo provvisorio a frenare l'impeto della rivoluzione che potrebbe forse salvare l'Italia, battaglioni di volontari cacciano gli austriaci dalla città. Governo provvisorio e comitato di guerra vi rimangono padroni e rivali.

Intanto Como è già insorto patteggiando col proprio comandante Baumüller che la custodia della città sia divisa fra la guardia civica improvvisata e il presidio militare, ma questo capitola dopo due giorni; Bergamo e Brescia costringono gli austriaci alla fuga; Cremona induce il battaglione italiano Ceccopieri a fraternizzare col popolo; Verona, assediando il vicerè Ranieri rifuggitovisi, lo obbliga ad accordare l'armamento della guardia civica; Mantova costringe il proprio governatore Gorczkowsky alla stessa concessione.

Pare una leva in massa contro lo straniero e nullameno la rivoluzione fallisce: si combatte l'Austria, ma non si afferma ancora nettamente l'Italia, il concetto della nazionalità s'intorbida nella lotta, non si sa quale governo costituire o a chi darsi. La secolare soggezione allo straniero dura in fondo a quasi tutte le coscienze, il movimento municipale rimane frammentario e contradittorio, manca la bandiera ai combattenti e l'idea ai rivoluzionari. Quasi tutte le città sono insorte al grido di Viva Pio IX, che non può essere nè il loro sovrano nè quello d'Italia: la rivolta, incapace di sorpassare la propria negazione, si contradice nelle intenzioni e vien meno nelle misure. Così Bergamo e Brescia si lasciano sfuggire l'arciduca Sigismondo, Cremona manda libero il comandante austriaco, Mantova abbindolata dal proprio vescovo non occupa i fortilizi e non cattura l'arciduca d'Este fuggiasco dall'insurrezione di Modena, Verona non osa impadronirsi del vicerè Ranieri. Modena si è sollevata contro il proprio giovane duca, più vile ma non meno tristo del padre Francesco IV; Parma si è ammutinata contro il duca Lodovico, mentre Piacenza sempre rivale ha già formato un governo provvisorio separato, e la loro ribellione non mostra ancora carattere nè rivoluzionario nè militare. Il duca vi delega una reggenza per compilare una costituzione; quindi, colpito da vecchie e legittime diffidenze, vi rimane semiprigioniero qualche giorno, finchè esula, commettendo al municipio la nomina di un governo provvisorio ed invocando sullo stato la tutela di Carlo Alberto.

Mentre Milano al quinto giorno interrompe la propria insurrezione colla minaccia dello straniero, Venezia riscossa dal rombo della battaglia lombarda, si era già precipitata alle carceri per liberare Tommaseo e Manin. Prima gli operai dell'arsenale vi trucidano un colonnello, Manin con poche guardie civiche s'impossessa dei cinquantamila fucili che vi sono in deposito e punta le artiglierie contro la caserma dei croati, lasciando il municipio stringere dappresso il governatore per costringerlo a capitolare. Gli austriaci, ritirandosi con tutti gli onori delle armi, odono il formidabile urlo popolare ripetere per tutte le isole della laguna il grido di Manin: viva la republica! Le antiche glorie paesane rifiammeggiano nelle fantasie, Manin acclamato presidente sarà l'ultimo doge di questa suprema scena repubblicana, che cancellerà col sangue di molti prodi l'onta di Campoformio. Padova, Treviso, Vicenza, Rovigo, Udine, Belluno si ribellano; pochi insorti espugnano i forti d'Osoppo e di Palmanova, ma anche le città venete ripetono l'errore delle città lombarde. Verona resta in mano al nemico, Venezia tentando impadronirsi della squadra austriaca di Pola, montata da marinai veneti, con un dispaccio annunziante loro la rivoluzione, si serve di un vapore del Lloyd e permette al Palffy dianzi governatore di salirvi. Naturalmente questi fa rotta per Trieste e le autorità di Pola, informate a tempo, impediscono l'ammutinamento delle ciurme.

Radetzky, respinto dall'insurrezione di tutti i paesi, si era dovuto chiudere nell'imprendibile quadrilatero di Mantova, Verona, Legnago e Peschiera. L'Austria, sconquassata dalla rivoluzione di Vienna e aggredita da quella d'Italia, dominava ancora sulla penisola dall'alto di fortezze, alle quali solamente eserciti regolari potevano porre l'assedio. I lupi ammassati negli antri spaventerebbero quindi fra poco quegli stessi cacciatori, che li cacciavano con gioconda intrepidezza pei campi.

A Milano la rivoluzione vittoriosa dello straniero soccombe al proprio problema. Poichè il moto italiano è federale, Milano non può che incorporarsi al Piemonte o erigersi in seconda repubblica: ma nel primo caso la dedizione contrasta ai sentimenti liberali e al legittimo orgoglio del popolo tuttora insanguinato della propria vittoria, nel secondo un'altra repubblica Cisalpina con Milano capitale sarebbe osteggiata da tutte le altre città minori insorte, dai principi d'Italia e dall'Europa monarchica. D'altronde un nuovo stato lombardo non avrebbe radice nè nella tradizione troppo remota, giacchè alla Cisalpina di fondazione francese mancarono sempre autonomia e libertà, nè nell'idea rivoluzionaria inconsciamente aspirante all'unità. L'insurrezione contro l'Austria, determinata da feroci angherie di governo straniero, non aveva ancora in se stessa abbastanza odio per mutarsi in vera rivoluzione. Infatti le campagne partecipavano ben poco al moto delle città; queste, contente alla cacciata del nemico, non lo inseguirono, rispettarono gli agenti di polizia prigionieri, accettarono per capi molti di quella aristocrazia che aveva sempre più o meno servito all'Austria. Non si osò di colpire gli arciduchi, si credette alla parola dei vescovi, non si ardì negare assolutamente lo straniero, inseguendolo colle spade alle reni, trucidando i suoi adepti, precipitando la guerra civile coi falsi liberali, e cogli aperti austriacanti. Si rifuggì da una dichiarazione francamente republicana, non si comprese la necessità del terrore. Il grido di viva Pio IX, col quale cominciò l'insurrezione, non poteva essere il grido di nuovo Vespro Lombardo: la supremazia lasciata al municipio reazionario era già una confessione di servitù, la guerra non proseguita immediatamente indicava la stanchezza succeduta ai primi sforzi. Il comitato stesso di guerra non seppe schiacciare il municipio, assumere l'immensa responsabilità della rivoluzione, e spingendo il popolo all'estremo tagliargli la ritirata. L'esempio della Convenzione francese o non fu ricordato o atterrì anche i più audaci. Si volle essere generosi quando nell'implacabilità stava la salute; non si capì che ad una rivoluzione occorre una passione eslege e un'idea chiara. Milano, insorgendo contro gli austriaci non fu nè lombarda, nè italiana, nè republicana, nè regia: quindi la vittoria insperata, costringendola a rivelarsi, la confuse. Se la grande metropoli avesse avuto ancora l'antica supremazia, sentendosi viva nel cuore la superbia del proprio comune, si sarebbe gridata republica, e la Lombardia l'avrebbe seguita: ma ciò non fu e non poteva essere. Se la federazione fosse stata nella sua coscienza avrebbe fino dalla prima ora invocato il Piemonte, gridando il nome di Carlo Alberto invece di quello di Pio IX, costituendo un'Italia del nord, e Venezia forse trascinata dall'esempio avrebbe dimenticato il proprio passato aderendovi.

Ma la rivoluzione federale di allora, falsa nell'idea e nel processo, doveva avvolgersi per tutte le provincie d'Italia nelle stesse contradizioni: Mazzini, che pronto a rimpatriare cospirava da Parigi fondandovi una nuova associazione nazionale, si lasciò soverchiare dal moto: combattè cogli scritti l'illusione monarchico-papale, e vi cedette, invece di spingere i propri aderenti ad un'azione schiettamente rivoluzionaria, quantunque tragico ne fosse poi il risultato. Il suo temperamento di moralista e la sua tempra di apostolo non erano da tanto: sarebbe stato un tentativo inutile ma logico, e non uno dei capiparte si mantenne logico in quella tormenta. Dei due problemi della libertà e dell'indipendenza, così profondamente compenetrati, nessuno doveva essere sciolto, perchè in nessuno vi poteva essere accordo di tutti. Infatti nemmeno in quello dell'indipendenza, che pareva il più facile, si convenne. I governi italiani assisterono allo scoppio della ribellione lombardo-veneta senza decidersi; l'aborrimento ai tedeschi nelle provincie, non da questi occupate, era nel popolo poco più di una antipatia: il caso di Milano non riguardava che il Piemonte, il quale solo poteva profittarne, incorporandosela.

Così fra il comitato di guerra e il governo provvisorio milanese s'accese colla vittoria una infelice rivalità: questo avrebbe voluto aderire subito al Piemonte per uscire dall'instabilità della sommossa, ed era il partito dei nobili e dei ricchi inteso a profittare dei risultati delle cinque giornate; quello, composto di coloro, che realmente avevano vinto, rifuggiva da una dedizione incondizionata al Piemonte. Il dibattito difficile si fece presto aspro. Piemonte e Carlo Alberto non meritavano tale sacrificio, giacchè non avevano nè giovato alla Lombardia, nè operato per l'Italia: ma la dedizione diventava inevitabile senza la proclamazione di un'altra Cisalpina. Il comitato di guerra, incapace di fare una vera rivoluzione, scelse un mezzo termine inutile nel risultato ed ingenuo nella procedura, accettando il Piemonte e lasciando in sospeso la decisione sulla forma di governo. A guerra finita il popolo avrebbe deciso: come se col Piemonte vittorioso la Lombardia avesse poi potuto evitare di esservi incorporata!

Ma quest'accademia ammansava le suscettibilità dei rivoluzionari, che volevano salve le forme dei plebisciti.

Adesioni di guerra.

Intanto in Piemonte governo e paese fremevano d'opposti sentimenti. Le diplomazie europee, spaventate da tante rivoluzioni simultanee, premevano sul piccolo stato sconsigliandolo dall'entrare nell'incendio per non farlo maggiore: la corte, già inquieta per le novelle repubblicane di Francia, si atterriva all'impreveduta insurrezione lombarda, che poteva costituire sul confine orientale un'altra republica, mentre il popolo, abbandonandosi alla propria avversione pei tedeschi, urlava d'entusiasmo. Carlo Alberto, sempre più piemontese che italiano, più tiranno che re, più ingordo di conquista che disposto a servire l'Italia formandola in nazione, tentennava. Quindi le sue misure oblique di governo confondono, poi esasperano la folla: ordina d'arrestare quanti volontari tentino guadare il Ticino per soccorrere i fratelli lombardi, ricusa di ricevere il conte Arese ambasciatore di Milano, e deputa il conte Martini al governo provvisorio e al comitato di guerra per offrire loro l'aiuto regio a patto di una dedizione incondizionata. Ma il Cattaneo gli risponde con nobile alterezza. Poi alla notizia che l'insurrezione è vittoriosa, Radetzky in fuga e Venezia in armi, Carlo Alberto si decide vinto dalla paura di un'altra ribellione piemontese. Genova già tumultuava, volontari armati passavano malgrado ogni divieto il confine, la stampa alzava la voce, l'ora delle esitanze era fatalmente trascorsa. Il re, che diceva segretamente all'Europa di entrare in Lombardia per impedirvi una repubblica, mandò quindi il proprio proclama agl'insorti chiamandoli fratelli e dichiarando che l'Italia questa volta avrebbe fatto da sè. Era questa una risposta a coloro che invocavano l'aiuto di Francia e di Svizzera, una dichiarazione regia colla quale Carlo Alberto si affermava aprioristicamente sovrano dell'impresa.

Il 25 marzo il generale Bes piemontese passava il Ticino, dando alle proprie truppe il vessillo tricolore; il 31 Carlo Alberto s'accampava a Lodi con 22,000 fanti, 2200 cavalli e 5 batterie. L'esercito era scarso, male agguerrito, guidato da generali inetti. Il re, lasciando il Piemonte, aveva ordinato al popolo di mantenersi quieto; la guerra doveva essere regia anzichè nazionale perchè la rivoluzione non soverchiasse.

L'insurrezione lombarda vittoriosa su tutti i punti, mentre le truppe piemontesi s'inoltravano nel suo territorio, lambiva il Tirolo: Trento si era profferta a Mantova per aiuti, ma non aveva avuto risposta; battaglioni di volontari occupavano già le valli dell'Adda e dell'Oglio, l'insurrezione veneta aveva dato in mano ai montanari della Carnia e del Cadore i passi dall'Austria all'Italia. Nel primo entusiasmo della rivolta una sottoscrizione aperta in Milano aveva fruttato in soli due giorni quasi un milione: i ruoli dei volontari si allungavano, mentre i soldati italiani al servizio dell'Austria disertavano. A questa non rimanevano che 50,000 uomini rotti e sbigottiti nel Quadrilatero.

Il resto dell'Italia infervorato scriveva di aiuti, affrettandosi a mandarli. Giuseppe Garibaldi, già salpato da Montevideo per confortare questa guerra santa colla propria mirabile abitudine della vittoria, stava per discendere a Genova. Una squadra di operai, reclutata a Londra e a Parigi dal generale Antonini, vi era già stata arrestata dal governo piemontese sempre più diffidente che mai della rivoluzione.

A Milano la lotta fra il comitato della guerra scioltosi volontariamente e il governo provvisorio si accaniva sotto le apparenze di un accordo patriottico. Cattaneo si era ritirato dall'arringo; Mazzini, entrato in Milano fra immense ovazioni, aveva dichiarato la propria neutralità perchè la nazione a guerra vinta decidesse poi della propria forma di governo; ma l'antagonismo politico della rivoluzione popolare colla conquista regia non poteva placarsi per riserve di capi o per espedienti di costituzionalismo. I rivoluzionari spingevano con tutta possa all'armamento del popolo per assicurare la cacciata dell'Austria da tutta l'Italia e, cooperandovi gloriosamente, essere poi in grado di resistere all'assorbimento della monarchia piemontese: questa, già accordatasi col governo provvisorio, più aristocratico che italiano e più monarchico che patriotta, contrastava ad ogni iniziativa popolare, persuadendo che Milano aveva già fatto anche troppo e al resto basterebbero gli eserciti piemontesi. Naturalmente la sincerità era scarsa in tutti i partiti: i radicali, per quanto più fervidi nell'odio all'Austria, non potevano così dimenticare i vecchi tradimenti di Carlo Alberto da sacrificargli in questa ora suprema ogni speranza di libertà e d'indipendenza: i moderati, consci della viltà mostrata nelle cinque giornate e della propria costante servilità all'Austria, diffidavano di una rivoluzione, nella quale sentivano che il primo atto avrebbe dovuto essere la loro espulsione. Il popolo si veniva raffreddando in siffatta lentezza di guerra e in quel dubbio umiliante che gli toglieva di riconoscersi una patria e un governo. Carlo Alberto sempre teatrale aveva dichiarato che non entrerebbe a Milano se non vittorioso, e perdeva gl'inestimabili vantaggi di un primo assalto contro Mantova ancora sguernita. I volontari capitanati da Teodoro Lechi, republicani i più, venivano lasciati senz'armi, senza vestiario, senza denaro: si cercava di limitare il numero delle loro iscrizioni; poi sospinti nel Tirolo, ai passi delle Alpi, impediti di combattere, forzati ad abbandonare quei luoghi e le insurrezioni nascenti, finalmente richiamati, furono con malvagia umiliazione disciolti. Si ricusavano gli esuli divenuti illustri combattendo per la libertà d'altri popoli: Mickiewicz con pochi volontari polacchi era tenuto quasi prigioniero nell'ozio increscioso di una caserma per timore di spiacere allo czar, e non fu poi chiamato al campo che per impedirgli di accorrere a Venezia: Enrico Cialdini, che diventò poscia generale del Piemonte, ributtato dal Collegno, dovette andare a Venezia per battersi, e vi cadde ferito; Giuseppe Garibaldi, generosamente dimentico della condanna capitale ancora sospesa sul suo capo, fu indarno stancato dal ministro Sobrero con ogni più bassa maniera d'infingimenti: il Fanti e il Cucchiari respinti, il Cernuschi e l'Anelli imprigionati.

Carlo Alberto, più facile a sperare in maneggi diplomatici che nella sorte delle armi, si acquetava già nel disegno segreto di un'Italia del nord dimenticando il Tirolo, diffidando di Venezia risorta republica, seguitando a trattare con Vienna, ordinando alla propria marina di non commettere ostilità contro le navi da guerra austriache e di rispettare tutti i bastimenti naviganti sotto bandiera tedesca. Il lavoro della diplomazia piemontese, allora presieduta da Cesare Balbo, mirava a precipitare le annessioni lombardo-venete senza offendere troppo l'Austria, per ottenere, secondo i consigli del Gioberti, un accomodamento fortunato. A ciò occorreva impedire la lega italica, della quale il papa farneticava ancora, e non ammettere alla guerra troppe altre armi.

Mentre la Toscana, sollevatasi all'annunzio della rivoluzione di Vienna e della prima giornata di Milano, apprestava un piccolo corpo di volontari esaurendosi nelle solite dimostrazioni patriottiche, il granduca Leopoldo con vecchia arte di governo intendeva a profittare del loro chiasso per occupare i territori estensi di Fivizzano, Massa Carrara e Pontremoli. Ma, poichè il fermento cresceva, dovette bandire la guerra nazionale carteggiando segretamente col Radetzky. I provvedimenti monetari di guerra furono derisorii: non s'impose che una tassa straordinaria sui fondi corrispondente alla terza parte dell'ordinaria, e una ritenzione progressiva dell'uno al 5% sullo stipendio degl'impiegati, entrate non esigibili che nel corso di un'annata: allora si era di marzo. Per l'esercito non si ordinò che una leva di 2000 uomini sulla coscrizione del 1819, lasciando sprovvisti di ogni bisognevole i volontari.

A Roma gli echi delle insurrezioni trionfanti nel nome del pontefice gettavano il suo governo nella crisi di problemi insolubili. Dopo le riforme gli statuti, dopo gli statuti la guerra. L'inesorabile logica della storia affrettava la catastrofe. Invano Pio IX credeva di poter resistere alla scissura della propria duplice sovranità spirituale e politica, coprendo la responsabilità del principe coll'infallibilità del papa. La marea della publica opinione lo soverchiò, imponendogli di concedere al ministro della guerra Aldobrandini la formazione di un piccolo esercito, e tre giorni dopo (23 marzo) l'apertura dei ruoli per l'iscrizione dei volontari, affidando la loro organizzazione al generale Ferrari. La folla fu tale alle iscrizioni che si dovettero chiudere entro 24 ore per mancanza di armi. Gli armati invece non superarono i 2300, e Giacomo Durando, generale piemontese mandato da Carlo Alberto, ne assunse il comando supremo. Erano preparativi di guerra, mentre si chiedeva scusa all'Austria degli stemmi imperiali abbattuti e bruciati dal popolo, che aveva scritto sul portone dell'ambasciata tedesca: Palazzo della Dieta italiana. Papa e ministri egualmente incerti non avevano più che l'assurda idea di combinare diplomaticamente una dieta italiana, quando la guerra ferveva contro lo straniero e alla guerra si sarebbe dovuto aiutare con ogni sacrificio.

Ma le Provincie papaline tumultuavano. Bologna, sollevatasi per aiutare Modena a cacciare il duca, era rimasta in armi per la guerra lombarda, traendo coll'esempio tutte le Romagne. La guerra era nelle fantasie, nelle coscienze, nei problemi, che sollevava ed imponeva, aggirando le teste, confondendo simboli e fatti, principii e espedienti. Pio IX, vinto ancora una volta dalla poesia del momento, dovette bandire ai popoli d'Italia un ultimo proclama altrettanto incerto nelle frasi e nelle idee, monito ed insieme benedizione che essendo di papa parve essere di Dio, e venendo dal principe persuase che egli pure si accordasse alla grande impresa contro lo straniero. L'entusiasmo crebbe: i volontari mossero da Roma ai confini settentrionali dello stato coll'ordine di difenderli, ma col proposito di varcarli. Era una festa, si parlava di crociata, si distribuivano croci per coccarde ai soldati, che per la maggior parte non credevano più nè alla religione del papa nè al diritto del re. Infatti a Roma l'agitazione rivoluzionaria aumentando di giorno in giorno forzò pontefice e ministero a scacciare i gesuiti. Non era ancora la rivolta allo statuto, ma era già la negazione del suo principio fondamentale ieratico.

Poco dopo, il Durando accampato sul confine di Ferrara, non riuscendo a frenare l'impeto dei volontari e giovandosi di un assenso confuso del papa e di un altro senza dubbio esplicito di Carlo Alberto, dichiarava in un proclama furbescamente mistico, cristiana la guerra all'Austria, e ne rigettava con molti fiori rettorici la responsabilità su Pio IX. Questi, indignato che un generale parlasse nel suo nome di pontefice protestò vivamente, senza accorgersi che il proclama di Durando fosse l'ultima fatale espressione del concetto sul papato messo in voga dal Gioberti e acclamato da tutti. Si era voluto il papato come strumento di rigenerazione politica, e doveva quindi partecipare alla guerra che ne segnava la prima crisi. L'anacronismo di un generale piemontese proclamante a nome del papa una guerra di religione valeva l'altro dello statuto concesso dal papa medesimo ai propri popoli e della lega fra i principi italiani, cui il papa si ostinava tuttora. Una irresistibile vanagloria lo faceva sognare questa lega, della quale Lamartine in nome della Francia lo salutava già presidente: quindi, credendosi corrivo, proponeva ingenuamente di ammettere al congresso anche i rappresentanti dei governi provvisori, senza avvedersi di urtare nella politica piemontese delle annessioni. Il granduca Leopoldo vi aderì per guadagnar tempo ad abbindolare i propri popoli; il Borbone di Napoli mandò una deputazione con ordine rigoroso di ricusare i ribelli deputati siciliani e di esigere la presidenza come per lo stato più esteso e potente d'Italia; Carlo Alberto dichiarò per mezzo del ministro Pareto che «in vista dello stato provvisorio di governo, nel quale si trovavano gl'Italiani sottrattisi al giogo dell'Austria, e per la guerra in corso la lega non si poteva stabilire». Ma questa confessione, che rompeva la neutralità giurata ai repubblicani milanesi, fu meglio intesa dall'invidia dei principi che dall'ingenuità del popolo.

Napoli, lontana dal teatro della guerra, si esauriva intorno al proprio problema costituzionale. Non si poteva credere, e da molti non si credeva, al re; nullameno non si osava compiere la rivoluzione detronizzandolo. La costituzione non funzionava; il ministro Bozzelli, rinnegando il proprio liberalismo, secondava gl'infingimenti di Ferdinando intesi a contristare la nuova vita politica. Così alle notizie delle rivoluzioni di Vienna e di Milano, mentre il popolo abbatteva gli stemmi austriaci e gridava armi per la Lombardia, Ferdinando atterrito aveva permesso l'arruolamento dei volontarii, scusandosene coll'Austria. Nella sua vecchia gelosia di tiranno soffiava una nuova invidia di re. L'astro araldico di Carlo Alberto che sembrava levarsi sulle Alpi lombarde, gli presagiva che una guerra piemontese vinta contro l'Austria avrebbe annullato tutti gli altri principi italiani: laonde contrastandovi intendeva a salvare se medesimo. Lasciò quindi partire i primi volontarii colla principessa Belgioioso, mise a presidente del nuovo ministero l'illustre storico Carlo Troya, di carattere onesto ma di scarso valore politico, accettò persino Pepe, tornato dall'esilio, a generale dei 14,000 soldati avviati verso il Po: ma, trincerato dietro tutte queste apparenze liberali, ordiva febbrilmente una congiura contro lo statuto e la guerra nazionale. Intanto a Pepe si era ordinato di fermarsi al Po aspettando nuovi ordini; e l'incorreggibile carbonaro, dimentico dei passati tradimenti, non solo credette ancora, ma consigliò al re di mettersi alla testa di 60,000 uomini per correre sull'Isonzo a dettare la pace all'Austria. Questo consiglio era l'ultima espressione del dualismo, che, dominando inconsciamente la politica di Napoli e di Torino, concordava la loro rivalità nell'interesse di un grande futuro stato italiano. Il Borbone vi si ricusò, ma Napoli cedette così a Torino la gloria di mutarsi in prima capitale d'Italia.

Napoli non era più che la più grossa città della penisola; Palermo, ribellatasi ai primi moti, le si erigeva dinanzi provocatrice nell'odio della riconquistata autonomia. Il parlamento, inaugurando il 25 marzo la propria costituzione con una solennità religiosa nella chiesa di San Domenico, avrebbe dovuto decidere finalmente della forma di governo; ma gli animi divisi, l'antica tradizione regia e i nuovi istinti democratici ne imbrogliavano il problema che sarebbe appena stato tale. Poichè la rivoluzione aveva cacciato i Borboni, assurde diventavano le pratiche tuttora aperte per trapiantare nell'isola un ramo della stessa dinastia. Il governo presieduto da Ruggero Settimo, il più insigne e popolare patriota, avrebbe dovuto gridarsi in republica, affrontando coraggiosamente l'opposizione della grossa aristocrazia propensa ad un re per conservare con lui gli antichi privilegi. Così consigliava con singolare intuizione di libertà il padre Ventura allora legato siciliano a Roma. Ma nonostante tutti i vantaggi d'aver guidato la rivoluzione e di tenerne ancora in mano i poteri, il governo non osò. Anche in Sicilia il moto era più separatista che rivoluzionario, senza vero concetto democratico; quindi rimase allo stato di accademia politica, perdendosi nelle più futili discussioni sul nuovo stemma dell'isola e sugli emblemi di fraterna concordia da mandare a Roma e a Torino, mentre tutta l'Europa era in preda alle rivoluzioni e in Italia inferociva già la guerra. Unico aiuto, come vergognando, si mandò in Lombardia un drappello di 100 siciliani comandati dal La Masa. Solamente più tardi a nuove minaccie di re Ferdinando il parlamento si riscosse e decretò la decadenza dei Borboni, per sostituirli con un'altra monarchia costituzionale. Il nuovo re sarebbe eletto dopo una necessaria riforma dello statuto, ma doveva essere italiano. Questo pomo di discordia gettato fra i principi, e il manipolo di La Masa erano la maggior concessione e il supremo sacrificio che la Sicilia potesse fare alla causa della nazionalità italiana.

La campagna piemontese.

Nullamento la guerra sembrava proseguire con crescente fortuna. La Francia, già prodiga di consigli, si offriva generosamente compagna all'impresa. Lamartine allora reggente il ministero addensava 60,000 uomini ai piedi delle Alpi, apprestando una flotta nel Mediterraneo; la Svizzera si disponeva a mandare un grosso corpo di volontarii a Milano; però il governo piemontese, temendo il contagio republicano, non solo ricusò ogni aiuto, ma dichiarò che avrebbe considerato come caso di guerra il passaggio di qualunque corpo armato alle proprie frontiere. Un tentativo di sollevazione in Savoia per congiungersi alla Francia venne a dargli ragione. Certo la Francia, intervenendo e cacciando d'Italia i tedeschi, avrebbe chiesto come dieci anni più tardi a compenso i territori di Nizza e di Savoia, questa prettamente francese di geografia e di storia, quella dubbia di nazionalità come molte città di confine, una volta francese, ora piuttosto italiana; e il governo sardo li avrebbe consentiti. Ma nel fermento republicano d'allora e coll'intenzione palese della Francia di costituire nel Lombardo-Veneto due piccole republiche, Carlo Alberto ricusò. All'interesse d'Italia egli, re del Piemonte, prepose naturalmente il proprio: Lamartine, comunicando al proprio ministero la risposta di Carlo Alberto minacciante d'armare i forti della Savoia contro i francesi, esclamò con profetica pietà: «Gl'italiani sono ciechi e dementi!» Quindi la Francia decise di non intervenire che invocata.

Mentre a Milano ferveva l'opera dell'annessione indarno contrastata dai republicani, Radetzky bloccato nel Quadrilatero dall'esercito piemontese sembrava a tutti prigioniero. Carlo Alberto, mal sicuro del proprio ingegno militare, e sempre sospeso in maneggi diplomatici, dopo le fortunate fazioni di Goito e di Monzambano, seguitava a perdere un tempo prezioso in vane ricognizioni contro Peschiera e su Mantova. Così Nugent, mandato da Vienna con grossi rinforzi, prima che gli si possa contendere il passo, guada l'Isonzo indifeso, prende Udine difilandosi su Verona; Belluno e il Cadore si difendono, ma il generale austriaco passa il Tagliamento e, superata una fiacca resistenza di veneti, si accampa a Conegliano. Per questa grave minaccia Carlo Alberto, mutando consiglio, ordina al Durando di passare il Po colle truppe pontificie. Questi, che con inesplicabile negligenza non aveva sloggiato gli austriaci dalla cittadella di Ferrara, avrebbe voluto correre su Venezia; ma Carlo Alberto, poco tenero della salute della nuova republica, gl'impone di marciare sopra Ostiglia per fronteggiare Mantova e coprire i ducati, dei quali spera l'annessione. Il governo di Roma, prevedendo il caso che Durando passasse il Po, aveva cercato una scusa a se medesimo, col risuscitare gli antichi diritti della chiesa sul Polesine soppressi dai trattati del 1815. Nugent manovra per congiungersi a Radetzky, Durando e Ferrari per impedirglielo; questi, battuto a Cornuda con un corpo di volontari, si ritirava a Treviso, Durando accorre per sostenerlo, senonchè Nugent rapidissimo passa La Brenta ed investe Vicenza. Sebbene la piccola e coraggiosa città resista strenuamente, Nugent può unirsi a Radetzky rialzando le sorti d'una guerra che avrebbe dovuto esser vinta per l'Italia. Allora Carlo Alberto, comprendendo finalmente la necessità di tagliare le comunicazioni dell'esercito austriaco colla Germania, si risolve all'azione. Il suo esercito è quasi di 70,000 uomini: 5000 toscani sulla sua destra invigilano Mantova, egli minaccia Peschiera e Verona col disegno di rendersi padrone nel lago di Garda e dei passi alpini. La battaglia si mescola ai villaggi di Colà, Sandra e Santa Giustina per decidersi a Pastrengo: il primo giorno (29 aprile) la fortuna arride agl'italiani, che avrebbero potuto all'indomani sterminare il nemico se Carlo Alberto, essendo di domenica, non avesse voluto che l'esercito ascoltasse la messa prima di riprendere l'attacco; questo ritardo impedì di cogliere i frutti della vittoria e permise al D'Aspre di rifuggirsi in Verona, mentre il generale Manno stringeva vittoriosamente Peschiera e il Sommariva ributtava gli austriaci da Sacca e da Sommacampagna.

Era la prima vittoria italiana, e doveva restare l'ultima.


Capitolo Terzo.

La reazione federale

L'allocuzione papale.

Pio IX, spaventato da una minaccia di scisma germanico, che la diplomazia tedesca, aiutata da molti cardinali e dai gesuiti, gli faceva credere provocato dalle sue innovazioni politiche e dalla guerra piuttosto fatta che intimata dall'Austria, il 29 aprile in una allocuzione concistoriale la disdisse, rigettandone la responsabilità sulla passione nazionale dei propri sudditi. Era un sofisma povero e malvagio, giacchè questi erano stati irreggimentati dal governo, e la guerra italiana avrebbe irremissibilmente sofferto di tale abiura del pontefice. Naturalmente grande ne fu il fermento in tutta l'Italia: il ministero Antonelli-Minghetti, che aveva dianzi domandato al pontefice una franca dichiarazione di guerra contro l'Austria, si dimise; i circoli politici di Roma tumultuarono; la guardia civica minacciò di ricorrere alle armi, mentre Pio IX, sbigottito e nullameno fermo a non recedere dall'allocuzione, mirava per guadagnar tempo ad attenuarne l'impressione. Qualcuno gli suggerì di andare a Milano oratore di pace e di un concordato con l'Austria, ma il legato milanese a Roma ne lo dissuase; gli altri ambasciatori italiani presso la Santa Sede risposero all'allocuzione con una nota, nella quale, fraintendendone il significato, scongiuravano il pontefice a non abbandonare la causa della nazionalità. Questi, compromesso dalle proprie dichiarazioni concistoriali e persuaso dell'impossibilità per il papato di seguire il corso della rivoluzione italiana, non cercava più che espedienti momentanei. E due ne trovò incredibilmente contradditorii. Mandò monsignor Morichini all'imperatore d'Austria con una lettera d'esortazione a riconoscere la nazionalità italiana cessando dalla guerra, e Luigi Carlo Farini, sottosegretario del ministero, al campo di Carlo Alberto per offrire al re il comando delle truppe pontificie già implicate nella guerra. Questi accettò con patto che fossero pagate dal papa e conservassero bandiera papale: l'imperatore d'Austria rispose per bocca dei propri ministri che il suo diritto sulla Lombardia basava sopra trattati identici a quelli che garantivano i territori dello stato pontificio. L'antinomia dei principii costringeva il governo pontificio a tale assurdità di ripieghi.

Quindi per placare il popolo di Roma, incitato dai tribuni Sterbini e Ciceruacchio a trascendere, si chiamò al ministero Terenzio Mamiani venuto recentemente a Roma e divenutovi prontamente autorevole in molti circoli liberali. Ma cospiratore, prigioniero, esule ritornato ricusando l'amnistia, e segnato all'Indice per le proprie opere filosofiche, egli riassumeva in se stesso tutto il ridicolo e il pericolo del costituzionalismo pontificio. Il papa in lui chiamava un eretico per affidargli lo stato, e l'eretico accettava il mandato, credendo possibile un governo di libertà colla corte papale e col principio ieratico romano. Però egli volle facoltà di proseguire la politica del caduto ministero verso la guerra italiana, e che la segreteria degli affari esteri temporali fosse data ad un ministro laico, che fu il poeta bolognese Marchetti. La posizione politica del governo romano, serbandosi immutata, peggiorava. Il ministero precedente aveva armato volontarii e truppe regolari contro l'Austria, permettendo loro di passare il Po e subordinandole poi a Carlo Alberto senza osare d'intimar guerra all'Austria: il papa confessava in un'allocuzione concistoriale la propria impotenza a distogliere i sudditi dalla guerra, e il suo nuovo ministero la voleva mantenuta pure non dichiarandola. Luigi Carlo Farini, rivoluzionario sbracato mutatosi in moderato intransigente, prima di partire pel campo di Carlo Alberto, aveva consigliato molte misure di repressione per salvare nella sovranità temporale e costituzionale del papa l'arca santa della patria e della rivoluzione italiana.

Ma l'effervescenza popolare non accennava a sedarsi, Ciceruacchio, che aveva abbattuti i portoni del ghetto liberando gli ebrei dalla prigionia millenaria d'ogni sera, lo Sterbini e il Fiorentino fautori della propaganda rivoluzionaria spingevano a partiti estremi per rovesciare quel grottesco simulacro di costituzionalismo papale: il malcontento dei volontarii romani abbandonati in faccia al nemico come ribelli del proprio sovrano, e quindi sbandatisi o per viltà di coscienza religiosa o per difetto di coraggio militare, giungeva a Roma esasperando lo spirito pubblico: si urlava al tradimento del papa, si parlava di prigionieri romani impiccati dai tedeschi, si denunciavano congiure liberticide di cardinali e di gesuiti, si cominciava a riconoscere nella fisima politica dei moderati un pericolo capitale per la patria. La polizia sempre governata dal Galletti assecondava la piazza invece di frenarla; Mamiani, perduto nel sogno di un costituzionalismo pontificio, nel quale il papa non entrasse più che in ogni altro governo il vescovo della capitale, e combattuto dal partito dei chierici e dei clericaleggianti, doveva appoggiarsi sulla parte avanzata, perdendo così colla sincerità delle idee ogni sicurezza di base politica.

Il tradimento di Ferdinando II.

Intanto gli effetti dell'allocuzione papale si facevano sentire per tutta Italia. Primo ad approfittarne fu il Borbone di Napoli che, avendo concesso proditoriamente la costituzione, spiava l'occasione per cassarla: Pio IX gliela fornì. Già, il legato napoletano a Roma non aveva voluto firmare la nota presentata al pontefice da tutti gli ambasciatori italiani, perchè correggesse almeno con nuova interpretazione il tristo significato dell'allocuzione: gli ordini di re Ferdinando al generale Pepe e all'ammiraglio De Cosa, mandati alla guerra, erano di non spingersi all'attacco se non dietro nuove istruzioni subordinate agli accordi in corso con Carlo Alberto; ma anche questa era una lustra, della quale il ministero essendo conscio diventava complice per fiacchezza d'animo. Un ministro solo, l'Imbriani, si dimise nobilmente; gli altri rimasero col Troya, e si macchiarono. L'apertura del parlamento essendo fissata pel 15 maggio, la sua inaugurazione col solito costume napoletano doveva aver luogo nella chiesa di S. Lorenzo: solennità religiosa intesa a scemarne il carattere civile. Ma scoppiarono dissidi fra il re e i deputati per la formula del giuramento, che questi voleva rigorosamente cattolico comprendendo nello stato la Sicilia già emancipatasi, e quelli non intendevano prestare oltre i limiti della costituzione. Gli animi si accesero: i deputati raccolti nella grande sala di Monteoliveto tempestavano, il ministero si dimetteva, il popolo, vedendo le truppe regie circondare la reggia quasi a difesa minacciosa, gridò: barricate! Allora il re parve cedere accettando la formula proposta dal ministero, ma non era che un inganno supremo; e, mentre la camera invitava il popolo alla calma e questo si disponeva già a disfare le barricate, un colpo di fucile sparato ad arte accese la battaglia. Il re cinto dagli svizzeri, che contrariamente al disposto dello statuto non aveva mai voluto licenziare e che il ministro Conforti gli aveva ingenuamente concesso quasi a guardia contro una possibile sommossa repubblicana, e dei quali Pepe anche più ingenuamente aveva sperato far soldati per la guerra d'Italia, alzava sulla reggia la bandiera rossa, segnale ai forti di Castel Sant'Elmo di bombardare la città. Nella battaglia orrenda infuriarono i lazzari istigati dalla corte e dal clero: si rinnovarono le atrocità del '99, eroismi e demenze, lubricità sanguinanti e sanguinarie di soldatesche senza patria e senza legge. Si urlava: viva il re e muoia la nazione! Il massacro procedeva, avvolgeva, copriva la battaglia. A Milano erano stati rispettati i poliziotti prigionieri e i soldati austriaci; a Napoli si scaraventavano dalle finestre bambini ed infermi, si stupravano donne fra cadaveri, sotto gli occhi dei figli, ferite, moribonde, già morte. Intanto i deputati incorreggibilmente accademici discutevano per nominare un comitato di salute publica; solo quando un capitano svizzero, entrando colla sciabola sguainata nella grande sala di Monteoliveto, intimò loro di sciogliersi in nome del re, il vecchio Cagnazzi gl'impose con irresistibile dignità d'uscire e l'assemblea si sbandò firmando prima una fiera protesta del deputato Mancini. Epica teatralità, alla quale mancò l'eroismo del fatto!

Dopo otto ore la battaglia era finita: il re aveva vinto.

La flotta francese ancorata nel porto aveva assistito impassibile all'eccidio, perchè la politica della grande republica, pure offerendo aiuti a Carlo Alberto in Lombardia, non voleva abbattuto a Napoli il Borbone per gelosia di un grande regno che potesse unificare l'Italia.

Quindi il trionfo del re ebbe, fra i saturnali della plebaglia e le benedizioni del clero, i complimenti di tutte le diplomazie.

Ma se nella battaglia i soldati regi erano stati atroci, i patrioti si erano mostrati scarsi: il loro infelice valore non aveva compensato politicamente la pochezza del numero, nel quale parve a tutti e specialmente agli stranieri quanto ristretto fosse nel regno il sentimento liberale contro il popolesco fanatismo monarchico-religioso. L'imperdonabile remissività del ministero conscio dei tradimenti del re, la solennità accademica del parlamento, il contegno della stampa, l'indole stessa della costituzione conceduta e la sua sciagurata applicazione nelle provincie, l'assoluta mancanza di patriottismo nell'esercito e nel popolo, la strage seguita e le minime ed effimere insurrezioni calabresi che vi risposero e a domare le quali bastò la presenza dei generali Nunziante e Basacca, dovettero convicere anche i più fiduciosi fra i rivoluzionari che le speranze della rivoluzione italiana non avrebbero mai potuto fiorire al bel sole napoletano. Il terzo esperimento di libertà vi era riuscito più meschino del primo e più infelice del secondo: nè il re, nè l'aristocrazia, nè la borghesia, nè il popolo, nè i rivoluzionari medesimi vi si erano mostrati con migliori attitudini e più moderne idee. La corte aveva tradito, l'aristocrazia era rimasta estranea o inconciliabile colla rivoluzione, la minoranza magnanima ma scarsa della borghesia non aveva potuto resistere al bestiale monarchismo del popolo, mentre l'ostinata credulità dei rivoluzionari al re offuscava ancora dopo la strage nella loro stessa coscienza gl'istinti dell'italianità.

Soffocata nel sangue l'opposizione costituzionale, Ferdinando non osò sopprimere tosto la costituzione: la Sicilia era ancora ribelle, nelle Calabrie Giuseppe Ricciardi alla testa di pochi insorti, ai quali si era aggiunta una grossa schiera di siciliani guidata da Ribotti, bandiva un proclama per radunare la dispersa assemblea e rovesciare la monarchia; Guglielmo Pepe a Bologna con 8000 uomini, De Cosa colla flotta nell'Adriatico, potevano ritornare ribelli su Napoli, rianimandovi la rivoluzione. Quindi i primi decreti e il nuovo ministero, nel quale ricomparve più tristo il Bozzelli, riaffermarono per meglio distruggerla l'integrità della costituzione; ma quando Pepe, abbandonato vilmente da quasi tutto l'esercito, andò a Venezia con un sol battaglione di napoletani, e De Cosa, assentendo al voto dei propri ufficiali, abbandonò l'eroica città alla tragedia dell'assedio imminente, il re, fatto sicuro, stracciò lo statuto come una maschera insanguinata, che gl'impediva di mostrare al popolo la feroce esultanza del proprio tradimento.

Le annessioni al Piemonte.

Alle notizie della crudele reazione napoletana la Sicilia ribelle e presaga di morte si scosse: nel resto d'Italia gli animi già esaltati dall'incessante battaglia di troppe contradizioni precipitarono nelle decisioni estreme come ad un ultimo assalto. I moderati fecero ogni opera per affrettare le annessioni al Piemonte; i republicani urlarono al tradimento, additando nel Borbone il simbolo di tutti i principi d'Italia. Carlo Alberto rimasto solo alla guerra, mentre l'Austria veniva sedando i propri contrasti interni, peggiorava ogni giorno nelle armi e nella politica; il disegno della federazione italiana, benchè corresse ancora per le mani della diplomazia, non era più che un cencio incapace di mutarsi in bandiera; la guerra popolare sognata dai republicani non accennava a prorompere e, quantunque i governi provvisori accontatisi col Piemonte rimanessero ad impedirla, non sarebbe egualmente scoppiata per mancanza d'entusiasmo nel popolo, di accordo nei capi e di concetti chiari e pratici in tutti. L'antico disegno dei Savoia, dacchè il loro montano principato era cresciuto a regno, di conquistare tutta la valle del Po diventava fatalmente il supremo proposito del partito moderato, nemico del pari alla rivoluzione e allo straniero. Dal concetto della federazione a quello di un'Italia del nord il passo era breve: Milano non aveva saputo gridarsi in repubblica, Venezia insorta per questo nome non vi aveva guadagnato abbastanza vitalità per salvarsi in tanto pericolo di guerra. D'altronde le altre grosse città di provincia non aderivano alle due capitali con devozione incondizionata. Milano, interrompendo l'epopea delle cinque giornate ed accordandosi con rilassatezza colpevole all'esercito del re di Piemonte, si era suicidata; Venezia, affermandosi republica in un impeto di classica rettorica, non aveva poi partecipato alla guerra contro l'Austria con abbastanza gloria per resistere al confronto del proprio passato e a quello più urgente dell'esercito piemontese.

Poichè l'Italia era in guerra contro l'Austria per riconquistare le proprie Provincie, il solo re, il solo esercito, le sole battaglie, la sola vittoria italiana, la sola speranza di una vittoria finale era riposta in Carlo Alberto e nel Piemonte. La sospensione decretata dai governi provvisori per decidere della propria forma politica a guerra vinta, assurda sino dal primo giorno, diventava intollerabile. La coscienza pubblica sbattuta da troppi terrori aveva d'uopo di riposarsi in qualche certezza; Carlo Alberto, sempre pauroso d'improvvisi moti repubblicani, spingeva il partito moderato ad osare; Gioberti, fattosi commesso viaggiatore della monarchia savoiarda, predicava le annessioni per tutte le piazze d'Italia; si era già tentato Cattaneo, poi si offerse a Mazzini qualunque maggiore influenza democratica negli articoli della futura costituzione se avesse patrocinato la fusione monarchica; si denunciavano i republicani come nemici della patria, si vantavano le vittorie regie, s'ingrandivano i pericoli futuri, si encomiava sopratutto l'incomparabile lealtà del re, che, proponendo l'annessione, concedeva ai nuovi popoli il diritto di ricorreggere quello stesso statuto da lui spontaneamente largito ai piemontesi; si sussurrava alla grossa metropoli lombarda che Torino le cederebbe l'onore di capitale. Mazzini, republicano ed unitario ed egualmente assoluto in ambo le idee, ma fatalmente caduto dalla concessa neutralità nell'inazione, non poteva opporre a questi argomenti immediati che l'eroica fantasmagoria di lontani ideali. L'insufficienza del partito republicano in quell'inerzia del popolo e sopratutto la mancanza di una bandiera republicana ed unitaria al campo, lo costringevano a destreggiarsi in una lotta meschina di recriminazioni contro coloro che guidavano la rivoluzione, e ai quali non aveva osato opporsi francamente da principio. La sua neutralità peggiorava l'indecisione del governo provvisorio, la riserva di Carlo Alberto e l'incertezza di tutte le altre città, nelle quali l'insurrezione contro lo straniero non era ancora diventata rivoluzione. Infatti Venezia, proclamandosi republica, aveva chiesto al gabinetto francese protezione contro l'ambizione conquistatrice del Piemonte; la Sicilia ribelle aveva tirato sulle navi napoletane mandate nell'Adriatico a combattere la flotta austriaca; i ducati invocavano la tutela di Carlo Alberto, contrapponendosi l'uno all'altro i propri governi provvisori con inesausto rancore medioevale e disinteressandosi dalla guerra; la Toscana aveva appena 5000 volontari al campo, e chiedeva soccorsi a Carlo Alberto contro Livorno tumultuante nell'anarchia; Napoli non era più rappresentata alla guerra che da un battaglione di disertori; Pio IX, ricacciato dalla viltà entro l'antica clausura della politica pontificia, tradiva la guerra consigliando ipocritamente la pace; Mazzini, dopo vent'anni di sublime apostolato invocando ad alte grida il giorno della rivoluzione, rimaneva chiuso in Milano come in ostaggio senza osare una insurrezione contro le mene federali, che dovevano fra poco imporre al suo genio unitario un'ultima repubblica romana.

Laonde il partito delle annessioni prevalse: il popolo, votandole, si rifugiò nell'unità del regno piemontese come in una fortezza, che la diplomazia europea avrebbe difeso dalla terribile rivincita austriaca già scendente le Alpi. Infatti le prime città a dichiararsi per l'annessione immediata furono Piacenza, Brescia e Bergamo; Parma, Modena, Reggio, Milano (29 maggio) seguirono l'esempio; il partito repubblicano non seppe che protestare: le città venete, sbigottite dalla caduta di Udine, strinsero con minaccia fratricida d'abbandono il governo veneziano a deliberare l'unione col Piemonte. Il pericolo incalzava; Manin, ultimo doge e forse unico republicano, cedette generosamente, consigliando egli stesso all'assemblea di riseppellire per sempre la republica sotto il trono dei Savoia.

L'ideale republicano era vinto, ma l'idea unitaria aveva così dato un passo decisivo: l'abdicazione di Milano, Venezia, Parma e Modena a Torino nel nome d'Italia chiudeva per sempre il passato federale della loro storia, iniziando l'èra nazionale italiana, giacchè da quella sottomissione non vi sarebbe appello per mutare di circostanze politiche. Re Carlo Alberto doveva essere vinto nella guerra lombarda; però il nuovo concetto dell'Italia del nord, robusta monarchia di dodici milioni di cittadini recinta dall'Alpi e dai mari, baluardo agli stranieri e centro d'attrazione al resto d'Italia, resterebbe dopo l'inevitabile sconfitta del momento come un fatto indiscutibile per la rivoluzione italiana.

Colle annessioni il Piemonte gettava le basi della propria egemonia, annullando tutti gli altri principati italiani, ma esaurendo al tempo stesso lo scopo della propria guerra. Infatti i negoziati ripresi vivamente, se parvero da principio contradire a questo proposito, dopo lo espressero fin troppo chiaramente. L'Austria, sopraffatta dalle difficoltà delle proprie rivoluzioni centrali e nello sbigottimento delle prime vittorie piemontesi, aveva offerto al re per confine la linea del Mincio, mentre questi, voglioso di accettare, era costretto dal nobile sentimento delle popolazioni lombarde a rifiutare qualunque accordo non comprendesse la Venezia; ma, sentendo piegare tutte le rivoluzioni d'Europa sotto la pressione monarchica, il vecchio impero restringeva ora le offerte e mutava linguaggio. La Dieta di Francoforte quantunque rivoluzionaria pretestava ragioni germaniche sul Tirolo, Trieste e fino su Venezia, per la quale si era pensato di costituire una specie di granducato autonomo sotto un principe austriaco: la Francia, che al principio della rivoluzione e nel disegno di costituire Milano e Venezia in piccole republiche, sotto la propria influenza, aveva promesso aiuto di diplomazia, di denaro e di soldati, ingelosita adesso di un ingrossamento del Piemonte monarchico, mutava tono e misura. Lord Palmerston, acuto ministro inglese, osava solo consigliare all'Austria l'abbandono delle Provincie insorte come troppo difficili a riconquistare ed impossibili a tenersi. Intanto, raffreddandosi colle annessioni l'entusiasmo guerresco delle popolazioni, e languendo la guerra per l'equivoca incertezza del re e l'insipienza dei generali, la condizione diplomatica diventava di giorno in giorno peggiore. Se le annessioni importavano l'abdicazione delle antiche autonomie federali, inducevano pure sciaguratamente nell'animo del popolo un sentimento di abbandono alla causa nazionale: il re solo era tutto, e doveva quindi bastare a tutto. L'eroismo dei rivoluzionari veri, offeso dalla precipitata dedizione, stava imbronciato; la predicazione deprimente del partito moderato rifuggitosi nella monarchia piemontese non poteva eccitare nel popolo nuovi entusiasmi, ora che una stanchezza amara dei primi sforzi inutilmente gloriosi prostrava i ribelli delle cinque giornate, e una servile acquiescenza all'iniziativa regia giustificava nel grosso della gente ogni errore del governo.

Disastri militari.

Quindi la guerra, trascinata di fazioni in fazioni inutili anche nella vittoria, fu ripresa con intermittente energia, senza la strategica abilità di una guerra popolare. Radetzky, vigile nell'imprendibile Quadrilatero, spiava l'occasione di un grande errore nemico, ingrossandosi di continui rinforzi. Così assalito a Santa Lucia e rimastovi padrone malgrado il valore delle truppe piemontesi, mentre queste si ostinano contro Peschiera, sbuca improvviso da Verona col grosso dell'esercito, schiaccia (29 maggio) i toscani a Curtatone isolati, abbandonati, e allora si disse, nè forse ingiustamente, traditi dalla tattica regia; rattenuto a Goito dall'intrepidezza del duca d'Aosta, abbandona Peschiera alla vanità conquistatrice di Carlo Alberto, che entratovi trionfalmente vi canta il Te Deum; quindi, sfiancando per Legnano, si congiunge con Welden, si dirupa su Vicenza, vi batte, vi chiude, vi fa prigioniero Durando con 10,000 pontifici.

Il disastro è irreparabile. Padova e Treviso capitolano, Palmanova si arrende: solamente Venezia ed Osoppo rimangono libere, quella nell'isolamento della laguna, questa nella solitudine di una roccia. Carlo Alberto, atterrito dall'annunzio di tante vittorie nemiche, dimette il pensiero d'investire Verona, e ordina la ritirata, abbandonando senza pietà i nuovi sudditi veneti. All'annessione lombarda rispondeva tragicamente l'eccidio di Curtatone, alla dedizione veneta le nuove trattative diplomatiche, nelle quali Carlo Alberto, ridomandando le antiche offerte dell'Austria, accettava l'Adige per confine orientale del proprio regno.

Era il tradimento regio immediato ed inevitabile.

Ma l'Austria ringagliardita ricusa: la rivoluzione italiana è perduta, l'esercito piemontese scorato, le popolazioni disilluse, i volontari dispersi, le città frementi ma tremanti. Allora Carlo Alberto, sospinto ad una suprema battaglia dalla voce di tutta Italia che gli grida: tradimento!, riprende l'offensiva minacciando Mantova: scaramucce e fazioni stancano l'inutile valore dei soldati, finchè a Custoza la bandiera tricolore cade nel sangue di una irreparabile sconfitta. Tutto è perduto; il re dà volta per la Lombardia, giurando difendere Milano, che nullameno lascia scoperta. La grossa metropoli spaurita crea un triunvirato di difesa, affidandosi al generale Fanti, al dottore Maestri e all'avvocato Restelli: Giuseppe Garibaldi, tardi accettato, è finalmente a Bergamo e ne sbarra la strada con 3000 volontari, ma gli sperduti eroi delle cinque giornate non possono raccozzarsi per proteggere Milano dall'imminente invasione. Sotto l'emozione del disastro, Torino cangia ministero: il nuovo presieduto dal milanese conte Casati, che riceve così il premio della cessione di Milano, chiede ed ottiene pieni poteri. Il 2 agosto, assumendo il comando di Milano, vi delega commissari del re il generale Olivieri e il marchese di Montezemolo: i milanesi, credendo che Carlo Alberto stringa la dittatura per rialzare con un impeto di magnanima disperazione il vessillo e la fortuna d'Italia, lo accolgono festanti; ma questi, travolto dalla sventura, non preoccupato più che del proprio regno, inganna tutti, persino se stesso. Un'orribile commedia, raccontata poi da Carlo Cattaneo in un ammirabile libro, disonora la generosa città pochi mesi prima insorta fugando sola lo straniero; il re giura, abiura, finge una difesa militare che impedisce a quella popolare di organizzarsi; è acclamato, fischiato, minacciato di morte; firma una capitolazione che cede la città a Radetzky, e la disdice offrendosi pronto a morire coi figli e con tutto l'esercito sotto le mura di Milano; poi a notte fugge in mezzo a una compagnia di bersaglieri. Quasi contemporaneamente Mazzini usciva dalla vinta città a piedi fra una schiera di volontari, portando, semplice soldato, la bandiera col motto - Dio e popolo - che doveva fra poco sventolare sul Campidoglio. La monarchia era vinta, la repubblica stava per esserlo; un medesimo sbandamento disperdeva politicanti e combattenti, programmi e bandiere, per raggrupparli un istante dove maggiore fosse la gloria del passato e la speranza dell'avvenire, a Roma e a Venezia, perchè una stessa sconfitta vi dissipasse lo stesso errore, e l'ineffabile tragedia del genio, mescolandosi alla farsa di tutto un popolo ancora incapace di comprendersi, rivelasse i principii della storia futura.

Intanto l'esercito piemontese aveva ripassato il Ticino. L'armistizio che prese nome dal generale Salasco, pubblicato il 9 agosto, stabiliva l'antica frontiera dei due stati per confine ai due eserciti: le fortezze dovevano essere aperte agl'imperiali, sgombri in tre giorni gli stati di Modena, Parma e Piacenza, cedute Venezia e la terraferma veneta. Il Piemonte restava intatto, ma la sua recente egemonia veniva negata con implacabile brutalità.

Ultimo a ritirarsi e non compreso nell'armistizio fu Giuseppe Garibaldi, che, sbaragliata una colonna di austriaci a Luino e resistendo ad un'altra anche maggiore a Morazzone, potè toccare la Svizzera, lasciando i nemici stupefatti del suo valore. Il generale D'Aspre disse allora di lui con profonda intuizione guerresca: «Egli era il solo, che avesse potuto vincere!» I vinti generali di Carlo Alberto avranno certo sorriso a questa opinione del generale tedesco.

Ma come per togliere alla storia ogni dubbio sui tradimenti di Carlo Alberto, il 6 agosto, mentre questi ripassava il Ticino avendo già concluso l'armistizio pubblicato poi nel giorno 9, il generale Colli e il conte Cibrario prendevano in suo nome possesso di Venezia, per impedirle ogni generosa ribellione e cederla al nemico colla maggiore comodità. Dopo l'abbandono, l'agguato: la truffa diplomatica compiva il tradimento politico. Ma il popolo, esasperato da tanta perfidia e galvanizzato dalla stessa imminenza del pericolo, tumultua in piazza S. Marco gridando: Abbasso il governo regio, evviva Manin! Il ricordo di Campoformio lancina tutte le coscienze, il terrore dei tedeschi centuplica l'odio, mentre in quel cinereo deserto della laguna, fra i memori monumenti dell'antico valore, la repubblica riappare come evocata dalla storia alla solennità di un ultimo giorno. Venezia, sola, repubblicana, senza navi, senza territorii, senza senato, quasi senza popolo, rimane vivente rovina nella momentanea morte d'Italia: abbandonata contro tutti, si ravvolge nella propria millenaria bandiera come a minacciare anche morendo e a conservarsi incorruttibile nella morte. Ma, gridandosi novellamente repubblica e rianimandosi d'immortali memorie, non può ricreare l'ammirabile decorazione del proprio antico governo: le forme moderne politiche guastano la sua classica maschera; la nuova assemblea non sa che nominare una dittatura nella quale la tradizione del dogado lascia a Manin una indiscussa supremazia.

Il primo atto di quest'ultima repubblica fu un decreto di zecca: nelle monete alla data 22 marzo si sostituì quella dell'11 agosto col motto - Alleanza dei popoli liberi - Indipendenza italiana - e nell'esergo: - Dio premierà la costanza - . Il testamento di Venezia si mutava così in una profezia all'Italia; l'ultima parola della storia federale italiana affermava la futura federazione dei popoli liberi d'Europa.

Ma se Venezia resisteva condensando tutta la propria storia in un finale di tragedia alla Shakespeare, i ducati di Modena, Parma e Piacenza si lasciavano riconquistare dagli austriaci senza colpo ferire.

Sola la Toscana, sempre sospettosa degli aiuti tedeschi, invocava la Francia per guarentirsi l'autonomia nell'inevitabile reazione imposta dalla sconfitta nazionale.

Catastrofi costituzionali.

In tanto diroccamento di sogni e di fortezze l'idea nazionale e federale non si confessava vinta. A Torino il parlamento decreta la dittatura a Carlo Alberto, si muta ministero, si riprova l'armistizio punendone il generale Salasco: l'incomprensibile vergogna di centomila soldati guerreggianti senza una vittoria campale, respinti senza una sconfitta decisiva, e abbandonanti al nemico in pochi giorni una provincia grande quanto il regno del loro re, irrita tutti gli orgogli e confonde tutte le ragioni: si urla al disonore, si ridomanda la guerra. I lombardi traditi armeggiano con ogni possa per riaccenderla, fra i dispregi dei moderati che li accusano di compromettere il regno, e le invettive dei radicali che li tacciano di non comprendere la rivoluzione. La mediazione anglo-francese incoraggia le speranze, poichè l'Austria per cansare pericoli d'interventi militari simula consentire, procrastinando. A Genova una sommossa tenta proclamare la repubblica: Livorno impazzita s'insanguina nella guerra civile imprigionando e cacciando i propri governatori, finchè il governo del granduca con abbietta scempiaggine dichiara di troncare con essa ogni rapporto, e la denunzia all'Europa come un antro di assassini.

Tutti i governi sono fiacchi, ogni misura politica perde la giustezza dell'idea nell'impossibilità dell'applicazione. I parlamenti vaneggiano: quello di Napoli, conservato dal Borbone per squisito dispregio di desposta, avvalla nella più supina remissione, non rappresentando più nè il paese, nè il sovrano, nè la costituzione, nè l'Italia. A Roma i due Consigli non s'accorgono di essere appena un ingrandimento dell'antica Consulta, malgrado gli arbitrii quotidiani del pontefice che annullano simultaneamente Camera e ministero: il costituzionalismo, impossibile negli altri stati italiani per la perfidia delle corti, qui è assurdo per l'inconciliabilità dei due poteri. Si fa la guerra senza votarla, la si prosegue disdicendola, il ministero pretende esprimere la volontà del pontefice e ubbidisce a quella della piazza. Mamiani soccombe come filosofo, Pellegrino Rossi sarà ucciso come politico. Nel parlamento fiorentino il ministro Ridolfi si dichiara impotente a frenare le congiure austriache e gesuitiche, e confessa di non osare spingere il popolo alla guerra nazionale, per non assumere il carico di costringerlo a gravi sacrifici; Bettino Ricasoli e Gino Capponi si succedono indarno al ministero, fidando ingenuamente nel principe e più ingenuamente sperando arrestare la marea rivoluzionaria, che li rovescia incolpevoli e condannati. I fatti di Livorno impongono al granduca un ministero Guerrazzi-Montanelli, che pacifica la turbolenta città proclamandovi la Costituente italiana (18 ottobre). Contemporaneamente si raduna a Torino un congresso federativo presieduto da Gioberti piemontese, Mamiani romagnolo, Romeo calabrese; Rosmini ne tratta per incarico del Gioberti con Pellegrino Rossi a Roma. La lega non comprenderebbe che Piemonte, Toscana e Stato pontificio; Napoli vi si ricusa, quantunque il parlamento ne accarezzi l'idea e l'esponga in timido voto al sovrano; Sicilia, Venezia, Milano, i ducati vi sono ammissibili ma preteriti: senonchè le antiche gelosie dinastiche e le nuove antinomie politiche la rendono impossibile. La Costituente italiana proposta dal Montanelli sottometterebbe invece l'Italia ad una ricomposizione per arbitrio di popolo, che si organizzerebbe in singoli stati a seconda del proprio migliore interesse; ma, come pusillanime copia della grande costituente mazziniana, ne ha tutte le nobili difficoltà unitarie cogli inconciliabili egoismi della confederazione.

Il disastro militare del Piemonte, scemando ai popoli la credulità nei principi, attenua in questi la fede già scarsa nei destini della nazione. Tutti gli stati, preoccupati del proprio problema, dimenticano la nazione, e nullameno vaneggiano ancora di una lega italiana, che l'idea unitaria impone loro come un accordo superiore al conflitto degli interessi dinastici e dei principii politici. Così il futuro si afferma, contraddicendosi nel presente: i tre principii che formeranno l'Italia, unità, libertà e monarchia, si presentano sfigurati nel concetto della Dieta.

Il moto popolare, che aveva imposto le costituzioni ai principi ed accesa la guerra nazionale, era troppo profondamente rivoluzionario per acquetarsi nelle forme regionali e federali del passato: quindi i tentativi di conciliazione tra federazione ed unità, monarchia e libertà, teocrazia e democrazia, dovevano finire alla loro separazione attraverso l'assurdo delle più varie esperienze. Mentre la diplomazia europea sognava di costituire la nazione con una lega di principi, quella tedesca infatti, accettandone il concetto, si affrettava ad integrarlo con un arciducato austriaco del Lombardo-Veneto. Il papa a Roma, il Borbone a Napoli, un arciduca tedesco a Milano, Carlo Alberto a Torino, Leopoldo a Firenze, gli altri minori duchi nel resto, sarebbero stati l'Italia moderna senza unità, senza libertà, senza indipendenza, col popolo suddito e colla religione tiranna: la grande rivoluzione francese dell'89 non avrebbe perciò avuto efficacia sulla rivoluzione italiana. Ma la reazione monarchica doveva invece esagerarsi nei tradimenti, perchè tutte le forme politiche del passato apparissero egualmente inette per l'avvenire.

Prima a soccombere nella reazione fu la Sicilia della quale la rivoluzione separatista contrastava maggiormente all'inconscio moto unitario italiano. Se i suoi intrattabili odii medioevali di regione e di razza, insorgendo contro Napoli, avevano potuto profittare egoisticamente della rivoluzione nazionale senza pagarvi tributo nè di pensiero nè di sangue, Napoli doveva presto risoggiogarla, giacchè ad evitare tale rivincita, si sarebbe dovuto anzitutto creare la libertà d'Italia. Quindi nè italiana, nè democratica, la rivoluzione di Sicilia perdette fatalmente un tempo prezioso in ridicole discussioni ed in pratiche assurde colla stessa dinastia cui si era ribellata, per finire all'ultim'ora, quando la catastrofe s'aggravava sulla rivoluzione nazionale, ad offrire la corona al secondogenito di Carlo Alberto. Naturalmente il Borbone protestò: tutti gli altri principi, che denunciavano a mezza voce le ingordigie conquistatrici del Piemonte, lo spalleggiarono, i tremendi disastri della guerra tolsero a Carlo Alberto il coraggio di accettare per la propria casa un ingrandimento contrastato in Italia e non consentito dalla diplomazia europea. Così la Sicilia rimase senza regno e senza republica, male in armi e peggio in politica, contro Ferdinando invasato d'odio tirannico. Per colmo di sciagura l'antica rivalità di Palermo con Messina non permise a quella di sguernirsi per soccorrere questa esposta ai primi furori borbonici. Messina, come all'epoca gloriosa del Vespro, fu dunque prima alla battaglia (3 settembre). Nessuna legge di guerra, nessun diritto di civiltà, nessuna misericordia di religione vi fu osservata. La battaglia durò quattro giorni, la strage vi fu pari all'odio delle parti, ma la fiera città abbandonata vilmente dai palermitani dovette soccombere all'efferatezza dell'assalitore, che sollevò ad indignazione tutti i parlamenti d'Europa. Palermo, tardi ammaestrata dai casi di Messina, s'accinse alacremente alla difesa, condensando nel governo i propri uomini migliori. Cordova, La Farina, Amari profusero ingegno e fatica nell'insolubile problema; la mediazione anglo-francese da loro ottenuta rimase impotente contro la perversità borbonica; poi l'avvenimento di Luigi Bonaparte alla presidenza della republica francese secondò la politica reazionaria di re Ferdinando, che nell'ultimatum di Gaeta (28 febbraio 1849) promise all'isola un'amnistia generale e uno statuto sulla base della costituzione del '12. Ma questo non era che un agguato per soffocare la questione siciliana, nel quale le due potenze mediatrici caddero consciamente. Allora il popolo esasperato spinge il parlamento alla guerra malgrado ogni insufficienza di milizia e di denaro: Catania, Siracusa ed Augusta cadono in mano dei regii; l'ammiraglio francese Baudin, interponendosi un'ultima volta per evitare a Palermo l'estremo massacro, rimane egli stesso abbindolato dal generale Filangeri, che manca a tutti i patti concessi al governo palermitano, e il 26 aprile gli intima una resa a discrezione. Il governo già dimissionario si disperde, mentre il popolo insorge, respingendo per dodici giorni il nemico e soccombendo da ultimo a nuove proposte di accordo nuovamente violate.

La reazione monarchica aveva trionfato così della ribellione secessionista della Sicilia, mantenendola nell'orbita della futura unità italiana.

A Roma invece la reazione papale, cominciata con l'allocuzione del 29 aprile, determina nel disastro della guerra nazionale tradita dal pontefice l'esplosione democratica, che deve affermare la incompatibilità del papato colla rivoluzione italiana.

L'inevitabile discordia del papa coi ministri e l'assoluta incapacità politica dei partiti romani affaticati da un inconscio istinto di libertà impedivano all'improvvisato governo parlamentare ogni logico sviluppo. I costituzionali, incerti fra l'irrefrenabile autorità del papa sempre egualmente dimentico del proprio governo e la necessità per questo di precisarsi, non osavano nè appoggiare, nè rovesciare il Mamiani. Il quale, infervorato per amore di patria nel concetto di una lega italiana, seguitava nel sogno di un governo pontificio schiettamente costituzionale. Intanto l'opera dissolvente dei circoli radicali, aiutata dai volontari rincasati dopo la capitolazione del Durando a Vicenza, cresceva a Roma e nelle Provincie: un'anarchia di assassinii insanguinava molte città delle Romagne in quella rilassatezza di ordini fra il vecchio e il nuovo: il ringalluzzirsi del clero pel tradimento del pontefice alla guerra nazionale rinfocolava gli odii liberali spingendo a vendette di antiche ingiurie colla scusa di un offeso patriottismo. Si pensò quindi a Pellegrino Rossi, rimasto in Roma privato cittadino dopo la caduta di Luigi Filippo, come al solo che per energia di carattere e profonda conoscenza di regimi costituzionali potesse resistere al disordine della piazza, ravviando l'ordine politico ed amministrativo del governo. Ma una prima combinazione ministeriale gli fallì. Intanto il Lichtenstein, occupando Ferrara con grossa mano di austriaci, venne a compromettere la già scossa posizione dello stato. Il papa, disconoscendo ogni valore nel proprio governo, protestò a nome della Santa Sede. I Consigli così sprezzantemente preteriti, invece di contrapporsi al principe, gl'indirizzarono suppliche per scongiurarlo a difendere i confini dello stato; il ministero non sentì abbastanza la propria dignità per dimettersi: solamente il popolo, sollecitato dallo stesso Galletti ministro di polizia, si ammutinò in una delle solite dimostrazioni. Finalmente il Mamiani dovette ritirarsi e gli successe il Fabbri, vecchio impiegato di povero ingegno e d'incondizionata devozione al papa. Così la reazione cresceva nei ministeri, mentre il parlamento seguitava a dissertare come un'accademia o a supplicare come un coro interrotto da qualche grido plateale del principe di Canino e dello Sterbini, entrambi piuttosto retori che tribuni e rivoltosi che rivoluzionari. Ma se il Lichtenstein si era per ordine di Radetzky prontamente ritirato da Ferrara, il Welden, per ingiunzione segreta dello stesso maresciallo, che, respinto l'esercito piemontese, intendeva ad opprimere tutti gli altri governi italiani fingendo aiutarli contro le insubordinazioni dei patriotti e l'anarchia delle plebi, entrava nelle provincie dell'Emilia e s'accampava a Bologna. Lo seguiva, laidamente infame e feroce, certo Virginio Alpi faentino, a capo di bande sanfediste racimolate fra i peggiori malandrini di tutta Italia. Le provincie inermi o difese da pochi volontari, cui la capitolazione di Vicenza inibiva ogni ulteriore uso dell'armi, sbigottirono: prepotenze austriache, rappresaglie brigantesche funestarono città e villaggi, mentre il papa rinnovava le solite proteste deputando al Welden il cardinale Marini. Era l'antico immutabile sistema del papato di difendersi, invocando i fulmini del cielo e la protezione delle potenze cattoliche, reso ora più ridicolo dalla presenza di un governo parlamentare eletto dai cittadini e verso di loro responsabile come ogni altro governo. Quindi Bologna, esasperata dalle provocazioni delle soldatesche croate e disperata di aiuto dallo stato, insorge coraggiosamente, respingendo a furore di popolo il Welden ed inseguendolo lungi per la campagna: le vicine città romagnole, eccitate dal nobile esempio, si preparano in armi: si nominano commissioni provvisorie di guerra, giunte di sicurezza come nell'assenza del governo per combattere lo straniero invasore, intanto che a Roma i ministri puerilmente servili paragonano questa vittoria di popolo abbandonato alla magnanimità del pontefice intento alla difesa della patria comune, predicando la calma. Un solo ministro, il Campello, avrebbe voluto una dichiarazione di guerra, ma il papa lo dimise; il resto del ministero annuì.

Senonchè l'anarchia ministeriale e parlamentare, che lasciava il pontefice seguitare in un dispotismo anche più irresponsabile che pel passato, si ripercosse necessariamente a Bologna, dopo la generosa e fortunata sollevazione contro gli austriaci producendovi il più orribile disordine di plebe imbestialita a private vendette. Quindi la cosa procedette a tale che, se i carabinieri sdegnati dell'uccisione di un loro compagno non si fossero con rabbia maggiore scagliati sui malandrini, uccidendoli a fucilate per le strade, inseguendoli nelle case, imprigionando a caso, la ribalda insania non avrebbe avuto altro termine.

Questo ed alcune altre provvisioni stolide del ministro di polizia Accursi persuasero al ministro Fabbri di dimettersi e al papa di chiamare Pellegrino Rossi.

Pellegrino Rossi.

Il papato doveva soccombere: l'ultima scena della sua secolare tragedia stava per cominciare.

Pellegrino Rossi nato a Carrara nel 1785, presto celebre professore a Bologna, favoreggiatore di Murat nel 1815 per speranza di idee italiane nel regno del magnifico venturiere francese, poi esiliato dalla reazione della Santa Alleanza e riparato a Ginevra, insigne ritrovo di tutti gli esuli insigni, vi crebbe tosto d'importanza e di dottrina. Ingegno vario e brillante, assimilatore nervoso per logica e simpatico per eleganza di metodo, in quel soffio di rivoluzione, che allora riscaldava tutti i grandi spiriti contro il nordico gelo, tenne cattedra libera di giurisprudenza, attirando curiosi e studiosi, sembrando rinnovare nella facile esposizione vecchie idee. Quindi dall'ardita ed insinuante natura tratto alla politica, ottenne la cittadinanza svizzera con tanto credito da essere chiamato nel ribollimento prodotto dalla rivoluzione del 1830 a compilare una costituzione, che si disse Patto Rossi, e, rigettata allora, rivisse in parte nello statuto del '48. Ma in essa il Rossi scoperse la natura secondaria del proprio ingegno, egualmente incapace di rivoluzione e di originalità. A rovescio dello spirito politico e civile del secolo tendente alla nazionalità, egli vi stette per l'unione contro l'unità, per la tradizione contro la rivoluzione, per la libertà degli ordini contro l'emancipazione dell'individuo. Così decaduto nella pubblica estimazione, dovette ricoverarsi in Francia, ove l'attendevano gloria e favori insperabili a uno straniero. Tosto eletto professore di diritto costituzionale, membro dell'Istituto, cittadino, pari, conte: bersagliato dall'opposizione, che in lui vituperava il rivoluzionario diventato cortigiano di un governo corrotto e corruttore, e lo scienziato sempre pronto a contraddire nell'esercizio della politica gli assiomi pomposamente proclamati dalla cattedra; inviso agli esuli italiani che lo giudicavano rinnegato della patria e della libertà; carbonaro e cospiratore in Italia, republicano in Svizzera, orleanista in Francia, dottrinario nella teorica, scettico nella pratica, senza coscienza di patria, caro a Luigi Filippo che lo deputò ambasciatore a Gregorio XVI e a Pio IX, rifulse nullameno nei circoli politici e filosofici d'allora per opera specialmente della stampa governativa. Ma tra i maggiori eclettici del tempo non fu grande nè per potenza di pensiero, nè per splendore di forma: nell'insegnamento del diritto costituzionale, assurda miscela di postulati storici e filosofici alla quale i governi parlamentari dovettero dar nome di scienza ed erigere cattedre, non sorpassò Beniamino Constant; nell'economia politica rimase fatalmente immobile nel dualismo della scienza pura e della scienza applicata entro la vasta orbita di Giambattista Say; nel diritto penale passò dal principio di Bentham a quello della giustizia assoluta, combattendo la scuola storica senza giovare alla scuola filosofica, cercando indarno la giustificazione della pena e l'ideale verità della giustizia sulle orme di Kant e di Cousin; meno acuto e più famoso di molti altri penalisti italiani contemporanei, dimenticato poco dopo nella gloria immortale del Carrara. Ma in tutte le sue opere, notevoli per vigore di metodo e nativa eleganza di esposizione, parve pregio massimo quella temperanza di principii e di conseguenze, che, accontentando i mediocri, sembra significare nell'autore una profonda conoscenza della materia e un instancabile equilibrio di forze, mentre non è troppo spesso che inettitudine del pensiero a creare e facilità artistica di traduzione.

Nella sua ultima deputazione a Pio IX tra il fervor dei lirismi politici sul papato, egli italiano ed insieme straniero, filosofo e giurista, professore di costituzioni e diplomatico del governo che pareva allora modello di sapienza pratica, capitò come un alleato naturale ed avventuroso del partito dei principi. La sua fama, il suo grado, le sue affinità con tutte le diplomazie europee, sorrisero all'immaginazione dei nuovi costituzionali ancora ignoranti al giuoco dei parlamenti. Lo si accolse come un maestro, lo si ascoltò come un oracolo, mentre le contumelie dei giornali rivoluzionari, che in lui cosmopolita senza coscienza nazionale non vedevano che un tristo accolito di Guizot e un peggior mezzano di Luigi Filippo, addensandosi intorno alla sua reputazione, le davano più vivo rilievo. Involontariamente Pellegrino Rossi divenne nello spirito pubblico il rivale di Giuseppe Mazzini. Entrambi erano cresciuti nell'esilio, celebri per scritti ammirati da amici e da nemici. L'uno rappresentava il vecchio spirito rivoluzionario del '21 e del '31 divenuto senno pratico, adattandosi ai fatti quotidiani e giovandosene nell'oblio dei principii, come un carbonarismo borghese ed autoritario mutato col trionfo degli Orléans in governo borghese a base industriale, timido nelle iniziative e temerario nelle repressioni, egualmente logico nell'abbandono dei primi principii e delle ultime conseguenze, unificando lo stato nel governo e il governo nella dinastia, considerando la nazione solo negli elettori e il potere solo negli eletti: tutta la libertà nella carta, tutta la giustizia nell'ordine, tutta la rivoluzione in concessioni di principi e in applausi di sudditi, l'Europa immutata ed immutabile. L'altro era la rivoluzione popolare e profetica, ancora solitaria nei migliori e nullameno divenuta presto universale nel loro apostolato, teatrale nell'eroismo e sublime nel martirio, internazionale nel sentimento e patriottica nel concetto: che voleva l'Italia una, libera e republicana, e non s'arrestava a statuti, non patteggiava collo straniero, non si accodava a re, non si illudeva coi preti, inflessibile per eccesso di logica ed inabile per troppa grandiosità di disegno.

Per Pellegrino Rossi l'Italia di Mazzini era un'utopia che impediva ogni progresso nella realtà, una demenza del pensiero, una perfidia della volontà: per Mazzini l'Italia di Pellegrino Rossi era una falsa apparenza, l'ombra di un fatto esaurito, attraverso la quale passavano già i raggi di un'idea novella. I suoi principi non credevano nemmeno agli statuti che largivano, non volevano la Dieta che mestavano, abborrivano dalla guerra che proclamavano: erano come fantasmi del passato, una suprema menzogna del presente. La loro ridda politica intorno al Vaticano somigliava alla Danza dei Morti di Goethe intorno ad un campanile nel piano fosco di un cimitero, aspettanti la grande parola del nuovo giorno per inabissarsi nell'ombra.

La nomina del Rossi al ministero, nel quale il vecchio cardinale Soglia conservava apparentemente la presidenza, parve a tutti una provocazione. Il gabinetto francese ne mosse vive rimostranze come di sfregio fatto alla repubblica coll'elevazione di un orleanista; i rivoluzionari fiutarono il nemico; i Consigli sentirono il padrone ed abbassarono al solito la testa; i sanfedisti recalcitrarono, riconoscendo nel forte parlamentare l'invincibile proposito di governare costituzionalmente; i preti si scandolezzarono a questo secondo avvento di un filosofista niente più ortodosso del Mamiani; Pio IX solo calmò la propria incertezza dietro il coraggio del ministro, che aveva affermato pubblicamente sino dalla prima ora: «Non si abbatterà l'autorità del papa, se non passando sul mio corpo». L'infelice credeva ancora che un individuo potesse mutarsi in sbarra contro la storia.

I primi atti del ministero furono di guerra: frenò, vessò, espulse i democratici sospetti di rivoluzione; per ristorare le finanze tassò il clero, inimicandoselo; avversò energicamente il Piemonte, compiacendosi ai disastri militari che tarpavano opportunamente l'ali ai suoi sogni di conquista. Quindi, nè unitario nè federalista, vide con occhio sicuro l'impossibile ipocrisia della lega e l'impotente rettorica della rivoluzione; ma troppo saturo di cartismo e fidando nella bonarietà del pontefice, credette nullameno di poter fondare a Roma un vero governo parlamentare. Roma costituzionale avrebbe così preso la testa del movimento italiano, e l'Italia avrebbe potuto risorgere dopo di essersi irrobustita in lunga e ordinata educazione liberale.

Egli, come massimo ed unico ministro, doveva quindi governare personalmente in quei primi giorni costituzionali: così incorporò al proprio ministero dell'interno quello di polizia, per meglio valersi dei mezzi repressivi e cacciare il Galletti ligio ai rivoluzionari; promosse lavori pubblici, strade ferrate e telegrafi, scuole d'economia politica e di diritto commerciale. La coscienza della propria superiorità, e quella fremente alterigia che si compiace dell'odio popolare quasi ritrovandovi una prova del merito, gli tolsero di valutare esattamente l'opposizione ingrossante di giorno in giorno. Nelle inevitabili trattative per la costituente proposta dal Montanelli scoperse con brutale franchezza i disegni voraci del Piemonte, e, mentre questo instava per una lega militare secondo le terribili urgenze del momento, ma nella quale avrebbe naturalmente avuto il sopravvento, egli propose una inutile lega di principi senza alcun accenno nè alla nazione nè all'indipendenza. Ciò disperse quel falso sogno di una dieta italiana, ed isolò il Piemonte. Intanto, proseguendo nella riforma militare e giudiziaria per organizzare modernamente lo stato, vi accresceva il mal animo collo spostamento degli interessi e le lesioni ai troppi diritti acquisiti: gli ordini dati al Zucchi, ministro della guerra, per impedire a Giuseppe Garibaldi, approdato in Toscana e quivi accolto freddamente dal Guerrazzi, il transito per la Romagna colla sua eroica legione di Montevideo diretta a Venezia, offesero vivamente il sentimento nazionale. A Bologna il popolo ammutinato impose al generale degli svizzeri Latour di lasciar libero il passo a Garibaldi: questi, giungendovi, suscita l'entusiasmo di tutti; Angelo Masina bolognese lo segue, improvvisando a proprie spese un grosso squadrone di cavalleria. Ma Zucchi, già salvato da Garibaldi a Como ed infellonito pel recente smacco, non potendo imprigionare il proprio salvatore, come Rossi avrebbe voluto, incarcera il padre Gavazzi, barnabita divenuto celebre predicando la crociata contro gli austriaci su per le piazze. I liberali urlano, il congresso federativo di Torino dichiara la caduta di Rossi necessaria all'attuazione delle speranze italiche, la reazione ministeriale costretta ad esagerarsi per resistere all'esaltamento degli animi peggiora le proprie misure. Tutto diventa provocazione: una truppa di carabinieri, chiamata a Roma e fatta passeggiare spavaldamente pel Corso, pare una sfida: si mormorano minaccie contro i Consigli, si sussurra di costituente, si denuncia l'ostinato ministro alla pubblica esecrazione.

E nessuno lo sostiene.

Il clero gli è avverso per le tasse e per quel fermo proposito di stabilire un vero governo costituzionale, i federalisti lo osteggiano come unico nemico della Dieta italiana, la diplomazia degli altri principi lo abbandona, le popolazioni inerti, papaline o rivoluzionarie, guardano di mal occhio questo straniero che tutti condannano. La reazione ha già trionfato di Napoli e della Sicilia; la Lombardia è ricaduta nella servitù tedesca. Venezia già cinta d'assedio, il Piemonte cogli austriaci vincitori al confine, la Toscana imbrogliata nella rettorica armeggia contro al proprio principe e non s'accorge che Radetzky sta per rioccuparla come un feudo imperiale. Il papa, rimasto solo all'esperimento costituzionale e atterrito dall'anarchia di Roma, si prepara ad accettare l'intervento tedesco, dianzi respinto, per ristabilirsi signore assoluto e tornare in quiete. La rivoluzione precipita verso la catastrofe; il quarantotto è stato inutile. Il Piemonte ha fallito, Napoli tradito, Milano votata un'annessione vana, Venezia gridato, negato, riaffermato la propria republica senza fede in essa e senza speranza; la Toscana ha oscillato senza muoversi; nessuna idea si è ancora affermata. Il papato, nel nome del quale cominciò la rivoluzione e per opera del quale fu arrestata nel momento della vittoria, come disse la prima parola della rivoluzione, così deve esserne l'ultima: bisogna che la rivoluzione lo distrugga per affermare la propria idea. Senza l'abolizione del potere temporale e senza la repubblica a Roma, la rivoluzione del quarantotto non è che una inutile ripetizione di quelle del '21 e '31: mancherebbe il progresso alla vita, la logica alla storia. L'ostacolo più antico ed universale alla costituzione della nazionalità italiana fu ed è il papato: la rivoluzione non può essere tale che sopprimendolo come già fece la francese dell'89, ma quella procedendo per conquista rovesciava, non abrogava. L'Italia che lo ha creato, può sola annullarlo. L'unità, l'indipendenza e la libertà della nazione derivano da Roma italiana: Roma pontificia è l'Italia federale diffranta in minimi stati, serva dello straniero, senza individualità nella vita e senza personalità nella storia.

Il papato, dando la spinta alla rivoluzione, ha tentato l'ultimo esperimento per rinnovarsi: ma la guerra nazionale gli è rimasta estranea, lo statuto lo soffoca, l'idea moderna democratica lo trascende.

Pellegrino Rossi è la reazione con tutto l'orpello e il panneggiamento delle false franchigie costituzionali, coll'assurdo della sovranità popolare e papale, coll'antagonismo dello stato pontificio con tutti gli altri e colla nazione: è la reazione senza alcun principio politico, senza fede in se medesima, senz'accordo con nessuna classe o ordine, incompresa ed incomprensibile.

Quindi Pellegrino Rossi diventa il centro di tutti gli odii; la sua condanna esce dalla fatalità storica come un epilogo. Un superbo accecamento lo rende più intrattabilmente dominatore negli ultimi giorni: invano lettere anonime lo avvisano e pochi amici lo consigliano ancora. Egli non crede al proprio assassinio, giacchè non può intenderne la ragione storica. Infatti la sua reazione nell'apparenza è quasi insignificante, paragonata a quella di Ferdinando Borbone; la sua sincerità parlamentare è indiscutibile, la sua illusione quella stessa di tutti i politici di allora: l'allocuzione del 29 aprile non venne da lui inspirata, Garibaldi fu peggio trattato a Milano che a Bologna, il tradimento del papa ricusantesi alla guerra nazionale non è nulla al confronto dell'abbandono di Milano e della consegna di Venezia tentata da Carlo Alberto. Nullameno l'odio rivoluzionario s'addensa su Pellegrino Rossi, lo esecra come un tiranno, lo insulta come un carnefice. Nessuno sospetta ancora la profonda ragione di così unanime sentimento nella necessità di salvare la rivoluzione, proclamando la repubblica a Roma.

Il 15 novembre Pellegrino Rossi, mentre sale lo scalone della cancelleria, ove è adunato il parlamento, solo col Righetti fra una folla minacciosa, è colpito da una pugnalata alla carotide. La guardia nazionale ha assistito impassibile all'assassinio, il popolo urla di feroce entusiasmo, il presidente Sturbinetti con affettato stoicismo ordina prosegua la seduta, ma i deputati si sbandano sotto l'incubo di un terrore misterioso, intanto che la notizia si sparge per tutta Italia con miracolosa rapidità. A quei giorni furono similmente uccisi il ministro Latour a Vienna, il Lamberg in Ungheria, il Lichnowski a Francoforte senza che la loro morte provocasse emozione di sorta: ma quella di Pellegrino Rossi sconvolse tutte le coscienze. Qualche gran cosa era con lui crollata: a distanza di diciotto secoli il pugnale, che aveva colpito Cesare per trafiggere invano l'impero, scannava Rossi uccidendo il papato. La morte del dittatore non potè salvare l'antica republica: quella del ministro permise alla nuova di nascere.

Federazione di principi e primato pontificio, rinnovamento religioso e autonomie regionali, tutte le tradizioni e le aberrazioni del quarantotto, svanivano con Pellegrino Rossi. Qualche gran cosa era crollata con lui, la Roma papale più vasta della Roma cesarea, città di Dio che, fabbricata colle rovine dell'impero romano, aveva contenuto tutto il medioevo e dominato il rinascimento, slargandosi colle scoperte successive di due mondi, soccombendo alla rivoluzione francese, ma per rialzarsi dopo di essa, quasi maggiore di essa. Qualche gran cosa era cominciata colla sua morte, la Roma italiana, l'epoca delle nazionalità, l'èra universale della libertà, la repubblica del pensiero, la cattolicità della scienza.

Al Quirinale, nelle anticamere del papa, si rinnova il terrore che alle notizie delle prime invasioni barbariche agghiacciava le sale dei Cesari: si dànno ordini di repressione ai gendarmi che non osano eseguirli; i ministri balbettano, i deputati si disperdono, i cortigiani sono già dispersi. Giù nella piazza un'orgia brutale dà all'assassinio una truce mirifica apparenza di festa. L'indomani si pensa a provvedere un nuovo ministero, non sapendo e peggio non potendo sapere chi porvi, mentre i rivoluzionari, concertandosi rapidamente, sollevano in massa il popolo e lo spingono al Quirinale per chiedere una costituente italiana e un ministero democratico con Saliceti, Campello e Sterbini. Galletti è deputato oratore del popolo al papa. Questi tenta resistere, sperando ancora nella propria autorità, che la sommossa medesima sembra riconoscere; ma il popolo infuria. Volontarii reduci da Vicenza, guardie civiche e carabinieri corrono all'armi, si assedia il Quirinale: gli svizzeri resistono, la mischia s'accende, un monsignore è ucciso, s'incendia una porta del palazzo, un cannone trascinato in piazza sta per rovesciare l'altra, finchè Pio IX, vinto dal terrore, dichiara ai diplomatici di non cedere che alla violenza, ed inganna il popolo colla composizione di un nuovo ministero. Il principe non ha saputo resistere, il pontefice non ha voluto sacrificarsi: eroismo e martirio non sono più pel papato.

Allora il trambusto diventa inintelligibile. Marco Minghetti alla testa del gruppo bolognese si dimette da deputato per non venir meno alla devozione verso il sovrano; il ministero non osa condannare pubblicamente l'assassinio di Rossi, che rimane e rimase poi misterioso, palleggiato con reciproca accusa da gesuiti a mazziniani, sconfessato con unanime orrore da tutti i partiti. I circoli fanno proclami e decreti: un'aurora boreale getta sul tumulto una luce sanguigna di tragedia, atterrendo tutte le superstiziose fantasie; quindi il papa, sentendosi straniero nella propria capitale, fugge insospettato e travestito a Gaeta.

Lo statuto era stato una resa, la fuga diventò un'abdicazione.

La lettera lasciata dal papa al marchese Sacchetti non raccomandava che di salvaguardare i palazzi apostolici: volgarità di padrone di casa, che nel supremo disastro di un regno millenario e in una terribile rivoluzione della patria non pensa che ai propri mobili! Nullameno il nuovo ministero, nel quale dominava il tribuno Sterbini, rimaneva nella propria dignità poco più alto del papa, giacchè, invece di profittare di quella fuga per dichiarare abrogato per sempre il potere temporale, lamentava invece che Pio IX fosse fuggito, cedendo ad infami consigli, ed invitava patriotticamente i cittadini alla calma. Il circolo popolare con arbitrio rivoluzionario e con pusillanime ipocrisia dichiarava legittima l'autorità del ministero, non perchè riconosciuta dal popolo ma come riconfermata dal papa in una frase ambigua della sua lettera al Sacchetti. Il popolo della capitale e delle provincie rimaneva sospeso in tale incertezza di governo, ascoltando le esortazioni dei due Consigli, che gli predicavano la temperanza virile: Mamiani ricondotto dal pericolo dello stato al ministero riusciva a scartare la proposta del principe di Canino invocante la costituente.

Ma intanto che ministero e parlamento armeggiavano infelicemente per mantenere l'accordo col pontefice fuggito, vietando a Garibaldi di avvicinarsi a Roma colla sua legione ed ammansando il popolo coll'ordinare grossi lavori pubblici, Pio IX promulgava un breve da Gaeta, quasi a risposta pei circoli che domandavano la costituente, nel quale, protestando contro le necessità della propria fuga, dichiarava nulli tutti gli ultimi atti del governo e lo sostituiva con una commissione di monsignori e di aristocratici. Però non uno di essi ardì accettare il difficile ufficio.

Alla violenta smentita del pontefice, ministero e parlamento risposero con instancabile servilità arzigogolando curialescamente che la protesta papale, datata dall'estero e senza firma di ministro responsabile, non poteva credersi autentica, e deputando oratori a Gaeta per convincere Pio IX a ritornare in Roma. Naturalmente le deputazioni non vennero ricevute al confine napoletano: invece Cavaignac, dispotico presidente della repubblica francese, dopo le giornate di giugno, annunciò l'invio di tre fregate francesi nel porto di Civitavecchia per assicurare il pontefice. Il governo provvisorio, protestando contro questa minaccia, adoperò per supremo argomento non avere Pio IX nell'immacolata grandezza dell'animo proprio invocato contro la patria intervento armato straniero e non essere mai per invocarlo; ma poco dopo il pontefice, rifiutando ogni componimento, mandava invece da Gaeta un appello a tutte le potenze cattoliche per farsi rimettere in trono.

I costituzionali di Roma, troppo simili ai moderati milanesi delle cinque giornate, per orrore dell'imminente rivoluzione, non volevano a nessun costo recedere dalle speranze di rappattumamento con Gaeta, e nominavano un'altra commissione di governo con questo precipuo incarico. Mentre nel popolo cresceva il fermento rivoluzionario, nei governanti si cristallizzava rapidamente la fede nel costituzionalismo del pontefice, malgrado la sua fuga e le violenti proteste. I circoli fremevano; i ricchi clericali fuggivano come sotto la tempesta; una incomprensibile incertezza sconvolgeva tutti gli spiriti. Era impossibile non precipitare a governo radicalmente democratico, e nullameno non se ne aveva il coraggio. Scarso nelle masse il sentimento liberale; quasi nullo il repubblicano; pochi ma unanimi, i forestieri italiani attirati in Roma dall'istinto storico del grande avvenimento mestavano dovunque, arringando ed oprando, persuadendo e minacciando; solo il principe di Canino per vanità tribunizia parlava alto di costituente; solo il Mamiani, antecessore e successore del Rossi, resisteva apertamente, domandando l'espulsione come per stranieri di De Boni, di Ciceruacchio e di Maestri, energici capi-parte repubblicani, e proponendo la convocazione di un'assemblea italiana per compilare il patto federale di tutti i singoli stati.

Un'onda di piazza superò quest'ultima trincea di costituzionali, travolgendo il ministero. Quindi il 20 dicembre 1848 la Giunta suprema di stato proclamò la Costituente Romana, sottomettendone immediatamente la legge ai Consigli, che non osarono nè accettarla nè respingerla: la legge importava che l'assemblea rappresentasse con pieni poteri lo stato romano e vi desse compiuto, regolare e stabile ordinamento; che le elezioni si facessero per suffragio universale diretto: elettori tutti i cittadini di ventun anni, eleggibili tutti gli altri di venticinque, duecento i deputati.

Questo schema arditamente democratico cadde come una bomba sul timido parlamento già tanto assottigliato dalle renunzie dei più timidi deputati, onde la Giunta ne chiuse la sessione, ordinando la convocazione della Costituente per decreto.

Ma neanche questo decreto schiettamente rivoluzionario bastò a guarire il governo provvisorio presieduto da monsignor Muzzarelli dalle equivoche speranze di un componimento col papa: le pratiche diplomatiche proseguirono con Gaeta, mentre con arbitrio assennato ed intrepido si affrettavano le abolizioni dei fedecommessi e delle disposizioni fiduciarie, si riformava la procedura civile, si regolava la navigazione dei fiumi e delle coste marittime, si sopprimeva la tassa del macinato e finalmente, quasi ad accenno di regime giacobino, s'instituiva una commissione militare senz'appello pei delitti contro l'ordine pubblico. Solo all'esercito, che avrebbe dovuto essere la prima cura in quella difficile ora di guerra coll'Austria vittoriosa ed invadente, non si pensava affatto: appena appena s'inscrissero 1330 reclute. Al decreto invocante la Costituente le provincie si scossero e tutti i legati ecclesiastici o laici vi si dimisero: i costituzionali si ritirarono sdegnosi, i rivoluzionari si levarono, i sanfedisti occulti spiarono con perfida attesa la catastrofe.

La Corte pontificia di Gaeta sembrò disinteressarsi da ogni questione, abbandonando il partito costituzionale e scagliando la scomunica contro elettori ed eletti, mentre a Roma un gretto municipalismo aiutato dallo Sterbini mirava inutilmente a contrastare l'espansione e il significato della proclamata costituente. Infatti il suo carattere era al tempo stesso giobertiano e montanelliano, giacchè alcuni deputati dovevano sedervi come nazionali ed altri come romani, questi costituire un governo nell'antico stato pontificio, quelli combinare un assetto federale italiano. La fisima della dieta come carattere essenziale nella rivoluzione vi persisteva, ma l'inconscio sentimento unitario di Roma capitale d'Italia ne santificava l'assurda momentanea impossibilità. Se l'accordo federale non era riuscito tra i principi, fra questi e le repubbliche e coll'Europa già disposta a ricondurre sul trono il pontefice diventava addirittura paradossale: nullameno le pratiche seguivano attivamente, contrastandosi nelle intenzioni e nei disegni del Gioberti e del Montanelli.

A Gaeta invece s'arrabattava il lavoro delle diplomazie: il Borbone badava abilmente a conservare il papa, traendo dalla sua ospitalità una specie di assolutoria alle infamie commesse; il Piemonte offriva Nizza e la propria mediazione per riconciliarlo con Roma; Cavaignac, per amicarsi il partito cattolico francese nell'imminente elezione presidenziale, moltiplicava le promesse, invitando Pio IX in Francia; la Spagna gli aveva già esibito le isole Baleari e tutta se stessa. Poi il Piemonte, trascinato dall'inesorabile duplicità del proprio giuoco, domandava al papa di presidiare Roma in nome suo con truppe sarde, stipulando simultaneamente col governo provvisorio di potere militarmente occupare le provincie romane per le necessità dell'imminente seconda guerra coll'Austria, e più tardi, pregato d'alleanza da questo, la negava per riguardo al pontefice; finalmente, ributtato dalla diplomazia papale, dichiarava caso di guerra il minacciato intervento spagnolo in favore del papa. Ultima la Prussia proponeva come accordo fra l'Austria e la Francia, che quella occupasse il nord e questa il sud dello stato pontificio.

Fra questa temperie si tennero le elezioni e il giorno 5 febbraio 1849 s'adunò nel palazzo della Cancelleria la Costituente.

La seconda campagna piemontese.

I primi esperimenti repubblicani dovevano quindi coincidere coll'ultima guerra regia, senza ottenere migliore risultato.

Mentre duravano in tutti i gabinetti politici d'Europa le trattative di una mediazione tra l'Austria e il Piemonte e quella tirava astutamente in lungo per assodarsi all'interno contro i pericoli della rivoluzione e della Dieta di Francoforte, a Torino ministero, parlamento e popolo farneticavano d'entusiasmo rivoluzionario e di reazione dinastica. Migliaia e migliaia di rifuggiti vi si agitavano nella febbre della rivincita; i repubblicani accusavano violentemente il re, i regi svillaneggiavano la democrazia sfiduciata e sfiduciante, i giornali palleggiavano accuse e denunzie contro tutto e su tutti. Vero è che alla guerra il Piemonte era stato insufficiente meno ancora per difetto di ordini militari che per sincerità di sentimenti e per contraddizione di propositi; che i lombardi dopo gli eroismi delle cinque giornate erano cessati dall'opera; che a Venezia si era stati altrettanto fiacchi alla battaglia che incerti nella politica; che i ducati avevano fatto quasi da spettatori; che la Toscana aveva levato appena due reggimenti; che il papa e il Borbone avevano ritirato i propri. Ai delirii della fede patriottica erano naturalmente succeduti i fanatismi dell'incredulità pessimista: il passato di Carlo Alberto pareva spiegazione a tutti i suoi ultimi tradimenti immaginari, mentre spiegava fin troppo i tradimenti veri: le speranze di aiuti europei dileguando, invece d'irrobustire il patriottismo col senso tragico del pericolo, scassinavano tutti i disegni e prolungavano ignominiosamente ogni querimonia.

Le ultime proposte franco-inglesi di mediazione, importando la remissione del Lombardo-Veneto all'Austria, invelenivano egualmente le cupidigie conquistatrici dei costituzionali piemontesi e i sentimenti italiani dei democratici. Nella tempesta parlamentare i ministeri passavano come fantasmi: quello obliquo del Casati soccombette all'altro del Perrone, cui successe il Gioberti. Si voleva la riscossa malgrado le tetre confessioni di Dabormida, già ministro della guerra, sullo stato dell'esercito. Il ministero avrebbe voluto prepararla convenientemente; Brofferio invece coi più caldi la chiedeva subitanea, inspirata, condotta «da ardimento, ardimento, ardimento». La Lombardia calpestata e taglieggiata strillava, i ducati parevano scrollarsi impazienti. Genova arditamente rivoluzionaria e malata di antico odio municipale al Piemonte minacciava d'insorgere; il congresso di Bruxelles, ultimo tentativo di componimento diplomatico, non dava risultati: l'Italia si credeva con ingenua vanteria ancora integra di forze e salda di propositi. Certo che in quello di riprendere le ostilità si sarebbe dovuto profittare delle nuove crisi interne dell'Austria, tagliando corto ai raggiri e alle procrastinazioni colle quali essa mirava ad assonnare l'Italia; ma la guerra avrebbe così dovuto essere popolare e nazionale, e il Piemonte monarchico non poteva per necessità di egoismo consentirvi.

Per prendere fiato, il ministero sciolse la Camera, che in quella esacerbazione degli spiriti ritornò con numero preponderante di impazienti contro i moderati. Intanto le costituenti di Firenze e di Roma, cacciando il granduca e il pontefice, crescevano autorità alla parte democratica, mentre il loro urto col Piemonte, condannato a non vivere e a non progredire che costituzionalmente, diventava sempre più inevitabile, e la scissione dei principii politici vietava anche più dolorosamente gli accordi necessari ad un ultimo sforzo di guerra nazionale. All'apertura del parlamento ministero e re parlarono audacemente di rivincita, ma l'ora propizia era già trascorsa. L'Austria, opponendo i Magiari agli Slavi e questi a quelli, li aveva entrambi soverchiati: Vienna aveva richiamato l'imperatore; Praga cedeva; la corte, promettendo una costituente, ammansiva i rivoluzionari; le individualità autonome dell'impero resistendo al moto unitario della Dieta di Francoforte, davano buon giuoco alla politica austriaca; la Prussia, abbandonando la Dieta, lasciava timidamente cadere l'idea unitaria piuttosto annebbiata che rivelata dalle troppe discussioni. Se i disastri al rompere della guerra avevano quindi dato spirito alle potenze per insultare l'Austria, i nuovi successi di questa persuadevano invece a sostenerla: tutte le rivoluzioni nazionali soccombevano alla medesima fatalità, tutte le democrazie si appalesavano del pari insufficienti.

Le pretese del Piemonte sul Lombardo-Veneto non sembravano perciò alle diplomazie che ridicole bravate di un vinto senza gloria, e l'unità italiana un sogno di poeti guasto da corruttele di rivoluzionari e da violenza di banditi. La reazione monarchica vincitrice in tutta Europa si riuniva ora intorno al papato abbattuto dalla repubblica romana, per rialzarlo, facendo della ripristinazione di Pio IX come il proprio epilogo trionfale. Infatti Gioberti stesso, capo di un ministero allora democratico, sbigottito dall'accordo di tutte le potenze ad intervenire nella questione romana, precipitava alla più assurda delle decisioni, insistendo presso il pontefice e il granduca Leopoldo per rimetterli in trono con armi piemontesi. Sarebbe stata la guerra civile della monarchia contro la democrazia, del Piemonte contro l'Italia, e questo all'indomani del congresso federativo. Il papa ricusò, il parlamento urlò al fratricidio. Gioberti caduto dal ministero dovette esulare, per difendersi invano in un ultimo libro sul Rinnovamento civile, eloquente imbroglio di filosofia e di politica, apologia infelice e suprema contraddizione di un grande spirito, cui la sventura dell'esilio nobilmente sofferto ridiede l'onorabilità perduta nei troppi mutamenti di opinione e nelle teatrali vanità della vita.

Intanto la necessità della guerra stringeva il nuovo ministero Colli. Si era lasciato con incredibile negligenza esausto l'erario; quindi si bandiva la leva in massa degli emigranti lombardi senza osare di estenderla a quelli dei ducati, perchè, soggetti allo statuto, avrebbero dovuto sopportarla per legge, e la legge mancava: miserabile pedanteria di procedura costituzionale! Non si ardiva per sospetti di rivoluzione mobilitare la guardia nazionale: nessuna fortificazione difendeva ancora i passi del Ticino. Era e doveva essere la seconda fase della guerra regia. Le diplomazie tenevano il broncio; l'Italia invece vi era concorde di sentimento, ma senza quella eroica disperazione che avrebbe potuto fare il miracolo di una vittoria. La politica ambigua aveva isolato il Piemonte: principi e repubbliche diffidavano egualmente delle sue intenzioni e della sua capacità: Lorenzo Valerio, spedito a Firenze e a Roma per chiedere concorso d'armati e di danaro, vi ottenne festose accoglienze, ma scarsi aiuti; anche questi, tardi invocati, non poterono muoversi che troppo tardi, quando già la guerra era sciaguratamente perduta.

A generalissimo Carlo Alberto nominava il polacco Chrzanowski, ignoto ai soldati e all'Italia, più inetto degli inetti che doveva comandare. Così un soldato straniero doveva in questa seconda guerra regia vincere per l'Italia, mentre il popolo piemontese vi rimarrebbe tranquillo spettatore secondo il monito supremo di Carlo Alberto, e il resto del popolo d Italia era pregato di aiutare il re.

Quindi la guerra intimata dal Piemonte si accende alla frontiera. Schwarzenberg, ministro d'Austria, ne rigetta la responsabilità su Carlo Alberto, Radetzki con senile ed ammirabile iattanza grida al proprio esercito: - a Torino! - e, sguarnendo tutto il Lombardo-Veneto troppo paralizzato dal terrore per pensare a insorgere, si precipita all'offesa. L'esercito piemontese, disperso sopra una lunghissima linea da Parma a Novara coll'ostinato errore della campagna antecedente, presenta poca resistenza: Venezia tardi avvisata non può circuire il nemico, avvicinandosi ad un'ala sarda: a Roma il proclama di guerra giunge prima di colui che dovrebbe portarlo. Poi Lamarmora, occupando la Lunigiana senza avvertirne il governo toscano, è da questo trattato come nemico e con inconcepibile insania minacciato di una insurrezione a Genova: Carlo Alberto spintosi a cavallo oltre il Ticino, poichè nessuno risponde alla sua chiamata, deve retrocedere. Ma Radetzky la mattina dello stesso giorno (20 marzo 1849), nel quale spirava l'armistizio, passa il Gravellone lasciato indifeso da Ramorino con inesplicabile disobbedienza punita poi come tradimento, coglie i piemontesi a Mortara, li batte, e due giorni dopo li prostra a Novara. La guerra è finita: Chrzanowski vi si è mostrato ridicolo nella sconfitta, Carlo Alberto quasi magnanimo coll'abdicare sul campo la corona al figlio Vittorio Emanuele.

Questi, inaugurando così tragicamente il proprio regno, potè nullameno salvarlo ed assicurarsi l'avvenire col mantener fede allo statuto contro tutte le minacce del vecchio maresciallo: ma i patti imposti dal vincitore furono umilianti: occupazione di 20,000 soldati austriaci sul Po, la Sesia ed il Ticino durante l'armistizio; scioglimento dei corpi volontari, richiamo della flotta dall'Adriatico, ordine del nuovo re ai soldati piemontesi, che fossero in Venezia, di rimpatriare sotto pena d'essere esclusi da ogni capitolazione.

Era l'ignominia d'un ultimo tradimento imposto contro la grande città un'altra volta tradita.

E Vittorio Emanuele dovette consentirvi, sebbene la sua corona non corresse pericolo, come si disse più tardi per scusare il patto infame. Infatti per quanto grande la vittoria dell'Austria e misero lo stato del Piemonte e rovinante la condizione d'Italia, una conquista che portasse nella Savoia i confini dell'impero austriaco era assolutamente impossibile. La Francia sola sarebbe bastata ad arrestare l'Austria sulla via di Torino, mentre il Borbone ed il papa stesso avrebbero protestato per non perdere ogni loro ultima autonomia, e Russia, Prussia, Inghilterra si sarebbero tosto accordate alla difesa delle Alpi.

Questa ragionevole persuasione rafforzò lo sdegno dei liberali, che all'annunzio della rotta, dell'abdicazione e dall'armistizio, rovesciarono il ministero, farneticando di resistenza ad oltranza. Ma la guerra regia era fatalmente conchiusa. L'esasperazione delle fantasie offese in tutti gli atti da immaginari tradimenti, le proposte disperate, i rimpianti eroici, gli sfoghi irrefrenabili, non esprimevano più che l'ultima crisi d'un periodo esaurito nei fatti e rinnovantesi nelle coscienze. Così Genova insorta a guerra civile, assaltando il proprio arsenale e gridando un governo provvisorio di Liguria, per difendersi contro i piemontesi accorsi prontamente col generale Lamarmora ad assediarla; quindi costretta dopo inutili invocazioni ai volontari lombardi di subire le sevizie efferate dei vincitori, non è più che una tragedia medioevale nel gran dramma moderno, una demenza republicana di altri secoli nel prologo republicano, che Roma solamente ha potuto rendere ragionevole. Brescia, che resiste eroicamente alla selvaggia ferocia di Haynau accorso da Venezia a bloccarla, e vinta, non doma, muta la guerra in duelli per tutte le strade e per tutte le case, non è più che l'epilogo della rivoluzione lombarda cominciata colle Cinque Giornate, della quale salva l'onore compromesso dall'ultima inazione.

La formula monarchica nella rivoluzione federale del 1848 si è risolta nello Statuto riaffermato dal giovane re piemontese dopo la rotta di Novara.


Capitolo Quarto.

Schemi republicani

Firenze.

La rivoluzione federale, unanime nel sentimento dell'indipendenza nazionale e nell'istinto della libertà statutaria, doveva necessariamente, dopo tutte le prove fallite del principato, tentare un più alto esperimento colle republiche, rivelando la formula della rivoluzione avvenire. Ma se dei regni uno solo aveva resistito allo Statuto, mantenendolo sotto la doppia violenza d'una invasione militare e d'una democrazia eslege aiutata dagli equivoci della insurrezione nazionale, nessuna republica poteva affermarsi vitalmente nell'immenso tumulto di quella liquidazione del passato. Il principio democratico, brillando un istante sul Campidoglio nella più abbagliante purezza, quasi a diradare le tenebre di tutte le antitesi politiche, era anticipatamente costretto a vanire nella gloria d'un poema, nel quale il fatto politico rimarrebbe appena come una trama. Nè la storia, nè la civiltà italiana erano ancora tali da consentire intera la doppia rivelazione della democrazia e delle nazionalità.

Un esperimento republicano era nullameno necessario per dissipare le ultime illusioni della federazione, che nella republica cercava istintivamente la conciliazione dello stato antico colla democrazia moderna, e garantire l'originalità del principio democratico subdolamente assorbito negli statuti dal principato. Così Genova già fusa col Piemonte, mentre questo stava per fondersi coll'Italia dandole la propria unità costituzionale, non arriva che ad una inutile insurrezione, reazionaria nel patriottismo municipale, anarchica nel processo politico, tragica in quell'ora di sconfitta per tutta la nazione: Livorno, sollevandosi contro Firenze, riassume tutta l'impazienza della democrazia costretta dalla propria incapacità a diventare demagogia: Siena, insorta poco dopo per difendere il granduca traditore e fuggiasco, soddisfa per l'ultima volta l'antico rancore municipale, e quindi osteggia simultaneamente Firenze e la democrazia: Venezia inalbera la secolare bandiera di San Marco, poi l'abbassa per sostituire il vessillo italiano, finalmente la risolleva quasi per festeggiare con funebre pompa l'agonia della propria republica, e chiude per sempre l'epoca della federazione italiana come era uscita dai comuni e Lorenzo il Magnifico l'aveva gloriosamente disciplinata nella prima lega italica: Firenze, liberata dalla monarchia colla fuga del granduca, incerta fra le vanità dei vecchi ricordi republicani e le tendenze democratiche attuali, tergiversa colla tradizionale doppiezza procrastinando ogni decisione per un governo monarchico o republicano, toscano federale o romano e quindi unitario, finchè l'ora storica passa, e, sorpresa da una reazione municipale, ricade nel granducato. Roma sola, centro eterno d'Italia, sente che la prima affermazione dell'epoca nuova non può venire all'Italia che da essa, e s'affretta con inconscio crescendo ad abbattere il potere temporale dei papi e a proclamare la republica: così passato ed avvenire italiano si fondono per la terza volta nel suo avvenire politico.

In questa gamma Firenze è una penombra, Venezia un tramonto, Roma un'aurora: Firenze soccombe in un dubbio, Venezia in un sogno, Roma in una rivelazione. Ciò che Firenze risorta a breve agonia non ha osato, Venezia lo compie morendo; ciò che l'Italia insorta ha sentito, Roma lo attua in una republica effimera, ma profezia di maggiore republica. Venezia rappresenta l'Italia antica, Firenze l'Italia del momento, Roma l'Italia dell'avvenire: Venezia risuscita in Manin il suo ultimo doge guerriero. Firenze ripete in Guerrazzi il suo ultimo priore turbolento, Roma trova in Mazzini il suo ultimo apostolo.

Ma intanto che le republiche cadono, seppellendo il passato e squarciando il futuro, il Piemonte si assoda nella stessa bufera che lo squassa, e salva nella monarchia la forma della non lontana unità d'Italia.

Dopo i casi di Livorno, nei quali si era fin troppo chiarita la insufficienza del nuovo governo granducale e che avevano condotto al potere il Guerrazzi e il Montanelli, la posizione politica della Toscana rispetto alla rivoluzione italiana toccava il massimo della crisi. I costituzionali, esauritisi nelle rapide successioni ministeriali, che dall'energia dittatoria del Ridolfi erano discese all'onesta condiscendenza del Capponi, stavano come ritirati dall'agone: le loro tendenze aristocratiche, la loro stessa capacità parlamentare e sopratutto l'angusto patriottismo, che vedeva l'Italia solamente attraverso e molto dopo la Toscana, li rendeva inetti alle supreme manifestazioni di quello stesso moto politico. L'avvenimento del Guerrazzi, poeta cresciuto nell'ira di tutti i contrasti e mutato da ultimo in tribuno implacabilmente superbo d'opposizione, significava apertamente la sconfitta del partito moderato. Infatti il Montanelli, letterato elegiaco e politico insino allora neo-guelfo, che il ritorno dai campi cruenti di Curtatone, ove lo si era pianto per morto, circondava di un'aureola di eroismo, appena chiamato al governo di Livorno per rappattumarla con Firenze, vi proclamava di proprio capo una costituente italiana, più larga di quella del Gioberti, poichè riconosceva al popolo la facoltà di rassettare tutti gli stati secondo l'interesse generale. Era la prima affermazione toscana nella rivoluzione, che da oltre un anno affaticava l'Italia. Con essa Firenze sorpassava politicamente Torino; ma poco chiara nel concetto, incerta nel processo, proclamata piuttosto da un individuo che da una regione, questa costituente dell'ultim'ora non poteva discendere a realtà politica. La Toscana vi si annullava anticipatamente, sottomettendosi al verdetto di tutta Italia, ma conservando nell'animo l'egoismo della propria autonomia: il granduca vi si sentiva perduto, i moderati vi si riconoscevano condannati. Di rimpatto la demagogia inevitabile in quel sobbollimento di spiriti vi acquistava importanza: un'amnistia generale veniva proclamata, si parlava di guerra con più alta ciancia. Il granduca, chiuso scaltramente in se stesso, lasciava fare e faceva anzi quanto la nuova scena politica esigeva, non fidando più che in un prossimo intervento austriaco.

Appoggiato sulla piazza e da questa scosso a ogni minuto, il nuovo ministero si trovava nell'impossibilità di governare: oscuri demagoghi s'imponevano ai ministri; esausto il tesoro, nullo l'esercito, confusa l'opinione, sconvolti ordini e partiti. Guerrazzi s'irrigidiva con superba fibra di despota minacciando contro i nuovi disordini, ma la mancanza d'uno scopo politico dava alla sua energia l'odiosità d'una repressione a favore del granduca, mentre invece s'illanguidiva nell'illusione di conciliare le tradizioni autoritarie di casa Lorena colla rivoluzione in una politica ostile all'Austria e diffidente della rivoluzione. Montanelli scriveva al cospiratore La Cecilia: «Dio ci guardi da una republica romana». Guerrazzi denunciava le voglie conquistatrici del Piemonte alla vanità paesana, profetando la servitù di Toscana se quello crescesse di territorio nella guerra coll'Austria: Giuseppe Giusti atterrito dal disordine delle piazze riparava nel rimpianto del passato: solo il Niccolini, inconvertibilmente giacobino, si manteneva fedele alla rivoluzione, ma, chiuso nell'Accademia come in una carcere, per sdegno feroce della troppa commedia politica, ricusava d'uscirne e di ricevervi visitatori. Intanto si procedeva per la costituente, dichiarandola a suffragio universale: eleggibile qualunque italiano dai venticinque anni in su, elettore qualunque cittadino sopra il ventunesimo anno; unica pregiudiziale, si ottenesse prima la liberazione intera d'Italia. Il granduca aprendo la nuova Camera (10 gennaio 1849) permise al ministero di presentare in suo nome al parlamento il disegno di legge per la elezione dei rappresentanti toscani alla costituente italiana, ma poco dopo fuggiva a Siena, scusandosi colla scomunica papale lanciata contro coloro che di qualunque guisa favorissero la costituente. Il ministero si sconcertò; il popolo adunatosi in piazza della Signoria, come ai tempi migliori del medioevo, delegò pieni poteri ad un triumvirato composto di Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni. Senonchè, dichiarata la decadenza del granduca, bisognava o proclamare la repubblica, o fondersi con quella di Roma, o darsi al Piemonte: e i triumviri non osando alcuna decisione, si credettero abili col rimettere alla futura costituente il problema d'un governo per la Toscana. Intanto scoppiavano disordini; Siena gridava: viva il duca e morte alla costituente!; a San Frediano e ad Empoli i contadini eccitati dal clero si levavano minacciando; mentre il granduca, spaventato dal tumulto, malgrado i consigli di tutte le diplomazie e la fedeltà del generale Laugier, ancora alla testa delle truppe e ricusante di riconoscere il governo provvisorio, fuggiva a Gaeta. Allora Livorno proclama la republica, Guerrazzi tentenna, poi con teatrali apparati marcia contro il Laugier, che le truppe abbandonano. La confusione regna sovrana: al primo triumvirato ne succede un altro di difesa sempre col Guerrazzi alla testa; non si osa dapprima proclamare la Costituente italiana: Mazzini ottiene con una predica in piazza un voto popolare per la fusione della republica toscana con quella romana, ma all'indomani nessuno più se ne ricorda. Poi il governo rinfrancato decreta che nello stesso giorno si eleggano i rappresentanti per l'assemblea legislativa toscana e per la Costituente italiana da tenersi in Roma. Le difficoltà parlamentari delle due assemblee investite d'uguali poteri persuadono una correzione processuale, statuendo che l'assemblea toscana abbia facoltà per decidere se e con quali condizioni lo stato toscano debba unirsi a Roma, e per comporre coi deputati romani la Costituente dell'Italia centrale. Ogni deputato poteva essere investito dei due mandati.

Intanto il trambusto demagogico peggiorava. La reazione granducale aiutata dal clero, dai nobili, dai moderati, da tutti, minacciava apertamente: i democratici poco saldi nel sentimento e sprovvisti d'una qualunque idea politica, si lasciavano trasportare dalla tempesta; solo Guerrazzi si mostrava forte, ma piuttosto per alterigia di volontà che per coscienza. Le elezioni riuscirono scarse di numero: l'ultima rotta di Carlo Alberto a Novara tarpava le ali all'ultima speranza; l'Austria ingrossava già alle frontiere; l'assemblea atterrita ricusava di votare la fusione con Roma. Montanelli, tardi rinsavito, l'avrebbe voluta almeno per compiacenza di politico, primo nell'ardimento di proclamare la costituente; ma Guerrazzi invece resisteva per indomabile vanità di toscano e di letterato contro Mazzini: l'assemblea, preoccupata già di scagionarsi pel futuro, concesse a Guerrazzi autorità dittatoria e a Montanelli come compenso un'ambasceria per Parigi.

Poco dopo con 42 voti contro 24 si respingeva solennemente ogni disegno di unificazione con Roma, e Guerrazzi cadeva come un tirannuccio medioevale per una rissa scoppiata fra la sua guardia pretoriana di livornesi ed alcuni cittadini. Plebe ed aristocrazia, quella per ignava brutalità, questa per rancore di classe e forse per un'ultima illusione di salvare così lo statuto, s'accordarono a rovesciare il dittatore e a risollevare gli stemmi granducali: il municipio rimasto in potere dei moderati capitanò la reazione, coprendola coi nomi ancora venerati di Gino Capponi e di Bettino Ricasoli. Guerrazzi, che aveva già disertato la parte democratica, si umiliò troppo tardi, troppo vilmente e troppo indarno ai nuovi vincitori, dai quali fu gettato in carcere per salvarlo dal furore della canaglia; e forse in parte fu vero.

L'illustre scrittore, riuscito così meschino statista, e che, fanatico d'impero dittatorio e d'incredulità politica, aveva dato alla insulsa incertezza della Toscana nella grande crisi italica la pompa della propria eloquenza, credette scolparsi in una Apologia altrettanto veemente di passione che sottile di logica curialesca, ma riuscì invece alla dimostrazione di quanta infermità senile ed infantile dolorasse allora il pensiero nazionale.

Infatti non egli solo, quantunque rivoluzionario nell'ingegno e nel carattere, fallava il principio e il modo della rivoluzione, giacchè i suoi abili avversari parlamentari, richiamando con umile manifesto il granduca, nella doppia illusione di conservare così lo statuto e di preservare la patria da una invasione austriaca, furono crudelmente ingannati. Il granduca sospese a tempo indefinito la costituzione, dopo averla riconfermata nella risposta all'appello del municipio; e il generale tedesco D'Aspre, occupate Lucca e Pisa, domata nel sangue la resistenza di Livorno, entrò vittorioso a Firenze per restarvi a tutela della dinastia e a terrore dei patriotti sino al 1857.

La rivoluzione toscana era vinta senza aver combattuto, consunta senza traccia nel passato e senza speranza nell'avvenire: Firenze ridiventava una prefettura austriaca, bella di arte e di sventura, calmando nel rancore e nella paura della nuova reazione i propri dissensi politici.

Gino Capponi, il più nobile fra gl'illusi reazionari, che richiamato il granduca, si erano poi dimessi al ritorno degli austriaci, aveva trovato per tutti un motto sublime di eroismo, quando, cieco e menato a braccio per le vie di Firenze, incontrando a caso uno dei primi battaglioni tedeschi, esclamava piangendo: «Sia benedetto Dio, almeno non li veggo!»

La notte del giorno nel quale il popolo di Firenze, adunato in piazza della Signoria, dichiarando decaduto il granduca, eleggeva al governo provvisorio Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni, la Costituente romana decretava l'abolizione del papato temporale.

Proclamazione della republica.

Già al primo annunzio della Costituente le provincie romane si erano scosse vivamente. Gli ultimi entusiasmi provocati dall'elezione di Pio IX si mescevano ai nuovi, amalgamando idee ed impressioni nel popolo ancora troppo diverso e scarso di civiltà per ben comprendere il significato di un periodo rivoluzionario così complicato. Per tutta la squallida solitudine dell'Agro, per la Sabina, per l'alta Umbria, nelle Marche, lungo il litorale adriatico, all'infuori di qualche città, il popolo viveva ancora nella più supina ignoranza: tirannia di clero e di signori imprigionava la sua vita; non abitudini politiche, non intelligenza di governo che permettesse di sentirsi cittadini; spesso carattere robusto e fazioso, più spesso molle e servile; perduto nelle memorie ogni ricordo di guerra; tutti i paesi dislocati e rivali; la religione indiscussa ed indiscutibile come rito, incompresa ed incomprensibile come ideale; inerte il concetto di patria, confuso quello di nazione; poca la passione di lotta e la capacità di sacrificio. Il governo vi era ancora più spregiato che odiato; la rivoluzione più insubordinazione che ribellione; inetti e timidi gli aristocratici; i borghesi cupidi, intriganti e conservatori per tradizione, quantunque esaltati nella ciarla rivoluzionaria e più ancora nella fisima della conciliazione fra autonomie e nazionalità, papismo e libertà; il popolo bigotto col clero, prono coll'aristocrazia, chiassoso coi borghesi, fra se medesimo rissante, facile a brigantaggio nelle campagne e alle sètte nelle città, non uso all'armi e abborrente da ogni sacrificio di danaro.

Si era delirato per Pio IX e si delirò per la Costituente; ma se il delirio prima era in tutti, dopo fu di pochi, e peggiorò in soprusi e feste di sbracati danzanti intorno all'albero della libertà. Una minoranza nullameno vi brillava, divisa anch'essa in due campi: i moderati, incaponiti nel parlamentarismo papale, vedevano ancora nella nuova rivoluzione un sacrilegio e una anarchia; i rivoluzionari, cresciuti alla scuola di Mazzini nell'estasi superba della propria utopia, guardavano già alla terza Roma repubblicana alta sul mondo come la Roma dei Cesari e dei papi. Fra tutte le provincie pontificie le più generose di pensiero e di azione erano le Romagne: Bologna capitale vi faceva da focolare e Ravenna da fucina: nell'una si affinavano le idee, nell'altra le spade.

Nel primo bollore degli spiriti prodotto dalla guerra all'Austria, si era creduto all'espulsione dei tedeschi odiati come stranieri e come gendarmi del governo papale: poi l'allocuzione del 29 aprile, soffiando su tutte le speranze, ridestò più feroci i vecchi odii. I costituzionali decaddero, i rivoluzionari dianzi reietti ottennero favore, il lavorìo delle sètte si moltiplicò, mentre la demenza di un'idea intelligibile ed irresistibile aggirava tutte le teste, infiammando tutti i cuori.

Roma, Costituente, Republica diventarono il gran ternario di tutti i discorsi: non si aveva coscienza della situazione politica, non si analizzava, non si prevedeva: tornarono le feste pïane e le baldorie patriottiche fra urli di morte e private vendette. I costituzionali, abbandonati dal papa, non osavano più contrastare apertamente: una proposta di certo marchese Ranuzzi bolognese, perchè Bologna si staccasse da Roma per non seguirla nella ribellione al pontefice, non ebbe nè voti nè seguaci: l'opposizione dello Sterbini per mantenere alla rivoluzione un carattere municipalmente romano, mentre da ogni parte d'Italia già i rivoluzionari accorrevano in Roma, svanì. La Giunta suprema di governo, nominata dal Parlamento moribondo ad impedire la rivoluzione, dovette invece sciogliere i consigli e convocare la Costituente; le rinunzie di tutti i legati e prolegati nelle provincie, anzichè seminare diffidenze, crebbero il fermento; le scomuniche del papa si mutarono in sferzate, e i suoi appelli alle armi straniere in prove decisive di tradimento.

Parecchi ecclesiastici rapiti nell'onda rivoluzionaria ne temperavano il colore irreligioso, così che non vi fu reazione contro il clero: alcuni fra essi brillarono di santa poesia come Ugo Bassi; altri si mostrarono potentemente ciarlatani come Gavazzi; alcuni eroicamente semplici come don Giovanni Verità. L'inevitabile disordine del momento non ebbe quindi troppo dolorose conseguenze, malgrado l'insensatezza del governo che graziava un numero enorme di galeotti. Mentre il governo provvisorio con generosa prontezza accordava a Carlo Alberto in trattato segreto di occupare per le necessità della nuova guerra contro l'Austria le proprie provincie, impegnandosi per tutto il tempo dell'occupazione a vettovagliare le truppe, quantunque egli ricusasse ogni riconoscimento politico e seguitasse a trattare officiosamente col papa sino ad offrirgli di ricondurlo a Roma colle armi; mentre il Montanelli armeggiava con incredibile fantasticheria per ottenere che la Costituente romana votasse la presidenza del granduca Leopoldo, e Mamiani invece sognava quella di Carlo Alberto, e Manin a nome di Venezia scriveva lettere di condoglianza al papa, e il Castellani ambasciatore veneto a Roma osteggiava apertamente il governo provvisorio, tutti i circoli rivoluzionari si allearono stabilendo a Roma una congregazione centrale, che divenne naturalmente base e leva del nuovo governo, e fu il primo grande plebiscito unitario.

Ma in tanto fermento di animi ed inestricabili complicazioni di eventi politici, l'entusiasmo rivoluzionario non cresceva a vera passione. Bologna scongiurava il Latour generale degli svizzeri a non abbandonarla ubbidendo agli ordini del papa, che lo richiamava a Gaeta per unirlo senza dubbio all'esercito borbonico di invasione, e a forza di preghiere lo persuadeva: e ciò per timore del popolaccio sguinzagliatosi nella rilassatezza della polizia. Pareva trionfo conservare armata in città l'unica milizia francamente ostile: non si arruolavano volontari, non si mettevano chierici, clericali e moderati nell'impossibilità di tradire. L'accademia politica proseguiva, giacchè la proclamazione dell'imminente republica non doveva concludere che ad una affermazione ideale. La istituzione giacobina della Giunta di pubblica sicurezza con poteri discrezionali non era che una imitazione teatrale della grande rivoluzione francese, e non commise i terribili arbitrii necessari a tutte le vere rivoluzioni. Se le poche leggi promulgate illegalmente dal governo provvisorio sui fedecommessi, sulle procedure civili, sul macinato, e l'emissione di tre milioni di carta monetata, la pubblicazione della legge sui comuni già elaborata dal Mamiani, le note, i proclami, gli sforzi per accrescere la fede negli animi e la passione nei cuori sembravano accennare ad un vero governo rivoluzionario capace di cose maggiori, mentre la vittoria di Cavaignac per le vie di Parigi sui rivoluzionari e l'altra anche maggiore su Cavaignac di Luigi Bonaparte, eletto presidente della republica, toglievano l'ultima speranza di simpatie e di aiuti stranieri, nullameno le pratiche con Gaeta e col Gioberti per una impossibile conciliazione col papa, allorchè questi chiamava tutta Europa contro Roma, e tutta Europa si disponeva ad accorrere, rendevano il governo provvisorio troppo simile a tutti gli altri governi italiani. La fisima del papato non gli era ancora passata, la republica imminente non gli pareva ancora probabile.

Finalmente le elezioni indette dal governo furono fatte dai circoli con qualche rissa, molto spettacolo di baldorie e moltissime irregolarità: chierici e clericali vi si astennero, i costituzionali vi andarono sbandati, la vittoria restò naturalmente ai rivoluzionari. Così l'immenso loro significato politico nella storia del papato fu piuttosto espresso che compreso.

Il giorno 5 febbraio l'Assemblea Costituente si adunava nel palazzo della Cancelleria.

L'assemblea, scarsa di numero, arrivava appena a centoquaranta rappresentanti; più scarsa d'ingegni e di caratteri, ignorava la condotta del governo provvisorio, i maneggi diplomatici di Torino e di Gaeta, temeva dell'Europa, dubitava di se medesima, sentendosi spinta da una forza arcana ad una meta egualmente misteriosa. La propaganda mazziniana, per quanto avesse destato dal secolare letargo i migliori spiriti e soffiato sulle passioni della folla, non era bastata a schiarire nelle coscienze il troppo significato della parola republica. Le stesse teoriche di Mazzini, fatalmente amalgamate di religione e di politica, d'arte e di socialismo, imbrogliavano anche nelle menti più limpide la possibilità di una republica, alla quale classi dirette e dirigenti si riconoscevano del pari immature. Nullameno l'istinto storico urgeva. Dopo il suicidio del papato colla concessione dello statuto e l'abdicazione del papa colla fuga a Gaeta, e le stragi del Borbone, i tradimenti di Carlo Alberto, le inutili annessioni della Lombardia, le incertezze della Toscana e la disperata risoluzione di Venezia, Roma, eterno centro ideale d'Italia, inevitabile base di ogni nuovo stato italiano, doveva risolvere il problema del papato sorto con essa e con essa ancora torreggiante sulla storia, soverchiandolo colla dichiarazione di un principio più civilmente cattolico. Il papato era stato l'infrangibile unità e l'incomparabile organo del cattolicismo, regno sui regni, impero sugli imperi, fonte di tutti i diritti divini: la republica doveva essere la formula e la forma della democrazia moderna, proclamata a Roma e da Roma al mondo, più vasta di tutte le religioni, come supremazia del diritto umano sul diritto divino, colla sovranità pareggiata dell'individuo e del popolo, colla libertà del pensiero frenata solo dall'autorità del pensiero. Ma essa non poteva ancora rivelarsi che come verbo, e quella larva di governo necessaria alla sua proclamazione avrebbe necessariamente avuto tutte le evanescenti ed indefinibili mutabilità dei fantasmi. L'immenso fatto della terza Roma del popolo, secondo la bella frase di Mazzini, lascierebbe quindi indifferente la Urbe e le provincie, mentre l'Europa se ne accorgerebbe appena, anche combattendolo, e la republica romana, rovinando subitamente sulla più vasta rovina del papato, s'illuminerebbe dei colori dell'aurora ai lampi della parola di Mazzini e della spada di Garibaldi.

L'assemblea appena radunata dovette necessariamente affrontare il problema del proprio stato. La fuga del papa e la reazione europea le facevano intorno un vuoto spaventoso. Si sentiva da tutti che la causa della rivoluzione italiana era perduta, e che il papa sarebbe ritornato; nessun ordine o classe di popolo, acclamando la repubblica, la comprendeva; si diceva che la republica sarebbe morta, ma non si voleva morire con lei. Nullameno bisognava proclamarla: ogni accomodamento col papa si era già riconosciuto impossibile, poi un accomodamento avrebbe non risolto il problema, ma provato che problema non v'era; i sogni di un Carlo Alberto o di un Leopoldo re di Roma erano demenze fra le tante del tempo. Il papato non poteva essere sostituito da alcuna piccola monarchia: solo un'idea più grande di esso poteva cassarlo dalla storia per fare poi di Roma la futura capitale d'Italia.

L'Armellini, aprendo la seduta, recitò un discorso, nel quale le idee superavano fatalmente le parole: era un appello alla democrazia universale e una dichiarazione superba della nuova sovranità popolare; la goffaggine inevitabile della teatralità non scemava l'immenso valore del fatto. L'assemblea, cacciata da quel discorso mazziniano nel problema di scegliere un governo parve smarrirsi in insipide arringhe, mentre Garibaldi coll'infallibile intuizione degli eroi esclamava: «A che perder tempo? Ogni minuto di ritardo è un delitto; viva la republica!». Ma l'assemblea volle assoggettarne la grande proclamazione a tutte le pratiche parlamentari: i republicani vi si mostrarono inetti, i costituzionali sperduti. Mamiani tentò in un discorso pedantescamente classico di provare l'impossibilità della republica in quel nuovo furiare della reazione monarchica per tutta Europa e nell'impreparazione del popolo, per concludere poi ingenuamente col rimettere la soluzione del problema alla Costituente federativa italiana, cui la sconfitta della rivoluzione nazionale aveva già tolto ogni speranza di convocazione; l'Audinot, succeduto al Minghetti nel comando del gruppo bolognese, si credette abile cercando procrastinare ogni soluzione con un decreto che affermasse impossibili tutti i governi non subordinati alla sovranità popolare. Erano gli ultimi espedienti del costituzionalismo, l'inconscia estrema ipocrisia dei neo-guelfi contro la nuova democrazia republicana.

La battaglia si accalorò nella votazione: vinse la repubblica. Il decreto ne fu redatto dal Filopanti, delirante fantasia di scienziato e di politico, al quale il ridicolo di troppi libri stampati poi non toglierà questa unica incomparabile fortuna.

Articolo 1^o: Il papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello stato romano.

Articolo 2^o: Il pontefice romano avrà tutte le guarentigie necessarie per l'indipendenza nell'esercizio della sua spirituale potestà.

Articolo 3^o: La forma del governo sarà la democrazia pura e prenderà il nome glorioso della republica romana.

Articolo 4^o: La republica romana avrà col resto d'Italia le relazioni, che esige la nazionalità comune.

Il giorno dopo, la proclamazione si ripeteva con solenne teatralità in Campidoglio.

Questo decreto rivela il segreto politico della nuova republica. Invece di affermare superbamente la superiorità dello stato sulla chiesa col rimettere il cattolicismo nella posizione di tutte le altre religioni, essa offriva spontaneamente guarentigie al papa detronizzato, legittimando così le sue diffidenze e quelle di tutta Europa: invece di proclamare altamente l'unità e la libertà italiana, annunciava che avrebbe avuto col resto d'Italia le relazioni volute dalla nazionalità comune. La formula federale sopravviveva dunque nella republica romana, che come stato era un non senso e come governo una impossibilità. La sua condanna nella logica della storia derivava dal suo stesso decreto di fondazione, pel quale l'Italia in faccia a Roma non era che il resto della nazione, mentre la grandezza della sua affermazione sta ancora enorme sul papato abbattuto nella proclamata sovranità popolare.

Dopo questo decreto, la republica deve perire. La sua formula politica sottomessa all'idea federale, non è meno falsa di quella di Venezia e di Palermo, di Napoli e di Torino: una republica romana, mentre l'indipendenza e la libertà d'Italia soccombono sotto l'Austria e i principi tradiscono i propri statuti, diventa al tempo stesso un anacronismo e una impossibilità. La sua vita sarà quindi fulgida come un'ode e sanguinosa come una tragedia, breve e teatrale, superba di principii e guasta da espedienti.

Colla solita imitazione classica l'assemblea nomina tosto un primo triumvirato d'italiani, responsabile ed amovibile, Armellini, Montecchi e Saliceti; un avvocato, un cospiratore, un giurista: quest'ultimo il migliore. Al ministero rimane presidente monsignor Muzzarelli per aver votato l'abolizione del papato; Aurelio Saffi è nominato all'interno, Campello alla guerra, Sterbini ai lavori pubblici. Le provincie festeggiano con clamorose gazzarre l'avvento della republica; nell'assemblea qualcuno giacobinizzando vorrebbe denunciare al popolo i deputati che hanno votato contro la republica, ma il feroce appello vanisce nella rettorica e timida bonomia dei più; non si osa mandare commissari nelle provincie secondo l'esempio della grande Convenzione per sollevarle; appena appena le plebaglie si permettono qualche sconcezza e i giornali qualche diatriba. Il governo toscano impantanato nella propria politica autonoma promette e procrastina la fusione; Haynau, il più atroce fra gli sgherri austriaci, cogliendo il pretesto di un tumulto, occupa e taglieggia Ferrara. Nessun governo riconosce la nuova republica: Mamiani alla testa di un gruppo di costituzionali è uscito dimettendosi dall'assemblea, l'Audinot rimastovi capitano dei costituzionali intransigenti vi oppugna con abbastanza abilità parlamentare qualunque misura rivoluzionaria.

Si vota una legge di adesione alla republica, ma non si osa applicarla davvero, e primo l'Armellini domanda il permesso di usare indulgenza cogl'impiegati e coi militi, che si chiariscono ostili alla republica; si acclama l'incameramento dei beni ecclesiastici, si riconosce il debito nazionale, si studia qualche temperamento per le finanze. Queste, naturalmente oberate, presentano poca elasticità; abbonda la carta moneta, difetta il credito, manca ogni assetto razionale d'imposta; si emettono un milione e trecentomila scudi, dei quali novecentomila deve prestare la banca romana e quattrocentomila sussidiare il commercio. Inetti espedienti finanziari, che uscivano da più inette discussioni. Poi si ricorse ad un prestito forzoso di 1/5 sino a 2/3 sulle rendite annuali superiori ai duemila scudi netti, colpendo così i più ricchi; ma la forma del pagamento a rate in tanta urgenza di caso rese più che dubbi i pochi vantaggi di tale prestito. Malgrado l'effervescenza di alcuni circoli politici non si operava rivoluzionariamente: i giacobini romani si mostravano deboli di passioni e di idee: cicaleggio e non eloquenza, vapori non sangue al capo. L'aristocrazia aveva emigrato alla chetichella o stava nascosta negli ampi palagi; la borghesia, sperduta nel trambusto, non arrischiava di partecipare ad un potere, che la paura le faceva riconoscere effimero; il popolo non comprendeva la grandezza ideale del nuovo principio valutando fin troppo bene le impotenze del nuovo governo; la plebe usava del rilassamento poliziesco per prorompere ad assassinii senza carattere e a scenate senza forza. Quantunque la guerra fra il Piemonte e l'Austria stesse per ricominciare, e Venezia fosse già assediata, e occupata Ferrara, e il papa da Gaeta mestasse intrighi e lanciasse allocuzioni sopra allocuzioni per attirare su Roma una crociata nemica, il fervore rivoluzionario non cresceva. Il ministero della guerra, incredibilmente malconcio dalla tradizione prelatizia, non migliorava coi nuovi reggitori: finalmente poterono entrarvi il Calandrelli e il Mezzacapo, che raggranellarono un esercito povero di numero e di potenza. Nei quadri sommava ad oltre 30,000 uomini, ma in fatto ne superava di poco il terzo, e la maggior parte erano volontari: fra questi più agguerriti e già celebri i legionarii di Garibaldi.

Non si ardì fare appello all'insurrezione popolare e bandire la leva in massa, perchè l'indifferenza del popolo era pari alla bonarietà dell'assemblea.

Per ora tutto procedeva abbastanza regolarmente: gli assassinii, che funestavano alcune provincie, non erano certo nè più numerosi nè più efferati che nei tempi gregoriani: poi un conte Laderchi ad Imola e Felice Orsini ad Ancona li repressero con severa prontezza. I tribunali, fra quel rimpasto di vecchio e di nuovo, di abolizioni e d'istituzioni, funzionavano passabilmente, la polizia stessa, quantunque mal guidata, non si mostrava peggiore della pontificia.

Il carnevale fu al solito grottescamente lieto. Al bizantinismo vaticano era succeduto il bizantinismo rivoluzionario, al concistoro l'accademia; la Convenzione francese aveva potuto sconfiggere tutta l'Europa improvvisando un milione e mezzo di soldati, la republica romana per primo atto diplomatico pubblicava un manifesto a tutti i popoli per descrivere se stessa colle frasi dell'evangelio mazziniano, e non intendeva la risposta della Montagna francese che accennando ai propri pericoli le diceva come solo coll'energia rivoluzionaria si salvassero le rivoluzioni. Poi all'occupazione di Ferrara l'assemblea chiamava tutti i popoli della penisola in armi e protestava del proprio violato diritto presso tutti i governi come il papa, invece di lanciare l'esercito alla frontiera, e soccombere piuttosto in una disperata e gloriosa battaglia.

Ma Roma avendo regalato a Venezia per aiuto nell'assedio centomila scudi, credeva di aver fatto abbastanza per la guerra.

Di rimpatto il papa protestava da Gaeta contro ogni atto della repubblica. Fallito il forte ma erroneo divisamento del Gioberti di mettere il Piemonte alla testa della reazione italica per mantenerle almeno il carattere nazionale, riconducendo con armi italiane il granduca in Toscana e Pio IX a Roma, Austria e Francia si contendevano il sinistro onore e il problematico vantaggio di rimettere in soglio tutti i principi italiani col servirsi della questione religiosa come di una inconfutabile argomentazione. La cattolicità esigeva l'indipendenza del pontefice. A Gaeta era un andirivieni di diplomatici: il cardinale Antonelli, il più fino dei prelati politici e allora reggente il segretariato, si destreggiava abilmente fra Austria, Francia, Spagna, il Piemonte e il Borbone. Oramai la crociata era decisa. L'elezione di Luigi Bonaparte al seggio presidenziale della repubblica francese, gettava la Francia in seno alla reazione, preparando il secondo impero napoleonico come rimedio alle demenze repubblicane e socialiste. La spedizione contro Roma doveva essere il prologo: la republica romana precederebbe di poco quella francese nella tomba.

Quindi Mazzini, costretto a mostrarsi quasi di soppiatto a Milano durante tutta questa rivoluzione italiana, quantunque ne fosse il massimo inspiratore e lo spirito più conscio, venne a Roma. La sua grande ora era discesa sul quadrante della storia: a distanza di secoli, si ripresentava l'epoca di Cola da Rienzi. Goffredo Mameli, effimera ed ammirabile figura di poeta, cui la morte sotto le mura di Roma doveva fra poco troncare sulla bocca fiorente gl'inni e gli urli di guerra, lo chiamava con un telegramma sublime di concisione: «Roma republica, venite».

Mazzini traversò fra acclamazioni entusiastiche la Toscana ove ottenne indarno da un voto popolare la fusione con Roma. Ormai egli solo rappresentava la rivoluzione. Accolto solennemente a Roma e nominato deputato vi domina dalla prim'ora l'assemblea, ma nè il suo ingegno, nè la sua autorità, bastano a radunare l'impossibile costituente italiana o a fingerla con qualunque altro apparato. Al nuovo scoppio di guerra fra il Piemonte e l'Austria sostiene con magnanimo senno il Valerio, legato piemontese a Roma, e associa la republica a Carlo Alberto, che aveva sdegnato fino allora di riconoscerla; ma poi la lentezza degli apparecchi militari annulla decisione e concorso. La guerra piemontese iniziata e compiuta quasi nel medesimo istante dal meno onorevole dei disastri provoca l'inutile insurrezione di Genova e la disperata resistenza di Brescia, lasciando sole nel gran finale Roma e Venezia.

Mazzini, eletto nel nuovo triumvirato con Aurelio Saffi ed Armellini, fra una mediocrità letteraria e una inezia giuridica, grandeggia: egli solo è poeta nell'accademia dell'assemblea, che sta per perdere la voce ai primi fiati della tempesta, ma gli mancano colle tremende qualità del rivoluzionario le doti anche più difficili dello statista. Trascinato dalla generosa rettorica del proprio temperamento, si smarrisce in minimi ed inutili accenni socialistici; destina i locali del Santo Uffizio ad abitazione di famiglie povere, schizza una legge agraria per cedere in piccole enfiteusi alcuni beni ecclesiastici a misere popolazioni rustiche, abroga i voti perpetui religiosi, diminuisce al solito la tassa del sale, crea duecentocinquantunmila scudi di boni del tesoro dichiarando con pessimo espediente infruttiferi quelli creati dal governo pontificio, decreta un aumento di tassa del 25% su tutti coloro che nel termine di sette giorni non pagassero la prima rata del prestito forzoso. Ma l'ambiente superstizioso di Roma gli guasta sentimento poetico e senno politico al punto di fargli costringere i canonici di S. Pietro a solennizzare la Pasqua e a benedire col SS. Sacramento il popolo dalla loggia consueta del papa. Miserabile parodia, che parve profanazione religiosa, ed era invece degradazione filosofica! Intanto Francia e Napoli hanno già dichiarato l'intervento, e la republica non ha ancora stabilito la propria costituzione. Lo schema presentato all'assemblea (17 aprile 1849) dal deputato Agostini basta solo a rivelare quale fosse il sentimento rivoluzionario. Principii fondamentali della nuova costituzione erano la sovranità popolare, l'uguaglianza dei cittadini, il diritto di tutte le nazionalità e la religione cattolica come religione di stato. Poi un capitolo di catechismo chiariva i diritti e i doveri di tutti i cittadini: abolita la confisca e la pena di morte, inviolabili persone e proprietà, libera stampa e garantito il debito pubblico; il potere legislativo nell'assemblea, l'esecutivo in una magistratura consolare; un tribunato a garanzia delle leggi fondamentali della republica, due consoli biennali responsabili l'uno per l'altro; dodici tribuni quinquennali, deputati triennali ed assemblea indissolubile. Il popolo doveva eleggere a tutti questi uffici; ammessa la possibilità della dittatura per decreto dell'assemblea ma sotto la sorveglianza del tribunato permanente: i tribuni naturalmente inviolabili, anche per un anno dopo l'ufficio.

A confronto di quest'assurda miscela di pedanterie classiche, di inezie storiche e d'impossibilità governative, l'angusto ed aristocratico statuto del Piemonte diventa un capolavoro.

Ma l'assemblea non ebbe tempo di discuterla. La guerra urgeva. Fin dal principio della rivoluzione la Francia aveva accennato ad intervenirvi proclamando il principio della nazionalità e offrendosi a sostenerlo colla spada, ma sminuendolo poco dopo in combinazioni diplomatiche e in ricomposizioni arbitrarie di territori con simpatie ed antipatie egualmente ingiustificabili. Se la sua proclamazione di rispetto ad ogni nazionalità e del diritto in tutti i popoli a raggiungerla erano sincere, il movente della sua politica restava sempre l'antagonismo coll'Austria iniziato da Richelieu: l'Italia era un campo d'influenza da disputarsi fra Parigi e Vienna. Adolfo Thiers, storico e statista più importante che grande, sosteneva nell'assemblea l'impossibilità d'impegnare la Francia in una guerra coll'Austria a favore dell'Italia la quale, secondo una sua ingiuria rimasta poi celebre, era una nazione che non si batteva; Odilon Barrot, capitano nella sinistra repubblicana, spingeva invece ad una spedizione in Italia per sostenervi la democrazia e scemarvi così la preponderanza austriaca; Montalembert, supremo direttore dell'antica destra clericale, domandava con superba eloquenza che la Francia, primogenita della chiesa, non abbandonasse il papa. E al Montalembert facevano eco Donoso Cortes in Spagna e lord Lansdowne in Inghilterra.

Già Cavaignac, vincitore delle giornata di giugno a Parigi, aveva offerto al pontefice un corpo d'armata: Luigi Bonaparte, succedutogli alla presidenza, attuò risolutamente quel disegno, mascherandolo con abile ipocrisia.

Napoleone I nel rialzare il papato aveva ripetuto contro di esso le pretensioni di Carlomagno: mezzo secolo dopo il nipote doveva daccapo rifare l'impalcatura del secondo impero sulla base raddrizzata del papato. La logica delle idee e quella dei fatti ve lo costringevano con pari violenza.

Caduta della republica romana.

A Roma la grave minaccia non fu intesa che a mezzo.

Poichè la Francia parlava oscuramente di aiutare al tempo stesso il pontefice e la republica romana come mirando ad impedire gli eccessi dell'ultima vittoria austriaca sul Piemonte, l'illusione di un componimento indefinibile sviò il pensiero dei governanti incapaci di comprendere persino gli ultimi maneggi dei moderati, che guidati dal Mamiani e trattando simultaneamente con Parigi e con Gaeta avrebbero voluto abbattere la repubblica con una insurrezione di piazza per restaurare il loro governo costituzionale. Solo l'indifferenza delle popolazioni a tutti gli sforzi del clero, prodigante falsi miracoli e più falsi discorsi, impedì questa reazione interna.

All'infuori di Mazzini e di Garibaldi nessuno fra i governanti e i difensori di Roma sentiva la suprema ideale necessità della sua difesa: nella coscienza dei più Roma non era che una città conquistata contro il papa, l'ultimo episodio della rivoluzione e non molto più importante degli altri.

Mazzini avvampava di orgoglio in quest'ultima crisi italiana, ma troppo uso ad ammonire e ad ammaestrare, capitano indiscusso della propria parte e divenuto più grande ad ogni sconfitta, voleva essere tutto, provvedere a tutto, risolvere tutto. Il ricordo della fallita spedizione in Savoia e i propri vecchi opuscoli sulla guerra per bande gli persuadevano di possedere anche la scienza militare; quindi ricorreggeva i disegni a Cario Pisacane, da lui stesso nominato capo di stato maggiore, e contendeva a Giuseppe Garibaldi, il più ammirato condottiero del secolo, il comando supremo dell'esercito per cederlo al generale Rosselli, onesta mediocrità, che la gelosia col suo grande subalterno doveva indurre ai più deplorevoli errori.

Quasi contemporaneamente Roma era presa fra quattro fuochi: i napoletani s'avanzavano dal sud, i tedeschi calavano dal nord, i francesi sbarcavano a Civitavecchia, gli spagnoli, ultimi ed inutili come una comparsa in una tragedia, discendevano a Fiumicino.

Crociata ed invasione parevano fondersi nella medesima impresa: invece il papa non si moveva da Gaeta nemmeno a benedire le armi per lui brandite, il clero non osava guidare la rivolta in nome della religione, le campagne si mantenevano inerti, le città indifferenti, l'Europa guardava distratta, Roma aspettava il proprio assedio. I pochi volontari, disposti a morire per difenderla, colla coscienza di morire indarno, si sarebbero detti stranieri italiani che si apprestassero a combattere stranieri d'oltr'alpe e di oltre mare, poichè marchigiani, umbri, romagnoli non erano più affratellati con Roma dei liguri, dei veneti, dei piemontesi accorsi sotto le sue insegne.

Già il 24 aprile Latour d'Auvergne, legato francese, approdando a Civitavecchia aveva annunziato lo sbarco amichevole del generale Oudinot: Mannucci, preside del municipio, scorato all'annunzio, dimandava tempo a rispondere, l'altro insisteva; quando l'armata francese giunge come d'improvviso; la città atterrita urge la propria magistratura, che cede; l'assemblea romana avvertita dell'invasione protesta a stento. Civitavecchia è occupata dai francesi senza colpo ferire; il generale Oudinot pubblica un manifesto equivoco, nel quale negando di riconoscere l'anarchico governo della repubblica assicura di rispettare il diritto delle popolazioni a costituirsi qualunque altro governo, e di non essere venuto che a salvare l'indipendenza del pontefice alla cattolicità e l'Italia dalla reazione straniera. Il municipio, forse ancora più timido che ingenuo, gli risponde con lungo proclama effondendosi in dichiarazioni di fratellanza repubblicana, ma quegli fa sequestrare la risposta, occupa militarmente tutte le stamperie, dichiara la città in stato d'assedio, disarma il battaglione romano del Mellara, impedisce lo sbarco ai 600 bersaglieri guidati dal Manara, che a stento possono toccare Porto d'Anzio e solo perchè il ministro Montecchi sopraggiunto ha giurato al fedifrago alleato, che essi non entreranno in Roma prima del 5 maggio: finalmente confisca 4000 fucili comprati in Francia e pagati dalla republica romana.

Nullameno a Civitavecchia la bandiera romana seguita a sventolare vicino a quella francese.

L'impossibile equivoco prosegue. Il triumvirato s'appresta calorosamente alla difesa sebbene poco assecondato dalle popolazioni: si requisiscono i cavalli dei privati, si ordina la demolizione del viadotto fra Castel Sant'Angelo e il Vaticano, si nomina una commissione delle barricate: per ingraziosirsi col popolo gli si gettano provvedimenti agrari e promesse di migliorie inattuabili: poi, con magnanima cortesia, si dichiarano inviolabili tutti i francesi residenti in Roma affidando la loro incolumità all'onore del popolo. La guerra è inevitabile. Ma Roma non vuole che difendersi.

Quindi l'Oudinot, persuaso con gallica burbanza di prenderla a un primo assalto, muove contro di essa con appena 7000 uomini e 10 pezzi di cannone: il triumvirato cedendo bassamente alle superstizioni del volgo, ordina l'esposizione del SS. Sacramento per «implorare la salute di Roma e la vittoria del buon diritto», che Garibaldi alla testa di pochi battaglioni ottiene con splendida ed insperata prontezza (30 aprile).

I francesi sono respinti dappertutto: Roma trionfa, ma invece di proseguire nella vittoria incalzando il nemico e tentando di gettarlo in mare, come Garibaldi proponeva con magnifica audacia, s'abbandona all'ebbrezza di una cavalleresca cortesia rimandando liberi tutti i prigionieri e invitando il popolo a salutare d'applauso fraterno i vinti prodi della republica sorella. Intanto tutte le provincie sono invase, Bologna e Ferrara s'arrendono dopo breve resistenza ad un piccolo corpo di austriaci, che attraversano tutta l'Emilia, le Romagne, le Marche, fino sotto ad Ancona senza incontrare battaglia. Ancona si difende per 27 giorni con un presidio di 5000 soldati e 100 pezzi d artiglieria per capitolare anch'essa senza fortuna e senza gloria: gli spagnoli, discesi a Fiumicino, passano ad infestare l'Umbria come masnada di briganti; Ferdinando di Napoli col generale Winspeare accampa fra Velletri ed Albano con 16,000 uomini. Ma Garibaldi alla testa di appena 7000 soldati lo ributta da Palestrina, poco dopo lo sorprende a Velletri, lo sgomina, lo fuga lungo la via Appia, e lo avrebbe forse annientato se la gelosa incapacità del Rosselli generalissimo non lo impediva. Queste ultime rapide vittorie, dovute ad una prima tregua fra l'Oudinot e il triumvirato, infervorano inutilmente i pochi volontari: Garibaldi ammirabile d'intuizione guerresca e politica vorrebbe gettarsi su Napoli; gli Abruzzi parevano presso a prorompere, l'esercito nemico era demoralizzato, la Sicilia vinta non doma, re Ferdinando odiato ed inetto. Una insurrezione poteva, complicando la guerra, produrre inimmaginabili risultati, ma la rivoluzione concentrata e morente a Roma non sa nemmeno più concepirla. Mazzini fisso nell'illusione di un componimento colla Francia e diffidente dell'Oudinot, impone a Garibaldi di ripiegarsi su Roma.

L'eco della sconfitta toccata all'Oudinot il 30 aprile riscuote dalla torbida incertezza l'assemblea francese. L'insidia del governo le si schiarisce odiosamente alla coscienza, ma senza apprenderle l'energia d'impedirla. Il ministero, messo alle strette dai deputati più radicali, o ricusa rispondere, o imbroglia la risposta in una fraseologia altrettanto goffa e falsa. Invano Arago, Ledru-Rollin, Schoelcher con nobile insistenza parlano ancora a nome della democrazia francese, giacchè l'assemblea satura d'imperialismo napoleonico accorda i nuovi crediti per la spedizione romana, limitandosi a pregare il governo di richiamarla al primo scopo. E questo pure non era mai stato decentemente spiegato. Così il governo anzichè mutare proposito raddoppia di ambiguità diplomatica, manda a Roma Ferdinando di Lesseps, simpatica ed onesta figura di liberale divenuto poi celebre pel taglio degl'istmi di Suez e di Panama, con incerte intenzioni d'accordo, e scrive segretamente all'Oudinot di proseguire nella guerra.

Il Lesseps, forse non comprendendo bene il doppio giuoco della missione affidatagli, trattò cortese col triumvirato: Mazzini gli diede le più chiare ed eloquenti spiegazioni sul governo romano, ma soccombendo egli medesimo alla grandezza del proprio ufficio finì coll'accettare un compromesso che annullava ogni diritto d'Italia e ogni sovranità della republica romana. Le ignobili concessioni del papato alle potenze cattoliche si riproducevano collo stesso governo, che in nome del diritto nazionale e popolare aveva soppresso il papato; e Mazzini, ultimo e più superbo avversario del Vaticano, non ne comprendeva l'avvilente inutilità. Il compromesso diceva: «L'appoggio della Francia è assicurato alle popolazioni dello stato romano. Esse considerano l'esercito francese come un esercito amico che viene a concorrere alla difesa del suo territorio. L'esercito francese prenderà d'accordo col governo romano e senza intromettersi per nulla nell'amministrazione del paese gli alloggiamenti esteriori convenienti così alla difesa del paese come alla sanità delle truppe. Le comunicazioni saranno libere. La republica francese guarentisce contro qualunque invasione straniera i territori occupati dalle sue truppe. Resta convenuto che il presente compromesso dovrà essere sottoposto alla ratifica della republica francese. In qualunque caso gli effetti di esso non potranno cessare che quindici giorni dopo la notizia data ufficialmente della negata ratifica».

Peggior compromesso non era stato l'ultimo fra l'Austria e il papato per Ferrara.

Dopo le discussioni dell'assemblea francese e le risposte del ministero, il contegno dell'Oudinot, le allocuzioni di Gaeta, le invasioni spagnuole, austriache e napoletane, credere alla sincerità delle intenzioni francesi era follia, cedere con trattato all'occupazione straniera Civitavecchia era delitto di lesa nazione.

L'Oudinot dietro le proprie segrete istruzioni non volle riconoscere la convenzione, il Lesseps partì ingenuamente per Parigi a sollecitarne l'approvazione, e si vide sconfessato. Inutilmente all'assemblea voci generose si levarono ad accusare il governo di violata costituzione: più indarno il 13 giugno Ledru-Rollin con altri capitani di sinistra tentò sollevare il popolo di Parigi per rovesciare il disegno imperiale ormai troppo palese di Luigi Buonaparte, giacchè la sommossa fu presto soffocata nel sangue dal generale Changarnier, e l'immensa capitale dichiarata in stato d'assedio.

Ogni illusione per Roma, doveva quindi cessare.

Nullameno il governo francese proseguiva nelle inutili ipocrisie sostituendo il signor di Corcelles al signor di Lesseps per indurre il triumvirato ad un accordo, che cedesse Roma all'occupazione francese senza la pericolosa odiosità d'una conquista.

Le ostilità erano ricominciate, ma Roma nella tregua non aveva abbastanza pensato a munirsi; Garibaldi, ritornato vittorioso da Rocca d'Arce, in quel triste andazzo d'ogni cosa militare e politica chiese con ingenua sicurezza la dittatura: Mazzini ne inalberò, a tutti i retori dell'assemblea e del governo parve proposizione peggio che assurda.

L'Oudinot, denunziando l'armistizio, aveva promesso di non assalire che il 4 giugno; invece massacrò proditoriamente nella notte dal 2 al 3 gli avamposti romani: Monte Mario e Villa Pamphili furono occupati. I francesi sommavano quasi a 40,000 uomini, l'esercito romano non arrivava a 20,000. Erano quasi tutti volontari con colonnelli e generali improvvisati, che parvero e furono meravigliosi di valore. Era impossibile sostenere un assedio, resistere a molti assalti; nullameno i difensori sentirono che bisognava morire. Il 3 giugno al casino dei Quattroventi, occupato dai francesi per tradimento nella notte, si combattè la più lirica delle battaglie. Oudinot aveva addensato nelle prese posizioni i più intrepidi soldati d'Africa, Garibaldi scagliò sopra di loro i più invincibili dei propri eroi, e non potè vincere: vi furono assalti disperati, cariche deliranti di coraggio; Daverio, Dandolo, Mellara, Mameli, vi perirono; Masina bolognese, alla testa della propria cavalleria, più furioso di un uragano, penetrò nel vestibolo del palazzo e stramazzò col cavallo a mezzo la gradinata marmorea, dalla quale lo fulminavano i cannoni.

La giornata era perduta, ma le armi italiane avevano riconquistata la gloria degli antichi migliori tempi.

Intanto nella città l'effervescenza guerriera non cresceva. Si parlava di barricate e se ne costruivano ma la popolazione grossa di 160,000 uomini assisteva tra furiosa e avvilita alla battaglia. Il governo, invece di galvanizzarla con eccessi, non aveva fino allora badato che a mantenerle la calma dichiarando amici i francesi, predicando l'ordine nelle piazze e il rispetto a tutti i nemici della repubblica. Si fece persino un bando per restituire alle chiese pochi confessionali trascinati nelle strade a farvi barricate: non si era voluto odio civile, e mancò l'odio allo straniero, si era stati magnanimi, e si rimase deboli. I sacerdoti Gavazzi e Dall'Ongaro, che incitavano alla difesa della republica santa, nel popolo scettico di Roma facevano poco frutto, la plebe bastonava qualche gesuita, vociava, sequestrava per le barricate qualche carrozza signorile, senza passione per la improvvisata ed inintelligibile republica, senza avversione per i francesi stranieri come tutti gli altri stranieri che Roma aveva ospitato e cui aveva soggiaciuto. Un Zambianchi, volgare e truce assassino, aveva scorrazzato per qualche provincia arrestandovi alcuni sospetti di reazione, quindi chiusili nelle catacombe di S. Calisto li uccideva sommariamente: ma questo anzichè guerra civile era costume brigantesco. Lo scoramento cominciava anche nelle truppe vedovate dei migliori ufficiali: gli antichi papalini già ricalcitravano agli ordini; i comandanti pontifici passati ai servizi della republica e persuasi dell'inutilità di ogni resistenza non si preoccupavano più che di conservare con nuovo tradimento il grado ottenuto: gli stessi volontari più eroici si irritavano della indifferenza di un popolo che applaudiva alla loro morte come ad uno spettacolo.

L'assemblea sollevata da un irresistibile soffio di poesia aveva dichiarato la resistenza ad oltranza, poi non avendone preparati i mezzi e non volendone in fondo gli eccessi, si affrettava a compiere la propria costituzione: cura che parve epica in quel momento e non era se non l'irresistibile istinto storico di quella republica destinata a non essere che un verbo.

Il giorno 12 i lavori di assedio erano già terminati: al 21 la breccia squarciava le mura; solo il Vascello, immenso caseggiato, resisteva all'aperto colla legione del maggiore Medici che vi si mantenne prodigiosamente, e potè nullameno riparare a notte entro la città. Il 30 giugno i francesi penetrarono per le breccie; ultimi eroi caddero loro contrastando Emilio Morosini e Luciano Manara.

Roma era vinta.

La guerra alle barricate per le strade, che Mazzini in un sogno d'eroismo aveva fatto preparare, si chiariva impossibile in quell'atteggiamento spassionato del popolo, molto più che i francesi, contenti di occupare le alture, accennavano a bombardare la città o a ridurla, strema come era di vettovaglie, ad arrendersi. Non restavano che tre partiti: capitolare, resistere sino all'estremo e seppellirsi sotto le rovine, uscire da Roma trasportando seco il governo. Mazzini propendeva per quest'ultimo; Garibaldi lo appoggiava citando l'esempio della republica di Rio Grande: Avezzana ministro della guerra, reduce da Ancona, ove Mazzini lo aveva gelosamente inutilizzato, ed altri capi s'incaponivano alla difesa. L'assemblea, convocata in comitato segreto, scartò il disperato disegno di Mazzini e di Garibaldi per seguire quello di Enrico Cernuschi, che proponeva la resa. Il triumvirato piuttosto che trattarla col fratricida governo francese si dimise nobilmente dicendone le ragioni al popolo in un manifesto sfolgorante di fede e di poesia. A nuovi triumviri furono eletti il Saliceti, il Calandrelli e il Mariani per patteggiare coll'Oudinot. Questi spinse la burbanza oltre l'esosità imponendo condizioni così enormi, che lo stesso generale Vaillant sdegnato esclamò non dovere i francesi concedere a Roma meno di quanto gli austriaci avevano concesso a Bologna e ad Ancona. Gli oratori del municipio ricusarono i patti preferendo il pericolo di una resa incondizionata al disastro di una capitolazione senza onore, e l'assemblea dichiarò municipio e triumvirato benemeriti della patria. Decretò ancora sussidi alle famiglie povere dei cittadini morti combattendo; poi con magnanima teatralità promulgò dal Campidoglio la propria costituzione (3 luglio) mentre i francesi irrompevano trionfanti per le strade.

La republica romana era morta, ma il ritorno del papato a Roma non sarebbe più che una processione di funerale.

Allora tutti i rivoluzionari si sbandarono: vi furono proteste, urli feroci contro gl'invasori, un ultimo sogno di rivolta, quindi l'esodo cominciato dietro Mazzini parve ricominciare miracolosamente la guerra nella ritirata degli ultimi soldati con Garibaldi.

Roma era caduta sotto il governo militare: stato d'assedio e legge marziale. Nel dì anniversario della presa della Bastiglia, Oudinot annunziava al mondo la restaurazione in Roma del potere temporale dei papi. L'assemblea francese ne tenne una seduta memorabile, nella quale republica e papato si riavventarono l'una sull'altro: il napoleonismo oramai presso a trarsi la maschera fu cinico e spavaldo; Montalembert agitò la propria eloquenza come una fiaccola morente sul papato non illuminando più che un cadavere, mentre Victor Hugo, il maggior poeta della Francia e il miglior poeta del secolo, parlò per Roma e per la republica risollevandole, coll'infallibile fede del genio, alle vittorie di un indomani immortale.

Mazzini esule empieva già il mondo di proteste, Venezia resisteva tuttavia, Giuseppe Garibaldi ritentando il prodigio di Senofonte errava ancora armato sull'Appennino.

Giuseppe Garibaldi.

Egli solo della vasta rivoluzione federale restava all'Italia perchè solo non s'era impicciolito in nessuna delle sue contraddizioni politiche. La sua vita, che doveva riassumere in più lungo corso quella d'Italia creandone l'unità politica, pareva allora avvolta nella leggenda; un inesplicabile entusiasmo precedeva e seguiva i suoi passi: il suo valore non più grande di quello di tanti eroi morti nell'insurrezione suscitava speranze e fedi indefinibili, mentre la sua vita d'avventure sull'oceano e oltre l'oceano lo rendeva più italiano di quanti l'avevano intrepidamente passata nei rischi delle permanenti congiure. Mazzini più eccelso illuminava ma abbacinando, e coloro che non sopportavano la sua luce chiudevano gli occhi accusandolo di fuorviarli dalla grande strada della storia italiana; Garibaldi, vivente personificazione del sistema mazziniano, ne attenuava gli eccessi e ne velava le incandescenti chiarezze pur illuminandone le ombre: era l'istinto più infallibile del genio, il buon senso più sicuro della scienza, il cuore più vasto dell'intelletto. Tutto il popolo guardava a lui, viveva in lui.

Nullameno la sua vita non aveva ancora tali grandezze storiche da giustificare questo inesplicabile accordo di tutta una nazione con un individuo. Si sapeva che egli era nato a Nizza (1807) da una famiglia di marinai verso il fondo del porto Olimpio, e che, ricevuta la più mediocre delle educazioni, cedendo alla vocazione del mare come tanti suoi compatriotti, s'era fatto marinaio. La sua prima nave si chiamava Costanza: aveva corso il Mediterraneo, approdato nel mar Nero, poi visitato Roma. Giovane, poeta, eroe, egli non vi aveva veduto nè le tracce dei Cesari nè quelle dei papi, ma un'altra Roma lontana nell'avvenire, nuovamente regina d'Italia, ancora capitale del mondo. Mentre ferveva la grande poesia del romanticismo, ricostruendo e lamentando il passato, egli inconsciamente profetico si appuntava nell'avvenire: la sua non era visione o sogno, ma presentimento e giuramento. Annibale fanciullo aveva potuto giurare indarno la distruzione di Roma, Garibaldi giovanetto ne giurò a se medesimo la redenzione. Quindi viaggiò ancora facendo il precettore di ragazzi a Costantinopoli, tendendo febbrilmente l'orecchio ai confusi rumori della insurrezione greca, raccolto in se medesimo come aspettando la chiamata del destino. Un incontro con un ligure in una bettola a Taganrog, decise della sua vita: gli fu rivelata la Giovane Italia, scoperti segreti e propositi di rivoluzioni contro tutti gli stranieri e i tiranni d'Italia. Egli stesso con lirica ingenuità paragonò l'entusiasmo cagionatogli da tali rivelazioni a quello di Cristoforo Colombo nello scoprire le prime prode d'America. Garibaldi e Mazzini, sconosciuti l'uno all'altro, s'incontrarono nella stessa idea di libertà: oramai la fortuna d'Italia diventava sicura attraverso gli innumerevoli e ancora ignoti frangenti.

Tornato in patria, Garibaldi si getta impetuosamente nelle cospirazioni. Al primo incontro in Marsiglia con Mazzini, che già preparava l'infelice spedizione di Savoia, con occhio sicuro glie ne indica tosto il difetto capitale: era meglio cominciare da Genova più frequente di liberali, più forte di plebe, calda ancora di odio municipale al Piemonte. Era il primo dissidio fra i due eroi del pensiero e dell'azione, d'ora innanzi sempre divisi nel metodo e congiunti nello scopo, egualmente sicuri l'uno nella idea rivoluzionaria che oltrepassando la rivoluzione italiana la violava e talvolta l'impediva, l'altro nell'istinto di guerra e di rivolta che non gli farebbe perdere una sola occasione di battaglia, e gli assicurerebbe la vittoria anche quando la sconfitta fosse momentaneamente inevitabile. L'impresa della Savoia fallì. Garibaldi, inteso ad aiutarla da Genova con una formidabile insurrezione per prendere l'odiata monarchia di Carlo Alberto fra due fuochi, potè a stento salvarsi in Francia perseguitato da una condanna a morte, perchè a meglio secondare l'insurrezione si era messo volontario subalterno nella marina regia, e ne aveva subornato parecchi soldati.

Tale terribile disastro era allora così comune che pochi vi badarono, primi fra essi i medesimi cospiratori.

Ma Garibaldi non poteva logorare la propria vita nelle congiure; dimenticò la condanna a morte, valicò l'oceano e andò ad arruolarsi volontario sotto le insegne della repubblica di Rio Grande, allora in guerra col Brasile. Colà crebbe avventuriero, corsaro, ammiraglio, generale in una vita di battaglie, di assedi, di naufragi, d'incendi, senza paghe, quasi senz'armi, improvvisando navi e legioni, ricostruendo sempre all'indomani le opere distrutte da un nemico troppo forte, fidando sempre nella vittoria e strappandola con prodigi di genio e di valore. Il giovane avventuriero non somigliava a nessuno dei tanti che ingombrano ancora l'America, o cresciuti nel suo vergine suolo dalla mistura delle razze di tutto il mondo, o gettati dalle tempeste d'Europa sulle sue spiaggie lontane ad accelerarvi la storia coi ricordi e colle passioni del vecchio mondo.

Un'indomabile convinzione repubblicana lo sottometteva ai servigi delle republiche di Rio Grande e di Montevideo contro l'esosa tirannide di Rosas: una poesia inesauribile gli dava la fede degli antichi neofiti cristiani purificandogli l'anima negli spettacoli di una natura, sulla quale il quadro della storia non aveva ancora potuto imprimersi. Ma lontano, fra gli splendori e i pericoli di una gloria, che valicando presto l'oceano echeggiava in tutto il mondo, egli non pensava che all'Italia e ne difendeva l'idea nelle republiche americane e nelle loro ancor giovani tumultuanti democrazie. Questo guerriero di ventura non aveva alcuno dei caratteri comuni ai venturieri: irresistibilmente impetuoso ed assurdamente intrepido, detestava le passioni sanguinarie della guerra e tutte quelle efferate virtù dell'odio, che ne accompagnano le vicende e ne assicurano le vittorie: nessuna avidità di guadagno o di nomea deturpava il suo volontariato soldatesco; adorava la libertà, e combatteva contro i tiranni per distruggerli senza odiarli personalmente: non credeva che alla democrazia, ed era pronto a subire la volontà delle maggioranze anche se inclinata a servitù. I suoi compagni, esuli d'Italia o raminghi di tutto il mondo, lo seguivano ovunque, come cavalieri di un ciclo fatato o fanatici di una nuova religione: la varietà delle loro passioni generose o criminali s'unificava nel suo sentimento addensandosi paziente sotto il suo comando. Alcuni eroi sconosciuti come Rossetti ed Anzani, raddoppiavano con incomparabili virtù di guerra o di politica la sua opera; tutti gli altri gli morivano intorno, quasi nella soffocante fretta di un dramma, affidando al miracolo della sua incolumità il ricordo della loro gloria, e alla virtù della sua vita la redenzione del loro nome.

Un indescrivibile tumulto di eventi sembra agitare per quattordici anni Garibaldi nell'America quasi a prepararlo per la grande imminente impresa d'Italia. Libero, prigioniero, torturato, sempre povero, sempre improvvido di sè e votato corpo ed anima alle proprie gesta, subalterno malgrado le continue vittorie, apprende tutte le indefinibili virtù che gli saranno poi necessarie all'improvvisazione d'Italia. Politica e guerra lo gettano nei più difficili frangenti, abituandolo a tutti i rovesci, armandolo contro tutte le illusioni, temprandolo a tutti i disinganni, arricchendolo di una energia inesauribile e di una fede democratica, che nemmeno la sconoscenza parricida della patria potrà poi scrollare. I compagni, che gli si rinnovano incessantemente d'intorno, gli dànno l'ascendente fatale di un predestinato; la mobilità della sua condizione gli aggiunge la perfezione cosmopolita dell'uomo moderno.

Sulle sponde del grande Plata ogni estancia diventa per lui un arsenale, ove fabbrica barconi e garopere; da corsaro cresciuto tosto ad ammiraglio trionfa nella laguna di Santa Caterina e vi si innamora di Anita, che diventa poi la sua meravigliosa eroina, come l'Olandese del Vascello Fantasma s'innamora di Senta; con un espediente di storia antica carica due barconi sopra un traino e con duecento buoi li trascina per cinquantaquattro miglia dal lago Dos Patos al lago Taramandahy; frequenti e terribili naufragi lo forzano a minuti ed obliati eroismi; costretto da un ordine del generale Canabarro a saccheggiare il paese di Imiriu, la sua anima di cavaliere si rivolta così che volendo frenare gli eccessi delle proprie truppe ne rimarrebbe quasi vittima, se un irresistibile prestigio non lo proteggesse. Ma il nemico gli distrugge irrimediabilmente la piccola flottiglia, ed eccolo ancora capitano di terra a cavallo, con Anita al fianco, la spada in pugno, un neonato sulla sella.

Quindi le battaglie si avvincendano ancora; si traversano foreste per le quali bisogna aprirsi il varco colla scure, si compiono ritirate, si osano scorrerie che rinnovano tutti i prodigi delle antiche guerre barbariche. Poi la fortuna di Rio Grande declina, e Garibaldi passa alla difesa di Montevideo. Quindi mercante di buoi, sensale, maestro di matematica in un istituto privato, daccapo corsaro, ammiraglio, lotta coll'inglese Brown comandante la squadra di Buenos-Ayres e lo costringe all'ammirazione. Sciaguratamente la guerra civile fra i generali Ribera ed Ourives, aspiranti alla presidenza, complica nella piccola republica la guerra contro Rosas tiranno di Buenos-Ayres; come in Italia la lotta imperversa fra unitari e federali, ma in America come in Italia Garibaldi è unitario. Quindi perdute in mirabili combattimenti sui fiumi le ultime flottiglie improvvisate, comincia l'assedio di Montevideo che durerà quanto quello di Troia. Ourives al soldo di Rosas si avanza vittorioso, l'aristocrazia e la borghesia della grossa città allibiscono, solo il popolo insorge: si organizza la difesa, si rinnovano le flottiglie, si formano legioni straniere. Garibaldi ne stringe intorno a sè una d'Italiani, e malgrado difficoltà di ogni maniera doma caratteri, rianima gli spiriti, improvvisa nei propri soldati perfino il coraggio, li muta in falange d'eroi. Gli americani, che Garibaldi ammira come i primi soldati del mondo, lo ricambiano di pari ammirazione: i matreri, cavalieri banditi delle foreste, accorrono alle sue insegne; le sue vittorie spesseggiano, mentre a Montevideo l'insurrezione di partiti cittadini ne compromette il frutto. Un intervento diplomatico anglo-francese per la pace vi fallisce; il Salto, conquistato e mantenuto da Garibaldi con miracoli di valore, è nuovamente perduto dacchè egli è stato richiamato a Montevideo; oramai della republica non resta che la capitale stretta d'assedio, e Garibaldi colla legione italiana, che ne difende ancora le opere avanzate.

Ma sui primi del 1848 le notizie delle rivoluzioni italiane giungono sul Plata.

Con una sessantina di compagni Garibaldi, immemore dell'America, veleggia tosto per Genova: la sua preparazione è compita, l'opera sta per cominciare. Ma appena sbarcato in Italia gli equivoci della rivoluzione federale lo arrestano; Mazzini fremente della tregua da lui medesimo concessa all'impresa regia, così infelicemente condotta da Carlo Alberto, non vorrebbe che Garibaldi portasse al re l'aiuto dell'opera propria. Carlo Alberto, incapace di comprendere la magnanimità del grande condottiero, che aveva dimenticato persino la propria condanna a morte, diffida dell'antico ribelle, lo stanca nell'inazione, lo paralizza nella guerra. Il governo provvisorio di Milano, peggiore del re, gli lesina gli aiuti, gli raddoppia le difficoltà; finchè i disastri della guerra precipitano, e Carlo Alberto sconfitto si ripiega su Milano, della quale Garibaldi deve difendere a Bergamo gli approcci con un pugno di soldati. Poi Carlo Alberto fugge tradendo la città, l'impresa regia si sfascia, gli austriaci incalzano vittoriosi il re già sicuro oltre il Ticino. Milano s'arrende, il popolo disarmato e titubante ammutisce, i governi provvisori s'umiliano e sfumano, ma Garibaldi cacciatosi fra i monti resiste ancora agli austriaci, li batte alla Beccaccia di Luino, li ferma a Morazzone e ripara nella Svizzera.

L'Italia non si è ancora accorta del grande condottiero, che uno dei generali austriaci ha saputo indovinare.

Finalmente la rivoluzione di Roma rivela in Garibaldi il primo soldato d'Italia. Se la gelosia di Mazzini lo inceppa e la rivalità di Rosselli gli annulla la fortunata vittoria sul re di Napoli, che sarebbe rimasto prigioniero: se la republica romana deve fatalmente perire, perchè ammalata di tutti gli errori del federalismo contrasta col proprio fatto alla stessa unità d'Italia, che vorrebbe e dovrebbe proclamare e non può; quando la republica soccombe e Roma s'arrende, Garibaldi, solo nella fede dell'unità d'Italia che nessuno in quell'ora conserva (2 luglio), raduna le proprie truppe per uscire da porta S. Giovanni a nuova guerra. Il suo disegno è semplice: gettarsi all'Appennino, sollevarne le forti popolazioni, vincere le prime battaglie, onde tutte le città rinnovellino le proprie rivoluzioni, e circondando tutti i nemici sopraffarli, annientarli sotto l'impeto irresistibile della nazione. L'anabasi incomincia: tre eserciti lo cingono, lo perseguono. Garibaldi li cansa, scivola fra i loro vani, li delude: guadagna i monti, vi si perde sempre inseguito e sempre in salvo, moltiplicando stratagemmi ed eroismi, lasciando ad ogni tappa un ricordo ed una speranza. Il popolo non si muove: le campagne aizzate dal clero sono ostili, i villaggi diffidenti, le città chiudono le porte. Le diserzioni assottigliano la piccola truppa alla quale i villani del vescovo di Chiusi osano fare prigionieri: la miseria spinge i resti di quella falange a vessazioni, che sono rappresaglie e le provocano. Ma l'Italia, esaurita dallo sforzo infelice della rivoluzione federale, si è già ricoricata nell'antica servitù per ristorare le proprie forze. Garibaldi, giunto di monte in monte sino alla piccola repubblica di San Marino, vi discioglie il resto dell'esercito, non conservandone che un ultimo drappello per drizzarsi con esso su Venezia assediata. Senonchè, imbarcatosi su tredici bragozzi a Cesenatico, è sorpreso da un brigantino austriaco: egli solo scampa colla moglie incinta e un capitano. L'epopea si muta in romanzo; la ritirata è finita, il pellegrinaggio incomincia. Riparato nella pineta di Ravenna, Garibaldi vi perde Anita, che non può nemmeno seppellire e della quale i cani vaganti rosicchiarono a notte alta le ossa; ma protetto da oscuri popolani, dopo lunghi rigiri e continui pericoli è salvato a Modigliana da don Giovanni Verità, semplice ed eroica figura di prete, che riconcilia così la coscienza religiosa colla coscienza rivoluzionaria nella coscienza del popolo. Quindi traversa la Toscana incontrando ad ogni passo un salvatore, sfuggendo alla ricerca delle polizie, insino al deserto delle maremme, al golfo di Sterbino, donde salpa per la Liguria. Quivi il generale Lamarmora, commissario regio a Genova della quale ha domato l'insurrezione, lo incarcera; l'opposizione parlamentare ne tempesta, il ministro Pinelli dichiara che Garibaldi suddito piemontese avendo preso servizio senza autorizzazione sotto la repubblica romana ha perduti tutti i diritti di cittadinanza e non può più invocare il favore delle franchigie costituzionali; D'Azeglio presidente del ministero non se ne vergogna, la Camera vota contro il ministero e Camillo Cavour contro Garibaldi.

Così nel regno piemontese, il solo tuttavia che avesse tentato un'impresa italiana e conservato lo statuto, era poco vivo il senso dell'italianità.

Poi fu imposto a Garibaldi di scegliersi un luogo d'esilio: Garibaldi elesse Tunisi.

Ultima republica di Venezia.

Mentre il più grande degl'italiani riprendeva la via dell'esilio, Venezia capitolava.

L'infelice città tradita da Carlo Alberto si era indarno, con uno slancio d'entusiasmo, riconfermata republica per morire nell'orgoglio della propria autonomia.

Il suo governo, vittima fino dalla prim'ora dell'illusione di una lega italica presieduta dal pontefice, attendeva da Roma l'idea e da Torino le forze della rivoluzione, proclamandosi anticipatamente soggetta a quanto di Venezia avrebbe deciso l'impossibile Costituente italiana, ma intanto ricostituendosi nelle vecchie forme e nella separazione tradizionale. Poi alla fuga di Pio IX da Roma l'ambasciatore veneto disapprovava la rivoluzione romana sconsigliando poco dopo dal votare la republica. Manin come tutti gli altri governi italiani seguitava a trattare con Gaeta e con Roma chiedendo ancora dopo il patito tradimento aiuti ed accordi con Torino, stancando l'Italia di appelli patriottici, protestando e mendicando a tutte le cancellerie d'Europa.

La sua eloquente Memoria a lord Palmerston (21 agosto) in difesa di Venezia era tuttavia uno degli atti più onorevoli della diplomazia italiana.

Ma per Venezia il problema politico non aveva più altra soluzione che la difesa della città. Una suprema illusione di soccorso dalla Francia, mentre questa pareva mal disposta a sopportare l'assoluta preponderanza austriaca in Italia dopo l'armistizio di Salasco, durava tuttavia: Mengaldo e Tommaseo, legati veneti a Parigi, instavano eloquentemente e pareva, non senza frutto. Già si parlava di 3000 soldati francesi che dovevano imbarcarsi per Venezia, quando l'astuta diplomazia tedesca, fingendo d'accettare la mediazione franco-inglese per l'assetto d'Italia, otteneva si sospendesse ogni spedizione. Poi la mediazione fallì, le promesse d'una costituzione del Veneto in principato indipendente e federato con arciduca austriaco, dileguarono; il disastro di Novara e la proclamazione della republica romana precipitarono da ultimo gli eventi.

Venezia doveva rimanere sola a morire.

Intanto il suo governo dittatoriale col colonnello Cavedalis, l'ammiraglio Graziani e Manin, che li assorbiva ambedue in una suprema funzione di doge, si era abilmente affrettato ad apprestare i mezzi finanziari nelle crescenti necessità della politica e della guerra. Ma l'erario era di una povertà ridicola, poichè le rendite ordinarie non sommavano a più di 200,000 lire mensili; si aperse un prestito nazionale di 10 milioni, si diede corso legale a cinque milioni della banca veneta, si aumentarono le imposte sui tabacchi e sulla birra. I soccorsi chiesti all'Italia mancarono: la Toscana non mandò che 72,000 lire, qualche altra città 50,000, Roma votò 100,000 scudi, il Piemonte un dono mensile di 600,000 lire, e non le diede. Mentre tutta l'Italia suonava di arringhe e di canzoni per Venezia, le borse non s'aprivano; governi e popoli non si muovevano.

In Venezia, abbondante di generosi volontari, s'abbaruffavano in un'ultima demenza tutti i partiti politici. I poeti Revere e Dall'Ongaro veneti, Maestri lombardo, Mordini toscano, tempestavano perchè il governo si dichiarasse lombardo-veneto; Cesare Correnti, già mazziniano, quindi avversario di Mazzini nel governo provvisorio di Milano, poi ancora mazziniano nella catastrofe di questo, predicava ora pel Piemonte; si accusava Manin di non secondare la Costituente italiana, di aver sbagliati gli accordi diplomatici colle grandi potenze straniere, e di non affratellarsi colle ultime rivoluzioni di Toscana e di Roma, di tirannide interna e di nessuna coscienza rivoluzionaria. E infatti quella di Venezia non era che una insurrezione contro l'Austria: nessuna idea era ancora uscita e doveva uscire da quella, che chiamavasi allora rivoluzione veneta. Ma la popolarità di Manin resisteva a tutti gli attacchi, dei quali alcuni generosi e savi, la maggior parte indegni o dementi, provocandogli ovazioni dal popolo che gli permettevano di prendere contro sobillatori e demagoghi violente misure di polizia.

Intanto l'assemblea, aperta il 13 febbraio, lo nominava con 108 voti sopra 110 capo del potere esecutivo presidente, con ogni potere per la difesa interna ed esterna dello stato e con facoltà di prorogare l'assemblea pur di riconvocarla dopo 15 giorni.

Alla ripresa della guerra fra Austria e Piemonte le speranze avevano rifiorito: Pepe proponeva che l'esercito sardo diviso in due corpi proteggesse Alessandria e Padova per congiungersi nel Veneto, egli assalirebbe nemici alle spalle, ma l'ultima guerra piemontese iniziata e conchiusa quasi nel medesimo giorno col disastro di Novara, dissipò sogni e speranza. Venezia non era stata richiesta di concorso da Carlo Alberto nè tampoco avvisata della ripresa delle ostilità: Haynau, grondante del sangue di Brescia, si affrettò ad intimarle la resa. Venezia non aveva che 17,000 soldati, per la maggior parte volontari, 4000 tra marinai, cannonieri e fanti di mare con 11 navi da guerra e altra flottiglia più numerosa che importante, sopra una linea difensiva di settanta miglia divisa in tre circondari: il primo dalla città per Fusina, Marghera, Treporti con 17 forti sino a Sant'Erasmo, il secondo pel lido dalla punta di San Nicola ai murazzi di Palestrina con 13 forti, il terzo da Chioggia e Brondolo sino alla foce del Brenta con 6 forti.

Ma quantunque l'Austria vittoriosa a Novara e a Vienna si stringesse tutta su Venezia, alla spavalda intimazione dell'Haynau questa rispondeva votando (2 aprile 1840) unanime la resistenza ad oltranza, e coniava a memoria della forte deliberazione una medaglia in bronzo scrivendogli nell'esergo: - Ogni viltà convien che qui sia morta. -

Già fin dal 22 ottobre 1848 quattrocento cacciatori del Sile in una sortita avevano occupato Cavallino fugando gli austriaci ed impadronendosi di qualche comune: poco dopo il 26 ottobre Pepe aveva assalito e preso Mestre, ma ora la guerra era senza scampo. Invano i volontari, soldati improvvisati, sembrano moltiplicarsi con una attività ed un valore che sgomentano i più agguerriti reggimenti tedeschi: invano Marghera con 500 soldati di presidio ributta un assalto generale con tanta virtù da consigliare a Radetzky di riproporre patti di resa. Manin ricusa ogni negoziato che non riconosca a Venezia un'esistenza politica in accordo colla sua nazionalità e i suoi costumi. La costanza di Venezia provoca l'ostinazione degli assedianti, che costruiscono una seconda parallela: gli assediati per impedirla ricorrono indarno ad una inondazione artificiale. Un assalto più furioso obbliga al silenzio i forti Rizzardi e dei Cinque Archi; 151 bocche d'artiglieria fulminano la città. Marghera resiste ancora, finchè Manin stesso non ne ordina lo sgombro. La tragedia precipita. Una specie di dittatura militare composta di Ulloa, Sirtori e Baldisserotto si aggiunge alla dittatura politica di Manin, accrescendo gli attriti ma non impedendo nullameno l'accordo nella difesa. Questa costretta ora entro la linea delle lagune, esigerebbe la distruzione di tutto il famoso ponte, senonchè la vanità artistica e l'interesse commerciale lo salvano per la massima parte, affrettando la perdita della città, poichè gli austriaci vi si afforzano alla testa e il cannoneggiamento prosegue benchè senza grandi risultati d'ambo le parti per un mese. La flotta e la flottiglia poco giovano, meglio aiutano i pozzi artesiani supplendo al difetto dell'acqua; il blocco si restringe; un supremo tentativo di composizione con De Bruck, notissimo a Venezia come direttore della grande società triestina del Lloyd, abortisce. Con eroica pertinacia Venezia ricusa l'ultima offerta costituzione, perchè le cariche amministrative non vi erano tutte riserbate agl'italiani e i diritti fondamentali vi potevano essere aboliti in tempi di sommossa o di guerra, e la maggior parte della legislazione veniva riserbata al parlamento viennese, e a Venezia non si accordavano nè esercito nè flotta italiana. Ma se il rifiuto era magnanimo, le trattative erano assurde: Venezia non poteva a nessun patto fidarsi dell'Austria che avrebbe necessariamente mentito alla propria parola; peggio ancora una costituzione semi-autonoma avrebbe allentato tutti i rapporti coll'Italia per ristringere quelli coll'impero tedesco.

Ma ormai il tempo dei patti è passato: Radetzky intima la resa a discrezione. Le palle cadendo sulla città dalla distanza, allora non anco superata, di cinque chilometri, seminano la morte nell'inerme popolazione; si disertano le case di molti quartieri serenando nelle piazze e nei giardini; la fame urge, il mare è chiuso, scoppia il colera. Tutto crolla intorno a Venezia l'Italia soffocata dalla reazione interna ed esterna non manda più che qualche gemito, la repubblica francese agonizza sotto il tallone del secondo Bonaparte, la rivoluzione ungherese, dalla quale s'attendevano aiuti d'armi, è spirata nelle strette dinastiche di Vienna malgrado tutti gli sforzi di Kossuth. Il colera ha colpito diggià in un solo mese oltre 6000 persone, 3000 ne sono morte: i volontari sono molte volte decimati, manca il cibo, difettano le munizioni. Venezia ha superato Roma nella propria difesa, giacchè ha costato all'Austria 20,000 soldati, cioè più che le due campagne contro il Piemonte. Vinta e morente può quindi ripetere con giusto orgoglio il motto non vero di Francesco I: «Tutto è perduto tranne l'onore».

Ma alle prime parole di resa la plebe inferocita tumultua, si urla al tradimento: Manin minacciato ribaldamente deve dissipare colla spada alla mano i tumultanti, e Venezia si arrende. I patti erano: sottomissione della città, sfratto dei soldati stranieri, degli ufficiali già a servizio dell'Austria e dei cittadini a questa sospetti. La carta-moneta veniva ridotta a metà dei valore, nessuna multa di guerra. Il 22 agosto 1849 si firmò la capitolazione: l'indomani Manin, povero e glorioso, riparava con altri proscritti su navi francesi ed inglesi salpando per l'esilio; il 28 l'aquila bicipite si posava nuovamente minacciosa sui pili di San Marco; il 30 Radetzky entrava trionfalmente nella morta città, che dopo tanti strazi sentiva ancora il proprio patriarca invocare la benedizione del cielo sull'implacabile vincitore.

Rivoluzione e guerra erano finite: il federalismo italiano, vecchio di troppi secoli, vi aveva esaurito l'ultima vitalità.

Ma poichè dopo la rivoluzione francese del 1789 ogni altra rivoluzione europea doveva tendere alla costituzione dell'individualità nazionale, l'Italia liquidando così tutto il proprio passato federale non poteva essere più che nell'unità politica. A conquistarla però le abbisognavano una forte coscienza democratica per trionfare delle estreme ricostituzioni regie e papali e un forte nucleo politico per comporre un primo esercito contro lo straniero.

L'abolizione del papato e lo statuto piemontese, ecco quanto rimaneva come idea e come fatto della rivoluzione. D'ora innanzi sarebbe impossibile riparlare di egemonia papale e di lega di principi: tutti gli stati italiani ripiombati nella reazione si verrebbero fatalmente separando dalla vita nazionale; il romanismo inconciliabile colla libertà non sarebbe più che una forma cadaverica del cattolicismo. Le provincie romane, napoletane e siciliane avevano addimostrato il minimum di capacità rivoluzionaria e militare: Piemonte e Lombardo-Veneto il massimo. Il centro della futura rivoluzione sarebbe dunque al nord, come sempre nel bacino del Po; la sua formula dovrebbe quindi essere monarchico-democratica, la sua forma una conquista regia; ma poichè l'Italia non saprebbe almeno per lunghissimo tempo scrollare simultaneamente tutti i propri principi e l'Austria, imprevedibili coincidenze politiche europee dovrebbero aiutare quel re italiano abbastanza forte e moderno per disciplinare nella propria monarchia l'elemento democratico ed erigersi campione dell'indipendenza nazionale.

Per ora la gazzarra poliziesca delle ristorazioni mescendosi al trambusto avvilente delle recriminazioni, colle quali tutti i partiti vinti ed egualmente colpevoli si dilaniano, disonora per l'ultima volta l'Italia; ma Daniele Manin, esule a Parigi nell'immacolata povertà d'una vita troppo esercitata dalla fortuna, troverà fra poco la formula trionfatrice, e presso a morire la getterà da lungi all'Italia come una di quelle infallibili rivelazioni che la morte riserba talora ai più santi: - Italia e Vittorio Emanuele. -

Fra dieci anni Giuseppe Garibaldi, ora proscritto dal Piemonte, scriverà - Italia e Vittorio Emanuele - sulla propria bandiera, per trionfare dell'Austria, del Borbone, del papa e di Vittorio Emanuele stesso, costituendogli un regno d'Italia nell'unità, sempre indarno voluta da Mazzini, e nella libertà costituzionale, compatibile coll'ancora scarsa civiltà della nazione.


LIBRO SESTO

L'EGEMONIA PIEMONTESE




Capitolo Primo.

Le ristorazioni

Riscossa dell'opinione.

Poichè tutti i partiti avevano egualmente fallato, e nessun uomo, per quanto alto d'ingegno e di robusto carattere, aveva potuto resistere così alla tormenta delle combinazioni rivoluzionarie da mantenervi la logica di un sistema o la sincerità immutabile di un proposito, la violenza delle recriminazioni politiche era adesso senza pietà. Federalisti ed unitari, giacobini e neoguelfi, regi e repubblicani, insorti delle prime giornate e ribelli degli ultimi assedi, politici e politicanti, tribuni e di piazza e di parlamenti, si palleggiavano tremende reciproche accuse, delle quali la più comune, e quindi la meno grave, era quella di tradimento. Dai giornali la guerra saliva ai libri, scrosciava negli opuscoli, balenava in subite rivelazioni di documenti, serpeggiava nel popolo avvelenandone lo scoramento, penetrava nel segreto delle conventicole già strette per nuove cospirazioni, si effondeva in lamenti, che il pericolo delle feroci polizie rendeva ancora nobili.

L'Europa tutta piena di simili rivoluzioni, tutte egualmente vinte, ascoltava distratta.

Ma l'unità della sconfitta giovava quanto una vittoria. Veneti e siciliani, milanesi e romani, piemontesi e toscani, lombardi e napoletani, si affratellavano nel dolore d'una comune speranza perduta: accuse e critiche ribadivano la necessità dell'idea, per la quale tutti erano insorti, e ne approfondivano la verità sottomettendone il modo a nuove disamine. Le fratellanze di guerra, ben più efficaci che quelle delle congiure, saldavano relazioni dianzi corroborate da fugaci rapporti politici e diplomatici; lo scambio dei volontari fra le povincie insorte compensava già l'antagonismo dei parlamenti durante la rivoluzione; la coscienza dell'eroismo mostrato in cento fazioni si levava alteramente nella oppressione desolata di quella prima ora di schiavitù come a sfida di altre non lontane battaglie. Mai l'Italia aveva avuto tale rivoluzione; il suo passato federale vi si era annullato con tutta la millenaria varietà delle proprie forme sotto l'impulso della moderna idea democratica. L'unità usciva dalla sconfitta. Non una idea o una forma vitale restava al federalismo. Un inconciliabile dissidio separava ora popoli e principi: questi accodati all'Austria non ne erano più nemmeno i prefetti, giacchè i generali austriaci li umiliavano colle tracotanze e truppe austriache circondavano Le loro reggie italiane. Non più illusioni di dieta o speranze di riforme: alcuni statuti restavano come cadaveri insepolti dopo una battaglia. I principi avevano compreso che ogni concessione al popolo avrebbe in esso provocato lo scoppio di affermazioni antidinastiche; il popolo sapeva che i principi preferivano l'esistenza della propria casa alla vita d'Italia. Quindi la politica si divideva: quella dei governi, subordinata fatalmente all'Austria, diventava di resistenza, costringendosi all'impossibilità di un crescendo, oltre il quale s'intendeva il mareggiare sordo di un'altra rivoluzione; quella delle nazioni cresceva d'iniziative giovandosi d'ogni forza, profittando dei contraccolpi europei, opponendo il progresso del pensiero all'immobilità delle forme, l'elasticità dello spirito alle pressioni della materia, l'irresistibile espansione delle coscienze al propagarsi delle energie straniere in tutti gli argomenti della politica nazionale.

Attraverso la conflagrazione del nuovo assetto se ne sentiva oscuramente la provvisorietà. La stampa libera durante la rivoluzione aveva abituato alla libertà di parola degradandosi in tutti i suoi eccessi; costretta adesso alla musoliera acuiva nel silenzio la critica d'ogni atto governativo; l'esilio, il carcere, la morte prodigata ai migliori rivoluzionari, rinnovando i martirii, purificavano la religione della libertà e ne aumentavano i neofiti; la reazione dei governi rendeva stranieri e parricidi quanti vi prestavano mano. Quindi la modernità urgeva con inesauribile ed instancabile varietà di motivi le ristorazioni: telegrafi e ferrovie concesse prima fra gli applausi, poi mirabilmente propagatesi sviluppando commerci ed industrie, forzavano le barriere doganali interne con esigenze di nuove provvisioni economiche; le università riparate all'ombra della scienza salvavano molti professori dalle persecuzioni, educando scolari alle imminenti rivoluzioni; ogni miglioramento agricolo covava un germe di emancipazione, ogni congresso diventava assemblea, i teatri pronti a profittare d'ogni commedia più volgare applaudendo le reticenze o le allusioni si mutavano in comizi. L'odio all'Austria, non più compresso dal terrore di prima, giacchè soldati italiani improvvisati avevano potuto vincerla in campo aperto, diventava disprezzo per i governi nazionali, che alla prima sconfitta di quella sarebbero caduti: si pensava, si lavorava, si cospirava con nuova alacrità. Le comunicazioni e gli scambi stringevano relazioni fra provincia e provincia; ogni relazione si cangiava prestamente in vincolo politico. L'unità della disfatta patita dalla rivoluzione si ripeteva nell'unità delle persecuzioni inflitte ai migliori, nell'unità austriacante della politica di tutti i governi nazionali, nell'unità vincitrice dell'Austria rimasta sola nemica, nell'unità vinta del papato che nessuno più temeva e nel quale nessuno più sperava, nell'unità creatrice del Piemonte che incolume nella rovina universale, libero nella schiavitù di tutti, ancora armato fra gl'inermi, rivoluzionario e costituzionale, s'apriva come un asilo agli esuli e si muniva daccapo come campo per una probabile guerra.

Popoli e governi stavano fisi al Piemonte: l'Austria lo vegliava minacciosa, Francia lo proteggeva mal fida, la storia d'Italia lo fortificava ogni giorno, proseguendo nel lavoro di molti secoli, per agglomerare intorno ad esso tutta la nazione. Azioni e reazioni dovevano egualmente giovargli: la politica pazzamente antiliberale ed antinazionale degli altri governi faceva già del Piemonte la patria di tutti gl'italiani; Mazzini, lontano nell'esilio, agitava ancora la fiaccola dell'ideale repubblicano, Garibaldi, ramingante sui mari, sembrava attendere un segnale per tentare uno sbarco irresistibile, il conte di Cavour saliva al ministero piemontese per cogliere in Europa la prima occasione di rivincita.

L'impossibilità di governare non solo onestamente ma razionalmente aumentava ogni giorno per tutti i governi. Occasioni e pretesti d'opposizione formicolavano: la reazione forzata a diminuire di rigore per l'impossibilità di aumentarlo s'abbatteva in ostacoli insormontabili sorretti dall'inerzia dei cittadini, ed erano sdegnose ripulse di concorso in opere pubbliche, interpretazioni liberali date alle più restie circostanze, silenzi opprimenti di dispregio, invettive incriminabili per doppio senso. Il progresso europeo urgeva il progresso italiano. La resistenza dei governi appoggiantisi sull'Austria li precipitava in un pericolo d'annullamento pari a quello minacciato loro dal popolo, giacchè l'occupazione straniera esautorando la loro autorità dissanguava le finanze di ogni stato. Intanto la democrazia informava con miracolosa rapidità tutte le forme di vita moderna: mutati i criteri d'educazione domestica, riconosciuti falsi i metodi dell'antica pubblica economia; l'emancipazione letteraria favorendo quella religiosa abituava sempre più all'indipendenza assoluta dello spirito, nessuna tradizione regia od aristocratica resisteva nelle nuove abitudini, i vecchi poteri della chiesa e dello stato non avevano più altra forza che i gendarmi delle polizie e le milizie straniere.

Se non si vedeva ancora chiaramente qual metodo la libertà sceglierebbe per raggiungere l'unità della patria, e il mirabile spettacolo del Piemonte giganteggiante sulla prostrazione degli altri governi non affidava ancora interamente la nazione sulla possibilità d'una sua conquista regia che saldasse in un solo tutti i principati liberando l'Italia dallo straniero, mentre il mazzinianismo quasi galvanizzato dai disastri riaffermava superbamente le speranze di unità repubblicana, nullameno l'impossibilità di credere ai governi reazionari e la fatalità d'una qualunque soluzione al problema politico italiano bastavano a preparare gli spiriti ad un mutamento radicale di assetto, appena l'occasione se ne presentasse.

Luigi Bonaparte rinnovando in Francia l'impero napoleonico ne avrebbe facilmente suscitata qualcuna, la Germania avendo fallito come l'Italia la propria rivoluzione doveva ripetere il duello secolare fra l'Austria e la Prussia, l'espansione del mondo slavo nei Principati Danubiani complicata col problema turco bastava sola a produrre terribili ed inimmaginabili motivi di guerra.

Gli ultimi tiranni d'Italia infellonivano quindi sui propri sudditi collo spavento spasmodico di chi uccide per difendersi, e sa nullameno di non potere uccidere abbastanza per salvarsi.

Regno napoletano.

Soffocata per le vie di Napoli la rivoluzione nel sangue dei cittadini, domate le Calabrie, riconquistata con nefande crudeltà la Sicilia, re Ferdinando non osò ancora trarsi la maschera di re costituzionale ritirando la costituzione. L'elezione di Luigi Bonaparte alla presidenza della republica francese l'inanimì: il piccolo tiranno fiutava nel nuovo presidente il futuro grande despota. Così prorogò il parlamento. Poi rassicurato dalla caduta di Carlo Alberto e della republica romana lo sciolse per non più convocarlo, rinviando in Sicilia il truce Filangeri e mutando i ministri diventati da ultimo suoi complici. S'iniziarono processi: spie testimoniavano, giudici accusavano, si mirava sopratutto a disonorare gli accusati, si mutava la suprema corte di giustizia in corte speciale perchè le condanne fossero più spicce ed infami. Sessantacinque cittadini fra i più illustri, Zuppetta, Saliceti, Imbriani, Spaventa, Pisanelli, Poerio, Leopardi, Massari, furono denunciati da una inquisizione senza nome: Navarra, presidente della corte, ve ne aggiunse altri trentasette, fra i quali Scialoia e De Meis; pochi giunsero a salvarsi nell'esilio, la maggior parte vennero gettati nelle prigioni. Settembrini, Agresti, Faucitano furono condannati a morte, tratti in conforteria e graziati dopo due giorni; altri sette condannati più tardi a morte ebbero la pena commutata in quella dei ferri dagli otto ai trent'anni. Re Ferdinando non osando più le condanne di morte raffinava i supplizi. Tutti quegl'illustri furono mischiati nelle carceri immonde coi più immondi ribaldi, e vi durarono lunghi anni, laceri, affamati, incatenati, sublimi di dolore e di costanza. Guglielmo Gladstone celebre ministro inglese che li visitò nelle prigioni di Nisida e di Santo Stefano (1851), ne rimase così inorridito, che scrivendone a lord Aberdeen, in lettere rimaste poi celebri, definì il governo borbonico: «negazione di Dio».

Nella Sicilia la reazione fu anco peggiore. Incendi e massacri guastarono intere città: cinquecento liberali riempirono nei primi giorni le carceri dell'isola; il generale Filangeri sostituiva tribunali militari agli ordinari, giovandosi d'ogni fremito del paese per crescere il rigore delle repressioni; imprigionava, condannava a caso, per denunzia, per capriccio. Unico sollievo all'isola infelice fu la rivalità scoppiata fra il Filangeri ed il Cassisi nuovo governatore; ma anche questa di lieve durata, giacchè il richiamo del generale e la sua sostituzione col principe di Castelcicala lasciò al tristo proconsolo libertà d'inseverire.

Tutto lo stato languiva sebbene le finanze del governo fossero relativamente prospere: si compì qualche opera pubblica, s'unirono al mare i laghi di Lucrino e d'Averno, ma lo spirito del paese immiserì. L'esercito, rimasto ligio al re e adoperato come micidiale strumento di polizia, non crebbe a valore di disciplina e di coscienza; la costituzione non cassata rimase satira sanguinosa per coloro che l'avevano creduta, e scusa alle rimostranze dei gabinetti europei forzati dall'eco delle miserie napoletane ad uscire dalle solite riserve. Di governo, nel vero senso della parola, non era a dire: un sinistro brigantaggio dominava corte, polizia e magistratura; una parte della borghesia benchè priva dei propri capi seguitava a cospirare in silenzio, ma la distanza dalla grande valle del Po, centro del vero moto politico, la tradizione, l'indole e sopratutto la forza del governo non consentivano vera efficacia alle sue congiure. Fra le troppe incoerenze politiche d'allora si pensò a sostituire il principe Murat a Ferdinando di Borbone; corsero pratiche; Napoleone III mestava nell'intrigo, il ricordo del primo regno murattiano e la vanità di autonomia favorivano il disegno; Lisabe Ruffoni ed Aurelio Saliceti, già triumviro della republica romana, vi si mescolarono perdendo senno e reputazione, mentre lo stesso conte di Cavour nelle inestricabili ambagi della propria politica sembrava subire l'imperiale volontà francese, e i più illustri esuli napoletani protestavano fieramente dalle carceri contro questo insano baratto di padroni e di servi.

Quando il conte di Cavour dopo la gloriosa e fortunata guerra di Crimea sollevò la questione d'Italia al congresso di Parigi, i gabinetti francese ed inglese instarono presso re Ferdinando per ridurlo a qualche mitezza coi sudditi, sino a ritirare da Napoli i propri ambasciatori; ma questi sicuro di non essere militarmente assalito rimase sordo ad ogni rimostranza. Poco più tardi un vano tentativo d'insurrezione in Sicilia, guidato da un Francesco Bentivegna (1856), e un altro di regicidio arrischiato da Agesilao Milano, fanatico ammirabile di coraggio, finirono di persuadergli a non allentare i freni al popolo. Infatti nessuna concessione avrebbe potuto riconciliare questo col re. L'antitesi politica era insolubile: o il regno napoletano sorpassando il Piemonte nella politica nazionale avrebbe mirato alla conquista d'Italia, o contraddicendovi indietreggerebbe fatalmente nella reazione. Il dilemma storico si era troppo rasserrato per consentire ancora il vecchio gioco degli espedienti.

Re Ferdinando parve accorgersene, ma non reggendo più al peso della stessa sua reazione, consentì alla deportazione di molti fra i più illustri prigionieri, per chiudersi nel castello di Caserta incalzato da inconfessabili terrori. Napoli e tutto lo stato rimasero alla mercè della più ignobile delle polizie.

Stato pontificio.

E di polizia era il governo papale, piuttosto soffocato che sorretto dalla doppia occupazione francese ed austriaca.

Caduta la republica romana, mentre i più nobili rivoluzionari riprendevano in esodo più doloroso la via dell'esilio, il generale Oudinot assunse nella città la dittatura militare. I suoi primi decreti scioglievano governo, assemblea, guardia nazionale, circoli: intimato il disarmo a tutti i cittadini, soppressi i giornali, vietata ogni adunanza. Poichè l'odio popolare irritato dalla burbanza francese prorompeva a coltellate, furono prese le più severe misure, sostituendo i tribunali militari agli ordinari pei delitti politici. Roma pareva conquistata. Il papa sempre chiuso nella fortezza di Gaeta non affrettava il ritorno; poi da Portici diramò una enciclica, nella quale, calunniando bassamente gli uomini della republica, vantava con ingenua senilità la crociata cattolica, che lo rimetteva sul trono contro la volontà dei propri sudditi. Infatti 256 municipii, e fra questi i maggiori, avevano per un ultimo afflato rivoluzionario protestato contro la reintegrazione politica del papato. A riordinare lo stato, imitando inconsciamente la republica, fu delegato un triumvirato di cardinali, che il popolo dalla veste e dal sangue versato chiamò rosso: lo componevano i cardinali Della Genga, Vannicelli ed Altieri. Intanto nelle Provincie settentrionali i generali austriaci con irresistibile tracotanza s'erano impadroniti d'ogni potere e satrapeggiavano; delegati e prolegati pontifici strillavano indarno all'esautorazione; il cardinale segretario Antonelli, favorevole un tempo alle riforme piane, lasciava correre per castigare più acerbamente le ribelli popolazioni togliendo loro per sempre la voglia degli statuti. A Bologna il generale Gorzkowsky arrestò e multò di duemila scudi il senatore Zanolini ed altri diciotto consiglieri, perchè dopo aver protestato contro la violenza di siffatta ristorazione clericale chiedevano la conservazione dello statuto. E questa rappresentanza comunale, punita come rivoluzionaria dagli austriaci, era la stessa che poco prima aveva mandato a Gaeta una deputazione a pregare il pontefice di scegliere Bologna a nuova capitale. Ciceruacchio, suddito pontificio, era già stato fucilato dai tedeschi nel Polesine; Ugo Bassi, barnabita garibaldino, anima gentile di poeta e di tribuno, caduto a Comacchio in mano dei gendarmi papalini e consegnato da questi al comandante austriaco, venne fucilato a Bologna. Una reazione spaventosa desolava le Provincie: preti e tedeschi inseverivano, quelli per odio alle passate rivoluzioni, questi per necessità di conquista. Giammai l'autorità del pontefice sulle proprie terre era stata più oltraggiata.

Intanto il governo francese insisteva perchè il papa concedesse qualche libertà ai proprii popoli. Luigi Bonaparte, intento a prepararsi il trono d'imperatore ma costretto a nascondere il vero scopo della spedizione francese a Roma davanti agli assalti della sinistra parlamentare, alla testa della quale tuonava terribile la voce di Victor Hugo, mandava per nuova lustra diplomatica il colonnello Ney al generale Rostolan, succeduto all'Oudinot, perchè avvisasse ad impedire le trascendenze papali. I legati francesi alla conferenza di Gaeta dovevano intanto chiedere al papa amnistia generale, amministrazione laica, codice napoleonico e reggimento liberale.

Era la stessa impossibilità, per la quale Pellegrino Rossi era morto.

Naturalmente non ne fu nulla. Il papato, che lasciava trascendere gli austriaci nella repressione, inalberò ai consigli liberali di Francia, pei quali avrebbe dovuto ricominciare l'assurda prova delle riforme. Luigi Bonaparte, che a diventare imperatore aveva d'uopo sopratutto dell'appoggio dei clericali francesi, non osando guastarsi col papa finse di accontentarsi «delle istituzioni municipali, provinciali e governative, che nel vero interesse da cui Sua Santità è animata pel bene de' suoi sudditi» Pio IX era disposto ad accordare.

Un Motu proprio bandito da Portici (12 settembre 1849) le rivelò.

Erano un Consiglio di Stato consulente in materia di legislazione e di amministrazione, e una Consulta di finanza senz'altro ufficio che di dare pareri; si mantenevano i consigli provinciali, da cui il principe estraeva i consultori di finanza; si confermavano le rappresentanze comunali eleggibili da cittadini di un dato censo, e queste rappresentanze compilavano le liste per la scelta dei consiglieri provinciali; si promettevano riforme nell'ordinamento giudiziario e nella legislazione civile, criminale ed amministrativa da proporsi da una commissione all'uopo nominata; ultima veniva un'amnistia a tutti coloro «i quali dalle limitazioni, che verranno espresse, non rimangano esclusi da questo benefizio». Si ritornava così press'a poco ai tempi anteriori allo statuto. Il triumvirato rosso, incaricato delle limitazioni all'amnistia, ne escludeva tutti i membri del governo provvisorio e dell'assemblea costituente, del triumvirato e del governo della republica, i comandanti le milizie e coloro che compresi nella prima amnistia, avevano partecipato «agli ultimi rivolgimenti». Nullameno erano tolti agli amnistiati gli uffici governativi, provinciali e comunali. Nessuno dei colpevoli rimaneva quindi degno di perdono. Dopo i rivoluzionari dovettero esulare i moderati neo-guelfi, che più avevano osteggiato la republica: Mamiani, Galeotti, il padre Ventura ricalcarono le orme di Mazzini, di Garibaldi e di Saffi. Consigli di censura improvvisati per vagliare la classe degli stipendati così dello stato come delle provincie e dei comuni soffiarono il terrore persino nelle file dei servitori della reazione: la republica romana aveva rispettato il clero, la reazione papale gettò cinquanta preti nelle prigioni di Castel Sant'Angelo rei di liberalismo, e a Bologna e più tardi a Mantova si macchiò del loro sangue.

Per contraccolpo in quest'assenza di governo e giovandosi delle ostilità delle popolazioni alla polizia papale e alle truppe straniere pullularono bande di masnadieri nelle provincie: una di esse guidata da un tal Passatore potè impunemente assaltare villaggi e cittaduzze; l'anarchia crebbe poi; la legge stataria bandita dal maresciallo Thurn governatore civile e militare delle quattro legazioni, statuendo che il rapporto poliziesco dovesse servire di base ad ogni inquisizione pel delitto di ritenzione o porto d'armi, annullò qualunque procedura giudiziaria, mentre un proclama del generale Pfanzelter stabiliva unica pena al giudizio statario la morte e di morte puniva persino la ritenzione d'armi. Contro questi eccessi la corte papale volle indarno protestare; la violazione austriaca più violenta di ogni negazione rivoluzionaria, passò oltre. Lo stesso vescovo di Cesena si vide negato il diritto di tenere le armi nel proprio palazzo, poco prima saccheggiato da una banda di ladri; ai condannati a morte non si concedeva nemmeno il tempo necessario per le pratiche religiose.

Le esorbitanze austriache provocarono le francesi: il generale Baraguay d'Hilliers (11 febbraio 1850) ordinava la fucilazione immediata di chiunque fosse in Roma trovato armato di coltello o d'altra arma; non si riconoscevano più nè cittadini nè sudditi. Soldati stranieri imperavano uccidendo senza legge e senza misura: la crociata cattolica finiva alla peggiore delle invasioni. Finalmente il papa ritornò accolto freddamente malgrado tutti gli sforzi teatrali del clero e dell'aristocrazia, ma più che il rimpianto della republica il popolo significava così il proprio odio per la tirannide soldatesca di Francia. All'ombra di questa il governo pontificio si riattivò nell'antica maniera piuttosto rimescolata che riordinata dalle riforme piane: il cardinale Antonelli fu onnipotente, i prelati ripresero tutte le funzioni politiche, pochi laici, e questi pessimi, si aggiunsero loro. Si apersero come a Napoli processi politici, s'inventarono congiure per spaventare il papa, che le credette, mentre alcune erano tutt'altro che false. Si gettarono ladre accuse sui commissari di finanza della republica, si condannò nel capo Calandrelli triumviro dell'ultim'ora tentando infamarlo coll'accusa di furto e colla grazia, si ghigliottinò un preteso uccisore di Pellegrino Rossi dopo un'incredibile istruttoria, nella quale su prove segrete e testimonianze anonime si affermava la complicità di moltissimi uomini politici. Il ghigliottinato, certo Sante Costantini, lo fu «perciò che dalle deposizioni dei testimoni (anonimi) si raccogliesse che il sicario fosse per vari connotati a lui somigliante».

La viltà di questa reazione aiutava il latente lavoro delle sètte riordinate dal comitato nazionale di Londra. A Roma le dirigeva Giuseppe Petroni, oscuro avvocato che diciotto anni di carcere magnanimamente sofferti ricusando ogni grazia, resero poi illustre; senonchè l'opera settaria, ammirabile di sagacia e di costanza, non potè produrre risultati sotto la pressione della doppia occupazione tedesca e francese. Alcuni giovani delle Romagne insorti pei moti di Milano nel febbraio del 1853 finirono miseramente nelle carceri senza raggiungere nemmeno l'onore di uno scontro. L'isolamento prodotto intorno al governo pontificio divenne però tale da strappargli in una nota diplomatica alla cancelleria tedesca la confessione umiliante «che il governo di Sua Santità in un momento supremo si troverebbe in seno della sua stessa capitale abbandonato all'odio delle passioni, che cospiravano alla sua perdita».

Intanto che l'autorità politica del papato cadeva così basso, la sua monarchia spirituale cresceva. Al vasto e simultaneo atteggiarsi sovranamente della democrazia in Europa la più antica e profonda autorità religiosa rispondeva per la legge dei contrasti con un accentramento, che rinsaldando la fede nelle coscienze cattoliche permettesse di resistere alla nuova guerra universale indetta con miglior disciplina e maggior coerenza di programma contro la chiesa. Nella gerarchia ecclesiastica, un tempo così democratica e sviluppatasi poi monarchicamente, il papato con una ultima audacia stava per sopprimere la funzione legislativa dell'episcopato. L'occasione fu porta dal dogma dell'Immacolata Concezione, ultima ascensione della donna pareggiata nel cristianesimo all'uomo con questa immunità dal peccato originale in Maria. Pio IX dopo un'enciclica a tutti i vescovi per interrogarli sul nuovo dogma, lo definì alteramente di propria autorità: il pontefice assorbiva così il Concilio; tale proclamazione sovrana di un dogma conduceva all'altro dell'infallibilità personale.

All'infallibilità democratica del suffragio universale il cattolicismo doveva rispondere con quella del papa: dogma contro dogma, legge storica contro legge divina, verità umana contro verità soprannaturale.

Quindi i gesuiti fondarono una grossa rivista col titolo di Civiltà Cattolica per combattere questa nuova guerra del papato, ma libri e giornali sorsero terribili di forza e di destrezza contro di loro. I gesuiti poveri a scrittori e a pensatori ressero male all'assalto: il genio, che li aveva assistiti contro la Riforma, li abbandonò contro la rivoluzione: parvero piccoli in faccia al pensiero tedesco, deboli davanti alle invettive francesi, malvagi in confronto del patriottismo italiano. La politica moderna li sorprese colla necessità delle scienze da essi oppugnate o limitate: la loro dottrina non fu più che un'erudizione, la loro abilità divenne inutile contro popoli sovrani, che eleggendo e controllando pubblicamente i propri governi riducevano la destrezza a qualità secondaria. La loro guerra al Piemonte per le leggi ecclesiastiche sembrò una recriminazione del passato contro il presente, il loro servilismo all'Austria li infamò nella coscienza del popolo insofferente di tirannide straniera, la loro deificazione del pontefice e del principe nel papa persuase ai più la necessità di frenare nel cattolicismo i troppi eccessi idolàtrici. Infatti nel clero italiano crebbero le diserzioni. Già Rosmini, Gioberti, Ventura, erano colpiti d'anatema; molti preti avevano predicato la rivoluzione, ed erano morti per essa; altri si disponevano a morire. L'abbiezione del governo pontificio in tanto splendere di progresso nei governi europei e nei più giovani governi d'America diventava irrefutabile accusa alla politica papale: la sudditanza del pontefice all'Austria e alla Francia per scopi antinazionali dava ragione ai liberali, che affermando l'incompatibilità del principato ecclesiastico col civile, offrivano al papato ogni libertà spirituale in cambio dei poteri politici.

Al Congresso di Parigi (1856), un anno prima che cessasse la giurisdizione militare straordinaria nelle quattro Legazioni, il conte di Cavour in un Memorandum sulle condizioni miserrime dello stato pontificio osò insistere sulla necessità di stralciarne qualche provincia e di costituirla autonoma. Quantunque il momento e la circostanza fossero ben scelti dall'abile ministro piemontese, la sua proposta era troppo falsa e prematura per riuscire: però il congresso ascoltò simpaticamente quelle rimostranze di uno statista conservatore, e lord Clarendon rispose per tutti definendo il governo papale «un obbrobrio per l'Europa».

Ad un congresso europeo il papa era dunque politicamente trattato peggio del sultano: questi era ancora necessario all'Europa come portinaio dell'Asia, quegli non era più che un ostacolo putrido all'imminente rivoluzione d'Italia che affrettando l'altra della Germania doveva distruggere in Europa il secondo impero napoleonico e spostare le basi dell'impero austriaco.

Granducato e ducati.

Nei granducato di Toscana l'invasione austriaca aveva dilagato peggio che nelle provincie pontificie, riducendo il sovrano a zimbello di quella medesima protezione, che sembrava assicurargli il trono. Già dalle prime ore questi aveva tentato far credere che le milizie austriache fossero entrate come a sua insaputa, ma il generale D'Aspre dietro istruzioni della cancelleria imperiale tendenti ad annullare nella propria influenza ogni potere italiano lo aveva violentemente sbugiardato, annunziando da Empoli in un proclama, come l'intervento militare dell'Austria fosse stato chiesto dal principe medesimo. I nuovi ministri assumendo il potere, mentre gli austriaci entravano in Firenze, si trovarono di fronte il problema insolubile di conservare lo statuto secondo le promesse del granduca, dopo che questi aveva spontaneamente invocata la invasione straniera. Nullameno gran parte del popolo si cullava ancora in tale illusione prodotta dalla reazione trionfale dei più illustri moderati contro la dittatura del Guerrazzi. Fra i nuovi ministri Jacopo Mazzei, il migliore per ingegno, era in buona fede e si dimise nobilmente, quando il duca traendosi alla fine la maschera, abolì lo statuto. Intanto il D'Aspre raddoppiava d'improntitudini: quasi a vendetta di non poter porre Firenze in istato d'assedio aggravò la mano su Prato, Pistoia, Arezzo, vi disarmò la guardia nazionale, vi proclamò la legge marziale. Il ritorno del principe da Gaeta, augurato come pegno di miglioramento, peggiorò la situazione, giacchè questi non abbastanza sicuro col presidio austriaco mise il bavaglio alla stampa, sottrasse alla corte d'assise i reati di stampa, impose eccessive cauzioni per la pubblicazione dei giornali. Quindi ridusse a forza di limitazioni il concesso indulto pei reati di maestà ad una ignobile ipocrisia coll'escludere quanti avessero partecipato al governo provvisorio dall'8 febbraio al 12 aprile, o contro i quali fossero già cominciate le inquisizioni criminali; decretò onoranze ai generali austriaci «per gli utili servigi resi alla sua causa» e una medaglia col motto - Onore e fedeltà - pei cittadini, che avevano favoreggiato la restaurazione. Molti però fra gli stessi moderati ricusarono coraggiosamente la vergognosa decorazione.

Prima preoccupazione del ristabilito governo fu di limitare il tempo e lo spazio all'occupazione del D'Aspre; ma la cancelleria imperiale rispose sbraveggiando e pretendendo che la cessazione dell'intervento dovesse dipendere dall'assenso dell'imperatore. A giustificazione di tale pretesa s'invocava con incredibile sofisticheria il trattato del 1735, già annullato dal diploma imperiale del 1763 e dagli stessi trattati del 1815 contenenti le più esplicite affermazioni sull'autonomia della Toscana. Per resistere a tanta pressione il granduca non avrebbe avuto altro mezzo che di mantenere lo statuto e di reclamare a tutti gli altri governi d'Europa, gelosi della troppa influenza austriaca in Italia; ma la fatalità della reazione lo spingeva invece ad abbandonarsi prigioniero nelle mani dell'Austria e del clero. Per irresistibile logica d'interesse Leopoldo preferì quindi essere vassallo dell'impero, da cui avrebbe pur sempre ritratto qualche apparenza di potere, a mettersi principe costituzionale nella rivoluzione, che avrebbe dovuto sagrificarlo al conseguimento dell'unità nazionale.

E lo statuto fu abrogato. Si cominciò dal contrarre arbitrariamente un prestito con cedole fruttifere ed estinguibili per sorteggio nel periodo di 26 anni, guarentite sullo spaccio dei sali e tabacchi: poi si trattò di concedere qualche franchigia ai comuni, ma l'Austria rispose alle istanze del governo toscano con proposizioni così equivoche di aiuto materiale e morale a tutti i governi italiani nell'interesse della causa loro comune con essa che per timore di nuove soperchierie anche nelle amministrazioni comunali se ne dovette deporre il pensiero. Allora la reazione non ebbe più freno: si crebbero i tribunali straordinari, si riarmò di tutte le possibilità dell'arbitrio la polizia, s'imposero e si aumentarono le tasse a capriccio, non si abbonarono nè si restituirono le anticipazioni fatte dai cittadini sotto promessa di restituzione; s'impegnarono le proprietà dello stato, e si creò un debito di trenta milioni. Trenta milioni circa finì per costare l'occupazione austriaca sino al 1857. Un editto del 25 aprile 1851 dava facoltà ai consigli di prefettura di relegare in un'isola o in una fortezza chiunque fosse sospettato di trame contro l'ordine pubblico. Per la convenzione stipulata coll'Austria il 20 maggio 1850 le truppe di occupazione in Toscana dipendevano dal comando generale di Verona e dovevano essere mantenute dal granduca ridotto a subalterno di Radetzky; il diritto di amministrare la giustizia, il diritto di vita e di morte e persino quello di grazia venivano esercitati dagli ufficiali austriaci sui cittadini toscani. A Livorno il comandante puniva i reati comuni, secondo il codice militare austriaco, colla pena di morte da tanti anni soppressa nelle leggi leopoldine, si battevano colle verghe persino gli adolescenti, i soldati tedeschi si ricusavano di comparire come testimoni ai tribunali toscani. Radetzky graziò della vita trenta condannati livornesi senza consultare nè il granduca, nè l'imperatore.

Nell'inesauribile crescendo della reazione alla convenzione coll'Austria successe il concordato colla Chiesa, abolendo tutte le guarentigie leopoldine del secolo passato col pretesto di armonizzare le leggi civili colle religiose. Così l'autorità civile perdeva il diritto di sindacare l'esercizio abusivo della giurisdizione canonica episcopale, riconosceva esclusivamente ai vescovi la facoltà di giudicare delitti di apostasia, eresie e simili, e s'obbligava ad applicare le pene criminali da essi inflitte sino a quella di morte se venisse ristabilita. E lo fu con editto del 16 novembre 1852, come corollario dell'abolizione dello statuto. L'autorità secolare avrebbe quindi dovuto mandare al patibolo qualunque condannato a morte per eresia con sentenza vescovile; e mentre pei laici giudicati dal clero la legge era tanto inesorabile, pei preti venivano tolte le pene corporali, e si assegnavano speciali prigioni. Di demenza in demenza il granduca per suggestione del confessore dichiarò inalienabile il patrimonio della Chiesa e proibita la stampa delle opere di Lodovico Muratori.

Un attentato in pieno giorno alla vita del Baldasseroni, presidente del Consiglio, che ne uscì lievissimamente ferito, provocò con nuovi rigori l'espulsione di oltre un migliaio di fuorusciti politici: una pia dimostrazione in Santa Croce (29 maggio 1851) con grande concorso di popolo recante corone alle lapidi dei caduti a Curtatone e a Montanara trasse la gendarmeria a far fuoco sul popolo, e il governo a decretare si togliessero dalla chiesa le lapidi, che poi la pietà e lo sdegno degli esuli riprodussero a Torino col permesso del municipio sotto i portici del palazzo di città.

Intanto nella febbre di congiure, che ardeva tutta Italia provocando nuovi martirii di illustri patrioti, qualche crollo impauriva pure la Toscana, ove la mitezza remissiva della popolazione e la forza delle truppe straniere occupanti consigliavano anche ai più caldi un'attesa prudente di futuri rimpasti italici per opera specialmente del Piemonte. Alcuni tentativi nella Lunigiana parvero piuttosto scorribande di fuorusciti che levate di ribelli; le indomabili agitazioni di Livorno, se mantennero vivo l'odio allo straniero e le speranze del patrio riscatto, non crebbero eventi e non produssero risultati politici.

Lo stesso enorme processo fatto al Guerrazzi dopo tre anni di carcere per reato di lesa maestà con sfarzo di testimoni e di prove che gli diedero l'effimera e chiassosa importanza di uno spettacolo teatrale, conchiuse meglio contro il fiero tribuno che contro il fedifrago granduca; giacchè quegli nella propria Apologia volendo dimostrare di aver solamente inteso alla restaurazione del principato, dopo che i fautori della repubblica lo avevano atterrato, discese più basso di questi, che nel tradimento alla rivoluzione poteva almeno pretendere alla scusa di difendere la propria Casa. In fatti il granduca con abile diversione, dopo i molti rigori commutando la lunga pena dell'ergastolo al Guerrazzi e a' suoi correi Montanelli, Mazzoni, Mordini e Modena in quella del bando, si mostrò più bonario principe che il Guerrazzi medesimo non si fosse provato sincero rivoluzionario e saldo statista.

La restaurazione toscana prima soggiaciuta, poi volontariamente prosternatasi all'Austria ed al clero, non potè assimilarsi alcuna idea della vinta rivoluzione, ma rinculando fatalmente nella storia indietreggiò di quasi un secolo col tradimento della grande tradizione leopoldina. Il suo governo si restrinse a soli due compiti, frenare colla polizia l'insofferenza liberale del popolo e persuadere a Vienna lo sgombro delle milizie imperiali dal granducato. Questo le fu concesso nel 1855, quando le finanze del piccolo stato impoverite non reggevano più a tanta spesa. Quindi il granduca restava colle sole armi della polizia e delle truppe indigene, che nullameno valsero a tenere in rispetto il popolo persuaso di un pronto ritorno degli austriaci a qualunque moto rivoluzionario.

La mollezza toscana mantenne la pace nel granducato. Solo Livorno tentò nel 1857, per la tragica spedizione di Pisacane a Sapri, una sommossa contro la quale bastarono le soldatesche granducali. Della brutta giornata di sangue, il Bargagli, governatore della città, annunziava l'esito ai cittadini in proclama, ammonendo che «coloro i quali resisterono e furono sorpresi colle armi alla mano ne pagarono il fio colla morte».

Più trista e più feroce la reazione di Carlo III a Parma faceva parere tollerabile il governo toscano.

Carlo Lodovico di Lucca, divenuto per diritto di riversibilità signore di Parma alla morte di Maria Luigia e allo scoppio della rivoluzione, aveva finto sul principio di secondare la guerra nazionale mandando al campo di Carlo Alberto il proprio figlio, che invece fu sorpreso fuggiasco e travestito vilmente verso Mantova e ricondotto a Milano, ove il governo provvisorio lo relegò guardato a vista in un albergo. Ma spaventato poi dalla piega degli avvenimenti Carlo Lodovico era fuggito delegando ogni potere ad una reggenza concordata col municipio. All'armistizio Salasco il conte Thurn occupò militarmente i ducati e vi rispettò la guardia nazionale, la costituzione e le leggi emanate dal governo autorizzato da Sua Altezza Reale; questi invece qualificò d'intrusa la reggenza e ne cassò tutti gli atti. Sciaguratamente per l'Italia non era questa la prima volta che conquistatori stranieri vi si erano mostrati migliori dei principi indigeni.

Poi cedendo alla propria natura di volgare libertino Carlo Lodovico, con manifesto datato da Weisstropp 21 agosto 1848, abdicava in favore del proprio figlio Carlo III.

Il nuovo principe, vile e sozzo, cadde come una nuova sventura sul ducato. Il 5 aprile 1849 il generale D'Aspre, invasi i ducati, vi componeva sotto la propria dipendenza due giunte, l'una per Parma e l'altra per Piacenza. Fra i chiamati a farne parte il Lombardini e il Guadagnini ricusarono, il Cornacchia e l'Onesti, anche peggiori della propria fama tristissima, accettarono. La reazione fu crudele: i generali di Radetzky ruinarono sugli insorti; imposto il disarmo; proclamato lo stato d'assedio; verghe, forche, fucilazioni prodigate a capriccio.

Carlo III accodato agli austriaci, fece poco dopo il proprio ingresso solenne, promettendo con insana beffa un nuovo statuto e riconfermando invece lo stato d'assedio e la legge stataria colla pena infame delle verghe per qualunque reato potesse parergli politico. Il conte Torök, gentiluomo austriaco comandante la fortezza di Piacenza, tentò per misericordia alla popolazione di resistere alla riconferma di queste leggi, ma il tiranno ricorse al Radetzky che redarguì severamente il nobile soldato. Istantaneamente la nuova corte formicolò di abbietti cortigiani e di più turpi ministri sospingenti a peggiori esagerazioni. Una epilettica smania di assolutismo esagitava quest'ultimo borbonide, che la corruzione del sangue e la viltà dei tempi resero singolare per qualche anno. Fondò un ordine cavalleresco e ne insignì primi i credenzieri del re di Napoli e della regina di Spagna, destituì lunaticamente impiegati e professori, soppresse l'università, chiuse il famoso collegio Alberoniano accusandone i padri della Missione di parteggiare per la rivoluzione; e Roma allora in lotta violenta col Piemonte per le leggi Siccardiane annuì al sopruso. Quindi prodigò milioni al teatro e ad inutili fortificazioni in Parma, profuse amnistie ai peggiori galeotti, tolse ai comuni la nomina dei propri magistrati, sovvertì tribunali, imponendo loro arbitrarie interpretazioni di legge e cassando le sentenze. Con inane imitazione di Metternich, che aveva sguinzagliato contro l'aristocrazia liberale i villani di Gallizia, mutò l'applicazione della legge stataria nelle campagne, lusingando i contadini coll'alterare i contratti rurali a loro favore e col proibire ai proprietari di dare loro licenza senza il consenso del sovrano, studiandosi d'accendere una guerra civile, nella quale la borghesia liberale perisse sotto le violenze delle plebi campagnole e cittadine. Nullameno questa borghesia aveva così poco il senso della propria dignità che l'Anzianato di Parma ordinava si coniasse una medaglia ad eternare la memoria dell'avvenimento al trono di Carlo III.

La manìa militare gli fece costituire un corpo di volontari reclutato tra villani, come i centurioni di Gregorio XVI, per accrescere lo spavento nei borghesi e dare a lui le soddisfazioni di un generale da parata. La pena delle verghe, applicata pazzamente da scherani, umiliava i migliori cittadini: si calcolò che il numero dei percossi salisse al migliaio, ogni pretesto bastava alla polizia per incrudelire, il principe ne inventava di atrocemente ridicoli prescrivendo e condannando fogge e colori di cravatte e di cappelli. Le finanze dello Stato, già esauste dalla perversa amministrazione, subivano ora l'ultimo malanno confondendosi con quelle private del principe, che dietro l'esempio del padre accollava all'erario i propri debiti e attingeva alle casse pubbliche per le proprie spese più oscene; e, come ciò non bastasse, una lega doganale contratta coll'Austria finiva di compiere il dissesto del paese.

Ma avendo poi il duca chiesto all'Austria per mezzo di Tommaso Ward, lo stalliere fatto barone da suo padre ed ora da lui gratificato del monopolio gratuito di tutte le miniere appartenenti allo stato e del grado di ambasciatore a Vienna, che l'impero pagasse al ducato la quota dovuta sui settantacinque milioni sborsati dal Piemonte per indennizzo dei danni di guerra, s'intese rispondere sprezzantemente dal principe di Schwarzenberg che se non si fosse rimesso al beneplacito dell'Austria verrebbe considerato come potenza belligerante nella guerra passata e tassato nella proporzione medesima della Sardegna.

Le umiliazioni della doppia tirannide indigena e straniera, e le provocazioni del duca vagabondante per la città a svillaneggiare le donne e a percuotere gli uomini col frustino fecero prorompere la pubblica indignazione. Al solito un popolano si eresse vindice. Certo Carra, sellaio, lo pugnalò (26 marzo 1854) nella pubblica strada e con incredibile agilità sfuggì alle guardie, deluse i giudici, riparò in America. Le parole, colle quali la duchessa vedova annunciava al popolo «che era piaciuto a Dio onnipotente di chiamare a sè l'amatissimo suo consorte e sovrano» fecero supporre a molti che essa fosse complice del regicidio, postume rivelazioni parvero accreditare la diceria senza che la storia abbia potuto fino ad ora mutarla in vero giudizio.

Morto Carlo III ed assunta la reggenza da Maria Luisa, al governo violento della gendarmeria ne succedette un altro di frati: nullameno gl'inizi ne parvero lusinghieri ai popoli angariati. Vennero rimossi tutti i ministri precedenti ad eccezione del Saldati, meno inviso ma non troppo migliore degli altri, riaperta l'università mantenendola però serva nell'insegnamento, tolti i sequestri ai beni dei fuorusciti che avevano retto lo stato nella rivoluzione, ridotto l'esercito già portato dalla vanità del defunto tiranno ad oltre seimila uomini, scemate le spese e la dotazione della corona quantunque la confusione proseguisse fra i beni di questa e quelli dello stato, restituita una mezza libertà alla magistratura. Dei nuovi ministri, il Lombardini, buon aritmetico ed economista retrivo, fiscaleggiava a pro' del tesoro senza sollievo del paese, il Catani abile gesuitante si destreggiava a corte nell'oblio di ogni debito di statista, il Pallavicino gentiluomo tronfio e tristo ubbidiva nel ministero degli esteri ad ogni più umiliante ingiunzione dell'Austria. Peggiore di tutti un conte Zileri, marito di un'ultima figlia della duchessa di Berry, madre della Reggente, capitanava la reazione clericale, aprendo il ducato a frati e a suore d'ogni risma. A breve andare la corte per influenza della duchessa di Berry, ultima avventuriera del legittimismo francese, divenne centro d'inani intrighi contro Napoleone III in favore dell'influenza austriaca in Italia. Il fermento rivoluzionario di Lombardia, propagandosi ai ducati ed esplodendo in risse parziali o in vani tentativi di sommossa, giustificava nella poliziesca politica del governo il mantenimento dello stato d'assedio. Un moto di mazziniani a Parma (22 luglio 1854), represso con feroce energia dagli sgherri ducali, insanguinò la città. Ne vennero sentenze capitali non mai consentite nemmeno da Carlo III, raffinatezza ed efferatezza che nel popolo meritarono alla duchessa l'atroce nomignolo di Nerone in gonnella. Infatti resa più crudele dalla paura, dopo aver richiamato a presidio della capitale nuove milizie austriache, richiese al maresciallo Radetzky il capitano Kraus, famigerato uditore dei processi di Mantova, per condurre i nuovi processi politici, e permise al generale austriaco Crenneville di assumere la dittatura militare della città con un proclama, nel quale questi dichiarava unica ragione al proprio nuovo grado l'anzianità sul generale di Parma, quasi i due eserciti fossero un corpo solo. Finalmente la duchessa strinse un contratto coll'Austria pel mantenimento dei propri prigionieri, che processati da uditori austriaci passavano così nelle carceri del Veneto e della Moravia.

Lo stato di Parma, ridotto a feudo dell'impero austriaco e mantenuto da questo in soggezione permanente di conquista, aveva quindi perduto con ogni guarantigia giuridica tutte le poche libertà di quella mezza autonomia largitagli dai trattati del 1815; ma dopo la guerra del Piemonte in Crimea e il congresso di Parigi, ove il conte di Cavour potè per la prima volta, sebbene in falsi termini, porre la questione italiana, anche nel ducato di Parma la reazione parve diminuire. Nel 1857 gli austriaci lo evacuarono, lasciando la duchessa liberaleggiare ipocritamente per la speranza di acquistare il vicino ducato di Modena, riversibile all'Austria per difetto di prole nel duca Francesco V, ad un possibile rimpasto italiano, se mai la Francia dovesse scendere in Italia a sostituirvi l'influenza austriaca.

Meno pazzo di Carlo III e meno ipocrita della reggente Maria Luisa, Francesco V di Modena li superava entrambi nella frenesia del dispotismo. Ligio all'Austria fino al fanatismo di una affettazione provocatrice, viveva nel sogno di un'altra Santa Alleanza: legittimista assoluto non riconosceva politicamente altri trattati che quelli del 1815, altro decreto che la proscrizione dei Bonaparte. Il suo disprezzo per Napoleone III, del quale grottescamente negò sempre di riconoscere il governo, trascendeva agli insulti; il suo odio al Piemonte, nel quale crescevano mirabilmente le speranze di un regno italico, superava anche la sua avversione al mazzinianismo. La sua restaurazione cominciata coi soliti tribunali militari diretti da uditori austriaci gettò a centinaia nelle carceri quanti avevano cooperato col pensiero o col cuore, colle azioni o colle omissioni alla rivolta del '48. Quelle popolazioni transappenniniche, che si erano date con libero ed unanime voto alla Toscana allora mite, e dovettero poi ricadere sotto il suo dominio, furono anche più tristamente aspreggiate. Ma se il nuovo duca aveva ereditato dal padre Francesco IV la tirannica intrattabilità e l'istinto politico, non ne aveva derivato l'ingegno e la coltura. Quindi la sua intromissione nelle leggi e nei regolamenti ne alterava bestialmente i modi e le intenzioni, moltiplicandovi le pene, appesantendovi le procedure, disconoscendo ogni diritto nei sudditi. Non contento d'aver tradotto nel proprio il codice austriaco coll'efferato corteggio delle penalità corporali, licenziava i giudici quando le loro sentenze non gli sembrassero abbastanza crudeli, o li esautorava sottoponendo le loro decisioni a nuovo esame di corti estere e persino di generali austriaci.

I moti della Lunigiana nel 1853 e 1854 irritarono la sua libidine d'impero. Quindi, affidato il governo di Carrara al maggiore Wiederkehrn, famigerato anche fra gli austriaci per l'animo truce, vi bandì la legge marziale, ordinando che tutti i reati politici vi fossero puniti di morte e che le deposizioni dei soldati e dei poliziotti bastassero a farne prova. E molte furono le condanne capitali eseguite, moltissime quelle di galera a vario grado.

Nessuna libertà doveva regnare nel suo piccolo ducato.

Avaro oltre ogni rapacità, tesoreggiando sull'erario non badava che ad ammassare danaro; despota minuto sino alla frivolezza e assoluto sino alla demenza osava bisticciarsi coi maggiori potenti quando accennassero a concessioni, rimproverava all'Austria di piegare nella guerra di Crimea alla politica napoleonica, rinfacciava all'Austria e al papa nel loro disegno di un nuovo patto fra i principi italiani contro l'espansione irresistibile del Piemonte le poche equivoche espressioni di franchigie municipali come ne guastassero l'idea. Ma tutta la sua vanità di tirannello non potè salvarlo dalla rovinosa lega doganale con Vienna, nè ottenergli dalla grossa debitrice la quota sui settantacinque milioni sborsati dal Piemonte pei danni di guerra.

L'Austria imponendo le restaurazioni dei principi all'Italia ed annullando la loro autonomia, spingeva quindi i popoli ad un'altra rivoluzione, nella quale il problema dell'indipendenza dallo straniero soffocasse tutti gli altri di libertà.

Lombardo Veneto.

Le provincie del Lombardo-Veneto, focolare ed agone della guerra, sopportavano intanto il crescendo di una reazione ignota da molti secoli. Allo splendido sogno di libertà era seguìto il terrorismo di una conquista avvelenata da tradimenti di ogni idea e di ogni persona. Se alla novella che Carlo Alberto aveva denunziato l'armistizio, Brescia, ripetendo il primo eroismo di Milano, ributtava con subita insurrezione nel castello le milizie del presidio, presto abbandonata da tutti alla rotta di Novara espiava la propria estrema passione di libertà sotto la rabbia di Haynau.

Mille e duecento austriaci perirono nelle sue otto giornate, ma Haynau fece sembrare mite Radetzky proseguendo il massacro anche dopo la vittoria. Dodici cittadini furono da lui impiccati per festeggiare la notizia della resa di Roma.

Poichè la ribellione porgeva pretesto a sospendere quello statuto imperiale del 1849, che del resto non era mai stato applicato, il vecchio maresciallo rimase re e tiranno del Lombardo-Veneto. Il suo indulto del 12 agosto non fu quindi che un'ironia, la quale crebbe di perfidia nell'altro del 18, giorno natalizio dell'imperatore: nessun impiegato partecipe della rivoluzione fu conservato o rimesso in ufficio, sospettati tutti i cittadini, violate le case, conculcata ogni autorità indigena. Un'oscena guantaia spiega ad un balcone un drappo coi colori dell'impero e colle cifre dell'imperatore per insultare al pubblico dolore: il popolo fischia, ma le soldatesche caricano spietatamente la folla inerme, arrestano cinquanta cittadini, li sottopongono alle verghe, e Radetzky manda al municipio il conto dei bastoni rotti, e lo condanna a pagare diecimila franchi alla guantaia. Milano mormora, freme senza muoversi. L'oppressione aumenta la miseria. I comuni gravati da una sovrimposta di sei milioni al mese pel mantenimento dell'esercito vacillano sotto al nuovo peso; nullameno, il commissario Laderchi-Montecuccoli aggrava ancora la mano sull'imposta prediale aumentandola del 50%: le estorsioni soldatesche dove non smungono, soffocano, le nuove contribuzioni sorpassano i cento milioni. A questi Radetzky aggiunge un prestito volontario di centoventi milioni per levare dalla circolazione quegli altri settanta in biglietti del tesoro emessi dal governo a carico del Lombardo-Veneto, e lo cambia tosto minacciando in prestito forzato. La sua prepotenza arriva a tale che suscitando gelosie nella cancelleria di Vienna si spera per un momento il suo ritiro dal Lombardo-Veneto; ma l'imperatore protegge il vecchio maresciallo. Appena appena si toglie l'intendenza generale dell'esercito d'Italia come uno strettoio guastatosi nella violenza della fretta.

Però dopo la rivoluzione tutto è mutato nelle provincie. La coscienza nazionale ridestatavi dall'insurrezione, dai governi provvisori, dalla guerra, dalle adesioni al Piemonte, cresciuta a fede nei disastri, resa superba dagli eroismi prodigati, si contrappone alla coscienza imperiale coll'energia di un odio che nulla verrà più ad estinguere. Poichè l'Austria tratta le provincie come terre conquistate, esse accettano quel trattamento come una sfida.

Invano la cancelleria imperiale misurando l'improvvisa profonda ampiezza di tale distacco, nel pauroso presagio di future insurrezioni, vorrebbe incorporare il Lombardo-Veneto nella federazione germanica. Inghilterra e Francia vegliano minacciose, e il disegno fallisce. L'Austria deve restar sola contro l'Italia, nella quale ha unificato e reso straniero il dispotismo: il duello fra le due nazioni ricomincia quindi come preparazione a nuova guerra. Per ora le speranze italiche non verdeggiano: la Francia ricaduta sotto l'impero napoleonico, se vieta all'Austria di fondere nella Germania le proprie conquiste, non accenna però a contendergliele; l'Inghilterra immutata nella propria politica mercantile orzeggia al solito fra libertà e dispotismo; Russia e Prussia coagulate dalla stessa reazione sembrano subire l'influenza viennese. Ma rimangono all'Italia lo stato libero del Piemonte e l'ideale repubblicano. Fervono cospirazioni: Mazzini ramingante per l'Europa ha già costituito un comitato nazionale con un programma apparentemente neutro, nel quale la questione dell'esistenza nazionale prende il passo sulla questione politica della libertà. È come un comizio armato della nazione combattente per vivere, che precede il comizio togato della nazione costituente la propria vita. Mentre i moderati fusionisti di Lombardia coi costituzionali del Piemonte l'oppugnano e gli ultra-repubblicani lo respingono come un'abdicazione di principii, la sua opera prosegue e si allarga: dal Piemonte, popolato di esuli, viene aiuto di uomini e di denaro alle congiure; comitati e sottocomitati tessono una rete mirabile di resistenza e di sottigliezza intorno ai governi nemici. Ma le nuove cospirazioni, per quanto meglio ordite delle antiche, non possono servire che ad accomunare i propositi e a rinsaldare gli animi per combattere e vincere l'Austria.

Quindi inevitabili imprudenze affrettano sublimi martirii. Le condanne politiche del 1849 sommarono a 2414, nel primo semestre del solo anno 1851 salirono a 2552. Sciesa popolano di Milano s'immortala col motto: Tiremm innanz, risposto ai carnefici, che conducendolo alla fucilazione gli promettevano la grazia se discendesse a farsi spia dei compagni; dopo lui sfila un corteo di eroi, nel quale abbondano i preti. A Mantova un enorme processo di 150 cittadini con a capo don Tazzoli, sacerdote illustre di ingegno, santo di cuore, dura due anni e sembra riattivarsi con sempre nuove condanne capitali. Tito Speri, l'indomito difensore di Brescia, vi perisce; gli spalti di Belfiore si mutano così in calvario, cui tutta Italia fisa rabbrividendo lo sguardo. Ma al terrore risponde la costanza. Milano si prepara sui primi dell'anno 1853 a insorgere: il moto, questa volta più vasto e meglio concordato, promette una vera rivoluzione. Kossuth, l'illustre rivoluzionario e dittatore ungherese, vi aiuta, ma impigliata nei soliti dissensi e controsensi l'insurrezione si risolve in un tafferuglio (6 febbraio) nel quale periscono poco oltre un centinaio di austriaci.

Le provincie quantunque preparate non si sono mosse.

Queste congiure, da Kossuth lusinghevolmente giudicate capolavori, durarono lungamente malgrado ogni insuccesso e in alcune di esse si tentò persino di rapire l'Imperatore durante le sue due visite al Lombardo-Veneto; ma inutili come conati di guerra poterono solo rinfocolare la passione nazionale, maturando in Europa la necessità di una soluzione al problema italico.

L'Austria raddoppiò di rigori; il Piemonte inteso nella propria ambigua politica a giovarsi bensì delle forze rivoluzionarie, ma riducendole a docile strumento per non perdere il benefizio dell'iniziativa nel giorno prossimo alla rivincita, si unì all'Austria nella reazione per contrastare al moto, e scacciò, imprigionò sulle proprie terre fuorusciti e rivoluzionari, fece dai propri giornali gettare l'anatema su Mazzini.

L'Austria supponendo nel Ticino, rifugio di molti rivoluzionari, uno dei maggiori focolari della fallita ribellione, scacciò di Lombardia per rappresaglia tutti i ticinesi, bandì proclami terrorizzanti, riconobbe delitto di alto tradimento anche la mancata denuncia di un rivoluzionario. Poco dopo un altro decreto poneva sotto sequestro tutti i beni mobili ed immobili dei profughi politici compresi o non compresi nella prima amnistia, muniti o non muniti del permesso di emigrare. Era la spogliazione dopo i supplizi, la rapina alzata a legge di stato. Ma il Piemonte, che per avere ceduto alla reazione contro i rivoluzionari era al coperto dalle accuse della diplomazia europea, avendo fin troppo meritate quelle della democrazia italiana, con abile e pronta manovra protestò del violato giure internazionale e civile. I trattati di pace fra Piemonte ed Austria guarantivano gli emigrati, dei quali molti avevano già acquistato la cittadinanza piemontese. Il Memorandum del conte di Cavour encomiato da tutte le cancellerie d'Europa fu il primo funebre rintocco per la cancelleria imperiale: le relazioni fra i due stati divennero più tese; Revel ambasciatore a Vienna fu richiamato, mentre le reti delle congiure si riannodavano e il coraggio popolare si apprestava ad altre sommosse. Poco dopo infatti il maggiore Calvi, uno dei più prodi difensori di Venezia, tentava una vana insurrezione nel Cadore, e perdeva la vita sugli spalti di Mantova.

Ma l'impossibilità di durare in siffatta reazione cresceva tutto giorno anche per l'Austria. Il progresso della questione italica nell'opinione europea maturava le speranze degli oppressi. La politica del Piemonte, rivoluzionaria e conservatrice ad un tempo, moltiplicava le difficoltà alla cancelleria imperiale; la questione d'Oriente, nella quale il Piemonte con mirabile arditezza era riuscito ad entrare alleandosi alla Francia e all'Inghilterra e quindi indirettamente anche all'Austria, costringeva questa a maggior temperanza verso l'Italia; la propaganda liberale guadagnando anche le classi più alte europee, imponeva silenzio a molte vecchie pretese e rendeva impossibili certe efferatezze di governo. Gladstone col definire il governo dei Borboni una negazione di Dio aveva commosso tutta l'Europa: più tardi Clarendon al congresso di Parigi dichiarando il governo del papa un obbrobrio per l'Europa, ratificava la metà del programma, ed assolveva l'altra metà dell'opera rivoluzionaria; la Prussia s'intrometteva per salvare in Calandrelli l'ultimo triumviro romano dalle prigioni pontificie, e vi riusciva: tutte le diplomazie insistevano presso Ferdinando di Napoli per la liberazione dei più illustri carcerati. La Francia ripresa dal gran sogno napoleonico accennava da lontano ad un rimaneggiamento delle dinastie italiche per rimettere due Bonaparte sui troni delle due Sicilie e d'Etruria, mentre il conte di Cavour, preso nel doppio giuoco della propria politica, era costretto a secondare; l'Austria s'accorgeva di restare sola nella vecchia politica d'oppressione. D'altronde la guerra di Crimea e il Congresso di Parigi avevano già rotto gli antichi trattati del 1815, spostando la base europea ed aprendo l'adito a nuovi diritti nazionali.

Anche l'Austria allentò quindi i freni. Prendendo occasione dal matrimonio dell'imperatore cominciò dall'ordinare (1^o maggio 1854) che lo stato d'assedio cessasse nelle provincie del Lombardo-Veneto, si restituissero le potestà civili nell'esercizio delle loro giurisdizioni, e solamente i crimini di alto tradimento fossero deferiti alla corte straordinaria di giustizia. Questo beneficio non mutò da prima la pratica arbitraria e crudele, ma ne trascinò altri: le istanze dei governi crescendo per un più umano trattamento all'Italia, l'Austria sempre più isolata in Europa si decise ad una riconciliazione colle due grandi provincie italiane. L'imperatore, che si disse avere inorridito apprendendo come nei primi tre anni della reazione fossero state giustiziate nel Lombardo-Veneto 432 persone, mentre dal 1814 al 1848 le vittime politiche non avevano raggiunto l'ottantina, osò scendere a Milano. Il popolo rimase freddamente sdegnoso, molti dell'aristocrazia si prosternarono, i congiurati sognarono ancora una volta di rapirlo. Però furono ripristinate le antiche Congregazioni centrali, prosciolti dai sequestri i beni dei proscritti politici, riammessi alla cittadinanza austriaca quei fuorusciti che la chiedessero, condonate le pene ai minori reati politici. Il balsamo era troppo tardo e scarso a così immani ferite. La stessa nomina a vicerè dell'arciduca Massimiliano, romantica figura di cavaliere, che il breve romanzo di un altro impero lontano oltre l'oceano doveva poi immortalare nella pietà della storia, se tolse alcuni attriti meno aspri non mutò negli animi le tendenze nazionali consacrate da tanti sacrifici.

La reazione col diminuire d'intensità tradiva la debolezza dell'oppressore: gli oppressi guatavano ardenti.

Già le sofferenze di quest'ultimo periodo avevano in essi migliorato il carattere. Lo spirito cresciuto a maggiori idee, la coscienza tempratasi a magnanimi fatti, li rendeva incalcolabilmente dissimili dagli italiani del '21 e del '31, sudditi pigri ed ignari, piuttosto sorpresi che partecipi ai moti tentati da pochi audaci. L'italianità sfaccettata dalla rivoluzione del quarantotto nella molteplicità dei propositi e degli esperimenti costituiva ora il fondo di tutte le coscienze: persino coloro, che per abbiezione di anima parteggiavano per governi tirannici o stranieri, avevano d'uopo d'affermare l'impossibilità materiale di uno stato italico per giustificare a se medesimi e agli altri il proprio tradimento.

Lo sviluppo dell'industria, del commercio e quindi della democrazia, cresciuto colle ferrovie, colle scienze e le loro applicazioni, uggiva le barriere interne reclamando leggi civili ed economiche inconciliabili col dispotismo. L'aristocrazia, disonoratasi come classe, corteggiando principi, Austria e papa, si redimeva nella publica estimazione con una mirabile eletta di volontari nella rivoluzione che vi recavano con molta elevatezza di sentimenti un'abile temperanza di propositi e un ricco tesoro di studi; la borghesia precipuamente impegnata nella lotta vi si accaniva per conquistare il dominio della nazione nella sua emancipazione; il popolo inerme ed oppresso da principi, da stranieri e dai privilegi delle due classi superiori si manteneva bello d'incondizionato sacrifizio nella propria parte migliore. Il clero vile parteggiava per tutti gli oppressori condannando quei sacerdoti che sorgevano a pro' della patria e vi salvavano la religione dall'odio universale.

Si presentiva oscuramente un'altra rivoluzione.

La grande unificazione prodotta dall'uniformità della reazione, nella quale il Piemonte si era fatto in più di un caso difensore di tutti, parlando audacemente a nome della nazione, spingevano inconsciamente al sogno di un grande regno italico, ma le tergiversazioni della sua politica ravvivando con odiose persecuzioni ai liberali le diffidenze contro la monarchia lo intorbidavano, mentre i republicani seguitavano a predicare la necessità di una insurrezione simultanea su tutti i punti della penisola.

L'Italia invece non se ne sentiva capace.

La rivoluzione del quarantotto le aveva dato colla misura dell'energia rivoluzionaria anche quella della potenzialità militare. Ora l'Austria più forte di prima e accordata con tutti i principi indigeni contava seicentomila soldati, e teneva in mano tutte le fortezze: il Piemonte, per quanto miglioratosi negli ultimi anni e specialmente nell'esercito colla guerra di Crimea, non poteva da solo affrontare l'immane colosso. La predicazione rivoluzionaria sostenuta da Mazzini non bastava a scaldare i cuori così che tutti gli italiani capaci di guerra insorgessero unanimi: l'Italia non aveva fatto e non farebbe rivoluzioni come quelle di Spagna e di Grecia, giacchè la sua nazionalità non avendo mai avuto nel passato alcuna unità non poteva produrre quegli irresistibili scoppi, davanti ai quali Napoleone I e il Sultano avevano dovuto egualmente ritirarsi; al contrario la nazionalità essendo lo scopo della rivoluzione e la nazione dovendo in essa ricrearsi, per ora l'idea non ne appariva veramente chiara che agli alti spiriti e ai più magnanimi cuori. Il volgo vi si associava nell'istinto.

Nella rivoluzione del quarantotto i rivoluzionari, per essere troppo scarsi di numero, avevano dovuto disimpegnare contemporaneamente le più disparate funzioni, prima cospiratori, poi insorti, tribuni, soldati, commissari, deputati, ambasciatori, ministri: quindi incomparabili di virtù avevano spesso sbagliato di metodo, ingannandosi sui mezzi, fuorviando dalla meta, trovando più ammiratori che seguaci, riuscendo più ammirabili che imitabili.

Un'altra rivoluzione colle sole forze della rivoluzione era dunque impossibile. Già Garibaldi aveva accettato il programma di Manin - Italia e Vittorio Emanuele - disapprovando gl'inutili tentativi di Parma e del Carrarese, confessando così, egli il più valoroso, l'incapacità guerresca dell'Italia. Infatti l'entusiasmo di tutti pel Piemonte copriva non solo un'abdicazione d'iniziativa rivoluzionaria e dei pericoli da essa inseparabili, ma nell'accettazione della sua monarchia rivelava la diffidenza nei più per una rivoluzione puramente democratica; mentre il Piemonte medesimo, accettando di essere primo in Italia, non si sentiva abbastanza forte per combattere solo, e non era abbastanza generoso per sorpassare il proprio vecchio disegno di conquista su tutta la valle del Po.

Malgrado il programma di Manin e l'opera del conte di Cavour l'idea dell'unità nazionale non aveva ancora schiarito nella coscienza pubblica la propria forma politica.


Capitolo secondo.

La preparazione Piemontese

Prime difficoltà parlamentari.

Forma dell'unità nazionale italiana doveva essere la monarchia piemontese.

I suoi inizi dopo la rotta di Novara erano stati lugubri: invaso il territorio, l'esercito disfatto, Carlo Alberto costretto ad abdicare e ramingo, il nuovo re trascinato al campo del maresciallo per ratificare un armistizio umiliante, la democrazia italiana e piemontese tumultuante di sdegno magnanimo ed inconsulto, i popoli sfibrati e diffidenti, tutta l'Europa ostile ed in preda ad una reazione trionfante. Il nuovo re non isbigottì: valoroso nelle battaglie, parve anche più intrepido nella sventura. Le sue prime parole raccogliendo la corona insanguinata sul campo di una delle più grandi sconfitte toccate al Piemonte furono un giuramento di fedeltà alla nazione, superbo in quell'ora come una sfida gettata al nemico vittorioso. Mentre tutti i principi trascinati nella più abbietta reazione stracciavano gli statuti accettando persino di essere preteriti nei feroci proclami dei generali austriaci, Vittorio Emanuele II con abile intuizione affidava la gloria del proprio regno all'inviolabilità di quelle istituzioni, che suo padre aveva concesso a malincuore e avrebbe forse finito coll'abrogare.

Ma i rancori lasciati nei liberali dai tradimenti di Carlo Alberto tolsero nella sfiducia di quel momento angoscioso di ammirare la prima dichiarazione del nuovo re. Genova eccitata dai più ardenti fra i patriotti proruppe a ribellione: Giuseppe Avezzana che doveva poco dopo illustrarsi a Roma come ministro della guerra, ne fu il capo; gli antichi odii di rivalità fra la grossa metropoli ligure e la forte capitale piemontese rifermentavano avvelenando lo sdegno popolare per la capitolazione di Novara senza bastare nullameno a una proclamazione di distacco dal Piemonte; Torino stessa, agitata da troppe passioni democratiche, pareva vogliosa d'insorgere all'appello dei republicani, che incorreggibili nella rettorica quanto indomati nel coraggio promettevano una nuova guerra popolare. La sollevazione genovese degenerò in guerra civile: il presidio piemontese fu bloccato, fatto prigione, cacciato, ma il generale Lamarmora accorrendo colla divisione più vicina sopraffece i ribelli, indarno fiduciosi d'aiuti dal generale Fanti. Al disastro di una guerra perduta contro lo straniero s'aggiungeva così la sciagura di un eccidio fraterno. La città bombardata, sottoposta a stato d'assedio fu desolata da condanne: l'amnistia che successe a queste, non esentò nè tutti i più illustri nè tutti i più innocenti.

Parve che il Piemonte pure avvallasse nella reazione universale.

Infatti il generale De Launay, chiamato a presiedere il ministero, ispirava per la meschinità aristocratica del carattere e la nota antipatia agli ordini costituzionali nuove diffidenze. I mali umori raddoppiavano, i fuorusciti ospitati in Piemonte spingevano a guerra disperata con diatribe eloquenti a forza di essere passionate, il sommovimento prodotto in tutte le classi dal doppio tumulto della rivoluzione e della guerra favoriva il disordine, il parlamento novizio e composto di novizi, subendo gli influssi della pubblica opinione, sembrava ubbidire alle irresistibili fluttuazioni d'una marea, nella quale naufragavano disegni e riputazioni.

Nullameno urgeva anzitutto stabilire le condizioni della pace coll'Austria. Nessun assetto era componibile mentre gli eserciti nemici occupavano ancora il suolo della patria, e la possibilità di una ripresa di guerra permetteva alle reciproche ostilità dei partiti ogni più pazza o malvagia speranza. Il ministero deputò negoziatori a Milano col plenipotenziario austriaco barone De Bruck gli ex-ministri Buoncompagni e Dabormida. Le trattative furono scabre. L'Austria, resa arrogante dalla vittoria e intesa con abile politica a sminuire il Piemonte per togliere all'Italia ogni ulteriore speranza di riscossa, pretendeva 230 milioni come indennità di guerra, si restituisse l'antico assetto territoriale non solo pei propri domini ma per quelli dei duchi di Parma e di Modena, dei quali si vantava mandataria, si abrogasse la legge pel sussidio a Venezia ancora assediata e si catturassero tutte le navi mercantili, che le recassero soccorso. I buoni uffici di Francia e d'Inghilterra invocati dal Piemonte non bastarono a piegare il vincitore. Intanto Vincenzo Gioberti mandato oratore a Parigi, lasciandosi abbindolare dal ministro Drouyn de Lhuys accettava che la Francia per impaurire l'Austria occupasse militarmente Genova: rimedio peggiore del male e che al disastro di un nemico ancora accampato sul territorio della patria aggiungeva l'intervento pericoloso di un nuovo padrone. Il ministero sardo sostituì il Gioberti col Gallina, che rifiutata l'insidiosa proposta potè ottenere finalmente dalla Francia alcune minacce all'Austria, se questa si ostinasse a pretendere l'annichilimento del Piemonte.

Questo bastò. Alla pubblica opinione sovreccitata dalla incessante battaglia dei partiti e dal dolore dell'occupazione nemica, che facevano persino sospettare delle intenzioni del governo, si diè qualche conforto sostituendo il D'Azeglio al De Launay nella presidenza del ministero. Nessuno aveva allora in Piemonte tanta popolarità quanta il nuovo presidente, simpatica figura di gentiluomo e di artista, di soldato e di politico, che la tormenta della rivoluzione e la seguitane carneficina delle migliori riputazioni non avevano potuto guastare. Il trattato si conchiuse: per esso si mantenevano fra i due stati i medesimi confini stabiliti dal congresso di Vienna, anzi il Piemonte si avvantaggiava presso Pavia sino al canale Gravellone, l'indennità di guerra era ridotta a 75 milioni, l'Austria aboliva l'ultima sopratassa del 1846 sui vini piemontesi e i due stati si promettevano reciprocamente una prossima convenzione di commercio; otto giorni dopo la ratifica avverrebbe lo sgombro delle truppe austriache.

L'eroica Venezia veniva abbandonata all'Austria; ai patriotti lombardi questa prometteva un indulto, e il Piemonte si accontentava di tale platonica promessa.

Lo stato era salvo, ma l'onore compromesso; nullameno bisognava al parlamento ratificare il trattato. I comizi erano stati convocati per il 15 luglio, la Camera doveva riunirsi il 30. Malgrado il proclama abbastanza eloquente e schietto del re le elezioni furono disordinate. Il publico fermento seguitava a crescere, l'Austria trionfante in Toscana e a Venezia, la Francia padrona di Roma, la tirannide restaurata dovunque, i principi fedifraghi insolenti nel ritorno, un lutto di oppressi, di feriti, di morti per tutte le terre d'Italia, impedivano al popolo la calma necessaria alle difficili decisioni del momento. La libertà costituzionale del nuovo stato, non ostante le molte proteste del governo e i suoi stessi sforzi a mantenerla, non ispirava fiducia; l'abbandono all'Austria del resto d'Italia nel trattato, avvelenando il cordoglio dei fuorusciti ricoverati in Piemonte, li spingeva ad eccessi d'opposizione, che la necessaria ed insieme sospetta resistenza del governo sembrava giustificare. La nuova Camera elesse presidente Lorenzo Pareto, già ministro, poi uno dei capi dell'insurrezione genovese; parve una sfida, ma le bizze vanirono nella rettorica appena sì seppe la morte di Carlo Alberto; il parlamento sospese le sedute e prese il lutto per quindici giorni. L'abitudine monarchica vi era dunque più forte del sentimento rivoluzionario. Poco dopo Giuseppe Garibaldi sbarcato a Genova, solo, vinto, dopo l'epica difesa di Roma e l'incomparabile ritirata per le campagne pontificie, fu imprigionato. Il ministro Pinelli giustificava tale cattura coll'avere Garibaldi preso servizio sotto la republica romana senza autorizzazione del governo incorrendo così nella perdita dei diritti di cittadinanza e delle franchigie costituzionali. Atto codardo, logica assurda in un ministero presieduto da Massimo d'Azeglio! L'opposizione parlamentare si levò: l'arresto di Garibaldi significava molto più che il reazionario Pinelli non avesse pensato ordinandolo; Massimo D'Azeglio vinto da un voto del parlamento dovette dimettere Pinelli e liberare Garibaldi. Non pertanto s'impose all'eroe di scegliere un asilo fuori di stato.

Il rimpasto ministeriale operato dal D'Azeglio non valse a quetare l'opposizione. Se colla tradizionale ed ora più che mai benefica ambiguità piemontese, mentre s'imprigionava Garibaldi e s'abbandonava Venezia all'Austria, si era osato chiamare al ministero il veneto Paleocapa, illustre emigrato e più illustre idraulico, accennando così ad un indirizzo nazionale nella politica, la nomina dei Lamarmora, malviso ancora pel feroce bombardamento di Genova, a ministro della guerra, sembrò un guanto gettato all'opposizione. Così la proposta dignitosa di Cesare Balbo di votare il trattato colla sola protesta del silenzio fallì. La discussione invece inviperì agli articoli: il deputato Mellana, forzando la mano ai ministri con intempestiva ma abile proposta, ottenne che il trattato non si approvasse «finchè non si fosse per legge provveduto a regolare in modo conforme all'onore dello stato i diritti di cittadinanza dei cittadini originari delle provincie annesse per la legge del 1849, i quali all'epoca del 30 settembre 1849 avevano, e tutt'ora conservavano, la residenza in questi medesimi stati». Quest'affermazione d'italianità compensava in certo modo i tradimenti di Carlo Alberto e l'ultimo inevitabile abbandono all'Austria delle generose provincie insorte, ma sovvertiva la costituzione sottoponendo l'approvazione del trattato all'accettazione di un'altra legge e vincolando il voto del Senato. L'idea italiana e la tradizione piemontese cominciavano così quel lungo duello, che doveva costringere il piccolo stato a mutarsi colla propria sconfitta in regno italico.

Naturalmente il re sciolse la camera dirigendo al popolo il proclama, che fu poi detto di Moncalieri.

In esso Vittorio Emanuele uscendo dalla mitica irresponsabilità di re costituzionale fece un caldo appello all'antica affezione dei sudditi, e li affidò sul proprio onore che le nuove libertà non correrebbero alcun rischio nella politica necessaria di quel momento. L'urgenza di ratificare il trattato di pace per uscire da una situazione che il più piccolo incidente poteva precipitare nella peggiore delle crisi, si scoprì finalmente alla publica coscienza: non si badò all'incostituzionalità del proclama, non si avvertirono le equivoche minaccie di Massimo D'Azeglio in una lettera ai propri elettori quasi a commento del proclama e a sciupo della sua buona impressione: il decreto reale alla vigilia delle elezioni, facilitante il conseguimento della cittadinanza agli emigrati delle provincie annesse al regno, parve garanzia bastante al diritto di questi e all'onore dello stato. E si votò con migliori intenzioni. Quindi la camera approvò senza discussione il trattato di pace.

Pochi giorni dopo il Piemonte sgombrato dalle truppe austriache diventava l'unico stato italiano rimasto all'Italia.

Il problema della sua politica era allora così intricato che nessuno fra i migliori spiriti avrebbe saputo precisarlo.

Accettando nobilmente lo statuto Vittorio Emanuele aveva singolarmente aumentate le difficoltà del momento: la libertà piemontese in tanta furia di restaurazioni assolutiste sembrava ai più un'anomalìa e a molti un pericolo. L'Austria designava Torino come ultimo focolare d'incendi, l'imperatore di Russia troncava con essa ogni rapporto diplomatico, nella Francia medesima il trionfo momentaneo degli estremi partiti conservatori, pei quali serpeggiava segreta ed irresistibile la preparazione imperiale, crescevano l'antipatia al nuovo regno che scrollato, non rovesciato, dalla guerra si riaffermava francamente nell'ideale della rivoluzione italiana. Torino era mutata in ospizio di tutti gl'italiani illustri per ingegno, per prudenza, per sventura: alcuni fra essi, acquistata la cittadinanza, sedevano nel parlamento e reggevano persino ministeri; i più lavoravano modestamente o gloriosamente nelle industrie o nelle cattedre, nei giornali o nell'esercito. La nuova monarchia, chiudendosi con astuto coraggio entro lo statuto quasi ultima rocca, doveva però sapervi vivere ampliandola e fortificandola così che non solo tutto il popolo piemontese ma il resto d'Italia potesse capirvi a un dato momento.

L'opposizione dei partiti veniva quindi a rinnovellarsi inconsapevolmente.

Al dualismo monarchico e repubblicano, che aveva riempito di tumulti l'estreme ore della rivoluzione succedevano le antinomie parlamentari delle parti che accettando lo statuto volevano serbarlo intatto come un'egida, o affinarlo come un'arma contro l'Austria e a pro' dell'Italia. La tradizione piemontese e l'idea italica, mascherandosi con ogni più fragile drappeggio parlamentare, dovevano fatalmente combattersi in qualunque proposta di legge. Pei vecchi piemontesi lo Statuto concesso da Carlo Alberto per beneplacito, e conservato da Vittorio Emanuele per magnanimità non poteva mutare l'assetto politico dello stato; l'aristocrazia del nome e del censo vi sarebbe rimasta negli aviti privilegi imperando, quella con più lustro, questa con maggior comando: il clero conserverebbe nello stato e nella società l'indiscutibile primazia; il Piemonte abituato da secoli ad essere il migliore principato italiano, durerebbe sicuro e felice entro i propri confini abbandonando alla tragica fortuna della storia il resto d'Italia. La cattiva prova della recente rivoluzione, che pesava e peserebbe ancora a lungo sul Piemonte, persuadeva così al suo prudente orgoglio la piccola antica autonomia colla gerarchia intatta delle classi, cogli ordini politici inalterati, cogli usi sociali escludenti il popolo da ogni alta funzione politica. Lo statuto doveva cristallizzarsi in un ambiente di rispetto religioso e col sottinteso furbesco d'un egoismo ricusante di slargare i propri privilegi per tema di maggiori pericoli. Il re costituzionale ridiventerebbe così re assoluto, servito da una oligarchia parlamentare di censiti: l'idea democratica, sepolta nella gloria dello statuto, come i Faraoni in quella delle piramidi, non disturberebbe il facile e proficuo impero sul popolo. Del governo non restava quindi che un'amministrazione: il parlamento, anzichè assemblea di rappresentanti popolari, si riuniva come un collegio di padroni nello studio dei propri interessi.

Per gli altri costituzionali occorreva invece la consacrazione d'un nuovo ordine nello stato. Comunque concesso e redatto, lo statuto affermava la sovranità popolare: il re v'era bensì parte integrante ma non più superiore; bisognava consultare il popolo, farlo a poco a poco capace di maggiori libertà, idoneo a più alti diritti. Lo statuto svolgendosi aveva a correggersi e ad ampliarsi; era non il presente ma l'avvenire, e non solo del Piemonte d'allora ma d'un altro possibile Piemonte che dall'Alpi giungesse all'Adriatico. L'irresistibile senso di modernità, ond'erano spinti questi più abili conservatori ad un graduato progresso delle istituzioni, si spaventava però al solo nome di rivoluzione, mentre questa si appiattava non vista sotto ogni più anodina riforma, si scopriva in ogni urto di discussione, s'allargava ogni giorno in minuti ed incalcolabili mutamenti della vita. Se i vecchi piemontesi avevano nella loro conservazione dello stato il sottinteso di mantenerlo immobile per passione di antiche idee e di più antiche abitudini, e però non erano in fondo che aristocratici; gli altri parlando sempre d'Italia e di libertà non osavano precisare a se medesimi l'idea dell'uno e dell'altra nella necessità d'una nuova rivoluzione nazionale.

Gli estremi partiti clericali e radicali, pari nell'odio e nella energia, affettavano invece il disprezzo dello statuto: quelli qualificandolo d'empietà, questi d'ipocrisia: gli uni accusandolo di negare la religione, gli altri di perdere l'Italia; i preti minacciavano la dinastia dei castighi di Dio, i mazziniani la denunziavano alle assise della nazione, affermando in ogni necessaria contraddizione della sua politica un tradimento. Nessuna idea era ancora chiara, quantunque l'istinto procedesse già sicuro.

Le annessioni provocate da Carlo Alberto e ottenute con suffragio universale a rovescio di quello ristrettissimo dello statuto, il vessillo tricolore sostituito alla bandiera azzurra dei Savoia, la costituzione conservata, legavano il Piemonte alla rivoluzione italiana, mentre l'idea rivoluzionaria costretta ad essere republicana oppugnava sopratutto il nuovo regno costituzionale. Così il Piemonte aveva contro di sè tutti i principi italiani, l'Austria e Mazzini, non trovandosi in questa lotta disuguale altra arma che il proprio statuto. Bisognava isolare l'Austria in Europa, annullare col confronto del proprio esempio tutti i principi d'Italia alzando il principio della monarchia fino a quello di nazionalità, assorbire dall'eroico ed inorganico partito democratico tutta la verità della sua idea e l'inesauribile forza della sua passione per darle corpo in uno stato costituzionale e nazionale; e ciò venne fatto con processo sovente inconsapevole, con mezzi quasi sempre contraddittori. Il risultato ne riuscì anche maggiore delle intenzioni; il favore delle circostanze dovette compensare molte inabilità politiche.

Ma le prime difficoltà apparivano terribili.

Anzitutto era d'uopo esistere. Guerra e rivoluzione avevano stremato il paese, quella rivelando i pessimi ordini dell'esercito, questa sconvolgendo le idee e scrollando sulle vecchie basi tutti gl'interessi. Le finanze erano esauste, disfatta la milizia, poche le risorse, le istituzioni economiche sbaragliate, le politiche mal certe: bisognava ricreare non ripristinare. La conservazione dello statuto obbligava il Piemonte ad una preparazione rivoluzionaria più costosa della guerra passata per potersi rimettere in un momento ancora imprecisabile alla testa della nazione contro l'Austria. Ma il paese era povero: aggravandolo di nuove tasse bisognava schiudergli altre ricchezze; spingendolo sulla via della rivoluzione conveniva mantenerlo inflessibilmente nell'orbita monarchica; togliendogli l'entusiasmo democratico si doveva dargli un'ardente fede monarchica; limitandogli lo sviluppo della libertà era sopratutto necessario assicurargli in una prossima rivincita il trionfo della indipendenza nazionale.

Mai problema politico si presentò più avviluppato e grandioso.

Vittorio Emanuele, malgrado la volgarità della propria natura, ne assicurava buona parte della soluzione, giacchè accettando lo statuto non aveva conservato sottintesi. Prode, fremente della sconfitta, lealmente operoso, era pronto a tutte le conseguenze di questa prova ancora mal compresa di costituzionalismo rivoluzionario; nessun principe d'Italia, nessun re d'Europa aveva forse allora migliori intenzioni di lui e più salda volontà di mantenerle. Il parlamento incomparabilmente superiore a quelli di Napoli di Firenze e di Roma, era nullameno inetto al difficile esperimento. La sua destra, capitanata dal conte Solaro della Margherita, era ancora più dinastica che monarchica; lo statuto non le pareva che una prepotenza rivoluzionaria mantenuta nel governo da una irragionevole necessità, e della quale bisognava limitare lo sviluppo. La sinistra, guidata da Brofferio, avvocato, retore sino all'eloquenza, tribuno e letterato, irrequieto ed impetuoso, nobile ed imprudente, capace di grandi idee ed inabile nella pratica, democratico intransigente e non pertanto costituzionale arrendevole, si componeva di radicali. Fra essi molti fuorusciti diffidenti ancora della monarchia o feriti dalla rivoluzione spasimavano di rivolta, pronti a scambiare ogni prudenza di governo per una viltà e qualunque manovra diplomatica per un tradimento; impazienti nella preparazione ed eccessivi nei dibattiti, altrettanto ingiusti nelle accuse quanto magnanimi nelle intenzioni, più italiani che piemontesi, mentre bisognava essere più piemontesi che italiani per poter un giorno essere solamente italiani.

La maggioranza governativa, mobile e indeterminata, non avea programma esplicito. Balbo, ultimo e più illustre fra i neo-guelfi, rappresentava i vecchi liberali ora incompresi ed incomprensibili. Alfonso Lamarmora, cavaliere antico, più nobile di un re e più austero d'un cenobita, era la speranza dell'esercito, ma fanatico di fede costituzionale non vedeva l'Italia che attraverso la dinastia. Molti insigni emigrati si tenevano pronti a servire. Genova era rientrata nella calma, ferita e pensosa; Torino non comprendeva ancora se stessa, sollevata dal soffio ardente d'italianità che infiammava tutte le sue vie; la Sardegna, una volta così importante pel Piemonte, non era adesso che la sua più remota provincia.

Massimo D'Azeglio governava. Leale e generoso nella nuova pratica costituzionale, procedeva nullameno lento ed impacciato sentendosi spinto e temendo d'inoltrare troppo. Una nervosità di artista gl'impediva la destrezza e la calma d'una politica naturalmente bordeggiante fra gli scopi per riannodare i rapporti diplomatici con tutte le potenze e dominare i partiti. Quindi era più amato, che stimato, si credeva meglio alla sua parola che alla sua forza, valeva piuttosto nella diplomazia per qualità personali che nel parlamento per sicurezza di metodo o abilità d'espedienti.

La prima grossa battaglia parlamentare dopo la legge sulla ripartizione dei collegi elettorali, che la sinistra osteggiò per malata diffidenza verso il governo, s'accese per l'abolizione dei privilegi ecclesiastici. La legge fatalmente rivoluzionaria discendeva dallo statuto e ne slargava il principio reintegrando la sovranità civile contro le viete dominazioni del diritto canonico. I partiti vi si accanirono: la vecchia destra si schierò francamente all'opposizione; i più condiscendenti fra essa arrivarono sino ad un nuovo concordato con Roma, infelice negazione del nuovo diritto statutario che ne avrebbe sottomesso la parte migliore agli arbitrii della curia papale. La sinistra si strinse intorno al governo; Roma, che sopportava l'occupazione francese ed austriaca senza protestare nemmeno alle esorbitanze dei generali stranieri malmenanti vescovi e paesi, sentì la minaccia e minacciò. I suoi giornali politici, guidati dalla Civiltà Cattolica, apersero una campagna furibonda d'insolenze, nauseante di perfidia. Il ministero vacillò, scese a tentare accordi: il conte Siccardi fu mandato a Portici, allora residenza papale, ma indarno. Quindi D'Azeglio con abile intrepidezza lo chiamò al ministero commettendogli di presentare al parlamento un disegno coordinato di leggi sull'abolizione del fôro e delle immunità ecclesiastiche, sul divieto alle manimorte di acquistare beni senza l'autorizzazione regia e sulla riduzione delle feste religiose. Senato e parlamento approvarono, il re sanzionò, il popolo esultante proruppe a tali eccessi di dimostrazioni che si dovettero frenare colla forza, mentre la curia inviperita s'abbandonava alle peggiori escandescenze, negando persino i conforti religiosi al morente ministro Santarosa. I vescovi di Torino e di Cagliari vennero imprigionati.

Il conte Camillo Benso di Cavour sostenendo validamente quelle leggi si mostrò per la prima volta sulla scena politica, che doveva poi riempire di se stesso; Vittorio Emanuele trovava finalmente in lui il proprio grande ministro.

Il Conte di Cavour.

Questo torinese era nato (1810) fra le tempeste del primo impero.

La sua casa, una fra le più antiche del Piemonte, aveva imperato sulla piccola repubblica di Chieri, nella quale componeva l'eptarchia dei B, i Balbo, i Balbiano, i Biscaretti, i Bruschetti, i Broglio, destinati agli splendori di una lunga illustrazione in Francia, i Bertone e i Benso. Razza e parentela erano molto miste; san Francesco di Sales era un suo antenato; fra i suoi congiunti più intimi, tutti legittimisti piemontesi e francesi della più ostinata intransigenza nella fede cattolica ed aristocratica, brillavano anche dei protestanti svizzeri dallo spirito colto e di tradizioni liberali. La sua educazione fu quella della sua famiglia e del suo tempo. A dieci anni entrò cadetto nell'accademia militare dei nobili, a diciotto ne uscì ufficiale col solito leggero bagaglio di istruzione, ma sospetto già ai superiori per aver servito mal volentieri fra i paggi del principe di Carignano. Poco dopo, le giornate di luglio a Parigi gli strappano frasi così liberali da meritargli la relegazione in un forte e da costringerlo a dare le dimissioni.

Giovane, alacre, ignorante ma superbo di confidenza in se medesimo, si butta agli affari: compra senza denaro una vasta terra, ne muta la coltura, s'improvvisa agricoltore e sindaco del proprio villaggio, scruta la vita nei più umili particolari, impara uomini e cose, mescola relazioni signorili, borghesi e popolane, si correda di studi pratici, viaggia in Francia e in Inghilterra, non sospettando ancora se stesso e nullameno scherzando sulla possibilità di essere un giorno primo ministro d'Italia. Se scarseggia tuttavia di idee, i suoi istinti sono molti e sicuri: è un liberale e un aristocratico intento ad assimilarsi la modernità della borghesia. Le sue opinioni originali per difetto di coltura derivano dall'esperienza e mirano alla pratica: l'equilibrio delle sue facoltà mezzane togliendolo al pericolo delle grandi ascensioni del pensiero lo salva pure dalle incertezze, anche più perigliose delle discese dai sistemi alle applicazioni quotidiane della vita reale. Mentre Parigi seduce in lui il giovine libertino, l'Inghilterra attira già l'uomo colle meraviglie della sua industria e i miracoli del governo parlamentare. Involontariamente le sue lettere di viaggiatore tradiscono il progresso del suo spirito: la politica vi domina, ma piana, senza ideali e senza sistemi, liberale d'istinti e di metodi, parca d'entusiasmi, pronta a subire le cose dopo averne valutata la forza irresistibile, con un'antipatia quasi irragionevole per tutte le forme ed anche le grandezze rivoluzionarie. La sua sola passione è la libertà parlamentare misurata da leggi regolarmente votate, espressa da partiti ordinati, praticata dal paese come un'abitudine di benessere materiale e morale.

Nella sua ignoranza di ufficiale, di agricoltore, di gentiluomo e di sindaco, che istruendosi non riflette se non a quanto gli cade sott'occhio e non mira che ad acquistare nozioni scientifiche praticabili, la storia e la nazione, che conosce meno, è quella d'Italia; pensa, parla, scrive in francese. Intravede confusamente il moto ascendente delle plebi, e improvvisa un opuscolo volgare di pensiero, povero di dottrina ma sicuro di buon senso sul modo di combattere lo sviluppo delle idee comuniste; avverte l'agitazione accresciuta allora dal grande tribuno cattolico O' Connell in Irlanda contro la tirannia inglese, e temerariamente in un libercolo, che la sua gloria di statista rese poi celebre, affronta il problema della conciliazione fra i due paesi con un sistema di riforme che non sfiorano nemmeno il nocciolo della questione, ma accennano già alla futura destrezza dell'uomo di governo altrettanto scarso di principi quanto fertile d'espedienti, più abile a coordinare una rivoluzione che a sorprenderne l'idea e a suscitarne le forze.

Se da principio il suo liberalismo è tale da strappargli in una lettera l'augurio di poter dare persino ai gesuiti il quadruplo della libertà, che essi concedevano ai popoli sui quali imperavano; mentre invece tutto l'eroismo dei rivoluzionari lo lascia nella più perfetta insensibilità, e i prodigi di pensiero accumulati nei prodromi della grande rivoluzione federale del 1848 sfuggono alla sua così penetrante attenzione sino a permettergli di rallegrarsi con Michelangelo Castelli della caduta della republica romana; presto un implacabile buon senso lo arresta. Della propaganda e della guerra rivoluzionaria egli non vede che l'arruffio dei propositi, la sproporzione goffa dei mezzi, l'inconsistenza degli ordini, l'inanità tragica e spesso ribalda delle sètte, l'assoluta mancanza di senno pratico e politico. Il segreto ideale della rivoluzione gli si nasconde, ma nessuna delle sue chimere lo inganna. La vecchia società aristocratica, donde è uscito, non vuole avanzare; la nuova, ove sta per entrare, non sa ancora procedere.

Mentre Gioberti delira nella lirica filosofica del Primato, Balbo s'inganna a studiare per l'Italia Speranze di risorgimento fuori della sua storia e della sua vita, D'Azeglio si conforta e conforta scrivendo romanzi migliori di patriottismo che di arte, Cavour nè filosofo, nè storico, nè letterato, non ancora mescolatosi alla vita pubblica, osserva e critica. Egualmente lontano dalla rivoluzione e dalla reazione egli è già un giusto mezzo; ma in questo limbo, ove il pensiero dovrebbe per forza farglisi dottrinario e l'azione diminuire gradatamente in una improba inefficacia, il suo spirito operoso si salva collo studio e collo stimolo degli interessi. Come tutti i veramente forti egli è paziente. Anzichè scomporsi indarno per inoltrare sulla scena politica affrettando la propria ora, si mette fra i fondatori della Società agraria, ne redige gli statuti, provoca comizi, nei quali sotto pretesto di agricoltura s'aguzza lo spirito di discussione, e i problemi più vitali si famigliarizzano anche alle intelligenze volgari; col conte di Salmour diffonde la istituzione delle Sale d'Asilo, col marchese Alfieri fonda un club liberale dal titolo inoffensivo di Società del Whist, commenta i viaggi agronomici del marchese di Châteauvieux, s'addentra in tutte le questioni finanziarie senza preparazione di studi economici, guidato dalla luce del proprio ingegno e ricorreggendolo continuamente nella pratica universale, s'appassiona a disegni ferroviari, a trattati di commercio, a istituti di cambio, con una superba trascuranza di ogni teoria e una sicurezza d'analisi e una costanza di preferenze, che nel liberalismo economico preparano un più vasto liberalismo politico.

Mentre intorno a lui la rettorica dell'italianità vaneggia nelle più sciatte e pericolose pretensioni, a trentasei anni, nel 1847, prima che la costituzione sia concessa, si preoccupa già della necessaria abilità parlamentare. Naturalmente simpatie e modelli sono per lui in Inghilterra. Le riforme di Robert Peel lo esaltano, la livida minacciosa figura di Pitt lo ammalia benchè troppo a lui opposta di natura, Canning, Fox, Burke gl'ispirano il desiderio di quell'eloquenza infallibile nella misura, nutrita di fatti, altrettanto temuta nelle repliche quanto ammirata nelle esposizioni, così necessaria ad un uomo di stato, e che l'inartistica aridità della sua natura gli contenderà sempre, anche nella foga più veemente delle battaglie o nella più esuberante prepotenza delle vittorie.

Nessuno lo sospetta ancora, molti lo dileggiano per quel continuo vantare le istituzioni inglesi, e lo chiamano milord.

Ma le tempeste dell'azione lo attirano irresistibilmente. Con D'Azeglio e con Balbo fonda un giornale, il Risorgimento, per sostenere l'accordo necessario fra popoli e principi; se non che questa tesi dei riformisti gli si muta improvvisamente fra le mani. Genova alle prime aure calde del quarantotto manda una deputazione a Carlo Alberto per chiedere l'espulsione dei gesuiti, e l'antico paggio del principe di Carignano diventato re, ricordandosi lo spirito del suo signore, con pronta e meditata temerità sorpassa i più democratici, e propone si domandi la costituzione. Questa concessa, mentre la rivoluzione scoppia in tutta l'Europa e la Lombardia è già in fiamme e a Torino i più saggi titubano ancora, Cavour insta perchè si passi subito il Ticino; combatte l'ipocrisia democratica di subordinare l'unione della Lombardia col Piemonte alla chimera di un assemblea costituente, sostenendo energicamente la necessità della loro fusione immediata. Finita la guerra nei più dolorosi rovesci, non perde la calma e s'oppone a coloro che vorrebbero pazzamente proseguirla con un esercito disorganizzato, senza tener conto nè della forza irresistibile dell'Austria, nè dell'opinione dell'Europa.

Poco dopo Gioberti sale al ministero sul vento di una pericolosa popolarità e Cavour temendo pel Piemonte un disastro di nuove follie lo combatte aspramente; ma Gioberti staccandosi dal proprio partito vuole invece fare del Piemonte uno strumento nazionale per la restaurazione, riconducendo colle armi il granduca a Firenze e il papa a Roma, e Cavour ingannandosi questa volta lo sostiene. Così egli ha già fissa e matura la propria idea: la rivoluzione deve accadere ma senza nè idee nè mezzi rivoluzionari portando il Piemonte alla conquista d'Italia. Solo in tal modo l'unità nazionale sarà possibile. Ma questa unità per lui non significa che l'espulsione dell'Austria; dopo l'egemonia del Piemonte farà il resto. Il suo disegno si arresta alla ricostruzione del primo regno italico. Egli non immagina nemmeno come disfarsi del granducato di Toscana; il problema dello stato pontificio gli si presenta insolubile: tutto al più si potrebbe staccarne quelle legazioni, che gli austriaci posseggono militarmente; il regno di Napoli così lungi è appena italiano per lui e non conta nel calcolo della sua politica. Per ora egli non è che piemontese; l'Italia sarà una conseguenza del Piemonte.

Quindi nessuno lo comprende.

La sincerità del suo patriottismo ristretto non è riconosciuta, la temperanza delle sue idee pare insufficienza, la precisione dei suoi propositi pratici volgarità: gli aristocratici sospettano di lui novatore, i democratici diffidano di lui costituzionale, il suo vivo senso piemontese contrasta all'italianismo effervescente ed insieme profondo dell'ora: nascita, educazione, concetti, modi, tutto gli è contro. Lo si accusa di codinismo, lo si isola nell'inazione. Ma la sua fibra si tempra nei contrasti, l'elasticità della sua natura si raddoppia, l'infallibile sicurezza del suo buon senso costringe grado grado alla stima: mentre tutti sono sbaragliati egli solo confida, quando piazza e corte recriminano egli solo è già inteso alla nuova preparazione. Qualche cosa dell'antica scienza politica italiana è rimasta in lui. Se nel patriottismo di Mazzini vi è del Machiavelli, in quello del conte di Cavour traspare Guicciardini: per l'uno la politica è una lotta di idee, per l'altro una guerra di fatti. Per Cavour tutto è mezzo, e il problema impostogli dalla scena politica va risolto coi dati della scena stessa; Mazzini fida nei popoli, Cavour non crede alla loro forza rivoluzionaria e si prepara a destreggiarsi coi governi. Nel proprio calcolo deve tener conto dell'Europa, nell'azione sorpassare il Piemonte senza comprometterlo. Così gli occorre anzitutto il potere, ma in esso bisogna risolvere prima il difficile problema di una dittatura parlamentare e ministeriale, non esorbitando mai dalle funzioni e creando la fede nella monarchia col rispetto alla libertà statutaria. Se ai tempi di Guicciardini nei mezzi della politica entrava anche l'assassinio, Cavour nel tempo moderno non potrà che assassinare moralmente l'avversario per meglio sfruttarne l'opera; ma lo farà con ammirabile perfidia disonorando Mazzini in faccia all'Italia e accusando Garibaldi davanti all'Europa. Questa facile e terribile abilità, che all'ingenuo D'Azeglio strapperà come in un grido di sdegno la parola: «empio!», congiunta sempre al più aristocratico disinteresse personale, lo renderà a certi momenti un enigma per amici e nemici. E la sua ambizione sarà così bonaria, il suo orgoglio così duttile, la sua ingratitudine così sensata, il coraggio de' suoi mercati così malizioso, la prontezza al guadagno così fulminea che disegni insufficienti o sbagliati gli trionferanno imprevedibilmente fra mano, mentre il mondo stupito li crederà concetti nell'infallibilità e il genio de' suoi stessi avversari ne parrà sopraffatto.

Nessuno come Cavour avrà vivo il senso della realtà. La sua sfiducia nel popolo italiano è sorprendente di verità e di costanza: egli solo nella rivoluzione del quarantotto aveva misurato il vôto di tutte le imprese. Federazione di principi, egemonia papale, republiche regionali, insurrezioni municipali, eserciti regolari e milizie di volontari, tutto gli si era rivelato del pari insufficiente. Tutto era fallito, e solo il Piemonte restava. Il popolo d'Italia non era nè rivoluzionario nè guerresco; il popolo non si batteva; tutto lo sforzo della guerra e della rivoluzione era stato sopportato da appena trentamila volontari; eroismi parziali non contavano: la massa dei ventidue milioni, che componevano la popolazione d'Italia, non s'appassionava nè di rivoluzioni nè di guerra. L'Italia era incapace di espellere l'Austria liberandosi contemporaneamente di tutti i principi e costituendosi in republica: il problema del papato, ora che la Francia vi si era annidata stanziando a Roma, era peggio che impossibile all'iniziativa italiana.

La rettorica nazionale malgrado la sublime verità di certi particolari non aveva fatto presa sullo spirito di Cavour. Nullameno questo scettico aveva una fede ancora confusa ma salda; poichè l'Italia incapace di compiere la propria rivoluzione aveva pure per una necessità dell'assetto europeo a mutare di condizione e ad essere conquistata, il Piemonte si doveva a questa conquista. Quindi prima l'indipendenza e poi la libertà; invece di costituente, annessioni e fusioni immediate, a stimolo di queste l'esempio della libertà costituzionale; ma siccome il Piemonte non bastava nè solo, nè aiutato da volontari italiani a lottare contro l'Austria, bisognava ingrandirlo nella stima italiana ed europea, aspettando dal caso l'aiuto di sufficienti alleanze.

Il grido di Giulio II «fuori i barbari!» diventa tutto il programma del nuovo statista.

Il genio italiano, che aveva delirato in Gioberti risognando col papa il primato universale d'Italia, e che errava ancora attraverso l'Europa con Mazzini predicando una impossibile iniziativa italiana per una terza epoca europea, s'impiccioliva solidificandosi nella ragione di Cavour sprezzante di ogni sistema, italiano a forza di essere piemontese, liberale per necessità di conservatore, rivoluzionario nell'orbita dei parlamenti e delle diplomazie, conquistatore per influenza di alleanze e per destrezza manipolatrice degli stessi inconciliabili elementi rivoluzionari.

Nessuno forse in questo secolo lo pareggiò come organizzatore all'infuori di Napoleone I, e questi lo era in modo diverso.

Così Cavour spiegando nel ministero la miracolosa attività di Mazzini nella propaganda rivoluzionaria, prenderà singolarmente e cumulativamente tutti i portafogli: una inesausta scienza dei particolari lo renderà ammirato e temuto da subalterni e da avversari senza che la stanchezza fra tante battaglie parlamentari e brighe diplomatiche lo sorprenda mai appesantendogli la mano o velandogli l'intelligenza. Nell'amministrazione anzi brillerà tutto il suo ingegno: in essa rinnovando tutti i trattati di commercio e mutando arditamente la politica da protezionista in libero-scambista si mostrerà rivoluzionario; spingerà il moto ferroviario colla stessa rapidità e sicurezza di Frère Orban nel Belgio; primo in Europa, colle finanze sempre stanche e nullameno sempre alacri di uno stato costretto ad una disastrosa preparazione di guerra, oserà il grande foro del Cenisio, riprenderà il concetto di Napoleone I sul golfo della Spezia creandovi il massimo arsenale piemontese all'ultimo confine dello stato con temeraria e superba affermazione italiana. La concentrazione nel Piemonte delle migliori forze nazionali, se non avrà con lui quel largo concetto di Mazzini, sarà non pertanto un capolavoro di destrezza e di costanza; l'altalena della sua politica ora favorevole ai moti di ribellione ora repressiva sino all'ingiustizia, esprimendo le insufficienze del suo pensiero davanti alla rivoluzione, rivelerà tuttavia un diplomatico sempre capace di riguadagnare in nuova combinazione il troppo concesso durante una crisi inevitabile alle recriminazioni di governi alleati: ma sopratutto un alto sentimento di libertà parlamentare e d'indipendenza piemontese lo salverà dalle quasi inevitabili dedizioni dei piccoli stati costretti a muoversi nell'orbita delle maggiori potenze.

Mentre Mazzini è prima riformatore che rivoluzionario, Cavour si presenta subito come un politico di governo, intento ad ingrandirlo moralmente e materialmente: quelli riassume tutta l'idealità italiana, questi nè unitario nè federalista condensa nella propria opera tutta la praticità possibile, oppugnando anzitutto lo straniero e preparando nell'inconfutabile superiorità del Piemonte la possibilità all'Italia di agglomerarvisi in un modo o nell'altro. Se Mazzini vede più lontano, Cavour vede più giusto; l'uno vuole l'Italia in una rivoluzione così liberale che la rimetta alla testa d'Europa con un miracolo di genio popolare, l'altro riconoscendo impossibile questo disegno e giudicandone pazzi o criminosi tutti i mezzi, non mira che all'alta Italia per costituirvi un forte regno del nord che potrà poi un giorno avvallare oltre il Po. La politica, che per Mazzini è la sintesi di una educazione spirituale, per Cavour non sorpassa un calcolo di combinazioni diplomatiche parlamentari, militari ed economiche; Mazzini vede per l'Italia un disastro quasi peggiore della divisione in tanti stati e della servitù allo straniero nella possibilità di ricostruirsi entro una conquista regia; Cavour pone il proprio supremo trionfo nel conseguimento della indipendenza dall'Austria e nella formazione di uno stato parlamentare, che armonizzandosi ai migliori governi europei fonda la tradizione monarchica colla libertà popolare, distribuendo equamente il potere fra le varie classi sociali e limitando al minimo lo spostamento degli ordini stabiliti.

Ma diffidente della rivoluzione per indole e per ufficio, Cavour saprà qualche volta osarne le temerità impadronendosi de' suoi metodi e de' suoi uomini avvolgendosi nelle più intricate contraddizioni senza che nè l'impresa gli si svii, nè l'opera gli si indebolisca.

In faccia al problema politico e religioso di Roma Mazzini appellerà dal Papa al concilio e dal concilio a Dio, dichiarando morto il papato in nome di una nuova rivoluzione cristiana: Cavour affermerà da Torino Roma capitale d'Italia, subordinandone la conquista al beneplacito della Francia e guarantendo il papato colla formula «libera chiesa in libero stato». Cavour morirà precocemente nel sogno di Vittorio Emanuele regnante al Quirinale; Mazzini, che lo vedrà realizzato, verrà vecchio e sconosciuto a morire in Toscana profetando con fede sublime la republica in Campidoglio.

Ma l'Italia non si sarà costituita che per l'opera loro; l'uno sarà stato il suo genio, l'altro il suo intelletto; questi le avrà inspirato la rivoluzione, quegli le avrà dato la costituzione; ma la trascendenza di Mazzini e l'insufficienza di Cavour, egualmente necessarie e fatalmente antagoniste, non si saranno conciliate che nell'istinto e per l'istinto di Giuseppe Garibaldi.


Capitolo Terzo.

La politica dell'egemonia

Ministero di Cavour.

Malgrado ogni buona volontà l'opera della ricostituzione piemontese si scopriva ogni giorno più difficile.

Mentre D'Azeglio usando del proprio ascendente personale s'affaticava a rifare la situazione diplomatica dello stato, e il conte Siccardi prendeva l'iniziativa delle riforme ecclesiastiche, e Alfonso Lamarmora accogliendo nell'esercito ufficiali di tutte le provincie italiane si dedicava con incomparabile costanza al miglioramento degli ordini militari, i partiti politici dentro e fuori del parlamento non avevano ancora trovato il proprio assetto. Cavour, salito al ministero del commercio, iniziava con prodigiosa destrezza ogni maniera di riforme economiche, piuttosto sbalordendo compagni ed avversari che traendosi dietro un partito capace di sorreggerlo. Le questioni di politica generale si ripetevano ad ogni incidente, giacchè le frequenti dissoluzioni delle Camere non avevano bastato ancora a schiarire negli elettori il grande problema del momento. La destra, subendo la legge sulle immunità ecclesiastiche, aveva esaurita ogni condiscendenza; l'estrema sinistra teneva sempre il broncio o declamava; solo al centro sinistro un forte gruppo capitanato da Urbano Rattazzi, abile avvocato e più abile parlamentare, che il coraggio di affrontare al potere le massime crisi della futura rivoluzione doveva poi rendere illustre, manovrava destramente per accostarsi al governo.

Il colpo di stato del 2 dicembre 1851, scoppiato in Francia rovesciandovi la republica, scrollava i piccoli stati vicini. Napoleone III per proclamarsi imperatore dovette necessariamente iniziare un'altra reazione. Il Piemonte fra le nuove pressioni francesi e le costanti minacce dell'Austria, non più coraggioso della Svizzera, piegò violando l'ospitalità accordata ai fuorusciti e restringendo la libertà della stampa. Con una legge improvvisata nella paura si tolse quindi ai magistrati d'appello, congiunti ai giudici del fatto, i giudizi sui reati di stampa per offese ai sovrani esteri, e si attribuirono ai tribunali ordinari colla condizione della richiesta della parte offesa, affermata ma non esibita dall'accusatore pubblico. Era una dedizione della miglior parte della sovranità e per la quale si sottoponeva all'arbitrio di governi esteri la libertà dei cittadini e dei fuorusciti; i nuovi processi con denuncie estere e segrete avrebbero tolto ogni rispettabilità alle sentenze. Nullameno la destra guidata dal colonnello Menabrea pretendeva di peggio; il centro sinistro s'accostava invece al governo purchè la reazione non andasse oltre. Cavour con ardita manovra, profittando dell'assenza del D'Azeglio presidente del gabinetto, volse le spalle alla destra. L'antico partito savoiardo rimaneva così distanziato come un battaglione di veterani incapace di reggere alla fatica di tappe forzate; il nuovo partito italiano arrivava al potere per scoprire alla nazione il segreto della grande preparazione piemontese. D'Azeglio, sorpreso e sorpassato, recalcitrò a questa prepotenza di Cavour, che avendo già preso i portafogli del commercio e delle finanze, esautorava con un colpo di stato parlamentare la presidenza del gabinetto. La dittatura cavouriana cominciava con una combinazione di partiti, ai quali il conte Revel reazionario dette il nome, rimasto poi celebre, di connubio. Ma il ministero ne rimase scosso. Luigi Carlo Farini romagnolo vi era dianzi succeduto nel dicastero della pubblica istruzione al conte Gioia piacentino, come a mantenervi il carattere italiano colla propria qualità di fuoruscito: quindi i clericali costrinsero con una carica disperata D'Azeglio a nuovi rimpasti per dar tempo ai partiti di riorganizzarsi. Un Alessandro Pernati clericale toccò un momento il ministero dell'interno per rendervisi ridicolo con severe ordinanze sulla chiusura dei fondachi nelle domeniche; ma la scissura fra Cavour e D'Azeglio, allargandosi ogni giorno, rendeva necessaria una separazione. D'Azeglio si credette per un'ultima volta vittorioso col costringere l'abile avversario a ritirarsi, mentre invece la rivoluzione parlamentare compìta da questo era già tale che egli solo avrebbe dovuto padroneggiarla. Infatti allontanandosi momentaneamente dalla Camera per saggiare in un viaggio a Parigi e a Londra la pubblica opinione sul problema italiano, Cavour parve anche più necessario di prima: il ministero D'Azeglio sbattuto dalle istanze insolenti del legato francese His de Butenval sulla solita questione degli emigrati e della stampa arenò nella questione del matrimonio civile. La Camera aveva votato quasi con entusiasmo questa nuova emancipazione dall'autorità sacerdotale nell'atto più importante della vita, ma il senato del quale le riforme siccardiane avevano già consumato il liberalismo, s'impuntò. Roma tempestava da tempo: la legge sul matrimonio civile raddoppiò quindi l'accanimento della sua resistenza. Invano il guardasigilli piemontese fece pompa di dottrina svolgendo in una memoria le ragioni dello stato nel contratto del matrimonio; più indarno e peggio Vittorio Emanuele si umiliò al pontefice sino a chiedergli in una lettera autografa l'assenso alla legge: Pio IX rispose sprezzante, il cardinale segretario Antonelli eccitò i vescovi alla rivolta contro la nuova eresia, il partito aristocratico minacciava, nelle campagne cresceva l'ostilità, i liberali aspreggiavano le titubanze del ministero, quindi D'Azeglio si dimise additando in Cavour il solo uomo politico capace di fronteggiare la situazione.

Questi, benchè anelante al potere, ebbe l'avvedutezza di lasciare tentare un ultimo esperimento di accordo con Roma da Cesare Balbo, che naturalmente fallì. Quindi riafferrò con mano sicura la direzione del governo. Ma risoluto a frangere tutte le resistenze del partito clericale non volle momentaneamente rompere l'equilibrio parlamentare col largheggiare verso il centro sinistro: così mantenne al ministero il Lamarmora, che gli guarentiva la riorganizzazione militare, il Paleocapa, ingegnere di grandissimo merito, che rappresentava lo spirito di progresso nelle opere materiali, e il Buoncompagni calmo e sensato intelletto, che vi conserverebbe la necessaria misura nella questione religiosa. Solo qualche mese dopo, per gli accordi stabiliti nel connubio, a questi successe il Rattazzi.

Il ministero D'Azeglio all'indomani della rotta di Novara era stato un'amministrazione di tregua; questo di Cavour era una giunta di combattimento. Infatti Gioberti morente a Parigi nella povertà di un illustre esilio, quasi profetando, tracciava nel Rinnovamento civile la strada che si sarebbe corsa per raggiungere l'unificazione nazionale.

Ormai la reazione paesana era vinta: la resistenza di Roma non impedirebbe certo il progresso della nuova legislazione.

Quindi Cavour comprendendo «l'impossibilità pel governo di avere una politica nazionale e italiana in faccia allo straniero, senza essere all'interno liberale e riformatore», si accinse febbrilmente a mutare la situazione del Piemonte. Perchè il piccolo stato potesse sotto l'insidiosa sorveglianza dell'Austria mettersi alla testa delle speranze nazionali, doveva non solo umiliare colla propria libertà costituzionale ogni altro principato italiano, ma spiegando in esiguo quadro tutte le energie di un grande paese riconquistare la stima dell'Europa con opere superiori alle proprie forze.

Bisognava anzitutto per salvare il Piemonte farne un istrumento della rivoluzione nazionale. Le sue finanze oberate dalle spese della guerra e dell'indennità parevano esauste. Il bilancio delle sue spese, prima non maggiore di 80 milioni, era salito nel 1849 sino a 216 milioni per fissarsi tra i 130 e i 140. Il paese era povero di manifatture, scarso a commerci. Invece di restringere le spese con meschini criteri di economie, che assestando il bilancio avrebbero lasciato il paese nell'inerzia e nella miseria di ogni avvenire italiano, Cavour osò raddoppiarle moltiplicando imposte, debiti ed opere pubbliche per farlo grande. Il suo bilancio, che nessun finanziere avrebbe potuto approvare, venne da lui stesso chiamato con frase superba «bilancio dell'azione e del progresso».

Col coraggio di un ingegno egualmente libero da sistemi e da pregiudizi, respingendo e correggendo ogni altra proposta, conquistò sul patriottismo della Camera un certo numero di tasse minute per 70 milioni, e ne impiegò tosto 200 per la costruzione delle vie ferrate di Genova, Lago Maggiore, Novara, Susa, Savoia: sviluppò lo spirito di intrapresa, ridestò la vita nelle provincie con ogni mezzo di comunicazione. Quindi, malgrado l'ingrossare del deficit, ridusse la tassa del sale, compì la riforma delle tariffe postali. Una fede incrollabile nei miracoli della libertà e del lavoro lo sosteneva: però miglior uomo di stato che economista contraeva debiti per aumentare la somma circolante di denaro a favore delle industrie, e cresceva loro le tasse per stimolarle con sapiente gradazione a migliore attività, mentre colla rinnovazione libero-scambista di tutti i trattati apriva nuovi sbocchi alla produzione e annodava relazioni diplomatiche capaci un giorno di frutti politici. Per questo riguardo il suo trattato colla Francia, dalla quale sentiva la necessità di comprare a qualunque prezzo simpatie politiche, fu più scarso pel Piemonte di vantaggi materiali che non quello coll'Inghilterra. Ma come tutto ciò non bastasse, prodigava denaro all'esercito su ogni istanza del generale Lamarmora, muniva Casale, fortificava Alessandria, riforniva magazzeni, aumentava i quadri delle milizie. Un'incomparabile attività si ridestava nel Piemonte: Torino formicolava d'insigni fuorusciti; nelle scuole ogni giorno cresceva il numero delle cattedre; l'orgoglio nazionale si rianimava alla fede, che il ministro mostrava nel paese.

Pochi anni dopo la rotta di Novara nessuno sapeva più riconoscere il vecchio Piemonte. Il parlamento assorbito nell'unità di una politica altrettanto varia nei mezzi che fisa in una sola idea, sempre destra negli espedienti e fertile nei risultati, non era più che una maggioranza docile ed operosa: l'estrema destra vi si mostrava in rari fossili, l'estrema sinistra in pochi declamatori. Un forte partito liberale sosteneva il ministro, anche sembrando talora osteggiarlo. Tutto piegava presto o tardi sotto lo sforzo della sua ferrea volontà.

La rivoluzione indigata nella costituzione avanzava rapida e sicura. Naturalmente se nella politica estera tutta l'abilità era usata a conquistare simpatie per mutarle in alleanze, in quella interna le difficoltà dovevano venire dai rapporti con Roma. Questa cresciuta a centro della reazione austriacante combatteva in Torino la nuova capitale morale d'Italia, giovandosi delle questioni religiose per sconvolgere la coscienza popolare divisa fra esigenze cattoliche e speranze italiane. Ma Cavour, cogliendo con pronta intuizione la necessità di tagliar corto ad accordi impossibili, spinse alacremente le riforme. Le leggi sul matrimonio civile, sulla riorganizzazione dei beni ecclesiastici, sulla soppressione degli ordini monastici mendicanti, incalzarono vivamente la curia vaticana. La rottura fu clamorosa, le lotte in parlamento e in paese animatissime. Tutti sentirono confusamente che si combatteva una suprema battaglia: sovranità civile e potere ecclesiastico, chiesa e stato, dopo un duello di quindici secoli erano agli ultimi colpi: nella vittoria dello stato trionfava la nazione, nella sconfitta del Vaticano Torino, provvisoria capitale d'Italia, salvava il diritto di Roma, eterna, futura capitale d'Italia.

Mentre i reazionari si scalmanavano contro queste leggi nell'ingenua convinzione di salvare da esse il cattolicismo, e i radicali si estenuavano a spingere il ministero in una guerra religiosa contro i preti per vendicare i millenari dolori inflitti all'Italia dal papato, Cavour nè rivoluzionario, nè reazionario, cattolico in fondo alla coscienza, di quell'indefinibile cattolicismo che transige coi dogmi riconoscendoli, dominava la battaglia col motto d'ordine - Libera chiesa in libero stato. - Questa formula indeterminata gli diede la vittoria. Lo stato invece di dichiararsi più alto della chiesa si affermò più vasto, e la contenne. Matrimonio civile, abolizione degli ordini mendicanti, riorganizzazione di una parte dell'asse ecclesiastico furono votati. Ma Cavour arrestò la soppressione degli ordini monastici ai più inutili, e s'oppose all'incameramento dei beni ecclesiastici. La sua coscienza di liberale rifuggiva dall'idea di un clero salariato e quindi assoldato dallo stato; la sua fede di cattolico non ardiva risalire all'antica idea cristiana del clero vivente colle sole elemosine dei fedeli.

Pio IX e il cardinale Antonelli, dopo aver maltrattato gli ambasciatori del Piemonte durante la guerra, gettarono alte grida nella rotta: il pontefice diramò un'enciclica e lanciò la scomunica; il cardinale pubblicò un sordido libello contro i ministri sardi, al quale rispose con dignitosa eloquenza Massimo D'Azeglio.

Cavour uscì ingrandito dalla lotta.

Oramai il Piemonte doveva combattere colla stessa impossibilità di transazione Austria e papato: la sua egemonia sull'Italia conquistava così un riconoscimento unanime.

Alcune sventure domestiche, malvagiamente interpretate dal clero come castighi divini, diedero quindi alla dinastia una più nobile aureola di dolore: la fede al ministro si mutò in fanatismo pel re, cui il popolo diede l'incredibile nome di galantuomo. E fu meritato.

Intanto l'Austria, esasperata dalla crescente fortuna del Piemonte, esagerava l'oppressione nelle Provincie del Lombardo-Veneto pei moti del 6 febbraio 1853 in Milano. Dopo aver nauseato l'Europa colla quantità e colla ferocia dei supplizi, violando ogni giure internazionale sequestrò i beni degli emigrati divenuti piemontesi per naturalizzazione. Il conte di Cavour, cui l'infelice tentativo mazziniano veniva a disordinare i lenti ma sicuri approcci della nuova politica monarchica, fu questa volta inferiore a se stesso nell'improvvido zelo di persecuzione spiegato contro i rivoluzionari a richiesta dell'Austria: chiuse le frontiere piemontesi ai fuggiaschi, imprigionò, sfrattò, deportò, svillaneggiò a mezzo della stampa ministeriale illustri patrioti con sì ribaldo accanimento da provocare nobili proteste a loro favore persino nell'esercito tutt'altro che rivoluzionario. Francesco Crispi, oggi (1888) presidente dei ministri, fu allora fra gli espulsi; Benedetto Cairoli, primogenito di cinque fratelli che dovevano poi diventare i Maccabei dell'imminente rivoluzione, anch'egli salito più tardi alla presidenza del ministero, venne condannato a domicilio coatto. L'odio al partito mazziniano spingeva l'illustre ministro a disonorarlo con ogni mezzo nell'opinione d'Italia a benefizio del Piemonte. Nullameno, compiuto l'atto malvagio, pensò tosto a sfruttarlo col denunziare all'Europa la ingiustizia dell'Austria nei sequestri sui beni degli emigrati, e col troncare con essa le relazioni diplomatiche. L'Italia, sbigottita nella propria novella fede monarchica dallo spietato trattamento del Piemonte verso i ribelli, si riconciliò immediatamente coll'ambiguo ed ardito ministro. I patrioti malmenati e dispersi non ottennero nemmeno la solita pietà per tutti i vinti: il ministro dell'interno Ponza di San Martino si vantò alla Camera d'aver fatto sequestrare a Genova una risposta di Mazzini prima che stampata, subornando con denari gli stampatori.

La profezia di Cesare Balbo, che la pace del 1849 fra Piemonte ed Austria sarebbe un semplice armistizio, pareva realizzarsi, quando il conte di Cavour memore dell'antico Scipione osò per meglio combattere l'Austria entrare momentaneamente nella sua alleanza coll'Inghilterra e colla Francia contro la Russia.

Guerra di Crimea.

Dal 1815 al 1848 la Russia aveva sempre rappresentato nella Santa Alleanza la maggior forza materiale, il più arcaico assolutismo politico. Pronta a rovesciare mezzo milione di soldati ovunque scoppiasse una rivoluzione, aveva nullameno secondata quella di Grecia contro il sultano nel disegno secolare di conquistare la sublime Porta: più tardi alla rivoluzione del quarantotto scrollante tutti i troni essa sola rimase salda; ma per quanto la situazione europea le fosse propizia, colla Francia sconvolta dalla republica, l'Austria in preda alle sommosse, la Prussia disordinata da ribellioni, la Germania assorbita nella dieta di Francoforte, l'Inghilterra isolata ed incerta, non osò gettarsi sulla Turchia. Parve che l'imperatore Niccolò si preoccupasse: anzitutto, di salvare il principio monarchico: quindi soccorse l'Austria contro l'Ungheria, e minacciò tutte le rivoluzioni congedando persino il legato sardo da Pietroburgo. Ma col ritorno della pace lo rimorse il desiderio della conquista. L'idea russa lo traeva irresistibilmente ad accaparrarsi la sovranità di quei Principati Danubiani, che la Turchia aveva già cominciato a cedere da tempo con una mezza emancipazione e un incerto protettorato. Quindi la questione, così detta d'Oriente, si riaccese: tutte le diplomazie europee n'andarono sossopra. L'Inghilterra, costretta alla rivalità colla Russia nell'Asia, intese a frenarla in Europa; questa col vanire dell'impero ottomano entro una conquista russa perdeva ogni equilibrio politico. L'Austria, eteroclita federazione di popoli antagonisti riuniti nella servitù dell'antica dinastia Asburghese, si sentiva minacciata dall'espansione slava, che avrebbe riaccese le ribellioni appena spente infiammandone altre; la Francia tornata all'unità imperiale con Napoleone III, e però smaniosa di riprendere in Europa la perduta preponderanza, vedeva con terrore estendersi un impero già occupante mezza Europa, e che affacciandosi al Mediterraneo vi avrebbe incontrastabilmente dominato. La Grecia invece si preparava con patriottica esultanza a un'altra guerra contro i turchi.

Le preparazioni s'allungarono, corsero trattative, si tesserono i soliti imbrogli diplomatici per guadagnar tempo. La Russia minacciava la guerra al sultano come a difesa dei cristiani disseminati e soggetti all'impero turco: le potenze occidentali invece dichiaravano questo ancora barbarico impero necessario all'assetto europeo malgrado tutti i recenti principii rivoluzionari. Per una delle solite antitesi storiche la Russia ieratica della Santa Alleanza diventava improvvisamente fautrice dei popoli e vessillifera della rivoluzione; Francia ed Inghilterra, la nazione dell'89 e la patria della libertà parlamentare, si facevano d'un tratto sostenitrici della più ribalda ed arcaica tirannide contro la civile emancipazione di popoli cristiani.

Dopo tanti secoli i discendenti delle crociate si preparavano a morire per la salvezza dell'impero maomettano; ma la guerra determinata da ragioni di storia universale non doveva produrre grandi risultati immediati. L'Austria, ristabilitasi per l'aiuto della Russia, nicchiava ora alle sollecitazioni francesi ed inglesi per gettarsi forse meglio sulla preda maggiore o dal canto del più forte: Napoleone III trascinato dalla tradizione militare bonapartista ad avventure militari secondava l'Inghilterra atterrita per l'avvenire delle proprie colonie asiatiche; l'uno e l'altra, incapaci a sostenere coll'immane potenza russa una guerra così lontana, corteggiavano l'Austria numerosa di soldati e accampata sul confine del nemico.

Ma questo precipitando gl'indugi occupa (3 luglio 1853) i principati Danubiani e poco dopo a Sinope assale la squadra turca: Francia ed Inghilterra gl'intimano indarno lo sgombero dei Principati entro un mese con un ultimatum del 27 febbraio 1854; poi il 12 marzo si alleano alla Turchia guarantendole l'integrità del territorio in Asia e in Europa e non chiedendole in ricambio che di non scendere a trattative col nemico senza il loro consenso. Il 10 aprile a Londra le due grosse potenze stipulano un secondo trattato di alleanza per ristabilire su basi durature la pace fra la Russia e la Turchia, valendosi di ogni mezzo più efficace a liberare il territorio del sultano dall'invasione straniera e ad assicurare l'integrità dell'impero ottomano. Laonde dichiaravano di rinunciare a qualunque conquista nell'interesse dell'equilibrio europeo e di essere pronte ad accogliere nella loro alleanza qualunque altra potenza europea.

Quest'ultima dichiarazione era una riserva ed un complimento per l'Austria, che rispose colle solite tergiversazioni di non potersi cimentare ad una guerra d'Oriente coll'Italia alle spalle pronta ad insorgere per istigazione del Piemonte. L'argomento abbastanza buono per sè trasse le due grandi potenze a trattare l'Austria come il sultano assicurandole l'incolumità di tutte le sue provincie.

Il Piemonte aombrò. Il suo legato a Parigi nel leggere queste assicurazioni all'Austria sul giornale ufficiale credette di doversi lagnare per la sospettata lealtà del Piemonte; gli si rispose ipocritamente coll'accusare il partito rivoluzionario italiano, ed egli ribadì l'accusa. Ma l'Austria anche così garantita, proseguendo nel giuoco di stancheggiare le diplomazie per meglio accreditare i propri timori del Piemonte, fece proporre dal governo toscano all'inviato inglese in Firenze una temporanea guarnigione di truppe austriache in Alessandria. La grossolana manovra fallì, specialmente per opera di James Hudson, ambasciatore inglese a Torino, che smentì a Londra i denunciati apparecchi del Piemonte.

Nullameno questo sentivasi minacciato. Così ad una improvvisa domanda dello stesso ambasciatore, se il Piemonte fosse mai per partecipare alla guerra mandando nella Crimea un corpo di esercito, il conte di Cavour annuì prontamente. La sua penetrazione di statista gli scopriva nella temerità la sola via della prudenza: ma ritorcendo contro l'Austria il giuoco diplomatico, chiedeva garanzie per l'indipendenza del Piemonte. L'ardita idea parve poco dopo arenare nelle secche della diplomazia. Francia ed Inghilterra nell'invito al Piemonte non avevano mirato che a decidere l'Austria coll'assicurarle la pace in Italia. Infatti i ministri inglesi Clarendon e Russell, proponendo più tardi al governo sardo l'accessione al trattato del 10 aprile, intendevano patteggiare con un subalterno, del quale l'esercito sarebbe stipendiato e comandato dal generalissimo britannico. Cavour, solo al ministero nell'idea di così temeraria avventura, cansò con nobile avvedutezza il pericolo anche maggiore di questa umiliazione, pretese trattamento d'alleato, e mutò il soccorso inglese di due milioni di sterline in un prestito al 3%. Pure le difficoltà crescevano. La pubblica opinione avvertita del trattato, vi si chiariva contraria: i vecchi piemontesi se ne sdegnavano come di una follia rivoluzionaria, i rivoluzionari invece come di un tradimento all'Italia per lo sperpero delle vite e del danaro italiano fuori di essa e nell'alleanza indiretta dell'Austria ancora ostinata nei sequestri sui beni degli emigrati. Una scusa italiana era necessaria a questa guerra; quindi il ministro degli esteri generale Dabormida fu inflessibile sull'aggiunta di due articoli al trattato, che obbligassero anzitutto le potenze alleate ad ottenere dall'Austria la revocazione dei sequestri e a prendere più tardi in considerazione nel futuro trattato di pace le condizioni d'Italia.

Era giusto, ma impossibile diplomaticamente.

Gli emigrati, per iniziativa di Achille Mauri, con magnanima abnegazione firmarono una lettera, nella quale chiedevano di essere trascurati per l'interesse d'Italia; Francia ed Inghilterra, intente a trascinare l'Austria riluttante, non osavano accettare simili condizioni: finalmente la cancelleria austriaca in un nuovo trattato (2 dicembre 1854), così ambiguo che le riserbava libera azione nella guerra e i maggiori diritti ad ogni probabile negoziato di pace, mentre rigettava sulle altre due potenze tutto il peso della guerra, le rese impossibili. Ma nemmeno qui finirono le ambagi tedesche; si dovette tenere una grande conferenza a Vienna per un tentativo di componimento colla Russia, che abortendo per l'opera subdola dell'Austria permise a questa di esimersi dalla cooperazione delle armi. Così la guerra non pareva più che un ostinato capriccio della Francia e dell'Inghilterra. Nonpertanto l'Austria restava loro alleata.

La posizione del Piemonte peggiorava. Se l'Austria coll'invocare contro di esso la garanzia della Francia e dell'Inghilterra lo aveva di primo tempo esposto alle ostilità di una coalizione europea, ora il Piemonte ritirandosi dalla guerra come l'Austria avrebbe trovato contro di sè tutti egualmente nemici. La sua crescente importanza in Italia ne sarebbe scossa, le nascenti simpatie in Europa mortificate. Cavour lo comprese. Comunque l'impresa fosse per riuscire profitterebbe al Piemonte; se l'Austria rimanesse inerte, il piccolo stato la soverchierebbe colla gloria di aver ardito concorrere in tanta guerra europea; se spingendo all'estremo la propria perfidia si alleasse colla Russia, la questione italiana scoppierebbe spontaneamente.

Ma osando bisognava abbandonare ogni riserva.

Vittorio Emanuele lo aveva confessato francamente al duca di Grammont, legato francese; il ministro Dabormida più generoso si ostinava nei due articoli addizionali: Cavour soppresse articoli e ministro assumendo anche il portafoglio degli esteri e presentando il trattato alla Camera. La lotta parlamentare fu così violenta che il ministro per vincere dovette scoprire la corona, già moralmente impegnata colle due grandi alleate, e solleticare il patriottismo della sinistra col parlare degli interessi della nazione invece di quelli del Piemonte. Lo czar sdegnato aveva già dichiarata la guerra al Piemonte prima che le Camere ratificassero il trattato.

L'opinione pubblica, incerta fra l'entusiasmo e la paura, fremeva: Mazzini da Londra mandò un infelice manifesto ai soldati per spingerli alla rivolta chiamando la loro impresa una deportazione.

Il 21 aprile 1854 il corpo di spedizione salpò da Genova; nel maggio era già attendato sotto Sebastopoli. La guerra mal disegnata, peggio condotta per gelosia di comando fra i generali inglesi e francesi e per contraddizioni di propositi politici negli stessi governi, volgeva al termine. Dopo una serie di errori, che avevano sollevato a sdegno la pubblica opinione inglese contro i ladroni dell'amministrazione militare e l'arrogante insufficienza di lord Raglan, generalissimo imposto dalla corte, le truppe alleate stringevano d'assedio la terribile fortezza. L'Austria occupati i Principati Danubiani, spiava coll'arma al piede: Kossuth, il grande agitatore ungherese rifugiatosi a Costantinopoli, tentava invano secondato da Omer Pascià, il migliore generale turco, una sollevazione di patrioti contro di essa. Gli alleati in questo concordi, non volevano guerra di popoli per timore di nuove rivoluzioni; quindi fiaccarono prontamente la Grecia insorta, disdissero la Polonia, contraddissero alle aspirazioni dei Principati.

La guerra, ormai concentrata sopra Sebastopoli, era mortificata da sventure di ogni sorta. Triste l'inverno, più triste l'estate, malsano il clima, colèra e tifo imperversanti. Alfonso Lamarmora, generalissimo dei piemontesi, seppe conquistarsi tosto nel consiglio di guerra la dignità di voto non assicuratagli dai trattati di Cavour. In tanto sfacelo di ordini la sua piccola truppa, appena un quindicimila uomini, parve un capolavoro: i soldati, consci di difendere l'Italia in quelle plaghe lontane e frementi di rivalità colle famose milizie d'Inghilterra e di Francia, si copersero di gloria. Alle prime arroganze di lord Raglan, che pretendeva assegnargli come a subalterno ausiliario dell'esercito britannico il posto da presidiare, il generale Lamarmora rispose con orgoglio tranquillo facendo radunare il consiglio di guerra e ottenendo di guardare Kadikoi, villaggio pericoloso, dal quale i russi potevano sboccare nel mezzo delle trincee nemiche.

Quindi la guerra precipitò. Il generale Pelissier, succeduto al Canrobert con ordine di prendere la fortezza a qualunque costo, raddoppiò di vigore ed ammassò tutte le forze contro la torre di Malakoff, massimo fra i baluardi di Sebastopoli: i russi guidati da Gortschakoff avanzarono verso la linea della Cernaia per costringere il nemico ad abbandonare gli approcci. All'alba del 16 agosto 1855 i russi protetti dalla nebbia discendendo dal colle Makensie, assalirono violentemente: difendevano la valle della Cernaia le milizie sarde e circa quindicimila francesi: questi piegarono sulle prime, poi sostenuti dai piemontesi ressero all'assalto. Era battaglia e fu vittoria decisiva. Lamarmora aveva vinto salvando gli assedianti, resistendo, respingendo con un pugno di uomini tutto lo sforzo della Russia.

La vergogna di Novara era cancellata.

A distanza di secoli la vittoria di Traktir pareggiava quella di Zama: Scipione aveva liberato Roma in Africa, Lamarmora riscattava l'Italia in Crimea; nessun'altra vittoria della lunga storia italiana, fra le molte ottenute fuori d'Italia, potrà mai paragonarsi loro per l'arditezza dell'idea e la grandezza dei risultati politici.

Tre settimane dopo la torre di Malakoff rovinava fulminata dalle artiglierie francesi, e i russi evacuavano Sebastopoli dopo averla incendiata secondo il loro barbaro patriottismo.

La guerra tornò a languire. Le perdite erano enormi da ambo i lati: la Russia contava seicentomila morti, la Francia oltre centomila. Napoleone III contento della vittoria, che gli otteneva vero riconoscimento d'imperatore da tutti i grandi stati d'Europa, non intendeva spingersi oltre nel pericolo di una guerra, che poteva sviare da un giorno all'altro; l'Inghilterra, rassicurata sull'incolumità della Turchia, era stanca; l'Austria, dopo aver perfidamente nicchiato durante la grande impresa, stimò giunto il momento di trarne profitto imponendosi arbitra fra i belligeranti.

Quindi con prepotente iniziativa sottopose ai gabinetti di Parigi e di Londra alcune proposizioni di pace: neutralità del mar Nero chiuso a tutte le navi da guerra e aperto a tutte le bandiere, rinuncia della Russia al protettorato dei Principati Danubiani che ricadrebbero con nuovo assetto sotto quello della Turchia, libero il commercio del Danubio sino alla foce, limitato il dominio russo alla sponda sinistra del fiume stesso, guarentigie dalla Turchia pei suoi sudditi cristiani. Francia ed Inghilterra annuirono: la Russia vinta, piegò all'impreveduta intimazione austriaca. L'armistizio si concluse il 1^o febbraio 1856; il congresso europeo a Parigi era indetto pel 25 dello stesso mese.

Congresso di Parigi.

Dopo tanto armeggio diplomatico e tanta guerra di armi, l'Austria giganteggiava arbitra della situazione. La magnifica temerità del conte di Cavour conchiudeva contro di lui. La democrazia esasperata denigrava adesso nel disastro dei risultati la magnanimità delle intenzioni, giacchè la guerra d'Oriente immorale, costosissima di sangue e di denaro, aveva conculcato ogni principio di rivoluzione e di civiltà per la sola difesa d'inconfessabili interessi materiali. L'astro di Cavour sembrava tramontare: si buccinava che il Piemonte sarebbe escluso dal congresso, il pericolo anche troppo probabile di questa umiliazione avrebbe ridotto l'impresa di Crimea ad un parricidio per il Piemonte.

Ma il conte di Cavour pronto al riparo aveva già consigliato a re Vittorio Emanuele un viaggio in Francia e in Inghilterra, che si mutò in trionfo: le simpatie alla causa italiana crescevano, l'Europa cominciava a sentire la grandezza morale del piccolo stato. Ad una enigmatica ed allora scettica frase di Napoleone III «que peut-on faire pour l'Italie?» che al D'Azeglio era sembrata come quella di Pilato «quid est veritas?» il conte di Cavour, sempre inteso ad annodare col proprio incomparabile ascendente personale relazioni politiche in favore dell'Italia, rispose in una lunga lettera del 21 gennaio 1856, dieci giorni innanzi alla segnatura dei trattati di pace. In essa chiedeva all'imperatore d'indurre l'Austria a rendere giustizia al Piemonte, osservando gli obblighi con esso contratti e persuadendole meno aspro governo nelle provincie del Lombardo-Veneto; di frenare l'anarchica tirannide del re di Napoli e di ristabilire in Italia l'equilibrio del trattato di Vienna collo sgombro delle truppe austriache dalla Romagna, e colla costituzione delle Legazioni sotto un principe secolare.

Questo disegno così povero d'italianità e nel quale il grande liberalismo unitario doveva necessariamente riconoscere un tradimento dell'idea nazionale, fu nullameno scartato dal conte Walewski, primo ministro francese, per riguardi all'Austria e per non complicare il lavoro già difficile del congresso.

La politica piemontese procedeva di smacco in smacco. L'Austria, abusando della propria preponderanza, pretendeva di escludere il Piemonte dal congresso quale potenza di second'ordine, poichè il trattato d'alleanza firmato audacemente da Cavour come non aveva assicurato al Lamarmora la dignità di un posto nel consiglio di guerra, così non aveva guarentito al Piemonte parità di trattamento al congresso di pace. La tradizione diplomatica era ostile all'ammissione della Sardegna, stato minuscolo, alleato fatalmente secondario che non avendo deciso la guerra non poteva stabilire la pace. Ma l'astuto ministro superò il Lamarmora guadagnando a forza di maneggi la propria entrata al congresso. La prontezza del pensiero, l'a proposito delle osservazioni, un tatto fascinatore, gli ottennero ben presto nel solenne consesso simpatie ed importanza: con generosa avvedutezza egli sostenne la Russia contro le pretese intrattabili dell'Austria, sedusse lord Clarendon, persuase a Napoleone III e al conte Walewski, presidente del congresso, di toccare malgrado ogni impossibilità di procedura al problema italiano.

Un Memorandum era già stato presentato ai ministri francesi ed inglesi.

Tutto lo scopo dell'impresa di Crimea si condensava pel Piemonte in questa presentazione al congresso della questione italiana; naturalmente il congresso non potrebbe parlarne che platonicamente, ma il Piemonte otteneva così il riconoscimento della propria egemonia sull'Italia; e questa uscendo finalmente dal cerchio tempestoso delle insurrezioni saliva a quello più fecondo dei governi. Tutta la destrezza del conte di Cavour bastò appena per vincere le difficoltà che l'Austria moltiplicava per sottrarsi a tale discussione. In un congresso per una guerra combattuta contro tutti i principii di libertà e di nazionalità, il miglior argomento per Cavour era la propria politica francamente liberale ma risolutamente antirivoluzionaria: il suo spietato contegno contro gl'insorti pei moti del 6 febbraio in Milano, la sua prudenza nella questione religiosa con Roma, la sua guerra al mazzinianismo, gli ordini ammirati ed ammirabili costituiti nel Piemonte, gli valsero il permesso di parlare dell'Italia ad un congresso, nel quale l'Austria primeggiava. Si credè o si finse di credere che i suoi propositi fossero non già per una rivoluzione ma contro una possibile rivoluzione italiana.

Infatti le sue proposte avrebbero piuttosto nociuto che giovato all'Italia: le fruttò invece moltissimo l'aver sollevato il suo problema interno a problema europeo.

Durante la discussione, alla quale il conte Buol plenipotenziario austriaco si ricusò e dalla quale i legati russi finirono per ritirarsi, il conte Walewski fu guardingo e rispettoso per lo stato pontificio, giacchè il papa aveva in quei giorni tenuto a battesimo il principino imperiale, limitandosi ad auguri di componimento fra sudditi e principi italiani; il generale Manteuffel prussiano si mostrò scettico e riservato, il solo lord Clarendon condannò impetuosamente i governi papale e borbonico additandoli al disprezzo d'Europa. La sua foga fu tale che per poco non ne nacque aspro diverbio col conte Buol, anzi corsero fra essi tali frasi che non si vollero affidare al protocollo. Il conte di Cavour illudendosi, malgrado la solita perspicacia, sull'appoggio dell'Inghilterra in una guerra immediata contro l'Austria, spinse più oltre l'attacco; ma una visita a Napoleone e un'altra a Londra lo guarirono dell'illusione.

Naturalmente il congresso si limitò ad inutili consigli di minore tirannide all'Austria e al re di Napoli: quindi al suo sciogliersi Cavour presentò al conte Walewski e a lord Clarendon un memoriale, ove riassumendo tutti gli esposti argomenti minacciava l'Europa di nuove perturbazioni rivoluzionarie italiane per gl'insoffribili trattamenti dei governi reazionari verso i sudditi, e lamentava ancora una volta l'insostenibile posizione fatta al Piemonte fra le indomabili agitazioni mazziniane e le pressioni minacciose dell'Austria.

In tutta l'Italia l'opera del conte di Cavour al congresso di Parigi parve di vittoria: fioccarono indirizzi al grande ministro, crebbero le dimostrazioni verso il Piemonte. I toscani mandarono all'abile diplomatico un busto scrivendovi sotto il fiero verso di Farinata: A «colui che la difese a viso aperto». Non si avvertì e non si potè avvertire quanta insufficienza d'idea italiana e quale abbandono di patriottici propositi importassero i disegni esposti da Cavour nel Memorandum col quale non osava nemmeno domandare lo sgombero degli austriaci dal Lombardo-Veneto. Bastò alla coscienza nazionale il fatto non piccolo che un congresso di diplomatici avesse condannato tutti i governi dell'infelice penisola. Si comprese che il Piemonte come stato non poteva usare il linguaggio nè proporre la rivendicazione della patria coll'eroica ed intransigente formula di Mazzini; s'indovinò che, qualunque fossero i suoi disegni pel futuro, aveva dovuto allora non solamente mascherarli ma nasconderli; si sentì sopratutto che parlando in nome d'Italia contro tutti gli altri governi in un congresso, al quale essi non potevano entrare, il Piemonte iniziava quell'unificazione della patria attribuitagli da Manin.

A conferma di questa interpretazione il conte di Cavour, non contento delle frasi pronunziate alla camera contro gli ostinati oppositori della sua politica, spezzando i vecchi metodi diplomatici pubblicò per le stampe il proprio memoriale come una sfida: l'Austria presa al laccio fu pronta a rispondere in egual modo con un altro più insolente, mentre tutti i governi condannati tacquero come riconoscendo in essa il proprio difensore.

Il conte di Cavour abilmente non replicò.

Adesioni al Piemonte.

Evidentemente la sua politica cominciava a fruttare. Mentre il grande partito democratico capitanato da Mazzini proseguiva indomabile nell'opera rigeneratrice della coscienza nazionale, il Piemonte, pur combattendolo e serbandosi impassibile dinanzi ai dolori della patria, allargava la propria influenza. La nazione incapace d'insorgere al grido di Mazzini si rivolgeva consolata a questo governo parlamentare così forte da parlare all'Europa d'una politica italiana.

L'epoca eroica del metodo rivoluzionario era consunta: un'altra più fortunata ne cominciava.

Molti fra i più illustri rivoluzionari l'intesero, e chiudendosi in cuore i magnanimi ideali democratici, pensarono di aiutarla malgrado le sue inevitabili contraddizioni forse più dolorose dei martirii sofferti. Al grande distacco parve primo Manin nobilmente esule e silenzioso a Parigi da molti anni. Poichè John Russell, uno dei migliori statisti inglesi, a proposito dell'insurrezione greca nel 1854, consigliava gl'italiani a tenersi tranquilli sotto l'Austria, perchè solo così questa avrebbe potuto un giorno essere più umana verso di loro, con sdegno eloquente Manin respinse il prono consiglio per riaffermare anche una volta il diritto alla fede nella libertà e nell'unione d'Italia; quindi facendosi interprete del pensiero di molti disperati in cuor loro del programma mazziniano, sospinto da Giorgio Pallavicino, il venerato martire dello Spielberg, coll'assenso di Garibaldi più capace d'ogni altro a giudicare della potenza rivoluzionaria d'Italia, lanciò il nuovo verbo in una serie di lettere politiche che fecero il giro di tutta la stampa europea. La sua doppia formula: «Italia e Vittorio Emanuele - Indipendenza ed Unificazione», era la consacrazione dell'egemonia piemontese. Il passo era così decisivo che per nessun avvenimento si sarebbe poi potuto ritrarsene. «Io repubblicano - egli scrisse a Lorenzo Valerio nel settembre 1855 - pianto il vessillo unificatore. Vi si rannodi, lo circondi, lo difenda chiunque vuole che l'Italia sia. Il partito repubblicano dice alla casa di Savoia: fate l'Italia e sono con voi; se no, no». E ai costituzionali dice: «Pensate a fare l'Italia e non ad ingrandire il Piemonte; siate italiani e non municipali, e sono con voi; se no, no». Poi scende a spiegare la parola unificazione: «Io dico unificazione - scriveva - e non unione o unità; perchè la parola unità sembra escludere la forma federativa, e la parola unione sembrerebbe escludere la forma unitaria. Un'unificazione; può esser unitaria o federativa. L'unitaria può essere monarchica o repubblicana. La federativa non può essere che repubblicana: monarchica non sarebbe che una lega di principi contro i popoli. Accetto la monarchia, purchè sia unitaria: accetto casa Savoia, purchè concorra lealmente ed efficacemente a fare l'Italia».

Fu uno strappo nel grande partito rivoluzionario, che Manin accusò ingiustamente in una lettera di fondarsi particolarmente sulla teoria del pugnale. Così lo si rendeva responsabile delle solitarie vendette, e gli si toglieva nell'opinione d'Europa la poca stima rimastagli dopo tanti rovesci d'insurrezioni e tante calunnie di governi. Mazzini ferito al cuore rispose con lettera intenerita e severa, sfolgorante di logica e di fede, ma non potè impedire lo sbandarsi di molti fra i migliori del partito, nè ristabilire nelle masse la confidenza distratta dal nuovo programma di Manin.

Nullameno questo programma così logico appariva pochissimo pratico.

La mossa politica di Manin nel passare dalla repubblica alla monarchia, dalla iniziativa rivoluzionaria alla direzione regia, siccome trascinava alla dedizione di quasi tutto il partilo liberale così non poteva conservare ad esso vero programma. La saldezza degli ordini liberali era oramai indiscutibile nel Piemonte, la sua facoltà d'iniziativa più che provata al congresso di Parigi. Ma la sua politica di destreggiarsi coi governi per cercarvi un alleato contro l'Austria lo costringeva fatalmente alla rinunzia di ogni affermazione unitaria italiana. Il Piemonte non poteva sognare che la conquista del Lombardo-Veneto, sola regione limitrofa in mano allo straniero e che potesse venire annessa senza rivoluzioni.

Quindi Manin, tracciando il programma della nuova Società nazionale fondata a Parigi contro il grande partito nazionale riordinato da Mazzini dopo la caduta di Roma, cadde nelle più misere contraddizioni. La sua bella affermazione di libertà e di unificazione italiana per mezzo del Piemonte, concluse a «continuare l'agitazione in Italia, diffondere l'idea nazionale, esigere dai napoletani e dai siciliani l'esecuzione delle costituzioni del 1848 ed organizzare il rifiuto delle imposte; i toscani e i popoli dello stato pontificio sottoscrivere petizioni pel ristabilimento delle costituzioni abolite; i lombardo-veneti agitarsi come meglio potranno, prepararsi agli eventi, non fare alcuna sommossa che non abbia probabilità di rivoluzione. Appena scoppiata la rivoluzione, chi ne è alla testa proclami Vittorio Emanuele re d'Italia e convochi un'assemblea nazionale italiana, che rappresenti l'Italia insorta e possa, in caso di esitazione o ritardo per parte del Piemonte, continuare l'opera del riscatto, usando tutti gli elementi di forza che può somministrare la nazione».

Così l'unificazione d'Italia diventava impossibile in questo sogno rinnovato dei riformisti e dopo la tristissima esperienza delle restaurazioni.

Del problema di Roma non altra parola che questa da Manin: «Roma non si muova». Egli sentiva bene che Roma era il cardine della rivoluzione italiana, e che la sua questione risorgeva sempre improvvisa su tutte le altre; ma republicano veneto, che non aveva osato applaudire alla republica romana e aveva trattato col papa a Gaeta, non osava nemmeno ora la proclamazione di Roma capitale d'Italia.

Nullameno l'efficacia della dichiarazione di Manin fu immensa. Tutti coloro che aspettavano un illustre esempio per passare dal campo disperato della repubblica in quello trincerato della monarchia piemontese, si affrettarono sulle orme dell'esule glorioso contro il quale nessuna accusa era possibile. Se il congresso di Parigi aveva riconosciuto l'egemonia del Piemonte all'estero, Manin la consacrava all'interno; il suo programma naturalmente assorbito da quello di Cavour, non era più che l'ultima eco della grande declamazione rivoluzionaria.

Alla Società nazionale di Parigi, che alla morte di Manin (22 settembre 1857) perdette naturalmente d'importanza, ne corrispose un'altra a Torino per opera del La Farina, republicano preso recentemente nell'òrbita di Cavour come un satellite. Con essa si mirò a disciplinare entro metodi ed intenti regi quei republicani che dietro l'esempio di Manin s'arrendevano alla monarchia piemontese pur conservando maggior larghezza di propositi e più italiano ideale.

Invano Mazzini e Cattaneo, l'uno unitario, l'altro federalista, sostennero con pari nobiltà d'ingegno e di fede la tradizione republicana contro la tradizione regia: invano accusarono il Piemonte di conquista, sperando così sollevare contro di esso gl'istinti democratici moderni; più invano con logica inesorabile e stile luminoso esumarono tutti gli errori e i tradimenti di casa Savoia, e cacciando con feroce pietà la penna nelle ferite ancora sanguinolenti aperte da Carlo Alberto nel corpo della nazione italiana tentarono sottrarla al fascino della nuova illusione monarchica: storia e vita davan loro torto. L'ultima tradizione italiana era regia. Da quando le signorie tramontando nei principati e questi nei regni l'Italia si divise in quattro o cinque stati, dei quali la Sardegna e le due Sicilie soltanto ebbero vera importanza, il Piemonte dominando la valle del Po ed essendo a contatto con tutta la maggiore varietà di spiriti e d'interessi italiani rappresentò l'Italia in Europa. Le guerre e le catastrofi incessanti invece di rovinarlo lo ampliarono: esso solo fu stato militare ed indipendente. Le due Sicilie, maggiori di territorio e di popolazione, vissero e soffrirono quasi straniere al resto d'Italia. La rivalità storica di questi due stati si era risolta colla rivoluzione del '48: il Piemonte col mantenere lo statuto aveva assunto di costituire l'Italia conglomerandola in un solo grosso regno. Tre secoli di storia esprimevano questa tendenza monarchica, giacchè le ultime repubbliche di Venezia e di Genova erano perite nella peggiore inanizione, e quelle improvvisate dalla grande rivoluzione francese erano state una conquista altrettanto straniera che violenta.

L'ultima grande tradizione italiana era regia; in essa si verificava il passaggio dalla forma federale all'unitaria colla forma obbligatoria della conquista. Che se gl'istinti e i principii democratici moderni sembravano contrastare a questa fatalità, la storia abituata da tempo a procedere per contraddizioni si serviva di essi come di elementi piuttosto atti a difendere il vecchio edificio italico che a dare forma al nuovo: la democrazia nell'imminente rivoluzione italiana doveva essere idea ed avvenire, la monarchia tradizione e forma.

Quindi Cavour crebbe gigante nell'opinione universale.

La sua politica non mirava che all'espulsione dell'Austria dal Lombardo-Veneto: nel Piemonte governo, camere, costituzione, secondo un motto giusto e spiritoso, tutto non era più che il conte di Cavour. L'opposizione del conte Solaro della Margherita e del Brofferio, dell'estrema destra e dell'estrema sinistra, passavano nell'aria satura di passioni politiche senza determinarvi il più piccolo scoppio. La dittatura parlamentare del grande ministro si consolidava ad ogni scossa, saliva sempre più alto ad ogni discussione, come quei picchi che paiono alzarsi all'occhio del viaggiatore che vi si inerpica. La lunga pratica e la facile natura avevano identificato il conte di Cavour col Piemonte: vi reggeva tutti i ministeri, vi assorbiva tutte le idee, vi dava tutti gli ordini, vi portava tutte le responsabilità. Metternich, vecchio ed esule dalla politica, diceva di lui: «L'Europa non ha più che un diplomatico e questo è contro di noi». Alessandro Manzoni con più fine penetrazione seguitava: «Egli ha tutto dell'uomo di stato, le prudenze, e le imprudenze».

Alere flammam, era la sua divisa. Il Piemonte già povero ed ora più impoverito dalla guerra di Crimea e dalla preparazione ad una guerra maggiore, pareva a tutti oramai incapace di altre temerità economiche; ma Cavour, profittando della sottoscrizione aperta da Manin a Parigi per cento cannoni da regalarsi alla fortezza d'Alessandria, ne raddoppiava le opere militari, le riallacciava a quelle di Casale e di Valenza sul Po: sarebbe la prima barriera contro l'Austria e salverebbe il Piemonte, dando tempo al suo alleato di accorrere. Così fu. Il Piemonte è la regione più montanara d'Italia, ma questa il paese più marittimo d'Europa, e quindi ha d'uopo d'un grande arsenale. Cavour risuscita quindi il concetto napoleonico della Spezia, allora ai confini del piccolo regno, e vi prodiga milioni, avventurandovi il massimo arsenale dello stato. Il Piemonte aveva già sbalordito l'Italia per lo sviluppo delle proprie ferrovie: nullameno Cavour, secondato da Paleocapa, confida primo nel genio di Sommeiller e vuole stupire l'Europa forando il Moncenisio.

Tutto piega alla sua volontà. In questa febbre d'iniziativa il suo scopo più immediato è di esautorare la rivoluzione. Accetta i cento cannoni per Alessandria dalla sottoscrizione aperta a Parigi da Manin e permessa da Napoleone III, perchè torna a gloria del nuovo partito nazionale e accenna già ad un non lontano accordo colla Francia; ma si oppone tirannicamente ad un'altra aperta dai mazziniani per diecimila fucili da offrirsi alla prima città capace d'insorgere: bersaglia di sequestri incessanti il giornale repubblicano Italia e Popolo: profitta dell'attentato di Agesilao Milano contro re Ferdinando di Borbone e dell'infelice moto insurrezionale di Francesco Bentivegna in Sicilia, per disapprovare tutti i disegni rivoluzionari e gittare replicatamente sul partito republicano ogni più orribile accusa; prodiga persecuzioni poliziesche, sguinzaglia la stampa contro Mazzini, contrapponendo astutamente lo splendore dei propri risultati al suo fecondo e segreto lavoro, la regolarità della propria preparazione diplomatica e parlamentare alla necessaria anormalità della sua propaganda rivoluzionaria; mescola ignobili arbitrî a replicate affermazioni liberali, mescendo alla nazione, nel vino del nuovo entusiasmo monarchico, il veleno d'una diffidenza sprezzante contro le più grandi anime republicane intese a mantenere nelle ultime congiure la passione patriottica necessaria fra non molto ad integrare con ribelli iniziative i suoi stessi disegni di guerra falliti.

È la grande vigilia monarchica. Il partito republicano sta per morire. Il Lombardo Veneto si è acquetato, le Romagne sempre agitate si calmano, gli ultimi tentativi nella Lunigiana hanno conchiuso ad una insignificante follìa: nel Piemonte l'opposizione si volge appena distratta ad ascoltare qualche brano di declamazione parlamentare verso le alture dell'estrema sinistra: Garibaldi ansioso di nuova e vera guerra ha disapprovato gl'inutili ammutinamenti con frase più terribile di tutte le insinuazioni cavouriane: «Ingannati ed ingannatori!». Genova sola, patria di Mazzini, fermenta. Se Torino è la capitale della rivoluzione monarchica, Genova è la capitale della rivoluzione republicana. Quindi Carlo Pisacane, esule, illustratosi nella difesa di Roma, vi concepisce una suprema spedizione per sollevare le due Sicilie, sventandovi le mene murattiane ed impadronendosi di mezza Italia per controbilanciare così l'influenza monarchica del Piemonte. La polizia piemontese non sa nè sorprendere la congiura nè impedire la spedizione. Allora Mazzini tenta di sollevare Genova contro il governo piemontese, per sostenere con nuovi invii di armati l'impresa di Pisacane; senonché tutto gli fallisce e la sommossa conclude alla occupazione di un solo fortilizio colla morte di un solo sergente, mentre il battaglione di Pisacane è massacrato a Sapri.

Cavour, al quale lo smacco del suo grande avversario avrebbe dovuto bastare, sembra invece perdere la solita prudenza. Quasi dubbioso della sicurezza dello stato, sfoggia rigori, cerca a morte gl'innocui ribelli, li ammassa nelle carceri, impalca un enorme processo per alto tradimento, conduce una sozza campagna di calunnie contro gli accusati. L'opinione lo seconda, ma questa volta egli, così abile a maneggiarla, vi si ferisce. La persecuzione salva i ribelli dal ridicolo; Mazzini sfuggito per miracolo agli agguati della polizia, rimbecca da Londra le contumelie; le violenze infamanti del pubblico accusatore e le servili parzialità dei giudici durante il processo mutano il collegio della difesa in un'accademia di tribuni, che alla propria volta accusano il governo e possono appaiarlo con quello di re Ferdinando, allora egualmente occupato a disonorare i superstiti compagni di Pisacane; finalmente le truci sentenze, che condannano Mazzini ed altri cinque alla pena di morte, finiscono di compromettere il governo nella stima degli onesti. Nullameno le condanne a morte, per un resto della solita abilità, non colpivano che i soli contumaci; per gli altri si era abbondato negli anni di galera.

Contemporaneamente Cavour mandava l'ex-ministro Boncompagni ad ossequiare Pio IX, che tentava un viaggio nelle Romagne (1857), per arrestarvi colla propria presenza il progresso delle idee liberali.

Il grande ministro piemontese s'impiccoliva ogni qualvolta per necessità della propria politica s'affrontasse coll'idea republicana. Se Mazzini, trascinato dall'antica rivalità col Piemonte, commetteva uno dei soliti errori, tentando di sollevare Genova in aiuto di Pisacane, invece di ribellare piuttosto Livorno o qualche altra città di uno stato reazionario per non mostrare di cominciare l'attacco dall'unico governo liberale d'Italia; Cavour, scendendo a persecuzioni peggiori delle borboniche contro di lui, mentre nella politica interna si umiliava indarno a Pio IX e nell'esterna subiva il disegno di Napoleone III per un secondo regno murattiano nelle due Sicilie, scopriva il lato debole della propria italianità.

L'eccesso della reazione fu tale che le elezioni generali, seguite poco dopo, diedero un pericoloso sopravvento ai clericali: a Genova certo avvocato Bixio, una nullità reazionaria, riuscì eletto contro Giuseppe Garibaldi; molti canonici entrarono in parlamento; il conte Solaro della Margherita trionfò contemporaneamente in quattro collegi. Il vecchio Piemonte risorgeva contro il nuovo Piemonte italiano, per tentare una suprema rivincita dopo otto anni di sconfitte. Cavour dimise dal ministero dell'interno il Rattazzi, e ne assunse egli medesimo il portafoglio, raddoppiando coraggiosamente la propria responsabilità per meglio resistere al nuovo assalto.

Fortunatamente i tempi maturavano con benefica rapidità, e i successi nella diplomazia estera riavvaloravano il ministero scrollato dalle imprudenze commesse all'interno.

Poichè la pace del 30 marzo 1856 aveva lasciato molti punti indecisi nella questione d'Oriente, e la loro questione facevasi ogni giorno più difficile coll'Austria sempre più ostile, e la Francia sempre più condiscendente alla Russia, Cavour si assunse destramente la parte di paciere. Favorì l'unione della Moldavia colla Valacchia, secondo il principio di nazionalità contro l'Austria; conquistò le simpatie dello czar, al quale concesse una specie di diritto costante di rifugio in pieno Mediterraneo nella rada di Villafranca; s'affaccendò a mantenere l'Inghilterra unita alla Francia per averle più probabilmente entrambe favorevoli; ma sopratutto corteggiò in Napoleone III le tendenze avventuriere e la tradizione bonapartista, che lo traevano inconsciamente d'impresa in impresa.

Così rifece con lui un disegno di ricostituzione del primo regno italico con due principi francesi regnanti a Firenze e a Napoli. Mazzini era sempre stato l'unità; Cavour non era ancora l'unificazione d'Italia.


Capitolo Quarto.

L'opposizione rivoluzionaria

Disfatta del mazzinianismo.

In questo periodo l'opposizione rivoluzionaria riassunta con eccelsa grandezza personale da Giuseppe Mazzini si sdoppiò: la parte migliore proseguì infaticabile nell'opera contro tutti i tiranni d'Italia; l'altra, più sistematica ed intransigente, si torse contro il Piemonte, che mirando ad una egemonia sull'Italia veniva a contraddire fieramente principio democratico e forma republicana. Naturalmente lo sforzo maggiore dell'opposizione come partito fu contro il Piemonte. Nella guerra all'Austria e nell'odio alla reazione indigena convenivano quanti italiani avessero coscienza di patria mentre nell'idea della futura Italia tutti i partiti si urtavano. Il fallimento della grande rivoluzione federale, comprendendo anche la formula mazziniana, dava sovra essa un forte vantaggio alla nuova affermazione monarchica del Piemonte serbatosi costituzionale malgrado ogni rovescio. La tradizione regia e la tradizione republicana in lotta da molti secoli per il primato nella storia italiana si accingevano ad una suprema battaglia in quest'ultima preparazione rivoluzionaria. Da un canto stavano costumi, interessi, ordini costituiti di classi, gerarchie di ogni tempo e di ogni maniera: era in una parola tutta la vecchia Italia, che, sentendo i tempi novelli, voleva risorgere a vita politica di nazione, rimutando in se stessa solo quel tanto, che fosse strettamente necessario alla propria ricostituzione. Dall'altro urgeva lo spirito moderno rinnovato dalla grande rivoluzione francese intendendo il ricostituimento d'Italia nell'abolizione di tutti i privilegi storici e coll'avvento del popolo al governo.

Capitanava la tradizione regia il conte Camillo di Cavour, guidava l'opposizione rivoluzionaria Giuseppe Mazzini.

Forse mai nella lunga storia italiana vi fu lotta più grande di principii politici e di passione drammatica.

Alla caduta di Roma, Mazzini, tardi, con pochi amici, quasi dimentico del proprio pericolo, riprese la via dell'esilio. Tutto un mondo era franato su lui, ma egli ne dominava la ruina, dalla quale l'Italia emergeva a stento come un immenso cadavere. La reazione trionfante risaliva su tutti i troni d'Italia, si rassodava sui vecchi troni d'Europa, aveva persino trascinato la republica francese a rovesciare la republica romana per spianare la strada ad un secondo impero napoleonico. L'eroico tentativo di Giuseppe Garibaldi, cacciatosi con quattromila uomini fra gli Appennini per chiamare gl'italiani ad una suprema riscossa, si era esaurito nella più infelice delle ritirate: il generale stesso, profugo e cercato a morte, aveva potuto scampare a stento fra la ressa delle pattuglie nemiche e l'accidia disperata del popolo.

Mazzini riparò al solito nella Svizzera.

Di là con lettera fiammeggiante di sdegno scrisse ai ministri francesi per la maggior parte consapevoli strumenti di reazione imperiale, denunciò all'Europa con accento di profeta le intenzioni liberticide di Luigi Bonaparte, rispose all'enciclica di Pio IX. Con una foga di attività, cui i disastri sofferti parevano sprone, fondò a Losanna un nuovo giornale, l'Italia del Popolo, e vi riagitò, instancabile cavaliere della libertà, tutte le idee della democrazia, moltiplicando intrepidamente gli avversari con attacchi simultanei a tutte le scuole socialiste, redigendo con spaventevole sobrietà la cronaca del dispotismo italiano, riannodando le rotte file delle società segrete a ripreparare nel fervore delle battaglie recenti più vaste congiure. A Roma aveva lasciato Giuseppe Petroni, republicano stoico ed oscuro che una prigionia ventenne illustrò poi, perchè Roma fosse centro ai nuovi propositi italiani: ma Roma era di tutta Italia la città meno incline per natura e per storia a passioni di rivolte democratiche. Dalla Sicilia, da Napoli, dalle Romagne, dai Ducati, dalla Lombardia sopratutto, gli giungevano voci frequenti di ribellione. Pareva che tutto il popolo fremesse ancora, nascondendo nel riposo della sconfitta più fiera preparazione di guerra. E Mazzini sempre fisso nel concetto di una rappresentanza popolare, prende sul serio l'atto (4 luglio 1849), col quale gli avanzi dell'Assemblea romana si erano spontaneamente costituiti in una specie di frammentario parlamento nazionale senza mandato e senza sede.

Con esso crede possibile mantenere in Europa un'affermazione politica nazionale: quindi riassorbe questo introvabile parlamento in un comitato, del quale naturalmente rimane dittatore. Il primo manifesto (settembre 1850) in nome del comitato nazionale, equivoco a forza di essere conciliante, non parla che d'indipendenza, di libertà e d'unificazione come scopo, e ne pone a mezzi la guerra e la costituente: presso a poco la formula, che pochi anni dopo pronuncierà Daniele Manin. Ma piemontesi e lombardi fusionisti urlano all'utopia demagogica, mentre i repubblicani puri vi ravvisano sdegnosamente un atto di abdicazione e di piemontesismo. Il prestito nazionale italiano per dieci milioni di lire, da lui ideato ed emesso con cartelle segrete, non raggiunge che una somma ridicola: tutti i governi d'Italia vegliano sulla propaganda mazziniana, tutti i governi d'Europa tempestano di domande l'Inghilterra perchè espella il pericoloso agitatore. Ma egli, sempre maggiore apostolo che politico, al problema italico aggiunge quello di Europa, e con Ledru-Rollin, Arnoldo Ruge e Darasz fonda il comitato democratico europeo per riunire in un solo programma le forze e gli ideali divergenti della democrazia continentale: poco dopo si allea con Kossuth per prendere l'Austria fra due fuochi, smarrendo così nell'immensità di un disegno sempre crescente quel senso della realtà immediata e quel criterio esatto dei mezzi, che fanno della politica una scienza piuttosto d'azione che di pensiero.

Se non che all'urto delle contraddizioni scoppianti in seno al partito stesso nazionale, Mazzini, costretto a precisare meglio il proprio programma, rispiega la bandiera republicana, e torna coll'incrollabile fede del popolo a risognare una rivoluzione di congiure. Il suo ideale democratico, svaporando, lascia nuda l'inguaribile miseria del disegno rivoluzionario. I maggiori capi l'osteggiano. Maestri, illustre economista, scorato, sconsiglia Mazzini dalla lotta per ritornare all'innocua propaganda dei libri; Montanelli, ancora esaltato di republicanismo, lo accusa di piaggiare il Piemonte; Cattaneo, che sulle prime aveva riconosciuta valida la costituzione in parlamento nazionale degli avanzi dell'assemblea romana, ostinato nell'idea del federalismo italiano, si isola iracondo nella scienza: Cernuschi declama sulla necessità di republicanizzare Mazzini; Sirtori, l'eroe della difesa di Venezia, si dimette geloso dal comitato nazionale; Manin a Parigi si chiude in un silenzio di disapprovazione; Garibaldi erra povero ed abbandonato per le Americhe; Giuseppe Ferrari discende nella lizza per scrivere un libro violento di critica, paradossale nella forma, ammirabile di penetrazione, nel quale, soffiando su tutti i sogni rivoluzionari, sostiene che l'Italia per risorgere deve farsi scettica e francese. E tale scetticismo non sarebbe poi stato che l'abbandono di tutte le formule idolatriche così mazziniane che papali, mentre la Francia sola poteva col proprio intervento integrare tutte le insufficienze dell'Italia alla rivoluzione. Così il grande filosofo della storia concordava inconsciamente nell'idea e nell'opera di Cavour. Ma Ferrari, dominato dai propri studi storici, restava federalista. La disgregazione del partito mazziniano aumentava di giorno in giorno: alla fede crescente nel Piemonte corrispondeva una sfiducia sempre più sconsolata nell'efficacia del programma rivoluzionario. Cesare Correnti, spirito fine e carattere oscillante, esprimeva per tutti questa incertezza politica colla formula scettica «nessun programma: ecco il nostro programma».

D'altronde il partito monarchico piemontese spingeva alla dissoluzione del partito republicano con ogni mezzo. I giornali ministeriali con perversa abilità vilipendevano in esso uomini, idee, intenzioni, risultati: si seminava lo scetticismo, si dipingeva il partito come una setta, si confondevano ad arte i migliori patriotti coi ribaldi fatalmente assoldati o più fatalmente ancora penetrati nelle sue file, si spezzavano le riannodate congiure per compiangerne i martiri e calunniarne i proscritti. Nicomede Bianchi, diventato poi utile storiografo raccogliendo in vasta opera i materiali diplomatici per la storia moderna d'Italia, scrisse sulle Vicende del mazzinianismo un libro inane e velenoso, che nullameno nocque gravemente al partito: Bianchi-Giovini scaricò sovra questo grossa parte del proprio odio al papato; il Gallenga si fece corrispondente del Times, allora massimo fra i giornali inglesi, per vituperare l'opera degli esuli italiani; Carlo Pisacane, generoso ed intelligente ufficiale, che aveva ben meritato della difesa di Roma, si staccò da Mazzini per seguire Proudhon: Ausonio Franchi, dialettico poderoso, che di prete divenuto razionalista doveva poi dissolvendo ogni stazione del proprio pensiero ridiventare prete, nella Religione del secolo XIX sgretolava con critica penetrante la formula fondamentale di Mazzini Dio e popolo. Altri republicani nobili ed austeri, come l'Anelli e il Vannucci, che aveva scritto l'ammirabile libro sui Martiri italiani, si rifuggivano negli studi o instavano più poco nella battaglia; giovani soldati come Giacomo Medici, o politici come Emilio Visconti-Venosta subivano già l'ascendente piemontese e si preparavano a disertare il campo.

Nullameno Mazzini resisteva.

Cacciato indegnamente dalla Svizzera per le pressioni di tutti i governi, da Londra dirigeva con prodigiosa energia il moto rivoluzionario. Nulla lo atterriva, nulla lo stancava; la sua fede reagiva sull'evidenza di ogni fatto contrario; la sua passione gli mostrava nell'orgasmo di pochi magnanimi un fermento irresistibile di tutto il popolo. Giovanni Battista Carpaneto, console sardo a Tangeri, ove aveva ospitato Garibaldi esule e derelitto, tentando una pubblica sottoscrizione per fornirgli un minuscolo bastimento mercantile, col quale potesse guadagnarsi la vita, non era riuscito che a venderne tre azioni; il prestito nazionale non era andato molto più oltre; ma questi due sintomi umilianti non scoraggiavano l'indomabile agitatore. Genova era la capitale dei rivoluzionari; Nicola Fabrizi, severa figura di soldato e di patriota, degna di campeggiare fra gli eroi di Plutarco, rifuggitosi dopo la caduta di Roma in Corsica e quindi in Malta, organizzava le congiure nel mezzogiorno; a Milano altre società politiche ricostituitesi malgrado il terrore della polizia ripreparavano altre giornate; Mantova era centro alle speranze ribelli del Veneto; i Ducati fremevano; Livorno sembrava pronta ad insorgere d'ora in ora. Mazzini spingeva e al tempo stesso era spinto dai più temerari fra i ribelli; ma tutte le congiure abortivano; l'ecatombe dei martiri, cominciata a Milano collo Sciesa, crebbe di giorno in giorno, i supplizi spesseggiarono, Mantova s'infamò di patiboli, la sommossa del 6 febbraio a Milano infelicemente condotta fu atrocemente soffocata, i moti nella Lunigiana e a Parma violentemente e facilmente repressi, l'ultimo tentativo nel Cadore del maggiore Calvi mancò. Evidentemente la rivoluzione era impossibile: fuorusciti e popolani si arrisicavano soli nelle sue disperate fazioni e morivano intrepidamente, o, sottraendosi colla fuga fra i rischi di ogni persecuzione, ritornavano più fieri alla prova; ma la massa del popolo guatava sbigottita, e la maggioranza della borghesia condannava quei conati, che peggioravano la sua situazione.

Mazzini, gridato da tutti solo responsabile di tanti disastri, si mutava in un simbolo sinistro e fascinatore, mentre il Piemonte, unendosi agli altri governi per combatterlo, giustificava la reazione di coloro, che, alieni da tali modi rivoluzionari, volevano pur restare italiani di cuore. La sua posizione politica si faceva ogni giorno più insostenibile, dacchè agli antichi avversari si era aggiunto questo nuovo a pretendere l'indipendenza nazionale coll'iniziativa di un governo francamente parlamentare. Se Mazzini nella propria opera di democrazia europea dava al problema italiano un'irresistibile popolarità, che presto o tardi doveva renderlo accetto alla pubblica opinione, il conte di Cavour, oppugnando con destrezza spinta talvolta alla perversità il partito rivoluzionario, persuadeva i governi dell'attitudine degl'italiani ad un ordinato vivere politico compatibile cogl'interessi dinastici ancora dominanti in Europa.

L'opposizione rivoluzionaria doveva dunque vedere fatalmente nel Piemonte il maggiore nemico. Con esso l'avvenire d'Italia non avrebbe potuto evitare una conquista regia troppo poco promettente malgrado ogni vanteria costituzionale, giacchè, per compiacere alla Francia e per terrore di Vienna, imprigionava i generosi scampati alle sommosse o alle condanne austriache. In questa lotta disuguale Mazzini sentiva che senza un'insurrezione almeno parzialmente trionfante era impossibile controbilanciare l'influenza del Piemonte. I ricordi guerreschi dell'ultima rivoluzione ribollivano nel suo spirito mantenendogli la fede nella potenza popolare: le concordi aspirazioni della democrazia europea gli facevano sperare una più vasta rivoluzione continentale, che ricomponesse la sbranate nazionalità. A Londra aveva costituita una società di Amici d'Italia, che lo sovvenivano di denaro; a Genova il suo giornale, L'Italia del Popolo, diretto da Savi e da Quadrio, combatteva aspramente la politica di Torino analizzandone con implacabile logica tutte le deficienze, mentre il governo lo vessava invano di sequestri, senza osare sopprimerlo per rispetto alla libertà statutaria. Le difficoltà aumentavano ogni giorno. Alla guerra di Oriente le diplomazie avevano ironicamente lusingato il Piemonte sino a fargli sperare la corona di Spagna pel duca di Genova e la Lombardia per Vittorio Emanuele, pur garantendo invece all'Austria l'integrità de' suoi possessi italiani: ma alleanza e guerra avevano dato non pertanto nuova importanza al piccolo stato. Ora i disegni napoleonici di una nuova dinastia murattiana a Napoli, fatalmente secondati da Cavour, attiravano sull'Italia il pericolo di un'altra dominazione straniera. In tale cospirazione entrarono infelicemente prima il Saliceti e il Ruffoni, poi il Montanelli e il Sirtori. Mazzini fu pronto al riparo, denunziando con eloquenti proteste i colpevoli tentativi: dalle prigioni napoletane Carlo Poerio e Silvio Spaventa risposero tragicamente «preferire di morire in carcere che stendere le loro mani pure a quell'avventuriero»; tutti gli esuli napoletani si unirono loro. Nullameno il disegno non fu politicamente abbandonato.

La gloria conquistata dal Piemonte nella guerra di Crimea stabiliva la sua egemonia sull'Italia. Invano Mazzini per le persecuzioni prodigate agli insorti del 6 febbraio aveva posto ai ministri piemontesi il terribile dilemma: siete coll'Austria o con noi? Invano per l'accessione del Piemonte al trattato del 10 aprile 1854 ripetè al conte di Cavour: siete coll'Austria! Invano con uno sciagurato proclama ai soldati piemontesi chiamò una deportazione la loro andata in Crimea incitandoli alla rivolta, e previde mirabilmente tutti gli errori diplomatici della guerra: la vittoria morale ottenuta dal conte di Cavour al congresso di Parigi umiliava l'inutile eroismo di tutte le precedenti ribellioni. Finalmente la conversione di Manin al Piemonte affrettava l'ultimo schianto nel partito mazziniano.

Con Mazzini non rimasero più che i republicani puri. Garibaldi, assalito dall'Italia del Popolo con ingiusta violenza per le vecchie gelosie del Rosselli nel comando durante l'assedio di Roma, dopo tutti quegli inutili e sanguinosi tentativi di rivolta, accettava l'iniziativa piemontese pur riserbandosi di sorpassarla. Allora il grande partito rivoluzionario fondato colla Giovine Italia rimase appena una setta, che Manin ingiuriò1 atrocemente, accusandola di predicare la teorica dell'assassinio politico, e sulla quale Garibaldi pei moti di Parma aveva gettato le terribili parole: Ingannati ed ingannatori!

La tradizione republicana era vinta. Il sangue dei tremila martiri, straziali da tutti i tiranni indigeni e stranieri, non era bastato a rinvigorire la coscienza nazionale estenuata da tanti secoli di schiavitù: il prodigioso apostolato di Mazzini non aveva convertito che i migliori, ed anche questi, riconoscendo l'impossibilità immediata del suo programma, si rassegnavano all'iniziativa piemontese, per raggiungere col sacrificio della libertà democratica l'indipendenza nazionale.

Mazzini medesimo ne fu scosso. La sua ultima formula «Per la nazione e colla nazione» meno esclusiva delle altre, non mirò che a mantenere il partito democratico all'avanguardia della rivoluzione, accettando il concorso del Piemonte, ma procrastinando a dopo la vittoria la decisione del paese sulla forma di governo. Era un principio di abdicazione, giacchè l'esiguità dei mezzi rivoluzionari in confronto dei forti preparativi guerreschi del Piemonte e delle sue necessarie alleanze in una guerra contro l'Austria avrebbe fatalmente subordinata la democrazia alla monarchia. D'altronde senza una poderosa insurrezione la democrazia non poteva essere accettata per vero partito d'azione. Mazzini come risposta alla sottoscrizione aperta da Manin in Francia per fornire cento cannoni ad Alessandria ne ideò un'altra di diecimila fucili da regalarsi alla prima città insorgente: ma Cavour vietò questa colletta pericolosa, che, armando i rivoluzionari poteva guastargli il sapiente giuoco di approcci, col quale circuiva la Francia. Ma senza denaro e senza armi un'insurrezione era impossibile. Peggio ancora la nuova Società Nazionale del La Farina, disciplinata da Cavour, intralciava ogni mossa ai vecchi mazziniani.

Tutto quel romanticismo del principio del secolo che aveva così enfaticamente atteggiato arti, scienze, filosofia e politica, sciupando con inconscie teatralità i migliori momenti della rivoluzione, vaniva ora al soffio dei minori interessi. Patria, libertà, democrazia discendevano dalla sfera luminosa dei principii a quella organica dei fatti: si voleva una ricostituzione d'Italia, ma senza pretendere di tutto rinnovare in una sola volta; si accettava la monarchia di Piemonte come un enorme progresso su tutti gli altri stati; si desiderava l'unità, ma accontentandosi di una unificazione qualsiasi, e si mirava sopratutto all'espulsione dell'Austria. I grandi problemi politici e religiosi, posti da Mazzini a capo della rivoluzione, non erano peranco maturi: bisognava giovarsi dell'opportunità, tradire forse i principii, mutare programma appena fosse utile, stringere la solidarietà dei maggiori interessi, mostrarsi scettici e pratici, frazionando il disegno italico per attuarlo parzialmente. L'epoca delle eroiche passioni era consunta: queste dovrebbero rianimarsi nei giorni delle imminenti battaglie, ma la direzione suprema della politica aveva ora a consigliarsi coi governi di Europa per offrir loro una forma accettabile di rivoluzione.

Dal '21 al '48 il metodo rivoluzionario aveva sempre fallito. Mazzini lottava invano contro questa tradizione d'insuccessi. Se a lui solo si doveva il merito di avere accesa la febbre del patriottismo nell'anima della nazione, a lui solo del pari si dava la colpa di ritardare il vicino riscatto d'Italia con una superba caparbietà nel vecchio inattuabile programma democratico. In questa reazione contro di lui non si riconosceva più l'efficacia della sua intransigenza, per la quale, mantenendosi presenti allo spirito italiano i grandi ideali rivoluzionari, si sarebbe poi potuto con rapido intervento di ribellioni integrare le probabili insufficienze del disegno cavouriano. Si dimenticava che la più eccelsa grandezza del genio italiano stava appunto in questa sublime ostinazione rivoluzionaria di Mazzini, che, prima di risolvere il problema italiano, lo unificava nel problema europeo, fondendo in una potente unità questioni religiose e politiche, prevenendo le più accettabili idee socialiste e fecondando i germi di quella democrazia, cui la monarchia nella ricostituzione della patria doveva essere coccia e cuna.

Ma irresistibili necessità dialettiche traevano Mazzini a sempre maggiori sforzi di ribellione. Poichè l'Austria era troppo forte nel Lombardo-Veneto, e i Ducati troppo incerti, e la Toscana troppo molle, eccettuandone Livorno, solo le due Sicilie offrivano qualche probabilità di rivoluzione. Già il moto di Bentivegna e il regicidio di Agesilao Milano tradivano forti impazienze: Palermo, implacabile nell'odio contro Napoli, sembrava fervere di patriottismo italiano; la corona di Sicilia offerta al duca di Genova durante la rivoluzione del '48 aveva schiarito l'idea dell'unificazione; si erano avviate pratiche con lord Palmerston e coi capi della legione anglo-italiana fondata dal Fabrizi a Malta, così che l'illustre ministro inglese se ne era servito per contrastare ai disegni napoleonici sul reame. A Napoli s'allargava il lavoro segreto dei patrioti divisi fra unitari monarchici, nazionali e murattiani. Bisognava per resistere all'influenza del Piemonte provocare una rivoluzione nel mezzogiorno, che come stato libero e lontano dall'Austria avrebbe potuto ricostituirsi senza immediato intervento straniero.

Una rivoluzione trionfante a Napoli e a Palermo avrebbe forzato il Piemonte a dichiarare la guerra all'Austria, sotto pena di perdere il proprio primato italiano: tutto il resto d'Italia ne andrebbe sossopra.

Mazzini vi si infervorò. Già Alberto Mario, il più squisito cavaliere della nuova borghesia, come D'Azeglio era il più amabile della vecchia aristocrazia piemontese, ma di lui più fine nell'ingegno e più avventuroso nel carattere, aveva fino dal 1852 proposto di tentare una sollevazione nel Napoletano anzichè nella Lombardia: più tardi Garibaldi, aderendo ad un disegno di Panizzi, celebre bibliotecario del British Museum, per liberare Settembrini e gli altri prigionieri dal carcere di Ventotene, accettava di tentarvi uno sbarco con un battello a vapore, ma questo affondò traversando la Manica. Quindi Carlo Pisacane meditò a Genova di scendere sulle coste siciliane o napoletane con poca truppa ad iniziarvi la rivoluzione.

L'impresa patriottica e romantica affascinò le menti dei maggiori rivoluzionari. Mazzini, rappattumatosi con Pisacane dopo un breve dissidio di teoriche politiche, venne segretamente a Genova (1856) per concordare mezzi e disegni: egli intendeva contemporaneamente sollevare Genova per forzare il Piemonte alla guerra contro l'Austria e al soccorso di Pisacane, senza calcolare che una ribellione a Genova in quel momento avrebbe costretto il Piemonte alla guerra civile per necessità di difesa, togliendo così alla guerra nazionale il più valido concorso. Era l'ultimo errore della sua opposizione cominciata colla spedizione di Savoia, e doveva finire in più infelice tragedia.

Carlo Pisacane fu quindi il martire della nuova impresa, nella quale pochi anni dopo Garibaldi doveva sfolgorare eroe trionfante: oggi il giovine partito socialista lo vanta antesignano, e cerca ogni modo d'ingrandirlo, per farne un rivale di Mazzini.

Carlo Pisacane.

Questo principe, orfano, povero, educato al collegio della Nunziatella in Napoli sua patria, paggio alla corte borbonica, poi ufficiale ed ingegnere, si era presto distinto per merito in alcune opere ferroviarie. Ma sospetto per il carattere mite ed austero ai superiori, e poco dopo forzato da un amore infelice a fuggire a Londra, si arruolava nella legione straniera militante per la Francia contro gli arabi d'Algeria. Di là ai primi scoppi della rivoluzione correva a Milano, vi ricusava il grado di colonnello per campeggiare tosto sul Tirolo colla legione Borra, e vi era ferito. Respinto dai capi, che il disastro sbaragliava dovunque, incontrandosi nella Svizzera con Mazzini, ne subiva l'irresistibile ascendente: quindi Mazzini, diventato triumviro della republica romana, lo nominava per la sua bella tempra di soldato allo stato maggiore per la difesa della grande città. Qui Pisacane si rivelava fra i migliori ufficiali in ammirabili servigi; ma Roma cadeva, e l'esodo di tutti lo travolgeva più povero e più nobile di prima per le contrade d'Europa. Pochi avevano sospettato delle sue grandi qualità, nessuno aveva ancora avuto campo di misurarle. Il suo primo libro, Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49, passò inosservato, quantunque fosse forse la migliore scrittura di guerra allora pubblicata; però in essa Pisacane non aveva compreso il genio originale di Garibaldi.

Ma ricoverato finalmente a Genova e sopportatovi a stento dal sospettoso governo piemontese, Pisacane vi si isola nello studio, raddoppiando con istinti di novatore e con amarezza di esule la ribellione del proprio pensiero. Come in tutte le più belle figure di quel tempo, anche in lui fermenta una poesia romantica, che lo attira ad avventure intellettuali e guerresche: una segreta tristezza gli acuisce il senso critico, una inesausta generosità lo spinge oltre il problema politico verso il fondo tenebroso ed ululante delle questioni sociali. Quindi la rivoluzione italiana non diventa per lui che un incidente, del quale le lotte e il trionfo non scemeranno di un'oncia l'immane massa di miserie millenarie, che pesano sul popolo.

Il suo spirito, malgrado la nativa dolcezza, è già ateo, ma questo ateismo non esprime ancora che una dolorosa reazione del suo sentimento sull'idea popolare di una provvidenza divina. La religiosità di Mazzini lo irrita, l'inevitabile e soffocante disciplina del partito rivoluzionario lo esaspera al punto che la passione della libertà gli si trasforma inconsciamente in una smania d'insubordinazione. Nell'irresistibile foga di una prima critica egli non crede più a nulla: Austria e Piemonte gli sembrano due governi egualmente oppressori, sebbene quello sia straniero: ogni religione è il capolavoro di una ipocrisia, ogni idea ultramondana uno sciocco abbandono della terra. Così cercando istintivamente, come tutti i ribelli, le giustificazioni della propria rivolta nel passato, si caccia attraverso la storia. Senza studi e senza metodo critico si vi smarrisce tosto, malgrado l'unicità dell'idea che lo guida. I suoi autori sono napoletani, Vico, Pagano, Filangeri: sovra i due primi ridipinge confusamente il quadro dell'antichissima Italia: ignora gli studi posteriori, interpreta ogni decadenza come una caduta morale ed economica dovuta alla tirannia del capitale. Rifà la storia di Roma sui manuali di scuola, vede nel cristianesimo un regresso, nel papato una frode colossale, nel medio evo una tenebra, nei comuni un'oasi popolare, che spiega colle odierne teoriche socialiste. Tutta la lunga storia italica sfugge così alla penetrazione del suo ingegno, che nullameno ne illumina tratto tratto qualche problema. Mentre un arido materialismo economico gli contende pressochè tutte le rivelazioni del passato, la passione degli studi militari, eccitata dal più nobile patriottismo, lo spinge a vedere nei romani il modello di tutti i popoli guerrieri. Colla loro legione egli spiega ogni loro vittoria, esamina minutamente la loro tattica, segue lo sviluppo della loro strategia, analizza a una a una le loro più famose battaglie, critica e sentenzia con superba e meditata coscienza della propria capacità. E dove un patriottismo retrospettivo non lo accieca, come nello studio sopra Scipione che vorrebbe superiore ad Annibale, i suoi giudizi lo elevano fra i migliori maestri dell'arte militare. Quindi, arrivando al rinascimento, coglie magistralmente le incomparabili qualità guerriere di Francesco Sforza e di Niccolò Piccinino, assiste fremendo al decadimento delle armi italiane, valuta l'opera rinnovatrice di Montecuccoli, di Gustavo Adolfo, di Federico II e di Napoleone I, si appassiona agli inescusabili disastri dell'ultima rivoluzione italiana; ma, fuorviato dall'esempio della grande Convenzione francese, che con improvvisati eserciti cittadini sconfiggeva quelli stanziali di tutta Europa, ricade con Mazzini nell'illusione di una guerra e di una vittoria popolare.

Perciò, immaginando l'Italia ricostituita in nazione, schizza coraggiosamente i primi lineamenti del suo esercito sociale.

Nei quattro Saggi che di lui ci rimangono e che furono stampati dopo la sua morte, quello pel quale ora gli venne vera importanza politica, è il terzo della Rivoluzione. Scientificamente e letterariamente è quasi senza valore: vi mancano del pari principii filosofici ed economici; è confuso, diffuso, scarso di argomenti, povero di materiali, incerto nel metodo, inconsapevole nelle conseguenze. Dei maggiori socialisti francesi, dai quali deriva, quegli che più vi traspare è Proudhon, ma senza il rilievo del suo stile e l'irresistibile ingranaggio della sua logica. Naturalmente vi fa da fondamento il teorema di Bentham sulla ricerca della felicità; la critica agli ordini della società vi muove da un concetto di giustizia: solo la formula vacua - Libertà ed Associazione - contraddicendo alle costruzioni sistematiche del socialismo d'allora, che pretendevano ridurre il mondo ad una monotona vita mezzo di caserma e mezzo di convento, rivela l'indipendenza del suo spirito. In questo saggio, dietro i classici esempi di Saint-Simon, di Fourier, di Cabet, di Proudhon, è redatto anche il nuovo patto sociale con ingenua facilità e con alcuni commenti, dai quali s'indovina in Pisacane un convenzionale in ritardo. La necessità di una pronta e spietata distruzione sociale vi è affermata alteramente.

Questa l'opera del suo spirito, che solo l'ultima impresa della sua vita ha potuto illustrare così, da alzarlo oggi all'onore di campione del partito socialista italiano.

Ma l'aridezza materialistica che ne rende più squallido il dilettantismo storico, e l'insufficienza di dottrine economiche che le tolgono ogni valore fra i tanti studi socialistici di Francia, di Germania e di Russia, sono vivamente compensate dalle sue ammirabili contraddizioni colla natura spirituale dell'autore. Questo ateo ha la passione di tutti gli ideali, questo anarchico distruggitore non invidia e non odia: nessun vizio ha mai contaminato la sua vita, nessuna ambizione diminuito il merito dei suoi molti sacrifici. Volontario nella rivoluzione e nel socialismo, non si è mai ricordato di essere nato principe, e vi è rimasto gran signore; la sua nuova famiglia cresciuta da un adulterio vive nella castità di un unico amore; la sua utopia non è che il voto di un gran cuore, e rimane incompresa in quella tormenta di passioni politiche, che si esauriscono alla vigilia della rivoluzione unitaria.

Infatti Pisacane, riattirato dalla generosità dell'animo nelle lotte del momento, a trentanove anni gitta i libri come inefficaci alla patria, e si vota alla morte per sollevare con uno sforzo supremo le due Sicilie contro il Borbone. Il suo testamento politico è sublime d'ingenuità. Dopo aver dichiarato di non credere al beneficio di nessuna costituzione, e che neppure la rivoluzione politica gioverà al popolo, nullameno si avventura nella più arrischiata delle spedizioni. Il suo istinto maggiore della sua ragione, il suo cuore più alto del suo intelletto, lo spronano ad un olocausto senza fede e senza speranza, meraviglioso ed assurdo.

Ma nell'azione egli sembra ritrovare tutto se stesso. Le sue più belle qualità sfolgorano improvvisamente: dimentica il breve dissidio con Mazzini, si rituffa nelle cospirazioni coll'ardore di un neofita e la bravura di un cavaliere. Preso nell'irresistibile illusione di Mazzini che fida sempre nel popolo, egli napoletano crede che i napoletani aspettino solo un esempio per insorgere: scendere sulle rive del mezzogiorno con un pugno di congiurati, ribellarlo, cacciare i Borboni, sollevare tutta Italia, diventa il suo sogno. Nella miseria di mezzi del partito rivoluzionario e per la necessità di eludere la sospettosa polizia piemontese, egli medita d'imbarcarsi con pochi compagni sopra un vapore postale, d'impossessarsene sorprendendo l'equipaggio, e con esso approdare nel regno. La prima prova gli fallisce, quindi si avventura solo a Napoli per meglio saggiare il terreno. Tutto gli pare pronto; la fatalità di una vera rivoluzione dopo gli ultimi insuccessi nella Lunigiana lo incalza. Il 25 giugno 1857 s'imbarca con alcuni amici sul Cagliari, vapore sardo, diretto verso la Sardegna: Rosolino Pilo, altro principe siciliano del sangue d'Angiò, deve raggiungerlo in mare con una seconda imbarcazione di congiurati; ma, sbattuto dalla tempesta e sviato dalla nebbia, vi si smarrisce: nullameno Pisacane riesce ad impadronirsi del Cagliari. Allora si dirige sull'isola di Ponza, vi sbarca, vi libera 323 prigionieri, per la maggior parte politici, e si difila sul golfo di Policastro. A Genova nulla è ancora trapelato dell'impresa, a Napoli nessuno sospetta di uno sbarco. I congiurati toccano la spiaggia di Sapri al grido di: viva l'Italia e viva la republica! ma i contadini sbigottiti guatano senza comprendere. Una prima vittoria dei ribelli sopra alcune squadre di gendarmi non basta a persuadere le campagne. Allora Pisacane colla piccola schiera s'addentra nella terra per la via di Sala, cercando di guadagnare i monti e sperandovi migliore accoglienza; se non che una grossa mano di regi spiccata da Salerno lo arresta e lo sconfigge. L'impresa è perduta, ogni scampo precluso. Un nucleo di cinquanta superstiti stretto intorno a Pisacane può nullameno ritirarsi sul Cilento, ma la novella della disfatta, il timore delle milizie incalzanti i fuggiaschi, l'avidità dei premi promessi, le feroci eccitazioni del clero scatenano la plebe alla strage. Pisacane, sopraffatto dopo eroica difesa, è finito a colpi di ronca dai villani, quasi tutti i suoi compagni scannati; i soldati regi vollero o poterono appena salvarne alcuni per trarli in trionfo a Napoli. Fra questi fu Giovanni Nicotera, robusta tempra di soldato e di politico, divenuto poi ministro del regno d'Italia, e che venne allora cogli altri condannato a morte. Il processo al solito passò d'infamia in infamia, si tentò di disonorare gli accusati; peggio ancora i murattiani, aspramente combattuti da Nicotera negl'interrogatorii levarono indegne grida di tradimento, associandosi al governo borbonico.

Intanto Mazzini a Genova falliva nell'ultimo conato di sollevare la città, e il governo piemontese rivaleggiava col napoletano nella ferocia della repressione contro i ribelli.

Maurizio Quadrio a Livorno non era stato più fortunato, tentando una insurrezione contro il granduca. Il partito rivoluzionario era vinto.

La pubblica opinione, unanime nel condannare l'infelice impresa di Pisacane, non volle nemmeno ammirarne l'eroismo: la stampa liberale monarchica ne vilipese idea, uomini e risultato; quella reazionaria ne parlò come di un caso di brigantaggio; l'Europa abituata a tali insuccessi delle rivoluzioni italiane, non se ne commosse. Solo Victor Hugo coll'infallibile divinazione dei poeti comprese il fato di questi nuovi argonauti della libertà e scrisse: «John Brown è più grande di Washington, Carlo Pisacane più grande di Garibaldi».

La disfatta di Pisacane prostrò il partito rivoluzionario: il Piemonte crebbe d'importanza, il mazzinianismo non fu più che una setta, il federalismo una scuola. I murattiani, indipendenti o ligi al Piemonte, non miravano che a migliorare il proprio governo napoletano con una nuova dinastia, abbandonando ogni ideale italiano e democratico: alcuni altri, dotti e dottrinari, come Cesare Cantù, predicavano possibile la libertà in qualunque forma di governo anche straniero, e, separandola così dall'indipendenza e dalla democrazia, la rendevano parola senza senso e senza attrazione. In fondo nessun partito aveva un programma limpido e un ordinamento adeguato di mezzi. Iniziativa regia e iniziativa rivoluzionaria si rivelavano del pari insufficienti: l'iniziativa anche questa volta doveva essere francese.

Mazzini, abbandonato dai migliori seguaci, ridiventava nuovamente apostolo, scrivendo di se stesso con accento disperato: «Io non sono che una voce che grida azione»; e la gridava su tutti i toni, ammonendo, rampognando, difendendosi, accusando gli avversari, chiedendo l'elemosina all'Europa per questo popolo d'Italia, Belisario della libertà, e nullameno accendendogli sulla fronte la fiamma del proprio genio, per mostrarlo come campione di una terza epoca civile.

La preparazione rivoluzionaria cominciata dal 1831 era compiuta.



Capitolo Quinto.

La mediocrità politica e letteraria.

Scadimento del genio nazionale.

Alla vigilia della rivoluzione, che doveva finalmente ricostituire l'Italia, il genio nazionale sembrava oscurarsi.

L'immenso moto di studi cominciato col secolo si era rallentato dopo gli ultimi disastri politici. La maggior parte dei grandi scrittori erano morti o ritirati dalla lotta: l'originalità si faceva più scarsa. Una specie di stanchezza prostrava il pensiero italiano. Le passioni consunte dalle rivoluzioni infelici del '21, del '31 e del '48, o assorbite dalle estreme sanguinose avventure delle cospirazioni, non animavano più i libri: un maggiore contatto colle nazioni, che tenevano in Europa il campo intellettuale, sembrava avere scoraggiato la produzione dello spirito nazionale. Al vecchio orgoglio scolastico, che ci faceva credere ancora i maggiorenti della civiltà colla gloria insuperata delle antiche opere, era succeduta una tacita disistima delle nostre cose presenti: si cominciava a comprendere come nell'immenso lavoro del pensiero europeo, fecondante ancora tutto il mondo, la nostra parte fosse secondaria. Nemmeno l'ammirabile sforzo tentato con sì ricca concordia d'ingegni e di risultati al principio del secolo era bastato per rimetterci a paro colla Francia, coll'Inghilterra e colla Germania.

La letteratura francese restava al disopra della nostra, la filosofia tedesca era diventata universale mentre l'italiana non aveva potuto passare le Alpi, lo sviluppo delle scienze presso di noi non resisteva al confronto della loro prodigiosa espansione in Inghilterra. Malgrado ogni vanteria, bisognava confessare che Manzoni non valeva Victor Hugo, che Gioberti e Rosmini non bastavano contro Hegel e Schelling, che quasi tutte le più meravigliose scoperte ci venivano dall'estero. L'Italia non aveva e non avrebbe uno scienziato da opporre a Darwin.

Ma Alessandro Manzoni ancora giovane si era arrestato sul culmine della propria parabola per non abbassarsi discendendola, e taceva da oltre vent'anni; Gioberti era morto povero ed esule a Parigi; Rosmini si era spento nel silenzio tranquillo di un lago, e le loro due scuole filosofiche non avevano illustri scolari che le diffondessero come le scuole tedesche; Niccolini, ritirato dal teatro, cercava l'oblio tracciando una storia di casa sveva; Giusti dormiva per sempre fra gli oliveti di Monsummano; Berchet, rimbambito dalla vecchiaia, si era pentito delle proprie canzoni di rivolta per diventare senatore piemontese; Guerrazzi si ostinava ancora nei romanzi, ma la sua arte si guastava ogni giorno più nell'artificio, e delle irresistibili passioni di un tempo non gli restava più che l'abitudine del gesto e dell'accento; Rossini, il Napoleone della musica e di lui non meno egoista, viveva a Parigi ammutolito da quasi trent'anni, non ascoltando più che il coro instancabile delle proprie lodi ripercosso dagli echi di tutte le contrade d'Europa; Bellini, il suo giovane rivale, era scomparso come una di quelle comete, che illuminano per poche notti tutta una zona di cielo; Donizetti era stato soffocato dalla follìa. Qualcuno della fortissima generazione lottava ancora, ma non poteva al di là del grande periodo già consunto ottenere dalle nuove lotte altre vittorie. Cesare Cantù, prodigioso di attività, dopo compita la Storia Universale, ne accumulava altre gettandosi su tutti gli argomenti, riordinando archivi, superando Lodovico Muratori nell'opera, e nullameno non oltrepassando mai i confini del proprio sistema e non ricorreggendo mai il proprio metodo. Egli camminava sempre, mentre le scienze storiche progredivano altrove. La grande scuola neo-guelfa finiva in lui.

Le nuove scuole.

Ora nella filosofia tenevano il campo Terenzio Mamiani e Silvestro Centofanti, l'uno piuttosto un letterato e l'altro un erudito della stessa; Ausonio Franchi e Giuseppe Ferrari, quegli un critico e questi uno scettico, esprimevano meglio nel razionalismo la tendenza delle nuove generazioni; Carlo Cattaneo aspirava al positivismo senza raggiungere in esso nè la grande scuola francese del Comte, nè l'altra inglese anche più importante dello Spencer. A Napoli Augusto Vera, il maggior scolaro di Hegel, il maggior filosofo del secolo, aveva importato un sistema d'idealismo che doveva nella propria breve durata produrre molti frutti, ma del quale allora non vedevasi ancora il lustro. Nella poesia lottavano Giovanni Prati ed Aleardo Aleardi, lirici entrambi, più colorito e di maggior volo il primo, elegiaco e disadorno il secondo; ma in essi la passione di patria non era più che un tema di arte: il soffio di Manzoni, l'ira di Berchet, l'impeto di Niccolini non davano più al loro verso quella irresistibile potenza di attrazione che accomuna le anime e le infiamma. Prati, dopo aver elogiato Carlo Alberto, seguitava a blandire il Piemonte, cantandone i re come un bardo antico; Aleardi, in canzoni piuttosto scritte in prosa rimata che in verso, aveva gemuto sui supplizi di Mantova, e ripreparava qualche mite invettiva contro Pio IX; Giuseppe Mazzini nei proclami, negli appelli e nelle lettere era il solo poeta di patria.

Alla satira di Giusti, sempre amara anche nello scherzo, sibilante e sferzante sulle anime, seguivano ora nel teatro le declamazioni rettoriche di Paolo Ferrari, cui una innegabile vena comica aveva dato la primazia su tutti i commediografi italiani. Nullameno l'Italia anche dopo di lui doveva restare come prima senza vera commedia. Il dramma storico cresciuto come un magro pollone dalla grande tragedia del Niccolini e del Manzoni, erudito nel Revere e melodrammatico col Marenco, tentando indarno di rinnovare le profonde emozioni dell'Adelchi e dell'Arnaldo, scivolava dai massimi teatri alle arene divertendone le platee, senza appassionare le piazze. Nel romanzo solo il Rovani era riuscito a farsi un nome onorevole, derivando dal Manzoni sino a predicarlo maestro supremo, e non pertanto rimanendo a lui inferiore così nell'arte che nell'ardore patriottico: classici e romantici sembravano colpiti dalla stessa decadenza. Superstite letterato della scuola guelfa, il padre Bresciani gesuita bamboleggiava con servile pedanteria nella vanità delle parole insultando a tutte le tragiche glorie della rivoluzione con romanzi, nei quali la goffaggine dell'arte era pari alla miseria del pensiero e alla ribalderia delle intenzioni.

Nella pittura Ussi, che doveva brillare per poi eclissarsi, e Morelli, che vi resterà nella gloria di massimo riformatore moderno, non erano ancor celebri: Bartolini, ultimo grande scultore italiano, era morto, e il Duprè e il Vela, contendendosi già il suo posto, non vi recavano coll'amore dell'arte quell'intrattabile passione di patria, che aveva costretto Calamatta, l'insuperabile incisore, ad esulare da Roma dopo averla difesa con Garibaldi contro i francesi. Duprè era ancora un neo-guelfo, che nell'obbedienza di cattolico al papa comprendeva anche la soggezione di suddito al granduca Leopoldo; mentre Vela, inspirandosi alla rivoluzione del quarantotto, aveva già scolpito nello Spartaco l'irresistibile sforzo dello schiavo che frange le catene; e Ussi invece doveva attendere il trionfo di quella del cinquantanove per esporre nella cacciata del duca d'Atene un fasto dell'antico comune fiorentino.

Solo nelle musiche di Giuseppe Verdi fremevano ancora le tempeste, dalle quali era stata sconvolta la prosa di Guerrazzi e disordinata la lirica di Niccolini. Povero ed austero contadino di Busseto, egli aveva sempre ricusato gl'inviti della duchessa di Parma e scriveva indifferentemente melodrammi su qualunque soggetto, esprimendo nello scoppio di affetti fulminei il supremo disordine delle passioni rivoluzionarie, che insanguinavano ancora l'Italia. Il suo genio intermittente e scomposto, inferiore e nullameno così simile a quello di Victor Hugo, il suo carattere burbero e malinconico, il bisogno in lui irrefrenabile di situazioni sempre eccessive, mentre sembravano classificarlo fra la decadenza dei romantici, lo rendevano il più sospettato ed amato autore popolare. Con lui solo s'infiammavano i teatri e prorompevano a dimostrazioni politiche: nella frenesia delle sue frasi di odio e di amore l'anima nazionale tornava a fremere d'entusiasmo, salendo dalle emozioni della scena a quelle della vita.

Nonpertanto il melodramma italiano, recato sullo scorcio del 1830 ad insperata altezza da Rossini e da Bellini, discendeva con Verdi la parabola del proprio sviluppo: quelli rimanevano insuperati e conservavano all'Italia la gloria di avere una ultima volta dominato tutto il mondo coll'arte; questi non bastava solo a mantenere il campo contro i nuovi campioni della scuola tedesca. Meyerbeer lo vinceva per abilità di maniera, Wagner lo eclissava per splendore di genio.

La mediocrità del pensiero italiano appariva manifesta. Però in essa si venivano sperimentando tutte quelle qualità di azione necessarie al ricostituimento di un paese, che, liberandosi per concorso di aiuti stranieri, si sarebbe all'indomani della propria emancipazione abbattuto ad un incalcolabile numero di problemi sociali. Se i pensatori scemavano, crescevano i politici, mentre le letterature decadevano si diffondevano le scienze, all'entusiasmo delle ribellioni subentrava la coscienza della disciplina, alla originalità della produzione un mirabile ed universale lavoro di assimilazione. Nei giornali così poveri ed assurdi di rettorica, prima e durante la rivoluzione del quarantotto, si discuteva adesso con abilità e con dottrina la politica quotidiana; si spropositava molto meno di diritto costituzionale ed amministrativo; le idee economiche e finanziarie, una volta patrimonio di pochi dotti ignorati o separati dal popolo, discendevano nel dibattito comune come alla riprova della propria verità. L'economia politica italiana, che dopo le opere del Gioia e del Pecchio non aveva avuto altri celebri saggi che quelli storici del Cibrario e il trattato di Pellegrino Rossi, abbondava di cultori: Marco Minghetti ne scriveva le Attinenze colla Morale e il Diritto; lo Scialoja, il Boccardo, l'Arrivabene, poi il Correnti e il Maestri negli Annali di statistica, moltiplicavano studi, monografie, manuali. Innanzi a tutti loro il Ferrara dirigeva a Torino una raccolta di economisti stranieri riassumendone il pensiero in ammirabili prefazioni, sovente più preziose delle loro opere stesse; ma nemmeno nell'economia politica il pensiero italiano, sorpassando un'eclettismo di assimilazioni, arrivava alla produzione di un sistema originale. Invece cresceva negli uomini politici, coll'esempio di Cavour improvvisatosi finanziere, la capacità delle più difficili gestioni amministrative. Mentre la filosofia si oscurava nel tramonto quasi simultaneo de' suoi due astri maggiori, la giurisprudenza come scienza più affine alla politica aumentava mirabilmente di lustro: a Napoli, a Torino, a Firenze fiorivano scuole di diritto, tutte abbastanza forti per contendersi il primato e lottare colle migliori scuole straniere: fra esse giganteggiava a Pisa Francesco Carrara, forse il maggiore criminalista del secolo.

La cultura intellettuale si diffondeva rapidamente nella cresciuta facilità della stampa e del commercio; a Capolago illustri esuli editavano una biblioteca delle migliori opere letterarie e scientifiche con intendimenti patriottici; il Piemonte riboccante di professori e di professionisti fuorusciti era diventato un potente centro di irradiazione civile; l'influenza delle letterature estere era tale da compromettere persino le indigene tradizioni letterarie. Carlo Cattaneo preparava nel Politecnico immensi materiali di scienza, agitando con rara competenza le più moderne e difficili questioni; Stefano Jacini dava all'agricoltura un valore politico e sociale prima piuttosto oscurato che rivelato da' suoi problemi tecnici; Pacini, prevenendo Koch di trent'anni, fondava incompreso la bacteriologia; Miola puniva l'egoismo di Segato, morto col proprio segreto di petrificazione di cadaveri, trovando il modo di metallizzarli; Piatti inventava la perforatrice per sventrare le montagne dinanzi alle locomotive; Ascoli, ereditando l'ingegno del giovine Filosseno, rialzava vigorosamente gli studi linguistici; il Negri succeduto al Marmocchi sosteneva l'onore della geografia italiana. Da Napoli Ruggero Bonghi, Francesco De Sanctis e Luigi Settembrini rinnovavano la critica letteraria nella decadenza della letteratura. A Venezia Pietro Selvatico, ricco e voltabile ingegno, apriva e chiudeva sempre nuove prospettive nell'estetica e nella critica delle arti, quasi subendo nella perplessità del proprio metodo quell'incertezza politica, onde si confondeva nelle coscienze il problema italiano. Entro le storie degli ultimi avvenimenti fremevano ancora le sdegnose polemiche dell'azione: Cattaneo, Anelli, La Farina, vi conservavano nell'asprezza republicana il rancore dei vinti; il Tosti procedeva classicamente nei lavori di storia ecclesiastica; Mauro Macchi, amabile per mite stoicismo, scriveva con moderno sentimento democratico quella dei Dieci di Venezia; più elegante di forma, vasto d'erudizione e potente di vero ingegno letterario Atto Vannucci, rivaleggiando col Troya e col Micali, ricostruiva la Storia antica d'Italia. Alto sullo scoglio di San Marino il Borghesi scopriva a Teodoro Mommsen i più reconditi segreti della numismatica, confortando così l'Italia della perdita recente del Canina. Ma nella filosofia della storia, che, fondata oscuramente a Napoli dal Vico, era poi tanto cresciuta in Germania e in Francia, creando metodo e scienza storica, solo Giuseppe Ferrari si mostrava grande. Con ingegno multiplo ed originale passando dalla Filosofia della Rivoluzione alle Rivoluzioni d'Italia, vi contava tutte quelle della storia medioevale e ne tracciava la direzione, ne scrutava le leggi dinamiche, ne divideva i periodi, ne scandeva il ritmo: quindi dalle pulsazioni delle rivoluzioni italiane costretto al calcolo dell'intero circolo europeo, accordava con mirabile sintesi le rivoluzioni d'Europa a quelle d'Italia per riscontrarle più tardi con quelle della China, e dettare moribondo in una Nuova Teoria dei Periodi Politici i teoremi fondamentali di una matematica storica. Ma queste creazioni del suo genio, ammirate in Europa, erano allora pressochè sconosciute in Italia, della quale trascendeva lo spirito, così da fallare, malgrado una chiaroveggenza meravigliosa, le necessità del suo attuale periodo rivoluzionario. Perfino Mazzini e Cavour, quegli coll'anima sempre schiusa a tutte le grandezze patrie, questi tanto sagace nell'indovinare ogni forza nazionale, ignoravano la suprema importanza di Ferrari rimasto solo in Europa a sostenere l'originalità del pensiero italiano.

Ed era anche questa una caratteristica del momento.

La mediocrità politica e letteraria risultava da quelle stesse condizioni spirituali, che rendevano impossibile all'Italia il trionfo della rivoluzione colle sole sue forze. L'egemonia conquistatrice del Piemonte provava l'insufficienza del principio democratico; la politica angustamente piemontese di Cavour tradiva la debolezza del principio monarchico: nessuno dei due principii poteva ricostituire l'Italia, atteggiandola sinceramente nella propria forma. Il popolo da schiavo dello straniero non doveva mutarsi tutto al più che in suddito di un re nazionale, giacchè preferiva l'indipendenza alla libertà e una qualunque unificazione politica alla propria unità democratica. Ma anche in tale sua dolorosa condizione brillavano le qualità di quel genio, che non lo aveva mai abbandonato per una storia di quasi tremila anni; l'Europa non aveva politico più abile del conte di Cavour, apostolo più efficace di Mazzini, eroe più moderno di Garibaldi. L'inerzia del popolo, facilmente spiegabile cogli ultimi secoli della sua vita, era mirabilmente compensata dall'iniziativa dei pochi che riassumevano la sua coscienza.

Quindi l'instancabile accanimento di Mazzini alle rivolte forniva materia alla politica di Cavour per convincere l'Europa a cacciare l'Austria dall'Italia e a stabilirvi un forte regno costituzionale come argine contro le violenze della rivoluzione. Se Mazzini non avesse mantenuta l'agitazione rivoluzionaria, sarebbe stata impossibile la politica estera piemontese. Solo nella mediocrità letteraria e politica potevano accordarsi le antinomie delle tradizioni e delle rivoluzioni italiane per fondersi nel costituzionalismo dei Savoia: un crescendo di pensieri e di passioni dopo il disastro del quarantotto avrebbe necessariamente condotto ad una republica vincitrice della monarchia, del papato e dell'Austria colle sole forze popolari.

Invece la storia aveva affidato alla Francia il compito di affrettare aiutando l'una e combattendo l'altra, le due massime nazionalità d'Italia e di Germania.

E in questa mediocrità politica e letteraria, che armonizzava, esaurendole, le grandi idee rivali della monarchia e della democrazia, della federazione e dell'unità, per creare un regno a base plebiscitaria con conquiste regie e popolari, la rivoluzione non aveva ancora che volontari politici e militari. L'immensa massa del popolo rimaneva estranea, se non ostile. Però in questi volontari, piuttosto conquistatori che rappresentanti della nazione, si fondevano mirabilmente le più disparate qualità: cospiratori, soldati, parlamentari, letterati, spesso avventurieri, gettati dalle vicende della vita attraverso drammi inesauribili, avevano esperimentato tutti i partiti, ceduto a tutte le illusioni, imparato tutti i tradimenti: erano scettici ed ancora capaci d'entusiasmi, abbastanza moderni per non credere più che alla sovranità popolare e nullameno troppo pratici per non servirsi ancora di un re; fisi all'interesse nazionale credevano indifferentemente a tutti i sistemi, amavano sopra ogni cosa la patria, e non volevano rivoluzionarvi niente al di là del necessario. La mediocrità spirituale permetteva loro di agire in un accordo indefinibile, con transazioni sempre giustificabili, e con evoluzioni sicure.

La fede al Piemonte era divenuta dogma politico, come dieci anni prima quella in Pio IX.

Nessuno tradiva più, mutava: non si era più veramente di alcun partito, ma italiano; l'interesse più immediato si riconosceva per il più giusto, il risultato momentaneamente più utile diventava il maggiore. Non vi era tempo a grandi pensieri. Si abbandonava ogni costruzione sistematica per costruire davvero: ai pensatori dovevano succedere gli uomini pratici. Bisognava conservare il fuoco rivoluzionario senza abbruciarsi alle sue vampe o accecarsi al suo fumo. Invece delle tragiche passioni, già inspiranti capolavori e martirii, cresceva un fermento nella moltitudine, che la disponeva a nuove cose. Nello scadimento dell'arte vi si moltiplicavano i soggetti patriottici, che, mediocri, divenivano più accessibili e quindi più efficaci.

Siccome ogni provincia italiana aveva deputati o ministri al parlamento piemontese, il governo nazionale era già tacitamente ed anticipatamente stabilito. Fra gli illustri, che allora vi brillavano, Luigi Carlo Farini vi era l'uno e l'altro, e doveva per l'indole dello spirito e le vicende della vita rimanere forse il migliore rappresentante di questa mediocrità politica e letteraria, così fatalmente indispensabile alla costituzione del regno italiano.

Luigi Carlo Farini.

Molti lo superavano d'ingegno e di carattere, nessuno riassumeva in se medesimo tante opposte qualità. La sua vita non ancora insigne aveva nullameno acquistato un'alta importanza. Colla foga di un temperamento romagnolo egli aveva cominciato tempestando patriotticamente all'università di Bologna, attirandosi sul capo sospetti ed ammonizioni; quindi n'era uscito medico piuttosto di mestiere che di dottrina. Una baldanza passionata lo traeva alla politica, una inguaribile vanità del pensiero lo faceva sognare di letteratura. Sulle prime divenuto naturalmente mazziniano predicava stragi nelle conventicole segrete con fanatismo giacobino: ma il misticismo religioso e l'elevatezza filosofica del mazzinianismo lo stancarono presto. Il suo carattere focoso e volubile non gli permetteva le resistenze sistematiche ed eroiche di un partito, nel quale nessuna eresia era consentita e dal quale non si potevano aspettare trionfi. Quindi disertò.

Come letterato subiva le tradizioni pedantescamente classiche della scuola romagnola, arzigogolando nello stile senza nè esperienza di lingua nè gusto d'arte: come cospiratore aveva la veemenza rettorica dell'oratore e la prudenza forse anche troppo remissiva di quei capi del '31, che procrastinavano sempre il giorno della rivolta e transigevano ad ogni passo sul programma e sui fatti. Benchè romagnolo, mancava di fierezza: quindi, staccandosi da Mazzini per schierarsi fra i riformisti, l'ardore naturale del suo carattere dovette agghiacciarsi sino a mutarlo in moderato intransigente. Pei moti romagnoli del 1845 scrisse un Manifesto delle popolazioni dello stato romano ai principi e ai popoli d'Europa, vantandovi la sudditanza al Santo Padre e chiedendo le solite riforme; ma il manifesto non ebbe maggiore espansione della stessa insurrezione con bandiera bianca e finita senza sangue. L'antico mazziniano aveva tutto rinnegato.

Poco dopo, l'utopia costituzionale del papato lo trasse a Roma segretario di ministero e diplomatico. Come tutti i riformisti credette al sogno di Mamiani e di Rossi: fu in Parlamento della fazione moderata, che naturalmente presto sorpassata dovette ritirarsi; difese Pio IX, non capì nulla del problema politico del momento, non indovinò il significato di una republica romana, giudicò opera feroce ed insensata di sètte la caduta del potere temporale, ma imparò rapidamente i modi parlamentari, ebbe pronto discernimento per le più difficili pratiche e il coraggio di resistere alle opinioni plateali: rimase suddito pontificio, federalista abbastanza cattolico ed inflessibilmente monarchico, ammiratore incondizionato di Carlo Alberto.

In lui il rivoluzionario si arginava volontariamente ed inconsciamente nell'uomo di governo.

Infatti, esule a Torino, cadde nell'orbita del conte di Cavour a lui simile benchè troppo maggiore di attitudini, che col costituzionalismo piemontese lo guarì istantaneamente del costituzionalismo pontificio. Così all'egemonia del papa Farini potè sostituire quella di Vittorio Emanuele, e correggere con essa il concetto della federazione nel disegno di una unificazione per annessioni e conquiste, fanatizzandosi della monarchia savoiarda per odio di convertito contro la republica e per saldo convincimento di uomo di governo, che della republica romana aveva colto solo le incongruenze.

Quindi improvvisò in quei primi ozii forzati una Storia dello Stato romano dal 1814 al 1850, nella quale si ripercossero tutte le oscillazioni del suo pensiero sprovvisto egualmente di principii filosofici e di sistema politico. Nella prima parte vi critica blandamente, ma onestamente il regime romano; nella seconda si accanisce contro la republica e più contro Mazzini, del quale afferra benissimo gli errori pratici senza comprenderne nè il genio nè l'eroismo. Ma sicuro entro la compagine di un governo liberale e regolare, si lascia presto riprendere dalla foga rivoluzionaria: alzato da Cavour al ministero vi fa buona prova, lavora segretamente col grande ministro, ne diventa il consigliere più audace, rannoda alla sua politica gli antichi cospiratori e riformisti romagnoli, sostiene la spedizione di Crimea, dirige la campagna contro i mazziniani, trova in se stesso un tesoro di patriottismo contro tutti i tiranni d'Italia, compreso il papa così rispettosamente trattato nella propria storia. Non si eleva mai, ma si raffina; è secondario nell'ingegno e autoritario nel carattere. Dimenticando facilmente le opinioni passate, agisce sempre colla massima forza nelle presenti; ama la scienza di governo, e vuole essere fra coloro che comandano. La sua vanità si balocca puerilmente colle decorazioni.

Nel gruppo subalterno dei fuorusciti politici stretti intorno a Cavour, Farini è quello che ha maggiore energia: il mazzinianismo della prima gioventù gli giova ora nella virilità, mentre la scaltrezza di governo lo rende scettico sui mezzi e l'egoismo della volontà lo tempra alle più difficili responsabilità della dittatura. Egli romagnolo deve essere rivoluzionario per emancipare le Romagne: quindi il problema dell'unificazione gli si dilata involontariamente oltre il disegno di Cavour. Infatti lo vedremo fra poco dittatore a Modena, sollevatasi ad incruenta rivoluzione cacciando il proprio duca dopo le vittorie sardo-franche nella Lombardia, rompere il trattato di Villafranca che arresta la liberazione d'Italia e spingere alle annessioni col Piemonte, contro la stessa volontà sbigottita di questo. Farini dittatore e rivoluzionario sarà allora la più composita e brillante figura d'Italia. Fervido di furberia e di vanità, passando da Modena a Parma e a Bologna, dopo avervi improvvisato un governo dell'Emilia, vorrà fonderlo colla Toscana per avervi un'ora di regno e assicurare almeno un nuovo stato centrale all'Italia, se mai la Francia negasse risolutamente al Piemonte di annettersi queste provincie; ma Bettino Ricasoli con maggiore sagacia politica e volere più freddamente tenace gli si opporrà. Poi, compite le annessioni e ritornato Cavour al potere, Farini sarà, come il suo grande capitano, spaventato delle iniziative garibaldine: osteggerà la spedizione dei Mille, contrasterà a Garibaldi il passaggio sul continente e la marcia su Napoli. E quando tutto il napoletano sarà conquistato, e per riprenderlo a Garibaldi perchè Mazzini non vi tenti una republica, Cavour si aprirà audacemente il passo attraverso lo stato pontificio, Farini resterà ancora il suo più temerario consigliere, redigerà la lettera a Napoleone III, annunziandogli di marciare contro Garibaldi per sottrarre il Napoletano all'anarchia delle bande rosse; finalmente, mandato dittatore a Napoli, v'improvviserà il governo nazionale.

Alla morte di Cavour Farini dominerà momentaneamente fra gli eredi più influenti della sua politica, finchè, sorpreso dalla pazzia, morirà giovane ancora, povero, avendo vissuto una vita di cospirazioni, di parlamenti, di esigli, essendo stato medico, ministro, dittatore, avendo creduto a Mazzini e a Cavour, a Pio IX e a Vittorio Emanuele, alla federazione e all'unità: diplomatico, letterato di medicina e di storia, capace come a Modena di rompere un trattato europeo riunendo le due tesi di Cavour e di Mazzini, abbastanza abile come nell'Emilia per stabilirvi pressochè da solo un governo; a volta a volta rivoluzionario e conservatore, colla vanità di un pervenuto nell'onestà di un patriotta, e colle più difficili qualità di un mediocre in un'anima potente d'improvvise e grandi iniziative.

La sua generazione era così.


INDICE

LIBRO QUARTO: Il risorgimento

Capitolo primo: I moti del 1821

- Influenze europee

- La rivoluzione napoletana

- Rivoluzione piemontese

- Repressioni assolutiste

Capitolo secondo: Trame ed insurrezioni del '31

- Incubazione liberale

- Condizioni uniformi dei governi

- La sommossa del centro

Capitolo terzo: Il pensiero politico nel moto letterario

- I primi gruppi

- Il dualismo letterario

- Colletta e Botta

- Rosmini e Gioberti

Capitolo quarto: Giuseppe Mazzini e la Giovine Italia

Capitolo quinto: Conati ed imprese rivoluzionarie

- La spedizione nella Savoia

- Stato generale della penisola

- I fratelli Bandiera

- I riformisti

LIBRO QUINTO: L'ultima rivoluzione federale

Capitolo primo: I prodromi

- Effervescenza dell'opinione

- Pio IX

- L'agitazione negli altri stati

- Gli statuti

Capitolo secondo: Le sommosse popolari e la guerra regia

- Le cinque giornate di Milano

- Adesioni di guerra

- La campagna piemontese

Capitolo terzo: La reazione federale

- L'allocuzione papale

- Il tradimento di Ferdinando II

- Le annessioni al Piemonte

- Disastri militari

- Catastrofi costituzionali

- Pellegrino Rossi

- La seconda campagna piemontese

Capitolo quarto: Schemi repubblicani

- Firenze

- Proclamazione della repubblica

- Caduta della repubblica romana

- Giuseppe Garibaldi

- Ultima repubblica di Venezia

LIBRO SESTO: L'egemonia piemontese

Capitolo primo: Le ristorazioni

- Riscossa dell'opinione

- Regno napoletano

- Stato pontificio

- Granducato e ducati

- Lombardo-Veneto

Capitolo secondo: La preparazione piemontese

- Prime difficoltà parlamentari

- Il conte di Cavour

Capitolo terzo: La politica dell'egemonia

- Ministero di Cavour

- Guerra di Crimea

- Congresso di Parigi

- Adesioni al Piemonte

Capitolo quarto: L'opposizione rivoluzionaria

- Disfatta del mazzinianismo

- Carlo Pisacane

Capitolo quinto: La mediocrità politica e letteraria

- Scadimento del genio nazionale

- Le nuove scuole

- Luigi Carlo Farini