VOLUME II
LIBRO QUARTO
IL RISORGIMENTO
Capitolo Primo.
I moti del 1821
Influenze europee.
L'Europa era anche più agitata dell'Italia dai moti
sotterranei del liberalismo.
Il patto della Santa Alleanza uscito da una tragedia pareva prossimo
ad attirarsi gli scherni di una farsa: il dispotismo dei re, per
quanto agguerrito, non bastava ad atterrire la libertà dei
popoli. La individualità civile e politica creata dalla
rivoluzione francese col dogma della sovranità popolare,
sorpassata la necessaria antitesi della dittatura napoleonica,
passava dal cittadino alla nazione, dalla Francia all'Europa. Un
nuovo diritto era proclamato tutti i giorni dai giornali e dalle
cattedre, dalle esigenze industriali e commerciali, politiche e
sociali. La rivoluzione francese avendo più o meno rivelato
se medesima a tutti i popoli, ognuno di essi impadronendosi del
proprio problema badava a trovarne la soluzione. E il problema era
il medesimo per tutti attraverso ogni differenza di grado:
emanciparsi dal passato costituendosi nell'indipendenza e nella
libertà e mutando i propri despoti in funzionari.
La Carta conquistata dalla Francia nella propria sconfitta metteva
il principio dell'elettorato popolare al disopra della monarchia:
questa per combatterlo si logorerebbe fatalmente; mentre la nazione,
percorrendo in mezzo secolo tutta la gamma delle monarchie
costituzionali quasi a convincere il mondo della loro
inconciliabilità colla moderna libertà,
riconquisterebbe la republica. L'Inghilterra, rappresentante di un
parlamentarismo nel quale la sovranità nazionale era ancora
limitata al doppio patriziato dei lords e dei ricchi, guadagnata al
contagio della democrazia francese, si preparava con discussioni di
popoli e reazioni di governo alla grande rivoluzione legale del
1829; l'Irlanda s'insanguinava nell'eroica caparbietà di una
emancipazione mal definita; interclusi dalla Russia dall'Austria e
dalla Turchia, i Principati Danubiani, quasi anella fracassate
dell'immenso dragone slavo, erano agitati da moti convulsi di
congiunzione e cercavano sottrarsi alla tirannia turca invocando la
libertà francese. Erano popolazioni quasi barbare che si
avventuravano alla libertà coll'energia di una indipendenza
selvaggia, mescolando sentimenti e tradizioni medioevali ad istinti
meravigliosi di modernità. Dopo l'antica civiltà del
Mediterraneo e del Baltico fermentava in essi quella del mar Nero.
La Slavia del sud, avanguardia della Slavia del nord, combatteva
precipuamente Turchia ed Austria, il potere più barbaro e la
potenza più dispotica d'Europa, le due negazioni più
assurde dell'individualità cristiana e moderna.
La Grecia, piccola, smembrata, appena colla popolazione d'una grande
città, senza denaro e senz'armi, si scagliava sull'immane
colosso dei Dardanelli: tutti i suoi figli erano eroi. Gli antichi
poemi di Omero ammutolivano agli echi delle nuove gesta: le vecchie
storie leggendarie diventavano pedestri dinanzi ai racconti delle
presenti imprese; persino la tragedia napoleonica nella sua
vastità non uguagliava questa angusta epopea, nella quale
tutto un popolo si mutava in esercito, mentre tutte le sue
città affogavano nel sangue, e flottiglie di brulotti
incendiavano le armate nemiche incalcolabilmente numerose, e falangi
di donne superavano d'ardimento gl'invincibili battaglioni dei
klefti.
La Spagna si ribellava contro il tradimento di Ferdinando VII, re
così ribaldo che al suo paragone quelli d'Italia sembravano
magnanimi. Quiroga e Riego alla testa di una insurrezione militare
lo forzano al rispetto della costituzione proclamata spontaneamente
dalla nazione nel 1812 durante l'interregno e da lui accettata al
ritorno nel 1814. Ma il costituzionalismo è impossibile anche
alla Spagna troppo incolta e bigotta; quindi il partito liberale si
spezza e, mentre i moderati aggirati dalla corte e dal clero mirano
a sminuire rivoluzione e costituzione, i radicali esasperati
mantengono la rivolta. La guerra civile avvampa sublime di orrore e
di eroismo. Il moto si propaga al Portogallo: il colonnello
Sepulveda vi si solleva, i costituzionali entrano trionfanti a
Lisbona, e Giovanni VII vi sbarca dal Brasile per accettare la
costituzione, lasciando quello emanciparsi e proclamare don Pedro
imperatore.
L'Europa freme. La Polonia, ostinata nel sogno assurdo d'una
rivoluzione aristocratica, nella quale al popolo viene sempre
offerto il dispotismo dei propri signori in cambio della tirannide
russa, affila le armi; la Germania si agita nelle società
segrete, scuotendo con brividi poderosi i limiti dei propri
molteplici stati come disadatte congiunture di troppo vecchia
armatura.
La rivoluzione napoletana.
L'Italia, sempre da tre secoli accodata all'Europa, rabbrividisce al
vento della rivolta, che soffia da tutte le sue sponde e discende
dalle Alpi a sferzare i vapori del suo cielo sonnolento.
La carboneria cresciuta ad incredibile numero di adepti non poteva
non risentirne. Nella dissoluzione dell'immensa unità,
napoleonica, fra il doppio crepuscolo di un'epoca che finiva e di
un'altra che incominciava, dopo aver sopportato la protezione e la
persecuzione regia, non aveva ancora trovato il problema pel quale
era nata. Il cosmopolitismo, togliendole la precisione degli
obiettivi e il carattere nazionale, invece di una forza diventava
una debolezza. Quantunque si reclutasse anche nelle file del popolo
e fosse borghese per studi e tendenze, subiva ancora così il
fascino dell'aristocrazia da cercare in essa i propri capi. Quindi
anelava a sostituirsi nel governo anzichè a vera
emancipazione politica; i suoi più illustri capitani furono
Carlo Alberto di Carignano e Francesco duca di Calabria; avevano
scritto sulla propria bandiera - Indipendenza, Libertà, e poi
Unione invece di Unità - sfuggendo così al problema
primordiale della ricostituzione italica. Del come stringere la
federazione o fondare una republica una monarchia unitaria non
discuteva, quasi di secondaria conseguenza lasciata alla decisione
del capo al capriccio della vittoria. Moralmente la carboneria era
nobile e generosa; ma intellettualmente retriva, affettava il
classicismo nelle idee e nelle forme letterarie, romanticheggiava
sulla tradizione italica, invanendo nel segreto teatrale delle
proprie iniziazioni e nella rapida diffusione delle vendite. Se la
sua forza avesse corrisposto alla sua cifra, la quale raggiungeva
quasi il milione, e la sua fede fosse stata profonda, avrebbe
potuto, mutandosi in esercito al momento della riscossa, assicurare
la rivoluzione: invece non ne fu nulla. Questa cominciò come
una insubordinazione, visse fra una festa e un'accademia,
rinnegò nell'insulsaggine di un egoismo regionale
l'unità italiana, si affidò ingenuamente ridicola alla
parola di un re spergiuro, per finire fortunatamente in un massacro
di reazione, che la riabilitò avvalorando con ineffabili
dolori il carattere politico nazionale.
Come sètta politica la sua debolezza stava nel suo stesso
numero eccessivo, giacchè prima di raggiungerlo avrebbe
dovuto affermarsi per insurrezione; e peggiori erano le
qualità dei suoi adepti in gran parte preti. Questo invece di
essere un carattere religioso significava che l'antinomia del
vaticanismo colla rivoluzione non era ancora sentita.
I primi fatti avvennero a Napoli. Guglielmo Pepe, strenuo soldato ma
inetto generale e più inetto politico, vi sfoggiò
teatralmente. Compromesso quasi da fanciullo in due cospirazioni,
processato e gittato nelle orribili fosse del Marittimo e della
Favignana, poi soldato a Marengo e nelle Spagne; di republicano
mutato in costituzionale; colonnello al servizio di re Giuseppe e di
Murat; contro questo mescolato nelle ultime cospirazioni per
strappargli una costituzione; finalmente rimasto generale sotto
Ferdinando di Borbone, era l'eroe della carboneria. Lo splendore
delle sue gesta soldatesche, le sue prime congiure, la sua ultima
conversione al costituzionalismo, i suoi pregi e i suoi difetti, lo
destinavano a rappresentare il nuovo moto. Si sapeva che Pepe nel
1819, quando Francesco I d'Austria e Metternich vennero ospiti del
re Ferdinando, aveva tramato di catturarli tutti ad una rivista che
poi fallì. Ma la carboneria, dopo la costituzione della
Vendita suprema di Salerno, incalzata dalla rivoluzione spagnuola,
affretta le disposizioni per la rivolta: tradita da un miserabile
Acconciagiuoco le precipita: l'esercito è quasi tutto
carbonaro. Due sottotenenti del reggimento Borbone cavalleria,
Michele Morelli e Giuseppe Silvati, sospinti dal canonico Menichini,
lo sollevano al grido di: viva Dio, viva il re, viva la
costituzione, ma il popolo non capisce quest'ultima parola. Il
tenente colonnello Concili aderisce, si canta trionfalmente col
vescovo il Te deum in Avellino. Di qui la colonna degli insorti
s'avvia a Monforte, altri canonici carbonari la rinfiancano con
bande raccogliticce; la Corte sgomentata deputa Pepe ai ribelli,
poi, malcerta della sua fede, manda loro il generale Carrascosa
senza soldati. Questi tratta coi rivoltosi aspettando rinforzi per
batterli, ma l'insurrezione si propaga, altri reggimenti si
ribellano eccitati da Pepe, la Corte trema, e cinque settari col
duca Piccolelli alla testa, quasi nel finale di un melodramma, vi
penetrano intimando al re di concedere la costituzione fra tre ore.
E Ferdinando la dà.
Allora è un'ebrezza: Pepe, dichiarato salvatore del re, fa
retrocedere i calabresi già in marcia su Napoli, quindi vi
entra, 9 luglio 1820, caracollando alla testa degli insorti fra
nembi di fiori e cantici di osanna. L'eccitabile immaginazione del
popolo lo paragona a Murat. Disceso a corte, bacia umilmente la mano
al vecchio re Ferdinando che lo abbindola con volgari complimenti.
La costituzione giurata all'indomani dal re con invocazioni di
fulmini divini sul proprio capo, se mai avesse a tradirla, esalta al
delirio le fantasie: la costituzione era spagnuola e si era voluta
fanaticamente quella, benchè nessuno la conoscesse e in tutta
Napoli solamente l'ambasciatore spagnuolo ne avesse una copia. La
Corte s'inganna, la carboneria s'illude, il popolo festeggia. Il
poeta Gabriele Rossetti lancia la più bella delle sue odi a
questa incruenta rivoluzione senza accorgersi che se adesso non vi
è stilla di sangue su tante migliaia di spade, nel giorno
prossimo della battaglia le stesse spade ricuseranno
d'insanguinarsi. Tutti si affigliano alla grande setta: il duca di
Calabria vi si fa iniziare da monsignor Marcello, i lazzari vi si
arruolano a frotte. Ma la camorra, eterna peste di Napoli, vi si
mesce, vendendo diplomi di carboneria agli stessi sanfedisti,
intenti così al doppio scopo di salvarsi da possibili
vendette e di penetrare nella rocca del nemico.
La diplomazia estera osteggia la rivoluzione: Sir William A' Court e
il duca di Narbonne la disonorano nei propri rapporti, onde a mezzo
agosto due flotte francesi ed inglesi compaiono nelle acque di
Napoli per difendere la famiglia reale. I grandi maestri della
carboneria congregata per avvisare ai nuovi pericoli ordinano ai
carbonari e alle milizie di muovere su Napoli, e stabiliscono un
comitato di salute publica di cinque membri col potere degli Efori
spartani, eterno ricordo classico, che vigilino sui generali, sui
ministri, sulla corte, su tutti.
Ma siccome la polizia reagisce contro la setta arrestandone
qualcuno, questa non ardisce spingersi all'insurrezione.
Intanto la Sicilia, ostinata nella propria autonomia e sobillata
dalla corte, profitta della rivoluzione di Napoli per ribellarsi;
orribili scene di sangue disonorano Palermo. Mentre il re riconcede
la costituzione del 1812, e il popolo reclama quella spagnuola
proclamata a Napoli, mirando precipuamente a costituirsi in stato
indipendente sotto la stessa dinastia, la guerra scoppiata fra
soldati di presidio e popolani costringe il nuovo governo di Napoli
ad intervenire. Le antinomie politiche si aggrovigliano: la Sicilia
vuole essere indipendente secondo le tradizioni federaliste italiane
e non comprende che a questo le occorrerebbe prima decretare la
decadenza dei Borboni ed eleggersi altro re o costituirsi in
repubblica; a Napoli la rivoluzione inspirata da un vago liberalismo
cosmopolita, che sino alla vigilia della sommossa aveva sempre
parlato d'Italia, si chiude con insipiente egoismo nella formula
regionale contro le proprie inconscie tendenze nazionali sino a
ricusare, per timore di Roma, la fusione con Benevento e Pontecorvo,
città pontificie internate nelle terre napoletane. Ma verso
la Sicilia, che vorrebbe usare a Napoli il trattamento da questa
tenuto coll'Italia, l'antico orgoglio di capitale protesta in nome
dell'unità. Così Florestano Pepe, fratello di
Guglielmo, generale egli pure, viene deputato a soggiogare Palermo,
e sbarca a Milazzo, s'accentra a Messina rimasta fedele a Napoli per
tradizionale rivalità con Palermo. Senonchè scarso a
soldati, tratta di componimento col principe di Villafranca; questi
troppo ben disposto ad arrendersi è infamato subitamente
dalla plebe col nome di giacobino, tanto nell'isola è ancora
odiata la rivoluzione francese! Il tumulto cresce, si scarcerano i
galeotti, si tempesta nelle guise più strane. Pepe,
astutamente longanime, arriva nullameno a concludere un accordo, che
Napoli infatuata della propria superbia di capitale cancella,
mandando il Colletta, generale che poi doveva rimanere illustre come
storico, a schiacciare la ribellione.
Il Colletta vinse, disciolse la giunta ribelle, fe' giurare la
costituzione spagnuola, convocò gli elettori, ma indarno.
Nella riottosa isola solo i pubblici funzionari giurarono e
votarono: i deputati al parlamento di Napoli ricusarono il mandato.
Intanto a Napoli la rivoluzione stagna. Malgrado le dichiarazioni di
cosmopolitismo e di nazionalismo la carboneria, anzichè
eccitare la rivolta nel resto d'Italia, si racchiude nel regno come
nella speranza di salvarsi, quindi fallisce al di fuori e peggiora
al di dentro. Le vanterie teatrali della setta sull'esempio dei
frammassoni di Spagna trasformano la Vendita di Napoli in
un'assemblea permanente rivale del parlamento: rivoluzione di setta
che pretende naturalmente a governo di setta! Il parlamento
ricalcitra, ma ricusando il consiglio impostogli di armare i
carcerati non osa e non può accettare il conflitto. Le
minaccie d'Europa aumentano lo scompiglio; solo la Spagna, i Paesi
Bassi, la Svezia e la Svizzera hanno riconosciuto il nuovo governo;
la Francia, malgrado ogni speranza di giovarsene per riacquistare in
Italia la perduta influenza, rattenuta dal principio legittimista
del proprio governo, tergiversa; l'Inghilterra s'astiene e
s'aggronda; lo czar sfugge alle insistenze liberali di Capodistria
per arrendersi ai maneggi di Nesselrode e di Metternich, il quale
ricusa di ricevere a Vienna l'ambasciatore napoletano. L'Austria,
sempre insidiosa, sollecita tutte le corti italiane a dichiarare che
la rivoluzione, mettendole in pericolo, accetteranno una guarnigione
austriaca; e queste consentono alla prima parte della dichiarazione,
ricusando il pericoloso presidio. S'adunano congressi: a quello di
Troppau (ottobre 1820), non ostante le ipocrite riserve
dell'Inghilterra, si afferma il principio dell'intervento armato in
tutti gli stati, nei quali la rivoluzione rovesci il governo
legittimo; quindi all'altro di Lubiana, cui intervengono il
cardinale Spina per la Santa Sede, il conte d'Agliè e il
marchese di San Marzano pel Piemonte, il principe Neri Corsini per
la Toscana, il conte Molza per Modena; si stabilisce la guerra
contro Napoli. Solo il legato pontificio ne dissente, per timore che
le truppe austriache, passando sul territorio romano, non vi si
fermino.
Re Ferdinando, riuscito nei preliminari di questo secondo congresso
a farvisi invitare dagli alleati, ottiene il permesso di andarvi a
patrocinare la causa della rivoluzione dalla miracolosa insipienza
del proprio parlamento. Lo stesso Poerio decide l'assemblea a questa
scempiaggine: Guglielmo Pepe francamente convertito al
costituzionalismo rimane fedele al re, il generale Carrascosa si
dichiara persino pronto a ripetere la scena del diciotto brumaio
contro l'assemblea.
Intanto giù nella piazza si urla freneticamente: la
costituzione di Spagna, o morte!
Ferdinando parte. Appena giunto in Firenze vi rinnega col duca la
giurata costituzione, scusandosene come di violenza patita: da
Lubiana manda il conte Del Gallo a significare il volere degli
alleati; il reggente si trincera dietro la volontà del padre
per sottrarsi a quella del parlamento, che convocato a sessione
straordinaria, superando se stesso nell'ingenuità, dichiara
il re prigioniero e coartata la sua lettera al figlio.
La guerra è dichiarata con frasi epiche, ma l'esercito,
quantunque numeroso, poco vale: gli aiuti del generale Wilson
inglese, offerentesi di comporre 4 reggimenti di volontari, per non
essere stati accolti in tempo, non giovano; i volontari accorsi da
altre parti d'Italia non bastano; i generali sono discordi e non
sinceri. Carrascosa, regio di sentimento, sostiene la difensiva;
Pepe, costituzionale inetto ma soldato impetuoso, declama di eroismi
disperati; il Colletta ministro della guerra, invido di Pepe e
sfiduciato forse di ogni resistenza, soffiando sul loro dissidio,
disunisce la loro azione. Pepe, spintosi con mossa avventata su
Rieti, è battuto: il corpo di Carrascosa si sbanda
all'avvicinarsi del nemico; gli austriaci entrano in Napoli senza
colpo ferire, mentre Poerio con incredibile puerilità
protesta contro l'invasione, dichiarando «incostituzionale e
quindi impossibile traslocare il parlamento senza il concorso del
potere esecutivo, invocando la saviezza di sua altezza reale e del
suo augusto genitore».
Questa fu la suprema affermazione della rivoluzione napoletana.
Ferdinando ritornato livido d'ira richiama il Canosa: grandinano le
condanne di morte; nuovi patiboli s'inzuppano del sangue dei
più generosi rivoluzionari che non seppero o non vollero
fuggire; l'esodo degli esiliati, respinti dalle frontiere pontificie
con cattolica crudeltà e vaganti nel terrore dell'abbandono e
della morte, desola le provincie; la polizia infellonisce con
sì sfacciata barbarie che lo stesso generale austriaco
Frimont minaccia il re di ripassare la frontiera se non cacci il
Canosa. E questi va ministro presso non migliore tiranno, Francesco
IV di Modena.
Così finiva questa rivoluzione settaria, egoisticamente
regionale malgrado alcune prime intenzioni nazionaliste, ferocemente
unitaria contro la Sicilia, scioccamente costituzionale nella fede
al re, ridicolmente guerriera nella resistenza all'invasione, senza
che il popolo delle provincie e delle città v'intendesse cosa
alcuna.
Rivoluzione piemontese.
Nessuno degli errori della rivoluzione napoletana fu evitato in
Piemonte.
Bonapartisti e carbonari l'accesero senza accordi con Napoli, mentre
la più volgare esperienza politica avrebbe dovuto suggerirli
anche senza il lontano magnanimo scopo dell'unità d'Italia.
Napoli aveva armato quarantamila uomini alla difesa, e quarantamila
erano gli austriaci all'attacco: piombare alle spalle di questi
ringagliardendo gli altri con una diversione, sollevare la
Lombardia, gettare un grido alle Romagne sempre pronte ad ogni moto,
tendere la mano alla Toscana, congiungere con una medesima parola di
riscossa Venezia e Genova, antiche rivali di mare ora affratellate
dalla sventura della servitù, doveva essere l'inevitabile
programma della rivoluzione piemontese dopo gli errori commessi a
Napoli. Invece non solo non si ebbe idea di una vera rivoluzione, ma
nemmeno un concetto dell'impresa che ne uscirebbe.
Siccome qualche diplomatico come il Crotti di Brusasco, legato sardo
a Pietroburgo, per ravvivare la tradizione della monarchia
piemontese, consigliava al re di prendere con larvate riforme
costituzionali la direzione delle forze liberali latenti nella
penisola, così l'agitazione rivoluzionaria cominciò
colla forma ingenua di due indirizzi al sovrano. Si sperava in tal
modo di strappargli la benda dagli occhi e di persuadergli la
costituzione spagnuola. Poi l'11 gennaio 1821 gli studenti di Torino
tumultuavano per l'arresto di alcuni di loro comparsi al teatro
d'Angennes con berretti rossi alla greca. La carboneria, sempre
più accademia che setta, bizantineggiava ancora sulla scelta
della costituzione da proclamarsi, perdendo tempo e circostanze per
l'insurrezione: finalmente mandava deputati alla grande Vendita di
Parigi, specie di sinodo europeo, cui convenivano i liberali di
Spagna, i radicali d'Inghilterra, l'eterie di Grecia e ogni altra
setta politica. I deputati, traditi forse dalla polizia francese,
furono catturati al ritorno e i disegni di ribellione scoperti.
Carlo Alberto di Carignano, presunto erede dei Savoia rimasti tutti
senza prole, era da tempo il capo e l'eroe predestinato della
carboneria piemontese. Aveva ricevuto educazione cittadinesca a
Ginevra; a 15 anni era entrato volontario nell'esercito napoleonico;
poi richiamato dalla restaurazione del 1814 sui gradini del trono e
odiato dalla corte meno ancora per la sua inevitabile qualità
di erede che per la sua affettazione di sentimenti liberali, pareva
a tutti l'uomo del destino italiano. Monti, servile ed
incorreggibile retore, lo aveva già salutato come l'astro
sorgente della patria: più tardi un altro poeta doveva
colpirlo col fulmine di una maledizione che scosse tutta Italia.
Carlo Alberto, senza fede nella libertà e senz'amore per la
patria, tergiversava fra la gloria di compiere una rivoluzione e il
timore di perdere un trono. La sua indecisione finiva di paralizzare
il processo già lento della carboneria. La corte avvertita
non osava risolversi; l'Austria più pronta mandava il
generale Bubna a chiedere di occupare Alessandria: a questa domanda
il re, già fanaticamente ostile alla rivoluzione tramata nel
suo nome per farlo re costituzionale di tutta l'alta Italia, si
riaffermava nei propositi di resistenza. Dalla Lombardia l'altra
setta della federazione italiana, raccolta sotto la maschera della
scienza o della letteratura nelle sale dei conti Gattinara e
Confalonieri, spingeva il Piemonte all'insurrezione giurando
seguirlo, ma non voleva essere prima all'esempio. Finalmente
Alessandria si solleva al grido di: viva la costituzione, morte ai
tedeschi! costituendo una Giunta della Federazione italica. Asti,
Pinerolo ed altre città sono trascinate nel moto: a Torino un
colpo di mano rende i federati padroni della fortezza. Carlo
Alberto, che nel vile egoismo dell'anima dubbia aveva già
tradito i rivoluzionari rivelando i loro disegni al ministro della
guerra, non può sottrarsi alla propria parte di cospiratore;
e mentre Torino si decide davvero in favore della rivoluzione, e
Vittorio Emanuele si dimette per non rispondere all'appello che lo
proclama re dell'alta Italia, diventa reggente per Carlo Felice
succeduto al trono e residente in Modena.
Le antitesi della sua posizione come rappresentante della dinastia e
delegato della rivoluzione trionfante, finiscono di scombuiarlo.
Incalzato a scoprirsi, indugia, largisce amnistia come di una colpa
alle truppe che lo hanno sollevato al nuovo governo; finchè,
vinto da pressioni di ogni sorta, promulga la costituzione spagnuola
«salvo le modificazioni che dalla rappresentanza nazionale in
una con Sua Maestà il re verranno deliberate». Si crea
una giunta provvisoria di governo, chiamando a capo del nuovo
ministero Ferdinando Dal Pozzo, un regio che, dopo aver giustificato
il tradimento di Carlo Emanuele III al Giannone, doveva poi vendere
la penna all'Austria scrivendo un libro Sulla felicità che
gli italiani possono e debbono dal governo austriaco procacciarsi.
Ma Carlo Felice, più retrivo e tiranno di Vittorio Emanuele,
ordina alla truppa di concentrarsi a Novara sotto il generale
Latour, fulmina da Modena condanne di ribellione contro tutti i
sudditi aderenti al nuovo governo. Carlo Alberto, sempre falso ed
incerto, non ha ancora nè convocati i collegi, nè
dichiarata la guerra all'Austria; posto quindi nella
necessità di ribellarsi o di sottomettersi, non sa essere
nè francamente ribelle, nè astutamente traditore.
Ricusa di ricevere Santarosa venuto da Alessandria per eccitarlo
alla guerra; poi, vedendolo sostenuto dalla pubblica opinione, lo
nomina ministro della guerra, e la medesima notte, fingendo di
mandare il cardinale Morozzo a Carlo Felice per indurlo a mutar
consiglio, fugge a Novara presso il generale austriaco Bubna, donde
emana un proclama di ubbidienza al nuovo re.
Era un'infamia ed avrebbe potuto essere una fortuna. Ma la
rivoluzione, libera dagl'intoppi della reggenza, non osa nè
il proprio principio, nè i propri modi. Tutto peggiorava
intorno ad essa: lo czar ordina al generale Jermolov di mettersi in
marcia; quindici mila austriaci si avanzavano chiamati da Carlo
Felice. A Torino non si pensa nemmeno a bandire la guerra popolare e
si lasciano al conte Latour il governo di Novara e al conte di
Andezeno quello della Savoia, sebbene entrambi nemici della
rivoluzione; i carabinieri della capitale minacciano di sollevarsi
in favore dell'assolutismo, il popolo assiste spettatore; Genova
rivale tumultua per separarsi dal Piemonte; Nizza, ricovero di
Vittorio Emanuele, tace; e le notizie di Napoli, finendo di
prostrare gli spiriti, persuadono la sommessione. La Giunta incapace
di alzarsi al disopra della legalità costituzionale
decretando la decadenza del re, discende a trattare col conte
Mocenigo, ambasciatore russo, del perdono, e avrebbe acconsentito ad
ogni più duro patto senza la nobile fierezza del Santarosa,
che dopo aver cercato inutilmente di risollevare gli animi perfino
con false novelle d'insurrezioni lombarde e di vittorie napoletane,
vedendo che tutto è perduto, vuole almeno salvare l'onore. E
il suo fu salvo; ma la rivoluzione si disciolse dopo lo scontro di
Novara, nel quale i generali Ferrero e San Marzano furono dispersi
dopo fiacca resistenza dalle truppe austriache. Il 9 aprile il
generale Latour entrava trionfante in Torino, mentre Carlo Alberto,
salutato oltraggiosamente dai tedeschi col titolo di re d'Italia,
trattato come valletto da Carlo Felice che respingesse le sue
lettere sbattendole sul volto dei corrieri, riparava in Firenze
sotto la protezione dell'ambasciatore francese, malgrado questi
dichiarasse di accordargliela solo nel nome della
legittimità.
Repressioni assolutiste.
Frattanto la Lombardia, per non aver osato muoversi, subiva
egualmente i rigori della più feroce repressione. Già
ai primi rumori della rivoluzione napoletana, l'Austria dichiarava
rei di alto tradimento tutti i carbonari, e correi quanti
omettessero di denunciarli; quindi si moltiplicarono gli arresti,
mirando a colpire gli uomini più celebrati. Alessandro
Andryane affigliato alla società dei maestri sublimi fondata
a Ginevra da Buonarroti, còlto a Milano con tutte le carte,
compromise un numero stragrande di liberali; altri accusarono Carlo
Alberto di averli denunciati; i nuovi inquisitori Bolza e Salvotti
peggiorarono con incredibili perfidie il disastro. Fra gli arrestati
più insigni furono Pietro Maroncelli, Silvio Pellico,
Melchiorre Gioia, Giandomenico Romagnosi, il conte Giovanni
Arrivabene, il conte Confalonieri, il principe Pallavicini. Nel
terribile dramma non tutti perirono: Gioia e Romagnosi si salvarono,
Laderchi s'infamò eternamente come delatore, Silvio Pellico,
Maroncelli, Oroboni, Foresti, don Fortini, Confalonieri furono
seppelliti vivi nella rocca di Spielberg. In Piemonte le condanne di
morte salirono a novantadue, per fortuna quasi tutte contumaciali;
molte furono eseguite in effigie e fra esse quella del principe
della Cisterna, una discendente del quale doveva poi arricchire coi
propri milioni un nipote di Carlo Alberto. Più terribili
ancora furono le misure contro gli uffiziali che avevano partecipato
alla rivoluzione.
Negli Stati pontifici, focolare del Sanfedismo, la repressione
scoppiò senza che rivoluzione vi fosse stata: di quattrocento
processati molti vennero condannati specialmente per opera del
Rusconi e del Sanseverino, legati a Ravenna ed a Forlì, alla
pena capitale commutata poi nella reclusione. In Toscana il granduca
non volle processi; Maria Luigia invece li permise a Parma e vi
furono coinvolti Ferdinando Maestri e Jacopo Sanvitale illustri
professori, cui le pene vennero commutate in esilio. A Modena la
reazione s'infamò nel supplizio del prete Andreoli, simpatica
figura di apostolo, che aprì il martirologio dei preti
patrioti. Gli alleati, commossi al rapido trionfo, lo ascrissero
«al terrore, onde la provvidenza colpì le ree
coscienze», ed annunziarono con ingenua baldanza all'Europa
che d'ora innanzi «i cambiamenti utili o necessari nelle
legislazioni e nelle amministrazioni non devono emanare che dalla
libera volontà, che Dio rese responsabile del potere».
Così l'assolutismo, separandosi dal diritto, giustificava
qualunque futuro eccesso della rivoluzione.
L'Italia era oramai tutta soggetta all'Austria. Re Ferdinando, dopo
aver nominato con abbietta gratitudine il generale austriaco Frimont
principe di Antrodoco con duecentoventimila ducati di dote, per
timore di nuovi pronunciamenti militari sciolse l'esercito affidando
la custodia del regno a quattro reggimenti svizzeri e a
trentacinquemila austriaci. Alla sua morte nel 1826 Carlo Felice,
per compiacere a Metternich, si affrettò a persuadere re
Francesco di prolungare l'occupazione austriaca, ma questi, sicuro
del proprio stato e corto a quattrini, non potè consentirvi:
nullameno il regno di Napoli dipendeva direttamente dall'Austria. A
peggio ancora, per opera di Carlo Felice, era disceso il Piemonte.
Il nuovo re, tirannicamente inflessibile coi sudditi, fu così
servile verso l'Austria che non solo il generale Bubna, occupata
Alessandria, potè mandarne la chiave della cittadella
all'Imperatore, e questi pubblicarne la notizia nella gazzetta
ufficiale, ma dopo tale insulto il legato sardo, conte di Pralormo,
ebbe incarico di offrire all'Austria i più amichevoli accordi
per mantenere la pace nella penisola contro lo spirito
rivoluzionario. A questo intento Metternich propose un supremo
magistrato d'inquisizione a Modena per cercare ed impadronirsi delle
fila della cospirazione: i re di Sardegna e di Napoli si
affrettarono ad aderire; ma le corti di Toscana e di Roma, sempre
diffidenti dell'ingerenza, vi si ricusarono.
Metternich portò la questione al congresso di Verona.
Questo terzo congresso, come complemento di quelli di Troppau e di
Lubiana, avrebbe dovuto decidere su la rivoluzione di Spagna,
l'indipendenza delle colonie spagnuole, la tratta dei negri, la
pirateria d'America, le controversie della Russia colla Turchia per
l'Oriente, la rivoluzione greca e le condizioni interne dell'Italia.
Ma a questo congresso di cristiani, nel quale il pontefice di Roma
aveva per legato il cardinale Spina, gli ambasciatori greci non
furono nemmeno ricevuti. Gloria d'eroismi, santità di
religione, ineffabili dolori di stragi patite, nulla valse a vincere
l'egoismo politico dei congregati, tementi in ogni moto di popolo
una ribellione al diritto divino.
Per l'Italia si decise lo sgombero degli austriaci dal Piemonte, che
lo sollecitava meno per alterezza di regno che per sgravio delle
finanze; poi si volle imporre alla Svizzera l'infamia di consegnare
tutti i fuorusciti politici rifugiativisi sulla fede dell'onore
republicano. L'accanimento del legato sardo conte Della Torre nel
triste proposito, e la facile adesione di Chateaubriand, il nobile
bardo cristiano che aveva saputo resistere alla seduttrice
prepotenza di Napoleone, rivoltarono ogni spirito onesto. La
Svizzera resistette degnamente; la Toscana, meno forte di essa, fu
anche più magnanima, e respinse la codarda persecuzione ai
vinti della rivoluzione con parole che parvero eco dei secoli morti,
quando i magni spiriti de' suoi cittadini republicani rispondevano
con invincibile orgoglio alla superbia dei re. Quindi il supremo
magistrato d'Inquisizione in Italia fallì. Il cardinale
Consalvi e il Fossombroni, quegli da Roma e questi da Firenze, vi si
opposero con fortunata costanza. Per Napoli si convenne di ridurre
l'occupazione a soli 35,000 austriaci, e che le due consulte di
stato, residenti a Palermo e a Napoli, si accentrassero dietro
istanza del principe Ruffo in quest'ultima, unica capitale del
regno.
Su tutti gli altri argomenti poco si discusse e meno si decise: la
tratta dei negri fu condannata platonicamente; sulle sollevazioni
dell'America, malgrado le insistenze dell'Inghilterra, non fu preso
alcun partito; su quella di Spagna si permise alla Francia la
malaugurata spedizione del duca di Angoulème per dare alla
inonorata orifiamma dei Borboni il battesimo della vittoria.
Chateaubriand perdette in quest'impresa tutta la propria gloria di
poeta, giacchè, sperando di riconciliare i Borboni colla
Francia sul campo del trionfo, li rese strumenti odiosi della Santa
Alleanza contro un popolo eroicamente ribelle al peggiore dei
tiranni.
In Spagna erano già accorsi da ogni parte d'Italia i
più generosi fra i vinti rivoluzionari, quasi a punire se
medesimi di aver fallito nelle patrie rivoluzioni e ad apprendere
dal più indomabile fra i popoli d'Europa il segreto della
resistenza invincibile. Gl'italiani, secondo la dolorosa tradizione
che li aveva sempre resi incomparabili come avventurieri e
partigiani, si copersero di gloria; il nome d'Italia fu acclamato
con ammirazione dagli spagnuoli così alteri del proprio
coraggio, mentre da lungi con più epico grido rispondevano i
greci raggruppati intorno a Santorre Santarosa e ad altri italiani.
Ma nel campo dei crociati francesi che s'avanzavano sotto Madrid
gridando: muoia la costituzione, viva il re assoluto!, Carlo Alberto
di Carignano, volontario della tirannide, combatteva nuovamente
contro i traditi compagni di cospirazione, per ottenere dalla Santa
Alleanza il prezzo del primo tradimento raddoppiato dall'infamia di
tale espiazione.
E vinse, e il papa, italiano degno di lui, mandò al duca di
Angoulème, generale da palcoscenico, come premio delle
vittorie spagnuole il berrettone e lo stocco che avevano santificato
i trionfi di Giovanni d'Austria, di Sobieski e di Eugenio di Savoia
contro i turchi.
Così cessarono i moti italiani del '20 e del '21. La
insurrezione delle Calabrie aveva provocato la rivoluzione di
Napoli, questa affrettata l'altra di Piemonte; la Lombardia inerte
aveva lasciato agli austriaci ogni facilità nelle
repressioni, Genova e Venezia vi avevano assistito spettatrici, la
Toscana calma nella propria sicurezza, Parma sussultando appena,
Modena rabbrividendo, il regno pontificio nella più svogliata
disattenzione. L'Austria spalleggiata dalla Santa Alleanza doveva
vincere militarmente, ma vinse anche politicamente. La carboneria
non ebbe nè destrezza alla preparazione, nè audacia
allo scoppio, nè dignità nella sconfitta. La
rivoluzione parve a tutti quello che era, cioè una sommossa
militare svanita al primo giungere in piazza. Vi si imitava la
Spagna, si attendevano ordini dalla Vendita di Parigi, si
proseguì a sperare negli aiuti della Francia. Il popolo, non
consultato prima, non fu armato poi: Napoli non pensò a
Torino, Torino a Milano, Milano ad alcun'altra città.
L'Italia era così poco persuasa della propria
nazionalità politica che i rivoluzionari, malgrado
l'affratellamento delle sètte, entrando nella scena politica,
ricadevano nelle abitudini del regionalismo.
L'Austria, militarmente poco stimata fra le memorie ancora
sfolgoranti della grande epopea napoleonica, distendendo il proprio
protettorato sull'Italia, vi aveva adottato la più sapiente
delle politiche. Inesorabile ai liberali e ai demagoghi, frenava
contemporaneamente gli eccessi della controrivoluzione, imponendo a
Ferdinando di Napoli per due volte di cacciare il sanguinario
Canosa: abbassava l'aristocrazia, seduceva la borghesia colla
regolarità di un'amministrazione superiore a quella di ogni
principe italiano, atterriva tutti colla vigilanza instancabile di
una polizia, alla quale i codici non erano ostacolo e denari ed armi
non mancavano mai. Il congresso di Vienna, dopo quelli di Troppau e
di Lubiana, aveva persuaso ai popoli che ogni loro moto sarebbe
inesorabilmente represso: ogni rivoluzione avrebbe quindi dovuto
sentirsi sorella delle altre, invece di isolarsi quasi a cercare
salute nella propria piccolezza.
L'esercito austriaco di occupazione si mostrava ammirabile per
rispetto alle popolazioni, mentre i francesi della prima rivoluzione
e dell'impero le avevano manomesse: i funzionari civili, ancora
più disciplinati, non avevano iattanza di padroni, ma la
glaciale terribilità di sudditi usi a non discutere mai gli
ordini del sovrano e ad eseguirli contro tutti. Infine l'Austria
assicurava la pace ardentemente voluta da tutte le classi,
dispensando o quasi dalla coscrizione e rendendo ridicola alla
ragione volgare ogni speranza di rivolta colla strapotenza del
proprio impero. I due elementi d'insurrezione, pretese
aristocratiche ed idee liberali, erano del pari combattute;
distrutta ogni forma di vita politica, i municipii così
schiavi da non poter prendere alcuna iniziativa. Con abile
intendimento la letteratura fu da essa talmente disprezzata che il
pensiero stesso ne soffrì: l'istruzione discese a mestiere
meccanico. Gli avvocati, sempre pericolosi come classe e per lo
studio del diritto e per la clientela degli affari, perdettero il
diritto di arringa, per discendere al grado di procuratori soggetti
alle regole di una carriera burocratica come i giudici. Quindi
proibito il viaggiare a tutte le persone sospette, diffranta la
società in un atonismo che lasciava ogni individuo solo
contro la vasta organizzazione e la granitica compattezza
dell'impero.
Era più di quanto bastava. L'esaltazione lasciata dalle idee
rivoluzionarie e dalle imprese napoleoniche negli spiriti italiani
non poteva resistere nè al freddo del nuovo ambiente,
nè alla logica di un sistema opponente sempre la più
innegabile realtà alla più incerta delle ipotesi.
Ma questa compressione, assicurando all'Austria il presente, le
preparava un terribile futuro. Le franche dichiarazioni del
congresso, separando i re dai popoli e il diritto divino dal diritto
popolare, rendevano più chiare le idee nella coscienza dei
popoli. La lotta si presentava inevitabile. La vita, scissa nella
propria unità, ricominciava il processo dialettico della
propria ricomposizione, e poichè tutto era negato
dall'autorità dei padroni, i servi si persuadevano della
razionalità di ogni muta aspirazione. La coscienza, costretta
a nascondersi dietro le proprie porte, vi ricostruiva segretamente
come ai primi tempi del cristianesimo un nuovo mondo ideale,
riconciliandovi le antitesi storiche contrastanti al di fuori la
vita dell'azione. Quindi la poesia e l'attività delle
sètte non scemò. Un elemento tragico purificò
la giovinezza di tutti coloro, cui l'eccellenza della natura non
consentiva di putrefarsi nella inazione o di obliarsi nella
volgarità della vita materiale. L'idea dell'unità
d'Italia fu appunto suggerita dall'uniformità del dispotismo;
non essendovi più alcuno Stato di carattere italiano per
alzare contro l'Austria la bandiera della libertà, il popolo
solo nell'unità della propria storia, della propria lingua,
della propria servitù, dei propri dolori, delle proprie
speranze, restava italiano. Allora ricominciò il fermento
delle idee rivoluzionarie recate dai francesi della prima invasione;
i prigionieri spariti nelle ròcche della Moravia, pei quali
non si era osato un grido al momento della condanna, diventarono
fratelli primogeniti di tutti gli oppressi; i fuorusciti corsi a
combattere nella Spagna e nella Grecia giganteggiarono eroi nelle
fantasie e nei racconti popolari; l'aristocrazia oppressa come il
popolo gli si avvicinò; la borghesia, troppo attiva per
stancarsi nelle bisogne materiali e anelante alla scienza e al
potere, si dilatò riunendo in un pensiero comune i due
estremi sociali; la letteratura crebbe, la filosofia si
rialzò, le scienze ripresero l'interrotto lavoro.
L'autorità fu tirannide straniera: il pensiero
dell'indipendenza accomunò tutte le classi, ospitando nelle
proprie pieghe tutte le passioni della libertà.
CAPITOLO SECONDO.
Trame ed insurrezioni del '
Incubazione liberale.
L'opposizione scoppiata in Francia fra liberali e realisti aveva
aperto una palestra a tutti gli ingegni d'Europa.
Una discussione sapiente ed appassionata, vasta e minuta, caustica
fino alla satira ed inesauribile come un pettegolezzo, obbligava
tutti gli antichi diritti a produrre i propri titoli contro il mondo
nuovo prodotto dalla rivoluzione e garantito dalla Carta. Le dispute
delle Camere insegnavano ai popoli le teoriche di una
sovranità popolare, che i disordini della rivoluzione e le
guerre dell'impero avevano loro impedito di comprendere. Il nuovo
liberalismo borghese in lotta colle ultime reazioni realiste
appariva molto più bello e generoso di quanto poi doveva
mostrarsi. Si reclamavano tutte le libertà, si voleva tutta
l'uguaglianza legale. Gli antiquati privilegi, costretti a
confessare il proprio principio, diventavano ancora più
ridicoli che odiosi; il re prigioniero della Carta non era
più che un funzionario insubordinato contrastandone
l'applicazione, meritevole di espulsione come ogni altro se ardisse
violarne i patti. L'aristocrazia, disonoratasi negli avari reclami,
coi quali aveva ottenuto dalla Francia esausta un miliardo
d'indennizzo, appariva codazzo di servitori a un re servo di
stranieri, più straniera del re avendo per vent'anni
combattuta la patria sotto tutte le insegne, ignorante di fronte
alla nuova borghesia padrona di tutte le scienze, spregevole dinanzi
all'esercito che un'altra aristocrazia di eroi aveva guidato alla
vittoria su tutti i campi d'Europa, odiosa al popolo che l'aveva
veduta fuggire ai primi gridi della rivoluzione e ritornare ai primi
disastri dell'invasione. La parìa non rappresentava quindi
che la corte, mentre il parlamento, per quanto l'elettorato ne fosse
ristretto, rappresentava la nazione.
Aristocrazia e dinastia negavano rivoluzione ed impero: la Francia
riaffermando l'una e l'altro voleva essere sovrana di se stessa per
ritornare alla testa dell'Europa.
Laonde tutti i popoli agitati dall'idea rivoluzionaria miravano a
lei, come aspettando la parola di nuove rivoluzioni.
Giornali e libri, aiutati dalle nuove facilità di
comunicazioni, portavano ovunque la luce e il calore degli
insegnamenti liberali. Una letteratura senza esempio in alcuna epoca
della storia illuminava dalla Francia tutto il mondo, mentre il
grande periodo filosofico della Germania chiudendosi apriva quello
più vivace delle applicazioni politiche e scientifiche. La
solidarietà, insegnata loro dalle guerre napoleoniche,
rendeva i popoli più pronti ad accogliere i nuovi principii e
ad intendersi nell'azione per trarne le conseguenze; la borghesia,
ancora sola a combattere, era costretta dalla dialettica della
storia ad affettare una democrazia migliore del proprio cuore e
maggiore del proprio interesse. Il parlamentarismo, barcollante
sulla doppia base della sovranità popolare e della
regalità ancora consacrata dal diritto divino, si esauriva,
addestrandosi a più alte prove nello sforzo quotidiano di
conciliare le antitesi rinascenti da una costituzione considerata
dalla corte come una concessione e dalla nazione come un diritto,
nella quale il re si sentiva violato e il popolo si aspettava di
essere ad ogni ora tradito. Religione e clero, ostili alla
costituzione, vi si destreggiavano per comandare ed impinguarsi; i
costumi mutati proseguivano l'opera livellatrice della rivoluzione;
l'arringo politico, esigendo attitudini scientifiche e abitudini
popolari, diventava sempre più difficile all'aristocrazia,
mentre l'aumentata facilità dell'istruzione attirava il
popolo a queste battaglie del pensiero. Naturalmente la Francia,
discutendo per tutti dall'alto delle proprie tribune, congiurava per
tutti nel segreto delle proprie sètte afforzate dai veterani
della rivoluzione e dai soldati dell'impero coll'energia di gente
usata a tutti i pericoli. Da Parigi muovevano gli ordini e si
attendevano soccorsi. Spagna, Grecia, Germania, Polonia, Italia
seguivano nell'armi contro tutti gli Stati feudali. La Grecia si
ostinava nella propria guerra contro i turchi, aspettando nella
sicurezza eroica dell'istinto da una contraddizione europea l'urto
necessario a frangere a suo favore l'unità dispotica della
Santa Alleanza; l'Italia, ricaduta dopo le meschine sollevazioni di
Napoli e di Torino nella prima soggezione, seguitava con più
nobile fervore l'opera segreta della propria ricostituzione.
Un fecondo disinganno era succeduto alla disperazione delle ultime
sconfitte. Nè la corte di Torino, nè quella di Napoli
avrebbero mai accettato di capitanare la rivoluzione; l'organismo
delle sètte si era addimostrato insufficiente, l'isolamento
dell'insurrezione aveva loro conteso persino l'onore di una morte
eroica. Si cominciava a comprendere che il malcontento militare dei
residui napoleonici e le pretese arcaicamente generose o
ipocritamente egoiste dell'aristocrazia essendo senza forza, la
borghesia sola avrebbe dovuto fare la rivoluzione, mentre il popolo
seppellito nell'ignavia secolare vi assisterebbe quasi impassibile.
Si potrebbe calcolare su qualche sua collera, non sulla sua fede
rivoluzionaria; la miseria, l'ignoranza, un timore cieco
dell'Austria, un rispetto superstizioso per Roma, gl'impedivano di
comprendere l'idealità del mondo moderno. Le sue passioni
erano ancora quelle delle antiche plebi; molte sue abitudini,
specialmente nelle campagne infestate da banditi, si sarebbero
prestate a virtù di guerra, ma gli mancavano ancora la
passione indispensabile al coraggio d'insorgere e l'idea necessaria
alla costanza di una rivoluzione. Lo stesso dispotismo dei governi
era quasi senza oppressione per il popolo uso da secoli a servire,
dacchè le nuove persecuzioni preferivano coloro più
alti per grado di classe o elettezza di natura.
Nullameno l'idea d'Italia cresceva, aiutata dalle idee liberali. Si
sentiva confusamente che qualche cosa doveva pur mutare, se
l'opposizione fra la coscienza dei migliori e la prepotenza dei
governanti aumentava ogni giorno d'intensità: ogni moto
all'estero diventava promessa, il progresso commerciale ed
industriale conduceva per la via sicura degl'interessi al
liberalismo, la guerra al pensiero lo costringeva ad alzarsi sino ai
principii e a destreggiarsi nell'abilità di espedienti che
potessero sconfiggere la forza bruta dei governi. Le sètte
ristringevano nuovi vincoli di fratellanza, che gli emigranti
annodavano coll'estero; l'odiosità delle polizie irritando
anche il popolo allentava in esso i vincoli dell'antica soggezione;
le università si mutavano in focolari di congiura e in
caserme, entro le quali si preparavano armi per tutte le battaglie.
Oramai la vanità obbligava i giovani ad avversare i governi e
ad evitarne gl'impieghi. I libri parlavano tutti d'Italia, ogni
parola era un appello, ogni reticenza un'allusione. Quel bisogno di
grandezza morale, eterno nella coscienza pubblica, non trovando modo
di appagarsi nella vita politica dei governi mutati in prefetture
austriache, rivolgeva gli spiriti altrove, nello spettacolo dei
popoli liberi, derivandone una passione d'invidia, che era amore
all'Italia e odio allo straniero.
Condizioni uniformi dei governi.
Napoli e Torino erano le due sedi peggiori della tirannide paesana,
la Lombardia la provincia più serva, il regno pontificio il
più spregiato e sconnesso, la Toscana il migliore ducato.
Infatti Ferdinando III, ricondottovi dalla reazione del 1814, vi si
mostrò così mite e generoso, accordando
ospitalità ai proscritti e resistendo all'Austria, che la sua
morte fu sinceramente pianta e il suo successore Leopoldo quasi
amato per lunghi anni. Però questi, ipocrita e malvagio per
natura, essendosi accordato segretamente con Vienna e con Modena
contro i liberali, non li ospitava più che per denunziarli
segretamente. Intanto la tradizione lorenese seguitava nelle
migliorie amministrative e nell'abbandono di ogni carattere
politico. Non rappresentanze popolari, nessuna milizia degna di tal
nome, distrutta la marina; le scuole floride per ingenito vigore, ma
l'istruzione non riconosciuta strada a cariche eminenti; nessun
concetto di governo tranne quello della polizia; nessuna coscienza
nè toscana nè italiana.
Peggiore di lui, Carlo Lodovico di Lucca, succeduto alla propria
madre Maria Luisa di Borbone, si rotolava nelle più oscene
demenze, nominando lo stalliere Tommaso Ward a ministro delle
finanze, e sperperando il pubblico denaro con sì cinica
rovina dello Stato che il granduca di Toscana, nella propria
qualità di erede del ducato per diritto di riversione,
dovette pubblicamente protestare di non riconoscerne i debiti. E a
questa mala condotta il giovane duca era spinto dall'Austria,
insignoritasi per mezzo del conte di Bombelles, destro ed ignobile
diplomatico, del governo nel piccolo ducato. A Parma la duchessa
Maria Luisa seguitava nelle eleganti dissipazioni, considerando il
proprio Stato come un feudo austriaco.
In Piemonte Carlo Felice vi aveva dai primi giorni meritato il nome
di Carlo Feroce. Reazionario sino alla crudeltà e fanatico
oltre ogni ignoranza, dopo essersi reso proconsole dell'Austria, le
umiliò quella corona, che la sua stirpe aveva sempre difeso
con ogni maniera d'inganni e di battaglie contro le pretensioni
imperiali. Forse nessun re d'Europa ebbe allora della propria
regalità un concetto più antiquato ed angusto di Carlo
Felice, e nessuno fu meno re di lui. Ristabiliti tutti i privilegi
antichi, riconsegnò le scuole ai gesuiti quando nella stessa
Francia borbonica questi venivano sfrattati dalle scuole laiche;
così il Piemonte ripiombò in un'atonia intellettuale
che gli sforzi di pochi pensatori solitari non valsero a scuotere.
Dell'esercito, antica gloria e costante forza del Piemonte, non ebbe
e non poteva avere concetto, dacchè il vero presidio
d'Italia, secondo il suo spirito reazionario, era l'Austria. Per la
nuova vita politica e civile non sentì che ripugnanze; e
repugnante a tal punto gli era Carlo Alberto di Carignano, malgrado
ogni suo pentimento ed umiliazione, che lo avrebbe escluso a favore
dell'Austria dalla successione, se la vittoria della nuova
rivoluzione francese (1830) e le minaccie del suo governo, pronto in
tal caso ad invadere il Piemonte, non lo avessero finalmente deciso
a serbare italiano il proprio trono. Così finiva la dinastia
dei Savoia, cresciuta illustre fra battaglie ed intrighi, senza che
mai il Piemonte fiorisse di quella civiltà che aveva reso
immortali Firenze e Venezia, Milano e Genova. L'ultima speranza
d'Italia sembrava vanire con questa dinastia abbastanza forte nel
tramonto dei principati per costituirsi regno, quasi a preparare con
esso il passaggio dalla federazione all'unità; mentre Napoli,
separata dal resto d'Italia per l'enorme muraglione dello stato
pontificio e troppo diversa d'indole, si era venuta a mano a mano
isolando. Il centro ideale d'Italia passato da Pavia a Milano, da
Milano a Firenze, da Firenze a Venezia, da Venezia a Torino, sul
lembo estremo d'Italia, come nel luogo più adatto allo
scambio delle influenze europee per mezzo della Francia, si
dissolveva con questa dinastia di re guerrieri non mai distrutti da
alcuna guerra, e che nessuna guerra sembrava poter più
rimettere alla testa d'Italia.
Carlo Alberto di Carignano, che doveva innestarsi sovra di essa, si
era già due volte infamato col tradimento e coll'espiazione.
A Napoli Francesco I, succeduto a Ferdinando, finiva colla
più incredibile corruttela di rovinare il regno martoriato da
tanti anni di guerra e di rivolte. L'ignominia del piccolo duca di
Lucca nominante uno stalliere ministro delle finanze sparve negli
scandali del governo napoletano trafficato da certo Michelangelo
Viglia e da Caterina di Simone, entrambi camerieri del re e della
regina. Francesco I, più falso e codardo del padre, ne
ereditò gl'istinti feroci e la scempia bigotteria. Francesco
Del Carretto, carbonaro convertito al sanfedismo, fu il più
feroce de' suoi proconsoli; il Medici seguitò ad essergli
ministro, ma con infernale ironia re Francesco I si compiacque a
lasciare arbitro supremo del governo il proprio cameriere. Le
rapine, le malversazioni, le atrocità poliziesche,
l'ipocrisia religiosa, la miseria del popolo, l'oblio d'ogni legge,
giunsero al colmo. Metternich stesso ne fu così indignato
che, seguitando nell'abile politica di frenare gli eccessi della
contro-rivoluzione per togliere al popolo ogni pretesto d'insorgere,
ammonì severamente il perverso monarca. Alcune congiure,
scoppiate piuttosto come esplosioni di dolore che quali tentativi
rivoluzionari, vennero represse con inaudita ferocia: il paese di
Bosco fu distrutto a cannonate da Del Carretto e fra le cruenti
rovine vi sorse una colonna a perpetuo ricordo e minaccia; altre
congiure furono simulate o fomentate dalla polizia, per atterrire
simultaneamente il re ed il popolo. Nel 1827 la povertà delle
finanze costrinse il re a rinunziare alla garanzia dell'occupazione
austriaca, per fidarsi ad una guardia di 6000 svizzeri così
dimentichi della loro antica libertà e così poco
persuasi della nuova da servire come sicari di ogni tirannide; ma
anche questa spesa bastava ad opprimere il troppo debole bilancio.
La milizia napoletana, alquanto ritemprata dalla educazione delle
guerre napoleoniche, ricadde nella antica ignavia; la marina,
conservata piuttosto per fasto che per difesa, si coperse di
vergogna dinanzi ai corsari di Tripoli; la polizia sola usò
le armi contro il popolo della città e della campagna,
insanguinandole per ogni più lieve pretesto. L'aristocrazia,
ligia alla corte, si gettò nella corruttela per arraffarvi
ricchezze; la borghesia abbandonata invilì sotto le minaccie
di processi non guarentiti da alcuna procedura, e di condanne alle
quali nessuna innocenza poteva essere ostacolo; il popolo rimase
plebe quasi selvaggia nelle campagne, oziosa e viziosa nelle
città.
La reazione proseguiva peggiorando giorno per giorno; fra governo e
paese si allargava un abisso sul quale nessuna costituzione avrebbe
più saputo gettare il proprio ponte, o gittandolo saldarlo
così fortemente sulle ripe che la storia vi passasse. Le due
maggiori monarchie italiane erano dunque decadute da ogni funzione
politica, dopo avere per oltre due secoli riassunto tutta la vita
politica nazionale: e questa, ricominciando non solo al di fuori ma
contro di esse, accennava chiaramente che principio e forma del suo
futuro governo avrebbero ad essere assolutamente diversi. Ma di
questo principio e di questa forma nessuno ancora fra gli spiriti
magnanimamente ribelli sapeva precisare qualcosa. Se i governi
reazionari non erano più che una negazione assurda e feroce,
la rivoluzione ancor rudimentaria non era che la negazione di questi
governi, e nemmeno così vasta ancora da comprenderne gli
Stati; il rispetto alla tradizione storica e la soggezione a tutte
le autorità non permettevano che di sperare in piccole
migliorìe amministrative o in cambiamenti di re per
l'appagamento dei più immediati interessi. Occorrevano quindi
molti altri anni di persecuzione e di studi per educare la nazione
alla fede della propria sovranità politica.
Questo periodo fu il più torbido della storia italiana,
perchè nè governi, nè Stati, nè popoli
vi ebbero coscienza: Roma stessa, che, cosmopolita di carattere,
avrebbe potuto ottenervi un forte significato, inducendo col proprio
principio ieratico una specie di unità nella reazione
monarchica, parve più meschina delle altre corti. Il
cardinale Consalvi, istrutto dalle traversie della rivoluzione e
dell'impero, avrebbe voluto nella ristorazione pontificia salvare
qualcuna delle conquiste moderne, ma la sua opera e la sua politica
ostile all'Austria furono tosto abbandonate. Un antico rancore
diplomatico separava l'illustre segretario di Pio VII dal nuovo
pontefice Leone XII, pallida ombra di Sisto V, che si accinse alla
reazione senza accorgersi di annullarvi i resti della politica del
proprio Stato. Il problema imposto dalla storia al papato
sfuggì al pontefice. Nella reazione europea, che rimetteva in
tanto credito la religione, il papato avrebbe dovuto costituirsi
arbitro supremo delle monarchie per dirigerne e dominarne l'opera.
Bisognava, sceverando i miglioramenti inevitabili ai tempi dai
principii rivoluzionari, contrapporre alla logica della rivoluzione
la dialettica di un'autorità capace di sorpassare l'opera
angusta e contraddittoria dei parlamenti con generose iniziative,
nelle quali, dietro l'esempio napoleonico, le monarchie si
fondessero con una democrazia arditamente progressista e al di sopra
delle quali Roma cattolica brillasse come un faro. Se il papato
fosse stato ancora storicamente vivo, forse quest'idea vi si sarebbe
espressa, ma, rovesciato dalla conquista del direttorio, cacciato
dall'altra dell'impero, quasi schiacciato dall'Austria al congresso
di Vienna, poi ricondotto a Roma come un simulacro fra i tanti
dell'arte che la Francia restituiva alla città eterna, non
ebbe e non potè avere vita politica. Il papa non vi fu
più che un sovranello come Ferdinando e Vittorio Emanuele,
sottomesso all'Austria, timoroso dei propri sudditi, incapace di
affrontare il gran problema del secolo, respinto fatalmente nei
regni del passato come tutti coloro cui è chiuso l'avvenire.
La reazione, invece che a Roma, ebbe il proprio centro a Vienna; ma
poichè questa minacciava di assorbire nel proprio patronato
tutti gli Stati italiani come la rivoluzione intendeva a minarli, la
condotta dei principi e del pontefice si smarrì in un dedalo
di contraddizioni inconciliabili. Roma rimase appena una grossa
città come Napoli e Torino; la sua antica autorità non
impose rispetto alla politica di Metternich, che intendeva a
sottometterla; il suo primato italico andò perduto, il suo
governo composto di preti e di vecchi fu vecchio di idee e di modi,
la sua reazione malvagia e puerile non sventò alcun pericolo
e non suscitò alcuna forza.
Leone XII, cominciando dal favoreggiare confraternite e
congregazioni religiose, ridusse tutti gli studi sotto la gerarchia
ecclesiastica: quindi, dietro il falso esempio dell'impero
napoleonico che tentava imporre il francese, rese obbligatorio il
latino alle cattedre e ai tribunali, cedette al clero ogni istituto
di carità e gli riconfermò ed ampliò
immunità, privilegi, giurisdizioni. Vennero tolti agli ebrei
i diritti di proprietà e richiamati contro di essi i nefandi
rigori medioevali, chiusi i loro ghetti con portoni e sottoposta la
loro libertà all'arbitrio dei santo uffizio; si concessero
nuove istituzioni di maggioraschi, e si sarebbero ripristinate le
giurisdizioni baronali se il concistoro non vi si fosse opposto. Si
distrussero i tribunali collegiati per avere giudizi di un solo
giudice e questi più ligio: annullata ogni autonomia
municipale, soppresso persino il magistrato della vaccinazione.
Ma questa reazione essenzialmente formale come non irrobustiva il
governo, così non scemava le forze latenti della rivoluzione.
Infatti tutte le campagne romane erano così infestate da
grosse squadre di banditi che le milizie papaline ne andarono
sconfitte come in regolari battaglie: poi vi si deputarono
cardinali, che dopo feroci esperimenti dovettero scendere a patti
coi briganti. Dall'altro canto la carboneria seguitava ad
estendersi, malgrado l'opposizione dei sanfedisti organizzati a
brigantaggio politico sotto la tutela del governo.
Un doppio lavorìo di società segrete minava quindi lo
Stato pontificio: i sanfedisti si congregavano presso i curati e i
devoti; i carbonari presso i nobili, i commercianti o i proprietari;
ma la loro lotta a colpi di fucile o di coltello, illuminata da
drammi di tribunale nei quali i vinti sparivano per sempre nelle
carceri o spenzolavano dalle forche, rivelava tutta l'insufficienza
politica del governo. Un'invincibile anarchia peggiorava ogni giorno
lo Stato pontificio, rendendolo scandaloso all'Europa nei racconti
degl'innumerevoli visitatori di Roma. Il giubileo (1825)
inspirò deliranti angoscie al Vaticano: si temeva che i
carbonari vi prendessero parte travestiti da pellegrini, e, occupata
Roma, l'insanguinassero. Ma siccome Leone XII, piuttosto per
riottosità di natura che per sentimento di regale
dignità, recalcitrava agli imperiosi ammonimenti di
Metternich, e la Francia lo consigliava d'impedire ogni commozione
liberale per evitare i pericoli di un intervento tedesco,
spiegò molta pompa di rigori contro il liberalismo. Il
cardinale Rivarola, mandato legato a latere nella Legazione di
Ravenna, memore della sua venuta nei primi giorni del 1814,
v'insanì in persecuzioni ridicole malgrado la ferocia.
Nell'agosto del 1825 vi condannò cinquecento e otto liberali,
parecchi dei quali alla pena capitale e al carcere perpetuo: ed
erano per la maggior parte nobili e borghesi, persone elette per
nascita o per funzione.
Moltissimi altri subirono il precetto politico consistente nel non
poter uscire di casa se non a certe ore, nell'obbligo di presentarsi
ogni quindici giorni ad un ispettore e di confessarsi tutti i mesi
ad un confessore approvato dalla polizia. Misure violente ed
inefficaci, che confondendo governo e religione abituavano al
dispregio dell'uno e dell'altra! Naturalmente i processi non avevano
garanzia di sorta: i codici napoleonici soppressi dalla ristorazione
del 1814 non erano ancora stati surrogati, i giudici venivano
riconosciuti strumenti di polizia; naturalmente le popolazioni si
disgustavano più che non s'intimorissero. Mentre il Rivarola
finiva infatti d'impazzire volendo conciliare i secolari odii tra
Faenza e il Borgo d'Urbecco con matrimoni imposti fra le più
fiere famiglie d'ambo le parti, e la propaganda sanfedistica del
giubileo menava una campagna di spionaggi e di minaccie contro le
sètte liberali, queste attentarono per mano d'intrepidi
sicari alla vita del timido e feroce cardinale, costringendolo a
riparare in Genova. Gli successe monsignor Invernizzi con una
commissione straordinaria di legulei e di soldati, che più
destro riuscì a corrompere le sètte con una generale
promessa di perdono a chiunque facesse spontanea confessione delle
proprie colpe. Ma se l'espediente raggiunse in parte lo scopo, molti
essendo stati i settari che vi si avvilirono, in parte fallì
costringendo le sètte a migliore organizzazione: a Roma
stessa si tentò una congiura, nella quale un Targhini e il
medico Montanari lasciarono la vita.
La reazione pontifìcia diretta dal cardinale Bernetti,
successore al Della Somaglia, non senza ingegno e temperandola con
qualche miglioramento amministrativo, ispirava così poca
fiducia a lui stesso, diplomatico rotto ai più difficili
negozi e largamente istrutto degli altri governi, che lasciò
sfuggirsi col Chateaubriand il celebre motto: Se campassi a lungo
assisterei alla rovina del papato! Ma invece di cercarvi riparo,
persuase al pontefice lo sciagurato motu proprio col quale,
rianimando le classe dei nobili, si sopprimevano affatto i consigli
provinciali.
Pio VIII dopo Leone XII trovò lo Stato senza codici e senza
finanze in piena reazione contro l'opera iniziata
contraddittoriamente da Pio VII per consiglio del Consalvi; quindi,
reagendo sulla reazione del predecessore, cassò quanto questi
aveva fatto di meno cattivo per abbandonarsi ciecamente nelle mani
dell'Austria. Era l'ultima dedizione di Roma: il papa ne ebbe appena
il tempo, e morì; quasi contemporaneamente cessavano di
vivere Francesco I di Napoli e Carlo Felice di Piemonte.
Nuovi attori si presentavano per l'imminente rivoluzione.
La sommossa del centro.
La rivoluzione francese delle Tre Giornate di luglio rianimò
in Europa le speranze liberali. Belgio, Polonia, Italia risposero
con altrettanti moti, affidandosi a magnanime illusioni ben presto
tradite: nella Francia stessa la rivoluzione deviò presto
dalla propria mèta republicana per arrestarsi
nell'insuperabile pantano di una nuova monarchia. Qualunque fossero
le intenzioni dei capi rivoluzionari e per quanto facile si
mostrasse l'Europa a riconoscerle, una republica francese non poteva
allora trionfare per difetto di republicani, giacchè il
popolo aveva piuttosto partecipato all'insurrezione parigina per
insofferenza della scempia tirannide borbonica che per una ideale
passione di libertà. Quindi la borghesia, prima iniziatrice
della rivolta e rimasta prontamente sola nella vittoria, si scisse
in due partiti: l'uno, composto di una immensa maggioranza inspirata
da interessi pecuniari, anelante al potere, diffidente del popolo
per egoismo di fortuna e per superiorità di coltura, imbevuta
di parlamentarismo inglese e di economia classica, badò a
consolidare il trionfo con una nuova dinastia sottomessa alle idee e
ai voleri delle Camere; l'altro, scarsissimo di numero, torbido nei
concetti, generoso nei sentimenti, innamorato del popolo e che pel
popolo solo aveva combattuto, si frazionò in mille opinioni
invece di proseguire nell'audacia rivoluzionaria, e, non trovando
eco nelle masse incapaci di comprendere il suo moto settario,
abdicò per rituffarsi nelle congiure e preparare una lontana
republica.
Luigi Filippo d'Orléans, natura sordida ma ingegno destro,
impersonò l'ideale borghese della involuzione, che lo
nominava re, facendogli gettare sulle spalle un mantello republicano
dal vecchio Lafayette, il più ingenuo fra i republicani
aristocratici. Quindi la sua politica fu doppia. Sulle prime,
incerto di ottenere dalle grandi corti d'Europa sempre collegate
nella Santa Alleanza, il riconoscimento della propria nomina regale,
liberaleggiò, prodigando promesse a tutti gli insorti e
proclamando il non intervento ai monarchi contro le rivoluzioni.
L'Europa sorpresa e mal preparata ad una rivoluzione continentale
nicchiò: la Francia, benchè spossata ancora dagli
ultimi sforzi dell'impero, atterriva le fantasie nordiche; le
fiaccole rivoluzionarie agitate da Madrid a Bruxelles, da Bologna a
Varsavia, turbavano le viste senili dei diplomatici: si temevano
esplosioni; tutta l'Europa era minata, la Francia poteva rinnovare i
miracoli del '93. Ma Luigi Filippo, che conosceva meglio di tutti la
propria situazione, appena carpito all'Europa il riconoscimento,
mutando linguaggio e modi aspreggiò la rivoluzione.
Quindi tutti i moti, che determinati dai primi impulsi francesi ne
aspettavano altri per proseguire, si arrestarono: vi furono
delusioni e sconfitte tragiche, abbiezioni e tradimenti senza nome.
La Francia, riapparsa così bella e grande nelle Tre Giornate,
cambiò ancora fisionomia, acconciandosi sulla magnifica testa
rivoluzionaria la maschera scialba e falsa di Casimiro
Périer. La prima controprova monarchica della grande
rivoluzione era stata fatta dai Borboni del primo ramo; la seconda
cominciava con quello degli Orléans e non doveva avere con
più lunga vita miglior fortuna: l'ultima doveva essere quella
del secondo impero. Solo dopo aver logorato in successivi
esperimenti tutte le forme della monarchia, la Francia arriverebbe
prima in Europa alla conquista della republica pel proprio principio
democratico.
L'Italia si scosse. Ma se alla rivoluzione spagnuola del '20 erano
insorte Napoli e Torino, i due maggiori regni nei quali più
fermentavano i residui militari del napoleonismo e la carboneria,
alla nuova rivoluzione francese non risposero che i ducati e le
Romagne. Troppa era la forza militare dei due regni e l'energia
della loro reazione, perchè si potesse contro di loro
rinnovare il fallito tentativo. D'altronde se in questo decennio le
idee politiche avevano progredito teoricamente, non si osava ancora
iniziando una rivolta proclamare la decadenza dei sovrani e un vero
mutamento degli Stati. Il regno pontificio, più scarso a
soldati e più fiacco di ordini, si prestava meglio ad una
sommossa, che doveva esprimere piuttosto una generosa impazienza di
sentimento che un vero concetto politico. Ma anche questa volta la
carboneria ripetè l'errore del '21, fidandosi ad un principe.
Francesco IV di Modena, crudele tempra di tiranno, non poverissimo
d'ingegno e ricco d'ambizione, parve egli stesso cercare l'appoggio
della carboneria per costituirsi nella media Italia un grosso Stato.
Era il vecchio sogno dei Medici, dei Farnesi, degli Estensi colle
stesse invincibili difficoltà. La storia non ha ancora potuto
accertare quanta realtà di propositi e di mezzi fosse in
questo ultimo sogno: i settari traditi lo ingrandirono forse nelle
invettive contro il tiranno, questi spaventato lo negò.
Nullameno fu chiaro che Francesco IV si era di qualche guisa
accontato con Ciro Menotti, eroica ed ingenua natura di patriota,
consacrato dal martirio all'onore della storia; e che, sbigottito
dalle rivelazioni fatte contro di lui dallo stesso Luigi Filippo,
già mescolato nelle sètte, al conte Appony
ambasciatore austriaco a Parigi, si gettò colla ferocia della
paura nella reazione. Parve, ed era una fazione medioevale. Ciro
Menotti invano combattente rimase prigioniero; ma all'eco della
ribalda ducale aggressione Bologna, agitata dalle novelle francesi,
esplode: l'indomani (5 febbraio 1831) Modena riavutasi dallo stupore
caccia il duca, che ripara a Mantova traendosi dietro Ciro Menotti,
freno allora contro le vendette popolari, sfogo più tardi
alla vendetta del tiranno. Imola, Faenza, Forlì, Cesena,
Ravenna s'emancipano, Ferrara imita l'esempio; Parma, Pesaro,
Fossombrone, Fano, Urbino licenziano i propri governatori; poi
Macerata, Camerino, Ascoli, Perugia, Terni, Narni e finalmente
Ancona seguono la rivolta. Il 25 febbraio un popolo di due milioni e
mezzo di italiani liberi dovrebbe essere in armi e non vi è:
Napoli, Torino, Milano, Venezia non si muovono. Una congiura,
tentata a Roma nell'interregno del conclave dai principi Bonaparte,
figli dell'ex-re d'Olanda, era fallita inonoratamente; un'altra
capitanata a Firenze dal Libri, mirabile ingegno di scienziato cui
la sordidezza del carattere doveva apprestare così miserabile
fine, concluse ad una ridicola dimostrazione di teatro.
Quindi il moto si concentrò a Bologna, nella quale era
costituito un governo provvisorio, ma giammai più nobile
causa ebbe più inetti rappresentanti. Lo componevano
aristocratici, professori d'università, grossi proprietari:
Giovanni Vicini, volgare avvocato e peggiore politico, lo
presiedeva. Il governo pontificio aveva ceduto con mollezza: i
rivoluzionari furono anche più fiacchi. Del problema
politico, quale loro s'imponeva, non solo non intesero nulla, ma per
angustia di carattere ed insufficienza d'ingegno parvero intenti a
contraddirlo. Anzitutto affermarono di essersi costituiti in governo
per evitare l'anarchia dietro la dichiarazione di monsignor Clarelli
prolegato abdicante all'amministrazione della provincia; poi il
presidente Vicini diramò una sua scrittura di leguleio, nella
quale, desumendo la libertà di Bologna dalla convenzione
stretta nel 1447 fra la città e Niccolò V, finiva col
paragonare le Tre Giornate francesi di luglio alle sei della
creazione. Era una risurrezione del ghibellinismo federale, senza
modernità nemmeno nelle frasi. A Parma e a Modena i governi
costituiti si scusavano della propria esistenza, accusandone i
sovrani fuggiti senza nominare altro governo. Non si pensava
nè a leggi nè ad armi. La formula del non intervento,
lanciata dalla Francia, pareva presidio sufficiente; non si capiva
il doppio giuoco di Luigi Filippo, non si voleva aumentare la
rivoluzione per non accrescerne i pericoli. Le vanità
municipali si sbizzarrivano nelle teatralità di staterelli
improvvisati: si mandavano deputazioni agli Stati vicini chiedendo e
promettendo amicizia; ogni provincia si reggeva da sè; pareva
una commedia e lo sarebbe stata, se gli austriaci intervenendo
bruscamente non l'avessero mutata in dramma. Ma il governo non
pensava più agli austriaci, che la formula francese del non
intervento avrebbe dovuto rattenere.
L'Italia non esisteva ancora; Roma stessa, capitale del regno
pontificio e quindi rivale di Bologna, era dimenticata, quantunque
pel nuovo governo l'assenso e l'opposizione di Roma fosse della
massima importanza. Ma l'Austria, così poco spaventata dal
non intervento francese che lo avrebbe affrontato magari a costo di
una guerra generale, uscì da Piacenza rimasta fedele alla
duchessa per tradizionale ostilità a Parma insorta, e con
poco più di un migliaio di soldati sbaragliò le scarse
truppe rivoluzionarie a Firenzuola: questo bastò
perchè tutto il ducato tornasse alla duchessa. Quindi
toccò a Modena, che il generale Zucchi, buon veterano
napoleonico disertato dagli austriaci per mettersi alla testa della
rivoluzione, tentò invano difendere contro gli Estensi e gli
austriaci vincitori a Carpi e a Novi. Il governo di Bologna, sempre
fidente nelle promesse estere, aveva rinunciato non solo all'offesa
ma alla difesa, quasi sperando dalla propria nullaggine meritare il
permesso di vivere. Non si erano volute riattare le fortificazioni
di Ancona; si era respinta l'idea di Sercognani, temerario
colonnello faentino educato nelle guerre imperiali, che intendeva ad
un'impresa decisiva su Roma; si era oppugnato il disegno di Zucchi
per la formazione di sei reggimenti di fanteria e due di cavalleria.
Quindi all'invasione di Modena il governo provvisorio di Bologna,
rispose stupidamente che le cose dei modenesi non erano sue e che il
non intervento era legge anche per lui: per quella di Ferrara
replicò nel Precursore, organo governativo, che il non
intervento non era stato violato perchè i trattati di Vienna
vi concedevano all'Austria diritto di guarnigione; e quando
finalmente Zucchi sconfitto si ripiegò su Bologna, il
governo, che aveva ordinato di disarmare e d'internare quanti
stranieri si presentassero armati alle frontiere, disarmò i
700 modenesi accorsi in suo aiuto. Poi il 20 marzo gli austriaci,
dimenticando le derisorie promesse prodigate a quel ridicolo
governo, si presentarono alle porte; e questo sempre eguale a se
medesimo, intimato al paese di star quieto e alla guardia nazionale
di mantenere l'ordine quale unico supremo intento, si ritirò
ad Ancona col cardinale Benvenuti catturato, nelle mani del quale
abdicò prontamente per chiedere amnistia. Nessuno dei membri
del governo provvisorio si ricusò a firmare l'ignobile atto,
nemmeno Terenzio Mamiani, anima ed ingegno tutt'altro che volgare.
Il generale Zucchi, divisa la propria truppa in due corpi,
ordinò la ritirata per la via Emilia e per la bassa Romagna.
A Rimini, punto di congiunzione, avvenne uno scontro che
salvò l'onore della bandiera, il solo che rimanesse: e
poichè il generale Armandi, ministro della guerra, non aveva
voluto riunire le forze dello Zucchi con quelle di Sercognani per
assalire Roma, questi, spintosi fino a Rieti ed intesa la dedizione
finale, dovette dar volta per la Toscana e rifuggirsi in Francia.
La rivoluzione, morta come era vissuta, non meritava rispetto e non
l'ottenne. Gli austriaci violarono tosto la capitolazione, occupando
Ancona un giorno prima e catturando la nave sulla quale erano saliti
lo Zucchi e gli altri patrioti dirigendosi a Corfù. Comandava
la corvetta austriaca in questa triste cattura il barone Bandiera,
padre di Attilio e di Emilio, che dovevano dopo pochi anni immolarsi
nella più arrisicata delle imprese patriottiche. Gregorio
XVI, asceso al pontificato, richiamò il cardinale Benvenuti,
e negò l'amnistia.
Quindi incrudelirono repressioni e vendette. Il duca di Modena
chiamò al governo della polizia il Canosa, che
rinfrescò la propria infame celebrità con nuovi
orrori: Menotti, Borelli e troppi altri perirono; si promulgarono
editti feroci sino all'assurdo, le condanne non si contarono
più che a centinaia, mentre il popolo taceva allibito e il
vescovo della città bandiva una lettera pastorale per
additare nel duca un sovrano secondo il cuore di Dio. Maria Luigia
di Parma con più mite animo si contentò invece di
sospendere i magistrati partecipi della rivoluzione, e indi a poco
perdonò a tutti. Gregorio XVI, dietro consiglio del cardinale
Bernetti, incaricò due commissioni, l'una civile e l'altra
militare, con pieni poteri di inquisire, e lasciando allo stesso
cardinale di raccomandare loro la più sommaria delle
procedure contro rei e sospetti: nè i giudici intesero a
sordo. Un esodo di illustri propalò le sventure e le
abbominazioni d'Italia; altri illustri nelle carceri meditarono e
scrissero libri che valsero battaglie; molti illustri seguitarono
nell'ombra il lento e solido lavoro per ridare all'Italia un
pensiero nazionale.
Ma soffocata la ribellione, rimanevano a stabilire le provvidenze
controrivoluzionarie. Quindi le diplomazie si accordarono, seguendo
l'astuta politica dell'Austria in Italia, a chiedere con un
Memorandum, rimasto celebre, alla corte di Roma alcune guarentigie
municipali e giudiziarie a favore delle provincie pontificie fedeli
o ribelli. Si voleva secondo l'idea più o meno espressa nei
precedenti congressi ridurre lo Stato pontificio alle norme degli
altri, senza accorgersi che con quest'atto implicante una certa
secolarizzazione del governo papale si veniva a dar ragione ai
rivoluzionari. Roma retriva e gelosa della propria tirannia interna
recalcitrò, fingendo aderire: furono promesse l'elezione
libera dei consigli comunali, l'istituzione di consigli provinciali,
nuovi codici, la riforma dei tribunali, delle amministrazioni, delle
finanze, l'ammissione dei secolari ai sommi uffici: sarebbe stata,
come si disse, una èra novella. Se non che partiti gli
austriaci Roma ritrattò ogni promessa; i liberali si
sollevarono, i sanfedisti si armarono a combatterli. Furono inviati
deputati a Roma per scongiurare la corte a mantenere la propria
parola, ma questa non trattò che per guadagnar tempo: intanto
le bande sanfediste ingrossavano. Il cardinale Albani, nominato
legato a latere per le Romagne, attaccò gl'insorti a Cesena,
e li disciolse; quindi infellonito invase Forlì, stuprando e
uccidendo; gli austriaci ripassarono la frontiera accolti come
liberatori dalle popolazioni tremanti per gli eccessi delle orde
papaline. Al violato non intervento la Francia rispose occupando
Ancona: il papa protestò, la Francia diede lo scambio ai due
comandanti Combes e Galloy, troppo giacobini, col generale
Cubières che si offerse sicario alla curia ma non
evacuò la città. Nuovi processi si aggravarono sui
vinti; gli ebrei d'Ancona dovettero pagare 600,000 franchi per
l'accusa di aver veduto con piacere la rivoluzione del 1831; i
sanfedisti vennero arruolati in corpi quasi regolari risuscitando
una istituzione soldatesca, che Sisto V aveva cassato per ragioni di
publica sicurezza. Questi strani volontari seguitavano ad abitare
nelle proprie case, esenti da certe tasse e col permesso di tutto
commettere. Tutto era loro consentito dalla polizia e dai tribunali;
quindi rozzi e fanatici, perversi e pervertiti ne abusarono.
La diplomazia, fingendo riconoscerli sufficienti a garantire
l'ordine nello Stato pontificio e dimenticando il proprio
Memorandum, lasciò al papa ogni libertà di sgoverno:
forse ella stessa aveva compreso l'impossibilità di spingere
l'immobile amministrazione papale sulla via di una qualunque
riforma, o forse la reazione universale la persuase in favore
dell'assolutismo pontificio. Solo il ministro inglese lord Seymour
si rifiutò di segnare la dichiarazione (gennaio 1832), colla
quale si affermava che, avendo il pontefice pienamente adempito le
proprie promesse di riformare lo Stato, occorrevano ora alla quiete
d'Europa le misure repressive da lui prese contro gl'incontentabili
ribelli.
Il risultato dell'intervenzione franco-austriaca negli Stati romani
fu di costringere carboneria e sanfedismo ad uscire dal segreto
delle sètte per combattersi all'aperto, precisando meglio
l'antagonismo fra rivoluzione e governo: la rivoluzione degli Stati
romani per contraccolpo modificò la condizione di tutti i
partiti italiani. Quello assolutista si scisse: i sanfedisti degli
Stati pontifici inclinavano all'Austria, mentre quasi tutte le altre
società cattoliche d'Italia se ne staccavano impaurite,
volgendosi ai principi indigeni. Il protettorato austriaco
spaventò: si credette di poter resistere alla rivoluzione
colla forza paesana della religione e della legittimità: era
un primo passo all'emancipazione dello straniero, uno di quei
mirabili accordi fra le forze antagoniste di una società, nei
quali sembra spesso compiacersi la storia. Quindi il clero si
alleò ovunque alle polizie paesane.
Il partito confusamente nazionale, da bonapartista e militare come
al tempo della prima ristorazione, perdendo pressochè ogni
spirito bellicoso, si mutò in riformista. Con questo spirito
aveva governato l'ultima rivoluzione priva di forze soldatesche e
quindi anche più inetta di quelle del '21. Laonde, non
potendo sperare ulteriormente in sollevazioni o in costituzioni
largite da principi, dei quali aveva fatto tanto misera esperienza,
si volse a patrocinare le forze più vive della
società, le lettere e le industrie, i congressi scientifici,
le strade e le ferrovie. Così formò un'opinione
publica intelligente ed operosa, che disarmò in parte il
feroce terrore dei principi per ogni riforma, e, divulgando con
efficacia idee e sentimenti politici, potè persino penetrare
nelle corti. Il liberalismo, distinguendosi dalla rivoluzione,
divenne come un campo, nel quale i due eccessi politici della
nazione potevano incontrarsi per tentare qualche effimera
conciliazione. Ma clero e nobiltà tiravano l'assolutismo
italiano a nuove violenze, distruggendo i lenti e faticosi approcci
del liberalismo riformista, costretto a consumarsi nello sforzo di
riprodurli ogni giorno.
Il partito democratico invece fu rialzato vivamente dalla
rivoluzione di luglio, nella quale apprese la necessità delle
armi e di fare da sè. Il nuovo successo non fece che
schiarirgli nella coscienza l'idea di una rivoluzione veramente
italiana e simultanea contro preti, nobili, principi e stranieri.
Gli ostacoli erano troppi e troppo forti. Nullameno il distinguerli
e misurarli era già un immenso vantaggio; si usciva
finalmente dalle ridicole teatralità della carboneria
segreta, si smettevano gli inutili vanti degli avanzi napoleonici,
si cercava sopratutto una nuova propaganda che affratellasse nella
passione e nella fede. Contro tanti e sì potenti nemici non
era difficile comprendere che solo il popolo, immenso di numero e di
forze per quanto ignaro ed incerto, poteva combattere.
Il grido di Ciro Menotti morente: non vi fidate a stranieri! doveva
fra poco essere raccolto dal genio eroico del risorgimento italiano.
Intanto le repressioni seguitavano infuriando. Il governo pontificio
difeso da francesi, austriaci, truppe indigene, due reggimenti di
svizzeri, volontari, centurioni, non avrebbe dovuto consigliarsi
colla paura; nullameno punendo insanì. Chiuse le
università per consentire poi l'insegnamento delle scienze a
maestri privati, negò i gradi accademici a tutti i giovani
anche minorenni mescolati alla rivoluzione, molti respinse dal
fòro, a tutti attraversò ogni carriera onorata.
Così aumentava il numero dei settari. Disciolti i consigli
comunali e condannati quanti tale dissoluzione non approvassero,
vennero mutate le già arbitrarie rappresentanze municipali in
congreghe servili e faziose; perseguitati i liberali, negati i
passaporti, sorvegliate le famiglie, violati i domicili. Finanze,
industrie, commercio, polizia, tutto peggiorò.
La mite Toscana soppresse il giornale l'Antologia; fu bandito il
Colletta moribondo; incarcerati il Salvagnoli, il Bini, il
Guerrazzi; e si sarebbero perfino invocati gli austriaci, se il
vecchio Fossombroni opponendovisi non fosse stato ancora tanto
stimato da poterlo impedire. Nullameno altre condanne di esilio
colpirono il La Cecilia, il Poerio, il Giordani: l'antica
ospitalità, che aveva fatto della Toscana il paese più
gentile ed amato d'Italia, cessò. Sull'animo poco schietto e
meno coraggioso del granduca Leopoldo II pesavano le minaccie di
Vienna e i suggerimenti del Piemonte, spingendolo a crudeli
repressioni coll'accusa di usare clemenza per sedurre i liberali e
diventare con l'opera loro re costituzionale di una Italia libera.
Eroica ingiuria, che nessun sovrano d'Italia poteva allora meritare!
Così re Carlo Felice, al quale nei primi rumori della
rivoluzione di Bologna era stata presentata una supplica, secondo il
remissivo procedere dei liberali piemontesi, per ottenere più
liberi ordinamenti, rispose collo stringersi all'Austria contro ogni
istanza di lord Palmerston e col cacciare in carcere i supplicanti:
fra questi primeggiavano il Bersani, il Balestra, il Brofferio.
Carlo Alberto succedutogli (21 aprile 1831) li prosciolse, ma
lasciando nelle prigioni i traditi cospiratori del '21. Triste
inizio di regno che doveva finire più tristamente! Il nuovo
re per unica riforma diede un consiglio di stato di nomina regia e
con voto consultivo su materie dal governo proposte: come prima idea
politica si accodò all'Austria per sottrarsi ad ogni liberale
influenza francese. Ma all'indomani della sua assunzione al vecchio
trono di Savoia, ridotto negli ultimi anni ad insozzato predellino
del trono imperiale degli Asburgo, gli scoppiava sul capo, violenta
come una bufera ed abbagliante come un sole, la prima lettera di
Giuseppe Mazzini, giovanissimo e già esule dall'Italia, per
ricordargli il tradimento del '21 e promettergli il perdono da una
vittoria italiana. Le più calde pagine di Machiavelli
diventavano gelide al confronto di questa lettera, che bruciò
quante coscienze la conobbero, e, passando anonima di mano in mano,
parve scritta dall'Italia stessa al nuovo re di Piemonte. Chi poteva
mai, scrivendo così, sottrarsi alla gloria del proprio genio?
A Napoli Ferdinando II, succeduto a Francesco I, sordidamente avaro
e non meno simulatore del padre, finse onesti sentimenti con
un'anmistia politica, che, alleviando le condizioni dei condannati,
non mutò affatto i criteri del governo. Questi, cresciuto dai
gesuiti alle più assurde idee del dispotismo, non ebbe e non
potè avere alcun concetto politico. La sua affettata passione
pei soldati non era che sfogo di giovanile iattanza e astuta misura
per assicurarsi del loro favore dopo quello della plebe; infatti
l'animo suo stupidamente malvagio si rivelò nella nomina di
Del Carretto, il feroce incendiario di Vallo, il distruttore di
Bosco, a successore dell'Intonti nel supremo magistrato della
polizia, quando quest'ultimo per carpire al re una qualunque
costituzione simulò coi propri agenti e d'accordo coi
liberali congiure di rivolta. La nomina di Del Carretto fu la
risposta del re, pronta ed inesorabile. Poco dopo a Messina, nel
luglio del 1831, Ferdinando II, passando una rivista militare,
ordinava una carica alla baionetta per cacciare nel mare metà
della popolazione intenta allo spettacolo. E rise di questa
sanguinaria ed imbecille imitazione di Caligola, che faceva
precipitare dal ponte fra Baia e Pozzuoli la stipata moltitudine
plaudente alla sua biga imperiale.
Questa rivoluzione del '31, se pure può chiamarsi
così, chiuse il periodo dei moti regionali, liquidando tutti
gli avanzi della rivoluzione e dell'impero francese. La sua
inanità concettuale e l'inettitudine del suo processo,
inevitabili allora, persuasero che nessuna indipendenza parziale
sarebbe mai stata possibile in Italia, finchè l'Austria vi
avesse dominato tutte le corti e Roma rattenuti nella servitù
spirituale tutti gli spiriti. Naturalmente il progresso delle idee
doveva condurre nella necessità di una ricostituzione italica
a formule rivoluzionarie più vaste e positive: quindi la
minoranza degli intelletti più audaci e dei cuori più
generosi, gittando ogni prudenza e sorvolando ogni
difficoltà, pensarono ad un'Italia una, libera, indipendente,
republicana in una rivoluzione concepita come fine e mezzo a se
medesima; confusero nello stesso sdegno eroico le tiranniche
intimazioni dell'Austria e le fallaci promesse della Francia,
l'esoso dispotismo dei principi e la subdola autorità di
Roma. La maggioranza della gente, desiderosa di un meglio senza il
coraggio di arrischiare il presente qualunque si fosse, e rispettosa
dei diritti dei principi e dei papi, mirò ad una
rigenerazione lenta con un accordo di tutti i poteri sociali, coi
sovrani confederati contro lo straniero e largheggianti di riforme
coi sudditi, con Roma banditrice di libertà in nome del
vangelo e alla testa della confederazione. Ma erano ancora idee
torbide e sentimenti indecisi. L'imminente partito dell'unità
doveva essere lirico ed appassionato, ingenuo fino al ridicolo, ma
parato sempre a riscattarlo col martirio, intrattabile nei
compromessi ed assurdo nell'ostinazione: quello della confederazione
invece calmo, dotto, rimpinzito di storia per sostenere la propria
tesi irrompente da tutto il passato italiano, ma fiacco nell'azione,
nascondendo nelle pieghe della prudenza molte viltà, spesso
falso nelle intenzioni e nelle opere.
Nullameno per legge storica esso doveva riempire il nuovo periodo,
perchè con un fallito esperimento di confederazione la
coscienza nazionale si staccasse dalla formula antica della propria
vita, avviandosi per quella dell'unità al conquisto del gran
principio moderno proclamato dalla rivoluzione francese del dogma
della sovranità popolare.
Capitolo Terzo.
Il pensiero politico nel moto letterario
I primi gruppi.
Questi rivolgimenti politici si ripercuotevano nel pensiero
nazionale.
Al tempo dell'impero napoleonico l'opposizione non era rappresentata
che da impiegati malcontenti e da giovani esaltati nelle classiche
memorie dell'antichità: pei primi tutte le questioni
diventavano amministrative, pei secondi svaporavano in prediche
poetiche di ribellione indecisa contro le cose e le persone;
giù nella massa il sentimento nazionale, volendo chiamarlo
così, era intorbidato tanto dai benefizi delle nuove idee
liberali quanto dalle inevitabili vessazioni della dittatura
militare; peggio ancora pregiudizi regionali, religiosi e sociali
falsavano ogni giudizio. Ma colla ristorazione austriaca la scena
cangiò: alle angherie dei francesi, sempre larvate da
promesse di un regno italico o consolate da speranze di facili
miglioramenti, successe un'oppressione senza diritti e senza
avvenire: l'Austria schiacciò popoli e principi, cancellando
ogni idea liberale della rivoluzione francese. Naturalmente questo
bastò perchè coloro medesimi, i quali da principio non
simpatizzavano troppo con essa, ne capissero tosto il valore e la
verità. Il pensiero si destò ai gridi di dolore della
coscienza italiana. Quindi nella nuova ricomposizione dei partiti
l'opposizione si spostò, formandosi a gruppi con elementi
bonapartisti e liberali d'ogni gradazione, per passare indi a poco
in ogni forma di letteratura. Al di fuori delle corti e delle
polizie, nelle quali interessi privilegiati e coalizzati toglievano
di sentire la contraddizione della politica governativa colla vita
italiana per risognare un passato, che gli eccessi medesimi della
reazione constatavano impossibile, ogni coscienza culta e
disinteressata doveva fatalmente accorgersi che l'Italia aveva
bisogno di maggiore libertà e di leggi migliori.
L'opposizione fu dunque in tutti, ma non si esplicò che nella
azione dei più forti.
La scuola di Monti agonizzava entro la scenica decorazione, nella
quale aveva ospitato con servile indifferenza avvenimenti e padroni
d'ogni sorta: quella di Foscolo, nobile d'intenzioni ed austera nel
carattere, cresceva nella passione dei giovani, che affacciandosi
alla vita sentivano ventarsi sulla fronte l'aria di un secolo nuovo.
La grande rivoluzione letteraria del romanticismo giunse anche in
Italia a sommuovere gli ultimi strati classici, che Foscolo stesso
aveva rispettati. Ma il romanticismo innovatore ed insieme
reazionario, ritogliendo l'arte alla tradizione delle scuole per
rituffarla nella vita del popolo e rivelarle con altra
interpretazione tutto il passato, implicava un ritorno alla
religione; e questa contraddizione agli istinti del secolo produceva
una bizzarra ed intensa passione per tutte le antichità
medioevali. Quindi un'altra divisione di scuole venne a scindere
l'opposizione, che il dispotismo straniero avrebbe sempre più
condensato. La tormenta della grande rivoluzione francese placandosi
lasciava negli spiriti un immenso bisogno di pace e di fede; si
cominciava a comprendere la falsità del metodo rivoluzionario
altrettanto assoluto nella distruzione che assurdo nell'ateismo;
s'inorridiva degli eccessi francesi, si diffidava del popolo, nel
quale il carattere era ancora di plebe. Laonde la scuola francamente
rivoluzionaria non ebbe più rappresentanti; invece quella
romantica, malgrado le proprie inconciliabili antinomie, apportava
una formula che la costrinse a rapido e magnifico sviluppo. Il
romanticismo era anzitutto libertà letteraria.
In Italia il primo gruppo di combattenti si strinse a Milano,
rimasta come capitale momentanea del regno italico il maggiore
centro letterario, e fondò un giornale col titolo falso di
Conciliatore. Lo scrivevano Confalonieri, Pellico, Romagnosi,
Rasori, Ermes Visconti, Berchet, Borsieri e Pecchio. La loro prima
battaglia fu contro la letteratura vacua e pretenziosa degli ultimi
classicisti, che, perduta la pompa affascinante di Monti e la scarna
austerità di Alfieri, rimbambivano nella pedanteria dei
precetti scolastici o nelle puerilità armoniose della lingua.
A costoro, che seguitavano ricantando i classici, opposero Camoens,
Shakespeare, Byron, Schiller, Goethe; poi dalle questioni letterarie
si discese alle pratiche, appassionando gli animi pel mutuo
insegnamento, pei battelli a vapore, per l'illuminazione a gaz; si
evocarono le memorie del regno italico: si toccò la linea che
separa la politica dalla letteratura. Ma la disputa rinfocolandosi
trasse i giovani combattenti fuori del campo, cosicchè si
videro il giornale soppresso (1819) da un ordine della polizia,
mentre badavano a combinare l'alleanza della politica colla
letteratura accogliendo in un bizzarro eclettismo le idee più
disparate, dalla costituzione spagnuola all'estetica tedesca e
all'economia inglese.
Il gruppo si sbandò, molti perirono tragicamente. I processi
del '21 dispersero nelle carceri o negli esigli gl'ingenui novatori:
Rasori si rituffò nella medicina, illustrandosi ed
illustrandola; Romagnosi, sfuggito alla condanna, si chiuse
nell'operosità di studi filosofici; Borsieri suo discepolo,
Confalonieri, Silvio Pellico sparirono negli antri dello Spielberg.
Ma la breve propaganda aveva così poco toccato il popolo che
i condannati furono coperti d'ingiurie attraversando Verona: quindi
parvero dimenticati. Silvio Pellico, allora leggermente volterriano,
fors'anco materialista, di tratto in tratto economista come scolaro
di Gioia, amico di Foscolo, poeta più melodrammatico che
tragico, anima più sensibile che appassionata, si
fiaccò nel carcere. Quello sgomento, che già aveva
sorpreso Manzoni meditando sulle tempestose tragedie della
rivoluzione francese, lo colse negli squallidi silenzi della
segreta, in quella eterna luce di tramonto che gli scendeva
dall'alto delle inferriate come un gemito. Il romanticismo che
covava nel suo spirito si sviluppò. Pellico si
convertì alla religione dei propri carnefici e scrisse Le mie
prigioni, spaventevole poema, con alcuni carcerieri, pochi
personaggi muti, due o tre compagni d'infortunio, una prigione buia,
un imperatore invisibile al disopra di tutti e Dio al disopra
dell'imperatore. Il cospiratore era vinto, il nuovo cristiano
predicava coll'antico fervore del congiurato la rassegnazione alla
schiavitù, additando lo stesso cielo in nome del quale
tiranni e preti opprimevano. L'immenso successo delle Mie prigioni,
quando furono stampate nel 1831, rivelò lo stato della
coscienza nazionale ancora troppo soggetta alla codarda morale del
clero e troppo poco educata all'orgoglio delle battaglie.
Ma soppresso il Conciliatore, usciva a Firenze l'Antologia,
raggruppando altri ingegni e riprendendo la guerra. Dante, che Monti
aveva travisato in una sonante ed abbarbagliante imitazione,
risorgeva come poeta nazionale per opera specialmente di Foscolo: si
moltiplicavano le edizioni della Divina Commedia, nuovi commenti non
più informati a piccinerie filosofiche o erudite apparvero;
Arrivabene e Troya vi si distinsero, poi tutti vi si cacciarono
falsando con intenzioni patriottiche il significato del poema, che
nullameno giovò a ricostituire la coscienza letteraria. Un
gran fervore di studi si apprese alla gioventù: le Accademie
si dettero a utili e nobili lavori, si vollero forme moderne e idee
nuove. L'antico tipo del letterato pretensioso e disutile scomparve,
ogni libro ebbe uno scopo sociale; non fu più permessa la
puerilità di quei diverbi letterari che avevano divertito
l'ozio delle passate generazioni. Ma gli scrittori erano tuttavia
divisi, oltre che per scuole, in gruppi regionali non senza lievito
di ostilità: i libri più divulgati in Toscana erano
appena noti in Lombardia, quelli di Napoli per giungere a Torino
dovevano impiegare molti anni. Nè il mestiere dello scrittore
era senza pericoli e dolori: i governi sospettosi vegliavano e
censurando condannavano: la pubblica opinione poco giovava: la
stessa coscienza degli autori, combattuta da principii
inconciliabili di autorità e di emancipazione, non trovava
sempre in se medesima l'energia di una lotta, nella quale il riposo
era conteso e negato il trionfo.
Però un'intenzione italiana animava ogni scritto. I giornali
scarsi, mal redatti, diretti da gazzettieri ligi alla polizia, non
potevano diventare arma di battaglia contro i governi, o, tentandolo
per opera di giovani animosi, erano presto soppressi. D'altronde il
popolo in gran parte analfabeta non leggeva. I libri valevano
meglio, perchè capaci di lasciare più profonde
impressioni e di educare opinioni più durevoli. La grande
massa del pubblico rimaneva nullameno svogliata: quelli che,
leggendo per ozio di vita o cultura di spirito, partecipavano col
pensiero alla vita spirituale della nazione, erano stati educati
quasi tutti dal clero o nell'abitudine di famiglie egoisticamente
chiuse in se medesime e timorose di ogni novità per troppo
lunga esperienza di servitù. La bigotteria, profittando del
nuovo fervore romantico verso la religione, affettava grande e
signorile importanza; l'impossibilità materiale d'una
rivoluzione, che i ripetuti tentativi infelici disonoravano nel
timido buon senso dei più, rafforzava il rispetto ai
principi, mentre lo spionaggio delle polizie assiderava ogni calda
ed improvvisa risoluzione.
Il dualismo letterario.
Quindi delle due grandi scuole letterarie, che allora si divisero il
campo, quella della rassegnazione e quella della rivolta, la prima
fu la più numerosa ed accetta. A capo di essa splendeva
Alessandro Manzoni, guidava la seconda Francesco Domenico Guerrazzi:
entrambi poderosi nell'ingegno, profondamente e largamente
originali. Intorno a Manzoni si strinsero Pellico, Grossi, Torti,
Tommaseo, più tardi il Carcano e il D'Azeglio; con Guerrazzi
instava scettico ed appassionato il Bini, tempestava il Berchet, poi
folgoreggiò il Niccolini; da Napoli lanciava inni simili a
girandole il Rossetti, quindi stridè la satira del Giusti;
alto su tutti, più moderno e nulla meno antico quanto il
dolore umano, si librava Leopardi, quasi immagine disperata della
patria che quegli sforzi generosi non avrebbero salvato.
Ma se nel Manzoni un cattolicismo troppo più cristiano di
quello politico di Roma attutiva le passioni esasperate
dall'oppressione indigena e straniera, attirando l'egoistica
prudenza dei molti piuttosto a speranze di riforme graduate che alla
necessità di una rivoluzione nazionale, il sentimento di
questa era pur così vivo nel grande poeta da ispirargli tra
gl'inni dell'Adelchi la più rovente rampogna di battaglia.
Nel suo stesso romanzo tanto lodato, attraverso la falsità di
caratteri popolari che allora parvero meravigliosi di esattezza, e
sotto il velo di una morale che sconsigliando la lotta conclude
fatalmente alla tirannia dei malvagi responsabili solo in faccia a
Dio, si coglie una onesta intenzione democratica, che riconosce
unicamente nel popolo la poca virtù capace di albergare sulla
terra. Ma contro Manzoni, del quale la coscienza religiosa e
semi-rivoluzionaria, accordandosi con quella della massa, doveva
rimanere come specchio di quella della nazione, sorgeva tempestando
il Guerrazzi. Preso nell'orbita della grande cometa di Byron, egli
è fosco e solenne, impetuoso e compassato, credulo e
scettico: la sua collera come quella del mare gitta schiuma e
ruggiti, la sua parola scoppia come il baleno, la sua passione ulula
come una bufera. Libertà, odio allo straniero ed al prete,
orgoglio italiano, antagonismo regionale, amore democratico e
rancore plebeo, pessimismo ateo e deismo biblico, tutto fermenta nel
suo spirito; incapace di misura, nullameno conserva sempre
l'atteggiamento scultoriamente classico di un gladiatore; tribuno,
fonde la veemenza dell'apostolo con quella del profeta. I suoi libri
spesso pensati e scritti nelle carceri sono battaglie: il suo
disprezzo per la gente è un tonico che la fortifica, le sue
invettive hanno il vigore di un'argomentazione, la sua
teatralità abitua ai pericoli delle parate per giungere a
quello degli scontri.
Nessun scrittore fu allora utile e potente più di lui,
nessuno pure doveva essere più presto dimenticato. E mentre
il Guerrazzi, facendo dell'arte una catapulta, scagliava i propri
libri come macigni sui nemici della patria, Berchet esule lanciava
da lungi canzoni di guerra e di maledizioni che facevano stringere
convulsamente le mani cercando un'arma a chiunque le ascoltasse;
Niccolini risaliva sonante di lirica sul teatro di Alfieri, mutando
la tragedia in una battaglia per la libertà, spesso a
rovescio della storia, moltiplicando personaggi e fantasmi che
parlavano contro i tiranni, come irrompono i torrenti e divampano
gl'incendi; Giusti ravvolto nell'anonimo, come l'eterna satira
popolare, gittava fra quelle ardenti declamazioni lo stridore di un
sarcasmo che finiva di rendere spregevoli i nemici della patria,
già diventati odiosi a forza di essere odiati. Vivido,
leggero, infallibile nella malizia quanto l'antico popolo di
Firenze, il nuovo poeta coglieva il falso di ogni partito, spingendo
alla rivoluzione collo scherno a tutte le autorità, e con
così intensa passione di patria da mutargli spesso il lazzo
amaro in un eroico urlo di sfida.
Ma sulle due scuole della rassegnazione e della rivolta, sui nuovi
guelfi e ghibellini, su coloro che non avrebbero voluto sacrificare
il cattolicismo alla rivoluzione, e quelli che dichiaravano la
libertà inconciliabile colla religione, Giuseppe Mazzini,
alto nello sforzo di riassumere le due opposte tendenze, predicava
l'insurrezione in nome del diritto e il martirio in nome di una
religione che del cristianesimo accettava quasi tutta la parte
essenziale. Scrittore politico più rivoluzionario ed efficace
di tutti, dava corpo agl'incerti fantasmi delle due scuole colla
doppia formula dell'unità e della republica italiana in una
prosa serrata come una falange e nullameno sinuosa come un'onda,
balenante e melodica, esatta come una geometria e capziosa come una
pittura, italiana più che quella medesima di Machiavelli e
tanto moderna che oggi pure nessun'altra ha ancora saputo ripeterne
l'animosa ed animatrice naturalezza.
In tanta effervescenza di novità si rivangava naturalmente il
passato; a ciò spingeva la passione romantica, e quella
dialettica storica che costringe i popoli ad estrarre il futuro
dalla coscienza del proprio passato. La morta erudizione si animava
d'intenzioni creatrici, i congressi scientifici fingevano assemblee
nazionali, i canti del popolo erano sfide alla tirannide, le
allusioni dei libri e dei discorsi avevano l'improvviso e la
precisione delle coltellate. La stessa questione della lingua
dibattuta con tanto accanimento si mutava in problema nazionale,
giacchè l'insurrezione di tutte le provincie contro la
primazia toscana e la confusa difesa di quest'ultima menavano
all'unità di un linguaggio piuttosto parlato che scritto, non
più imbalsamato nella tradizione, ma vario e mobile come la
vita. La critica, trascinata dall'istinto novatore della
letteratura, cangiava i vecchi canoni delle scuole per accoglierne
altri dalla storia e dalla filosofia; l'arte ribattezzata da Canova
nel classicismo greco, spezzava con Bartolini il sacro fonte per
avventarsi a mal comprese originalità; si moltiplicavano le
storie regionali, s'investigavano gli archivi, si cercava il segreto
delle epoche trascorse quasi per indovinare quello dei fatti
imminenti.
Il contatto e la diffusione delle letterature europee spronavano a
grandi cose col confronto umiliante dello stato attuale italiano,
giacchè la boria del passato, diventando argomento contro
l'oppressione straniera, non toglieva di sentire a quanta distanza
si fosse ancora dalle nazioni che guidavano il movimento europeo.
Bisognava tutto rinnovare e tutto fu miracolosamente rinnovato.
Giammai l'Italia ebbe più grande operosità spirituale;
dalla ristorazione del '15 alla rivoluzione federale del '48 il
numero dei grandi italiani è tale che fa battere il cuore di
nobile orgoglio.
Colletta e Botta.
Nella letteratura politica, dopo il Conciliatore, le opere di
Guglielmo Pepe e di Santorre Santarosa rivelano meglio di ogni altra
le idee d'allora negli uomini d'azione, che, separati dalla vita nel
segreto delle sètte, non solo vi diventano incapaci di
afferrare il significato storico di un momento, ma non v'imparano
nemmeno l'abilità necessaria alle cospirazioni. Al disopra di
esse levasi per senno politico la storia della rivoluzione
napoletana di Vincenzo Coco: dopo di essi il Colletta e il Botta,
fra la turba degli storici accumulanti in lavori parziali l'immenso
materiale della futura grande storia d'Italia, esprimono un altro
momento dell'opinione publica italiana. Quegli bonapartista, nemico
della carboneria e uomo del potere anzitutto, giudica la rivoluzione
napoletana del '20 come una serie gratuita di errori, senza
afferrare la causa recondita di un movimento storico, che pure
riceve contraccolpi da tutto un moto europeo; non sente la
fatalità dell'antitesi in quel processo rivoluzionario, al
quale mancano i due grandi principii dell'unità e della
sovranità nazionale; ma, nemico implacabile della monarchia
borbonica, la trascina alla gogna dell'immortalità colla
paziente passione di una analisi, cui nulla sfugge. Senonchè
il suo pensiero si offusca alla fine: fra i regii sempre carnefici,
e i rivoluzionari sempre inetti, l'avvenire è impossibile. Il
bonapartismo fallito non può ripetersi; la religione ridotta
dai preti ad arma di battaglia non saprebbe mutarsi in sostegno; il
popolo non esiste e non esisterà; l'Italia non è, non
fu, non sarà mai che una regione spezzata in singoli Stati; e
lo storico, rifugiandosi indarno nell'angustia di un concetto
puramente napoletano, muore senza risolvere il problema impostogli
dalla propria storia. Quando questa uscì, il successo ne fu
immenso: si parlò di Tacito, si ammirò la severa
grandezza dello stile classico, al quale avevano collaborato il
Giordani, il Niccolini e il Capponi; ma di nobile e d'importante
davvero non ne scaturiva che l'odio alla monarchia borbonica,
così intenso da propagarsi in contagio contro ogni altra
monarchia.
La conclusione, che il Colletta non aveva osato di trarre dalla
propria storia, la cavò il Botta, e fu un odio profondo ed
ingenuo contro la rivoluzione francese venuta a turbare il naturale
sviluppo della storia italiana. Colletta era rimasto vittima della
crisi nell'impossibilità di conciliare la doppia impotenza
dei regii e dei rivoluzionari in un'idea di progresso; Botta si
cacciò risolutamente indietro, isolando il passato d'Italia
ed isolandola da tutto il mondo. Egli non si domanda il
perchè della rivoluzione o dell'impero francese: le tempeste
e le disgrazie hanno forse sempre un perchè? Secondo lui la
libertà era antica in Italia, le repubbliche di Genova e di
Venezia l'avevano applicata coll'equa combinazione di un patriziato
immobile e di una democrazia municipale. Perchè dunque erano
finite così tristamente? Botta non se lo chiede. La Francia,
compiendo di sopprimerle, non reca in Italia che leggi geometriche;
ma l'assoluta uguaglianza civile, che sola può produrre la
sovranità nazionale, ripugna al vecchio italiano. La
rivoluzione francese non ha che a presentarsi per vincere, e Botta
profondamente innamorato del proprio paese dimentica la propria
autorità di storico, colla quale aveva condannato la
nullaggine infame di tutte le corti italiane, per sposare
subitamente la causa dei vinti contro i nuovi barbari. Ogni mossa
dell'esercito francese per lui è un errore, ogni riforma una
profanazione; i liberali sono parricidi, i reazionari possono essere
assassini, ma in fondo hanno ragione. La caduta del potere temporale
non soddisfa più in lui il giansenista, la sostituzione di
Murat a Ferdinando IV non lo compensa, il benessere prodigato dal
governo unitario dell'impero napoleonico non lo appaga. Il suo
patriottismo italiano trionfa della sua ragione: le republiche
improvvisate e morte eroicamente, come quella di Napoli, non vietano
a lui democratico il rimpianto delle vecchie dinastie cadute senza
decoro nè di diplomazia nè di battaglia. Quindi
rifugiato nell'adorazione di Torino, spia la caduta dell'impero
aspettando il ritorno dei Savoia, dai quali non chiede e non aspetta
nulla, ma nei quali sembra sentire istintivamente la
continuità della storia italiana: e alla fine della propria
storia, scorato e confuso, conclude in un lamento sull'incorregibile
perversità umana e sull'inutilità di seguirne le
vicende.
L'esagerazione dell'odio alla Francia aveva già toccato gli
ultimi termini nel libro stravagante di un altro piemontese, il
conte Galiani di Cocconato, che paragonò l'invasione francese
alle calate dei barbari.
L'influenza del Botta sul pensiero nazionale fu efficacissima. La
sua sincerità nel rivelare gli orrori delle corti italiane
scemava l'effetto del suo odio alla rivoluzione francese venuta a
spazzarle, mentre il suo patriottismo, che aveva resistito a tutte
le speranze della libertà per passione della patria
indipendenza, rinfocolava l'odio all'Austria ben più
tirannica di Napoleone. La sua irreligione, i suoi istinti
democratici persistenti nella disperata difesa dell'aristocrazia per
opporla alla demagogia straniera giovavano nella nuova guerra contro
l'autorità dei papi e dei principi, cui il ravvivarsi della
religione per opera della reazione romantica ridava forze più
minacciose. Che se il suo scettico scoramento sminuiva nei lettori
la fede ai destini della patria, il nuovo pessimismo della scuola
romantica, ebbro di violenze patriottiche, bastava a temperarne
l'effetto; mentre l'autorità dello storico, allora immensa,
serviva come arma contro coloro che avrebbero voluto vedere la
salvezza solo in un ritorno all'antico.
Il principio rivoluzionario abilissimo a giovarsi di tutto non
derivava dai due storici che gli effetti della loro critica al
passato, lasciando all'entusiasmo dei giovani scrittori aprire le
porte del futuro colla magica chiave dei sogni. Perché il
presente di quella reazione monarchico-austriaca fosse
irremissibilmente condannato nella coscienza della nazione bastava
che nessuno dei magni spiriti, combattendo il liberalismo per le
tragiche ed incomprensibili contraddizioni de' suoi primi momenti,
si ergesse difensore del passato: e nel passato si poteva come Botta
condannare per patriottismo l'invasione francese, non assolvere i
principii dei vecchi governi in nome dei quali si pretendeva ancora
di governare.
Ma la corrente rivoluzionaria ingrossava tutti i giorni. Una turba
di minori letterati, accodandosi ai grandi, ne rinforzava e ne
diffondeva l'opera; il rispetto alla religione cresceva nei
più per influenza della scuola manzoniana; ma il nuovo
sentimento religioso, sorto come reazione contro l'empietà
rivoluzionaria, non l'aveva al tutto dimenticata, e separava
involontariamente la religione dal clero: questo non poteva
più essere stimato che a patto di conformarsi interamente
allo spirito di quella. I nuovi credenti non avevano che a
ricordarsi per ritornare increduli: l'ingenuità della vecchia
superstizione era finita; il cattolicismo profittava della crescente
religiosità delle anime senza contenerla intera,
giacchè la filosofia, la poesia e la patria stessa se ne
toglievano gran parte. L'eroismo ateo della rivoluzione passava
nella religione, che aveva ceduto così vilmente il campo alle
prime bufere del 1793 per ritornare tremante fra i gendarmi
dell'impero napoleonico e soccombere daccapo alla loro violenza.
L'opposizione del clero al patriottismo liberale, costretta ad
allearsi collo straniero oppressore, disgustava anche i più
arrendevoli fra i credenti: le stesse plebi brutali malmenate dalla
polizia cessavano di vedere nei liberali tanti eretici. Solo i
contadini, lontani da tutte le influenze civilizzatrici dello
spirito, rimanevano ligi al clero; ma, chiusi nell'inerte egoismo
della propria segregazione, non potevano offrire, e non offersero
poi, soldati nei giorni della battaglia.
La quale, diversificandosi per tutte le forme, che il pensiero
può assumere nell'azione, si rinnovava ogni giorno e in ogni
luogo, nel discorso e nel libro, nell'allusione e nella reticenza,
negli scavi dell'erudizione e nelle visioni della poesia, nelle
proposte commerciali e nelle ipotesi scientifiche,
nell'italianità e nella nazionalità, che uomini e
cose, affermazioni e negazioni, esprimevano contro la reazione
monarchico-clericale guidata dall'Austria.
Rosmini e Gioberti.
Ma come fondamento al vasto e confuso edificio letterario, che la
nuova coscienza nazionale alzava per disciplinarsi all'azione, una
nuova filosofia allargava con sapiente lavoro le basi del pensiero.
Mentre il Galluppi, fedele alla filosofia sperimentale inglese
oppugnava la Genealogia del pensiero del Borelli attaccandosi a Kant
senza troppo comprenderlo; e il Poli, con tentativo più
generoso che fortunato, imbastiva un eclettismo universale per
opporlo a quello prestigioso del Cousin; e il padre Ventura,
obbedendo inconsciamente al moto risospingente gli spiriti nel
passato per conquistare nuove idee, mirava a risuscitare la
scolastica innestando la filosofia sulla rivelazione; e Terenzio
Mamiani, ingegno forbito, mirabile per facilità di
dilettantismo in ogni ramo del pensiero, affrettavasi a sciogliere
tutte le questioni riducendole a quella sola del metodo, già
noto secondo lui in tutta la sua assoluta verità agli antichi
italiani; due primissimi intelletti stampavano nella storia del
pensiero nazionale ben più vasta orma. Contemporanei,
dottissimi, diversi nell'ingegno e nel carattere, furono avversari,
e nullameno concorsero politicamente nello stesso concetto. Rosmini
si oppose al criticismo dissolvente di Kant, Gioberti all'idealismo
trascendente di Hegel; ma entrambi rimasero inferiori alla logica
del primo e alla sintesi del secondo. Rosmini fondò il metodo
psicologico con insuperata precisione di analisi; Gioberti
salì impetuosamente sull'ontologia per dominare da essa tutto
lo scibile, capovolgendolo spesso nelle più arbitrarie e
bizzarre prospettive. Quegli era un intelletto, questi una fantasia
filosofica; l'uno un carattere sacerdotale, l'altro un temperamento
tribunizio irresistibilmente facondo e ciarlatano; l'opera di
Rosmini prosegue, quella di Gioberti si è arrestata. Ambedue
furono cattolici ed agguerrirono il sistema cristiano contro gli
assalti della metafisica tedesca e della scienza moderna, per quanto
era sistematicamente possibile.
Politicamente conclusero al neo-guelfismo: Rosmini vi arrivava
lentamente e solidamente per deduzioni scolastiche lasciando la
creazione nel mondo, la ragione sotto la rivelazione, la storia
sotto la provvidenza, la politica sotto la morale, la morale sotto
la religione, la religione sotto la santa sede, e questa sotto il
pontefice come sotto la più alta, antica ed universale
autorità italiana. Gioberti, sempre oscillante nelle
opinioni, rivoluzionario a Torino, poi esiliato ed ultramontano nel
Belgio, spregiatore d'ogni pensiero filosofico antico o moderno non
suo, intricato come una foresta e proteiforme come il mare, nemico
della Francia e poscia suo ammiratore, alleato di Rosmini quindi suo
implacato nemico, si spinse all'ultra-cattolicismo. Siccome il papa
era in Italia, a lui spettava, secondo Gioberti, di rialzarla, e a
questa di redimere i popoli d'Europa dalla barbarie, nella quale
erano piombati. «Roma essendo più ideale dell'Italia,
l'Italia dell'Europa, l'Europa dell'Oriente e l'Oriente del mondo,
ciascuno di questi aggregati viene ad essere il contenente ideale
dell'altro, come l'anima del corpo, l'idea dello spirito e Dio
dell'Universo». «L'Italia è l'organo della
sovrana ragione, della parola regia e ideale, la sorgente, la
regola, la guardia di ogni nazione, d'ogni lingua, poichè ivi
risiede il capo che dirige, il braccio che muove, la lingua che
insegna, il cuore che anima la cristianità».
«Roma deve dominare la confederazione dei principi italiani,
l'Italia deve sostituirsi alla supremazia francese, riprendere la
sua superiorità su tutti i popoli, avere le proprie colonie,
convertire la Russia, reintegrare la Germania nell'antica fede,
soccorrere l'Inghilterra nell'imminente sua crisi». L'Italia
diventava così universale, soprannaturale, sopranazione,
capopolo: gl'italiani erano i leviti della cristianità, Roma
l'ombelico della terra.
Era una risurrezione dell'antico primato cattolico prima che la
grande riforma di Lutero lo spezzasse, e le nazioni si
individualizzassero storicamente nel concetto della propria
sovranità; ma doveva essere pure l'inevitabile termine di
quella scuola reazionaria-religiosa, che, sbigottita dalla
rivoluzione francese ed incapace di sbrogliarne i principii, cercava
nella storia nazionale un centro ove fortificarsi. Infatti,
rinunciando ai dogmi rivoluzionari dell'eguaglianza civile e della
sovranità individuale e nazionale, e discendendo nel passato
italiano, l'unica idea unitaria era ancora quella del papato. Per
esso, come centro del cattolicismo, l'Italia era ancora una
originalità e un valore nella storia moderna. Rosmini, meglio
temprato e più equilibrato, tendeva alla costituzione di un
partito nazionale guelfo, senza precisargli nè programma,
nè fisonomia per opporlo all'oppressione straniera, lasciando
nella Filosofia del Diritto il diritto politico sulle vecchie basi,
e quindi la storia contemporanea nella vecchia assisa e colle
immutate relazioni da suddito a sovrano di diritto divino:
così egli sperava si sarebbe potuto addivenire ad una
confederazione di principi italiani e ad una serie di riforme da
essi largite ai popoli, senza riconoscere a questi il diritto di
discutere i propri re. Per Gioberti, trascinato da un inconsapevole
senso di unità, che in Giuseppe Mazzini era già
coscienza politica, il papa come anima dell'Italia stretta intorno
al papato come l'antica falange macedonica troverebbe la
libertà nella più assoluta disciplina religiosa; i
principi italiani non conservavano valore in faccia a Roma, lo
straniero lo perderebbe dinanzi al primato italiano necessario al
mondo come quello di Roma all'Italia; il popolo si comporrebbe
nell'eguaglianza religiosa e in una democrazia cattolica, che gli
assicurerebbe una specie di patriziato levitico.
Il genio latino, che, educato all'unità da oltre duemila anni
di storia, trovava la propria moderna unità politica in
Mazzini capace di comprendere nello stesso principio e nello stesso
processo rivoluzionario tutti i popoli servi d'Europa mentre
più specialmente s'adoperava al problema italiano, doveva
così dare con Gioberti l'ultima formula dell'unità
italo-cattolica nello splendore di un paradosso ingenuo a forza di
fede, splendido nell'assurdo ed irresistibile di logica.
Questa grande scuola cattolica, nella quale Rosmini era il filosofo
e Gioberti il tribuno, ebbe in Cesare Cantù lo storico
mondiale. Giovane ancora e con una operosità spaventevole,
questi si accinse alla storia universale accettandone per base i
principii cattolici, il dualismo degli ebrei col mondo antico, dei
cristiani col mondo di mezzo, dei cattolici col mondo moderno; e
scrisse una opera immensa di mole, naturalmente più vasta che
profonda, superando Bossuet di quanto un libro può superare
un discorso, copiando, riassumendo, compilando, servile ed
originale, sincero e partigiano, nobile nell'intenzione, altero nel
metodo, fiacco nei criteri, ammirabile ed ammirato nella
disposizione della materia e nel vigore dell'interpretazione
religiosa. Egli fu ancora un campione di quell'unità che
affaticava tutti gli spiriti italiani, e un rappresentante della
reazione romantico-religiosa che gettava le coscienze in braccio a
Roma col doppio spavento delle negoziazioni rivoluzionarie francesi
e del trascendentalismo germanico.
Ma a questa corrente presto si opposero in nome di un nazionalismo
scientifico e filosofico Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo, ai quali
s'aggiunsero, minori d'ingegno e più veementi all'assalto,
Bianchi-Giovini ed Ausonio Franchi, questi dialettico poderoso,
quegli polemista stringato. Giuseppe Ferrari, ingegno di
filosofo-storico ben altrimenti superiore a Cesare Balbo, che lo fu
nella reazione religiosa investigando i primi secoli della
letteratura cristiana, doveva poi dare all'Italia nella storia delle
sue rivoluzioni il più profondo ed originale studio delle
stesse, e vecchio tentare nella Teoria dei periodi politici
l'estrazione della legge matematica dalla storia per assoggettarne
tutti i momenti alle previsioni del calcolo. Cattaneo, filosofo
della scienza, vi disseminò l'opera propria, richiamando
gl'ingegni divaganti alle fatali modernità della vita e
propagando nel disprezzo degli apriorismi metafisici le
verità accertate dall'esperienza per educare al culto di una
ragione, che bastasse a se stessa. Entrambi furono federalisti,
iniziando una nuova scuola di rivoluzionari, che dalle ardenti
utopie dell'unità republicana o cattolica e dalle timide
sottomissioni dei riformisti ostinati a sperare dalla conversione
dei principi miglioramenti politici od amministrativi, spingevano
all'esame del passato italiano per associarlo non all'unità,
primo termine della rivoluzione moderna, ma all'associazione che,
essendone il secondo, ne diventerà il trionfo. Così
dall'antica storia federale italiana, saltando il processo violento
dell'unità, necessario a costituire la moderna
individualità politica, arrivavano al futuro federalismo
etnografico che esprimerà davvero tutte le varietà del
popolo. Ma questo, che politicamente era allora un errore, diventava
rivoluzionariamente una colpa, dividendo le forze della rivoluzione.
Nullameno l'empietà del loro pensiero, illuminata dalla
sincerità della loro vita, giovava all'emancipazione del
carattere nazionale dalla schiavitù della morale religiosa,
mutata in argomento politico dal clero e riconsacrata dalle
affermazioni della scuola neo-guelfa.
Intanto l'efficacia della propaganda letteraria, che i capi della
scuola della rivolta aumentavano ogni giorno scrivendo nuovi libri o
patendo nuove torture, conciliava le divergenze dello stesso
pensiero rivoluzionario nello scopo comune di un'indipendenza
italiana. In questo convenivano tutti, meno i preti e i più
abbietti cortigiani. E d'indipendenza fremevano i giovani infiammati
dall'arte della parola, del pennello o della musica a più
alti propositi; Bezzuoli dipingeva Carlo VIII come protestando;
Sabbatelli malediceva nell'Aiace; Rossini dalla commedia di Figaro,
vibrante d'immortale giocondità, saliva nel Mosè alla
tragedia di un popolo schiavo, esalando nel pieno de' suoi cori la
passione di un odio e di una speranza, che solo la morte
dell'oppressore poteva consolare. Poi nel Guglielmo Tell la tragedia
diventava radiosa epopea: il popolo era passato dalle congiure alle
battaglie, e la sua vittoria squillava superba di balza in balza
sino ai piani d'Italia ove quello stesso straniero invasore la
sentiva rabbrividendo come una sfida. Bellini, strappato dal ciclone
rivoluzionario alla soavità di un idillio ineffabile, e
gittato come un sonnambulo in mezzo alle terribili tribù
druidiche, ne ripeteva nella Norma gl'irresistibili inni di guerra
contro Roma; mentre l'Italia fremente d'entusiasmo guerriero
guardava alle Alpi lontane se i Galli le discendessero un'altra
volta a combattere austriaci, principi e preti dietro un nuovo
Napoleone.
La Francia non pensava forse sempre all'Italia? Lamennais non aveva
esclamato, rivolgendosi dalle Alpi a contemplare gli incantevoli
piani lombardi; «Dormi, bella Italia, dormi tranquilla su
quello che chiamano il tuo sepolcro; io so che è la tua
culla»? E questo augurio del grande apostolo non valeva la
desolata ingiuria di Lamartine così baldamente rimbeccata
dalla satira del Giusti? Napoleone I morente a Sant'Elena non aveva
affermata la futura unità d'Italia? Byron morente a
Missolungi non aveva proclamato la necessità d'una republica
universale?
Intanto che la poesia ferveva nelle anime migliori, una rettorica
inesauribile scorreva per ogni scritto o discorso a riscaldare i
più freddi e ad eccitare i più restii; il romanticismo
vi cooperava colle proprie smanie, la moda la consacrava colla
propria irresponsabilità. Si declamava di guerre, di
congiure, d'eroismo, di passioni, di genio; i giovani si
drappeggiavano nei mantelli, portando con vanitosa voluttà
armi nascoste; le poesie incendiarie sequestrate dalle polizie si
leggevano nel segreto di circoli come in convegno di congiurati, il
contrabbando dei libri proibiti dava loro il valore d'una battaglia
vinta contro il nemico, gli esuli e i martiri diventavano santi
nelle menti più fresche, l'odio allo straniero cresceva a
furore mal rattenuto, quello al prete inveleniva nel disprezzo.
Nelle scuole si coglievano a volo le allusioni dei professori
liberali per esagerarle con strepitose ovazioni, le imprudenze
abituavano al coraggio, il coraggio vero si addestrava al pericolo.
Ma poichè il popolo non partecipava a questa effervescenza
spirituale della borghesia, naturalmente la rettorica doveva esserne
il difetto, quella ampollosità del pensiero e della parola,
del sentimento e dell'azione, che sgonfiandosi al cozzo della
realtà lascia tanto disgusto anche nei migliori; e nullameno
quella rettorica, oggi così ridicola per la maggior parte de'
critici, era allora non solamente l'inevitabile malattia d'un'idea
costretta ad esagerare la propria passione per diffondersi, ma un
vero ed efficace modo di diffusione nelle masse incapaci di sentirne
la verità nella nuda ideale bellezza.
Capitolo Quarto.
Giuseppe Mazzini e la Giovine Italia
La rivoluzione dell'Italia centrale nel 1831, chiudendo il periodo
dei tentativi regionali iniziato coi moti del '20 e del '21, aperse
l'altro più fecondo del federalismo e dell'unità.
Questa ebbe a campione Giuseppe Mazzini, del quale l'apparizione
politica colla lettera anonima indirizzata a Carlo Alberto fu come
uno scoppio di fulmine nell'atmosfera torbida della vita italiana,
che diradandola lasciò vedere nell'avvenire un'idea precisa.
Niuno prima lo conosceva; all'indomani era già celebre.
La sua prima ed incancellabile impressione di fanciullo era stata
l'esodo dei rivoluzionari vinti nel 1821; nel 1828 fondava un
giornale letterario a Genova sua patria, l'Indicatore Genovese;
soppresso questo, l'anno dopo con Guerrazzi e con Bini ritentava a
Livorno l'Indicatore Livornese, agitandovi, fra questioni letterarie
che rivelavano già una critica superiore, idee politiche
incredibili di temerità e di precisione. Incarcerato alla
rivoluzione di luglio con altri liberali come reo di carbonarismo, e
lo era, quindi esigliato per sempre, riparava a Marsiglia. La
continua pensierosità e il pallore, che lo avevano reso
sospetto al governatore genovese Venanson, esercitavano sino
d'allora uno strano fascino su quanti lo conoscevano. Quindi la
fallita rivoluzione dell'Italia centrale lo rivela a se medesimo:
l'Austria aveva già occupato metà della penisola, il
governo papale, protetto da essa, si abbandonava a feroci reazioni,
la Francia di Luigi Filippo tradita tradiva: gli italiani
disperavano per l'ultima volta. Il momento è ineffabilmente
tragico; a Torino, a Milano, a Modena, a Firenze, a Napoli il
dispotismo si rialza spavaldo nella coscienza di essere invincibile;
la forza morale dell'idea soccombe alla violenza brutale dei fatti.
I più lucidi intelletti si abbuiano, i più forti cuori
si accasciano. La carboneria esaurita nel ridicolo di tre sconfitte
si disperde negli esigli, offrendo a popoli più capaci
d'insorgere i più intrepidi fra i propri cospiratori; dalle
corti nessuna lusinga di riforme costituzionali, nessuna
possibilità di accordo federativo contro lo straniero. La
bandiera nazionale, difesa strenuamente a Rimini dall'ultimo pugno
di ribelli, è rimasta sotto un mucchio di cadaveri, lenzuolo
troppo breve e non abbastanza glorioso per salvarli dalla ferocia
del vincitore e dall'ironia del popolo educato al codardo rispetto
di ogni tiranno.
Quindi Mazzini, afferrandola improvvisamente, la sbatte sul volto
dei moderati, che l'avevano lasciata cadere nel fango, a Parma, a
Modena, a Bologna, ad Ancona: si separa dalla carboneria, e solo,
senz'altra autorità che la propria coscienza, altra forza che
il proprio genio, sconosciuto a tutti, tratta quasi minaccioso con
Carlo Alberto, nuovo re e vecchio traditore, gettandogli il perdono
e la corona d'Italia, se la purghi dai despoti indigeni e stranieri;
si rivolge alla sconosciuta gioventù, che educata fra il
disastro di due rivoluzioni, vergine ed incolpevole, può sola
ripararvi col trionfo di una terza. Le nuove persecuzioni che
esasperano ogni onesta coscienza, e l'emigrazione di coloro che non
possono e non vogliono sottomettersi all'insaziabile tirannide delle
polizie, gli porgono le prime attenzioni e i primi compagni: lo
stesso slancio republicano della Francia non era ancora al tutto
represso. Qualche brivido scuoteva tuttavia l'Italia: Belgio e
Polonia, l'uno vittorioso e nullameno in cerca di un padrone
costituzionale, l'altra eroicamente ostinata in una insurrezione
nazionale ma aristocratica e quindi senza speranza, contraddicevano
alle affermazioni della Santa Alleanza; la recente monarchia di
Luigi Filippo, nata di rivoluzione, conteneva in germe un'altra
rivoluzione; un periodo storico stava per aprirsi alla
gioventù, che, non avendo conosciuto la democrazia imperiale
di Napoleone, era spinta dal moto del secolo verso la democrazia
republicana.
Mazzini si gettò nella tormenta, fondando simultaneamente il
giornale e la società della Giovane Italia.
L'uno e l'altra erano e dovevano restare la maggiore
originalità politica e letteraria di questo secolo in Italia.
La sua idea è semplice ed universale.
All'unità romana che abbracciava tutto il mondo antico,
all'unità cattolica che involgeva ancora il mondo moderno
oltrepassando sempre l'Italia ed immobilizzandosi in Roma,
all'Italia federale dei comuni, delle signorie, dei principati, dei
regni, egli contrappone l'Italia una, individuata in nazione, colla
sovranità del popolo, libera, originale nella
modernità dei principii proclamati dalla rivoluzione
francese, cancellando con ingenua ed eroica astrazione tutte le
differenze storiche, gli antagonismi regionali, i dissidi politici,
le rivalità economiche, le varietà etnografiche, che
vecchie di tremila anni le componevano ancora tutto il presente.
Nessuno non nato nel secolo può quindi appartenere alla nuova
società, che sostituisce la carboneria sorta nell'impero e
succeduta alla massoneria del medio evo. Questa non è
condizione di capitano, che esige reclute giovani per arrivare a
marcie più rapide, ma un distacco storico di principî e
di epoca. Il passato è conchiuso: l'Italia o non sarà,
o sarà nella rivoluzione e per la rivoluzione francese.
Veterani e residui non sono più vitali; la libertà
della nazione non può derivare che da quella dell'individuo
come l'individualità collettiva dalla singolare; la
sovranità popolare mena inevitabilmente alla republica. Ogni
transazione sarebbe contraddizione, tappa inutile, consumo gratuito
di forze. Il mito della redenzione di Cristo deve sostituirsi colla
realtà di redenzione operata da ognuno in se stesso: tutti
gli sforzi debbono concordarsi, ma nessuno può salvare un
altro. Ogni individuo singolo o collettivo deve creare se stesso:
l'Italia farà da sè.
Principi, governi, leggi, ogni forza pubblica del suo passato
cessano di appartenerle, giacchè, cassate dalla rivoluzione
francese e riconfermate dalla reazione della Santa Alleanza, hanno
perduto persino la legittimità della tradizione: la storia
non ha ripetizioni perchè la vita non può avere
risorti. La rivoluzione sarà quindi contro spettri. L'Italia
dominata da fantasmi non è più sottomessa che a
pregiudizi: basterà pensare per non credere, sentire per
resistere, muoversi per vincere. La coalizione degl'interessi come
non arrestò mai così non arresterà l'espansione
delle idee. La coscienza italiana fatta solamente di passato non ha
che memorie; la coscienza rivoluzionaria le darà colle idee i
sentimenti della vita moderna. Ma Dio è nella coscienza
rivoluzionaria, perchè Dio è eterno, e la rivoluzione
francese perì per averlo dimenticato.
La rivoluzione francese secondo Mazzini, è l'ultimo trionfo
dell'individualismo, la formula suprema del diritto, alla quale deve
succedere quella del dovere sociale.
La nuova società è dunque politica e religiosa: una
riforma vi dovrebbe precedere la rivoluzione; l'educazione ne
sarà mezzo e scopo, poichè la personalità
morale è il primo e ultimo termine della storia e della vita.
Se le altre sètte politiche non avevano mirato sino allora
che a rimutare governi, opponendo coalizioni di diritti
costituzionali a leghe di privilegi regali, e, costrette a
concentrarsi nell'ombra, si erano poi miseramente disperse
affacciandosi alla luce; la Giovane Italia si annunzia per proclami,
publica statuti, battaglia nei giornali, si effonde in predicazioni.
Parrebbe un moto religioso: la sua forma letteraria è biblica
e romantica, la sua passione puritana, il suo proposito educatore,
le sue armi le virtù. Dio, presente nella coscienza e
nell'opera, è al tempo stesso rivelazione e ragione. Mancano
dogmi, riti, l'esteriorità di una nuova religione, ma il
principio cristiano vi si riconosce al primo sguardo
nell'espressione vaga, che poi si condenserà senza precisarsi
nella setta oggi celebre dell'unitarismo; deismo precettivo e
morale, poesia fervida e pedante, generosità ed equità
ammirabili.
Il mondo storico nelle sue varie composizioni politiche vi perde
colla nettezza dei contorni ogni imponenza materiale; le
difficoltà di mutarlo entro la nuova idea rivoluzionaria non
hanno valore dal momento che il sacrificio diventa dogma e il
martirio apoteosi; l'identità morale degl'individui cancella
le rivalità storiche; ovunque e sempre, nell'individuo e nel
popolo, la vita è missione cosciente e subordinata a un
decalogo sempre morale anche nei mezzi, indirizzata al bene col
bene, senza ricompensa sulla terra e senza premio nel cielo, collo
scopo di un progresso senza meta, nel quale nessun grado potendo
essere stazione, nessuna felicità è possibile a
nessuna generazione. Non importa. La trascendenza dell'idea morale
in Mazzini alza il nuovo politico ad apostolo: la sua visione non
è di un'Italia libera e ricca, che si riunisca alle altre
grandi nazioni per fare anzitutto il proprio interesse e guadagnare
fra esse il posto migliore, ma di un popolo già schiavo e
rigenerato da un'idea religiosa, il quale si levi sacerdote ed
esempio all'umanità. L'utopia di Gioberti traspare sotto
quella di Mazzini: l'uno è ultra-cattolico, l'altro
ultra-morale, entrambi cristiani; quegli nel dogma, questi nei
concetti; Gioberti nella tradizione, Mazzini nella rivoluzione: per
ambedue la religiosità è base della politica, e la
rigenerazione unico modo di risurrezione.
Impetuoso come Lutero, austero come Knox, inflessibile come Calvino,
riformatore prima che rivoluzionario e nullameno separato dal secolo
che vuol guidare, solitario come tutti gli apostoli malgrado la
folla che lo circonda, malinconico e casto, poeta e filosofo,
temerario ed incerto, ingenuo ed astuto, con istinti infallibili e
colla percezione falsa o sublime del reale che distingue i profeti,
Mazzini è al tempo stesso il padrone e la vittima della
propria rivoluzione. Vi è della donna e del prete nel suo
cuore. Artista incompiuto e pensatore eccelso quantunque angusto,
rimane e rimarrà sempre inconciliabile colla sua stessa vita
politica; così attraverso ammirabili vicende, che riveleranno
in lui eccezionali virtù, non avrà mai l'irresistibile
inconscio degli uomini d'azione come Napoleone I e Garibaldi, la
serenità artistica di Goethe, l'impassibilità divina
di Hegel, la duttilità infrangibile di Cavour,
l'elasticità tribunizia di Gambetta; ma nullameno la sua
parola si propagherà come un contagio, la sua purezza
religiosa rischiarerà l'anima nazionale, l'eroismo della sua
utopia spronerà alla vittoria dopo il martirio, la sua fede
vincerà tutti i dubbi, la logica della sua argomentazione
repubblicana, smentita in ultimo dal fatto della monarchia dei
Savoia, avrà sconfitto la federazione coll'unità e
ridotto il principio monarchico a non essere più che un
accessorio dell'idea democratica.
Al pari di ogni novatore, Mazzini sarà al tempo stesso
rivoluzionario e reazionario, respingendo e negando quante idee non
s'accordino colla sua: credente nel popolo sino alla
credulità, invece di coglierlo nella sua vera e sconfortante
fisonomia di allora, lo vedrà sempre nel miraggio di una
astrazione, e quindi capace d'insorgere ad ogni ora e d'intendere le
nuove rivelazioni. Così egli accusa delle rivoluzioni fallite
nel '21 e nel '31 solamente i capi: le masse erano tutte italiane,
parate alla morte e alla vittoria. Nella sua democrazia geometrica
quanto quella di Rousseau, col quale ha religiosamente molte
somiglianze, egli concepisce l'uguaglianza politica come nel
Contratto Sociale; tutti elettori e tutti eleggibili, rappresentanza
unica e quindi costituente in permanenza: non classi e perciò
non equilibrio e contrappesi parlamentari fra loro, educazione
nazionale, dovere sempre superiore al diritto e la capacità
nel popolo di compierlo sempre. Quindi l'utopia italiana,
raddoppiata in lui dalla tradizione delle unità mondiali
d'Italia, lo trae all'utopia europea: alleanza santa dei popoli
contro quella dei re, qualunque differenza di grado nella
civiltà e nella storia di ogni popolo cancellata,
insurrezione europea concordata e simultanea. L'efficacia della sua
riforma deve trionfare di tutto; imperi, regni, dinastie,
diplomazie, antagonismi di razze, diversità di religione e di
costume, tutto si dissolverà colla rivelazione del nuovo
verbo. Il suo fervore religioso arriva al lirismo più
poetico, sfolgora in formule di filosofia socratica e cristiana, che
hanno la luce di un baleno e la soavità di un sorriso.
Poi, discendendo all'azione ed inculcandola, prosegue imperterrito
nell'illusione dell'opera propria: la sua società della
Giovine Italia, cresciuta a Giovine Europa, deve compiere il
miracolo della trasformazione universale: egli non tien conto
nè dello stato delle scienze nè di quello della
filosofia; come incredulo di tutti i culti, non li calcola; sempre
assorto nelle altezze della propria democrazia, giudica la
rivoluzione francese piuttosto conclusione che inizio di epoca. Ma
quando il socialismo gli si parerà dinanzi colla
terribilità delle sue negazioni atee e passionate,
inevitabili in tutte le novazioni, Mazzini indietreggerà
inorridito, additando il cielo reso da lui stesso deserto
coll'espulsione del Dio cattolico.
Ma in questo misticismo politico-religioso ferve l'anima più
italiana che dopo Dante e Michelangelo sia apparsa nella storia. Le
sue contraddizioni stesse formano la sua gloria, rispecchiando
l'incalcolabile mistura del popolo da lui incarnato. Quindi Mazzini
vuole essere tutto, si crede avere le più disparate
attitudini: letteratura, critica, arte, filosofia, economia
politica, poi la guerra, la cospirazione, l'erudizione, la
filologia, la bibliografia; sentenzia su tutto, subordina tutto alla
propria idea, livella tutto col traguardo di un solo teorema.
Passioni, interessi, vizi per lui non sono forze e nemmeno
realtà, perchè il difetto non è mai che
negazione: li trascura, non s'accorge che, non mutandoli in armi per
la rivoluzione, saranno armi contro di essa. Nella sua fede non
vuole e non può ingannare il popolo; e la politica è
l'inganno sublime, che il genio fa al buon senso angusto delle masse
e all'avarizia del loro interesse, conducendole dove non
intenderebbero o non saprebbero andare. In lui il riformatore vizia
il rivoluzionario. Gli manca l'odio, questa forza suprema delle
rivoluzioni: ha lo sdegno del profeta e il perdono del martire; se
qualche volta sacrifica pochi cospiratori a un'impresa pericolosa,
non giunge mai all'impassibilità pessimista di considerarli
semplici strumenti. La moralità del suo cuore e del suo
sistema lo inceppa; può arrivare al regicidio non alla
strage, all'insurrezione non alla guerra civile, alla dittatura non
al terrore; tradito non sa tradire, e si arrochisce in predicazioni
spesso sublimi ed inutili; si batte inerme, ma sempre ferito non si
arrende mai. Laonde isolato a poco a poco si falsa, la divinazione
delle prime ore non gli si ripete più che a lunghi
intervalli; profeta ed apostolo, pontefice e martire, non può
essere il capitano delle moltitudini, delle quali non ha le passioni
effimere e colle quali gli mancano le affinità irresistibili
della vita. Invece di cogliere i fatti per adagiarsi in essi, bada a
collocarvi le proprie formule e ad attuarvi il proprio sistema:
è un poeta dell'azione che cerca uno scenario al proprio
dramma, un accompagnamento al proprio canto.
Ma la sua influenza sulle anime è irresistibile. Alfieri,
Foscolo, Berchet, Guerrazzi, gli spiriti più ardenti e
sdegnosi paiono larve vicino a lui: egli solo è uomo; la sua
penna gronda sangue, le sue lagrime abbruciano, la sua parola
abbaglia. È impossibile non credere all'Italia, non sentirsi
democratico, non voler soffrire e vincere con lui, dopo averlo letto
o udito. Per quanto insufficienti le sue argomentazioni, e
discutibili i suoi espedienti rivoluzionari, e poco probabile il
disegno totale dell'impresa, e assurda ogni speranza nel risultato,
bisogna credergli e seguirlo. Quindi nel giorno della battaglia
tutti i volontari saranno suoi neofiti; quando si organizzerà
la rivoluzione tutti i partiti politici, che lo tradiranno, saranno
stati educati da lui. Ma allora il temperamento religioso e il genio
poetico tradiranno Mazzini peggio de' suoi medesimi adepti; egli non
saprà essere nè parlamentare, nè diplomatico;
gli antagonismi politici lo coglieranno sprovveduto, le passioni e
gli interessi non si accorderanno nella sua opera; parrà
confuso, incerto, quasi piccolo, finchè il vento della
catastrofe, dissipando il polverio delle quotidiane contraddizioni,
non scopra nella caduta della repubblica romana la più grande
tragedia della storia moderna. Allora Mazzini ne dirà gli
ultimi versi, ed esulando da Roma, dopo avervi distrutto il papato,
apparirà grande quanto S. Pietro, che diciotto secoli prima
vi arrivava esule da Gerusalemme per distruggere Roma pagana e
fondarlo.
Costituendo la Giovine Italia Mazzini afferma l'Italia una e
repubblicana: il voto di Alfieri, di Parini, di Foscolo, di Monti,
di Manzoni, di Berchet, di tutti i poeti si condensa in programma:
l'unità accennata dal Romagnosi, propugnata confusamente dal
Gioia in un opuscolo, non solo si muta in dogma, ma è
finalmente sostenuta con fede incrollabile e con disciplina di
argomenti storici e politici contro tutti i partiti italiani.
Unità e repubblica: dunque guerra a tutta Italia e l'Europa
di allora. Il passato è respinto; non esiste più che
l'avvenire. La logica di Mazzini è tanto meravigliosa di
lucidezza e di passione, quanto deboli le sue proposte per
concretare la rivoluzione. Le antinomie della sua natura religiosa e
rivoluzionaria peggiorano la sua già debole posizione.
Rivoluzionario come Robespierre e Danton, non dovrebbe pensare che a
distruggere, sbrigliando le passioni e versando veleno sulle piaghe
del popolo: nel suo primo momento una rivoluzione non può
essere che negativa, l'odio solo è la sua formula, tutte le
armi, specialmente se cattive, le servono. Invece Mazzini è
religioso, e mira piuttosto a rigenerare il popolo che ad
emanciparlo: la rivoluzione politica per lui è mezzo, e i
mezzi delle rivoluzioni, essendo fatalmente immorali, gli sfuggono.
Egli non pensa nemmeno alla possibilità di giovarsi con
interessi monarchici o aristocratici: non sa blandire le altre
società liberali moderate per assalirle poi: non gli
rimangono dunque che la propaganda degli scritti, la grandezza
dell'idea e l'eroismo della vita.
Nell'esame storico, che egli fa dell'Italia, coglie bensì lo
stato di putrefazione avanzata di tutte le monarchie, ma non
indovina perchè il Belgio vittorioso nella propria
rivoluzione s'imponga un re, perchè la Francia, dopo le
trionfali giornate di luglio, si sottometta a Luigi Filippo,
perchè la Grecia emancipata dal Turco accatti un re in
Germania, perchè la Spagna in preda ad una rivoluzione
permanente non voglia rinunciare alla propria infame dinastia. Per
lui queste contraddizioni delle vittorie repubblicane, che
concludono sempre all'elezione di un re, sono l'opera ribalda di
pochi politicanti: il popolo schiettamente democratico è
sempre stato tradito. Ma chi può tradire un popolo? Chi
imporglisi? Di questa triste verità, che il popolo ancora
dominato dalla tradizione autoritaria non può nè
comprendere nè volere la repubblica, egli nemmeno sospetta:
quindi non suppone che l'Italia, sorpassando la federazione, possa
acquetarsi in una unità monarchica quanto la stessa
federazione distrutta. E questo che era il termine più
prossimo di progresso per allora, e che poi trionfò, gli pare
non solo assurdo ma un regresso. Per lui la conquista d'Italia
operata da una monarchia sarebbe un raddoppiamento di tirannide nel
re e di abbassamento nel popolo.
L'unità è per Mazzini indipendenza, la repubblica
libertà: inutili entrambe e paradossali se non siano unite.
Il programma della Giovine Italia non è dunque quello di un
partito, ma di un sistema: anzi il partito è poco più
di una scuola politica, con questo incalcolabile vantaggio sulle
altre di essere una scuola in azione.
La nuova società si sviluppò vivacemente: i fratelli
Ruffini, l'uno immortalatosi col suicidio, l'altro più tardi
nelle lettere, corrispondevano da Genova con Marsiglia; da Livorno
aiutavano il Guerrazzi e il Bini benchè per diversità
d'indole poco inclini alla religiosità del nuovo moto: presto
in Francia, in Spagna, in Svizzera, ovunque fossero emigrati,
sorsero le nuove congreghe. Intorno a Mazzini stavano stretti il La
Cecilia, il Modena moderno Roscio, il Campanella, il Benza ed altri.
Il loro giornale, presto guerreggiato da Luigi Filippo, accontatosi
colla santa alleanza per ottenere il proprio riconoscimento, dovette
celarsi ed uscire di contrabbando. Tale lotta drammatica fu
sostenuta dai giovani collaboratori con virtù pari
all'ingegno.
La società, attraverso il misticismo un po' vuoto di formule
morali e religiose, ricopiava nell'organizzazione segreta le
sètte antecedenti, solo diminuendone la teatralità
delle iniziazioni: il suo motto «ora e sempre» valeva la
più bella delle odi patriottiche; la sua bandiera bianca
rossa e verde, che diventò poi nazionale, era dono della
duchessa Trivulzio, donna illustre per ingegno e per amori anche
più illustri, e da un lato recava «Libertà
Uguaglianza Umanità», dall'altro «Unità ed
Indipendenza». Vi erano due gradi nella società,
iniziato e propagatore, poi un giuramento lirico come un inno e
rettorico come una declamazione, segni di riconoscimento, gerarchie
di congreghe, tutto un organismo imitato dalla carboneria. Scopi
della società erano la repubblica una ed indivisibile, la
distruzione dell'alto clero per sostituirvi un semplice sistema
parrocchiale, l'abolizione di ogni aristocrazia, la promozione
illimitata della pubblica istruzione, una specie di nuova
dichiarazione dei diritti dell'uomo, considerando transitori tutti i
governi non repubblicani.
I mezzi d'azione consistevano nell'unanimità dei propositi,
nella propaganda fra il popolo, nell'armamento di ogni confederato,
pel quale era già stabilita l'assisa, con previdenza
teatrale, nella speranza di costituire bande e di sedurre milizie
regolari.
Evidentemente la nuova società non era un gran progresso
sulle altre, nè come organismo nè come mezzi, ma il
suo programma politico, sceverato dal paralogismo religioso, era una
rivelazione. Per la prima volta in Italia intenzione,
volontà, concetto, disegno, tutto era schiettamente
democratico. Italia e repubblica, unità e libertà; il
resto era romanticismo del tempo e che il tempo avrebbe guarito.
Mazzini stese il programma, dichiarando guerra a tutti i principi
italiani e indirizzandosi al popolo. La nuova idea utopistica si
divulgò colla rapidità di un uragano. Le declamazioni
letterarie di tutti gli altri scrittori aiutavano: si poteva temerne
impossibile l'applicazione, non ricusarsi a sperarla. I principi
risposero male all'attacco, calunniando e perseguitando i nuovi
rivoluzionari, che la persecuzione abbellì e
fortificò. Il giornale, spedito con ammirabili sotterfugi, fu
ricevuto e diffuso con rischi di morte; Mazzini grandeggiava di
stile, sfolgorando nella passione delle battaglie e badando a
scendere in campo davvero con una spedizione nell'alta Savoia. Le
simpatie dell'Europa rivoluzionaria si rivolgevano a questa Giovine
Italia, che nel proprio slancio poetico comprendeva già il
problema della libertà europea in quello della liberazione
italiana; le vecchie sètte liberali erano screditate
dagl'insuccessi patiti e senza idee, le corti più odiate che
temute, tutti i loro governi senz'altro programma che la reazione.
Il giornale della Giovine Italia dichiarò i sottintesi e
compiè le reticenze degli scrittori, che rimasti in patria
dovevano per forza conservarsi guardinghi: la sua sfida alla
coalizione monarchica inorgoglì l'oppressa dignità di
tutti gli italiani. Un uomo solo aveva osato dire e fare quello, cui
un'intera nazione non era bastata. Il tono mistico di Mazzini,
concordando colla religiosità della reazione cristiana
succeduta alla rivoluzione francese, rendeva più accette le
arditezze della sua democrazia; il suo coraggioso abbandono di ogni
spirito regionale sollevava le anime dal peso di una tradizione,
nella quale l'idea era morta. Se i governi non si sentirono
istantaneamente scrollati dalla nuova setta, avvertirono però
subito la giustezza terribile della nuova propaganda, senza potervi
riparare efficacemente. La stessa debolezza del partito mazziniano
ad agire lasciava più libera l'espansione delle sue idee,
quasi non fosse che una propagazione letteraria. L'irritazione delle
vecchie sètte liberali, spodestate dal favore crescente di
questa nel popolo, bastò a condannarle nel sentimento
generoso della gioventù.
Mazzini intanto facevasi nel giornale eco di tutti i lagni d'Italia,
denunciando le infamie delle polizie e trattando ogni sorta di
questioni; rimbeccava la gazzetta del duca di Modena, discuteva con
Sismondi, allora riverita autorità, e passava oltre;
annullava con critica superba di sdegno patriottico tutti i capi
delle passate rivoluzioni, affermando nella propria idea della
repubblica italiana il segreto di una imminente vittoria. Ma
sopratutto parlava di popolo col popolo, che nessuna setta aveva
ancora degnato di calcolare come elemento rivoluzionario; predicava
una democrazia, che solo nelle masse poteva ottenere il proprio
trionfo, perchè esse sole erano il popolo. Quindi, svisando
storia e letteratura nazionale con una incomparabile sofistica,
sincera a forza di essere passionata, mostrava a tutte le epoche il
principio della libertà e della unità italiana e
repubblicana come anima del popolo e di tutti i grandi, denunciava
combattendole le fatalità tiranniche della monarchia e del
papato, difendeva il cristianesimo e lo epurava, proponeva e
stringeva alleanze a modo dei governi colla Giovine Allemagna e
colla Giovine Francia, spiegava la missione degli individui e dei
popoli in un vangelo contro il quale nessuna critica poteva
prevalere. Naturalmente i liberali moderati ricalcitravano, ma i
loro propositi troppo prudenti e le loro idee di federazione fra i
principi italiani, egualmente utopistiche che l'immediata repubblica
di Mazzini, non potevano lottare con questa nell'animo bollente
della gioventù. Poi Mazzini tuonava alto sull'Europa, ed essi
balbettavano appena, e nessuno di loro era ancora abbastanza
italiano per posporre l'interesse della propria provincia a quello
della nazione.
Nessuna figura di principe, di prete o di ribelle era allora in
Italia che potesse rivaleggiare con quella di Mazzini: la sua
popolarità divenne quindi immensa. Non si discusse, non si
temè, non si sperò che in lui: la coalizione
monarchica, guidata da Metternich, aiutata dal papa e da Luigi
Filippo, non bastava contro questo profugo, di cui ogni scritto era
una battaglia e ogni battaglia una vittoria.
Allora che il giornalismo in Italia era meno che rudimentario,
l'opera di Mazzini, che vi discendeva collo splendore di una
letteratura più potente di quella del Guerrazzi stesso e del
Manzoni, avendo dell'uno una passione anche più nobile e
dell'altro uno stile anche più vivo, ebbe i trionfi
irresistibili del più originale fra i capolavori.
Forse la prima volta in Italia uno scrittore fu acclamato anzi che
la critica lo avesse accolto; ma anche questa volta Mazzini, creando
la prosa moderna, ripetè il miracolo di Machiavelli, che
aveva trovata la propria dimenticando nella passione delle idee i
lenocinii e le tradizioni delle scuole letterarie.
Capitolo Quinto.
Conati ed imprese rivoluzionarie.
La spedizione nella Savoia.
La rivoluzione dell'Italia centrale aveva lasciato nei patriotti un
fermento, del quale Mazzini fu pronto a profittare. Oramai si
cominciava a comprendere che i moti rivoluzionari non potevano
essere nè spinti nè diretti da principi, e che senza
un largo concorso di popolo non sarebbero mai per riuscire. Il nuovo
programma della Giovine Italia aveva almeno il vantaggio di
principii e di obiettivi fin troppo chiari: anzichè sognare
l'indipendenza da impossibili combinazioni diplomatiche, la
domandava a tutte le virtù degli individui e del popolo. Se
la forma delle passate rivoluzioni era stata l'insurrezione, quella
della imminente non sorpasserebbe naturalmente la sommossa,
giacchè la grossa massa, popolare, incapace di assecondare la
spinta rivoluzionaria, abbandonerebbe daccapo i nuovi ribelli.
Il lavoro di ricostituzione nella coscienza nazionale procedeva
ancora troppo lentamente, malgrado la generosità dei molti
che vi cooperavano, perchè il problema della patria
indipendenza si presentasse solubile. L'Austria, immensa ed
agguerrita, teneva l'Italia inerme tra le forti branche; tutte le
corti italiane per codardo ed inevitabile egoismo si stringevano
sotto il suo protettorato, preferendo la propria miserabile vita di
prefetture imperiali ai pericoli di una rivolta, nella quale
avrebbero dovuto assoggettarsi al popolo. Questo sentiva
bensì gli incomodi materiali del dispotismo indigeno, ma la
sua inesauribile pazienza di schiavo vi resisteva senza troppo
dolore, mentre non intravedeva affatto le necessità ideali di
una rivoluzione contro eserciti addestrati nelle armi e di tutte le
armi muniti. L'antico rancore contro i privilegi dei grandi e quella
poesia indefinibile, che lo attrae sempre verso l'avvenire, non
bastavano a scuotere l'enorme massa della sua moltitudine entro
l'àmbito angusto dei mestieri. Anzi nelle campagne, ove
l'opera del clero era più efficace e più spontanea la
superstizione, i villani odiavano i liberali come eretici, godendosi
per egoismo avaro di mezzadri o invidia implacata di braccianti alle
persecuzioni contro i padroni: a Napoli la plebaglia dei lazzaroni,
sempre ostile ai signori, gettava con selvaggia compiacenza i propri
lazzi sui condannati politici, come scorgendo nel feroce trattamento
loro usato dal governo una tarda parificazione a quello sempre
sofferto da essi.
D'altronde gli eserciti napoletani e piemontesi, quand'anche i loro
re si fossero decisi alla rivoluzione, non avrebbero bastato contro
l'Austria, potenza militare che Napoleone stesso non era riuscito a
fiaccare. Mai l'Italia era stata militarmente in peggiori
condizioni: il breve addestramento delle guerre napoleoniche,
producendovi capitani di valore, non aveva creato nella penisola una
scuola militare capace di mantenervi così grande tradizione.
I principi richiamati dalla ristorazione si erano affrettati ad
espellere i migliori soldati come sospetti giustamente di
ostilità, riconfermando negli antichi gradi l'aristocrazia
delle proprie corti: d'allora non più battaglie. Il nemico
era diventato la rivoluzione, e l'esercito un accessorio della
polizia: quindi fra esso e il popolo quella diffidenza fra
cacciatore e selvaggina, che è sempre passata fra popolo e
polizia.
Dopo la rivoluzione del '31 la reazione crebbe: il duca di Modena,
la più forte testa di tiranno che fosse allora in Italia,
spingeva al terrore; Ferdinando di Napoli, il più lontano e
il più saldo sul trono, affidava il governo al truce Del
Carretto; a Roma Gregorio XVI, energica e biliosa natura di teologo,
riassumendo con vigore la rilassata autorità, si preparava a
una suprema battaglia contro il liberalismo religioso che minacciava
di sommergere Roma per purificarla; Carlo Alberto, arrampicatosi a
stento sul vecchio trono dei Savoia, s'accingeva a cancellare le
tracce sanguinose del proprio liberalismo giovanile con altro
sangue, inebriandosi del nuovo potere di re, che la libertà
da lui tradita minacciava nuovamente; l'Austria, proseguendo
nell'astuta politica, dopo aver diviso amministrativamente la
Venezia dalla Lombardia quasi a risuscitarvi le antiche
rivalità, ed ingrossata Verona a massimo centro militare e
come a terza capitale, vigilava con una polizia ammirabile di
disciplina ed aiutata nell'opera da tutte le polizie d'Europa.
La situazione era disperata: Mazzini, temperamento lirico e
religioso, trovò appunto in essa la propria forza.
Vessato, calunniato d'assassinio dalla polizia francese, quindi
espulso, egli dovette riparare in Svizzera. L'opera della Giovine
Italia si dilatava: in Lombardia, nel Genovesato, in Toscana, negli
Stati Pontifici il fervore cresceva mirabilmente; più molle
si mostrava la Venezia, più remoto e retrivo restava il
Napoletano, malgrado il suo solito numero miracoloso di congiurati.
Si pensò ad agire; i pareri oscillavano naturalmente: si
prescelsero a campo le Provincie sarde. Giuseppe Garibaldi,
arruolatosi a Nizza nella Giovine Italia, proponeva coll'infallibile
istinto dell'uomo di guerra, di cominciare da Genova. Mazzini
sostenne una invasione di esuli nella Savoia. Ma le trattative
tiravano in lungo; le polizie sarda ed austriaca, sempre vigilanti,
poterono per mezzo di spie scoprire la trama; Carlo Alberto, reso
alacre dalla paura e feroce dalla coscienza degli antichi
tradimenti, moltiplicò gli arresti, denigrò nella
spaurita immaginazione della gente i cospiratori, condusse i
processi con inaudita perversità; le condanne di morte e le
esecuzioni capitali fioccarono; vi furono condannati nel capo, solo
per aver letto il giornale della Giovine Italia, altri per aver
avuto sentore di qualche trama e non averla tosto rivelata: alla
morte si aggiunsero sevizie come pel povero Vochieri. Jacopo Ruffini
arrestato a Genova, dalla quale aveva generosamente ricusato di
porsi in salvo, si suicidò scrivendo col proprio sangue sulle
mura del carcere: «la mia vendetta ai fratelli»; l'abate
Gioberti fu esiliato. Mazzini condannato in contumacia e dichiarato
nemico della patria. Carlo Alberto, ubbriacato dal sangue, conferiva
le maggiori onorificenze ai carnefici: il conte Galateri, peggiore
di tutti, ebbe persino il collare dell'Annunziata, che concede di
salutare il re col nome di cugino.
A Milano, quasi contemporaneamente (1833), l'Austria sventava un
disegno di cospirazione iniziato specialmente da un Albèra e
un Tinelli. Il commissario Zajotti, scribacchiatore venduto
all'Austria, infellonì, e nullameno parve mite in confronto
del Galateri: diciannove furono i condannati a morte, ma a tutti fu
commutata la pena nel carcere; così l'Austria dava lezioni di
benignità al Piemonte. Napoli non si mosse: il Del Carretto
arrestò un Leopardi e un Dragonetti, sospettati capi di vasta
congiura, ma poi, non scoprendosi altro, le pene si limitarono a
pochi esigli.
Veramente queste repressioni furono piuttosto una mossa poliziesca
che un riparo contro un disegno di cospirazione politica. Nessun
accordo di mezzi o di ordini aveva riunito i vari centri di
congiura: erano impazienze che si scoprivano quasi spontanee prima
di sapersi affermare, sogni d'imprese che ondeggiavano nella
penombra romantica delle conventicole rivoluzionarie, senza
precisarsi nemmeno nel concetto dei capi.
Quindi un tentativo colle armi parve a tutti come inevitabile
rivincita. Mazzini, trasferitosi a Ginevra e accontatosi coi
repubblicani di Francia per esserne spalleggiato, raccolse una mano
di esuli polacchi, come primo e miglior nucleo di battaglia; poi vi
si aggiunsero tedeschi, svizzeri, quanti italiani erano in Ginevra.
Si sperava di sollevare la Savoia; e si era deciso che, vincendo, si
sarebbe lasciato al voto della popolazione di serbarsi all'Italia o
dichiararsi francese o congiungersi alla confederazione Svizzera.
Mazzini consigliava quest'ultima soluzione: così la prima
battaglia vinta dai patriotti avrebbe tolto all'Italia una
provincia. Ma, infervorato nel pensiero di una ricostituzione
europea, Mazzini, riconoscendo la Savoia non italiana, intendeva
farne una federazione alpina colla Svizzera e il Tirolo tedesco come
antemurale d'Italia contro la Francia e la Germania: buona idea di
filosofo della storia, ma allora grosso errore politico, che avrebbe
indebolito contro l'Austria il Piemonte, offendendo le
suscettibilità italiane sull'integrità del territorio
politicamente nazionale. Si congiurava in un albergo; mancavano i
denari e le armi. I pareri divisi fra i maggiorenti imposero forse
per invidia a Mazzini che generale dell'impresa fosse il Ramorino,
avventuriero ritornato dalle guerre di Polonia con molta ma dubbia
fama. Mazzini accusato d'orgoglio, perchè avverso a questa
nomina, pianse come un poeta e se la lasciò imporre.
Senonchè Ramorino, ottenute le prime 40,000 lire per formare
la colonna, fuggì a Parigi a dissiparle nei bagordi;
passarono altri mesi, le spie formicolavano fra i cospiratori;
Buonarroti, l'inflessibile carbonaro, si dichiarava improvvisamente
avverso all'impresa; finalmente Ramorino tornò (1834), ma,
accontatosi forse colla polizia francese interessata al disastro
della spedizione, la condusse così male che finì ad
una ridicola dimostrazione militare a Bossey e ad Annemasse.
Mazzini, che sospettava giustamente il generale di tradimento, non
ebbe l'energia di cacciarlo e mettersi al suo posto: poi, sorpreso
dalla febbre, quasi ne morì. La sua prima spedizione aveva
ripetuti peggiorandoli tutti gli errori da lui rinfacciati ai capi
rivoluzionari del '21 e del '31: il popolo della Savoia non si era
mosso, i volontari non si erano battuti, il generale aveva tradito;
uno sbandamento aveva finito di disonorare un'impresa assurda nel
disegno e nei mezzi. Bisognava insorgere a Torino o a Genova, meglio
in questa che in quella per la vecchia tradizione republicana,
sorprendere la corte, aver complici buona parte delle guarnigioni, o
non insorgere perchè il popolo delle campagne non avrebbe
certo secondato, come non secondò, l'insurrezione.
Mazzini invece s'illudeva sullo spirito popolare: l'energia e la
fecondità del suo apostolato derivavano appunto da questa
illusione, che lo rendeva così impari ad una vera azione di
guerra o di sommossa.
Contemporaneamente il moto, che Garibaldi intendeva eccitare a
Genova, veniva impedito dalla novella del disastro in Savoia,
cosicchè egli potè appena scampare travestito da
contadino e inseguito da una condanna a morte. Mazzini, abbandonato
da quasi tutti gli amici, svillaneggiato dai gazzettieri, accusato
di viltà dai settari e di tentato regicidio dalla corte
francese mediante la più ignobile falsificazione di
documenti, resistette eroicamente, rispondendo a tutti con un
ammirabile opuscolo, Fede ed avvenire; ma, sottoscritto indi a poco
in Berna il patto della Giovine Europa, dovette esulare a Londra. La
Svizzera lo espelleva, cedendo finalmente alla pressione di tutte le
diplomazie europee. Gli altri si dispersero: Nicola Fabrizi e
Manfredo Fanti andarono a combattere in Spagna, Garibaldi
valicò l'oceano per conquistare in America la più
originale gloria di soldato in un secolo, che, cominciando con
Napoleone, doveva chiudersi con Moltke.
La catastrofe della spedizione in Savoia rinforzava il partito dei
riformisti liberali, togliendo a molti unitari la fede di una
possibile iniziativa italiana. Il giudizio del Buonarroti, inspirato
allora da troppa passione francese e giudicato empio da Mazzini
nella bocca di un italiano, che l'Italia non potesse muoversi se non
dietro la Francia antesignana della rivoluzione in Europa, era tanto
giusto che tutte le rivoluzioni susseguenti lo verificarono. Una
capacità di iniziativa politica nelle condizioni d'Italia vi
avrebbe supposto un popolo così fortemente temprato e
intensamente rivoluzionario, da non avere prima accettato senza
guerra il mal governo di tutte le proprie corti.
Il moto rivoluzionario italiano era bensì spontaneo, ma,
subordinato al francese, non trascinava ancora che la parte migliore
e meno numerosa della borghesia.
Nullameno l'espansione liberale non si arrestava: il numero delle
società politiche cresceva; a Milano si costituiva la
Pantenna, mascherandosi d'intenzioni carnevalesche; Fabrizi fondava
la Legione Italiana a Malta, reclutandola fra i soldati che
specialmente avevano combattuto nelle Spagne; il carbonarismo
riformato teneva centro a Pisa, i Veri Italiani a Livorno. Per
contro i governi cercavano di stringere altre sètte: se ne
tentò una borbonica col nome di Ferdinandea, persino un'altra
austriaca, ma indarno.
Le condizioni politiche d'Italia, malgrado il lento formarsi di una
nuova opinione politica, restavano le stesse, anzi parevano
peggiorate in una più stretta lega di tutte le corti
coll'Austria. Quindi ogni tentativo di rivolta doveva fatalmente
rivelarsi altrettanto falso nel disegno che impari nei mezzi, e
cadere abbandonato dal popolo. L'operosità delle sètte
segrete, mirabile di ardire e di costanza, non poteva sostituirsi
allo spontaneo accordo del popolo per fare una rivoluzione: i
settari o precursori, o martiri, o arruffoni, secondo l'indole
dell'animo, finivano a costituire una specie di segreto patriziato
politico, che, vivendo separato dalla moltitudine, non ne
rappresentava i bisogni e non ne comprendeva lo spirito. L'orgoglio
di un principio politico superiore ai tempi e alle masse, lo stesso
nobile rischio della vita, prolungato per anni e raddoppiato ad ogni
ora da circostanze drammatiche, rendevano i cospiratori meno adatti
che mai ad acquistare quella cieca confidenza del popolo così
necessaria in ogni vera insurrezione. D'altronde il popolo non
soffriva abbastanza per rivoltarsi contro gli antichi padroni, e la
borghesia non voleva arrischiare di soffrire per un meglio, del
quale non sentiva la grandezza che nell'immaginazione. Così,
malgrado le declamazioni degli scrittori liberali, la vita nazionale
in Italia non appariva agli stranieri molto peggiore che nei tempi
andati, mentre qualche miglioramento materiale vi si veniva pure a
grado a grado introducendo: la passione rivoluzionaria invece vi si
mostrava così scarsa che non uno solo dei tanti suoi moti
aveva saputo arrivare all'onore di una piccola battaglia. Questa
dolorosa contraddizione fra tanto bollore di frasi e tanta freddezza
di atti, tra la falange sacra degli scrittori e dei cospiratori che
gettavano ogni fiore della loro anima sull'altare della patria per
purificarlo dal contatto dei carnefici, e il popolo che non dava un
grido nemmeno quando i martiri penzolavano dalle forche o i ribelli
si presentavano audacemente armati alle porte della città
urlando: Rivoluzione!, impressionavano sinistramente gli stranieri,
attirando sull'Italia dispregi, che il genio e l'orgoglio di pochi
grandi non bastavano a respingere. E l'Europa si ricordava che la
Spagna sola era bastata contro Napoleone vincitore dell'Europa, che
la Russia si era bruciata volontariamente perchè il suo
invincibile invasore perisse per mancanza di ricovero, che la Grecia
piccola come un villaggio e non più numerosa aveva resistito
per cinque o sei anni a tutto l'impero turco: ricordava le lotte non
antiche di Fiandra e la recente vittoria del Belgio, l'eroica
caparbietà della Polonia, nella quale ogni insurrezione
vampeggiava in guerra e ogni guerra s'insanguinava di battaglie
senza paura e senza pietà; e, ascoltando i garriti d'Italia e
vedendola sempre così inerte, sorrideva d'insultante
compassione.
Nullameno l'eroismo italiano, per essere piuttosto individuale che
collettivo, non era meno bello, e prometteva attraverso una tragedia
ancora incompresa una incomparabile originalità di epopea.
Infatti, mentre l'accordo delle corti coll'Austria moltiplicava
all'infinito le difficoltà di una qualunque vittoria per i
cospiratori insorgenti, e la condiscendenza dell'Europa alla
diplomazia austriaca toglieva ogni speranza in altra iniziativa
europea, e lo stesso partito liberale, scindendosi in moderati e
rivoluzionari, condannava fra le approvazioni dei più
qualunque impresa ribelle col denunciare alla pubblica esecrazione i
capi delle sètte, che, riparati nell'esilio o nell'ombra del
mistero, votavano alla morte i più giovani adepti, il
coraggio drammatico della rivolta aumentava tutti i giorni. Una
nuova generazione di rivoluzionari cresceva, i quali, anzichè
essere spinti dai capitani, li trascinavano essi medesimi
all'azione. Quella poesia alta e severa dei migliori libri animava
molte giovani vite, tirandole alla morte attraverso un pessimismo,
nel quale il martirio riconfermava con nuove speranze le eterne
verità dell'ideale. Come all'inizio di tutte le epoche
rivoluzionarie, pullulavano i precursori: l'incertezza politica dei
principii, che rendeva così contraddittori e spesso
così assurdi i libri politici del tempo, scomponeva
naturalmente anche i disegni delle cospirazioni, riducendoli
piuttosto a scene drammatiche che a canti epici, traendoli ad
appagare le infrenabili baldanze dei forti esasperati dall'ignavia
dei più, anzichè a concordare le molte e disseminate
forze per la penisola. L'oligarchia dei comitati sparsi in tutte le
città, intendendo a combinare i mezzi, finiva più
spesso a sperperarli per invidie e gelosie reciproche dei capi: le
diffidenze delle molte spie intralciavano ogni accordo; nessuna
classe di cittadini, nessuna corporazione di mestieri, nessuna
provincia, nessuna città, nessun villaggio era unanime ad
insorgere, pronto a capitanare una vittoria o a seppellirsi sotto la
rovina di una sconfitta. L'iniziativa restava quindi individuale e
romantica. Peggio ancora l'ignavia generale era siffatta che persino
il danaro mancava sempre per ogni più piccola spedizione; e
poco sarebbe bastato a ritentare quella fallita da Mazzini nella
Savoia, che non aveva costato più di 50,000 lire.
Stato generale della penisola.
Così passarono quasi dieci anni, nei quali nessun fatto
politico potè riempire di sè medesimo la vacua e
malinconica storia d'Italia.
Nella sempre mite Toscana la reazione seguitava ad insinuarsi,
evitando i rigori e contrapponendo alla febbre delle nuove idee i
narcotici di una politica modellata sull'amministrazione d'una buona
fattoria. Ma l'influenza del Fossombroni, ostile all'Austria per
antico orgoglio paesano, decresceva sempre più nell'indirizzo
del governo, quantunque il popolo si conservasse quieto e le stesse
idee liberali inclinando alla federazione non minacciassero
seriamente nè la dinastia nè il granducato. Le seconde
nozze del granduca Leopoldo con Maria Antonietta di Napoli, e la
nascita del principe ereditario, furono quindi solennizzate a
Firenze con grande favore da tutti per abborrimento all'Austria, cui
la Toscana sarebbe scaduta allo spegnersi della dinastia. Ma questa,
sentendosi istintivamente separata dalla vita nuova d'Italia,
guardava a Vienna come al gran centro della reazione e del
dispotismo. Chè se l'agitazione di molti liberali toscani in
favore del Walewski, figlio naturale di Napoleone, per farlo re
costituzionale d'Italia, concludeva ad un povero manifesto
incompreso dal popolo e ridicolo per coloro che l'intendevano,
cosicchè bastarono al governo poche ammonizioni severe e
pochi sfratti per trionfarne, nullameno il granduca come ogni altro
sovrano d'Italia si accorgeva tratto tratto di non essere più
sicuro in Toscana come il grande avo. Infatti quanti in essa
pensavano, anche rivolgendosi al governo per invocarne riforme, le
oltrepassavano, toccando quello stesso ideale de' rivoluzionari da
loro oppugnati. Nella propria maggior perfezione d'istituti e di
vita la Toscana era già arrivata da tempo a un punto che ogni
vera riforma avrebbe dovuto esprimervi il principio rivoluzionario
della sovranità popolare.
In Piemonte i pochi senati di Torino, di Casale e di Nizza eletti
dal re non avevano che scarse e contraddittorie attribuzioni
giuridiche: vigevano ancora le antiche legislazioni, producendo
insoffribili contrasti di giurisprudenza e di sentenze. I
governatori generali esercitavano l'autorità militare e
politica; ovunque apparenza e affettazione guerresca: arma
più odiata i carabinieri. Ma la polizia sola riassumeva tutto
il governo, concedeva e toglieva, dietro anonime ed irreparabili
informazioni, impieghi, onori, cattedre, passaporti; rovistava
cinica e bugiarda nelle famiglie, violava segreti di lettere e di
professioni, imprigionava per sospetti e liberava per capricci,
comprava anime e corpi, vendeva infamie e tradimenti. Una dolorosa
disformità amministrativa rendeva le provincie troppo vaste
od anguste, soggette o libere dall'imposta prediale, fornite o prive
di censimento; in alcune duravano ancora privilegi antichissimi e
diritti regali. Più antiquata e meno italiana fra tutte la
Savoia, culla della dinastia e ad essa vivamente affezionata
malgrado un'irresistibile tendenza francese. Benchè le
imposte non fossero gravi, era grave la miseria peggiorata da forti
dazi e mal ripartite gabelle; commercio ed industria rantolavano
stretti nelle fascie della tradizione, ignorato il credito,
giudicate utopie ogni nuova grande opera o istituzione, l'alta
burocrazia ignorante, lenta l'intermedia, bruta la bassa.
La censura civile ed ecclesiastica, assurda ed intrattabile nella
sofisticheria, v'inceppava pensieri e scritti, così che
nessuno dei migliori e più moderati libri stampati in
Lombardia sarebbe stato permesso a Torino: non ultima
superiorità questa dell'Austria sul Piemonte. L'aristocrazia
altezzosa e ligia al clero spregiava plebe e popolo, pensatori e
produttori, liberali d'ogni colore e valore, precipitandosi con
voracità d'arpie sopra ogni carica civile e militare ben
retribuita o capace di dare adito a corte. L'antico orgoglio
guerriero animava ancora i suoi membri migliori, ma, ridotta a
cenacolo di parassiti e di privilegiati, non vedeva più nella
nazione che se stessa e nel re tutto il diritto e tutta
l'autorità. Quei pochi fra essa, tratti dall'ingegno alle
lettere o dalla forzata pratica di governo verso le idee moderne,
considerava quasi transfugi e puniva con insani dispetti. La
borghesia, laboriosa e scarsa d'ingegno, ignorava per mancanza
d'esperienza la cosa pubblica e odiava l'aristocrazia bersagliata
dal popolo con epigrammi senza veleno.
Carlo Alberto, ambiguo nelle idee e nei sentimenti, ora secondava il
moto latente ed universale del progresso, ora ricalcitrando si
impuntava per arrestarlo. Rispettoso agli averi altrui, era
abbastanza savio amministratore; pedante e rigido nel dovere
materialmente precisato, altero sino al ridicolo poichè alla
grandezza dell'orgoglio gli mancava quella dell'ingegno, non
ammetteva ai propri circoli che nobili autentici: nemmeno il
segretario generale del governo, massimo fra tutti gl'impiegati,
poteva penetrarvi. Leggeva e conosceva gli scrittori paesani. Tratto
dalla sfrenata e sentimentale ambizione verso la marea delle idee
per esserne sollevato ben alto, s'atterriva poi subito al dubbio di
perdervi qualche briciola del proprio assoluto potere. Mentre nella
prima giovinezza era stato galante e scioperato, ora un bigottismo
non senza rimorsi lo spingeva a digiunare perennemente e a portare
sulle vive carni un segreto cilicio. Della propria ammalata
incertezza nelle opinioni si scaricava sulla responsabilità
dei ministri, riunendo in un solo ministero i più disparati
caratteri e le più opposte tendenze politiche. Il suo odio e
al tempo stesso la sua paura erano verso l'Austria e la
libertà. Nullameno il moto lo trascinava. Nel 1836
abolì la giustizia feudale nella Sardegna togliendovi i
privilegi di fòro e d'asilo e la servitù del pabarile,
peste dell'agricoltura, sradicando d'un sol colpo tanti vecchi abusi
che i lagni dei danneggiati superarono le stesse ovazioni del
popolo. Nel 1837 concesse finalmente i codici: nel civile
unificò la giurisdizione cassando gli statuti locali, ed
abolì le istituzioni fidecommissarie, che poi ripermise in un
editto; nel criminale, ricalcato in parte sul francese e
stupidamente spietato d'intolleranza religiosa, prodigò ogni
sorta di pene, specialmente quella di morte, conservando le
immunità ecclesiastiche e gli arbitrii dei giudici,
proclamando obbligatoria la delazione sino contro i parenti nei
delitti politici; ma non promulgò il codice di procedura
così necessario alla buona applicazione degli altri. In
quello militare, per istinto di despota e forse anche per nordica
imitazione, stabilì la pena delle verghe sino a mille e
ottocento colpi, mentre poi spendeva oltre un terzo delle rendite
dello stato per la costituzione dell'esercito. Malgrado
l'incomparabile postura del porto di Genova implacata nell'odio
contro il Piemonte, la marina sarda rimase così povera che
parve gran fatto quando una sua nave da guerra fece finalmente per
la prima volta il giro del globo. A tale era discesa la grande
nazione marinara che nel più fitto medio evo trasportava
già le crociate in Terra Santa.
Qualche migliorìa ottennero pure le due università di
Genova e di Torino, ma Carlo Alberto non vi concesse mai cattedra di
storia, forse intendendo così di vietare a questa il diritto
di giudicare anche i re morti; e negò persino a Silvio
Pellico, malgrado la sua tanto acclamata conversione al più
rigido cattolicismo, quella di eloquenza. Il consiglio di stato,
eletto per discutere bilanci, contratti e ogni altra operazione di
finanza, non aveva alcuna autorità nel governo; la statistica
non esisteva o quasi, e così il catasto, onde si continuava
l'imposta personale senza riguardo alla condizione del contribuente.
Nonpertanto le finanze erano così floride che secondo il
conto del Revel (4 marzo 1848) le rendite superavano le uscite, e il
debito di 95 milioni vinceva di poco l'entrata d'un anno.
Sui confini del Piemonte l'Austria, potenza eminentemente
conservatrice, accettava i progressi materiali del tempo senza
confessarli e vietandone ogni discussione. Il suo governo era
burocraticamente un modello a paragone di tutti gli altri d'Italia,
ma, per quanto vago di centralizzazione amministrativa, non
pretendeva all'uniformità e rispettava molti costumi ed usi
locali. In esso l'imperatore era tutto e la polizia unico mezzo; si
provvedeva sempre per decreto imperiale; il popolo non poteva
chiedere che per suppliche; i diritti civili chiaramente definiti e
conservati incolumi, quelli politici non riconosciuti che dal codice
criminale che li colpiva tutti con procedure arbitrarie e pene
feroci. L'antico ordinamento municipale sopravvissuto alle rovine
rivoluzionarie ma ridotto a mera burocrazia, funzionava con robusta
regolarità, senza permettere mai alla vita paesana di
rivelarvisi nell'originalità dei propri bisogni. Milano,
nuova capitale austriaca in Italia, brillava d'ingegni piuttosto
trascurati che malmenati dal governo: la censura vi era meno stupida
che altrove, florido il commercio dei libri esteri, frequenti i
congressi scientifici, abbastanza viva l'istruzione, i gesuiti
ammessi ma sottomessi al clero ed al governo; nessuna eccezione di
fòro o influenza di sagrestia. Il paese naturalmente florido
prosperava materialmente sotto un governo che, conculcando ogni
ispirazione nazionale, favoriva per sapiente egoismo d'economia
politica lo sviluppo delle ricchezze e il perfezionamento
dell'amministrazione: così la Lombardia vantava casse di
risparmio, associazioni industriali e commerciali, eccellenti
strade, buone norme idrauliche e forestali, mentre gli altri Stati
d'Italia, all'infuori della Toscana, soffrivano ancora nell'antica
incuria. Se le prime società ferroviarie nel 1837 vi
fallirono, la colpa fu meno del governo austriaco che delle gelosie
municipali.
Venezia invece, malgrado la sistemazione della sua laguna colla diga
di Malamocco e l'ampliazione de' Murazzi, soccombeva alla
concorrenza di Trieste diventata fatalmente il miglior scalo
austriaco pel commercio orientale.
Se Francesco I a Lubiana aveva detto: «voglio sudditi
obbedienti e non cittadini illuminati», il suo motto
trasformato in programma politico era stato applicato nel
Lombardo-Veneto col massimo rigore. L'eccessiva perfezione
burocratica menava dritto all'automatismo: non si volevano nè
originalità nè varietà, nè
libertà di sorta, quindi si surrogava il sistema italiano di
peso, misura e monetazione col tedesco, s'imponeva al commercio di
trattare coll'impero rinunziando ai propri sbocchi naturali colle
altre nazioni, e vi si creava così un esercito di
contrabbandieri maggiore di quello dei doganieri. Si teneva la
chiesa sottoposta come i comuni, al punto che parroci e vescovi,
nominati sopra informazioni della polizia, non potevano comunicare
con Roma senza il visto di un impiegato provinciale. Nella
coscrizione invece di costituire corpi italiani s'incorporavano le
reclute nei reggimenti tedeschi disseminandole a tutte le
estremità dell'impero, ma concedendo la surrogazione per
denaro: con questo l'Austria evitava di addestrare contro se stessa
un esercito italiano, e l'Italia cansava il disonore d'essere
tiranneggiata da forze proprie.
Morto Francesco I (1835), suo figlio Ferdinando salendo al trono
concesse un'amnistia così insolita nelle abitudini del
governo che in parte vi rimase impedita. Nullameno quando il nuovo
imperatore venne a farsi coronare in Milano, vi furono grandi feste
con tale concorso e vivezza di popolo che stupirono gli stranieri
credenti nel patriottismo italiano, ed umiliarono i pochi grandi
spiriti eroicamente votati alla resurrezione della patria. Ma il
popolo minuto e la plebe delle campagne, anzichè essere
allora ostili all'Austria, dovevano molti anni dopo la grande guerra
del 1859 meravigliare Garibaldi di non poter trarre dalla bocca di
un villano nessuna informazione sul nemico, mentre gli austriaci
apprendevano subito dai contadini tutte le sue.
A Napoli invece le condizioni erano più tristi.
Le lustre di bonomia e di buon governo fatte dal nuovo re Ferdinando
II durarono ben poco: il suo riordinamento dell'esercito, non
essendo che vanità di principe e non mirando a scopo
italiano, divenne un aggravio assurdo per le finanze e scisse ancora
maggiormente il paese già troppo lacerato da tradizioni e
idee antagoniste. Re Ferdinando non vide nell'esercito che una
guardia contro il popolo, e quindi badò a separarnelo con
privilegi: i soldati furono molti, bene armati, abbastanza ben
addestrati, ma senza spirito nè militare, nè
patriottico. La riforma finanziaria, provocata in lui da istinto
avaro e annunciata clamorosamente colla rinunzia ai 360 mila ducati,
che il padre percepiva a titolo di borsa privata per le elemosine, e
colla tassa sugli stipendi degli alti impiegati che giungeva fino al
cinquanta per cento, non ebbe nè criteri scientifici,
nè basi morali. Infatti questa tassa non era che provvisoria
per quindici anni, mentre i grossi impiegati seguitavano a
rubacchiare sugli incerti, somme indefinibili nell'amministrazione e
nell'economia politica, che si attribuivano con ingenuo cinismo. E
siccome il re domandava a tutti i ministri i residui di cassa per
ingrossarne la propria lista civile, i ministri ad ingraziosirsi col
sovrano affettavano turpi sparagni compiendo ogni sorta di ladrerie
nel suo nome. Ma Ferdinando, avidissimo di denaro, credeva assioma
che nessun uomo potesse resistere alla tentazione dell'oro, e
scherzava cinicamente sulla nota disonestà dei propri
ministri come il Santangelo, finendo egli stesso più tardi a
frodare con immane truffa, la quale per poco non gli attirò
guerra dall'Inghilterra e rovinò molti commercianti, la
società delle solfare di Sicilia.
La bigotteria, ingenita nella sua casa e in lui sviluppata da
malvagi educatori gesuiti come l'Olivieri e il Cocle, vescovo di
Patrasso e che fu poi suo direttore spirituale e politico, crebbe
nel matrimonio con Cristina di Savoia sino alle adorazioni d'un
lercio mantello attribuito dal Cocle a sant'Alfonso de' Liguori; ma
queste nozze, che per un momento avevano lusingato le speranze dei
riformisti, i quali vedevano già l'Italia riunita in due
grossi regni del nord e del sud sotto l'alta direzione di Roma,
furono di troppo breve durata. Nullameno bastarono ad introdurre
nella corte maggiore costumatezza e a lenire la ferocia delle
repressioni contro le prime congiure dei Rosaroll e di frate Peluso.
Morta Cristina, e si disse sconciata da uno scherzo brutale del re,
invelenirono a corte le dissenzioni tra fratelli, tutti perversi di
indole, e che produssero quasi una guerra civile: quindi il re
sposò un'arciduchessa d'Austria, per la quale si ridestarono
nelle irritate fantasie napoletane i sanguinosi ricordi di Carolina.
Finalmente lo scoppio del colera (1837) spinse il popolo alla
disperazione, allorchè farneticandosi di veleno propinato dal
governo si vide questo per odio verso la Sicilia, nella quale era
stato proibito persino il monumento a Vincenzo Bellini, invertire
contro di essa ogni misura di precauzione. Vampeggiarono fra
l'enorme funerale tumulti ed insurrezioni prima a Messina poi a
Siracusa e a Catania: Mario Adorno, illustre giureconsulto,
capitanava la rivolta sempre ispirata da ricordi di autonomia e col
grido: Viva la costituzione del 12! La corte fu pronta al riparo:
Del Carretto sbarcò in Sicilia, la sommossa svampò, il
popolo ricadde nel terrore di un doppio flagello. L'inumano ministro
rinnovò le gesta di Fra Diavolo, fucilando, ardendo,
straziando, spingendo l'artistica raffinatezza della ferocia sino ad
ordinare che ad ogni esecuzione di condanne le bande militari
suonassero il tragico motivo della Norma: «In mia mano alfin
tu sei!».
Al Del Carretto succedettero il duca di Laurenzana scempio e
bisbetico, poi il generale Tschudi, che parve umano. Del Carretto
era passato nelle Calabrie e negli Abruzzi, per sopirvi collo
spavento di morte peggiore i tumulti provocati dal colera.
Ma, cessato il colera, le condizioni del regno rimanevano pur sempre
tristi. L'assolutismo della polizia, la dilapidazione della
amministrazione che, se non scomponeva il bilancio governativo,
isteriliva il paese, la poca viabilità, la nessuna istruzione
tranne nei massimi centri ove i gesuiti, di essa padroni, non
bastavano ad imporsi; la nobiltà dispotica e feudale, la
borghesia corrotta e servile, il popolo depravato e selvatico, gli
ordini religiosi ricostituiti in forte massa e disseminati ovunque
come soldati d'una tirannide spirituale e politica senza riparo, i
banditi sempre in armi e così potenti che il governo doveva
scendere con essi a patti, l'isolamento dal resto d'Italia, per la
quale le comunicazioni con Napoli erano più difficili che con
Vienna e con Parigi, tutto concorreva a rendere miserabile un regno,
che la natura sembrava aver prediletto, e sul quale la storia pesava
da migliaia d'anni come una sventura. I pochi miglioramenti promossi
dal governo e vantati da' suoi accoliti, come il primo saggio
italiano di battelli a vapore, il primo ponte di ferro sul
Garigliano, la prima ferrovia da Napoli a Caserta, giocattolo di
sovrano anzichè nuovo tramite commerciale, la prima
illuminazione a gaz, il riattamento del porto di Brindisi, i pochi
favori alla marina mercantile, furono piuttosto capricci di fantasia
regale che propositi politici. Nessuna legge veramente nuova
mirò a curare le vecchie piaghe del paese. Corte e Governo,
considerandosi in istato permanente di ostilità col popolo,
non badavano che a fortificarsi colla corruzione e col terrore. Se
le congiure erano frequenti e moltissimi i congiurati che
corrispondevano colle altre sètte italiane, lo spirito
pubblico napoletano restava nullameno regionale e non poteva nemmeno
nel pensiero acconciarsi ad una rivoluzione, nella quale Napoli
dovesse sottostare al Piemonte. Quindi i moti erano sempre paesani,
provocati da ricordi e perduti da vanità indigene. Non si
aveva abitudine alle armi, per quanto il brigantaggio fosse diffuso;
non si intendeva se non da pochi una rivoluzione unitaria e liberale
che mutasse radicalmente le condizioni della vita napoletana.
La Sicilia, implacabile nell'odio, risognava la propria
indipendenza; sul continente Napoli, sudicia e bella, ricca ed
oziosa, era il cuore e la testa del regno, assorbendovi quasi tutte
le forze ed illanguidendone gli spiriti. Le fantasie pronte ad
eccitarsi inchinavano a mutamenti come a genialità di teatro,
ma la coscienza morale e politica necessaria all'energia disperata
della lotta, il vigore del pensiero indispensabile a comprendere il
fine e a coordinarne i mezzi, mancavano in una popolazione capace
d'improvvisi eroismi e di più subite viltà, tenace
nell'obbedienza malgrado un'incurabile insubordinazione, e chiusa in
se medesima con una vanità egualmente intrattabile nel
principe e nel lazzarone. Se Napoli avesse saputo fare la
rivoluzione contro una corte non difesa che da pochi svizzeri e da
una polizia sempre pronta a tradirla nel pericolo, non vi avrebbe
avuto le stesse difficoltà di Torino, di Milano e di Firenze,
più vicine e soggette all'Austria; lo Stato Pontificio, che
la divideva dal resto d'Italia, sarebbe stato un momentaneo baluardo
contro gli austriaci, e la corte avrebbe piegato a una rivoluzione.
Ma con tanti vantaggi apparenti Napoli doveva esser in Italia il
paese meno rivoluzionario, che non si scosse nemmeno alla guerra del
1859 e si lasciò poco dopo conquistare alla rivoluzione
dall'epica apparizione di Giuseppe Garibaldi.
Roma rimaneva immobile: il suo governo dopo aver resistito alle
influenze diplomatiche, che gli consigliavano nel celebre Memorandum
le più miti ed urgenti riforme, reagiva ancora con Gregorio
XVI. Il nobile tentativo di Lamennais per riconciliare in una nuova
interpretazione il papato colla libertà e ridare così
a Roma un'altra signoria cattolica, fallì contro la durezza
del pontefice, il quale non vi scorse che una eresia. Quindi il
partito liberale-religioso si scompaginò in sul formarsi.
Roma rimaneva come uno scoglio alto sul mare agitato della storia.
Il suo governo si ricompendiava nell'aristocrazia dei prelati,
invariabile, inaccessibile, impeccabile: essi soli disimpegnavano
tutte le funzioni; il clero minuto delle parrocchie, imbozzacchito
nelle abitudini sedentarie di una cura senza pericoli e senza
poesia, non conservava valore. La corte era come nel secolo XV: lo
stesso fasto, la stessa etichetta, le stesse spese, la stessa
amministrazione; ma le entrate erano troppo diminuite restringendosi
a quelle del piccolo Stato. Idee politiche, scientifiche, religiose,
erano in Roma reazionarie: nel 1828 il cardinale Giustiniani vescovo
d'Imola condannava ancora i bestemmiatori alla perforazione della
lingua, accordando dieci anni d'indulgenza ai loro delatori; nel
1834 l'inquisizione di Forlì condannava la negromanzia,
l'astrologia, le cerimonie maomettane e pagane e la madre che offre
il suo seno ad un lattante ebreo; il cardinale Cavalchini aveva
restituito la tortura nei tribunali, il Consalvi l'aveva soppressa,
poco più tardi il Pacca la surrogava col cavalletto. Certo i
costumi fatti più miti e la pubblica opinione impedivano o
limitavano in gran parte l'applicazione di tali idee, ma corte e
governo pontificio non vi avevano ancora rinunciato.
Intanto con lo scemare delle rendite religiose a Roma crebbero
naturalmente le esazioni sul popolo: ogni cardinale menava treno di
re, ogni prelato affettava ricchezza ed importanza di principe.
L'alta nobiltà romana orgogliosa della propria tradizione
oligarchica si mostrava reverente al papato come ad istituzione,
dalla quale riconosceva gradi, privilegi ed immunità di ogni
sorta: qualunque grossa famiglia principesca era come uno Stato
nello Stato che dominava comuni e talvolta intere provincie; ma
nessuna virtù o sapere brillava in questa aristocrazia, che,
drappeggiandosi nella storia di Roma, guardava dall'alto in basso
tutti i patriziati d'Europa. Quella minore delle provincie,
contendendo di primazia col clero ed essendo in maggior contatto col
popolo e colla borghesia, facilmente liberaleggiava, inebriata nella
gloriola di capitanare i cospiratori e di ottenere chi sa quale
importanza paesana. Poca in Roma la borghesia indipendente per
stato, e questa non ligia al governo, ma il resto erano clienti,
impiegati, servitori prelatizi trafficanti di abusi; la curia
servile e pettegola; nulla l'industria e il commercio; senza fede,
senza carattere, tutti. Artigiani e popolo erano più devoti
al pontefice che al principe, alteri del nome romano, ignavi,
rissosi, inetti all'armi e al lavoro. Migliori d'assai i popolani
delle provincie si mescolavano alle sètte, e scaltriti e resi
ardimentosi dal contrabbando promettevano e mantennero poi audacie
di guerra. I contadini quietavano dappertutto, devoti
superstiziosamente al papa, brutali ma rispettosi al sacerdozio,
scontenti delle tasse troppo grevi, incapaci, nonchè di
comprendere, di bramare miglior governo. Il clero minore della
capitale e delle provincie, rozzo ed indotto, mormorava degli abusi
romani piuttosto per invidia di povertà che per sdegno di
coscienza: rilassato nei costumi, inetto a sentire la poesia della
propria missione e a prevedere la tempesta del proprio tempo. Il
clero straniero, carezzato a Roma, peggiore di ogni altro,
più turpe di passioni, fervido di intrighi, ignobile di
propositi, ribaldo nella prepotenza. E in mezzo a questo clero
qualche teologo solitario agitato dal dramma, che dopo Lamennais
doveva travolgere Gioberti affaticando quanti pensatori fossero
allora di cose divine, o qualche curato che schiettezza d'indole e
salda bontà di carattere traevano inconsciamente a
simpatizzare coi cospiratori nella speranza d'un meglio per la
patria e pel popolo.
L'organismo politico era quale un'aristocrazia e un governo di
prelati avevano potuto comporlo: nel comune, centro delle famiglie e
delle proprietà, il governo stesso nominava prima i
consiglieri cernendoli dai ceti dei nobili, dei possidenti, dei
dotti e capi di arte; poi i gonfalonieri, i priori e gli anziani
alle permanenti magistrature municipali. Nella stessa guisa venivano
eletti i consiglieri provinciali scegliendone prima gli elettori:
naturalmente candidati ed eletti erano sempre dell'opinione del
governo. Questo accollò alle provincie e ai comuni le sue
stesse spese maggiori, come strade, canali, porti di mare; e comuni
e provincie subirono. Il governo non governava. In ogni distretto vi
erano governatori laici, carica mista di questore e di
sottoprefetto, che dipendevano dal prelato reggente la provincia; la
polizia era massima funzione politica, ma quella segreta del clero
contrastava e sovrastava a quella palese del governo; non garanzie
pei sospettati, non difese per gli accusati. I tribunali erano
così complicati e strani, che riesce difficile spiegarne
evidentemente il meccanismo: la Sacra Rota ne era come la cassazione
suprema, ma più spesso fungeva da accademia giuridica; la
Sacra Consulta era il massimo tribunale criminale e politico; l'una
e l'altra avevano procedure arbitrarie e si componevano
esclusivamente di prelati. Poi un tribunale minore collegiale per
ogni capoluogo, che giudicava di materie civili e criminali, ma in
quelle erano permessi i dibattimenti, in queste no. Il tribunale
della Sacra Inquisizione e del Santo Uffizio, mantenuti nella
terribilità scenica dei tempi andati, vigilavano,
inquisivano, incarceravano, condannavano segretamente ed
inappellabilmente in materia di dogma e di fede: nullameno, per la
rilassatezza del costume religioso, non era più che uno
spauracchio e un luogo comune per la rettorica rivoluzionaria. Alla
passione religiosa Roma aveva sostituito da un pezzo quella
politica. Gli altri tribunali ecclesiastici mantenevano ai chierici
il privilegio di fòro, mentre lo toglievano in parte ai laici
colla polizia dei costumi e della religione.
Il Sacro Collegio dei cardinali era una specie di senato con voto
consultivo, la prelatura uno stato maggiore politico, dal quale
uscivano governatori e diplomatici, grossi impiegati e grossi
giudici; le finanze erano governate da un prelato tesoriere
insindacabile. L'ultima amministrazione del Tosti sotto Gregorio XVI
fu un vero disastro per l'incredibile sua incapacità
finanziaria: vi si contrasse persino un prestito col Rothschild al
65%; l'erario ne rimase quasi deserto, orribili disordini
straricchirono molti furbi per usure, appalti e monopolii. Le tasse
si aggravarono e la miseria peggiorò. Il contrabbando
annullava i dazi, i barattieri scemavano le rendite. Nessuna nozione
di scienza economica, nessuna statistica: le tasse quasi tutte sulla
proprietà immobiliare, maggioraschi e conventi stagnanti nel
moto agricolo già troppo contrastato; assoluta mancanza di
codici, disuguaglianza dei cittadini nella legge, il governo chiuso
ad essi, ovunque immunità e privilegi, la giustizia
indefinibile, l'istruzione peggio che nulla nelle scuole e contesa
ai privati colla proibizione dei libri; la milizia composta di
stranieri mercenari o reclutata in bande facinorose di sanfedisti;
ogni carriera ostacolata, la censura assurdamente severa sulla
stampa, la polizia arbitra di tutti, commissioni militari in
permanenza, vietata ogni associazione, a migliaia gli esigliati, gli
ammoniti, i condannati politici; la vita morale depressa, quella
politica negata, nel pensiero combattuta, nell'azione impedita
ovunque e sempre. Da un canto il clero, dall'altro il popolo: non
Stato e non governo, ma un dominio di prelati sopra una gente senza
passato, senza presente e senza avvenire, mentre su Roma lontana
stava il papa, re e demiurgo, onnipotente nella religione e
prepotente sulla legge.
Allorchè Gregorio XVI scomunicò i polacchi morenti con
disperato eroismo contro i russi, l'infamia dell'atto fu tale che
anche le più timorate coscienze cattoliche ne rimasero
offese; nullameno, quando più tardi a Roma rimproverò
lo czar delle persecuzioni alla chiesa cattolica polacca, e non era
che un battibecco fra due pontefici, tutti scordarono la perfidia di
quella prima scomunica e la continuata viltà della diplomazia
papale colla corte di Russia per non ammirare che un nuovo Leone
davanti ad un altro Attila.
I fratelli Bandiera.
Intanto che la politica italiana del papato si restringeva
coll'Austria, e per influsso di questa al cardinale Bernetti
succedeva nel segretariato il Lambruschini, nel 1837 scoppiava il
colera, e nel 1838, essendo ministro di Francia il Molé, i
francesi si ritirarono da Ancona e gli austriaci dalle legazioni con
molta allegrezza del popolo. Così cessava pure in Bologna il
commissariato generale di contaminata memoria per opera dei
cardinali Albani, Spinola e Brignole: i nuovi subentrati al governo
parvero giustamente miti nel confronto. Laonde ne ringagliardirono
d'animo i cospiratori, che, sollecitati dalle voci di grandi
preparativi di rivolta nel regno delle due Sicilie, si accinsero a
nuove imprese; Mazzini esule spronava cogli scritti e cogli
emissari; a Bologna un comitato della Giovane Italia era
all'avanguardia del moto spingendo i restii. Una passeggiata
falsamente trionfale del pontefice attraverso le provincie
pontificie, ma evitando le Romagne, parve nuovo segno di paura nel
governo. Al solito i cospiratori correvano da uno Stato all'altro,
sciupando tempo ed energia senza concludere a nulla. Le popolazioni
attendevano fra svogliate e curiose: la polizia vigilava. Livio
Zambeccari, ardito figlio dell'arditissimo aeronauta, aveva corso il
Napoletano deludendo ogni vigilanza per concordare un moto generale,
e ne era ritornato con grandi promesse. La Romagna doveva dare
l'esempio, ma la trama fu scoperta anzi tempo. Quindi un medico
Muratori, gettatosi all'Appennino con piccola squadra per tentare
una sollevazione, dovette presto riparare in Toscana e di là
in Francia; un Ribotti, ritornato con falso nome dalle guerre
spagnuole ove s'era coperto di gloria, arrischiò una seconda
impresa con grossa mano d'armati verso Imola, ma fu costretto a
sbandarsi presso Ancona. Il governo implacabile nella repressione
condannò venti dei cospiratori a morte: nullameno la sentenza
non fu eseguita che sopra sette: e i maggiori capi avevano potuto
mettersi in salvo.
Per tagliare un'altra radice alle speranze liberali, il governo
(1843-44) comprò mediante nuovi debiti tutti i beni
dell'appannaggio, che il figlio di Beauharnais conservava nello
Stato pontificio: così veniva a mancare nel principe
l'occasione di favorire i ribelli e in questi la fisima di
costituirlo re dell'Italia centrale.
Alle sommosse romagnuole seguivano le napoletane. Prima era stata
Aquila a ribellarsi contro il proprio governatore militare, un
ribaldo delle bande di Ruffo, e a gridare: Costituzione e
libertà! Soffocato ad Aquila nel sangue, poco appresso il
tumulto scoppiò a Cosenza. Questa volta era provocato dalla
congrega centrale di Napoli, nella quale sedevano fra gli altri
Carlo Poerio e Francesco Bozzelli; ma al solito la congiura era
stata fiutata dalla polizia. Vi furono ritardi ed equivoci fra i
cospiratori, due bande di essi scontrandosi di notte si
combatterono, la popolazione non si mosse, le truppe regie
trionfarono dopo breve combattimento, nel quale Salfi, uno dei capi
ribelli, morì; gli altri fuggirono.
Un ordine del governo, comunicato per telegrafo ai giudici della
commissione militare, impose che degli arrestati si fucilassero non
meno di sei e non più di nove: e fu eseguito. A Napoli
intanto venivano imprigionati i maggiorenti della congrega centrale,
ma il dualismo scoppiato fra il marchese di Pietracatella, ministro
dell'interno, e il Del Carretto, ministro della polizia, li
salvò.
Pochi mesi dopo i fratelli Emilio ed Attilio Bandiera, ritentando la
stessa impresa, perivano nella più magnanima tragedia del
risorgimento.
Figli di quell'ammiraglio, che nel 1831 catturava la nave dei
rivoluzionari fuggenti da Ancona a Corfù, i due fratelli,
uffiziali della marina austriaca a Venezia, prima tentarono con
mirabile accordo di animi di spingere i compagni a ribellarsi;
quindi, entrati in corrispondenza con Mazzini, vi si compromisero
coraggiosamente sperando nel fermento rivoluzionario, che allora
sollevava inutilmente tutta la penisola. Ma sospettati e costretti a
salvarsi fuggirono a Corfù. Di là ricusarono il
perdono, resistendo eroicamente alle preghiere della madre, si
ostinarono contro i consigli di Mazzini, che fiaccato dalle
disillusioni dell'esilio non osava accettare il loro olocausto di
una spedizione nelle Calabrie. Nicola Ricciotti, uomo per
l'adamantina semplicità dell'anima degno di Plutarco, mandato
a dissuaderli si strinse ad essi; Domenico Moro e pochi altri li
seguirono. Mancavano i denari, le polizie braccheggiavano, il
governo inglese, questa volta peggiore d'ogni altro, tradiva il
segreto delle proprie poste rivelando ai Borboni e all'Austria le
lettere dei proscritti a Mazzini. Le spie formicolavano a
Corfù: un Boccheciampe còrso, nipote di quelli che
iniziarono la sanguinaria reazione di Ruffo nelle Calabrie, si mise
traditore nell'impresa. I cospiratori non erano più di venti
e speravano di sollevare tutta l'Italia!
Sbarcati a Cotrone, e tosto denunciati dal Boccheciampe, sono
catturati dal popolo medesimo insorto contro di essi: tradotti
prigionieri a Cosenza e giudicati sommariamente, rispondono e
muoiono con epica serenità. Ma il popolo nel quale avevano
sperato, se da ultimo si pentì di averli imprigionati e li
rimpianse morti, non si accinse per allora a vendicarli. L'impresa
aveva conchiuso ad un sacrificio, che il tradimento da un lato e una
impossibile ingenuità dall'altra resero sublime.
Il governo borbonico accrebbe la propria infamia coll'eccidio dei
generosi, dei quali più tardi nella reazione del 1848
profanò le ossa mescolandole a quelle dei giustiziati
volgari: la rivoluzione si giovò del martirio, che
infiammando tutti i cuori, li predispose ai pericoli di una
imminente riscossa.
Alle vinte sollevazioni napoletane seguivano infatti altri moti
romagnoli (1845). La robusta fibra del popolo e il suo spirito
ribelle prevalsero ancora una volta alla prudenza dei più fra
i molti congiurati. L'arresto di un Galletti e di un Montecchi,
perpetrato dal governo, parve provocazione: le condanne della
commissione militare mandata a Ravenna dal cardinale Massimi ruppero
col terrore gl'indugi, precipitando una mano di patriotti dietro
Pietro Renzi, che occupò Rimini e ne disarmò il
presidio. Ma i nuovi ribelli erano così poco rivoluzionari
che si affrettarono a pubblicare un manifesto dettato dal Farini
nello stile classicamente pedante della scuola letteraria romagnola,
col quale si riconosceva il diritto divino del pontefice e
s'invocavano solo alcune riforme amministrative dal suo cuore di re
e di padre. Fortunatamente poco dopo Aurelio Saffi, allora
giovanissimo e sconosciuto, dettava con due canonici commissari di
riforme una fiera protesta, che, affermando l'unità d'Italia,
manteneva l'onore romagnolo compromesso dal manifesto del Farini.
Naturalmente la sollevazione abortì: falsa nell'idea e nel
processo, non fu intesa dalle popolazioni, spiacque ai veri
rivoluzionari, sbigottì inutilmente la grassa borghesia.
Pietro Renzi riparato con altri fuorusciti in Toscana fu poi dal
granduca con ignobile tradimento consegnato al governo pontificio.
Quest'ultimo tentativo romagnolo, così erroneo nel concetto e
povero nel risultato, rivelò lo stato della coscienza
politica nella maggior parte di coloro che di politica si
occupavano.
I riformisti.
Se la predicazione profondamente rivoluzionaria di Giuseppe Mazzini
aveva nell'intelletto nazionale diradato le nebbie delle vecchie
dottrine scolastiche, traendolo quasi a forza nell'idea del proprio
secolo, la coscienza politica d'Italia non aveva potuto
accordarvisi. Troppo era il peso della tradizione autoritaria e
debole il fondamento morale del carattere perchè, accogliendo
nel pensiero l'austerità eroica della nuova dottrina, i
più sapessero trasmutarla in sentimento per discendere con
essa all'azione. Mentre la letteratura echeggiava di fanfare
guerresche, e i congressi scientifici moltiplicati a pretesto
simulavano assemblee nazionali, e le congiure insistenti
addestravano il coraggio a rischi di morte con una coreografia
troppo spesso insanguinata, l'immensa maggioranza della nazione vi
assisteva come ad uno spettacolo, nel quale il fulgore della poesia
non toglieva di sentire la fragilità della trama. Si odiavano
i governi, ma se ne riveriva ancora l'autorità; si chiedevano
riforme, ma non s'intendeva una rivoluzione che spostando i termini
della storia collocasse la sovranità dai principi nel popolo;
si temeva che sguinzagliando questo nella rivoluzione si avessero a
ripetere le atroci scene del '93 rese ornai famigliari da ogni forma
di racconto e di critica. La reazione cattolica signoreggiava ancora
quasi tutti gli spiriti, l'immane potenza militare dell'Austria li
prostrava. Se i frequenti martirii dei giovani più animosi
rinvigorivano con nuova passione le anime migliori, sbigottivano
invece la massa, traendola a conclusioni malinconicamente assennate
sull'inutilità di tragedie individuali in un problema, che
tutta Italia era inetta a risolvere. Avarizie e codardie si
coprivano quindi di questa prosaica assennatezza, servendosi della
stessa altrui disperazione eroica per rifiutarsi nell'ignavia di una
vita solleticata da tutte le lussurie della servitù. Quindi
la voce fatidica di Mazzini passava su quelle coscienze sonnolente,
irritandole senza destarle: la tragica magnanimità della sua
vita e la stoica semplicità della sua predicazione erano con
abile ipocrisia trattate di paradosso e di gloriola. Si rinfacciava
al grande esule di spingere a mortali sacrifici, stando al sicuro in
Londra. Lo si accusava di ambizione dittatoria, di assassinio
sistematico, di demenza rivoluzionaria. Non si voleva intenderlo
perchè intendendolo si sarebbe dovuto agire contro ogni
prudenza egoistica nell'interesse supremo della patria.
Quindi sorsero altre voci ad accarezzare la debolezza nazionale,
giustificandola colle tristi condizioni del presente. Rifiutati i
principii fondamentali della rivoluzione francese e pigliando le
mosse dallo stato attuale d'Italia, parecchi scrittori formularono i
voti e le speranze della nazione in assurdi sistemi, che parvero
allora miracoli di senno. Il problema nazionale era duplice,
indipendenza dallo straniero e libertà interna; ma ambedue
questi termini si sdoppiavano in una serie infinita di altri,
moltiplicando le difficoltà per ognuno di essi sino
all'impossibilità di una qualunque soluzione. Il problema
dell'indipendenza imperniato sull'Austria traeva seco la guerra
civile contro tutti i principi italiani, giacchè nessuno di
essi avrebbe osato combattere l'Austria per timore di restare poi
preda della rivoluzione. Una confederazione tra essi era egualmente
impossibile, mentre il papato ligio a Vienna e fanatico di
assolutismo non vi avrebbe convenuto, e il napoletano remoto e
compatto sotto i Borboni non avrebbe nulla a guadagnarvi, e gli
Stati centrali, grossi feudi austriaci rosi da gelosie intestine, vi
avrebbero ripugnato: solo il Piemonte, ingordo del Lombardo-Veneto,
vi avrebbe forse aderito, ma appunto per questo sospetto da tutti
gli altri sarebbe stato respinto. Poi le corti essendo tutte
egualmente reazionarie, una lega fra esse non sarebbe stata che
conseguenza dell'idea rivoluzionaria; ma allora, mutando i consigli
principeschi con uomini nuovi, scelti fra i liberali, il problema
della libertà interna veniva improvvisamente a tempestare in
quello dell'indipendenza dallo straniero. Fra popoli e governi non
correva fiducia. Per combattere l'Austria si sarebbe dovuto armare
il popolo, ma nessun governo lo avrebbe osato, perchè solo la
parte rivoluzionaria era battagliera e si sarebbe servita delle armi
per tentare l'unità e la libertà della patria.
Finalmente dietro l'Austria stava l'Europa monarchica vigile ed
ostile ad ogni mena di rivoluzione, terribilmente armata e pronta a
qualunque eccesso.
Il problema dell'indipendenza era dunque insolubile. Quello della
libertà presentava difficoltà anche più
profonde. La libertà, fuori dei termini della rivoluzione
francese che consacrava la sovranità nazionale ed
individuale, era un non senso: circoscritta alle concessioni dei
principi non avrebbe conciliato loro la fede del popolo, nè
soddisfatto alcun vero bisogno di questo. D'altronde le riforme
avrebbero dovuto chiamare al potere uomini popolari, proponendo
così il quesito della loro elezione: ora ogni elezione
implica il quesito del diritto elettorale, nel quale risiede tutta
la sovranità; chiamati dal principe non avrebbero
rappresentato il popolo; mandati da questo avrebbero annullato il
diritto regio. Un inevitabile conflitto sarebbe scoppiato fra i due
poteri, e la rivoluzione procrastinata dalle riforme si sarebbe
servita di esse medesime per scoppiare più prontamente.
Solo la teorica mazziniana, dichiarando inseparabili la
libertà e l'indipendenza, l'unità e la republica, era
rigorosamente logica, ma appunto per questo merito sistematico non
si prestava ad una immediata applicazione, mentre la storia a
somiglianza della vita procede destreggiandosi fra antitesi
apparentemente inconciliabili e traendo spesso dalla morte e
dall'assurdo le proprie forze più vive. Contro i mazziniani,
ultimi e più originali fra i giacobini, sorsero gli scrittori
riformisti a tentare la conciliazione dei contrasti nazionali,
fortificando coll'illusione d'incredibili sistemi il fiacco
liberalismo della maggioranza.
Fondamento dei nuovi scrittori furono l'autorità papale e il
diritto regio: la loro argomentazione derivò tutta dal
passato, la loro rettorica dal romanticismo. Alcuni come il Gioberti
ingigantirono il problema entro una visione sinteticamente poetica;
altri come il D'Azeglio lo distrussero in un'analisi frammentaria:
si dissero pratici in confronto ai mazziniani e nessuno di essi ebbe
il senso della realtà, non compresero il popolo e svisarono i
principii, per concludere nullameno a maturare la rivoluzione
spingendo la nazione alla prova di una libertà statutaria e
di una guerra federale contro l'Austria.
Anzitutto il giovamento della loro opera fu appunto nel combattere
le teoriche rivoluzionarie, che spaventavano il senno volgare delle
masse. Per essi si potè cominciare ad essere liberali senza
compromettersi in rischi mortali di congiure, a separarsi dalla vita
dei più. La classe aristocratica e la media, condannate dalla
teorica mazziniana, che s'indirizzava schiettamente al popolo,
riconoscendo in lui solo la fonte di tutti i diritti, si
riconciliarono alla causa della libertà: i dissidi regionali,
ancora così appassionati, si calmarono nell'illusione di un
accordo federale che rispettasse tutte le vecchie autonomie, la
religione accarezzata come fondamento della libertà si
rasserenò lasciando a nudo il fanatismo reazionario del clero
che parve tristo anche ai più indulgenti. Non si minacciarono
più i principi, ma s'intese a persuaderli: si propose loro di
essere più grandi, più liberi, più uniti ai
loro popoli, confederati contro lo straniero, guidati da Roma nella
santa crociata. Gioberti esule scriveva nel Primato un mostruoso
poema politico intercalato di ditirambi, sonoro ed abbagliante: in
esso l'Italia schiava diventava la nazione delle nazioni, e per una
terza volta il centro della storia. Il papato, incomparabile ed
immortale originalità della storia, doveva compiere il
miracolo di una terza risurrezione italica; il papato che aveva
rovesciato l'impero romano, guidato il medio evo, resistito a tutti
gli scismi, trionfato della rivoluzione francese, assicurava
l'avvenire d'Italia. I tempi erano maturi; l'Europa non poteva
procedere oltre senza l'Italia: il papato era la stella polare della
storia. Il libro si diffuse come un contagio, inebriò come
una musica. Tutti gli elementi della reazione cattolica si
addensarono in un partito guelfo, che l'erudizione storica venne a
rinfiancare di antichi argomenti: la monarchia, rappresentante nel
proprio maggiore significato l'antico mondo coi privilegi e le
differenze di classe, rifulse anch'essa come un principio; l'ordine
sociale non si comprese più al di fuori della monarchia e
della gerarchia di classe, la rivoluzione parve sacrilegio mentre le
riforme esprimevano lo svolgersi lento ed armonico del processo
sociale. Quindi il popolo avrebbe partecipato al loro beneficio non
alla loro opera: questa doveva esser fatica e merito delle classi
colte. Non si pensava a guerra, si sperava nell'indipendenza
cansando il problema militare e sognando combinazioni diplomatiche
al tempo stesso favorevoli e difficili come quelle del lotto.
Cesare Balbo, letterato guelfo, storico e politico reazionario, si
cacciò nell'arduo tema col celebre libro su Le Speranze
d'Italia. Se Gioberti aveva delirato sul papato, Balbo
vaneggiò sulla monarchia: nell'Italia non vide che il
Piemonte, nella storia che il passato, evitò tutti i problemi
dell'indipendenza, della libertà, della sovranità
nazionale, dell'unità e della federazione, limitandosi a
predicare ai popoli l'obbedienza e ad insegnare come scopo politico
la consolidazione di tutti i governucoli peninsulari, guardando al
papato come alla legge suprema d'Italia, e sperando che l'Austria
coll'impossessarsi di una parte della Turchia potrebbe cedere
graziosamente al Piemonte il Lombardo-Veneto. Intanto bisognava
abborrire la rivoluzione, disciplinarsi e credere esclusivamente
nella monarchia, qualunque ne fosse il sovrano. Più tardi
nelle Lettere politiche inculcò il liberalismo moderato con
volo più basso di fantasia politica, ma con più
servilità di propositi e non meno torbida intuizione della
realtà. Anzi le sue lettere alla vigilia dell'azione
raggiunsero lo scopo opposto inasprendo il dissidio dei partiti,
quantunque il Montanelli, benevolo spirito liberale, agile nei
maneggi ma non resistente di fibra e sempre incerto nell'idee,
corresse in aiuto, proclamando una specie di tregua finchè lo
straniero non fosse cacciato d'Italia.
Più chiaro apparve il Durando nel libro sulla
Nazionalità Italiana, dichiarando che il solo principio
unificatore d'Italia era nel principato e il rigeneratore nella
libertà, proponendo così una lega sincera fra popoli e
principi per costituire la nazione in due regni della regione
eridanica sotto casa Savoia, e del mezzogiorno sotto i Borboni. Roma
col proprio Stato resterebbe al papa, gli altri principi spodestati
troverebbero compensi nelle isole e nella Savoia. Ma questa
divisione troppo facile veniva nullameno oppugnata dall'anonimo
lombardo, che nei Pensieri sull'Italia dichiarava incompatibile
coll'indipendenza italiana la sovranità temporale del papa, e
opera vana ogni tentativo di riforma su questa. Quindi consigliava
la formazione di tre regni: il primo col Piemonte, il
Lombardo-Veneto e Parma con Torino residenza della corte e Milano
sede del congresso nazionale; il secondo colla Toscana, Modena e lo
Stato pontificio avrebbe Firenze per sede del principe e Bologna per
quella del congresso; il terzo con Napoli sede del sovrano e Palermo
sede del congresso. Roma città libera resterebbe al pontefice
sotto la protezione dei tre sovrani. Uno statuto uniforme e una lega
doganale dovevano stringere i tre regni. Altri, come il Galeotti nel
libro della Sovranità temporale, erano invece d'avviso che a
riformare gli Stati pontifici bastasse il richiamo delle antiche
leggi e principalmente dei capitoli di Eugenio IV; Gino Capponi
nelle Attuali condizioni della Romagna non dubitava nemmeno della
necessità del governo temporale e si limitava ad augurare
migliorie e riforme; il D'Azeglio nel celebre opuscolo sui Casi di
Romagna, dopo una critica calma dell'orribile sgoverno di quelle
provincie, concludeva poveramente a consigliare maggior pazienza ai
sudditi e minore durezza al sovrano, non sospettando nemmeno che lo
scopo dell'imminente rivoluzione nello Stato pontificio sarebbe
appunto la doppia proclamazione della repubblica romana e
dell'abolizione del potere temporale.
In tanti disegni nessuna idea chiara o proposta concreta. Nè
il problema dell'indipendenza, nè quello della libertà
erano posti nei loro veri termini. Se il concetto della federazione
fosse stato organico avrebbe prima rampollato nelle corti che nel
popolo, atteggiando diversamente la loro politica: invece corti e
popoli erano così divisi dal sentimento inconscio della
rivoluzione che la federazione proposta doveva risolversi in un
agguato per entrambi. Se l'idea della libertà fosse stata
cosciente nei popoli e nei principi, la loro doppia politica non si
sarebbe svolta in così triste antagonismo e le costituzioni
sarebbero state invocate e concesse con uguale sincerità e
col magnanimo proposito di combattere l'Austria; ma la
libertà era invece odio pei rivoluzionari, ribellione pei
governi, peccato pei preti, disordini per la plebe, martirio pei
pochi generosi che la ritentavano ogni giorno in tragedie isolate. E
di libertà seguitava a fremere la letteratura coi drammi del
Niccolini e colle satire del Giusti fra l'imbroglio di transazioni
assurde e di combinazioni impossibili, di reticenze perfide e di
sottintesi indicibili, mentre Mazzini sempre terribilmente limpido
guidava il battaglione sacro delle idee e delle poche forze
rivoluzionarie su per l'erta di una nuova epoca storica.
LIBRO QUINTO
L'ULTIMA RIVOLUZIONE FEDERALE
Capitolo Primo.
I prodromi.
Effervescenza dell'opinione.
Il fermento rivoluzionario cresceva.
Tutta l'Europa era corsa da fremiti di rivolta: in Francia l'ibrida
monarchia di Luigi Filippo, logora da oltre quindici anni di
corruzione e senza base nella coscienza del paese, era ridotta alla
vita precaria dei propri ministeri; la democrazia accresciuta di
tutte le forze del socialismo, che dalla gloria di un'ammirabile
letteratura passava intrepidamente alla tragedia dell'azione,
l'assaliva da ogni parte rivelandone con implacabile critica la
perfidia delle trame e l'inanità delle idee. In Germania il
lavoro della ricostituzione nazionale, avviluppato nel
panneggiamento di troppi sistemi storici e filosofici, si veniva
sbrogliando coll'aiuto delle idee francesi più terribilmente
logiche e chiare. L'Austria, rappresentante dell'assolutismo e del
più eteroclito impero europeo, veniva quotidianamente
assalita dalla democrazia tedesca nel nome della nazionalità
e della libertà, mentre la Prussia, incapace di comprendere
ancora la propria missione storica, si vedeva al tempo stesso
blandita e oppugnata dai rivoluzionari a seconda del loro metodo
costituzionale o giacobino. La Polonia scuoteva tratto tratto le
proprie catene con impeti disperati; l'Ungheria ligia alla propria
aristocrazia magiara resisteva con minacciosa energia alla
depressione uguagliatrice della burocrazia viennese, che mirava a
stringere l'unità dell'impero schiacciandovi tutte le
differenze etnografiche e nazionali; l'Italia, terra mista e campo
aperto a tutte le idee più disparate, si sollevava con fede
improvvisa verso un trionfo indefinibile che avrebbe dovuto
risolvere miracolosamente tutti i suoi centenari problemi.
Le riforme concesse dopo il 1814, come espediente di governo per
combattere la rivoluzione, sembravano ad un tratto divenute l'unico
ideale dei popoli. L'indipendenza dallo straniero, nella quale si
accordava ogni partito, era una tregua convenuta fra governo e
rivoluzione nell'inconfutabile coscienza d'una necessità
comune, una specie di campo chiuso al valore di tutti i combattenti
e sventolante gioiosamente delle più varie bandiere. Il
concetto di patria, così chiaro nella letteratura nazionale
degli ultimi 30 anni e nullameno ancora così torbido nella
coscienza delle masse, si effondeva improvvisamente come una poesia
irresistibile nelle parole di tutti: non si ciarlava, non si
cantava, non si ballava più che per l'Italia. Il sentimento
nazionale educato dalla lunga opposizione all'Austria aveva
finalmente conquistato la coscienza di se medesimo; nessuno osava
più essere apertamente austriacante, poichè la logica
del pensiero e l'onorabilità del carattere se ne sarebbero
offese. Comunque l'Italia fosse infelice od oppressa, anzi per
questo medesimo, bisognava essere italiani: l'orgoglio nazionale
ridesto dal valore spiegato nei libri e nelle congiure degli ultimi
tempi, osava finalmente riaffacciarsi alla storia. L'Italia ignota
persino a se medesima nel secolo passato, poi invasa dallo strepito
della rivoluzione francese come un immenso dormitorio, nel quale
tutto un popolo d'infermi e di poveri sonnecchiava nell'ozio e nella
fame, quindi riordinata violentemente a caserma dal primo impero,
ridivenuta albergo dei propri principi fuggiti e degli antichi
padroni stranieri nella ristorazione del '15, era adesso una terra
inerme che parlava di armi, piena di dotti e di poeti, di congiurati
e di politicanti, con una aristocrazia stretta intorno ai troni come
per difenderli dalle estranie influenze, con una borghesia destatasi
all'immenso moto europeo e confusamente conscia che ogni fatto
futuro sarebbe per lei una conquista, con un popolo al quale il
rombo delle idee e le frequenti percosse della polizia avevano messo
l'orgasmo della ribellione contro l'autorità senza giustizia
e senza carattere nazionale.
La necessità delle riforme, accresciuta tuttodì
dall'esame delle condizioni politiche ma abbellita dalla improvvisa
giocondità di un accordo fra popoli e governi, non presentava
ancora nulla di troppo pericoloso; non si minacciavano più i
principi; le classi non si astiavano più fra loro, una specie
di benevolenza, metà ingenua e metà perfida,
addormentava le diffidenze degl'interessi e le ripugnanze dei
principii. Si capiva e si diceva che le riforme avrebbero condotto
alle costituzioni, ma questa parola non molto meglio determinata
delle altre non palesava ancora tutto il proprio contenuto
rivoluzionario. L'aristocrazia sperava di conservarvi quasi tutti i
vecchi privilegi, la borghesia di guadagnarvi parecchi diritti colla
doppia forza del censo e della coltura, il popolo di liberarvisi da
molte angherie. I veri rivoluzionari, ostinati nell'unità e
nella republica, venivano giudicati alla stregua degli
incorreggibili sanfedisti ed austriacanti: ogni regione d'Italia si
accingeva al rinnovamento conservando nella vanità
inevitabile della nuova opera le vecchie superbie delle autonomie.
L'unità della patria, così bene affermata dalla
letteratura, diventava unione nell'idea politica d'allora: si
parlava di dieta, di lega doganale, di statuti uniformi; era una
risurrezione medioevale che lasciava a Roma il papato, come se la
rivoluzione e l'impero francese non l'avessero due volte soppresso,
e tutte le antiche capitali nel loro storico antagonismo. Palermo
risognava di emanciparsi da Napoli pur conservandone la dinastia,
Genova vaneggiava contro Torino nei ricordi dell'antica repubblica,
Firenze rimuginava i propri secolari disegni d'ingrandimento contro
i ducati limitrofi, il Piemonte mirava al Lombardo-Veneto come a
preda troppo lungamente agognata, mentre Milano rammentava, con
palpiti superbi di donna, la sua ultima gloria di capitale del regno
italico, e Venezia, isolata nel silenzio delle lagune, fantasticava
la libertà dinanzi alla gloria immortale dei propri
monumenti.
Era un idillio politico. Nessuna di quelle terribili passioni che
covano le vere rivoluzioni, trapelava dalla scompostezza del nuovo
moto: non fede religiosa, giacchè in Italia fu sempre scarsa,
e il papato non fece che diminuirla e la religione cattolica era
piuttosto ostile che favorevole ad ogni forma di rivoluzione
italiana: non tradizione regia, capace di difendere le centenarie
dinastie contro disegni giacobini e prepotenze imperiali; non odio
al principato, disonoratosi nell'ultimo secolo con ogni bassezza
morale e politica; non amore alla repubblica, che non fu mai
italiana; non orgoglio di libertà, della quale era mistero il
significato moderno; ma una irritazione prodotta dalla politica
austriaca ed austriacante, e una velleità d'emancipazione che
facesse senz'altre fatiche rifiorire il benessere materiale paesano.
E il moto non era solamente federale per tradizione ma per un
sottinteso ipocrita che, giudicandolo meno osteggiato così
dai principi che dall'Austria, lo sperava più facile: forse
quest'ultima, preoccupata da altre necessità interne, lo
avrebbe lasciato passare e la rivoluzione si sarebbe svolta come una
festa. Poi il caso o la fortuna d'Europa avrebbero aiutato.
Si desiderava da suddito diventare cittadino, ma si aspettava questo
da una concessione generosa di principe; si sarebbe voluta
l'espulsione dell'Austria, ma si ripugnava alla coscrizione, alle
enormi spese e agli immensi disastri, che una guerra nazionale
avrebbe costato. Idea e passione politica non erano limpide ed
ardenti che nei pochi rivoluzionari: il grosso partito riformista
non aveva come tale nè l'una nè l'altra, e non pensava
ai problemi della nazionalità, della sovranità e del
papato; sottomesso ai principi non vedeva in loro un principio ma un
buon espediente contro l'avvento rivoluzionario del popolo; imbevuto
di cattolicismo non ammetteva libertà religiosa, e ripugnava
all'unità specialmente per terrore superstizioso di Roma;
nemico dell'Austria, non la odiava abbastanza da accettare contro di
essa una qualunque rivoluzione.
A quella federale, che si veniva preparando, dovevano quindi mancare
l'idea, il sentimento e lo scopo. Se l'antica federazione aveva
significato l'individualizzarsi dei comuni nella disgregazione
dell'impero, ed era stata invincibile come tutti i progressi, la
nuova dopo la rivoluzione francese, che tende a costituire i popoli
prima per nazioni e poscia per razze, non avrebbe avuto altro
significato che di un esperimento rivoluzionario, nel quale l'Italia
liquidasse il proprio passato. Mentre i moti del '21 e del '31 erano
stati egoisticamente regionali, l'imminente rivoluzione del '48,
svolgendosi federalmente con concessioni di statuti e lega di
principi e una egemonia del pontefice, doveva essere la loro
inevitabile conclusione. Così svanirebbero tutte le
resistenze del mondo storico; e l'Italia, ricredutasi
nell'inutilità di questo sforzo supremo, al quale era
inconsciamente spinta dallo spirito moderno, aprirebbe il proprio
terzo periodo storico della nazionalità.
Nulla mancherà dunque dell'antica Italia in quest'ultima
rivoluzione federale. Una stessa illusione vi accorderà tutti
i partiti, costringendoli a fallare nel processo dell'azione
rivoluzionaria perchè, meglio fusi da una sconfitta comune,
si trovino nella necessità di ritentare più tardi una
vera rivoluzione. Tutte le monarchie costrette a concedere lo stesso
statuto, avanzandosi sul ponte infido del costituzionalismo verso la
democrazia popolare, faranno la loro ultima riprova, ma quella
solamente fra esse che saprà resistere all'esperimento
costituzionale, avrà un avvenire. Naturalmente ciò
dipenderà meno dalla sincerità del loro carattere in
tutte egualmente ostile al riconoscimento della sovranità
popolare, che dall'ambiente politico nel quale si compierà
l'esperienza: quindi fra i due grossi regni napoletano e piemontese,
intorno ai quali potrà agglomerarsi l'Italia futura, il
vantaggio sarà per quest'ultimo.
Ma poichè l'imminente rivoluzione federale dovrà
esaurire le secolari forme storiche d'Italia, il suo impulso
apparente verrà dal papato. L'Italia, tentando rinnovarsi
nella modernità, non poteva essere che neoguelfa e
riassumersi entro la più antica delle proprie istituzioni con
uno sforzo d'unione senza unità e di nazione senza
individualità. Dacchè l'impero francese sfasciandosi
l'aveva lasciata ricadere nel passato più povera e più
divisa da interessi inconciliabilmente rivali, solo la grandezza del
papato, assicurandole una primazia cattolica, le dava ancora una
ideale unità. Quindi basterebbe al papa il cenno più
lieve ed ambiguo di riscossa perchè a tutti sembrasse
più chiaro d'ogni più esplicita affermazione.
Qualunque parola di Roma parrebbe contenere un programma, ogni sua
promessa sembrerebbe maggiore dello stesso fatto compiuto.
L'effervescenza classica, la superstizione religiosa, l'antica fede,
l'immutata soggezione, galvanizzate dall'indefinibile senso
rivoluzionario del secolo, si condenserebbero intorno al papato per
spingerlo inconsapevole ed inconsapevolmente sulla via della
rivoluzione: si vorrebbe con esso una crociata politica, gli si
domanderebbero come molti anni addietro benedizioni ed anatemi
miracolosi, gli s'imporrebbe di costringere Dio alla
complicità di combinazioni diplomatiche che nessuna scienza
di stato o volgare prudenza d'individuo potrebbe approvare. Il
papato, idealmente ucciso dalla rivoluzione francese, oscillerebbe
quindi sotto la pressione del pubblico sentimento, compiendo di
suicidarsi coll'accordare una costituzione inconciliabile colla
propria essenza, finchè, di cosmopolita fatto italiano e
costretto a tradire l'uno e l'altro carattere, finirebbe abrogato da
una republica romana, assurda ed effimera quanto la stessa
rivoluzione federale.
Intanto le corti italiane, travolte dall'impulso del papato
all'esperimento delle costituzioni e di una impossibile lega
militare contro l'Austria, si dibatteranno fra perfidie mostruose:
la sollevazione contro lo straniero, precisando all'interno tutti
coloro che non l'avranno aiutata o peggio l'avranno tradita, li
designerà come nemici; l'impossibilità dell'unione
spingerà all'unità, l'accordo giubilante coi principi
si muterà in dissidio mortale coll'abrogazione degli statuti,
il nuovo contatto colla rivoluzione europea spazzerà dalla
coscienza nazionale gl'informi antichi concetti storici, i martirii
delle successive congiure colpiranno molti riformisti divenuti
rivoluzionari, mentre il Piemonte mantenendosi costituzionale
diventerà il nocciolo della nazione futura.
Pio IX.
Alla morte di Gregorio XVI (1^o giugno 1846) le popolazioni dello
stato pontificio, come presaghe dei tempi nuovi, respirarono
gioiosamente. Al conclave tosto adunato furono spediti Memorandum e
petizioni, che, sebbene male accolti, non scemarono la pubblica
aspettazione; siccome si temevano sommosse, e il generale austriaco
Radetzky si disponeva già ad occupare le Legazioni, grande
era il fermento degli animi, ma il conclave, sbrogliandosi
più sollecitamente del solito, proclamò pontefice
contro ogni previsione il cardinale d'Imola, Mastai Ferretti. Era
questi nuovo alla vita politica, senza nè partito nè
capacità politica. Il Lambruschini, candidato austriaco, e il
Gizzi, candidato popolare, rimasti esclusi, rappresentavano le due
più grosse parti del conclave, che, inette a vincersi,
avevano dovuto accordarsi sopra un nome neutro.
Il nuovo pontefice, che si chiamò Pio IX, doveva, malgrado la
inanità del proprio spirito, lasciare nella storia del papato
una delle orme più profonde. Mite di temperamento e gioviale
nel carattere, vanitoso quanto un attore e facile come un
dilettante, era l'uomo più adatto al carnevale del momento,
che intendeva a fare di tutto una festa scordando i problemi della
politica nel fracasso della rettorica e avanzando per una
fantasmagoria di illusioni sceniche verso la scabra realtà
d'una rivoluzione presto soffocata nel sangue d'una guerra. Se
Gregorio XVI era stato un teologo ed un tiranno, Pio IX fu un retore
della teologia e della politica, egualmente incapace di comprendere
la posizione del papato nel secolo e in Italia. Quindi invece di una
vera riforma religiosa, quale l'invocavano i più grandi
spiriti cattolici, non mirò che alla teatralità di
affermazioni dogmatiche, atte a sbalordire la plebe e tendenti a
condensare l'assolutismo papale senza prevederne i contraccolpi
politici. L'ultimo dogma dell'infallibilità pontificia, che
annulla il potere legislativo dell'episcopato, contradice infatti
ben stranamente alla concessione dello statuto, che doveva rendere
il papato parlamentare. Ma nessun papa svolse nel proprio
pontificato più ricco repertorio di scene. Riformatore, poi
rivoluzionario colla promulgazione dello statuto, eroe nazionale e
banditore della crociata contro l'Austria, quindi reazionario,
traditore e fuggiasco a Gaeta sotto l'egida del peggior tiranno
d'Italia; decaduto dal trono per decreto della republica romana che
aboliva il potere temporale, e ricondottovi da una coalizione
monarchica che preludeva al secondo impero: più tardi battuto
dalla conquista savoiarda aiutata da Napoleone III, e nullameno
protetto da questo entro Roma; due volte assalito da Garibaldi ad
Aspromonte e a Mentana, e rovesciato finalmente dalla monarchia
italiana l'indomani di Sedan, Pio IX dovette fingersi prigioniero
entro il Vaticano dichiarato inviolabile. Gloria ed infamia, nulla
gli fu risparmiato. Sollevato a tutte le apoteosi dalla illusione
politica di un momento, e percosso poco dopo dagli anatemi di tutte
le coscienze italiane, potè proclamare il dogma
dell'infallibilità pontificia in un concilio ecumenico, che
la rivoluzione del 1870 disperse; accattone d'aiuti parricidi dopo
le più ingenue vanterie patriottiche, imbrattato di stragi
come le perugine malgrado la gioviale bonarietà d'animo,
dominato da ministri concussionari come Antonelli, aggirato dai
liberali e dai gesuiti, fu l'ultimo condottiero del papato, e ne
divenne il becchino fra la più scettica indifferenza
mondiale.
Ma il mattimo del suo pontificato apparve così bello
all'accesa fantasia d'Italia che tutto il mondo salutò
acclamando.
I primi atti politici del pontefice, benchè per se stessi non
meravigliosi, destarono i più fervidi entusiasmi. Concesse
un'amnistia così umiliante per la formula che alcuni, come il
Mamiani, sentirono di doverla ricusare; nullameno questo perdono di
papa parve ultimo miracolo del cattolicismo. Quindi una indefinibile
ed unanime congiura lo circuì. Lo si vantò più
buono e liberale che davvero non fosse, apponendo le sue
dichiarazioni assolutiste ai segretari; il partito clericale
medesimo si scisse in due, dei gregoriani e dei pïani a seconda
delle tendenze reazionarie o novatrici. Ambasciatori da ogni parte
del mondo, persino del sultano, venivano a congratularsi dell'opera
riformatrice col nuovo pontefice; ma ad essere riformatore gli
mancavano insieme genio e carattere.
Infatti le prime commissioni consultive con ammissione di qualche
laico illustre, come i giuristi Silvani e Pagani, l'una per lo
studio della riforma processuale, l'altra con propositi meschini di
educandato per la correzione dei costumi publici, e una terza per la
costituzione del municipio romano, scoprirono tutta l'inanità
de' suoi concetti politici. Ma il publico non potè e non
volle accorgersene. Al suo entusiasmo bastavano alcuni mutamenti nel
personale legatizio, poche e tenui modificazioni nella costituzione
dei tribunali, e lo spiraglio aperto alla stampa colla nuova legge
sulla censura, che parve illiberale persino al D'Azeglio.
Intanto il delirio delle feste e delle acclamazioni cresceva. Una
poesia carnevalesca avvolgeva la figura del pontefice, mettendo nel
suo nome misericordioso il significato di tutte le perfezioni. Ogni
giorno recava nuovi spettacoli di adorazione; la piccola e la grande
letteratura bamboleggiava in panegirici al papa; invece di
osservarle, s'indovinavano attraverso i suoi atti e le sue parole le
più spampanate promesse liberali. Pio IX era tutto,
religione, patria, autorità e libertà fuse nel
più stupendo accordo di genio e di santità. I giornali
improvvisati, come il Contemporaneo e la Bilancia a Roma, il
Felsineo e l'Italiano a Bologna, questo diretto dal Berti-Pichat
insigne agronomo, e quello dal Minghetti, che divenne poi celebre
parlamentare, ditirambeggiavano con patriottica e comica
ingenuità. Persino Garibaldi dall'America e Mazzini da Londra
credettero buona tattica del momento scrivere a Pio IX due lettere
assurde d'incoraggiamenti e di devozione. Così, la fede al
nuovo papa liberale si radicava nell'opinione non solo d'Italia ma
d'Europa, malgrado la contraddizione di molti suoi atti, attribuiti
puerilmente alla sua posizione di capo di una istituzione vecchia di
diciotto secoli e quindi atteggiata da abitudini, che nessuno sforzo
avrebbe potuto mutare in un giorno. Il pontefice, ebbro di tanta
popolarità, vi si abbandonava con gioia di attore. La sua
stessa bellezza fisica, la potenza musicale della sua voce, per la
quale invaniva almeno quanto pel grado di primo fra i cattolici,
l'ammirazione d'Europa, la costanza di un trionfo che sembrava
dilatarsi di giorno in giorno, tutto contribuiva a trascinarlo
giù per la lubrica china della rivoluzione. Il grande
tentativo liberale, iniziato nel cattolicismo per opera di
Chateaubriand, e spinto con sì ammirabile vigore di stile dal
Lamennais alle ultime conseguenze, favoriva la nuova interpretazione
liberale del papato.
I riformisti gongolavano. Gioberti era stimato profeta, Mazzini
sembrava aver piegato, i principi guatavano stupiti il pontefice
come attendendo un suo cenno per seguirlo, il mondo applaudiva, solo
i più incorreggibili rivoluzionari tacevano soffocati
dall'entusiasmo universale.
Intanto con editto del 14 aprile 1847, ispirato dal famoso
Memorandum del 1831, s'instituiva la consulta di stato: tutti i
legati e delegati dovevano presentare una terna, dalla quale il
sovrano avrebbe scelto un consultore per ogni provincia: i
consultori siederebbero due anni in Roma e darebbero voto consultivo
sulla sua amministrazione, l'ordinamento del municipio e gli affari
interni dello stato. Era una lustra, che non riconosceva al popolo
nessun diritto d'elezione e non gli offriva alcuna guarentigia. Poco
dopo un motuproprio ordinava il consiglio dei ministri costituendolo
del segretario, presidente e ministro degli affari esteri ed
interni, del camerlengo per l'industria e il commercio, del prefetto
delle acque e strade, del prelato presidente della guerra, del
tesoriere e del governatore di Roma per la polizia. Il governo
pontificio restava adunque sulle vecchie basi e col medesimo
organismo prelatizio. Nemmeno questo bastò. Il popolo,
infallibile nell'istinto politico, sentiva che il pontefice sarebbe
andato più oltre, e che questi decreti erano piuttosto
l'espressione del partito vaticano che dell'inevitabile compromesso
già stretto fra il papa e la rivoluzione. Infatti l'Austria
spaventata aumentava in Lombardia l'esercito di occupazione facendo
subdole proposte a Guizot, ministro francese, perchè si
adoperasse presso il pontefice a frenare il moto delle riforme e ad
impedire quindi sommosse rivoluzionarie in Italia. Nel Vaticano era
scoppiato il dissidio fra il Gizzi segretario e il papa: questi alle
provocazioni dell'Austria rispose istituendo la guardia civica a
Roma e promettendola alle provincie. Il Gizzi si dimise profetando
la caduta del papato; i gregoriani già ringalluzziti dagli
aiuti austriaci allibirono e tacquero momentaneamente nell'odio.
Frattanto lo stato male ordinato in passato peggiorava fra il
vecchio e il nuovo; sanfedisti e rivoluzionari, gregoriani e
pïani, nelle provincie si percuotevano a morte; le commissioni
governative eternavano i propri lavori, l'azione governativa
sprovveduta degli antichi terrori polizieschi procedeva molle ed
incerta, l'azione popolare cresceva gagliarda.
Al Gizzi successe il cardinale Ferretti, legato a Pesaro. Quindi,
per l'anniversario della concessa amnistia, una congiura, piuttosto
desiderata che ordita dai residui polizieschi del governo gregoriano
contro Pio IX, provocò tumulti liberali, che s'immaginarono
di salvare il pontefice vincendo una battaglia cittadina.
Così il popolo s'impossessò delle armi e il governo
cadde in sua tutela, mentre l'Austria, troncando le ambagi, occupava
risolutamente Ferrara. La prima grande scena del dramma era
incominciata. Roma e Vienna inimicate avrebbero acceso la guerra fra
l'Austria e l'Italia. Roma protestò energicamente, il
gabinetto inglese la appoggiò; ma l'Austria tenne duro,
giovandosi della Francia che per mezzo di Guizot consigliava al papa
di restare amico dell'imperatore a qualunque costo. Senonchè
la mossa spavalda di Metternich, anzichè frenare il papa
sulla via pericolosa delle riforme, ve lo spinse più
vivamente; le popolazioni frementi di sdegno all'odiosa provocazione
si stringevano più fortemente al pontefice; tutti i municipii
gli offrivano uomini e danari per una impresa di liberazione; la
stampa, rompendo i confini della censura ed ampliando la questione,
pindareggiava di unione d'Italia e d'indipendenza nazionale. Per la
prima volta dopo tanti secoli un'ingiuria fatta al pontefice re di
Roma veniva raccolta come un guanto da tutta la nazione.
Pio IX, trascinato dalla logica segreta della rivoluzione a farsi
iniziatore di una lega doganale, che avrebbe naturalmente preluso ad
una lega politica, segnava un trattato doganale con Firenze e con
Torino, costituiva il municipio romano, riordinava il ministero
precisando le attribuzioni e la responsabilità di ogni
ministro, apriva la consulta tentando inutilmente di scemarle nel
discorso inaugurale il significato politico. Infatti i consultori
nell'indirizzo di risposta gli esposero nella forma più
rispettosa un largo programma di tendenze costituzionali e
patriottiche. La loro inattuabilità non compresa dal popolo,
pel quale tutto era segno di rivoluzione, non sgomentava i
consultori: si andò fino a pretendere che il papa
scomunicasse l'imperatore; e la Bilancia, giornale dell'illustre
Orioli, affermava essere la scomunica un'arma superiore a tutte le
altre di guerra.
L'agitazione negli altri stati.
Una protesta dei professori allo studio di Pisa contro
l'installazione delle monache del Sacro Cuore cresceva tutto
dì nelle stampe clandestine di Toscana, che invocavano
riforme fingendo motupropri dai quali fossero accordate; il granduca
Leopoldo, prima rattenuto dal terrore cieco dell'Austria, era adesso
trascinato dall'irresistibile esempio di Pio IX. Tutto diventava
pretesto di unione con Roma, la sottoscrizione per gli amnistiati
poveri dello stato romano, il terremoto di Pisa e l'inondazione di
Roma stessa. In questa si istituì una ambasciata toscana
distinta dall'austriaca, si stabilì a Pisa una scuola
normale, si nominarono commissioni per diffondere l'istruzione
elementare. L'Austria premeva sul granduca a spaventarlo; i
rivoluzionari si servivano del nome di Pio IX come di una
salvaguardia per ogni dimostrazione liberale. Una nuova legge sulla
stampa, colla quale si concedeva l'esame degli atti governativi,
abilmente maneggiata dal Montanelli in un opuscolo, diventò
arma contro il governo: questo, sempre più stretto dal
blocco, ordinò nuovi codici, promise l'allargamento della
consulta, una revisione organica dei municipi.
I giornali pullularono: Salvagnoli nella Patria propugnava l'accordo
della libertà col principato e quindi una lega di principi
per la difesa dell'indipendenza italiana, La Farina nell'Alba
republicaneggiava, Montanelli sognava nell'Italia dietro al papato
di Gioberti. La prima grossa battaglia giornalistica fu per
l'istituzione della guardia civica, alla quale il duca ripugnava per
istinto e per minaccie austriache, ma nella quale dovette
consentire, travolto dalla marea assordante della publica opinione.
L'armamento del popolo era il primo passo del principato
all'abdicazione, gli altri furono segnati dai preparativi e dalla
concessione finale dello statuto. All'agitazione liberale crescevano
adepti ed aiuti: il barone Bettino Ricasoli, che fu poi la
più onesta ed altera figura fra i successori del conte di
Cavour, scriveva petizioni al governo, guidando contro di esso la
parte più assennata del paese, ma sperando tutto dalla
persuasione; Gino Capponi, austero gentiluomo ed elegante letterato,
capo di un'altra frazione del partito moderato, si riprometteva
maggiormente da legali agitazioni. Il partito radicale aveva sede a
Livorno, ove Guerrazzi ne era l'idolo e Bartelloni il più
efficace tribuno; Centofanti e Montanelli guidavano
l'università di Pisa. Intanto le scosse di Roma propagandosi,
eccitavano le popolazioni e sbaldanzivano i governi: ogni
avvenimento diventava festa, ogni festa dimostrazione;
l'anniversario della morte dei Bandiera e della cacciata dei
tedeschi da Genova, l'assunzione del papa, la morte a Genova del
celebre agitatore irlandese O' Connell e di Confalonieri a Milano,
la sconfitta del Sonderbund a Lucerna, i ricevimenti per tutte le
capitali italiane di Cobden e di Cormenin, provocavano esplosioni di
rettorica rivoluzionaria e patriottica. Guerrazzi, commemorando a
Gavinana la morte di Ferruccio, produsse quasi una rivolta: il
principe Bonaparte di Canino, volgare ma coraggioso istrione
politico, traversò la Toscana, poi Genova e finalmente
Venezia, vestito da guardia civica romana, arringando e tirando il
publico a teatrali giuramenti colle spade sguainate nel nome
d'Italia. Le riforme concesse troppo tardi, mal volentieri e a
sbalzi, anzichè placare il fermento l'accrescevano; il nome
d'Italia, gridato da tutti, minacciava di morte i governi regionali;
da Livorno si mandò a Garibaldi, divenuto glorioso in America
per battaglie vinte, una spada d'onore, e una medaglia d'oro ad
Anzani che con lui aveva colà organizzato la legione
italiana.
A Lucca, siccome Carlo Lodovico seguitava nei più turpi
disordini, ricusandosi con insolente spavalderia a qualunque riforma
liberale, il popolo offeso impegnava contro di lui una lotta, nella
quale ebbe presto il sopravvento. Allora il duca, spaurito e vessato
dagli enormi debiti, precipitò la cessione del ducato alla
Toscana; l'Austria intervenne in nome dei vecchi trattati per
ottenere al duca di Modena la Lunigiana, chiave strategica della
media Italia. Corsero ribalde trattative da tutte le parti, ma la
regione restò momentaneamente a Modena spalleggiata da
Vienna. La mala condotta di Leopoldo verso gli abitanti di
Fivizzano, che gli si erano rivolti per non essere ceduti al duca di
Modena ed avevano poi invocato persino Carlo Alberto e Pio IX,
determinarono a Livorno una esplosione popolare, nella quale
soffiò il Guerrazzi. Ne venne quasi una guerra civile, ma il
duca fu sollecito al riparo, invadendo con grosse soldatesche la
città ed arrestandovi tutti i caporioni. Il moto si disse
sedato, però il governo non ne divenne più forte.
Frattanto essendo morta (17 dicembre 1847) la duchessa di Parma,
Maria Luigia, l'Austria ne profittò per prender maggior piede
in Italia contro l'imminente rivoluzione. L'ex-duca di Lucca,
divenuto duca di Parma per diritto di riversibilità, ne prese
momentaneamente possesso, riconfermando dietro monito austriaco gli
odiati ministri della defunta duchessa e rispondendo alle petizioni
popolari, invocanti migliori leggi e municipii elettivi, col darsi
in braccio a Vienna. Così, dopo aver venduto i propri sudditi
di Lucca al granduca di Toscana al prezzo di uno scudo per testa, il
24 dicembre firmava un trattato coll'imperatore, concedendogli di
occupare militarmente lo stato per interesse di comune difesa: al
quale trattato avendo tosto acceduto il duca di Modena, l'Austria
contro i patti del 1815 era fatta padrona del Po e degli Appennini.
Quindi col pretesto di scortare il cadavere della duchessa
trasportata alle tombe imperiali di Vienna, Metternich fece occupare
colle artiglierie Parma, poi Modena.
Ma tutta Italia guardava insistentemente a Carlo Alberto. L'istinto
politico della rivoluzione intuiva che solo il Piemonte avrebbe
potuto guidare una guerra d'indipendenza contro l'Austria, qualunque
fosse il passato e il carattere del suo re. Carlo Alberto,
attorniato dai gesuiti e dominato dal conte Solaro della Margherita,
il più reazionario fra i ministri italiani, si sentiva
passare entro l'anima assiderata il vento caldo della rivoluzione a
risvegliarvi vecchi rimorsi e speranze. L'orgoglio tradizionale
della sua casa, la sua stessa alterigia romantica di re assoluto e
di cavaliere, lo traevano alla fortuna di una guerra che gli
raddoppiasse i dominii, dandogli una vera supremazia su tutti i
principi della penisola; ma il terrore delle idee rivoluzionarie, la
bigotteria regia e cattolica, l'inguaribile dubbiezza del suo
spirito incapace di affrontare risolutamente alcun problema, lo
rattenevano sulla china delle riforme, irritando la sua gelosia per
Pio IX. Quindi proibiva persino le funzioni ecclesiastiche
celebranti il nuovo pontefice, pure offerendoglisi cavaliere contro
l'Austria già discesa a Ferrara e minacciosa al Piemonte con
un nuovo aumento di dazi sopra i suoi vini, quasi a sfida:
accoglieva trionfalmente l'inglese Cobden apostolo del libero
scambio, e seguiva la dottrina opposta del List, che aveva fondata
in Germania la lega doganale; si ricusava alle riforme e scriveva
una lettera ai comizio agrario di Casale, provocatrice come un bando
di guerra contro l'Austria. Perplesso fra la diplomazia inglese, che
per mezzo di lord Minto lo incuorava ad una rivoluzione
costituzionale, e la politica francese che per mezzo del conte de
Mortier tirava a riconciliarlo coll'Austria, non si risolveva per
nessuna delle due: avrebbe voluto la guerra senza rivoluzione,
guidando l'esercito e tenendo il popolo nella stessa calma
obbedienza mediante poche riforme concesse per decreto reale.
Nullameno il moto lo travolse. Il suo scudo fantastico col leone di
Savoia straziante l'aquila di Asburgo e il motto scritto in francese
da lui italiano «J'attends mon astre» esprimeva tutta la
torbida poesia del suo pensiero: una visione di cavaliere antico,
chiuso nell'angustia del proprio spirito e della propria corazza,
concependo la rivoluzione come una festa di popolo e la guerra come
il glorioso capriccio di un prode. Ma la storia, sempre più
forte di ogni disegno individuale, lo trasse irresistibilmente alle
riforme, che dovevano in tutti i principati italiani precedere gli
statuti; onde, fra gli osanna del popolo, i suggerimenti ingenui o
perfidi dei liberali e le querimonie della reazione, dovette con una
serie di ordinanze modificare la legge comunale mettendovi a
principio l'elezione popolare, abolire le giurisdizioni eccezionali,
unificare con una nuova corte di cassazione la giurisprudenza del
regno, frenare l'arbitrio della polizia affidata al ministro della
guerra, slargare la legge sulla stampa, stabilire registri per lo
stato civile, democratizzare le promozioni militari.
Naturalmente queste riforme, anzichè recare immediati
benefizi, sconvolsero il vecchio sistema politico, sollecitando le
voglie rivoluzionarie dei liberali. La logica delle cose traeva
irresistibilmente a maggiori concessioni: si denunciavano tutti gli
abusi; l'orgoglio piemontese, vellicato dalla proclamazione
nazionale del proprio re a generalissimo contro l'Austria, domandava
insistentemente un altro più difficile primato colla
promulgazione di uno statuto. Le questioni più vitali,
dibattute quotidianamente nei giornali, esaltavano meglio che non
illuminassero le menti; Valerio e Brofferio, l'uno nella Concordia,
l'altro nel Messaggero, guidavano la falange più ardita dei
liberali; Balbo e Cavour nel Risorgimento si destreggiavano in un
liberalismo più tenero del principato che della
libertà, più preoccupato dei mezzi che del fine. Il
vecchio assetto della società sommossa da tante agitazioni
politiche si screpolava; difettavano uomini e idee; la riforma scesa
dai libri e dalle riunioni accademiche nelle strade non vi diveniva
rivoluzione per difetto di passione e d'intelligenza nel popolo. Il
sentimento più vivo di questo era l'avversione all'Austria,
ma non l'odio vero capace dei miracoli di Grecia e di Spagna; la
tradizione più salda era ancora regia, le aspirazioni
liberali salivano dalla borghesia e si confondevano nell'incertezza
della sua cultura e nella imperfezione del suo carattere. Tutta la
violenza era di parole e tutta l'opera di feste. Si temeva
pazzamente dei gesuiti, le fazioni inviperivano nelle più
astiose e stolide polemiche, la diffidenza scendeva e saliva dal
popolo al principe, la vertigine del vuoto faceva turbinare tutte le
teste. Due soli vedevano chiaro in tale tramestio, Mazzini e
Metternich: quegli affermando recisamente che tutti gli ordigni dei
moderati crollerebbero ben presto, e il popolo proromperebbe con
manifestazioni da obbligare l'Austria ad invadere i paesi vicini;
questi scorgendovi una sovversione rivoluzionaria che avrebbe forse
guidato alla republica, ed affrettandosi a dichiarare in un
Memorandum alle potenze che l'Italia era una semplice espressione
geografica e non sperando più che nelle inevitabili divisioni
italiane. «Gli italiani fortunati s'invidieranno, sfortunati
si malediranno, discordi sempre vincitori o vinti». E fu
profezia.
A Napoli, terra votata da secoli al più efferato dispotismo,
l'impulso dato inconsciamente da Pio IX alla rivoluzione vi
peggiorò il governo. Il re, impantanato nella più
scempia bigotteria, lasciava compiere a ministri truci o rapaci,
come il Del Carretto e il Santangelo, qualunque infame prepotenza:
unica politica la repressione. Nullameno l'opposizione dei
patriotti, quantunque più napoletani che italiani, sempre
egualmente scarsi di idee e di coraggio, si ostinava al cimento.
Infatti nella celebre protesta elaborata dal comitato rivoluzionario
e scritta dal Settembrini, forma e sostanza erano del pari
insufficienti. Prolissa come una requisitoria, sparsa qua e
là di frasi pietiste a Pio IX, minuta e pedante nell'accusa,
non esciva dal popolo e al popolo non si rivolgeva: pareva un
appello all'Europa e non era che un'arringa d'avvocato senza
severità di stile e veemenza di passione; negava e non
riaffermava; uscita dall'anonimo si perdeva nel vago, più
lamento ancora che protesta, troppo lunga per un proclama e troppo
scomposta per un Memorandum, non abbastanza rivoluzionaria
nell'intenzione e troppo poco italiana nel sentimento. Non pertanto
parve ai liberali un capolavoro e un pericolo al governo. Questo,
infellonito dalle accuse consegnate così a tutta la stampa
europea, cercò a morte gli autori, che esularono o si
nascosero. Ma il fermento aumentava minaccioso nelle provincie. Ai
primi di settembre (1847) una sommossa scoppiava per opera dei
fratelli Plutino e di Romeo a Reggio e a Messina, prontamente e
ferocemente repressa. I generali Landi e Nunziante vi si copersero
d'obbrobrio; Domenico Romeo vi fu trucidato e un suo nipote
costretto a portarne la testa in giro per le ville. Ma quasi
l'immanità della repressione fosse insufficiente, il re con
editto dell'otto settembre invitava tutti i cittadini a farsi spie
del trono dando sicurtà «che i loro nomi resterebbero
sepolti negli arcani della polizia, che proporzionata all'utile
sarebbe la ricompensa, e che la sovrana clemenza non lascierebbe
alcun servigio senza premio». Un altro editto poco dopo
prometteva trecento ducati a chi uccidesse, e mille a chi
consegnasse dieci ribelli, dei quali si davano i nomi. A queste
tiranniche empietà rispondevano, elogiando, le corti di
Vienna, di Berlino e di Pietroburgo, mentre Ferdinando II, come
impazzito di ferocia e atterrito da una ovazione fattagli per il
licenziamento del ministro Santangelo, proibiva con nuova ordinanza
al popolo di gridare persino, Viva il re! Naturalmente l'ordinanza
non fu obbedita e ne nacquero risse sanguinose fra il popolo e la
sbirraglia.
La Sicilia, sempre implacabile nell'odio al governo napoletano, ne
approfittava per insorgere un'altra volta. Uno scritto diffuso per
Palermo il 12 gennaio 1848, vi chiamava tutti i siciliani alla
rivolta, sfidando il governo come ad un torneo mortale. Il
governatore militare bombardò prima la città; poi,
trovata la resistenza troppo dura, tentò accordi; il conte
d'Aquila sopraggiunto s'interpose chiedendo concessioni al re;
Ferdinando spaventato alcune ne diede, molte altre ne promise; ma
Palermo, fidente nel proprio sogno di autonomia, le respinse per
tentare d'organizzarsi a governo. I comitati costituitisi nella
prima ora della rivolta si restrinsero in uno solo: Ruggero Settimo
ne fu presidente, Mariano Stabile segretario. La lotta
proseguì feroce d'ambo le parti, ma le truppe napoletane
dovettero indi a poco levare il campo. Per ultima orribile
rappresaglia di guerra il generale De Sauget, prima d'imbarcarsi,
fece aprire le carceri della città sguinzagliandovi dentro
cinquemila galeotti. Frattanto la rivoluzione si era diffusa; solo
qualche fortezza restava ancora ai regii nell'isola.
Il primo scoppio della rivoluzione federale vampeggiava dunque dalla
Sicilia, che la storia non aveva mai potuto congiungere all'Italia,
e nella quale nessuna conquista si era mai saldamente stabilita.
Gli statuti.
I fati incalzavano. L'insurrezione vittoriosa della Sicilia,
atterrando la corte di Napoli, inanimì i liberali; l'Austria,
inabilitata a soccorrere i Borboni, giacchè il papa offeso
dell'occupazione di Ferrara vietava ogni transito pel proprio
territorio, non bastava più a proteggerli; le provincie di
terraferma tumultuavano, la plebe delle città era incerta,
l'esercito per quanto numeroso non abbastanza solido. Il Cilento era
in fiamme; Constabile Carducci con forte mano d'insorti minacciava
Salerno; la resistenza avrebbe acceso la guerra, questa
spaventò il re. A scongiurarla con vecchia abilità di
famiglia, Ferdinando II pensò di concedere più che non
gli si domandava, e diede la costituzione incaricandone Ferdinando
Bozzelli, antico liberale che doveva poi disonorarsi nella
cortigianeria di troppi tradimenti. I truci funzionari polizieschi
furono congedati, s'instituì un nuovo ministero. A tanta
prodigalità liberale il popolo esaltato proruppe in ovazioni:
odii ed infamie furono dimenticate. I capi rivoluzionari al solito
credettero nella lealtà del re, non si pensò al
tradimento, si riprese l'idillio politico del '20 colla stessa
ingenuità. La costituzione imitata sulla francese non era
troppo liberale, e nullameno eccedeva forse la capacità
politica del paese: unica religione riconosciuta la cattolica, il
potere legislativo nel re e nel parlamento diviso in due bracci,
senato a nomina regia e a numero illimitato, la camera dei comuni
per elezione popolare. I collegi elettorali erano di 40,000
abitanti, gli elettori culti o censiti, ma entrambe queste loro
qualità ancora indeterminate; liberi i comuni, vietato
l'assoldamento delle milizie straniere, istituita la guardia
nazionale, riconosciuto il diritto di petizione, uguaglianza dei
cittadini in faccia alla legge; libera stampa meno che sovra
argomenti religiosi; cancellato ogni precedente e condanna politica.
Il potere esecutivo risiedeva nel re e nei ministri da lui nominati.
Questo, che stordiva i napoletani, non bastò alla Sicilia
ostinata nella propria autonomia o nella fede alla costituzione del
'12. Così la guerra proseguiva con vantaggio crescente
degl'insorti, che il 20 febbraio 1848 indissero il proprio
parlamento.
Ma la costituzione, concessa dal re con traditrice riserva e
accettata dai liberali con fanciullesca ingordigia, poco adatta ai
costumi e mal compresa dalle masse, non funzionava. La corte
segretamente alla testa del partito retrivo moltiplicava gli
ostacoli: v'erano due governi, l'uno palese e l'altro invisibile,
quello debole ed impacciato, questo attivo e spregiudicato; il
parlamento stava per diventare, come sempre, un'accademia, il
ministero fra astrattezze liberali e servili cortigianerie mal
poteva imporsi al paese e alla corte; i vecchi poteri restavano con
nomi nuovi disobbedendo e falsando ogni mutazione; nelle campagne
insubordinate e spinte a tumulti si rapinava; la guardia nazionale
poco o punto armata, organizzata appena per qualche rivista e
incapace di alcun vero servizio, non giovava; l'aristocrazia
invecchiata negli usi dispotici ricalcitrava all'obbedienza della
borghesia trionfante; il popolo aspettava lautezze e sbraitava
profittando della nuova licenza. Dimostrazioni succedevano a
dimostrazioni, peggiorando il disordine e disonorando la nuova
libertà. Si espulsero i gesuiti; la stampa abbietta ed
irruente insudiciò ogni più illibata reputazione.
Tra il tumulto senza la rivoluzione e il mutamento senza la
rinnovazione, d'Italia non si parlava ancora: appena s'erano
aggiunti alla bandiera borbonica i tre colori resi nazionali dalla
propaganda della Giovane Italia.
La costituzione di Napoli scrollò tutti i principati
italiani. La antica rivalità fra Napoli e Torino si riaccese
fatalmente, mentre la logica della storia trionfava d'ogni loro
egoistica resistenza. Carlo Alberto tentò indarno di reagire
contro questa suprema necessità degli ordini costituzionali,
che pure avevano fatto la potenza mondiale dell'Inghilterra e
permesso alla monarchia di ripiantarsi in Francia sul terreno ancora
rovente della rivoluzione. Quindi, scrivendo a Leopoldo di Toscana,
che lo richiedeva di consiglio, gli scopriva tutto un disegno di
riforme atte ad appagare le più insaziabili esigenze del
popolo, senza scemare d'una dramma l'autorità assoluta del
re: secondo lui la monarchia parlamentare era il peggiore dei
governi. Ma il fiotto della rivoluzione saliva urlando e schiumando
intorno al suo trono; Toscana e Romagna barcollavano, Roma sembrava
in preda al delirio, il Piemonte fremeva. I libri di Gioberti avendo
popolarizzato l'odio ai gesuiti, nei quali l'infallibile istinto
popolare vedeva l'ultima milizia del dispotismo, tutti i paesi
insorgevano per espellerli. Napoli li aveva cacciati tumultuando,
Fano si levava contro di essi a furore, Ancona e Sinigaglia si
avventavano contro gli Ignorantelli loro propaggine. Faenza,
Camerino e Ferrara seguivano l'esempio, la Sardegna li prendeva a
sassate, Genova e Torino si ammutinavano contro di loro. Era una
nuova crociata contro gli ultimi giannizzeri del papato, una
violenza della libertà costretta a diventare dispotica per
potersi stabilire. Carlo Alberto, che fino allora aveva governato
coi gesuiti, resistè: nullameno, per ovviare i tumulti,
dovette armare la guardia nazionale, mentre i tumulti crescevano
egualmente e la passione popolare trascinava tutte le classi. Il re
cedette: cominciato l'abbrivo, il resto precipitò. La stampa,
non emancipata che a mezzo, chiese in quell'immunità del
momento la costituzione; i liberali urlavano libertà, i
moderati indicavano il parlamento come l'unico asilo ove risolvere
le questioni imbrogliate dalla piazza, la diplomazia inglese aiutava
coi consigli, la Francia stava per rovesciare l'avvilente monarchia
di Luigi Filippo per ritentare un infelice esperimento repubblicano.
I due grandi municipii di Genova e di Torino presero l'iniziativa
domandando al re uno statuto: Carlo Alberto chiese consiglio al
confessore, s'inabissò in penitenze, e finalmente lo concesse
di regia autorità per cansare l'obbligo di giurarlo. Il
triste congiurato del '21 non era ancora morto nel nuovo re
costituzionale.
Ma poichè la patria, come la religione, non conosce peccati
inespiabili, il popolo proruppe all'entusiasmo: tutto fu dimenticato
per non ricordarsi che della nuova costituzione e delle parole
bellicose, colle quali il re minacciava l'Austria. Infatti
all'indomani (5 marzo 1848) chiamava sotto le bandiere tre classi
dei contingenti militari. Non era ancora una sfida, ma era
già più che una precauzione di guerra. Il nuovo
statuto, alquanto più liberale del napoletano, non ne
differiva nell'essenza; però, sorto in ambiente politico
migliore, potè, dilatandosi in una costante interpretazione
liberale, emendarsi di molti difetti e neutralizzare qualcuno dei
principii dispotici che lo rendevano piuttosto simile ad una
capricciosa elargizione di re, che ad un patto fra questo e il
popolo.
La Toscana, presa così tra due fuochi, dovette ardere
anch'essa. Malgrado le minaccie del Metternich, il quale veniva
ripetendo al granduca di non riconoscergli, come semplice
usufruttuario di un patrimonio imperiale, la facoltà di
scemarvi i diritti con colpevoli concessioni al popolo, Leopoldo II,
atterrito dai casi di Livorno, spinto, sospinto, respinto d'ogni
parte, s'arrese a discrezione del popolo, preparandosi a salvarsi
colla fuga appena i tempi ingrossassero. Lo statuto toscano,
ricalcato su quello napoletano e piemontese, fu migliore d'entrambi
nella libertà religiosa.
Maggiori feste, perchè più profondo era il contrasto
dei due principii politici ecclesiastico e civile, occupavano Roma
senza stancarla. Le riforme concesse, ma non ancora praticate e
nella più parte impraticabili, avevano rotto la decrepita
compagine dello Stato, senza spirarvi dentro nessun alito di vita
nuova. Come per lo innanzi i prelati soli reggevano il governo e
dovevano guidare un popolo riscosso dal rombo di molte rivoluzioni.
L'entusiasmo pel pontefice, infervorandosi ogni giorno più,
lo metteva così alto che quasi lo disinteressava dal governo:
e questa inconscia abilità dello spirito publico ingannava
papa, corte e piazza. Il giacobinismo inveiva ragionacchiando di
tutto: le imprecazioni ai gesuiti si mescevano cogli osanna a Pio
IX, la guardia civica decorava teatralmente ogni processione
politica, mentre molti moderati cominciavano già a
spaventarsi di un moto, nel quale tratto tratto si sentiva la
rivoluzione, e i mazziniani vi si cacciavano invece soffiandovi come
sopra un polverìo che nascondesse al governo la direzione
della strada. Una protesta per il riordinamento della milizia come
risposta alle provocazioni dell'Austria fu quindi mandata alla
consulta; questa la trasmise al governo, che credette rispondere
mostrando ai tre milioni dei propri sudditi gli altri 200 milioni di
cattolici pronti in caso di guerra a morire per il papa. Vecchia
rettorica, che avrebbe dovuto far sorridere anche coloro che la
usavano! Ma il governo cedette ancora, e finì col nominare un
principe romano a ministro della guerra. Ogni giorno crescevano le
difficoltà; le riforme concedute sembravano giustamente
scarse dopo la promulgazione degli statuti negli stati vicini; il
segretario cardinale Ferretti si dimise; il Bofondi, che lo
sostituì, non potè fare di meglio; il governo scese a
patti col popolo in un proclama nel quale si promettevano ministri
laici. Proruppero altre feste: Pio IX dal proprio balcone
arringò la moltitudine, che gli giurò fede in un urlo
di demenza e si acquetò come per incanto alla benedizione
papale.
L'antico governo prelatizio era dunque abbattuto, ma il fatto enorme
non fu ben compreso in quella inesauribile baldoria. Il nuovo
ministero, nel quale brillarono per ingegno Marco Minghetti e
monsignor Morichini, non era già più moderato avendo
ceduto la direzione della polizia al Galletti, rivoluzionario
bolognese compromesso nei moti del 1844 ed affigliato ai circoli
mazziniani. Tale ultima nomina era dovuta alla grande
popolarità di questo, dietro la quale il neonato ministero
provava già il bisogno di riparare. Galletti alla polizia e
il tribuno Ciceruacchio in piazza formavano la parentesi della
rivoluzione, che doveva soffocare il governo papale.
Ma poichè questo, non sentendo dentro di sè alcun
principio di vita, aspettava come forma viscida e morta dal di fuori
l'impronta, che doveva atteggiarlo in una nuova sembianza di vita, a
Roma pure si cominciò a parlare altamente di costituzione.
Era la pretesa dell'impossibile. Il partito moderato vi conveniva
gongolando, i rivoluzionari con abile perfidia spingevano alla
prova. I disegni fioccavano: l'illustre padre Ventura ne dette fuori
uno, nel quale con ingenua serietà proponeva due camere,
l'una eletta dai comizi, l'altra costituita dal collegio dei
cardinali; Pellegrino Rossi, ammirabile ed ammirato letterato di
scienze sociali, mandato da Luigi Filippo al papa come ambasciatore
e consigliere, faceva pompa d'esperienza costituzionale in avvisi al
pontefice e ai prelati sulle forme e sulle funzioni di un papa
parlamentare. La utopia del Gioberti stava quindi per prendere
corpo: la storia, per uccidere più sicuramente il papato,
gl'imponeva coll'impossibile prova d'una costituzione il più
mostruoso dei suicidi.
Al solito una rivoluzione di Parigi decise dell'ultima ambage del
pontefice, e lo statuto fu promulgato.
I suoi principii politici, inconciliabili nell'essenza e nella
forma, vi si urtarono entro le più inattuabili disposizioni:
le camere invece di due furono tre, e la terza veniva formata dal
collegio dei cardinali costituito in senato, e che discuteva e
votava a scrutinio segreto. Le camere elettive non duravano in
carica più di tre mesi: gli elettori erano una cerna assurda
di censo e di capacità, che non rappresentava alcuna classe
di popolo, e impediva anzi al popolo ogni rappresentanza. L'altro
consiglio alto era vitalizio e di nomina sovrana; così i
senati erano due, l'uno ecclesiastico e l'altro laico, entrambi
ingranati nella stessa costituzione. Alle due camere erano vietate
le leggi riguardanti gli affari ecclesiastici o misti, e tutto era
misto nelle teoriche di Roma e nello stato romano: non dovevano
influire sulle relazioni diplomatiche o religiose della santa sede,
non potevano introdurre per qualsivoglia bisogno, alcuna variante
nello statuto. Così l'immobilità caratteristica del
governo papale si riaffermava nella nuova formula parlamentare
essenzialmente progressiva. Lo statuto esprimeva il beneplacito del
sovrano anzichè il diritto del popolo. Pio IX, concedendolo,
aveva confessato di cedere all'andazzo dei tempi, ma, nonostante la
promessa consegnata nell'ultimo articolo dello statuto, che questo
sarebbe inserto in una bolla concistoriale secondo l'antico rito a
perpetua memoria, non ne fu nulla. Pio IX, come Carlo Alberto e i
Borboni, si teneva aperta una via al tradimento.
L'assurdità di tale esperimento costituzionale non parve
evidente che a ben pochi: l'antitesi delle due sovranità
popolare e papale sfuggiva all'inesperienza dei molti e veniva
negata per odio alla rivoluzione. Non si pensava ancora alle
conseguenze di sviluppo. Come avrebbe potuto ammettere la chiesa
l'emancipazione degli acattolici, l'abolizione delle proprie leggi
sul sacrilegio, la bestemmia, l'eresia, le immunità, i
privilegi, le giurisdizioni, la sorveglianza episcopale ai beni
delle opere pie? Come avrebbe consentito i matrimoni e i funerali
civili, la libertà di religione e d'istruzione? Come lo stato
vi si sarebbe determinato in faccia alla chiesa? Nel caso di un
conflitto fra l'alto consiglio e il concistoro dei cardinali, chi
avrebbe deciso? Il papa? E allora uno dei due corpi consultivi era
inutile. In un conflitto più terribile, fra la camera
elettiva e il papa, chi avrebbe sentenziato? Fatalmente gli
elettori; e allora una rivoluzione avrebbe distrutto il barocco e
artificioso edificio di questo statuto. Naturalmente il conflitto
sarebbe scoppiato anche troppo presto. Nella imminente guerra
coll'Austria Pio IX avrebbe agito da principe o da papa? Come
pontefice era al di fuori e al di sopra di essa, come principe
avrebbe dovuto guidarvi l'Italia. La distinzione fra questi due
caratteri come si sarebbe espressa? Il mondo l'avrebbe intesa?
All'Italia sarebbe bastata? Se lo statuto era una concessione del
sovrano, non riconosceva diritti nel popolo; riconoscendogliene, il
sovrano non era più che un rappresentante di esso come il
parlamento. Ma allora il popolo aveva diritto di mutare anche questa
nuova forma di governo, proclamando la repubblica: infatti questa fu
proclamata molto più presto che gli stessi esaltati non si
pensassero.
Intanto il partito moderato vaneggiava al governo col più
giovanile entusiasmo: giù nelle piazze il baccano delle feste
assordava gli orecchi anche più duri. Il nuovo ministero si
accinse all'opera con eccellenti intenzioni, ma senza idee
rivoluzionarie, quantunque la rivoluzione straripasse per tutta
l'Europa. A mezzo il mese si sapeva già che il cantone di
Neuchâtel si era mutato per sollevazione, la dieta di
Francoforte aveva sancito la libertà di stampa per gli stati
della confederazione germanica, il re di Baviera concedute
più libere istituzioni: Amburgo, Vittemberga, Sassonia
tumultuavano, Vienna era in fiamme; se ne diceva espulsa la
dinastia, l'Ungheria in armi.
L'ora fatale per l'Italia era dunque discesa sul quadrante della
storia. Unità o confederazione e guerra allo straniero, ecco
il programma; armare il popolo, sollevarlo, profittando del suo
entusiasmo, precipitarlo come una valanga sull'Austria atterrita e
scomposta. riconquistare tutta Italia dimenticando in questa
conquista ogni gelosia di principato, ogni riserva di statuto, ogni
egoismo di regione, e l'Italia trionfante si ricomporrebbe, a
seconda del proprio diritto. Solo una vera rivoluzione avrebbe
potuto far questo, ma non era nell'anima nè dei popoli,
nè dei principi. Così non si raggiunse nè
l'unità, nè la federazione, e la guerra regia fu
lombarda nelle sommosse, piemontese nelle battaglie, republicana
negli assedi, italiana solo nei tradimenti e nelle sconfitte. Il
numero dei volontari vi fu scarso, quasi nullo il carattere
popolare, breve la durata, epico il valore dei rivoluzionari,
infelice la condotta di tutti i governi traditori o traditi; gli
statuti apparvero tranelli, la confederazione una lustra, le
republiche un sogno, il principato piemontese insufficiente, quello
napoletano straniero; Roma sola rappresentò tutto il mondo
nell'abolizione del potere temporale, ma, accecata dal proprio
lampo, volle essere romana anzichè italiana. Non vi fu
rivoluzione interna giacchè nessuna classe ne sostituì
un'altra al governo, carnevale e diplomazia viziarono la guerra, le
campagne si scopersero austriacanti o clericali, l'idea
rivoluzionaria impedì l'opera regia, questa vietò
l'accordo nazionale, mentre libertà ed indipendenza si
contraddicevano nella stessa impossibilità di attuazione,
affrettando la disfatta di quest'ultima rivolta federale e
costituzionale.
Intanto che tutta Italia si sbizzarriva nel baccanale degli statuti,
sciupandovi forze preziose, nel Lombardo-Veneto la tensione degli
spiriti cresceva tutto giorno. Il problema rivoluzionario,
così involuto negli altri stati, si semplificava sulle terre
occupate dallo straniero nella suprema necessità della sua
espulsione. Il dibattito delle future forme politiche vi era
piuttosto querela di accademia che di partito: la tirannide
austriaca era troppo dolorosa per concedere agli spiriti l'ozio
necessario ad una simile discussione. Il conte Fiquelmont, mandato a
sorreggere il fiacco vicerè Ranieri, aveva reso più
triste l'azione della polizia proibendo le ovazioni al nuovo
pontefice, insidiando, violando coscienze e case. Una guerra si era
accesa fra popolo e polizia, accanendosi coi più futili
pretesti: i liberali immaginarono d'impoverire l'Austria non
giuocando al lotto, non fumando e proibendo di fumare.
Erano rappresaglie piuttosto di scolari che di uomini, e parvero
eroismi e alcuni ne produssero. Ma se la diplomazia europea commossa
a queste violenze sanguinose s'intrometteva a placarle, e il
vicerè scendeva a bugiarde promesse, il vecchio Radetzki
invece con indomabile baldanza stringeva la spada pronto a colpire.
Sui confini intanto il Piemonte raddoppiava le guardie; il clero,
esacerbato contro l'Austria per la ferrea disciplina impostagli e
per gli sfregi usati a Pio IX, si schierava dal canto del popolo;
persino la rappresentanza municipale, sempre modello di
servilità amministrativa, osava sporgere una protesta contro
l'ultimo editto minacciante tutti i cittadini della deportazione. Ma
il governo austriaco, quantunque minacciato in tutta la
varietà delle proprie provincie dalla stessa rivoluzione e
forte solamente nella propria unità dinastica e burocratica,
non cedeva. La sua politica di mezzo secolo, rendendolo inetto ai
sùbiti cambiamenti imposti dall'opinione dei piccoli
principati d'Italia, lo tirava piuttosto al rischio di una guerra
che alle conseguenze imprevedibili degli agguati costituzionali.
Così, mentre Milano si preparava con orgasmo minaccioso ad un
supremo tentativo di riscossa, e Venezia sempre più mite
cominciava appena con Manin e con Tommaseo l'agitazione legale
domandando per mezzo della propria congregazione centrale qualche
riforma, la cancelleria imperiale rispondeva con truce risolutezza e
promulgava la legge stataria incarcerando Manin e Tommaseo come
ribelli.
La tensione era estrema in tutto l'impero. La rivoluzione scoppiata
inaspettatamente a Vienna fugò prima l'onnipossente ministro,
poi il debole imperatore.
Capitolo Secondo.
Le sommosse popolari e la guerra regia
Le cinque giornate di Milano.
Alla notizia della rivoluzione viennese il vicerè Ranieri (17
marzo 1848) fugge sbigottito a Verona; Milano, stupita, invece
d'insorgere profittando delle agitazioni di quell'ora, parlamenta; i
più autorevoli fra i patrioti moderati sognano ancora un
principato autonomo in una specie di consorzio politico delle
nazioni componenti l'impero, mentre il governo, falsificando
dispacci, largheggia di promesse che tradiscono il suo timore.
Nullameno l'ispirazione popolare guadagna i capi: ogni ora precipita
le decisioni, si aduna un comitato senza nome, nel quale non si osa
ancora la rivolta e si ricusano come insufficienti tutte le
concessioni. Una dimostrazione sotto il palazzo del governo degenera
in lotta, il governatore messo alle strette firma l'ordine che
destituisce la polizia e affida al municipio la guardia della
città, ma il maresciallo Radetzki, niente atterrito dal caso,
sguinzaglia parte delle truppe nelle strade per atterrire la
popolazione. Allora l'opposizione, già cresciuta a lotta,
prorompe a mischia. In ogni canto sorgono barricate costrutte da
inermi coll'infallibile ispirazione del momento, mentre di sui
tetti, dai campanili, dalle finestre scoppia una battaglia ardente
come un incendio, nella quale tutto il popolo è al tempo
stesso capitano e soldato. Le campane, suonando a stormo con
instancabile impeto, sembrano gettare all'Italia un appello
disperato, il palazzo municipale preso e ripreso s'insanguina
d'eroici cadaveri, ma la insurrezione domata in un punto vampeggia
su tutti gli altri. Invano Radetzki minaccia di bombardare la
città accerchiandone coi propri soldati i bastioni,
più invano il municipio presieduto dal conte Gabrio Casati,
obliqua figura di aristocratico liberale, vorrebbe patteggiare col
nemico, giacchè Carlo Cattaneo, la mente più poderosa
della città, cinto da uno stuolo di giovani, fra i quali
primeggia Enrico Cernuschi, dirige con mirabile alacrità la
battaglia. Teatri e musei privati forniscono le prime armi, che,
troppo scarse al bisogno, sono sostituite da qualunque arnese di
morte: nulla sgomenta i ribelli, si bruciano edifizi, si conquistano
cannoni, ogni casa diventa fortezza, si assaltano le caserme con
valore irresistibile e una scienza improvvisata di guerra. Il popolo
potente di concordia supera se stesso nella generosità,
rispettando prigionieri i più truci capi della polizia
austriaca; non un misfatto guasta la vittoria, che Anfossi col
proprio sangue e Luciano Manara con un eroismo foriero di eroismi
maggiori consacrano: e mentre il municipio inguaribilmente timido
sta per cadere nell'agguato tesogli da Radetzki con una proposta di
armistizio, e si muta all'ultima ora in governo provvisorio a
frenare l'impeto della rivoluzione che potrebbe forse salvare
l'Italia, battaglioni di volontari cacciano gli austriaci dalla
città. Governo provvisorio e comitato di guerra vi rimangono
padroni e rivali.
Intanto Como è già insorto patteggiando col proprio
comandante Baumüller che la custodia della città sia
divisa fra la guardia civica improvvisata e il presidio militare, ma
questo capitola dopo due giorni; Bergamo e Brescia costringono gli
austriaci alla fuga; Cremona induce il battaglione italiano
Ceccopieri a fraternizzare col popolo; Verona, assediando il
vicerè Ranieri rifuggitovisi, lo obbliga ad accordare
l'armamento della guardia civica; Mantova costringe il proprio
governatore Gorczkowsky alla stessa concessione.
Pare una leva in massa contro lo straniero e nullameno la
rivoluzione fallisce: si combatte l'Austria, ma non si afferma
ancora nettamente l'Italia, il concetto della nazionalità
s'intorbida nella lotta, non si sa quale governo costituire o a chi
darsi. La secolare soggezione allo straniero dura in fondo a quasi
tutte le coscienze, il movimento municipale rimane frammentario e
contradittorio, manca la bandiera ai combattenti e l'idea ai
rivoluzionari. Quasi tutte le città sono insorte al grido di
Viva Pio IX, che non può essere nè il loro sovrano
nè quello d'Italia: la rivolta, incapace di sorpassare la
propria negazione, si contradice nelle intenzioni e vien meno nelle
misure. Così Bergamo e Brescia si lasciano sfuggire
l'arciduca Sigismondo, Cremona manda libero il comandante austriaco,
Mantova abbindolata dal proprio vescovo non occupa i fortilizi e non
cattura l'arciduca d'Este fuggiasco dall'insurrezione di Modena,
Verona non osa impadronirsi del vicerè Ranieri. Modena si
è sollevata contro il proprio giovane duca, più vile
ma non meno tristo del padre Francesco IV; Parma si è
ammutinata contro il duca Lodovico, mentre Piacenza sempre rivale ha
già formato un governo provvisorio separato, e la loro
ribellione non mostra ancora carattere nè rivoluzionario
nè militare. Il duca vi delega una reggenza per compilare una
costituzione; quindi, colpito da vecchie e legittime diffidenze, vi
rimane semiprigioniero qualche giorno, finchè esula,
commettendo al municipio la nomina di un governo provvisorio ed
invocando sullo stato la tutela di Carlo Alberto.
Mentre Milano al quinto giorno interrompe la propria insurrezione
colla minaccia dello straniero, Venezia riscossa dal rombo della
battaglia lombarda, si era già precipitata alle carceri per
liberare Tommaseo e Manin. Prima gli operai dell'arsenale vi
trucidano un colonnello, Manin con poche guardie civiche
s'impossessa dei cinquantamila fucili che vi sono in deposito e
punta le artiglierie contro la caserma dei croati, lasciando il
municipio stringere dappresso il governatore per costringerlo a
capitolare. Gli austriaci, ritirandosi con tutti gli onori delle
armi, odono il formidabile urlo popolare ripetere per tutte le isole
della laguna il grido di Manin: viva la republica! Le antiche glorie
paesane rifiammeggiano nelle fantasie, Manin acclamato presidente
sarà l'ultimo doge di questa suprema scena repubblicana, che
cancellerà col sangue di molti prodi l'onta di Campoformio.
Padova, Treviso, Vicenza, Rovigo, Udine, Belluno si ribellano; pochi
insorti espugnano i forti d'Osoppo e di Palmanova, ma anche le
città venete ripetono l'errore delle città lombarde.
Verona resta in mano al nemico, Venezia tentando impadronirsi della
squadra austriaca di Pola, montata da marinai veneti, con un
dispaccio annunziante loro la rivoluzione, si serve di un vapore del
Lloyd e permette al Palffy dianzi governatore di salirvi.
Naturalmente questi fa rotta per Trieste e le autorità di
Pola, informate a tempo, impediscono l'ammutinamento delle ciurme.
Radetzky, respinto dall'insurrezione di tutti i paesi, si era dovuto
chiudere nell'imprendibile quadrilatero di Mantova, Verona, Legnago
e Peschiera. L'Austria, sconquassata dalla rivoluzione di Vienna e
aggredita da quella d'Italia, dominava ancora sulla penisola
dall'alto di fortezze, alle quali solamente eserciti regolari
potevano porre l'assedio. I lupi ammassati negli antri
spaventerebbero quindi fra poco quegli stessi cacciatori, che li
cacciavano con gioconda intrepidezza pei campi.
A Milano la rivoluzione vittoriosa dello straniero soccombe al
proprio problema. Poichè il moto italiano è federale,
Milano non può che incorporarsi al Piemonte o erigersi in
seconda repubblica: ma nel primo caso la dedizione contrasta ai
sentimenti liberali e al legittimo orgoglio del popolo tuttora
insanguinato della propria vittoria, nel secondo un'altra repubblica
Cisalpina con Milano capitale sarebbe osteggiata da tutte le altre
città minori insorte, dai principi d'Italia e dall'Europa
monarchica. D'altronde un nuovo stato lombardo non avrebbe radice
nè nella tradizione troppo remota, giacchè alla
Cisalpina di fondazione francese mancarono sempre autonomia e
libertà, nè nell'idea rivoluzionaria inconsciamente
aspirante all'unità. L'insurrezione contro l'Austria,
determinata da feroci angherie di governo straniero, non aveva
ancora in se stessa abbastanza odio per mutarsi in vera rivoluzione.
Infatti le campagne partecipavano ben poco al moto delle
città; queste, contente alla cacciata del nemico, non lo
inseguirono, rispettarono gli agenti di polizia prigionieri,
accettarono per capi molti di quella aristocrazia che aveva sempre
più o meno servito all'Austria. Non si osò di colpire
gli arciduchi, si credette alla parola dei vescovi, non si
ardì negare assolutamente lo straniero, inseguendolo colle
spade alle reni, trucidando i suoi adepti, precipitando la guerra
civile coi falsi liberali, e cogli aperti austriacanti. Si
rifuggì da una dichiarazione francamente republicana, non si
comprese la necessità del terrore. Il grido di viva Pio IX,
col quale cominciò l'insurrezione, non poteva essere il grido
di nuovo Vespro Lombardo: la supremazia lasciata al municipio
reazionario era già una confessione di servitù, la
guerra non proseguita immediatamente indicava la stanchezza
succeduta ai primi sforzi. Il comitato stesso di guerra non seppe
schiacciare il municipio, assumere l'immensa responsabilità
della rivoluzione, e spingendo il popolo all'estremo tagliargli la
ritirata. L'esempio della Convenzione francese o non fu ricordato o
atterrì anche i più audaci. Si volle essere generosi
quando nell'implacabilità stava la salute; non si capì
che ad una rivoluzione occorre una passione eslege e un'idea chiara.
Milano, insorgendo contro gli austriaci non fu nè lombarda,
nè italiana, nè republicana, nè regia: quindi
la vittoria insperata, costringendola a rivelarsi, la confuse. Se la
grande metropoli avesse avuto ancora l'antica supremazia, sentendosi
viva nel cuore la superbia del proprio comune, si sarebbe gridata
republica, e la Lombardia l'avrebbe seguita: ma ciò non fu e
non poteva essere. Se la federazione fosse stata nella sua coscienza
avrebbe fino dalla prima ora invocato il Piemonte, gridando il nome
di Carlo Alberto invece di quello di Pio IX, costituendo un'Italia
del nord, e Venezia forse trascinata dall'esempio avrebbe
dimenticato il proprio passato aderendovi.
Ma la rivoluzione federale di allora, falsa nell'idea e nel
processo, doveva avvolgersi per tutte le provincie d'Italia nelle
stesse contradizioni: Mazzini, che pronto a rimpatriare cospirava da
Parigi fondandovi una nuova associazione nazionale, si lasciò
soverchiare dal moto: combattè cogli scritti l'illusione
monarchico-papale, e vi cedette, invece di spingere i propri
aderenti ad un'azione schiettamente rivoluzionaria, quantunque
tragico ne fosse poi il risultato. Il suo temperamento di moralista
e la sua tempra di apostolo non erano da tanto: sarebbe stato un
tentativo inutile ma logico, e non uno dei capiparte si mantenne
logico in quella tormenta. Dei due problemi della libertà e
dell'indipendenza, così profondamente compenetrati, nessuno
doveva essere sciolto, perchè in nessuno vi poteva essere
accordo di tutti. Infatti nemmeno in quello dell'indipendenza, che
pareva il più facile, si convenne. I governi italiani
assisterono allo scoppio della ribellione lombardo-veneta senza
decidersi; l'aborrimento ai tedeschi nelle provincie, non da questi
occupate, era nel popolo poco più di una antipatia: il caso
di Milano non riguardava che il Piemonte, il quale solo poteva
profittarne, incorporandosela.
Così fra il comitato di guerra e il governo provvisorio
milanese s'accese colla vittoria una infelice rivalità:
questo avrebbe voluto aderire subito al Piemonte per uscire
dall'instabilità della sommossa, ed era il partito dei nobili
e dei ricchi inteso a profittare dei risultati delle cinque
giornate; quello, composto di coloro, che realmente avevano vinto,
rifuggiva da una dedizione incondizionata al Piemonte. Il dibattito
difficile si fece presto aspro. Piemonte e Carlo Alberto non
meritavano tale sacrificio, giacchè non avevano nè
giovato alla Lombardia, nè operato per l'Italia: ma la
dedizione diventava inevitabile senza la proclamazione di un'altra
Cisalpina. Il comitato di guerra, incapace di fare una vera
rivoluzione, scelse un mezzo termine inutile nel risultato ed
ingenuo nella procedura, accettando il Piemonte e lasciando in
sospeso la decisione sulla forma di governo. A guerra finita il
popolo avrebbe deciso: come se col Piemonte vittorioso la Lombardia
avesse poi potuto evitare di esservi incorporata!
Ma quest'accademia ammansava le suscettibilità dei
rivoluzionari, che volevano salve le forme dei plebisciti.
Adesioni di guerra.
Intanto in Piemonte governo e paese fremevano d'opposti sentimenti.
Le diplomazie europee, spaventate da tante rivoluzioni simultanee,
premevano sul piccolo stato sconsigliandolo dall'entrare
nell'incendio per non farlo maggiore: la corte, già inquieta
per le novelle repubblicane di Francia, si atterriva all'impreveduta
insurrezione lombarda, che poteva costituire sul confine orientale
un'altra republica, mentre il popolo, abbandonandosi alla propria
avversione pei tedeschi, urlava d'entusiasmo. Carlo Alberto, sempre
più piemontese che italiano, più tiranno che re,
più ingordo di conquista che disposto a servire l'Italia
formandola in nazione, tentennava. Quindi le sue misure oblique di
governo confondono, poi esasperano la folla: ordina d'arrestare
quanti volontari tentino guadare il Ticino per soccorrere i fratelli
lombardi, ricusa di ricevere il conte Arese ambasciatore di Milano,
e deputa il conte Martini al governo provvisorio e al comitato di
guerra per offrire loro l'aiuto regio a patto di una dedizione
incondizionata. Ma il Cattaneo gli risponde con nobile alterezza.
Poi alla notizia che l'insurrezione è vittoriosa, Radetzky in
fuga e Venezia in armi, Carlo Alberto si decide vinto dalla paura di
un'altra ribellione piemontese. Genova già tumultuava,
volontari armati passavano malgrado ogni divieto il confine, la
stampa alzava la voce, l'ora delle esitanze era fatalmente
trascorsa. Il re, che diceva segretamente all'Europa di entrare in
Lombardia per impedirvi una repubblica, mandò quindi il
proprio proclama agl'insorti chiamandoli fratelli e dichiarando che
l'Italia questa volta avrebbe fatto da sè. Era questa una
risposta a coloro che invocavano l'aiuto di Francia e di Svizzera,
una dichiarazione regia colla quale Carlo Alberto si affermava
aprioristicamente sovrano dell'impresa.
Il 25 marzo il generale Bes piemontese passava il Ticino, dando alle
proprie truppe il vessillo tricolore; il 31 Carlo Alberto
s'accampava a Lodi con 22,000 fanti, 2200 cavalli e 5 batterie.
L'esercito era scarso, male agguerrito, guidato da generali inetti.
Il re, lasciando il Piemonte, aveva ordinato al popolo di mantenersi
quieto; la guerra doveva essere regia anzichè nazionale
perchè la rivoluzione non soverchiasse.
L'insurrezione lombarda vittoriosa su tutti i punti, mentre le
truppe piemontesi s'inoltravano nel suo territorio, lambiva il
Tirolo: Trento si era profferta a Mantova per aiuti, ma non aveva
avuto risposta; battaglioni di volontari occupavano già le
valli dell'Adda e dell'Oglio, l'insurrezione veneta aveva dato in
mano ai montanari della Carnia e del Cadore i passi dall'Austria
all'Italia. Nel primo entusiasmo della rivolta una sottoscrizione
aperta in Milano aveva fruttato in soli due giorni quasi un milione:
i ruoli dei volontari si allungavano, mentre i soldati italiani al
servizio dell'Austria disertavano. A questa non rimanevano che
50,000 uomini rotti e sbigottiti nel Quadrilatero.
Il resto dell'Italia infervorato scriveva di aiuti, affrettandosi a
mandarli. Giuseppe Garibaldi, già salpato da Montevideo per
confortare questa guerra santa colla propria mirabile abitudine
della vittoria, stava per discendere a Genova. Una squadra di
operai, reclutata a Londra e a Parigi dal generale Antonini, vi era
già stata arrestata dal governo piemontese sempre più
diffidente che mai della rivoluzione.
A Milano la lotta fra il comitato della guerra scioltosi
volontariamente e il governo provvisorio si accaniva sotto le
apparenze di un accordo patriottico. Cattaneo si era ritirato
dall'arringo; Mazzini, entrato in Milano fra immense ovazioni, aveva
dichiarato la propria neutralità perchè la nazione a
guerra vinta decidesse poi della propria forma di governo; ma
l'antagonismo politico della rivoluzione popolare colla conquista
regia non poteva placarsi per riserve di capi o per espedienti di
costituzionalismo. I rivoluzionari spingevano con tutta possa
all'armamento del popolo per assicurare la cacciata dell'Austria da
tutta l'Italia e, cooperandovi gloriosamente, essere poi in grado di
resistere all'assorbimento della monarchia piemontese: questa,
già accordatasi col governo provvisorio, più
aristocratico che italiano e più monarchico che patriotta,
contrastava ad ogni iniziativa popolare, persuadendo che Milano
aveva già fatto anche troppo e al resto basterebbero gli
eserciti piemontesi. Naturalmente la sincerità era scarsa in
tutti i partiti: i radicali, per quanto più fervidi nell'odio
all'Austria, non potevano così dimenticare i vecchi
tradimenti di Carlo Alberto da sacrificargli in questa ora suprema
ogni speranza di libertà e d'indipendenza: i moderati, consci
della viltà mostrata nelle cinque giornate e della propria
costante servilità all'Austria, diffidavano di una
rivoluzione, nella quale sentivano che il primo atto avrebbe dovuto
essere la loro espulsione. Il popolo si veniva raffreddando in
siffatta lentezza di guerra e in quel dubbio umiliante che gli
toglieva di riconoscersi una patria e un governo. Carlo Alberto
sempre teatrale aveva dichiarato che non entrerebbe a Milano se non
vittorioso, e perdeva gl'inestimabili vantaggi di un primo assalto
contro Mantova ancora sguernita. I volontari capitanati da Teodoro
Lechi, republicani i più, venivano lasciati senz'armi, senza
vestiario, senza denaro: si cercava di limitare il numero delle loro
iscrizioni; poi sospinti nel Tirolo, ai passi delle Alpi, impediti
di combattere, forzati ad abbandonare quei luoghi e le insurrezioni
nascenti, finalmente richiamati, furono con malvagia umiliazione
disciolti. Si ricusavano gli esuli divenuti illustri combattendo per
la libertà d'altri popoli: Mickiewicz con pochi volontari
polacchi era tenuto quasi prigioniero nell'ozio increscioso di una
caserma per timore di spiacere allo czar, e non fu poi chiamato al
campo che per impedirgli di accorrere a Venezia: Enrico Cialdini,
che diventò poscia generale del Piemonte, ributtato dal
Collegno, dovette andare a Venezia per battersi, e vi cadde ferito;
Giuseppe Garibaldi, generosamente dimentico della condanna capitale
ancora sospesa sul suo capo, fu indarno stancato dal ministro
Sobrero con ogni più bassa maniera d'infingimenti: il Fanti e
il Cucchiari respinti, il Cernuschi e l'Anelli imprigionati.
Carlo Alberto, più facile a sperare in maneggi diplomatici
che nella sorte delle armi, si acquetava già nel disegno
segreto di un'Italia del nord dimenticando il Tirolo, diffidando di
Venezia risorta republica, seguitando a trattare con Vienna,
ordinando alla propria marina di non commettere ostilità
contro le navi da guerra austriache e di rispettare tutti i
bastimenti naviganti sotto bandiera tedesca. Il lavoro della
diplomazia piemontese, allora presieduta da Cesare Balbo, mirava a
precipitare le annessioni lombardo-venete senza offendere troppo
l'Austria, per ottenere, secondo i consigli del Gioberti, un
accomodamento fortunato. A ciò occorreva impedire la lega
italica, della quale il papa farneticava ancora, e non ammettere
alla guerra troppe altre armi.
Mentre la Toscana, sollevatasi all'annunzio della rivoluzione di
Vienna e della prima giornata di Milano, apprestava un piccolo corpo
di volontari esaurendosi nelle solite dimostrazioni patriottiche, il
granduca Leopoldo con vecchia arte di governo intendeva a profittare
del loro chiasso per occupare i territori estensi di Fivizzano,
Massa Carrara e Pontremoli. Ma, poichè il fermento cresceva,
dovette bandire la guerra nazionale carteggiando segretamente col
Radetzky. I provvedimenti monetari di guerra furono derisorii: non
s'impose che una tassa straordinaria sui fondi corrispondente alla
terza parte dell'ordinaria, e una ritenzione progressiva dell'uno al
5% sullo stipendio degl'impiegati, entrate non esigibili che nel
corso di un'annata: allora si era di marzo. Per l'esercito non si
ordinò che una leva di 2000 uomini sulla coscrizione del
1819, lasciando sprovvisti di ogni bisognevole i volontari.
A Roma gli echi delle insurrezioni trionfanti nel nome del pontefice
gettavano il suo governo nella crisi di problemi insolubili. Dopo le
riforme gli statuti, dopo gli statuti la guerra. L'inesorabile
logica della storia affrettava la catastrofe. Invano Pio IX credeva
di poter resistere alla scissura della propria duplice
sovranità spirituale e politica, coprendo la
responsabilità del principe coll'infallibilità del
papa. La marea della publica opinione lo soverchiò,
imponendogli di concedere al ministro della guerra Aldobrandini la
formazione di un piccolo esercito, e tre giorni dopo (23 marzo)
l'apertura dei ruoli per l'iscrizione dei volontari, affidando la
loro organizzazione al generale Ferrari. La folla fu tale alle
iscrizioni che si dovettero chiudere entro 24 ore per mancanza di
armi. Gli armati invece non superarono i 2300, e Giacomo Durando,
generale piemontese mandato da Carlo Alberto, ne assunse il comando
supremo. Erano preparativi di guerra, mentre si chiedeva scusa
all'Austria degli stemmi imperiali abbattuti e bruciati dal popolo,
che aveva scritto sul portone dell'ambasciata tedesca: Palazzo della
Dieta italiana. Papa e ministri egualmente incerti non avevano
più che l'assurda idea di combinare diplomaticamente una
dieta italiana, quando la guerra ferveva contro lo straniero e alla
guerra si sarebbe dovuto aiutare con ogni sacrificio.
Ma le Provincie papaline tumultuavano. Bologna, sollevatasi per
aiutare Modena a cacciare il duca, era rimasta in armi per la guerra
lombarda, traendo coll'esempio tutte le Romagne. La guerra era nelle
fantasie, nelle coscienze, nei problemi, che sollevava ed imponeva,
aggirando le teste, confondendo simboli e fatti, principii e
espedienti. Pio IX, vinto ancora una volta dalla poesia del momento,
dovette bandire ai popoli d'Italia un ultimo proclama altrettanto
incerto nelle frasi e nelle idee, monito ed insieme benedizione che
essendo di papa parve essere di Dio, e venendo dal principe persuase
che egli pure si accordasse alla grande impresa contro lo straniero.
L'entusiasmo crebbe: i volontari mossero da Roma ai confini
settentrionali dello stato coll'ordine di difenderli, ma col
proposito di varcarli. Era una festa, si parlava di crociata, si
distribuivano croci per coccarde ai soldati, che per la maggior
parte non credevano più nè alla religione del papa
nè al diritto del re. Infatti a Roma l'agitazione
rivoluzionaria aumentando di giorno in giorno forzò pontefice
e ministero a scacciare i gesuiti. Non era ancora la rivolta allo
statuto, ma era già la negazione del suo principio
fondamentale ieratico.
Poco dopo, il Durando accampato sul confine di Ferrara, non
riuscendo a frenare l'impeto dei volontari e giovandosi di un
assenso confuso del papa e di un altro senza dubbio esplicito di
Carlo Alberto, dichiarava in un proclama furbescamente mistico,
cristiana la guerra all'Austria, e ne rigettava con molti fiori
rettorici la responsabilità su Pio IX. Questi, indignato che
un generale parlasse nel suo nome di pontefice protestò
vivamente, senza accorgersi che il proclama di Durando fosse
l'ultima fatale espressione del concetto sul papato messo in voga
dal Gioberti e acclamato da tutti. Si era voluto il papato come
strumento di rigenerazione politica, e doveva quindi partecipare
alla guerra che ne segnava la prima crisi. L'anacronismo di un
generale piemontese proclamante a nome del papa una guerra di
religione valeva l'altro dello statuto concesso dal papa medesimo ai
propri popoli e della lega fra i principi italiani, cui il papa si
ostinava tuttora. Una irresistibile vanagloria lo faceva sognare
questa lega, della quale Lamartine in nome della Francia lo salutava
già presidente: quindi, credendosi corrivo, proponeva
ingenuamente di ammettere al congresso anche i rappresentanti dei
governi provvisori, senza avvedersi di urtare nella politica
piemontese delle annessioni. Il granduca Leopoldo vi aderì
per guadagnar tempo ad abbindolare i propri popoli; il Borbone di
Napoli mandò una deputazione con ordine rigoroso di ricusare
i ribelli deputati siciliani e di esigere la presidenza come per lo
stato più esteso e potente d'Italia; Carlo Alberto
dichiarò per mezzo del ministro Pareto che «in vista
dello stato provvisorio di governo, nel quale si trovavano
gl'Italiani sottrattisi al giogo dell'Austria, e per la guerra in
corso la lega non si poteva stabilire». Ma questa confessione,
che rompeva la neutralità giurata ai repubblicani milanesi,
fu meglio intesa dall'invidia dei principi che dall'ingenuità
del popolo.
Napoli, lontana dal teatro della guerra, si esauriva intorno al
proprio problema costituzionale. Non si poteva credere, e da molti
non si credeva, al re; nullameno non si osava compiere la
rivoluzione detronizzandolo. La costituzione non funzionava; il
ministro Bozzelli, rinnegando il proprio liberalismo, secondava
gl'infingimenti di Ferdinando intesi a contristare la nuova vita
politica. Così alle notizie delle rivoluzioni di Vienna e di
Milano, mentre il popolo abbatteva gli stemmi austriaci e gridava
armi per la Lombardia, Ferdinando atterrito aveva permesso
l'arruolamento dei volontarii, scusandosene coll'Austria. Nella sua
vecchia gelosia di tiranno soffiava una nuova invidia di re. L'astro
araldico di Carlo Alberto che sembrava levarsi sulle Alpi lombarde,
gli presagiva che una guerra piemontese vinta contro l'Austria
avrebbe annullato tutti gli altri principi italiani: laonde
contrastandovi intendeva a salvare se medesimo. Lasciò quindi
partire i primi volontarii colla principessa Belgioioso, mise a
presidente del nuovo ministero l'illustre storico Carlo Troya, di
carattere onesto ma di scarso valore politico, accettò
persino Pepe, tornato dall'esilio, a generale dei 14,000 soldati
avviati verso il Po: ma, trincerato dietro tutte queste apparenze
liberali, ordiva febbrilmente una congiura contro lo statuto e la
guerra nazionale. Intanto a Pepe si era ordinato di fermarsi al Po
aspettando nuovi ordini; e l'incorreggibile carbonaro, dimentico dei
passati tradimenti, non solo credette ancora, ma consigliò al
re di mettersi alla testa di 60,000 uomini per correre sull'Isonzo a
dettare la pace all'Austria. Questo consiglio era l'ultima
espressione del dualismo, che, dominando inconsciamente la politica
di Napoli e di Torino, concordava la loro rivalità
nell'interesse di un grande futuro stato italiano. Il Borbone vi si
ricusò, ma Napoli cedette così a Torino la gloria di
mutarsi in prima capitale d'Italia.
Napoli non era più che la più grossa città
della penisola; Palermo, ribellatasi ai primi moti, le si erigeva
dinanzi provocatrice nell'odio della riconquistata autonomia. Il
parlamento, inaugurando il 25 marzo la propria costituzione con una
solennità religiosa nella chiesa di San Domenico, avrebbe
dovuto decidere finalmente della forma di governo; ma gli animi
divisi, l'antica tradizione regia e i nuovi istinti democratici ne
imbrogliavano il problema che sarebbe appena stato tale.
Poichè la rivoluzione aveva cacciato i Borboni, assurde
diventavano le pratiche tuttora aperte per trapiantare nell'isola un
ramo della stessa dinastia. Il governo presieduto da Ruggero
Settimo, il più insigne e popolare patriota, avrebbe dovuto
gridarsi in republica, affrontando coraggiosamente l'opposizione
della grossa aristocrazia propensa ad un re per conservare con lui
gli antichi privilegi. Così consigliava con singolare
intuizione di libertà il padre Ventura allora legato
siciliano a Roma. Ma nonostante tutti i vantaggi d'aver guidato la
rivoluzione e di tenerne ancora in mano i poteri, il governo non
osò. Anche in Sicilia il moto era più separatista che
rivoluzionario, senza vero concetto democratico; quindi rimase allo
stato di accademia politica, perdendosi nelle più futili
discussioni sul nuovo stemma dell'isola e sugli emblemi di fraterna
concordia da mandare a Roma e a Torino, mentre tutta l'Europa era in
preda alle rivoluzioni e in Italia inferociva già la guerra.
Unico aiuto, come vergognando, si mandò in Lombardia un
drappello di 100 siciliani comandati dal La Masa. Solamente
più tardi a nuove minaccie di re Ferdinando il parlamento si
riscosse e decretò la decadenza dei Borboni, per sostituirli
con un'altra monarchia costituzionale. Il nuovo re sarebbe eletto
dopo una necessaria riforma dello statuto, ma doveva essere
italiano. Questo pomo di discordia gettato fra i principi, e il
manipolo di La Masa erano la maggior concessione e il supremo
sacrificio che la Sicilia potesse fare alla causa della
nazionalità italiana.
La campagna piemontese.
Nullamento la guerra sembrava proseguire con crescente fortuna. La
Francia, già prodiga di consigli, si offriva generosamente
compagna all'impresa. Lamartine allora reggente il ministero
addensava 60,000 uomini ai piedi delle Alpi, apprestando una flotta
nel Mediterraneo; la Svizzera si disponeva a mandare un grosso corpo
di volontarii a Milano; però il governo piemontese, temendo
il contagio republicano, non solo ricusò ogni aiuto, ma
dichiarò che avrebbe considerato come caso di guerra il
passaggio di qualunque corpo armato alle proprie frontiere. Un
tentativo di sollevazione in Savoia per congiungersi alla Francia
venne a dargli ragione. Certo la Francia, intervenendo e cacciando
d'Italia i tedeschi, avrebbe chiesto come dieci anni più
tardi a compenso i territori di Nizza e di Savoia, questa
prettamente francese di geografia e di storia, quella dubbia di
nazionalità come molte città di confine, una volta
francese, ora piuttosto italiana; e il governo sardo li avrebbe
consentiti. Ma nel fermento republicano d'allora e coll'intenzione
palese della Francia di costituire nel Lombardo-Veneto due piccole
republiche, Carlo Alberto ricusò. All'interesse d'Italia
egli, re del Piemonte, prepose naturalmente il proprio: Lamartine,
comunicando al proprio ministero la risposta di Carlo Alberto
minacciante d'armare i forti della Savoia contro i francesi,
esclamò con profetica pietà: «Gl'italiani sono
ciechi e dementi!» Quindi la Francia decise di non intervenire
che invocata.
Mentre a Milano ferveva l'opera dell'annessione indarno contrastata
dai republicani, Radetzky bloccato nel Quadrilatero dall'esercito
piemontese sembrava a tutti prigioniero. Carlo Alberto, mal sicuro
del proprio ingegno militare, e sempre sospeso in maneggi
diplomatici, dopo le fortunate fazioni di Goito e di Monzambano,
seguitava a perdere un tempo prezioso in vane ricognizioni contro
Peschiera e su Mantova. Così Nugent, mandato da Vienna con
grossi rinforzi, prima che gli si possa contendere il passo, guada
l'Isonzo indifeso, prende Udine difilandosi su Verona; Belluno e il
Cadore si difendono, ma il generale austriaco passa il Tagliamento
e, superata una fiacca resistenza di veneti, si accampa a
Conegliano. Per questa grave minaccia Carlo Alberto, mutando
consiglio, ordina al Durando di passare il Po colle truppe
pontificie. Questi, che con inesplicabile negligenza non aveva
sloggiato gli austriaci dalla cittadella di Ferrara, avrebbe voluto
correre su Venezia; ma Carlo Alberto, poco tenero della salute della
nuova republica, gl'impone di marciare sopra Ostiglia per
fronteggiare Mantova e coprire i ducati, dei quali spera
l'annessione. Il governo di Roma, prevedendo il caso che Durando
passasse il Po, aveva cercato una scusa a se medesimo, col
risuscitare gli antichi diritti della chiesa sul Polesine soppressi
dai trattati del 1815. Nugent manovra per congiungersi a Radetzky,
Durando e Ferrari per impedirglielo; questi, battuto a Cornuda con
un corpo di volontari, si ritirava a Treviso, Durando accorre per
sostenerlo, senonchè Nugent rapidissimo passa La Brenta ed
investe Vicenza. Sebbene la piccola e coraggiosa città
resista strenuamente, Nugent può unirsi a Radetzky rialzando
le sorti d'una guerra che avrebbe dovuto esser vinta per l'Italia.
Allora Carlo Alberto, comprendendo finalmente la necessità di
tagliare le comunicazioni dell'esercito austriaco colla Germania, si
risolve all'azione. Il suo esercito è quasi di 70,000 uomini:
5000 toscani sulla sua destra invigilano Mantova, egli minaccia
Peschiera e Verona col disegno di rendersi padrone nel lago di Garda
e dei passi alpini. La battaglia si mescola ai villaggi di
Colà, Sandra e Santa Giustina per decidersi a Pastrengo: il
primo giorno (29 aprile) la fortuna arride agl'italiani, che
avrebbero potuto all'indomani sterminare il nemico se Carlo Alberto,
essendo di domenica, non avesse voluto che l'esercito ascoltasse la
messa prima di riprendere l'attacco; questo ritardo impedì di
cogliere i frutti della vittoria e permise al D'Aspre di rifuggirsi
in Verona, mentre il generale Manno stringeva vittoriosamente
Peschiera e il Sommariva ributtava gli austriaci da Sacca e da
Sommacampagna.
Era la prima vittoria italiana, e doveva restare l'ultima.
Capitolo Terzo.
La reazione federale
L'allocuzione papale.
Pio IX, spaventato da una minaccia di scisma germanico, che la
diplomazia tedesca, aiutata da molti cardinali e dai gesuiti, gli
faceva credere provocato dalle sue innovazioni politiche e dalla
guerra piuttosto fatta che intimata dall'Austria, il 29 aprile in
una allocuzione concistoriale la disdisse, rigettandone la
responsabilità sulla passione nazionale dei propri sudditi.
Era un sofisma povero e malvagio, giacchè questi erano stati
irreggimentati dal governo, e la guerra italiana avrebbe
irremissibilmente sofferto di tale abiura del pontefice.
Naturalmente grande ne fu il fermento in tutta l'Italia: il
ministero Antonelli-Minghetti, che aveva dianzi domandato al
pontefice una franca dichiarazione di guerra contro l'Austria, si
dimise; i circoli politici di Roma tumultuarono; la guardia civica
minacciò di ricorrere alle armi, mentre Pio IX, sbigottito e
nullameno fermo a non recedere dall'allocuzione, mirava per
guadagnar tempo ad attenuarne l'impressione. Qualcuno gli
suggerì di andare a Milano oratore di pace e di un concordato
con l'Austria, ma il legato milanese a Roma ne lo dissuase; gli
altri ambasciatori italiani presso la Santa Sede risposero
all'allocuzione con una nota, nella quale, fraintendendone il
significato, scongiuravano il pontefice a non abbandonare la causa
della nazionalità. Questi, compromesso dalle proprie
dichiarazioni concistoriali e persuaso dell'impossibilità per
il papato di seguire il corso della rivoluzione italiana, non
cercava più che espedienti momentanei. E due ne trovò
incredibilmente contradditorii. Mandò monsignor Morichini
all'imperatore d'Austria con una lettera d'esortazione a riconoscere
la nazionalità italiana cessando dalla guerra, e Luigi Carlo
Farini, sottosegretario del ministero, al campo di Carlo Alberto per
offrire al re il comando delle truppe pontificie già
implicate nella guerra. Questi accettò con patto che fossero
pagate dal papa e conservassero bandiera papale: l'imperatore
d'Austria rispose per bocca dei propri ministri che il suo diritto
sulla Lombardia basava sopra trattati identici a quelli che
garantivano i territori dello stato pontificio. L'antinomia dei
principii costringeva il governo pontificio a tale assurdità
di ripieghi.
Quindi per placare il popolo di Roma, incitato dai tribuni Sterbini
e Ciceruacchio a trascendere, si chiamò al ministero Terenzio
Mamiani venuto recentemente a Roma e divenutovi prontamente
autorevole in molti circoli liberali. Ma cospiratore, prigioniero,
esule ritornato ricusando l'amnistia, e segnato all'Indice per le
proprie opere filosofiche, egli riassumeva in se stesso tutto il
ridicolo e il pericolo del costituzionalismo pontificio. Il papa in
lui chiamava un eretico per affidargli lo stato, e l'eretico
accettava il mandato, credendo possibile un governo di
libertà colla corte papale e col principio ieratico romano.
Però egli volle facoltà di proseguire la politica del
caduto ministero verso la guerra italiana, e che la segreteria degli
affari esteri temporali fosse data ad un ministro laico, che fu il
poeta bolognese Marchetti. La posizione politica del governo romano,
serbandosi immutata, peggiorava. Il ministero precedente aveva
armato volontarii e truppe regolari contro l'Austria, permettendo
loro di passare il Po e subordinandole poi a Carlo Alberto senza
osare d'intimar guerra all'Austria: il papa confessava in
un'allocuzione concistoriale la propria impotenza a distogliere i
sudditi dalla guerra, e il suo nuovo ministero la voleva mantenuta
pure non dichiarandola. Luigi Carlo Farini, rivoluzionario sbracato
mutatosi in moderato intransigente, prima di partire pel campo di
Carlo Alberto, aveva consigliato molte misure di repressione per
salvare nella sovranità temporale e costituzionale del papa
l'arca santa della patria e della rivoluzione italiana.
Ma l'effervescenza popolare non accennava a sedarsi, Ciceruacchio,
che aveva abbattuti i portoni del ghetto liberando gli ebrei dalla
prigionia millenaria d'ogni sera, lo Sterbini e il Fiorentino
fautori della propaganda rivoluzionaria spingevano a partiti estremi
per rovesciare quel grottesco simulacro di costituzionalismo papale:
il malcontento dei volontarii romani abbandonati in faccia al nemico
come ribelli del proprio sovrano, e quindi sbandatisi o per
viltà di coscienza religiosa o per difetto di coraggio
militare, giungeva a Roma esasperando lo spirito pubblico: si urlava
al tradimento del papa, si parlava di prigionieri romani impiccati
dai tedeschi, si denunciavano congiure liberticide di cardinali e di
gesuiti, si cominciava a riconoscere nella fisima politica dei
moderati un pericolo capitale per la patria. La polizia sempre
governata dal Galletti assecondava la piazza invece di frenarla;
Mamiani, perduto nel sogno di un costituzionalismo pontificio, nel
quale il papa non entrasse più che in ogni altro governo il
vescovo della capitale, e combattuto dal partito dei chierici e dei
clericaleggianti, doveva appoggiarsi sulla parte avanzata, perdendo
così colla sincerità delle idee ogni sicurezza di base
politica.
Il tradimento di Ferdinando II.
Intanto gli effetti dell'allocuzione papale si facevano sentire per
tutta Italia. Primo ad approfittarne fu il Borbone di Napoli che,
avendo concesso proditoriamente la costituzione, spiava l'occasione
per cassarla: Pio IX gliela fornì. Già, il legato
napoletano a Roma non aveva voluto firmare la nota presentata al
pontefice da tutti gli ambasciatori italiani, perchè
correggesse almeno con nuova interpretazione il tristo significato
dell'allocuzione: gli ordini di re Ferdinando al generale Pepe e
all'ammiraglio De Cosa, mandati alla guerra, erano di non spingersi
all'attacco se non dietro nuove istruzioni subordinate agli accordi
in corso con Carlo Alberto; ma anche questa era una lustra, della
quale il ministero essendo conscio diventava complice per fiacchezza
d'animo. Un ministro solo, l'Imbriani, si dimise nobilmente; gli
altri rimasero col Troya, e si macchiarono. L'apertura del
parlamento essendo fissata pel 15 maggio, la sua inaugurazione col
solito costume napoletano doveva aver luogo nella chiesa di S.
Lorenzo: solennità religiosa intesa a scemarne il carattere
civile. Ma scoppiarono dissidi fra il re e i deputati per la formula
del giuramento, che questi voleva rigorosamente cattolico
comprendendo nello stato la Sicilia già emancipatasi, e
quelli non intendevano prestare oltre i limiti della costituzione.
Gli animi si accesero: i deputati raccolti nella grande sala di
Monteoliveto tempestavano, il ministero si dimetteva, il popolo,
vedendo le truppe regie circondare la reggia quasi a difesa
minacciosa, gridò: barricate! Allora il re parve cedere
accettando la formula proposta dal ministero, ma non era che un
inganno supremo; e, mentre la camera invitava il popolo alla calma e
questo si disponeva già a disfare le barricate, un colpo di
fucile sparato ad arte accese la battaglia. Il re cinto dagli
svizzeri, che contrariamente al disposto dello statuto non aveva mai
voluto licenziare e che il ministro Conforti gli aveva ingenuamente
concesso quasi a guardia contro una possibile sommossa repubblicana,
e dei quali Pepe anche più ingenuamente aveva sperato far
soldati per la guerra d'Italia, alzava sulla reggia la bandiera
rossa, segnale ai forti di Castel Sant'Elmo di bombardare la
città. Nella battaglia orrenda infuriarono i lazzari istigati
dalla corte e dal clero: si rinnovarono le atrocità del '99,
eroismi e demenze, lubricità sanguinanti e sanguinarie di
soldatesche senza patria e senza legge. Si urlava: viva il re e
muoia la nazione! Il massacro procedeva, avvolgeva, copriva la
battaglia. A Milano erano stati rispettati i poliziotti prigionieri
e i soldati austriaci; a Napoli si scaraventavano dalle finestre
bambini ed infermi, si stupravano donne fra cadaveri, sotto gli
occhi dei figli, ferite, moribonde, già morte. Intanto i
deputati incorreggibilmente accademici discutevano per nominare un
comitato di salute publica; solo quando un capitano svizzero,
entrando colla sciabola sguainata nella grande sala di Monteoliveto,
intimò loro di sciogliersi in nome del re, il vecchio
Cagnazzi gl'impose con irresistibile dignità d'uscire e
l'assemblea si sbandò firmando prima una fiera protesta del
deputato Mancini. Epica teatralità, alla quale mancò
l'eroismo del fatto!
Dopo otto ore la battaglia era finita: il re aveva vinto.
La flotta francese ancorata nel porto aveva assistito impassibile
all'eccidio, perchè la politica della grande republica, pure
offerendo aiuti a Carlo Alberto in Lombardia, non voleva abbattuto a
Napoli il Borbone per gelosia di un grande regno che potesse
unificare l'Italia.
Quindi il trionfo del re ebbe, fra i saturnali della plebaglia e le
benedizioni del clero, i complimenti di tutte le diplomazie.
Ma se nella battaglia i soldati regi erano stati atroci, i patrioti
si erano mostrati scarsi: il loro infelice valore non aveva
compensato politicamente la pochezza del numero, nel quale parve a
tutti e specialmente agli stranieri quanto ristretto fosse nel regno
il sentimento liberale contro il popolesco fanatismo
monarchico-religioso. L'imperdonabile remissività del
ministero conscio dei tradimenti del re, la solennità
accademica del parlamento, il contegno della stampa, l'indole stessa
della costituzione conceduta e la sua sciagurata applicazione nelle
provincie, l'assoluta mancanza di patriottismo nell'esercito e nel
popolo, la strage seguita e le minime ed effimere insurrezioni
calabresi che vi risposero e a domare le quali bastò la
presenza dei generali Nunziante e Basacca, dovettero convicere anche
i più fiduciosi fra i rivoluzionari che le speranze della
rivoluzione italiana non avrebbero mai potuto fiorire al bel sole
napoletano. Il terzo esperimento di libertà vi era riuscito
più meschino del primo e più infelice del secondo:
nè il re, nè l'aristocrazia, nè la borghesia,
nè il popolo, nè i rivoluzionari medesimi vi si erano
mostrati con migliori attitudini e più moderne idee. La corte
aveva tradito, l'aristocrazia era rimasta estranea o inconciliabile
colla rivoluzione, la minoranza magnanima ma scarsa della borghesia
non aveva potuto resistere al bestiale monarchismo del popolo,
mentre l'ostinata credulità dei rivoluzionari al re offuscava
ancora dopo la strage nella loro stessa coscienza gl'istinti
dell'italianità.
Soffocata nel sangue l'opposizione costituzionale, Ferdinando non
osò sopprimere tosto la costituzione: la Sicilia era ancora
ribelle, nelle Calabrie Giuseppe Ricciardi alla testa di pochi
insorti, ai quali si era aggiunta una grossa schiera di siciliani
guidata da Ribotti, bandiva un proclama per radunare la dispersa
assemblea e rovesciare la monarchia; Guglielmo Pepe a Bologna con
8000 uomini, De Cosa colla flotta nell'Adriatico, potevano ritornare
ribelli su Napoli, rianimandovi la rivoluzione. Quindi i primi
decreti e il nuovo ministero, nel quale ricomparve più tristo
il Bozzelli, riaffermarono per meglio distruggerla
l'integrità della costituzione; ma quando Pepe, abbandonato
vilmente da quasi tutto l'esercito, andò a Venezia con un sol
battaglione di napoletani, e De Cosa, assentendo al voto dei propri
ufficiali, abbandonò l'eroica città alla tragedia
dell'assedio imminente, il re, fatto sicuro, stracciò lo
statuto come una maschera insanguinata, che gl'impediva di mostrare
al popolo la feroce esultanza del proprio tradimento.
Le annessioni al Piemonte.
Alle notizie della crudele reazione napoletana la Sicilia ribelle e
presaga di morte si scosse: nel resto d'Italia gli animi già
esaltati dall'incessante battaglia di troppe contradizioni
precipitarono nelle decisioni estreme come ad un ultimo assalto. I
moderati fecero ogni opera per affrettare le annessioni al Piemonte;
i republicani urlarono al tradimento, additando nel Borbone il
simbolo di tutti i principi d'Italia. Carlo Alberto rimasto solo
alla guerra, mentre l'Austria veniva sedando i propri contrasti
interni, peggiorava ogni giorno nelle armi e nella politica; il
disegno della federazione italiana, benchè corresse ancora
per le mani della diplomazia, non era più che un cencio
incapace di mutarsi in bandiera; la guerra popolare sognata dai
republicani non accennava a prorompere e, quantunque i governi
provvisori accontatisi col Piemonte rimanessero ad impedirla, non
sarebbe egualmente scoppiata per mancanza d'entusiasmo nel popolo,
di accordo nei capi e di concetti chiari e pratici in tutti.
L'antico disegno dei Savoia, dacchè il loro montano
principato era cresciuto a regno, di conquistare tutta la valle del
Po diventava fatalmente il supremo proposito del partito moderato,
nemico del pari alla rivoluzione e allo straniero. Dal concetto
della federazione a quello di un'Italia del nord il passo era breve:
Milano non aveva saputo gridarsi in repubblica, Venezia insorta per
questo nome non vi aveva guadagnato abbastanza vitalità per
salvarsi in tanto pericolo di guerra. D'altronde le altre grosse
città di provincia non aderivano alle due capitali con
devozione incondizionata. Milano, interrompendo l'epopea delle
cinque giornate ed accordandosi con rilassatezza colpevole
all'esercito del re di Piemonte, si era suicidata; Venezia,
affermandosi republica in un impeto di classica rettorica, non aveva
poi partecipato alla guerra contro l'Austria con abbastanza gloria
per resistere al confronto del proprio passato e a quello più
urgente dell'esercito piemontese.
Poichè l'Italia era in guerra contro l'Austria per
riconquistare le proprie Provincie, il solo re, il solo esercito, le
sole battaglie, la sola vittoria italiana, la sola speranza di una
vittoria finale era riposta in Carlo Alberto e nel Piemonte. La
sospensione decretata dai governi provvisori per decidere della
propria forma politica a guerra vinta, assurda sino dal primo
giorno, diventava intollerabile. La coscienza pubblica sbattuta da
troppi terrori aveva d'uopo di riposarsi in qualche certezza; Carlo
Alberto, sempre pauroso d'improvvisi moti repubblicani, spingeva il
partito moderato ad osare; Gioberti, fattosi commesso viaggiatore
della monarchia savoiarda, predicava le annessioni per tutte le
piazze d'Italia; si era già tentato Cattaneo, poi si offerse
a Mazzini qualunque maggiore influenza democratica negli articoli
della futura costituzione se avesse patrocinato la fusione
monarchica; si denunciavano i republicani come nemici della patria,
si vantavano le vittorie regie, s'ingrandivano i pericoli futuri, si
encomiava sopratutto l'incomparabile lealtà del re, che,
proponendo l'annessione, concedeva ai nuovi popoli il diritto di
ricorreggere quello stesso statuto da lui spontaneamente largito ai
piemontesi; si sussurrava alla grossa metropoli lombarda che Torino
le cederebbe l'onore di capitale. Mazzini, republicano ed unitario
ed egualmente assoluto in ambo le idee, ma fatalmente caduto dalla
concessa neutralità nell'inazione, non poteva opporre a
questi argomenti immediati che l'eroica fantasmagoria di lontani
ideali. L'insufficienza del partito republicano in quell'inerzia del
popolo e sopratutto la mancanza di una bandiera republicana ed
unitaria al campo, lo costringevano a destreggiarsi in una lotta
meschina di recriminazioni contro coloro che guidavano la
rivoluzione, e ai quali non aveva osato opporsi francamente da
principio. La sua neutralità peggiorava l'indecisione del
governo provvisorio, la riserva di Carlo Alberto e l'incertezza di
tutte le altre città, nelle quali l'insurrezione contro lo
straniero non era ancora diventata rivoluzione. Infatti Venezia,
proclamandosi republica, aveva chiesto al gabinetto francese
protezione contro l'ambizione conquistatrice del Piemonte; la
Sicilia ribelle aveva tirato sulle navi napoletane mandate
nell'Adriatico a combattere la flotta austriaca; i ducati invocavano
la tutela di Carlo Alberto, contrapponendosi l'uno all'altro i
propri governi provvisori con inesausto rancore medioevale e
disinteressandosi dalla guerra; la Toscana aveva appena 5000
volontari al campo, e chiedeva soccorsi a Carlo Alberto contro
Livorno tumultuante nell'anarchia; Napoli non era più
rappresentata alla guerra che da un battaglione di disertori; Pio
IX, ricacciato dalla viltà entro l'antica clausura della
politica pontificia, tradiva la guerra consigliando ipocritamente la
pace; Mazzini, dopo vent'anni di sublime apostolato invocando ad
alte grida il giorno della rivoluzione, rimaneva chiuso in Milano
come in ostaggio senza osare una insurrezione contro le mene
federali, che dovevano fra poco imporre al suo genio unitario
un'ultima repubblica romana.
Laonde il partito delle annessioni prevalse: il popolo, votandole,
si rifugiò nell'unità del regno piemontese come in una
fortezza, che la diplomazia europea avrebbe difeso dalla terribile
rivincita austriaca già scendente le Alpi. Infatti le prime
città a dichiararsi per l'annessione immediata furono
Piacenza, Brescia e Bergamo; Parma, Modena, Reggio, Milano (29
maggio) seguirono l'esempio; il partito repubblicano non seppe che
protestare: le città venete, sbigottite dalla caduta di
Udine, strinsero con minaccia fratricida d'abbandono il governo
veneziano a deliberare l'unione col Piemonte. Il pericolo incalzava;
Manin, ultimo doge e forse unico republicano, cedette generosamente,
consigliando egli stesso all'assemblea di riseppellire per sempre la
republica sotto il trono dei Savoia.
L'ideale republicano era vinto, ma l'idea unitaria aveva così
dato un passo decisivo: l'abdicazione di Milano, Venezia, Parma e
Modena a Torino nel nome d'Italia chiudeva per sempre il passato
federale della loro storia, iniziando l'èra nazionale
italiana, giacchè da quella sottomissione non vi sarebbe
appello per mutare di circostanze politiche. Re Carlo Alberto doveva
essere vinto nella guerra lombarda; però il nuovo concetto
dell'Italia del nord, robusta monarchia di dodici milioni di
cittadini recinta dall'Alpi e dai mari, baluardo agli stranieri e
centro d'attrazione al resto d'Italia, resterebbe dopo l'inevitabile
sconfitta del momento come un fatto indiscutibile per la rivoluzione
italiana.
Colle annessioni il Piemonte gettava le basi della propria egemonia,
annullando tutti gli altri principati italiani, ma esaurendo al
tempo stesso lo scopo della propria guerra. Infatti i negoziati
ripresi vivamente, se parvero da principio contradire a questo
proposito, dopo lo espressero fin troppo chiaramente. L'Austria,
sopraffatta dalle difficoltà delle proprie rivoluzioni
centrali e nello sbigottimento delle prime vittorie piemontesi,
aveva offerto al re per confine la linea del Mincio, mentre questi,
voglioso di accettare, era costretto dal nobile sentimento delle
popolazioni lombarde a rifiutare qualunque accordo non comprendesse
la Venezia; ma, sentendo piegare tutte le rivoluzioni d'Europa sotto
la pressione monarchica, il vecchio impero restringeva ora le
offerte e mutava linguaggio. La Dieta di Francoforte quantunque
rivoluzionaria pretestava ragioni germaniche sul Tirolo, Trieste e
fino su Venezia, per la quale si era pensato di costituire una
specie di granducato autonomo sotto un principe austriaco: la
Francia, che al principio della rivoluzione e nel disegno di
costituire Milano e Venezia in piccole republiche, sotto la propria
influenza, aveva promesso aiuto di diplomazia, di denaro e di
soldati, ingelosita adesso di un ingrossamento del Piemonte
monarchico, mutava tono e misura. Lord Palmerston, acuto ministro
inglese, osava solo consigliare all'Austria l'abbandono delle
Provincie insorte come troppo difficili a riconquistare ed
impossibili a tenersi. Intanto, raffreddandosi colle annessioni
l'entusiasmo guerresco delle popolazioni, e languendo la guerra per
l'equivoca incertezza del re e l'insipienza dei generali, la
condizione diplomatica diventava di giorno in giorno peggiore. Se le
annessioni importavano l'abdicazione delle antiche autonomie
federali, inducevano pure sciaguratamente nell'animo del popolo un
sentimento di abbandono alla causa nazionale: il re solo era tutto,
e doveva quindi bastare a tutto. L'eroismo dei rivoluzionari veri,
offeso dalla precipitata dedizione, stava imbronciato; la
predicazione deprimente del partito moderato rifuggitosi nella
monarchia piemontese non poteva eccitare nel popolo nuovi
entusiasmi, ora che una stanchezza amara dei primi sforzi
inutilmente gloriosi prostrava i ribelli delle cinque giornate, e
una servile acquiescenza all'iniziativa regia giustificava nel
grosso della gente ogni errore del governo.
Disastri militari.
Quindi la guerra, trascinata di fazioni in fazioni inutili anche
nella vittoria, fu ripresa con intermittente energia, senza la
strategica abilità di una guerra popolare. Radetzky, vigile
nell'imprendibile Quadrilatero, spiava l'occasione di un grande
errore nemico, ingrossandosi di continui rinforzi. Così
assalito a Santa Lucia e rimastovi padrone malgrado il valore delle
truppe piemontesi, mentre queste si ostinano contro Peschiera, sbuca
improvviso da Verona col grosso dell'esercito, schiaccia (29 maggio)
i toscani a Curtatone isolati, abbandonati, e allora si disse,
nè forse ingiustamente, traditi dalla tattica regia;
rattenuto a Goito dall'intrepidezza del duca d'Aosta, abbandona
Peschiera alla vanità conquistatrice di Carlo Alberto, che
entratovi trionfalmente vi canta il Te Deum; quindi, sfiancando per
Legnano, si congiunge con Welden, si dirupa su Vicenza, vi batte, vi
chiude, vi fa prigioniero Durando con 10,000 pontifici.
Il disastro è irreparabile. Padova e Treviso capitolano,
Palmanova si arrende: solamente Venezia ed Osoppo rimangono libere,
quella nell'isolamento della laguna, questa nella solitudine di una
roccia. Carlo Alberto, atterrito dall'annunzio di tante vittorie
nemiche, dimette il pensiero d'investire Verona, e ordina la
ritirata, abbandonando senza pietà i nuovi sudditi veneti.
All'annessione lombarda rispondeva tragicamente l'eccidio di
Curtatone, alla dedizione veneta le nuove trattative diplomatiche,
nelle quali Carlo Alberto, ridomandando le antiche offerte
dell'Austria, accettava l'Adige per confine orientale del proprio
regno.
Era il tradimento regio immediato ed inevitabile.
Ma l'Austria ringagliardita ricusa: la rivoluzione italiana è
perduta, l'esercito piemontese scorato, le popolazioni disilluse, i
volontari dispersi, le città frementi ma tremanti. Allora
Carlo Alberto, sospinto ad una suprema battaglia dalla voce di tutta
Italia che gli grida: tradimento!, riprende l'offensiva minacciando
Mantova: scaramucce e fazioni stancano l'inutile valore dei soldati,
finchè a Custoza la bandiera tricolore cade nel sangue di una
irreparabile sconfitta. Tutto è perduto; il re dà
volta per la Lombardia, giurando difendere Milano, che nullameno
lascia scoperta. La grossa metropoli spaurita crea un triunvirato di
difesa, affidandosi al generale Fanti, al dottore Maestri e
all'avvocato Restelli: Giuseppe Garibaldi, tardi accettato, è
finalmente a Bergamo e ne sbarra la strada con 3000 volontari, ma
gli sperduti eroi delle cinque giornate non possono raccozzarsi per
proteggere Milano dall'imminente invasione. Sotto l'emozione del
disastro, Torino cangia ministero: il nuovo presieduto dal milanese
conte Casati, che riceve così il premio della cessione di
Milano, chiede ed ottiene pieni poteri. Il 2 agosto, assumendo il
comando di Milano, vi delega commissari del re il generale Olivieri
e il marchese di Montezemolo: i milanesi, credendo che Carlo Alberto
stringa la dittatura per rialzare con un impeto di magnanima
disperazione il vessillo e la fortuna d'Italia, lo accolgono
festanti; ma questi, travolto dalla sventura, non preoccupato
più che del proprio regno, inganna tutti, persino se stesso.
Un'orribile commedia, raccontata poi da Carlo Cattaneo in un
ammirabile libro, disonora la generosa città pochi mesi prima
insorta fugando sola lo straniero; il re giura, abiura, finge una
difesa militare che impedisce a quella popolare di organizzarsi;
è acclamato, fischiato, minacciato di morte; firma una
capitolazione che cede la città a Radetzky, e la disdice
offrendosi pronto a morire coi figli e con tutto l'esercito sotto le
mura di Milano; poi a notte fugge in mezzo a una compagnia di
bersaglieri. Quasi contemporaneamente Mazzini usciva dalla vinta
città a piedi fra una schiera di volontari, portando,
semplice soldato, la bandiera col motto - Dio e popolo - che doveva
fra poco sventolare sul Campidoglio. La monarchia era vinta, la
repubblica stava per esserlo; un medesimo sbandamento disperdeva
politicanti e combattenti, programmi e bandiere, per raggrupparli un
istante dove maggiore fosse la gloria del passato e la speranza
dell'avvenire, a Roma e a Venezia, perchè una stessa
sconfitta vi dissipasse lo stesso errore, e l'ineffabile tragedia
del genio, mescolandosi alla farsa di tutto un popolo ancora
incapace di comprendersi, rivelasse i principii della storia futura.
Intanto l'esercito piemontese aveva ripassato il Ticino.
L'armistizio che prese nome dal generale Salasco, pubblicato il 9
agosto, stabiliva l'antica frontiera dei due stati per confine ai
due eserciti: le fortezze dovevano essere aperte agl'imperiali,
sgombri in tre giorni gli stati di Modena, Parma e Piacenza, cedute
Venezia e la terraferma veneta. Il Piemonte restava intatto, ma la
sua recente egemonia veniva negata con implacabile brutalità.
Ultimo a ritirarsi e non compreso nell'armistizio fu Giuseppe
Garibaldi, che, sbaragliata una colonna di austriaci a Luino e
resistendo ad un'altra anche maggiore a Morazzone, potè
toccare la Svizzera, lasciando i nemici stupefatti del suo valore.
Il generale D'Aspre disse allora di lui con profonda intuizione
guerresca: «Egli era il solo, che avesse potuto
vincere!» I vinti generali di Carlo Alberto avranno certo
sorriso a questa opinione del generale tedesco.
Ma come per togliere alla storia ogni dubbio sui tradimenti di Carlo
Alberto, il 6 agosto, mentre questi ripassava il Ticino avendo
già concluso l'armistizio pubblicato poi nel giorno 9, il
generale Colli e il conte Cibrario prendevano in suo nome possesso
di Venezia, per impedirle ogni generosa ribellione e cederla al
nemico colla maggiore comodità. Dopo l'abbandono, l'agguato:
la truffa diplomatica compiva il tradimento politico. Ma il popolo,
esasperato da tanta perfidia e galvanizzato dalla stessa imminenza
del pericolo, tumultua in piazza S. Marco gridando: Abbasso il
governo regio, evviva Manin! Il ricordo di Campoformio lancina tutte
le coscienze, il terrore dei tedeschi centuplica l'odio, mentre in
quel cinereo deserto della laguna, fra i memori monumenti
dell'antico valore, la repubblica riappare come evocata dalla storia
alla solennità di un ultimo giorno. Venezia, sola,
repubblicana, senza navi, senza territorii, senza senato, quasi
senza popolo, rimane vivente rovina nella momentanea morte d'Italia:
abbandonata contro tutti, si ravvolge nella propria millenaria
bandiera come a minacciare anche morendo e a conservarsi
incorruttibile nella morte. Ma, gridandosi novellamente repubblica e
rianimandosi d'immortali memorie, non può ricreare
l'ammirabile decorazione del proprio antico governo: le forme
moderne politiche guastano la sua classica maschera; la nuova
assemblea non sa che nominare una dittatura nella quale la
tradizione del dogado lascia a Manin una indiscussa supremazia.
Il primo atto di quest'ultima repubblica fu un decreto di zecca:
nelle monete alla data 22 marzo si sostituì quella dell'11
agosto col motto - Alleanza dei popoli liberi - Indipendenza
italiana - e nell'esergo: - Dio premierà la costanza - . Il
testamento di Venezia si mutava così in una profezia
all'Italia; l'ultima parola della storia federale italiana affermava
la futura federazione dei popoli liberi d'Europa.
Ma se Venezia resisteva condensando tutta la propria storia in un
finale di tragedia alla Shakespeare, i ducati di Modena, Parma e
Piacenza si lasciavano riconquistare dagli austriaci senza colpo
ferire.
Sola la Toscana, sempre sospettosa degli aiuti tedeschi, invocava la
Francia per guarentirsi l'autonomia nell'inevitabile reazione
imposta dalla sconfitta nazionale.
Catastrofi costituzionali.
In tanto diroccamento di sogni e di fortezze l'idea nazionale e
federale non si confessava vinta. A Torino il parlamento decreta la
dittatura a Carlo Alberto, si muta ministero, si riprova
l'armistizio punendone il generale Salasco: l'incomprensibile
vergogna di centomila soldati guerreggianti senza una vittoria
campale, respinti senza una sconfitta decisiva, e abbandonanti al
nemico in pochi giorni una provincia grande quanto il regno del loro
re, irrita tutti gli orgogli e confonde tutte le ragioni: si urla al
disonore, si ridomanda la guerra. I lombardi traditi armeggiano con
ogni possa per riaccenderla, fra i dispregi dei moderati che li
accusano di compromettere il regno, e le invettive dei radicali che
li tacciano di non comprendere la rivoluzione. La mediazione
anglo-francese incoraggia le speranze, poichè l'Austria per
cansare pericoli d'interventi militari simula consentire,
procrastinando. A Genova una sommossa tenta proclamare la
repubblica: Livorno impazzita s'insanguina nella guerra civile
imprigionando e cacciando i propri governatori, finchè il
governo del granduca con abbietta scempiaggine dichiara di troncare
con essa ogni rapporto, e la denunzia all'Europa come un antro di
assassini.
Tutti i governi sono fiacchi, ogni misura politica perde la
giustezza dell'idea nell'impossibilità dell'applicazione. I
parlamenti vaneggiano: quello di Napoli, conservato dal Borbone per
squisito dispregio di desposta, avvalla nella più supina
remissione, non rappresentando più nè il paese,
nè il sovrano, nè la costituzione, nè l'Italia.
A Roma i due Consigli non s'accorgono di essere appena un
ingrandimento dell'antica Consulta, malgrado gli arbitrii quotidiani
del pontefice che annullano simultaneamente Camera e ministero: il
costituzionalismo, impossibile negli altri stati italiani per la
perfidia delle corti, qui è assurdo per
l'inconciliabilità dei due poteri. Si fa la guerra senza
votarla, la si prosegue disdicendola, il ministero pretende
esprimere la volontà del pontefice e ubbidisce a quella della
piazza. Mamiani soccombe come filosofo, Pellegrino Rossi sarà
ucciso come politico. Nel parlamento fiorentino il ministro Ridolfi
si dichiara impotente a frenare le congiure austriache e gesuitiche,
e confessa di non osare spingere il popolo alla guerra nazionale,
per non assumere il carico di costringerlo a gravi sacrifici;
Bettino Ricasoli e Gino Capponi si succedono indarno al ministero,
fidando ingenuamente nel principe e più ingenuamente sperando
arrestare la marea rivoluzionaria, che li rovescia incolpevoli e
condannati. I fatti di Livorno impongono al granduca un ministero
Guerrazzi-Montanelli, che pacifica la turbolenta città
proclamandovi la Costituente italiana (18 ottobre).
Contemporaneamente si raduna a Torino un congresso federativo
presieduto da Gioberti piemontese, Mamiani romagnolo, Romeo
calabrese; Rosmini ne tratta per incarico del Gioberti con
Pellegrino Rossi a Roma. La lega non comprenderebbe che Piemonte,
Toscana e Stato pontificio; Napoli vi si ricusa, quantunque il
parlamento ne accarezzi l'idea e l'esponga in timido voto al
sovrano; Sicilia, Venezia, Milano, i ducati vi sono ammissibili ma
preteriti: senonchè le antiche gelosie dinastiche e le nuove
antinomie politiche la rendono impossibile. La Costituente italiana
proposta dal Montanelli sottometterebbe invece l'Italia ad una
ricomposizione per arbitrio di popolo, che si organizzerebbe in
singoli stati a seconda del proprio migliore interesse; ma, come
pusillanime copia della grande costituente mazziniana, ne ha tutte
le nobili difficoltà unitarie cogli inconciliabili egoismi
della confederazione.
Il disastro militare del Piemonte, scemando ai popoli la
credulità nei principi, attenua in questi la fede già
scarsa nei destini della nazione. Tutti gli stati, preoccupati del
proprio problema, dimenticano la nazione, e nullameno vaneggiano
ancora di una lega italiana, che l'idea unitaria impone loro come un
accordo superiore al conflitto degli interessi dinastici e dei
principii politici. Così il futuro si afferma,
contraddicendosi nel presente: i tre principii che formeranno
l'Italia, unità, libertà e monarchia, si presentano
sfigurati nel concetto della Dieta.
Il moto popolare, che aveva imposto le costituzioni ai principi ed
accesa la guerra nazionale, era troppo profondamente rivoluzionario
per acquetarsi nelle forme regionali e federali del passato: quindi
i tentativi di conciliazione tra federazione ed unità,
monarchia e libertà, teocrazia e democrazia, dovevano finire
alla loro separazione attraverso l'assurdo delle più varie
esperienze. Mentre la diplomazia europea sognava di costituire la
nazione con una lega di principi, quella tedesca infatti,
accettandone il concetto, si affrettava ad integrarlo con un
arciducato austriaco del Lombardo-Veneto. Il papa a Roma, il Borbone
a Napoli, un arciduca tedesco a Milano, Carlo Alberto a Torino,
Leopoldo a Firenze, gli altri minori duchi nel resto, sarebbero
stati l'Italia moderna senza unità, senza libertà,
senza indipendenza, col popolo suddito e colla religione tiranna: la
grande rivoluzione francese dell'89 non avrebbe perciò avuto
efficacia sulla rivoluzione italiana. Ma la reazione monarchica
doveva invece esagerarsi nei tradimenti, perchè tutte le
forme politiche del passato apparissero egualmente inette per
l'avvenire.
Prima a soccombere nella reazione fu la Sicilia della quale la
rivoluzione separatista contrastava maggiormente all'inconscio moto
unitario italiano. Se i suoi intrattabili odii medioevali di regione
e di razza, insorgendo contro Napoli, avevano potuto profittare
egoisticamente della rivoluzione nazionale senza pagarvi tributo
nè di pensiero nè di sangue, Napoli doveva presto
risoggiogarla, giacchè ad evitare tale rivincita, si sarebbe
dovuto anzitutto creare la libertà d'Italia. Quindi nè
italiana, nè democratica, la rivoluzione di Sicilia perdette
fatalmente un tempo prezioso in ridicole discussioni ed in pratiche
assurde colla stessa dinastia cui si era ribellata, per finire
all'ultim'ora, quando la catastrofe s'aggravava sulla rivoluzione
nazionale, ad offrire la corona al secondogenito di Carlo Alberto.
Naturalmente il Borbone protestò: tutti gli altri principi,
che denunciavano a mezza voce le ingordigie conquistatrici del
Piemonte, lo spalleggiarono, i tremendi disastri della guerra
tolsero a Carlo Alberto il coraggio di accettare per la propria casa
un ingrandimento contrastato in Italia e non consentito dalla
diplomazia europea. Così la Sicilia rimase senza regno e
senza republica, male in armi e peggio in politica, contro
Ferdinando invasato d'odio tirannico. Per colmo di sciagura l'antica
rivalità di Palermo con Messina non permise a quella di
sguernirsi per soccorrere questa esposta ai primi furori borbonici.
Messina, come all'epoca gloriosa del Vespro, fu dunque prima alla
battaglia (3 settembre). Nessuna legge di guerra, nessun diritto di
civiltà, nessuna misericordia di religione vi fu osservata.
La battaglia durò quattro giorni, la strage vi fu pari
all'odio delle parti, ma la fiera città abbandonata vilmente
dai palermitani dovette soccombere all'efferatezza dell'assalitore,
che sollevò ad indignazione tutti i parlamenti d'Europa.
Palermo, tardi ammaestrata dai casi di Messina, s'accinse
alacremente alla difesa, condensando nel governo i propri uomini
migliori. Cordova, La Farina, Amari profusero ingegno e fatica
nell'insolubile problema; la mediazione anglo-francese da loro
ottenuta rimase impotente contro la perversità borbonica; poi
l'avvenimento di Luigi Bonaparte alla presidenza della republica
francese secondò la politica reazionaria di re Ferdinando,
che nell'ultimatum di Gaeta (28 febbraio 1849) promise all'isola
un'amnistia generale e uno statuto sulla base della costituzione del
'12. Ma questo non era che un agguato per soffocare la questione
siciliana, nel quale le due potenze mediatrici caddero consciamente.
Allora il popolo esasperato spinge il parlamento alla guerra
malgrado ogni insufficienza di milizia e di denaro: Catania,
Siracusa ed Augusta cadono in mano dei regii; l'ammiraglio francese
Baudin, interponendosi un'ultima volta per evitare a Palermo
l'estremo massacro, rimane egli stesso abbindolato dal generale
Filangeri, che manca a tutti i patti concessi al governo
palermitano, e il 26 aprile gli intima una resa a discrezione. Il
governo già dimissionario si disperde, mentre il popolo
insorge, respingendo per dodici giorni il nemico e soccombendo da
ultimo a nuove proposte di accordo nuovamente violate.
La reazione monarchica aveva trionfato così della ribellione
secessionista della Sicilia, mantenendola nell'orbita della futura
unità italiana.
A Roma invece la reazione papale, cominciata con l'allocuzione del
29 aprile, determina nel disastro della guerra nazionale tradita dal
pontefice l'esplosione democratica, che deve affermare la
incompatibilità del papato colla rivoluzione italiana.
L'inevitabile discordia del papa coi ministri e l'assoluta
incapacità politica dei partiti romani affaticati da un
inconscio istinto di libertà impedivano all'improvvisato
governo parlamentare ogni logico sviluppo. I costituzionali, incerti
fra l'irrefrenabile autorità del papa sempre egualmente
dimentico del proprio governo e la necessità per questo di
precisarsi, non osavano nè appoggiare, nè rovesciare
il Mamiani. Il quale, infervorato per amore di patria nel concetto
di una lega italiana, seguitava nel sogno di un governo pontificio
schiettamente costituzionale. Intanto l'opera dissolvente dei
circoli radicali, aiutata dai volontari rincasati dopo la
capitolazione del Durando a Vicenza, cresceva a Roma e nelle
Provincie: un'anarchia di assassinii insanguinava molte città
delle Romagne in quella rilassatezza di ordini fra il vecchio e il
nuovo: il ringalluzzirsi del clero pel tradimento del pontefice alla
guerra nazionale rinfocolava gli odii liberali spingendo a vendette
di antiche ingiurie colla scusa di un offeso patriottismo. Si
pensò quindi a Pellegrino Rossi, rimasto in Roma privato
cittadino dopo la caduta di Luigi Filippo, come al solo che per
energia di carattere e profonda conoscenza di regimi costituzionali
potesse resistere al disordine della piazza, ravviando l'ordine
politico ed amministrativo del governo. Ma una prima combinazione
ministeriale gli fallì. Intanto il Lichtenstein, occupando
Ferrara con grossa mano di austriaci, venne a compromettere la
già scossa posizione dello stato. Il papa, disconoscendo ogni
valore nel proprio governo, protestò a nome della Santa Sede.
I Consigli così sprezzantemente preteriti, invece di
contrapporsi al principe, gl'indirizzarono suppliche per
scongiurarlo a difendere i confini dello stato; il ministero non
sentì abbastanza la propria dignità per dimettersi:
solamente il popolo, sollecitato dallo stesso Galletti ministro di
polizia, si ammutinò in una delle solite dimostrazioni.
Finalmente il Mamiani dovette ritirarsi e gli successe il Fabbri,
vecchio impiegato di povero ingegno e d'incondizionata devozione al
papa. Così la reazione cresceva nei ministeri, mentre il
parlamento seguitava a dissertare come un'accademia o a supplicare
come un coro interrotto da qualche grido plateale del principe di
Canino e dello Sterbini, entrambi piuttosto retori che tribuni e
rivoltosi che rivoluzionari. Ma se il Lichtenstein si era per ordine
di Radetzky prontamente ritirato da Ferrara, il Welden, per
ingiunzione segreta dello stesso maresciallo, che, respinto
l'esercito piemontese, intendeva ad opprimere tutti gli altri
governi italiani fingendo aiutarli contro le insubordinazioni dei
patriotti e l'anarchia delle plebi, entrava nelle provincie
dell'Emilia e s'accampava a Bologna. Lo seguiva, laidamente infame e
feroce, certo Virginio Alpi faentino, a capo di bande sanfediste
racimolate fra i peggiori malandrini di tutta Italia. Le provincie
inermi o difese da pochi volontari, cui la capitolazione di Vicenza
inibiva ogni ulteriore uso dell'armi, sbigottirono: prepotenze
austriache, rappresaglie brigantesche funestarono città e
villaggi, mentre il papa rinnovava le solite proteste deputando al
Welden il cardinale Marini. Era l'antico immutabile sistema del
papato di difendersi, invocando i fulmini del cielo e la protezione
delle potenze cattoliche, reso ora più ridicolo dalla
presenza di un governo parlamentare eletto dai cittadini e verso di
loro responsabile come ogni altro governo. Quindi Bologna,
esasperata dalle provocazioni delle soldatesche croate e disperata
di aiuto dallo stato, insorge coraggiosamente, respingendo a furore
di popolo il Welden ed inseguendolo lungi per la campagna: le vicine
città romagnole, eccitate dal nobile esempio, si preparano in
armi: si nominano commissioni provvisorie di guerra, giunte di
sicurezza come nell'assenza del governo per combattere lo straniero
invasore, intanto che a Roma i ministri puerilmente servili
paragonano questa vittoria di popolo abbandonato alla
magnanimità del pontefice intento alla difesa della patria
comune, predicando la calma. Un solo ministro, il Campello, avrebbe
voluto una dichiarazione di guerra, ma il papa lo dimise; il resto
del ministero annuì.
Senonchè l'anarchia ministeriale e parlamentare, che lasciava
il pontefice seguitare in un dispotismo anche più
irresponsabile che pel passato, si ripercosse necessariamente a
Bologna, dopo la generosa e fortunata sollevazione contro gli
austriaci producendovi il più orribile disordine di plebe
imbestialita a private vendette. Quindi la cosa procedette a tale
che, se i carabinieri sdegnati dell'uccisione di un loro compagno
non si fossero con rabbia maggiore scagliati sui malandrini,
uccidendoli a fucilate per le strade, inseguendoli nelle case,
imprigionando a caso, la ribalda insania non avrebbe avuto altro
termine.
Questo ed alcune altre provvisioni stolide del ministro di polizia
Accursi persuasero al ministro Fabbri di dimettersi e al papa di
chiamare Pellegrino Rossi.
Pellegrino Rossi.
Il papato doveva soccombere: l'ultima scena della sua secolare
tragedia stava per cominciare.
Pellegrino Rossi nato a Carrara nel 1785, presto celebre professore
a Bologna, favoreggiatore di Murat nel 1815 per speranza di idee
italiane nel regno del magnifico venturiere francese, poi esiliato
dalla reazione della Santa Alleanza e riparato a Ginevra, insigne
ritrovo di tutti gli esuli insigni, vi crebbe tosto d'importanza e
di dottrina. Ingegno vario e brillante, assimilatore nervoso per
logica e simpatico per eleganza di metodo, in quel soffio di
rivoluzione, che allora riscaldava tutti i grandi spiriti contro il
nordico gelo, tenne cattedra libera di giurisprudenza, attirando
curiosi e studiosi, sembrando rinnovare nella facile esposizione
vecchie idee. Quindi dall'ardita ed insinuante natura tratto alla
politica, ottenne la cittadinanza svizzera con tanto credito da
essere chiamato nel ribollimento prodotto dalla rivoluzione del 1830
a compilare una costituzione, che si disse Patto Rossi, e, rigettata
allora, rivisse in parte nello statuto del '48. Ma in essa il Rossi
scoperse la natura secondaria del proprio ingegno, egualmente
incapace di rivoluzione e di originalità. A rovescio dello
spirito politico e civile del secolo tendente alla
nazionalità, egli vi stette per l'unione contro
l'unità, per la tradizione contro la rivoluzione, per la
libertà degli ordini contro l'emancipazione dell'individuo.
Così decaduto nella pubblica estimazione, dovette ricoverarsi
in Francia, ove l'attendevano gloria e favori insperabili a uno
straniero. Tosto eletto professore di diritto costituzionale, membro
dell'Istituto, cittadino, pari, conte: bersagliato dall'opposizione,
che in lui vituperava il rivoluzionario diventato cortigiano di un
governo corrotto e corruttore, e lo scienziato sempre pronto a
contraddire nell'esercizio della politica gli assiomi pomposamente
proclamati dalla cattedra; inviso agli esuli italiani che lo
giudicavano rinnegato della patria e della libertà; carbonaro
e cospiratore in Italia, republicano in Svizzera, orleanista in
Francia, dottrinario nella teorica, scettico nella pratica, senza
coscienza di patria, caro a Luigi Filippo che lo deputò
ambasciatore a Gregorio XVI e a Pio IX, rifulse nullameno nei
circoli politici e filosofici d'allora per opera specialmente della
stampa governativa. Ma tra i maggiori eclettici del tempo non fu
grande nè per potenza di pensiero, nè per splendore di
forma: nell'insegnamento del diritto costituzionale, assurda miscela
di postulati storici e filosofici alla quale i governi parlamentari
dovettero dar nome di scienza ed erigere cattedre, non
sorpassò Beniamino Constant; nell'economia politica rimase
fatalmente immobile nel dualismo della scienza pura e della scienza
applicata entro la vasta orbita di Giambattista Say; nel diritto
penale passò dal principio di Bentham a quello della
giustizia assoluta, combattendo la scuola storica senza giovare alla
scuola filosofica, cercando indarno la giustificazione della pena e
l'ideale verità della giustizia sulle orme di Kant e di
Cousin; meno acuto e più famoso di molti altri penalisti
italiani contemporanei, dimenticato poco dopo nella gloria immortale
del Carrara. Ma in tutte le sue opere, notevoli per vigore di metodo
e nativa eleganza di esposizione, parve pregio massimo quella
temperanza di principii e di conseguenze, che, accontentando i
mediocri, sembra significare nell'autore una profonda conoscenza
della materia e un instancabile equilibrio di forze, mentre non
è troppo spesso che inettitudine del pensiero a creare e
facilità artistica di traduzione.
Nella sua ultima deputazione a Pio IX tra il fervor dei lirismi
politici sul papato, egli italiano ed insieme straniero, filosofo e
giurista, professore di costituzioni e diplomatico del governo che
pareva allora modello di sapienza pratica, capitò come un
alleato naturale ed avventuroso del partito dei principi. La sua
fama, il suo grado, le sue affinità con tutte le diplomazie
europee, sorrisero all'immaginazione dei nuovi costituzionali ancora
ignoranti al giuoco dei parlamenti. Lo si accolse come un maestro,
lo si ascoltò come un oracolo, mentre le contumelie dei
giornali rivoluzionari, che in lui cosmopolita senza coscienza
nazionale non vedevano che un tristo accolito di Guizot e un peggior
mezzano di Luigi Filippo, addensandosi intorno alla sua reputazione,
le davano più vivo rilievo. Involontariamente Pellegrino
Rossi divenne nello spirito pubblico il rivale di Giuseppe Mazzini.
Entrambi erano cresciuti nell'esilio, celebri per scritti ammirati
da amici e da nemici. L'uno rappresentava il vecchio spirito
rivoluzionario del '21 e del '31 divenuto senno pratico, adattandosi
ai fatti quotidiani e giovandosene nell'oblio dei principii, come un
carbonarismo borghese ed autoritario mutato col trionfo degli
Orléans in governo borghese a base industriale, timido nelle
iniziative e temerario nelle repressioni, egualmente logico
nell'abbandono dei primi principii e delle ultime conseguenze,
unificando lo stato nel governo e il governo nella dinastia,
considerando la nazione solo negli elettori e il potere solo negli
eletti: tutta la libertà nella carta, tutta la giustizia
nell'ordine, tutta la rivoluzione in concessioni di principi e in
applausi di sudditi, l'Europa immutata ed immutabile. L'altro era la
rivoluzione popolare e profetica, ancora solitaria nei migliori e
nullameno divenuta presto universale nel loro apostolato, teatrale
nell'eroismo e sublime nel martirio, internazionale nel sentimento e
patriottica nel concetto: che voleva l'Italia una, libera e
republicana, e non s'arrestava a statuti, non patteggiava collo
straniero, non si accodava a re, non si illudeva coi preti,
inflessibile per eccesso di logica ed inabile per troppa
grandiosità di disegno.
Per Pellegrino Rossi l'Italia di Mazzini era un'utopia che impediva
ogni progresso nella realtà, una demenza del pensiero, una
perfidia della volontà: per Mazzini l'Italia di Pellegrino
Rossi era una falsa apparenza, l'ombra di un fatto esaurito,
attraverso la quale passavano già i raggi di un'idea novella.
I suoi principi non credevano nemmeno agli statuti che largivano,
non volevano la Dieta che mestavano, abborrivano dalla guerra che
proclamavano: erano come fantasmi del passato, una suprema menzogna
del presente. La loro ridda politica intorno al Vaticano somigliava
alla Danza dei Morti di Goethe intorno ad un campanile nel piano
fosco di un cimitero, aspettanti la grande parola del nuovo giorno
per inabissarsi nell'ombra.
La nomina del Rossi al ministero, nel quale il vecchio cardinale
Soglia conservava apparentemente la presidenza, parve a tutti una
provocazione. Il gabinetto francese ne mosse vive rimostranze come
di sfregio fatto alla repubblica coll'elevazione di un orleanista; i
rivoluzionari fiutarono il nemico; i Consigli sentirono il padrone
ed abbassarono al solito la testa; i sanfedisti recalcitrarono,
riconoscendo nel forte parlamentare l'invincibile proposito di
governare costituzionalmente; i preti si scandolezzarono a questo
secondo avvento di un filosofista niente più ortodosso del
Mamiani; Pio IX solo calmò la propria incertezza dietro il
coraggio del ministro, che aveva affermato pubblicamente sino dalla
prima ora: «Non si abbatterà l'autorità del
papa, se non passando sul mio corpo». L'infelice credeva
ancora che un individuo potesse mutarsi in sbarra contro la storia.
I primi atti del ministero furono di guerra: frenò,
vessò, espulse i democratici sospetti di rivoluzione; per
ristorare le finanze tassò il clero, inimicandoselo;
avversò energicamente il Piemonte, compiacendosi ai disastri
militari che tarpavano opportunamente l'ali ai suoi sogni di
conquista. Quindi, nè unitario nè federalista, vide
con occhio sicuro l'impossibile ipocrisia della lega e l'impotente
rettorica della rivoluzione; ma troppo saturo di cartismo e fidando
nella bonarietà del pontefice, credette nullameno di poter
fondare a Roma un vero governo parlamentare. Roma costituzionale
avrebbe così preso la testa del movimento italiano, e
l'Italia avrebbe potuto risorgere dopo di essersi irrobustita in
lunga e ordinata educazione liberale.
Egli, come massimo ed unico ministro, doveva quindi governare
personalmente in quei primi giorni costituzionali: così
incorporò al proprio ministero dell'interno quello di
polizia, per meglio valersi dei mezzi repressivi e cacciare il
Galletti ligio ai rivoluzionari; promosse lavori pubblici, strade
ferrate e telegrafi, scuole d'economia politica e di diritto
commerciale. La coscienza della propria superiorità, e quella
fremente alterigia che si compiace dell'odio popolare quasi
ritrovandovi una prova del merito, gli tolsero di valutare
esattamente l'opposizione ingrossante di giorno in giorno. Nelle
inevitabili trattative per la costituente proposta dal Montanelli
scoperse con brutale franchezza i disegni voraci del Piemonte, e,
mentre questo instava per una lega militare secondo le terribili
urgenze del momento, ma nella quale avrebbe naturalmente avuto il
sopravvento, egli propose una inutile lega di principi senza alcun
accenno nè alla nazione nè all'indipendenza.
Ciò disperse quel falso sogno di una dieta italiana, ed
isolò il Piemonte. Intanto, proseguendo nella riforma
militare e giudiziaria per organizzare modernamente lo stato, vi
accresceva il mal animo collo spostamento degli interessi e le
lesioni ai troppi diritti acquisiti: gli ordini dati al Zucchi,
ministro della guerra, per impedire a Giuseppe Garibaldi, approdato
in Toscana e quivi accolto freddamente dal Guerrazzi, il transito
per la Romagna colla sua eroica legione di Montevideo diretta a
Venezia, offesero vivamente il sentimento nazionale. A Bologna il
popolo ammutinato impose al generale degli svizzeri Latour di
lasciar libero il passo a Garibaldi: questi, giungendovi, suscita
l'entusiasmo di tutti; Angelo Masina bolognese lo segue,
improvvisando a proprie spese un grosso squadrone di cavalleria. Ma
Zucchi, già salvato da Garibaldi a Como ed infellonito pel
recente smacco, non potendo imprigionare il proprio salvatore, come
Rossi avrebbe voluto, incarcera il padre Gavazzi, barnabita divenuto
celebre predicando la crociata contro gli austriaci su per le
piazze. I liberali urlano, il congresso federativo di Torino
dichiara la caduta di Rossi necessaria all'attuazione delle speranze
italiche, la reazione ministeriale costretta ad esagerarsi per
resistere all'esaltamento degli animi peggiora le proprie misure.
Tutto diventa provocazione: una truppa di carabinieri, chiamata a
Roma e fatta passeggiare spavaldamente pel Corso, pare una sfida: si
mormorano minaccie contro i Consigli, si sussurra di costituente, si
denuncia l'ostinato ministro alla pubblica esecrazione.
E nessuno lo sostiene.
Il clero gli è avverso per le tasse e per quel fermo
proposito di stabilire un vero governo costituzionale, i federalisti
lo osteggiano come unico nemico della Dieta italiana, la diplomazia
degli altri principi lo abbandona, le popolazioni inerti, papaline o
rivoluzionarie, guardano di mal occhio questo straniero che tutti
condannano. La reazione ha già trionfato di Napoli e della
Sicilia; la Lombardia è ricaduta nella servitù
tedesca. Venezia già cinta d'assedio, il Piemonte cogli
austriaci vincitori al confine, la Toscana imbrogliata nella
rettorica armeggia contro al proprio principe e non s'accorge che
Radetzky sta per rioccuparla come un feudo imperiale. Il papa,
rimasto solo all'esperimento costituzionale e atterrito
dall'anarchia di Roma, si prepara ad accettare l'intervento tedesco,
dianzi respinto, per ristabilirsi signore assoluto e tornare in
quiete. La rivoluzione precipita verso la catastrofe; il quarantotto
è stato inutile. Il Piemonte ha fallito, Napoli tradito,
Milano votata un'annessione vana, Venezia gridato, negato,
riaffermato la propria republica senza fede in essa e senza
speranza; la Toscana ha oscillato senza muoversi; nessuna idea si
è ancora affermata. Il papato, nel nome del quale
cominciò la rivoluzione e per opera del quale fu arrestata
nel momento della vittoria, come disse la prima parola della
rivoluzione, così deve esserne l'ultima: bisogna che la
rivoluzione lo distrugga per affermare la propria idea. Senza
l'abolizione del potere temporale e senza la repubblica a Roma, la
rivoluzione del quarantotto non è che una inutile ripetizione
di quelle del '21 e '31: mancherebbe il progresso alla vita, la
logica alla storia. L'ostacolo più antico ed universale alla
costituzione della nazionalità italiana fu ed è il
papato: la rivoluzione non può essere tale che sopprimendolo
come già fece la francese dell'89, ma quella procedendo per
conquista rovesciava, non abrogava. L'Italia che lo ha creato,
può sola annullarlo. L'unità, l'indipendenza e la
libertà della nazione derivano da Roma italiana: Roma
pontificia è l'Italia federale diffranta in minimi stati,
serva dello straniero, senza individualità nella vita e senza
personalità nella storia.
Il papato, dando la spinta alla rivoluzione, ha tentato l'ultimo
esperimento per rinnovarsi: ma la guerra nazionale gli è
rimasta estranea, lo statuto lo soffoca, l'idea moderna democratica
lo trascende.
Pellegrino Rossi è la reazione con tutto l'orpello e il
panneggiamento delle false franchigie costituzionali, coll'assurdo
della sovranità popolare e papale, coll'antagonismo dello
stato pontificio con tutti gli altri e colla nazione: è la
reazione senza alcun principio politico, senza fede in se medesima,
senz'accordo con nessuna classe o ordine, incompresa ed
incomprensibile.
Quindi Pellegrino Rossi diventa il centro di tutti gli odii; la sua
condanna esce dalla fatalità storica come un epilogo. Un
superbo accecamento lo rende più intrattabilmente dominatore
negli ultimi giorni: invano lettere anonime lo avvisano e pochi
amici lo consigliano ancora. Egli non crede al proprio assassinio,
giacchè non può intenderne la ragione storica. Infatti
la sua reazione nell'apparenza è quasi insignificante,
paragonata a quella di Ferdinando Borbone; la sua sincerità
parlamentare è indiscutibile, la sua illusione quella stessa
di tutti i politici di allora: l'allocuzione del 29 aprile non venne
da lui inspirata, Garibaldi fu peggio trattato a Milano che a
Bologna, il tradimento del papa ricusantesi alla guerra nazionale
non è nulla al confronto dell'abbandono di Milano e della
consegna di Venezia tentata da Carlo Alberto. Nullameno l'odio
rivoluzionario s'addensa su Pellegrino Rossi, lo esecra come un
tiranno, lo insulta come un carnefice. Nessuno sospetta ancora la
profonda ragione di così unanime sentimento nella
necessità di salvare la rivoluzione, proclamando la
repubblica a Roma.
Il 15 novembre Pellegrino Rossi, mentre sale lo scalone della
cancelleria, ove è adunato il parlamento, solo col Righetti
fra una folla minacciosa, è colpito da una pugnalata alla
carotide. La guardia nazionale ha assistito impassibile
all'assassinio, il popolo urla di feroce entusiasmo, il presidente
Sturbinetti con affettato stoicismo ordina prosegua la seduta, ma i
deputati si sbandano sotto l'incubo di un terrore misterioso,
intanto che la notizia si sparge per tutta Italia con miracolosa
rapidità. A quei giorni furono similmente uccisi il ministro
Latour a Vienna, il Lamberg in Ungheria, il Lichnowski a Francoforte
senza che la loro morte provocasse emozione di sorta: ma quella di
Pellegrino Rossi sconvolse tutte le coscienze. Qualche gran cosa era
con lui crollata: a distanza di diciotto secoli il pugnale, che
aveva colpito Cesare per trafiggere invano l'impero, scannava Rossi
uccidendo il papato. La morte del dittatore non potè salvare
l'antica republica: quella del ministro permise alla nuova di
nascere.
Federazione di principi e primato pontificio, rinnovamento religioso
e autonomie regionali, tutte le tradizioni e le aberrazioni del
quarantotto, svanivano con Pellegrino Rossi. Qualche gran cosa era
crollata con lui, la Roma papale più vasta della Roma
cesarea, città di Dio che, fabbricata colle rovine
dell'impero romano, aveva contenuto tutto il medioevo e dominato il
rinascimento, slargandosi colle scoperte successive di due mondi,
soccombendo alla rivoluzione francese, ma per rialzarsi dopo di
essa, quasi maggiore di essa. Qualche gran cosa era cominciata colla
sua morte, la Roma italiana, l'epoca delle nazionalità,
l'èra universale della libertà, la repubblica del
pensiero, la cattolicità della scienza.
Al Quirinale, nelle anticamere del papa, si rinnova il terrore che
alle notizie delle prime invasioni barbariche agghiacciava le sale
dei Cesari: si dànno ordini di repressione ai gendarmi che
non osano eseguirli; i ministri balbettano, i deputati si
disperdono, i cortigiani sono già dispersi. Giù nella
piazza un'orgia brutale dà all'assassinio una truce mirifica
apparenza di festa. L'indomani si pensa a provvedere un nuovo
ministero, non sapendo e peggio non potendo sapere chi porvi, mentre
i rivoluzionari, concertandosi rapidamente, sollevano in massa il
popolo e lo spingono al Quirinale per chiedere una costituente
italiana e un ministero democratico con Saliceti, Campello e
Sterbini. Galletti è deputato oratore del popolo al papa.
Questi tenta resistere, sperando ancora nella propria
autorità, che la sommossa medesima sembra riconoscere; ma il
popolo infuria. Volontarii reduci da Vicenza, guardie civiche e
carabinieri corrono all'armi, si assedia il Quirinale: gli svizzeri
resistono, la mischia s'accende, un monsignore è ucciso,
s'incendia una porta del palazzo, un cannone trascinato in piazza
sta per rovesciare l'altra, finchè Pio IX, vinto dal terrore,
dichiara ai diplomatici di non cedere che alla violenza, ed inganna
il popolo colla composizione di un nuovo ministero. Il principe non
ha saputo resistere, il pontefice non ha voluto sacrificarsi:
eroismo e martirio non sono più pel papato.
Allora il trambusto diventa inintelligibile. Marco Minghetti alla
testa del gruppo bolognese si dimette da deputato per non venir meno
alla devozione verso il sovrano; il ministero non osa condannare
pubblicamente l'assassinio di Rossi, che rimane e rimase poi
misterioso, palleggiato con reciproca accusa da gesuiti a
mazziniani, sconfessato con unanime orrore da tutti i partiti. I
circoli fanno proclami e decreti: un'aurora boreale getta sul
tumulto una luce sanguigna di tragedia, atterrendo tutte le
superstiziose fantasie; quindi il papa, sentendosi straniero nella
propria capitale, fugge insospettato e travestito a Gaeta.
Lo statuto era stato una resa, la fuga diventò
un'abdicazione.
La lettera lasciata dal papa al marchese Sacchetti non raccomandava
che di salvaguardare i palazzi apostolici: volgarità di
padrone di casa, che nel supremo disastro di un regno millenario e
in una terribile rivoluzione della patria non pensa che ai propri
mobili! Nullameno il nuovo ministero, nel quale dominava il tribuno
Sterbini, rimaneva nella propria dignità poco più alto
del papa, giacchè, invece di profittare di quella fuga per
dichiarare abrogato per sempre il potere temporale, lamentava invece
che Pio IX fosse fuggito, cedendo ad infami consigli, ed invitava
patriotticamente i cittadini alla calma. Il circolo popolare con
arbitrio rivoluzionario e con pusillanime ipocrisia dichiarava
legittima l'autorità del ministero, non perchè
riconosciuta dal popolo ma come riconfermata dal papa in una frase
ambigua della sua lettera al Sacchetti. Il popolo della capitale e
delle provincie rimaneva sospeso in tale incertezza di governo,
ascoltando le esortazioni dei due Consigli, che gli predicavano la
temperanza virile: Mamiani ricondotto dal pericolo dello stato al
ministero riusciva a scartare la proposta del principe di Canino
invocante la costituente.
Ma intanto che ministero e parlamento armeggiavano infelicemente per
mantenere l'accordo col pontefice fuggito, vietando a Garibaldi di
avvicinarsi a Roma colla sua legione ed ammansando il popolo
coll'ordinare grossi lavori pubblici, Pio IX promulgava un breve da
Gaeta, quasi a risposta pei circoli che domandavano la costituente,
nel quale, protestando contro le necessità della propria
fuga, dichiarava nulli tutti gli ultimi atti del governo e lo
sostituiva con una commissione di monsignori e di aristocratici.
Però non uno di essi ardì accettare il difficile
ufficio.
Alla violenta smentita del pontefice, ministero e parlamento
risposero con instancabile servilità arzigogolando
curialescamente che la protesta papale, datata dall'estero e senza
firma di ministro responsabile, non poteva credersi autentica, e
deputando oratori a Gaeta per convincere Pio IX a ritornare in Roma.
Naturalmente le deputazioni non vennero ricevute al confine
napoletano: invece Cavaignac, dispotico presidente della repubblica
francese, dopo le giornate di giugno, annunciò l'invio di tre
fregate francesi nel porto di Civitavecchia per assicurare il
pontefice. Il governo provvisorio, protestando contro questa
minaccia, adoperò per supremo argomento non avere Pio IX
nell'immacolata grandezza dell'animo proprio invocato contro la
patria intervento armato straniero e non essere mai per invocarlo;
ma poco dopo il pontefice, rifiutando ogni componimento, mandava
invece da Gaeta un appello a tutte le potenze cattoliche per farsi
rimettere in trono.
I costituzionali di Roma, troppo simili ai moderati milanesi delle
cinque giornate, per orrore dell'imminente rivoluzione, non volevano
a nessun costo recedere dalle speranze di rappattumamento con Gaeta,
e nominavano un'altra commissione di governo con questo precipuo
incarico. Mentre nel popolo cresceva il fermento rivoluzionario, nei
governanti si cristallizzava rapidamente la fede nel
costituzionalismo del pontefice, malgrado la sua fuga e le violenti
proteste. I circoli fremevano; i ricchi clericali fuggivano come
sotto la tempesta; una incomprensibile incertezza sconvolgeva tutti
gli spiriti. Era impossibile non precipitare a governo radicalmente
democratico, e nullameno non se ne aveva il coraggio. Scarso nelle
masse il sentimento liberale; quasi nullo il repubblicano; pochi ma
unanimi, i forestieri italiani attirati in Roma dall'istinto storico
del grande avvenimento mestavano dovunque, arringando ed oprando,
persuadendo e minacciando; solo il principe di Canino per
vanità tribunizia parlava alto di costituente; solo il
Mamiani, antecessore e successore del Rossi, resisteva apertamente,
domandando l'espulsione come per stranieri di De Boni, di
Ciceruacchio e di Maestri, energici capi-parte repubblicani, e
proponendo la convocazione di un'assemblea italiana per compilare il
patto federale di tutti i singoli stati.
Un'onda di piazza superò quest'ultima trincea di
costituzionali, travolgendo il ministero. Quindi il 20 dicembre 1848
la Giunta suprema di stato proclamò la Costituente Romana,
sottomettendone immediatamente la legge ai Consigli, che non osarono
nè accettarla nè respingerla: la legge importava che
l'assemblea rappresentasse con pieni poteri lo stato romano e vi
desse compiuto, regolare e stabile ordinamento; che le elezioni si
facessero per suffragio universale diretto: elettori tutti i
cittadini di ventun anni, eleggibili tutti gli altri di venticinque,
duecento i deputati.
Questo schema arditamente democratico cadde come una bomba sul
timido parlamento già tanto assottigliato dalle renunzie dei
più timidi deputati, onde la Giunta ne chiuse la sessione,
ordinando la convocazione della Costituente per decreto.
Ma neanche questo decreto schiettamente rivoluzionario bastò
a guarire il governo provvisorio presieduto da monsignor Muzzarelli
dalle equivoche speranze di un componimento col papa: le pratiche
diplomatiche proseguirono con Gaeta, mentre con arbitrio assennato
ed intrepido si affrettavano le abolizioni dei fedecommessi e delle
disposizioni fiduciarie, si riformava la procedura civile, si
regolava la navigazione dei fiumi e delle coste marittime, si
sopprimeva la tassa del macinato e finalmente, quasi ad accenno di
regime giacobino, s'instituiva una commissione militare senz'appello
pei delitti contro l'ordine pubblico. Solo all'esercito, che avrebbe
dovuto essere la prima cura in quella difficile ora di guerra
coll'Austria vittoriosa ed invadente, non si pensava affatto: appena
appena s'inscrissero 1330 reclute. Al decreto invocante la
Costituente le provincie si scossero e tutti i legati ecclesiastici
o laici vi si dimisero: i costituzionali si ritirarono sdegnosi, i
rivoluzionari si levarono, i sanfedisti occulti spiarono con perfida
attesa la catastrofe.
La Corte pontificia di Gaeta sembrò disinteressarsi da ogni
questione, abbandonando il partito costituzionale e scagliando la
scomunica contro elettori ed eletti, mentre a Roma un gretto
municipalismo aiutato dallo Sterbini mirava inutilmente a
contrastare l'espansione e il significato della proclamata
costituente. Infatti il suo carattere era al tempo stesso
giobertiano e montanelliano, giacchè alcuni deputati dovevano
sedervi come nazionali ed altri come romani, questi costituire un
governo nell'antico stato pontificio, quelli combinare un assetto
federale italiano. La fisima della dieta come carattere essenziale
nella rivoluzione vi persisteva, ma l'inconscio sentimento unitario
di Roma capitale d'Italia ne santificava l'assurda momentanea
impossibilità. Se l'accordo federale non era riuscito tra i
principi, fra questi e le repubbliche e coll'Europa già
disposta a ricondurre sul trono il pontefice diventava addirittura
paradossale: nullameno le pratiche seguivano attivamente,
contrastandosi nelle intenzioni e nei disegni del Gioberti e del
Montanelli.
A Gaeta invece s'arrabattava il lavoro delle diplomazie: il Borbone
badava abilmente a conservare il papa, traendo dalla sua
ospitalità una specie di assolutoria alle infamie commesse;
il Piemonte offriva Nizza e la propria mediazione per riconciliarlo
con Roma; Cavaignac, per amicarsi il partito cattolico francese
nell'imminente elezione presidenziale, moltiplicava le promesse,
invitando Pio IX in Francia; la Spagna gli aveva già esibito
le isole Baleari e tutta se stessa. Poi il Piemonte, trascinato
dall'inesorabile duplicità del proprio giuoco, domandava al
papa di presidiare Roma in nome suo con truppe sarde, stipulando
simultaneamente col governo provvisorio di potere militarmente
occupare le provincie romane per le necessità dell'imminente
seconda guerra coll'Austria, e più tardi, pregato d'alleanza
da questo, la negava per riguardo al pontefice; finalmente,
ributtato dalla diplomazia papale, dichiarava caso di guerra il
minacciato intervento spagnolo in favore del papa. Ultima la Prussia
proponeva come accordo fra l'Austria e la Francia, che quella
occupasse il nord e questa il sud dello stato pontificio.
Fra questa temperie si tennero le elezioni e il giorno 5 febbraio
1849 s'adunò nel palazzo della Cancelleria la Costituente.
La seconda campagna piemontese.
I primi esperimenti repubblicani dovevano quindi coincidere
coll'ultima guerra regia, senza ottenere migliore risultato.
Mentre duravano in tutti i gabinetti politici d'Europa le trattative
di una mediazione tra l'Austria e il Piemonte e quella tirava
astutamente in lungo per assodarsi all'interno contro i pericoli
della rivoluzione e della Dieta di Francoforte, a Torino ministero,
parlamento e popolo farneticavano d'entusiasmo rivoluzionario e di
reazione dinastica. Migliaia e migliaia di rifuggiti vi si agitavano
nella febbre della rivincita; i repubblicani accusavano
violentemente il re, i regi svillaneggiavano la democrazia
sfiduciata e sfiduciante, i giornali palleggiavano accuse e denunzie
contro tutto e su tutti. Vero è che alla guerra il Piemonte
era stato insufficiente meno ancora per difetto di ordini militari
che per sincerità di sentimenti e per contraddizione di
propositi; che i lombardi dopo gli eroismi delle cinque giornate
erano cessati dall'opera; che a Venezia si era stati altrettanto
fiacchi alla battaglia che incerti nella politica; che i ducati
avevano fatto quasi da spettatori; che la Toscana aveva levato
appena due reggimenti; che il papa e il Borbone avevano ritirato i
propri. Ai delirii della fede patriottica erano naturalmente
succeduti i fanatismi dell'incredulità pessimista: il passato
di Carlo Alberto pareva spiegazione a tutti i suoi ultimi tradimenti
immaginari, mentre spiegava fin troppo i tradimenti veri: le
speranze di aiuti europei dileguando, invece d'irrobustire il
patriottismo col senso tragico del pericolo, scassinavano tutti i
disegni e prolungavano ignominiosamente ogni querimonia.
Le ultime proposte franco-inglesi di mediazione, importando la
remissione del Lombardo-Veneto all'Austria, invelenivano egualmente
le cupidigie conquistatrici dei costituzionali piemontesi e i
sentimenti italiani dei democratici. Nella tempesta parlamentare i
ministeri passavano come fantasmi: quello obliquo del Casati
soccombette all'altro del Perrone, cui successe il Gioberti. Si
voleva la riscossa malgrado le tetre confessioni di Dabormida,
già ministro della guerra, sullo stato dell'esercito. Il
ministero avrebbe voluto prepararla convenientemente; Brofferio
invece coi più caldi la chiedeva subitanea, inspirata,
condotta «da ardimento, ardimento, ardimento». La
Lombardia calpestata e taglieggiata strillava, i ducati parevano
scrollarsi impazienti. Genova arditamente rivoluzionaria e malata di
antico odio municipale al Piemonte minacciava d'insorgere; il
congresso di Bruxelles, ultimo tentativo di componimento
diplomatico, non dava risultati: l'Italia si credeva con ingenua
vanteria ancora integra di forze e salda di propositi. Certo che in
quello di riprendere le ostilità si sarebbe dovuto profittare
delle nuove crisi interne dell'Austria, tagliando corto ai raggiri e
alle procrastinazioni colle quali essa mirava ad assonnare l'Italia;
ma la guerra avrebbe così dovuto essere popolare e nazionale,
e il Piemonte monarchico non poteva per necessità di egoismo
consentirvi.
Per prendere fiato, il ministero sciolse la Camera, che in quella
esacerbazione degli spiriti ritornò con numero preponderante
di impazienti contro i moderati. Intanto le costituenti di Firenze e
di Roma, cacciando il granduca e il pontefice, crescevano
autorità alla parte democratica, mentre il loro urto col
Piemonte, condannato a non vivere e a non progredire che
costituzionalmente, diventava sempre più inevitabile, e la
scissione dei principii politici vietava anche più
dolorosamente gli accordi necessari ad un ultimo sforzo di guerra
nazionale. All'apertura del parlamento ministero e re parlarono
audacemente di rivincita, ma l'ora propizia era già
trascorsa. L'Austria, opponendo i Magiari agli Slavi e questi a
quelli, li aveva entrambi soverchiati: Vienna aveva richiamato
l'imperatore; Praga cedeva; la corte, promettendo una costituente,
ammansiva i rivoluzionari; le individualità autonome
dell'impero resistendo al moto unitario della Dieta di Francoforte,
davano buon giuoco alla politica austriaca; la Prussia, abbandonando
la Dieta, lasciava timidamente cadere l'idea unitaria piuttosto
annebbiata che rivelata dalle troppe discussioni. Se i disastri al
rompere della guerra avevano quindi dato spirito alle potenze per
insultare l'Austria, i nuovi successi di questa persuadevano invece
a sostenerla: tutte le rivoluzioni nazionali soccombevano alla
medesima fatalità, tutte le democrazie si appalesavano del
pari insufficienti.
Le pretese del Piemonte sul Lombardo-Veneto non sembravano
perciò alle diplomazie che ridicole bravate di un vinto senza
gloria, e l'unità italiana un sogno di poeti guasto da
corruttele di rivoluzionari e da violenza di banditi. La reazione
monarchica vincitrice in tutta Europa si riuniva ora intorno al
papato abbattuto dalla repubblica romana, per rialzarlo, facendo
della ripristinazione di Pio IX come il proprio epilogo trionfale.
Infatti Gioberti stesso, capo di un ministero allora democratico,
sbigottito dall'accordo di tutte le potenze ad intervenire nella
questione romana, precipitava alla più assurda delle
decisioni, insistendo presso il pontefice e il granduca Leopoldo per
rimetterli in trono con armi piemontesi. Sarebbe stata la guerra
civile della monarchia contro la democrazia, del Piemonte contro
l'Italia, e questo all'indomani del congresso federativo. Il papa
ricusò, il parlamento urlò al fratricidio. Gioberti
caduto dal ministero dovette esulare, per difendersi invano in un
ultimo libro sul Rinnovamento civile, eloquente imbroglio di
filosofia e di politica, apologia infelice e suprema contraddizione
di un grande spirito, cui la sventura dell'esilio nobilmente
sofferto ridiede l'onorabilità perduta nei troppi mutamenti
di opinione e nelle teatrali vanità della vita.
Intanto la necessità della guerra stringeva il nuovo
ministero Colli. Si era lasciato con incredibile negligenza esausto
l'erario; quindi si bandiva la leva in massa degli emigranti
lombardi senza osare di estenderla a quelli dei ducati,
perchè, soggetti allo statuto, avrebbero dovuto sopportarla
per legge, e la legge mancava: miserabile pedanteria di procedura
costituzionale! Non si ardiva per sospetti di rivoluzione mobilitare
la guardia nazionale: nessuna fortificazione difendeva ancora i
passi del Ticino. Era e doveva essere la seconda fase della guerra
regia. Le diplomazie tenevano il broncio; l'Italia invece vi era
concorde di sentimento, ma senza quella eroica disperazione che
avrebbe potuto fare il miracolo di una vittoria. La politica ambigua
aveva isolato il Piemonte: principi e repubbliche diffidavano
egualmente delle sue intenzioni e della sua capacità: Lorenzo
Valerio, spedito a Firenze e a Roma per chiedere concorso d'armati e
di danaro, vi ottenne festose accoglienze, ma scarsi aiuti; anche
questi, tardi invocati, non poterono muoversi che troppo tardi,
quando già la guerra era sciaguratamente perduta.
A generalissimo Carlo Alberto nominava il polacco Chrzanowski,
ignoto ai soldati e all'Italia, più inetto degli inetti che
doveva comandare. Così un soldato straniero doveva in questa
seconda guerra regia vincere per l'Italia, mentre il popolo
piemontese vi rimarrebbe tranquillo spettatore secondo il monito
supremo di Carlo Alberto, e il resto del popolo d Italia era pregato
di aiutare il re.
Quindi la guerra intimata dal Piemonte si accende alla frontiera.
Schwarzenberg, ministro d'Austria, ne rigetta la
responsabilità su Carlo Alberto, Radetzki con senile ed
ammirabile iattanza grida al proprio esercito: - a Torino! - e,
sguarnendo tutto il Lombardo-Veneto troppo paralizzato dal terrore
per pensare a insorgere, si precipita all'offesa. L'esercito
piemontese, disperso sopra una lunghissima linea da Parma a Novara
coll'ostinato errore della campagna antecedente, presenta poca
resistenza: Venezia tardi avvisata non può circuire il
nemico, avvicinandosi ad un'ala sarda: a Roma il proclama di guerra
giunge prima di colui che dovrebbe portarlo. Poi Lamarmora,
occupando la Lunigiana senza avvertirne il governo toscano, è
da questo trattato come nemico e con inconcepibile insania
minacciato di una insurrezione a Genova: Carlo Alberto spintosi a
cavallo oltre il Ticino, poichè nessuno risponde alla sua
chiamata, deve retrocedere. Ma Radetzky la mattina dello stesso
giorno (20 marzo 1849), nel quale spirava l'armistizio, passa il
Gravellone lasciato indifeso da Ramorino con inesplicabile
disobbedienza punita poi come tradimento, coglie i piemontesi a
Mortara, li batte, e due giorni dopo li prostra a Novara. La guerra
è finita: Chrzanowski vi si è mostrato ridicolo nella
sconfitta, Carlo Alberto quasi magnanimo coll'abdicare sul campo la
corona al figlio Vittorio Emanuele.
Questi, inaugurando così tragicamente il proprio regno,
potè nullameno salvarlo ed assicurarsi l'avvenire col
mantener fede allo statuto contro tutte le minacce del vecchio
maresciallo: ma i patti imposti dal vincitore furono umilianti:
occupazione di 20,000 soldati austriaci sul Po, la Sesia ed il
Ticino durante l'armistizio; scioglimento dei corpi volontari,
richiamo della flotta dall'Adriatico, ordine del nuovo re ai soldati
piemontesi, che fossero in Venezia, di rimpatriare sotto pena
d'essere esclusi da ogni capitolazione.
Era l'ignominia d'un ultimo tradimento imposto contro la grande
città un'altra volta tradita.
E Vittorio Emanuele dovette consentirvi, sebbene la sua corona non
corresse pericolo, come si disse più tardi per scusare il
patto infame. Infatti per quanto grande la vittoria dell'Austria e
misero lo stato del Piemonte e rovinante la condizione d'Italia, una
conquista che portasse nella Savoia i confini dell'impero austriaco
era assolutamente impossibile. La Francia sola sarebbe bastata ad
arrestare l'Austria sulla via di Torino, mentre il Borbone ed il
papa stesso avrebbero protestato per non perdere ogni loro ultima
autonomia, e Russia, Prussia, Inghilterra si sarebbero tosto
accordate alla difesa delle Alpi.
Questa ragionevole persuasione rafforzò lo sdegno dei
liberali, che all'annunzio della rotta, dell'abdicazione e
dall'armistizio, rovesciarono il ministero, farneticando di
resistenza ad oltranza. Ma la guerra regia era fatalmente conchiusa.
L'esasperazione delle fantasie offese in tutti gli atti da
immaginari tradimenti, le proposte disperate, i rimpianti eroici,
gli sfoghi irrefrenabili, non esprimevano più che l'ultima
crisi d'un periodo esaurito nei fatti e rinnovantesi nelle
coscienze. Così Genova insorta a guerra civile, assaltando il
proprio arsenale e gridando un governo provvisorio di Liguria, per
difendersi contro i piemontesi accorsi prontamente col generale
Lamarmora ad assediarla; quindi costretta dopo inutili invocazioni
ai volontari lombardi di subire le sevizie efferate dei vincitori,
non è più che una tragedia medioevale nel gran dramma
moderno, una demenza republicana di altri secoli nel prologo
republicano, che Roma solamente ha potuto rendere ragionevole.
Brescia, che resiste eroicamente alla selvaggia ferocia di Haynau
accorso da Venezia a bloccarla, e vinta, non doma, muta la guerra in
duelli per tutte le strade e per tutte le case, non è
più che l'epilogo della rivoluzione lombarda cominciata colle
Cinque Giornate, della quale salva l'onore compromesso dall'ultima
inazione.
La formula monarchica nella rivoluzione federale del 1848 si
è risolta nello Statuto riaffermato dal giovane re piemontese
dopo la rotta di Novara.
Capitolo Quarto.
Schemi republicani
Firenze.
La rivoluzione federale, unanime nel sentimento dell'indipendenza
nazionale e nell'istinto della libertà statutaria, doveva
necessariamente, dopo tutte le prove fallite del principato, tentare
un più alto esperimento colle republiche, rivelando la
formula della rivoluzione avvenire. Ma se dei regni uno solo aveva
resistito allo Statuto, mantenendolo sotto la doppia violenza d'una
invasione militare e d'una democrazia eslege aiutata dagli equivoci
della insurrezione nazionale, nessuna republica poteva affermarsi
vitalmente nell'immenso tumulto di quella liquidazione del passato.
Il principio democratico, brillando un istante sul Campidoglio nella
più abbagliante purezza, quasi a diradare le tenebre di tutte
le antitesi politiche, era anticipatamente costretto a vanire nella
gloria d'un poema, nel quale il fatto politico rimarrebbe appena
come una trama. Nè la storia, nè la civiltà
italiana erano ancora tali da consentire intera la doppia
rivelazione della democrazia e delle nazionalità.
Un esperimento republicano era nullameno necessario per dissipare le
ultime illusioni della federazione, che nella republica cercava
istintivamente la conciliazione dello stato antico colla democrazia
moderna, e garantire l'originalità del principio democratico
subdolamente assorbito negli statuti dal principato. Così
Genova già fusa col Piemonte, mentre questo stava per
fondersi coll'Italia dandole la propria unità costituzionale,
non arriva che ad una inutile insurrezione, reazionaria nel
patriottismo municipale, anarchica nel processo politico, tragica in
quell'ora di sconfitta per tutta la nazione: Livorno, sollevandosi
contro Firenze, riassume tutta l'impazienza della democrazia
costretta dalla propria incapacità a diventare demagogia:
Siena, insorta poco dopo per difendere il granduca traditore e
fuggiasco, soddisfa per l'ultima volta l'antico rancore municipale,
e quindi osteggia simultaneamente Firenze e la democrazia: Venezia
inalbera la secolare bandiera di San Marco, poi l'abbassa per
sostituire il vessillo italiano, finalmente la risolleva quasi per
festeggiare con funebre pompa l'agonia della propria republica, e
chiude per sempre l'epoca della federazione italiana come era uscita
dai comuni e Lorenzo il Magnifico l'aveva gloriosamente disciplinata
nella prima lega italica: Firenze, liberata dalla monarchia colla
fuga del granduca, incerta fra le vanità dei vecchi ricordi
republicani e le tendenze democratiche attuali, tergiversa colla
tradizionale doppiezza procrastinando ogni decisione per un governo
monarchico o republicano, toscano federale o romano e quindi
unitario, finchè l'ora storica passa, e, sorpresa da una
reazione municipale, ricade nel granducato. Roma sola, centro eterno
d'Italia, sente che la prima affermazione dell'epoca nuova non
può venire all'Italia che da essa, e s'affretta con inconscio
crescendo ad abbattere il potere temporale dei papi e a proclamare
la republica: così passato ed avvenire italiano si fondono
per la terza volta nel suo avvenire politico.
In questa gamma Firenze è una penombra, Venezia un tramonto,
Roma un'aurora: Firenze soccombe in un dubbio, Venezia in un sogno,
Roma in una rivelazione. Ciò che Firenze risorta a breve
agonia non ha osato, Venezia lo compie morendo; ciò che
l'Italia insorta ha sentito, Roma lo attua in una republica
effimera, ma profezia di maggiore republica. Venezia rappresenta
l'Italia antica, Firenze l'Italia del momento, Roma l'Italia
dell'avvenire: Venezia risuscita in Manin il suo ultimo doge
guerriero. Firenze ripete in Guerrazzi il suo ultimo priore
turbolento, Roma trova in Mazzini il suo ultimo apostolo.
Ma intanto che le republiche cadono, seppellendo il passato e
squarciando il futuro, il Piemonte si assoda nella stessa bufera che
lo squassa, e salva nella monarchia la forma della non lontana
unità d'Italia.
Dopo i casi di Livorno, nei quali si era fin troppo chiarita la
insufficienza del nuovo governo granducale e che avevano condotto al
potere il Guerrazzi e il Montanelli, la posizione politica della
Toscana rispetto alla rivoluzione italiana toccava il massimo della
crisi. I costituzionali, esauritisi nelle rapide successioni
ministeriali, che dall'energia dittatoria del Ridolfi erano discese
all'onesta condiscendenza del Capponi, stavano come ritirati
dall'agone: le loro tendenze aristocratiche, la loro stessa
capacità parlamentare e sopratutto l'angusto patriottismo,
che vedeva l'Italia solamente attraverso e molto dopo la Toscana, li
rendeva inetti alle supreme manifestazioni di quello stesso moto
politico. L'avvenimento del Guerrazzi, poeta cresciuto nell'ira di
tutti i contrasti e mutato da ultimo in tribuno implacabilmente
superbo d'opposizione, significava apertamente la sconfitta del
partito moderato. Infatti il Montanelli, letterato elegiaco e
politico insino allora neo-guelfo, che il ritorno dai campi cruenti
di Curtatone, ove lo si era pianto per morto, circondava di
un'aureola di eroismo, appena chiamato al governo di Livorno per
rappattumarla con Firenze, vi proclamava di proprio capo una
costituente italiana, più larga di quella del Gioberti,
poichè riconosceva al popolo la facoltà di rassettare
tutti gli stati secondo l'interesse generale. Era la prima
affermazione toscana nella rivoluzione, che da oltre un anno
affaticava l'Italia. Con essa Firenze sorpassava politicamente
Torino; ma poco chiara nel concetto, incerta nel processo,
proclamata piuttosto da un individuo che da una regione, questa
costituente dell'ultim'ora non poteva discendere a realtà
politica. La Toscana vi si annullava anticipatamente,
sottomettendosi al verdetto di tutta Italia, ma conservando
nell'animo l'egoismo della propria autonomia: il granduca vi si
sentiva perduto, i moderati vi si riconoscevano condannati. Di
rimpatto la demagogia inevitabile in quel sobbollimento di spiriti
vi acquistava importanza: un'amnistia generale veniva proclamata, si
parlava di guerra con più alta ciancia. Il granduca, chiuso
scaltramente in se stesso, lasciava fare e faceva anzi quanto la
nuova scena politica esigeva, non fidando più che in un
prossimo intervento austriaco.
Appoggiato sulla piazza e da questa scosso a ogni minuto, il nuovo
ministero si trovava nell'impossibilità di governare: oscuri
demagoghi s'imponevano ai ministri; esausto il tesoro, nullo
l'esercito, confusa l'opinione, sconvolti ordini e partiti.
Guerrazzi s'irrigidiva con superba fibra di despota minacciando
contro i nuovi disordini, ma la mancanza d'uno scopo politico dava
alla sua energia l'odiosità d'una repressione a favore del
granduca, mentre invece s'illanguidiva nell'illusione di conciliare
le tradizioni autoritarie di casa Lorena colla rivoluzione in una
politica ostile all'Austria e diffidente della rivoluzione.
Montanelli scriveva al cospiratore La Cecilia: «Dio ci guardi
da una republica romana». Guerrazzi denunciava le voglie
conquistatrici del Piemonte alla vanità paesana, profetando
la servitù di Toscana se quello crescesse di territorio nella
guerra coll'Austria: Giuseppe Giusti atterrito dal disordine delle
piazze riparava nel rimpianto del passato: solo il Niccolini,
inconvertibilmente giacobino, si manteneva fedele alla rivoluzione,
ma, chiuso nell'Accademia come in una carcere, per sdegno feroce
della troppa commedia politica, ricusava d'uscirne e di ricevervi
visitatori. Intanto si procedeva per la costituente, dichiarandola a
suffragio universale: eleggibile qualunque italiano dai venticinque
anni in su, elettore qualunque cittadino sopra il ventunesimo anno;
unica pregiudiziale, si ottenesse prima la liberazione intera
d'Italia. Il granduca aprendo la nuova Camera (10 gennaio 1849)
permise al ministero di presentare in suo nome al parlamento il
disegno di legge per la elezione dei rappresentanti toscani alla
costituente italiana, ma poco dopo fuggiva a Siena, scusandosi colla
scomunica papale lanciata contro coloro che di qualunque guisa
favorissero la costituente. Il ministero si sconcertò; il
popolo adunatosi in piazza della Signoria, come ai tempi migliori
del medioevo, delegò pieni poteri ad un triumvirato composto
di Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni. Senonchè, dichiarata la
decadenza del granduca, bisognava o proclamare la repubblica, o
fondersi con quella di Roma, o darsi al Piemonte: e i triumviri non
osando alcuna decisione, si credettero abili col rimettere alla
futura costituente il problema d'un governo per la Toscana. Intanto
scoppiavano disordini; Siena gridava: viva il duca e morte alla
costituente!; a San Frediano e ad Empoli i contadini eccitati dal
clero si levavano minacciando; mentre il granduca, spaventato dal
tumulto, malgrado i consigli di tutte le diplomazie e la
fedeltà del generale Laugier, ancora alla testa delle truppe
e ricusante di riconoscere il governo provvisorio, fuggiva a Gaeta.
Allora Livorno proclama la republica, Guerrazzi tentenna, poi con
teatrali apparati marcia contro il Laugier, che le truppe
abbandonano. La confusione regna sovrana: al primo triumvirato ne
succede un altro di difesa sempre col Guerrazzi alla testa; non si
osa dapprima proclamare la Costituente italiana: Mazzini ottiene con
una predica in piazza un voto popolare per la fusione della
republica toscana con quella romana, ma all'indomani nessuno
più se ne ricorda. Poi il governo rinfrancato decreta che
nello stesso giorno si eleggano i rappresentanti per l'assemblea
legislativa toscana e per la Costituente italiana da tenersi in
Roma. Le difficoltà parlamentari delle due assemblee
investite d'uguali poteri persuadono una correzione processuale,
statuendo che l'assemblea toscana abbia facoltà per decidere
se e con quali condizioni lo stato toscano debba unirsi a Roma, e
per comporre coi deputati romani la Costituente dell'Italia
centrale. Ogni deputato poteva essere investito dei due mandati.
Intanto il trambusto demagogico peggiorava. La reazione granducale
aiutata dal clero, dai nobili, dai moderati, da tutti, minacciava
apertamente: i democratici poco saldi nel sentimento e sprovvisti
d'una qualunque idea politica, si lasciavano trasportare dalla
tempesta; solo Guerrazzi si mostrava forte, ma piuttosto per
alterigia di volontà che per coscienza. Le elezioni
riuscirono scarse di numero: l'ultima rotta di Carlo Alberto a
Novara tarpava le ali all'ultima speranza; l'Austria ingrossava
già alle frontiere; l'assemblea atterrita ricusava di votare
la fusione con Roma. Montanelli, tardi rinsavito, l'avrebbe voluta
almeno per compiacenza di politico, primo nell'ardimento di
proclamare la costituente; ma Guerrazzi invece resisteva per
indomabile vanità di toscano e di letterato contro Mazzini:
l'assemblea, preoccupata già di scagionarsi pel futuro,
concesse a Guerrazzi autorità dittatoria e a Montanelli come
compenso un'ambasceria per Parigi.
Poco dopo con 42 voti contro 24 si respingeva solennemente ogni
disegno di unificazione con Roma, e Guerrazzi cadeva come un
tirannuccio medioevale per una rissa scoppiata fra la sua guardia
pretoriana di livornesi ed alcuni cittadini. Plebe ed aristocrazia,
quella per ignava brutalità, questa per rancore di classe e
forse per un'ultima illusione di salvare così lo statuto,
s'accordarono a rovesciare il dittatore e a risollevare gli stemmi
granducali: il municipio rimasto in potere dei moderati
capitanò la reazione, coprendola coi nomi ancora venerati di
Gino Capponi e di Bettino Ricasoli. Guerrazzi, che aveva già
disertato la parte democratica, si umiliò troppo tardi,
troppo vilmente e troppo indarno ai nuovi vincitori, dai quali fu
gettato in carcere per salvarlo dal furore della canaglia; e forse
in parte fu vero.
L'illustre scrittore, riuscito così meschino statista, e che,
fanatico d'impero dittatorio e d'incredulità politica, aveva
dato alla insulsa incertezza della Toscana nella grande crisi
italica la pompa della propria eloquenza, credette scolparsi in una
Apologia altrettanto veemente di passione che sottile di logica
curialesca, ma riuscì invece alla dimostrazione di quanta
infermità senile ed infantile dolorasse allora il pensiero
nazionale.
Infatti non egli solo, quantunque rivoluzionario nell'ingegno e nel
carattere, fallava il principio e il modo della rivoluzione,
giacchè i suoi abili avversari parlamentari, richiamando con
umile manifesto il granduca, nella doppia illusione di conservare
così lo statuto e di preservare la patria da una invasione
austriaca, furono crudelmente ingannati. Il granduca sospese a tempo
indefinito la costituzione, dopo averla riconfermata nella risposta
all'appello del municipio; e il generale tedesco D'Aspre, occupate
Lucca e Pisa, domata nel sangue la resistenza di Livorno,
entrò vittorioso a Firenze per restarvi a tutela della
dinastia e a terrore dei patriotti sino al 1857.
La rivoluzione toscana era vinta senza aver combattuto, consunta
senza traccia nel passato e senza speranza nell'avvenire: Firenze
ridiventava una prefettura austriaca, bella di arte e di sventura,
calmando nel rancore e nella paura della nuova reazione i propri
dissensi politici.
Gino Capponi, il più nobile fra gl'illusi reazionari, che
richiamato il granduca, si erano poi dimessi al ritorno degli
austriaci, aveva trovato per tutti un motto sublime di eroismo,
quando, cieco e menato a braccio per le vie di Firenze, incontrando
a caso uno dei primi battaglioni tedeschi, esclamava piangendo:
«Sia benedetto Dio, almeno non li veggo!»
La notte del giorno nel quale il popolo di Firenze, adunato in
piazza della Signoria, dichiarando decaduto il granduca, eleggeva al
governo provvisorio Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni, la Costituente
romana decretava l'abolizione del papato temporale.
Proclamazione della republica.
Già al primo annunzio della Costituente le provincie romane
si erano scosse vivamente. Gli ultimi entusiasmi provocati
dall'elezione di Pio IX si mescevano ai nuovi, amalgamando idee ed
impressioni nel popolo ancora troppo diverso e scarso di
civiltà per ben comprendere il significato di un periodo
rivoluzionario così complicato. Per tutta la squallida
solitudine dell'Agro, per la Sabina, per l'alta Umbria, nelle
Marche, lungo il litorale adriatico, all'infuori di qualche
città, il popolo viveva ancora nella più supina
ignoranza: tirannia di clero e di signori imprigionava la sua vita;
non abitudini politiche, non intelligenza di governo che permettesse
di sentirsi cittadini; spesso carattere robusto e fazioso,
più spesso molle e servile; perduto nelle memorie ogni
ricordo di guerra; tutti i paesi dislocati e rivali; la religione
indiscussa ed indiscutibile come rito, incompresa ed incomprensibile
come ideale; inerte il concetto di patria, confuso quello di
nazione; poca la passione di lotta e la capacità di
sacrificio. Il governo vi era ancora più spregiato che
odiato; la rivoluzione più insubordinazione che ribellione;
inetti e timidi gli aristocratici; i borghesi cupidi, intriganti e
conservatori per tradizione, quantunque esaltati nella ciarla
rivoluzionaria e più ancora nella fisima della conciliazione
fra autonomie e nazionalità, papismo e libertà; il
popolo bigotto col clero, prono coll'aristocrazia, chiassoso coi
borghesi, fra se medesimo rissante, facile a brigantaggio nelle
campagne e alle sètte nelle città, non uso all'armi e
abborrente da ogni sacrificio di danaro.
Si era delirato per Pio IX e si delirò per la Costituente; ma
se il delirio prima era in tutti, dopo fu di pochi, e
peggiorò in soprusi e feste di sbracati danzanti intorno
all'albero della libertà. Una minoranza nullameno vi
brillava, divisa anch'essa in due campi: i moderati, incaponiti nel
parlamentarismo papale, vedevano ancora nella nuova rivoluzione un
sacrilegio e una anarchia; i rivoluzionari, cresciuti alla scuola di
Mazzini nell'estasi superba della propria utopia, guardavano
già alla terza Roma repubblicana alta sul mondo come la Roma
dei Cesari e dei papi. Fra tutte le provincie pontificie le
più generose di pensiero e di azione erano le Romagne:
Bologna capitale vi faceva da focolare e Ravenna da fucina: nell'una
si affinavano le idee, nell'altra le spade.
Nel primo bollore degli spiriti prodotto dalla guerra all'Austria,
si era creduto all'espulsione dei tedeschi odiati come stranieri e
come gendarmi del governo papale: poi l'allocuzione del 29 aprile,
soffiando su tutte le speranze, ridestò più feroci i
vecchi odii. I costituzionali decaddero, i rivoluzionari dianzi
reietti ottennero favore, il lavorìo delle sètte si
moltiplicò, mentre la demenza di un'idea intelligibile ed
irresistibile aggirava tutte le teste, infiammando tutti i cuori.
Roma, Costituente, Republica diventarono il gran ternario di tutti i
discorsi: non si aveva coscienza della situazione politica, non si
analizzava, non si prevedeva: tornarono le feste pïane e le
baldorie patriottiche fra urli di morte e private vendette. I
costituzionali, abbandonati dal papa, non osavano più
contrastare apertamente: una proposta di certo marchese Ranuzzi
bolognese, perchè Bologna si staccasse da Roma per non
seguirla nella ribellione al pontefice, non ebbe nè voti
nè seguaci: l'opposizione dello Sterbini per mantenere alla
rivoluzione un carattere municipalmente romano, mentre da ogni parte
d'Italia già i rivoluzionari accorrevano in Roma,
svanì. La Giunta suprema di governo, nominata dal Parlamento
moribondo ad impedire la rivoluzione, dovette invece sciogliere i
consigli e convocare la Costituente; le rinunzie di tutti i legati e
prolegati nelle provincie, anzichè seminare diffidenze,
crebbero il fermento; le scomuniche del papa si mutarono in
sferzate, e i suoi appelli alle armi straniere in prove decisive di
tradimento.
Parecchi ecclesiastici rapiti nell'onda rivoluzionaria ne
temperavano il colore irreligioso, così che non vi fu
reazione contro il clero: alcuni fra essi brillarono di santa poesia
come Ugo Bassi; altri si mostrarono potentemente ciarlatani come
Gavazzi; alcuni eroicamente semplici come don Giovanni
Verità. L'inevitabile disordine del momento non ebbe quindi
troppo dolorose conseguenze, malgrado l'insensatezza del governo che
graziava un numero enorme di galeotti. Mentre il governo provvisorio
con generosa prontezza accordava a Carlo Alberto in trattato segreto
di occupare per le necessità della nuova guerra contro
l'Austria le proprie provincie, impegnandosi per tutto il tempo
dell'occupazione a vettovagliare le truppe, quantunque egli
ricusasse ogni riconoscimento politico e seguitasse a trattare
officiosamente col papa sino ad offrirgli di ricondurlo a Roma colle
armi; mentre il Montanelli armeggiava con incredibile fantasticheria
per ottenere che la Costituente romana votasse la presidenza del
granduca Leopoldo, e Mamiani invece sognava quella di Carlo Alberto,
e Manin a nome di Venezia scriveva lettere di condoglianza al papa,
e il Castellani ambasciatore veneto a Roma osteggiava apertamente il
governo provvisorio, tutti i circoli rivoluzionari si allearono
stabilendo a Roma una congregazione centrale, che divenne
naturalmente base e leva del nuovo governo, e fu il primo grande
plebiscito unitario.
Ma in tanto fermento di animi ed inestricabili complicazioni di
eventi politici, l'entusiasmo rivoluzionario non cresceva a vera
passione. Bologna scongiurava il Latour generale degli svizzeri a
non abbandonarla ubbidendo agli ordini del papa, che lo richiamava a
Gaeta per unirlo senza dubbio all'esercito borbonico di invasione, e
a forza di preghiere lo persuadeva: e ciò per timore del
popolaccio sguinzagliatosi nella rilassatezza della polizia. Pareva
trionfo conservare armata in città l'unica milizia
francamente ostile: non si arruolavano volontari, non si mettevano
chierici, clericali e moderati nell'impossibilità di tradire.
L'accademia politica proseguiva, giacchè la proclamazione
dell'imminente republica non doveva concludere che ad una
affermazione ideale. La istituzione giacobina della Giunta di
pubblica sicurezza con poteri discrezionali non era che una
imitazione teatrale della grande rivoluzione francese, e non commise
i terribili arbitrii necessari a tutte le vere rivoluzioni. Se le
poche leggi promulgate illegalmente dal governo provvisorio sui
fedecommessi, sulle procedure civili, sul macinato, e l'emissione di
tre milioni di carta monetata, la pubblicazione della legge sui
comuni già elaborata dal Mamiani, le note, i proclami, gli
sforzi per accrescere la fede negli animi e la passione nei cuori
sembravano accennare ad un vero governo rivoluzionario capace di
cose maggiori, mentre la vittoria di Cavaignac per le vie di Parigi
sui rivoluzionari e l'altra anche maggiore su Cavaignac di Luigi
Bonaparte, eletto presidente della republica, toglievano l'ultima
speranza di simpatie e di aiuti stranieri, nullameno le pratiche con
Gaeta e col Gioberti per una impossibile conciliazione col papa,
allorchè questi chiamava tutta Europa contro Roma, e tutta
Europa si disponeva ad accorrere, rendevano il governo provvisorio
troppo simile a tutti gli altri governi italiani. La fisima del
papato non gli era ancora passata, la republica imminente non gli
pareva ancora probabile.
Finalmente le elezioni indette dal governo furono fatte dai circoli
con qualche rissa, molto spettacolo di baldorie e moltissime
irregolarità: chierici e clericali vi si astennero, i
costituzionali vi andarono sbandati, la vittoria restò
naturalmente ai rivoluzionari. Così l'immenso loro
significato politico nella storia del papato fu piuttosto espresso
che compreso.
Il giorno 5 febbraio l'Assemblea Costituente si adunava nel palazzo
della Cancelleria.
L'assemblea, scarsa di numero, arrivava appena a centoquaranta
rappresentanti; più scarsa d'ingegni e di caratteri, ignorava
la condotta del governo provvisorio, i maneggi diplomatici di Torino
e di Gaeta, temeva dell'Europa, dubitava di se medesima, sentendosi
spinta da una forza arcana ad una meta egualmente misteriosa. La
propaganda mazziniana, per quanto avesse destato dal secolare
letargo i migliori spiriti e soffiato sulle passioni della folla,
non era bastata a schiarire nelle coscienze il troppo significato
della parola republica. Le stesse teoriche di Mazzini, fatalmente
amalgamate di religione e di politica, d'arte e di socialismo,
imbrogliavano anche nelle menti più limpide la
possibilità di una republica, alla quale classi dirette e
dirigenti si riconoscevano del pari immature. Nullameno l'istinto
storico urgeva. Dopo il suicidio del papato colla concessione dello
statuto e l'abdicazione del papa colla fuga a Gaeta, e le stragi del
Borbone, i tradimenti di Carlo Alberto, le inutili annessioni della
Lombardia, le incertezze della Toscana e la disperata risoluzione di
Venezia, Roma, eterno centro ideale d'Italia, inevitabile base di
ogni nuovo stato italiano, doveva risolvere il problema del papato
sorto con essa e con essa ancora torreggiante sulla storia,
soverchiandolo colla dichiarazione di un principio più
civilmente cattolico. Il papato era stato l'infrangibile
unità e l'incomparabile organo del cattolicismo, regno sui
regni, impero sugli imperi, fonte di tutti i diritti divini: la
republica doveva essere la formula e la forma della democrazia
moderna, proclamata a Roma e da Roma al mondo, più vasta di
tutte le religioni, come supremazia del diritto umano sul diritto
divino, colla sovranità pareggiata dell'individuo e del
popolo, colla libertà del pensiero frenata solo
dall'autorità del pensiero. Ma essa non poteva ancora
rivelarsi che come verbo, e quella larva di governo necessaria alla
sua proclamazione avrebbe necessariamente avuto tutte le evanescenti
ed indefinibili mutabilità dei fantasmi. L'immenso fatto
della terza Roma del popolo, secondo la bella frase di Mazzini,
lascierebbe quindi indifferente la Urbe e le provincie, mentre
l'Europa se ne accorgerebbe appena, anche combattendolo, e la
republica romana, rovinando subitamente sulla più vasta
rovina del papato, s'illuminerebbe dei colori dell'aurora ai lampi
della parola di Mazzini e della spada di Garibaldi.
L'assemblea appena radunata dovette necessariamente affrontare il
problema del proprio stato. La fuga del papa e la reazione europea
le facevano intorno un vuoto spaventoso. Si sentiva da tutti che la
causa della rivoluzione italiana era perduta, e che il papa sarebbe
ritornato; nessun ordine o classe di popolo, acclamando la
repubblica, la comprendeva; si diceva che la republica sarebbe
morta, ma non si voleva morire con lei. Nullameno bisognava
proclamarla: ogni accomodamento col papa si era già
riconosciuto impossibile, poi un accomodamento avrebbe non risolto
il problema, ma provato che problema non v'era; i sogni di un Carlo
Alberto o di un Leopoldo re di Roma erano demenze fra le tante del
tempo. Il papato non poteva essere sostituito da alcuna piccola
monarchia: solo un'idea più grande di esso poteva cassarlo
dalla storia per fare poi di Roma la futura capitale d'Italia.
L'Armellini, aprendo la seduta, recitò un discorso, nel quale
le idee superavano fatalmente le parole: era un appello alla
democrazia universale e una dichiarazione superba della nuova
sovranità popolare; la goffaggine inevitabile della
teatralità non scemava l'immenso valore del fatto.
L'assemblea, cacciata da quel discorso mazziniano nel problema di
scegliere un governo parve smarrirsi in insipide arringhe, mentre
Garibaldi coll'infallibile intuizione degli eroi esclamava: «A
che perder tempo? Ogni minuto di ritardo è un delitto; viva
la republica!». Ma l'assemblea volle assoggettarne la grande
proclamazione a tutte le pratiche parlamentari: i republicani vi si
mostrarono inetti, i costituzionali sperduti. Mamiani tentò
in un discorso pedantescamente classico di provare
l'impossibilità della republica in quel nuovo furiare della
reazione monarchica per tutta Europa e nell'impreparazione del
popolo, per concludere poi ingenuamente col rimettere la soluzione
del problema alla Costituente federativa italiana, cui la sconfitta
della rivoluzione nazionale aveva già tolto ogni speranza di
convocazione; l'Audinot, succeduto al Minghetti nel comando del
gruppo bolognese, si credette abile cercando procrastinare ogni
soluzione con un decreto che affermasse impossibili tutti i governi
non subordinati alla sovranità popolare. Erano gli ultimi
espedienti del costituzionalismo, l'inconscia estrema ipocrisia dei
neo-guelfi contro la nuova democrazia republicana.
La battaglia si accalorò nella votazione: vinse la
repubblica. Il decreto ne fu redatto dal Filopanti, delirante
fantasia di scienziato e di politico, al quale il ridicolo di troppi
libri stampati poi non toglierà questa unica incomparabile
fortuna.
Articolo 1^o: Il papato è decaduto di fatto e di diritto dal
governo temporale dello stato romano.
Articolo 2^o: Il pontefice romano avrà tutte le guarentigie
necessarie per l'indipendenza nell'esercizio della sua spirituale
potestà.
Articolo 3^o: La forma del governo sarà la democrazia pura e
prenderà il nome glorioso della republica romana.
Articolo 4^o: La republica romana avrà col resto d'Italia le
relazioni, che esige la nazionalità comune.
Il giorno dopo, la proclamazione si ripeteva con solenne
teatralità in Campidoglio.
Questo decreto rivela il segreto politico della nuova republica.
Invece di affermare superbamente la superiorità dello stato
sulla chiesa col rimettere il cattolicismo nella posizione di tutte
le altre religioni, essa offriva spontaneamente guarentigie al papa
detronizzato, legittimando così le sue diffidenze e quelle di
tutta Europa: invece di proclamare altamente l'unità e la
libertà italiana, annunciava che avrebbe avuto col resto
d'Italia le relazioni volute dalla nazionalità comune. La
formula federale sopravviveva dunque nella republica romana, che
come stato era un non senso e come governo una impossibilità.
La sua condanna nella logica della storia derivava dal suo stesso
decreto di fondazione, pel quale l'Italia in faccia a Roma non era
che il resto della nazione, mentre la grandezza della sua
affermazione sta ancora enorme sul papato abbattuto nella proclamata
sovranità popolare.
Dopo questo decreto, la republica deve perire. La sua formula
politica sottomessa all'idea federale, non è meno falsa di
quella di Venezia e di Palermo, di Napoli e di Torino: una republica
romana, mentre l'indipendenza e la libertà d'Italia
soccombono sotto l'Austria e i principi tradiscono i propri statuti,
diventa al tempo stesso un anacronismo e una impossibilità.
La sua vita sarà quindi fulgida come un'ode e sanguinosa come
una tragedia, breve e teatrale, superba di principii e guasta da
espedienti.
Colla solita imitazione classica l'assemblea nomina tosto un primo
triumvirato d'italiani, responsabile ed amovibile, Armellini,
Montecchi e Saliceti; un avvocato, un cospiratore, un giurista:
quest'ultimo il migliore. Al ministero rimane presidente monsignor
Muzzarelli per aver votato l'abolizione del papato; Aurelio Saffi
è nominato all'interno, Campello alla guerra, Sterbini ai
lavori pubblici. Le provincie festeggiano con clamorose gazzarre
l'avvento della republica; nell'assemblea qualcuno giacobinizzando
vorrebbe denunciare al popolo i deputati che hanno votato contro la
republica, ma il feroce appello vanisce nella rettorica e timida
bonomia dei più; non si osa mandare commissari nelle
provincie secondo l'esempio della grande Convenzione per sollevarle;
appena appena le plebaglie si permettono qualche sconcezza e i
giornali qualche diatriba. Il governo toscano impantanato nella
propria politica autonoma promette e procrastina la fusione; Haynau,
il più atroce fra gli sgherri austriaci, cogliendo il
pretesto di un tumulto, occupa e taglieggia Ferrara. Nessun governo
riconosce la nuova republica: Mamiani alla testa di un gruppo di
costituzionali è uscito dimettendosi dall'assemblea,
l'Audinot rimastovi capitano dei costituzionali intransigenti vi
oppugna con abbastanza abilità parlamentare qualunque misura
rivoluzionaria.
Si vota una legge di adesione alla republica, ma non si osa
applicarla davvero, e primo l'Armellini domanda il permesso di usare
indulgenza cogl'impiegati e coi militi, che si chiariscono ostili
alla republica; si acclama l'incameramento dei beni ecclesiastici,
si riconosce il debito nazionale, si studia qualche temperamento per
le finanze. Queste, naturalmente oberate, presentano poca
elasticità; abbonda la carta moneta, difetta il credito,
manca ogni assetto razionale d'imposta; si emettono un milione e
trecentomila scudi, dei quali novecentomila deve prestare la banca
romana e quattrocentomila sussidiare il commercio. Inetti espedienti
finanziari, che uscivano da più inette discussioni. Poi si
ricorse ad un prestito forzoso di 1/5 sino a 2/3 sulle rendite
annuali superiori ai duemila scudi netti, colpendo così i
più ricchi; ma la forma del pagamento a rate in tanta urgenza
di caso rese più che dubbi i pochi vantaggi di tale prestito.
Malgrado l'effervescenza di alcuni circoli politici non si operava
rivoluzionariamente: i giacobini romani si mostravano deboli di
passioni e di idee: cicaleggio e non eloquenza, vapori non sangue al
capo. L'aristocrazia aveva emigrato alla chetichella o stava
nascosta negli ampi palagi; la borghesia, sperduta nel trambusto,
non arrischiava di partecipare ad un potere, che la paura le faceva
riconoscere effimero; il popolo non comprendeva la grandezza ideale
del nuovo principio valutando fin troppo bene le impotenze del nuovo
governo; la plebe usava del rilassamento poliziesco per prorompere
ad assassinii senza carattere e a scenate senza forza. Quantunque la
guerra fra il Piemonte e l'Austria stesse per ricominciare, e
Venezia fosse già assediata, e occupata Ferrara, e il papa da
Gaeta mestasse intrighi e lanciasse allocuzioni sopra allocuzioni
per attirare su Roma una crociata nemica, il fervore rivoluzionario
non cresceva. Il ministero della guerra, incredibilmente malconcio
dalla tradizione prelatizia, non migliorava coi nuovi reggitori:
finalmente poterono entrarvi il Calandrelli e il Mezzacapo, che
raggranellarono un esercito povero di numero e di potenza. Nei
quadri sommava ad oltre 30,000 uomini, ma in fatto ne superava di
poco il terzo, e la maggior parte erano volontari: fra questi
più agguerriti e già celebri i legionarii di
Garibaldi.
Non si ardì fare appello all'insurrezione popolare e bandire
la leva in massa, perchè l'indifferenza del popolo era pari
alla bonarietà dell'assemblea.
Per ora tutto procedeva abbastanza regolarmente: gli assassinii, che
funestavano alcune provincie, non erano certo nè più
numerosi nè più efferati che nei tempi gregoriani: poi
un conte Laderchi ad Imola e Felice Orsini ad Ancona li repressero
con severa prontezza. I tribunali, fra quel rimpasto di vecchio e di
nuovo, di abolizioni e d'istituzioni, funzionavano passabilmente, la
polizia stessa, quantunque mal guidata, non si mostrava peggiore
della pontificia.
Il carnevale fu al solito grottescamente lieto. Al bizantinismo
vaticano era succeduto il bizantinismo rivoluzionario, al concistoro
l'accademia; la Convenzione francese aveva potuto sconfiggere tutta
l'Europa improvvisando un milione e mezzo di soldati, la republica
romana per primo atto diplomatico pubblicava un manifesto a tutti i
popoli per descrivere se stessa colle frasi dell'evangelio
mazziniano, e non intendeva la risposta della Montagna francese che
accennando ai propri pericoli le diceva come solo coll'energia
rivoluzionaria si salvassero le rivoluzioni. Poi all'occupazione di
Ferrara l'assemblea chiamava tutti i popoli della penisola in armi e
protestava del proprio violato diritto presso tutti i governi come
il papa, invece di lanciare l'esercito alla frontiera, e soccombere
piuttosto in una disperata e gloriosa battaglia.
Ma Roma avendo regalato a Venezia per aiuto nell'assedio centomila
scudi, credeva di aver fatto abbastanza per la guerra.
Di rimpatto il papa protestava da Gaeta contro ogni atto della
repubblica. Fallito il forte ma erroneo divisamento del Gioberti di
mettere il Piemonte alla testa della reazione italica per mantenerle
almeno il carattere nazionale, riconducendo con armi italiane il
granduca in Toscana e Pio IX a Roma, Austria e Francia si
contendevano il sinistro onore e il problematico vantaggio di
rimettere in soglio tutti i principi italiani col servirsi della
questione religiosa come di una inconfutabile argomentazione. La
cattolicità esigeva l'indipendenza del pontefice. A Gaeta era
un andirivieni di diplomatici: il cardinale Antonelli, il più
fino dei prelati politici e allora reggente il segretariato, si
destreggiava abilmente fra Austria, Francia, Spagna, il Piemonte e
il Borbone. Oramai la crociata era decisa. L'elezione di Luigi
Bonaparte al seggio presidenziale della repubblica francese, gettava
la Francia in seno alla reazione, preparando il secondo impero
napoleonico come rimedio alle demenze repubblicane e socialiste. La
spedizione contro Roma doveva essere il prologo: la republica romana
precederebbe di poco quella francese nella tomba.
Quindi Mazzini, costretto a mostrarsi quasi di soppiatto a Milano
durante tutta questa rivoluzione italiana, quantunque ne fosse il
massimo inspiratore e lo spirito più conscio, venne a Roma.
La sua grande ora era discesa sul quadrante della storia: a distanza
di secoli, si ripresentava l'epoca di Cola da Rienzi. Goffredo
Mameli, effimera ed ammirabile figura di poeta, cui la morte sotto
le mura di Roma doveva fra poco troncare sulla bocca fiorente
gl'inni e gli urli di guerra, lo chiamava con un telegramma sublime
di concisione: «Roma republica, venite».
Mazzini traversò fra acclamazioni entusiastiche la Toscana
ove ottenne indarno da un voto popolare la fusione con Roma. Ormai
egli solo rappresentava la rivoluzione. Accolto solennemente a Roma
e nominato deputato vi domina dalla prim'ora l'assemblea, ma
nè il suo ingegno, nè la sua autorità, bastano
a radunare l'impossibile costituente italiana o a fingerla con
qualunque altro apparato. Al nuovo scoppio di guerra fra il Piemonte
e l'Austria sostiene con magnanimo senno il Valerio, legato
piemontese a Roma, e associa la republica a Carlo Alberto, che aveva
sdegnato fino allora di riconoscerla; ma poi la lentezza degli
apparecchi militari annulla decisione e concorso. La guerra
piemontese iniziata e compiuta quasi nel medesimo istante dal meno
onorevole dei disastri provoca l'inutile insurrezione di Genova e la
disperata resistenza di Brescia, lasciando sole nel gran finale Roma
e Venezia.
Mazzini, eletto nel nuovo triumvirato con Aurelio Saffi ed
Armellini, fra una mediocrità letteraria e una inezia
giuridica, grandeggia: egli solo è poeta nell'accademia
dell'assemblea, che sta per perdere la voce ai primi fiati della
tempesta, ma gli mancano colle tremende qualità del
rivoluzionario le doti anche più difficili dello statista.
Trascinato dalla generosa rettorica del proprio temperamento, si
smarrisce in minimi ed inutili accenni socialistici; destina i
locali del Santo Uffizio ad abitazione di famiglie povere, schizza
una legge agraria per cedere in piccole enfiteusi alcuni beni
ecclesiastici a misere popolazioni rustiche, abroga i voti perpetui
religiosi, diminuisce al solito la tassa del sale, crea
duecentocinquantunmila scudi di boni del tesoro dichiarando con
pessimo espediente infruttiferi quelli creati dal governo
pontificio, decreta un aumento di tassa del 25% su tutti coloro che
nel termine di sette giorni non pagassero la prima rata del prestito
forzoso. Ma l'ambiente superstizioso di Roma gli guasta sentimento
poetico e senno politico al punto di fargli costringere i canonici
di S. Pietro a solennizzare la Pasqua e a benedire col SS.
Sacramento il popolo dalla loggia consueta del papa. Miserabile
parodia, che parve profanazione religiosa, ed era invece
degradazione filosofica! Intanto Francia e Napoli hanno già
dichiarato l'intervento, e la republica non ha ancora stabilito la
propria costituzione. Lo schema presentato all'assemblea (17 aprile
1849) dal deputato Agostini basta solo a rivelare quale fosse il
sentimento rivoluzionario. Principii fondamentali della nuova
costituzione erano la sovranità popolare, l'uguaglianza dei
cittadini, il diritto di tutte le nazionalità e la religione
cattolica come religione di stato. Poi un capitolo di catechismo
chiariva i diritti e i doveri di tutti i cittadini: abolita la
confisca e la pena di morte, inviolabili persone e proprietà,
libera stampa e garantito il debito pubblico; il potere legislativo
nell'assemblea, l'esecutivo in una magistratura consolare; un
tribunato a garanzia delle leggi fondamentali della republica, due
consoli biennali responsabili l'uno per l'altro; dodici tribuni
quinquennali, deputati triennali ed assemblea indissolubile. Il
popolo doveva eleggere a tutti questi uffici; ammessa la
possibilità della dittatura per decreto dell'assemblea ma
sotto la sorveglianza del tribunato permanente: i tribuni
naturalmente inviolabili, anche per un anno dopo l'ufficio.
A confronto di quest'assurda miscela di pedanterie classiche, di
inezie storiche e d'impossibilità governative, l'angusto ed
aristocratico statuto del Piemonte diventa un capolavoro.
Ma l'assemblea non ebbe tempo di discuterla. La guerra urgeva. Fin
dal principio della rivoluzione la Francia aveva accennato ad
intervenirvi proclamando il principio della nazionalità e
offrendosi a sostenerlo colla spada, ma sminuendolo poco dopo in
combinazioni diplomatiche e in ricomposizioni arbitrarie di
territori con simpatie ed antipatie egualmente ingiustificabili. Se
la sua proclamazione di rispetto ad ogni nazionalità e del
diritto in tutti i popoli a raggiungerla erano sincere, il movente
della sua politica restava sempre l'antagonismo coll'Austria
iniziato da Richelieu: l'Italia era un campo d'influenza da
disputarsi fra Parigi e Vienna. Adolfo Thiers, storico e statista
più importante che grande, sosteneva nell'assemblea
l'impossibilità d'impegnare la Francia in una guerra
coll'Austria a favore dell'Italia la quale, secondo una sua ingiuria
rimasta poi celebre, era una nazione che non si batteva; Odilon
Barrot, capitano nella sinistra repubblicana, spingeva invece ad una
spedizione in Italia per sostenervi la democrazia e scemarvi
così la preponderanza austriaca; Montalembert, supremo
direttore dell'antica destra clericale, domandava con superba
eloquenza che la Francia, primogenita della chiesa, non abbandonasse
il papa. E al Montalembert facevano eco Donoso Cortes in Spagna e
lord Lansdowne in Inghilterra.
Già Cavaignac, vincitore delle giornata di giugno a Parigi,
aveva offerto al pontefice un corpo d'armata: Luigi Bonaparte,
succedutogli alla presidenza, attuò risolutamente quel
disegno, mascherandolo con abile ipocrisia.
Napoleone I nel rialzare il papato aveva ripetuto contro di esso le
pretensioni di Carlomagno: mezzo secolo dopo il nipote doveva
daccapo rifare l'impalcatura del secondo impero sulla base
raddrizzata del papato. La logica delle idee e quella dei fatti ve
lo costringevano con pari violenza.
Caduta della republica romana.
A Roma la grave minaccia non fu intesa che a mezzo.
Poichè la Francia parlava oscuramente di aiutare al tempo
stesso il pontefice e la republica romana come mirando ad impedire
gli eccessi dell'ultima vittoria austriaca sul Piemonte, l'illusione
di un componimento indefinibile sviò il pensiero dei
governanti incapaci di comprendere persino gli ultimi maneggi dei
moderati, che guidati dal Mamiani e trattando simultaneamente con
Parigi e con Gaeta avrebbero voluto abbattere la repubblica con una
insurrezione di piazza per restaurare il loro governo
costituzionale. Solo l'indifferenza delle popolazioni a tutti gli
sforzi del clero, prodigante falsi miracoli e più falsi
discorsi, impedì questa reazione interna.
All'infuori di Mazzini e di Garibaldi nessuno fra i governanti e i
difensori di Roma sentiva la suprema ideale necessità della
sua difesa: nella coscienza dei più Roma non era che una
città conquistata contro il papa, l'ultimo episodio della
rivoluzione e non molto più importante degli altri.
Mazzini avvampava di orgoglio in quest'ultima crisi italiana, ma
troppo uso ad ammonire e ad ammaestrare, capitano indiscusso della
propria parte e divenuto più grande ad ogni sconfitta, voleva
essere tutto, provvedere a tutto, risolvere tutto. Il ricordo della
fallita spedizione in Savoia e i propri vecchi opuscoli sulla guerra
per bande gli persuadevano di possedere anche la scienza militare;
quindi ricorreggeva i disegni a Cario Pisacane, da lui stesso
nominato capo di stato maggiore, e contendeva a Giuseppe Garibaldi,
il più ammirato condottiero del secolo, il comando supremo
dell'esercito per cederlo al generale Rosselli, onesta
mediocrità, che la gelosia col suo grande subalterno doveva
indurre ai più deplorevoli errori.
Quasi contemporaneamente Roma era presa fra quattro fuochi: i
napoletani s'avanzavano dal sud, i tedeschi calavano dal nord, i
francesi sbarcavano a Civitavecchia, gli spagnoli, ultimi ed inutili
come una comparsa in una tragedia, discendevano a Fiumicino.
Crociata ed invasione parevano fondersi nella medesima impresa:
invece il papa non si moveva da Gaeta nemmeno a benedire le armi per
lui brandite, il clero non osava guidare la rivolta in nome della
religione, le campagne si mantenevano inerti, le città
indifferenti, l'Europa guardava distratta, Roma aspettava il proprio
assedio. I pochi volontari, disposti a morire per difenderla, colla
coscienza di morire indarno, si sarebbero detti stranieri italiani
che si apprestassero a combattere stranieri d'oltr'alpe e di oltre
mare, poichè marchigiani, umbri, romagnoli non erano
più affratellati con Roma dei liguri, dei veneti, dei
piemontesi accorsi sotto le sue insegne.
Già il 24 aprile Latour d'Auvergne, legato francese,
approdando a Civitavecchia aveva annunziato lo sbarco amichevole del
generale Oudinot: Mannucci, preside del municipio, scorato
all'annunzio, dimandava tempo a rispondere, l'altro insisteva;
quando l'armata francese giunge come d'improvviso; la città
atterrita urge la propria magistratura, che cede; l'assemblea romana
avvertita dell'invasione protesta a stento. Civitavecchia è
occupata dai francesi senza colpo ferire; il generale Oudinot
pubblica un manifesto equivoco, nel quale negando di riconoscere
l'anarchico governo della repubblica assicura di rispettare il
diritto delle popolazioni a costituirsi qualunque altro governo, e
di non essere venuto che a salvare l'indipendenza del pontefice alla
cattolicità e l'Italia dalla reazione straniera. Il
municipio, forse ancora più timido che ingenuo, gli risponde
con lungo proclama effondendosi in dichiarazioni di fratellanza
repubblicana, ma quegli fa sequestrare la risposta, occupa
militarmente tutte le stamperie, dichiara la città in stato
d'assedio, disarma il battaglione romano del Mellara, impedisce lo
sbarco ai 600 bersaglieri guidati dal Manara, che a stento possono
toccare Porto d'Anzio e solo perchè il ministro Montecchi
sopraggiunto ha giurato al fedifrago alleato, che essi non
entreranno in Roma prima del 5 maggio: finalmente confisca 4000
fucili comprati in Francia e pagati dalla republica romana.
Nullameno a Civitavecchia la bandiera romana seguita a sventolare
vicino a quella francese.
L'impossibile equivoco prosegue. Il triumvirato s'appresta
calorosamente alla difesa sebbene poco assecondato dalle
popolazioni: si requisiscono i cavalli dei privati, si ordina la
demolizione del viadotto fra Castel Sant'Angelo e il Vaticano, si
nomina una commissione delle barricate: per ingraziosirsi col popolo
gli si gettano provvedimenti agrari e promesse di migliorie
inattuabili: poi, con magnanima cortesia, si dichiarano inviolabili
tutti i francesi residenti in Roma affidando la loro
incolumità all'onore del popolo. La guerra è
inevitabile. Ma Roma non vuole che difendersi.
Quindi l'Oudinot, persuaso con gallica burbanza di prenderla a un
primo assalto, muove contro di essa con appena 7000 uomini e 10
pezzi di cannone: il triumvirato cedendo bassamente alle
superstizioni del volgo, ordina l'esposizione del SS. Sacramento per
«implorare la salute di Roma e la vittoria del buon
diritto», che Garibaldi alla testa di pochi battaglioni
ottiene con splendida ed insperata prontezza (30 aprile).
I francesi sono respinti dappertutto: Roma trionfa, ma invece di
proseguire nella vittoria incalzando il nemico e tentando di
gettarlo in mare, come Garibaldi proponeva con magnifica audacia,
s'abbandona all'ebbrezza di una cavalleresca cortesia rimandando
liberi tutti i prigionieri e invitando il popolo a salutare
d'applauso fraterno i vinti prodi della republica sorella. Intanto
tutte le provincie sono invase, Bologna e Ferrara s'arrendono dopo
breve resistenza ad un piccolo corpo di austriaci, che attraversano
tutta l'Emilia, le Romagne, le Marche, fino sotto ad Ancona senza
incontrare battaglia. Ancona si difende per 27 giorni con un
presidio di 5000 soldati e 100 pezzi d artiglieria per capitolare
anch'essa senza fortuna e senza gloria: gli spagnoli, discesi a
Fiumicino, passano ad infestare l'Umbria come masnada di briganti;
Ferdinando di Napoli col generale Winspeare accampa fra Velletri ed
Albano con 16,000 uomini. Ma Garibaldi alla testa di appena 7000
soldati lo ributta da Palestrina, poco dopo lo sorprende a Velletri,
lo sgomina, lo fuga lungo la via Appia, e lo avrebbe forse
annientato se la gelosa incapacità del Rosselli generalissimo
non lo impediva. Queste ultime rapide vittorie, dovute ad una prima
tregua fra l'Oudinot e il triumvirato, infervorano inutilmente i
pochi volontari: Garibaldi ammirabile d'intuizione guerresca e
politica vorrebbe gettarsi su Napoli; gli Abruzzi parevano presso a
prorompere, l'esercito nemico era demoralizzato, la Sicilia vinta
non doma, re Ferdinando odiato ed inetto. Una insurrezione poteva,
complicando la guerra, produrre inimmaginabili risultati, ma la
rivoluzione concentrata e morente a Roma non sa nemmeno più
concepirla. Mazzini fisso nell'illusione di un componimento colla
Francia e diffidente dell'Oudinot, impone a Garibaldi di ripiegarsi
su Roma.
L'eco della sconfitta toccata all'Oudinot il 30 aprile riscuote
dalla torbida incertezza l'assemblea francese. L'insidia del governo
le si schiarisce odiosamente alla coscienza, ma senza apprenderle
l'energia d'impedirla. Il ministero, messo alle strette dai deputati
più radicali, o ricusa rispondere, o imbroglia la risposta in
una fraseologia altrettanto goffa e falsa. Invano Arago,
Ledru-Rollin, Schoelcher con nobile insistenza parlano ancora a nome
della democrazia francese, giacchè l'assemblea satura
d'imperialismo napoleonico accorda i nuovi crediti per la spedizione
romana, limitandosi a pregare il governo di richiamarla al primo
scopo. E questo pure non era mai stato decentemente spiegato.
Così il governo anzichè mutare proposito raddoppia di
ambiguità diplomatica, manda a Roma Ferdinando di Lesseps,
simpatica ed onesta figura di liberale divenuto poi celebre pel
taglio degl'istmi di Suez e di Panama, con incerte intenzioni
d'accordo, e scrive segretamente all'Oudinot di proseguire nella
guerra.
Il Lesseps, forse non comprendendo bene il doppio giuoco della
missione affidatagli, trattò cortese col triumvirato: Mazzini
gli diede le più chiare ed eloquenti spiegazioni sul governo
romano, ma soccombendo egli medesimo alla grandezza del proprio
ufficio finì coll'accettare un compromesso che annullava ogni
diritto d'Italia e ogni sovranità della republica romana. Le
ignobili concessioni del papato alle potenze cattoliche si
riproducevano collo stesso governo, che in nome del diritto
nazionale e popolare aveva soppresso il papato; e Mazzini, ultimo e
più superbo avversario del Vaticano, non ne comprendeva
l'avvilente inutilità. Il compromesso diceva:
«L'appoggio della Francia è assicurato alle popolazioni
dello stato romano. Esse considerano l'esercito francese come un
esercito amico che viene a concorrere alla difesa del suo
territorio. L'esercito francese prenderà d'accordo col
governo romano e senza intromettersi per nulla nell'amministrazione
del paese gli alloggiamenti esteriori convenienti così alla
difesa del paese come alla sanità delle truppe. Le
comunicazioni saranno libere. La republica francese guarentisce
contro qualunque invasione straniera i territori occupati dalle sue
truppe. Resta convenuto che il presente compromesso dovrà
essere sottoposto alla ratifica della republica francese. In
qualunque caso gli effetti di esso non potranno cessare che quindici
giorni dopo la notizia data ufficialmente della negata
ratifica».
Peggior compromesso non era stato l'ultimo fra l'Austria e il papato
per Ferrara.
Dopo le discussioni dell'assemblea francese e le risposte del
ministero, il contegno dell'Oudinot, le allocuzioni di Gaeta, le
invasioni spagnuole, austriache e napoletane, credere alla
sincerità delle intenzioni francesi era follia, cedere con
trattato all'occupazione straniera Civitavecchia era delitto di lesa
nazione.
L'Oudinot dietro le proprie segrete istruzioni non volle riconoscere
la convenzione, il Lesseps partì ingenuamente per Parigi a
sollecitarne l'approvazione, e si vide sconfessato. Inutilmente
all'assemblea voci generose si levarono ad accusare il governo di
violata costituzione: più indarno il 13 giugno Ledru-Rollin
con altri capitani di sinistra tentò sollevare il popolo di
Parigi per rovesciare il disegno imperiale ormai troppo palese di
Luigi Buonaparte, giacchè la sommossa fu presto soffocata nel
sangue dal generale Changarnier, e l'immensa capitale dichiarata in
stato d'assedio.
Ogni illusione per Roma, doveva quindi cessare.
Nullameno il governo francese proseguiva nelle inutili ipocrisie
sostituendo il signor di Corcelles al signor di Lesseps per indurre
il triumvirato ad un accordo, che cedesse Roma all'occupazione
francese senza la pericolosa odiosità d'una conquista.
Le ostilità erano ricominciate, ma Roma nella tregua non
aveva abbastanza pensato a munirsi; Garibaldi, ritornato vittorioso
da Rocca d'Arce, in quel triste andazzo d'ogni cosa militare e
politica chiese con ingenua sicurezza la dittatura: Mazzini ne
inalberò, a tutti i retori dell'assemblea e del governo parve
proposizione peggio che assurda.
L'Oudinot, denunziando l'armistizio, aveva promesso di non assalire
che il 4 giugno; invece massacrò proditoriamente nella notte
dal 2 al 3 gli avamposti romani: Monte Mario e Villa Pamphili furono
occupati. I francesi sommavano quasi a 40,000 uomini, l'esercito
romano non arrivava a 20,000. Erano quasi tutti volontari con
colonnelli e generali improvvisati, che parvero e furono
meravigliosi di valore. Era impossibile sostenere un assedio,
resistere a molti assalti; nullameno i difensori sentirono che
bisognava morire. Il 3 giugno al casino dei Quattroventi, occupato
dai francesi per tradimento nella notte, si combattè la
più lirica delle battaglie. Oudinot aveva addensato nelle
prese posizioni i più intrepidi soldati d'Africa, Garibaldi
scagliò sopra di loro i più invincibili dei propri
eroi, e non potè vincere: vi furono assalti disperati,
cariche deliranti di coraggio; Daverio, Dandolo, Mellara, Mameli, vi
perirono; Masina bolognese, alla testa della propria cavalleria,
più furioso di un uragano, penetrò nel vestibolo del
palazzo e stramazzò col cavallo a mezzo la gradinata
marmorea, dalla quale lo fulminavano i cannoni.
La giornata era perduta, ma le armi italiane avevano riconquistata
la gloria degli antichi migliori tempi.
Intanto nella città l'effervescenza guerriera non cresceva.
Si parlava di barricate e se ne costruivano ma la popolazione grossa
di 160,000 uomini assisteva tra furiosa e avvilita alla battaglia.
Il governo, invece di galvanizzarla con eccessi, non aveva fino
allora badato che a mantenerle la calma dichiarando amici i
francesi, predicando l'ordine nelle piazze e il rispetto a tutti i
nemici della repubblica. Si fece persino un bando per restituire
alle chiese pochi confessionali trascinati nelle strade a farvi
barricate: non si era voluto odio civile, e mancò l'odio allo
straniero, si era stati magnanimi, e si rimase deboli. I sacerdoti
Gavazzi e Dall'Ongaro, che incitavano alla difesa della republica
santa, nel popolo scettico di Roma facevano poco frutto, la plebe
bastonava qualche gesuita, vociava, sequestrava per le barricate
qualche carrozza signorile, senza passione per la improvvisata ed
inintelligibile republica, senza avversione per i francesi stranieri
come tutti gli altri stranieri che Roma aveva ospitato e cui aveva
soggiaciuto. Un Zambianchi, volgare e truce assassino, aveva
scorrazzato per qualche provincia arrestandovi alcuni sospetti di
reazione, quindi chiusili nelle catacombe di S. Calisto li uccideva
sommariamente: ma questo anzichè guerra civile era costume
brigantesco. Lo scoramento cominciava anche nelle truppe vedovate
dei migliori ufficiali: gli antichi papalini già
ricalcitravano agli ordini; i comandanti pontifici passati ai
servizi della republica e persuasi dell'inutilità di ogni
resistenza non si preoccupavano più che di conservare con
nuovo tradimento il grado ottenuto: gli stessi volontari più
eroici si irritavano della indifferenza di un popolo che applaudiva
alla loro morte come ad uno spettacolo.
L'assemblea sollevata da un irresistibile soffio di poesia aveva
dichiarato la resistenza ad oltranza, poi non avendone preparati i
mezzi e non volendone in fondo gli eccessi, si affrettava a compiere
la propria costituzione: cura che parve epica in quel momento e non
era se non l'irresistibile istinto storico di quella republica
destinata a non essere che un verbo.
Il giorno 12 i lavori di assedio erano già terminati: al 21
la breccia squarciava le mura; solo il Vascello, immenso caseggiato,
resisteva all'aperto colla legione del maggiore Medici che vi si
mantenne prodigiosamente, e potè nullameno riparare a notte
entro la città. Il 30 giugno i francesi penetrarono per le
breccie; ultimi eroi caddero loro contrastando Emilio Morosini e
Luciano Manara.
Roma era vinta.
La guerra alle barricate per le strade, che Mazzini in un sogno
d'eroismo aveva fatto preparare, si chiariva impossibile in
quell'atteggiamento spassionato del popolo, molto più che i
francesi, contenti di occupare le alture, accennavano a bombardare
la città o a ridurla, strema come era di vettovaglie, ad
arrendersi. Non restavano che tre partiti: capitolare, resistere
sino all'estremo e seppellirsi sotto le rovine, uscire da Roma
trasportando seco il governo. Mazzini propendeva per quest'ultimo;
Garibaldi lo appoggiava citando l'esempio della republica di Rio
Grande: Avezzana ministro della guerra, reduce da Ancona, ove
Mazzini lo aveva gelosamente inutilizzato, ed altri capi
s'incaponivano alla difesa. L'assemblea, convocata in comitato
segreto, scartò il disperato disegno di Mazzini e di
Garibaldi per seguire quello di Enrico Cernuschi, che proponeva la
resa. Il triumvirato piuttosto che trattarla col fratricida governo
francese si dimise nobilmente dicendone le ragioni al popolo in un
manifesto sfolgorante di fede e di poesia. A nuovi triumviri furono
eletti il Saliceti, il Calandrelli e il Mariani per patteggiare
coll'Oudinot. Questi spinse la burbanza oltre l'esosità
imponendo condizioni così enormi, che lo stesso generale
Vaillant sdegnato esclamò non dovere i francesi concedere a
Roma meno di quanto gli austriaci avevano concesso a Bologna e ad
Ancona. Gli oratori del municipio ricusarono i patti preferendo il
pericolo di una resa incondizionata al disastro di una capitolazione
senza onore, e l'assemblea dichiarò municipio e triumvirato
benemeriti della patria. Decretò ancora sussidi alle famiglie
povere dei cittadini morti combattendo; poi con magnanima
teatralità promulgò dal Campidoglio la propria
costituzione (3 luglio) mentre i francesi irrompevano trionfanti per
le strade.
La republica romana era morta, ma il ritorno del papato a Roma non
sarebbe più che una processione di funerale.
Allora tutti i rivoluzionari si sbandarono: vi furono proteste, urli
feroci contro gl'invasori, un ultimo sogno di rivolta, quindi
l'esodo cominciato dietro Mazzini parve ricominciare miracolosamente
la guerra nella ritirata degli ultimi soldati con Garibaldi.
Roma era caduta sotto il governo militare: stato d'assedio e legge
marziale. Nel dì anniversario della presa della Bastiglia,
Oudinot annunziava al mondo la restaurazione in Roma del potere
temporale dei papi. L'assemblea francese ne tenne una seduta
memorabile, nella quale republica e papato si riavventarono l'una
sull'altro: il napoleonismo oramai presso a trarsi la maschera fu
cinico e spavaldo; Montalembert agitò la propria eloquenza
come una fiaccola morente sul papato non illuminando più che
un cadavere, mentre Victor Hugo, il maggior poeta della Francia e il
miglior poeta del secolo, parlò per Roma e per la republica
risollevandole, coll'infallibile fede del genio, alle vittorie di un
indomani immortale.
Mazzini esule empieva già il mondo di proteste, Venezia
resisteva tuttavia, Giuseppe Garibaldi ritentando il prodigio di
Senofonte errava ancora armato sull'Appennino.
Giuseppe Garibaldi.
Egli solo della vasta rivoluzione federale restava all'Italia
perchè solo non s'era impicciolito in nessuna delle sue
contraddizioni politiche. La sua vita, che doveva riassumere in
più lungo corso quella d'Italia creandone l'unità
politica, pareva allora avvolta nella leggenda; un inesplicabile
entusiasmo precedeva e seguiva i suoi passi: il suo valore non
più grande di quello di tanti eroi morti nell'insurrezione
suscitava speranze e fedi indefinibili, mentre la sua vita
d'avventure sull'oceano e oltre l'oceano lo rendeva più
italiano di quanti l'avevano intrepidamente passata nei rischi delle
permanenti congiure. Mazzini più eccelso illuminava ma
abbacinando, e coloro che non sopportavano la sua luce chiudevano
gli occhi accusandolo di fuorviarli dalla grande strada della storia
italiana; Garibaldi, vivente personificazione del sistema
mazziniano, ne attenuava gli eccessi e ne velava le incandescenti
chiarezze pur illuminandone le ombre: era l'istinto più
infallibile del genio, il buon senso più sicuro della
scienza, il cuore più vasto dell'intelletto. Tutto il popolo
guardava a lui, viveva in lui.
Nullameno la sua vita non aveva ancora tali grandezze storiche da
giustificare questo inesplicabile accordo di tutta una nazione con
un individuo. Si sapeva che egli era nato a Nizza (1807) da una
famiglia di marinai verso il fondo del porto Olimpio, e che,
ricevuta la più mediocre delle educazioni, cedendo alla
vocazione del mare come tanti suoi compatriotti, s'era fatto
marinaio. La sua prima nave si chiamava Costanza: aveva corso il
Mediterraneo, approdato nel mar Nero, poi visitato Roma. Giovane,
poeta, eroe, egli non vi aveva veduto nè le tracce dei Cesari
nè quelle dei papi, ma un'altra Roma lontana nell'avvenire,
nuovamente regina d'Italia, ancora capitale del mondo. Mentre
ferveva la grande poesia del romanticismo, ricostruendo e lamentando
il passato, egli inconsciamente profetico si appuntava
nell'avvenire: la sua non era visione o sogno, ma presentimento e
giuramento. Annibale fanciullo aveva potuto giurare indarno la
distruzione di Roma, Garibaldi giovanetto ne giurò a se
medesimo la redenzione. Quindi viaggiò ancora facendo il
precettore di ragazzi a Costantinopoli, tendendo febbrilmente
l'orecchio ai confusi rumori della insurrezione greca, raccolto in
se medesimo come aspettando la chiamata del destino. Un incontro con
un ligure in una bettola a Taganrog, decise della sua vita: gli fu
rivelata la Giovane Italia, scoperti segreti e propositi di
rivoluzioni contro tutti gli stranieri e i tiranni d'Italia. Egli
stesso con lirica ingenuità paragonò l'entusiasmo
cagionatogli da tali rivelazioni a quello di Cristoforo Colombo
nello scoprire le prime prode d'America. Garibaldi e Mazzini,
sconosciuti l'uno all'altro, s'incontrarono nella stessa idea di
libertà: oramai la fortuna d'Italia diventava sicura
attraverso gli innumerevoli e ancora ignoti frangenti.
Tornato in patria, Garibaldi si getta impetuosamente nelle
cospirazioni. Al primo incontro in Marsiglia con Mazzini, che
già preparava l'infelice spedizione di Savoia, con occhio
sicuro glie ne indica tosto il difetto capitale: era meglio
cominciare da Genova più frequente di liberali, più
forte di plebe, calda ancora di odio municipale al Piemonte. Era il
primo dissidio fra i due eroi del pensiero e dell'azione, d'ora
innanzi sempre divisi nel metodo e congiunti nello scopo, egualmente
sicuri l'uno nella idea rivoluzionaria che oltrepassando la
rivoluzione italiana la violava e talvolta l'impediva, l'altro
nell'istinto di guerra e di rivolta che non gli farebbe perdere una
sola occasione di battaglia, e gli assicurerebbe la vittoria anche
quando la sconfitta fosse momentaneamente inevitabile. L'impresa
della Savoia fallì. Garibaldi, inteso ad aiutarla da Genova
con una formidabile insurrezione per prendere l'odiata monarchia di
Carlo Alberto fra due fuochi, potè a stento salvarsi in
Francia perseguitato da una condanna a morte, perchè a meglio
secondare l'insurrezione si era messo volontario subalterno nella
marina regia, e ne aveva subornato parecchi soldati.
Tale terribile disastro era allora così comune che pochi vi
badarono, primi fra essi i medesimi cospiratori.
Ma Garibaldi non poteva logorare la propria vita nelle congiure;
dimenticò la condanna a morte, valicò l'oceano e
andò ad arruolarsi volontario sotto le insegne della
repubblica di Rio Grande, allora in guerra col Brasile. Colà
crebbe avventuriero, corsaro, ammiraglio, generale in una vita di
battaglie, di assedi, di naufragi, d'incendi, senza paghe, quasi
senz'armi, improvvisando navi e legioni, ricostruendo sempre
all'indomani le opere distrutte da un nemico troppo forte, fidando
sempre nella vittoria e strappandola con prodigi di genio e di
valore. Il giovane avventuriero non somigliava a nessuno dei tanti
che ingombrano ancora l'America, o cresciuti nel suo vergine suolo
dalla mistura delle razze di tutto il mondo, o gettati dalle
tempeste d'Europa sulle sue spiaggie lontane ad accelerarvi la
storia coi ricordi e colle passioni del vecchio mondo.
Un'indomabile convinzione repubblicana lo sottometteva ai servigi
delle republiche di Rio Grande e di Montevideo contro l'esosa
tirannide di Rosas: una poesia inesauribile gli dava la fede degli
antichi neofiti cristiani purificandogli l'anima negli spettacoli di
una natura, sulla quale il quadro della storia non aveva ancora
potuto imprimersi. Ma lontano, fra gli splendori e i pericoli di una
gloria, che valicando presto l'oceano echeggiava in tutto il mondo,
egli non pensava che all'Italia e ne difendeva l'idea nelle
republiche americane e nelle loro ancor giovani tumultuanti
democrazie. Questo guerriero di ventura non aveva alcuno dei
caratteri comuni ai venturieri: irresistibilmente impetuoso ed
assurdamente intrepido, detestava le passioni sanguinarie della
guerra e tutte quelle efferate virtù dell'odio, che ne
accompagnano le vicende e ne assicurano le vittorie: nessuna
avidità di guadagno o di nomea deturpava il suo volontariato
soldatesco; adorava la libertà, e combatteva contro i tiranni
per distruggerli senza odiarli personalmente: non credeva che alla
democrazia, ed era pronto a subire la volontà delle
maggioranze anche se inclinata a servitù. I suoi compagni,
esuli d'Italia o raminghi di tutto il mondo, lo seguivano ovunque,
come cavalieri di un ciclo fatato o fanatici di una nuova religione:
la varietà delle loro passioni generose o criminali
s'unificava nel suo sentimento addensandosi paziente sotto il suo
comando. Alcuni eroi sconosciuti come Rossetti ed Anzani,
raddoppiavano con incomparabili virtù di guerra o di politica
la sua opera; tutti gli altri gli morivano intorno, quasi nella
soffocante fretta di un dramma, affidando al miracolo della sua
incolumità il ricordo della loro gloria, e alla virtù
della sua vita la redenzione del loro nome.
Un indescrivibile tumulto di eventi sembra agitare per quattordici
anni Garibaldi nell'America quasi a prepararlo per la grande
imminente impresa d'Italia. Libero, prigioniero, torturato, sempre
povero, sempre improvvido di sè e votato corpo ed anima alle
proprie gesta, subalterno malgrado le continue vittorie, apprende
tutte le indefinibili virtù che gli saranno poi necessarie
all'improvvisazione d'Italia. Politica e guerra lo gettano nei
più difficili frangenti, abituandolo a tutti i rovesci,
armandolo contro tutte le illusioni, temprandolo a tutti i
disinganni, arricchendolo di una energia inesauribile e di una fede
democratica, che nemmeno la sconoscenza parricida della patria
potrà poi scrollare. I compagni, che gli si rinnovano
incessantemente d'intorno, gli dànno l'ascendente fatale di
un predestinato; la mobilità della sua condizione gli
aggiunge la perfezione cosmopolita dell'uomo moderno.
Sulle sponde del grande Plata ogni estancia diventa per lui un
arsenale, ove fabbrica barconi e garopere; da corsaro cresciuto
tosto ad ammiraglio trionfa nella laguna di Santa Caterina e vi si
innamora di Anita, che diventa poi la sua meravigliosa eroina, come
l'Olandese del Vascello Fantasma s'innamora di Senta; con un
espediente di storia antica carica due barconi sopra un traino e con
duecento buoi li trascina per cinquantaquattro miglia dal lago Dos
Patos al lago Taramandahy; frequenti e terribili naufragi lo forzano
a minuti ed obliati eroismi; costretto da un ordine del generale
Canabarro a saccheggiare il paese di Imiriu, la sua anima di
cavaliere si rivolta così che volendo frenare gli eccessi
delle proprie truppe ne rimarrebbe quasi vittima, se un
irresistibile prestigio non lo proteggesse. Ma il nemico gli
distrugge irrimediabilmente la piccola flottiglia, ed eccolo ancora
capitano di terra a cavallo, con Anita al fianco, la spada in pugno,
un neonato sulla sella.
Quindi le battaglie si avvincendano ancora; si traversano foreste
per le quali bisogna aprirsi il varco colla scure, si compiono
ritirate, si osano scorrerie che rinnovano tutti i prodigi delle
antiche guerre barbariche. Poi la fortuna di Rio Grande declina, e
Garibaldi passa alla difesa di Montevideo. Quindi mercante di buoi,
sensale, maestro di matematica in un istituto privato, daccapo
corsaro, ammiraglio, lotta coll'inglese Brown comandante la squadra
di Buenos-Ayres e lo costringe all'ammirazione. Sciaguratamente la
guerra civile fra i generali Ribera ed Ourives, aspiranti alla
presidenza, complica nella piccola republica la guerra contro Rosas
tiranno di Buenos-Ayres; come in Italia la lotta imperversa fra
unitari e federali, ma in America come in Italia Garibaldi è
unitario. Quindi perdute in mirabili combattimenti sui fiumi le
ultime flottiglie improvvisate, comincia l'assedio di Montevideo che
durerà quanto quello di Troia. Ourives al soldo di Rosas si
avanza vittorioso, l'aristocrazia e la borghesia della grossa
città allibiscono, solo il popolo insorge: si organizza la
difesa, si rinnovano le flottiglie, si formano legioni straniere.
Garibaldi ne stringe intorno a sè una d'Italiani, e malgrado
difficoltà di ogni maniera doma caratteri, rianima gli
spiriti, improvvisa nei propri soldati perfino il coraggio, li muta
in falange d'eroi. Gli americani, che Garibaldi ammira come i primi
soldati del mondo, lo ricambiano di pari ammirazione: i matreri,
cavalieri banditi delle foreste, accorrono alle sue insegne; le sue
vittorie spesseggiano, mentre a Montevideo l'insurrezione di partiti
cittadini ne compromette il frutto. Un intervento diplomatico
anglo-francese per la pace vi fallisce; il Salto, conquistato e
mantenuto da Garibaldi con miracoli di valore, è nuovamente
perduto dacchè egli è stato richiamato a Montevideo;
oramai della republica non resta che la capitale stretta d'assedio,
e Garibaldi colla legione italiana, che ne difende ancora le opere
avanzate.
Ma sui primi del 1848 le notizie delle rivoluzioni italiane giungono
sul Plata.
Con una sessantina di compagni Garibaldi, immemore dell'America,
veleggia tosto per Genova: la sua preparazione è compita,
l'opera sta per cominciare. Ma appena sbarcato in Italia gli
equivoci della rivoluzione federale lo arrestano; Mazzini fremente
della tregua da lui medesimo concessa all'impresa regia, così
infelicemente condotta da Carlo Alberto, non vorrebbe che Garibaldi
portasse al re l'aiuto dell'opera propria. Carlo Alberto, incapace
di comprendere la magnanimità del grande condottiero, che
aveva dimenticato persino la propria condanna a morte, diffida
dell'antico ribelle, lo stanca nell'inazione, lo paralizza nella
guerra. Il governo provvisorio di Milano, peggiore del re, gli
lesina gli aiuti, gli raddoppia le difficoltà; finchè
i disastri della guerra precipitano, e Carlo Alberto sconfitto si
ripiega su Milano, della quale Garibaldi deve difendere a Bergamo
gli approcci con un pugno di soldati. Poi Carlo Alberto fugge
tradendo la città, l'impresa regia si sfascia, gli austriaci
incalzano vittoriosi il re già sicuro oltre il Ticino. Milano
s'arrende, il popolo disarmato e titubante ammutisce, i governi
provvisori s'umiliano e sfumano, ma Garibaldi cacciatosi fra i monti
resiste ancora agli austriaci, li batte alla Beccaccia di Luino, li
ferma a Morazzone e ripara nella Svizzera.
L'Italia non si è ancora accorta del grande condottiero, che
uno dei generali austriaci ha saputo indovinare.
Finalmente la rivoluzione di Roma rivela in Garibaldi il primo
soldato d'Italia. Se la gelosia di Mazzini lo inceppa e la
rivalità di Rosselli gli annulla la fortunata vittoria sul re
di Napoli, che sarebbe rimasto prigioniero: se la republica romana
deve fatalmente perire, perchè ammalata di tutti gli errori
del federalismo contrasta col proprio fatto alla stessa unità
d'Italia, che vorrebbe e dovrebbe proclamare e non può;
quando la republica soccombe e Roma s'arrende, Garibaldi, solo nella
fede dell'unità d'Italia che nessuno in quell'ora conserva (2
luglio), raduna le proprie truppe per uscire da porta S. Giovanni a
nuova guerra. Il suo disegno è semplice: gettarsi
all'Appennino, sollevarne le forti popolazioni, vincere le prime
battaglie, onde tutte le città rinnovellino le proprie
rivoluzioni, e circondando tutti i nemici sopraffarli, annientarli
sotto l'impeto irresistibile della nazione. L'anabasi incomincia:
tre eserciti lo cingono, lo perseguono. Garibaldi li cansa, scivola
fra i loro vani, li delude: guadagna i monti, vi si perde sempre
inseguito e sempre in salvo, moltiplicando stratagemmi ed eroismi,
lasciando ad ogni tappa un ricordo ed una speranza. Il popolo non si
muove: le campagne aizzate dal clero sono ostili, i villaggi
diffidenti, le città chiudono le porte. Le diserzioni
assottigliano la piccola truppa alla quale i villani del vescovo di
Chiusi osano fare prigionieri: la miseria spinge i resti di quella
falange a vessazioni, che sono rappresaglie e le provocano. Ma
l'Italia, esaurita dallo sforzo infelice della rivoluzione federale,
si è già ricoricata nell'antica servitù per
ristorare le proprie forze. Garibaldi, giunto di monte in monte sino
alla piccola repubblica di San Marino, vi discioglie il resto
dell'esercito, non conservandone che un ultimo drappello per
drizzarsi con esso su Venezia assediata. Senonchè,
imbarcatosi su tredici bragozzi a Cesenatico, è sorpreso da
un brigantino austriaco: egli solo scampa colla moglie incinta e un
capitano. L'epopea si muta in romanzo; la ritirata è finita,
il pellegrinaggio incomincia. Riparato nella pineta di Ravenna,
Garibaldi vi perde Anita, che non può nemmeno seppellire e
della quale i cani vaganti rosicchiarono a notte alta le ossa; ma
protetto da oscuri popolani, dopo lunghi rigiri e continui pericoli
è salvato a Modigliana da don Giovanni Verità,
semplice ed eroica figura di prete, che riconcilia così la
coscienza religiosa colla coscienza rivoluzionaria nella coscienza
del popolo. Quindi traversa la Toscana incontrando ad ogni passo un
salvatore, sfuggendo alla ricerca delle polizie, insino al deserto
delle maremme, al golfo di Sterbino, donde salpa per la Liguria.
Quivi il generale Lamarmora, commissario regio a Genova della quale
ha domato l'insurrezione, lo incarcera; l'opposizione parlamentare
ne tempesta, il ministro Pinelli dichiara che Garibaldi suddito
piemontese avendo preso servizio senza autorizzazione sotto la
repubblica romana ha perduti tutti i diritti di cittadinanza e non
può più invocare il favore delle franchigie
costituzionali; D'Azeglio presidente del ministero non se ne
vergogna, la Camera vota contro il ministero e Camillo Cavour contro
Garibaldi.
Così nel regno piemontese, il solo tuttavia che avesse
tentato un'impresa italiana e conservato lo statuto, era poco vivo
il senso dell'italianità.
Poi fu imposto a Garibaldi di scegliersi un luogo d'esilio:
Garibaldi elesse Tunisi.
Ultima republica di Venezia.
Mentre il più grande degl'italiani riprendeva la via
dell'esilio, Venezia capitolava.
L'infelice città tradita da Carlo Alberto si era indarno, con
uno slancio d'entusiasmo, riconfermata republica per morire
nell'orgoglio della propria autonomia.
Il suo governo, vittima fino dalla prim'ora dell'illusione di una
lega italica presieduta dal pontefice, attendeva da Roma l'idea e da
Torino le forze della rivoluzione, proclamandosi anticipatamente
soggetta a quanto di Venezia avrebbe deciso l'impossibile
Costituente italiana, ma intanto ricostituendosi nelle vecchie forme
e nella separazione tradizionale. Poi alla fuga di Pio IX da Roma
l'ambasciatore veneto disapprovava la rivoluzione romana
sconsigliando poco dopo dal votare la republica. Manin come tutti
gli altri governi italiani seguitava a trattare con Gaeta e con Roma
chiedendo ancora dopo il patito tradimento aiuti ed accordi con
Torino, stancando l'Italia di appelli patriottici, protestando e
mendicando a tutte le cancellerie d'Europa.
La sua eloquente Memoria a lord Palmerston (21 agosto) in difesa di
Venezia era tuttavia uno degli atti più onorevoli della
diplomazia italiana.
Ma per Venezia il problema politico non aveva più altra
soluzione che la difesa della città. Una suprema illusione di
soccorso dalla Francia, mentre questa pareva mal disposta a
sopportare l'assoluta preponderanza austriaca in Italia dopo
l'armistizio di Salasco, durava tuttavia: Mengaldo e Tommaseo,
legati veneti a Parigi, instavano eloquentemente e pareva, non senza
frutto. Già si parlava di 3000 soldati francesi che dovevano
imbarcarsi per Venezia, quando l'astuta diplomazia tedesca, fingendo
d'accettare la mediazione franco-inglese per l'assetto d'Italia,
otteneva si sospendesse ogni spedizione. Poi la mediazione
fallì, le promesse d'una costituzione del Veneto in
principato indipendente e federato con arciduca austriaco,
dileguarono; il disastro di Novara e la proclamazione della
republica romana precipitarono da ultimo gli eventi.
Venezia doveva rimanere sola a morire.
Intanto il suo governo dittatoriale col colonnello Cavedalis,
l'ammiraglio Graziani e Manin, che li assorbiva ambedue in una
suprema funzione di doge, si era abilmente affrettato ad apprestare
i mezzi finanziari nelle crescenti necessità della politica e
della guerra. Ma l'erario era di una povertà ridicola,
poichè le rendite ordinarie non sommavano a più di
200,000 lire mensili; si aperse un prestito nazionale di 10 milioni,
si diede corso legale a cinque milioni della banca veneta, si
aumentarono le imposte sui tabacchi e sulla birra. I soccorsi
chiesti all'Italia mancarono: la Toscana non mandò che 72,000
lire, qualche altra città 50,000, Roma votò 100,000
scudi, il Piemonte un dono mensile di 600,000 lire, e non le diede.
Mentre tutta l'Italia suonava di arringhe e di canzoni per Venezia,
le borse non s'aprivano; governi e popoli non si muovevano.
In Venezia, abbondante di generosi volontari, s'abbaruffavano in
un'ultima demenza tutti i partiti politici. I poeti Revere e
Dall'Ongaro veneti, Maestri lombardo, Mordini toscano, tempestavano
perchè il governo si dichiarasse lombardo-veneto; Cesare
Correnti, già mazziniano, quindi avversario di Mazzini nel
governo provvisorio di Milano, poi ancora mazziniano nella
catastrofe di questo, predicava ora pel Piemonte; si accusava Manin
di non secondare la Costituente italiana, di aver sbagliati gli
accordi diplomatici colle grandi potenze straniere, e di non
affratellarsi colle ultime rivoluzioni di Toscana e di Roma, di
tirannide interna e di nessuna coscienza rivoluzionaria. E infatti
quella di Venezia non era che una insurrezione contro l'Austria:
nessuna idea era ancora uscita e doveva uscire da quella, che
chiamavasi allora rivoluzione veneta. Ma la popolarità di
Manin resisteva a tutti gli attacchi, dei quali alcuni generosi e
savi, la maggior parte indegni o dementi, provocandogli ovazioni dal
popolo che gli permettevano di prendere contro sobillatori e
demagoghi violente misure di polizia.
Intanto l'assemblea, aperta il 13 febbraio, lo nominava con 108 voti
sopra 110 capo del potere esecutivo presidente, con ogni potere per
la difesa interna ed esterna dello stato e con facoltà di
prorogare l'assemblea pur di riconvocarla dopo 15 giorni.
Alla ripresa della guerra fra Austria e Piemonte le speranze avevano
rifiorito: Pepe proponeva che l'esercito sardo diviso in due corpi
proteggesse Alessandria e Padova per congiungersi nel Veneto, egli
assalirebbe nemici alle spalle, ma l'ultima guerra piemontese
iniziata e conchiusa quasi nel medesimo giorno col disastro di
Novara, dissipò sogni e speranza. Venezia non era stata
richiesta di concorso da Carlo Alberto nè tampoco avvisata
della ripresa delle ostilità: Haynau, grondante del sangue di
Brescia, si affrettò ad intimarle la resa. Venezia non aveva
che 17,000 soldati, per la maggior parte volontari, 4000 tra
marinai, cannonieri e fanti di mare con 11 navi da guerra e altra
flottiglia più numerosa che importante, sopra una linea
difensiva di settanta miglia divisa in tre circondari: il primo
dalla città per Fusina, Marghera, Treporti con 17 forti sino
a Sant'Erasmo, il secondo pel lido dalla punta di San Nicola ai
murazzi di Palestrina con 13 forti, il terzo da Chioggia e Brondolo
sino alla foce del Brenta con 6 forti.
Ma quantunque l'Austria vittoriosa a Novara e a Vienna si stringesse
tutta su Venezia, alla spavalda intimazione dell'Haynau questa
rispondeva votando (2 aprile 1840) unanime la resistenza ad
oltranza, e coniava a memoria della forte deliberazione una medaglia
in bronzo scrivendogli nell'esergo: - Ogni viltà convien che
qui sia morta. -
Già fin dal 22 ottobre 1848 quattrocento cacciatori del Sile
in una sortita avevano occupato Cavallino fugando gli austriaci ed
impadronendosi di qualche comune: poco dopo il 26 ottobre Pepe aveva
assalito e preso Mestre, ma ora la guerra era senza scampo. Invano i
volontari, soldati improvvisati, sembrano moltiplicarsi con una
attività ed un valore che sgomentano i più agguerriti
reggimenti tedeschi: invano Marghera con 500 soldati di presidio
ributta un assalto generale con tanta virtù da consigliare a
Radetzky di riproporre patti di resa. Manin ricusa ogni negoziato
che non riconosca a Venezia un'esistenza politica in accordo colla
sua nazionalità e i suoi costumi. La costanza di Venezia
provoca l'ostinazione degli assedianti, che costruiscono una seconda
parallela: gli assediati per impedirla ricorrono indarno ad una
inondazione artificiale. Un assalto più furioso obbliga al
silenzio i forti Rizzardi e dei Cinque Archi; 151 bocche
d'artiglieria fulminano la città. Marghera resiste ancora,
finchè Manin stesso non ne ordina lo sgombro. La tragedia
precipita. Una specie di dittatura militare composta di Ulloa,
Sirtori e Baldisserotto si aggiunge alla dittatura politica di
Manin, accrescendo gli attriti ma non impedendo nullameno l'accordo
nella difesa. Questa costretta ora entro la linea delle lagune,
esigerebbe la distruzione di tutto il famoso ponte, senonchè
la vanità artistica e l'interesse commerciale lo salvano per
la massima parte, affrettando la perdita della città,
poichè gli austriaci vi si afforzano alla testa e il
cannoneggiamento prosegue benchè senza grandi risultati
d'ambo le parti per un mese. La flotta e la flottiglia poco giovano,
meglio aiutano i pozzi artesiani supplendo al difetto dell'acqua; il
blocco si restringe; un supremo tentativo di composizione con De
Bruck, notissimo a Venezia come direttore della grande
società triestina del Lloyd, abortisce. Con eroica pertinacia
Venezia ricusa l'ultima offerta costituzione, perchè le
cariche amministrative non vi erano tutte riserbate agl'italiani e i
diritti fondamentali vi potevano essere aboliti in tempi di sommossa
o di guerra, e la maggior parte della legislazione veniva riserbata
al parlamento viennese, e a Venezia non si accordavano nè
esercito nè flotta italiana. Ma se il rifiuto era magnanimo,
le trattative erano assurde: Venezia non poteva a nessun patto
fidarsi dell'Austria che avrebbe necessariamente mentito alla
propria parola; peggio ancora una costituzione semi-autonoma avrebbe
allentato tutti i rapporti coll'Italia per ristringere quelli
coll'impero tedesco.
Ma ormai il tempo dei patti è passato: Radetzky intima la
resa a discrezione. Le palle cadendo sulla città dalla
distanza, allora non anco superata, di cinque chilometri, seminano
la morte nell'inerme popolazione; si disertano le case di molti
quartieri serenando nelle piazze e nei giardini; la fame urge, il
mare è chiuso, scoppia il colera. Tutto crolla intorno a
Venezia l'Italia soffocata dalla reazione interna ed esterna non
manda più che qualche gemito, la repubblica francese agonizza
sotto il tallone del secondo Bonaparte, la rivoluzione ungherese,
dalla quale s'attendevano aiuti d'armi, è spirata nelle
strette dinastiche di Vienna malgrado tutti gli sforzi di Kossuth.
Il colera ha colpito diggià in un solo mese oltre 6000
persone, 3000 ne sono morte: i volontari sono molte volte decimati,
manca il cibo, difettano le munizioni. Venezia ha superato Roma
nella propria difesa, giacchè ha costato all'Austria 20,000
soldati, cioè più che le due campagne contro il
Piemonte. Vinta e morente può quindi ripetere con giusto
orgoglio il motto non vero di Francesco I: «Tutto è
perduto tranne l'onore».
Ma alle prime parole di resa la plebe inferocita tumultua, si urla
al tradimento: Manin minacciato ribaldamente deve dissipare colla
spada alla mano i tumultanti, e Venezia si arrende. I patti erano:
sottomissione della città, sfratto dei soldati stranieri,
degli ufficiali già a servizio dell'Austria e dei cittadini a
questa sospetti. La carta-moneta veniva ridotta a metà dei
valore, nessuna multa di guerra. Il 22 agosto 1849 si firmò
la capitolazione: l'indomani Manin, povero e glorioso, riparava con
altri proscritti su navi francesi ed inglesi salpando per l'esilio;
il 28 l'aquila bicipite si posava nuovamente minacciosa sui pili di
San Marco; il 30 Radetzky entrava trionfalmente nella morta
città, che dopo tanti strazi sentiva ancora il proprio
patriarca invocare la benedizione del cielo sull'implacabile
vincitore.
Rivoluzione e guerra erano finite: il federalismo italiano, vecchio
di troppi secoli, vi aveva esaurito l'ultima vitalità.
Ma poichè dopo la rivoluzione francese del 1789 ogni altra
rivoluzione europea doveva tendere alla costituzione
dell'individualità nazionale, l'Italia liquidando così
tutto il proprio passato federale non poteva essere più che
nell'unità politica. A conquistarla però le
abbisognavano una forte coscienza democratica per trionfare delle
estreme ricostituzioni regie e papali e un forte nucleo politico per
comporre un primo esercito contro lo straniero.
L'abolizione del papato e lo statuto piemontese, ecco quanto
rimaneva come idea e come fatto della rivoluzione. D'ora innanzi
sarebbe impossibile riparlare di egemonia papale e di lega di
principi: tutti gli stati italiani ripiombati nella reazione si
verrebbero fatalmente separando dalla vita nazionale; il romanismo
inconciliabile colla libertà non sarebbe più che una
forma cadaverica del cattolicismo. Le provincie romane, napoletane e
siciliane avevano addimostrato il minimum di capacità
rivoluzionaria e militare: Piemonte e Lombardo-Veneto il massimo. Il
centro della futura rivoluzione sarebbe dunque al nord, come sempre
nel bacino del Po; la sua formula dovrebbe quindi essere
monarchico-democratica, la sua forma una conquista regia; ma
poichè l'Italia non saprebbe almeno per lunghissimo tempo
scrollare simultaneamente tutti i propri principi e l'Austria,
imprevedibili coincidenze politiche europee dovrebbero aiutare quel
re italiano abbastanza forte e moderno per disciplinare nella
propria monarchia l'elemento democratico ed erigersi campione
dell'indipendenza nazionale.
Per ora la gazzarra poliziesca delle ristorazioni mescendosi al
trambusto avvilente delle recriminazioni, colle quali tutti i
partiti vinti ed egualmente colpevoli si dilaniano, disonora per
l'ultima volta l'Italia; ma Daniele Manin, esule a Parigi
nell'immacolata povertà d'una vita troppo esercitata dalla
fortuna, troverà fra poco la formula trionfatrice, e presso a
morire la getterà da lungi all'Italia come una di quelle
infallibili rivelazioni che la morte riserba talora ai più
santi: - Italia e Vittorio Emanuele. -
Fra dieci anni Giuseppe Garibaldi, ora proscritto dal Piemonte,
scriverà - Italia e Vittorio Emanuele - sulla propria
bandiera, per trionfare dell'Austria, del Borbone, del papa e di
Vittorio Emanuele stesso, costituendogli un regno d'Italia
nell'unità, sempre indarno voluta da Mazzini, e nella
libertà costituzionale, compatibile coll'ancora scarsa
civiltà della nazione.
LIBRO SESTO
L'EGEMONIA PIEMONTESE
Capitolo Primo.
Le ristorazioni
Riscossa dell'opinione.
Poichè tutti i partiti avevano egualmente fallato, e nessun
uomo, per quanto alto d'ingegno e di robusto carattere, aveva potuto
resistere così alla tormenta delle combinazioni
rivoluzionarie da mantenervi la logica di un sistema o la
sincerità immutabile di un proposito, la violenza delle
recriminazioni politiche era adesso senza pietà. Federalisti
ed unitari, giacobini e neoguelfi, regi e repubblicani, insorti
delle prime giornate e ribelli degli ultimi assedi, politici e
politicanti, tribuni e di piazza e di parlamenti, si palleggiavano
tremende reciproche accuse, delle quali la più comune, e
quindi la meno grave, era quella di tradimento. Dai giornali la
guerra saliva ai libri, scrosciava negli opuscoli, balenava in
subite rivelazioni di documenti, serpeggiava nel popolo
avvelenandone lo scoramento, penetrava nel segreto delle
conventicole già strette per nuove cospirazioni, si effondeva
in lamenti, che il pericolo delle feroci polizie rendeva ancora
nobili.
L'Europa tutta piena di simili rivoluzioni, tutte egualmente vinte,
ascoltava distratta.
Ma l'unità della sconfitta giovava quanto una vittoria.
Veneti e siciliani, milanesi e romani, piemontesi e toscani,
lombardi e napoletani, si affratellavano nel dolore d'una comune
speranza perduta: accuse e critiche ribadivano la necessità
dell'idea, per la quale tutti erano insorti, e ne approfondivano la
verità sottomettendone il modo a nuove disamine. Le
fratellanze di guerra, ben più efficaci che quelle delle
congiure, saldavano relazioni dianzi corroborate da fugaci rapporti
politici e diplomatici; lo scambio dei volontari fra le povincie
insorte compensava già l'antagonismo dei parlamenti durante
la rivoluzione; la coscienza dell'eroismo mostrato in cento fazioni
si levava alteramente nella oppressione desolata di quella prima ora
di schiavitù come a sfida di altre non lontane battaglie. Mai
l'Italia aveva avuto tale rivoluzione; il suo passato federale vi si
era annullato con tutta la millenaria varietà delle proprie
forme sotto l'impulso della moderna idea democratica. L'unità
usciva dalla sconfitta. Non una idea o una forma vitale restava al
federalismo. Un inconciliabile dissidio separava ora popoli e
principi: questi accodati all'Austria non ne erano più
nemmeno i prefetti, giacchè i generali austriaci li
umiliavano colle tracotanze e truppe austriache circondavano Le loro
reggie italiane. Non più illusioni di dieta o speranze di
riforme: alcuni statuti restavano come cadaveri insepolti dopo una
battaglia. I principi avevano compreso che ogni concessione al
popolo avrebbe in esso provocato lo scoppio di affermazioni
antidinastiche; il popolo sapeva che i principi preferivano
l'esistenza della propria casa alla vita d'Italia. Quindi la
politica si divideva: quella dei governi, subordinata fatalmente
all'Austria, diventava di resistenza, costringendosi
all'impossibilità di un crescendo, oltre il quale s'intendeva
il mareggiare sordo di un'altra rivoluzione; quella delle nazioni
cresceva d'iniziative giovandosi d'ogni forza, profittando dei
contraccolpi europei, opponendo il progresso del pensiero
all'immobilità delle forme, l'elasticità dello spirito
alle pressioni della materia, l'irresistibile espansione delle
coscienze al propagarsi delle energie straniere in tutti gli
argomenti della politica nazionale.
Attraverso la conflagrazione del nuovo assetto se ne sentiva
oscuramente la provvisorietà. La stampa libera durante la
rivoluzione aveva abituato alla libertà di parola
degradandosi in tutti i suoi eccessi; costretta adesso alla
musoliera acuiva nel silenzio la critica d'ogni atto governativo;
l'esilio, il carcere, la morte prodigata ai migliori rivoluzionari,
rinnovando i martirii, purificavano la religione della
libertà e ne aumentavano i neofiti; la reazione dei governi
rendeva stranieri e parricidi quanti vi prestavano mano. Quindi la
modernità urgeva con inesauribile ed instancabile
varietà di motivi le ristorazioni: telegrafi e ferrovie
concesse prima fra gli applausi, poi mirabilmente propagatesi
sviluppando commerci ed industrie, forzavano le barriere doganali
interne con esigenze di nuove provvisioni economiche; le
università riparate all'ombra della scienza salvavano molti
professori dalle persecuzioni, educando scolari alle imminenti
rivoluzioni; ogni miglioramento agricolo covava un germe di
emancipazione, ogni congresso diventava assemblea, i teatri pronti a
profittare d'ogni commedia più volgare applaudendo le
reticenze o le allusioni si mutavano in comizi. L'odio all'Austria,
non più compresso dal terrore di prima, giacchè
soldati italiani improvvisati avevano potuto vincerla in campo
aperto, diventava disprezzo per i governi nazionali, che alla prima
sconfitta di quella sarebbero caduti: si pensava, si lavorava, si
cospirava con nuova alacrità. Le comunicazioni e gli scambi
stringevano relazioni fra provincia e provincia; ogni relazione si
cangiava prestamente in vincolo politico. L'unità della
disfatta patita dalla rivoluzione si ripeteva nell'unità
delle persecuzioni inflitte ai migliori, nell'unità
austriacante della politica di tutti i governi nazionali,
nell'unità vincitrice dell'Austria rimasta sola nemica,
nell'unità vinta del papato che nessuno più temeva e
nel quale nessuno più sperava, nell'unità creatrice
del Piemonte che incolume nella rovina universale, libero nella
schiavitù di tutti, ancora armato fra gl'inermi,
rivoluzionario e costituzionale, s'apriva come un asilo agli esuli e
si muniva daccapo come campo per una probabile guerra.
Popoli e governi stavano fisi al Piemonte: l'Austria lo vegliava
minacciosa, Francia lo proteggeva mal fida, la storia d'Italia lo
fortificava ogni giorno, proseguendo nel lavoro di molti secoli, per
agglomerare intorno ad esso tutta la nazione. Azioni e reazioni
dovevano egualmente giovargli: la politica pazzamente antiliberale
ed antinazionale degli altri governi faceva già del Piemonte
la patria di tutti gl'italiani; Mazzini, lontano nell'esilio,
agitava ancora la fiaccola dell'ideale repubblicano, Garibaldi,
ramingante sui mari, sembrava attendere un segnale per tentare uno
sbarco irresistibile, il conte di Cavour saliva al ministero
piemontese per cogliere in Europa la prima occasione di rivincita.
L'impossibilità di governare non solo onestamente ma
razionalmente aumentava ogni giorno per tutti i governi. Occasioni e
pretesti d'opposizione formicolavano: la reazione forzata a
diminuire di rigore per l'impossibilità di aumentarlo
s'abbatteva in ostacoli insormontabili sorretti dall'inerzia dei
cittadini, ed erano sdegnose ripulse di concorso in opere pubbliche,
interpretazioni liberali date alle più restie circostanze,
silenzi opprimenti di dispregio, invettive incriminabili per doppio
senso. Il progresso europeo urgeva il progresso italiano. La
resistenza dei governi appoggiantisi sull'Austria li precipitava in
un pericolo d'annullamento pari a quello minacciato loro dal popolo,
giacchè l'occupazione straniera esautorando la loro
autorità dissanguava le finanze di ogni stato. Intanto la
democrazia informava con miracolosa rapidità tutte le forme
di vita moderna: mutati i criteri d'educazione domestica,
riconosciuti falsi i metodi dell'antica pubblica economia;
l'emancipazione letteraria favorendo quella religiosa abituava
sempre più all'indipendenza assoluta dello spirito, nessuna
tradizione regia od aristocratica resisteva nelle nuove abitudini, i
vecchi poteri della chiesa e dello stato non avevano più
altra forza che i gendarmi delle polizie e le milizie straniere.
Se non si vedeva ancora chiaramente qual metodo la libertà
sceglierebbe per raggiungere l'unità della patria, e il
mirabile spettacolo del Piemonte giganteggiante sulla prostrazione
degli altri governi non affidava ancora interamente la nazione sulla
possibilità d'una sua conquista regia che saldasse in un solo
tutti i principati liberando l'Italia dallo straniero, mentre il
mazzinianismo quasi galvanizzato dai disastri riaffermava
superbamente le speranze di unità repubblicana, nullameno
l'impossibilità di credere ai governi reazionari e la
fatalità d'una qualunque soluzione al problema politico
italiano bastavano a preparare gli spiriti ad un mutamento radicale
di assetto, appena l'occasione se ne presentasse.
Luigi Bonaparte rinnovando in Francia l'impero napoleonico ne
avrebbe facilmente suscitata qualcuna, la Germania avendo fallito
come l'Italia la propria rivoluzione doveva ripetere il duello
secolare fra l'Austria e la Prussia, l'espansione del mondo slavo
nei Principati Danubiani complicata col problema turco bastava sola
a produrre terribili ed inimmaginabili motivi di guerra.
Gli ultimi tiranni d'Italia infellonivano quindi sui propri sudditi
collo spavento spasmodico di chi uccide per difendersi, e sa
nullameno di non potere uccidere abbastanza per salvarsi.
Regno napoletano.
Soffocata per le vie di Napoli la rivoluzione nel sangue dei
cittadini, domate le Calabrie, riconquistata con nefande
crudeltà la Sicilia, re Ferdinando non osò ancora
trarsi la maschera di re costituzionale ritirando la costituzione.
L'elezione di Luigi Bonaparte alla presidenza della republica
francese l'inanimì: il piccolo tiranno fiutava nel nuovo
presidente il futuro grande despota. Così prorogò il
parlamento. Poi rassicurato dalla caduta di Carlo Alberto e della
republica romana lo sciolse per non più convocarlo, rinviando
in Sicilia il truce Filangeri e mutando i ministri diventati da
ultimo suoi complici. S'iniziarono processi: spie testimoniavano,
giudici accusavano, si mirava sopratutto a disonorare gli accusati,
si mutava la suprema corte di giustizia in corte speciale
perchè le condanne fossero più spicce ed infami.
Sessantacinque cittadini fra i più illustri, Zuppetta,
Saliceti, Imbriani, Spaventa, Pisanelli, Poerio, Leopardi, Massari,
furono denunciati da una inquisizione senza nome: Navarra,
presidente della corte, ve ne aggiunse altri trentasette, fra i
quali Scialoia e De Meis; pochi giunsero a salvarsi nell'esilio, la
maggior parte vennero gettati nelle prigioni. Settembrini, Agresti,
Faucitano furono condannati a morte, tratti in conforteria e
graziati dopo due giorni; altri sette condannati più tardi a
morte ebbero la pena commutata in quella dei ferri dagli otto ai
trent'anni. Re Ferdinando non osando più le condanne di morte
raffinava i supplizi. Tutti quegl'illustri furono mischiati nelle
carceri immonde coi più immondi ribaldi, e vi durarono lunghi
anni, laceri, affamati, incatenati, sublimi di dolore e di costanza.
Guglielmo Gladstone celebre ministro inglese che li visitò
nelle prigioni di Nisida e di Santo Stefano (1851), ne rimase
così inorridito, che scrivendone a lord Aberdeen, in lettere
rimaste poi celebri, definì il governo borbonico:
«negazione di Dio».
Nella Sicilia la reazione fu anco peggiore. Incendi e massacri
guastarono intere città: cinquecento liberali riempirono nei
primi giorni le carceri dell'isola; il generale Filangeri sostituiva
tribunali militari agli ordinari, giovandosi d'ogni fremito del
paese per crescere il rigore delle repressioni; imprigionava,
condannava a caso, per denunzia, per capriccio. Unico sollievo
all'isola infelice fu la rivalità scoppiata fra il Filangeri
ed il Cassisi nuovo governatore; ma anche questa di lieve durata,
giacchè il richiamo del generale e la sua sostituzione col
principe di Castelcicala lasciò al tristo proconsolo
libertà d'inseverire.
Tutto lo stato languiva sebbene le finanze del governo fossero
relativamente prospere: si compì qualche opera pubblica,
s'unirono al mare i laghi di Lucrino e d'Averno, ma lo spirito del
paese immiserì. L'esercito, rimasto ligio al re e adoperato
come micidiale strumento di polizia, non crebbe a valore di
disciplina e di coscienza; la costituzione non cassata rimase satira
sanguinosa per coloro che l'avevano creduta, e scusa alle
rimostranze dei gabinetti europei forzati dall'eco delle miserie
napoletane ad uscire dalle solite riserve. Di governo, nel vero
senso della parola, non era a dire: un sinistro brigantaggio
dominava corte, polizia e magistratura; una parte della borghesia
benchè priva dei propri capi seguitava a cospirare in
silenzio, ma la distanza dalla grande valle del Po, centro del vero
moto politico, la tradizione, l'indole e sopratutto la forza del
governo non consentivano vera efficacia alle sue congiure. Fra le
troppe incoerenze politiche d'allora si pensò a sostituire il
principe Murat a Ferdinando di Borbone; corsero pratiche; Napoleone
III mestava nell'intrigo, il ricordo del primo regno murattiano e la
vanità di autonomia favorivano il disegno; Lisabe Ruffoni ed
Aurelio Saliceti, già triumviro della republica romana, vi si
mescolarono perdendo senno e reputazione, mentre lo stesso conte di
Cavour nelle inestricabili ambagi della propria politica sembrava
subire l'imperiale volontà francese, e i più illustri
esuli napoletani protestavano fieramente dalle carceri contro questo
insano baratto di padroni e di servi.
Quando il conte di Cavour dopo la gloriosa e fortunata guerra di
Crimea sollevò la questione d'Italia al congresso di Parigi,
i gabinetti francese ed inglese instarono presso re Ferdinando per
ridurlo a qualche mitezza coi sudditi, sino a ritirare da Napoli i
propri ambasciatori; ma questi sicuro di non essere militarmente
assalito rimase sordo ad ogni rimostranza. Poco più tardi un
vano tentativo d'insurrezione in Sicilia, guidato da un Francesco
Bentivegna (1856), e un altro di regicidio arrischiato da Agesilao
Milano, fanatico ammirabile di coraggio, finirono di persuadergli a
non allentare i freni al popolo. Infatti nessuna concessione avrebbe
potuto riconciliare questo col re. L'antitesi politica era
insolubile: o il regno napoletano sorpassando il Piemonte nella
politica nazionale avrebbe mirato alla conquista d'Italia, o
contraddicendovi indietreggerebbe fatalmente nella reazione. Il
dilemma storico si era troppo rasserrato per consentire ancora il
vecchio gioco degli espedienti.
Re Ferdinando parve accorgersene, ma non reggendo più al peso
della stessa sua reazione, consentì alla deportazione di
molti fra i più illustri prigionieri, per chiudersi nel
castello di Caserta incalzato da inconfessabili terrori. Napoli e
tutto lo stato rimasero alla mercè della più ignobile
delle polizie.
Stato pontificio.
E di polizia era il governo papale, piuttosto soffocato che sorretto
dalla doppia occupazione francese ed austriaca.
Caduta la republica romana, mentre i più nobili rivoluzionari
riprendevano in esodo più doloroso la via dell'esilio, il
generale Oudinot assunse nella città la dittatura militare. I
suoi primi decreti scioglievano governo, assemblea, guardia
nazionale, circoli: intimato il disarmo a tutti i cittadini,
soppressi i giornali, vietata ogni adunanza. Poichè l'odio
popolare irritato dalla burbanza francese prorompeva a coltellate,
furono prese le più severe misure, sostituendo i tribunali
militari agli ordinari pei delitti politici. Roma pareva
conquistata. Il papa sempre chiuso nella fortezza di Gaeta non
affrettava il ritorno; poi da Portici diramò una enciclica,
nella quale, calunniando bassamente gli uomini della republica,
vantava con ingenua senilità la crociata cattolica, che lo
rimetteva sul trono contro la volontà dei propri sudditi.
Infatti 256 municipii, e fra questi i maggiori, avevano per un
ultimo afflato rivoluzionario protestato contro la reintegrazione
politica del papato. A riordinare lo stato, imitando inconsciamente
la republica, fu delegato un triumvirato di cardinali, che il popolo
dalla veste e dal sangue versato chiamò rosso: lo componevano
i cardinali Della Genga, Vannicelli ed Altieri. Intanto nelle
Provincie settentrionali i generali austriaci con irresistibile
tracotanza s'erano impadroniti d'ogni potere e satrapeggiavano;
delegati e prolegati pontifici strillavano indarno
all'esautorazione; il cardinale segretario Antonelli, favorevole un
tempo alle riforme piane, lasciava correre per castigare più
acerbamente le ribelli popolazioni togliendo loro per sempre la
voglia degli statuti. A Bologna il generale Gorzkowsky
arrestò e multò di duemila scudi il senatore Zanolini
ed altri diciotto consiglieri, perchè dopo aver protestato
contro la violenza di siffatta ristorazione clericale chiedevano la
conservazione dello statuto. E questa rappresentanza comunale,
punita come rivoluzionaria dagli austriaci, era la stessa che poco
prima aveva mandato a Gaeta una deputazione a pregare il pontefice
di scegliere Bologna a nuova capitale. Ciceruacchio, suddito
pontificio, era già stato fucilato dai tedeschi nel Polesine;
Ugo Bassi, barnabita garibaldino, anima gentile di poeta e di
tribuno, caduto a Comacchio in mano dei gendarmi papalini e
consegnato da questi al comandante austriaco, venne fucilato a
Bologna. Una reazione spaventosa desolava le Provincie: preti e
tedeschi inseverivano, quelli per odio alle passate rivoluzioni,
questi per necessità di conquista. Giammai l'autorità
del pontefice sulle proprie terre era stata più oltraggiata.
Intanto il governo francese insisteva perchè il papa
concedesse qualche libertà ai proprii popoli. Luigi
Bonaparte, intento a prepararsi il trono d'imperatore ma costretto a
nascondere il vero scopo della spedizione francese a Roma davanti
agli assalti della sinistra parlamentare, alla testa della quale
tuonava terribile la voce di Victor Hugo, mandava per nuova lustra
diplomatica il colonnello Ney al generale Rostolan, succeduto
all'Oudinot, perchè avvisasse ad impedire le trascendenze
papali. I legati francesi alla conferenza di Gaeta dovevano intanto
chiedere al papa amnistia generale, amministrazione laica, codice
napoleonico e reggimento liberale.
Era la stessa impossibilità, per la quale Pellegrino Rossi
era morto.
Naturalmente non ne fu nulla. Il papato, che lasciava trascendere
gli austriaci nella repressione, inalberò ai consigli
liberali di Francia, pei quali avrebbe dovuto ricominciare l'assurda
prova delle riforme. Luigi Bonaparte, che a diventare imperatore
aveva d'uopo sopratutto dell'appoggio dei clericali francesi, non
osando guastarsi col papa finse di accontentarsi «delle
istituzioni municipali, provinciali e governative, che nel vero
interesse da cui Sua Santità è animata pel bene de'
suoi sudditi» Pio IX era disposto ad accordare.
Un Motu proprio bandito da Portici (12 settembre 1849) le
rivelò.
Erano un Consiglio di Stato consulente in materia di legislazione e
di amministrazione, e una Consulta di finanza senz'altro ufficio che
di dare pareri; si mantenevano i consigli provinciali, da cui il
principe estraeva i consultori di finanza; si confermavano le
rappresentanze comunali eleggibili da cittadini di un dato censo, e
queste rappresentanze compilavano le liste per la scelta dei
consiglieri provinciali; si promettevano riforme nell'ordinamento
giudiziario e nella legislazione civile, criminale ed amministrativa
da proporsi da una commissione all'uopo nominata; ultima veniva
un'amnistia a tutti coloro «i quali dalle limitazioni, che
verranno espresse, non rimangano esclusi da questo benefizio».
Si ritornava così press'a poco ai tempi anteriori allo
statuto. Il triumvirato rosso, incaricato delle limitazioni
all'amnistia, ne escludeva tutti i membri del governo provvisorio e
dell'assemblea costituente, del triumvirato e del governo della
republica, i comandanti le milizie e coloro che compresi nella prima
amnistia, avevano partecipato «agli ultimi
rivolgimenti». Nullameno erano tolti agli amnistiati gli
uffici governativi, provinciali e comunali. Nessuno dei colpevoli
rimaneva quindi degno di perdono. Dopo i rivoluzionari dovettero
esulare i moderati neo-guelfi, che più avevano osteggiato la
republica: Mamiani, Galeotti, il padre Ventura ricalcarono le orme
di Mazzini, di Garibaldi e di Saffi. Consigli di censura
improvvisati per vagliare la classe degli stipendati così
dello stato come delle provincie e dei comuni soffiarono il terrore
persino nelle file dei servitori della reazione: la republica romana
aveva rispettato il clero, la reazione papale gettò cinquanta
preti nelle prigioni di Castel Sant'Angelo rei di liberalismo, e a
Bologna e più tardi a Mantova si macchiò del loro
sangue.
Per contraccolpo in quest'assenza di governo e giovandosi delle
ostilità delle popolazioni alla polizia papale e alle truppe
straniere pullularono bande di masnadieri nelle provincie: una di
esse guidata da un tal Passatore potè impunemente assaltare
villaggi e cittaduzze; l'anarchia crebbe poi; la legge stataria
bandita dal maresciallo Thurn governatore civile e militare delle
quattro legazioni, statuendo che il rapporto poliziesco dovesse
servire di base ad ogni inquisizione pel delitto di ritenzione o
porto d'armi, annullò qualunque procedura giudiziaria, mentre
un proclama del generale Pfanzelter stabiliva unica pena al giudizio
statario la morte e di morte puniva persino la ritenzione d'armi.
Contro questi eccessi la corte papale volle indarno protestare; la
violazione austriaca più violenta di ogni negazione
rivoluzionaria, passò oltre. Lo stesso vescovo di Cesena si
vide negato il diritto di tenere le armi nel proprio palazzo, poco
prima saccheggiato da una banda di ladri; ai condannati a morte non
si concedeva nemmeno il tempo necessario per le pratiche religiose.
Le esorbitanze austriache provocarono le francesi: il generale
Baraguay d'Hilliers (11 febbraio 1850) ordinava la fucilazione
immediata di chiunque fosse in Roma trovato armato di coltello o
d'altra arma; non si riconoscevano più nè cittadini
nè sudditi. Soldati stranieri imperavano uccidendo senza
legge e senza misura: la crociata cattolica finiva alla peggiore
delle invasioni. Finalmente il papa ritornò accolto
freddamente malgrado tutti gli sforzi teatrali del clero e
dell'aristocrazia, ma più che il rimpianto della republica il
popolo significava così il proprio odio per la tirannide
soldatesca di Francia. All'ombra di questa il governo pontificio si
riattivò nell'antica maniera piuttosto rimescolata che
riordinata dalle riforme piane: il cardinale Antonelli fu
onnipotente, i prelati ripresero tutte le funzioni politiche, pochi
laici, e questi pessimi, si aggiunsero loro. Si apersero come a
Napoli processi politici, s'inventarono congiure per spaventare il
papa, che le credette, mentre alcune erano tutt'altro che false. Si
gettarono ladre accuse sui commissari di finanza della republica, si
condannò nel capo Calandrelli triumviro dell'ultim'ora
tentando infamarlo coll'accusa di furto e colla grazia, si
ghigliottinò un preteso uccisore di Pellegrino Rossi dopo
un'incredibile istruttoria, nella quale su prove segrete e
testimonianze anonime si affermava la complicità di
moltissimi uomini politici. Il ghigliottinato, certo Sante
Costantini, lo fu «perciò che dalle deposizioni dei
testimoni (anonimi) si raccogliesse che il sicario fosse per vari
connotati a lui somigliante».
La viltà di questa reazione aiutava il latente lavoro delle
sètte riordinate dal comitato nazionale di Londra. A Roma le
dirigeva Giuseppe Petroni, oscuro avvocato che diciotto anni di
carcere magnanimamente sofferti ricusando ogni grazia, resero poi
illustre; senonchè l'opera settaria, ammirabile di sagacia e
di costanza, non potè produrre risultati sotto la pressione
della doppia occupazione tedesca e francese. Alcuni giovani delle
Romagne insorti pei moti di Milano nel febbraio del 1853 finirono
miseramente nelle carceri senza raggiungere nemmeno l'onore di uno
scontro. L'isolamento prodotto intorno al governo pontificio divenne
però tale da strappargli in una nota diplomatica alla
cancelleria tedesca la confessione umiliante «che il governo
di Sua Santità in un momento supremo si troverebbe in seno
della sua stessa capitale abbandonato all'odio delle passioni, che
cospiravano alla sua perdita».
Intanto che l'autorità politica del papato cadeva così
basso, la sua monarchia spirituale cresceva. Al vasto e simultaneo
atteggiarsi sovranamente della democrazia in Europa la più
antica e profonda autorità religiosa rispondeva per la legge
dei contrasti con un accentramento, che rinsaldando la fede nelle
coscienze cattoliche permettesse di resistere alla nuova guerra
universale indetta con miglior disciplina e maggior coerenza di
programma contro la chiesa. Nella gerarchia ecclesiastica, un tempo
così democratica e sviluppatasi poi monarchicamente, il
papato con una ultima audacia stava per sopprimere la funzione
legislativa dell'episcopato. L'occasione fu porta dal dogma
dell'Immacolata Concezione, ultima ascensione della donna pareggiata
nel cristianesimo all'uomo con questa immunità dal peccato
originale in Maria. Pio IX dopo un'enciclica a tutti i vescovi per
interrogarli sul nuovo dogma, lo definì alteramente di
propria autorità: il pontefice assorbiva così il
Concilio; tale proclamazione sovrana di un dogma conduceva all'altro
dell'infallibilità personale.
All'infallibilità democratica del suffragio universale il
cattolicismo doveva rispondere con quella del papa: dogma contro
dogma, legge storica contro legge divina, verità umana contro
verità soprannaturale.
Quindi i gesuiti fondarono una grossa rivista col titolo di
Civiltà Cattolica per combattere questa nuova guerra del
papato, ma libri e giornali sorsero terribili di forza e di
destrezza contro di loro. I gesuiti poveri a scrittori e a pensatori
ressero male all'assalto: il genio, che li aveva assistiti contro la
Riforma, li abbandonò contro la rivoluzione: parvero piccoli
in faccia al pensiero tedesco, deboli davanti alle invettive
francesi, malvagi in confronto del patriottismo italiano. La
politica moderna li sorprese colla necessità delle scienze da
essi oppugnate o limitate: la loro dottrina non fu più che
un'erudizione, la loro abilità divenne inutile contro popoli
sovrani, che eleggendo e controllando pubblicamente i propri governi
riducevano la destrezza a qualità secondaria. La loro guerra
al Piemonte per le leggi ecclesiastiche sembrò una
recriminazione del passato contro il presente, il loro servilismo
all'Austria li infamò nella coscienza del popolo insofferente
di tirannide straniera, la loro deificazione del pontefice e del
principe nel papa persuase ai più la necessità di
frenare nel cattolicismo i troppi eccessi idolàtrici. Infatti
nel clero italiano crebbero le diserzioni. Già Rosmini,
Gioberti, Ventura, erano colpiti d'anatema; molti preti avevano
predicato la rivoluzione, ed erano morti per essa; altri si
disponevano a morire. L'abbiezione del governo pontificio in tanto
splendere di progresso nei governi europei e nei più giovani
governi d'America diventava irrefutabile accusa alla politica
papale: la sudditanza del pontefice all'Austria e alla Francia per
scopi antinazionali dava ragione ai liberali, che affermando
l'incompatibilità del principato ecclesiastico col civile,
offrivano al papato ogni libertà spirituale in cambio dei
poteri politici.
Al Congresso di Parigi (1856), un anno prima che cessasse la
giurisdizione militare straordinaria nelle quattro Legazioni, il
conte di Cavour in un Memorandum sulle condizioni miserrime dello
stato pontificio osò insistere sulla necessità di
stralciarne qualche provincia e di costituirla autonoma. Quantunque
il momento e la circostanza fossero ben scelti dall'abile ministro
piemontese, la sua proposta era troppo falsa e prematura per
riuscire: però il congresso ascoltò simpaticamente
quelle rimostranze di uno statista conservatore, e lord Clarendon
rispose per tutti definendo il governo papale «un obbrobrio
per l'Europa».
Ad un congresso europeo il papa era dunque politicamente trattato
peggio del sultano: questi era ancora necessario all'Europa come
portinaio dell'Asia, quegli non era più che un ostacolo
putrido all'imminente rivoluzione d'Italia che affrettando l'altra
della Germania doveva distruggere in Europa il secondo impero
napoleonico e spostare le basi dell'impero austriaco.
Granducato e ducati.
Nei granducato di Toscana l'invasione austriaca aveva dilagato
peggio che nelle provincie pontificie, riducendo il sovrano a
zimbello di quella medesima protezione, che sembrava assicurargli il
trono. Già dalle prime ore questi aveva tentato far credere
che le milizie austriache fossero entrate come a sua insaputa, ma il
generale D'Aspre dietro istruzioni della cancelleria imperiale
tendenti ad annullare nella propria influenza ogni potere italiano
lo aveva violentemente sbugiardato, annunziando da Empoli in un
proclama, come l'intervento militare dell'Austria fosse stato
chiesto dal principe medesimo. I nuovi ministri assumendo il potere,
mentre gli austriaci entravano in Firenze, si trovarono di fronte il
problema insolubile di conservare lo statuto secondo le promesse del
granduca, dopo che questi aveva spontaneamente invocata la invasione
straniera. Nullameno gran parte del popolo si cullava ancora in tale
illusione prodotta dalla reazione trionfale dei più illustri
moderati contro la dittatura del Guerrazzi. Fra i nuovi ministri
Jacopo Mazzei, il migliore per ingegno, era in buona fede e si
dimise nobilmente, quando il duca traendosi alla fine la maschera,
abolì lo statuto. Intanto il D'Aspre raddoppiava
d'improntitudini: quasi a vendetta di non poter porre Firenze in
istato d'assedio aggravò la mano su Prato, Pistoia, Arezzo,
vi disarmò la guardia nazionale, vi proclamò la legge
marziale. Il ritorno del principe da Gaeta, augurato come pegno di
miglioramento, peggiorò la situazione, giacchè questi
non abbastanza sicuro col presidio austriaco mise il bavaglio alla
stampa, sottrasse alla corte d'assise i reati di stampa, impose
eccessive cauzioni per la pubblicazione dei giornali. Quindi ridusse
a forza di limitazioni il concesso indulto pei reati di
maestà ad una ignobile ipocrisia coll'escludere quanti
avessero partecipato al governo provvisorio dall'8 febbraio al 12
aprile, o contro i quali fossero già cominciate le
inquisizioni criminali; decretò onoranze ai generali
austriaci «per gli utili servigi resi alla sua causa» e
una medaglia col motto - Onore e fedeltà - pei cittadini, che
avevano favoreggiato la restaurazione. Molti però fra gli
stessi moderati ricusarono coraggiosamente la vergognosa
decorazione.
Prima preoccupazione del ristabilito governo fu di limitare il tempo
e lo spazio all'occupazione del D'Aspre; ma la cancelleria imperiale
rispose sbraveggiando e pretendendo che la cessazione
dell'intervento dovesse dipendere dall'assenso dell'imperatore. A
giustificazione di tale pretesa s'invocava con incredibile
sofisticheria il trattato del 1735, già annullato dal diploma
imperiale del 1763 e dagli stessi trattati del 1815 contenenti le
più esplicite affermazioni sull'autonomia della Toscana. Per
resistere a tanta pressione il granduca non avrebbe avuto altro
mezzo che di mantenere lo statuto e di reclamare a tutti gli altri
governi d'Europa, gelosi della troppa influenza austriaca in Italia;
ma la fatalità della reazione lo spingeva invece ad
abbandonarsi prigioniero nelle mani dell'Austria e del clero. Per
irresistibile logica d'interesse Leopoldo preferì quindi
essere vassallo dell'impero, da cui avrebbe pur sempre ritratto
qualche apparenza di potere, a mettersi principe costituzionale
nella rivoluzione, che avrebbe dovuto sagrificarlo al conseguimento
dell'unità nazionale.
E lo statuto fu abrogato. Si cominciò dal contrarre
arbitrariamente un prestito con cedole fruttifere ed estinguibili
per sorteggio nel periodo di 26 anni, guarentite sullo spaccio dei
sali e tabacchi: poi si trattò di concedere qualche
franchigia ai comuni, ma l'Austria rispose alle istanze del governo
toscano con proposizioni così equivoche di aiuto materiale e
morale a tutti i governi italiani nell'interesse della causa loro
comune con essa che per timore di nuove soperchierie anche nelle
amministrazioni comunali se ne dovette deporre il pensiero. Allora
la reazione non ebbe più freno: si crebbero i tribunali
straordinari, si riarmò di tutte le possibilità
dell'arbitrio la polizia, s'imposero e si aumentarono le tasse a
capriccio, non si abbonarono nè si restituirono le
anticipazioni fatte dai cittadini sotto promessa di restituzione;
s'impegnarono le proprietà dello stato, e si creò un
debito di trenta milioni. Trenta milioni circa finì per
costare l'occupazione austriaca sino al 1857. Un editto del 25
aprile 1851 dava facoltà ai consigli di prefettura di
relegare in un'isola o in una fortezza chiunque fosse sospettato di
trame contro l'ordine pubblico. Per la convenzione stipulata
coll'Austria il 20 maggio 1850 le truppe di occupazione in Toscana
dipendevano dal comando generale di Verona e dovevano essere
mantenute dal granduca ridotto a subalterno di Radetzky; il diritto
di amministrare la giustizia, il diritto di vita e di morte e
persino quello di grazia venivano esercitati dagli ufficiali
austriaci sui cittadini toscani. A Livorno il comandante puniva i
reati comuni, secondo il codice militare austriaco, colla pena di
morte da tanti anni soppressa nelle leggi leopoldine, si battevano
colle verghe persino gli adolescenti, i soldati tedeschi si
ricusavano di comparire come testimoni ai tribunali toscani.
Radetzky graziò della vita trenta condannati livornesi senza
consultare nè il granduca, nè l'imperatore.
Nell'inesauribile crescendo della reazione alla convenzione
coll'Austria successe il concordato colla Chiesa, abolendo tutte le
guarentigie leopoldine del secolo passato col pretesto di
armonizzare le leggi civili colle religiose. Così
l'autorità civile perdeva il diritto di sindacare l'esercizio
abusivo della giurisdizione canonica episcopale, riconosceva
esclusivamente ai vescovi la facoltà di giudicare delitti di
apostasia, eresie e simili, e s'obbligava ad applicare le pene
criminali da essi inflitte sino a quella di morte se venisse
ristabilita. E lo fu con editto del 16 novembre 1852, come
corollario dell'abolizione dello statuto. L'autorità secolare
avrebbe quindi dovuto mandare al patibolo qualunque condannato a
morte per eresia con sentenza vescovile; e mentre pei laici
giudicati dal clero la legge era tanto inesorabile, pei preti
venivano tolte le pene corporali, e si assegnavano speciali
prigioni. Di demenza in demenza il granduca per suggestione del
confessore dichiarò inalienabile il patrimonio della Chiesa e
proibita la stampa delle opere di Lodovico Muratori.
Un attentato in pieno giorno alla vita del Baldasseroni, presidente
del Consiglio, che ne uscì lievissimamente ferito,
provocò con nuovi rigori l'espulsione di oltre un migliaio di
fuorusciti politici: una pia dimostrazione in Santa Croce (29 maggio
1851) con grande concorso di popolo recante corone alle lapidi dei
caduti a Curtatone e a Montanara trasse la gendarmeria a far fuoco
sul popolo, e il governo a decretare si togliessero dalla chiesa le
lapidi, che poi la pietà e lo sdegno degli esuli riprodussero
a Torino col permesso del municipio sotto i portici del palazzo di
città.
Intanto nella febbre di congiure, che ardeva tutta Italia provocando
nuovi martirii di illustri patrioti, qualche crollo impauriva pure
la Toscana, ove la mitezza remissiva della popolazione e la forza
delle truppe straniere occupanti consigliavano anche ai più
caldi un'attesa prudente di futuri rimpasti italici per opera
specialmente del Piemonte. Alcuni tentativi nella Lunigiana parvero
piuttosto scorribande di fuorusciti che levate di ribelli; le
indomabili agitazioni di Livorno, se mantennero vivo l'odio allo
straniero e le speranze del patrio riscatto, non crebbero eventi e
non produssero risultati politici.
Lo stesso enorme processo fatto al Guerrazzi dopo tre anni di
carcere per reato di lesa maestà con sfarzo di testimoni e di
prove che gli diedero l'effimera e chiassosa importanza di uno
spettacolo teatrale, conchiuse meglio contro il fiero tribuno che
contro il fedifrago granduca; giacchè quegli nella propria
Apologia volendo dimostrare di aver solamente inteso alla
restaurazione del principato, dopo che i fautori della repubblica lo
avevano atterrato, discese più basso di questi, che nel
tradimento alla rivoluzione poteva almeno pretendere alla scusa di
difendere la propria Casa. In fatti il granduca con abile
diversione, dopo i molti rigori commutando la lunga pena
dell'ergastolo al Guerrazzi e a' suoi correi Montanelli, Mazzoni,
Mordini e Modena in quella del bando, si mostrò più
bonario principe che il Guerrazzi medesimo non si fosse provato
sincero rivoluzionario e saldo statista.
La restaurazione toscana prima soggiaciuta, poi volontariamente
prosternatasi all'Austria ed al clero, non potè assimilarsi
alcuna idea della vinta rivoluzione, ma rinculando fatalmente nella
storia indietreggiò di quasi un secolo col tradimento della
grande tradizione leopoldina. Il suo governo si restrinse a soli due
compiti, frenare colla polizia l'insofferenza liberale del popolo e
persuadere a Vienna lo sgombro delle milizie imperiali dal
granducato. Questo le fu concesso nel 1855, quando le finanze del
piccolo stato impoverite non reggevano più a tanta spesa.
Quindi il granduca restava colle sole armi della polizia e delle
truppe indigene, che nullameno valsero a tenere in rispetto il
popolo persuaso di un pronto ritorno degli austriaci a qualunque
moto rivoluzionario.
La mollezza toscana mantenne la pace nel granducato. Solo Livorno
tentò nel 1857, per la tragica spedizione di Pisacane a
Sapri, una sommossa contro la quale bastarono le soldatesche
granducali. Della brutta giornata di sangue, il Bargagli,
governatore della città, annunziava l'esito ai cittadini in
proclama, ammonendo che «coloro i quali resisterono e furono
sorpresi colle armi alla mano ne pagarono il fio colla morte».
Più trista e più feroce la reazione di Carlo III a
Parma faceva parere tollerabile il governo toscano.
Carlo Lodovico di Lucca, divenuto per diritto di
riversibilità signore di Parma alla morte di Maria Luigia e
allo scoppio della rivoluzione, aveva finto sul principio di
secondare la guerra nazionale mandando al campo di Carlo Alberto il
proprio figlio, che invece fu sorpreso fuggiasco e travestito
vilmente verso Mantova e ricondotto a Milano, ove il governo
provvisorio lo relegò guardato a vista in un albergo. Ma
spaventato poi dalla piega degli avvenimenti Carlo Lodovico era
fuggito delegando ogni potere ad una reggenza concordata col
municipio. All'armistizio Salasco il conte Thurn occupò
militarmente i ducati e vi rispettò la guardia nazionale, la
costituzione e le leggi emanate dal governo autorizzato da Sua
Altezza Reale; questi invece qualificò d'intrusa la reggenza
e ne cassò tutti gli atti. Sciaguratamente per l'Italia non
era questa la prima volta che conquistatori stranieri vi si erano
mostrati migliori dei principi indigeni.
Poi cedendo alla propria natura di volgare libertino Carlo Lodovico,
con manifesto datato da Weisstropp 21 agosto 1848, abdicava in
favore del proprio figlio Carlo III.
Il nuovo principe, vile e sozzo, cadde come una nuova sventura sul
ducato. Il 5 aprile 1849 il generale D'Aspre, invasi i ducati, vi
componeva sotto la propria dipendenza due giunte, l'una per Parma e
l'altra per Piacenza. Fra i chiamati a farne parte il Lombardini e
il Guadagnini ricusarono, il Cornacchia e l'Onesti, anche peggiori
della propria fama tristissima, accettarono. La reazione fu crudele:
i generali di Radetzky ruinarono sugli insorti; imposto il disarmo;
proclamato lo stato d'assedio; verghe, forche, fucilazioni prodigate
a capriccio.
Carlo III accodato agli austriaci, fece poco dopo il proprio
ingresso solenne, promettendo con insana beffa un nuovo statuto e
riconfermando invece lo stato d'assedio e la legge stataria colla
pena infame delle verghe per qualunque reato potesse parergli
politico. Il conte Torök, gentiluomo austriaco comandante la
fortezza di Piacenza, tentò per misericordia alla popolazione
di resistere alla riconferma di queste leggi, ma il tiranno ricorse
al Radetzky che redarguì severamente il nobile soldato.
Istantaneamente la nuova corte formicolò di abbietti
cortigiani e di più turpi ministri sospingenti a peggiori
esagerazioni. Una epilettica smania di assolutismo esagitava
quest'ultimo borbonide, che la corruzione del sangue e la
viltà dei tempi resero singolare per qualche anno.
Fondò un ordine cavalleresco e ne insignì primi i
credenzieri del re di Napoli e della regina di Spagna,
destituì lunaticamente impiegati e professori, soppresse
l'università, chiuse il famoso collegio Alberoniano
accusandone i padri della Missione di parteggiare per la
rivoluzione; e Roma allora in lotta violenta col Piemonte per le
leggi Siccardiane annuì al sopruso. Quindi prodigò
milioni al teatro e ad inutili fortificazioni in Parma, profuse
amnistie ai peggiori galeotti, tolse ai comuni la nomina dei propri
magistrati, sovvertì tribunali, imponendo loro arbitrarie
interpretazioni di legge e cassando le sentenze. Con inane
imitazione di Metternich, che aveva sguinzagliato contro
l'aristocrazia liberale i villani di Gallizia, mutò
l'applicazione della legge stataria nelle campagne, lusingando i
contadini coll'alterare i contratti rurali a loro favore e col
proibire ai proprietari di dare loro licenza senza il consenso del
sovrano, studiandosi d'accendere una guerra civile, nella quale la
borghesia liberale perisse sotto le violenze delle plebi campagnole
e cittadine. Nullameno questa borghesia aveva così poco il
senso della propria dignità che l'Anzianato di Parma ordinava
si coniasse una medaglia ad eternare la memoria dell'avvenimento al
trono di Carlo III.
La manìa militare gli fece costituire un corpo di volontari
reclutato tra villani, come i centurioni di Gregorio XVI, per
accrescere lo spavento nei borghesi e dare a lui le soddisfazioni di
un generale da parata. La pena delle verghe, applicata pazzamente da
scherani, umiliava i migliori cittadini: si calcolò che il
numero dei percossi salisse al migliaio, ogni pretesto bastava alla
polizia per incrudelire, il principe ne inventava di atrocemente
ridicoli prescrivendo e condannando fogge e colori di cravatte e di
cappelli. Le finanze dello Stato, già esauste dalla perversa
amministrazione, subivano ora l'ultimo malanno confondendosi con
quelle private del principe, che dietro l'esempio del padre
accollava all'erario i propri debiti e attingeva alle casse
pubbliche per le proprie spese più oscene; e, come ciò
non bastasse, una lega doganale contratta coll'Austria finiva di
compiere il dissesto del paese.
Ma avendo poi il duca chiesto all'Austria per mezzo di Tommaso Ward,
lo stalliere fatto barone da suo padre ed ora da lui gratificato del
monopolio gratuito di tutte le miniere appartenenti allo stato e del
grado di ambasciatore a Vienna, che l'impero pagasse al ducato la
quota dovuta sui settantacinque milioni sborsati dal Piemonte per
indennizzo dei danni di guerra, s'intese rispondere sprezzantemente
dal principe di Schwarzenberg che se non si fosse rimesso al
beneplacito dell'Austria verrebbe considerato come potenza
belligerante nella guerra passata e tassato nella proporzione
medesima della Sardegna.
Le umiliazioni della doppia tirannide indigena e straniera, e le
provocazioni del duca vagabondante per la città a
svillaneggiare le donne e a percuotere gli uomini col frustino
fecero prorompere la pubblica indignazione. Al solito un popolano si
eresse vindice. Certo Carra, sellaio, lo pugnalò (26 marzo
1854) nella pubblica strada e con incredibile agilità
sfuggì alle guardie, deluse i giudici, riparò in
America. Le parole, colle quali la duchessa vedova annunciava al
popolo «che era piaciuto a Dio onnipotente di chiamare a
sè l'amatissimo suo consorte e sovrano» fecero supporre
a molti che essa fosse complice del regicidio, postume rivelazioni
parvero accreditare la diceria senza che la storia abbia potuto fino
ad ora mutarla in vero giudizio.
Morto Carlo III ed assunta la reggenza da Maria Luisa, al governo
violento della gendarmeria ne succedette un altro di frati:
nullameno gl'inizi ne parvero lusinghieri ai popoli angariati.
Vennero rimossi tutti i ministri precedenti ad eccezione del
Saldati, meno inviso ma non troppo migliore degli altri, riaperta
l'università mantenendola però serva
nell'insegnamento, tolti i sequestri ai beni dei fuorusciti che
avevano retto lo stato nella rivoluzione, ridotto l'esercito
già portato dalla vanità del defunto tiranno ad oltre
seimila uomini, scemate le spese e la dotazione della corona
quantunque la confusione proseguisse fra i beni di questa e quelli
dello stato, restituita una mezza libertà alla magistratura.
Dei nuovi ministri, il Lombardini, buon aritmetico ed economista
retrivo, fiscaleggiava a pro' del tesoro senza sollievo del paese,
il Catani abile gesuitante si destreggiava a corte nell'oblio di
ogni debito di statista, il Pallavicino gentiluomo tronfio e tristo
ubbidiva nel ministero degli esteri ad ogni più umiliante
ingiunzione dell'Austria. Peggiore di tutti un conte Zileri, marito
di un'ultima figlia della duchessa di Berry, madre della Reggente,
capitanava la reazione clericale, aprendo il ducato a frati e a
suore d'ogni risma. A breve andare la corte per influenza della
duchessa di Berry, ultima avventuriera del legittimismo francese,
divenne centro d'inani intrighi contro Napoleone III in favore
dell'influenza austriaca in Italia. Il fermento rivoluzionario di
Lombardia, propagandosi ai ducati ed esplodendo in risse parziali o
in vani tentativi di sommossa, giustificava nella poliziesca
politica del governo il mantenimento dello stato d'assedio. Un moto
di mazziniani a Parma (22 luglio 1854), represso con feroce energia
dagli sgherri ducali, insanguinò la città. Ne vennero
sentenze capitali non mai consentite nemmeno da Carlo III,
raffinatezza ed efferatezza che nel popolo meritarono alla duchessa
l'atroce nomignolo di Nerone in gonnella. Infatti resa più
crudele dalla paura, dopo aver richiamato a presidio della capitale
nuove milizie austriache, richiese al maresciallo Radetzky il
capitano Kraus, famigerato uditore dei processi di Mantova, per
condurre i nuovi processi politici, e permise al generale austriaco
Crenneville di assumere la dittatura militare della città con
un proclama, nel quale questi dichiarava unica ragione al proprio
nuovo grado l'anzianità sul generale di Parma, quasi i due
eserciti fossero un corpo solo. Finalmente la duchessa strinse un
contratto coll'Austria pel mantenimento dei propri prigionieri, che
processati da uditori austriaci passavano così nelle carceri
del Veneto e della Moravia.
Lo stato di Parma, ridotto a feudo dell'impero austriaco e mantenuto
da questo in soggezione permanente di conquista, aveva quindi
perduto con ogni guarantigia giuridica tutte le poche libertà
di quella mezza autonomia largitagli dai trattati del 1815; ma dopo
la guerra del Piemonte in Crimea e il congresso di Parigi, ove il
conte di Cavour potè per la prima volta, sebbene in falsi
termini, porre la questione italiana, anche nel ducato di Parma la
reazione parve diminuire. Nel 1857 gli austriaci lo evacuarono,
lasciando la duchessa liberaleggiare ipocritamente per la speranza
di acquistare il vicino ducato di Modena, riversibile all'Austria
per difetto di prole nel duca Francesco V, ad un possibile rimpasto
italiano, se mai la Francia dovesse scendere in Italia a sostituirvi
l'influenza austriaca.
Meno pazzo di Carlo III e meno ipocrita della reggente Maria Luisa,
Francesco V di Modena li superava entrambi nella frenesia del
dispotismo. Ligio all'Austria fino al fanatismo di una affettazione
provocatrice, viveva nel sogno di un'altra Santa Alleanza:
legittimista assoluto non riconosceva politicamente altri trattati
che quelli del 1815, altro decreto che la proscrizione dei
Bonaparte. Il suo disprezzo per Napoleone III, del quale
grottescamente negò sempre di riconoscere il governo,
trascendeva agli insulti; il suo odio al Piemonte, nel quale
crescevano mirabilmente le speranze di un regno italico, superava
anche la sua avversione al mazzinianismo. La sua restaurazione
cominciata coi soliti tribunali militari diretti da uditori
austriaci gettò a centinaia nelle carceri quanti avevano
cooperato col pensiero o col cuore, colle azioni o colle omissioni
alla rivolta del '48. Quelle popolazioni transappenniniche, che si
erano date con libero ed unanime voto alla Toscana allora mite, e
dovettero poi ricadere sotto il suo dominio, furono anche più
tristamente aspreggiate. Ma se il nuovo duca aveva ereditato dal
padre Francesco IV la tirannica intrattabilità e l'istinto
politico, non ne aveva derivato l'ingegno e la coltura. Quindi la
sua intromissione nelle leggi e nei regolamenti ne alterava
bestialmente i modi e le intenzioni, moltiplicandovi le pene,
appesantendovi le procedure, disconoscendo ogni diritto nei sudditi.
Non contento d'aver tradotto nel proprio il codice austriaco
coll'efferato corteggio delle penalità corporali, licenziava
i giudici quando le loro sentenze non gli sembrassero abbastanza
crudeli, o li esautorava sottoponendo le loro decisioni a nuovo
esame di corti estere e persino di generali austriaci.
I moti della Lunigiana nel 1853 e 1854 irritarono la sua libidine
d'impero. Quindi, affidato il governo di Carrara al maggiore
Wiederkehrn, famigerato anche fra gli austriaci per l'animo truce,
vi bandì la legge marziale, ordinando che tutti i reati
politici vi fossero puniti di morte e che le deposizioni dei soldati
e dei poliziotti bastassero a farne prova. E molte furono le
condanne capitali eseguite, moltissime quelle di galera a vario
grado.
Nessuna libertà doveva regnare nel suo piccolo ducato.
Avaro oltre ogni rapacità, tesoreggiando sull'erario non
badava che ad ammassare danaro; despota minuto sino alla frivolezza
e assoluto sino alla demenza osava bisticciarsi coi maggiori potenti
quando accennassero a concessioni, rimproverava all'Austria di
piegare nella guerra di Crimea alla politica napoleonica,
rinfacciava all'Austria e al papa nel loro disegno di un nuovo patto
fra i principi italiani contro l'espansione irresistibile del
Piemonte le poche equivoche espressioni di franchigie municipali
come ne guastassero l'idea. Ma tutta la sua vanità di
tirannello non potè salvarlo dalla rovinosa lega doganale con
Vienna, nè ottenergli dalla grossa debitrice la quota sui
settantacinque milioni sborsati dal Piemonte pei danni di guerra.
L'Austria imponendo le restaurazioni dei principi all'Italia ed
annullando la loro autonomia, spingeva quindi i popoli ad un'altra
rivoluzione, nella quale il problema dell'indipendenza dallo
straniero soffocasse tutti gli altri di libertà.
Lombardo Veneto.
Le provincie del Lombardo-Veneto, focolare ed agone della guerra,
sopportavano intanto il crescendo di una reazione ignota da molti
secoli. Allo splendido sogno di libertà era seguìto il
terrorismo di una conquista avvelenata da tradimenti di ogni idea e
di ogni persona. Se alla novella che Carlo Alberto aveva denunziato
l'armistizio, Brescia, ripetendo il primo eroismo di Milano,
ributtava con subita insurrezione nel castello le milizie del
presidio, presto abbandonata da tutti alla rotta di Novara espiava
la propria estrema passione di libertà sotto la rabbia di
Haynau.
Mille e duecento austriaci perirono nelle sue otto giornate, ma
Haynau fece sembrare mite Radetzky proseguendo il massacro anche
dopo la vittoria. Dodici cittadini furono da lui impiccati per
festeggiare la notizia della resa di Roma.
Poichè la ribellione porgeva pretesto a sospendere quello
statuto imperiale del 1849, che del resto non era mai stato
applicato, il vecchio maresciallo rimase re e tiranno del
Lombardo-Veneto. Il suo indulto del 12 agosto non fu quindi che
un'ironia, la quale crebbe di perfidia nell'altro del 18, giorno
natalizio dell'imperatore: nessun impiegato partecipe della
rivoluzione fu conservato o rimesso in ufficio, sospettati tutti i
cittadini, violate le case, conculcata ogni autorità
indigena. Un'oscena guantaia spiega ad un balcone un drappo coi
colori dell'impero e colle cifre dell'imperatore per insultare al
pubblico dolore: il popolo fischia, ma le soldatesche caricano
spietatamente la folla inerme, arrestano cinquanta cittadini, li
sottopongono alle verghe, e Radetzky manda al municipio il conto dei
bastoni rotti, e lo condanna a pagare diecimila franchi alla
guantaia. Milano mormora, freme senza muoversi. L'oppressione
aumenta la miseria. I comuni gravati da una sovrimposta di sei
milioni al mese pel mantenimento dell'esercito vacillano sotto al
nuovo peso; nullameno, il commissario Laderchi-Montecuccoli aggrava
ancora la mano sull'imposta prediale aumentandola del 50%: le
estorsioni soldatesche dove non smungono, soffocano, le nuove
contribuzioni sorpassano i cento milioni. A questi Radetzky aggiunge
un prestito volontario di centoventi milioni per levare dalla
circolazione quegli altri settanta in biglietti del tesoro emessi
dal governo a carico del Lombardo-Veneto, e lo cambia tosto
minacciando in prestito forzato. La sua prepotenza arriva a tale che
suscitando gelosie nella cancelleria di Vienna si spera per un
momento il suo ritiro dal Lombardo-Veneto; ma l'imperatore protegge
il vecchio maresciallo. Appena appena si toglie l'intendenza
generale dell'esercito d'Italia come uno strettoio guastatosi nella
violenza della fretta.
Però dopo la rivoluzione tutto è mutato nelle
provincie. La coscienza nazionale ridestatavi dall'insurrezione, dai
governi provvisori, dalla guerra, dalle adesioni al Piemonte,
cresciuta a fede nei disastri, resa superba dagli eroismi prodigati,
si contrappone alla coscienza imperiale coll'energia di un odio che
nulla verrà più ad estinguere. Poichè l'Austria
tratta le provincie come terre conquistate, esse accettano quel
trattamento come una sfida.
Invano la cancelleria imperiale misurando l'improvvisa profonda
ampiezza di tale distacco, nel pauroso presagio di future
insurrezioni, vorrebbe incorporare il Lombardo-Veneto nella
federazione germanica. Inghilterra e Francia vegliano minacciose, e
il disegno fallisce. L'Austria deve restar sola contro l'Italia,
nella quale ha unificato e reso straniero il dispotismo: il duello
fra le due nazioni ricomincia quindi come preparazione a nuova
guerra. Per ora le speranze italiche non verdeggiano: la Francia
ricaduta sotto l'impero napoleonico, se vieta all'Austria di fondere
nella Germania le proprie conquiste, non accenna però a
contendergliele; l'Inghilterra immutata nella propria politica
mercantile orzeggia al solito fra libertà e dispotismo;
Russia e Prussia coagulate dalla stessa reazione sembrano subire
l'influenza viennese. Ma rimangono all'Italia lo stato libero del
Piemonte e l'ideale repubblicano. Fervono cospirazioni: Mazzini
ramingante per l'Europa ha già costituito un comitato
nazionale con un programma apparentemente neutro, nel quale la
questione dell'esistenza nazionale prende il passo sulla questione
politica della libertà. È come un comizio armato della
nazione combattente per vivere, che precede il comizio togato della
nazione costituente la propria vita. Mentre i moderati fusionisti di
Lombardia coi costituzionali del Piemonte l'oppugnano e gli
ultra-repubblicani lo respingono come un'abdicazione di principii,
la sua opera prosegue e si allarga: dal Piemonte, popolato di esuli,
viene aiuto di uomini e di denaro alle congiure; comitati e
sottocomitati tessono una rete mirabile di resistenza e di
sottigliezza intorno ai governi nemici. Ma le nuove cospirazioni,
per quanto meglio ordite delle antiche, non possono servire che ad
accomunare i propositi e a rinsaldare gli animi per combattere e
vincere l'Austria.
Quindi inevitabili imprudenze affrettano sublimi martirii. Le
condanne politiche del 1849 sommarono a 2414, nel primo semestre del
solo anno 1851 salirono a 2552. Sciesa popolano di Milano
s'immortala col motto: Tiremm innanz, risposto ai carnefici, che
conducendolo alla fucilazione gli promettevano la grazia se
discendesse a farsi spia dei compagni; dopo lui sfila un corteo di
eroi, nel quale abbondano i preti. A Mantova un enorme processo di
150 cittadini con a capo don Tazzoli, sacerdote illustre di ingegno,
santo di cuore, dura due anni e sembra riattivarsi con sempre nuove
condanne capitali. Tito Speri, l'indomito difensore di Brescia, vi
perisce; gli spalti di Belfiore si mutano così in calvario,
cui tutta Italia fisa rabbrividendo lo sguardo. Ma al terrore
risponde la costanza. Milano si prepara sui primi dell'anno 1853 a
insorgere: il moto, questa volta più vasto e meglio
concordato, promette una vera rivoluzione. Kossuth, l'illustre
rivoluzionario e dittatore ungherese, vi aiuta, ma impigliata nei
soliti dissensi e controsensi l'insurrezione si risolve in un
tafferuglio (6 febbraio) nel quale periscono poco oltre un centinaio
di austriaci.
Le provincie quantunque preparate non si sono mosse.
Queste congiure, da Kossuth lusinghevolmente giudicate capolavori,
durarono lungamente malgrado ogni insuccesso e in alcune di esse si
tentò persino di rapire l'Imperatore durante le sue due
visite al Lombardo-Veneto; ma inutili come conati di guerra poterono
solo rinfocolare la passione nazionale, maturando in Europa la
necessità di una soluzione al problema italico.
L'Austria raddoppiò di rigori; il Piemonte inteso nella
propria ambigua politica a giovarsi bensì delle forze
rivoluzionarie, ma riducendole a docile strumento per non perdere il
benefizio dell'iniziativa nel giorno prossimo alla rivincita, si
unì all'Austria nella reazione per contrastare al moto, e
scacciò, imprigionò sulle proprie terre fuorusciti e
rivoluzionari, fece dai propri giornali gettare l'anatema su
Mazzini.
L'Austria supponendo nel Ticino, rifugio di molti rivoluzionari, uno
dei maggiori focolari della fallita ribellione, scacciò di
Lombardia per rappresaglia tutti i ticinesi, bandì proclami
terrorizzanti, riconobbe delitto di alto tradimento anche la mancata
denuncia di un rivoluzionario. Poco dopo un altro decreto poneva
sotto sequestro tutti i beni mobili ed immobili dei profughi
politici compresi o non compresi nella prima amnistia, muniti o non
muniti del permesso di emigrare. Era la spogliazione dopo i
supplizi, la rapina alzata a legge di stato. Ma il Piemonte, che per
avere ceduto alla reazione contro i rivoluzionari era al coperto
dalle accuse della diplomazia europea, avendo fin troppo meritate
quelle della democrazia italiana, con abile e pronta manovra
protestò del violato giure internazionale e civile. I
trattati di pace fra Piemonte ed Austria guarantivano gli emigrati,
dei quali molti avevano già acquistato la cittadinanza
piemontese. Il Memorandum del conte di Cavour encomiato da tutte le
cancellerie d'Europa fu il primo funebre rintocco per la cancelleria
imperiale: le relazioni fra i due stati divennero più tese;
Revel ambasciatore a Vienna fu richiamato, mentre le reti delle
congiure si riannodavano e il coraggio popolare si apprestava ad
altre sommosse. Poco dopo infatti il maggiore Calvi, uno dei
più prodi difensori di Venezia, tentava una vana insurrezione
nel Cadore, e perdeva la vita sugli spalti di Mantova.
Ma l'impossibilità di durare in siffatta reazione cresceva
tutto giorno anche per l'Austria. Il progresso della questione
italica nell'opinione europea maturava le speranze degli oppressi.
La politica del Piemonte, rivoluzionaria e conservatrice ad un
tempo, moltiplicava le difficoltà alla cancelleria imperiale;
la questione d'Oriente, nella quale il Piemonte con mirabile
arditezza era riuscito ad entrare alleandosi alla Francia e
all'Inghilterra e quindi indirettamente anche all'Austria,
costringeva questa a maggior temperanza verso l'Italia; la
propaganda liberale guadagnando anche le classi più alte
europee, imponeva silenzio a molte vecchie pretese e rendeva
impossibili certe efferatezze di governo. Gladstone col definire il
governo dei Borboni una negazione di Dio aveva commosso tutta
l'Europa: più tardi Clarendon al congresso di Parigi
dichiarando il governo del papa un obbrobrio per l'Europa,
ratificava la metà del programma, ed assolveva l'altra
metà dell'opera rivoluzionaria; la Prussia s'intrometteva per
salvare in Calandrelli l'ultimo triumviro romano dalle prigioni
pontificie, e vi riusciva: tutte le diplomazie insistevano presso
Ferdinando di Napoli per la liberazione dei più illustri
carcerati. La Francia ripresa dal gran sogno napoleonico accennava
da lontano ad un rimaneggiamento delle dinastie italiche per
rimettere due Bonaparte sui troni delle due Sicilie e d'Etruria,
mentre il conte di Cavour, preso nel doppio giuoco della propria
politica, era costretto a secondare; l'Austria s'accorgeva di
restare sola nella vecchia politica d'oppressione. D'altronde la
guerra di Crimea e il Congresso di Parigi avevano già rotto
gli antichi trattati del 1815, spostando la base europea ed aprendo
l'adito a nuovi diritti nazionali.
Anche l'Austria allentò quindi i freni. Prendendo occasione
dal matrimonio dell'imperatore cominciò dall'ordinare (1^o
maggio 1854) che lo stato d'assedio cessasse nelle provincie del
Lombardo-Veneto, si restituissero le potestà civili
nell'esercizio delle loro giurisdizioni, e solamente i crimini di
alto tradimento fossero deferiti alla corte straordinaria di
giustizia. Questo beneficio non mutò da prima la pratica
arbitraria e crudele, ma ne trascinò altri: le istanze dei
governi crescendo per un più umano trattamento all'Italia,
l'Austria sempre più isolata in Europa si decise ad una
riconciliazione colle due grandi provincie italiane. L'imperatore,
che si disse avere inorridito apprendendo come nei primi tre anni
della reazione fossero state giustiziate nel Lombardo-Veneto 432
persone, mentre dal 1814 al 1848 le vittime politiche non avevano
raggiunto l'ottantina, osò scendere a Milano. Il popolo
rimase freddamente sdegnoso, molti dell'aristocrazia si
prosternarono, i congiurati sognarono ancora una volta di rapirlo.
Però furono ripristinate le antiche Congregazioni centrali,
prosciolti dai sequestri i beni dei proscritti politici, riammessi
alla cittadinanza austriaca quei fuorusciti che la chiedessero,
condonate le pene ai minori reati politici. Il balsamo era troppo
tardo e scarso a così immani ferite. La stessa nomina a
vicerè dell'arciduca Massimiliano, romantica figura di
cavaliere, che il breve romanzo di un altro impero lontano oltre
l'oceano doveva poi immortalare nella pietà della storia, se
tolse alcuni attriti meno aspri non mutò negli animi le
tendenze nazionali consacrate da tanti sacrifici.
La reazione col diminuire d'intensità tradiva la debolezza
dell'oppressore: gli oppressi guatavano ardenti.
Già le sofferenze di quest'ultimo periodo avevano in essi
migliorato il carattere. Lo spirito cresciuto a maggiori idee, la
coscienza tempratasi a magnanimi fatti, li rendeva incalcolabilmente
dissimili dagli italiani del '21 e del '31, sudditi pigri ed ignari,
piuttosto sorpresi che partecipi ai moti tentati da pochi audaci.
L'italianità sfaccettata dalla rivoluzione del quarantotto
nella molteplicità dei propositi e degli esperimenti
costituiva ora il fondo di tutte le coscienze: persino coloro, che
per abbiezione di anima parteggiavano per governi tirannici o
stranieri, avevano d'uopo d'affermare l'impossibilità
materiale di uno stato italico per giustificare a se medesimi e agli
altri il proprio tradimento.
Lo sviluppo dell'industria, del commercio e quindi della democrazia,
cresciuto colle ferrovie, colle scienze e le loro applicazioni,
uggiva le barriere interne reclamando leggi civili ed economiche
inconciliabili col dispotismo. L'aristocrazia, disonoratasi come
classe, corteggiando principi, Austria e papa, si redimeva nella
publica estimazione con una mirabile eletta di volontari nella
rivoluzione che vi recavano con molta elevatezza di sentimenti
un'abile temperanza di propositi e un ricco tesoro di studi; la
borghesia precipuamente impegnata nella lotta vi si accaniva per
conquistare il dominio della nazione nella sua emancipazione; il
popolo inerme ed oppresso da principi, da stranieri e dai privilegi
delle due classi superiori si manteneva bello d'incondizionato
sacrifizio nella propria parte migliore. Il clero vile parteggiava
per tutti gli oppressori condannando quei sacerdoti che sorgevano a
pro' della patria e vi salvavano la religione dall'odio universale.
Si presentiva oscuramente un'altra rivoluzione.
La grande unificazione prodotta dall'uniformità della
reazione, nella quale il Piemonte si era fatto in più di un
caso difensore di tutti, parlando audacemente a nome della nazione,
spingevano inconsciamente al sogno di un grande regno italico, ma le
tergiversazioni della sua politica ravvivando con odiose
persecuzioni ai liberali le diffidenze contro la monarchia lo
intorbidavano, mentre i republicani seguitavano a predicare la
necessità di una insurrezione simultanea su tutti i punti
della penisola.
L'Italia invece non se ne sentiva capace.
La rivoluzione del quarantotto le aveva dato colla misura
dell'energia rivoluzionaria anche quella della potenzialità
militare. Ora l'Austria più forte di prima e accordata con
tutti i principi indigeni contava seicentomila soldati, e teneva in
mano tutte le fortezze: il Piemonte, per quanto miglioratosi negli
ultimi anni e specialmente nell'esercito colla guerra di Crimea, non
poteva da solo affrontare l'immane colosso. La predicazione
rivoluzionaria sostenuta da Mazzini non bastava a scaldare i cuori
così che tutti gli italiani capaci di guerra insorgessero
unanimi: l'Italia non aveva fatto e non farebbe rivoluzioni come
quelle di Spagna e di Grecia, giacchè la sua
nazionalità non avendo mai avuto nel passato alcuna
unità non poteva produrre quegli irresistibili scoppi,
davanti ai quali Napoleone I e il Sultano avevano dovuto egualmente
ritirarsi; al contrario la nazionalità essendo lo scopo della
rivoluzione e la nazione dovendo in essa ricrearsi, per ora l'idea
non ne appariva veramente chiara che agli alti spiriti e ai
più magnanimi cuori. Il volgo vi si associava nell'istinto.
Nella rivoluzione del quarantotto i rivoluzionari, per essere troppo
scarsi di numero, avevano dovuto disimpegnare contemporaneamente le
più disparate funzioni, prima cospiratori, poi insorti,
tribuni, soldati, commissari, deputati, ambasciatori, ministri:
quindi incomparabili di virtù avevano spesso sbagliato di
metodo, ingannandosi sui mezzi, fuorviando dalla meta, trovando
più ammiratori che seguaci, riuscendo più ammirabili
che imitabili.
Un'altra rivoluzione colle sole forze della rivoluzione era dunque
impossibile. Già Garibaldi aveva accettato il programma di
Manin - Italia e Vittorio Emanuele - disapprovando gl'inutili
tentativi di Parma e del Carrarese, confessando così, egli il
più valoroso, l'incapacità guerresca dell'Italia.
Infatti l'entusiasmo di tutti pel Piemonte copriva non solo
un'abdicazione d'iniziativa rivoluzionaria e dei pericoli da essa
inseparabili, ma nell'accettazione della sua monarchia rivelava la
diffidenza nei più per una rivoluzione puramente democratica;
mentre il Piemonte medesimo, accettando di essere primo in Italia,
non si sentiva abbastanza forte per combattere solo, e non era
abbastanza generoso per sorpassare il proprio vecchio disegno di
conquista su tutta la valle del Po.
Malgrado il programma di Manin e l'opera del conte di Cavour l'idea
dell'unità nazionale non aveva ancora schiarito nella
coscienza pubblica la propria forma politica.
Capitolo secondo.
La preparazione Piemontese
Prime difficoltà parlamentari.
Forma dell'unità nazionale italiana doveva essere la
monarchia piemontese.
I suoi inizi dopo la rotta di Novara erano stati lugubri: invaso il
territorio, l'esercito disfatto, Carlo Alberto costretto ad abdicare
e ramingo, il nuovo re trascinato al campo del maresciallo per
ratificare un armistizio umiliante, la democrazia italiana e
piemontese tumultuante di sdegno magnanimo ed inconsulto, i popoli
sfibrati e diffidenti, tutta l'Europa ostile ed in preda ad una
reazione trionfante. Il nuovo re non isbigottì: valoroso
nelle battaglie, parve anche più intrepido nella sventura. Le
sue prime parole raccogliendo la corona insanguinata sul campo di
una delle più grandi sconfitte toccate al Piemonte furono un
giuramento di fedeltà alla nazione, superbo in quell'ora come
una sfida gettata al nemico vittorioso. Mentre tutti i principi
trascinati nella più abbietta reazione stracciavano gli
statuti accettando persino di essere preteriti nei feroci proclami
dei generali austriaci, Vittorio Emanuele II con abile intuizione
affidava la gloria del proprio regno all'inviolabilità di
quelle istituzioni, che suo padre aveva concesso a malincuore e
avrebbe forse finito coll'abrogare.
Ma i rancori lasciati nei liberali dai tradimenti di Carlo Alberto
tolsero nella sfiducia di quel momento angoscioso di ammirare la
prima dichiarazione del nuovo re. Genova eccitata dai più
ardenti fra i patriotti proruppe a ribellione: Giuseppe Avezzana che
doveva poco dopo illustrarsi a Roma come ministro della guerra, ne
fu il capo; gli antichi odii di rivalità fra la grossa
metropoli ligure e la forte capitale piemontese rifermentavano
avvelenando lo sdegno popolare per la capitolazione di Novara senza
bastare nullameno a una proclamazione di distacco dal Piemonte;
Torino stessa, agitata da troppe passioni democratiche, pareva
vogliosa d'insorgere all'appello dei republicani, che incorreggibili
nella rettorica quanto indomati nel coraggio promettevano una nuova
guerra popolare. La sollevazione genovese degenerò in guerra
civile: il presidio piemontese fu bloccato, fatto prigione,
cacciato, ma il generale Lamarmora accorrendo colla divisione
più vicina sopraffece i ribelli, indarno fiduciosi d'aiuti
dal generale Fanti. Al disastro di una guerra perduta contro lo
straniero s'aggiungeva così la sciagura di un eccidio
fraterno. La città bombardata, sottoposta a stato d'assedio
fu desolata da condanne: l'amnistia che successe a queste, non
esentò nè tutti i più illustri nè tutti
i più innocenti.
Parve che il Piemonte pure avvallasse nella reazione universale.
Infatti il generale De Launay, chiamato a presiedere il ministero,
ispirava per la meschinità aristocratica del carattere e la
nota antipatia agli ordini costituzionali nuove diffidenze. I mali
umori raddoppiavano, i fuorusciti ospitati in Piemonte spingevano a
guerra disperata con diatribe eloquenti a forza di essere
passionate, il sommovimento prodotto in tutte le classi dal doppio
tumulto della rivoluzione e della guerra favoriva il disordine, il
parlamento novizio e composto di novizi, subendo gli influssi della
pubblica opinione, sembrava ubbidire alle irresistibili fluttuazioni
d'una marea, nella quale naufragavano disegni e riputazioni.
Nullameno urgeva anzitutto stabilire le condizioni della pace
coll'Austria. Nessun assetto era componibile mentre gli eserciti
nemici occupavano ancora il suolo della patria, e la
possibilità di una ripresa di guerra permetteva alle
reciproche ostilità dei partiti ogni più pazza o
malvagia speranza. Il ministero deputò negoziatori a Milano
col plenipotenziario austriaco barone De Bruck gli ex-ministri
Buoncompagni e Dabormida. Le trattative furono scabre. L'Austria,
resa arrogante dalla vittoria e intesa con abile politica a sminuire
il Piemonte per togliere all'Italia ogni ulteriore speranza di
riscossa, pretendeva 230 milioni come indennità di guerra, si
restituisse l'antico assetto territoriale non solo pei propri domini
ma per quelli dei duchi di Parma e di Modena, dei quali si vantava
mandataria, si abrogasse la legge pel sussidio a Venezia ancora
assediata e si catturassero tutte le navi mercantili, che le
recassero soccorso. I buoni uffici di Francia e d'Inghilterra
invocati dal Piemonte non bastarono a piegare il vincitore. Intanto
Vincenzo Gioberti mandato oratore a Parigi, lasciandosi abbindolare
dal ministro Drouyn de Lhuys accettava che la Francia per impaurire
l'Austria occupasse militarmente Genova: rimedio peggiore del male e
che al disastro di un nemico ancora accampato sul territorio della
patria aggiungeva l'intervento pericoloso di un nuovo padrone. Il
ministero sardo sostituì il Gioberti col Gallina, che
rifiutata l'insidiosa proposta potè ottenere finalmente dalla
Francia alcune minacce all'Austria, se questa si ostinasse a
pretendere l'annichilimento del Piemonte.
Questo bastò. Alla pubblica opinione sovreccitata dalla
incessante battaglia dei partiti e dal dolore dell'occupazione
nemica, che facevano persino sospettare delle intenzioni del
governo, si diè qualche conforto sostituendo il D'Azeglio al
De Launay nella presidenza del ministero. Nessuno aveva allora in
Piemonte tanta popolarità quanta il nuovo presidente,
simpatica figura di gentiluomo e di artista, di soldato e di
politico, che la tormenta della rivoluzione e la seguitane
carneficina delle migliori riputazioni non avevano potuto guastare.
Il trattato si conchiuse: per esso si mantenevano fra i due stati i
medesimi confini stabiliti dal congresso di Vienna, anzi il Piemonte
si avvantaggiava presso Pavia sino al canale Gravellone,
l'indennità di guerra era ridotta a 75 milioni, l'Austria
aboliva l'ultima sopratassa del 1846 sui vini piemontesi e i due
stati si promettevano reciprocamente una prossima convenzione di
commercio; otto giorni dopo la ratifica avverrebbe lo sgombro delle
truppe austriache.
L'eroica Venezia veniva abbandonata all'Austria; ai patriotti
lombardi questa prometteva un indulto, e il Piemonte si accontentava
di tale platonica promessa.
Lo stato era salvo, ma l'onore compromesso; nullameno bisognava al
parlamento ratificare il trattato. I comizi erano stati convocati
per il 15 luglio, la Camera doveva riunirsi il 30. Malgrado il
proclama abbastanza eloquente e schietto del re le elezioni furono
disordinate. Il publico fermento seguitava a crescere, l'Austria
trionfante in Toscana e a Venezia, la Francia padrona di Roma, la
tirannide restaurata dovunque, i principi fedifraghi insolenti nel
ritorno, un lutto di oppressi, di feriti, di morti per tutte le
terre d'Italia, impedivano al popolo la calma necessaria alle
difficili decisioni del momento. La libertà costituzionale
del nuovo stato, non ostante le molte proteste del governo e i suoi
stessi sforzi a mantenerla, non ispirava fiducia; l'abbandono
all'Austria del resto d'Italia nel trattato, avvelenando il
cordoglio dei fuorusciti ricoverati in Piemonte, li spingeva ad
eccessi d'opposizione, che la necessaria ed insieme sospetta
resistenza del governo sembrava giustificare. La nuova Camera elesse
presidente Lorenzo Pareto, già ministro, poi uno dei capi
dell'insurrezione genovese; parve una sfida, ma le bizze vanirono
nella rettorica appena sì seppe la morte di Carlo Alberto; il
parlamento sospese le sedute e prese il lutto per quindici giorni.
L'abitudine monarchica vi era dunque più forte del sentimento
rivoluzionario. Poco dopo Giuseppe Garibaldi sbarcato a Genova,
solo, vinto, dopo l'epica difesa di Roma e l'incomparabile ritirata
per le campagne pontificie, fu imprigionato. Il ministro Pinelli
giustificava tale cattura coll'avere Garibaldi preso servizio sotto
la republica romana senza autorizzazione del governo incorrendo
così nella perdita dei diritti di cittadinanza e delle
franchigie costituzionali. Atto codardo, logica assurda in un
ministero presieduto da Massimo d'Azeglio! L'opposizione
parlamentare si levò: l'arresto di Garibaldi significava
molto più che il reazionario Pinelli non avesse pensato
ordinandolo; Massimo D'Azeglio vinto da un voto del parlamento
dovette dimettere Pinelli e liberare Garibaldi. Non pertanto
s'impose all'eroe di scegliere un asilo fuori di stato.
Il rimpasto ministeriale operato dal D'Azeglio non valse a quetare
l'opposizione. Se colla tradizionale ed ora più che mai
benefica ambiguità piemontese, mentre s'imprigionava
Garibaldi e s'abbandonava Venezia all'Austria, si era osato chiamare
al ministero il veneto Paleocapa, illustre emigrato e più
illustre idraulico, accennando così ad un indirizzo nazionale
nella politica, la nomina dei Lamarmora, malviso ancora pel feroce
bombardamento di Genova, a ministro della guerra, sembrò un
guanto gettato all'opposizione. Così la proposta dignitosa di
Cesare Balbo di votare il trattato colla sola protesta del silenzio
fallì. La discussione invece inviperì agli articoli:
il deputato Mellana, forzando la mano ai ministri con intempestiva
ma abile proposta, ottenne che il trattato non si approvasse
«finchè non si fosse per legge provveduto a regolare in
modo conforme all'onore dello stato i diritti di cittadinanza dei
cittadini originari delle provincie annesse per la legge del 1849, i
quali all'epoca del 30 settembre 1849 avevano, e tutt'ora
conservavano, la residenza in questi medesimi stati».
Quest'affermazione d'italianità compensava in certo modo i
tradimenti di Carlo Alberto e l'ultimo inevitabile abbandono
all'Austria delle generose provincie insorte, ma sovvertiva la
costituzione sottoponendo l'approvazione del trattato
all'accettazione di un'altra legge e vincolando il voto del Senato.
L'idea italiana e la tradizione piemontese cominciavano così
quel lungo duello, che doveva costringere il piccolo stato a mutarsi
colla propria sconfitta in regno italico.
Naturalmente il re sciolse la camera dirigendo al popolo il
proclama, che fu poi detto di Moncalieri.
In esso Vittorio Emanuele uscendo dalla mitica
irresponsabilità di re costituzionale fece un caldo appello
all'antica affezione dei sudditi, e li affidò sul proprio
onore che le nuove libertà non correrebbero alcun rischio
nella politica necessaria di quel momento. L'urgenza di ratificare
il trattato di pace per uscire da una situazione che il più
piccolo incidente poteva precipitare nella peggiore delle crisi, si
scoprì finalmente alla publica coscienza: non si badò
all'incostituzionalità del proclama, non si avvertirono le
equivoche minaccie di Massimo D'Azeglio in una lettera ai propri
elettori quasi a commento del proclama e a sciupo della sua buona
impressione: il decreto reale alla vigilia delle elezioni,
facilitante il conseguimento della cittadinanza agli emigrati delle
provincie annesse al regno, parve garanzia bastante al diritto di
questi e all'onore dello stato. E si votò con migliori
intenzioni. Quindi la camera approvò senza discussione il
trattato di pace.
Pochi giorni dopo il Piemonte sgombrato dalle truppe austriache
diventava l'unico stato italiano rimasto all'Italia.
Il problema della sua politica era allora così intricato che
nessuno fra i migliori spiriti avrebbe saputo precisarlo.
Accettando nobilmente lo statuto Vittorio Emanuele aveva
singolarmente aumentate le difficoltà del momento: la
libertà piemontese in tanta furia di restaurazioni
assolutiste sembrava ai più un'anomalìa e a molti un
pericolo. L'Austria designava Torino come ultimo focolare d'incendi,
l'imperatore di Russia troncava con essa ogni rapporto diplomatico,
nella Francia medesima il trionfo momentaneo degli estremi partiti
conservatori, pei quali serpeggiava segreta ed irresistibile la
preparazione imperiale, crescevano l'antipatia al nuovo regno che
scrollato, non rovesciato, dalla guerra si riaffermava francamente
nell'ideale della rivoluzione italiana. Torino era mutata in ospizio
di tutti gl'italiani illustri per ingegno, per prudenza, per
sventura: alcuni fra essi, acquistata la cittadinanza, sedevano nel
parlamento e reggevano persino ministeri; i più lavoravano
modestamente o gloriosamente nelle industrie o nelle cattedre, nei
giornali o nell'esercito. La nuova monarchia, chiudendosi con astuto
coraggio entro lo statuto quasi ultima rocca, doveva però
sapervi vivere ampliandola e fortificandola così che non solo
tutto il popolo piemontese ma il resto d'Italia potesse capirvi a un
dato momento.
L'opposizione dei partiti veniva quindi a rinnovellarsi
inconsapevolmente.
Al dualismo monarchico e repubblicano, che aveva riempito di tumulti
l'estreme ore della rivoluzione succedevano le antinomie
parlamentari delle parti che accettando lo statuto volevano serbarlo
intatto come un'egida, o affinarlo come un'arma contro l'Austria e a
pro' dell'Italia. La tradizione piemontese e l'idea italica,
mascherandosi con ogni più fragile drappeggio parlamentare,
dovevano fatalmente combattersi in qualunque proposta di legge. Pei
vecchi piemontesi lo Statuto concesso da Carlo Alberto per
beneplacito, e conservato da Vittorio Emanuele per
magnanimità non poteva mutare l'assetto politico dello stato;
l'aristocrazia del nome e del censo vi sarebbe rimasta negli aviti
privilegi imperando, quella con più lustro, questa con
maggior comando: il clero conserverebbe nello stato e nella
società l'indiscutibile primazia; il Piemonte abituato da
secoli ad essere il migliore principato italiano, durerebbe sicuro e
felice entro i propri confini abbandonando alla tragica fortuna
della storia il resto d'Italia. La cattiva prova della recente
rivoluzione, che pesava e peserebbe ancora a lungo sul Piemonte,
persuadeva così al suo prudente orgoglio la piccola antica
autonomia colla gerarchia intatta delle classi, cogli ordini
politici inalterati, cogli usi sociali escludenti il popolo da ogni
alta funzione politica. Lo statuto doveva cristallizzarsi in un
ambiente di rispetto religioso e col sottinteso furbesco d'un
egoismo ricusante di slargare i propri privilegi per tema di
maggiori pericoli. Il re costituzionale ridiventerebbe così
re assoluto, servito da una oligarchia parlamentare di censiti:
l'idea democratica, sepolta nella gloria dello statuto, come i
Faraoni in quella delle piramidi, non disturberebbe il facile e
proficuo impero sul popolo. Del governo non restava quindi che
un'amministrazione: il parlamento, anzichè assemblea di
rappresentanti popolari, si riuniva come un collegio di padroni
nello studio dei propri interessi.
Per gli altri costituzionali occorreva invece la consacrazione d'un
nuovo ordine nello stato. Comunque concesso e redatto, lo statuto
affermava la sovranità popolare: il re v'era bensì
parte integrante ma non più superiore; bisognava consultare
il popolo, farlo a poco a poco capace di maggiori libertà,
idoneo a più alti diritti. Lo statuto svolgendosi aveva a
correggersi e ad ampliarsi; era non il presente ma l'avvenire, e non
solo del Piemonte d'allora ma d'un altro possibile Piemonte che
dall'Alpi giungesse all'Adriatico. L'irresistibile senso di
modernità, ond'erano spinti questi più abili
conservatori ad un graduato progresso delle istituzioni, si
spaventava però al solo nome di rivoluzione, mentre questa si
appiattava non vista sotto ogni più anodina riforma, si
scopriva in ogni urto di discussione, s'allargava ogni giorno in
minuti ed incalcolabili mutamenti della vita. Se i vecchi piemontesi
avevano nella loro conservazione dello stato il sottinteso di
mantenerlo immobile per passione di antiche idee e di più
antiche abitudini, e però non erano in fondo che
aristocratici; gli altri parlando sempre d'Italia e di
libertà non osavano precisare a se medesimi l'idea dell'uno e
dell'altra nella necessità d'una nuova rivoluzione nazionale.
Gli estremi partiti clericali e radicali, pari nell'odio e nella
energia, affettavano invece il disprezzo dello statuto: quelli
qualificandolo d'empietà, questi d'ipocrisia: gli uni
accusandolo di negare la religione, gli altri di perdere l'Italia; i
preti minacciavano la dinastia dei castighi di Dio, i mazziniani la
denunziavano alle assise della nazione, affermando in ogni
necessaria contraddizione della sua politica un tradimento. Nessuna
idea era ancora chiara, quantunque l'istinto procedesse già
sicuro.
Le annessioni provocate da Carlo Alberto e ottenute con suffragio
universale a rovescio di quello ristrettissimo dello statuto, il
vessillo tricolore sostituito alla bandiera azzurra dei Savoia, la
costituzione conservata, legavano il Piemonte alla rivoluzione
italiana, mentre l'idea rivoluzionaria costretta ad essere
republicana oppugnava sopratutto il nuovo regno costituzionale.
Così il Piemonte aveva contro di sè tutti i principi
italiani, l'Austria e Mazzini, non trovandosi in questa lotta
disuguale altra arma che il proprio statuto. Bisognava isolare
l'Austria in Europa, annullare col confronto del proprio esempio
tutti i principi d'Italia alzando il principio della monarchia fino
a quello di nazionalità, assorbire dall'eroico ed inorganico
partito democratico tutta la verità della sua idea e
l'inesauribile forza della sua passione per darle corpo in uno stato
costituzionale e nazionale; e ciò venne fatto con processo
sovente inconsapevole, con mezzi quasi sempre contraddittori. Il
risultato ne riuscì anche maggiore delle intenzioni; il
favore delle circostanze dovette compensare molte inabilità
politiche.
Ma le prime difficoltà apparivano terribili.
Anzitutto era d'uopo esistere. Guerra e rivoluzione avevano stremato
il paese, quella rivelando i pessimi ordini dell'esercito, questa
sconvolgendo le idee e scrollando sulle vecchie basi tutti
gl'interessi. Le finanze erano esauste, disfatta la milizia, poche
le risorse, le istituzioni economiche sbaragliate, le politiche mal
certe: bisognava ricreare non ripristinare. La conservazione dello
statuto obbligava il Piemonte ad una preparazione rivoluzionaria
più costosa della guerra passata per potersi rimettere in un
momento ancora imprecisabile alla testa della nazione contro
l'Austria. Ma il paese era povero: aggravandolo di nuove tasse
bisognava schiudergli altre ricchezze; spingendolo sulla via della
rivoluzione conveniva mantenerlo inflessibilmente nell'orbita
monarchica; togliendogli l'entusiasmo democratico si doveva dargli
un'ardente fede monarchica; limitandogli lo sviluppo della
libertà era sopratutto necessario assicurargli in una
prossima rivincita il trionfo della indipendenza nazionale.
Mai problema politico si presentò più avviluppato e
grandioso.
Vittorio Emanuele, malgrado la volgarità della propria
natura, ne assicurava buona parte della soluzione, giacchè
accettando lo statuto non aveva conservato sottintesi. Prode,
fremente della sconfitta, lealmente operoso, era pronto a tutte le
conseguenze di questa prova ancora mal compresa di costituzionalismo
rivoluzionario; nessun principe d'Italia, nessun re d'Europa aveva
forse allora migliori intenzioni di lui e più salda
volontà di mantenerle. Il parlamento incomparabilmente
superiore a quelli di Napoli di Firenze e di Roma, era nullameno
inetto al difficile esperimento. La sua destra, capitanata dal conte
Solaro della Margherita, era ancora più dinastica che
monarchica; lo statuto non le pareva che una prepotenza
rivoluzionaria mantenuta nel governo da una irragionevole
necessità, e della quale bisognava limitare lo sviluppo. La
sinistra, guidata da Brofferio, avvocato, retore sino all'eloquenza,
tribuno e letterato, irrequieto ed impetuoso, nobile ed imprudente,
capace di grandi idee ed inabile nella pratica, democratico
intransigente e non pertanto costituzionale arrendevole, si
componeva di radicali. Fra essi molti fuorusciti diffidenti ancora
della monarchia o feriti dalla rivoluzione spasimavano di rivolta,
pronti a scambiare ogni prudenza di governo per una viltà e
qualunque manovra diplomatica per un tradimento; impazienti nella
preparazione ed eccessivi nei dibattiti, altrettanto ingiusti nelle
accuse quanto magnanimi nelle intenzioni, più italiani che
piemontesi, mentre bisognava essere più piemontesi che
italiani per poter un giorno essere solamente italiani.
La maggioranza governativa, mobile e indeterminata, non avea
programma esplicito. Balbo, ultimo e più illustre fra i
neo-guelfi, rappresentava i vecchi liberali ora incompresi ed
incomprensibili. Alfonso Lamarmora, cavaliere antico, più
nobile di un re e più austero d'un cenobita, era la speranza
dell'esercito, ma fanatico di fede costituzionale non vedeva
l'Italia che attraverso la dinastia. Molti insigni emigrati si
tenevano pronti a servire. Genova era rientrata nella calma, ferita
e pensosa; Torino non comprendeva ancora se stessa, sollevata dal
soffio ardente d'italianità che infiammava tutte le sue vie;
la Sardegna, una volta così importante pel Piemonte, non era
adesso che la sua più remota provincia.
Massimo D'Azeglio governava. Leale e generoso nella nuova pratica
costituzionale, procedeva nullameno lento ed impacciato sentendosi
spinto e temendo d'inoltrare troppo. Una nervosità di artista
gl'impediva la destrezza e la calma d'una politica naturalmente
bordeggiante fra gli scopi per riannodare i rapporti diplomatici con
tutte le potenze e dominare i partiti. Quindi era più amato,
che stimato, si credeva meglio alla sua parola che alla sua forza,
valeva piuttosto nella diplomazia per qualità personali che
nel parlamento per sicurezza di metodo o abilità
d'espedienti.
La prima grossa battaglia parlamentare dopo la legge sulla
ripartizione dei collegi elettorali, che la sinistra osteggiò
per malata diffidenza verso il governo, s'accese per l'abolizione
dei privilegi ecclesiastici. La legge fatalmente rivoluzionaria
discendeva dallo statuto e ne slargava il principio reintegrando la
sovranità civile contro le viete dominazioni del diritto
canonico. I partiti vi si accanirono: la vecchia destra si
schierò francamente all'opposizione; i più
condiscendenti fra essa arrivarono sino ad un nuovo concordato con
Roma, infelice negazione del nuovo diritto statutario che ne avrebbe
sottomesso la parte migliore agli arbitrii della curia papale. La
sinistra si strinse intorno al governo; Roma, che sopportava
l'occupazione francese ed austriaca senza protestare nemmeno alle
esorbitanze dei generali stranieri malmenanti vescovi e paesi,
sentì la minaccia e minacciò. I suoi giornali
politici, guidati dalla Civiltà Cattolica, apersero una
campagna furibonda d'insolenze, nauseante di perfidia. Il ministero
vacillò, scese a tentare accordi: il conte Siccardi fu
mandato a Portici, allora residenza papale, ma indarno. Quindi
D'Azeglio con abile intrepidezza lo chiamò al ministero
commettendogli di presentare al parlamento un disegno coordinato di
leggi sull'abolizione del fôro e delle immunità
ecclesiastiche, sul divieto alle manimorte di acquistare beni senza
l'autorizzazione regia e sulla riduzione delle feste religiose.
Senato e parlamento approvarono, il re sanzionò, il popolo
esultante proruppe a tali eccessi di dimostrazioni che si dovettero
frenare colla forza, mentre la curia inviperita s'abbandonava alle
peggiori escandescenze, negando persino i conforti religiosi al
morente ministro Santarosa. I vescovi di Torino e di Cagliari
vennero imprigionati.
Il conte Camillo Benso di Cavour sostenendo validamente quelle leggi
si mostrò per la prima volta sulla scena politica, che doveva
poi riempire di se stesso; Vittorio Emanuele trovava finalmente in
lui il proprio grande ministro.
Il Conte di Cavour.
Questo torinese era nato (1810) fra le tempeste del primo impero.
La sua casa, una fra le più antiche del Piemonte, aveva
imperato sulla piccola repubblica di Chieri, nella quale componeva
l'eptarchia dei B, i Balbo, i Balbiano, i Biscaretti, i Bruschetti,
i Broglio, destinati agli splendori di una lunga illustrazione in
Francia, i Bertone e i Benso. Razza e parentela erano molto miste;
san Francesco di Sales era un suo antenato; fra i suoi congiunti
più intimi, tutti legittimisti piemontesi e francesi della
più ostinata intransigenza nella fede cattolica ed
aristocratica, brillavano anche dei protestanti svizzeri dallo
spirito colto e di tradizioni liberali. La sua educazione fu quella
della sua famiglia e del suo tempo. A dieci anni entrò
cadetto nell'accademia militare dei nobili, a diciotto ne
uscì ufficiale col solito leggero bagaglio di istruzione, ma
sospetto già ai superiori per aver servito mal volentieri fra
i paggi del principe di Carignano. Poco dopo, le giornate di luglio
a Parigi gli strappano frasi così liberali da meritargli la
relegazione in un forte e da costringerlo a dare le dimissioni.
Giovane, alacre, ignorante ma superbo di confidenza in se medesimo,
si butta agli affari: compra senza denaro una vasta terra, ne muta
la coltura, s'improvvisa agricoltore e sindaco del proprio
villaggio, scruta la vita nei più umili particolari, impara
uomini e cose, mescola relazioni signorili, borghesi e popolane, si
correda di studi pratici, viaggia in Francia e in Inghilterra, non
sospettando ancora se stesso e nullameno scherzando sulla
possibilità di essere un giorno primo ministro d'Italia. Se
scarseggia tuttavia di idee, i suoi istinti sono molti e sicuri:
è un liberale e un aristocratico intento ad assimilarsi la
modernità della borghesia. Le sue opinioni originali per
difetto di coltura derivano dall'esperienza e mirano alla pratica:
l'equilibrio delle sue facoltà mezzane togliendolo al
pericolo delle grandi ascensioni del pensiero lo salva pure dalle
incertezze, anche più perigliose delle discese dai sistemi
alle applicazioni quotidiane della vita reale. Mentre Parigi seduce
in lui il giovine libertino, l'Inghilterra attira già l'uomo
colle meraviglie della sua industria e i miracoli del governo
parlamentare. Involontariamente le sue lettere di viaggiatore
tradiscono il progresso del suo spirito: la politica vi domina, ma
piana, senza ideali e senza sistemi, liberale d'istinti e di metodi,
parca d'entusiasmi, pronta a subire le cose dopo averne valutata la
forza irresistibile, con un'antipatia quasi irragionevole per tutte
le forme ed anche le grandezze rivoluzionarie. La sua sola passione
è la libertà parlamentare misurata da leggi
regolarmente votate, espressa da partiti ordinati, praticata dal
paese come un'abitudine di benessere materiale e morale.
Nella sua ignoranza di ufficiale, di agricoltore, di gentiluomo e di
sindaco, che istruendosi non riflette se non a quanto gli cade
sott'occhio e non mira che ad acquistare nozioni scientifiche
praticabili, la storia e la nazione, che conosce meno, è
quella d'Italia; pensa, parla, scrive in francese. Intravede
confusamente il moto ascendente delle plebi, e improvvisa un
opuscolo volgare di pensiero, povero di dottrina ma sicuro di buon
senso sul modo di combattere lo sviluppo delle idee comuniste;
avverte l'agitazione accresciuta allora dal grande tribuno cattolico
O' Connell in Irlanda contro la tirannia inglese, e temerariamente
in un libercolo, che la sua gloria di statista rese poi celebre,
affronta il problema della conciliazione fra i due paesi con un
sistema di riforme che non sfiorano nemmeno il nocciolo della
questione, ma accennano già alla futura destrezza dell'uomo
di governo altrettanto scarso di principi quanto fertile
d'espedienti, più abile a coordinare una rivoluzione che a
sorprenderne l'idea e a suscitarne le forze.
Se da principio il suo liberalismo è tale da strappargli in
una lettera l'augurio di poter dare persino ai gesuiti il quadruplo
della libertà, che essi concedevano ai popoli sui quali
imperavano; mentre invece tutto l'eroismo dei rivoluzionari lo
lascia nella più perfetta insensibilità, e i prodigi
di pensiero accumulati nei prodromi della grande rivoluzione
federale del 1848 sfuggono alla sua così penetrante
attenzione sino a permettergli di rallegrarsi con Michelangelo
Castelli della caduta della republica romana; presto un implacabile
buon senso lo arresta. Della propaganda e della guerra
rivoluzionaria egli non vede che l'arruffio dei propositi, la
sproporzione goffa dei mezzi, l'inconsistenza degli ordini,
l'inanità tragica e spesso ribalda delle sètte,
l'assoluta mancanza di senno pratico e politico. Il segreto ideale
della rivoluzione gli si nasconde, ma nessuna delle sue chimere lo
inganna. La vecchia società aristocratica, donde è
uscito, non vuole avanzare; la nuova, ove sta per entrare, non sa
ancora procedere.
Mentre Gioberti delira nella lirica filosofica del Primato, Balbo
s'inganna a studiare per l'Italia Speranze di risorgimento fuori
della sua storia e della sua vita, D'Azeglio si conforta e conforta
scrivendo romanzi migliori di patriottismo che di arte, Cavour
nè filosofo, nè storico, nè letterato, non
ancora mescolatosi alla vita pubblica, osserva e critica. Egualmente
lontano dalla rivoluzione e dalla reazione egli è già
un giusto mezzo; ma in questo limbo, ove il pensiero dovrebbe per
forza farglisi dottrinario e l'azione diminuire gradatamente in una
improba inefficacia, il suo spirito operoso si salva collo studio e
collo stimolo degli interessi. Come tutti i veramente forti egli
è paziente. Anzichè scomporsi indarno per inoltrare
sulla scena politica affrettando la propria ora, si mette fra i
fondatori della Società agraria, ne redige gli statuti,
provoca comizi, nei quali sotto pretesto di agricoltura s'aguzza lo
spirito di discussione, e i problemi più vitali si
famigliarizzano anche alle intelligenze volgari; col conte di
Salmour diffonde la istituzione delle Sale d'Asilo, col marchese
Alfieri fonda un club liberale dal titolo inoffensivo di
Società del Whist, commenta i viaggi agronomici del marchese
di Châteauvieux, s'addentra in tutte le questioni finanziarie
senza preparazione di studi economici, guidato dalla luce del
proprio ingegno e ricorreggendolo continuamente nella pratica
universale, s'appassiona a disegni ferroviari, a trattati di
commercio, a istituti di cambio, con una superba trascuranza di ogni
teoria e una sicurezza d'analisi e una costanza di preferenze, che
nel liberalismo economico preparano un più vasto liberalismo
politico.
Mentre intorno a lui la rettorica dell'italianità vaneggia
nelle più sciatte e pericolose pretensioni, a trentasei anni,
nel 1847, prima che la costituzione sia concessa, si preoccupa
già della necessaria abilità parlamentare.
Naturalmente simpatie e modelli sono per lui in Inghilterra. Le
riforme di Robert Peel lo esaltano, la livida minacciosa figura di
Pitt lo ammalia benchè troppo a lui opposta di natura,
Canning, Fox, Burke gl'ispirano il desiderio di quell'eloquenza
infallibile nella misura, nutrita di fatti, altrettanto temuta nelle
repliche quanto ammirata nelle esposizioni, così necessaria
ad un uomo di stato, e che l'inartistica aridità della sua
natura gli contenderà sempre, anche nella foga più
veemente delle battaglie o nella più esuberante prepotenza
delle vittorie.
Nessuno lo sospetta ancora, molti lo dileggiano per quel continuo
vantare le istituzioni inglesi, e lo chiamano milord.
Ma le tempeste dell'azione lo attirano irresistibilmente. Con
D'Azeglio e con Balbo fonda un giornale, il Risorgimento, per
sostenere l'accordo necessario fra popoli e principi; se non che
questa tesi dei riformisti gli si muta improvvisamente fra le mani.
Genova alle prime aure calde del quarantotto manda una deputazione a
Carlo Alberto per chiedere l'espulsione dei gesuiti, e l'antico
paggio del principe di Carignano diventato re, ricordandosi lo
spirito del suo signore, con pronta e meditata temerità
sorpassa i più democratici, e propone si domandi la
costituzione. Questa concessa, mentre la rivoluzione scoppia in
tutta l'Europa e la Lombardia è già in fiamme e a
Torino i più saggi titubano ancora, Cavour insta
perchè si passi subito il Ticino; combatte l'ipocrisia
democratica di subordinare l'unione della Lombardia col Piemonte
alla chimera di un assemblea costituente, sostenendo energicamente
la necessità della loro fusione immediata. Finita la guerra
nei più dolorosi rovesci, non perde la calma e s'oppone a
coloro che vorrebbero pazzamente proseguirla con un esercito
disorganizzato, senza tener conto nè della forza
irresistibile dell'Austria, nè dell'opinione dell'Europa.
Poco dopo Gioberti sale al ministero sul vento di una pericolosa
popolarità e Cavour temendo pel Piemonte un disastro di nuove
follie lo combatte aspramente; ma Gioberti staccandosi dal proprio
partito vuole invece fare del Piemonte uno strumento nazionale per
la restaurazione, riconducendo colle armi il granduca a Firenze e il
papa a Roma, e Cavour ingannandosi questa volta lo sostiene.
Così egli ha già fissa e matura la propria idea: la
rivoluzione deve accadere ma senza nè idee nè mezzi
rivoluzionari portando il Piemonte alla conquista d'Italia. Solo in
tal modo l'unità nazionale sarà possibile. Ma questa
unità per lui non significa che l'espulsione dell'Austria;
dopo l'egemonia del Piemonte farà il resto. Il suo disegno si
arresta alla ricostruzione del primo regno italico. Egli non
immagina nemmeno come disfarsi del granducato di Toscana; il
problema dello stato pontificio gli si presenta insolubile: tutto al
più si potrebbe staccarne quelle legazioni, che gli austriaci
posseggono militarmente; il regno di Napoli così lungi
è appena italiano per lui e non conta nel calcolo della sua
politica. Per ora egli non è che piemontese; l'Italia
sarà una conseguenza del Piemonte.
Quindi nessuno lo comprende.
La sincerità del suo patriottismo ristretto non è
riconosciuta, la temperanza delle sue idee pare insufficienza, la
precisione dei suoi propositi pratici volgarità: gli
aristocratici sospettano di lui novatore, i democratici diffidano di
lui costituzionale, il suo vivo senso piemontese contrasta
all'italianismo effervescente ed insieme profondo dell'ora: nascita,
educazione, concetti, modi, tutto gli è contro. Lo si accusa
di codinismo, lo si isola nell'inazione. Ma la sua fibra si tempra
nei contrasti, l'elasticità della sua natura si raddoppia,
l'infallibile sicurezza del suo buon senso costringe grado grado
alla stima: mentre tutti sono sbaragliati egli solo confida, quando
piazza e corte recriminano egli solo è già inteso alla
nuova preparazione. Qualche cosa dell'antica scienza politica
italiana è rimasta in lui. Se nel patriottismo di Mazzini vi
è del Machiavelli, in quello del conte di Cavour traspare
Guicciardini: per l'uno la politica è una lotta di idee, per
l'altro una guerra di fatti. Per Cavour tutto è mezzo, e il
problema impostogli dalla scena politica va risolto coi dati della
scena stessa; Mazzini fida nei popoli, Cavour non crede alla loro
forza rivoluzionaria e si prepara a destreggiarsi coi governi. Nel
proprio calcolo deve tener conto dell'Europa, nell'azione sorpassare
il Piemonte senza comprometterlo. Così gli occorre anzitutto
il potere, ma in esso bisogna risolvere prima il difficile problema
di una dittatura parlamentare e ministeriale, non esorbitando mai
dalle funzioni e creando la fede nella monarchia col rispetto alla
libertà statutaria. Se ai tempi di Guicciardini nei mezzi
della politica entrava anche l'assassinio, Cavour nel tempo moderno
non potrà che assassinare moralmente l'avversario per meglio
sfruttarne l'opera; ma lo farà con ammirabile perfidia
disonorando Mazzini in faccia all'Italia e accusando Garibaldi
davanti all'Europa. Questa facile e terribile abilità, che
all'ingenuo D'Azeglio strapperà come in un grido di sdegno la
parola: «empio!», congiunta sempre al più
aristocratico disinteresse personale, lo renderà a certi
momenti un enigma per amici e nemici. E la sua ambizione sarà
così bonaria, il suo orgoglio così duttile, la sua
ingratitudine così sensata, il coraggio de' suoi mercati
così malizioso, la prontezza al guadagno così fulminea
che disegni insufficienti o sbagliati gli trionferanno
imprevedibilmente fra mano, mentre il mondo stupito li
crederà concetti nell'infallibilità e il genio de'
suoi stessi avversari ne parrà sopraffatto.
Nessuno come Cavour avrà vivo il senso della realtà.
La sua sfiducia nel popolo italiano è sorprendente di
verità e di costanza: egli solo nella rivoluzione del
quarantotto aveva misurato il vôto di tutte le imprese.
Federazione di principi, egemonia papale, republiche regionali,
insurrezioni municipali, eserciti regolari e milizie di volontari,
tutto gli si era rivelato del pari insufficiente. Tutto era fallito,
e solo il Piemonte restava. Il popolo d'Italia non era nè
rivoluzionario nè guerresco; il popolo non si batteva; tutto
lo sforzo della guerra e della rivoluzione era stato sopportato da
appena trentamila volontari; eroismi parziali non contavano: la
massa dei ventidue milioni, che componevano la popolazione d'Italia,
non s'appassionava nè di rivoluzioni nè di guerra.
L'Italia era incapace di espellere l'Austria liberandosi
contemporaneamente di tutti i principi e costituendosi in republica:
il problema del papato, ora che la Francia vi si era annidata
stanziando a Roma, era peggio che impossibile all'iniziativa
italiana.
La rettorica nazionale malgrado la sublime verità di certi
particolari non aveva fatto presa sullo spirito di Cavour. Nullameno
questo scettico aveva una fede ancora confusa ma salda;
poichè l'Italia incapace di compiere la propria rivoluzione
aveva pure per una necessità dell'assetto europeo a mutare di
condizione e ad essere conquistata, il Piemonte si doveva a questa
conquista. Quindi prima l'indipendenza e poi la libertà;
invece di costituente, annessioni e fusioni immediate, a stimolo di
queste l'esempio della libertà costituzionale; ma siccome il
Piemonte non bastava nè solo, nè aiutato da volontari
italiani a lottare contro l'Austria, bisognava ingrandirlo nella
stima italiana ed europea, aspettando dal caso l'aiuto di
sufficienti alleanze.
Il grido di Giulio II «fuori i barbari!» diventa tutto
il programma del nuovo statista.
Il genio italiano, che aveva delirato in Gioberti risognando col
papa il primato universale d'Italia, e che errava ancora attraverso
l'Europa con Mazzini predicando una impossibile iniziativa italiana
per una terza epoca europea, s'impiccioliva solidificandosi nella
ragione di Cavour sprezzante di ogni sistema, italiano a forza di
essere piemontese, liberale per necessità di conservatore,
rivoluzionario nell'orbita dei parlamenti e delle diplomazie,
conquistatore per influenza di alleanze e per destrezza
manipolatrice degli stessi inconciliabili elementi rivoluzionari.
Nessuno forse in questo secolo lo pareggiò come organizzatore
all'infuori di Napoleone I, e questi lo era in modo diverso.
Così Cavour spiegando nel ministero la miracolosa
attività di Mazzini nella propaganda rivoluzionaria,
prenderà singolarmente e cumulativamente tutti i portafogli:
una inesausta scienza dei particolari lo renderà ammirato e
temuto da subalterni e da avversari senza che la stanchezza fra
tante battaglie parlamentari e brighe diplomatiche lo sorprenda mai
appesantendogli la mano o velandogli l'intelligenza.
Nell'amministrazione anzi brillerà tutto il suo ingegno: in
essa rinnovando tutti i trattati di commercio e mutando arditamente
la politica da protezionista in libero-scambista si mostrerà
rivoluzionario; spingerà il moto ferroviario colla stessa
rapidità e sicurezza di Frère Orban nel Belgio; primo
in Europa, colle finanze sempre stanche e nullameno sempre alacri di
uno stato costretto ad una disastrosa preparazione di guerra,
oserà il grande foro del Cenisio, riprenderà il
concetto di Napoleone I sul golfo della Spezia creandovi il massimo
arsenale piemontese all'ultimo confine dello stato con temeraria e
superba affermazione italiana. La concentrazione nel Piemonte delle
migliori forze nazionali, se non avrà con lui quel largo
concetto di Mazzini, sarà non pertanto un capolavoro di
destrezza e di costanza; l'altalena della sua politica ora
favorevole ai moti di ribellione ora repressiva sino
all'ingiustizia, esprimendo le insufficienze del suo pensiero
davanti alla rivoluzione, rivelerà tuttavia un diplomatico
sempre capace di riguadagnare in nuova combinazione il troppo
concesso durante una crisi inevitabile alle recriminazioni di
governi alleati: ma sopratutto un alto sentimento di libertà
parlamentare e d'indipendenza piemontese lo salverà dalle
quasi inevitabili dedizioni dei piccoli stati costretti a muoversi
nell'orbita delle maggiori potenze.
Mentre Mazzini è prima riformatore che rivoluzionario, Cavour
si presenta subito come un politico di governo, intento ad
ingrandirlo moralmente e materialmente: quelli riassume tutta
l'idealità italiana, questi nè unitario nè
federalista condensa nella propria opera tutta la praticità
possibile, oppugnando anzitutto lo straniero e preparando
nell'inconfutabile superiorità del Piemonte la
possibilità all'Italia di agglomerarvisi in un modo o
nell'altro. Se Mazzini vede più lontano, Cavour vede
più giusto; l'uno vuole l'Italia in una rivoluzione
così liberale che la rimetta alla testa d'Europa con un
miracolo di genio popolare, l'altro riconoscendo impossibile questo
disegno e giudicandone pazzi o criminosi tutti i mezzi, non mira che
all'alta Italia per costituirvi un forte regno del nord che
potrà poi un giorno avvallare oltre il Po. La politica, che
per Mazzini è la sintesi di una educazione spirituale, per
Cavour non sorpassa un calcolo di combinazioni diplomatiche
parlamentari, militari ed economiche; Mazzini vede per l'Italia un
disastro quasi peggiore della divisione in tanti stati e della
servitù allo straniero nella possibilità di
ricostruirsi entro una conquista regia; Cavour pone il proprio
supremo trionfo nel conseguimento della indipendenza dall'Austria e
nella formazione di uno stato parlamentare, che armonizzandosi ai
migliori governi europei fonda la tradizione monarchica colla
libertà popolare, distribuendo equamente il potere fra le
varie classi sociali e limitando al minimo lo spostamento degli
ordini stabiliti.
Ma diffidente della rivoluzione per indole e per ufficio, Cavour
saprà qualche volta osarne le temerità impadronendosi
de' suoi metodi e de' suoi uomini avvolgendosi nelle più
intricate contraddizioni senza che nè l'impresa gli si svii,
nè l'opera gli si indebolisca.
In faccia al problema politico e religioso di Roma Mazzini
appellerà dal Papa al concilio e dal concilio a Dio,
dichiarando morto il papato in nome di una nuova rivoluzione
cristiana: Cavour affermerà da Torino Roma capitale d'Italia,
subordinandone la conquista al beneplacito della Francia e
guarantendo il papato colla formula «libera chiesa in libero
stato». Cavour morirà precocemente nel sogno di
Vittorio Emanuele regnante al Quirinale; Mazzini, che lo
vedrà realizzato, verrà vecchio e sconosciuto a morire
in Toscana profetando con fede sublime la republica in Campidoglio.
Ma l'Italia non si sarà costituita che per l'opera loro;
l'uno sarà stato il suo genio, l'altro il suo intelletto;
questi le avrà inspirato la rivoluzione, quegli le
avrà dato la costituzione; ma la trascendenza di Mazzini e
l'insufficienza di Cavour, egualmente necessarie e fatalmente
antagoniste, non si saranno conciliate che nell'istinto e per
l'istinto di Giuseppe Garibaldi.
Capitolo Terzo.
La politica dell'egemonia
Ministero di Cavour.
Malgrado ogni buona volontà l'opera della ricostituzione
piemontese si scopriva ogni giorno più difficile.
Mentre D'Azeglio usando del proprio ascendente personale
s'affaticava a rifare la situazione diplomatica dello stato, e il
conte Siccardi prendeva l'iniziativa delle riforme ecclesiastiche, e
Alfonso Lamarmora accogliendo nell'esercito ufficiali di tutte le
provincie italiane si dedicava con incomparabile costanza al
miglioramento degli ordini militari, i partiti politici dentro e
fuori del parlamento non avevano ancora trovato il proprio assetto.
Cavour, salito al ministero del commercio, iniziava con prodigiosa
destrezza ogni maniera di riforme economiche, piuttosto sbalordendo
compagni ed avversari che traendosi dietro un partito capace di
sorreggerlo. Le questioni di politica generale si ripetevano ad ogni
incidente, giacchè le frequenti dissoluzioni delle Camere non
avevano bastato ancora a schiarire negli elettori il grande problema
del momento. La destra, subendo la legge sulle immunità
ecclesiastiche, aveva esaurita ogni condiscendenza; l'estrema
sinistra teneva sempre il broncio o declamava; solo al centro
sinistro un forte gruppo capitanato da Urbano Rattazzi, abile
avvocato e più abile parlamentare, che il coraggio di
affrontare al potere le massime crisi della futura rivoluzione
doveva poi rendere illustre, manovrava destramente per accostarsi al
governo.
Il colpo di stato del 2 dicembre 1851, scoppiato in Francia
rovesciandovi la republica, scrollava i piccoli stati vicini.
Napoleone III per proclamarsi imperatore dovette necessariamente
iniziare un'altra reazione. Il Piemonte fra le nuove pressioni
francesi e le costanti minacce dell'Austria, non più
coraggioso della Svizzera, piegò violando l'ospitalità
accordata ai fuorusciti e restringendo la libertà della
stampa. Con una legge improvvisata nella paura si tolse quindi ai
magistrati d'appello, congiunti ai giudici del fatto, i giudizi sui
reati di stampa per offese ai sovrani esteri, e si attribuirono ai
tribunali ordinari colla condizione della richiesta della parte
offesa, affermata ma non esibita dall'accusatore pubblico. Era una
dedizione della miglior parte della sovranità e per la quale
si sottoponeva all'arbitrio di governi esteri la libertà dei
cittadini e dei fuorusciti; i nuovi processi con denuncie estere e
segrete avrebbero tolto ogni rispettabilità alle sentenze.
Nullameno la destra guidata dal colonnello Menabrea pretendeva di
peggio; il centro sinistro s'accostava invece al governo
purchè la reazione non andasse oltre. Cavour con ardita
manovra, profittando dell'assenza del D'Azeglio presidente del
gabinetto, volse le spalle alla destra. L'antico partito savoiardo
rimaneva così distanziato come un battaglione di veterani
incapace di reggere alla fatica di tappe forzate; il nuovo partito
italiano arrivava al potere per scoprire alla nazione il segreto
della grande preparazione piemontese. D'Azeglio, sorpreso e
sorpassato, recalcitrò a questa prepotenza di Cavour, che
avendo già preso i portafogli del commercio e delle finanze,
esautorava con un colpo di stato parlamentare la presidenza del
gabinetto. La dittatura cavouriana cominciava con una combinazione
di partiti, ai quali il conte Revel reazionario dette il nome,
rimasto poi celebre, di connubio. Ma il ministero ne rimase scosso.
Luigi Carlo Farini romagnolo vi era dianzi succeduto nel dicastero
della pubblica istruzione al conte Gioia piacentino, come a
mantenervi il carattere italiano colla propria qualità di
fuoruscito: quindi i clericali costrinsero con una carica disperata
D'Azeglio a nuovi rimpasti per dar tempo ai partiti di
riorganizzarsi. Un Alessandro Pernati clericale toccò un
momento il ministero dell'interno per rendervisi ridicolo con severe
ordinanze sulla chiusura dei fondachi nelle domeniche; ma la
scissura fra Cavour e D'Azeglio, allargandosi ogni giorno, rendeva
necessaria una separazione. D'Azeglio si credette per un'ultima
volta vittorioso col costringere l'abile avversario a ritirarsi,
mentre invece la rivoluzione parlamentare compìta da questo
era già tale che egli solo avrebbe dovuto padroneggiarla.
Infatti allontanandosi momentaneamente dalla Camera per saggiare in
un viaggio a Parigi e a Londra la pubblica opinione sul problema
italiano, Cavour parve anche più necessario di prima: il
ministero D'Azeglio sbattuto dalle istanze insolenti del legato
francese His de Butenval sulla solita questione degli emigrati e
della stampa arenò nella questione del matrimonio civile. La
Camera aveva votato quasi con entusiasmo questa nuova emancipazione
dall'autorità sacerdotale nell'atto più importante
della vita, ma il senato del quale le riforme siccardiane avevano
già consumato il liberalismo, s'impuntò. Roma
tempestava da tempo: la legge sul matrimonio civile raddoppiò
quindi l'accanimento della sua resistenza. Invano il guardasigilli
piemontese fece pompa di dottrina svolgendo in una memoria le
ragioni dello stato nel contratto del matrimonio; più indarno
e peggio Vittorio Emanuele si umiliò al pontefice sino a
chiedergli in una lettera autografa l'assenso alla legge: Pio IX
rispose sprezzante, il cardinale segretario Antonelli eccitò
i vescovi alla rivolta contro la nuova eresia, il partito
aristocratico minacciava, nelle campagne cresceva l'ostilità,
i liberali aspreggiavano le titubanze del ministero, quindi
D'Azeglio si dimise additando in Cavour il solo uomo politico capace
di fronteggiare la situazione.
Questi, benchè anelante al potere, ebbe l'avvedutezza di
lasciare tentare un ultimo esperimento di accordo con Roma da Cesare
Balbo, che naturalmente fallì. Quindi riafferrò con
mano sicura la direzione del governo. Ma risoluto a frangere tutte
le resistenze del partito clericale non volle momentaneamente
rompere l'equilibrio parlamentare col largheggiare verso il centro
sinistro: così mantenne al ministero il Lamarmora, che gli
guarentiva la riorganizzazione militare, il Paleocapa, ingegnere di
grandissimo merito, che rappresentava lo spirito di progresso nelle
opere materiali, e il Buoncompagni calmo e sensato intelletto, che
vi conserverebbe la necessaria misura nella questione religiosa.
Solo qualche mese dopo, per gli accordi stabiliti nel connubio, a
questi successe il Rattazzi.
Il ministero D'Azeglio all'indomani della rotta di Novara era stato
un'amministrazione di tregua; questo di Cavour era una giunta di
combattimento. Infatti Gioberti morente a Parigi nella
povertà di un illustre esilio, quasi profetando, tracciava
nel Rinnovamento civile la strada che si sarebbe corsa per
raggiungere l'unificazione nazionale.
Ormai la reazione paesana era vinta: la resistenza di Roma non
impedirebbe certo il progresso della nuova legislazione.
Quindi Cavour comprendendo «l'impossibilità pel governo
di avere una politica nazionale e italiana in faccia allo straniero,
senza essere all'interno liberale e riformatore», si accinse
febbrilmente a mutare la situazione del Piemonte. Perchè il
piccolo stato potesse sotto l'insidiosa sorveglianza dell'Austria
mettersi alla testa delle speranze nazionali, doveva non solo
umiliare colla propria libertà costituzionale ogni altro
principato italiano, ma spiegando in esiguo quadro tutte le energie
di un grande paese riconquistare la stima dell'Europa con opere
superiori alle proprie forze.
Bisognava anzitutto per salvare il Piemonte farne un istrumento
della rivoluzione nazionale. Le sue finanze oberate dalle spese
della guerra e dell'indennità parevano esauste. Il bilancio
delle sue spese, prima non maggiore di 80 milioni, era salito nel
1849 sino a 216 milioni per fissarsi tra i 130 e i 140. Il paese era
povero di manifatture, scarso a commerci. Invece di restringere le
spese con meschini criteri di economie, che assestando il bilancio
avrebbero lasciato il paese nell'inerzia e nella miseria di ogni
avvenire italiano, Cavour osò raddoppiarle moltiplicando
imposte, debiti ed opere pubbliche per farlo grande. Il suo
bilancio, che nessun finanziere avrebbe potuto approvare, venne da
lui stesso chiamato con frase superba «bilancio dell'azione e
del progresso».
Col coraggio di un ingegno egualmente libero da sistemi e da
pregiudizi, respingendo e correggendo ogni altra proposta,
conquistò sul patriottismo della Camera un certo numero di
tasse minute per 70 milioni, e ne impiegò tosto 200 per la
costruzione delle vie ferrate di Genova, Lago Maggiore, Novara,
Susa, Savoia: sviluppò lo spirito di intrapresa,
ridestò la vita nelle provincie con ogni mezzo di
comunicazione. Quindi, malgrado l'ingrossare del deficit, ridusse la
tassa del sale, compì la riforma delle tariffe postali. Una
fede incrollabile nei miracoli della libertà e del lavoro lo
sosteneva: però miglior uomo di stato che economista
contraeva debiti per aumentare la somma circolante di denaro a
favore delle industrie, e cresceva loro le tasse per stimolarle con
sapiente gradazione a migliore attività, mentre colla
rinnovazione libero-scambista di tutti i trattati apriva nuovi
sbocchi alla produzione e annodava relazioni diplomatiche capaci un
giorno di frutti politici. Per questo riguardo il suo trattato colla
Francia, dalla quale sentiva la necessità di comprare a
qualunque prezzo simpatie politiche, fu più scarso pel
Piemonte di vantaggi materiali che non quello coll'Inghilterra. Ma
come tutto ciò non bastasse, prodigava denaro all'esercito su
ogni istanza del generale Lamarmora, muniva Casale, fortificava
Alessandria, riforniva magazzeni, aumentava i quadri delle milizie.
Un'incomparabile attività si ridestava nel Piemonte: Torino
formicolava d'insigni fuorusciti; nelle scuole ogni giorno cresceva
il numero delle cattedre; l'orgoglio nazionale si rianimava alla
fede, che il ministro mostrava nel paese.
Pochi anni dopo la rotta di Novara nessuno sapeva più
riconoscere il vecchio Piemonte. Il parlamento assorbito
nell'unità di una politica altrettanto varia nei mezzi che
fisa in una sola idea, sempre destra negli espedienti e fertile nei
risultati, non era più che una maggioranza docile ed operosa:
l'estrema destra vi si mostrava in rari fossili, l'estrema sinistra
in pochi declamatori. Un forte partito liberale sosteneva il
ministro, anche sembrando talora osteggiarlo. Tutto piegava presto o
tardi sotto lo sforzo della sua ferrea volontà.
La rivoluzione indigata nella costituzione avanzava rapida e sicura.
Naturalmente se nella politica estera tutta l'abilità era
usata a conquistare simpatie per mutarle in alleanze, in quella
interna le difficoltà dovevano venire dai rapporti con Roma.
Questa cresciuta a centro della reazione austriacante combatteva in
Torino la nuova capitale morale d'Italia, giovandosi delle questioni
religiose per sconvolgere la coscienza popolare divisa fra esigenze
cattoliche e speranze italiane. Ma Cavour, cogliendo con pronta
intuizione la necessità di tagliar corto ad accordi
impossibili, spinse alacremente le riforme. Le leggi sul matrimonio
civile, sulla riorganizzazione dei beni ecclesiastici, sulla
soppressione degli ordini monastici mendicanti, incalzarono
vivamente la curia vaticana. La rottura fu clamorosa, le lotte in
parlamento e in paese animatissime. Tutti sentirono confusamente che
si combatteva una suprema battaglia: sovranità civile e
potere ecclesiastico, chiesa e stato, dopo un duello di quindici
secoli erano agli ultimi colpi: nella vittoria dello stato trionfava
la nazione, nella sconfitta del Vaticano Torino, provvisoria
capitale d'Italia, salvava il diritto di Roma, eterna, futura
capitale d'Italia.
Mentre i reazionari si scalmanavano contro queste leggi nell'ingenua
convinzione di salvare da esse il cattolicismo, e i radicali si
estenuavano a spingere il ministero in una guerra religiosa contro i
preti per vendicare i millenari dolori inflitti all'Italia dal
papato, Cavour nè rivoluzionario, nè reazionario,
cattolico in fondo alla coscienza, di quell'indefinibile
cattolicismo che transige coi dogmi riconoscendoli, dominava la
battaglia col motto d'ordine - Libera chiesa in libero stato. -
Questa formula indeterminata gli diede la vittoria. Lo stato invece
di dichiararsi più alto della chiesa si affermò
più vasto, e la contenne. Matrimonio civile, abolizione degli
ordini mendicanti, riorganizzazione di una parte dell'asse
ecclesiastico furono votati. Ma Cavour arrestò la
soppressione degli ordini monastici ai più inutili, e
s'oppose all'incameramento dei beni ecclesiastici. La sua coscienza
di liberale rifuggiva dall'idea di un clero salariato e quindi
assoldato dallo stato; la sua fede di cattolico non ardiva risalire
all'antica idea cristiana del clero vivente colle sole elemosine dei
fedeli.
Pio IX e il cardinale Antonelli, dopo aver maltrattato gli
ambasciatori del Piemonte durante la guerra, gettarono alte grida
nella rotta: il pontefice diramò un'enciclica e lanciò
la scomunica; il cardinale pubblicò un sordido libello contro
i ministri sardi, al quale rispose con dignitosa eloquenza Massimo
D'Azeglio.
Cavour uscì ingrandito dalla lotta.
Oramai il Piemonte doveva combattere colla stessa
impossibilità di transazione Austria e papato: la sua
egemonia sull'Italia conquistava così un riconoscimento
unanime.
Alcune sventure domestiche, malvagiamente interpretate dal clero
come castighi divini, diedero quindi alla dinastia una più
nobile aureola di dolore: la fede al ministro si mutò in
fanatismo pel re, cui il popolo diede l'incredibile nome di
galantuomo. E fu meritato.
Intanto l'Austria, esasperata dalla crescente fortuna del Piemonte,
esagerava l'oppressione nelle Provincie del Lombardo-Veneto pei moti
del 6 febbraio 1853 in Milano. Dopo aver nauseato l'Europa colla
quantità e colla ferocia dei supplizi, violando ogni giure
internazionale sequestrò i beni degli emigrati divenuti
piemontesi per naturalizzazione. Il conte di Cavour, cui l'infelice
tentativo mazziniano veniva a disordinare i lenti ma sicuri approcci
della nuova politica monarchica, fu questa volta inferiore a se
stesso nell'improvvido zelo di persecuzione spiegato contro i
rivoluzionari a richiesta dell'Austria: chiuse le frontiere
piemontesi ai fuggiaschi, imprigionò, sfrattò,
deportò, svillaneggiò a mezzo della stampa
ministeriale illustri patrioti con sì ribaldo accanimento da
provocare nobili proteste a loro favore persino nell'esercito
tutt'altro che rivoluzionario. Francesco Crispi, oggi (1888)
presidente dei ministri, fu allora fra gli espulsi; Benedetto
Cairoli, primogenito di cinque fratelli che dovevano poi diventare i
Maccabei dell'imminente rivoluzione, anch'egli salito più
tardi alla presidenza del ministero, venne condannato a domicilio
coatto. L'odio al partito mazziniano spingeva l'illustre ministro a
disonorarlo con ogni mezzo nell'opinione d'Italia a benefizio del
Piemonte. Nullameno, compiuto l'atto malvagio, pensò tosto a
sfruttarlo col denunziare all'Europa la ingiustizia dell'Austria nei
sequestri sui beni degli emigrati, e col troncare con essa le
relazioni diplomatiche. L'Italia, sbigottita nella propria novella
fede monarchica dallo spietato trattamento del Piemonte verso i
ribelli, si riconciliò immediatamente coll'ambiguo ed ardito
ministro. I patrioti malmenati e dispersi non ottennero nemmeno la
solita pietà per tutti i vinti: il ministro dell'interno
Ponza di San Martino si vantò alla Camera d'aver fatto
sequestrare a Genova una risposta di Mazzini prima che stampata,
subornando con denari gli stampatori.
La profezia di Cesare Balbo, che la pace del 1849 fra Piemonte ed
Austria sarebbe un semplice armistizio, pareva realizzarsi, quando
il conte di Cavour memore dell'antico Scipione osò per meglio
combattere l'Austria entrare momentaneamente nella sua alleanza
coll'Inghilterra e colla Francia contro la Russia.
Guerra di Crimea.
Dal 1815 al 1848 la Russia aveva sempre rappresentato nella Santa
Alleanza la maggior forza materiale, il più arcaico
assolutismo politico. Pronta a rovesciare mezzo milione di soldati
ovunque scoppiasse una rivoluzione, aveva nullameno secondata quella
di Grecia contro il sultano nel disegno secolare di conquistare la
sublime Porta: più tardi alla rivoluzione del quarantotto
scrollante tutti i troni essa sola rimase salda; ma per quanto la
situazione europea le fosse propizia, colla Francia sconvolta dalla
republica, l'Austria in preda alle sommosse, la Prussia disordinata
da ribellioni, la Germania assorbita nella dieta di Francoforte,
l'Inghilterra isolata ed incerta, non osò gettarsi sulla
Turchia. Parve che l'imperatore Niccolò si preoccupasse:
anzitutto, di salvare il principio monarchico: quindi soccorse
l'Austria contro l'Ungheria, e minacciò tutte le rivoluzioni
congedando persino il legato sardo da Pietroburgo. Ma col ritorno
della pace lo rimorse il desiderio della conquista. L'idea russa lo
traeva irresistibilmente ad accaparrarsi la sovranità di quei
Principati Danubiani, che la Turchia aveva già cominciato a
cedere da tempo con una mezza emancipazione e un incerto
protettorato. Quindi la questione, così detta d'Oriente, si
riaccese: tutte le diplomazie europee n'andarono sossopra.
L'Inghilterra, costretta alla rivalità colla Russia
nell'Asia, intese a frenarla in Europa; questa col vanire
dell'impero ottomano entro una conquista russa perdeva ogni
equilibrio politico. L'Austria, eteroclita federazione di popoli
antagonisti riuniti nella servitù dell'antica dinastia
Asburghese, si sentiva minacciata dall'espansione slava, che avrebbe
riaccese le ribellioni appena spente infiammandone altre; la Francia
tornata all'unità imperiale con Napoleone III, e però
smaniosa di riprendere in Europa la perduta preponderanza, vedeva
con terrore estendersi un impero già occupante mezza Europa,
e che affacciandosi al Mediterraneo vi avrebbe incontrastabilmente
dominato. La Grecia invece si preparava con patriottica esultanza a
un'altra guerra contro i turchi.
Le preparazioni s'allungarono, corsero trattative, si tesserono i
soliti imbrogli diplomatici per guadagnar tempo. La Russia
minacciava la guerra al sultano come a difesa dei cristiani
disseminati e soggetti all'impero turco: le potenze occidentali
invece dichiaravano questo ancora barbarico impero necessario
all'assetto europeo malgrado tutti i recenti principii
rivoluzionari. Per una delle solite antitesi storiche la Russia
ieratica della Santa Alleanza diventava improvvisamente fautrice dei
popoli e vessillifera della rivoluzione; Francia ed Inghilterra, la
nazione dell'89 e la patria della libertà parlamentare, si
facevano d'un tratto sostenitrici della più ribalda ed
arcaica tirannide contro la civile emancipazione di popoli
cristiani.
Dopo tanti secoli i discendenti delle crociate si preparavano a
morire per la salvezza dell'impero maomettano; ma la guerra
determinata da ragioni di storia universale non doveva produrre
grandi risultati immediati. L'Austria, ristabilitasi per l'aiuto
della Russia, nicchiava ora alle sollecitazioni francesi ed inglesi
per gettarsi forse meglio sulla preda maggiore o dal canto del
più forte: Napoleone III trascinato dalla tradizione militare
bonapartista ad avventure militari secondava l'Inghilterra atterrita
per l'avvenire delle proprie colonie asiatiche; l'uno e l'altra,
incapaci a sostenere coll'immane potenza russa una guerra
così lontana, corteggiavano l'Austria numerosa di soldati e
accampata sul confine del nemico.
Ma questo precipitando gl'indugi occupa (3 luglio 1853) i principati
Danubiani e poco dopo a Sinope assale la squadra turca: Francia ed
Inghilterra gl'intimano indarno lo sgombero dei Principati entro un
mese con un ultimatum del 27 febbraio 1854; poi il 12 marzo si
alleano alla Turchia guarantendole l'integrità del territorio
in Asia e in Europa e non chiedendole in ricambio che di non
scendere a trattative col nemico senza il loro consenso. Il 10
aprile a Londra le due grosse potenze stipulano un secondo trattato
di alleanza per ristabilire su basi durature la pace fra la Russia e
la Turchia, valendosi di ogni mezzo più efficace a liberare
il territorio del sultano dall'invasione straniera e ad assicurare
l'integrità dell'impero ottomano. Laonde dichiaravano di
rinunciare a qualunque conquista nell'interesse dell'equilibrio
europeo e di essere pronte ad accogliere nella loro alleanza
qualunque altra potenza europea.
Quest'ultima dichiarazione era una riserva ed un complimento per
l'Austria, che rispose colle solite tergiversazioni di non potersi
cimentare ad una guerra d'Oriente coll'Italia alle spalle pronta ad
insorgere per istigazione del Piemonte. L'argomento abbastanza buono
per sè trasse le due grandi potenze a trattare l'Austria come
il sultano assicurandole l'incolumità di tutte le sue
provincie.
Il Piemonte aombrò. Il suo legato a Parigi nel leggere queste
assicurazioni all'Austria sul giornale ufficiale credette di doversi
lagnare per la sospettata lealtà del Piemonte; gli si rispose
ipocritamente coll'accusare il partito rivoluzionario italiano, ed
egli ribadì l'accusa. Ma l'Austria anche così
garantita, proseguendo nel giuoco di stancheggiare le diplomazie per
meglio accreditare i propri timori del Piemonte, fece proporre dal
governo toscano all'inviato inglese in Firenze una temporanea
guarnigione di truppe austriache in Alessandria. La grossolana
manovra fallì, specialmente per opera di James Hudson,
ambasciatore inglese a Torino, che smentì a Londra i
denunciati apparecchi del Piemonte.
Nullameno questo sentivasi minacciato. Così ad una improvvisa
domanda dello stesso ambasciatore, se il Piemonte fosse mai per
partecipare alla guerra mandando nella Crimea un corpo di esercito,
il conte di Cavour annuì prontamente. La sua penetrazione di
statista gli scopriva nella temerità la sola via della
prudenza: ma ritorcendo contro l'Austria il giuoco diplomatico,
chiedeva garanzie per l'indipendenza del Piemonte. L'ardita idea
parve poco dopo arenare nelle secche della diplomazia. Francia ed
Inghilterra nell'invito al Piemonte non avevano mirato che a
decidere l'Austria coll'assicurarle la pace in Italia. Infatti i
ministri inglesi Clarendon e Russell, proponendo più tardi al
governo sardo l'accessione al trattato del 10 aprile, intendevano
patteggiare con un subalterno, del quale l'esercito sarebbe
stipendiato e comandato dal generalissimo britannico. Cavour, solo
al ministero nell'idea di così temeraria avventura,
cansò con nobile avvedutezza il pericolo anche maggiore di
questa umiliazione, pretese trattamento d'alleato, e mutò il
soccorso inglese di due milioni di sterline in un prestito al 3%.
Pure le difficoltà crescevano. La pubblica opinione avvertita
del trattato, vi si chiariva contraria: i vecchi piemontesi se ne
sdegnavano come di una follia rivoluzionaria, i rivoluzionari invece
come di un tradimento all'Italia per lo sperpero delle vite e del
danaro italiano fuori di essa e nell'alleanza indiretta dell'Austria
ancora ostinata nei sequestri sui beni degli emigrati. Una scusa
italiana era necessaria a questa guerra; quindi il ministro degli
esteri generale Dabormida fu inflessibile sull'aggiunta di due
articoli al trattato, che obbligassero anzitutto le potenze alleate
ad ottenere dall'Austria la revocazione dei sequestri e a prendere
più tardi in considerazione nel futuro trattato di pace le
condizioni d'Italia.
Era giusto, ma impossibile diplomaticamente.
Gli emigrati, per iniziativa di Achille Mauri, con magnanima
abnegazione firmarono una lettera, nella quale chiedevano di essere
trascurati per l'interesse d'Italia; Francia ed Inghilterra, intente
a trascinare l'Austria riluttante, non osavano accettare simili
condizioni: finalmente la cancelleria austriaca in un nuovo trattato
(2 dicembre 1854), così ambiguo che le riserbava libera
azione nella guerra e i maggiori diritti ad ogni probabile negoziato
di pace, mentre rigettava sulle altre due potenze tutto il peso
della guerra, le rese impossibili. Ma nemmeno qui finirono le ambagi
tedesche; si dovette tenere una grande conferenza a Vienna per un
tentativo di componimento colla Russia, che abortendo per l'opera
subdola dell'Austria permise a questa di esimersi dalla cooperazione
delle armi. Così la guerra non pareva più che un
ostinato capriccio della Francia e dell'Inghilterra. Nonpertanto
l'Austria restava loro alleata.
La posizione del Piemonte peggiorava. Se l'Austria coll'invocare
contro di esso la garanzia della Francia e dell'Inghilterra lo aveva
di primo tempo esposto alle ostilità di una coalizione
europea, ora il Piemonte ritirandosi dalla guerra come l'Austria
avrebbe trovato contro di sè tutti egualmente nemici. La sua
crescente importanza in Italia ne sarebbe scossa, le nascenti
simpatie in Europa mortificate. Cavour lo comprese. Comunque
l'impresa fosse per riuscire profitterebbe al Piemonte; se l'Austria
rimanesse inerte, il piccolo stato la soverchierebbe colla gloria di
aver ardito concorrere in tanta guerra europea; se spingendo
all'estremo la propria perfidia si alleasse colla Russia, la
questione italiana scoppierebbe spontaneamente.
Ma osando bisognava abbandonare ogni riserva.
Vittorio Emanuele lo aveva confessato francamente al duca di
Grammont, legato francese; il ministro Dabormida più generoso
si ostinava nei due articoli addizionali: Cavour soppresse articoli
e ministro assumendo anche il portafoglio degli esteri e presentando
il trattato alla Camera. La lotta parlamentare fu così
violenta che il ministro per vincere dovette scoprire la corona,
già moralmente impegnata colle due grandi alleate, e
solleticare il patriottismo della sinistra col parlare degli
interessi della nazione invece di quelli del Piemonte. Lo czar
sdegnato aveva già dichiarata la guerra al Piemonte prima che
le Camere ratificassero il trattato.
L'opinione pubblica, incerta fra l'entusiasmo e la paura, fremeva:
Mazzini da Londra mandò un infelice manifesto ai soldati per
spingerli alla rivolta chiamando la loro impresa una deportazione.
Il 21 aprile 1854 il corpo di spedizione salpò da Genova; nel
maggio era già attendato sotto Sebastopoli. La guerra mal
disegnata, peggio condotta per gelosia di comando fra i generali
inglesi e francesi e per contraddizioni di propositi politici negli
stessi governi, volgeva al termine. Dopo una serie di errori, che
avevano sollevato a sdegno la pubblica opinione inglese contro i
ladroni dell'amministrazione militare e l'arrogante insufficienza di
lord Raglan, generalissimo imposto dalla corte, le truppe alleate
stringevano d'assedio la terribile fortezza. L'Austria occupati i
Principati Danubiani, spiava coll'arma al piede: Kossuth, il grande
agitatore ungherese rifugiatosi a Costantinopoli, tentava invano
secondato da Omer Pascià, il migliore generale turco, una
sollevazione di patrioti contro di essa. Gli alleati in questo
concordi, non volevano guerra di popoli per timore di nuove
rivoluzioni; quindi fiaccarono prontamente la Grecia insorta,
disdissero la Polonia, contraddissero alle aspirazioni dei
Principati.
La guerra, ormai concentrata sopra Sebastopoli, era mortificata da
sventure di ogni sorta. Triste l'inverno, più triste
l'estate, malsano il clima, colèra e tifo imperversanti.
Alfonso Lamarmora, generalissimo dei piemontesi, seppe conquistarsi
tosto nel consiglio di guerra la dignità di voto non
assicuratagli dai trattati di Cavour. In tanto sfacelo di ordini la
sua piccola truppa, appena un quindicimila uomini, parve un
capolavoro: i soldati, consci di difendere l'Italia in quelle plaghe
lontane e frementi di rivalità colle famose milizie
d'Inghilterra e di Francia, si copersero di gloria. Alle prime
arroganze di lord Raglan, che pretendeva assegnargli come a
subalterno ausiliario dell'esercito britannico il posto da
presidiare, il generale Lamarmora rispose con orgoglio tranquillo
facendo radunare il consiglio di guerra e ottenendo di guardare
Kadikoi, villaggio pericoloso, dal quale i russi potevano sboccare
nel mezzo delle trincee nemiche.
Quindi la guerra precipitò. Il generale Pelissier, succeduto
al Canrobert con ordine di prendere la fortezza a qualunque costo,
raddoppiò di vigore ed ammassò tutte le forze contro
la torre di Malakoff, massimo fra i baluardi di Sebastopoli: i russi
guidati da Gortschakoff avanzarono verso la linea della Cernaia per
costringere il nemico ad abbandonare gli approcci. All'alba del 16
agosto 1855 i russi protetti dalla nebbia discendendo dal colle
Makensie, assalirono violentemente: difendevano la valle della
Cernaia le milizie sarde e circa quindicimila francesi: questi
piegarono sulle prime, poi sostenuti dai piemontesi ressero
all'assalto. Era battaglia e fu vittoria decisiva. Lamarmora aveva
vinto salvando gli assedianti, resistendo, respingendo con un pugno
di uomini tutto lo sforzo della Russia.
La vergogna di Novara era cancellata.
A distanza di secoli la vittoria di Traktir pareggiava quella di
Zama: Scipione aveva liberato Roma in Africa, Lamarmora riscattava
l'Italia in Crimea; nessun'altra vittoria della lunga storia
italiana, fra le molte ottenute fuori d'Italia, potrà mai
paragonarsi loro per l'arditezza dell'idea e la grandezza dei
risultati politici.
Tre settimane dopo la torre di Malakoff rovinava fulminata dalle
artiglierie francesi, e i russi evacuavano Sebastopoli dopo averla
incendiata secondo il loro barbaro patriottismo.
La guerra tornò a languire. Le perdite erano enormi da ambo i
lati: la Russia contava seicentomila morti, la Francia oltre
centomila. Napoleone III contento della vittoria, che gli otteneva
vero riconoscimento d'imperatore da tutti i grandi stati d'Europa,
non intendeva spingersi oltre nel pericolo di una guerra, che poteva
sviare da un giorno all'altro; l'Inghilterra, rassicurata
sull'incolumità della Turchia, era stanca; l'Austria, dopo
aver perfidamente nicchiato durante la grande impresa, stimò
giunto il momento di trarne profitto imponendosi arbitra fra i
belligeranti.
Quindi con prepotente iniziativa sottopose ai gabinetti di Parigi e
di Londra alcune proposizioni di pace: neutralità del mar
Nero chiuso a tutte le navi da guerra e aperto a tutte le bandiere,
rinuncia della Russia al protettorato dei Principati Danubiani che
ricadrebbero con nuovo assetto sotto quello della Turchia, libero il
commercio del Danubio sino alla foce, limitato il dominio russo alla
sponda sinistra del fiume stesso, guarentigie dalla Turchia pei suoi
sudditi cristiani. Francia ed Inghilterra annuirono: la Russia
vinta, piegò all'impreveduta intimazione austriaca.
L'armistizio si concluse il 1^o febbraio 1856; il congresso europeo
a Parigi era indetto pel 25 dello stesso mese.
Congresso di Parigi.
Dopo tanto armeggio diplomatico e tanta guerra di armi, l'Austria
giganteggiava arbitra della situazione. La magnifica temerità
del conte di Cavour conchiudeva contro di lui. La democrazia
esasperata denigrava adesso nel disastro dei risultati la
magnanimità delle intenzioni, giacchè la guerra
d'Oriente immorale, costosissima di sangue e di denaro, aveva
conculcato ogni principio di rivoluzione e di civiltà per la
sola difesa d'inconfessabili interessi materiali. L'astro di Cavour
sembrava tramontare: si buccinava che il Piemonte sarebbe escluso
dal congresso, il pericolo anche troppo probabile di questa
umiliazione avrebbe ridotto l'impresa di Crimea ad un parricidio per
il Piemonte.
Ma il conte di Cavour pronto al riparo aveva già consigliato
a re Vittorio Emanuele un viaggio in Francia e in Inghilterra, che
si mutò in trionfo: le simpatie alla causa italiana
crescevano, l'Europa cominciava a sentire la grandezza morale del
piccolo stato. Ad una enigmatica ed allora scettica frase di
Napoleone III «que peut-on faire pour l'Italie?» che al
D'Azeglio era sembrata come quella di Pilato «quid est
veritas?» il conte di Cavour, sempre inteso ad annodare col
proprio incomparabile ascendente personale relazioni politiche in
favore dell'Italia, rispose in una lunga lettera del 21 gennaio
1856, dieci giorni innanzi alla segnatura dei trattati di pace. In
essa chiedeva all'imperatore d'indurre l'Austria a rendere giustizia
al Piemonte, osservando gli obblighi con esso contratti e
persuadendole meno aspro governo nelle provincie del
Lombardo-Veneto; di frenare l'anarchica tirannide del re di Napoli e
di ristabilire in Italia l'equilibrio del trattato di Vienna collo
sgombro delle truppe austriache dalla Romagna, e colla costituzione
delle Legazioni sotto un principe secolare.
Questo disegno così povero d'italianità e nel quale il
grande liberalismo unitario doveva necessariamente riconoscere un
tradimento dell'idea nazionale, fu nullameno scartato dal conte
Walewski, primo ministro francese, per riguardi all'Austria e per
non complicare il lavoro già difficile del congresso.
La politica piemontese procedeva di smacco in smacco. L'Austria,
abusando della propria preponderanza, pretendeva di escludere il
Piemonte dal congresso quale potenza di second'ordine, poichè
il trattato d'alleanza firmato audacemente da Cavour come non aveva
assicurato al Lamarmora la dignità di un posto nel consiglio
di guerra, così non aveva guarentito al Piemonte
parità di trattamento al congresso di pace. La tradizione
diplomatica era ostile all'ammissione della Sardegna, stato
minuscolo, alleato fatalmente secondario che non avendo deciso la
guerra non poteva stabilire la pace. Ma l'astuto ministro
superò il Lamarmora guadagnando a forza di maneggi la propria
entrata al congresso. La prontezza del pensiero, l'a proposito delle
osservazioni, un tatto fascinatore, gli ottennero ben presto nel
solenne consesso simpatie ed importanza: con generosa avvedutezza
egli sostenne la Russia contro le pretese intrattabili dell'Austria,
sedusse lord Clarendon, persuase a Napoleone III e al conte
Walewski, presidente del congresso, di toccare malgrado ogni
impossibilità di procedura al problema italiano.
Un Memorandum era già stato presentato ai ministri francesi
ed inglesi.
Tutto lo scopo dell'impresa di Crimea si condensava pel Piemonte in
questa presentazione al congresso della questione italiana;
naturalmente il congresso non potrebbe parlarne che platonicamente,
ma il Piemonte otteneva così il riconoscimento della propria
egemonia sull'Italia; e questa uscendo finalmente dal cerchio
tempestoso delle insurrezioni saliva a quello più fecondo dei
governi. Tutta la destrezza del conte di Cavour bastò appena
per vincere le difficoltà che l'Austria moltiplicava per
sottrarsi a tale discussione. In un congresso per una guerra
combattuta contro tutti i principii di libertà e di
nazionalità, il miglior argomento per Cavour era la propria
politica francamente liberale ma risolutamente antirivoluzionaria:
il suo spietato contegno contro gl'insorti pei moti del 6 febbraio
in Milano, la sua prudenza nella questione religiosa con Roma, la
sua guerra al mazzinianismo, gli ordini ammirati ed ammirabili
costituiti nel Piemonte, gli valsero il permesso di parlare
dell'Italia ad un congresso, nel quale l'Austria primeggiava. Si
credè o si finse di credere che i suoi propositi fossero non
già per una rivoluzione ma contro una possibile rivoluzione
italiana.
Infatti le sue proposte avrebbero piuttosto nociuto che giovato
all'Italia: le fruttò invece moltissimo l'aver sollevato il
suo problema interno a problema europeo.
Durante la discussione, alla quale il conte Buol plenipotenziario
austriaco si ricusò e dalla quale i legati russi finirono per
ritirarsi, il conte Walewski fu guardingo e rispettoso per lo stato
pontificio, giacchè il papa aveva in quei giorni tenuto a
battesimo il principino imperiale, limitandosi ad auguri di
componimento fra sudditi e principi italiani; il generale Manteuffel
prussiano si mostrò scettico e riservato, il solo lord
Clarendon condannò impetuosamente i governi papale e
borbonico additandoli al disprezzo d'Europa. La sua foga fu tale che
per poco non ne nacque aspro diverbio col conte Buol, anzi corsero
fra essi tali frasi che non si vollero affidare al protocollo. Il
conte di Cavour illudendosi, malgrado la solita perspicacia,
sull'appoggio dell'Inghilterra in una guerra immediata contro
l'Austria, spinse più oltre l'attacco; ma una visita a
Napoleone e un'altra a Londra lo guarirono dell'illusione.
Naturalmente il congresso si limitò ad inutili consigli di
minore tirannide all'Austria e al re di Napoli: quindi al suo
sciogliersi Cavour presentò al conte Walewski e a lord
Clarendon un memoriale, ove riassumendo tutti gli esposti argomenti
minacciava l'Europa di nuove perturbazioni rivoluzionarie italiane
per gl'insoffribili trattamenti dei governi reazionari verso i
sudditi, e lamentava ancora una volta l'insostenibile posizione
fatta al Piemonte fra le indomabili agitazioni mazziniane e le
pressioni minacciose dell'Austria.
In tutta l'Italia l'opera del conte di Cavour al congresso di Parigi
parve di vittoria: fioccarono indirizzi al grande ministro, crebbero
le dimostrazioni verso il Piemonte. I toscani mandarono all'abile
diplomatico un busto scrivendovi sotto il fiero verso di Farinata: A
«colui che la difese a viso aperto». Non si
avvertì e non si potè avvertire quanta insufficienza
d'idea italiana e quale abbandono di patriottici propositi
importassero i disegni esposti da Cavour nel Memorandum col quale
non osava nemmeno domandare lo sgombero degli austriaci dal
Lombardo-Veneto. Bastò alla coscienza nazionale il fatto non
piccolo che un congresso di diplomatici avesse condannato tutti i
governi dell'infelice penisola. Si comprese che il Piemonte come
stato non poteva usare il linguaggio nè proporre la
rivendicazione della patria coll'eroica ed intransigente formula di
Mazzini; s'indovinò che, qualunque fossero i suoi disegni pel
futuro, aveva dovuto allora non solamente mascherarli ma
nasconderli; si sentì sopratutto che parlando in nome
d'Italia contro tutti gli altri governi in un congresso, al quale
essi non potevano entrare, il Piemonte iniziava quell'unificazione
della patria attribuitagli da Manin.
A conferma di questa interpretazione il conte di Cavour, non
contento delle frasi pronunziate alla camera contro gli ostinati
oppositori della sua politica, spezzando i vecchi metodi diplomatici
pubblicò per le stampe il proprio memoriale come una sfida:
l'Austria presa al laccio fu pronta a rispondere in egual modo con
un altro più insolente, mentre tutti i governi condannati
tacquero come riconoscendo in essa il proprio difensore.
Il conte di Cavour abilmente non replicò.
Adesioni al Piemonte.
Evidentemente la sua politica cominciava a fruttare. Mentre il
grande partito democratico capitanato da Mazzini proseguiva
indomabile nell'opera rigeneratrice della coscienza nazionale, il
Piemonte, pur combattendolo e serbandosi impassibile dinanzi ai
dolori della patria, allargava la propria influenza. La nazione
incapace d'insorgere al grido di Mazzini si rivolgeva consolata a
questo governo parlamentare così forte da parlare all'Europa
d'una politica italiana.
L'epoca eroica del metodo rivoluzionario era consunta: un'altra
più fortunata ne cominciava.
Molti fra i più illustri rivoluzionari l'intesero, e
chiudendosi in cuore i magnanimi ideali democratici, pensarono di
aiutarla malgrado le sue inevitabili contraddizioni forse più
dolorose dei martirii sofferti. Al grande distacco parve primo Manin
nobilmente esule e silenzioso a Parigi da molti anni. Poichè
John Russell, uno dei migliori statisti inglesi, a proposito
dell'insurrezione greca nel 1854, consigliava gl'italiani a tenersi
tranquilli sotto l'Austria, perchè solo così questa
avrebbe potuto un giorno essere più umana verso di loro, con
sdegno eloquente Manin respinse il prono consiglio per riaffermare
anche una volta il diritto alla fede nella libertà e
nell'unione d'Italia; quindi facendosi interprete del pensiero di
molti disperati in cuor loro del programma mazziniano, sospinto da
Giorgio Pallavicino, il venerato martire dello Spielberg,
coll'assenso di Garibaldi più capace d'ogni altro a giudicare
della potenza rivoluzionaria d'Italia, lanciò il nuovo verbo
in una serie di lettere politiche che fecero il giro di tutta la
stampa europea. La sua doppia formula: «Italia e Vittorio
Emanuele - Indipendenza ed Unificazione», era la consacrazione
dell'egemonia piemontese. Il passo era così decisivo che per
nessun avvenimento si sarebbe poi potuto ritrarsene. «Io
repubblicano - egli scrisse a Lorenzo Valerio nel settembre 1855 -
pianto il vessillo unificatore. Vi si rannodi, lo circondi, lo
difenda chiunque vuole che l'Italia sia. Il partito repubblicano
dice alla casa di Savoia: fate l'Italia e sono con voi; se no,
no». E ai costituzionali dice: «Pensate a fare l'Italia
e non ad ingrandire il Piemonte; siate italiani e non municipali, e
sono con voi; se no, no». Poi scende a spiegare la parola
unificazione: «Io dico unificazione - scriveva - e non unione
o unità; perchè la parola unità sembra
escludere la forma federativa, e la parola unione sembrerebbe
escludere la forma unitaria. Un'unificazione; può esser
unitaria o federativa. L'unitaria può essere monarchica o
repubblicana. La federativa non può essere che repubblicana:
monarchica non sarebbe che una lega di principi contro i popoli.
Accetto la monarchia, purchè sia unitaria: accetto casa
Savoia, purchè concorra lealmente ed efficacemente a fare
l'Italia».
Fu uno strappo nel grande partito rivoluzionario, che Manin
accusò ingiustamente in una lettera di fondarsi
particolarmente sulla teoria del pugnale. Così lo si rendeva
responsabile delle solitarie vendette, e gli si toglieva
nell'opinione d'Europa la poca stima rimastagli dopo tanti rovesci
d'insurrezioni e tante calunnie di governi. Mazzini ferito al cuore
rispose con lettera intenerita e severa, sfolgorante di logica e di
fede, ma non potè impedire lo sbandarsi di molti fra i
migliori del partito, nè ristabilire nelle masse la
confidenza distratta dal nuovo programma di Manin.
Nullameno questo programma così logico appariva pochissimo
pratico.
La mossa politica di Manin nel passare dalla repubblica alla
monarchia, dalla iniziativa rivoluzionaria alla direzione regia,
siccome trascinava alla dedizione di quasi tutto il partilo liberale
così non poteva conservare ad esso vero programma. La
saldezza degli ordini liberali era oramai indiscutibile nel
Piemonte, la sua facoltà d'iniziativa più che provata
al congresso di Parigi. Ma la sua politica di destreggiarsi coi
governi per cercarvi un alleato contro l'Austria lo costringeva
fatalmente alla rinunzia di ogni affermazione unitaria italiana. Il
Piemonte non poteva sognare che la conquista del Lombardo-Veneto,
sola regione limitrofa in mano allo straniero e che potesse venire
annessa senza rivoluzioni.
Quindi Manin, tracciando il programma della nuova Società
nazionale fondata a Parigi contro il grande partito nazionale
riordinato da Mazzini dopo la caduta di Roma, cadde nelle più
misere contraddizioni. La sua bella affermazione di libertà e
di unificazione italiana per mezzo del Piemonte, concluse a
«continuare l'agitazione in Italia, diffondere l'idea
nazionale, esigere dai napoletani e dai siciliani l'esecuzione delle
costituzioni del 1848 ed organizzare il rifiuto delle imposte; i
toscani e i popoli dello stato pontificio sottoscrivere petizioni
pel ristabilimento delle costituzioni abolite; i lombardo-veneti
agitarsi come meglio potranno, prepararsi agli eventi, non fare
alcuna sommossa che non abbia probabilità di rivoluzione.
Appena scoppiata la rivoluzione, chi ne è alla testa proclami
Vittorio Emanuele re d'Italia e convochi un'assemblea nazionale
italiana, che rappresenti l'Italia insorta e possa, in caso di
esitazione o ritardo per parte del Piemonte, continuare l'opera del
riscatto, usando tutti gli elementi di forza che può
somministrare la nazione».
Così l'unificazione d'Italia diventava impossibile in questo
sogno rinnovato dei riformisti e dopo la tristissima esperienza
delle restaurazioni.
Del problema di Roma non altra parola che questa da Manin:
«Roma non si muova». Egli sentiva bene che Roma era il
cardine della rivoluzione italiana, e che la sua questione risorgeva
sempre improvvisa su tutte le altre; ma republicano veneto, che non
aveva osato applaudire alla republica romana e aveva trattato col
papa a Gaeta, non osava nemmeno ora la proclamazione di Roma
capitale d'Italia.
Nullameno l'efficacia della dichiarazione di Manin fu immensa. Tutti
coloro che aspettavano un illustre esempio per passare dal campo
disperato della repubblica in quello trincerato della monarchia
piemontese, si affrettarono sulle orme dell'esule glorioso contro il
quale nessuna accusa era possibile. Se il congresso di Parigi aveva
riconosciuto l'egemonia del Piemonte all'estero, Manin la consacrava
all'interno; il suo programma naturalmente assorbito da quello di
Cavour, non era più che l'ultima eco della grande
declamazione rivoluzionaria.
Alla Società nazionale di Parigi, che alla morte di Manin (22
settembre 1857) perdette naturalmente d'importanza, ne corrispose
un'altra a Torino per opera del La Farina, republicano preso
recentemente nell'òrbita di Cavour come un satellite. Con
essa si mirò a disciplinare entro metodi ed intenti regi quei
republicani che dietro l'esempio di Manin s'arrendevano alla
monarchia piemontese pur conservando maggior larghezza di propositi
e più italiano ideale.
Invano Mazzini e Cattaneo, l'uno unitario, l'altro federalista,
sostennero con pari nobiltà d'ingegno e di fede la tradizione
republicana contro la tradizione regia: invano accusarono il
Piemonte di conquista, sperando così sollevare contro di esso
gl'istinti democratici moderni; più invano con logica
inesorabile e stile luminoso esumarono tutti gli errori e i
tradimenti di casa Savoia, e cacciando con feroce pietà la
penna nelle ferite ancora sanguinolenti aperte da Carlo Alberto nel
corpo della nazione italiana tentarono sottrarla al fascino della
nuova illusione monarchica: storia e vita davan loro torto. L'ultima
tradizione italiana era regia. Da quando le signorie tramontando nei
principati e questi nei regni l'Italia si divise in quattro o cinque
stati, dei quali la Sardegna e le due Sicilie soltanto ebbero vera
importanza, il Piemonte dominando la valle del Po ed essendo a
contatto con tutta la maggiore varietà di spiriti e
d'interessi italiani rappresentò l'Italia in Europa. Le
guerre e le catastrofi incessanti invece di rovinarlo lo ampliarono:
esso solo fu stato militare ed indipendente. Le due Sicilie,
maggiori di territorio e di popolazione, vissero e soffrirono quasi
straniere al resto d'Italia. La rivalità storica di questi
due stati si era risolta colla rivoluzione del '48: il Piemonte col
mantenere lo statuto aveva assunto di costituire l'Italia
conglomerandola in un solo grosso regno. Tre secoli di storia
esprimevano questa tendenza monarchica, giacchè le ultime
repubbliche di Venezia e di Genova erano perite nella peggiore
inanizione, e quelle improvvisate dalla grande rivoluzione francese
erano state una conquista altrettanto straniera che violenta.
L'ultima grande tradizione italiana era regia; in essa si verificava
il passaggio dalla forma federale all'unitaria colla forma
obbligatoria della conquista. Che se gl'istinti e i principii
democratici moderni sembravano contrastare a questa fatalità,
la storia abituata da tempo a procedere per contraddizioni si
serviva di essi come di elementi piuttosto atti a difendere il
vecchio edificio italico che a dare forma al nuovo: la democrazia
nell'imminente rivoluzione italiana doveva essere idea ed avvenire,
la monarchia tradizione e forma.
Quindi Cavour crebbe gigante nell'opinione universale.
La sua politica non mirava che all'espulsione dell'Austria dal
Lombardo-Veneto: nel Piemonte governo, camere, costituzione, secondo
un motto giusto e spiritoso, tutto non era più che il conte
di Cavour. L'opposizione del conte Solaro della Margherita e del
Brofferio, dell'estrema destra e dell'estrema sinistra, passavano
nell'aria satura di passioni politiche senza determinarvi il
più piccolo scoppio. La dittatura parlamentare del grande
ministro si consolidava ad ogni scossa, saliva sempre più
alto ad ogni discussione, come quei picchi che paiono alzarsi
all'occhio del viaggiatore che vi si inerpica. La lunga pratica e la
facile natura avevano identificato il conte di Cavour col Piemonte:
vi reggeva tutti i ministeri, vi assorbiva tutte le idee, vi dava
tutti gli ordini, vi portava tutte le responsabilità.
Metternich, vecchio ed esule dalla politica, diceva di lui:
«L'Europa non ha più che un diplomatico e questo
è contro di noi». Alessandro Manzoni con più
fine penetrazione seguitava: «Egli ha tutto dell'uomo di
stato, le prudenze, e le imprudenze».
Alere flammam, era la sua divisa. Il Piemonte già povero ed
ora più impoverito dalla guerra di Crimea e dalla
preparazione ad una guerra maggiore, pareva a tutti oramai incapace
di altre temerità economiche; ma Cavour, profittando della
sottoscrizione aperta da Manin a Parigi per cento cannoni da
regalarsi alla fortezza d'Alessandria, ne raddoppiava le opere
militari, le riallacciava a quelle di Casale e di Valenza sul Po:
sarebbe la prima barriera contro l'Austria e salverebbe il Piemonte,
dando tempo al suo alleato di accorrere. Così fu. Il Piemonte
è la regione più montanara d'Italia, ma questa il
paese più marittimo d'Europa, e quindi ha d'uopo d'un grande
arsenale. Cavour risuscita quindi il concetto napoleonico della
Spezia, allora ai confini del piccolo regno, e vi prodiga milioni,
avventurandovi il massimo arsenale dello stato. Il Piemonte aveva
già sbalordito l'Italia per lo sviluppo delle proprie
ferrovie: nullameno Cavour, secondato da Paleocapa, confida primo
nel genio di Sommeiller e vuole stupire l'Europa forando il
Moncenisio.
Tutto piega alla sua volontà. In questa febbre d'iniziativa
il suo scopo più immediato è di esautorare la
rivoluzione. Accetta i cento cannoni per Alessandria dalla
sottoscrizione aperta a Parigi da Manin e permessa da Napoleone III,
perchè torna a gloria del nuovo partito nazionale e accenna
già ad un non lontano accordo colla Francia; ma si oppone
tirannicamente ad un'altra aperta dai mazziniani per diecimila
fucili da offrirsi alla prima città capace d'insorgere:
bersaglia di sequestri incessanti il giornale repubblicano Italia e
Popolo: profitta dell'attentato di Agesilao Milano contro re
Ferdinando di Borbone e dell'infelice moto insurrezionale di
Francesco Bentivegna in Sicilia, per disapprovare tutti i disegni
rivoluzionari e gittare replicatamente sul partito republicano ogni
più orribile accusa; prodiga persecuzioni poliziesche,
sguinzaglia la stampa contro Mazzini, contrapponendo astutamente lo
splendore dei propri risultati al suo fecondo e segreto lavoro, la
regolarità della propria preparazione diplomatica e
parlamentare alla necessaria anormalità della sua propaganda
rivoluzionaria; mescola ignobili arbitrî a replicate
affermazioni liberali, mescendo alla nazione, nel vino del nuovo
entusiasmo monarchico, il veleno d'una diffidenza sprezzante contro
le più grandi anime republicane intese a mantenere nelle
ultime congiure la passione patriottica necessaria fra non molto ad
integrare con ribelli iniziative i suoi stessi disegni di guerra
falliti.
È la grande vigilia monarchica. Il partito republicano sta
per morire. Il Lombardo Veneto si è acquetato, le Romagne
sempre agitate si calmano, gli ultimi tentativi nella Lunigiana
hanno conchiuso ad una insignificante follìa: nel Piemonte
l'opposizione si volge appena distratta ad ascoltare qualche brano
di declamazione parlamentare verso le alture dell'estrema sinistra:
Garibaldi ansioso di nuova e vera guerra ha disapprovato gl'inutili
ammutinamenti con frase più terribile di tutte le
insinuazioni cavouriane: «Ingannati ed ingannatori!».
Genova sola, patria di Mazzini, fermenta. Se Torino è la
capitale della rivoluzione monarchica, Genova è la capitale
della rivoluzione republicana. Quindi Carlo Pisacane, esule,
illustratosi nella difesa di Roma, vi concepisce una suprema
spedizione per sollevare le due Sicilie, sventandovi le mene
murattiane ed impadronendosi di mezza Italia per controbilanciare
così l'influenza monarchica del Piemonte. La polizia
piemontese non sa nè sorprendere la congiura nè
impedire la spedizione. Allora Mazzini tenta di sollevare Genova
contro il governo piemontese, per sostenere con nuovi invii di
armati l'impresa di Pisacane; senonché tutto gli fallisce e
la sommossa conclude alla occupazione di un solo fortilizio colla
morte di un solo sergente, mentre il battaglione di Pisacane
è massacrato a Sapri.
Cavour, al quale lo smacco del suo grande avversario avrebbe dovuto
bastare, sembra invece perdere la solita prudenza. Quasi dubbioso
della sicurezza dello stato, sfoggia rigori, cerca a morte
gl'innocui ribelli, li ammassa nelle carceri, impalca un enorme
processo per alto tradimento, conduce una sozza campagna di calunnie
contro gli accusati. L'opinione lo seconda, ma questa volta egli,
così abile a maneggiarla, vi si ferisce. La persecuzione
salva i ribelli dal ridicolo; Mazzini sfuggito per miracolo agli
agguati della polizia, rimbecca da Londra le contumelie; le violenze
infamanti del pubblico accusatore e le servili parzialità dei
giudici durante il processo mutano il collegio della difesa in
un'accademia di tribuni, che alla propria volta accusano il governo
e possono appaiarlo con quello di re Ferdinando, allora egualmente
occupato a disonorare i superstiti compagni di Pisacane; finalmente
le truci sentenze, che condannano Mazzini ed altri cinque alla pena
di morte, finiscono di compromettere il governo nella stima degli
onesti. Nullameno le condanne a morte, per un resto della solita
abilità, non colpivano che i soli contumaci; per gli altri si
era abbondato negli anni di galera.
Contemporaneamente Cavour mandava l'ex-ministro Boncompagni ad
ossequiare Pio IX, che tentava un viaggio nelle Romagne (1857), per
arrestarvi colla propria presenza il progresso delle idee liberali.
Il grande ministro piemontese s'impiccoliva ogni qualvolta per
necessità della propria politica s'affrontasse coll'idea
republicana. Se Mazzini, trascinato dall'antica rivalità col
Piemonte, commetteva uno dei soliti errori, tentando di sollevare
Genova in aiuto di Pisacane, invece di ribellare piuttosto Livorno o
qualche altra città di uno stato reazionario per non mostrare
di cominciare l'attacco dall'unico governo liberale d'Italia;
Cavour, scendendo a persecuzioni peggiori delle borboniche contro di
lui, mentre nella politica interna si umiliava indarno a Pio IX e
nell'esterna subiva il disegno di Napoleone III per un secondo regno
murattiano nelle due Sicilie, scopriva il lato debole della propria
italianità.
L'eccesso della reazione fu tale che le elezioni generali, seguite
poco dopo, diedero un pericoloso sopravvento ai clericali: a Genova
certo avvocato Bixio, una nullità reazionaria, riuscì
eletto contro Giuseppe Garibaldi; molti canonici entrarono in
parlamento; il conte Solaro della Margherita trionfò
contemporaneamente in quattro collegi. Il vecchio Piemonte risorgeva
contro il nuovo Piemonte italiano, per tentare una suprema rivincita
dopo otto anni di sconfitte. Cavour dimise dal ministero
dell'interno il Rattazzi, e ne assunse egli medesimo il portafoglio,
raddoppiando coraggiosamente la propria responsabilità per
meglio resistere al nuovo assalto.
Fortunatamente i tempi maturavano con benefica rapidità, e i
successi nella diplomazia estera riavvaloravano il ministero
scrollato dalle imprudenze commesse all'interno.
Poichè la pace del 30 marzo 1856 aveva lasciato molti punti
indecisi nella questione d'Oriente, e la loro questione facevasi
ogni giorno più difficile coll'Austria sempre più
ostile, e la Francia sempre più condiscendente alla Russia,
Cavour si assunse destramente la parte di paciere. Favorì
l'unione della Moldavia colla Valacchia, secondo il principio di
nazionalità contro l'Austria; conquistò le simpatie
dello czar, al quale concesse una specie di diritto costante di
rifugio in pieno Mediterraneo nella rada di Villafranca;
s'affaccendò a mantenere l'Inghilterra unita alla Francia per
averle più probabilmente entrambe favorevoli; ma sopratutto
corteggiò in Napoleone III le tendenze avventuriere e la
tradizione bonapartista, che lo traevano inconsciamente d'impresa in
impresa.
Così rifece con lui un disegno di ricostituzione del primo
regno italico con due principi francesi regnanti a Firenze e a
Napoli. Mazzini era sempre stato l'unità; Cavour non era
ancora l'unificazione d'Italia.
Capitolo Quarto.
L'opposizione rivoluzionaria
Disfatta del mazzinianismo.
In questo periodo l'opposizione rivoluzionaria riassunta con eccelsa
grandezza personale da Giuseppe Mazzini si sdoppiò: la parte
migliore proseguì infaticabile nell'opera contro tutti i
tiranni d'Italia; l'altra, più sistematica ed intransigente,
si torse contro il Piemonte, che mirando ad una egemonia sull'Italia
veniva a contraddire fieramente principio democratico e forma
republicana. Naturalmente lo sforzo maggiore dell'opposizione come
partito fu contro il Piemonte. Nella guerra all'Austria e nell'odio
alla reazione indigena convenivano quanti italiani avessero
coscienza di patria mentre nell'idea della futura Italia tutti i
partiti si urtavano. Il fallimento della grande rivoluzione
federale, comprendendo anche la formula mazziniana, dava sovra essa
un forte vantaggio alla nuova affermazione monarchica del Piemonte
serbatosi costituzionale malgrado ogni rovescio. La tradizione regia
e la tradizione republicana in lotta da molti secoli per il primato
nella storia italiana si accingevano ad una suprema battaglia in
quest'ultima preparazione rivoluzionaria. Da un canto stavano
costumi, interessi, ordini costituiti di classi, gerarchie di ogni
tempo e di ogni maniera: era in una parola tutta la vecchia Italia,
che, sentendo i tempi novelli, voleva risorgere a vita politica di
nazione, rimutando in se stessa solo quel tanto, che fosse
strettamente necessario alla propria ricostituzione. Dall'altro
urgeva lo spirito moderno rinnovato dalla grande rivoluzione
francese intendendo il ricostituimento d'Italia nell'abolizione di
tutti i privilegi storici e coll'avvento del popolo al governo.
Capitanava la tradizione regia il conte Camillo di Cavour, guidava
l'opposizione rivoluzionaria Giuseppe Mazzini.
Forse mai nella lunga storia italiana vi fu lotta più grande
di principii politici e di passione drammatica.
Alla caduta di Roma, Mazzini, tardi, con pochi amici, quasi
dimentico del proprio pericolo, riprese la via dell'esilio. Tutto un
mondo era franato su lui, ma egli ne dominava la ruina, dalla quale
l'Italia emergeva a stento come un immenso cadavere. La reazione
trionfante risaliva su tutti i troni d'Italia, si rassodava sui
vecchi troni d'Europa, aveva persino trascinato la republica
francese a rovesciare la republica romana per spianare la strada ad
un secondo impero napoleonico. L'eroico tentativo di Giuseppe
Garibaldi, cacciatosi con quattromila uomini fra gli Appennini per
chiamare gl'italiani ad una suprema riscossa, si era esaurito nella
più infelice delle ritirate: il generale stesso, profugo e
cercato a morte, aveva potuto scampare a stento fra la ressa delle
pattuglie nemiche e l'accidia disperata del popolo.
Mazzini riparò al solito nella Svizzera.
Di là con lettera fiammeggiante di sdegno scrisse ai ministri
francesi per la maggior parte consapevoli strumenti di reazione
imperiale, denunciò all'Europa con accento di profeta le
intenzioni liberticide di Luigi Bonaparte, rispose all'enciclica di
Pio IX. Con una foga di attività, cui i disastri sofferti
parevano sprone, fondò a Losanna un nuovo giornale, l'Italia
del Popolo, e vi riagitò, instancabile cavaliere della
libertà, tutte le idee della democrazia, moltiplicando
intrepidamente gli avversari con attacchi simultanei a tutte le
scuole socialiste, redigendo con spaventevole sobrietà la
cronaca del dispotismo italiano, riannodando le rotte file delle
società segrete a ripreparare nel fervore delle battaglie
recenti più vaste congiure. A Roma aveva lasciato Giuseppe
Petroni, republicano stoico ed oscuro che una prigionia ventenne
illustrò poi, perchè Roma fosse centro ai nuovi
propositi italiani: ma Roma era di tutta Italia la città meno
incline per natura e per storia a passioni di rivolte democratiche.
Dalla Sicilia, da Napoli, dalle Romagne, dai Ducati, dalla Lombardia
sopratutto, gli giungevano voci frequenti di ribellione. Pareva che
tutto il popolo fremesse ancora, nascondendo nel riposo della
sconfitta più fiera preparazione di guerra. E Mazzini sempre
fisso nel concetto di una rappresentanza popolare, prende sul serio
l'atto (4 luglio 1849), col quale gli avanzi dell'Assemblea romana
si erano spontaneamente costituiti in una specie di frammentario
parlamento nazionale senza mandato e senza sede.
Con esso crede possibile mantenere in Europa un'affermazione
politica nazionale: quindi riassorbe questo introvabile parlamento
in un comitato, del quale naturalmente rimane dittatore. Il primo
manifesto (settembre 1850) in nome del comitato nazionale, equivoco
a forza di essere conciliante, non parla che d'indipendenza, di
libertà e d'unificazione come scopo, e ne pone a mezzi la
guerra e la costituente: presso a poco la formula, che pochi anni
dopo pronuncierà Daniele Manin. Ma piemontesi e lombardi
fusionisti urlano all'utopia demagogica, mentre i repubblicani puri
vi ravvisano sdegnosamente un atto di abdicazione e di
piemontesismo. Il prestito nazionale italiano per dieci milioni di
lire, da lui ideato ed emesso con cartelle segrete, non raggiunge
che una somma ridicola: tutti i governi d'Italia vegliano sulla
propaganda mazziniana, tutti i governi d'Europa tempestano di
domande l'Inghilterra perchè espella il pericoloso agitatore.
Ma egli, sempre maggiore apostolo che politico, al problema italico
aggiunge quello di Europa, e con Ledru-Rollin, Arnoldo Ruge e Darasz
fonda il comitato democratico europeo per riunire in un solo
programma le forze e gli ideali divergenti della democrazia
continentale: poco dopo si allea con Kossuth per prendere l'Austria
fra due fuochi, smarrendo così nell'immensità di un
disegno sempre crescente quel senso della realtà immediata e
quel criterio esatto dei mezzi, che fanno della politica una scienza
piuttosto d'azione che di pensiero.
Se non che all'urto delle contraddizioni scoppianti in seno al
partito stesso nazionale, Mazzini, costretto a precisare meglio il
proprio programma, rispiega la bandiera republicana, e torna
coll'incrollabile fede del popolo a risognare una rivoluzione di
congiure. Il suo ideale democratico, svaporando, lascia nuda
l'inguaribile miseria del disegno rivoluzionario. I maggiori capi
l'osteggiano. Maestri, illustre economista, scorato, sconsiglia
Mazzini dalla lotta per ritornare all'innocua propaganda dei libri;
Montanelli, ancora esaltato di republicanismo, lo accusa di
piaggiare il Piemonte; Cattaneo, che sulle prime aveva riconosciuta
valida la costituzione in parlamento nazionale degli avanzi
dell'assemblea romana, ostinato nell'idea del federalismo italiano,
si isola iracondo nella scienza: Cernuschi declama sulla
necessità di republicanizzare Mazzini; Sirtori, l'eroe della
difesa di Venezia, si dimette geloso dal comitato nazionale; Manin a
Parigi si chiude in un silenzio di disapprovazione; Garibaldi erra
povero ed abbandonato per le Americhe; Giuseppe Ferrari discende
nella lizza per scrivere un libro violento di critica, paradossale
nella forma, ammirabile di penetrazione, nel quale, soffiando su
tutti i sogni rivoluzionari, sostiene che l'Italia per risorgere
deve farsi scettica e francese. E tale scetticismo non sarebbe poi
stato che l'abbandono di tutte le formule idolatriche così
mazziniane che papali, mentre la Francia sola poteva col proprio
intervento integrare tutte le insufficienze dell'Italia alla
rivoluzione. Così il grande filosofo della storia concordava
inconsciamente nell'idea e nell'opera di Cavour. Ma Ferrari,
dominato dai propri studi storici, restava federalista. La
disgregazione del partito mazziniano aumentava di giorno in giorno:
alla fede crescente nel Piemonte corrispondeva una sfiducia sempre
più sconsolata nell'efficacia del programma rivoluzionario.
Cesare Correnti, spirito fine e carattere oscillante, esprimeva per
tutti questa incertezza politica colla formula scettica
«nessun programma: ecco il nostro programma».
D'altronde il partito monarchico piemontese spingeva alla
dissoluzione del partito republicano con ogni mezzo. I giornali
ministeriali con perversa abilità vilipendevano in esso
uomini, idee, intenzioni, risultati: si seminava lo scetticismo, si
dipingeva il partito come una setta, si confondevano ad arte i
migliori patriotti coi ribaldi fatalmente assoldati o più
fatalmente ancora penetrati nelle sue file, si spezzavano le
riannodate congiure per compiangerne i martiri e calunniarne i
proscritti. Nicomede Bianchi, diventato poi utile storiografo
raccogliendo in vasta opera i materiali diplomatici per la storia
moderna d'Italia, scrisse sulle Vicende del mazzinianismo un libro
inane e velenoso, che nullameno nocque gravemente al partito:
Bianchi-Giovini scaricò sovra questo grossa parte del proprio
odio al papato; il Gallenga si fece corrispondente del Times, allora
massimo fra i giornali inglesi, per vituperare l'opera degli esuli
italiani; Carlo Pisacane, generoso ed intelligente ufficiale, che
aveva ben meritato della difesa di Roma, si staccò da Mazzini
per seguire Proudhon: Ausonio Franchi, dialettico poderoso, che di
prete divenuto razionalista doveva poi dissolvendo ogni stazione del
proprio pensiero ridiventare prete, nella Religione del secolo XIX
sgretolava con critica penetrante la formula fondamentale di Mazzini
Dio e popolo. Altri republicani nobili ed austeri, come l'Anelli e
il Vannucci, che aveva scritto l'ammirabile libro sui Martiri
italiani, si rifuggivano negli studi o instavano più poco
nella battaglia; giovani soldati come Giacomo Medici, o politici
come Emilio Visconti-Venosta subivano già l'ascendente
piemontese e si preparavano a disertare il campo.
Nullameno Mazzini resisteva.
Cacciato indegnamente dalla Svizzera per le pressioni di tutti i
governi, da Londra dirigeva con prodigiosa energia il moto
rivoluzionario. Nulla lo atterriva, nulla lo stancava; la sua fede
reagiva sull'evidenza di ogni fatto contrario; la sua passione gli
mostrava nell'orgasmo di pochi magnanimi un fermento irresistibile
di tutto il popolo. Giovanni Battista Carpaneto, console sardo a
Tangeri, ove aveva ospitato Garibaldi esule e derelitto, tentando
una pubblica sottoscrizione per fornirgli un minuscolo bastimento
mercantile, col quale potesse guadagnarsi la vita, non era riuscito
che a venderne tre azioni; il prestito nazionale non era andato
molto più oltre; ma questi due sintomi umilianti non
scoraggiavano l'indomabile agitatore. Genova era la capitale dei
rivoluzionari; Nicola Fabrizi, severa figura di soldato e di
patriota, degna di campeggiare fra gli eroi di Plutarco, rifuggitosi
dopo la caduta di Roma in Corsica e quindi in Malta, organizzava le
congiure nel mezzogiorno; a Milano altre società politiche
ricostituitesi malgrado il terrore della polizia ripreparavano altre
giornate; Mantova era centro alle speranze ribelli del Veneto; i
Ducati fremevano; Livorno sembrava pronta ad insorgere d'ora in ora.
Mazzini spingeva e al tempo stesso era spinto dai più
temerari fra i ribelli; ma tutte le congiure abortivano; l'ecatombe
dei martiri, cominciata a Milano collo Sciesa, crebbe di giorno in
giorno, i supplizi spesseggiarono, Mantova s'infamò di
patiboli, la sommossa del 6 febbraio a Milano infelicemente condotta
fu atrocemente soffocata, i moti nella Lunigiana e a Parma
violentemente e facilmente repressi, l'ultimo tentativo nel Cadore
del maggiore Calvi mancò. Evidentemente la rivoluzione era
impossibile: fuorusciti e popolani si arrisicavano soli nelle sue
disperate fazioni e morivano intrepidamente, o, sottraendosi colla
fuga fra i rischi di ogni persecuzione, ritornavano più fieri
alla prova; ma la massa del popolo guatava sbigottita, e la
maggioranza della borghesia condannava quei conati, che peggioravano
la sua situazione.
Mazzini, gridato da tutti solo responsabile di tanti disastri, si
mutava in un simbolo sinistro e fascinatore, mentre il Piemonte,
unendosi agli altri governi per combatterlo, giustificava la
reazione di coloro, che, alieni da tali modi rivoluzionari, volevano
pur restare italiani di cuore. La sua posizione politica si faceva
ogni giorno più insostenibile, dacchè agli antichi
avversari si era aggiunto questo nuovo a pretendere l'indipendenza
nazionale coll'iniziativa di un governo francamente parlamentare. Se
Mazzini nella propria opera di democrazia europea dava al problema
italiano un'irresistibile popolarità, che presto o tardi
doveva renderlo accetto alla pubblica opinione, il conte di Cavour,
oppugnando con destrezza spinta talvolta alla perversità il
partito rivoluzionario, persuadeva i governi dell'attitudine
degl'italiani ad un ordinato vivere politico compatibile
cogl'interessi dinastici ancora dominanti in Europa.
L'opposizione rivoluzionaria doveva dunque vedere fatalmente nel
Piemonte il maggiore nemico. Con esso l'avvenire d'Italia non
avrebbe potuto evitare una conquista regia troppo poco promettente
malgrado ogni vanteria costituzionale, giacchè, per
compiacere alla Francia e per terrore di Vienna, imprigionava i
generosi scampati alle sommosse o alle condanne austriache. In
questa lotta disuguale Mazzini sentiva che senza un'insurrezione
almeno parzialmente trionfante era impossibile controbilanciare
l'influenza del Piemonte. I ricordi guerreschi dell'ultima
rivoluzione ribollivano nel suo spirito mantenendogli la fede nella
potenza popolare: le concordi aspirazioni della democrazia europea
gli facevano sperare una più vasta rivoluzione continentale,
che ricomponesse la sbranate nazionalità. A Londra aveva
costituita una società di Amici d'Italia, che lo sovvenivano
di denaro; a Genova il suo giornale, L'Italia del Popolo, diretto da
Savi e da Quadrio, combatteva aspramente la politica di Torino
analizzandone con implacabile logica tutte le deficienze, mentre il
governo lo vessava invano di sequestri, senza osare sopprimerlo per
rispetto alla libertà statutaria. Le difficoltà
aumentavano ogni giorno. Alla guerra di Oriente le diplomazie
avevano ironicamente lusingato il Piemonte sino a fargli sperare la
corona di Spagna pel duca di Genova e la Lombardia per Vittorio
Emanuele, pur garantendo invece all'Austria l'integrità de'
suoi possessi italiani: ma alleanza e guerra avevano dato non
pertanto nuova importanza al piccolo stato. Ora i disegni
napoleonici di una nuova dinastia murattiana a Napoli, fatalmente
secondati da Cavour, attiravano sull'Italia il pericolo di un'altra
dominazione straniera. In tale cospirazione entrarono infelicemente
prima il Saliceti e il Ruffoni, poi il Montanelli e il Sirtori.
Mazzini fu pronto al riparo, denunziando con eloquenti proteste i
colpevoli tentativi: dalle prigioni napoletane Carlo Poerio e Silvio
Spaventa risposero tragicamente «preferire di morire in
carcere che stendere le loro mani pure a quell'avventuriero»;
tutti gli esuli napoletani si unirono loro. Nullameno il disegno non
fu politicamente abbandonato.
La gloria conquistata dal Piemonte nella guerra di Crimea stabiliva
la sua egemonia sull'Italia. Invano Mazzini per le persecuzioni
prodigate agli insorti del 6 febbraio aveva posto ai ministri
piemontesi il terribile dilemma: siete coll'Austria o con noi?
Invano per l'accessione del Piemonte al trattato del 10 aprile 1854
ripetè al conte di Cavour: siete coll'Austria! Invano con uno
sciagurato proclama ai soldati piemontesi chiamò una
deportazione la loro andata in Crimea incitandoli alla rivolta, e
previde mirabilmente tutti gli errori diplomatici della guerra: la
vittoria morale ottenuta dal conte di Cavour al congresso di Parigi
umiliava l'inutile eroismo di tutte le precedenti ribellioni.
Finalmente la conversione di Manin al Piemonte affrettava l'ultimo
schianto nel partito mazziniano.
Con Mazzini non rimasero più che i republicani puri.
Garibaldi, assalito dall'Italia del Popolo con ingiusta violenza per
le vecchie gelosie del Rosselli nel comando durante l'assedio di
Roma, dopo tutti quegli inutili e sanguinosi tentativi di rivolta,
accettava l'iniziativa piemontese pur riserbandosi di sorpassarla.
Allora il grande partito rivoluzionario fondato colla Giovine Italia
rimase appena una setta, che Manin ingiuriò1 atrocemente,
accusandola di predicare la teorica dell'assassinio politico, e
sulla quale Garibaldi pei moti di Parma aveva gettato le terribili
parole: Ingannati ed ingannatori!
La tradizione republicana era vinta. Il sangue dei tremila martiri,
straziali da tutti i tiranni indigeni e stranieri, non era bastato a
rinvigorire la coscienza nazionale estenuata da tanti secoli di
schiavitù: il prodigioso apostolato di Mazzini non aveva
convertito che i migliori, ed anche questi, riconoscendo
l'impossibilità immediata del suo programma, si rassegnavano
all'iniziativa piemontese, per raggiungere col sacrificio della
libertà democratica l'indipendenza nazionale.
Mazzini medesimo ne fu scosso. La sua ultima formula «Per la
nazione e colla nazione» meno esclusiva delle altre, non
mirò che a mantenere il partito democratico all'avanguardia
della rivoluzione, accettando il concorso del Piemonte, ma
procrastinando a dopo la vittoria la decisione del paese sulla forma
di governo. Era un principio di abdicazione, giacchè
l'esiguità dei mezzi rivoluzionari in confronto dei forti
preparativi guerreschi del Piemonte e delle sue necessarie alleanze
in una guerra contro l'Austria avrebbe fatalmente subordinata la
democrazia alla monarchia. D'altronde senza una poderosa
insurrezione la democrazia non poteva essere accettata per vero
partito d'azione. Mazzini come risposta alla sottoscrizione aperta
da Manin in Francia per fornire cento cannoni ad Alessandria ne
ideò un'altra di diecimila fucili da regalarsi alla prima
città insorgente: ma Cavour vietò questa colletta
pericolosa, che, armando i rivoluzionari poteva guastargli il
sapiente giuoco di approcci, col quale circuiva la Francia. Ma senza
denaro e senza armi un'insurrezione era impossibile. Peggio ancora
la nuova Società Nazionale del La Farina, disciplinata da
Cavour, intralciava ogni mossa ai vecchi mazziniani.
Tutto quel romanticismo del principio del secolo che aveva
così enfaticamente atteggiato arti, scienze, filosofia e
politica, sciupando con inconscie teatralità i migliori
momenti della rivoluzione, vaniva ora al soffio dei minori
interessi. Patria, libertà, democrazia discendevano dalla
sfera luminosa dei principii a quella organica dei fatti: si voleva
una ricostituzione d'Italia, ma senza pretendere di tutto rinnovare
in una sola volta; si accettava la monarchia di Piemonte come un
enorme progresso su tutti gli altri stati; si desiderava
l'unità, ma accontentandosi di una unificazione qualsiasi, e
si mirava sopratutto all'espulsione dell'Austria. I grandi problemi
politici e religiosi, posti da Mazzini a capo della rivoluzione, non
erano peranco maturi: bisognava giovarsi dell'opportunità,
tradire forse i principii, mutare programma appena fosse utile,
stringere la solidarietà dei maggiori interessi, mostrarsi
scettici e pratici, frazionando il disegno italico per attuarlo
parzialmente. L'epoca delle eroiche passioni era consunta: queste
dovrebbero rianimarsi nei giorni delle imminenti battaglie, ma la
direzione suprema della politica aveva ora a consigliarsi coi
governi di Europa per offrir loro una forma accettabile di
rivoluzione.
Dal '21 al '48 il metodo rivoluzionario aveva sempre fallito.
Mazzini lottava invano contro questa tradizione d'insuccessi. Se a
lui solo si doveva il merito di avere accesa la febbre del
patriottismo nell'anima della nazione, a lui solo del pari si dava
la colpa di ritardare il vicino riscatto d'Italia con una superba
caparbietà nel vecchio inattuabile programma democratico. In
questa reazione contro di lui non si riconosceva più
l'efficacia della sua intransigenza, per la quale, mantenendosi
presenti allo spirito italiano i grandi ideali rivoluzionari, si
sarebbe poi potuto con rapido intervento di ribellioni integrare le
probabili insufficienze del disegno cavouriano. Si dimenticava che
la più eccelsa grandezza del genio italiano stava appunto in
questa sublime ostinazione rivoluzionaria di Mazzini, che, prima di
risolvere il problema italiano, lo unificava nel problema europeo,
fondendo in una potente unità questioni religiose e
politiche, prevenendo le più accettabili idee socialiste e
fecondando i germi di quella democrazia, cui la monarchia nella
ricostituzione della patria doveva essere coccia e cuna.
Ma irresistibili necessità dialettiche traevano Mazzini a
sempre maggiori sforzi di ribellione. Poichè l'Austria era
troppo forte nel Lombardo-Veneto, e i Ducati troppo incerti, e la
Toscana troppo molle, eccettuandone Livorno, solo le due Sicilie
offrivano qualche probabilità di rivoluzione. Già il
moto di Bentivegna e il regicidio di Agesilao Milano tradivano forti
impazienze: Palermo, implacabile nell'odio contro Napoli, sembrava
fervere di patriottismo italiano; la corona di Sicilia offerta al
duca di Genova durante la rivoluzione del '48 aveva schiarito l'idea
dell'unificazione; si erano avviate pratiche con lord Palmerston e
coi capi della legione anglo-italiana fondata dal Fabrizi a Malta,
così che l'illustre ministro inglese se ne era servito per
contrastare ai disegni napoleonici sul reame. A Napoli s'allargava
il lavoro segreto dei patrioti divisi fra unitari monarchici,
nazionali e murattiani. Bisognava per resistere all'influenza del
Piemonte provocare una rivoluzione nel mezzogiorno, che come stato
libero e lontano dall'Austria avrebbe potuto ricostituirsi senza
immediato intervento straniero.
Una rivoluzione trionfante a Napoli e a Palermo avrebbe forzato il
Piemonte a dichiarare la guerra all'Austria, sotto pena di perdere
il proprio primato italiano: tutto il resto d'Italia ne andrebbe
sossopra.
Mazzini vi si infervorò. Già Alberto Mario, il
più squisito cavaliere della nuova borghesia, come D'Azeglio
era il più amabile della vecchia aristocrazia piemontese, ma
di lui più fine nell'ingegno e più avventuroso nel
carattere, aveva fino dal 1852 proposto di tentare una sollevazione
nel Napoletano anzichè nella Lombardia: più tardi
Garibaldi, aderendo ad un disegno di Panizzi, celebre bibliotecario
del British Museum, per liberare Settembrini e gli altri prigionieri
dal carcere di Ventotene, accettava di tentarvi uno sbarco con un
battello a vapore, ma questo affondò traversando la Manica.
Quindi Carlo Pisacane meditò a Genova di scendere sulle coste
siciliane o napoletane con poca truppa ad iniziarvi la rivoluzione.
L'impresa patriottica e romantica affascinò le menti dei
maggiori rivoluzionari. Mazzini, rappattumatosi con Pisacane dopo un
breve dissidio di teoriche politiche, venne segretamente a Genova
(1856) per concordare mezzi e disegni: egli intendeva
contemporaneamente sollevare Genova per forzare il Piemonte alla
guerra contro l'Austria e al soccorso di Pisacane, senza calcolare
che una ribellione a Genova in quel momento avrebbe costretto il
Piemonte alla guerra civile per necessità di difesa,
togliendo così alla guerra nazionale il più valido
concorso. Era l'ultimo errore della sua opposizione cominciata colla
spedizione di Savoia, e doveva finire in più infelice
tragedia.
Carlo Pisacane fu quindi il martire della nuova impresa, nella quale
pochi anni dopo Garibaldi doveva sfolgorare eroe trionfante: oggi il
giovine partito socialista lo vanta antesignano, e cerca ogni modo
d'ingrandirlo, per farne un rivale di Mazzini.
Carlo Pisacane.
Questo principe, orfano, povero, educato al collegio della
Nunziatella in Napoli sua patria, paggio alla corte borbonica, poi
ufficiale ed ingegnere, si era presto distinto per merito in alcune
opere ferroviarie. Ma sospetto per il carattere mite ed austero ai
superiori, e poco dopo forzato da un amore infelice a fuggire a
Londra, si arruolava nella legione straniera militante per la
Francia contro gli arabi d'Algeria. Di là ai primi scoppi
della rivoluzione correva a Milano, vi ricusava il grado di
colonnello per campeggiare tosto sul Tirolo colla legione Borra, e
vi era ferito. Respinto dai capi, che il disastro sbaragliava
dovunque, incontrandosi nella Svizzera con Mazzini, ne subiva
l'irresistibile ascendente: quindi Mazzini, diventato triumviro
della republica romana, lo nominava per la sua bella tempra di
soldato allo stato maggiore per la difesa della grande città.
Qui Pisacane si rivelava fra i migliori ufficiali in ammirabili
servigi; ma Roma cadeva, e l'esodo di tutti lo travolgeva più
povero e più nobile di prima per le contrade d'Europa. Pochi
avevano sospettato delle sue grandi qualità, nessuno aveva
ancora avuto campo di misurarle. Il suo primo libro, Guerra
combattuta in Italia negli anni 1848-49, passò inosservato,
quantunque fosse forse la migliore scrittura di guerra allora
pubblicata; però in essa Pisacane non aveva compreso il genio
originale di Garibaldi.
Ma ricoverato finalmente a Genova e sopportatovi a stento dal
sospettoso governo piemontese, Pisacane vi si isola nello studio,
raddoppiando con istinti di novatore e con amarezza di esule la
ribellione del proprio pensiero. Come in tutte le più belle
figure di quel tempo, anche in lui fermenta una poesia romantica,
che lo attira ad avventure intellettuali e guerresche: una segreta
tristezza gli acuisce il senso critico, una inesausta
generosità lo spinge oltre il problema politico verso il
fondo tenebroso ed ululante delle questioni sociali. Quindi la
rivoluzione italiana non diventa per lui che un incidente, del quale
le lotte e il trionfo non scemeranno di un'oncia l'immane massa di
miserie millenarie, che pesano sul popolo.
Il suo spirito, malgrado la nativa dolcezza, è già
ateo, ma questo ateismo non esprime ancora che una dolorosa reazione
del suo sentimento sull'idea popolare di una provvidenza divina. La
religiosità di Mazzini lo irrita, l'inevitabile e soffocante
disciplina del partito rivoluzionario lo esaspera al punto che la
passione della libertà gli si trasforma inconsciamente in una
smania d'insubordinazione. Nell'irresistibile foga di una prima
critica egli non crede più a nulla: Austria e Piemonte gli
sembrano due governi egualmente oppressori, sebbene quello sia
straniero: ogni religione è il capolavoro di una ipocrisia,
ogni idea ultramondana uno sciocco abbandono della terra.
Così cercando istintivamente, come tutti i ribelli, le
giustificazioni della propria rivolta nel passato, si caccia
attraverso la storia. Senza studi e senza metodo critico si vi
smarrisce tosto, malgrado l'unicità dell'idea che lo guida. I
suoi autori sono napoletani, Vico, Pagano, Filangeri: sovra i due
primi ridipinge confusamente il quadro dell'antichissima Italia:
ignora gli studi posteriori, interpreta ogni decadenza come una
caduta morale ed economica dovuta alla tirannia del capitale.
Rifà la storia di Roma sui manuali di scuola, vede nel
cristianesimo un regresso, nel papato una frode colossale, nel medio
evo una tenebra, nei comuni un'oasi popolare, che spiega colle
odierne teoriche socialiste. Tutta la lunga storia italica sfugge
così alla penetrazione del suo ingegno, che nullameno ne
illumina tratto tratto qualche problema. Mentre un arido
materialismo economico gli contende pressochè tutte le
rivelazioni del passato, la passione degli studi militari, eccitata
dal più nobile patriottismo, lo spinge a vedere nei romani il
modello di tutti i popoli guerrieri. Colla loro legione egli spiega
ogni loro vittoria, esamina minutamente la loro tattica, segue lo
sviluppo della loro strategia, analizza a una a una le loro
più famose battaglie, critica e sentenzia con superba e
meditata coscienza della propria capacità. E dove un
patriottismo retrospettivo non lo accieca, come nello studio sopra
Scipione che vorrebbe superiore ad Annibale, i suoi giudizi lo
elevano fra i migliori maestri dell'arte militare. Quindi, arrivando
al rinascimento, coglie magistralmente le incomparabili
qualità guerriere di Francesco Sforza e di Niccolò
Piccinino, assiste fremendo al decadimento delle armi italiane,
valuta l'opera rinnovatrice di Montecuccoli, di Gustavo Adolfo, di
Federico II e di Napoleone I, si appassiona agli inescusabili
disastri dell'ultima rivoluzione italiana; ma, fuorviato
dall'esempio della grande Convenzione francese, che con improvvisati
eserciti cittadini sconfiggeva quelli stanziali di tutta Europa,
ricade con Mazzini nell'illusione di una guerra e di una vittoria
popolare.
Perciò, immaginando l'Italia ricostituita in nazione, schizza
coraggiosamente i primi lineamenti del suo esercito sociale.
Nei quattro Saggi che di lui ci rimangono e che furono stampati dopo
la sua morte, quello pel quale ora gli venne vera importanza
politica, è il terzo della Rivoluzione. Scientificamente e
letterariamente è quasi senza valore: vi mancano del pari
principii filosofici ed economici; è confuso, diffuso, scarso
di argomenti, povero di materiali, incerto nel metodo, inconsapevole
nelle conseguenze. Dei maggiori socialisti francesi, dai quali
deriva, quegli che più vi traspare è Proudhon, ma
senza il rilievo del suo stile e l'irresistibile ingranaggio della
sua logica. Naturalmente vi fa da fondamento il teorema di Bentham
sulla ricerca della felicità; la critica agli ordini della
società vi muove da un concetto di giustizia: solo la formula
vacua - Libertà ed Associazione - contraddicendo alle
costruzioni sistematiche del socialismo d'allora, che pretendevano
ridurre il mondo ad una monotona vita mezzo di caserma e mezzo di
convento, rivela l'indipendenza del suo spirito. In questo saggio,
dietro i classici esempi di Saint-Simon, di Fourier, di Cabet, di
Proudhon, è redatto anche il nuovo patto sociale con ingenua
facilità e con alcuni commenti, dai quali s'indovina in
Pisacane un convenzionale in ritardo. La necessità di una
pronta e spietata distruzione sociale vi è affermata
alteramente.
Questa l'opera del suo spirito, che solo l'ultima impresa della sua
vita ha potuto illustrare così, da alzarlo oggi all'onore di
campione del partito socialista italiano.
Ma l'aridezza materialistica che ne rende più squallido il
dilettantismo storico, e l'insufficienza di dottrine economiche che
le tolgono ogni valore fra i tanti studi socialistici di Francia, di
Germania e di Russia, sono vivamente compensate dalle sue ammirabili
contraddizioni colla natura spirituale dell'autore. Questo ateo ha
la passione di tutti gli ideali, questo anarchico distruggitore non
invidia e non odia: nessun vizio ha mai contaminato la sua vita,
nessuna ambizione diminuito il merito dei suoi molti sacrifici.
Volontario nella rivoluzione e nel socialismo, non si è mai
ricordato di essere nato principe, e vi è rimasto gran
signore; la sua nuova famiglia cresciuta da un adulterio vive nella
castità di un unico amore; la sua utopia non è che il
voto di un gran cuore, e rimane incompresa in quella tormenta di
passioni politiche, che si esauriscono alla vigilia della
rivoluzione unitaria.
Infatti Pisacane, riattirato dalla generosità dell'animo
nelle lotte del momento, a trentanove anni gitta i libri come
inefficaci alla patria, e si vota alla morte per sollevare con uno
sforzo supremo le due Sicilie contro il Borbone. Il suo testamento
politico è sublime d'ingenuità. Dopo aver dichiarato
di non credere al beneficio di nessuna costituzione, e che neppure
la rivoluzione politica gioverà al popolo, nullameno si
avventura nella più arrischiata delle spedizioni. Il suo
istinto maggiore della sua ragione, il suo cuore più alto del
suo intelletto, lo spronano ad un olocausto senza fede e senza
speranza, meraviglioso ed assurdo.
Ma nell'azione egli sembra ritrovare tutto se stesso. Le sue
più belle qualità sfolgorano improvvisamente:
dimentica il breve dissidio con Mazzini, si rituffa nelle
cospirazioni coll'ardore di un neofita e la bravura di un cavaliere.
Preso nell'irresistibile illusione di Mazzini che fida sempre nel
popolo, egli napoletano crede che i napoletani aspettino solo un
esempio per insorgere: scendere sulle rive del mezzogiorno con un
pugno di congiurati, ribellarlo, cacciare i Borboni, sollevare tutta
Italia, diventa il suo sogno. Nella miseria di mezzi del partito
rivoluzionario e per la necessità di eludere la sospettosa
polizia piemontese, egli medita d'imbarcarsi con pochi compagni
sopra un vapore postale, d'impossessarsene sorprendendo
l'equipaggio, e con esso approdare nel regno. La prima prova gli
fallisce, quindi si avventura solo a Napoli per meglio saggiare il
terreno. Tutto gli pare pronto; la fatalità di una vera
rivoluzione dopo gli ultimi insuccessi nella Lunigiana lo incalza.
Il 25 giugno 1857 s'imbarca con alcuni amici sul Cagliari, vapore
sardo, diretto verso la Sardegna: Rosolino Pilo, altro principe
siciliano del sangue d'Angiò, deve raggiungerlo in mare con
una seconda imbarcazione di congiurati; ma, sbattuto dalla tempesta
e sviato dalla nebbia, vi si smarrisce: nullameno Pisacane riesce ad
impadronirsi del Cagliari. Allora si dirige sull'isola di Ponza, vi
sbarca, vi libera 323 prigionieri, per la maggior parte politici, e
si difila sul golfo di Policastro. A Genova nulla è ancora
trapelato dell'impresa, a Napoli nessuno sospetta di uno sbarco. I
congiurati toccano la spiaggia di Sapri al grido di: viva l'Italia e
viva la republica! ma i contadini sbigottiti guatano senza
comprendere. Una prima vittoria dei ribelli sopra alcune squadre di
gendarmi non basta a persuadere le campagne. Allora Pisacane colla
piccola schiera s'addentra nella terra per la via di Sala, cercando
di guadagnare i monti e sperandovi migliore accoglienza; se non che
una grossa mano di regi spiccata da Salerno lo arresta e lo
sconfigge. L'impresa è perduta, ogni scampo precluso. Un
nucleo di cinquanta superstiti stretto intorno a Pisacane può
nullameno ritirarsi sul Cilento, ma la novella della disfatta, il
timore delle milizie incalzanti i fuggiaschi, l'avidità dei
premi promessi, le feroci eccitazioni del clero scatenano la plebe
alla strage. Pisacane, sopraffatto dopo eroica difesa, è
finito a colpi di ronca dai villani, quasi tutti i suoi compagni
scannati; i soldati regi vollero o poterono appena salvarne alcuni
per trarli in trionfo a Napoli. Fra questi fu Giovanni Nicotera,
robusta tempra di soldato e di politico, divenuto poi ministro del
regno d'Italia, e che venne allora cogli altri condannato a morte.
Il processo al solito passò d'infamia in infamia, si
tentò di disonorare gli accusati; peggio ancora i murattiani,
aspramente combattuti da Nicotera negl'interrogatorii levarono
indegne grida di tradimento, associandosi al governo borbonico.
Intanto Mazzini a Genova falliva nell'ultimo conato di sollevare la
città, e il governo piemontese rivaleggiava col napoletano
nella ferocia della repressione contro i ribelli.
Maurizio Quadrio a Livorno non era stato più fortunato,
tentando una insurrezione contro il granduca. Il partito
rivoluzionario era vinto.
La pubblica opinione, unanime nel condannare l'infelice impresa di
Pisacane, non volle nemmeno ammirarne l'eroismo: la stampa liberale
monarchica ne vilipese idea, uomini e risultato; quella reazionaria
ne parlò come di un caso di brigantaggio; l'Europa abituata a
tali insuccessi delle rivoluzioni italiane, non se ne commosse. Solo
Victor Hugo coll'infallibile divinazione dei poeti comprese il fato
di questi nuovi argonauti della libertà e scrisse:
«John Brown è più grande di Washington, Carlo
Pisacane più grande di Garibaldi».
La disfatta di Pisacane prostrò il partito rivoluzionario: il
Piemonte crebbe d'importanza, il mazzinianismo non fu più che
una setta, il federalismo una scuola. I murattiani, indipendenti o
ligi al Piemonte, non miravano che a migliorare il proprio governo
napoletano con una nuova dinastia, abbandonando ogni ideale italiano
e democratico: alcuni altri, dotti e dottrinari, come Cesare
Cantù, predicavano possibile la libertà in qualunque
forma di governo anche straniero, e, separandola così
dall'indipendenza e dalla democrazia, la rendevano parola senza
senso e senza attrazione. In fondo nessun partito aveva un programma
limpido e un ordinamento adeguato di mezzi. Iniziativa regia e
iniziativa rivoluzionaria si rivelavano del pari insufficienti:
l'iniziativa anche questa volta doveva essere francese.
Mazzini, abbandonato dai migliori seguaci, ridiventava nuovamente
apostolo, scrivendo di se stesso con accento disperato: «Io
non sono che una voce che grida azione»; e la gridava su tutti
i toni, ammonendo, rampognando, difendendosi, accusando gli
avversari, chiedendo l'elemosina all'Europa per questo popolo
d'Italia, Belisario della libertà, e nullameno accendendogli
sulla fronte la fiamma del proprio genio, per mostrarlo come
campione di una terza epoca civile.
La preparazione rivoluzionaria cominciata dal 1831 era compiuta.
Capitolo Quinto.
La mediocrità politica e letteraria.
Scadimento del genio nazionale.
Alla vigilia della rivoluzione, che doveva finalmente ricostituire
l'Italia, il genio nazionale sembrava oscurarsi.
L'immenso moto di studi cominciato col secolo si era rallentato dopo
gli ultimi disastri politici. La maggior parte dei grandi scrittori
erano morti o ritirati dalla lotta: l'originalità si faceva
più scarsa. Una specie di stanchezza prostrava il pensiero
italiano. Le passioni consunte dalle rivoluzioni infelici del '21,
del '31 e del '48, o assorbite dalle estreme sanguinose avventure
delle cospirazioni, non animavano più i libri: un maggiore
contatto colle nazioni, che tenevano in Europa il campo
intellettuale, sembrava avere scoraggiato la produzione dello
spirito nazionale. Al vecchio orgoglio scolastico, che ci faceva
credere ancora i maggiorenti della civiltà colla gloria
insuperata delle antiche opere, era succeduta una tacita disistima
delle nostre cose presenti: si cominciava a comprendere come
nell'immenso lavoro del pensiero europeo, fecondante ancora tutto il
mondo, la nostra parte fosse secondaria. Nemmeno l'ammirabile sforzo
tentato con sì ricca concordia d'ingegni e di risultati al
principio del secolo era bastato per rimetterci a paro colla
Francia, coll'Inghilterra e colla Germania.
La letteratura francese restava al disopra della nostra, la
filosofia tedesca era diventata universale mentre l'italiana non
aveva potuto passare le Alpi, lo sviluppo delle scienze presso di
noi non resisteva al confronto della loro prodigiosa espansione in
Inghilterra. Malgrado ogni vanteria, bisognava confessare che
Manzoni non valeva Victor Hugo, che Gioberti e Rosmini non bastavano
contro Hegel e Schelling, che quasi tutte le più meravigliose
scoperte ci venivano dall'estero. L'Italia non aveva e non avrebbe
uno scienziato da opporre a Darwin.
Ma Alessandro Manzoni ancora giovane si era arrestato sul culmine
della propria parabola per non abbassarsi discendendola, e taceva da
oltre vent'anni; Gioberti era morto povero ed esule a Parigi;
Rosmini si era spento nel silenzio tranquillo di un lago, e le loro
due scuole filosofiche non avevano illustri scolari che le
diffondessero come le scuole tedesche; Niccolini, ritirato dal
teatro, cercava l'oblio tracciando una storia di casa sveva; Giusti
dormiva per sempre fra gli oliveti di Monsummano; Berchet,
rimbambito dalla vecchiaia, si era pentito delle proprie canzoni di
rivolta per diventare senatore piemontese; Guerrazzi si ostinava
ancora nei romanzi, ma la sua arte si guastava ogni giorno
più nell'artificio, e delle irresistibili passioni di un
tempo non gli restava più che l'abitudine del gesto e
dell'accento; Rossini, il Napoleone della musica e di lui non meno
egoista, viveva a Parigi ammutolito da quasi trent'anni, non
ascoltando più che il coro instancabile delle proprie lodi
ripercosso dagli echi di tutte le contrade d'Europa; Bellini, il suo
giovane rivale, era scomparso come una di quelle comete, che
illuminano per poche notti tutta una zona di cielo; Donizetti era
stato soffocato dalla follìa. Qualcuno della fortissima
generazione lottava ancora, ma non poteva al di là del grande
periodo già consunto ottenere dalle nuove lotte altre
vittorie. Cesare Cantù, prodigioso di attività, dopo
compita la Storia Universale, ne accumulava altre gettandosi su
tutti gli argomenti, riordinando archivi, superando Lodovico
Muratori nell'opera, e nullameno non oltrepassando mai i confini del
proprio sistema e non ricorreggendo mai il proprio metodo. Egli
camminava sempre, mentre le scienze storiche progredivano altrove.
La grande scuola neo-guelfa finiva in lui.
Le nuove scuole.
Ora nella filosofia tenevano il campo Terenzio Mamiani e Silvestro
Centofanti, l'uno piuttosto un letterato e l'altro un erudito della
stessa; Ausonio Franchi e Giuseppe Ferrari, quegli un critico e
questi uno scettico, esprimevano meglio nel razionalismo la tendenza
delle nuove generazioni; Carlo Cattaneo aspirava al positivismo
senza raggiungere in esso nè la grande scuola francese del
Comte, nè l'altra inglese anche più importante dello
Spencer. A Napoli Augusto Vera, il maggior scolaro di Hegel, il
maggior filosofo del secolo, aveva importato un sistema d'idealismo
che doveva nella propria breve durata produrre molti frutti, ma del
quale allora non vedevasi ancora il lustro. Nella poesia lottavano
Giovanni Prati ed Aleardo Aleardi, lirici entrambi, più
colorito e di maggior volo il primo, elegiaco e disadorno il
secondo; ma in essi la passione di patria non era più che un
tema di arte: il soffio di Manzoni, l'ira di Berchet, l'impeto di
Niccolini non davano più al loro verso quella irresistibile
potenza di attrazione che accomuna le anime e le infiamma. Prati,
dopo aver elogiato Carlo Alberto, seguitava a blandire il Piemonte,
cantandone i re come un bardo antico; Aleardi, in canzoni piuttosto
scritte in prosa rimata che in verso, aveva gemuto sui supplizi di
Mantova, e ripreparava qualche mite invettiva contro Pio IX;
Giuseppe Mazzini nei proclami, negli appelli e nelle lettere era il
solo poeta di patria.
Alla satira di Giusti, sempre amara anche nello scherzo, sibilante e
sferzante sulle anime, seguivano ora nel teatro le declamazioni
rettoriche di Paolo Ferrari, cui una innegabile vena comica aveva
dato la primazia su tutti i commediografi italiani. Nullameno
l'Italia anche dopo di lui doveva restare come prima senza vera
commedia. Il dramma storico cresciuto come un magro pollone dalla
grande tragedia del Niccolini e del Manzoni, erudito nel Revere e
melodrammatico col Marenco, tentando indarno di rinnovare le
profonde emozioni dell'Adelchi e dell'Arnaldo, scivolava dai massimi
teatri alle arene divertendone le platee, senza appassionare le
piazze. Nel romanzo solo il Rovani era riuscito a farsi un nome
onorevole, derivando dal Manzoni sino a predicarlo maestro supremo,
e non pertanto rimanendo a lui inferiore così nell'arte che
nell'ardore patriottico: classici e romantici sembravano colpiti
dalla stessa decadenza. Superstite letterato della scuola guelfa, il
padre Bresciani gesuita bamboleggiava con servile pedanteria nella
vanità delle parole insultando a tutte le tragiche glorie
della rivoluzione con romanzi, nei quali la goffaggine dell'arte era
pari alla miseria del pensiero e alla ribalderia delle intenzioni.
Nella pittura Ussi, che doveva brillare per poi eclissarsi, e
Morelli, che vi resterà nella gloria di massimo riformatore
moderno, non erano ancor celebri: Bartolini, ultimo grande scultore
italiano, era morto, e il Duprè e il Vela, contendendosi
già il suo posto, non vi recavano coll'amore dell'arte
quell'intrattabile passione di patria, che aveva costretto
Calamatta, l'insuperabile incisore, ad esulare da Roma dopo averla
difesa con Garibaldi contro i francesi. Duprè era ancora un
neo-guelfo, che nell'obbedienza di cattolico al papa comprendeva
anche la soggezione di suddito al granduca Leopoldo; mentre Vela,
inspirandosi alla rivoluzione del quarantotto, aveva già
scolpito nello Spartaco l'irresistibile sforzo dello schiavo che
frange le catene; e Ussi invece doveva attendere il trionfo di
quella del cinquantanove per esporre nella cacciata del duca d'Atene
un fasto dell'antico comune fiorentino.
Solo nelle musiche di Giuseppe Verdi fremevano ancora le tempeste,
dalle quali era stata sconvolta la prosa di Guerrazzi e disordinata
la lirica di Niccolini. Povero ed austero contadino di Busseto, egli
aveva sempre ricusato gl'inviti della duchessa di Parma e scriveva
indifferentemente melodrammi su qualunque soggetto, esprimendo nello
scoppio di affetti fulminei il supremo disordine delle passioni
rivoluzionarie, che insanguinavano ancora l'Italia. Il suo genio
intermittente e scomposto, inferiore e nullameno così simile
a quello di Victor Hugo, il suo carattere burbero e malinconico, il
bisogno in lui irrefrenabile di situazioni sempre eccessive, mentre
sembravano classificarlo fra la decadenza dei romantici, lo
rendevano il più sospettato ed amato autore popolare. Con lui
solo s'infiammavano i teatri e prorompevano a dimostrazioni
politiche: nella frenesia delle sue frasi di odio e di amore l'anima
nazionale tornava a fremere d'entusiasmo, salendo dalle emozioni
della scena a quelle della vita.
Nonpertanto il melodramma italiano, recato sullo scorcio del 1830 ad
insperata altezza da Rossini e da Bellini, discendeva con Verdi la
parabola del proprio sviluppo: quelli rimanevano insuperati e
conservavano all'Italia la gloria di avere una ultima volta dominato
tutto il mondo coll'arte; questi non bastava solo a mantenere il
campo contro i nuovi campioni della scuola tedesca. Meyerbeer lo
vinceva per abilità di maniera, Wagner lo eclissava per
splendore di genio.
La mediocrità del pensiero italiano appariva manifesta.
Però in essa si venivano sperimentando tutte quelle
qualità di azione necessarie al ricostituimento di un paese,
che, liberandosi per concorso di aiuti stranieri, si sarebbe
all'indomani della propria emancipazione abbattuto ad un
incalcolabile numero di problemi sociali. Se i pensatori scemavano,
crescevano i politici, mentre le letterature decadevano si
diffondevano le scienze, all'entusiasmo delle ribellioni subentrava
la coscienza della disciplina, alla originalità della
produzione un mirabile ed universale lavoro di assimilazione. Nei
giornali così poveri ed assurdi di rettorica, prima e durante
la rivoluzione del quarantotto, si discuteva adesso con
abilità e con dottrina la politica quotidiana; si
spropositava molto meno di diritto costituzionale ed amministrativo;
le idee economiche e finanziarie, una volta patrimonio di pochi
dotti ignorati o separati dal popolo, discendevano nel dibattito
comune come alla riprova della propria verità. L'economia
politica italiana, che dopo le opere del Gioia e del Pecchio non
aveva avuto altri celebri saggi che quelli storici del Cibrario e il
trattato di Pellegrino Rossi, abbondava di cultori: Marco Minghetti
ne scriveva le Attinenze colla Morale e il Diritto; lo Scialoja, il
Boccardo, l'Arrivabene, poi il Correnti e il Maestri negli Annali di
statistica, moltiplicavano studi, monografie, manuali. Innanzi a
tutti loro il Ferrara dirigeva a Torino una raccolta di economisti
stranieri riassumendone il pensiero in ammirabili prefazioni,
sovente più preziose delle loro opere stesse; ma nemmeno
nell'economia politica il pensiero italiano, sorpassando
un'eclettismo di assimilazioni, arrivava alla produzione di un
sistema originale. Invece cresceva negli uomini politici,
coll'esempio di Cavour improvvisatosi finanziere, la capacità
delle più difficili gestioni amministrative. Mentre la
filosofia si oscurava nel tramonto quasi simultaneo de' suoi due
astri maggiori, la giurisprudenza come scienza più affine
alla politica aumentava mirabilmente di lustro: a Napoli, a Torino,
a Firenze fiorivano scuole di diritto, tutte abbastanza forti per
contendersi il primato e lottare colle migliori scuole straniere:
fra esse giganteggiava a Pisa Francesco Carrara, forse il maggiore
criminalista del secolo.
La cultura intellettuale si diffondeva rapidamente nella cresciuta
facilità della stampa e del commercio; a Capolago illustri
esuli editavano una biblioteca delle migliori opere letterarie e
scientifiche con intendimenti patriottici; il Piemonte riboccante di
professori e di professionisti fuorusciti era diventato un potente
centro di irradiazione civile; l'influenza delle letterature estere
era tale da compromettere persino le indigene tradizioni letterarie.
Carlo Cattaneo preparava nel Politecnico immensi materiali di
scienza, agitando con rara competenza le più moderne e
difficili questioni; Stefano Jacini dava all'agricoltura un valore
politico e sociale prima piuttosto oscurato che rivelato da' suoi
problemi tecnici; Pacini, prevenendo Koch di trent'anni, fondava
incompreso la bacteriologia; Miola puniva l'egoismo di Segato, morto
col proprio segreto di petrificazione di cadaveri, trovando il modo
di metallizzarli; Piatti inventava la perforatrice per sventrare le
montagne dinanzi alle locomotive; Ascoli, ereditando l'ingegno del
giovine Filosseno, rialzava vigorosamente gli studi linguistici; il
Negri succeduto al Marmocchi sosteneva l'onore della geografia
italiana. Da Napoli Ruggero Bonghi, Francesco De Sanctis e Luigi
Settembrini rinnovavano la critica letteraria nella decadenza della
letteratura. A Venezia Pietro Selvatico, ricco e voltabile ingegno,
apriva e chiudeva sempre nuove prospettive nell'estetica e nella
critica delle arti, quasi subendo nella perplessità del
proprio metodo quell'incertezza politica, onde si confondeva nelle
coscienze il problema italiano. Entro le storie degli ultimi
avvenimenti fremevano ancora le sdegnose polemiche dell'azione:
Cattaneo, Anelli, La Farina, vi conservavano nell'asprezza
republicana il rancore dei vinti; il Tosti procedeva classicamente
nei lavori di storia ecclesiastica; Mauro Macchi, amabile per mite
stoicismo, scriveva con moderno sentimento democratico quella dei
Dieci di Venezia; più elegante di forma, vasto d'erudizione e
potente di vero ingegno letterario Atto Vannucci, rivaleggiando col
Troya e col Micali, ricostruiva la Storia antica d'Italia. Alto
sullo scoglio di San Marino il Borghesi scopriva a Teodoro Mommsen i
più reconditi segreti della numismatica, confortando
così l'Italia della perdita recente del Canina. Ma nella
filosofia della storia, che, fondata oscuramente a Napoli dal Vico,
era poi tanto cresciuta in Germania e in Francia, creando metodo e
scienza storica, solo Giuseppe Ferrari si mostrava grande. Con
ingegno multiplo ed originale passando dalla Filosofia della
Rivoluzione alle Rivoluzioni d'Italia, vi contava tutte quelle della
storia medioevale e ne tracciava la direzione, ne scrutava le leggi
dinamiche, ne divideva i periodi, ne scandeva il ritmo: quindi dalle
pulsazioni delle rivoluzioni italiane costretto al calcolo
dell'intero circolo europeo, accordava con mirabile sintesi le
rivoluzioni d'Europa a quelle d'Italia per riscontrarle più
tardi con quelle della China, e dettare moribondo in una Nuova
Teoria dei Periodi Politici i teoremi fondamentali di una matematica
storica. Ma queste creazioni del suo genio, ammirate in Europa,
erano allora pressochè sconosciute in Italia, della quale
trascendeva lo spirito, così da fallare, malgrado una
chiaroveggenza meravigliosa, le necessità del suo attuale
periodo rivoluzionario. Perfino Mazzini e Cavour, quegli coll'anima
sempre schiusa a tutte le grandezze patrie, questi tanto sagace
nell'indovinare ogni forza nazionale, ignoravano la suprema
importanza di Ferrari rimasto solo in Europa a sostenere
l'originalità del pensiero italiano.
Ed era anche questa una caratteristica del momento.
La mediocrità politica e letteraria risultava da quelle
stesse condizioni spirituali, che rendevano impossibile all'Italia
il trionfo della rivoluzione colle sole sue forze. L'egemonia
conquistatrice del Piemonte provava l'insufficienza del principio
democratico; la politica angustamente piemontese di Cavour tradiva
la debolezza del principio monarchico: nessuno dei due principii
poteva ricostituire l'Italia, atteggiandola sinceramente nella
propria forma. Il popolo da schiavo dello straniero non doveva
mutarsi tutto al più che in suddito di un re nazionale,
giacchè preferiva l'indipendenza alla libertà e una
qualunque unificazione politica alla propria unità
democratica. Ma anche in tale sua dolorosa condizione brillavano le
qualità di quel genio, che non lo aveva mai abbandonato per
una storia di quasi tremila anni; l'Europa non aveva politico
più abile del conte di Cavour, apostolo più efficace
di Mazzini, eroe più moderno di Garibaldi. L'inerzia del
popolo, facilmente spiegabile cogli ultimi secoli della sua vita,
era mirabilmente compensata dall'iniziativa dei pochi che
riassumevano la sua coscienza.
Quindi l'instancabile accanimento di Mazzini alle rivolte forniva
materia alla politica di Cavour per convincere l'Europa a cacciare
l'Austria dall'Italia e a stabilirvi un forte regno costituzionale
come argine contro le violenze della rivoluzione. Se Mazzini non
avesse mantenuta l'agitazione rivoluzionaria, sarebbe stata
impossibile la politica estera piemontese. Solo nella
mediocrità letteraria e politica potevano accordarsi le
antinomie delle tradizioni e delle rivoluzioni italiane per fondersi
nel costituzionalismo dei Savoia: un crescendo di pensieri e di
passioni dopo il disastro del quarantotto avrebbe necessariamente
condotto ad una republica vincitrice della monarchia, del papato e
dell'Austria colle sole forze popolari.
Invece la storia aveva affidato alla Francia il compito di
affrettare aiutando l'una e combattendo l'altra, le due massime
nazionalità d'Italia e di Germania.
E in questa mediocrità politica e letteraria, che
armonizzava, esaurendole, le grandi idee rivali della monarchia e
della democrazia, della federazione e dell'unità, per creare
un regno a base plebiscitaria con conquiste regie e popolari, la
rivoluzione non aveva ancora che volontari politici e militari.
L'immensa massa del popolo rimaneva estranea, se non ostile.
Però in questi volontari, piuttosto conquistatori che
rappresentanti della nazione, si fondevano mirabilmente le
più disparate qualità: cospiratori, soldati,
parlamentari, letterati, spesso avventurieri, gettati dalle vicende
della vita attraverso drammi inesauribili, avevano esperimentato
tutti i partiti, ceduto a tutte le illusioni, imparato tutti i
tradimenti: erano scettici ed ancora capaci d'entusiasmi, abbastanza
moderni per non credere più che alla sovranità
popolare e nullameno troppo pratici per non servirsi ancora di un
re; fisi all'interesse nazionale credevano indifferentemente a tutti
i sistemi, amavano sopra ogni cosa la patria, e non volevano
rivoluzionarvi niente al di là del necessario. La
mediocrità spirituale permetteva loro di agire in un accordo
indefinibile, con transazioni sempre giustificabili, e con
evoluzioni sicure.
La fede al Piemonte era divenuta dogma politico, come dieci anni
prima quella in Pio IX.
Nessuno tradiva più, mutava: non si era più veramente
di alcun partito, ma italiano; l'interesse più immediato si
riconosceva per il più giusto, il risultato momentaneamente
più utile diventava il maggiore. Non vi era tempo a grandi
pensieri. Si abbandonava ogni costruzione sistematica per costruire
davvero: ai pensatori dovevano succedere gli uomini pratici.
Bisognava conservare il fuoco rivoluzionario senza abbruciarsi alle
sue vampe o accecarsi al suo fumo. Invece delle tragiche passioni,
già inspiranti capolavori e martirii, cresceva un fermento
nella moltitudine, che la disponeva a nuove cose. Nello scadimento
dell'arte vi si moltiplicavano i soggetti patriottici, che,
mediocri, divenivano più accessibili e quindi più
efficaci.
Siccome ogni provincia italiana aveva deputati o ministri al
parlamento piemontese, il governo nazionale era già
tacitamente ed anticipatamente stabilito. Fra gli illustri, che
allora vi brillavano, Luigi Carlo Farini vi era l'uno e l'altro, e
doveva per l'indole dello spirito e le vicende della vita rimanere
forse il migliore rappresentante di questa mediocrità
politica e letteraria, così fatalmente indispensabile alla
costituzione del regno italiano.
Luigi Carlo Farini.
Molti lo superavano d'ingegno e di carattere, nessuno riassumeva in
se medesimo tante opposte qualità. La sua vita non ancora
insigne aveva nullameno acquistato un'alta importanza. Colla foga di
un temperamento romagnolo egli aveva cominciato tempestando
patriotticamente all'università di Bologna, attirandosi sul
capo sospetti ed ammonizioni; quindi n'era uscito medico piuttosto
di mestiere che di dottrina. Una baldanza passionata lo traeva alla
politica, una inguaribile vanità del pensiero lo faceva
sognare di letteratura. Sulle prime divenuto naturalmente mazziniano
predicava stragi nelle conventicole segrete con fanatismo giacobino:
ma il misticismo religioso e l'elevatezza filosofica del
mazzinianismo lo stancarono presto. Il suo carattere focoso e
volubile non gli permetteva le resistenze sistematiche ed eroiche di
un partito, nel quale nessuna eresia era consentita e dal quale non
si potevano aspettare trionfi. Quindi disertò.
Come letterato subiva le tradizioni pedantescamente classiche della
scuola romagnola, arzigogolando nello stile senza nè
esperienza di lingua nè gusto d'arte: come cospiratore aveva
la veemenza rettorica dell'oratore e la prudenza forse anche troppo
remissiva di quei capi del '31, che procrastinavano sempre il giorno
della rivolta e transigevano ad ogni passo sul programma e sui
fatti. Benchè romagnolo, mancava di fierezza: quindi,
staccandosi da Mazzini per schierarsi fra i riformisti, l'ardore
naturale del suo carattere dovette agghiacciarsi sino a mutarlo in
moderato intransigente. Pei moti romagnoli del 1845 scrisse un
Manifesto delle popolazioni dello stato romano ai principi e ai
popoli d'Europa, vantandovi la sudditanza al Santo Padre e chiedendo
le solite riforme; ma il manifesto non ebbe maggiore espansione
della stessa insurrezione con bandiera bianca e finita senza sangue.
L'antico mazziniano aveva tutto rinnegato.
Poco dopo, l'utopia costituzionale del papato lo trasse a Roma
segretario di ministero e diplomatico. Come tutti i riformisti
credette al sogno di Mamiani e di Rossi: fu in Parlamento della
fazione moderata, che naturalmente presto sorpassata dovette
ritirarsi; difese Pio IX, non capì nulla del problema
politico del momento, non indovinò il significato di una
republica romana, giudicò opera feroce ed insensata di
sètte la caduta del potere temporale, ma imparò
rapidamente i modi parlamentari, ebbe pronto discernimento per le
più difficili pratiche e il coraggio di resistere alle
opinioni plateali: rimase suddito pontificio, federalista abbastanza
cattolico ed inflessibilmente monarchico, ammiratore incondizionato
di Carlo Alberto.
In lui il rivoluzionario si arginava volontariamente ed
inconsciamente nell'uomo di governo.
Infatti, esule a Torino, cadde nell'orbita del conte di Cavour a lui
simile benchè troppo maggiore di attitudini, che col
costituzionalismo piemontese lo guarì istantaneamente del
costituzionalismo pontificio. Così all'egemonia del papa
Farini potè sostituire quella di Vittorio Emanuele, e
correggere con essa il concetto della federazione nel disegno di una
unificazione per annessioni e conquiste, fanatizzandosi della
monarchia savoiarda per odio di convertito contro la republica e per
saldo convincimento di uomo di governo, che della republica romana
aveva colto solo le incongruenze.
Quindi improvvisò in quei primi ozii forzati una Storia dello
Stato romano dal 1814 al 1850, nella quale si ripercossero tutte le
oscillazioni del suo pensiero sprovvisto egualmente di principii
filosofici e di sistema politico. Nella prima parte vi critica
blandamente, ma onestamente il regime romano; nella seconda si
accanisce contro la republica e più contro Mazzini, del quale
afferra benissimo gli errori pratici senza comprenderne nè il
genio nè l'eroismo. Ma sicuro entro la compagine di un
governo liberale e regolare, si lascia presto riprendere dalla foga
rivoluzionaria: alzato da Cavour al ministero vi fa buona prova,
lavora segretamente col grande ministro, ne diventa il consigliere
più audace, rannoda alla sua politica gli antichi cospiratori
e riformisti romagnoli, sostiene la spedizione di Crimea, dirige la
campagna contro i mazziniani, trova in se stesso un tesoro di
patriottismo contro tutti i tiranni d'Italia, compreso il papa
così rispettosamente trattato nella propria storia. Non si
eleva mai, ma si raffina; è secondario nell'ingegno e
autoritario nel carattere. Dimenticando facilmente le opinioni
passate, agisce sempre colla massima forza nelle presenti; ama la
scienza di governo, e vuole essere fra coloro che comandano. La sua
vanità si balocca puerilmente colle decorazioni.
Nel gruppo subalterno dei fuorusciti politici stretti intorno a
Cavour, Farini è quello che ha maggiore energia: il
mazzinianismo della prima gioventù gli giova ora nella
virilità, mentre la scaltrezza di governo lo rende scettico
sui mezzi e l'egoismo della volontà lo tempra alle più
difficili responsabilità della dittatura. Egli romagnolo deve
essere rivoluzionario per emancipare le Romagne: quindi il problema
dell'unificazione gli si dilata involontariamente oltre il disegno
di Cavour. Infatti lo vedremo fra poco dittatore a Modena,
sollevatasi ad incruenta rivoluzione cacciando il proprio duca dopo
le vittorie sardo-franche nella Lombardia, rompere il trattato di
Villafranca che arresta la liberazione d'Italia e spingere alle
annessioni col Piemonte, contro la stessa volontà sbigottita
di questo. Farini dittatore e rivoluzionario sarà allora la
più composita e brillante figura d'Italia. Fervido di
furberia e di vanità, passando da Modena a Parma e a Bologna,
dopo avervi improvvisato un governo dell'Emilia, vorrà
fonderlo colla Toscana per avervi un'ora di regno e assicurare
almeno un nuovo stato centrale all'Italia, se mai la Francia negasse
risolutamente al Piemonte di annettersi queste provincie; ma Bettino
Ricasoli con maggiore sagacia politica e volere più
freddamente tenace gli si opporrà. Poi, compite le annessioni
e ritornato Cavour al potere, Farini sarà, come il suo grande
capitano, spaventato delle iniziative garibaldine: osteggerà
la spedizione dei Mille, contrasterà a Garibaldi il passaggio
sul continente e la marcia su Napoli. E quando tutto il napoletano
sarà conquistato, e per riprenderlo a Garibaldi perchè
Mazzini non vi tenti una republica, Cavour si aprirà
audacemente il passo attraverso lo stato pontificio, Farini
resterà ancora il suo più temerario consigliere,
redigerà la lettera a Napoleone III, annunziandogli di
marciare contro Garibaldi per sottrarre il Napoletano all'anarchia
delle bande rosse; finalmente, mandato dittatore a Napoli,
v'improvviserà il governo nazionale.
Alla morte di Cavour Farini dominerà momentaneamente fra gli
eredi più influenti della sua politica, finchè,
sorpreso dalla pazzia, morirà giovane ancora, povero, avendo
vissuto una vita di cospirazioni, di parlamenti, di esigli, essendo
stato medico, ministro, dittatore, avendo creduto a Mazzini e a
Cavour, a Pio IX e a Vittorio Emanuele, alla federazione e
all'unità: diplomatico, letterato di medicina e di storia,
capace come a Modena di rompere un trattato europeo riunendo le due
tesi di Cavour e di Mazzini, abbastanza abile come nell'Emilia per
stabilirvi pressochè da solo un governo; a volta a volta
rivoluzionario e conservatore, colla vanità di un pervenuto
nell'onestà di un patriotta, e colle più difficili
qualità di un mediocre in un'anima potente d'improvvise e
grandi iniziative.
La sua generazione era così.
INDICE
LIBRO QUARTO: Il risorgimento
Capitolo primo: I moti del 1821
- Influenze europee
- La rivoluzione napoletana
- Rivoluzione piemontese
- Repressioni assolutiste
Capitolo secondo: Trame ed insurrezioni del '31
- Incubazione liberale
- Condizioni uniformi dei governi
- La sommossa del centro
Capitolo terzo: Il pensiero politico nel moto letterario
- I primi gruppi
- Il dualismo letterario
- Colletta e Botta
- Rosmini e Gioberti
Capitolo quarto: Giuseppe Mazzini e la Giovine Italia
Capitolo quinto: Conati ed imprese rivoluzionarie
- La spedizione nella Savoia
- Stato generale della penisola
- I fratelli Bandiera
- I riformisti
LIBRO QUINTO: L'ultima rivoluzione federale
Capitolo primo: I prodromi
- Effervescenza dell'opinione
- Pio IX
- L'agitazione negli altri stati
- Gli statuti
Capitolo secondo: Le sommosse popolari e la guerra regia
- Le cinque giornate di Milano
- Adesioni di guerra
- La campagna piemontese
Capitolo terzo: La reazione federale
- L'allocuzione papale
- Il tradimento di Ferdinando II
- Le annessioni al Piemonte
- Disastri militari
- Catastrofi costituzionali
- Pellegrino Rossi
- La seconda campagna piemontese
Capitolo quarto: Schemi repubblicani
- Firenze
- Proclamazione della repubblica
- Caduta della repubblica romana
- Giuseppe Garibaldi
- Ultima repubblica di Venezia
LIBRO SESTO: L'egemonia piemontese
Capitolo primo: Le ristorazioni
- Riscossa dell'opinione
- Regno napoletano
- Stato pontificio
- Granducato e ducati
- Lombardo-Veneto
Capitolo secondo: La preparazione piemontese
- Prime difficoltà parlamentari
- Il conte di Cavour
Capitolo terzo: La politica dell'egemonia
- Ministero di Cavour
- Guerra di Crimea
- Congresso di Parigi
- Adesioni al Piemonte
Capitolo quarto: L'opposizione rivoluzionaria
- Disfatta del mazzinianismo
- Carlo Pisacane
Capitolo quinto: La mediocrità politica e letteraria
- Scadimento del genio nazionale
- Le nuove scuole
- Luigi Carlo Farini