VOLUME I
LIBRO PRIMO
IL FEDERALISMO MUNICIPALE
Capitolo Primo.
La fusione barbarica
L'individualità romana e cristiana.
Roma fu la patria dello stato, il suo impero la prima unità
mondiale.
L'individualità antica vi ottenne colla coscienza della
propria interezza, quella dei rapporti che la riunivano allo stato.
Infatti mentre nella Grecia, patria dell'individuo, questi rimaneva
chiuso in se medesimo e lo stato era piuttosto una somma che una
unità capace di subordinarsi gli individui imponendo loro le
proprie necessità come un'idea superiore, per la quale
fossero nati e nella quale vivessero, a Roma individuo e stato,
astrattamente concepiti, si costituiscono con reciproca
personalità. La libertà dell'uno risulta dalla
necessità dell'altro, il destino di Roma è la
spiegazione e la gloria d'entrambi. Quindi le prime battaglie
politiche vi hanno già uno spiccato carattere giuridico; la
religione, più bassa dello stato, ne rispecchia le relazioni
in una specie di contratto fra uomo e Dio; la famiglia vi fornisce
l'unico altare praticato, la poesia vi è assente, la politica
vi domina. Ma perchè il concetto della individualità
possa esplicarsi diventando simultaneamente coscienza ideale e forma
politica, l'individuo deve esservi in parte soffocato e contuso; la
storia sembra imitare il processo dell'arte, che per estrarre il
tipo è sempre costretta a spremere l'individuo. Così
nella famiglia romana, modellata sullo stato, il padre solo, che ne
è l'unità, si mostra perfetto; tutte le altre
personalità soggiacciono alla sua, ma vi ottengono con
secolare disciplina i sentimenti e le idee, che corrispondendo alla
personalità astratta del loro tipo possono formarlo
storicamente. Il diritto romano è la loro storia. In esso
tutto è concepito astrattamente e nullameno a contatto della
realtà; la procedura vi è infallibile, le relazioni
precise; l'individuo romano vi è inviolabile come la
proprietà, nella quale e colla quale si svolge; una severa ed
angusta moralità impera a tutte le relazioni; autorità
e servitù vi sono scevre di passioni.
Nè l'individuo, nè lo stato sono però perfetti:
manca il terzo termine, l'umanità.
Nel diritto come nella storia romana si sente il dualismo: da un
canto Roma, dall'altro il mondo; la vita vi è conquista e
l'unità mondiale lo scopo che deve annullarla, e l'annulla.
Quindi nel periodo romano, che compie il periodo ellenico, le due
personalità dello stato e dell'individuo rimangono
così violentemente strette per la necessità
dell'incessante battaglia che, se non si soffocano, almeno
s'impediscono vicendevolmente un armonico ed integrale sviluppo. Dal
momento che Roma è in lotta con tutto il mondo per fonderlo
col proprio processo nello spirito greco, il suo stato costituito di
questa idea e per questa idea vi deve tutto sacrificare. La famiglia
è un allevamento politico e militare, il governo una
republica aristocratica, perchè la monarchia di Alessandro
aveva già fallito alla missione di universalizzare lo spirito
ellenico; il soldato deve essere cittadino e il cittadino soldato,
il figlio sottoposto al padre come un milite a un centurione, la
donna sottomessa all'uomo e senza funzione o carattere politico, la
religione uno strumento di governo; e non pertanto ogni coscienza
privata vi rimane alta quanto la publica, giacchè solo un
popolo di soldati e un esercito di cittadini possono conquistare il
mondo con una guerra di sette secoli.
I greci stimavano barbaro ogni altro popolo, i romanipiù
forti e meno intelligenti lo consideravano nemico. L'umanità
dell'individuo così a Roma come ad Atene è tutta
nell'orbita della patria organizzata dallo stato. L'angustia di
questo limite e la ferocia del processo storico dovranno quindi
violentarla: però essa sarà la migliore apparsa sino a
quel tempo nella storia, e vi resterà come uno dei massimi
momenti dello spirito umano.
Il civis romanus sum, grido d'orgoglio insuperato col quale
l'individuo romano si afferma in faccia a se medesimo e al mondo,
esprime al tempo stesso il suo trionfo e la sua sconfitta,
giacchè non avrebbe saputo abbreviarlo slargandolo fino
all'universale: civis sum. Roma e il suo stato sono ancora necessari
per essere cittadino; la personalità romana non è
ancora umana.
Compita la conquista mondiale con un'assidua dilatazione da tutte le
coste mediterranee ai centri d'Africa, d'Asia, e d'Europa, soppresse
coll'antagonismo di tutti gli stati le antitesi di tutte le
civiltà e di tutte le religioni, riassunto in una sintesi
incomparabile quanto gli antichi imperi avevano connesso e la Grecia
aveva fuso nel proprio spirito, propagata una legislazione uniforme,
indotto nella coscienza di cento popoli il sentimento
dell'unità storica col trionfo di Roma, occorreva ancora una
nuova religione e un'altra filosofia per formare la vera
personalità dell'individuo e dello stato entro il concetto
dell'umanità. Dopo aver ellenizzato se medesima, Roma doveva
romanizzare il mondo, comunicando a tutti i popoli colle proprie
leggi i propri diritti. Caio Gracco e Giulio Cesare furono i due
massimi eroi di questa necessità romana, che trionfò
nel periodo imperiale con imperatori mostruosi come Caracalla e
Commodo.
Se la monarchia cesarea era la negazione della nazionalità di
Roma, il cristianesimo era la negazione dello stato romano.
L'impero, come soluzione del lungo periodo di conquista, fu dunque
un'epoca di pace, una specie di riposo, nel quale tutti i popoli
riconoscendosi ascoltavanole nuove promesse di un mondo migliore.
L'unità cristiana divenne il rifugio di tutte le
personalità offese dall'inevitabile tirannia unitaria
dell'impero. Colla filosofia greca, col diritto romano e col
cristianesimo la coscienza individuale non aveva più d'uopo
di aderire allo stato per rassicurarsi: libera, ripiegata sopra se
medesima, in faccia a un Dio tutto spirito, esaltata dalla tragedia
del Golgota, che dichiarava falsa ogni società e la vita un
pellegrinaggio verso il cielo, trovò subito istintivamente la
propria identità. Patria e nazionalità, tutto fu nel
primo fervore abiurato, mentre invece tutto doveva ricostituirsi
sulla base di questa abiura.
Nella formazione etica della nuova personalità Dio si
sostituì allo stato, cui per contraccolpo venne storicamente
ad aggiungersi come terzo termine l'umanità affermata dalla
nuova religione.
Senonchè il recente individuo creato da una formale negazione
della storia, nella quale era chiamato ad agire, quantunque migliore
dell'antico, non era meno imperfetto. Il processo di astrazione,
mediante il quale si era realizzato, lo rendeva singolarmente inetto
nella solidarietà storica, appunto nel momento che
l'imperiale unità romana, avendo liquidato tutto il mondo
anteriore, doveva alla propria volta liquidare se medesima.
L'impero avendo annullato tutti gli stati nella propria unità
doveva essere franto dalla federazione.
Il cristianesimo, non meno pessimista del mosaismo donde usciva,
aveva bensì creato una personalità più
spirituale di quella sviluppata dalla filosofia greca e dal diritto
romano, ma per ottenerla aveva dovuto sopprimere in essa ogni
coscienza storica. Nel suo sistema la vita umana non aveva valore se
non come prologo alla vita oltremondana: il mondo, effetto di una
prima decadenza, si era mutato per misericordia di Dio in una specie
di prova, dalla quale l'individuo non poteva uscire vincitore che
con una rinunzia alla propria umanità. Questa negazione, meno
profonda ma appuntoper questo più efficace di quella di
Buddha, se cancellava di un tratto tutte le tragiche differenze fra
gl'individui del mondo antico emancipandoli in una libertà
fatta di uguaglianza e di disinteresse dalla vita, correva pericolo
di perdere i risultati del proprio progresso. La necessità
metafisica del negar tutto per sopprimere molto, comune a tutte le
rivoluzioni, doveva essere frenata dall'altra maggiore
necessità di mantenere la vita per atteggiarla secondo le
nuove idee.
Questa fatalità produsse la storia del cristianesimo, la
quale altrimenti avrebbe conchiuso a un suicidio storico. L'impero
romano logorato dal trionfo della propria missione si
disgregò perchè entro le sue rovine si ricomponesse la
doppia individualità degli stati e dei cittadini.
Nell'unità religiosa, sostituita alla sua unità
politica, non vi erano più nè barbari nè
nemici; il dualismo fra pagani e cristiani si svolgeva come un
processo di conversione al cristianesimo; le imminenti invasioni
barbariche rappresentavano la necessità di una trasfusione di
sangue vergine nel vecchio corpo dell'impero esaurito dalla vita e
dalla storia.
Il civis romanus sum da grido di nobile orgoglio si era già
mutato in vanto di efferata tirannide, mentre il dispotismo del
governo imperiale, aggravandosi insopportabilmente su tutte le nuove
coscienze, destava in ogni popolo il bisogno di riprendere la
propria nazionalità sacrificata fatalmente alla conquista
della civiltà romana. D'altronde il cristianesimo era
inconciliabile coll'impero, che sintetizzava tutte le forme e le
forze del paganesimo.
La federazione disgregò l'impero.
La federazione nell'impero.
Per qualche tempo l'impero resistette, impedendo e sventando le
rivolte coi benefizi della propria democrazia cesarea. Siccome
gl'imperatori trattavano le provincie meglio che la capitale, tutti
i moti intesi a resuscitarvi le vecchie nazionalità
fallirono: ma, sottomessiquei primi ribelli e reso indiscutibile
l'impero, i popoli insorsero contro l'unità cesarea
reclamando la propria autonomia colle forze stesse della
civiltà romana. L'antica lotta degli italioti contro Roma
ricominciò su tutti i punti dell'impero: i sudditi si
agitarono come cittadini malcontenti, subornarono le legioni
accantonate nei loro territori, le spinsero alla ribellione, le
avventarono su Roma. Galba, primo fra gli imperatori imposti da una
provincia insorta, distruggendo l'unità plebea sulla quale si
era invano appoggiato Nerone suo avversario, affettò di
rialzare il senato e di ripristinare l'antica libertà violata
dalla famiglia di Augusto. Era questo il sogno e la rivincita delle
provincie ancora credenti nell'impero e nemiche di Roma. Ma
l'usurpazione diventò a mano a mano il solo modo di elezione
all'impero; i generali vi succedettero ai generali, non fu nemmeno
più necessario essere romano: Nerva era di Creta, Traiano di
Spagna, Antonino di Nimes. Non importava essere nemmeno generale; la
virtù era inutile come il genio per conciliare l'unità
dell'impero colla libertà delle provincie, inefficace ogni
mostruosità di ferocia per atterrire le ribellioni.
Così, mentre la civiltà dei romani si estendeva, il
loro dominio scemava, Roma decadeva e i municipii s'alzavano. Il
federalismo barbaro del regno di Commodo oltrepassò quello
inaugurato da Galba; ogni provincia, ogni legione proclamò i
propri cesari, che si distrussero a vicenda. L'impero fu un dramma,
in ogni scena del quale moriva un imperatore. Dopo Galieno si
contarono in quindici anni nove imperatori, dei quali otto uccisi, e
le insurrezioni continuarono.
Quindi, mutata la scena, la politica imperiale non potendo
più contare nè sulle Provincie, nè
sull'equilibrio fittizio di Adriano o sulle virtù
distributive degli Antonini, nè sul tesoro esausto delle
naturalizzazioni, s'appoggiò unicamente sull'esercito. La
vera capitale dell'impero era l'accampamento: il suo governo
assomigliava già ad una invasione. Se Caracalla toglieva ogni
differenza fra i sudditi dell'impero romano, Commodoaveva già
aperto a tutti le proprie legioni, nelle quali i soldati combattenti
come gladiatori dovevano mutarsi presto in conquistatori. E allora i
barbari associati con essi sfondano improvvisamente tutti i confini;
la guerra rugge incessante alle frontiere, nelle provincie, alla
capitale, negli accampamenti; il mondo, più forte di Roma,
impone a Diocleziano di spezzare l'impero in quattro immense
provincie. Da questo momento il senato non discute più leggi
in Roma abbandonata dalla politica e dai Cesari; altre città
come Treviri, Antiochia o Milano stanno per superarla. La
federazione, stanca della lunga guerra e appagata dalla enorme
vittoria, concede una tregua all'impero, ma per romperla dopo pochi
anni e trionfare di Massenzio con Costantino, che decapita Roma e
crea Bisanzio.
L'unità e il governo di questo secondo impero, non essendo
più che di palazzo, rispetta tutte le forme politiche
conquistate dalla federazione contro Roma, a cominciare dall'ultima
e più importante, la divisione di Diocleziano. Tutto cede al
cristianesimo, cui Costantino dà la forza di una rivoluzione
sociale; vi affluiscono tutti i diritti, vi si accatastano tutte le
ricchezze. Poichè nella battaglia contro il paganesimo i
cristiani si sono divisi in varie sette, Costantino tenta di
riunirli coi concilii, perseguita eretici e pagani, identifica la
fede in Dio colla fede in Cesare. Ma alla sua morte le divisioni e
le suddivisioni proseguono; l'eroismo di Giuliano l'apostata nel
tentativo di una doppia risurrezione del paganesimo e dell'impero
fallisce; la libertà propagata dal cristianesimo frantuma con
rinascenti ribellioni la stessa divisione delle quattro provincie;
Roma colla proclamazione di Nipote si contrappone a Bisanzio,
finchè scoppia come un incendio l'arianesimo, che scindendo
l'unità cristiana raddoppia le energie separatiste della
federazione. Intanto i barbari, assoldati dall'impero e
naturalizzati dal battesimo, secondano inconsciamente o
volontariamente la multipla rivoluzione federale; prima coloni, poi
ribelli, quindi liberatori percorrono liberamente la gamma loro
assegnatadalla storia. Seduzioni irresistibili li circondano;
incaricati di difendere la porpora imperiale, ne tagliano lembi per
rivenderli stupidamente o per cingersene la fronte con orgoglio
selvaggio.
Con Arcadio ed Onorio si entra finalmente nella fase degli
imperatori ancora più inetti che immobili. Si adottano le
invasioni per dissimularne le vittorie, si vezzeggiano le ribellioni
per placarne i furori e nascondere la decadenza; il palazzo
imperiale non è più abitato che da statue e da
paralitici. L'inondazione barbarica straripa da tutti gli argini:
quindi l'impero arruola intere nazioni di barbari contro altri
barbari, distribuisce regioni ai goti, ai vandali, agli eruli, ai
turcilingi, agli alani, negoziando incessantemente coi re assoldati,
opponendo i primi agli ultimi, sostenendosi col maneggio delle
invasioni.
Ma l'anarchia prorompente da questa diplomazia imperiale,
costringendo le provincie a pagare le imposte per essere poi
saccheggiate, presto suggerisce loro di voltare contro l'impero
l'immane federazione dei barbari e di trattare direttamente coi
singoli re dell'invasione: così la Spagna si dà ai
goti, l'Africa ai vandali, la Gallia ai franchi, l'Italia ad altre
nazioni.
Fondazione del regno.
Fra tutti questi torbidi moti l'Italia domina però ancora,
opponendo la rivoluzione del regno all'impero di Bisanzio. Prima che
le orde discendano le Alpi e sorga la stessa Bisanzio, Milano guida
già la sommossa federale contro Roma, e il suo S. Ambrogio ne
soverchia i pontefici; S. Agostino, scolaro di questo, gitta un
appello sublime di coraggio e di eloquenza a tutti i barbari
perchè accorrano d'ogni parte a rovesciare l'antica capitale.
Quindi i barbari arrivano tumultuando. Ravenna, fondata tra la
doppia inimicizia di Roma e di Milano, diventa la nuova città
del regno dopochè Stilicone ed Ezio vi hanno invano mescolato
eroismi e tradimenti; Ricimero tratta gli ultimi cesari come
schiavi, Gundebaldo suo nipote lo imita, tutta l'Italia applaude ed
asseconda, meno Roma ancora unitaria che resiste. Ma Nipote,
impostole da Bisanzio, viene scacciato da Oreste, già
segretario di Attila, che vi nomina il proprio figlio Romolo Augusto
prontamente spodestato da Odoacre generale degli eruli. Questi
è il primo re della prima Italia. Frazionata in Provincie,
abitata da vari popoli, disforme di civiltà e di clima,
soggiogata dai romani, associata con loro nella conquista del mondo
e smarritavisi prima di loro, essa non aveva mai avuto nè
vita nè storia nazionale. Tutto vi era stato importato. La
sua prima civiltà etrusca era già greca in gran parte:
la sua seconda civiltà romana diventò troppo presto
mondiale atrofizzando fatalmente i pochi germi, che avrebbero potuto
in una lenta fusione di popoli e di costumi darle carattere
originale ed italiano.
Odoacre, insorgendo contro l'impero, è costretto ad
intitolarsi re d'Italia. Nell'organizzazione del suo regno appare
subito il principio della rivoluzione italiana, che frangendo
l'unità della conquista romana nel nome delle eterne
insurrezioni federali intende conservare le idee sociali e civili di
Roma. Quindi le leggi vinte dai plebei sui patrizi e la democrazia
cesarea restano indelebili sul suolo italiano, mentre l'imperatore
di Bisanzio alzandosi nella unità spirituale dell'impero non
è più che un pontefice del diritto, e il papa di Roma
come capo del cristianesimo comunica alla grande urbe abbandonata la
propria inviolabilità. Ma Odoacre va più innanzi, e,
ariano, protegge i pontefici romani contro Bisanzio, che vorrebbe
imporre loro nuove eresie, e li costringe ad essere solidali col
nuovo regno sostituente una nazionale unità a quella formale
dell'impero. Così la federazione trionfa col nuovo istinto
indipendente dei barbari, che ringiovanisce quello ormai esausto
della vecchia libertà e supera l'altro delle insurrezioni
militari sempre circoscritte nella formola imperiale;
senonchè una reazione rovescia prontamente il nuovo regno.
Bisanzio scarica i goti sugli eruli, avventandoTeodorico su Odoacre;
Teodorico vince, ma per tradire anche più vastamente
Bisanzio, slargando e consolidando il sogno di Odoacre. Il nuovo re
aduna intorno a se stesso tutti i superstiti elementi della
civiltà, moltiplica i monumenti, conferma l'indipendenza di
Roma, vuole essere indigeno, federato e romano, re e vicario,
conquistatore e console, dominatore e protettore della nuova
libertà. Ariano come Odoacre, ne imita la politica religiosa
e decide la nomina di Simmaco al pontificato contro Lorenzo
candidato di Bisanzio: protegge vescovi, plebi, arti, redimendo
l'Italia dall'impero colla doppia formula della monarchia a Ravenna
e della republica a Roma fra tale uno splendore di gloria, che tanti
secoli dopo confonderà ancora la fantasia di Machiavelli coi
bagliori ingannevoli di una visione. Se il mondo antico aveva
progredito coll'unità, il nuovo progresso derivato dal suo
esaurimento deve invece attuarsi colla federazione, per determinare
le individualità delle razze e degli stati, delle provincie e
delle città, delle famiglie e degli individui entro le due
idee universali della chiesa e dell'impero. Laonde dalla conquista
irresistibile della republica attraverso le naturalizzazioni dei
primi cesari, l'equilibrio di Galba, la democrazia militare di
Commodo, le divisioni pacificatrici di Diocleziano, la democrazia
cristiana di Costantino, le naturalizzazioni barbariche di Onorio,
sorgeranno finalmente i regni indipendenti e federati dei barbari.
L'embrione della storia moderna è già trovato; le
leggi del suo primo momento saranno quelle di tutto il suo sviluppo.
Ma l'Italia non può come la Spagna appartenere ai goti
fondendosi nella loro unità nazionale; Roma republicana e
cristiana lo vieta. Quindi, emancipatasi da Bisanzio nella
fondazione del regno, incomincia la propria guerra contro Ravenna
rappresentante la nuova unità monarchica colla nobiltà
ariana. Le differenze politiche e religiose fra le due città
sono inconciliabili: il progresso sociale di Roma riassunto nel
diritto romano e nel cristianesimo esige il sacrifizio di Ravenna,
che contiene l'unico germe di progresso politico. La guerra scoppia,
ma la vittoria è già prestabilita. Roma disarmata,
alla testa di tutte le forze federali, di tutte le tradizioni e di
tutte le idee, aiutata dalla stessa Bisanzio, prevarrà a
Ravenna sconfiggendo nei goti gli ultimi invincibili soldati
dell'epoca, annullando successivamente il genio di Teodorico
diventato crudele, la clemenza di Amalasunta, l'impostura di
Teodato, il suicidio regio di Vitige, il tradimento patriottico di
Ildebaldo, i supremi eroismi di Totila e di Teia. Mentre i goti
migrano dall'Italia per perdersi nelle paurose foreste germaniche,
S. Benedetto arriva con un altro esercito di monaci e alza a
Montecassino la magnifica ed imprendibile rocca, nella quale
ripareranno tutte le arti e le scienze dalla tempestosa notte
medioevale. La milizia cristiana ingrossa ora per ora, e si espande,
conquista, si fortifica; i vescovadi italiani salgono a 145: ogni
vescovo è un capitano pel quale sacerdoti e credenti possono
trasformarsi in soldati; ogni fondazione vescovile è al tempo
stesso un baluardo e un accampamento contro l'arianesimo al quale
scemano moltitudini e guerrieri, generali e pensatori.
L'istinto politico di Roma non ha fallito; l'impero di Giustiniano e
del suo successore è ancora una negazione della barbarie
regia e una protezione delle vecchie libertà republicane. A
Venezia, rispettata e protetta da Narsete, si costituiscono
parlamenti cantonali; ogni isola ha un tribuno e un'assemblea:
Eraclea è il centro delle deliberazioni generali. Napoli ha
un'eguale libertà, Roma conserva il proprio senato, che
può opporsi ancora al generale bizantino proseguendo la lotta
fra il regno e la libertà, entrambi necessari alla vita
italiana e non pertanto inconciliabili nelle proprie essenziali
conseguenze. Quindi denunzia Narsete a Bisanzio; ma questi,
ammaestrato dal dramma di Belisario, piuttosto che credere secondo
una leggenda agli ordini insultanti dell'imperatrice Sofia, chiama i
longobardi, che discendono le Alpi per rinnovare in Italia il regno
dei goti. La loro conquista si compie però con metodoopposto;
se i primi erano un esercito, essi sono un popolo e colonizzando
dove si fermano, non mirano che all'Italia Cisalpina, ultimo campo
del goto Ildebaldo, improvvisano un'infrangibile rete di fortezze
intorno alle grandi città dei romani. Mentre i goti avevano
rispettato le leggi e le magistrature romane, i longobardi invece
sottomettono tutto e tutti alla propria legge militare. Il cittadino
diventa servo della gleba, aldio, hospes; un decano regge ogni
riunione di dodici uomini, uno sculdascio ogni riunione di dodici
decani, un capo superiore ogni riunione di dodici sculdasci, e il re
sovrasta a trentasei duchi sparsi nel regno. La faida, vendetta,
è la gran legge dei longobardi, che simile all'ebrea discende
al settimo grado di parentela e regola successioni e diritti di
proprietà; qualunque uomo ha il proprio guidrigildo, meno i
romani considerati come senza valore. Ogni longobardo è
libero e soldato; ogni italiano è escluso dall'esercito,
tributario e servo. I goti riconoscevano la supremazia formale di
Bisanzio, i longobardi la ricusano. L'idea del regno, come negazione
dell'impero, sale dunque con loro di un grado nella scala della
libertà; ma i longobardi ariani essi pure s'accentrano a
Pavia e vi si fortificano, come i goti a Ravenna, contro le due
grandi città cristiane di Roma e di Milano. Però se
questa è già vinta, quella invincibile
infliggerà loro la sconfitta finale.
Intanto l'altra metà libera dell'Italia si volge contro il
loro regno colla rivoluzione. Ravenna e Roma unite oppongono la
più salda fortezza e il centro mondiale ancora più
glorioso e ricco d'idee, mentre Bisanzio colpita a morte dalla
negazione longobarda può tuttavia prestare gli eserciti di
cui esse mancano; l'Italia meridionale, oltre Benevento estrema
punta del dominio longobardo, è naturalmente federale;
Venezia romita fra isole e paludi rimane al di fuori della lotta;
tutte le città romane emancipate dalle prime battaglie fra
Roma e Ravenna si stringono federalmente intorno ad esse con una
somma di energie originali e incalcolabili, che la differenza di
religione moltiplica esasperandole. La guerra fra cattolicismo ed
arianesimo ricomincia più serrata e complessa, perchè
il regno longobardo, superiore a quello dei goti, esige per essere
vinto maggiori forze e diverse.
Il tempo longobardo si divide in tre periodi militari riuniti da una
catastrofe: nel primo i longobardi conquistano mezza Italia, nel
secondo il cattolicismo li conquista, nel terzo Roma li distrugge.
La loro subita espansione supera quella dei goti, ma colta, si
direbbe, istantaneamente dal contagio federale italiano, alla morte
di Alboino subisce un interregno di dieci anni, nel quale i
trentasei duchi regnano come tanti re. Poi nuove guerre costringono
all'unità regia di Autari; vittorie si alternano a sconfitte,
finchè l'eroismo di Pavia e l'abilità della sua
politica trionfando con Agilulfo condensano il regno longobardo
nella sola Lombardia. Nullameno l'Italia romana lo sorveglia
implacabile. Mentre l'esarca di Ravenna non rappresenta che una
specie di unità bizantina contro l'unità longobarda,
la vera Italia dei Romani inerme è tutta nella rivoluzionaria
federazione dei popoli, che odiando la barbarie del regno si serrano
convulsivamente intorno alle vecchie libertà coll'ardore di
una fede religiosa in lotta con un'altra.
In quest'epoca il vero capitano del popolo è già il
vescovo, protettore delle moltitudini, elemosiniere dei poveri,
semidio della città. La sua rivolta contro i duchi e gli
esarchi per seguire il pontefice è l'origine e la forza
persistente di questa guerra federale d'ispirazione e alimentata da
alleanze, finchè S. Gregorio, nominato papa, non la rianimi
con entusiasmo di apostolo, dirigendola con vera sapienza di
statista. Di carattere bizzarro, amministratore esatto, caritatevole
fino alla prodigalità, poeta e cerimoniere così da
regolare le decorazioni del rito e il canto degli altari, egli
è il politico più attivo del proprio secolo: e
confedera tosto tutte le diocesi sfuggite ai longobardi, le dichiara
suburbicarie da Tivoli a Siracusa, consiglia, dirige, sovrasta ai
franchi, scatena l'impero contro Agilulfo. Quindi, reso più
forte dalle contraddizioni, si rivolta con agile tradimento contro
la stessa unità bastarda di Ravenna e di Bisanzio, cui si
appoggia; nomina i generali, ravviva quotidianamente la rivoluzione
indigena, centuplica i miracoli della religione col miracolo di una
coscienza capace di credere alla propria fantasia; mentre, miracolo
maggiore di tutti quelli narrati ne' suoi Dialoghi, l'Italia
riunendo i risultati politici e sociali di questa lotta riesce a
svolgere contemporaneamente in se stessa l'unità del regno e
la libertà della federazione col grandeggiare simultaneo dei
re di Pavia e dei pontefici di Roma.
Ma se il principio federale italiano raddoppia col proprio contagio
la riottosità federale dell'aristocrazia longobarda sino a
sollevarla contro i re, il cattolicismo più possente
dell'arianesimo sulle terre italiane penetra nella corte di Pavia e
la dissolve. Paolo Diacono, longobardo, storico dei longobardi, si
perde nel mistero della loro conversione al cattolicismo, che oggi
una critica più dotta ed acuta ha potuto scoprire.
Teodolinda, bavarese cattolica, sposa di Autari e poscia di
Agilulfo, appare la prima a conciliarli con donnesca abilità
alla propria religione, voltandoli contemporaneamente contro
l'indipendente feudalità dei duchi ariani. Nella nuova lotta
dell'aristocrazia contro la monarchia, questa deve fatalmente
ripiegarsi sul cattolicismo contro l'arianesimo, finchè
Teodolinda vedova e sovrana, imponendo a Pavia la religione dei
pontefici, permette a Roma di proseguire la vittoria colle stragi
dei grandi tentate da Adeloaldo, colla divisione del regno concessa
da Ariberto, coll'avvelenamento di Grimoaldo, ultimo eroe ariano, al
quale succede indarno nella guerra contro i pontefici il cattolico
Liutprando, marito di Guntrade, seconda Teodolinda.
Ma senza l'egida dell'arianesimo Pavia deve fatalmente soccombere a
Roma. I pontefici sovrastano ai suoi re, dei quali governano la
coscienza e le moltitudini, gli eserciti e le leggi. La federazione
italiana sgretola ora per ora l'unità longobarda; ogni
conversione è tradimento, ogni idea civile diventa deleteria
in un regno, che non avendo tradizioni non può crearsi collo
stato una patria, e, convertito a una religione nemica, aggiunge
alle proprie contraddizioni di straniero tutte le insufficienze di
un barbaro.
Le crisi imperiali di Bisanzio e le ponteficie di Roma possono sole
ritardargli la caduta. Infatti Roma, alle prese coi greci, deve
difendere se stessa da rinascenti eresie e da continui agguati, nei
quali i pontefici fanno da selvaggina. La destrezza, la perfidia, la
passione sono uguali da ambo i lati, ma la rivoluzione sostiene Roma
e guadagna Ravenna, ribella questa al proprio esarca e
all'imperatore. Quindi tutta l'Italia romana, fraternizzando colla
insurrezione di Roma, pare trascinata istintivamente verso una
indipendenza longobarda come ad un'ultima gloriosa conseguenza del
cattolicismo in progresso, mentre invece il trionfo di Roma su
Bisanzio riaccende fatalmente la guerra fra quella e Pavia.
Così nel periodo seguente un'ultima insurrezione esplosa
contro Bisanzio su tutti i punti, a Roma, a Ravenna, a Napoli, in
Sicilia, fra i veneti, colla formula dell'indipendenza nazionale,
non basta alla rivoluzione federale, quando il regno longobardo
ingrossa minacciando di schiacciare tutto e tutti. La lotta,
complicata al punto di sembrare assurda nel processo e impossibile
nel risultato, conclude nullameno al trionfo della rivoluzione. La
contraddizione cattolica paralizza la politica longobarda. Il papa,
benchè soccorso momentaneamente da Liutprando contro gli
iconoclasti bizantini, diffida del re, lo denunzia, lo costringe a
dichiararglisi nemico, fomenta contro di lui tutte le ribellioni, lo
gitta in braccia all'imperatore, invoca Carlo Martello, guadagna nel
proprio disastro un piccolo patrimonio, pel quale si trasforma in
sovrano. I papi si succedono, ma la loro politica prosegue
inflessibile. Ratchis vuole seguitare il combattimento di
Liutprando, ma percosso da religioso terrore ripara in un convento;
Astolfo, suo successore, si arresta in mezzo a vittorie insperate,
colto dallo stesso spavento, sulla via di Roma;e allora Stefano II,
sublime di ardimento, viene a minacciarlo sino nel suo castello di
Pavia, passa le Alpi, consacra Pipino re dei franchi e patrizio di
Roma, lo trae seco, gli fa sconfiggere due volte Astolfo e disfare
il regno longobardo, mentre l'esarcato e la pentapoli cadono in mano
del pontefice, cresciuto a doge politico come quelli di Napoli e di
Venezia.
Allora Desiderio, ultimo re scelto al trono dalla chiesa come un
vassallo, tenta col disperato eroismo di tutte le decadenze una
suprema rivincita; ma la stessa scomunica lo isola, il medesimo
appello ai franchi lo prostra, e Carlo Magno scende dalle Alpi per
cominciare nella storia un'epoca nuova.
Il patto di Carlomagno, e la dominazione franca.
Se i goti avevano commesso l'errore di accettare il principio
imperiale, i longobardi lo avevano raddoppiato accettando quello
cattolico. I loro due regni, sorti allo scopo di spezzare
l'unità romana e bizantina, perchè le
originalità latenti della nuova vita politica e sociale
potessero prodursi, mutavano però l'Italia di Odoacre
così che il nuovo patto fra Carlomagno e il pontefice
trasportava la base del diritto da oriente ad occidente.
Tre secoli di rivoluzione avevano finalmente maturato il proprio
frutto; l'antico mondo romano era cancellato, le invasioni
arrestate, il dominio bizantino soppresso. La grande donazione
franca alla chiesa emancipava tutta l'Italia non longobarda colla
dominazione del pontefice, che non potrebbe mai regnarvi da principe
unitario. Il federalismo liberale, di cui era tribuno e diventava
doge, gli impediva il regno colle stesse micidiali contraddizioni
che ai goti o ai longobardi, senza preoccuparsi nemmeno se egli per
fatalità del proprio principio o del proprio istituto
religioso dovesse tendere a una unità ben più grande e
compatta che non quella dei re di Pavia. Quindi nella nuova Italia
la lotta politicamuta ancora terreno e metodo; la nazione divisa in
franca e pontificia, giacchè i suoi punti estremi non
compresi nel «patto di Carlomagno» non sono ancora
politicamente italiani, prosegue la propria rivoluzione voltandosi
contro i franchi per eliminarli lentamente dopo averne sfruttata
tutta l'efficacia, e contro il pontefice ogni qual volta pretenda
nella politica italiana all'assorbente unità della propria
politica religiosa e cosmopolita. Le energie locali liberate
dall'oppressione longobarda e bizantina, disciplinate dai municipii
e dai vescovadi, ancora vivide di tradizioni e non imprigionate in
sistema troppo angusto per contunderle, scattano rovesciando gli
ultimi ostacoli. L'ideale politico individualizzato in ogni grossa
città accetta le forme separatiste feudali contro ogni
unità; il mondo sembra in frammenti nell'ora che la sua
unità ideale si rinsalda fra Carlomagno e Leone III.
La formula del loro patto è tanto ignota quanto chiara la sua
idea. Se l'impero bizantino rappresentava la modificazione indotta
nell'impero romano dal cristianesimo, quello di Carlomagno esprimeva
la morte dell'impero romano, quantunque la lettera del patto
sembrasse invece riconfermarlo. L'impero di Carlomagno non era
più che la conquista germanica consacrata dal cattolicismo,
Roma la nuova Gerusalemme cattolica e Bisanzio una capitale
d'oriente. Ma poichè la storia è sempre un
atteggiamento dell'ideale, le due idee dell'unità religiosa e
politica riassunte nella chiesa e nell'impero si toccano così
in un patto, che deve guarantire la nuova vita spirituale e mondana.
Per esso il papa, signore delle coscienze, sottomette all'imperatore
tutti i re e tutti i sudditi, e l'imperatore dedica ogni forza
propria alla difesa della chiesa contro ogni protervia del mondo.
Per un residuo bizantino e per la sua doppia qualità di
pontefice e di doge, il papa è soggetto all'imperatore, che
solo può nominarlo; ma il papa sarà sempre più
forte dell'imperatore, cui può isolare nell'impero con una
scomunica.
E questo patto, del quale gli articoli non furono mai trovati,
erompe dalla duplice idea del papato e dell'impero, e vivo,
flessibile resisterà a molte rivoluzioni, soffocherà
molte forme politiche, ne avvolgerà proteggendole molte
altre, dilatandosi con esse, resistendo a violenti strappate di papi
e d'imperatori prima di rompersi come una inutile bardella nelle
mani della storia.
L'influenza romana passa quindi nella dominazione dei franchi, che
si costituisce con una federazione di re e si suddivide in tre parti
alla morte di Carlomagno. Ma sotto lo sforzo della federazione
europea i Carlovingi si logorano e diminuiscono, mentre ad ogni
grado della loro decadenza unitaria si scopre sempre la mano dei
pontefice intento a stringere la propria chiesa in una costituzione
capace di sfidare i secoli. I nuovi Capitolari fissano tutti i riti,
la sacra gerarchia si purifica, le varietà monastiche si
precisano, i miracoli scorrono a fiotti, e la teologia cattolica,
liberata dalla teologia bizantina, attraverso la quale un capriccio
dell'imperatore poteva decomporre le formule ed alterare i dogmi,
presenta la prima volta al mondo il sublime spettacolo del pensiero
abbandonato da ogni forza profana, e superiore a tutte le
vicissitudini degli imperi. Il prete, non più suddito e
maggiore di ogni altro uomo, inizia quella elevazione religiosa
dell'occidente, che dovrà poi formare l'eroismo di qualunque
uomo pensante nella sincerità della propria coscienza.
Sotto la dominazione dei franchi l'Italia offre il nuovo spettacolo
di un progresso sociale determinato da una decadenza politica. Nel
regno i romani sono definitivamente pareggiati ai longobardi, la
nobiltà dei quali conserva tutte le proprie leggi e le
proprie ricchezze; i vescovi riuniti in consigli semipolitici e
ammessi nell'esercito acquistano la capacità della loro
imminente rivoluzione. I vescovadi, forti delle nuove
immunità, preservano industria e agricoltura, mentre il conte
e il vescovo, rappresentanti il patto di Carlomagno e
momentaneamente associati, resistono alla tradizione unitaria e a
quella imperiale di Bisanzio. S'aprono le università. Il
regno, già ostile al vecchio nome dei longobardi e al nuovo
dei franchi, s'intitola dall'Italia squarciando la rete delle
città militari stabilite a controsenso delle città
romane, e spezzandosi in quattro parti con quattro capitali: Ivrea,
Spoleto, Lucca e Verona; Benevento, superstite ducato longobardo col
nome superbo di Lombardia minore, viene raggiunto dalla rivoluzione
e presto sottomesso da Capua. Imperano dunque tre leggi: romana,
longobarda e dei franchi; questi, piuttosto dominii diretti che
utili del regno, soccombono ad una centralizzazione governativa
confidata a funzionari volanti, a messi regi e a conti di palazzo. E
il regno si mantiene immobile.
Il progresso sociale dell'Italia pontificia si mostra invece colla
nuova ricchezza di Roma e del pontefice, mentre la decadenza
politica condanna questo all'impossibilità di essere vero
doge come vorrebbero i romani per imitazione di Napoli e di Venezia.
Invece il pontefice, costretto quale capo della sola rivoluzione
politico-religiosa ad esigere l'annullamento di Roma nella chiesa ed
incapace di ottenerlo senz'armi, umilia sotto la spada del duca di
Spoleto la propria città sino a farle rimpiangere l'anarchia
bizantina e l'impotenza degli esarchi. Quindi vi scoppiano
rivoluzioni contro di lui e contro i franchi.
A rovescio del regno e del papato le repubbliche bizantine, estranee
al patto di Carlomagno, raggiungono un progresso politico mediante
una decadenza sociale, che riconferma la tirannide del patriziato
contro la nuova democrazia dei vescovi: il rigore della reazione vi
è tale che si preferisce il dispotismo orientale alla
dominazione franca, e vi si osteggiano simultaneamente Roma e il
regno per salvare le proprie autonomie. Quindi dogi e nobili
difendono l'indipendenza delle repubbliche contro l'opposizione
popolare come veri despoti bizantini a Venezia, a Napoli, ad Amalfi
invocante i saraceni, e nella Sicilia che accetta i mussulmani.
Ma nel rapido declinare dei Carlovingi il centro dell'occidente si
sposta o meglio ancora scompare, permettendoa tutti i popoli
oppressi dalla loro conquista di ricostruirsi in nazione. Il loro
moto propagandosi all'Italia raduna in Pavia la dieta disusata dei
marchesi, che offrono simultaneamente la corona italica a Carlo il
Calvo re dei franchi e a Luigi re di Alemagna, pel quale accetta la
candidatura il figlio Carlomanno. Papa Giovanni VIII, che deve
consacrarli, opta per il primo contro i baroni parteggianti pel
secondo, ma il mondo occidentale si allontana sempre più dal
proprio centro francese. Carlo il Calvo assalito dal rivale
diminuisce così che la sua dominazione sopra le grosse marche
italiane, ormai forti quanto un regno, non è più che
nominale. Quindi il papa, attaccato dai marchesi come supremo
sostenitore dell'impero, rientra violentemente in azione, si reca in
Francia, vuole incoronare re il duca di Provenza, convoca un
concilio a Roma per deporre Carlomagno, sommove chiesa e regno
invocando Bisanzio, sottomettendosi ai saraceni, moltiplicando
eccessi e scandali al punto di parere impazzito. Ma la storia, come
per dargli ragione, rievoca Carlomagno in Carlo il Grosso che,
riassumendo per un istante l'impero, ridiventa re di Germania,
d'Italia e di Francia, e si estingue improvvisamente come ultimo
razzo di un incendio, onde era stato illuminato tutto il mondo.
Catastrofe del Regno.
Quindi l'unità del regno fondata dagli eruli, stabilita dai
goti, cementata dai longobardi, mantenuta dai franchi, spezzata
dalle quattro grandi marche, ritenta indarno di ricomporsi con una
reazione. La prima lotta per la corona italica alla caduta dei
Carolingi scoppia fatalmente in Italia fra Berengario duca del
Friuli e Guido duca di Spoleto, che vincitore per un istante crede
di regnare sui marchesi mediante la nomina ad imperatore ottenuta
dal papa. Ma il problema, moltiplicandosi per tutte le antitesi
dell'impero col regno, diventa inintelligibile; Roma tergiversa e
rinnega la data consacrazione per ripeterla sul tedesco Arnolfo
contro il nuovo imperatore di Spoleto; questi è disperso.
Roma straziata fra papa e antipapa riconferma imperatore un secondo
duca di Spoleto, finchè Berengario duca del Friuli ricompare
sulla scena e ne fugge nuovamente. Allora si presentano Rodolfo di
Borgogna e Ugo di Provenza: il primo soccombe dopo un anno a quella
stessa rivoluzione che lo aveva chiamato; il secondo dopo
quattordici anni di abili massacri, sempre vacillante sul trono,
abdica forzatamente in favore del proprio figlio Lotario, che
pupillo di Berengario II scompare nello stesso dramma del proprio
tutore. Tutte queste prove dell'impossibilità di un regno
nazionale determinano finalmente la calata di Ottone I in Italia; ma
questi succede davvero a Carlomagno e ne ripete il sacro patto colla
chiesa.
In tutto questo periodo le republiche bizantine, poste fuori
dell'orbita della guerra e solamente preoccupate della propria
indipendenza, assistono come spettatrici alla suprema contesa pel
regno, ignorandone l'importanza e essendone ignorate. Ma poco dopo
rassicurate dal trionfo della casa di Teodora, che trasforma Roma in
una vera republica bizantina, rinunciano alle enormità delle
tirannidi dogali e all'alleanza dei saraceni, onde si difendevano
contro di essa.
Col nuovo patto di Ottone tutta la grande rivoluzione del regno
è assicurata, ma il regno vanisce nell'imperatore dichiarato
re d'Italia. Qualunque nuovo pretendente sarebbe d'ora innanzi
impossibile contro l'immensa federazione italo-germanica. Nuove
marche disorganizzano le vecchie, nelle quali i marchesi avevano
cospirato pro e contro tutti i re; altre famiglie, come quella
d'Este dalla quale uscirà Matilde, la grande eroina della
chiesa, sorgono e grandeggiano sulle antiche. Per togliere il
Piemonte all'influenza regia di Pavia e di Ivrea, Ottone dà
la propria figlia ad Alerano, signore di Ronco, costituendogli un
feudo enorme col Monferrato, mentre dietro il Piemonte Beroldo
rinserra nelle torri di Morienna la futura casa di Savoia, nido di
avvoltoi forti e rapaci, dal quale s'involerà qualche aquila.
Ma per assicurare la demolizione del regno Ottone ne affida ai
vescovi, implacati nemici di tutti i re, le rovine; e i vescovi
regnano in ogni città rivaleggiando vittoriosamente col
conte, ufficiale dell'impero, slargando la propria giurisdizione,
assorbendo quasi tutti gli affari civili e politici. Così la
chiesa, sempre ferma nel non riconoscere i barbari e nel conservare
le circoscrizioni romane delle proprie diocesi contro l'ordinamento
militare del regno, onde Milano signoreggiava ecclesiasticamente
Pavia, e Aquileja quasi distrutta da Attila dominava tutto il
Friuli, la Venezia e l'Istria, raccolse finalmente il frutto di una
politica incomparabilmente longanime e sapiente in una supremazia,
che le permetteva di assumere la direzione di tutta la vita italiana
e di cedere nella nuova intima fusione coll'impero la nomina degli
stessi vescovi agli imperatori fra le entusiastiche acclamazioni del
popolo.
Capitolo Secondo.
I Comuni
Loro origini.
Altre concessioni imperiali protessero i comuni.
Sull'origine di questi si è fin troppo discusso,
attribuendola più specialmente alla gilda longobarda o al
municipio romano; ma l'una non fu mai che un'angusta e semplice
associazione commerciale, e l'altro era già una istituzione
distrutta dalle invasioni dei barbari, seppellita dal loro regno
unitario e feudale. Del municipio non si avevano da gran tempo
memorie nemmeno nelle città come Napoli sfuggite all'azione
del regno, quando la gilda appariva la prima volta a Genova
nell'anno 1161. Il nuovo comune non poteva essere nemmeno la curia
sopravissuta a Ravenna sino al sesto secolo e così svanita
negli altri, che i nuovi giureconsulti s'imbrogliavano sul senso
della sua parola, e le costituzioni 46 e 47 di Leone il Savio verso
l'anno 890 vi accennavano già come ad antichità male
conosciuta e facilmente erronea. Il comune è il borgo, la
città creata nella nuova storia dalle rivoluzioni del regno,
dalle insurrezioni contro i re, dalla chiesa che dirige il popolo,
dai vescovadi che succedono alle curie romane, dai nuovi rapporti
politici che raggruppano le genti, dalle necessità di una
continua difesa che arma tutti contro tutti, dagli ultimi modi della
libertà e dell'indipendenza, dal nuovo spirito che creando
l'individuo dava una nuova individualità a tutte le forme
della sua associazione.La lotta fra le città romane e le
militari affrettò in queste ultime la formazione del comune:
il moto federalista protetto dallo stesso regno contro l'impero
svolse la prosperità e lo spirito di tutti i centri costretti
a muoversi sopra se medesimi individualizzandosi in una fisonomia
originale, che provasse la loro potenza. Le stesse milizie
privilegiate dei conquistatori regnanti, respingendo dalle proprie
file i vinti, dovettero addensarli, renderli più compatti,
forzarli ad organizzare in seguito qualche istituzione capace di
ospitare il loro presente e di preparare il loro futuro.
Il comune, incominciato non si sa nè come nè quando,
appare nella storia al terzo spostamento dell'impero con Ottone I
che, sembrando crearlo con alcune concessioni, invece è
piuttosto l'interprete che l'autore della rivoluzione comunale, un
alleato anzichè un conquistatore, un presidente meglio che un
re.
Dopo Ottone I i conti non hanno più assoluto potere sulle
città; nessun re concentra più le loro forze; ogni
traccia dell'organizzazione unitaria scompare; ogni centro ducale si
frange: i municipii si preparano già a lottare fra loro per
ripetere colla grandezza delle vecchie marche la gloria di una vita,
che la storia ammirerà per tutti i secoli. Invano alla morte
di Ottone I Arduino d'Ivrea ritenta i moti di Berengario, ultimo
pretendente; la sua proclamazione non è più che una
commedia, la sua rivoluzione una rivolta, la sua impresa uno
sbaraglio, la sua vita un brigantaggio, la sua fine in un convento
una codardia. Quando più tardi nel 1024 un'altra cospirazione
offre il regno italico a Guglielmo III duca di Aquitania, questi
meno spaventato ancora da una guerra colla Germania che dalla
sacrilega necessità di deporre tutti i vescovi ostili,
declina l'offerta. I vescovi sono dunque i difensori della
rivoluzione, che secondo l'antico disegno sviluppa il progresso
della democrazia col tragico mezzo di una decadenza politica.
Ma la distruzione del regno, ottenuta con tanto sagace fermezza di
propositi dalla chiesa, colpisce il dogadoromano creato dai papi di
Teodora e di Marozia, e distrugge la vecchia aristocrazia romana,
mutando il nuovo papa in un vice-Dio delle moltitudini. La
feudalità del contado insorge contro il patriziato romano,
mentre per la recente donazione di Ottone le città romane si
atteggiano invece a democrazia federale contro Roma umiliata dal
pontefice oramai più imperiale che romano, e la suprema
reazione repubblicana di Crescenzio, idealizzato poi da un
patriottismo archeologico e allora abbandonato da tutte le forze
vive del tempo, soccombe in un dramma mescolato di assassinio.
Così per impadronirsi di tutta l'Italia Ottone I, invertendo
la propria politica, cerca invano di ricostituire intorno a Capua,
la feroce, un ducato vasto quanto un regno, giacchè non
ostante l'aiuto di Pandolfo Testa di Ferro, feudatario e bandito di
genio, ogni tentativo vi fallisce. Tutte le repubbliche si collegano
con Bisanzio per sottrarsi a questa nuova minaccia di dominazione
unitaria, Napoli insorge, Amalfi resiste, Venezia ricusa ogni
tributo, Bari accetta il Catapane bizantino e diventa la Ravenna del
mezzogiorno, finchè Capua stessa, presa nel movimento greco,
si desta per sempre dal proprio ultimo sogno longobardo, e del regno
si dissipa persino il ricordo.
Vescovi e consoli.
Il comune è la prima grande originalità della nuova
storia. Romani e barbari, regno ed impero, non si mostrano
più nella sua formazione: l'antica città greca e
romana, che sviluppando l'idea dello stato politico aveva riempita
la storia antica, non risorge nel comune, creazione di nuovi uomini
in lotta per nuove libertà e che posseggono già le due
idee universali della chiesa e dell'impero. Il comune non vuole
diventare regno, non cerca la sovranità politica ma
l'indipendenza sociale. L'impero è lo stato, la chiesa
l'umanità; esso invece è la patria composta forse di
poche case, circoscritta a un minimo territorio, che l'ombra della
cattedralebasta a coprire e a difendere. Il comune, agglomerazione
di famiglie ed associazioni d'industrie livellate dagl'invasori
coll'oppressione ed uguagliate dalla chiesa colla propria
libertà spirituale, deve svolgersi; se non riuscisse a
crescere bisognerebbe ritornare al sistema pagano della
servitù per mantenere la produzione, e il regresso nella
storia è impossibile. Stranieri l'uno all'altro, i comuni non
hanno nazione: chiusi nell'egoismo come in una corazza infrangibile,
resistono a tutti i colpi, si dilatano senza mutare idea; sempre
preoccupati di produrre tutto in se stessi e per se stessi, paiono
la negazione delle due grandi unità mondiali della chiesa e
dell'impero, ed invece ne sono la conferma, giacchè la nuova
patria separata dall'idea di nazione potrà nella futura
fusione dei comuni e nella formazione dei massimi stati evitare la
separazione dell'antico mondo, nel quale ciascun popolo considerava
barbari e nemici tutti gli altri.
Le guerre dei comuni non avranno, per quanto atroci, i due caratteri
antichi dell'odio di razze e della conquista politica, ma i grandi
comuni assorbiranno i piccoli, lasciando loro i più
essenziali caratteri. Gli interessi agricoli, commerciali,
industriali saranno i motivi della politica comunale, mobile,
feroce, senza scrupoli, piena d'indulgenze, di ritorni, di
contraddizioni; capace di prendere le più varie forme
politiche, di resistere a tutti i drammi, di sottomettersi a tutte
le autorità, di ribellarsi a tutti i dominii per accrescere
la libertà sociale, di agire, di produrre, di arricchirsi, di
creare tutta quella civiltà, che dura ancora ed ebbe nel
Rinascimento un meriggio senza pari nei giorni di tutte le storie.
L'Italia comunale non volle mai unificarsi in regno come molti
storici dell'attuale periodo rivoluzionario hanno preteso: le due
lotte del regno contro l'impero romano e il bizantino, e dell'impero
franco e germanico contro il regno, non avevano nella storia altro
scopo, e non vi rimasero con altro significato che la formazione del
comune; il quale percorrendo tutta la propria gammadoveva sviluppare
il concetto e la forma dello stato moderno. Soffocarlo allora per la
formazione di un regno nazionale sarebbe stato un capovolgere le
leggi storiche, e un volere la fine negando il principio.
La nuova lotta dei comuni contro l'impero non era per distruggere la
sua tirannia ideale, ma per togliergli la dominazione ereditata dal
regno, colla quale contrastava allo svolgersi della nuova vita.
L'èra dei comuni si chiude come in una parentesi fra la
caduta del regno e il sorgere dei principati. La rivoluzione
comunale procede contro nobili, regi e feudali vigilanti come scolte
nemiche; la cattedrale è la sola fortezza del comune, il
campanile la sua unica torre.
Alla caduta del regno ogni città ha due capi, il conte e il
vescovo. Il primo, anche se indigeno, è ancora uno straniero
della razza distrutta degli invasori e ne conserva i diritti;
comanda, non lavora, non produce. Sua legge è la spada, suo
costume la rapina, sua virtù la violenza. Il secondo è
del popolo, nel popolo, col popolo; nullo in diritto, muta in armi
le proprie immunità e ne copre parte della popolazione;
padrone di Dio, può dirigerlo contro ogni nemico; arbitro
della religione, può schiacciare le più dure
coscienze. Divampa la lotta: il conte per vivere deve decimare,
taglieggiare, rubare; il popolo per vivere deve isolare,
allontanare, sopprimere il conte. Ma davanti al vescovo, protetto e
protettore dell'impero, il conte deve fermarsi; ecco il baluardo
dietro il quale il popolo fulmina il conte, che l'impero abbandona
seguitando nella distruzione politica del regno. La lotta eguale in
tutti i comuni, grandi o piccoli, si svolge per fasi predeterminate:
una prima rivolta, una prima espulsione del conte, probabilmente un
suo ritorno, la sua cacciata definitiva, dalla quale viene
l'esaltazione del vescovo, che sostituendosi al conte nella
giurisdizione regia muta il comune in una specie di piccola
teocrazia. Quindi la prima costituzione del popolo non esprime
ancora che la fusione delle maggiori famiglie del comune,
cioè della nobiltà del vescovado colla superstite
corte del conte, mentre il resto del comune è appena il
resto; ma la convocazione dell'assemblea popolare nella chiesa,
cangiata così in parlamento e aperta a tutte le discussioni
per abituare fra non molto al pericolo di tutte le congiure, rivela
presto i primi lineamenti del nuovo stato. Ogni forma politica della
storia attuale è dunque nata in chiesa e colla chiesa.
Milano, eroica avanguardia della nazione, condensa tutta la storia
del tempo nella propria cronaca. Le vicende della guerra sono molte,
il suo moto si propaga torcendosi sulle terre della chiesa contro i
conti o i rettori nominati dal papa, si giova del terrore religioso
gettato in tutte le coscienze cristiane dall'anno mille, investe i
feudi incapaci di abbattere i loro capi feudali senza suicidarsi,
costringe tutte le dinastie a popolarizzarsi. La famiglia di Canossa
sfolgoreggia, l'altra dei Savoia aumenta, quella d'Este ramifica, e
intorno ne spuntano altre cento. La rivoluzione guadagna Corsica e
Sardegna, passa il Garigliano abolendo dogi e duchi, sollevando
tutti i popoli del Mezzogiorno, riunendoli all'antica Italia, dalla
quale si erano staccati all'urto della prima discesa longobarda.
Mello, il grande eroe di Bari, per rovesciare la dominazione
bizantina dei Catapani chiama i normanni dandosi all'imperatore
Arrigo II; in Roma Gregorio VII, nemico dei conti e dei patrizi,
compie contro l'imperatore, inteso a padroneggiare la grande urbe,
sostenendovi i conti di Tuscolo, la stessa rivoluzione dei vescovi,
e chiude per sempre il doppio periodo di Teodora e di Crescenzio.
Ma i continui appelli dei conti traccheggiati, sconfitti, scannati
decidono l'impero ad una reazione.
Corrado II di Weibelingen discende le Alpi per mantenere in Italia
l'equazione stabilitavi da Ottone I; la guerra è dunque fra
legalità e progresso, tradizione ed innovazione, aristocrazia
e democrazia. Senonchè la reazione, debole dappertutto, si
logora in pochi scontri. Gli eroi della rivoluzione grandeggiano:
Eriberto arcivescovo di Milano inventa il carroccio e lo addobba
colle bandiere della vittoria; tutte le città sono chiuse,
Bonifacio marchese di Toscana tratta coll'imperatore da pari a pari,
l'esercito invasore o non vince o non conserva se non quanto
può occupare. E la riconciliazione tra i vescovi e
l'imperatore Arrigo III consacra presto la loro rivoluzione, mentre
i normanni, poeti di un dramma fulgente quanto breve, ne precipitano
la soluzione impadronendosi di tutto il mezzogiorno per riceverne
ginocchioni l'investitura dal pontefice loro prigioniero, e che
finalmente realizza così tutta l'antica donazione di Pipino e
di Carlomagno.
Ma le città italiane non possono fermarsi all'espulsione del
conte abbandonato nell'esilio dall'imperatore, poichè questi
conservando il diritto di nominare i vescovi, può, collo
sceglierli nella aristocrazia ostile al popolo, rialzare la tirannia
abbattuta. Quindi la guerra ricomincia contro l'impero e nella
regione della chiesa contro il papa per affidare l'elezione del
vescovo ai preti e ai canonici del capitolo sempre in comunicazione
diretta colla città.
Nella nuova lotta, anche più ricca di drammi, Milano conserva
ancora il posto d'onore. Arioaldo è il santo, Erlembardo
l'eroe di questa seconda guerra, che si ripete in tutte le
città regie e romane guidate da un altro santo e da un altro
eroe, S. Pier Damiano e frate Ildebrando di Soana. Pullulano i
miracoli, risorgono le ordalie, tutti gli strattagemmi e tutte le
armi sono impiegate per assicurare contemporaneamente la
libertà del comune e della chiesa colla libera elezione dei
vescovi e dei papi. Infatti frate Ildebrando, gigantesca figura di
atleta fra tutti quei minuti combattenti, austero fino alla
inflessibilità e nullameno duttile sino alla menzogna,
instancabile, intrepido, infallibile, prosegue la rivoluzione nella
libera elezione dei papi, finchè, papa egli stesso, dichiara
la guerra del sacerdozio all'impero. Questa volta l'urto non
è tra pontefice e imperatore, ma fra i principii che
rappresentano; il conflitto accidentale delle loro volontà
sovrane si cangia in un'antitesi inconciliabile di due idee.
GregorioVII con uno sforzo sublime di ardimento dichiara l'idea
della chiesa superiore ad ogni altra e le sottopone conti, re,
imperatori, città e popoli: reclama la libertà di
tutte le nomine, di tutti i beni e di tutti i giudizi ecclesiastici.
Il patto di Carlomagno si rompe, l'impero negato nella idea diventa
pari all'antico regno longobardo. Mentre il papa ricusa di essere
eletto dall'imperatore, questi ha d'uopo della consacrazione
pontificia per essere tale. Gli imperatori sempre superiori al
papato, che avevano salvato e ingrandito colle donazioni, vengono
degradati da un loro vassallo; il papa, povero prete e semplice
vescovo, che altre volte aveva pellegrinato mendicando al loro trono
assolvendo i loro crimini e così spesso santificando i loro
vizi, si erge improvvisamente loro innanzi come un giudice divino e
un sovrano troppo alto perchè alcuna arma possa abbatterlo o
qualche patto legarlo.
Ma nella mistura dei poteri politici di allora l'affermazione di
Gregorio VII concludeva alla distruzione dell'impero, nel quale
avrebbe nominato vescovi, grandi elettori, con un dispotismo
unitario più terribile di quello stesso imperiale. Quindi la
rivoluzione si scinde tosto passando con forti masse nel campo
dell'impero. I preti stessi incalzati dalla riforma, onde l'austero
pontefice li minaccia, recalcitrano opponendo al papa la storia del
papato, accusando di utopia la sua idea, imbrogliandone il
dibattimento; mentre la battaglia sta per avvampare colla forza
indomabile di due principii sintetizzanti gli interessi di due
mondi, e il popolo, sempre sicuro nell'istinto della propria storia,
si prepara a rovesciare il vecchio impero sotto i colpi di Gregorio
VII e il nuovo papato sotto quelli di un altro cesare rigenerato.
Nei quarantacinque anni della guerra per le investiture, dal 1077 al
1122, papa ed imperatore sembrano oscillare inesplicabilmente dalla
sconfitta alla vittoria, poichè le città li seguono o
li abbandonano secondo l'interesse della propria libertà; e
quando cesare trionfa, le città lombarde passano al papa per
ricondurlo sul campo di battaglia; quando questi prevale, Roma e le
città della donazione passano all'imperatore per moderare il
loro capo legittimo. Ma il vinto, rialzato sempre dalla politica
cittadina contro il vincitore, è naturalmente condannato ad
accettare il progresso dovuto alla propria sconfitta. Per governarsi
in così difficili ed improvvise inversioni il popolo non ha
che a guardare in faccia i nobili, i suoi eterni nemici, e a
gittarsi ciecamente contro la vittoria imperiale o pontificia che li
ha insuperbiti; finchè il moto arrestandosi lascia l'Italia
emancipata e capovolta, colle città lombarde strette al papa
e le pontificie alleate coll'imperatore.
Gli eroi di questa immensa tragedia finiscono tutti dolorosamente:
Gregorio VII muore nell'esilio, Arrigo IV aspira invano al suicidio,
incatenato dal destino alla vita come ad un supplizio; la contessa
Matilde discende nel sepolcro avvolta nell'odio universale come in
un sudario che le abbia gelato il sangue; ma nell'azione forse mai
si videro più energiche e complesse figure.
Così, mentre Roma si era sollevata contro il papa e la
Germania in ritardo si rivoltava contro l'imperatore moltiplicando
le antitesi italiane per le proprie contraddizioni tedesche, la
testa ancora troppo giovane di Arrigo IV aveva come girato su se
stessa. Invano il cardinale Ugo Bianco e l'arcivescovo Gualberto di
Ravenna lo guidavano contro il papa, da essi scomunicato alla dieta
di Worms e al concilio di Pavia; l'imperatore atterrito dalle
rivoluzioni cattoliche della Germania era venuto a scalpicciare
seminudo e scalzo sulla neve nel cortile di Canossa, implorando
perdono da Gregorio e dalla contessa Matilde. Ma, perdonato e
ribenedetto, si era destato come da un brutto sogno al primo soffio
della rivoluzione italiana, che lo respingeva irresistibile contro
il papato. Quindi da abbietto penitente mutato in magnifico
imperatore e in terribile generale stava già per sopraffare
Gregorio VII e la contessa, quando la rivoluzione germanica lo
arrestava ancora, l'imperatrice Adelaide lo copriva di calunnie.
Milano incoronava suo figlio Corrado re d'Italia, la crociata di
Pietro eremita gli scoppiava sul capo come un uragano, il papa
consacrava l'anticesare Rodolfo, l'Italia spaventata dalle vittorie
imperiali si riconciliava col papa, e la Germania lo aggirava per un
laberinto di tradimenti nei quali perdeva se stesso e la vita.
Così dopo settantadue battaglie Arrigo IV errava mendico come
Belisario e fra tanta gloria moriva quasi sconosciuto. Però
la guerra, cessata con Arrigo V suo figlio, si riaccendeva per
sospendersi ancora ad un primo ed incredibile compromesso, nel quale
papa ed imperatore rinunciavano ad ogni reciproca pretensione, l'uno
a tutte le antiche donazioni, l'altro a tutte le investiture;
finchè scoppiando come una rissa nella basilica di San Pietro
al momento dell'incoronazione finiva al trionfo del pontefice
Pasquale II e della rivoluzione liberata dal doppio patto di
Carlomagno e di Ottone.
La chiesa e l'impero, rimasti alleati saranno d'ora innanzi nemici:
quella armata della teologia e del vangelo, questo della
giurisprudenza e della tradizione. La chiesa, separata dai propri
credenti, è un istituto autonomo e autocefalo che ha
conquistato un posto unico nella storia, al disopra di tutti i regni
e di tutte le leggi. L'universalità della sua missione, la
divinità della sua origine, l'unità del suo principio
danno ai suoi sacerdoti il potere sul mondo. Siccome abbraccia
tutti, nulla le sfugge, nè un individuo, nè un'idea.
Ma contro di essa sta l'impero, vivente nella tradizione politica e
sociale del mondo antico, vivo di tutte le libertà e i
progressi del mondo moderno, custode della legge e protettore
dell'indipendenza federale. Se il papa, arbitro di Dio, può
dispensare da ogni obbligo e assolvere da ogni peccato, l'imperatore
impone la fedeltà a tutti i contratti e punisce tutti i
delitti; l'uno rappresenta l'arbitrio che unifica le leggi
annullandole, l'altro la legalità che le precisa e le
conserva. E in mezzo all'impero e alla chiesa, condannati ad
estenuarsinello sforzo impossibile di sopprimersi reciprocamente, la
rivoluzione libera e liberatrice prepara nei comuni gli stati
moderni formando negli individui ancora imperfettamente eguagliati
dal cristianesimo ed emancipati dalla federazione, i futuri
cittadini di Machiavelli e di Mazzini.
Intanto la geografia politica d'Italia si è profondamente
mutata. Il papa regna su tutta l'Italia greca all'infuori di
Venezia; in Sardegna, in Sicilia, in Corsica rappresenta la
rivoluzione vescovile e la democrazia cattolica, alla quale deve
restare fedele per non perdere i benefizi delle donazioni ottenute
per dedizioni spontanee. L'antico regno conquistato da Carlomagno e
mantenuto imperialmente da Ottone I è una federazione
repubblicana, che ha la sua dieta a Roncaglia, le proprie democrazie
nelle città dei vescovi, le proprie aristocrazie nei feudi
dei conti, e costringe l'imperatore ad essere libero e legale.
Questi due alti dominii, dividendo l'Italia in due grandi parti,
nord e sud, dovranno urtarsi daccapo sotto la pressione di un
progresso costretto ad equilibrarsi con uno scambio continuo.
Infatti la guerra si dichiara immediatamente fra i due trionfatori
rivoluzionari, il vescovo e il popolo: l'uno personaggio prodigioso,
interprete del cielo a nome di Dio e signore di tutto il dominio
temporale, perchè solo dinanzi a lui cessa la legge feudale
del conte, ultramondano nel significato e nella tendenza della
propria politica; il secondo, strano, multiplo, produttore,
commerciante, così innamorato della terra da atteggiare la
speranza del paradiso come una ripetizione della vita terrestre.
All'ombra protettrice del duomo questi ha costituito il proprio
organismo e sbozzata la propria forma; la sua testa sono i consoli,
tutte le sue altre membra la moltitudine; dopo aver acquistata la
coscienza della propria originalità coll'associarsi al
vescovo nella lotta contro il conte, comprende ora la differenza
della propria bottega coll'altare, dei giudizi consolari nelle liti
di terra e di mare colle ordalie.Ma circospetto nella propria
audacia perseverante, si limita ad insinuare la propria
libertà fra quelle dei conti, dei vescovi, degli abati, delle
diete, dei re, senza nulla modificare delle apparenze, e come un
diritto non meno antico dei loro.
Quindi i consoli affettano abilmente la propria antichità: le
corporazioni delle arti si mutano in compagnie guerriere non
ubbidienti più che alla loro voce laica: il primo popolo
composto dei notabili della curia vescovile e comitale, annettendosi
nuove famiglie estratte dalla moltitudine, seguita a rappresentarla
per un diritto aristocratico di nascita simile a quello dei nobili:
laonde distribuisce ai propri membri ogni funzione mutandosi in
secondo popolo, più numeroso e compatto, più organico
e più forte. Il vescovo è presto spodestato. I
consoli, di minori fatti maggiori, invece di essere immobili nel
proprio grado, come i vescovi e i conti, vi sono così fluidi
da parere effimeri.
Laonde, rinnovati continuamente sotto l'occhio vigile del popolo,
non ne sono che i commessi. La necessità per loro di derivare
ogni forza dai cittadini, non avendo come il vescovo influenza di
religione o autorità di tradizione, li costringe a supplirvi
con un consiglio di anziani scelto proporzionalmente fra i vari
quartieri e rinnovabili ad ogni sei o dodici mesi. Ma questo
consiglio, del quale si trova l'embrione anche nell'epoca di
Carlomagno, diventa una specie di senato pei massimi affari della
repubblica nascente, al disopra del grande consiglio o assemblea
riunita la prima volta da Arioaldo e da Erlembaldo nelle lotte
vescovili di Milano. Il parlamentarismo essendo iniziato, presto se
ne stabiliscono le regole. Infatti l'assemblea universale non viene
riserbata che ai casi estremi, nei quali la città venga
compromessa dall'accettare o ricusare ordini pontificii o imperiali:
la sua influenza scema ogni giorno sotto l'azione aristocratica del
secondo popolo, che organizzandosi si sovrappone alla moltitudine.
Il sistema elettorale del nuovo parlamentarismo, imitato su quello
della chiesa che lascia alle proprie gerarchie la nomina dei membri,
permette ai consoli di eleggere gli anziani, i membri della
credenza, persino i propri successori. Il popolo è dunque
un'aristocrazia borghese formantesi al disopra della moltitudine per
concessione della moltitudine stessa. Tutti gli statuti comunali
italiani del tempo provano abbondantemente tale forma di diritto
elettorale, ma questa usurpazione del popolo è così
accetta alla moltitudine che passa come inavvertita, e i primi anni
dell'èra consolare sino al 1133 rappresentano l'età
dell'oro nella storia italiana; tutto è fatto in pubblico per
il pubblico; moltitudine e popolo, rappresentato e rappresentante,
si confondono in una sola idea e in una stessa volontà,
mentre la rivoluzione consolare prosegue la vescovile ritorcendo il
diritto romano contro il diritto longobardo. Giustiniano diventa un
idolo, Pepo ed Irnerio sono i nuovi eroi dell'epoca, tutta la
politica dei consoli si riassume nell'accettare la posizione
intervertita delle città imperiali e pontificie, rimanendo
amici dell'imperatore e del papa a rovescio della loro
sovranità.
Ma la rivoluzione consolare, per uscire nel secondo momento dalla
propria oscurità e soppiantare il vescovo indarno resistente,
deve elaborare la propria organizzazione parlamentare. Infatti i
poteri al tempo stesso militari e civili dei consoli, troppo simili
a quelli del conte, si scindono colla creazione dei consoli del
comune e dei placiti, il numero dei quali, determinato come a Genova
dal numero dei quartieri, cresce colla cifra variabile che
rappresenta l'intensità della democrazia. Roma e Milano,
quella coll'antipapa Anacleto II, questa col proprio vescovo
Anselmo, affermano il secondo momento della rivoluzione consolare,
affrettandolo anche nelle città regie, sempre più
retrive delle romane, e sconvolgendo le regioni feudali per mutarne
in consoli gli ultimi feudatari.
La reazione pontifìcia ed imperiale, riuscita vana contro la
rivoluzione dei vescovi, deve quindi investire questa dei consoli
sotto la doppia direzione di papa Innocenzo II e di Lotario III
imperatore velfo. Il papa è inerme, l'imperatore poco armato,
giacchè per marciare su Roma non ha che 2000 cavalli, mentre
l'antipapa Anacleto II e l'anticesare Corrado III sono sostenuti
dalle maggiori città. San Bernardo è il grande oratore
della reazione, Arnaldo da Brescia l'eroe della rivoluzione: si
assomigliano e si urtano, entrambi austeri, forti d'ingegno,
inflessibili nel carattere. Se l'eloquenza del primo è
maestosa come il corso di un gran fiume, quella del secondo ha
l'impeto e il fragore di un torrente: se quegli illumina, questi
abbrucia. San Bernardo ripete l'utopia di Gregorio VII; ad Arnaldo
la rivoluzione consolare suscita nel pensiero l'utopia di una
risurrezione republicana. Ma tutti i moti di questa reazione,
fiacchi e discordi, falliscono; le grandi città ne trionfano,
Ruggero Normanno, invincibile entro Palermo, vi ospita l'antipapa
Anacleto, abbraccia il suo scisma, e riunendo nella forte mano tutto
il mezzogiorno riordina il proprio regno in senso unitario e
consolare, per ritornare poi console vittorioso nel grembo della
chiesa costretta a sanzionare la sua rivoluzione.
Guerre municipali.
Quindi la rivoluzione vincitrice della propria reazione si scatena
in un tumulto inintelligibile di guerre municipali per determinare i
contorni dei municipii educandone le forze. Dissipato ogni ricordo
del regno, cessata la doppia pressione imperiale e pontificia sulle
città, e costituitasi con una prima amministrazione
indipendente la loro prima coscienza politica, tutte si guatano in
cagnesco e si assalgono. La sola patria è il municipio,
poichè di nazione non esiste nè ricordo nè
aspirazione. Ogni frammento disgregato del regno animandosi ne ha
concentrato i bisogni e le energie, ogni città vuole
espandersi e soverchiare: le forze locali, le originalità
latenti del nuovo sistema municipale sostituito a quello
regio-imperiale esigono la guerra per prodursi. Ma il vecchio
dualismo delle città regie romane dura tuttavia raddoppiato
dalla rivoluzione vescovile e consolare, che avendo innalzato queste
deve degradare quelle. Ecco il segreto della guerra, susseguente,
ignorato dai cronisti, cercato da quasi tutti gli storici, sfuggito
all'acume del Sismondi, colto magistralmente dall'ingegno divinatore
del Ferrari.
Se i motivi della nuova guerra municipale sono economici, la sua
vera ragione è nella necessità per i comuni di
svolgersi contro tutte le superstiti forme feudali, accrescendo le
proprie città oltre la cinta del vescovado, conquistando le
campagne ancora tenute dai signori, liberando le strade pei
commerci, emancipando i fiumi, lavorando le terre, acquistando in
fine la sovranità politica e sociale contro i centri regi
sempre in ritardo. Le guerre sono quindi multiple, minute, spietate,
incessanti: premio ne è la vita. Chi soccombe ha torto: tutte
le armi, tutte le arti, tutte le infamie, tutti gli eroismi, vi
cooperano nella stessa misura e vi producono il medesimo risultato.
Il municipalismo italiano a distanza di secoli riproduce la storia
greca per rifare una civiltà non meno splendida ed originale
di quella. Nella feroce disciplina di una tale guerra tutte le idee
si elaborano, tutte le forme si precisano, tutte le funzioni si
distinguono; siccome ogni municipio riconcentra la storia di un
regno nella propria cronaca, i suoi individui vi spiegano la forza
dei maggiori uomini storici. Quindi le guerre senza pace vi paiono
spesso senza risultato, appassionate sino alla demenza, abili oltre
ogni genio, inesauste come la vita, inevitabili quanto la morte.
Ma il loro effetto si mostra giorno per giorno nella crescente
importanza dei comuni vincitori e nel decadimento dei comuni vinti;
s'improvvisano republiche; sorgono fortezze, la strategia delle
antiche vie militari è superata dalla nuova delle strade
commerciali: il popolo inerme diventa un esercito, i mercanti si
mutano in statisti, s'inizia tutta una legislazione, della quale i
congegni parlamentari funzionano mirabilmente fra l'urto delle
congiure e lo schianto delle sommosse, mentre le scienze proseguono
tranquillamente negli studi a disseppellire il mondo antico, e le
arti rinate trovano bellezze non meno originali delle greche o
romane.
In tale ambiente medioevale le guerre s'incrociano naturalmente come
duelli tanto più efferati quanto più vi mancano i
giudici di campo; gli avversari si battono senza leggi, si arrendono
per ferire l'ultimo colpo, si assalgono alle spalle, avvelenano le
armi. La politica municipale s'inspira dal duello in tutte le
alleanze; nessuna idea generale o disegno comune. I nemici sono
predeterminati dalla storia e dalla geografia: tutti i comuni
debbono battersi entro il sistema municipale, che riserba la
vittoria ai centri romani e produttori contro i centri regi e
militari. Nella Lombardia, Milano, massima città romana e
produttrice, è il centro di tutte le dualità e deve
combattere Pavia, Lodi, Cremona: quindi i suoi duelli si ripetono
colla stessa legge fra le altre città, Brescia e Bergamo,
Pavia e Piacenza, Torino e Asti, Verona e Mantova, Treviso e
Cividale, Firenze e Fiesole, Lucca e Pisa, Orvieto e Spoleto,
Perugia e Chiusi, Fano e Pesaro, Roma e Tivoli, Faenza e Ravenna,
Cagliari e Oristano in Sardegna, in tutte le provincie, nelle
vallate più remote, fra i borghi più ignorati, nei
comunelli più esigui, nelle abazie e nelle parrocchie.
Giuseppe Ferrari nelle Rivoluzioni d'Italia ha dato l'enumerazione
cronologica ed alfabetica delle guerre municipali, disegnando la
loro carta storica con incomparabile abilità. In tale quadro
sublime di esattezza e di orrore si veggono 99 città
militanti e si contano sino a 119 inimicizie costanti; ma questa
tragedia male intesa e quindi condannata dagli storici posteriori
come uno scoppio di malvagità demente, era nel secolo XII il
solo progresso possibile ai comuni per mutarsi in minimi Stati.
Quindi nessuna vittoria generale o pace definitiva poteva trovarsi a
capo di queste guerre, nelle quali i combattenti acciecati dalle
passioni e guidatidall'istinto camminavano sicuri sulla via della
storia. Se il trionfo era riserbato alle città romane come
centri veri della rivoluzione e della civiltà, non tutti i
centri regi dovevano soccombere, perchè o la loro
contraddizione storica all'idea del progresso non era assoluta, o un
mutamento nella tattica stessa della storia li rendeva utilizzabili.
Così Roma, Ravenna, Palermo, combattenti alla testa delle
città regie, ne evitavano la sorte e rivaleggiavano di
splendore e di avvenire coi nuovi comuni.
Le discese di Federico Barbarossa.
Mentre l'Italia, dibattendosi nelle convulsioni di una guerra
anarchica, rompe tutte le proprie frontiere interne per frangere
quelle del vecchio diritto imperiale pontificio, Federico Barbarossa
alla testa della rivoluzione vescovile nella Germania, sempre in
ritardo, si prepara a discendere le Alpi per combattere la
rivoluzione consolare italiana come una insurrezione contro
l'impero. Lodi e Como spianate da Milano gli chiedono vendetta:
Pavia si ridesta, Cremona si avventa sulla antica rivale. Ma
Federico, cui la Germania non ha accordato che soli 2000 cavalieri,
invece di soffocare la guerra municipale diventa il generale di
queste città regie insorte contro Milano; e dopo avere
inutilmente infierito deve ritirarsi imperatore meno stimato di
prima, vincitore non ancora abbastanza temuto. Senonchè la
guerra municipale lo richiama. Superbo come un eroe, testardo
nell'idea imperiale di Carlomagno, della quale gli sfuggono le
modificazioni storiche già compiutesi, alla dieta di
Roncaglia ottiene dai quattro dottori discepoli di Irnerio il
verdetto che tutto, regalie e diritti, città e contee,
appartiene all'impero. Questo errore dei quattro grandi giuristi,
tante volte accusati di viltà, indica però solamente
che la rivoluzione consolare non è ancora abbastanza
cosciente per negare l'astratta idea dell'impero.
Ma nemmeno questa volta Federico può battersi come
imperatore: il nerbo del suo esercito è costituito dalle
città regie alleate, ogni sua vittoria contro una
città non è che vittoria della città rivale; se
Milano soverchiata dal numero dei nemici capitola, egli capitano
generale deve chiedere o rubare ostaggi a tutti i propri alleati per
guarentirsi da tradimenti troppo improvvisi. Allora il suo ingegno
politico cerca di riparare all'insufficienza della sua opera
militare ordinando un vasto sistema di pacificazioni, che riconduca
col terrore di esagerate penalità tutti i comuni sotto la
giurisdizione dell'impero e tutti i sudditi sotto la legge. Giudici
nominati direttamente dall'imperatore arrivano in ogni città
per paralizzare il potere ribelle dei consoli e frenare gli odii
municipali. Ma l'eroica Milano risponde a questa pacificazione con
uno scoppio d'ire, che riaccendono la guerra; e l'imperatore sempre
alla testa delle città regie deve smantellare Crema,
abbattere Milano, seminare stragi, moltiplicare incendi. La vittoria
questa volta è così vasta che par sua; senonchè
tutte le città atterrite dal ritorno dell'antico regno gli si
rivoltano subitamente, gli eserciti di Verona sbarrano i passi
alpini quasi ad impedirgli ogni ritirata in Germania, nella quale
non rientra che per rifornirsi di soldati e ripiombare daccapo
sull'Italia. Questa volta la lega lombarda è già
stretta, il papa vi è entrato, Milano è risorta,
Alessandria creata contro Pavia, che capitana la lega regia. La
guerra infuria in cento scontri per concludere nella battaglia di
Legnano alla sconfitta dell'impero e alla emancipazione dei comuni.
Il diritto politico moderno riceve quindi il battesimo al congresso
di Costanza, nel quale la lega lombarda viene riconosciuta come
autonoma entro la grande lega imperiale, e i comuni firmano il
trattato come tanti stati.
Ormai la loro sovranità è riconosciuta. Quantunque
l'impero riceva ancora tributi, il suo diritto e la sua supremazia
non sono più così assoluti. Ogni città è
libera di seguitare le proprie guerre, d'ingrandirsi, di mutarsi in
capitale di una piccola repubblica o di un piccolo regno. Il suo
ordinamento interno viene lasciato bene proseguire nel tragico
lavoro di selezione perchè la classe politica dei cittadini
meglio si organizzi. Dell'antica Lombardia dei goti, dei longobardi,
di Carlomagno, di Ottone, di Berengario non rimangono più
tracce. Intorno ad essa Venezia sepolta nell'oscurità delle
lagune è ancora fuori del patto di Carlomagno e non partecipa
alle crisi della sua negazione; la Toscana, paralizzata dalla lotta
fra Lucca e Pisa e dalle antitesi degli interessi marinari e
terrestri, che tolgono a quest'ultima di accedere a una delle due
leghe, rimane inerte, mentre la marca di Verona e l'antico esarcato
vi entrano a seconda delle loro interessate inimicizie.
E intanto che la lega lombarda ottiene il trionfo del sistema
municipale contro l'impero inteso a soffocarlo con una
ripristinazione del regno, Roma e Palermo ripetono sopra altro
terreno e con diversa forma la stessa rivoluzione. Poichè
Federico per mantenersi sulla linea di Carlomagno appoggia
dapprincipio il pontefice contro l'insurrezione dei romani e
disonora la propria prima vittoria consegnando Arnaldo da Brescia ad
Adriano IV, il senato romano, risuscitato alla morte di questo dallo
spirito di Arnaldo, costringe l'imperatore ad entrare nella
rivoluzione municipale col sostenere l'antipapa Vittore III contro
Alessandro III presidente della lega lombarda; poscia alla pace di
Costanza, che sospendendo la guerra ne riconosce le conquiste della
rivoluzione, il senato romano ottiene dal papa Clemente III un
trattato solenne, col quale gli sono riconosciute le stesse
franchigie politiche degli altri comuni, onde poi Arrigo VI nuovo
imperatore arrivando in Roma per incoronarsi deve trattarne
contemporaneamente col senato e col pontefice.
A Palermo invece Guglielmo il Malo, resistendo a tutti i moti della
reazione feudale incoraggiati dalle discese di Federico, regna da
vero capo della democrazia consolare. Maione suo primo ministro,
cittadino di Bari come Mello, ne continua la lotta contro
l'aristocrazia, che si difende assassinandolo per essere tosto
dispersae trucidata da una insurrezione di popolo. Quindi il re
precipita da un'inerzia sospettata e sospettosa a tanto crudele
tirannide da sbigottire anche gli storici più favorevoli alla
causa della Sicilia, insino a che il suo successore sul finire della
reazione viene chiamato Guglielmo il Buono, e Federico, già
in guerra contro Alessandro III, avvisando l'utilità
dell'amicizia con Palermo sempre in lotta coi baroni tutti alleati
della chiesa, sposa al proprio figlio Arrigo VI l'unica erede delle
due Sicilie. Così riconciliato colla grande rivoluzione
italiana, dopo aver bruciato Asti, rovesciata Tortona, distrutta
Milano, Federico Barbarossa diventa improvvisamente l'idolo e
l'alleato di tutti contro le pertinaci pretese della Santa Sede; a
Torino frena l'ignobile tirannia del conte Umberto III di Savoia, in
Sardegna, sconfessando le due nomine di re concesse a Barisone e al
duca di Baviera, finisce col vendere per 1300 marchi d'argento
l'isola ai pisani, che sostengono la federazione di Cagliari, Torres
e Gallura contro la regia Oristani.
Ormai l'imperatore e il papa non sono che due consoli di una guerra,
che nè Gregorio VII, nè Arrigo IV avrebbero compreso.
Qualunque sieno le segrete pretensioni del loro pensiero
individuale, la loro reciproca ostilità li costringe a
riconoscere come alleati o nemici i nuovi poteri popolari
esorbitanti da ogni formola imperiale o pontificia. Le vecchie
favole giuridiche, già dominatrici del mondo, pesano ancora
sul pensiero universale dell'epoca, ma non impediscono più la
formazione dei nuovi organismi storici, entro i quali stanno
riparate le grandi idee future. Infatti le crociate, splendido sogno
ed incomparabile espediente della rivoluzione anteriore, declinano
subitamente nell'èra dei consoli. Alla terza crociata di
Riccardo Cuor di Leone, l'interesse delle colonie cristiane
soverchia già quello della croce; poco dopo, l'altro d'Europa
costringe i principi a ritornare nei propri stati per difendersi
dalla rivoluzione consolare. Alla quarta crociata Arrigo IV non mira
che ad impadronirsi della Sicilia e ad affievolire i signori
dell'impero; alla quinta, predicata da Innocenzo III e accettata
solo dalla nobiltà francese, i veneziani stipendiano i baroni
per la conquista dell'impero bizantino, e l'avventura militare si
risolve in una speculazione mercantile; alla sesta non aderisce che
Andrea di Ungheria, re barbaro e bigotto; alla settima guidata da
Federico II, il papa non avrà in mira che un agguato contro
l'imperatore per togliergli le due Sicilie, e vi soccomberà
in sua vece.
Intanto l'entusiasmo politico assorbe già quello religioso,
poichè l'effetto delle crociate a rovescio di ogni intenzione
si esplica in una emancipazione economica delle terre e dei borghi
dai feudatari, che ne hanno ceduto ai vassalli i più grevi
diritti pel denaro necessario alla spedizione. La chiesa stessa,
sottraendo nel 1153 al popolo e al clero volgare l'elezione del papa
per affidarla al collegio dei cardinali, imita la rivoluzione dei
consoli, che trasmettono al grande e piccolo consiglio del secondo
popolo tutti i diritti dianzi riconosciuti nell'assemblea del primo.
Dallo stesso anno 1153 ogni canonizzazione dovendo essere
esclusivamente romana, la chiesa domina coll'entusiasmo pei nuovi
santi il cuore delle moltitudini: si fondano gli ordini della
Trinità, della Redenzione degli Schiavi e della Mercede;
cinque congregazioni di eremiti si riuniscono in una, i cavalieri di
Cristo si stringono coi cavalieri Teutonici, finchè la
propaganda monacale, discendendo nella vita politica, irrompe con
due nuovi ordini di frati profondamente originali e terribilmente
guerrieri. Eroi della miseria, i francescani protestano colla
moltitudine cenciosa contro la nuova privilegiata borghesia
consolare, denunciando tutte le vanità della politica, della
industria, del commercio; ma inesausti nell'opera consolano gli
stessi dolori che esacerbano, assolvono tutti i peccati che
combattono: nomadi e liberi dai consoli e dai vescovi, cittadini di
una democrazia senza patria e democratici di un assolutismo
irresponsabile.
Eroi del dogma, i domenicani organizzano invece la inquisizione come
un governo tanto superiore ad ogni altro quanto il dogma è
superiore a tutte le verità umane, e dando ai supplizi
l'apparenza di una festa, che fanatizza la moltitudine, bruciano
città, disertano campagne, spaventano re, curvano papi,
penetrano case e coscienze, imperano nel pensiero contro al
pensiero; che nullameno respira sotto tutte le pressioni, sfugge a
tutte le strette, esce da tutti i tranelli, brilla su tutti i roghi
contrapponendo fede a fede, conquista a conquista, trovando nello
spasimo di questa secolare tragedia le voci più profonde
dell'anima, e nella ginnastica di questo combattimento senza tregua
le forze necessarie alla propria emancipazione finale.
La guerra delle città ai castelli.
Il riconoscimento del diritto di guerra conquistato dalle
città nel trattato di Costanza le volta contro i castelli,
che signoreggiando il contado le cingono come di tanti fortilizi
nemici e misurano loro collo spazio la vita. I castellani sono
feudatari discendenti dalle antiche invasioni, ultimi signori di una
conquista, della quale la rivoluzione non ha ancora potuto
trionfare. La lor vita ladra e militare contradice alla vita
industriale dei borghesi: il contado, che si estende dalle mura di
ogni città, è un campo nemico ove nessuno può
avventurarsi senza essere spogliato o tassato; leggi e regolamenti
cittadini non hanno forza oltre la cinta della città. Le
vecchie differenze di razza, sebbene indebolite, sopravvivono tra
feudatari e cittadini, dando alle loro idee una asprezza di antitesi
irreducibile. La guerra è necessaria. Il castello
soccomberà perchè l'imperatore, impotente a sostenere
la prevalenza delle città regie, non riuscirà nemmeno
a soccorrere i castellani, lontani gli uni dagli altri e senza lega
politica fra sè medesimi, senza unità d'interesse e
senza capo. Ricordàno Malaspina, fiorentino, è rimasto
il più celebre e migliore cronista di questa guerra ripetuta
con parità di drammi e di trionfi in tutte le contrade
d'Italia.
Invano papa ed imperatore, ubbidienti alla propria idea, sostengono
i castellani come alleati naturali del proprio assolutismo;
l'imperatore lontano, il papa inerme, nemici entrambi troppo spesso,
non possono accordarsi in questa difesa degli stessi loro difensori:
le città regie e le romane assaltano simultaneamente i
castelli così che i castellani per ritardare di qualche tempo
la loro caduta, debbono diventare soldati di una città contro
un'altra, accettando le leggi della guerra municipale. Ma la
vittoria medesima, alla quale cooperano, li assimila ai vinti,
mentre i tradimenti sciolgono le alleanze strette dalla perfidia.
Sovente i servi stessi, uomini del contado, insorgono contro i
padroni per darsi alle città che, aristocratiche nel proprio
assetto borghese, invece di naturalizzare i borghi li annullano.
L'aggrovigliamento dei modi e delle forme politiche in quest'epoca
non è meno indescrivibile della guerra, onde è
prodotto. Così alcune volte il conte emancipa i grossi
villaggi per opporli alla tirannica conquista della città e
seguita a regnare sovra di essi come un moderno sovrano
costituzionale, però sotto il raggio delle grandi
città commerciali anche questo disperato espediente fallisce,
e la guerra ai castelli cresce di ferocia pel ritardo del trionfo
finale. Se la conquista materiale è lunga e penosa, il suo
riconoscimento nella legalità contemporanea presenta anche
maggiori difficoltà contro le due formule imperiale e
pontificia, che non si possono nè preterire nè
violare. Quindi il comune, deludendole con abilità
apparentemente assurda, è costretto a dichiarare alleati i
vinti e a riconoscerli proprietari delle terre conquistate,
finchè, fatto più sicuro, toglie loro anche questa
falsa indipendenza, li trasporta nella città e li condanna a
risiedervi. Così al secondo popolo ne succede un terzo. La
naturalizzazione delle famiglie feudali trasformate in aristocrazia
cittadina esige che molte altre famiglie borghesi, recentemente o
arricchite o illustrate dalle guerre, vengano chiamate a parte dei
poteri e delle funzioni interne per resistere alla forza dei nuovi
venuti, acquistati alla città, ma pronti a conquistarla.
Infatti questi alzano palazzi simili a fortezze, li decorano di
torri, armano famigliari, si cingono di clienti: le terre degli
antichi dominii, rimaste loro come a proprietari, vincono in
ricchezza qualunque patrimonio bottegaio; le loro attitudini
guerresche di signori destano al tempo stesso l'ammirazione e
l'invidia. La moltitudine dei cittadini, sui quali non gravano
più come tanti re, simpatizza per loro contro le nuove
angherie della città; la plebe allettata dalle loro lautezze
attende un loro cenno per sollevarsi contro la borghesia
privilegiata che la schiaccia. Un'altra lotta intestina è
dunque inevitabile come la guerra municipale. I comuni non possono
sopprimere la feudalità senza negare la chiesa e l'impero, i
castellani non possono distruggere il commercio, l'industria e la
libertà dei comuni, riconosciuti dalla chiesa e dall'impero,
senza urtare nella stessa negazione e senza sopprimere la vita.
Bisogna perciò che la lotta fra le due forme aristocratiche
della feudalità e della borghesia, logorando le loro forze,
muti la loro fisonomia insino a quando il popolo, ingrossato da
tutti coloro che eccellono nella lotta, e ingrandito dal crescere
della civiltà, si sovrapponga alle due fazioni, assorbendole
nel proprio numero. Nelle prime fasi del combattimento il progresso
è ottenuto con massacri furibondi e minime vittorie; se il
palazzo del castellano concittadino viene abbattuto, le sue terre
prosperano; se il castellano guida una sommossa, è forzato di
gittare tutto il proprio denaro alla plebe che lo trasforma in
capitali. La lotta circoscritta alla città vi affeziona tutti
i partiti, i tempi dei castelli si allontanano, le aspirazioni al
comando suppongono il comune signore di se stesso e delle campagne,
la rivalità suddivide i feudali mentre il terrore mantiene
uniti i borghesi. Quelli per comandare dovendo primeggiare,
assorbono le idee della città; questi per non essere dominati
trasportano nella politica le finezze del commercioe la pertinacia
delle industrie, colle quali raddoppiano la propria importanza e la
vitalità del comune.
La guerra municipale si complica di giorno in giorno con una guerra
sociale.
Ma presto i consoli eletti annualmente appaiono insufficienti. La
loro magistratura troppo breve per diventare autorevole consuma un
numero prodigioso di uomini, che, costretti a diventare personaggi,
dovrebbero tutti averne le capacità. Appena ridivenuti
cittadini, gli odii destati dalla loro amministrazione li
perseguitano; prima di essere nominati consoli diffidenze e calunnie
li hanno già viziati; troppo partigiani per essere imparziali
e troppo effimeri per inspirare timore, non rappresentano più
che quella fase della rivoluzione, nella quale il comune uno ed
unanime aveva fuori di se stesso l'obiettivo della guerra.
D'altronde il giuoco della loro elezione, troppo facilmente falsato
dalla corruzione del danaro o dalla violenza di una sommossa, tenta
troppe cupidigie e si complica di troppe incertezze perchè
duri lungamente in una lotta di tumulti incessanti e di passioni
indisciplinabili. Laonde occorre un potere o tribunale più
alto, solido e duraturo, cittadino insieme e feudale, che, dominando
tutte le fazioni, costringa gli opposti diritti a rispettare il
diritto comune. Una reminiscenza dei messi imperiali o dei giudici
mandati nella prima reazione di Barbarossa a frenare i consoli
suggerisce al comune il governo del podestà.
Il podestà.
Questo funzionario unico, investito di ogni funzione politica e
giuridica dei consoli, è uno straniero. La sua
autorità civica e feudale sovrasta all'anarchia; tiene corte
come un sovrano, è magistrato come un cittadino, impera da
soldato e da giurista ai due partiti, sui quali eseguisce egli
stesso le proprie sentenze. Può chiamare all'armi i
cittadini, trarre fuori dalle porte il carroccio, guidare la guerra,
firmare la pace. Assedia i ribelli nei loro palazzi e li spiana,
rende tutta una famiglia responsabile del crimine di uno solo,
esilia i sospetti, amnistia i colpevoli, concilia, reprime, opprime,
sopprime. Il suo dispotismo supera quello di tutti i tiranni
perchè ha per scopo la libertà. Se non che il popolo
non gli si sottomette senza garanzie, e però conserva i
consoli riunendoli ad un maggiore consiglio di anziani, ne elegge un
altro del podestà, quasi giunta amministrativa che lo
consigli e diriga, mantiene la grande assemblea, e finalmente esige
da lui un giuramento di fedeltà agli statuti e a tutte le
giurisdizioni acquistate nelle vittorie contro i castellani.
Qualunque trasgressione o distrazione del podestà è
tariffata e multata: non gli si permettono parenti nella
città o dimestichezze con alcun cittadino. Come un generale,
che nessun'altra cura può distogliere dalla vigilanza del
campo, egli non può nemmeno condurre nel proprio palazzo la
moglie: finchè spirato il tempo della carica viene sottoposto
ad un processo, nel quale ogni cittadino da lui offeso ha diritto di
presentare la propria azione.
La rivoluzione dei consoli sale dunque di un grado col
podestà, decidendo questioni di alta sovranità senza
permesso nè del papa, nè dell'imperatore. Tutto un
nuovo ordine di legislazione s'inizia. Se le prime leggi giurate dal
podestà non sono che le prime costituzioni del popolo
persistenti come usi e costumi, nel nuovo esercizio, che egli ne fa
come magistrato straniero, se ne precisano le formole; e a poco a
poco ordinanze e regolamenti si moltiplicano, si applicano alla
finanza, all'edilità, ai diritti personali e reali,
cancellando il diritto longobardo col diritto romano, formando i
cento statuti della nuova Italia.
Non sempre il podestà raggiunge lo scopo della propria
carica, ora egli stesso concittadino di nascita e cittadino di
parte, o cittadino di nascita e concittadino di parte; ma la sua
azione fatalmente ostile all'aristocrazia feudale è sempre
benefica pei cittadini, e quella sottomette alla legge comune e
questi educa colla costante rappresentazione dell'unità
civile del governo. Infatti la sua crudele ed arbitraria
imparzialità soffoca presto ogni tumulto, mentre la
qualità di straniero necessaria alla sua carica, togliendo ad
ambo le fazioni la possibilità d'impadronirsene, spoglia a
poco a poco i loro misfatti di ogni carattere politico per lasciarli
ricadere condannati nell'ignobile prosaicità dei delitti
comuni. E quando esplode contro di lui la reazione pontificia ed
imperiale, tutta la perfidia dei papi e il genio di Federico II non
bastano a vincerlo.
Questi, costretto a sdoppiare il proprio carattere nell'antitesi
delle due nazioni sulle quali regna, combatte i podestà
dell'alta Italia come despoti nomadi e democratici in guerra coi
castellani, ultimi sudditi e soldati dell'impero. La rivoluzione
tedesca uscita dal trattato di Costanza impone un altro
combattimento alla rivoluzione italiana trionfante della guerra ai
castelli. Ma il tempo di Barbarossa è passato; la stessa
guerra municipale di città contro città sembra quasi
rallentarsi per lasciare il campo a quella intestina di ogni comune.
Federico II non trova più i numerosi e furibondi alleati di
Barbarossa: il suo appoggio ai concittadini contro i cittadini
invocanti il podestà come ultimo termine di un sillogismo,
del quale i vescovi e i consoli erano stati le premesse, ridestando
il terrore di una ripristinazione del regno, concorda contro di lui
tutte le forze dormienti delle vecchie rivoluzioni. La reazione
condannata al regresso si frange contro tutte le
impossibilità della vita: quando i concittadini la seguono, i
cittadini più numerosi la combattono; se i cittadini delle
città militari la sostengono, i concittadini aiutati dalla
lega lombarda l'osteggiano; nessuno dei due partiti può
soggiogare l'altro mercè la dispotica neutralità del
podestà, che esprime appunto l'equivalenza delle loro forze.
Federico II avrebbe dovuto imporre a tutte le città un
podestà straniero e strettamente imperiale, che cancellando
ogni legge e franchigia dei comuni li pacificasse nella soggezione
all'impero; ma il regno sarebbe così risorto sulle
conquistedei vescovi, dei comuni, dei consoli, ed era impossibile.
Quindi la vita e il genio di Federico II si dibattono vanamente
entro quest'impresa, che tenta tutti i problemi e accenna a tutte le
soluzioni senza darne alcuna; la sua guerra non rimane che un
tentativo di reazione contro la guerra interna dei comuni.
L'imperatore, anche là dove trionfa, non può mettere
unità o direzione nel moto sparpagliantesi a lui d'intorno;
il pontefice suo signore per l'investitura delle due Sicilie lo
scomunica, gl'insidia Palermo, fomenta contro di lui tutta la
reazione della bassa Italia per disfarne l'unità, nella quale
è perito l'alto diritto della Santa Sede. L'immensa donazione
delle provincie meridionali ottenuta da Carlomagno e da Ottone I non
è più che un rimpianto per il papato, il quale aveva
dovuto investirne i normanni e la vedeva, oramai fusa coll'impero
nella persona di Federico II. Laonde il papa non risparmia perfidie
a combatterlo. Ogni arma è buona, ogni delitto diviene santo
per la santità dell'intenzione, che vuole sottrarre la chiesa
al pericolo di soccombere all'impero. Federico più forte del
papa, fa scacciare da Roma Gregorio IX, salta di Terrasanta in Terra
di Lavoro, quando questi gli invade le Puglie, lo umilia, lo
costringe a sconfessarsi. Più tardi Gregorio IX predica
inutilmente la crociata contro l'imperatore e convoca un concilio
per deporlo: il suo successore Innocenzo IV, esule da Roma, lo
ritenta a Lione, ma ogni rivolta viene soffocata nelle stragi,
l'insidia di Pier delle Vigne è punita colla cecità,
tedeschi e saraceni difendono Palermo nei posti più avanzati
del regno, perchè l'imperatore vi è egli stesso
invincibile quale podestà.
Invece i papi soccombono a Roma nella lotta contro il senatore e il
podestà. Innocenzo III non resiste che per cedere negli
ultimi giorni, Onorio III è scacciato due volte; Gregorio IX,
che esordisce scomunicando l'imperatore Federico II, è
inseguito fino a Perugia ed espulso altre due volte; Celestino IV
muore avvelenato dopo sedici giorni, e la fuga di tutti i cardinali
sospende ogni nuova elezione, finchè Francia ed Inghilterra
imponendo allo stesso Federico di sollecitarla, viene nominato
Innocenzo IV. Ma sotto di lui trionfa appunto la rivoluzione del
podestà colla nomina del bolognese Brancaleone
dell'Andalò, al quale vengono accordati tre anni di
dispotismo e numerosi ostaggi contro l'odio del pontefice. E tosto
s'infervora la lotta fra i due poteri: Innocenzo IV, assediato nel
proprio palazzo dai creditori come un castellano fallito, deve
sollecitare la sprezzante protezione del podestà; più
tardi Alessandro IV, riparato in Anagni, dirige la reazione feudale
contro Brancaleone, che vinto è nuovamente reintegrato dal
popolo e vendica con terribile giustizia l'effimera sconfitta.
Tutte le predicazioni del papa contro l'imperatore, tutte le
battaglie dell'imperatore contro il papa, tutta la guerra d'entrambi
contro la rivoluzione finiscono al trionfo del podestà, primo
magistrato e sola giustizia dell'epoca fra le carneficine di due
partiti incapaci di schiacciarsi e la necessità del
progresso, che sbozza nella sua magistratura, impersonale a forza di
essere straniera, la figura del moderno magistrato indipendente dai
governi ed astratto quanto la legge.
Persino nel campo chiuso della teologia imperversa la grande guerra
della democrazia contro la feudalità; e nel 1247 Giovanni da
Parma, generale dell'ordine francescano, spingendo troppo in alto
l'ascetismo del suo fondatore, predica la virtù di una nuova
rivelazione superiore a quella di Cristo. Sarebbe il regno dello
Spirito Santo, annunziato come distruzione del regno del figlio
nella stessa guisa che questi aveva nel mosaismo distrutto il regno
del padre. Ma Guglielmo di Saint-Amour alla testa dei dottori di
Parigi, perorando nella chiesa una insurrezione quasi feudale,
accusa di demagogia la libertà democratica dei francescani e
mostra nelle incessanti tragedie di Roma la rovina della religione;
finchè il papa, imparziale fra ì due partiti estremi
come un podestà, soffoca la rivoltamistica dell'uno e
l'insurrezione laica dell'altro per inaugurare nella scolastica la
riconciliazione della scienza colla fede. Aristotele, già
proscritto, diventa il maestro dei nuovi dottori; dogmi, miracoli,
misteri primitivi, tutto è dichiarato evidente e quindi
indiscutibile; ragione e natura sono egualmente rivelazione divina,
ma si possono e si debbono interpretare per trovare il punto dove
combaciano colla rivelazione cristiana: le contraddizioni fra la
tradizione umana e la religiosa, fra il dramma della
filosofìa e la tragedia della rivoluzione, fra Dio e la
natura, fra l'uomo e Dio, non sono che apparenze, illusioni della
mente o vizi del cuore. La libertà è dunque permessa
entro l'ambito della fede, mentre S. Tomaso e S. Bonaventura, i due
genii dell'epoca, che ne consigliano nel pontefice il podestà
universale, spengono tutte le strambe ed inutili sedizioni del
pensiero religioso anteriore, preparando l'uno nella più
vasta enciclopedia filosofica, l'altro nella più solida
metafisica del cattolicismo il terreno alla filosofia del
rinascimento.
I guelfi e i ghibellini.
Il trionfo del podestà nell'equilibrio di due partiti cessa
quando, nell'impossibilità di sopprimersi reciprocamente e
nel lungo esercizio della lotta, le due sètte sono troppo
cresciute di numero e di forze. Il podestà, dittatore e
giudice al tempo stesso, non può comandare che nell'infanzia
e quindi nella debolezza delle due parti; appena la città
è tutta divisa e il popolo da un canto e i grandi colla plebe
dall'altro si scagliano al combattimento, la sua repressione
dittatoriale e la sua giustizia arbitraria rimangono impotenti. La
guerra sociale diventa civile, e si moltiplica tingendosi di tutti i
colori della guerra municipale. Ai concittadini e ai cittadini,
cioè ai feudali e ai borghesi, succedono nelle battaglie i
guelfi e i ghibellini.
La loro origine, nella quale si sono fanciullescamente perdute le
fantasie dei primi cronisti, l'acume del Machiavelli e l'erudizione
del Muratori, sta nelle rivoluzioni anteriori a quella del
podestà; la loro ragione nella necessità di
proseguirle. Mentre i primi castellani deportati nella città
l'odiavano e dovevano essere frenati dal podestà, i loro
discendenti naturalizzati nel nuovo ambiente invece di sognarne la
distruzione ne ambiscono la conquista. Il podestà è
dunque inutile dal momento che la città non è
più in pericolo. Nella nuova lotta impegnata nelle vie e per
le piazze è scopo il possesso indiviso della città e
il suo reggimento democratico o aristocratico.
La vita degli individui si sviluppa nel partito e si consuma pel
partito. La neutralità è assurda. Tutti i casi
dell'esistenza si prestano a drammi politici, nei quali la morte
falcia i personaggi a tutte le scene; i ghibellini sono i
prosecutori degli antichi castellani, i guelfi i discendenti dei
primi borghesi.
La guerra, propagandosi in tutte le città e assorbendo odii
municipali, inimicizie storiche, rivalità economiche,
pretensioni politiche, dissidi sociali, si complica così da
non parere più che un disordine di battaglie, una marea di
espulsioni e di ritorni, un tumulto di vita e di morte, nel quale si
distinguono solo i colori dei combattenti. Poichè tutte le
città hanno un partito esiliato, le alleanze si stringono per
parte, e ognuno trova la propria italianità e quindi la
propria nazionalità nell'esilio. L'idea municipale è
quindi sorpassata da quella di setta, mentre la persecuzione
inflitta o patita per un principio non più angustamente
cittadino crea rapporti, provoca sentimenti, concorda pensieri,
unisce opere prima non solo sconosciute ma inconoscibili.
Guelfi e ghibellini irreconciliabilmente nemici e reciprocamente
invincibili, non sono che due forme del medesimo fatto e due momenti
della stessa idea. Gli uni rappresentano una democrazia mal destra
nelle armi se abile al governo, avara, nemica di ogni grandezza
individuale e di ogni intellettuale libertà per rabbioso
sentimento di uguaglianza; gli altri sono un'aristocrazia armigera,
prodiga, altera di libertà legale, irrigiditaentro vecchie
formole e quindi incapace di comprendere gli interessi mobili e
multipli del popolo. La storia, imponendo loro un combattimento
secolare senza vittorie, ottiene dai guelfi il progresso, la
ricchezza, l'uguaglianza, la democrazia; dai ghibellini, il genio,
il carattere, la libertà. Nella loro epoca intanto entrambi
snaturano i due principii della chiesa e dell'impero, dai quali
s'intitolano e pei quali sembrano battersi così fanaticamente
da ingannare cronisti e storici. Infatti sul cominciare della lotta,
nel 1250, l'impero è vacante e più tardi nel fervore
degli scontri cittadini, Rodolfo di Asburgo è in pace colla
chiesa: più tardi ancora imperatore e pontefice, capi ideali,
restano fuori della guerra, cui discendono invertendola Nicola IV,
Martino III, Giulio II, Leone X, Clemente VII come pontefici
ghibellini, e Rodolfo d'Asburgo, Carlo IV e Roberto come imperatori
guelfi. Le vittorie alternate dei due partiti consacrano tutto il
progresso ottenuto dal vinto prima della sconfitta: la plebe,
insondabile fondo nel quale ambe le sètte pescano forze,
accoglie tutti i caduti e si alza con tutti i sorgenti: i suoi
individui senza nome diventano cittadini combattendo nella
città per la città; il partito è scuola di
guerra, di diplomazia, di governo, di viaggi, d'eguaglianza, di
libertà, di nazionalità, di italianità. Mentre
il palazzo del grande minacciando la casa del borghese protegge il
tugurio del povero; la casa del mercante attira nobili e plebei: il
denaro e il potere, il mezzo e lo scopo della guerra disciplinano ed
avvicinano tutti coloro che vorrebbero divergere. Quando trionfano i
guelfi, arti e mestieri raddoppiano la massa del popolo ufficiale;
quando prevalgono i ghibellini, le arti minori, i più vili
mestieri, le industrie più spregiate, il popolo magro, i
Ciompi, invadono la scena e vi conquistano un posto.
Il Capitano del popolo.
Quindi l'ordinamento della città subisce profonde mutazioni:
all'arbitrato del podestà, che manteneva
l'imparzialità, succede il regno delle parti. La dittatura
scade al capitano del popolo, generale dei vincitori e proscrittore
dei vinti, padrone e custode della repubblica, mentre il
podestà scelto nel partito e dal partito trionfante,
mantenendo appena le funzioni giudiziarie, si muta a grado a grado
in carnefice.
Ma il capitano, onnipotente e semplice cittadino, ha per organi e
freni del governo il consiglio del popolo da lui presieduto in un
palazzo speciale, il consiglio del comune presieduto dal
podestà per le materie amministrative, l'antico consiglio
degli anziani spesso diviso in due, la credenza per gli affari
segreti di diplomazia e di polizia, il gran consiglio colle maggiori
ampliazioni possibili allorquando si tratti di compromettere il
maggior numero dei cittadini nelle publiche vendette; e il consiglio
eslege, tirannico, assoluto, rappresenta il governo nel governo come
la parte è il governo nello stato. Naturalmente tutte le
corporazioni imitando l'esempio della repubblica costituiscono i
loro consoli, i parlamenti, il capitano, si armano, sono partito ed
esercito, vincitrici e vinte.
E la guerra guelfo-ghibellina irrompe in tutte le città
d'Italia, sconvolgendo con tale furore le posizioni politiche della
guerra municipale che i vinti di un partito riparano presso il
medesimo partito di una città anche nemica, e vi trovano
accoglienze ed aiuti. Le nuove rivoluzioni sembrano propagate dal
vento, esplodono come tanti gas ammorbando l'aria ed offuscando la
luce. Poichè tutti i cittadini si fanno partigiani, tutti i
banditi si arruolano nelle due parti. Ma presto i due disegni
storici della guerra municipale e della guerra guelfo-ghibellina,
entrambe generate dalla stessa guerra sociale indispensabile alla
formazione del comune e del cittadino, s'incorporano assestandosi
sulla base delle rivalità geografiche. Nelle città
romane prevalgono i guelfi, nelle città regie trionfano i
ghibellini attraverso vicende così confuse, che i cronisti vi
si perdono e gli storici non possono inoltrarvi.
A Firenze il dramma degli Uberti e dei Buondelmonti crea Farinata,
che vietando ai ghibellini vincitori,ghibellino egli stesso, la
distruzione di Firenze, afferma la differenza della nuova guerra
colla precedente delle città contro i castelli: borghesi e
feudali, cittadini e concittadini, guelfi e ghibellini, la patria
è per tutti la stessa città. Quindi in ognuna di esse
la rivalità si produce e prende nome da due delle maggiori
famiglie dei due partiti, quasi ad accennare che nella futura
rivoluzione, quando le parti saranno esauste e gl'interessi
intermedi cresciuti, le famiglie vincenti ripeteranno il
podestà sotto forma di tiranno. A Milano il duello comincia
tra i Torriani e i Visconti, a Bologna lottano i Gallucci e i
Carbonesi, a Modena gli Aigoni e i Grasolfi, a Faenza gli Accarisi e
i Manfredi, a Bergamo i Colleoni e i Soardi, a Orvieto i Monaldeschi
e i Filippeschi, ad Alessandria i Lanzavecchia e i Guasco, a Reggio
i Roberti e i Sessi, a Camerino i Baschi e i Varano; mentre nelle
città militari i partiti capovolgendosi mostrano la
democrazia ghibellina e l'aristocrazia guelfa. Così Genova e
le città nemiche di Firenze e di Milano sono tutte ghibelline
di popolo e guelfe di nobiltà per meglio resistere
all'espansione delle due grandi città odiate, che potrebbero
col più fuggevole accordo imporre loro una durevole
soggezione.
Ezzelino da Romano.
Ma fra tanta grandezza di drammi politici e guerreschi, nei quali
talora è personaggio tutto un popolo o un solo individuo
sembra centuplicarne la forza, assorbendone la vita collettiva nella
propria unità passionale, nessuno uguaglia nemmeno nelle
città militari quello ghibellino di Verona. Il suo eroe
Ezzelino III da Romano, ariano figlio di ariano, diventa così
grande che la sua epoca non può contenerlo e Dante solo, il
poeta ghibellino di Firenze, potrà poi essergli paragonato.
Dotto, incredulo, più freddo di un filosofo e più
sensibile di un poeta, capitano fulmineo e politico improvvisatore,
egli ha tutte le passioni del proprio tempo nel cuore e tutte le
idee del rinascimento nella testa. Appena scoppia la guerra fra le
due sètte Ezzelino stermina i guelfi, si associa in un
triunvirato Buoso da Doara e Oberto Pelavicino, li dirige, li
minaccia con sì terribile prontezza ed irresistibile
abilità che tutta Italia piega sotto la sua mano, e le
vittorie gli strappano in un grido d'entusiasmo il segreto del suo
genio: io sorpasserò Carlomagno! Ma a questa minaccia la lega
lombarda diventa guelfa, la Romagna si unisce alla lega, Treviso
alla Romagna e l'assalgono. Ezzelino non piega, raddoppia i
supplizi, prende Brescia, assedia Mantova, fronteggia tutti i nemici
che aumentano e si mutano contro di lui in crociati; difende Padova,
ritrascina Treviso nella propria alleanza, accampandosi con una
temerità solamente giustificabile dal genio o dalla
disperazione sotto le mura di Milano. Allora l'idea regia di
Berengario, che lo trasportava così alto, vanisce come uno
dei tanti miraggi della storia: le rivolte divampano sotto i piedi
di Ezzelino, i tradimenti lo cingono, gli abbandoni lo scoprono.
Solo, è ancora così terribile che la sua ritirata pare
un trionfo, ma una ferita cogliendolo al tallone come Achille
dissipa il terrore del suo nome e della sua spada. Ezzelino è
vinto, preso, calpestato dai villani, riparato nella tenda dei
traditori dalla loro stessa ammirazione, ove muore senza gettare un
lamento, più sublime nella superbia di quest'ultimo silenzio
che nel fracasso di tante incredibili vittorie. Ma Verona, da lui
indimenticabilmente tiranneggiata, resta fedele alla sua opera, che
ha democratizzato il senato degli ottanta, salariati e tolti alla
nobiltà i magistrati, sconfitti i castellani delle campagne,
prostrate le città nemiche, agguerrito il suo popolo sino a
mutarlo in un invincibile esercito.
A Palermo, altra città militare e ghibellina, l'idea regia di
Ezzelino trionfa con Manfredi, bastardo di Federico II, che a forza
di tradimenti carpisce il regno e vi si fonda contro il papa, dal
quale sulle prime aveva ottenuto l'appoggio come capo ostile alla
Germania e poco temibile. Invece Manfredi fa spargere la falsa
notizia della morte di Corradino, gli prodiga funerali, si dichiara
indipendente, favorisce i ghibellini di Roma, soccorre quelli di
Toscana, s'affratella cogli altri dell'alta Italia, più
piccolo e finalmente non più fortunato che Ezzelino,
perchè i guelfi di Milano, di Firenze, delle Marche, di
Napoli, di Messina, di Ascoli affrettano sul quadrante della storia
l'ora della sua caduta.
Tutta Italia è in fiamme; il Monferriato ghibellino sostiene
Torino contro i conti di Savoia che vengono espulsi: la Corsica si
strazia col partito trasmontano di Simoncello della Rocca e quello
cismontano di Giovanninello della Pietra; la Sardegna si lacera fra
Pisa e Genova; Ferrara ingrossa sul Po preparandosi all'urto di
Venezia che sta per avanzarsi sulla terraferma; Brescia sanguina al
seguito di Pelavicino; Parma e Piacenza si annodano come due
serpenti, e non potendo soffocarsi si mordono; fra Cremona e Milano,
Crema si sfinisce nella paura della prima e si perde nell'amicizia
della seconda. Roma, riconoscendo l'impotenza del podestà a
governarla, entra nel periodo delle due sètte colla nomina di
due capitani del popolo; gli uni voglion Riccardo di Cornovaglia e
gli altri Manfredi; i ghibellini Pietro d'Aragona e i guelfi Carlo
d'Angiò.
La guerra comprime tutte le forze della nazione per trarne scatti ed
esplosioni senza numero e senza nome.
Carlo d'Angiò.
Infatti Carlo d'Angiò, pallido imitatore di Rodolfo in
Germania e di S. Luigi in Francia, chiamato da Urbano IV per
soffocare la rivoluzione delle due sètte, dopo lunghe
trattative nelle quali i pontefici tentano di ridurlo a semplice
vassallo della chiesa, giunge a Roma per conquistare il reame delle
due Sicilie. Una terribile reazione guelfa lo sostiene contro
Manfredi, facilitandogli la conquista che si compie con tutti i
furori delle sètte. Palermo detronizzata soccombe a Napoli,
nuova capitale; i francesi si sovrappongono come gli antichi
normanni, i ghibellini sconfitti, dispersi,trucidati a migliaia
diventano così deboli che il tragico tentativo di Corradino
per riafferrare la corona sveva non fa che raddoppiare la loro
disfatta. La vittoria guelfa propaga per tutta l'Italia, mentre il
papa, indarno superbo di esserne l'arbitro supremo per aver chiamato
Carlo d'Angiò a limitare il trionfo ghibellino, prosegue
invano nel sogno di podestà imperiale. La Toscana, tutta
ghibellina nel 1262, è tutta guelfa nel 1270; ogni
città è insanguinata, diroccata, incendiata. Le
espulsioni e i ritorni accumulano in pochi anni le tragedie di molti
secoli, poichè la guerra guelfo-ghibellina infuria fra quella
municipale e l'altra dei castelli. Ma le città, inceppanti il
moto dell'èra consolare, lasciano ora circolare la corrente
della nuova vita: la libertà, monopolio sotto il vescovo, i
consoli e i podestà, si è estesa giù nelle arti
e nei mestieri della plebe. Colle vecchie famiglie sono svaniti
molti antichi pregiudizi, gli odii viventi hanno assorbito gli odii
regi, generazioni progressive sono succedute alle generazioni
granitiche dei primi tempi. L'Italia rozza e grossolana dei barbari
è oramai splendida e rumorosa, le sue chiese sono ricamate
nel marmo, sulle fronti de' suoi minacciosi palazzi balenano
già i sorrisi degli ornati. I suoi feroci partigiani hanno
modi e cultura di cavalieri; alcuni parlano il bel provenzale di
Carlo d'Angiò, altri il delizioso italiano di Federico II.
Dante, Petrarca, Boccaccio, il primo ghibellino, il secondo guelfo,
il terzo imparziale, stanno per riassumere nell'incomparabile
originalità dei propri capolavori la varietà feconda
di quest'epoca ingrassata di lagrime e di sangue, nella quale la
frenesia della vita vince il delirio della morte. L'orrore di tante
battaglie è così necessario che le cronache
anzichè esprimerlo sembrano economizzare quei lamenti, onde i
futuri storici fuorviati da idee posteriori saranno prodighi. Le due
tradizioni contradittorie dei guelfi e dei ghibellini, uscendo dai
sogni mitologici e dalle etimologie infantili, si precisano e si
elevano: questi si assimilano la causa dei longobardi contro i
pontefici, dei conti contro i vescovi, dei castellani contro i
mercanti, della casa dei Weibelingen contro la chiesa. Per essi
l'imperatore è libertà sopra tutti e contro tutti,
d'opera e di pensiero, capace di anteporre un astrologo ad un
vescovo, Averroe al Vangelo, distinguendo gli uomini come la natura
in forti e in deboli, in grandi e piccoli, coordinandoli colle
gerarchie che consacrano nelle differenze sociali le disuguaglianze
del valore personale. Ma i guelfi, imperiali quanto i ghibellini
colla dinastia dei Welfi, oppongono loro l'eroismo secolare dei
pontefici che vincono la barbarie longobarda, dei vescovi che
limitano la tirannide dei conti, di Gregorio VII che sottomette
l'impero, di Alessandro III capo della lega lombarda che vince
l'imperatore, di un progresso sempre romano che opponeva il diritto
di Giustiniano alle legislazioni barbariche, la propaganda delle
conversioni alle invasioni, l'uguaglianza di tutti alla
libertà di pochi, l'emancipazione del comune all'indipendenza
eslege del feudo.
Dopo trenta o quarant'anni di carneficine, dal 1240 al 1280, la
rivoluzione guelfo-ghibellina non è ancora stremata.
Attraverso azioni e reazioni incalcolabili l'armonia del sistema ha
migliorato senza mutarsi; le città militari sono ancora
ghibelline. Aquila, Benevento, Mantova, Forlì, Verona, il
Monferrato, Pavia, Asti, Lodi, Pistoia, Arezzo, Siena, Genova,
incrollabili sulle proprie basi, proseguono la lotta colla
tenacità di un odio reso malleabile da una perfidia politica
capace di raggiungere la sapienza; mentre dopo sedici anni di guerra
civile e cinque papi invano imparziali e tre interregni, Roma
trascina finalmente con Nicolò III il papato nel campo
ghibellino contro le altre città romane guelfe; e guerre e
rivoluzioni sembrano non dare ancora risultati. Infatti sotto il
governo del capitano del popolo e l'amministrazione del
podestà, lotta e scambio di partiti sono così
disordinatamente rapidi da non potersene cogliere il frutto: bisogna
quindi che la guerra, diventata stato normale della vita, atteggi
colle proprie forme e discipline i governi perchè la vittoria
dì una parte diventi davvero proficua, e la superstiteenergia
dei vinti si canalizzi attraverso l'opera dei vincitori,
fecondandola.
I tiranni.
Dal crescere della rivoluzione guelfo-ghibellina il capitano del
popolo, assorbendo anche le funzioni del podestà, si muta in
tiranno. Come capo e generale del partito, mentre la guerra politica
e militare è più furibonda, questi sorge dalla
vittoria per organizzarla: preterisce le procedure, viola i diritti,
oltrepassa le sciocche pacificazioni predicate dai monaci,
disciplina la milizia, riordina il governo colle idee della propria,
parte togliendo che il suo contenuto storico si consumi in inutili
tentativi. Le rivincite del partito sconfitto diventano così
più tarde e difficili. Ogni idea ha tempo di maturarsi, e lo
deve per vincere. La vecchia libertà municipale, troppo
precocemente simile all'indipendenza individuale di noi moderni,
svanisce; i consigli diventano corte o senato del tiranno, che
nominandone i membri vi domina le votazioni. Alla testa del proprio
partito e al disopra del partito vinto, il nuovo tiranno limita col
proprio interesse le feroci rappresaglie della vittoria e mette modo
agli odii, ordine alle vendette; condannato ad essere
contemporaneamente amato, odiato e temuto, favorisce la plebe e
frena il popolo, mentre la regolarità da lui imposta al
disordine permanente della guerra asseconda tutti i lavori,
compensando nella coscienza dei più la violazione di quasi
tutti i diritti.
D'altronde la guerra municipale, che involge la guerra
guelfo-ghibellina, giustifica ogni arbitrio del tiranno.
Difendendo la città colle forze meglio organizzate della
propria parte e costringendo quella avversa ad allearsi colle
città nemiche, questi legittima l'assolutismo delle proprie
funzioni coll'assicurare con più vere alleanze e con
più formidabili colpi l'avvenire della patria. La tirannia
come unità diventa ragione di vittoria: i comuni,
dibattentisi ancora nelle convulsioni della prima lotta
guelfo-ghibellina, non possono quindi resistere a quelli, che giunti
alla seconda fase posseggono nel tiranno un generale ed un ministro
costretto a non sbagliare mai sotto pena di perdere se stesso, il
suo partito e la sua patria. La rivalità delle grandi
famiglie, le insurrezioni subitanee, gli accidenti drammatici, onde
prima era resa impossibile ogni vera combinazione politica e
militare, assoggettati ora alla necessità del tiranno, si
assettano secondo la propria importanza nel partito senza frangerlo;
la fatalità del quale, più evidente
nell'unicità del capo, prepara gli spiriti a quel senso
misterioso di abile solidarietà e di libera sudditanza alla
legge necessaria a formare il carattere del cittadino moderno. Ma
tali sentimenti e idee non sono ancora che rudimentali: il tiranno
forzato a meritare la classicità del proprio nome, o
arrivando al potere o mantenendovisi coi supplizi, non può
nemmeno garantirvisi fra passioni ancora troppo selvaggie e una
coscienza publica troppo incerta. Quindi, superbo come un vincitore
e implacabile come un vinto, perfido ed eroico, guelfo col popolo e
ghibellino colla plebe, dovrà consumarsi
nell'impossibilità d'impadronirsi di ogni comando; mentre
l'orrore della guerra, dilatando la sua vita sino alle proporzioni
di un dramma fantastico, la sottoporrà al ritmo disperato di
tutte le cadute e di tutte le espulsioni.
L'avvicendamento dei tiranni, ammirabile di precisione a Milano nel
duello dei Visconti coi Torriani, comincia in ogni città
secondo le sorti e le leggi della guerra, a Rimini fra Parcitade e
Malatesta, a Ravenna fra i Polentani e i Traversari, a Ferrara tra
Azzo d'Este e Torelli Salinguerra, a Treviso fra i Camino e i
Romano, favorendo una democrazia dispotica, nella quale si
conservano le vecchie cariche e i vecchi nomi. Le funzioni politiche
sono guadagnate dalle nuove dinastie, gli uffici amministrativi
meglio distinti e coordinati diventano invece sempre più
impersonali a servizio del popolo e della plebe cresciuta.
Nelle città militari come Mantova, Verona, Urbino, Pavia, la
scena è anche più cupa perchè meno feconda la
vita. Pisa, già sconfitta da Genova, prepara nella tragedia
del conte Ugolino il tema forse al più tragico fra i canti di
Dante, rivelando in un solo fatto lo spaventevole segreto di tutto
un secolo, giacchè, tradita dalla vanità del conte
Ugolino, non può essere salvata nemmeno dalla severità
del suo successore Guido da Montefeltro: Genova si alza raggiante
sul mare coprendolo di navi, inghirlandandolo di colonie e sfidando
in Venezia un'altra rivale ben altrimenti grande e poderosa. Invece
Firenze, ancora atteggiata a repubblica, è divisa come
Perugia, Siena, Parma, Bologna fra comune e popolo, subisce due
statuti, suona due campane tiene due consigli. Poichè il
dualismo delle sètte paralizzando lo sviluppo della sua vita
la rende inferiore alle città rivali. Giano della Bella tenta
una rivoluzione contro i grandi, che farebbe di lui un tiranno
plebeo; ma l'astuzia dei nobili lo rovescia, improvvisando invece
l'ignobile tirannia del podestà Monfiorito da Padova senza
riparare a nessuno inconveniente della vecchia libertà
consolare. Il disordine della legislazione è tale nelle
città libere, e l'indipendenza dei cittadini belligeranti
così violenta, che una più alta tirannia diviene il
più urgente dei bisogni e il solo mezzo di progresso. Le
assemblee republicane vi si tengono in armi; la gelosia spaventata
del popolo rinnova i consoli ogni trimestre e li imprigiona, li
rende invisibili per mantenerli incorrotti; la penalità
esagera il taglione e colpisce i parenti del reo; la clientela dei
grandi è cangiata in compagnia di armati e la loro insolenza
diviene tanto facile, che si debbono dare cauzioni al popolo per
danni non ancora commessi. Così Brescia e Piacenza non
sapendo crearsi un tiranno nominano Carlo d'Angiò, e
pacificate dalla sua pressione svolgono le proprie dinastie.
Nelle regioni feudali la tirannia procede con minori tragedie ma
più scarsi benefizi, perchè nella storia il risultato
di una contraddizione è sempre in ragione direttadella sua
vastità e della sua durata. Il Monferrato, invaso dai
Milanesi, salva la propria indipendenza, portando alla tirannia il
figlio di Guglielmo IV Spadalunga caduto prigioniero di Alessandria;
la casa di Savoia, non potendo assurgere all'unità della
tirannia per l'inconciliabile dualismo de' suoi due governi di
Piemonte e di Savoia, si spezza in due tirannie; mentre nelle due
Sicilie i Vespri rompono l'unità francese di Napoli
cancellando per metà il lavoro di Carlo d'Angiò colla
resurrezione di Palermo sotto una dinastia ghibellina ed aragonese;
e la grande famiglia dei Colonna, forte nella tradizione ghibellina
del popolo romano, lotta di tirannia con Bonifacio VIII, equivoco
temperamento egli stesso di settario e di tiranno.
Bonifacio VIII e Enrico VII di Lussemburgo.
Questa loro guerra, propagandosi a tutta l'Italia vi determina un
supremo tentativo contro il progresso, rappresentato dai tiranni
sull'atroce anarchia guelfo-ghibellina. Bonifacio VIII trascinato
dalla ingovernabile molteplicità delle proprie macchinazioni,
dopo aver chiamato Carlo di Valois alla conquista della Sicilia
diventata aragonese e ghibellina, assale l'Aragona colla Francia, ma
Giovanni da Procida, il grande cospiratore, e Ruggero Lauria, il
grande ammiraglio, riparano tutte le debolezze della casa di Aragona
mantenendole la Sicilia contro Napoli e Roma. Pisa evita la reazione
nominando con satanica malizia Bonifacio stesso a proprio tiranno,
Genova resiste collo schiacciare inesorabilmente tutti i guelfi che
le rientrano, mentre i Torriani invece riconquistano Milano, e in
tutte le altre città la reazione accelera il ritmo delle
espulsioni senza profitto del pontefice, spaventato egli medesimo
dalle catastrofi settarie della sua guerra ai tiranni.
In questa nuova crisi le due sètte si suddividono in
neo-guelfi e neo-ghibellini, o in guelfi bianchi e guelfi neri,
così che l'intreccio dei partiti confonde l'esattezzadei
cronisti ed offusca le idee degli storici. Alberto Scotti a
Piacenza, Giberto Correggio a Parma, Corso Donati a Firenze,
Maghinardo di Susinana e Uguccione della Faggiola grandeggiano fra
le tenebre e i lampi di questo temporale politico, che sconvolge
tutte le città per sostituirvi la tirannia di un forte a
quella di un debole. Se nella guerra fra i Colonna e Bonifacio VIII
la vittoria resta a quest'ultimo per l'insidioso consiglio di Guido
da Montefeltro, la rivincita di Sciarra, che al soldo del re
francese arresta e malmena in Anagni il papa vincitore, pareggia fra
loro il conto; quindi l'avvelenamento di Benedetto IX perpetrato dai
Colonna e la fuga di Clemente V in Avignone, feudo del re di Napoli,
suo vassallo, emancipano finalmente Roma e guarantiscono il trionfo
alla rivoluzione dei tiranni.
Siamo al 1305, il secolo che resterà classico nella
letteratura come aurora del mondo moderno. Cinque anni dopo l'esilio
del pontefice almeno venti città sono passate dai guelfi ai
ghibellini che abbondano di guerrieri, di capitani, di tiranni, di
cronisti, di filosofi. Uguccione è dittatore a Pisa, Federico
d'Aragona liberatore in Sicilia, Spinola sorpassa i Doria a Genova,
Dino Compagni, oggi negato, è il primo cronista del tempo;
Cecco d'Ascoli inizia con Pietro d'Abano la rivolta filosofica nella
quale morirà Giordano Bruno e ne esperimenta il rogo; la
poesia canta le stragi come un'allodola alta nei cieli sopra un
campo di battaglia, e insegna le canzoni a Guido Cavalcanti, il
sonetto a Guittone, educa in Cino da Pistoia il maestro di Petrarca,
accarezza in Jacopone da Todi un'originalità popolaresca,
bigotta e ribelle, eroica e gioviale, apprende a Marco Polo la
nostalgia dell'Oriente sconosciuto, intanto che Dante, cacciato da
Firenze alla discesa di Carlo di Valois, erra pallido e tetro per le
terre d'Italia raccogliendo il gemito dei feriti fra l'urlo dei
vincitori, avvelenandosi alla coppa di tutti i tradimenti,
trasalendo di gioia infantile a tutte le bellezze della natura,
fremendo come un eroe e declamando come un profeta a tutte le
catastrofi della rivoluzione, che gli nascondono col polverio delle
rovine i profili dell'epoca nuova. Ma quantunque tutta la tempesta
medioevale infurii nel suo spirito e il suo pensiero abbracci tutto
lo scibile del tempo, egli vi è come uno sconosciuto. Non
arriva e non può arrivare all'idea d'una Italia, ma ne fissa
nullameno l'eloquio volgare; sogna inevitabilmente l'impero, e in
questo sogno sembra intravedere qualche lineamento dello stato
moderno; è il più grande cittadino di tutti i secoli,
e la sua patria non è ancora che la sua città.
L'esilio, facendolo nomade per tutta la vita, lo rende italiano, e
dà ai suoi vizi di partigiano l'onnipotenza di una passione,
che Eschilo non avrebbe indovinato e Shakespeare non potrà
poi sorpassare. Quindi incomprensibile ed incompreso riunisce nel
proprio genio e nel proprio poema tutta la natura e tutta la storia,
tutto il mondo e tutto Dio, per creare la lingua più bella,
la poesia più profonda, la visione più fantastica e
più reale in un secolo che resterà alla testa di tutti
gli altri come Cesare e Napoleone sulla fronte dei loro eserciti.
E al suo grido di ghibellino invocante un'altra reazione imperiale,
che schiacciando i tumulti di quella rivoluzione dei tiranni
permetta alla neonata civiltà di fecondare il mondo, Arrigo
VII, nuovo imperatore di Germania, scende le Alpi con attardata e
magnanima ingenuità. Secondo l'idea del podestà, da
lui rappresentato nelle nove città del Lussemburgo e
nell'impero, ricusa persino di pronunciare i nomi di guelfo e di
ghibellino, valuta i tiranni come avventurieri che la sua presenza
basterà a mettere in fuga, giudica quella guerra civile una
demenza di molti e una ribalderia di pochi intesi ad essere capitani
per mutarsi in padroni. Il segreto dell'epoca gli sfugge
insospettato.
Ma la sua discesa provoca invece una reazione ghibellina nella quale
Matteo Visconti sopprimendo Guido Torriani e Antonio Fisiraga,
tiranno di Lodi, sostituisce la propria alla loro tirannia, mentre
altri guelfi, profondamente abili, come Alberto Scotto di Piacenza,
sfuggono la catastrofe secondandola, e ghibellini terribili come
Cangrande della Scala e Bonacolsi di Mantova proseguono nell'opera
propria senza degnare Arrigo VII nemmeno di un omaggio.
Perciò la sua opera si esplica in una perpetua contraddizione
che lo trascina d'inganno in inganno, attirandolo cogli applausi,
stordendolo cogli abbandoni, inceppandolo colle resistenze, evitando
sempre i suoi disegni colla perfidia, finchè la reazione
torcendosi contro di lui lo costringe ad uscire
dall'imparzialità per difendersi coll'appoggio di un partito.
Tutte le città sulle quali contava smentono le sue previsioni
e rosseggiano di stragi quasi irridendo alla sua pacificazione di
podestà supremo; così che giungendo a Roma non ha
più che Genova e Pisa al proprio seguito, e anche queste solo
per odio del tiranno guelfo di Napoli, cui molte città come
Faenza e Firenze si davano per sfuggire alla reazione ghibellina.
Allora Arrigo VII, aggirato dai Colonna, dagli Orsini, dal re di
Napoli, dal papa procrastinante la sua incoronazione, diventa il
giocattolo di tutta l'Italia che lo minaccia, lo circuisce, lo
insegue, assassina i suoi partigiani, sconfigge i suoi soldati,
dissipa il ricordo della sua opera più presto ancora che non
cancelli l'orma del suo piede fuggente, e forse gli fa dare un'ostia
guelfa avvelenata dai monaci di Buonconvento. Così finiva la
reazione e l'eroe invocato da Dante, egualmente vinto dai tiranni
che aveva dovuto sanzionare come da quelli che aveva forzatamente
nominati, dal re di Napoli che per lui diventa il protettore guelfo
di tutti gli stati incapaci di bastare a se stessi, dal papa che lo
inganna e lo accusa, dall'Italia che aveva bisogno dei propri
tiranni per consumare le proprie sètte ed elaborare le
proprie tirannie.
Nè il papa, nè Roberto di Napoli possono quindi
profittare delle sue sconfitte, o ritentando la sua opera evitarne
gli errori.
Dopo di lui la rivoluzione vittoriosa comincia a discutere la
propria vittoria più in alto, entro
l'infrangibiledualità della chiesa e dell'impero,
interpretando l'uno colle idee ghibelline dei giureconsulti e
l'altra colle idee guelfe dei teologi. La discussione rivela
già una emancipazione conquistata nella storia contro la
chiesa e l'impero dalle nuove forme politiche, sebbene ancora
dominate dall'idealità delle due astrazioni sempre identiche
malgrado la loro antitesi. Il papato di san Tommaso, di Egidio
Colonna e di Tolomeo da Lucca nel De regimine principum è lo
stesso impero di Dante nel De monarchia, entrambi concepiti in una
unità che discende nella storia invece di sorgerne,
realizzati da Dio con un sistema del quale la sua rivelazione ci ha
affidata la chiave. Se il papato è religioso e l'impero
laico, il loro fondamento è identico per l'unità del
fondatore; le loro differenze non arrivano a produrre due fisonomie
nella dualità dei loro assolutismi. Invano Dante crede di
sottrarre l'impero alla supremazia del papato invocando la sua
anteriorità e le parole di Cristo: il mio regno non è
di questo mondo! L'impero rimane sempre un concetto monoteistico,
ieratico, che toglie ogni libertà alla storia e alla vita.
Più assurdo del papato, che in possesso di una rivelazione
continua potrebbe dirigere l'una e l'altra sul binario delle proprie
leggi, deve soccombere primo nella lotta; e infatti Dante abbandona
presto la polemica filosofica per trasportarla nel poema dove
scolpisce nel Dio cristiano un imperatore romano e un tiranno
medioevale, egualmente impassibile nelle condanne e raffinato nei
tormenti. Il suo Inferno è il riflesso dell'epoca: i dannati
vi sentono ancora le passioni della vita, i loro peccati dispaiono
nell'energia del racconto che li evoca, onde ne rimangono solamente
le pene, nelle quali il paziente è spesso così
superiore da umiliare persino Dio. Tutta la politica medioevale
segue il poeta all'Inferno, in Purgatorio, in Paradiso; la sua
collera ha le vampe solfuree delle bolgie, la sua voce scoppia come
un fulmine, i suoi morti sono doppiamente vivi, i suoi aneddoti sono
tante tragedie condensate, come il suo poema è la sintesi del
mondo. Ma accettando la nuova tiranniaghibellina di Arrigo VII e
delle corti di Verona e di Ravenna, egli accoglie dal guelfismo le
più belle figure in Paradiso, perchè nella sua anima
immensa la libertà non può separarsi dalla democrazia,
e nel suo istinto infallibile di poeta la realtà
necessariamente tirannica del secolo non contradice alla cordiale
idealità di san Francesco d'Assisi.
Capitolo Terzo.
Le Signorie
Loro primi atteggiamenti.
Tutte le idee e le forme delle rivoluzioni anteriori attendono la
consumazione delle due sètte per concentrarsi in una
più alta creazione politica. Il comune e la città sono
creati: la loro legislazione ha disegnato quasi tutte le funzioni
necessarie ad uno stato moderno; le attitudini civili e guerresche
esercitate da una lotta secolare hanno acquistato l'infrangibile
pieghevolezza dell'acciaio e plasmato il carattere dell'uomo nuovo.
Naturalmente tutti non sono ancora cittadini nella propria
città, ma nessun cittadino vi ha più il carattere
dell'antico civis romanus. L'impero e la chiesa, che sembravano
soffocare in una parentesi mondiale l'infanzia di ogni stato, ne
sono stati l'involucro protettore; la libertà, procedendo per
emancipazioni graduali, per svolte e giravolte, ha superato ogni
ostacolo della storia fecondando tutti i germi della vita. La guerra
ai castelli, la guerra municipale, la guerra civile debbono
conchiudersi in una vittoria collettiva e superiore, per la quale le
città vincitrici si mutino in capitali, i maggiori comuni in
stati, i più forti tiranni in signori. Se quelli erano stati
l'espressione di una inevitabile supremazia militare rappresentante
la violenza dell'ordine nella irrefrenabilità del disordine,
questi saranno i mandatari di una sovranità senza titolo,
data e sostenuta da una classe di cittadini cresciuta tra le guerre
delle due sètte.
La imminente signoria non sarà nè feudale, nè
monarchica, nè pontificia, nè imperiale; questi
principii fermenteranno ancora nella sua forma originale mentre
tutte le altre ne maschereranno, per meglio proteggerla, la
fisonomia; però la sua spontaneità italiana
resterà come una delle nostre glorie maggiori nella storia
universale. Con essa si chiude il medio evo. La signoria è
già uno stato moderno creato dalla storia nella storia con le
evoluzioni combinate del regno, dei vescovi, dei consoli, dei
podestà e dei tiranni. Non ha legittimità di titoli, e
quelli che accatta sono tutto al più abili ipocrisie della
sua politica; non si conosce confini, dinastie, eserciti, conquiste.
Se comincia quasi sempre con una tirannia, questo processo non le
è obbligatorio, perchè il suo carattere deriva da una
pacificazione delle sètte e da una dedizione che tutto il
comune le fa delle proprie franchigie. Un misterioso accordo stringe
popolo e signore: il tiranno era il settario più forte, il
signore sarà più forte di tutti i settarii. Nessuna
garanzia contro di lui che è la garanzia suprema contro la
violenza anarchica; il governo diventa personale per essere
più spedito; la democrazia accenna alla monarchia per
consolidarsi; non più parlamenti che provocherebbero
sedizioni, ma un uomo solo che faccia tutto nell'interesse di tutti
facendo il proprio. Essendo combattuto dagli avanzi settari, non
potrà aggravarsi sul popolo, e come sottomesso ai poteri
astratti della chiesa e dell'impero mutarsi in re; d'altronde
l'esiguità e la rivalità di tutti i comuni lo
impedirebbero. Invece compirà la signoria della città
vincente sulle inferiori, annullando nella propria
imparzialità le antiche differenze e disegnando i contorni
del nuovo stato. Così la nuova pace soddisfa certamente tutti
i bisogni, provoca tutte le attività, salva tutti gli
orgogli.
Il signore, splendido, forte, abile, dotto, generale, ministro,
sovrano, esprime il nuovo popolo da lui assimilato nel proprio
spirito insieme all'anima degli antichi feudatari, al carattere dei
primi borghesi e al cuore della plebe. Ormai le famiglie non sono
più tanti nuclei nemici in un centro infrangibile; il valore
dell'individuo comincia a diventare unità di misura sociale,
e il valore non è più solamente guerresco. Le idee si
dilatano; la signoria slargandosi oltre la città aumenta la
patria; il signore non è più il capo della propria
parte o dell'avversa, o il podestà straniero, servo
provvisorio incaricato di funzioni provvisorie sovrane, ma un
rettore che deve comprendere, soddisfare, eseguire tutto. Il popolo
è talmente sicuro di se stesso che non si premunisce
più contro di lui come contro i consoli e il podestà.
Nella politica del signore, che sostituisce il tradimento alla
guerra civile, si bada solo al risultato, perchè ogni
ingrandimento di lui diventa grandezza della città. I
partigiani piegano e si mutano in cortigiani o in sicari, al palazzo
di città ne succede un altro, non ancora reggia e nullameno
modello insuperato di tutte le reggie future.
Così il signore, dominando la città, l'emancipa dal
papa e dall'imperatore, cui non chiede più l'investitura e
dei quali non tiene più conto nel legare ai discendenti la
propria sovranità come un patrimonio qualunque. Invano i
partiti non ben morti insorgono con moti di agonia per assassinare
il signore ed impedire l'assetto della sua dinastia; il tradimento
settario non arriva all'efficacia del tradimento di stato, e la
successione prosegue, la dinastia si stabilisce, la signoria si
assicura. La sua necessità deriva dall'altra di una monarchia
pacificamente progressiva che rassicuri il commercio, l'industria,
l'agricoltura, le arti e le scienze effervescenti nella febbre di
creare tutto un mondo. Il signore guarantisce la pace del lavoro per
tutti i capolavori imminenti. Il ritorno alla republica è
impossibile; se il signore soccombe ad una cospirazione, il
cospiratore dovrà cangiarsi in signore; se la sua discendenza
troppo numerosa richiamasse i pericoli della passata anarchia, il
signore salverà la società scannando coll'efferatezza
dei vecchi sicari tutta la propria famiglia, perchè le leggi
della storia diverse da quelle della morale sono anche più
inflessibili.
La guerra municipale diventa regionale quando le città di
secondo ordine cadono sotto quelle di primo, e le altre incapaci di
giungere alla signoria soccombono al signore più prossimo, le
militari alle romane, atteggiando una geografia politica ben diversa
da quella dell'antichità e del medio evo. La nuova
dominazione unifica senza il soffocamento inevitabile in ogni altra
dominazione anteriore; gli stati, che già si disegnano e non
possono ancora consolidarsi, sono tirannici nella capitale e
liberali nelle altre città, industriali nelle tendenze e
militari nelle tradizioni, costretti alla guerra per l'interesse
medesimo della pace e nullameno poco atti a mantenerne gli eserciti
necessari. Questa suprema impotenza diventerà poi causa della
loro rovina.
A Milano la signoria incominciata col tradimento di Matteo Visconti
impone tosto agli emigrati di rientrare, proibisce alle famiglie
rivali ogni guerra intestina, ordina alle truppe di sterminare i
briganti, ai partiti di non più spianare le case dei
proscritti. Quindi, pacificata all'interno, la forte metropoli
conquista Piacenza, Bergamo, Alessandria, Tortona, Pavia, ed
alleandosi con altre signorie guelfe o ghibelline diventa il centro
di una lega di signori come nei secoli scorsi lo era stata per
quella dei vescovi e dei consoli. Cangrande della Scala dietro
l'esempio di Matteo Visconti rifiuta il titolo di capitano del
popolo per sottomettere invece il parlamento ed annullare republica
e tirannia in una signoria perpetua, che finge tenere
dall'imperatore; a Padova la famiglia dei Carrara, rappresentanti il
partito medio sorto tra i tiranni neo-guelfi e i proscritti
ghibellini, s'impadronisce della repubblica; Ponzino Ponzoni a
Cremona, Cecco Ordelaffi a Forlì, Francesco Manfredi a
Faenza, Rinaldo d'Este a Ferrara, Alberghetto Chiarelli a Fabriano,
Giovanni Gabrielli a Gubbio, i Malatesta a Rimini, i Vistarini a
Lodi, i Trinci a Foligno, i Tarlati ad Arezzo, senza parlare dei
minori, improvvisano altrettante dinastie.
Nelle regioni feudali la signoria si svolge regolarmente aiutata
dall'unità militare e dalla successione dinastica.Così
il Monferrato si acqueta facilmente nella signoria di Teodoro
Paleologo e di Giovanni II; la casa di Savoia, sempre a due facce,
guelfa in Piemonte e ghibellina in Savoia, accorda le proprie
differenze lasciando a Amedeo V di Chambéry la supremazia
sopra Filippo signore di Torino per meglio combinare i tradimenti di
entrambi e preparare, slargandolo, l'ancor piccolo stato al grande
intervento savoiardo nella politica italiana.
Mentre Pisa e Lucca si combattono nelle estreme convulsioni della
guerra guelfo-ghibellina con Uguccione della Faggiuola e Castruccio
Castracani, i due più grandi soldati dell'epoca e tiranni e
signori al tempo stesso, Firenze invece dorme un sonno agitato sotto
la tirannia guelfa di Roberto re di Napoli da lei invocato al
principio del secolo per sottrarsi alla reazione di Enrico VII di
Lussemburgo. Genova, divenuta guelfa nello strazio degli ultimi
furori partigiani, per resistere ai propri emigrati si sottopone
alla medesima tirannia napoletana; tutte le altre republiche
agonizzano nelle stragi settarie, che i tiranni ormai sorpassati
aumentano invece d'impedire. Napoli stessa, incaricata dalla chiesa
di proteggere il guelfismo contro l'ultima reazione feudale, non
presenta più nella storia che il mirabile fenomeno di una
grande influenza senza risultati. La Sicilia, la Corsica, la
Sardegna, grande triade insulare d'Italia, non ricevono le scosse
politiche del continente che indebolite per tutta la distanza delle
acque: la Sicilia è ancora libera contro Napoli cogli
Aragonesi; la Corsica dominata ma non per anco riunita dai genovesi;
la Sardegna, sempre litigata fra pisani e genovesi e concessa
ultimamente da Bonifazio VIII a Giacomo d'Aragona, pare un pomo
destinato a riaccendere le discordie, se lo sfinimento delle parti
accennasse a placarle.
Ma l'avvenimento dei signori, legalizzando tutte le rivoluzioni
antecedenti ed affermando i primi articoli del diritto pubblico
moderno, non può passare senza reazione. Tutta
l'abilità della diplomazia signorile, immoralesino
all'ingenuità e intrepida oltre ogni delitto, non basta ad
evitare la discussione pregiudiziale del nuovo principio politico,
che consacra in qualunque minimo stato il diritto all'autonomia. La
Signoria, imperiale quanto gli antichi podestà e più
violenta degli ultimi tiranni contro le sètte nell'interesse
della nuova classe popolare cresciuta fra le loro lotte, irrita
naturalmente troppe passioni e sacrifica troppe persone
perchè non si alzino appelli contro di essa ai due supremi
poteri costituzionali della chiesa e dell'impero.
Roberto di Napoli e Bertrando del Poggetto.
Primi alla protesta sono i guelfi maggiormente mortificati dalle
grosse signorie ghibelline. Roberto di Napoli loro capo, nel 1320,
forzato d'indietreggiare su quasi tutti i punti, invoca Giovanni
XXII, suo ospite nel feudo di Avignone, e gli persuade di mandare in
Italia il figlio Bertrando del Poggetto a combattere le signorie dei
Visconti, degli Scaligeri, dei Bonacolsi e del re di Sicilia
coll'aiuto di Filippo di Valois e di Enrico d'Austria. Ma la nuova
crociata si limita come sempre alle forze vive dei guelfi italiani,
dei fiorentini, dei genovesi, dei bolognesi, degli Arcelli di Parma,
dei Cavalcabò di Cremona, dei Lando di Piacenza, tutti
egualmente minacciati e destinati a perire sotto le signorie.
La lotta terribile e varia non fa che eccitare le forze della
rivoluzione e disegnarne le maggiori figure. Matteo Visconti vi
spiega la duttile infrangibilità di un genio che si salva
sempre dalla tragedia nella commedia, servendosi della stessa
religione nemica e fecondando le vittorie della spada colla
corruzione della diplomazia; suo figlio Galeazzo soccombe un istante
ma per rialzarsi più forte a riprendere le proprie conquiste,
mentre Cangrande della Scala circondato da ventidue capi italiani
spodestati combatte Treviso, Padova, Aquileja, l'Austria, minaccia
Bologna, soffoca Vicenza. A Rimini Malatestino, rovesciato per un
giorno dalla reazione di Ramberto, ne trionfa e scanna poco dopo
l'avversariocol coltello; Castruccio Castracani, signore di Lucca,
moltiplica le vittorie contro i guelfi e accenna a mutare la propria
tirannide in signoria; Ostasio Polenta si fa signore di Ravenna con
un fratricidio, Silvestro Gatti di Viterbo con una strage, Filippo
Tedici con una serie di perfidie, che lo rendono singolare in
un'epoca, nella quale le più tragiche infamie e i più
mostruosi tradimenti erano comuni. Quindi le signorie si espandono
come galvanizzate dalla reazione: gli Appigliaterra si impossessano
di Cingoli, i Tarlati di Città di Castello, i Malatesta di
Sant'Arcangelo, Cangrande di Belluno e di Feltre, i Visconti di
Vercelli e di Cremona, i Bunacolsi di Modena. Altrove il Monferrato
si conserva impassibile, la casa di Savoia vigila
nell'immobilità, quella d'Este nella sicurezza, mentre le
città incapaci di fondare signorie si lacerano in stragi
settarie riconfermando così la legittimità della nuova
rivoluzione. Infatti San Sepolcro, Urbino, Osimo, Iesi, Recanati,
Fermo, Rieti, Spoleto, Assisi, Orvieto s'insanguinano e s'incendiano
con ferocia maggiore di ogni demenza; Pisa, caduta in agonia, perde
la Sardegna; Firenze, attardata, cede sotto la protezione napoletana
alla tirannia provvisoria del duca d'Atene; Genova sembra esaurirsi
nell'anarchia di quello stesso patronato che paralizza Alessandria,
Tortona, Brescia. Ma la conquista pontificia non è migliore
del patronato napoletano. Le città, che vi si abbandonano,
sono o republiche colpite da marasma come Firenze e Genova, o
città ancora dibattentisi nelle convulsioni delle
sètte e quindi impotenti a comporsi altro governo come
Piacenza, Parma, Reggio, Bologna, Cesena.
La reazione di Giovanni XXII e di Bertrando del Poggetto fallisce
quindi il proprio scopo. Nessuna delle signorie combattute vi
soccombe, molte invece vi si fondano e prosperano: Filippo di
Valois, Enrico d'Austria e Enrico di Fiandra compaiono appena nella
lotta; tutta l'energia, l'originalità e il genio brillano nei
personaggi della rivoluzione. Matteo Visconti è il suo
politico più viscido, Cangrande il più granitico,
Filippo Tedici il più raccapricciante; Castruccio Castracani
vi si mostra degno d'un impero, Marco Visconti di una corona;
ovunque si presenta un signore si è sicuri che la sua
apparizione copre un dramma degno di Shakespeare e ha risolti
problemi, dei quali le formole basteranno più tardi ad
infamare l'ingegno di Machiavelli. Ma la fede dei popoli e la loro
prosperità seguono il signore; i delitti di questo
rappresentano un'economia sui crimini inevitabili dell'anarchia ed
un progresso del diritto politico giunto all'autogoverno mediante un
segreto accordo fra popolo e signore. La tirannia, le sètte,
il podestà, i consoli, tutte le vecchie forme rivoluzionarie
colpite da sterilità o da epilessia non possono accogliere la
nuova vita politica italiana, della quale è prima
necessità mutare i maggiori comuni in stati. Il sogno
reazionario di Giovanni XXII di sottomettere l'Italia
all'unità guelfa napoletana per dominarla come un vecchio
feudo, è peggio che pazzo; l'aspirazione di Cangrande a
ritentare l'impresa di Berengario e di Ezzelino appare come una
vanità appena giustificata dalla fortuna delle vittorie e
dall'energia dell'ingegno; il piccolo dominio improvvisato nelle
terre dell'esarcato da Bertrando del Poggetto, figlio del papa, non
resisterà all'imminente reazione imperiale contro le
signorie.
Lodovico il Bavaro e Giovanni di Boemia.
Infatti le grandi vittorie ottenute dai signori ghibellini contro il
re di Napoli e Bertrando del Poggetto sotto le mura di Bologna e di
Firenze danno un'impazienza così orgogliosa alla rivoluzione
che s'invoca la discesa imperiale di Lodovico il Bavaro per finirla
una volta colla insania della crociata pontificia. Ma al pericolo
della reazionaria unità guelfa del pontefice e di re Roberto
succede l'altro della regia unità ghibellina con Lodovico il
Bavaro, fedele alla tradizionale illusione degli imperatori, e la
rivoluzione deve neutralizzare con nuovi espedienti politici questo
medesimo aiuto supplicato. Quindi i signori s'impettiscono presto
contro Lodovico: Cangrande non va alla dieta ghibellina di Trento se
non scortato da un esercito, e ne esce sdegnato; se Galeazzo
Visconti soccombe da principio alla discesa imperiale invocata
contro di lui da Marco e Lodrisio, così che Milano sembra
riprecipitare nella anteriore forma republicana colla rivolta
simultanea delle città rivali, poco dopo Azzo Visconti la
rialza inalberando la bandiera guelfa di Avignone, e il consiglio
dei novecento lo proclama signore perpetuo. Cangrande e Mastino,
invincibili nella marca di Verona, aumentano le vittorie della loro
espansione soggiogando Padova e Treviso; a Mantova Luigi Gonzaga
soppianta col più ammirabile tradimento il tiranno Passerino
Bonacolsi e fonda la propria dinastia, scrivendo con inimitabile
ironia sotto al proprio stemma la parola Fides; e Lodovico il Bavaro
deve approvarlo. A Lodi Tremacoldo, un altro servo, imita Luigi
Gonzaga contro i Vistarini. Il moto di Lodovico contro i signori
fallisce: le signorie restano immobili, il marchese d'Este passa al
papa, le città forti resistono, quelle che cedono
all'imperatore non ne comprendono l'opera e risentono la sua azione
come una crisi di più nelle proprie convulsioni.
Castruccio Castracani, avendolo chiamato per insignorirsi della
Toscana, profitta della sua presenza per prendersi Pisa, ma gli
lesina i soccorsi e si premunisce contro i suoi possibili
tradimenti; cosicchè, alla morte improvvisa del grande
capitano, l'imperatore incapace di dominare nella Toscana deve
mettere Lucca all'asta; Guido Tarlati, nobile vescovo di Arezzo e
modello dei signori, lo insulta; a Roma i Colonna e gli Orsini gli
resistono; intanto Firenze conquista quasi silenziosamente Pistoia e
Valdelsa; la signoria s'alza a Parma coi Rossi, a Reggio coi
Fogliani. L'odio italiano enorme, invisibile, invincibile, circonda,
paralizza l'imperatore; tutto gli falla; non può colpire
Napoli, abbattere Bertrando del Poggetto, sottomettere la Toscana,
domare i grossi signori, affezionarsi i più piccoli; i
delittigli diventano inutili, le vittorie inconcludenti, le disfatte
ignominiose, i risultati sempre contrari alle intenzioni e queste a
rovescio dei tempi, finchè è costretto ad abbandonare
l'Italia satanicamente incomprensibile alla sua intelligenza di
tedesco.
Ma il suo abbandono accrescendo il terrore nelle città
esposte alle annessioni delle grandi signorie, rinasce con Giovanni
di Boemia, figlio di Arrigo VII di Lussemburgo, l'illusione di
salvare con altro intervento l'indipendenza delle città
destinate a soccombere. Brescia è la prima ad invocare il
nuovo podestà germanico; dietro di essa Bergamo, Novara,
Vercelli, Pavia, Cremona, Crema, Piacenza, Parma, Modena, Lucca,
tutte le città agonizzanti, tutti i tiranni sfiniti si
accalcano al seguito di lui. Bertrando del Poggetto regna ancora
sulle Romagne per mezzo di vicari, riproducendo a Bologna quella
signoria che dovrebbe negare. Ma Giovanni di Boemia, generale e
balordo come un soldato, nulla intendendo della vita italiana,
protegge i nobili contro i borghesi, gli uomini d'arme contro quelli
di commercio, irrita guelfi e repubblicani sino a spingerli sotto le
odiate signorie. E allora, avviluppato dai Visconti, dagli
Scaligeri, dagli Este, dai Gonzaga, perde tutte le città
protette; è battuto, sbertato, annullato. L'espansione delle
signorie prorompe, le annessioni si moltiplicano: Milano, Verona,
Mantova, Ferrara sorgono come tante capitali di piccoli regni.
In quello improvvisato di Bertrando del Poggetto le rivolte federali
e signorili detonano come petardi: Rimini si ribella con Malatesta
Guastafamiglia; Ravenna, Cervia e Bertinoro col fratricida Ostasio
da Polenta; Imola cogli Alidosi, Forlì cogli Ordelaffi, che
s'impossessano di Cesena. Bologna, eccitata da queste ribellioni e
tradita nelle speranze di nuova capitale del pontefice, abbindola
con Taddeo Pepoli e Brandoligi Gozzatini il terribile legato, lo
assedia nella fortezza, lo costringe a capitolare, ad esulare,
dissipando come un triste sogno il suo tentativo di regno guelfo.
La rivoluzione, trionfante secondo la parola del Villaninell'accordo
dei guelfi e dei ghibellini per abbassare il re di Boemia e il furbo
legato, ha contemporaneamente respinto imperatore e papa. Quegli per
decisione di Lodovico il Bavaro prenderà d'ora innanzi il
titolo d'imperatore prima della consacrazione, e rinunzia alle
periodiche discese in Italia, all'intervento diretto colle vecchie
teorie ghibelline; questi, capo della chiesa, è così
poco sovrano che, espulso da Roma e rifugiato ad Avignone, non
intenerisce e non impaura alcuno. Quasi straniero all'Italia, dalla
quale Gregorio VII si era alzato minaccioso sull'impero e nella
quale Alessandro III aveva sconfitto il più grande degli
imperatori, la sua ultima invasione con Bertrando del Poggetto lo ha
diminuito alle stesse proporzioni di Enrico di Fiandra e di Giovanni
di Boemia. L'avvenimento dei signori non potrà lasciargli che
una specie di presidenza decorativa delle loro forze, poichè
Marsilio da Padova, araldo del nuovo pensiero, proclama la
sovranità del popolo sul principe e la separazione della
chiesa dallo stato in nome di una più alta interpretazione
del principio cristiano. Il doppio misticismo di S. Tommaso e di
Dante dilegua: al lugubre carnevale della chiesa e dell'impero sta
per succedere la tragedia ben più vasta e profonda
dell'individuo e dello stato.
Trionfo dei signori.
Al disopra di questa tragedia spirituale la prosperità dei
signori dispiega dal 1335 al 1358 la propria decorazione. Dopo la
ritirata del re Giovanni di Boemia e di Bertrando del Poggetto le
signorie s'improvvisano come una commedia dell'arte sui teatri di
pressochè tutte le città d'Italia. A Genova
l'ispirazione di un cencioso, arrampicatosi sopra un piuolo per
arringare la moltitudine, suggerisce trionfalmente il dogado di
Simone Boccanegra che, secondo le parole della cronaca, trasferisce
l'impero dai nobili al popolo ed opprime le sètte; a Padova,
momentaneamente vassalla di Verona, il tradimento dei fratelli
Ubertino e Marsilio Carraracontro Alberto della Scala, emancipa la
città ricostituendone la signoria; Firenze eseguisce contro
il duca di Atene, soldato francese e proconsole napoletano, la
rivolta eternata dallo stile di Machiavelli; a Bologna Taddeo
Pepoli, schiacciando il proprio alleato Brandoligi Gozzadini, si
muta in signore; ad Orvieto Benedetto Buonconti, moltiplicando i
tradimenti coll'abilità di Filippo Tedici e le coltellate
colla precisione di Benvenuto Cellini, s'impossessa della
città; a Pisa morente comanda l'effimera dinastia neo-guelfa
dei Gambacorti; a Gubbio Giovanni Gabrielli domina col tradimento e
coll'aiuto di Milano; Viterbo ripete con Giovanni Vico ghibellino la
signoria di Silvestro Gatti guelfo ucciso da Lodovico il Bavaro; ad
Urbino regna Galasso da Montefeltro; su Fermo preme Gentile da
Magliano, a Jesi, a Volterra, a Pergola spuntano i Simonetti, i
Belforti, Ongaro da Sassoferrato. L'idea della signoria s'impossessa
di tutte le regioni italiane, mascherandosi con tutte le forme,
servendosi di tutte le illusioni. Qualunque ne sia il governo
democratico o aristocratico e per quanto incerta la sua durata, la
signoria trionfa come un'avventurosa combinazione
dell'imparzialità del podestà e della supremazia del
tiranno per favorire con la pace interna lo sviluppo della vita
civile. Se derivando da un tradimento e mantenendosi quasi sempre
colla perfidia, essa compie ancora molte stragi, queste esigenze
storiche non sono l'essenza della sua idea e non tolgono alla
coscienza publica di assecondare il signore, giacchè nelle
provincie tuttavia in preda all'anarchia guelfo-ghibellina, o
sottoposte alla violenta pressione partigiana del tiranno, la vita e
la civiltà sembrano ogni giorno decrescere tragicamente.
A Napoli l'imparzialità politica della signoria s'insinua tra
le orgie e i tradimenti della regina Giovanna, frivola e feroce
così da strangolare il suo primo marito, Andrea d'Ungheria,
divenuto troppo presto e troppo imprudentemente ghibellino, e da
sposare poco dopo Luigi di Taranto principe guelfo. Quindi
perseguitata con orribile processo da Carlo Durazzo, essa deve
rifugiarsi presso il papa, cui promette la proprietà di
Avignone se la proclami innocente in faccia a tutto il mondo. Il
papa acconsente. Allora richiamata dagli stessi errori del suo
avversario, che aveva attirato nel regno il brutale Luigi d'Ungheria
alla vendetta del fratello Andrea, non ha che aspettare l'assassinio
dell'uno e la partita dell'altro per passare come una santa fra le
ovazioni del popolo e regnare sull'oppressione simultanea delle due
sètte. A Palermo i due partiti si dilacerano anche con
maggiore atrocità per calmarsi quasi istantaneamente col
truce omicidio dei due massimi capi, il signore di Cimina e il
ministro Palici, preparandosi nella pacificazione interna
all'imminente signoria di Napoli. In Sardegna il gran giudice di
Oristani, dopo aver soppiantato la signoria ghibellina dei pisani
colla signoria guelfa degli aragonesi, vorrebbe disfarsi di
quest'ultimo coll'aiuto di Genova, ma costretto ad un processo di
unificazione regia contro le quattro grandi giudicature di Cagliari,
Torres, Gallura e Arborea, è invece sconfitto dalla signoria
aragonese, che emancipa tutte le città imperando sopra di
esse alla guisa di Verona e Milano.
Ovunque le signorie distruggono le repubbliche, o entrando nella
loro forma le forzano ad agire come tante signorie. Asti, la
più generosa e vivace città longobarda, si sottomette
a Milano. Alessandria, costrutta dalla lega lombarda quale monumento
di vittoria, subisce la stessa attrazione. Parma benchè
più forte e lontana non può sottrarvisi. In Toscana
Pisa e Lucca agonizzano, Siena e Firenze si dilatano e si spiano: se
la prima è forse militarmente più forte, la seconda
è incomparabilmente più abile. Perugia più
feroce arriva sino alla distruzione per assicurarsi la conquista
della piccola Bettuna. Dove invece le repubbliche tardano a morire,
lo spettacolo delle stragi inutili vi è così pazzo,
paragonato alla calma operosa delle città ridotte in
signoria, che si direbbe un supremo conato per raggiungere
l'imparzialità da queste ottenutacolla forza. Nulla uguaglia
lo slancio e lo splendore di Milano; e il Monferrato sempre
immobile, la Savoia che si espande, Verona regnante ancora su tante
città al disopra di Mantova che sembra dividerla da Ferrara
sempre in aumento, Ravenna, Rimini, Perugia, Siena, Firenze, Napoli,
Palermo, tutte paiono prese nell'orbita crescente della grossa
metropoli lombarda, diventata come il sole di un nuovo sistema
politico.
Cola di Rienzi.
A Roma, sempre città universale malgrado la doppia perdita
dei papi e degl'imperatori, la signoria si annunzia invece in un
nuovo sogno d'impero. Cola di Rienzi, povera figura plebea di
notaio, mettendosi con uno sforzo eroico della volontà nel
mezzo di tutte le tragedie provocate da quell'anarchia
dell'interregno, se ne assimila tutte le grandezze. La cornice
costituisce questa volta pressochè tutto il valore del
quadro, sul fondo cupo del quale la sua figura brilla un momento
nella luce del trionfo. Immaginoso come un trovatore, eloquente
quanto un tribuno, colto al paro dei notai di allora che spesso
erano letterati e poeti, Cola di Rienzi s'impadronisce della
fantasia popolare con una esposizione di quadri simboleggianti lo
stato della città, solleva le truppe e occupa il Campidoglio.
La sua azione è così rapida, i suoi primi decreti di
pacificazione tanto provvidi che il popolo lo acclama e i baroni lo
riveriscono. Ma l'ampiezza della scena turba la mente dell'attore.
Voci fatidiche salienti a notte dalle rovine di Roma, come echi o
profezie di un impero immortale, impongono alla sua coscienza la
fatalità del comando universale passato dagli imperatori ai
papi e da questi a tutti i ribelli morti combattendo. Il rogo di
Arnaldo da Brescia non aveva potuto bruciare la sua idea. Cola di
Rienzi, còlto dalla stessa vertigine di una risurrezione
romana, decide di riunire in fascio tutte le rivoluzioni italiche e
di metterlo in mano al papa, dominandolo coll'idea di Roma. Non
è l'unità italiana, ma una torbida visione romana che
esercita il tribuno. La terribile unità cattolica di Gregorio
VII, il primato italico di Alessandro III capo della lega lombarda,
le pretensioni dominatrici di Bonifazio VIII, sono estranee alla sua
idea. Roma sola ne è la causa, e la signoria, che trionfa in
Italia, il processo. Cola di Rienzi sarebbe così il signore
dei signori, come Roma è la città delle città.
La sua idea non acquista coscienza di se medesima misurandosi colla
realtà, ma luminosa e colorata come un sogno si presenta
colla forma fantasmagorica di un concilio italiano, al quale tutte
le città debbono mandare due deputati e un giureconsulto.
Si tratterebbe dunque di una federazione politica italiana contro
gli interventi e le dominazioni estere, ma il modo sultanico
d'intimazione usato dal tribuno di Roma indica subito che siamo
ancora nel sogno. Nullameno l'Italia risponde a quest'invito, che
implica la sua liberazione dai due poteri costituzionali del papato
e dell'impero; il concilio si affolla, e Cola vi rivendica fra un
entusiasmo frenetico l'impero immaginario di Augusto e di Gregorio.
Storia, archeologia, poesia, religione, ne sono le ragioni: echi,
imagini, ricordi, fantasmi che vorrebbero dominare la vita. Quindi
trascinato dalla logica delle parole, egli dichiara romane tutte le
rivoluzioni italiane, libera le città, naturalizza i loro
abitanti, dà la propria bandiera ai loro soldati, cita al
proprio tribunale inermi gli imperatori di Germania. Fraseologia e
decorazione lo inebriano: tribuno, solo, poggiato su Roma, si sente
più grande dell'imperatore e più universale del papa.
Ma questi con una sola parola soffia sopra il suo sogno e lo
dissipa. La chiesa scomunica il tribuno, usurpatore di Roma da essa
già quasi perduta. Allora la soggezione religiosa riprende i
popoli sbigottiti dall'anatema scoppiato sulla testa di Rienzi come
un fulmine; la sua idea fantastica svapora, la sua autorità
dilegua. Troppo timido per immolare i baroni da lui stesso
imprigionati, fugge di Roma innanzi alla insurrezione ghibellina del
paladino di Altamura per riparare, dietro l'esempio antico di
Temistocle e colla demenzavanitosa dei poeti, a Praga presso il
medesimo imperatore Carlo IV da lui citato alla sbarra; ma
imprigionato da questo gli scrive in stile apocalittico la propria
visione dell'imminente riforma universale con Roma e l'imperatore
alla testa. Deriso si umilia, da profeta discende a buffone, da
tribuno si muta in cortigiano per consigliargli una reazione tedesca
sull'Italia al modo di Enrico VII di Lussemburgo e di Giovanni di
Boemia. Allora l'imperatore lo rimanda al papa, che lo imprigiona; e
Cola bacia ancora le proprie catene, mente, calunnia, si rinnova, si
muta, compie la propria evoluzione uscendo di carcere al seguito del
cardinale Albornoz mandato a ritentare l'impresa di Bertrando del
Poggetto. Quindi nuovamente senatore di Roma si mostra più
gonfio, più declamatore, più falso, più pazzo
di prima. Il suo republicanesimo è così assurdo, la
sua volubilità così ignobile, i suoi tradimenti
così miserabili, le sue imposte così avare che una
insurrezione lo investe. Egli trema, dimentica ogni eloquenza, non
trova alcun coraggio, getta le armi, cangia più volte di
vesti, finchè ravvolto in un saio da saccomanno è
scoperto dall'odio vigile della plebe e trucidato a' piedi della
scalea capitolina, che non avrebbe mai dovuto salire.
Ma la sua demenza politica e la sua viltà morale non
bastarono ad ucciderlo nella storia. Il suo sogno di unità
italico-romana col papato e dominando il papato si riprodusse; le
sue repressioni dei baroni, i suoi trionfi, le sue peripezie, il suo
carattere rimasero nella tradizione e passarono nell'arte. Non si
potè o non si volle capire la vanità insulsa della sua
opera. Le idee politiche, che la sconvolsero e per le quali non
seppe nè agire nè morire, parvero quasi sue idee
personali; guelfi e ghibellini acclamarono la sua memoria, quelli
per la sua liberazione d'Italia concepita col papato e pel papato,
questi per il suo tentativo di mettere Roma al disopra del papa e a
capo di una nuova Italia. Quindi Cola di Rienzi, moltiplicato per la
grandezza del quadro e per l'antichità della cornice, entro
la quale aveva recitato abbastanza malamente la propria parte di
signore, parve giganteggiare fra le massime figure del tempo, tra i
Visconti e gli Scaligeri, così terribilmente trionfanti nella
storica realtà. Si è creduto lungamente che Petrarca
gli dedicasse una delle sue più belle canzoni; Wagner, il
maggior musico di questo secolo, cominciava da lui la serie dei
propri melodrammi immortali. Ma oggi una critica più acuta
disdice le dedica a lui della canzone del Petrarca, Wagner
rinnegò il proprio melodramma; e Cola di Rienzi, severamente
giudicato dalla storia, che a distanza di secoli punì della
stessa morte il suo tentativo riprodotto da Pellegrino Rossi,
vanisce nell'arte come una di quelle ambigue figure, alle quali
nè il pensiero potè dare la trasparenza luminosa dei
fari, nè l'azione il rilievo inconsumabile dei bronzi.
L'impresa fallita di Rienzi provava solo che il papato non era
ancora maturo alla signoria, e che nullameno nessuno poteva
sostituirlo in Roma.
Difatti Roma, predestinata all'opera del papato, doveva solamente
con esso esaurire tutte le forme politiche, prima di rientrare nella
futura unità italiana.
Il cardinale Albornoz.
Ma l'improvvisa ed eccessiva fortuna della signoria milanese
minacciante tutte le altre determina presto una nuova spaventevole
guerra di reazione. Primo Cola di Rienzi, perduto nel sogno di una
unità republicana, appella al papa e all'imperatore contro i
tiranni di Lombardia; poi nel 1350 Clemente VI manda il proprio
parente Durafort a ritentare col medesimo esito l'impresa di
Bertrando del Poggetto; nel 1352 Siena, Firenze e Perugia si alleano
contro i Visconti; nell'anno successivo Mantova, Verona, Ferrara,
Padova, Venezia pattuiscono una lega, che invoca l'imperatore Carlo
IV. Questi discende in Italia, e tre anni dopo si congiunge con
Albornoz, vittorioso dei signori romani, per distruggerela signoria
milanese. Il combattimento dura ventisette anni come quello di
Barbarossa, ma riesce alla vittoria di Milano e di tutte le altre
signorie, trionfanti del proprio errore reazionario per la forza
stessa dell'idea che combattono.
In questa lunga crisi l'eroismo politico dei Visconti sfolgora
attraverso tutta la varietà dei loro caratteri individuali
nelle più cupe tragedie, superando tutti gli eventi.
Poichè Luchino soccombe troppo presto avvelenato dalla
moglie, l'arcivescovo Giovanni più forte dell'antico Eriberto
resiste al papa minacciando: allorchè Carlo IV giunge a
Milano per ripetervi forse la tremenda condanna di Lodovico il
Bavaro, che gettava Galeazzo nei forni di Monza, i tre fratelli
Matteo, Galeazzo e Bernabò gli oppongono finzione a finzione,
e lasciandolo fuori della mura lo assediano di visite, lo
stordiscono di feste. Quindi fronteggiando in battaglia tutti gli
avversari, mescolano tradimenti e vittorie, intrighi e sconfitte. La
passione rivoluzionaria e l'idea politica del tempo li sostengono.
Matteo II, il più vano dei tre fratelli, è ucciso
dagli altri; Bernabò, il più forte di tutti,
rivaleggia con Ezzelino da Romano, sopprime ogni sètta,
largheggia col popolo, innamora la plebe, riordina
l'amministrazione, fa inghiottire sul Lambro ai messi del papa le
loro lettere, feroce, tiranno, imparziale, temerario sino ad
avventurarsi ovunque senza guardie, collerico come un leone,
innamorato della propria moglie come l'ultimo dei borghesi. I
republicani lo maledicono, i guelfi lo detestano, la chiesa lo
condanna, ma il popolo lo adora e le cronache lo esaltano come il
capo della rivoluzione, che organizza la vittoria sui campi di
battaglia e stabilisce una legislazione duratura per la
felicità dei lombardi.
La guerra agevola la rivoluzione.
Ai primi baleni della reazione Bologna e Genova si arrendono ai
Visconti; Pavia svillaneggiata dalla mistica demenza di frate
Bussolari, tardo imitatore di Giovanni da Vicenza, è
ridestata alla vita dalla sola presenza di Galeazzo; Bergamo entra
nell'orbita di Milano; Reggio affidata dal signore di Mantova a
Feltrino è da questo venduta a Bernabò; il Conte Verde
di Savoia, abile guerriero e politico feroce, perde ogni impresa
contro i Visconti, e vince tutte quelle che stabiliscono all'interno
la sua signoria.
Molte signorie, già al declino e destinate presto a sparire,
resistono nullameno a questa reazione che mette in pericolo il
principio della rivoluzione; Mantova, Ferrara, Padova, Verona, il
Monferrato, la Savoia rimangono immobili, quanto Milano sulle
proprie basi; solamente, come a pena dei propri errori, si veggono
compromesso il governo da un ultimo infuriare delle sètte.
Così a Firenze i Ricci e gli Albizzi rinnovano la contesa
degli Uberti e dei Buondelmonti, e all'arrivo dell'imperatore Carlo
IV Pistoia, Arezzo, Volterra, San Miniato s'aggrappano alla sua
porpora per sfuggire alle mani della republica; la quale, dopo una
nuova rivoluzione nel campo imperiale e una nuova guerra contro il
papa, rovescia finalmente nel 1378, ultimo anno della reazione, i
popolani coi plebei avviandosi mutamente verso la signoria dei
Medici.
Siena, più crudele, massacra i propri Nove all'arrivo
dell'imperatore per ripetere alla sua partenza una eguale sommossa
contro il governo da lui ordinato, straziandosi per tutta una serie
di carneficine imbrogliata da un'aritmetica politica che varia
sempre il numero nei membri del governo. Finalmente esasperata dal
ritorno dell'imperatore, lo assedia nel proprio palazzo, lo condanna
alla fame, lo annienta nel ridicolo, lo scaccia, e seguita a
dibattersi nelle convulsioni della propria republica destinata a
perire sotto la signoria di Firenze. Indarno l'imperatore decapita
pazzamente a Pisa il signore Gambacorti, giacchè Agnello dei
Raspanti lo sostituisce per morire in una identica tragedia e cedere
indi a poco il dominio ai Gambacorti riconfermati. La reazione
imperiale si consuma in tentativi inutili, che non distruggono
nessuna signoria e non salvano l'indipendenza a nessuna
città: onde Firenze riacquista presto i propri dominii, e
Genova sempresotto la dipendenza dei Visconti prosegue la guerra
contro Venezia.
Solamente il cardinale Albornoz, combattente nel nome del papa,
passa di vittoria in vittoria contro i signori romani. Le sue
improvvisazioni infallibili di politico e di guerriero riparano
prontamente l'insuccesso di Durafort e rovesciano tutte le giovani
dinastie, i Vico di Viterbo, i Trinci di Foligno, i Gabrielli di
Gubbio, i Gentile di Fermo; tentano i Varano di Camerino; penetrano
tutte le città di Romagna raddoppiando le vittorie della
guerra cogli intrighi della diplomazia. Ma il suo spirito è
troppo grande per un'opera così falsa. Quindi l'ingratitudine
del pontefice, che gli chiede i conti e al quale egli risponde
mostrando con epico gesto un carro carico delle chiavi delle
città prese, lo obbliga a ritirarsi dalla scena. Allora una
nuova evoluzione di Firenze contro il papa trascina alla rivolta
ottanta fra città e fortezze, cancellando in dieci giorni
l'opera di ventidue anni.
Il cardinale Roberto di Savoia, sostituito all'Albornoz per
ristabilire la sua conquista, non è più che un pazzo
sanguinario, febbricitante nel furore di una reazione impotente. Il
suo interdetto sui fiorentini, i pisani e i genovesi, nel quale
permette a tutti di derubarli e di farli schiavi; la minaccia contro
Bologna di lavarsi i piedi e le mani nel sangue dei cittadini;
l'incredibile strage di Cesena, nella quale quattromila persone
vengono sgozzate e i bambini lattanti sbatacchiati pei muri, mentre
egli seguita ad urlare: voglio sangue, voglio sangue! determinano
alla morte di Gregorio XI, nella questione se il papa debba
risiedere a Roma o ad Avignone, la esplosione del grande scisma. Lo
slancio dei Visconti nel riadergere quanto l'impeto di Albornoz
aveva abbattuto, il nuovo entusiasmo d'Italia per un'altra guerra
civile e politica contro la cieca democrazia cattolica del medio
evo, e la stessa tirannia reazionaria dei papi d'Avignone strappano
al conclave, quasi interamente francese, l'elezione di Urbano VI
ghibellino, mentre il popolo grida: romano lo vogliamo o almeno
italiano! E quando il conclave, riparando timidamente a Fondi,
rinnova con criteri assassini l'elezione per proclamare papa guelfo
lo stesso cardinale Roberto di Savoia, stupidamente sanguinario ed
insanguinato, nel tuono degli anatemi barattati tra i due papi
s'intende la voce trionfale della rivoluzione che gitta a tutta
l'Europa l'appello della ragione contro una fede diventata
insufficiente al pensiero e in contraddizione colla storia.
L'unità ideale italiana.
Ma la tradizione regia di Verona iniziata da Berengario, seguita fra
le stragi da Ezzelino, accarezzata nel trasporto di un sogno
glorioso dai primi Scaligeri, turba la cronaca milanese. Le vittorie
viscontee danno alla grossa metropoli lombarda le vertigini del
regno. Così quando Giovanni Galeazzo, il più
ammirabile ipocrita del secolo, getta improvvisamente il proprio
terribile zio nel castello di Trezzo, e la signoria milanese
dilagando colla foga di un torrente s'impadronisce nel 1387 di
Verona e Vicenza, nel 1388 di Padova, nel 1399 di Pisa, poi di
Perugia, di Lucca, di Assisi, di Novara, di Spoleto, di Bologna,
portando il proprio signore al titolo di duca, sembra davvero che
tutte le rivoluzioni anteriori abbiano mirato a questa sua sovrana
indipendenza per arrivare con essa all'unità politica
nazionale d'Italia. I cronisti Fiamma e Mussi, scrivendo l'apologia
di Milano, formulano1 nell'ingenuità vantatrice del proprio
entusiasmo municipale le pretese regie della nuova capitale con una
arditezza che non arretra nemmeno dinanzi al papa.
Ma l'unità politica è impossibile nella storia
italiana predestinata a svolgersi federalmente nell'interesse della
storia europea. La conquista milanese produrrebbe l'oppressione di
tutti gli stati, distruggendo col terribile livello del proprio
dispotismo tutte le fisonomie del pensiero italico. Mantova, Genova,
Ferrara, Firenze, Venezia, Roma, Napoli, Palermo scomparirebbero
dalla storia per discendere a grado di città subalterne e
perdere in una sterilità senza compensi la fecondità
del loro genio incaricato di elaborare i materiali e le idee della
nuova civiltà europea. D'altronde le varie coscienze
regionali non dominate ancora da una più alta coscienza
nazionale, giacchè cittadino e stato italiano non esistono
ancora, contrasterebbero alla dominazione unitaria milanese
così ferocemente da ricondurre fra l'antica barbarie del
regno longobardo gli ultimi orrori della guerra guelfo-ghibellina.
Prima di raggiungere l'unità politica, l'Italia deve esaurire
tutta la varietà dei propri caratteri servendosi dei confini
interni come di tante egide, delle guerre incessanti come di un
tonico, della religione come di una poesia e dell'empietà
come di una indipendenza; esperimentando il regno nelle due Sicilie,
la teocrazia a Roma, la oligarchia a Venezia, tutte le basse forme
monarchiche nelle signorie, tutti i modi democratici nelle
republiche. La sua arte, la sua scienza, la sua filosofia, il suo
commercio, la sua industria, i suoi capolavori moltiplicati in tutte
le opere, la sua sapienza che utilizza tutti i disastri, la sua
virtù che resiste a tutte le colpe, i suoi vizi che si parano
di tutte le bellezze, il suo primato in Europa, dipendono dalla sua
mancanza di unità. Ognuno de' suoi piccoli stati può
ottenervi così l'importanza e influenza di una nazione.
L'Italia, necessaria ancora per molti secoli come campo di battaglia
all'Europa, riducendosi per opera dei Visconti troppo presto ad
unità nazionale, imporrebbe alla storia europea tutt'altro
sviluppo.
Quindi la guerra ai Visconti, minaccianti di assorbimento regio le
signorie, diviene una necessità italiana, nella quale
Firenze, più nobile e fine di Atene, rappresenta col proprio
contrasto a Milano, la grande tradizione federale, che dava
già ad ogni borgo una così originale bellezza e a
tutte le rivoluzioni anteriori la gloria di una inimitabile
invincibilità. Nel proprio federalismo equanime Firenze
è quasi italiana, giacchè i suoi cronisti, a rovescio
dei milanesi chiusi nell'orbita della propria città come in
un cerchio incantato, si occupano di ogni vicenda in ogni parte
d'Italia e anche fuori. La sua azione politica limitata alla Toscana
vi propaga irresistibilmente la propria influenza; la sua mente
libera da ogni vapore di sogno precisa e sminuzza cose e idee;
l'egoismo restringendola l'acumina; il regionalismo isolandola la
perfeziona. Milano, troppo vasta per una signoria e troppo piccola
per un regno, soccomberà; Firenze, mutata in ducato,
arriverà sino alla grande rivoluzione nazionale, allora che
Cavour, slargando l'ingegno politico del suo Guicciardini, e
Mazzini, aggiungendo l'eroismo del carattere al patriottismo
rettorico del suo Machiavelli, riuniranno l'indipendenza della
nazione alla libertà dei municipii.
Petrarca e Boccaccio.
Se il suo Dante ha creato col maggior poema del mondo la lingua
nazionale, Petrarca, librato nell'estasi della bellezza al disopra
delle passioni che hanno tratto all'Inferno il grande ghibellino,
mette nella parola una tale dolcezza, insinua nel verso una melodia
così accarezzante, confonde siffattamente nel proprio
entusiasmo l'erudizione romana e l'ignoranza politica del proprio
tempo ancora tanto pieno di eccidi, che il mondo oramai pacificato
nella signoria s'innamora di lui sino all'adorazione. Popoli, papi,
imperatori, signori e republiche, tutti s'inchinano alla bellezza
plastica di questo genio, che vede tutto attraverso gli splendori di
una visione, nobilita tutto nello stile, unifica tutto colla parola.
Se Dante è fiorentino, Petrarca è già
più italiano che toscano; se la Beatrice di quello è
meno che donna, la Laura di questo è al tempo stesso una
Venere e una madonna dalla bellezza voluttuosa a forza di essere
soave. Il dramma della signoria non turba il Petrarca. Egualmente
amico dei vincitori e dei vinti, egli prodiga a tutti lettere e
versi; sonnambulo nella lotta che gli ferve d'intorno, sembra non
scorgervi che larve e concetti di storia antica avviantisi verso una
misteriosa storia moderna. Le sue canzoni trasfigurano gli eroi, cui
sono indirizzate; le sue evocazioni politiche, possenti e
malinconiche, passano attraverso un crepuscolo colla grandezza e
l'immunità di una profezia. Solo contro il papato di Avignone
il suo classico sdegno diventa ira e le parole gli scoppiano dalle
labbra stridendo come nelle terzine di Dante, quando fra i lembi di
una rotta visione gli si para dinanzi il cadavere della chiesa
corroso da tutte le cancrene. E allora la rivoluzione trionfante
anche del suo genio contemplativo e del suo temperamento sensuale e
serafico compie l'ultima vittoria, strappando al più
immateriale dei poeti la più concreta delle invettive.
Ma se il Petrarca sembra obliare il medio evo e il proprio tempo per
discendere nell'antichità come Dante nell'inferno, o per
salire in un cielo ancora terrestre di colori e di profumi, il
Boccaccio dimentica egualmente tutto nella gioia della nuova vita.
Le sue novelle inconsapevolmente nazionali ospitano fiorentini,
genovesi, veneziani, napoletani, palermitani: deridono tutti i
partiti, sbertano tutte le passioni. Infallibili di verità,
salgono coll'ironia fino alla sapienza più antica e serena
della vita, trattando collo stesso sorriso prelati e mercanti, frati
e re, Dio e il diavolo, l'amore e la politica, la scienza e la
religione, la fede e la lussuria, l'usura e l'eroismo, la
virtù e il vizio. Il loro scetticismo è quello
medesimo del popolo, che accetta la signoria per liberarsi in una
sola volta di tutto il passato; la loro originalità contiene
tutta una flora artistica, che Dante non avrebbe sospettato e che il
Petrarca scandolezzato non intende. Ma il Boccaccio prosegue
più libero e moderno di entrambi, sorridendo delle passioni
che avevano ucciso il primo, ghignando sulle bellezze ancora troppo
vaporose che innamorano il secondo, opponendo al terrore della peste
l'eroismo di un'allegria che esprime finalmente l'emancipazione
dello spirito umano da tutte le superstizioni religiose e le
barbarie storiche. Se Dante ritto sul proprio immenso poema domina
colla fronte livida e luminosa tutto il medio evo, Petrarca e
Boccaccio si presentano sulla soglia dell'evo moderno, l'uno col
sorriso della bellezza che dovrà inspirare Raffaello, l'altro
col riso della vita che animerà l'Ariosto.
Capitolo Quarto.
Venezia nella storia italiana
Ancorata nelle lagune, come un'immensa nave, Venezia sembra nella
propria storia piuttosto assistere che partecipare a quella
d'Italia.
Il patto della chiesa e dell'impero, chiudendo in una infrangibile
parentesi la vita italiana, non vincola la sua; le agitazioni
rivoluzionarie e gl'interventi stranieri, come condizioni
inevitabili dello sviluppo italico, non mutano l'indole del suo
governo. Le rivoluzioni dei consoli, dei podestà, dei
capitani del popolo, la guerra ai castelli, la guerra municipale, la
guerra civile, si acquetano nelle sue lagune producendovi appena
qualche ondulazione.
Da lungo tempo Venezia, quasi ignorata sul continente, è
celebre e poderosa in Oriente. Le sue navi entrano in tutti i porti,
il suo commercio sfrutta tutte le terre, le sue ricchezze superano
quelle riunite di tutta l'Europa, i suoi patrizi sono più
splendidi dei re, i loro palazzi somigliano piuttosto a reggie che a
fortezze: il suo popolo che arricchisce nei traffici, la sua plebe
che si espande sui mari, paiono non occuparsi del reggimento interno
affidato ad una aristocrazia muta e solenne, duttile ed
inflessibile. Fino dal 1040, dopo una sommossa, questa statuisce che
nessun doge potrà più nè indicare il proprio
successore, nè darsi un collega fondando così una
dinastia civica. La democrazia elettiva dei conti entra dunque nel
dogado senza che il popolo si scateni o il patriarca s'imponga.
Amalfi, Gaeta, Sorrento, Bari, incapaci di sollevare tant'alto il
proprio doge, lo lasciavano invece cadere, e cadevano con lui sotto
i Normanni.
Ma il doge veneto, rappresentante in certo modo il potere astratto
di Venezia, come il papa e l'imperatore rappresentavano la chiesa e
l'impero per tutta Italia, è sottoposto all'autorità
di sei consoli o consiglieri eletti dai sei quartieri di Venezia, e
deve conferire sopra ogni affare di stato coi pregadi o senatori.
Questi vengono scelti annualmente dal gran consiglio, nominato a
ogni anno da due elettori per quartiere, i quali si riuniscono per
designare nella massa indistinta dei cittadini quattrocento settanta
deputati. L'imitazione del moto consolare italiano è
evidente, ma con un processo formale invece che con una rivoluzione.
Quindi Venezia stende dinanzi alla propria chiesa di San Marco,
indefinibile tempio, nel quale Oriente ed Occidente sembrano
accordare le proprie religioni in una confusione architettonica
sostituente la fantasia all'unità e la bellezza del
particolare alla logica dell'insieme, la propria piazza come
un'immensa sala di ricevimento per i re e per i papi, che verranno a
sollecitare la buona grazia della republica. La sua
prosperità si moltiplica; le sue costruzioni di marmo
sembrerebbero fantasmagorie orientali se il genio italiano non desse
loro la propria euritmia; il suo arsenale è il primo del
mondo; le sue navi corrono tutti i mari. Nessun progresso le rimane
sconosciuto.
All'epoca dei podestà, comprendendo subito il valore di
questa suprema magistratura innalzante il diritto della città
al disopra di quello delle parti, crea gli avogadori col potere
dispotico e giudiziario di sospendere per un mese e un giorno ogni
funzionario, di vietare per incapacità legali o accuse
criminali le funzioni ai magistrati, di giudicare sommariamente come
un vero collegio di podestà tutti gli affari di polizia. Nel
1202 viene nominato l'altro dei corregidori, despoti supremi del
doge, cui giudicano dopo morte, e specie di consulta per i
miglioramenti possibili nella costituzione dello stato; nel 1220 si
crea la quarantia, vera riforma dei tribunali compiuta dal doge
Tiepolo correggendo le leggi. Alla rivolta guelfo-ghibellina contro
il podestà, Venezia ha i Tiepolo, capi delle antiche
famiglie, e i Dandolo chiedenti al gran consiglio l'ammissione delle
nuove; ma immobili entrambi entro la sua costituzione secolare
difesa dall'anormalità della sua vita quasi senza contatto
con quella di terra. Quindi tutta la discordia si condensa nella
contesa elettorale degl'impieghi. Nel 1268 l'elezione del doge passa
per una intricata serie di ballottaggi, attraverso la quale tutti
possono contendersi il dogato. Dapprima trenta elettori, nominati
dal gran consiglio e diminuiti dalla sorte a nove, designano
quaranta nuovi elettori: questi ridotti da un secondo sorteggio a
dodici ne nominano altri quaranta, che ristretti da capo a nove ne
eleggono quarantuno, i quali, presentati finalmente al gran
consiglio, approvati dall'assemblea, isolati in un conclave scelgono
il doge.
Questo capolavoro di diffidenza, invece di abbandonare l'elezione al
caso, la riserba agli uomini più abili nella conoscenza delle
persone, più influenti nelle famiglie, più iniziati ai
raggiri, più pratici delle tradizioni aristocratiche. Infatti
la prima elezione, proclamando Tiepolo, capo delle vecchie famiglie,
prova la bontà del nuovo congegno elettorale. Ma
poichè i capi delle recenti grandi famiglie erano spesso
chiamati a Treviso, a Padova, a Ferrara col titolo di
podestà, per timore che essi acquistino pericolose influenze,
e trasportino la demagogia imperiale o papista nella republica,
s'inibisce ad ogni veneziano di accettare funzioni all'estero,
proibendo persino ai dogi di sposare o far sposare ai propri figli
donne straniere. Nullameno, i Tiepolo essendo troppo amati dalla
moltitudine ed accennando a diventare neo-ghibellini come i bianchi
di Toscana, l'aristocrazia proclama poco dopo i Dandolo, e nel 1319
fa passare le decisione solenne che il gran consiglio non
sarà più rinnovato e la republica apparterrà
alle seicento famiglie regnanti. Ecco i tiranni, l'oligarchia
è fondata, la democrazia esclusa per sempre. Venezia
republicana, immobile nella marea che sposta tutti i partiti e le
città d'Italia, combatterà fuori di se stessa ogni
istituzione republicana, condensandosi sempre più nella
signoria.
Ma una oligarchia di seicento famiglie e un consiglio di tiranni
presieduto da un doge, che è appena una larva di magistrato,
non potrebbero mantenere nella politica quell'unità
d'indirizzo necessario alla sua immobilità costituzionale.
Laonde il consiglio dei dieci, nominato provvisoriamente per
scoprire i complici occulti di Baiamonte Tiepolo insorto a capo
della democrazia esclusa dal consiglio, accorgendosi che il pericolo
democratico è permanente, eternizza la propria funzione
portandola più alto del senato, del gran consiglio, degli
avogadori, dei corregidori, del doge stesso, di tutti. Il consiglio
dei dieci, vero signore di Venezia come i Visconti di Milano e gli
Scaligeri di Verona, tradisce tutte le fazioni, umilia tutte le
personalità, sorveglia tutti i magistrati, matura ed
eseguisce tutte le idee. La sua autorità è ancora
più misteriosa che tirannica, la sua giustizia oltrepassa il
delitto per giungere all'assoluto colla preterizione di ogni
legalità.
Allora Venezia, sicura sotto questo potere impersonale che porta la
passione del comando nel disinteresse dell'autorità, si
svolge superba e magnifica, aggiungendo risultati a risultati,
assorbendo tutti i progressi e rimanendo nullameno stazionaria.
Infallibile nella politica quanto angusta nel pensiero, lascia il
popolo sempre estraneo al governo e mantiene una costituzione
inaccessibile alle nuove idee, elabora una giustizia sempre al di
fuori della coscienza, domina con una civiltà egualmente
violata dalle premesse della sua costituzione e dalle inevitabili
bassezze del suo carattere. Quindi con alleanze, colonie, impero e
tesoro incomparabile è meno conquistatrice di Milano, meno
forte di Genova che la batte, meno colta di Firenze che la supera.
La sua libertà della maschera a tutti i cittadini non
compensa l'ipocrita fisonomia, alla quale costringe i loro volti
sempre preoccupati di nascondere ogni emozione. Così,
bizantina d'origine, di pensiero, di carattere, espia colla
incapacità del proprio medesimo progresso la fortuna di
essersi sottratta ai dolori delle prime rivoluzioni italiche. Il suo
governo, nè monarchico, nè repubblicano, opprime colla
stessa inquisizione popolo e doge, costringe Marin Faliero alla
rivolta e lo decapita, rende obbligatorio il dogato e prigioniero il
doge, rivedendogli2 persino le liste dei fornitori, ritenendogli
parte dello stipendio per i suoi debiti possibili, proibendogli ogni
idea o risposta politica, vietandogli di ricevere qualunque dono o
di riscuotere qualunque somma oltre i confini del dogado, fosse pure
un rimborso come quello del re di Portogallo a Carlo Zeno. Malgrado
ogni resistenza irreligiosa a Roma, l'ateismo di Venezia non
è una emancipazione del suo pensiero politico, ma una altera
riottosità del suo governo geloso contro tutti, anche contro
Dio, delle proprie prerogative. Al culmine della fortuna, quando la
sua storia dilatandosi entra finalmente in quella italiana, al
momento della grande contesa fra Firenze e Milano, la sua idea non
può quindi fondervisi interamente, nè la sua opera
acquistarvi l'importanza delle altre due metropoli.
Capitolo Quinto.
La rivoluzione militare
Incapacità militare dell'Italia.
Nella rivoluzione della signoria ne covava un'altra, inavvertita
prima, poi maggiore di essa.
Nessun comune o republica o signoria in Italia aveva mai avuto vero
organamento militare. La nazione divisa in due grandi classi,
nobiltà e popolo, mancava di soldati; la feudalità,
composta di famiglie relativamente scarse rispetto alla massa della
nazione e dedite all'uso dell'armi, raccoglieva in bande i propri
vassalli, dominando a stento la loro ripugnanza al pericolo col
timore di una morte anche più certa; la borghesia, insorgendo
contro i castelli, si era improvvisamente armata, aveva combattuto,
aveva vinto, e nullameno all'indomani di ogni vittoria o disfatta
ambo i partiti si trovavano senz'armi, senza munizioni, senza
soldati, senza capitani. La società dibattentesi nella
conquista di forme politiche, che doveva nascondere con abili
falsificazioni all'occhio vigile del papato o dell'impero, non
avrebbe potuto organizzare una milizia, senza dichiararsi prima
indipendente in un nuovo sentimento di patria e stabilire un sistema
di finanze e di gerarchia, incompatibile collo spirito del tempo.
Quindi la milizia, costituita nella feudalità con bande di
vassalli guidate dal signore, si componeva nella città con
arruolamenti improvvisati nelle corporazioni, e il seguimento, come
dicevasi allora, non era in ambo i campi che una specie di
volontariato più o meno libero e ripugnante, nel quale il
soldato non sognava che i propri campi o le proprie botteghe.
Qualunque fosse dunque la sua passione di parte, nè il
concetto di patria, nè l'idea del dovere, nè quella
tragica necessità che accetta di dare e di ricevere la morte
per ubbidire agli ordini di una virtù superiore, dirigevano
mai la sua coscienza troppo spesso sedotta dalle ferocie delle
vendette o dalle cupidigie dei saccheggi. Di qui la poca
mortalità delle battaglie medioevali e le incredibili
carneficine di certe vittorie. Il console, il capitano, il signore
erano l'anima, la gloria, la durata dell'esercito. Il loro spirito
lo attraeva, la loro bravura lo manteneva, la loro morte lo
dissolveva quasi sempre: ogni generale doveva essere tutto per la
propria soldatesca, armarla e nutrirla, occuparsi di ciascuno e di
tutti, farsi adorare e temere per essere seguìto nella
battaglia e non abbandonato nella sconfitta.
I masnadieri.
Quindi in una milizia formata e riformata di bande, atea e
superstiziosa, più feroce che intrepida, più rapace
che disciplinata, al servizio piuttosto di una parte che della
patria, non frenata dalla disciplina di un vero governo, nomade,
avventizia, sognante le baldorie della pace per scialacquare le
poche ricchezze rubate nella guerra, indifferente alle idee dei
propri capi dei quali non poteva mai nè comprendere la
politica nè partecipare ai trionfi, era naturale si
formassero delle bande pronte a convertire quell'esercizio in
mestiere, profittando dell'incessante bisogno di soldati e della
poca passione alla milizia nelle moltitudini cittadine e campagnole.
Da principio queste bande non saranno state che avanzi di eserciti
disciolti, specialmente stranieri, chiamati in Italia dalle guerre
regie o imperiali: e che abituati a vivere di guerra e nella guerra,
trovandosi fra popolazioni stanche e poco armate, avranno fatalmente
sognato di vivervi taglieggiando e assassinando, al servizio di
qualche feudatario o di qualche comune. Le critiche del Machiavelli
alle compagnie di ventura, e la mancanza di eserciti nazionali da
lui spiegata coll'influenza ascetica del cristianesimo; le sue
accuse all'antico impero romano di assoldare truppe estere, e ai
signori italiani di copiare questa corruzione dei cesari per meglio
corrompere e soggiogare i cittadini, non sono che puerilità
rettoriche. L'Italia non aveva e non poteva allora avere eserciti
nazionali perchè priva dell'idea di stato e di
quell'organizzazione governativa, che dall'unità politica
deriva i mezzi costanti della difesa. Se il combattente è
possibile in tutti i luoghi e in tutti i tempi, il milite è
un carattere storico, che presuppone un ambiente e una serie di
fatti politici senza i quali diviene assolutamente impossibile
immaginarlo.
Certo i signori disarmarono l'Italia per meglio regnarvi, ma questa
loro politica fu una necessità del secolo nel quale i soldati
non erano che partigiani e il progresso esigeva l'annullamento di
tutti i partiti nella unità fecondatrice delle signorie.
Industria e commercio, agricoltura e manifattura, arti e scienze non
potevano avanzare che a questa condizione. D'altronde la massa del
popolo aveva sempre odiato la milizia come conseguenza e
incarnazione della conquista regia. Tutte le rivoluzioni dei
vescovi, dei consoli, dei podestà, dei capitani del popolo,
dei tiranni racchiudevano quest'odio, giacchè ogni loro
movente veniva da una idea di emancipazione economica o politica, e
l'ostacolo più forte ad ottenerla era appunto la soldatesca.
I cittadini, per una delle solite antitesi della storia, si erano
mutati in soldati per odio alla milizia. Quindi al trionfo della
signoria, che rendeva inutile questo contradditorio sacrificio, il
popolo rispose con gridi di una gioia, della quale si trovano ancora
le parole nei cronisti. Una delle migliori leggi dei Visconti,
secondo Azario cronista milanese, fu che il popolo non andrebbe
più alla guerra; il Villani fiorentino è della stessa
opinione, tasse sull'argento, sul sale, sulle campagne, liberarono
dall'obbligo del servizio militare, formando il primo bilancio della
guerra, la quale d'ora innanzi doveva esser fatta dai mercenari.
Infatti la sostituzione degli avventurieri ai cittadini facilitava
la vittoria alle signorie più ricche contro le vicine
republiche più esili e povere. Dal momento che il moto delle
signorie, sommergendo le vecchie parti, imponeva a tutti il bisogno
di una pace più equa di quella dei podestà e
più sicura di quella dei tiranni, le signorie capaci di
assoldare molte soldatesche dovevano fatalmente trionfare di quei
liberi comuni inetti a trasformarsi secondo la nuova idea politica.
Torme di mendicanti armati, lontani discendenti dei gladiatori,
percorrevano dunque tutte le vie d'Italia e ne conquistavano le
città dietro gli ordini di un invisibile signore troppo
superbo per degnarsi nemmeno di assistere alle loro vittorie. Una
perfida e sapiente finanza calcolava quindi nel segreto dei
gabinetti quante barbute o fiorini costasse una città: la
vittoria non era più che un conto aritmetico, e il vero campo
di battaglia un banco. Tutto vi era valutato e pesato coll'oro; il
popolo accettava questa nuova originale forma di guerra come la
più economica e rapida liquidazione medioevale: inutile
parlare di virtù, di diritti, di patriottismi. Poichè
le unificazioni regionali delle signorie dovevano trionfare del
vecchio atomismo comunale, il modo del loro trionfo predeterminato
dalla storia diventava superiore a tutte le recriminazioni della
morale. Ma in questo commercio militare il disordine apparente
è tale che spesso toglie all'occhio dello storico di seguire
con precisione il corso delle idee e il contorno dei fatti. La
soldatesca, passando da signore a signore, da mercante a mercante,
moltiplica rotte e vittorie, arresta a mezzo ogni impresa,
scompagina tutti i disegni, sembra confondere tutti i risultati. Le
signorie basate sovra di essa oscillano e a certi momenti paiono
presso a sommergersi, ma questo tumulto militare non potendo rompere
la propria cornice storica, ogni signoria conquista finalmente tutto
il raggio della propria naturale espansione.
Fino dall'epoca dei tiranni, bande di mercenari servivano nella
guerra senza vera organizzazione: residui di eserciti e avanzi di
forca erano assoldati e congedati senza troppo pericolo. Ma nel
dilatarsi delle tirannie il numero delle masnade crebbe colla
necessità politica nei governi di avere una forza armata per
disarmare le parti; e tutti questi masnadieri sentirono il bisogno
di organizzarsi per facilitare i propri contratti e sottrarsi ai
pericoli della pace, che li abbandonava affamati e sbandati in mezzo
a popolazioni ostili. Senonchè, diversi di razza, attratti da
tutte le contrade d'Europa all'incendio sempre vivo delle guerre
italiane, selvaggi e corrotti, non potevano avere altra
organizzazione che la personalità di un capo, il quale li
reggesse coll'arbitrio e li nutrisse colla vittoria. I Tolomei di
Siena, Marco e Lodrisio Visconti furono i loro primi duci; ma troppo
partigiani per tale ufficio vi perirono o condussero a perdizione le
compagnie. A Guarnieri duca d'Urslingen era riservata la gloria
sinistra di organizzare le compagnie di ventura nel 1342.
L'iscrizione «nemico di Dio, d'ogni pietà e d'ogni
misericordia» che egli portava con satanico orgoglio sul
petto, minacciava tutta l'Italia inerme e nullameno ancora
abbastanza forte per mutare questo nuovo torrente di armati in un
canale irrigatore della propria politica.
Infatti il duca Guarnieri, scannando, incendiando, devastando,
serviva sempre la politica del tempo, abbatteva colla propria
città nomade tutti i vecchi ripari guelfo-ghibellini,
sollecitava colla propria spada insanguinata i comuni retrivi,
assoldato segretamente o palesemente dai più grossi signori,
ma sempre estraneo ai risultati di tutte le lotte. Dietro lui
spuntano gli imitatori. Frate Moriale perfeziona l'organamento del
campo fino a sorpassarvi l'ordine delle migliori città;
quindi mistico e feroce, mercanteggiando con scrupolosa
onestà ogni più ribaldo ladrocinio, cade in un agguato
tesogli da Cola di Rienzi e vi perde la vita. Annichino Bongarten,
Alberto Sterz prendono il suo posto per sparire nell'ombra
spaventevole di Giovanni Hawkwood, detto Acuto, che alla testa di
masnade inglesi supera tutti nella prontezza delle mosse e nella
crudeltà delle devastazioni. Questo bandito di genio non solo
vince i migliori capitani del tempo durante tutto il periodo delle
reazioni imperiali ed aragonesi, ma finisce genero di Bernabò
Visconti, al servizio della chiesa, arricchito ed ammirato dalla
republica di Firenze, che gli erge un monumento,
I condottieri.
Ma il masnadiero mercantilmente imparziale, che si vende a tutte le
ragioni di guerra in un paese incapace di comporsi eserciti
nazionali, deve naturalmente destare la concorrenza dei masnadieri
indigeni. Infatti una forte reazione determinata dagli orribili
eccessi di queste bande, che nessun danaro pagava mai abbastanza e
nessun capitano poteva frenare, prorompe da tutte le contrade
d'Italia. Urbano V e Caterina da Siena eccitano Alberico da Barbiano
contro gli inglesi e gli altri mercenari devastatori: questi li
distrugge e diventa così il primo condottiero d'Italia.
Quindi con istinto di gran capitano muta la tattica, raddoppia la
disciplina e l'ascendente nel proprio esercito: invece di esserne il
capo, ne è il padrone; arruola, compra soldati, li annulla
nella propria compagnia, li possiede come tanti alberi di un podere,
che può vendere ad altri o lasciare in eredità al
proprio figlio. Le prime bande nominavano i capi dominandoli come i
comuni facevano coi podestà; il nuovo condottiero applica la
signoria all'esercito e vi diventa signore.
A questo punto si dichiara la guerra tra la signoria mobile del
campo e la signoria ferma della città: questa, costretta a
servirsi di quella per vivere, sente che può soccombere
nell'alleanza e destarsi un mattino avendo cangiato di signore;
quella, costretta a vivere di battaglie e a conquistare
città, cerca istintivamente una cornice dove fissarsi. Il
signore temerà spesso le vittorie del condottiero, il
condottiero i tradimenti del signore, ed entrambi periranno entro
l'orbita delle signorie spingendole colla propria lotta alla
necessità dei principati. Si direbbe che l'ondulazione di
tutti i campi armati si allarghi sempre più per annegare
signorie e republiche. Dovunque sorgono condottieri ferrati,
impennacchiati come tanti cavalieri di una decorazione fantastica,
cinti d'eserciti rumoreggianti. La loro vita di guerra impone la
prova della guerra a tutti i governi; le conseguenze della guerra
gettano nella miseria tutti i paesi. Il denaro diventa sola
ricchezza e unica forza. I signori disarmati non possono fare a meno
dei condottieri, che alla lor volta debbono essere capi politici per
orientarsi in questo tumulto di battaglie governato dalle
necessità della finanza entro la cerchia naturale delle
signorie e illuminato dai fuochi fatui delle vecchie libertà.
Milano, la più ricca delle signorie, stipendia i più
illustri discepoli di Alberico da Barbiano per schiacciare gli stati
limitrofi e proseguire nel torbido sogno di conquista regia. Ma
l'impresa d'Italia, troppo superiore alla ricchezza di Milano, ne
immiserisce così i sudditi che alla morte di Giovanni
Galeazzo, nel 1402, molte rivolte la compromettono; e Firenze
stringe col papa, col marchese d'Este, Venezia, Padova, Rimini,
Ravenna e Alberico da Barbiano una terribile lega di guerra contro
l'unitaria metropoli. Le insurrezioni squarciano come tante mine lo
stato milanese: la reggente ridotta agli estremi cede al papa
Bologna, Perugia ed Assisi; i condottieri milanesi disertando
s'impadroniscono di altre città; il marchese di Monferrato
piomba su Vercelli e Novara: Vicenza, Feltre e Belluno si danno a
Venezia; tutto pare perduto, la reggente muore avvelenata, a Milano
stessa i guelfi inalberano la croce rossa nel quadrivio di
Malcantone.
Senonchè la signoria milanese non può perire: i due
figli di Galeazzo, Filippo Maria e Giovanni Maria, resistono l'uno a
Pavia e l'altro a Milano; poi alla morte di questo, pazzamente
sanguinario, pugnalato nel 1412 dentro la chiesa di S. Gottardo, e
col ritorno all'unità del potere, la fortuna milanese si
ristora. Una stessa crisi finanziaria strema la grossa metropoli e
quasi tutte le città insorte contro di essa in nome delle
vecchie indipendenze comunali storicamente impossibili. Le autonomie
morte non debbono risuscitare; i condottieri conquistando qualche
città non possono mutarvisi in signori sotto pena di dover
tradire l'esercito in una miseria senza paga che lo dissolverebbe.
Quindi Filippo Maria, sposando la vedova di Facino Cane, che gli
porta in dote l'esercito e le città del morto condottiero,
riprende tosto l'offensiva per riconquistare quasi tutto il proprio
stato e proseguire la guerra di Giovanni Galeazzo contro la
federazione republicana di Firenze, di Venezia e della chiesa. I
suoi eserciti diventano terribili, ma egli, più terribile
ancora, domina colla propria signoria ferma le signorie volanti dei
condottieri: diffida di loro, li inganna, li tradisce; tutti
soccombono davanti all'impenetrabilità della sua politica,
Carmagnola, Piccinino, lo stesso Francesco Sforza, l'uomo più
grande del secolo che arriva sino a sposare la figlia di lui e deve
fuggirlo, combatterlo, e alla sua morte, nel 1447, non può
raccoglierne l'eredità perchè Milano ritenta in se
stessa l'ultima prova della republica.
Ma in due anni Milano si convince che la republica sarebbe il
ritorno dell'anarchia guelfo-ghibellina colla perdita della
Lombardia, per l'impossibilità militare di difenderla contro
Firenze e Venezia senza gli eserciti di Francesco Sforza. Quindi
allo spirare dell'ultimo contratto, quando questi passa al nemico e
assale Milano, la republica scompare, e la signoria ritorna
più forte col nuovo signore che rinuncia a tutte le
pretensioni regie del genio visconteo.
Le crisi dei Visconti si ripercuotono in tutte le altre famiglie
regnanti; nessuna di esse per abilità politica o per fortuna
può evitare la terribile prova imposta dai condottieri alla
loro finanza e quindi alla loro vitalità. Molte vi scompaiono
o vi sopravvivono così deboli che le signorie vincenti le
conquisteranno. Un tumulto di drammi affretta il finale delle
famiglie condannate; subitanee incandescenze republicane illuminano
i tramonti sanguinosi delle signorie vinte. La miseria delle plebi,
il numero degli eserciti devastatori, le sovranità
improvvisate dai condottieri, le resistenze dei signori,
l'irresistibile dilatazione delle maggiori signorie, lo splendore
delle arti sorridenti in mezzo a tutte le catastrofi, le tragedie di
una politica sempre misteriosa anche nei propri trionfi, atteggiano
e colorano una scena storica così variamente bella ed
orribile che nessun ingegno di storico potrà mai riprodurla.
Le autonomie romagnole agonizzano; Firenze e Venezia, unite
nell'inimicizia di Milano, stanno per scontrarsi nell'antica
Pentapoli; Ferrara rimane sul Po come baluardo ancora necessario
contro le possibili eccessive espansioni delle regioni transpadane.
Mantova, simile ad una rocca che spunti da un padule, ha la
sicurezza dell'una e la sinistra quiete dell'altro; Urbino si leva
fra i monti umbri come una stella; sopra altri monti dal castello
dei Savoia esce una luce fosca che non arriva ancora a mescersi
cogli altri splendori d'Italia. Amedeo VIII, succeduto al Conte
Verde e al Conte Rosso, padrone finalmente di Ginevra e del Piemonte
e della Savoia, guardando dalla cima della propria alpe l'Italia, si
sente bruciare nelle pupille la fiamma del primo sguardo di Annibale
ritto sulla vetta del S. Bernardo; ma i suoi occhi si offuscano, la
sua ragione vacilla, e finisce imitando l'avolo Umberto III col
fondare in Ripaille un ordine di cavalleria monastica e col farsi,
nel 1439, dal conciliabolo di Basilea consacrare vescovo, nominare
cardinale, eleggere antipapa col nome di Felice V. Quindi il suo
sogno della conquista d'Italia, pel quale nove anni dopo mandava il
proprio figlio Luigi a Milano per proporre scioccamente alla
republica di sottomettersi ai Savoia, vanisce nel trionfo di
Francesco Sforza: il suo dramma di antipapa conclude ad una farsa,
nella quale abbandonato dai fedeli, destituito dalla chiesa,
può conservare come privilegio di pazzo e di fanciullo il
diritto di vestire per tutta la vita gli abiti pontificali.
Ma la rivoluzione dei condottieri, distruggendo le ambizioni regie
di Milano e imponendo a tutte le signorie la liquidazione della
guerra e della finanza, riassicura il progresso storico tendente
alla costituzione di stati maggiori, perchè solamente questi
potranno, imprigionando la mobilità militare di quelli,
impedire alla milizia, che deve proteggerne la vita, di contrastarne
il necessario sviluppo.
Effetti della rivoluzione militare nelle repubbliche.
A Firenze le conseguenze delle guerre nelle ultime reazioni
aragonesi e contro i Visconti avevano prodotto quello stesso
malcontento di tutte le altre signorie.
La republica interamente guelfa non poteva sottrarsi all'imminente
rivoluzione. Infatti Salvestro dei Medici, forse il più
grosso mercante e il più fino politico fiorentino, riuscendo
come gonfaloniere a diminuire l'autorità dei capitani del
popolo, riabilita gli ammoniti ed infligge alla costituzione
republicana e al partito degli Albizzi il primo colpo. Come sempre,
una rivolta precede la rivoluzione mettendo a soqquadro la
città, bruciando, uccidendo. I Ciompi, plebei e cenciosi,
sfogano l'antico odio contro i borghesi padroni della republica; le
arti minori si levano per domandare la parità colle maggiori;
la passione dell'uguaglianza fa dimenticare l'antico amore
dell'indipendenza; l'amnistia dei ghibellini naturalmente amici dei
plebei, la sospensione di ogni processo per debito di cinquanta
ducati e l'abolizione degli interessi del debito publico, mutano il
governo e la fisionomia di Firenze. Ma questa insurrezione plebea
non può raggiungere il proprio scopo nella signoria.
Perciò Michele di Lando, docile strumento in mano di
Salvestro dei Medici, l'arresta subitamente per essere anche
più presto rovesciato dalla reazione povero e coperto di
gloria. Il suo pietoso eroismo e la sua politica imbecille lasciano
Firenze nella medesima necessità di scegliere fra una
restaurazione della borghesia nemica del popolo ed incapace di
progresso in quella ormai troppo lunga contesa dei Ricci e degli
Albizzi, o un'altra rivoluzione signorile che riassumendo il potere
nelle mani dei Medici dia a Firenze la forza unitaria e l'ordine
interno di Milano.
Firenze incalzata dal moto italico sceglie presto: nove anni dopo la
ristorazione republicana, nel 1391, una sedizione plebea acclama la
signoria di Vieri dei Medici; nel 1424 Giovanni dei Medici, oramai
piuttosto signore che privato cittadino, sempre colla stessa
politica ottiene la legge del censo, che aggrava i ricchi e rianima
il popolo minuto; nel 1433 l'ostracismo di Cosimo dei Medici,
provocato dagli Albizzi troppo timidi per assassinarlo, decide della
rivoluzione; Cosimo è richiamato dopo un anno fra ovazioni
dementi, e la dinastia è fondata.
Secondo la legge del progresso italiano la signoria ha ucciso la
republica. Coi Medici la tirannide faziosa delle grosse famiglie
cessa; il popolo si mescola alla borghesia troppo privilegiata; il
governo, sottratto alle parti incapaci di pensare al di sopra di
sè medesime e di agire oltre l'orbita del proprio interesse,
acquista improvvisamente altrettanta limpidezza nelle idee che
sicurtà nelle mosse: tutta Toscana sente la nuova forza di
Firenze che sta per rivaleggiare di grandezza con Milano.
A Siena, rivale di Firenze, una rivoluzione simile a quella dei
Ciompi riesce ad una eguale ristorazione republicana: ma la crisi
aggravandosi ogni giorno consiglia invano ai Salimbeni, capi
ghibellini, la dedizione ai Visconti, poichè Milano, incapace
nella propria catastrofe del 1402 di reggere così turbolenta
republica, deve abbandonarla a nuovi drammi. Allora Siena, straziata
dalle fazioni, tradita dai condottieri, vede finalmente Pandolfo
Petrucci alla testa della plebe imitare i Medici di Firenze: lo
decapita nel 1456 con dieci seguaci, ma senza sottrarsi per questo
alla fatalità della sua dinastia. Più crudele di
Siena, Perugia scatena nella stessa ora storica la propria plebe
contro i nobili e la frena colla reazione borghese dei Raspanti;
poi, vinti questi nel 1389 da Pandolfo Baglioni, che accenna
così alla futura signoria della propria casa e finisce come
Pandolfo Petrucci, passa dalla tirannia improvvisata del condottiero
Biordo Michelotti, tosto assassinato, al dominio di Milano, della
chiesa e di Napoli per risorgere sfolgorante fra le vittorie di
Braccio da Montone, ben più illustre condottiero e nullameno
costretto, malgrado l'altezza del proprio carattere, a riprodurvi la
tirannia del predecessore. Ma alla sua morte in battaglia
ricompaiono i Baglioni, dapprincipio abili e modesti come i Medici,
finalmente signori nel 1488.
Vitellozzo Vitelli s'insignorisce di Città di Castello;
Lucca, condannata a morte come Pisa, già comprata da Firenze
per 200.000 fiorini, oscilla dalla republica alla signoria dei
Guinigi con silenziose ondulazioni di cadavere senza potersi
arrestare nè all'una nè all'altra; Genova consuma
nella stessa crisi oltre quaranta governi. La sproporzione della sua
grandezza marinara colla sua esiguità territoriale non difesa
come a Venezia da paludi imprendibili obbliga la superba republica a
riprendere lo stesso atteggiamento del mille, quando sotto la
dipendenza di Milano e coll'aiuto della Lombardia romana poteva
ancora prosperare in una libertà e in una industria indigena.
Quindi accumula rivoluzioni su rivoluzioni, alternando dogi di tutti
i caratteri e di tutti i partiti, sino a ritornare col Giustiniani
al dogado annuale e all'antica anarchia, per cadere poi sotto il
tirannico protettorato della Francia nella esasperazione di tutte le
parti. Ma il suo genio commerciale supera nullameno la crisi della
miseria coll'istituzione della banca di San Giorgio, prima e massima
originalità del mondo economico moderno, specie di signoria
finanziaria così superiore alla signoria politica da
governarne le mosse e dirigerne le idee, come la signoria mobile dei
condottieri s'imponeva a quella ferma di tutti i signori grandi o
piccoli. Laonde un'altra rivoluzione, nel 1408, scaccia i francesi
di Boucicaut e rianima le fazioni dei Guarco e dei Montalto,
avvicendando gli Adorno e i Fregoso, finchè uno di questi
ultimi consegna Genova con tutte le dipendenze a Filippo Maria
Visconti alle stesse condizioni già accettate dalla Francia e
dietro un pagamento di mille fiorini. Però le sommissioni di
Genova non sono mai che formali; i partiti seguitano a dilaniarvisi,
la republica si rivolta, imbroglia di drammi smozzicati la propria
cronaca, avviandosi sotto la mano poderosa e leggera di Paolo
Fregoso, furfante di genio, verso la signoria dei Doria.
A rovescio di Genova, lanciata a tutti i venti dalle esplosioni
incessanti della propria politica, Venezia immobile nelle lagune
acumina la spaventosa piramide del proprio governo impressa di
arcani geroglifici e scavata internamente da misteriose prigioni,
mettendo il consiglio dei tre sopra quello dei dieci, arrivando
così all'ultima condensazione politica di una republica
troppo forte per tramontare colla dittatura in una monarchia. Il
nuovo tribunale dei tre inquisitori, stabilito occultamente dal 1400
al 1450, è ancora più tremendo ed iniquo di quello dei
dieci: la sua esistenza è un mistero, la sua autorità
vigila nell'ombra più grande dell'ombra stessa. La ragione di
stato è il suo solo diritto, la sua giustizia deriva dalla
negazione di tutte le giustizie, la sua idea immota, immensa,
eterna, è Venezia. Tutti gli altri ordini non sono più
che strumenti di questo supremo consiglio, il quale sembrando un
triumvirato non contiene nè differenze di persone, nè
gradazione di principii. La rivoluzione della signoria ha quindi
raggiunto in Venezia l'ultima perfezione. Poco dopo eccola
discendere ricca, compatta, silenziosa attraverso l'allegria del
proprio popolo dispensato da ogni pensiero, verso terraferma;
ereditare da Aquileja, la grande città romana, un'altra
potenza; dall'Oriente, invaso lentamente dai musulmani, girare lo
sguardo su tutta la Lombardia oltrepassando il Po, misurando terre
ed avversari. Padova, Verona, Belluno, Vicenza, Rovigo, Treviso,
tutto il Friuli è già veneziano; Guastalla, Brescello,
Casalmaggiore sono già comprati, il Po non sarà un
impedimento per un governo che domina sul mare e ha stabilimenti in
tutto l'Oriente. Un'immensa fiamma di orgoglio illumina il genio
veneziano, quando, nel 1421, il senato discute se debbasi continuare
la guerra o sottoscrivere la pace rispettando i confini di Milano,
diventata rivale ben più vicina e più vera di Genova.
Foscari senatore spinge Venezia alla conquista d'Italia in questa
guerra spietata di denari e di condottieri, nella quale la vittoria
deve rimanere infallibilmente al governo più solido e
più ricco. Il doge Mocenigo, atterrito da una conquista che
dovrebbe fatalmente mutare il carattere di Venezia, insiste per la
pace, e riesce a mantenerla sino alla propria morte. Ma Foscari
nominato doge torna alla guerra, prende Brescia e Bergamo, semina
l'oro, conquista Lonato, Valeggio, Peschiera, Crema; passa il Po,
entra in Romagna, compra Cervia, acquista Ravenna. Il denaro di
Venezia basta a tutte le guerre, la sua perfidia supera quella dei
condottieri, ai quali dà un esempio indimenticabile
decapitando il Carmagnola.
Alla Venezia marinara succede la Venezia di terraferma: mentre la
sua decorazione e le sue ricchezze sono ancora bizantine, il suo
carattere e la sua azione sono già così italiane che
tutti gli stati d'Italia, spaventati dalla sua subita irresistibile
espansione, pensano al come costringerla nella loro federazione,
penoso e prezioso risultato di tutte le rivoluzioni anteriori.
Trionfo delle capitali.
Poichè i condottieri forzano colla propria crisi finanziaria
e militare le signorie a ricomporsi sopra base più larga di
territorio e di democrazia assumendo le forme di tanti principati
indipendenti, tutte quelle città che non possono mutarsi in
capitale, debbono soccombere. La loro lotta dell'ultim'ora
può variare dalla tragedia più cupa alla commedia
più spudorata, ma lo scioglimento ne è pur sempre il
medesimo: il popolo minuto, i plebei di città e di campagna
abbandonano i piccoli signori incapaci di resistere alla politica
delle grosse signorie e alle armi dei grandi condottieri. Al momento
della resa alcune città, come Verona, pesano le forze e le
ricchezze di Venezia e di Milano per servire almeno sotto il
più comodo signore; Padova produce nell'ultimo dei Carraresi
forse il suo più simpatico eroe; Obizzo da Polenta offre
spontaneo Ravenna alla servitù e se stesso alla morte, che
Venezia gli riserba; gli Appiani vendono Pisa a Firenze, e col suo
prezzo improvvisano la minuscola signoria di Piombino, rifugio di
corsari mutato così in riparo di barattieri; Corrado Trinci a
Foligno sembra riassumere nell'ultimo giorno di comando ogni demenza
e ferocia delle rivoluzioni anteriori. Mentre la casa di Savoia si
dilata verso la Svizzera e il Monferrato, Milano e Venezia occupano
tutto il Lombardo, e quest'ultima penetra nella Romagna; nel momento
che Firenze sovrasta a tutta la Toscana, contando a Siena gli anni
estremi di vita, la chiesa si espande anch'essa, conquista, spiana
città, chiude l'èra delle ribellioni, sperde perfino i
ricordi della feudalità e dei comuni indipendenti.
Diciassette fra piccole signorie e republiche scompaiono,
semplificando la geografia politica dell'Italia, che lavora,
s'insanguina e progredisce verso nuove e maggiori circoscrizioni.
L'indipendenza, necessaria nei secoli anteriori pressochè a
ogni comune, ora si concentra nei massimi; tutti gli altri, incapaci
di mutarsi in stazioni originali del pensiero italico, debbono
sottomettersi serbando intatta la propria vita locale. Il regno
è impossibile, i principati sono necessari. Il popolo
livellato da una nuova democrazia, che sottopone tutto al signore e
sta per dare alle guerre l'importanza di un fatto, nel quale tutte
le anime di una regione sono unificate, si avvicina alla doppia idea
del cittadino e dello stato. Le miserabili autonomie, le selvatiche
indipendenze antiche non sarebbero più che un ostacolo alla
nuova vita e un controsenso per la recente ragione: così
malgrado il disperato eroismo, col quale si difendono o tentano di
risorgere, debbono ripiombare nell'impossibilità del passato.
Invano Pavia, Tortona, Vercelli vorrebbero riapparire nella storia,
più invano a Crema, a Lodi, a Cremona, ad Alessandria
ripullulano le vecchie dinastie; più inutilmente ancora i
condottieri, sostituendosi a queste colla loro giovane
originalità, ritentano l'assurdo problema di storiche
risurrezioni. L'impeto di Facino Cane, la sanguinaria perfidia di
Othobon Terzi, il genio di Gabrino Fondulo che arriva sino all'idea
di precipitare dall'alto del proprio terrazzo di Cremona
l'imperatore e il papa, suoi ospiti e protettori, e sale il patibolo
coll'unico rimorso di non averlo fatto, sorpassando così
colla propria morte i migliori finali di tutte le tragedie, non
possono impedire la razionalità del nuovo assetto politico.
Solo Francesco Sforza, il più profondo di pensiero e il
più sobrio di azione fra tutti, giunge alla signoria di
Milano, ma innestando la propria famiglia sul vecchio albero dei
Visconti e subordinando la propria immensa ambizione alle storiche
necessità del momento. Tutti gli altri scompaiono fra le
battaglie o precipitano fra i tradimenti senza rimpianto, quasi
senza gloria. Alberico da Barbiano, dal quale incomincia la moderna
scienza militare, Braccio da Montone, eroe degno di epoca migliore,
Niccolò Piccinino che merita forse il paragone con Annibale,
i Torelli, i Pergola, i Vignate, nessuno di essi per quanto forte
nelle battaglie, abile nella politica, pronto a tutti gli eccessi,
può conquistare solidamente una provincia e fondarvi una
dinastia. Fra popolazioni inermi, signori codardi e republiche
inette, la loro superiorità è utilizzata dal disegno
immutabile della storia, che sembra compiacersi a sottomettere la
loro forza all'altrui debolezza: trionfi e sconfitte, nulla giova
loro; vittime della finanza, alla quale debbono rendere tutte le
vittorie di cui abbisogna, passano da mano a mano come il denaro che
ricevono, ignorando come il denaro il segreto dell'opera propria.
Conseguenze della rivoluzione militare nel resto d'Italia.
La Corsica, rimasta nella storia come la terra delle implacabili
vendette, benchè divisa dal mare, subisce i contraccolpi di
quest'ultima rivoluzione. Il feroce disordine delle sue scissure
è tale che non una roccia vi rimane senza sangue o una
cronaca si conserva intelligibile. Sempre dominata da Genova e
sempre in lotta contro di essa, colla aristocrazia che vi si vanta
di difendere l'indipendenza, e col popolo che non può
accettare la democrazia genovese costretta a fargli pagare le spese
della propria guerra contro i signori, l'isola è finalmente
venduta dalla superba ed abile republica ad una compagnia di cinque
azionisti, detta la Maona, che ne prende in appalto il presente e
l'avvenire. Ma le rivoluzioni proseguono alternandosi con ritmo
più disperato e regolare. Dopo il trionfo e la catastrofe di
Arrighetto Rocca, Vicentello d'Istria oppone a Genova la fiera
resistenza dei Caporali, capi dei comuni, uomini della
nobiltà popolana e civica, che diventano i condottieri della
Corsica. Se non che la finanza, dalla quale dovrebbero essere
pagati, per sottrarsi alle spese del loro soldo, spinge il popolo a
vendersi spontaneamente alla banca di S. Giorgio dopo gli infelici
esperimenti del governo di Genova, del protettorato d'Aragona e
della chiesa, di tutte le utopie e follie rivoluzionarie. Infatti la
banca, colla logica insensibile della propria imparzialità,
pacifica l'isola struggendovi i partiti; poi alla riscossa dei loro
inestinguibili residui le due republiche politica e bancaria di
Genova, essendo cadute sotto il protettorato degli Sforza, oppongono
agli ultimi insorti i soldati di Milano; l'estrema insurrezione
còrsa infuria ancora nella più scellerata delle guerre
civili per lasciare nel 1492 l'isola stremata e sottomessa alla
signoria della banca regnante colla democrazia e colla finanza.
La Sardegna invece, calma nelle quattro grandi giudicature di
Cagliari, Torres, Gallura e Arborea, concentra ogni
sensibilità rivoluzionaria nella vecchia capitale di
Oristani. Ugo IV, che vi sogna ancora di riconquistare
l'indipendenza di tutta l'isola contro gli Aragonesi soggiogando le
altre giudicature, aggrava così la mano sui propri sudditi da
costringerli a scannarlo colla figlia e a proclamare la republica
nell'inevitabile illusione di tutte le vecchie città
militari. Ma la republica fallisce come dappertutto; quindi
Eleonora, sorella di Ugo, sublime di gentilezza e di
virilità, ricompone lo stato, continua invano la guerra
contro gli Aragonesi col proprio marito condottiere e non può
lasciare se non la famosa «carta de locu», statuto di
tutte le giudicature sotto la vincitrice signoria aragonese.
A Napoli la regina Giovanna, invecchiata nella lussuria e nei
tradimenti della signoria, colla quale aveva potuto riconquistare il
trono, è sorpresa nello splendore del proprio tramonto dalla
nuova rivoluzione di Carlo Durazzo, suo figlio adottivo, che,
insorgendo all'arrivo in Napoli del papa francese Clemente VII, la
sconfigge, l'assedia nel castello, la strangola. Ma Luigi
d'Angiò, altro figlio adottato dalla regina nelle ultime ore,
gli contende il trono; la guerra diviene inintelligibile coi due
papati, avignonese e romano, favorevoli alternativamente ai due
pretendenti; finalmente Durazzo scompare in una rivoluzione
ungherese, e sua moglie Margherita diventa il primo personaggio
della seconda crisi napoletana. Costei, ancora più avara che
insensibile, rappresenta subito l'elemento finanziario della
rivoluzione, dalla quale non pensa che a spremere denaro anche
perdendo il trono, ma colla sicurezza di riacquistarlo mediante una
cassa ben fornita. Infatti, rifugiata a Gaeta col figlio Ladislao e
ricca a quattrini, gli dà in moglie l'erede dei Chiaramonti
di Modica, favolosamente doviziosi e sognanti una corona. Ladislao,
lazzarone e guerriero, politico pieno d'ambizione e senza scrupoli,
ripudia tosto col permesso del papa la moglie tenendosi la dote,
riconquista il regno, vende feudi a ribasso per far denaro con ogni
mezzo, prende Roma, sogna egli pure l'impresa d'Italia, assalta
Perugia e vi muore vittorioso ed avvelenato. Sua sorella Giovanna II
riapre il regno tragicamente voluttuoso della I, passando di amante
in amante fino al marito conte delle Marche, francese di sangue
regio, cui inganna e costringe a riparare in un convento. Cavalieri
e condottieri innamorandosi di lei soggiacciono come ad una forza
misteriosa, che affretta in una specie di saturnale dissoluzione la
liquidazione del vecchio regno. Così questa II regina
Giovanna, ripetendo in tutto la vita dell'altra, adotta due
pretendenti, Alfonso d'Aragona e Luigi III d'Angiò, i quali
si combattono, lei viva, senza che la pubblica quiete ne venga
disturbata nemmeno coll'assedio decennale della fortezza di Napoli;
e, lei morta, compiono la rivoluzione. Alfonso d'Aragona vincitore
del rivale, dopo altri sette anni di lotta, atterra l'anarchia dei
condottieri senza disarmare la patria, rinunzia al sogno di un regno
italico, svolge una democrazia borghese sulla feudalità
depressa dei baroni, unifica Napoli e Palermo ricostituendo nel
regno delle due Sicilie il primo e più vasto principato
d'Italia. Poco dopo suo figlio Ferdinando, colla stessa perfidia di
Gabrino Fondulo nel castello di Macastormo, invita gran numero di
nobili riottosi ad un banchetto e li assassina misteriosamente senza
che l'aristocrazia insorga o il popolo si commuova.
A Roma invece la signoria di Urbano VI, strappata al conclave quasi
francese col grido «romano lo vogliamo», passa
attraverso un laberinto di scismi, di elezioni e di guerre: Urbano
VI, feroce quanto Giovanni Maria Visconti, arriva sino a gettare in
mare cinque cardinali chiusi entro sacchi; Bonifazio XIII, suo
successore, simile a Margherita di Napoli, non pensa che a far
danaro e mette tutto all'asta, indulgenze e benefizi; più
tardi Baldassarre Cossa, condottiere improvvisato cardinale, sotto
il pretesto di por fine allo scisma di Roma e di Avignone,
insorgendo contro Gregorio XIII, proclama papa Alessandro V
arcivescovo di Milano, cui avvelena poco dopo per succedergli sotto
il nome di Giovanni XXIII. Al papa di Roma e di Avignone si aggiunge
così quello di Bologna, e contro al triplice scisma si aduna
il concilio di Costanza.
Ma la crisi imposta dai condottieri a tutte le signorie seguita a
gravare sulla chiesa, giacchè Martino V, insediato dallo
stesso imperatore Sigismondo in Roma, deve riparare presto a Firenze
per sfuggire alla spada di Braccio da Montone, padrone di Perugia,
Todi, Orvieto, Terni, Iesi, Spello, Narni, Rieti, Roma stessa, e del
quale non trova altro modo a mascherare le conquiste che nominandolo
condottiere della chiesa. Il successore, Eugenio IV, lotta coi
Colonna trovandosi nella stessa condizione in faccia a Francesco
Sforza signore di Iesi, Fermo, Osimo, Recanati, Mogliano, Ascoli,
Ancona, Todi, Amelia, e lo nomina gonfaloniere della chiesa per
impedirgli di cedere forse ai Visconti queste città sottratte
al proprio dominio; finchè il cardinale Vitelleschi,
ferocissimo condottiero della chiesa, le riconquista e le compone in
pace sotto il governo ecclesiastico come sotto ad una tenda di
riposo dalla lunga fatica della rivoluzione.
Così il papato aveva finalmente un uguale territorio e si
svolgeva colla stessa emancipazione economica delle altre signorie;
i feudatari delle campagne e delle piccole città sono
scomparsi interamente o quasi, quelli di Roma abbattuti, i papi
ridotti come i dogi a non poter più fondare dinastie,
giacchè ogni successore distruggerà fatalmente
nell'interesse proprio, fuso con quello della signoria, l'opera
domestica dell'antecessore; le rendite della chiesa si organizzano
come la banca di S. Giorgio, i popoli si dispongono al progresso
pacifico, la signoria s'avvia verso il principato coi pontefici,
splendidi d'infamia, impenetrabili di perfidia, potenti, gloriosi,
subordinati all'equilibrio della grande federazione italiana, che
sta per frangersi sotto la nuova conquista straniera.
Capitolo Sesto.
I principati
Il secolo XV.
Collo stabilirsi delle grandi signorie i campi armati subiscono la
stessa miseria da loro creata nelle città. All'infuori di
Francesco Sforza, che solo fra tutti ha potuto innestarsi sul
vecchio tronco dei Visconti, gli altri condottieri, impotenti a
crearsi una signoria, perdono d'un tratto ogni importanza per
ridiscendere al livello degli antichi mercenari sotto il potere
politico dei grossi signori. L'epoca eroica è conchiusa.
Piccinino, figlio di Niccolò, non credendolo soccombe ad un
agguato tesogli da Ferdinando d'Aragona: i nuovi generali sono
signori che riprendono il mestiere dei condottieri per portarvi
l'ordine della loro nuova funzione. Il problema del secolo XV si
è risolto colla costituzione dei principati. Le nuove
capitali sono Venezia, Firenze, Ferrara, Milano, Torino, Roma,
Napoli, Palermo nella Sicilia non più indipendente, Aiaccio e
Bastia nella Corsica, Cagliari e Sassari nella Sardegna: le antiche
sono scomparse irrevocabilmente dalla storia. Le ultime republiche
non lo sono più che di nome e aderiscono alla federazione dei
nuovi stati, che proclama nella sconfitta dell'unità il
trionfo delle individualità regionali. Tutte le
varietà delle forme politiche fioriscono in Italia.
Mentre i turchi prendono Costantinopoli, nel 1453 il pontefice
Nicolò V pacifica la penisola, riunendola in una crociata che
svapora in parole, e sopravvive nella prima pace stretta tra le
grandi potenze italiane. Più tardi, quando l'espansione di
Venezia minaccia l'Italia, tutti gli stati si collegano contro di
essa; più tardi ancora la lega si rinnova per la difesa di
Ferrara, e due anni dopo Venezia rientra nella federazione. Il nuovo
trattato sopprime per sempre la memoria dei guelfi e dei ghibellini,
riconosce l'indipendenza sovrana degli stati, guarantisce loro
reciprocamente il non intervento, assolda un condottiere a spese
comuni e le riparte proporzionandole all'estensione geografica.
L'antica unità romana ed imperiale è dunque sparita.
Se le vecchie libertà republicane riavvampano ancora nelle
congiure dell'Olgiati a Milano o dei Pazzi a Firenze, e il sogno
unitario non è ancora dissipato a Venezia; se drammi in
ritardo insanguinano tuttavia molte città, e i papi mirano
già a più vasta restaurazione pontificia contro i
recenti stati mentre nuovi stranieri stanno per discendere le Alpi;
nullameno lo splendore di questa rivoluzione dei condottieri
è più vivido che in ogni altra antecedente, e il genio
politico di Lorenzo dei Medici diventato capo morale della lega
annunzia al mondo una nuova èra politica. L'Italia libera,
federale, ricca, colta, abbagliante di pensiero, stupefacente di
opere, è più che mai la primogenita d'Europa. Tutti i
popoli della penisola sembrano riposarsi nell'eleganza sapiente
della nuova vita dalle tragiche fatiche di tanti secoli di
rivoluzioni.
Un'altra società si era già formata e si veniva
formando su nuove basi. L'unità nazionale penetrava nelle
coscienze coi capolavori della pittura e della letteratura, coi
trattati della politica, collo scambio dei commerci e delle classi.
La democrazia trionfante colla signoria aveva livellato le maggiori
differenze: il principato, troppo grande per sparire nella persona
del principe, il popolo troppo cosciente per non cercare il
principio razionale della legge in ogni ordine del governo, la nuova
cultura troppo varia, scettica e passionata per essere semplicemente
una decorazione di corte, la religione troppo poco sentita per
impedire i primi slanci della filosofia e le prime investigazioni
delle scienze, le antiche indipendenze mutate in orgogli cittadini,
la coscienza di un primato mondiale, un epicureismo fine, energico,
innamorato delle idee ed accorto dei fatti, tutto concorreva a fare
della nuova civiltà il principio di un mondo. Si aveva ancora
l'indipendenza nei singoli stati e si viveva già in una certa
eguaglianza: l'unità regionale non arrivava ancora alla
nazionale, ma negava nullameno con serenità derisoria le
vecchie unità dei papi e degli imperatori.
Però la coscienza morale sbattuta da tante catastrofi non
aveva più nè criteri, nè ideali precisi. Le sue
passioni si erano logorate nella loro stessa tragedia, i suoi
bisogni si davano libera carriera nelle gioie della pace fra i
capolavori quotidiani di un'arte incomparabile. Questo trionfo non
era una transazione ma una conclusione: l'Italia in sino allora
rimorchiatrice del mondo non poteva andare più oltre. Dopo
averlo emancipato dall'impero e dal papato, logorandoli e
sottomettendoli alla ragione della propria storia, saprebbe ancora
scoprire l'America con Colombo, la stampa con Castaldi, con Leon
Battista Alberti e Leonardo da Vinci trovare il metodo sperimentale,
dare un modello delle storie con Guicciardini, un codice della
politica con Machiavelli, la satira di tutto il medio evo con
Ariosto, rinnovare Dante con Michelangelo, assicurare più
tardi la rivelazione astronomica con Galileo, creare un popolo di
artisti e di statue, resuscitare tutta l'antichità
coll'erudizione, improvvisare un'eleganza superiore a quella dei
greci, brillare di scienza e d'incredulità, di ricchezze e di
pensiero, ma non guidare ancora la storia europea.
Regno e rivoluzione religiosa sono per essa egualmente impossibili.
Quindi attraverso la gloria del secolo XV cominciano già i
segni della decadenza. Nessuno succede più a Dante, a
Petrarca, a Boccaccio: l'originalità sembra esausta nella
letteratura mentre l'erudizione moltiplica i modelli diseppellendoli
nell'antichità; si direbbe che la coscienza vuota di avvenire
si precipiti sul passato. Alla passione dei fatti presenti, che
dovrebbe animare l'arte, succede quella dei fatti passati; Crisolora
portando l'ellenismo da Costantinopoli suscita un entusiasmo
indescrivibile. Leonardo Bruni interpreta i vecchi filosofi greci,
Flavio Biondo è il primo geografo dell'Italia antica e
moderna, Pastrengo scrive la prima biografia universale, Poggio
Bracciolini inizia storie, viaggi e polemiche, ammirabile di
spudoratezza e di penetrazione, di servilità e di
originalità; Aurispa, Barsizza, Traversari frugano archivi e
biblioteche per rimettere in circolazione classici ignorati. Una
traduzione di Tucidide e di Polibio è pagata quanto una
città; Coluccio Salutati, incoronato come il Petrarca e tanto
a lui inferiori, scrive come lui lettere che sono avvenimenti;
Filelfo, Valla, Bessarione, Giorgio di Trebisonda discutono fra loro
con una frenesia di passione che li spinge a ferirsi col pugnale
dopo essersi contusi colle invettive, mentre il mondo li ammira e li
applaude, gitta loro gemme e sorrisi, titoli e corone. La
empietà diventa un orgoglio, la bellezza una religione, la
dottrina una potenza, Platone e Aristotele rinnovano nella nuova
chiesa dei dotti il contrasto di San Paolo e di San Pietro,
dividendo i campi del pensiero filosofico ed assicurando alla
filosofia lo stesso trionfo della pittura sulla religione. Idea e
bellezza divengono le due verità supreme: la religione non
è che la credibilità delle forme più basse
della filosofia, la rappresentazione delle quali pericolava sotto
l'ispirazione di un odio alla natura e al mondo. Ma la filosofia
domina col pensiero, e la pittura glielo abbellisce. L'antica Maria
del cristianesimo si muta nella Madonna del Petrarca, immagine
immacolata e voluttuosa; il Padre Eterno non è più che
un Giove Olimpico coi lineamenti inteneriti dalla tragedia di
Gesù; questi più bello di un Adone, di una bellezza
fra il femminile e il maschile, non soffre più che nello
spirito e deve conservarsi sempre bello, anche sotto le battiture e
sopra la croce, per commuovere i nuovi adoratori.
Poliziano incapace d'intendere Dante rifà un Petrarca
più plastico, con suoni più dolci e colori più
carnei; Lorenzo dei Medici sembra ritrovare qualche nota di
Anacreonte pei canti carnascialeschi, nei quali la brutalità
dei costumi anteriori e la corruzione dei costumi presenti si
uniscono nullameno per indicare una decadenza, che l'arte
abbellisce, la scienza distrae e la politica urge. Pulci nel
Morgante Maggiore irride all'impero e alla chiesa con una satira
mescolante mitologia cristiana e pagana, storia e religione, senza
coscienza nè dell'una nè dell'altra, e gualcendo come
per chiasso quasi tutte le figure del proprio poema, che Boiardo
dovrà ricomporre ed Ariosto recare ad insuperabile bellezza.
Il teatro manca perchè manca la coscienza: la vita storica
italiana trionfa delle proprie contraddizioni politiche, ma non ha
contraddizioni ideali capaci di mutare i suoi assassinii in drammi.
Gli eroi abbondano, le scene sono troppe, le peripezie incessanti,
le catastrofi incalcolabili, eppure la tragedia non irrompe
nell'arte. Tutti scherzano dopo la rivoluzione dei condottieri; la
pittura non ama che la forma e il colore, la letteratura che la
frase e l'erudizione. Fede e passione avevano creato Dante;
scetticismo ed epicureismo preparano in Pulci l'Ariosto. Shakespeare
fallirà alla gloria d'Italia perchè Savonarola non
può essere Wiclef; nè Paolo Sarpi, Lutero. Solo
Michelangelo sarà tragico, quasi per dimostrare che nel
secolo XV l'anima italiana, passata dalle lettere nelle arti, non si
esprime più che con immagini, per un inesplicabile segreto
della storia perfezionando la propria facoltà di
rappresentazione quando appunto le veniva intimamente mancando ogni
coscienza. Mentre Lutero protesterà a nome di Dio contro il
papa, Michelangelo minaccerà lo stesso Giulio II dipingendo
le collere e i terrori divini per tutte le vòlte del
Vaticano; quando la libertà di Dante spirerà sotto la
signoria dei Medici, Michelangelo, costretto a scolpire le tombe dei
tiranni, si vendicherà mettendo sulla fronte di uno tra loro
la tragica concentrazione del problema affaticante il nuovo secolo,
e atteggerà di dantesco dolore tutte le figure simboliche del
tempo.
Impossibilità del regno.
I principati governano l'Italia libera da ogni autorità
straniera e dalle vecchie discordie comunali e settarie.
II progresso politico ottenuto colle ultime rivoluzioni si traduce
già in progresso civile, ma i principati, che lo attuano,
dovrebbero come queste contenere la potenzialità di una
più alta forma per lasciargli con più libera carriera
la possibilità di creazioni originali. Ed invece i principati
rappresentano l'ultimo termine dell'originalità italiana.
Tutte le altre nazioni d'Europa, sempre accodate alla storia
d'Italia, stanno per sorpassarla: questa non può produrre
spiriti religiosi come Torquemada e Gerson perchè la sua fede
cattolica manca al tempo stesso di passione e di disciplina; non
conquistare nuovi mondi come il Portogallo e la Spagna perchè
tutta piena di repubbliche marinare e di marinai, come Colombo,
Cabotto e Vespucci, non ha creduto nè al loro genio,
nè alla loro opera. La gloria delle armi d'ora innanzi
apparterrà quindi ai francesi e agli svizzeri, quella delle
imminenti riforme religiose all'Inghilterra e alla Germania, nella
quale l'istinto federale seguita quella splendida vita di piccole o
mezzane circoscrizioni che avevano illustrato la vita italiana dalla
morte di Odoacre a quella di Lorenzo de' Medici. Per salvare
l'Italia dalla irreparabile decadenza e mantenerla alla testa della
civiltà europea bisognerebbe rifarle una coscienza morale e
politica, tuffandola in una tragedia ideale che le scoprisse nel
fondo del vecchio cristianesimo e della nuova filosofia, combattenti
contro il papato, il segreto di una più alta libertà
spirituale. La personalità dello stato e del cittadino non
può scaturire che da tale tragedia. Nessun progresso
materiale, nessuna bontà di congegni o di ordinamenti
politici, potrebbero creare i due tipi del cittadino e dello stato
moderno. Se il cristianesimo era stato un'emancipazione della natura
dalle imminenti divinità pagane che l'infestavano coi
capricci delle loro volontà, e la sua conquista di Roma si
era svolta come liberazione dall'unitarismo imperiale soffocante
nella cornice del passato ogni avvenire; se le invasioni dei barbari
avevano rinvigorito con infusione di sangue vergine e di intatte
potenze la decrepita individualità mediterranea; se l'impero
romano era lentamente dileguato attraverso quelli di Carlomagno, di
Ottone e del nuovo Massimiliano sino a non esser più che un
ricordo e una decorazione; se il cittadino del comune italiano,
quantunque più debole, era più complesso dell'antico
cittadino romano; nè il cristianesimo, nè il
cattolicismo, nè i barbari, nè i comuni cresciuti a
principati, potevano senza una più profonda rivoluzione
assurgere all'idea dello stato e del cittadino odierno.
Il cristianesimo sintetizzato dal cattolicismo si appesantiva sulla
recente coscienza non meno del paganesimo sulla coscienza filosofica
dei tempi di Augusto: l'altezza de' suoi principii diminuita dalle
interpretazioni papali, invece di elevare i pensieri, impediva gli
sguardi. Bisognava emancipare nuovamente la coscienza religiosa per
ridarle l'estasi eroica di altri dialoghi con Dio nella superbia
feconda di una sovranità spirituale superiore ad ogni potere
mondano. Le incarnazioni domestiche religiose e politiche
dell'autorità ne oscuravano il principio stesso: le
differenze sociali, per quanto scemate nei fatti, rimanevano
infrangibili nei sentimenti; ogni padrone si sentiva maggiore del
servo, ogni servo conservava qualche cosa dello schiavo; i governi,
invece di essere l'espressione organica del diritto pubblico,
significavano il resultato di un compromesso fra le sommosse del
popolo inasprito da bisogni o sollecitato da idee misteriose e le
concessioni del sovrano, qualunque ne fosse il nome, che si reputava
padrone dello stato e lo conquistava, lo conservava, lo trasmetteva
con ogni mezzo, senza nemmeno sentire nella propria autorità
una delegazione popolare e nella propria attività una
rappresentanza legale. Tesoro pubblico e tesoro regio erano
tutt'uno, ogni cittadino non valeva ancora che nella propria classe,
e con essa e per essa solamente poteva ottenere giustizia; quindi le
famiglie organizzate feudalmente, le corporazioni e i mestieri
mutanti ogni novizio in uno schiavo e ogni associazione in una
camorra, la giustizia ridotta a una capricciosa perfezione o ad
un'infamia dell'arbitrio, la religione nemica delle scienze, le arti
serve dei principi, il commercio senz'altra garanzia che la
cointeressenza dei reggitori pubblici, l'industria sospettata nelle
scoperte, non difesa nelle privative, abbandonata nei risultati; la
vita privata senza virtù, la vita publica senza l'idea di
nazione, di stato, di governo, di rappresentanti e di rappresentati,
senza l'unità della sovranità che dev'essere identica
nell'individuo singolo e nell'individuo collettivo.
L'Italia nata e cresciuta federale non poteva passare al regno.
Per giungere a quest'idea le sarebbe abbisognata una forte coscienza
politica unitaria e un'immensa forza di conquista in qualcuno de'
suoi tanti principati. Invece tutta la vita e la storia italiana si
erano svolte nella negazione del regno iniziato da Odoacre: nessun
conquistatore barbaro o capo indigeno, per quanto abile nella
politica e prode nelle armi, aveva potuto diventare re d'Italia. Da
Berengario ad Ezzelino, da Giovanni Galeazzo a Ladislao, dagli
Scaligeri ai Savoia, da Pavia a Venezia, avventurieri, eroi,
tiranni, signori, republiche, a tutti il sogno della conquista
italiana era balenato nella mente e a molti aveva costato la vita
senza nemmeno permettere loro di tradurlo nella sincerità di
una pretesa. L'Italia aveva dovuto crescere nel federalismo e col
federalismo. Ora il passaggio dalla federazione al regno era anche
più difficile per l'aumentata importanza dei principati sugli
antichi comuni. Napoli, soggetta agli Aragonesi, aveva così
scarsa italianità che la sua conquista, impossibile per cento
altre ragioni, sarebbe sembrata a tutti il trionfo di un'impresa
straniera; la Savoia più francese che italiana, senza vita
civile, povera e rapace, non si era ancora abbastanza mescolata
nella storia nazionale: come mai Venezia, Napoli, Firenze e Milano
avrebbero ceduto a Torino o a Chambéry? Milano limitata dal
Po, stretta fra le forze marittime di Venezia e quelle montanare
della Savoia, non avrebbe potuto sdoppiarsi abbastanza per dominarle
entrambe; Firenze, scettica e coltissima, sfuggiva nella Toscana con
incomparabile destrezza a tutte le prese; Venezia, bizantina e quasi
ieratica nella propria organizzazione, non poteva mutarla per
assoggettare l'Italia senza prima suicidarsi. Ma Roma sopratutto,
caduta naturalmente nella signoria del papa, non poteva essere
conquistata da nessun principe senza una rivoluzione religiosa che
disarmasse il pontefice in faccia ai popoli; e senza Roma o contro
Roma ogni unità italiana era assurda. La rivoluzione del
regno non poteva uscire in Italia da quella dei principati: troppe
differenze regionali separavano tutti questi piccoli stati,
rendendoli fra loro più stranieri che non con tutto il resto
d'Europa: nessuna republica o dinastia o lega o matrimonio avrebbero
bastato nemmeno a riunire l'Italia in due o tre corpi.
Se la Spagna, federale come l'Italia, aveva raggiunto con Ferdinando
d'Aragona e con Isabella di Castiglia l'unità regia, era
questo un frutto della lunga guerra sostenuta contro gli arabi e i
mori, nella quale la necessità della difesa tendendo sempre
all'unificazione doveva fatalmente fargliela trovare nella conquista
dell'indipendenza; poi la Spagna aveva un forte sentimento
religioso, reso più vivo dall'urto secolare col
maomettanismo, e invece l'Italia scettica subiva piuttosto
l'influsso del papato politico che del cattolicismo.
D'altronde nella storia europea un regno italico del secolo XV
sarebbe stato senza scopo e senza significato: l'unità
italiana avrebbe dominato colla superiorità della propria
forza spirituale tutta l'Europa, riproducendovi la tirannia romana
ed impedendo l'individualizzarsi delle altre nazioni, mentre il
papato soppresso in Italia da una impossibile unità regia o
republicana avrebbe reso egualmente impossibile nella riforma
quell'ideale tragedia, dalla quale la coscienza europea doveva
derivare la libertà religiosa a fondamento della
libertà politica.
L'Italia necessaria alla storia moderna, come la Grecia alla storia
antica, nel medesimo ufficio di elaborazione per tutte le idee e le
forme politiche, doveva somigliarle anche in questo: che non
arriverebbe colle proprie forze a conquistare l'unità
nazionale. Solamente l'Europa potrebbe costituire il regno italico
quando, creati colla riforma tedesca e le rivoluzioni inglese e
francese lo stato e il cittadino nella loro più pura
identità, discenderebbe poi a realizzarli dovunque
convergendo lo sforzo di tutte le proprie attività contro i
residui medioevali della propria storia. Individuo, stato,
umanità, il gran ternario della vita storica moderna, nella
quale ogni termine è identico e composto degli altri due,
impediva nel secolo XV all'Italia la sua unità nazionale.
L'interesse della storia europea e le necessità della
coscienza mondiale, aspettante dalle rivoluzioni germanica, inglese
e francese la liberazione dall'unità cattolica, dovevano
quindi valere e valsero più dell'interesse e della coscienza
italiana. La quale, smarrendo improvvisamente la logica infallibile
di tanti secoli di rivoluzioni, parve non comprendere più
quelle che si iniziavano dappertutto, e si perdette in una vita
altrettanto piena di avvenimenti che vuota di significati e di
ideali.
/# Lodovico il Moro e Alessandro Borgia. #/
Alla morte di Lorenzo dei Medici (1492) e di Innocenzo VIII la lega
dei principi italiani si ruppe. Altre gelosie si accesero fra Napoli
e Milano; Lodovico il Moro usurpatore del ducato al nipote Gian
Galeazzo con uno dei soliti drammi domestici, atterrito dalla nuova
lega stretta contro di lui da Venezia, Firenze, Roma e Napoli,
invocò contemporaneamente l'aiuto della Francia e
dell'imperatore Massimiliano. Questa, che fu chiamata perfidia ed
era la vecchia politica di tutte le rivoluzioni italiane, divenne il
grande atto della servitù italica. L'Italia corsa per tanti
secoli da invasioni d'ogni sorta, ne aveva sempre trionfato,
utilizzandole perfino nei peggiori disastri; ma, esaurita allora
nella propria potenzialità politica, si lasciò
prostrare dalla calata di Carlo VIII di Francia, quantunque
più effimera di quella di Enrico di Lussemburgo. Invano il
Moro spaventato dagli incredibili successi di re Carlo, che
ricordandosi importunamente di Valentina Visconti e di Carlo
d'Angiò pretendeva all'eredità di Milano e di Napoli e
traversava tutta Italia nel sogno trionfale dell'antico dominio
franco, cercò riparo alla propria imprudenza riannodando
contro di lui una lega anche più formidabile dell'altra,
contro la quale lo aveva invocato; invano, ricomponendosi dallo
sbalordimento dalla prima sorpresa, costrinse re Carlo a rientrare
in Francia dopo l'inutile vittoria di Fornovo. L'Italia incapace di
mutarsi in regno, deve finire preda delle nazioni vicine che lo sono
già o stanno per diventarlo. Infatti poco dopo Luigi XII
ridiscende le Alpi, fa prigioniero il Moro, penetra nel reame di
Napoli cogli spagnuoli di Ferdinando il Cattolico, ma invece di
spartirlo con lui secondo il trattato segreto, gli si volta contro,
per tenerselo intero come vecchia appendice del ducato
d'Angiò.
L'indipendenza della federazione italiana, così sicura poco
prima, ha perduto i due più grossi stati; la sua vita chiusa
nella parentesi di una conquista francese prova già i primi
sintomi dell'asfissia. Il suo avvenire politico è chiuso.
L'appello del Moro all'imperatore Massimiliano non può
rievocare la vecchia dominazione imperiale, ma un'altra ne sorge a
Roma con Alessandro Borgia, empio fra i più empi ed accorti
pontefici. Poichè il papato si era assiso in Roma e in alcune
sue provincie come una signoria destinata a svolgersi
quotidianamente in principato, sente d'un tratto crescersi la
necessità del regno. Milano soggiogata, Napoli caduta,
Firenze respinta nel passato dalla nuova espulsione dei Medici,
suggeriscono fatalmente alla politica del Vaticano il disegno di una
conquista, che, slargando i confini del principato, dia alla chiesa
l'estensione e l'importanza di un regno. I vecchi titoli delle
donazioni di Carlomagno e di Ottone sono ancora là per
giustificare qualunque impresa. Ma Alessandro Borgia, insignoritosi
del pontificato colla perfidia di un Gabrino Fondulo, interpreta
questa idea politica colla propria passione di avventuriero,
sognando di costituire entro la chiesa e contro la chiesa un grosso
ducato al proprio figlio Valentino, maggiore di lui nella
profondità satanica dell'ingegno e nella potenza delle armi.
La inconciliabile antitesi di quest'impresa sfugge non solo ai due
Borgia, ma al Machiavelli. Il duca Valentino raddoppia invano
eroismi, sfolgorando nelle vittorie, scivolando attraverso ogni
combinazione politica, impadronendosi della Romagna, pacificandola
con un mirabile governo. Il suo genio multiplo e indomabile resiste
a tutti i rovesci, gira gli ostacoli che non si lasciano abbattere,
finchè Alessandro Borgia muore e il Valentino, ammalato, ha
appena il tempo di fuggire, lanciando alla storia, che rovescia
l'edificio del suo sogno, la sfida di un orgoglio sempre superiore a
tutti gli avvenimenti.
Ma il papato con a capo Giulio II, il forte nemico dei Borgia,
prosegue nell'idea del regno senza contraddizioni di ducati
domestici. La restaurazione pontificia si presenta come l'ultima
forza e gloria dell'Italia. Solo il papato, sostenuto dal proprio
principio religioso contro le pretese di tutta l'Europa cattolica,
può impedire che l'Italia, incapace della propria
unità nazionale, non si unifichi come provincia conquistata
da qualche regno straniero. La necessità per il papato di
costituire un regno salva l'Italia: Giulio II, presentandosi come il
restauratore di quello, si precipita vecchio nella lotta coll'ardore
di un giovane eroe. Poichè Venezia si è dilatata nelle
Romagne idealmente acquisite alla chiesa dalle imprese dei Borgia,
egli si avventa sulla republica: al tempo stesso veemente e profondo
nella politica, riunisce contro l'altera republica nella lega di
Cambray (1508) l'imperatore Massimiliano, re Luigi XII e Ferdinando
il Cattolico; la republica resiste intrepidamente a questo sforzo di
tutta l'Europa, ma vinta alla battaglia di Agnadello perde in un'ora
le conquiste di un secolo. Il grande principato della chiesa
è costituito; Bologna e Perugia vi sono perite prima; il
ducato di Urbino ne è un vassallaggio che riproduce nella
politica di Giulio II l'errore capitale di quella dei Borgia,
inevitabile allora nel trapasso dei principati ai regni. Ferrara,
agognata e minacciata, diventerà presto o tardi il forte
baluardo del regno pontificio al nord.
Infatti Giulio II, sdegnato e pensoso dell'opera francese, si stacca
dalla lega di Cambray per stringerne un'altra contro la Francia con
Venezia, Ferdinando e gli svizzeri. Massimiliano rappattumatosi per
denaro coi veneziani abbandona i francesi, che perdono alla
battaglia di Ravenna tutti i vantaggi ottenuti da quella di
Agnadello. Genova, che aveva tentato invano nel 1506 una rivolta
contro di essi con Paolo da Novi, doge plebeo alla testa della
plebe, la compie ora (1512) con Giano Fregoso; Massimiliano Sforza
rientra trionfalmente a Milano piuttosto come vicario imperiale che
quale duca indipendente; Firenze riconquista Pisa toltale dalla
prima invasione di Carlo VIII, e perde nella seconda maggiore
signoria dei Medici la repubblica improvvisata dall'eroismo
religioso e dalla demenza politica di frate Savonarola. Tutte le
altre piccole signorie o republiche attardate hanno dovuto
capitolare in questa ultima crisi dei principati. Solo la chiesa
è uscita trionfante dall'arringo perchè sola in Italia
ha un'idea necessaria all'Europa e una forma politica da
conquistare; ma Giulio II, aprendo il gran secolo cui Leone X
darà il nome, non sospetta nemmeno che la ristorazione del
papato, mal giudicato poi dal Machiavelli e da tutti gli storici
posteriori, debba fatalmente coincidere colla Riforma di Lutero.
Poichè l'Italia cessando di capitanare il progresso europeo
non può come la Grecia ritirarsi dalla storia, svolge
mirabilmente e consolida nel regno papale l'ostacolo necessario alla
Riforma; quindi disciplina la tradizione cattolica, costringe i papi
alla costituzione di un regno e li pareggia ai grandi re per dare
loro l'indipendenza necessaria ad una tirannia ideale. La Riforma,
già scoppiata inavvertitamente in Germania, si troverà
così dinanzi riunite le due vecchie idee del papato e
dell'impero per meglio vincerle in una guerra secolare, emancipando
per sempre il pensiero politico e religioso nella storia. Il papato,
costretto dalla vita italiana a mutarsi in piccolo reame,
rivelerà più facilmente tutte le proprie brutture e
inconciliabili contraddizioni ideali; l'impero, invocandolo, ne
diverrà il gendarme invano prepotente; tutte le
libertà e l'avvenire saranno dal canto della Riforma, tutte
le servitù e il passato dietro Roma; mentre l'Italia inerte
spettatrice dell'immensa lotta, della quale gli episodi
insanguineranno le sue contrade, sembrerà perdervi ogni
indipendenza di pensiero e di vita pur conservando nella vicenda di
soggezione a stranieri, spesso mutati e sempre inevitabili, la fede
di una futura unità nazionale in tre regni sopravviventi fra
le rovine dei principati, la Savoia, le due Sicilie e la Chiesa.
Leone X e Lutero.
La restaurazione di Giulio II non si arresta alla sua morte,
perchè le vere idee politiche s'incarnano, ma non si
subordinano agli individui.
Il suo successore Leone X, meno vasto nell'ingegno e forte nel
carattere, ha tutte le qualità necessarie al proprio periodo.
Se la casa dei Medici, d'onde esce, gli apprende la vanità di
Alessandro Borgia inteso a costruire nelle Romagne un ducato al
proprio figlio Valentino, l'opera di Giulio lo persuade come lo
stato della chiesa non possa più essere distratto in alcuna
combinazione domestica: quindi, abolendo la republica fiorentina e
reintegrando i propri nipoti in una signoria male dissimulata,
coordina la politica italiana a quella della chiesa. Senza la
tirannia dei Medici Firenze sarebbe stata conquistata dalla Spagna o
dalla Francia come Napoli e Milano. Solo il papato, caduto in mano
ai Medici nell'ora in cui doveva comporsi a regno, poteva dare a
Firenze quell'immunità che salvava le terre della chiesa. La
Savoia e Venezia, quella troppo alta, questa troppo marittima,
entrambe ai confini d'Italia, potevano evitare la servitù
minacciata a tutta la penisola; Firenze posta come un ostacolo fra
la conquista napoletana e la lombarda avrebbe dovuto esservi
fatalmente assimilata nella voracità delle prime guerre senza
l'intervento di una potenza superiore. I pontefici medicei furono i
suoi patroni. Leone X anzichè liberarsi del sogno di
Alessandro Borgia lo ripetè ad Urbino, raddoppiandolo a
Parma; ma nelle tergiversazioni della sua politica, ove
s'imbrogliarono poi tanti storici, non fece che cedere all'inconscia
necessità di opporre gli uni agli altri i nuovi conquistatori
d'Italia, ingrandendo nei loro reciproci disastri il regno della
chiesa, alzandolo nella storia come una nuova Palestina sacra a
tutti i credenti, e nella quale Roma sarebbe stata piuttosto Atene
che Gerusalemme.
Le contraddizioni ideali del papato si urtarono quindi nella
maggiore delle crisi. Mentre come regno costringeva la politica di
Leone ad una corruttela assassina, che lo scetticismo epicureo di
una corte formicolante di pittori, di letterati e di cortigiane
commentava anche più impuramente; come istituzione divina
sollevandosi al di sopra dei vecchi credenti e dei nuovi eretici
acquistava una compattezza ed una personalità senza riscontro
in tutta la sua storia. La nuova inevitabile tirannia ideale,
colorandosi di tutte le infamie della tirannia politica, dava alle
critiche della Riforma la giustezza, la precisione necessaria a
coordinare nella storia tutte le ribellioni spirituali esaurentisi
da tanti anni in drammi inutili ed incompresi. La Riforma era la
sovranità dell'individuo cristiano in faccia a Dio, il papato
era la subordinazione di Dio e del credente nell'interpretazione
vaticana; qualunque applicazione della libertà, anche
contraddicendola, doveva venire dalla Riforma, tutte le resistenze
autoritarie sarebbero inspirate e legittimate dal papato.
Il suo regno, sembrando contrastare alla formazione del regno
italico, per una critica più acuta fu invece il solo ostacolo
alla conquista spagnuola dell'Italia, che avrebbe ridotta la grande
patria della federazione ad un'unità senza vita e senza
fisonomia. L'egoismo del papato costretto a difendersi da tutte le
aggressioni impedì la totalità di ogni conquista
straniera. Il vario concetto dei papi nell'ubbidire a questa storica
necessità (e alcuni fra essi avrebbero voluto magari la
rovina d'Italia e nessuno di loro pensò mai all'interesse
della grande patria italiana) non mutò l'opera del papato.
Quindi la storia, come scienza di un sistema nel quale i fatti
derivano dalle idee e si compiono coll'assorbimento di tutte le
passioni, deve oggi affermarlo serenamente al disopra degli ultimi
clamori ghibellini e giacobini, che insultano nel papato, già
libero dal proprio potere temporale, gl'inutili e criminosi
impedimenti da esso opposti alla recente formazione del regno
nazionale.
Al momento della Riforma l'espansione francese, dovuta semplicemente
alla superiorità del suo governo unitario su quello federale
germanico nella prontezza delle mosse politiche e militari, deve
cedere dinanzi alla necessità ideale che richiama nella lotta
la vecchia idea dell'impero. La restaurazione pontificia di Giulio
II si abbina alla restaurazione imperiale di Carlo V. Non è
più l'Italia che lotta contro questi due poteri supremi, ma
la Germania: l'ira cristiana di Dante diventa collera protestante
nel petto di Lutero. Alla morte di Luigi XII, invano ostinato
eroicamente alla conquista del milanese, e colla successione di
Francesco I, cavaliere valoroso e grottesco, si disegna sul fondo
del secolo la grande figura di Carlo V. Arciduca dei Paesi Bassi,
erede di Spagna e di Germania, egli diviene involontariamente la
sintesi dell'impero e l'ultimo imperatore. La Spagna riproduce in un
istante indimenticabile di gloria la vecchia unità romana
fusa nella nuova unità cattolica; ma la federazione, processo
moderno dell'individuazione degli stati, è dentro di essa, e
la Riforma, che deve formare l'individualità del cittadino
coll'emancipazione del credente, è dentro e fuori di essa.
L'espansione francese non ha e non può avere valore. Invano
Francesco I discende le Alpi, vince a Marignano, e compra dalla
viltà dell'ultimo Sforza per 30,000 scudi il ducato di
Milano; più invano minaccia il reame di Napoli e si
destreggia in una politica di leghe, nella quale i trattati
succedono ai trattati: Carlo V, comparendo sulla scena della storia,
lo rilega istantaneamente al secondo posto coll'imporgli la
fatalità di una guerra, nella quale la Francia deve
soccombere.
Infatti la scempia vanità di Francesco I aspirante all'impero
moltiplica i pretesti della lotta: la Spagna, già in possesso
di tutto il mezzogiorno d'Italia e coll'eredità dell'impero
germanico succeduta in ogni diritto dell'antico patto di Ottone, non
può evitare l'impresa di Milano. Leone X più duttile
di entrambi gli avversari offre a Francesco I il suo concorso per la
conquista di Napoli contro la cessione alla chiesa di tutto il
territorio di qua dal Garigliano, e a Carlo V la sua cooperazione
alla conquista di Milano contro la cessione di Parma e Piacenza e la
conferma di Reggio e Modena. Carlo V, più largo, stringe il
patto col pontefice. La guerra si accende nella Navarra, nel
Lussemburgo, in Italia; è sospesa alla morte di Leone (1521),
ricomincia con Adriano VI, si complica colla diserzione del Borbone,
si allunga coll'inutile spedizione del Bonnivet nel Milanese e colla
fallita invasione in Provenza del Borbone, finchè si chiude
col più terribile disastro francese a Pavia. Francesco I
vinto e prigioniero lascia l'Italia alla Spagna. Clemente VII, un
altro Medici succeduto a Leone, meno splendido, ma forse più
astuto, che aveva stretto un nuovo patto con Francesco I
all'ultim'ora, si trova solo e nemico contro il vincente imperatore,
al quale la Riforma impone di allearsi con Roma. L'equivoco di tale
politica doveva presto dissiparsi nella chiarezza ideale della
storia, ma il suo imbroglio supremo fu tale che Guicciardini, la
testa più forte di allora, vi si perdette e Machiavelli ne
delirò.
La dominazione spagnuola mise i tremiti della paura in tutti i
principati italiani raggruppandoli in una lega, nella quale tutti
sentendosi egualmente perduti trattavano separatamente e
segretamente coll'imperatore per aprirsi una via di salvezza. Le
idee più pazze si urtarono nelle più incredibili
combinazioni; il Morone voleva offrire la corona d'Italia al
marchese di Pescara, generale dell'imperatore e con questi
imbronciato; il Machiavelli proponeva un esercito nazionale con alla
testa Giovanni dalle Bande Nere: il senato di Milano inerme,
credendo ancora nello Sforza, il più inetto fra gli inetti,
ricusava di assumere il governo in nome dell'imperatore; poi il
Frundsberg calava le Alpi coi lanzichenecchi per strangolare il
papa, il cardinale Colonna a capo di ottocento cavalieri e tremila
fanti assaltava Clemente VII nel Vaticano, il Borbone dava il sacco
a Roma; mentre Firenze ritentava per l'ultima volta l'insana prova
della republica, e Andrea Doria pari all'antico Timoleone e al
futuro Washington, grande di ragione nella follia di tutti, liberava
Genova colla gloria dei propri trionfi e coll'eroismo della propria
virtù.
Ma il papa si sottopose finalmente alla Spagna ottenendone nel
trattato di Barcellona quanto nessuna vittoria avrebbe mai potuto
dargli; il suo stato, l'esarcato, il dominio su Roma, persino quello
alto sulle due Sicilie, tutto gli fu riconfermato. Carlo V non gli
chiese che l'incoronazione a Bologna e l'anatema contro gli eretici.
La nuova incoronazione non era più il riconoscimento del
vecchio impero romano risorto in quello di Carlomagno o nell'altro
di Ottone, ma l'estremo patto delle due supreme autorità
politica e religiosa egualmente minacciate dalla Riforma e
minaccianti contro di essa. L'impero unitario di Carlo V poteva e
doveva presto scindersi, ma il patto del pontefice si sarebbe
ripetuto con tutti i re contro l'emancipazione di tutti i popoli,
finchè la rivoluzione trionfante, attirando quelli nella
propria orbita e costringendo il loro interesse nel proprio, li
ribellasse contro il pontefice. In quel giorno il regno dei papi
diventato inutile nella storia sarebbe condannato, e la sua
disparizione avverrebbe come una scena del gran dramma
rivoluzionario nell'ora e colla decorazione prestabilita.
Col nuovo patto fra la chiesa e l'impero, la geografia e la storia
italiana rimangono definitivamente fissate: Venezia possiede quanto
aveva perduto contro la lega di Cambray; il Milanese sotto il
larvato governo dell'ultimo Sforza, e le due Sicilie appartengono
alla Spagna; la Savoia, cresciuta fra i disastri degli altri, ha
inghiottito quasi tutto il Monferrato; Mantova è fatta
ducato; Firenze si prepara a trasformarsi in un granducato sotto i
Medici dopo l'inutile eroismo di una resistenza republicana, nella
quale la nullaggine dell'idea sarà ancora superata dalla
scempia volgarità politica del suo processo; Genova
republicana come Venezia, Siena con un fantasma di signoria, Bologna
con una larva di libertà guelfa, Lucca con un'apparenza di
libertà ghibellina, tutte piegano sotto il patronato della
Spagna abbastanza forte per rattenervi ogni regionale
velleità conquistatrice, e abbastanza indulgente per
rispettarvi le forme del federalismo sempre necessariamente protetto
dal papa.
La corruzione di quest'epoca meravigliosa, cominciata coi Borgia e
finita coi Medici, è una conseguenza fatale della sua
liquidazione politica: le grandi qualità del carattere e
dell'ingegno mancano a tutti i suoi più illustri individui,
se le si tolgono Michelangelo e Andrea Doria; la mobilità
degli eventi, l'assenza delle idee, l'impossibilità di ogni
originalità, annullano tutti gli ingegni, dominano tutti i
temperamenti. La pittura rifugiata nella bellezza soccombe alla
tragedia che agita l'anima di Michelangelo, la poesia muore
nell'ironia inconsapevole dell'Ariosto, la Riforma brucia nel rogo
acceso dalla demenza di Savonarola, la politica delira nelle formole
di Machiavelli, la storia si distende come una trama patente, ma
incomprensibile davanti allo sguardo di Guicciardini, la religione
muta il proprio rito in carnevale per le aule vaticane, la coscienza
regionale politica, che aveva creato dei partigiani come Dante, non
produce più che dei diplomatici come il Morone.
Dopo l'esclamazione di Leonardo da Vinci: io servo chi mi paga! il
Giovio tempera una penna d'argento e una penna d'oro a seconda del
prezzo pel quale deve scrivere; e con più inconsapevole
modernità Pietro Aretino, supremo condottiero della stampa,
vi riassume il genio e la perfidia dei condottieri delle battaglie
colla stessa imparzialità mercantile.
La liquidazione italiana è compiuta; gli ultimi conati delle
città, ancora indipendenti o quasi, sono cessati. La follia
republicana di Savonarola non dura più che nei sommessi
rimpianti degli ultimi Piagnoni; l'obbedienza vicariale di Francesco
Sforza succede alla temeraria indipendenza di Lodovico il Moro; il
dramma di Squarcialupo in Sicilia s'acqueta come estrema convulsione
dell'uccisa casa d'Aragona; le tergiversazioni di Leone X e di
Clemente VII, ultimi tremiti del grande moto di Giulio II,
s'arrestano nella quiete stagnante che sorprende la vita italiana.
Il medio evo è conchiuso, tutti i vecchi partiti disarmati: i
signori non sono più che aristocratici, il cavaliere si muta
in gentiluomo aspettando da Baldassare Castiglione il nuovo codice
del Cortegiano: non più eroi, non più partigiani, non
più passioni. Le vecchie patrie sono scomparse, la nuova
grande patria non è ancora formata. L'uomo e il cittadino
sono in elaborazione, la futura libertà sarà
democratica, non republicana; la futura indipendenza dovrà
essere nazionale o non essere. L'immensa tragedia, che sta per
iniziarsi, si svolgerà nell'intimo della coscienza lungi dai
campi di battaglia e dalle riunioni politiche; in essa lo spirito
trionferà della morte nella libertà della scienza e
della religione.
Lodovico Ariosto e Nicolò Machiavelli.
Ma l'Italia decade.
Le sue arti, le sue scienze, la sua cultura sono ancora superiori a
quelle degli stranieri che la conquistano, ma la sua idea storica, o
meglio ancora l'esaurimento della sua idea, la condannano ad una
decadenza simile a quella dei greci sorpresi dai romani, o dei
romani assaliti dai barbari e dai cristiani. La sua forza federale
resiste come stadio dell'individuazione dello stato, ma si arresta
nell'impossibilità del regno; il suo papato vi arriva ma
creando in se stesso l'antitesi nella quale deve soccombere: tutte
le sue originalità sono finite, le sue virtù non hanno
più campo, i suoi vizi ne hanno troppo. Nullameno l'Italia,
sicura di non morire, non ha nè languori d'infermo, nè
malinconie di condannato; e mentre l'esaltazione religiosa della
Germania, precipitantesi nella nuova lotta ideale, oltrepassa i
limiti del delirio per cadere in quelli del grottesco, essa sdoppia
in due uomini tutta l'incredulità del proprio carattere e del
proprio pensiero: Ariosto e Machiavelli.
L'Ariosto sogna, sorride, ride, deride: il suo poema si svolge in
tutti i luoghi, fra un tumulto di scene nel panorama mobile di una
decorazione, che mette la stessa verità nel fantastico e nel
reale, accorda la medesima importanza a tutti gli episodi, prodiga
la stessa bellezza a tutti i temi. Il disordine è la sua
legge, la vivacità è la sua vita; senza principio e
senza fine, non ha nè ideali, nè trama. Uno stesso
sogno evoca tutto il medio evo, e una stessa derisione lo annienta:
gli uomini vi sono trattati come le donne, nessuna impresa meglio
condotta di una avventura, nessuna verità più sicura
della follia. Il poeta si muove attraverso i propri canti urtandoli
e scomponendoli, indifferente alle macchie di sangue e ai profumi
dei fiori, distribuendo il medesimo sorriso alle figure più
delicate e alle più impure, come un incantatore incantato
egli stesso dalla forza del proprio incantesimo. Se il suo cervello
è pieno, la sua coscienza è vuota: la nazione, cui
appartiene, non ha nulla da dirgli, nè egli nulla da
risponderle. Così la vita diventa per lui una fantasmagoria,
che l'arte coglie senza dare alle proprie immagini maggior valore
che non ne abbiano gli oggetti; Dio è un fantasma come gli
altri, la patria un palcoscenico per dei personaggi immaginari, la
virtù un costume di cavaliere e di dama, il vizio il fondo
bestiale necessario a tutti gli animali anche umani. Le passioni,
che sono sempre il fuoco di una idea acceso entro un cuore o entro
un cervello, non illuminano e non bruciano mai le pagine del poeta:
nulla è vero perchè tutto è effimero, ma tutto
è bello perchè apparente. E il poeta, che ride di
tutto, non sorride che alla bellezza di una parola o di un
sentimento, di un paesaggio o di una figura, di una voce o di un
verso. La sua sensibilità è così mobile e
sincera, così pronta e fugace, che le lagrime si mescolano al
riso e l'entusiasmo all'ironia; spesso, anzi troppo spesso, lo si
vede sottrarsi alla commozione di una tenerezza con un motto osceno,
o ergersi da una situazione scabrosa con uno scatto eroico. La sua
anima di poeta non aspira a nulla, non rimpiange nulla, trastullata,
beata nel giuoco radiante e sonoro delle apparenze, che confondono
mitologia e storia, maghi e santi, epoche e religioni in un ateismo
inconsapevole della propria decadenza, in un abbandono ignaro della
propria abdicazione. Mentre Lutero, trascinando l'umanità
nella teologia, la spinge a morire per la verità di certe
interpretazioni dei libri santi coll'entusiasmo tragico di una
libera fede, che riprendendo il dialogo interrotto dell'uomo con Dio
rinsalda la catena del progresso storico spezzata in Italia; il
grande poeta italiano, ignaro della rivoluzione germanica, sogna,
sorride, ride, deride, e conoscendola seguiterebbe egualmente a
sognare, sorridere, ridere e deridere. Per la coscienza poetica
dell'Ariosto non vi sono che apparenze, delle quali l'unica
verità è la bellezza; per la coscienza politica di
Machiavelli non vi sono che combinazioni, delle quali l'unica
verità è il successo.
Segretario di secondo grado nella republica, portato alla politica
piuttosto dalla passione del temperamento che dalle attitudini
dell'ingegno, Machiavelli non vi reca nè coscienza, nè
idealità, nè metodo. L'ateismo del suo spirito,
togliendo ogni significato alla vita e alla storia, non scorge in
entrambe che una lotta di forme, nella quale la vittoria resta
sempre e fatalmente al più forte. Il mondo non ha per
Machiavelli nè disegno, nè scopo. Tutti gli uomini vi
sono uguali in tutte le epoche. La marcia dell'umanità nella
storia si cangia in una ridda intorno al potere politico, che tutti
agognano, e pochi forti o robusti conquistano. Secondo lui l'uomo
non ha che passioni e interessi: il governo dello stato non è
quindi che governo di passioni e di interessi individuali. Famiglia,
comune, regione, stato, umanità non esistono che come cornice
insignificante, entro la quale le forze aggressive degli individui
si danno libera carriera. La storia antica è così
uguale alla moderna che basterebbe riprodurne i successi ed evitarne
gli errori per aver sempre ragione di tutto e di tutti. Così
il Principe, codice della scienza politica di Machiavelli, è
un repertorio di massime per dominare tutti gli eventi e raggiungere
tutti gli scopi, maneggiando, ingannando, assoggettando, massacrando
gli individui. Ogni epoca, ogni fatto, vi è considerato
solitario e come prodotto dell'abilità o dell'inettitudine
d'un uomo. La morale vi è assente, ma più assente di
essa la storia e la filosofia. Il popolo non pensa, perchè il
sovrano pensa per tutti pensando a sè solo; l'impero è
il rapporto di una coscienza egoistica con una incoscienza
universale. Ma questo codice della politica, questo catechismo della
tirannia e della rivolta, sempre egualmente considerate come
interessi avversari, separato dalla vita e dalla storia, si risolve
in un commentario di entrambe, altrettanto falso che inutile. I suoi
precetti vuoti, le sue regole astratte, i suoi consigli a doppio
senso, sono come i teoremi ingegnosamente sterili dell'arte poetica:
invece di servire ad opere future, sono modi frammentari di opere
passate; l'imitazione vi resta confusa coll'invenzione; il dato
inconscio di ogni creazione, il genio e il carattere dell'ambiente e
dell'uomo, vi sono assolutamente trascurati.
Laonde Machiavelli, che si erige a maestro di tutti i furbi, rimane
il più ingenuo di tutti i politici nell'azione del proprio
tempo, non comprende, non prevede, non giunge a nulla. La sua vita
è una successione di disinganni e di miserie. Assetato di
comando, non riesce nemmeno a rendere accetta la propria obbedienza,
aderisce da volgare impiegato alla republica di Soderini senza
indovinare l'imminente ristorazione dei Medici; si dà aria di
capitano, e la sua Ordinanza è sconfitta a Prato nel modo
più ridicolo; interrogato dal cardinale Clemente, rettore di
Firenze per Leone X sul migliore assetto di governo in Firenze, gli
consiglia la republica e dedica contemporaneamente il Principe a
Giuliano dei Medici per insegnargli le arti del dispotismo col
modello del Valentino; trascinato dalla rettorica del proprio
temperamento artistico si trova involontariamente mescolato nella
congiura del Boscoli, e n'esce colla più ignobile
servilità; spaventato da questo disastro non osa partecipare
alla congiura del Soderini, e si acconcia come scrittore di storie
sotto i Medici, invocando sempre inutilmente da essi un impiego e
mentendo sovra di essi nelle storie come il più ordinario
cortigiano. Il suo odio non è che per il clero e il suo
disprezzo per la religione, della quale non sente e non comprende lo
spirito. Come contemporaneo di Savonarola coglie in lui la demenza
non l'idea della Riforma; come legato in Germania non vi sospetta
nemmeno la rivoluzione che muterà il mondo. Il suo
patriottismo non ha che la sincerità di un calore poetico, il
quale si agghiaccia a ogni difficoltà. Quindi, non prevedendo
la rivolta contro il cardinale Passerini e l'ultima cacciata dei
Medici, viene isolato, maledetto da tutti, e muore incompreso anche
a se medesimo.
Le sue lettere politiche sono la più terribile critica della
sua incapacità al governo: nessuna previdenza o intelligenza
dei fatti in esse; nella discesa di Carlo VIII non vede il preludio
della decadenza italica; l'invasione di Luigi XII, che chiude
l'Italia nella parentesi di una doppia conquista, gli sembra
naturale, lodevole, degna della propria collaborazione, se non vi
fosse quell'errore di non voler colonizzare la Lombardia
asportandone gli abitanti e trasportandovi francesi secondo l'uso
degli antichi. Si entusiasma del Valentino e, non accorgendosi
dell'antitesi della sua opera, la crede stabile, mentre sparisce
nell'intervallo di un conclave; non indovina la lega di Cambray, la
sconfitta di Venezia, la ristaurazione di Giulio II, la cacciata
ultima dei francesi. Al momento in cui Lutero tuona sul mondo e
Carlo V vi domina coll'immensa espansione spagnuola, teme che gli
svizzeri possano invadere l'Italia riducendola a servitù; al
momento di morire crede consunto il papato, e il papato è
già divenuto l'ultima forza italiana, e la scoperta di questa
idea sarà la gloria del Giovio. La sua migliore fantasia, il
suo concetto più vuoto e meno conscio, è
l'unità d'Italia, per la quale non ha nè disegno
nè metodo. Nelle proprie storie non ha còlto il
carattere nei tentativi impossibili dei goti, dei longobardi, dei
Berengari, dei Romano, dei Visconti, degli Scaligeri, di Ladislao,
dei veneziani, di Luigi XII; non ha compreso l'incapacità e
l'impossibilità del regno in Italia, ha fallato sull'azione
del papato, gli è sfuggita quella delle republiche e dei
principati; e non pertanto l'ardore della sua fantasia, la luce del
suo ingegno, trionfano di tutti questi errori coll'assurdo,
strappandogli dalla penna la più bella, sincera e candida
invocazione all'unità d'Italia, simile ad una profezia del
Petrarca, e che si chiude con quattro versi del Petrarca.
Come l'Ariosto, Machiavelli non ha capito il proprio tempo, e lo ha
interpretato coll'immaginazione; la poesia dell'uno e la politica
dell'altro sono identiche: nessuna virtù, nessun ideale,
nessuna idea. Gli eroi di Machiavelli uccidono colla medesima
insensibilità di quelli dell'Ariosto; storia e poema sono una
stessa successione di scene, nelle quali l'interesse è tutto
nell'azione sempre interrotta e sempre ricominciata; nè il
popolo, nè la coscienza esistono per loro. Chi vince ha
ragione, e vince sempre il più forte; ma vittoria e sconfitta
non mutano nulla al dramma che non va al di là della scena, e
non lasciano conseguenze perchè non contengono concetti. I
due ingegni dell'Ariosto e del Machiavelli si assomigliano; entrambi
poetici, sereni, insensibili, fatti di arte e nell'arte, plastici e
colorati, danno rilievo a tutto che disegnano: non credono a nulla,
non si appassionano di nulla. Ariosto e Machiavelli contemporanei
s'ignorano: trasportandoli in Germania, dove si elabora la nuova
coscienza, si crederebbero in un manicomio; nella superbia della
propria destrezza e della propria empietà non
comprenderebbero nè la più piccola delle angoscie,
nè la meno pura delle esigenze della nuova tragedia religiosa
e politica. La loro mancanza di fede e la loro inconsapevolezza sono
una conseguenza delle condizioni italiane: nè Ariosto,
nè Machiavelli intendono Dante, l'ultima fede del quale
è morta col misticismo di Colombo. Ariosto e Machiavelli sono
già cortigiani senza più alcuna delle antiche fierezze
dei partigiani o dei cittadini comunali: ambedue si sentono mancare
sotto l'Italia; e, non potendo afferrarne la ragione, il primo, che
è un poeta della vita, ripara nel sogno, il secondo, che
è un poeta della politica, sogna la tirannia su tutti gli
avvenimenti con un codice di massime come gli alchimisti si
preparano a sognare il dispotismo sulla natura colla pietra
filosofale.
La retrogradazione d'Italia.
Ma se l'Italia passa nel 1530 alla coda della storia politica
d'Europa, dalla caduta dell'impero romano all'avvento della riforma,
ne è stata non solo l'avanguardia ma il centro ideale. Senza
l'Italia, nella quale sorgono e si urtano i due termini dell'impero
e del papato, gigantesche pile su cui l'umanità getta il
ponte dalla propria storia antica alla storia moderna, la vita
europea non avrebbe avuto nè tradizione, nè progresso.
Dall'Italia si diffonde la conversione cristiana e quella parte di
cultura romana che può sopravvivere; in Italia spuntano le
originalità della nuova creazione; sull'Italia basa l'impero
che rattiene ancora nel mondo l'unità necessaria alla
diffusione del cristianesimo e al federalismo generatore degli stati
moderni. Tutte le altre nazioni, dalla Russia all'Inghilterra, dalla
Scandinavia all'Ungheria, dalla Spagna, che respinge l'oriente, alla
Francia, che resiste a tutti, hanno d'uopo della idea italiana, e
domandano all'Italia il segreto della propria vita, aspettano
dall'Italia il segnale delle proprie rivoluzioni. Tutte le
legislazioni europee s'informano del doppio elemento cristiano e
romano: al di sopra di tutte le anime sta il papa, alla testa di
tutti i duci l'imperatore. Senza le due formole italiane della
chiesa e dell'impero l'Europa non sarebbe uscita dal caos; senza
Roma il mondo antico dispare e il mondo moderno non appare; senza la
contraddizione ideale del papa e dell'imperatore la feudalità
è invincibile per il popolo, e senza la loro duplice
unità le coscienze ricadono dalla storia nella natura.
Per tutto il medio evo l'Italia è il centro, la passione, la
ragione d'Europa, elabora le leggi del mondo, salva
l'antichità, prepara l'avvenire, arma il clero, consacra e
sconsacra imperatori, spinge e rattiene i popoli, diffonde la
religione, maneggia la politica, prodiga capolavori d'ogni genere,
resiste a tutti i modi della sventura: illumina e riscalda, pensa e
sente, mantiene per un processo infallibile e misterioso al proprio
pensiero e al proprio sentimento il carattere
dell'universalità.
Ma nel 1530 l'Europa moderna è creata; e il grande ufficio
storico dell'Italia si limita a mutare il papato e l'impero in
ostacolo, per dare alla Riforma l'obbiettivo e l'energia di se
stessa. La storia italiana, che procedeva con febbrile
rapidità di rivoluzione in rivoluzione, si arresta quindi coi
propri principati sotto la conquista spagnuola, mutandosi in una
cronaca di Torino, di Roma o di Napoli. Venezia dura, non vive;
Firenze vive, non crea; Roma governa, non regna; Napoli regna e
governa inutilmente; Torino regna e governa oscuramente. La
tragedia, nazionale in Germania, in Inghilterra e in Francia,
discende a dramma individuale in Italia, giacchè il suo
spirito troppo superficiale nel secolo di Leone X si è
rituffato nelle proprie insondabili profondità sino al gran
giorno, nel quale Napoleone I alla testa della rivoluzione francese
ritenterà la ricostituzione del regno.
LIBRO SECONDO
GLI STATI
Capitolo Primo.
L'epoca della Riforma in Itali
Condizioni spirituali.
Il nuovo progresso dell'Europa deriva da una più alta
interpretazione del cristianesimo, che, ricostituendo la
sovranità ideale degli individui e degli stati, rovescia le
storiche autorità della chiesa e dell'impero.
La corruzione della chiesa e l'organismo del papato sono le cause
occasionali della Riforma, ma il suo più profondo principio
è nell'emancipazione della fede cristiana per rimettere
l'uomo in faccia a Dio e a se medesimo. Le tre massime romane della
povertà, della castità e dell'obbedienza, che si
risolvevano nella sterilità del lavoro, della generazione e
della originalità individuale, vengono respinte; il clero,
non più solo padrone e distributore della verità
religiosa, è pareggiato al laicato e ricondotto nella vita
comune col matrimonio; la liberazione della coscienza religiosa
provoca la indipendenza dello stato dalla chiesa. L'individuo,
libero d'interpretare nella sincerità della propria coscienza
la rivelazione divina nei libri santi, vorrà per contraccolpo
interpretare tutte le leggi politiche e sociali sottomettendole ad
una critica, nella quale i privilegi si dissolveranno in una
giustizia superiore. Le esteriorità artistiche ed idolatre
del culto romano sembreranno una profanazione della persona divina,
le decorazioni feudali regie o imperiali di tutte le autorità
politiche non salveranno più l'insufficienza di nessun capo o
l'arbitrio di nessun ordine. La verità diventerà la
sola forza della legge, e l'inviolabilità dell'individuo il
principio supremo della nuova società.
Qualunque sia dunque il dibattito fra Roma e la Riforma, a qualunque
particolare discenda, a qualunque punto si arresti, e la essenza
della sua polemica rimanga o no sconosciuta agli stessi campioni, la
nuova rivoluzione non è che un processo di libertà e
di liberazione spirituale. La coscienza religiosa, base della
coscienza civile, vuol essere superbamente, assolutamente libera: se
si attiene ancora ai testi santi, questa è la sua fede, non
la sua sudditanza; se non traduce istantaneamente questo principio
di libertà nella politica rovesciando il vecchio e grave
edificio feudale, solo la storia lo vieta poichè immatura al
grande atto. Ma nella plebe, sempre più logica d'istinti e
più sicura d'intuizioni, molti tentativi democratici saranno
fatti e soffocati nel sangue. La democrazia religiosa della Riforma,
uguagliando tutte le coscienze nella libera interpretazione della
Bibbia e sottoponendole solo alla scorta eterna della rivelazione,
sarà la causa e la base di tutte le democrazie future: la
sconfitta dell'ebraico, del greco, del latino, nella traduzione
della Bibbia e nelle preghiere recitate in lingua nazionale
rappresenta la sovranità legittima di un'epoca che deve
esprimere tutta se stessa col proprio linguaggio; la tirannia di
Roma, depositaria dell'unico processo di salvazione e carceriera
delle anime anche dopo la morte colla formula insidiosa e mercantile
del purgatorio, cadendo lascia scoperta in tutta la sua crudele
inanità quella dell'impero.
L'unità medioevale è dunque dissipata; il papato e
l'impero di ogni individuo si sostituiscono al papato di Roma e al
sacro romano impero. Lutero riprende raddoppiandola la parte e la
missione di Arminio, ma la sua rivoluzione è tutta chiusa
nella legalità della religione e della politica del tempo.
Nemmeno egli stesso misura l'estensione del proprio principio e
l'espansione del proprio fatto. La sua intelligenza martellata dalle
polemiche si restringe e si appunta come un cuneo, il suo cuore
inaridisce; a forza di mirare gli ostacoli, che gli si parano
davanti, non vede più l'infinita varietà dello
spettacolo che gli si svolge d'intorno. Quindi la Riforma di Lutero
si allarga con quella di Zuinglio; quegli vuol mantenere tutte le
dottrine non in aperta contraddizione colla Bibbia, questi riseca
dal codice religioso quanto non si può comprovare con essa:
il primo vuole conservata nell'eucaristia la presenza di Cristo, il
secondo la riduce ad un simbolismo appena commemorativo. Il
progresso è evidente. Lutero può trionfare nella
discussione col proprio avversario, e questi morire eroicamente alla
battaglia di Kappel fra i cantoni riformati e i cantoni cattolici,
poichè Guglielmo Forel a Ginevra si è già
associato con Giovanni Calvino, il più terribile logico della
Riforma, che la maneggia come una scure entro il vecchio edificio
feudale.
La Riforma, poco prima ruscello, non è più un torrente
ma un lago, un mare che sollevato da forze misteriose inonda e
sommerge quasi tutta l'Europa. Contraddizioni, battaglie, soste,
tradimenti, tutti i fatti l'assecondano. Nel colloquio di Augusta
col cardinale Gaetano, alla disputa di Lipsia coll'Eck, alla Dieta
di Worms, nel castello di Wartburg, colle Diete di Norimberga, di
Ratisbona, di Spira, Lutero cresce, si dilata, giganteggia. La
confessione Augustana è la sua tavola della legge in ventuno
articoli, la lega Smalcaldica fra i nuovi protestanti gli dà
un popolo e un esercito; le invasioni di Solimano in Ungheria, i
ritardi del pontefice alla convocazione del concilio, le
oscillazioni politiche di Carlo V costretto a bilanciare
perpetuamente tutte le forze antagoniste dell'impero, aumentano la
sua propaganda: le sconfitte della prima guerra Smalcaldica la
consacrano col sangue, l'interim di Augusta la riconosce
politicamente, il secondo tradimento di Maurizio di Sassonia contro
Carlo V la rinforza, finchè il trattato di Passavia e la pace
di Augusta nel 1555 le riconoscono la legittimità di fatto
storico.
Ma se la Riforma trionfa in Germania colla dialettica di Lutero, in
Svizzera col magnanimo buon senso di Zuinglio, a Ginevra colla
logica democratica di Calvino, in Olanda col genio politico di
Guglielmo d'Orange, in Inghilterra colla lussuria feroce di Arrigo
VIII, nella Scozia colla superba austerità di Knox, nella
Svezia col patriottismo dei Vasa, in Danimarca colla lealtà
dei principi di Holstein; la chiesa assalita risponde alla Riforma
colla riforma, accetta la guerra con tutte le armi e su tutti i
terreni. Con una intuizione rapida e una duttilità
meravigliosa il cattolicismo s'impossessa di tutte le insufficienze
e gli errori del protestantesimo: Lutero aveva sconfessato la
rivolta dei contadini morti eroicamente alla battaglia di
Königshofen contro gli eserciti della nobiltà tedesca, e
la chiesa dilata il principio della propria fraternità
evangelica improvvisando una democrazia che nelle sue formule
teologiche può andare fino al regicidio; quindi rafferma il
principio dell'autorità compromesso nella ricerca della
verità, deride la nuova interpretazione della Bibbia
abbandonata come in Inghilterra alla tirannia di un principe, o come
in Germania alla demenza della meditazione solitaria; contrappone
alla sterilità della nuova religione le glorie artistiche
della propria: alla legalità luterana, che soffoca la stessa
rivoluzione, contrasta con una illegalità, che ha salvato
cento volte il mondo ed esce vittoriosa da tutte le contraddizioni.
La Riforma, racchiudendo ogni uomo entro il proprio problema
religioso, allenta naturalmente i legami della carità e
raffredda l'ardore dell'apostolato; ma la chiesa, più antica
e più universale, si affretta a purificare le proprie
gerarchie, scema le turpitudini dei propri commerci religiosi,
riordina gl'istituti monastici, dirige la politica di tutte le
potenze rimaste cattoliche con una sicurezza di programmi e di mezzi
contraddittorii, che forzano il mondo all'ammirazione.
L'inquisizione rende la Spagna inaccessibile alla Riforma, Caterina
de' Medici salva la Francia nella notte di san Bartolomeo dalla
democrazia ugonotta collegata coi tedeschi, coi belgi, cogli
olandesi, cogl'inglesi, con tutti i nemici della patria; in Italia
la naturale empietà del carattere e lo scetticismo classico
sfuggono di per sè alla crisi. La varietà dell'ingegno
italiano, che nella scienza poteva andare dal sublime buon senso di
Galileo alle abbaglianti e bizzarre intuizioni di Cardano, si colora
nullameno alla Riforma, e vi si scorgono tosto Marco Antonio
Flaminio poeta latino: Jacopo Nardi storico; Renata d'Este moglie
del duca Ercole II; Lelio Socini, ingegno superiore a Lutero e a
Calvino, che la porta ben più alto fondando la setta degli
unitari; Bernardo Ochino e Pietro Martire Vermiglio teologo che
passeranno, questi alla università di Oxford, quegli nel
capitolo di Canterbury; Francesco Burlamacchi che ritenterà
l'impossibile impresa di Stefano Porcari e vi perirà martire
eroe; Pietro Carnesecchi e Aonio Paleario che vi perderanno entrambi
nobilmente la vita. Ma questo moto incomunicabile al popolo è
piuttosto una crisi del pensiero filosofico e scientifico,
naturalmente ritmata sulla grande rivoluzione germanica, che un
processo di purificazione e e di elevazione religiosa. Infatti
Giordano Bruno e Tommaso Campanella riassumendola, per quanto
vissuti e morti entro l'orbita di un ordine monastico, sono due
filosofi trascinati dalla speculazione oltre i confini non solo
della Riforma ma del cristianesimo stesso. Quindi il popolo rimane
così insensibile alla loro tragedia che sembra quasi
ignorarla; e nemmeno bastano le ultime sataniche ecatombi dei poveri
valdesi a scuotere la sua egoistica indifferenza.
Contraccolpi politici.
Dopo il congresso di Bologna, che nelle intenzioni di Clemente VII e
di Carlo V doveva pacificare l'Italia, le guerre vi ricominciano.
Papi ed imperatori, avversari per interessi e per indole, si
combattono ancora; tutti i pretesti servono ad una guerra senza
risultati perchè senza ragione. Le insofferenze dell'ultimo
Sforza, da vicario imperiale insuperbito a voler diventare duca
sovrano, e la successione del Monferrato occupata dall'imperatore,
quantunque contesa tra Gonzaga, Francesco di Saluzzo e Carlo III di
Savoia, sollecitano l'intervento della Francia. Questa spinge
l'indipendenza della propria nuova formula politica sino ad allearsi
con Solimano e ad associarsi colla sterminatrice pirateria di
Kaireddin Barbarossa. Ma dalla morte di Alessandro Medici,
assassinato da Lorenzino, sino alla battaglia di S. Quintino, vinta
da Emanuele Filiberto generale di Filippo II contro Montmorency,
maresciallo di Enrico II, il trambusto d'Italia non ha altri
avvenimenti politici che la costituzione del ducato di Parma e
Piacenza, ottenuta da Paolo III in favore del proprio figlio
Pierluigi Farnese, mostruoso tiranno; l'elezione a duca toscano di
Cosimo I, ammirabile figura di tiranno politico degno di assidersi
fra Tiberio e Filippo II e che abbatte Siena unificando tutta
Toscana sotto un governo spietato e sapiente; e la conquista di
quasi tutta la Savoia fatta dall'impetuoso Francesco I alla morte
del duca di Milano e per contesa di questo ducato, del quale Carlo V
investe il proprio figlio Filippo. Quindi la guerra tra Francia e
Spagna trascinata di battaglia in battaglia, di trattato in
trattato, sembra non giungere mai a una vera conclusione: si arresta
alla pace di Crépy (1544), ricomincia con Enrico II a Metz e
a Parma, si rallenta all'abdicazione di Carlo V, si riaccende
più fiera fra Enrico II e Filippo II, che Paolo IV priva
della investitura di Napoli in favore di un figlio di Francia, per
finire dopo la battaglia di San Quintino alla pace di
Cateau-Cambrésis (1559). Per essa i due re di Francia e di
Spagna giurano di associarsi contro la Riforma e di restituirsi
mutuamente i dominii perduti nell'ultima guerra. Emanuele Filiberto,
sposando Margherita di Francia, riacquista gli antichi stati e vi
disonora la propria gloria di soldato colla strage stupidamente
inutile dei valdesi.
L'Italia rimane dunque dopo tante guerre come alla pace preparatoria
di Crépy; Venezia non ha quasi azione di sorta in questo
periodo e si limita a destreggiarsi colla vecchia scienza di stato
condensata nella diplomazia; a Genova tre congiure scrollano invano
il governo fondato da Andrea Doria; nel reame di Napoli, in guerra
colla Santa Sede, si succedono Toledo, Alvarez e il duca d'Alba,
terribili e dispotici, che lo immobilizzano nella servitù; la
Corsica, invano emancipata da Sampiero, sta per ricadere sotto
Genova; i Medici fedeli alla grande idea di Lorenzo il Magnifico
mirano ad essere l'ago della bilancia italiana, importanti ed
immuni: Milano è il terzo stato della Spagna; la Savoia
ricostituita riprende il gioco contradditorio delle proprie alleanze
educando nella propria fortuna quella d'Italia. Mentre Emanuele
Filiberto e Cosimo de' Medici, ossequenti al consiglio di
Machiavelli, hanno già chiuso colla istituzione di
soldatesche nazionali il periodo dei condottieri, il papato sempre
in lotta colla Riforma, già emancipatasi dall'impero
coll'elezione di Ferdinando I, raduna finalmente il gran concilio di
Trento e fonda la milizia dei gesuiti.
I gesuiti.
Alla Riforma, che stabilisce il principio della democrazia moderna
pareggiando tutti gl'individui chierici e laici nella società
religiosa, il concilio di Trento risponde col riordinare la
disciplina ecclesiastica e col fissare la parte dottrinale del
cattolicismo contro l'interpretazione individuale del
protestantesimo. La chiesa compie così una delle proprie
maggiori rivoluzioni, proclamando la superiorità del papa sui
concili. La monarchia universale cattolica, costretta a dispotismo
dalla contraddizione colla Riforma, si eleva improvvisamente su
tutte le monarchie storiche con un'ultima formula che fonde nella
più meravigliosa armonia l'assolutismo più
irresponsabile colla più assoluta delle democrazie. Tutte le
gerarchie del clero sono nulle in faccia al pontefice, ma ogni prete
può diventare papa. Quindi i conventi, asilo di ammalati
dell'anima, che si isolavano dal mondo con un suicidio parziale, si
trasformano in tante caserme agli ordini del supremo monarca
associato con tutti i re contro la rivoluzione della libertà.
Ogni convento ha il proprio Lutero, che lo riorganizza: lo studio,
che vi era distrazione nella solitudine, diventa cura di guerra.
Il lavoro dell'antica teologia è conchiuso; i nuovi dotti,
che giungono al cardinalato e dirigono le battaglie, si preoccupano
di un adattamento sempre mutevole del cattolicismo colla nuova
civiltà. Sotto il moto della Riforma comincia a sentirsi
quello della scienza e della filosofia: una critica più
terribile investe già tutto il cristianesimo. Ma Roma
risponde coll'inquisizione e coi gesuiti, minacciando e blandendo;
l'inquisizione ucciderà coloro, che i gesuiti non avranno
potuto sedurre.
Profondamente convinti della puerilità e dell'inettitudine
degli antichi ordini religiosi, essi ne respingono le vesti e gli
usi, l'indigenza e le preghiere; consacrati all'istruzione e alla
casuistica, la loro guerra è al pensiero col pensiero; quindi
si fondono nell'idea universale di Roma, s'immedesimano col papa,
che finiscono a dominare come gli antichi pretoriani dominavano
l'imperatore. La loro regola è l'ubbidienza, il loro scopo la
dominazione. Democratici sino all'assurdo, non ammettono fra loro
medesimi alcuna differenza; morti al mondo, non lasciano che un
numero sulla propria tomba. Perinde ac cadaver, ecco il motto
sublime della loro iniziazione: aut simus sicut sumus aut non simus,
ecco l'eroica affermazione che essi gettano alla storia, eterna
metamorfosi, come una sfida. Il loro fondatore, Ignazio da Loiola,
è la più austera, impenetrabile, superba figura del
secolo. Costretti a spiare il mondo, si spiano l'un l'altro;
incrollabili nella fede cattolica, l'adattano a tutti gli ambienti,
la servono con tutti i mezzi. Sottomettere il mondo dello spirito,
imperare alla coscienza universale superando tutte le differenze di
civiltà, di clima, di razza; essere alla testa di tutte le
missioni, penetrare nei deserti della preistoria e nei segreti delle
corti, insegnare in tutte le scuole, dirigere tutte le famiglie,
disporre di tutto il clero; impossessarsi della scienza per
frenarla, della letteratura per abbagliare, della filosofìa
per corrompere con essa tutti i sistemi: guadagnare tutte le
ricchezze possibili negandosi ogni lusso, vietandosi tutte le
cariche, irresistibili e segreti, onnipotenti e sconosciuti, vivere,
operare, morire nella poesia della fede e del comando, ecco il loro
miracolo unico nella storia di tutti i tempi. Impassibili
nell'alterigia del pensiero non discutono e non valutano mai i mezzi
di un'impresa: la moralità, necessaria alla vita privata, non
offusca la loro politica universale; casti, s'impongono alle donne;
disinteressati, s'impadroniscono degli uomini.
Nulla sfugge loro, perchè osano e vogliono tutto. Il loro
ordine è la gloria di Roma papale, l'ammirazione degli
statisti, la sintesi dei vizi e delle virtù di tutti i
partiti. Una inconcepibile solidarietà vi comunica la forza
del corpo intero a tutti gli individui; le distanze del tempo e
dello spazio non hanno valore nelle loro opere, giacchè tutti
si sentono egualmente sicuri nell'immortalità del proprio
istituto e del proprio principio.
Mentre la loro azione si insinua nei meandri più sottili
della società, la loro vita vi rimane un mistero: il loro
generale è un ignoto, del quale nè le storie nè
le cronache registrano il nome. Quindi una poesia sinistra avvolge
questi re delle tenebre e degli spiriti, che raffinati come tanti
poeti vogliono regnare piuttosto sugli imperatori che sui popoli; un
terrore di ammirazione, la disperazione di un odio, che sa di non
poterli mai colpire, seguono ovunque la loro effimera traccia. Ma
superiori a tutte le debolezze della paura e dell'orgoglio, essi
proseguono nell'opera immane della propria dominazione contrastando
tutti i progressi della libertà, esposti a tutti i colpi
della politica, sorpassati dalla scienza, illuminati loro malgrado
dalla filosofia, travolti dalle rivoluzioni, rigidi e viscidi,
sempre collo stesso eroismo della volontà, meno stanchi alla
sera che all'alba, riparando colla conquista di un popolo
l'espulsione loro inflitta da un altro; soldati così eroici
da non riconoscere eroi nelle proprie file, e così
disciplinati da ignorare persino la necessità di capitani.
Mentre la cattolicità rabbrividiva sotto le minacce
dell'espansione luterana, i gesuiti convertivano quindi una
metà della Germania coll'astuzia: s'inoltravano nell'India
colla fede, s'imponevano alla China colla scienza, spaventavano il
Giappone colle sedizioni, opponendo per tutte le terre d'Europa la
predicazione del benessere alla passione rivoluzionaria, il teorema
del regicidio a quello della libertà, la potenza della
mediocrità resa invincibile dalla disciplina
all'irresistibile spontaneità del genio, la docilità
della plebe capace di diventare ribelle nell'entusiasmo
dell'obbedienza all'indomabile indipendenza del popolo.
Attività del Piemonte nella decadenza degli altri stati
italiani.
Ma la reazione contro la Riforma non tarda a scoppiare così
nei paesi protestanti come nei cattolici. Una vasta guerra,
peggiorata da rivoluzioni, insanguina tutta l'Europa rinnovandola.
La Germania ha preso il posto dell'Italia e dirige l'immenso moto,
determinando gli spostamenti della politica universale, colorando
coi propri riflessi e ricalcando sulle proprie forme tutti i nuovi
fenomeni storici. La sua influenza si propaga più rapidamente
di quella del rinascimento italiano, la vecchia religione del medio
evo cade scrollata in un giorno. Tutte le capitali funzionano colla
stessa precisione e colla stessa importanza: la posta fondata da
Carlo V accelera colle notizie dei fatti il loro sviluppo, creando
la solidarietà universale nell'emozione quasi simultanea di
uno stesso sentimento o di una identica prova; i popoli si copiano e
manovrano come tanti eserciti sotto gli ordini di un generale
invisibile. La storia europea diventa dappertutto rapidamente e
palesemente la ragione di ogni storia nazionale: nessun popolo
è più isolato, i contraccolpi europei arrivano con
fulminea rapidità nei vecchi imperi dell'Asia e nelle giovani
colonie d'America. I governi, ingranati come tante ruote l'uno
dentro l'altro, perdono la facoltà di ubbidire al capriccio
dei sovrani o all'egoismo delle republiche.
Le esplosioni della Riforma avevano scrollato la Germania nel 1517,
Zurigo nel 1520, Stoccolma nel 1527, Copenaghen nel 1531, Ginevra
nel 1532, Parigi coll'espulsione di Calvino nel 1534, Lucca nel
1545, le Fiandre nel 1555 col rifiuto di adesione al concilio di
Trento: le reazioni contro di essa si succedono colla stessa
regolarità, e nel 1573 i gesuiti si accaniscono a domare la
Spagna, nel 1576 la lega sommuove la Francia, nel 1577 i cattolici
ingannano la Svezia, nel 1580 il Portogallo cade sotto la
dominazione del re cattolico, nel 1575 la Polonia proclama Batory,
chiamato il re dei gesuiti, nel 1579 i protestanti bavaresi emigrano
in massa per sfuggire i supplizi, nel 1584 Guglielmo d'Orange muore
assassinato in Olanda, nel 1586 il Sonderbund scinde la Svizzera,
nel 1587 i cattolici di Maria Stuarda minacciano Elisabetta
d'Inghilterra, finalmente la Germania nel 1648 colla pace di
Vestfalia chiude la sua guerra dei trent'anni trionfando di tutte le
reazioni e riaffermando la Riforma.
In questo lungo periodo tutte le nazioni si sono rinnovate. La
Germania ha trionfato col principio politico della federazione, la
Francia colla centralizzazione di Luigi XI perfezionata da Caterina
dei Medici e da Richelieu, il Portogallo con una nuova dinastia, la
Spagna rinunciando al proprio sogno di universalità, la
Danimarca coll'assolutismo, la Svezia colla devozione entusiastica
alla figlia di Gustavo Adolfo, l'Austria ereditando l'impero, la
Russia accogliendo nei Romanoff il principio di tutte le sue future
conquiste. La grande contraddizione politica d'Europa si addensa e
s'accentua fra la Francia e l'Inghilterra; quella democratica
appoggia i re contro i grandi, questa liberale sostiene i lords
contro i re; la Francia combatte nel protestantesimo l'avversario
della propria unità, l'Inghilterra spegne nel papismo il
nemico della propria indipendenza; i realisti francesi trionfano dei
frati demagogici, i covenanters inglesi disperdono i vescovi
dispotici. La rivoluzione di Richelieu decapita l'aristocrazia,
quella di Cromwell il re.
La stessa reazione ha sorpreso e disciplinato il papato. Dalle
negligenze epicuree e dagli splendori cortigiani di Leone X,
attraverso le ultime crisi del nepotismo si giunge alla violenta
centralizzazione di Sisto V (1590). Paolo IV Caraffa, nemico degli
spagnuoli per tradizione domestica, proscrive i Colonna, inizia la
riforma ortodossa della chiesa fondando con Gaetano di Thiene
l'ordine dei teatini, aristocratico semenzaio di vescovi cresciuti
nell'austerità; Pio IV per consiglio di S. Carlo Borromeo
sopprime il nepotismo: Pio V severamente fanatico risuscita le
pretensioni di Gregorio VII, fulmina gli eretici, ordina il debito
pubblico; Gregorio XIII s'accorge primo dell'immensa forza e della
suprema cattolicità dei gesuiti e si abbandona all'opera
loro, riforma il calendario, reclama tutti i feudi, che l'oblio e
l'usurpazione toglievano ancora ai pontefici, finchè Sisto V
collo stesso ingegno e colla medesima inesorabilità di Cosimo
II dei Medici spegne tutti i banditi, annienta gli ultimi feudatari
riottosi, infonde nel governo una disciplina impeccabile ed
infrangibile, mutando lo stato sempre tumultuante della chiesa nel
regno più sicuro ed ordinato d'Europa. I monumenti, che la
rinnovata ricchezza del tesoro e il suo genio alzano in Roma, hanno
già il motivo moderno dell'utilità; la fama del suo
carattere astuto, fantastico sino al grottesco e nullameno fermo
fino all'eroismo, gli ha lasciato in Italia la stessa
popolarità di Enrico IV in Francia. Clemente VIII, di fazione
e di idee sistine, dopo i tre effimeri pontificati della fazione
spagnuola, compie il voto di tanti pontefici colla confisca di
Ferrara, che scompare dal numero degli stati lasciando scoperta
Venezia agli attacchi di Paolo V, il pontefice più
alteramente convinto della nuova autorità ideale del papato.
Gregorio XIV ha appena il tempo d'immortalarsi col fondare la
congregazione di Propaganda Fide, istituto che basterebbe solo alla
gloria del cattolicismo dacchè ha potuto costringere il
Protestantesimo a rivelare l'angustia del proprio carattere nelle
inani imitazioni delle società bibliche; Innocenzo X, che
assiste alla pace di Vestfalia, non può riparare per
l'opposizione di Mazzarino i guasti del nepotismo ritardatario ed
ignobile, col quale Urbano VIII Barberini aveva confiscato alla
chiesa il ducato di Urbino.
L'espansione della Riforma e la concentrazione del papato seguono
dunque la medesima legge; agendo e reagendo l'una sull'altro
coll'infallibile precisione della storia. Così tutti i
mutamenti italici non sono determinati e non diventano intelligibili
che coll'interpretazione del grande moto germanico propagato a tutta
Europa.
Il Piemonte ricostituito dal trattato di Castel-Cambrésis,
malgrado l'occupazione delle città, che la Francia vi si
riserbava per gelosa diffidenza, ridiventa lo stato più
importante e appunto per questo più contrastato d'Italia.
Emanuele Filiberto vi fonda una milizia nazionale e
l'università di Mondovì, vi arma fortezze mirando
sempre ad ottenere lo sgombro delle truppe francesi e in parte
riuscendovi per le nuove strettezze di Caterina dei Medici alle
prese cogli Ugonotti. Carlo Emanuele suo successore, soldato
egualmente valoroso e politico forse di maggior accortezza, si
appoggia alla Spagna sposando Caterina figlia di Filippo II, occupa
il marchesato di Saluzzo, l'ottiene dal trattato di Lione (1601)
cedendo alla Francia alcuni luoghi di là dal Rodano; quindi,
trascinato dal trattato di Brosolo (1610) nel fantastico disegno di
Enrico IV, che vorrebbe partire l'Europa in quindici stati
confederati dando il reame di Napoli alla Santa Sede, il Milanese a
Venezia e il Monferrato al duca di Savoia col titolo di re di
Lombardia, risogna il regno d'Italia. Ma questo ultimo sogno invece
di sorgere dalla storia italiana, vi deriva da una combinazione
francese subordinata alla politica imposta dalla rivoluzione della
Riforma alla rivalità della Spagna e della Francia, e
fallisce contro tutta la tradizione federale della penisola.
L'insidia tesa da Carlo Emanuele a Genova con Vachero, bandito
cresciuto alla scuola del Machiavelli, conclude alla vergogna
dell'uno e alla morte dell'altro; poco dopo il pugnale di Ravaillac,
colpendo Enrico IV, lascia il duca di Savoia esposto a tutte le
reazioni provocate dall'immaginoso trattato di Brosolo. Carlo
Emanuele resiste nullameno con destrezza pari al coraggio, e,
pacificata la Spagna, spinge la temerità sino ad invadere il
Monferrato rimasto deserto alla morte di Francesco Gonzaga duca di
Mantova. La guerra, che ne segue fra il Piemonte solo e la Spagna,
rivela tutta la crescente vitalità del giovane stato e
l'ammirabile destrezza del suo sovrano.
La morte improvvisa di questo a Savigliano, mentre la Spagna si
acconciava a spartire con lui il Monferrato e il duca di Nevers
veniva chiamato alla successione di Mantova, pur riaccendendo
più vasta guerra e richiamando i francesi nella Savoia, non
porta seco la fortuna del futuro regno. Vittorio Amedeo I può
ancora gettarsi con uno dei soliti voltafaccia dalla parte di
Francia per ricuperare alla pace di Cherasco (1631) quasi tutti i
propri dominii, e più tardi nel trattato di Rivoli (1635),
rimasto poi inutile, molte speranze del trattato di Brosolo.
In tutto questo tempestoso periodo la condotta dei duchi di Savoia,
inspirandosi alla più classica duplicità italiana,
cede meravigliosamente a tutte le ondulazioni della politica
europea, mentendo e tradendo secondo la strategia di una politica,
che reclama l'antico regno longobardo per ottenere qualche terra
sulla via di Milano e di Piacenza. Quindi il Piemonte italiano,
sviluppandosi a carico della Savoia francese, muta con avventurato e
faticoso processo i propri duchi da portinai d'Italia nei capi
più importanti della penisola. La fortuna della loro casa,
così povera di significato al tempo degli Scaligeri e dei
Visconti, non accenna ancora chiaramente al proprio glorioso futuro,
ma supera già quella dei Medici e dei Farnesi decadenti fra
l'immobilità di Venezia, la servitù di Milano e
l'isolamento della chiesa. La vitalità del nuovo stato
è tanto forte che la guerra civile fra Cristina, duchessa
reggente nella minorità di Carlo Emanuele II, e gli zii
Maurizio e Tommaso, malgrado le invasioni di questi ultimi alla
testa di truppe spagnuole vittoriose dappertutto, e le insidie di
Richelieu inteso a confiscare il Piemonte, non basta a sopraffarle;
e alla morte di Richelieu e di Olivarez, supremi ministri di Francia
e di Spagna, Cristina riacquista nel 1645 tutto lo stato meno
Pinerolo, confittovi sempre nel cuore come un giavellotto francese.
Quindi il Piemonte rimane solo all'avanguardia della storia politica
italiana.
Milano, immobile sotto il dominio spagnuolo, progredisce invece
socialmente riversando nell'industria, nei commerci e nelle scienze
quell'attività che una volta l'aveva alzata al grado di
seconda Roma; la nuova grande famiglia dei Borromei non vi ha
più che le virtù compatibili in uno stato soggetto,
con una santità tutta moderna colorata di filantropia.
Venezia inerte in Italia e sempre più respinta dall'oriente,
malgrado la splendida e purtroppo inutile vittoria di Lepanto, perde
a uno a uno tutti i propri stabilimenti senza nemmeno sospettare che
Cristoforo Colombo e Vasco di Gama, aprendo al commercio nuove vie e
nuovi mondi, l'abbiano inappellabilmente condannata a morire in
un'agonia di due secoli. Quindi la contesa con Roma pei limiti
imposti alle ricchezze del clero e per il processo di due preti
colpevoli di reati comuni avocato al tribunale supremo della
republica contro ogni immunità ecclesiastica, la sorprende
nel 1601 secondo la legge della reazione cattolica che colpisce
tutti gli stati. Ma Venezia fedele alle proprie tradizioni e forte
ancora nella terribile libertà aristocratica del proprio
governo respinge le nuove pretensioni di supremazia
politico-religiosa, colle quali Roma vorrebbe imporsi a tutti i
governi cattolici. Invano Paolo V irritato dal Ridotto Mauroceno,
specie di libera accademia, nella quale i più dotti spiriti
del tempo si accoglievano sotto la protezione della Serenissima a
discutere ogni novità della scienza, e penetrato della
necessità del proprio dispotismo ideale contro l'invasione
del protestantesimo, minaccia tutti i rigori dell'interdetto. Paolo
Sarpi, il grande servita, sorge a difendere la republica, opponendo
tradizione cattolica a tradizione cattolica, scienza romana a
scienza romana, fulminando il papa senza entrare nel campo ribelle
della Riforma. La battaglia disonorevole per Roma, sospettata di
aver ricorso più volte al ferro di sicari contro il suo
indomabile avversario, onorevole pel governo veneto per fermezza di
condotta, è gloriosa per il pensiero italiano, che al di
fuori e al disopra della Riforma trova l'emancipazione dal
romanesimo segnando i limiti del diritto e dell'azione fra la chiesa
e lo stato moderno. Paolo Sarpi è il Lutero d'Italia, quale
doveva nascere e atteggiarsi nella terra classica
dell'incredulità. La sua Storia del Concilio di Trento
è forse il capolavoro più originale del suo secolo per
la penetrazione di una critica e la calma di una ragione capaci di
giudicare cattolicismo e protestantismo nell'istante medesimo che la
loro contraddizione, sconvolgendo tutte le coscienze, rinnovellava
la storia d'Europa. Roma dovette cedere e confessare con questa
prima sconfitta che la nuova formula della sua monarchia papale non
bastava nemmeno a contenere tutto il principio cattolico.
Ma questa vittoria non rianima Venezia. La congiura del duca di
Ossuna, vicerè di Napoli, risognante per Filippo III di
Spagna il sogno di Enrico IV in una conquista d'Italia, soffocando
Venezia con una sollevazione e riducendola come Milano a provincia
spagnuola, fallì per l'oculatezza dei Dieci e la feroce
energia di una pronta repressione; ma questo terribile tribunale,
ultimo rappresentante dell'epoca dei tiranni, era così
antiquato esso medesimo da cadere all'indomani del trionfo sopra una
semplice mozione.
Ma Venezia senza il consiglio dei Dieci è un corpo senza
capo, un governo senza unità e senz'idea. Alla grande regina
dei mari, così superba della propria corona di castelli e
così maestosa sotto il proprio manto di marmi, non rimane
più che la maschera di un eterno carnevale per nascondere
invano a se medesima la rapida decrepitezza del proprio volto
già sfolgorante di impassibile bellezza fra le più
tenebrose tempeste.
A Firenze l'ultimo avvenimento politico è il titolo di
granduca concesso arbitrariamente da Carlo V a Cosimo I e al
successore di questo confermato poi da Massimiliano II per la somma
di 100,000 ducati. La resistenza fiorentina alla reazione romana non
ha però nulla dell'altezza e dell'originalità
veneziana, giacchè se Galileo vale più Sarpi, Firenze
questa volta scende troppo al disotto di Venezia lasciando torturare
il grande astronomo e rilegandolo, sgherra del pontefice, in
Arcetri, cieco di dolore. Lucca, obliata dalla storia, attesta
appena la propria vita soffocando nel 1594 la congiura degli
Antelminelli; Mantova, passata sotto il ramo francese dei Gonzaga,
si cangia in una Pompei animata solamente da un'orgia inesauribile;
Modena, ultimo riparo della famiglia d'Este, deve l'esistenza alla
propria mancanza di significato; Parma, ducato sorto dal nepotismo
dei papi e mantenuto dall'eterna rissa fra Spagna e Francia,
insufficiente al genio militare della propria dinastia, offre a
Filippo II in Alessandro Farnese il più grande generale del
secolo, il solo capace di lottare contro l'eroismo di Guglielmo
d'Orange.
La rivoluzione di Masaniello a Napoli nel 1647, quando i protestanti
trionfano colla pace di Vestfalia, e l'Olanda ha imposto alla Spagna
il riconoscimento della propria republica, e l'Inghilterra ha
imprigionato l'ignobile Carlo I, e il Portogallo si è
sottratto alla Spagna, e i francesi preparano contro Mazzarino la
rivolta della Fronda, sembra accordare all'Italia la data di una
vera rivoluzione. Ma il tumulto, provocato dall'esazione della nuova
gabella sulla frutta, non arriva a disciplinarsi sotto alcuna idea.
Masaniello, reso pazzo dalla nuova parte di vicerè, che la
demenza della plebe e l'astuzia dei grandi gl'impongono, è in
pochi giorni acclamato, trucidato, trascinato cadavere per le vie,
venerato come un santo; quindi la sommossa si acquieta
all'apparizione del naviglio spagnuolo, malgrado l'intervento del
duca di Guisa accorso da Roma col sogno di una seconda conquista
alla maniera d'Angiò. Nessuna provincia d'Italia credette
allora alla rivoluzione di Napoli troppo vantata in seguito dagli
storici per patriottismo rettorico: Milano non s'accorse del moto,
una guerra d'indipendenza contro la Spagna non passò per la
mente di alcuno. Il popolo napoletano invocò il duca di Guisa
all'ultima ora, sognando con mobilità meridionale di mutare
piuttosto padrone che d'emanciparsi: la dominazione spagnuola non ne
fu scossa, perchè l'Italia insorgendo avrebbe dovuto
abbandonarsi al papa, o sottomettersi al Piemonte, o darsi alla
Francia, alterando le condizioni normali della propria
servitù senza giungere alla libertà.
L'antagonismo fra gli stati soggetti o indipendenti della penisola
impediva loro ogni accordo necessario di guerra: una sollevazione di
tutte le città e delle campagne, come in Olanda, non poteva
esservi prodotta che da una contraddizione ideale come quella della
Riforma col cattolicismo. Infatti nemmeno la Sicilia, per la sua
qualità di isola più idonea a mostrarsi compatta e a
mantenersi costante nella rivolta di Alessio Battiloro, vi mise un
concetto politico. L'irritazione contro le gabelle vi produsse col
medesimo trambusto la stessa strage senza disconoscere il governo
spagnuolo; il partito ghibellino dell'aristocrazia, ostile al
partito guelfo del popolo come a Napoli, giovandosi dell'insulsa
vanità dei due capi, potè scatenare contro di essi la
furia imbecille della plebe. Masaniello ed Alessio, un pescatore e
un battiloro, senza carattere e senza ingegno, ancora più
ignari che inconsci del proprio operato, danno la misura del valore
politico d'Italia in un'epoca così splendida in Europa per
grandezza di rivoluzioni e di rivoluzionari. Mentre il pensiero
italiano si affermava, nella trionfante resistenza di Paolo Sarpi,
nell'eroica prigionia di Tommaso Campanella, nel sublime martirio di
Giordano Bruno, le rivoluzioni italiane non provocavano che tumulti
di piazza disonorati da inutili saccheggi, insanguinati senza
battaglie, guidati da capitani, cui una mantellina di seta, o una
pensione di 1000 scudi facevano girare la testa. L'aristocrazia
contenta di una servilità consolata da privilegi d'ogni sorta
non era più che una corporazione contrassegnata da stemmi: il
popolo composto da una massa di commercianti, di agricoltori e di
industriali, avara, timida, inorganica, non aveva coscienza di
sè: la plebe fuori della legge e conculcata dalla legge non
conservava che l'istinto della rivolta.
Mentre l'uomo moderno si era affermato nella letteratura, nella
scienza e nella filosofia, compiendo qualche eroismo solitario
quando non poteva scrivere un capolavoro incompreso, il popolo
moderno non era ancora nato, e la politica seguitava senza risultati
storici e senza caratteri nazionali. I suoi moti piccoli ed incerti
ispirano un senso di amara melanconia, paragonati colla guerra della
Lega dei trent'anni, o con quelli del periodo anteriore italiano. Un
invincibile torpore si aggrava sopra tutti gli stati, una paralisi
grottesca e miserabile vi ridicoleggia ogni tentativo
rivoluzionario. Invano la Savoia, il più giovane e vitale
principato, assecondando le effimere e stordite combinazioni di
Francia, aspira alla conquista d'Italia, giacchè la
risurrezione impossibile del regno longobardo toglierebbe alla
Francia stessa l'appoggio di Roma, per lasciarla debole ed isolata
contro i protestanti d'Inghilterra, d'Olanda, di Germania, contro la
Spagna ed i turchi. La Savoia stessa, perdendosi nella unificazione
del regno come una delle sue estreme e più ambigue provincie,
non potrebbe crearvi l'idea dell'unità. Quindi i duchi di
Torino, malgrado ogni velleità di conquista italica, trattano
contemporaneamente con la Francia e con la Spagna, secondando la
reazione di Roma coll'ignobile e feroce persecuzione contro i
Valdesi, mostrandosi inconsciamente ai grandi rappresentanti del
nuovo pensiero nell'aspetto di soldati e di tiranni medioevali. Il
problema della politica savoiarda non può diventare italiano:
nessuna idea di Torino attira l'attenzione o lusinga il sentimento
di Napoli o di Milano, di Roma o di Venezia.
Capitolo Secondo.
La rinnovazione dello spirito nazionale
Torquato Tasso.
La letteratura, la scienza, la filosofia, che preparano nella
solitudine di studi originali o nell'eroismo contro assurde condanne
un'altra vita all'Italia, ignorano ancora l'esistenza della Savoia.
Tasso, il più moderno dei poeti, è già morto.
Quasi contemporaneo e nullameno3 di tanto posteriore all'Ariosto, ne
rimane il rivale e l'antitesi più meravigliosa: se il primo
chiude colla satira di un facile riso tutto il medioevo, il secondo
apre l'evo moderno con un senso di idealità, che mette nel
suo canto una dolcezza irresistibile. Già il Trissino, natura
prosastica e pedante, coll'istinto dei tempi nuovi aveva cercato e
trovato un tema di epopea nazionale nell'Italia liberata dai Goti.
Il poema era rimasto goffo e greve, ma l'intenzione non poteva
andarne perduta. La scettica giocondità del cinquecento
cedeva alla severa meditazione del seicento; non dalla fantasia ma
dalla coscienza tutte le nuove opere dovevano ispirarsi. Ed ecco
Torquato Tasso, poeta figlio di poeta, che accettando la guerra del
Trissino contro gli ariani e quella dell'Ariosto contro i saraceni
vi reca la potenza della fede colla malinconia di uno spirito
immerso nella vita come in una tragedia e aspirante all'ideale come
alla sola verità. La Gerusalemme liberata è il
più epico momento e il massimo trionfo della
cristianità: dalle crociate comincia la nuova vita colle
rivoluzioni dei vescovi, e si riapre il conflitto di Roma antica
coll'oriente per giungere all'unità mondiale.
Il poema, terso come un vetro, lascia passare la grande idea del
medio evo e ne ferma tutte le immondizie; l'eroismo più puro,
la fede più certa animano i crociati. Le scarse
contraddizioni che rissano nel loro campo, i pochi cavalieri che
innamorati da Armida abiurano, sono imitazioni e residui di altri
poemi; ma i saraceni stessi ci si mostrano nobili quanto i
cristiani. La coscienza religiosa nel poema non è che un modo
della coscienza umana più profonda, vasta e forte di essa.
Nessun carattere fra tanti personaggi poetici della Gerusalemme
è antico: l'uomo moderno colla sua moralità, colla sua
delicatezza, col pensiero della propria sovranità, vi brilla
così nei due campi da neutralizzare le simpatie dei lettori.
Solimano vale Goffredo, Argante è degno di Tancredi:
all'Angelica e alla Marfisa dell'Ariosto, eroine dell'avventura
scetticamente guerresca ed amorosa, succedono Erminia e Clorinda con
un pudore e con un amore rinnovati dalla riforma di Lutero e dal
concilio di Trento. Il poeta scarso di fantasia difetta forse troppo
di originalità nelle forme: si preoccupa di imitare gli
antichi, si smarrisce nelle dispute, ignora se stesso. Il suo verso
non è vario, nè la sua vena abbondante come quella
dell'Ariosto; ma la sua coscienza tanto più alta, la sua
malinconia così vera, la sua meditazione della vita
così grave, la sua modernità così spontanea,
gli permettono di rinnovare involontariamente tutti i tipi
drammatici dal pastore al diavolo. Senza il Tasso, nè Milton
nè Klopstock avrebbero forse scolpito con tanta
terribilità il loro Satana; l'inutile Pluto
dell'antichità, il mostro informe di Dante si mutano entro il
nuovo poema nel rivale di Dio, nell'eterno ribelle di tutte le
rivoluzioni umane. Ma il Tasso, ammalato della propria
originalità, soccombe alla tragedia della propria poesia. La
sua alterezza di poeta, la sua delicatezza di cavaliere, lo
trascinano dal carcere alla follia; incompreso ed incomprensibile
nel proprio tempo, è assalito perfino da Galilei, il solo che
per la modernità del proprio pensiero scientifico avesse
dovuto intenderlo; finchè, lancinato dalle critiche dei falsi
dotti, compie l'atto più tragico per un artista rinnegando in
una correzione rattristante a forza di essere grottesca il grande
poema. La Gerusalemme liberata diventa la Gerusalemme conquistata:
ma la posterità, che non potè incoronare il poeta in
Campidoglio, lo mise sull'altare più alto della propria
poesia, e vantando Dante, encomiando il Petrarca, ammirando
l'Ariosto, non sentì, non comprese, non amò che il
Tasso della Gerusalemme liberata. Credenti, cittadini, gentiluomini,
popolo, tutti ritrovarono se stessi nel grande poema; l'unica epopea
italiana parve quindi eseguita da personaggi moderni entro un fatto
antico. La donna del Tasso, più donna di quella del Petrarca,
non fu più nè una Venere nè una Madonna, ma la
donna amica e nemica, inferiore, uguale e superiore all'uomo. La sua
civetteria moderna nacque nei poemi del Tasso, nella Gerusalemme e
nell'Aminta mentre Palestrina, soffrendo delle insufficienze della
poesia ad esprimere tutte le sfumature dei nuovi sentimenti,
inventava la musica, e Guido e il Guercino si accingevano a mettere
nella bellezza di Leonardo e di Raffaello una sensibilità
più pronta e più passionale.
Ma Tasso è morto: la dominazione spagnuola ha soffocato la
libertà delle muse. Un'enfasi fredda, una magnificenza vuota,
succedono all'ispirazione della passione: Achillini e Marini
sciupano nelle più pazze imitazioni i grandi poeti spagnuoli.
La poesia diventa virtuosità di prosodia o delirio
d'immaginazione; nessun fatto o sentimento o idea può
sostenerla nella vita italiana trascinata dalla vita europea come il
cadavere di Ettore dalla biga di Achille. Quindi, riparando nelle
sicure profondità del dialetto dalle altezze soleggiate della
grande letteratura, non canta più che col popolo e per il
popolo, suscitandovi una infinità di poeti che riproducono in
proporzioni minime le grandi figure di Boccaccio e di Dante, di
Tasso e di Ariosto.
Le vecchie caricature, gli antichissimi tipi delle favole popolari
diventano improvvisamente le maschere vive, poetiche, parlanti della
letteratura dialettale. Una satira più mordace ed acuta
assale la società soggetta alla Spagna, alla Francia, a
Venezia, a Roma, a tutti: Arlecchino, Brighella, Pantalone,
Beltramo, Pulcinella, il Dottor Bolognese, l'Amante Fiorentino, il
Capitano Fuego o Muerte nel mezzogiorno, sono i nuovi personaggi
della nuova commedia, che come quella di Dante riproduce capovolta
l'immagine del mondo. Tutta l'anima popolare passa nelle commedie
dell'arte, quando tutte le maschere riunite dal carnevale di Venezia
improvvisano un teatro mobile, sul quale percorrono l'Italia. La
loro assemblea sulla piazza di San Marco è il primo
parlamento politico italiano, giacchè in esso la satira,
sotto il velo della favola, tra il lazzo e l'epigramma, vi comincia
la critica della società, opponendo la caricatura di tutti i
vizi all'ipocrisia di tutte le virtù ufficiali.
Gli scrittori politici.
Dal 1530 al 1650 una folla di scrittori rispecchia i progressi dello
spirito nazionale, proseguendo le grandi tradizioni di Machiavelli e
di Guicciardini. L'ateismo politico è la base della loro
dottrina; la preterizione della morale il sottinteso della loro
scienza: ma in questa incredulità, che studia il giuoco e la
successione delle forme politiche, vi è già
l'emancipazione da ogni autorità astratta. Il loro carattere
è quindi servile quanto libero il loro ingegno che può
giudicare tutti i padroni, indicare il difetto di tutte le
istituzioni, insegnare la difesa e l'attacco a tutti i combattenti.
La casistica, sviluppata dai gesuiti nella teologia, signoreggia la
nuova scienza politica. Poichè nessun governo italiano
è santificato da un'idea, giustificato dall'unità,
reso logico da un qualunque sistema rappresentativo o utile da una
vera intenzione liberale, lo spirito politico, che, imitando a
rovescio Galileo, cerca le leggi del mondo sulla terra, si compiace
e si smarrisce al tempo stesso nello studio imparziale di tutti i
fenomeni politici. Le alte idealità dei primi scrittori,
intercettate dalle grandi figure di Machiavelli e di Guicciardini,
non si veggono più; appena se ne conserva il ricordo come di
una superstizione passata.
Ma nessun'altra idea sottentra a quella della chiesa e dello stato;
l'unità nazionale è un sogno che fa sorridere anche i
più ingenui, la Riforma una stramberia che sfugge alla
penetrazione anche dei più furbi. Niuno sospetta che l'uomo
morale possa essere il fondamento dello stato civile e che le idee
siano le cause dei fatti. In uno stato impotente ad assumere colle
due condizioni pregiudiziali dell'indipendenza e della
libertà una qualunque vera forma, il problema politico si
sminuzza fatalmente in tanti problemi individuali; l'interesse
singolo è l'universale traguardo per tutti i fatti;
l'abilità, non illuminata nè purificata da alcun
ideale, scivola nel pantano di tutti i brogli, non trionfa che
coll'oblio di tutte le leggi.
Quindi gli scrittori politici si differenziano fra loro secondo il
principato dal quale guardano o nel quale agiscono, si racchiudono
nell'orbita dei partiti dove armeggiano, non vedono che combinazioni
arbitrarie e slegate, interpretano ogni sconfitta o vittoria cogli
errori di una matematica che non sorpassa l'aritmetica. Se la loro
penetrazione è ammirabile e il loro istinto sicuro, nessun
sistema più povero del loro sistema, nessun avviso più
falso dei loro consigli, nessun risultato più impossibile
delle conseguenze da loro previste. Un dilettantismo classico e un
patriottismo angusto imbrogliano tutti i loro teoremi
allorchè, alzando la politica nella storia come il Vida e il
Paruta, assalgono l'epoca moderna col paragone delle epoche antiche;
una superficialità evangelica mantenuta dalla tradizione e
dall'ipocrisia offusca la limpidezza delle loro osservazioni quando
iniziano o concludono un giudizio per assolvere o condannare qualche
storico personaggio. Bellarmino annulla l'antica idea dell'impero e
del papato colla nuova interpretazione dei gesuiti. Paolo Sarpi
scrive la storia del concilio di Trento ed esaurisce il proprio
ingegno nell'evitare ogni vero giudizio fra la Riforma e il
cattolicismo: come teologo difende Venezia contro il papa, ma
incredulo quanto Marsilio da Padova non osa nemmeno ripetere le sue
precise affermazioni. Gli scrittori di Genova sono i più
democratici, quelli di Venezia i più aristocratici, gli altri
dello Stato pontificio i più servili; e nullameno fra questi
stride la satira del Boccalini mordendo tutte le autorità,
lasciando nei morsi le stigmate di un ridicolo immortale. Il
Piemonte, solo di tutti gli stati che conservi attività nella
storia, suggerisce a Botero il libro sulla Ragione di Stato colla
politica tragica e duplice dei propri duchi; cento altri scrittori
stritolano la loro scienza in consigli, polverizzano i consigli in
ricette già raccolte da Baldassare Castiglione nel
Cortegiano, libro fine e nauseabondo, nel quale l'Italia del secolo
XVI trova tutta se medesima colla squisitezza artistica dei propri
modi e la nullaggine perversa ed ignobile del proprio carattere.
Prima di lui Nifo di Sessa plagiario di Machiavelli, dopo di lui il
cardinale Commendone e Grimaldi da Genova ne esagerano ancora la
bassezza perdendone l'eleganza: la servilità è il tema
inesauribile di tutte le speculazioni politiche, il campo nel quale
giostrano gli spiriti più destri o meglio addestrati. Il
decadimento della letteratura è anche più doloroso nei
libri politici: dal Principe di Machiavelli al Principe regnante al
Principe deliberante al Principe ecclesiastico: dai cavalieri del
Tasso ai nuovi cortigiani, la distanza è già di
un'epoca. Nei primi vi era ancora il vigore
dell'individualità medioevale illuminata dal raggio di
un'alba misteriosamente lontana, nei secondi non vi è
più che la morbidezza di una decadenza, la quale deve
arrivare alla putrefazione per produrre un altro rinascimento. La
livellazione del dispotismo necessaria a schiacciare tutti i
caratteri per togliere loro le differenze eccessive di razza e di
storia ha prodotto già i propri frutti.
L'aristocrazia deve annullarsi nella corte disonorando se stessa o
il sovrano perchè il popolo cresca solitario apprendendo nei
commerci, negli avvenimenti quotidiani, le idee maturate e divulgate
dall'Europa. Gli scrittori sono così persuasi di questa
verità che i loro trattati non si rivolgono punto al popolo,
e nelle loro prefazioni si fanno un vanto di allontanare plebei
curiosi e lettori volgari.
Giordano Bruno e Tommaso Campanella.
Ma le scienze matematiche e naturali, indipendenti dalla politica,
pure essendone la più vera preparazione, crescono tutti i
giorni, sfavillano e riscaldano. Galileo troppo vecchio per
l'energia dello scandalo si è disdetto senza contradirsi: le
sue scoperte astronomiche, che detronizzando il sole decapitano le
divinità della Bibbia, e il suo metodo sperimentale, che
emancipa la ragione da tutte le autorità della storia, sono
conquistati per sempre. Nelle scienze si stringe la prima grande
federazione dei magni spiriti: naturalmente i primi liberi debbono
essere i più forti. Il dispotismo stesso contrastando alla
filosofia protegge la scienza per cavarne immediati vantaggi. Essa
sola è dispensata dalla menzogna. Mentre i letterati adulano,
e storici come Davila e Bentivoglio si compiacciono tuttavia con
satanica perversità dei roghi accesi per gli eretici in
Francia e in Olanda, mentre i politici della ragione di stato
assolvono ancora tutte le infamie scambiando l'egoismo
dell'interesse dinastico colla fatalità dell'interesse
nazionale, e una specie di dubbio cartesiano sembra compiacersi a
dissolvere tutte le verità della vita e della storia nelle
combinazioni di un malandrinaggio troppo effimero per essere
veramente utile e in una incredulità che finisce
necessariamente a punire se stessa colla propria inanità,
presto sul doppio confine della scienza e della filosofia due
bianche e gigantesche figure lanciano all'Italia il verbo di una
nuova fede. Giordano Bruno e Tommaso Campanella, eroi della
rinnovazione, riaffermano l'antico genio italiano sempre incredulo
nella religione, razionalista nella filosofia, giuridico nelle
riforme, universale nelle aspirazioni.
Giordano Bruno giovanissimo esula dal convento, nel quale alcuni
primi dubbi religiosi gli hanno già attirato due processi. Un
istinto irresistibile lo trascina di paese in paese alla ricerca
della verità. La sua sola ricchezza è l'abito di
domenicano, il suo programma rimane un mistero per lui stesso, la
sua passione è la filosofia, il suo campo di battaglia in
tutte le università. La tempesta della Riforma infuriante per
tutta l'Europa non basta ad impaurire il suo ingegno. Costretto a
guadagnarsi il pane, insegna grammatica ai fanciulli, corregge bozze
nelle stamperie, sogna libri su libri, ne pubblica, discute, arringa
da per tutto e contro tutti. Raimondo Lullo, l'antico eroe della
logica e dell'apostolato fra i Saraceni, lo affascina colla sua Ars
Magna imprigionandolo nel sogno di dominare mediante congegni
dialettici e mnemonici tutta la scienza; quindi la religione
cristiana, nella quale i suoi primi dubbi avevano già
disciolto i dogmi della trinità e dell'incarnazione, si perde
nell'immensità della nuova logica, mentre le intuizioni
dell'antico abate Gioacchino, di spirito profetico dotato secondo le
parole di Dante, rifermentando nel suo ingegno al vento caldo della
Riforma, lo portano sempre più alto coll'annunzio di un'altra
rivelazione. La grande affermazione di Giovanni da Parma, profeta di
una nuova legge superiore al vangelo e che starebbe a quella di
Cristo come questa all'altra di Mosè, cancellando dal
cristianesimo quanto Cristo aveva dovuto accogliervi e rispettarvi
di pregiudizi e di errori, balena alla sua mente e le fa sembrare
troppo oscura la riforma di Lutero. Il cardinale di Cusa, massimo
metafisico del secolo e precursore di Hegel, col suggerirgli
l'accoppiamento della matematica colla metafisica, gli sviluppa i
germi di quel razionalismo e di quell'idealismo panteistico, dal
quale uscirà la filosofia moderna. Ma Copernico sopra tutti
lo soggioga e lo rapisce. La sua immensa rivoluzione ancora
inavvertita a quasi tutti, e che Galileo si prepara ad assicurare,
solleva l'animo novatore di Bruno già ribellatosi contro
Aristotele, e gli comunica coll'orgoglio di tutte le vere
originalità una indomabile passione di apostolato.
Quindi il secolo non basta più a contenerlo; il suo spirito
non ha più nè patria, nè religione, nè
tradizione. Cittadino cosmopolita erra per l'Europa come un
cavaliere della disputa scavalcando tutti i dottori: le
università rumoreggiano alla sua voce, le corti si aprono
davanti al suo nome, Roma lo perseguita, la Riforma lo sospetta. A
Ginevra il terrorismo di Calvino e di Beza lo costringe ad
allontanarsi malgrado le nobili simpatie dei fuorusciti italiani,
neofiti ammirabili quanto i primi cristiani; a Tolosa le sue lezioni
rivoluzionarie preparano i sospetti che pochi lustri dopo
accenderanno il rogo di Vanini; a Parigi ripete i trionfi di Dante,
seduce Enrico III, e nel libro De umbra idearum schizza le prime
linee del suo grande e confuso sistema. I dialoghi della Cena delle
Ceneri, il libro della Causa Principio et Uno, e dell'Infinito,
Universo e Mondi, schiarendo la sua teorica della pluralità
dei mondi, che annulla tutte le leggende della creazione, precisano
la sua idea dell'infinito, nel quale l'identità dei contrari
e l'eterna migrazione degli esseri per tutti i gradi e le forme
mutano radicalmente il concetto della religione e della filosofia di
allora.
La sua religione non è quindi più che una filosofia
davanti alla quale giudaismo e cristianesimo, paganesimo e
maomettanismo, sono identicamente falsi; la sua riforma sorpassa
tutte le conseguenze immediate di quella di Lutero e arriva d'un
balzo ai limiti oscuri del socialismo. Ma Bruno esula ancora da
Londra, ritorna a Parigi e ne riparte per la Germania. Preceduto
dalla fama di scuola in scuola, ovunque giunge trae seco la disputa
libera, estranea alle contese del giorno, anelante alla luce e
all'aria dell'avvenire. Quando le memorie della patria lontana lo
rimordono, non sogna l'Italia ma Nola; il suo pensiero non ha
nazionalità, il suo cuore non sente la passione di nessun
luogo. Nella fatica della continua pellegrinazione spesso gli
sorride la pace dell'antico convento di San Domenico Maggiore a
Napoli, e vorrebbe rivestire l'abito bianco; ma questa malinconia di
pellegrino non raffredda la sua foga di combattente. Da Marburgo a
Vittemberga, da Praga a Francoforte, orazioni e libri sostengono
ancora il suo viaggio; nullameno la luce del suo ingegno non
è più nel meriggio, la sua metafisica invece di salire
ancora s'inceppa nelle rudimentarie qualità artistiche, che
gli avevano fatto scrivere la volgare commedia del Candelaio. Il suo
ultimo libro De Monade è un poema lucreziano, nel quale la
barbarie della forma aumenta l'oscurità del trattato.
Finalmente la tragedia di Bruno precipita alla catastrofe: Ticone
Brahe e Keplero stringendogli la mano a Praga gli hanno dato il
supremo addio della scienza; Andrea Morosini e Paolo Sarpi stanno
per dargli a Venezia l'ultimo saluto della vita.
Infatti, attirato quivi da Mocenigo, gentiluomo imbecille e
malvagio, fu da questo denunciato al tribunale dell'inquisizione. Le
condanne dei primi due processi patiti tornarono a galla, Venezia
consegnò a Roma il non suo suddito. Bruno, trascinato di
carcere in carcere, dopo sette anni di martirio, dovette salire al
rogo. Ma se nella prima parte del suo ultimo processo parve scusare
le proprie opinioni col sofisma allora accettato che si poteva
sostenere in filosofia quanto dovevasi rifiutare in religione, dopo
si ricusò ad ogni abiura, e quando gli lessero la sentenza di
morte, guardando i giudici colla serenità di un immortale
rispose: «Maggior timore provate voi nel pronunciare la
sentenza che non io nel riceverla». Morì il 17 febbraio
1600 in Campo di Fiori, presso l'antico teatro di Pompeo. La gente
formicolante per le vie di Roma, nella allegrezza del giubileo
traeva alla piazza del rogo per vedere il truce spettacolo,
ignorando il nome del martire, che pallido e superbo la guardava
dall'alto della catasta come da un trono, aspettando che le fiamme
gli scoppiassero sotto i piedi e frenando nella bocca eloquente quel
primo grido di spasimo, che Huss e Servet si erano lasciati
sfuggire.
Più infelice di lui, Tommaso Campanella discende nel porto di
Napoli nel 1592. Non ha che quattordici anni. Solo e nuovo per le
vie dell'immensa capitale, penetra a caso in un luogo pubblico dove
si disputa di filosofia, parla e l'entusiasmo di un'ovazione
accoglie le sue parole. Così giovinetto, annunciandosi alla
maniera di Cristo e dovendo poi sognare di essere un nuovo messia,
entra presto nel grande ordine di San Domenico. La passione della
scienza lo attira. I primi libri di Telesio capitatigli fra le mani
gli scatenano una tempesta di dubbi così furiosa che s'invola
dal convento per conoscere l'ardito novatore, e non trova che il suo
cadavere esposto in una chiesa. Allora si precipita con giovanile
entusiasmo nello studio per sorprendere il segreto chiesto invano
all'estinto filosofo, ma la sua dottrina cresciuta spaventosamente,
procurandogli l'accusa di magia, lo costringe a fuggire come Bruno.
Di lui più sventurato è raggiunto dalla inquisizione,
derubato dei manoscritti, relegato a perpetuità nel convento
di Stilo suo paese nativo. Quivi l'ascendente del suo spirito
trascina frati, vescovi, banditi e moltitudini ad acclamarlo capo
della rivoluzione delle Calabrie: ma la rivoluzione soccombe e lo
travolge fra duemila vittime nelle prigioni. La sua vita è
finita, la sua opera comincia.
Per ventisette anni rimane prigioniero deludendo le insidie dei
giudici, resistendo a tutte le torture, evitando la condanna
capitale; nessun dolore lo fiacca, nessuna disperazione lo strema.
Nella solitudine delle casematte o nei sotterranei delle torri il
suo spirito pensa sempre, crea, scrive il proprio soliloquio, al
tempo stesso trattato e poema, manuale e tragedia. Il disordine di
un'improvvisazione, durata ventisette anni, ne imbroglia le idee e
ne rende spesso inintelligibili i trapassi, come se una bufera
incessante agitasse questo spirito prigioniero, al quale l'ampiezza
del mondo sembrerebbe forse angusta. I suoi scritti, quelli rimasti
degli ottanta volumi, ora teologici, ora scolastici, ora monacali,
si contraddicono a ogni passo; egli non è nè
republicano, nè monarchico, nè liberale, nè
illiberale; ma la rivoluzione, che gli si disegna nel pensiero,
abbraccia tutta la vita in ogni sua vicissitudine di pace e di
guerra, di governi e di leggi. La sua dottrina è duplice: un
sensismo sperimentale, che in certo modo fa di lui il precursore di
Bacone, di Locke e degli Enciclopedisti del secolo XVIII; e uno
spiritualismo, che crede a tutti i traslati mistici dell'anima, a
Dio, a Satana, alla magia, alle scienze occulte. L'equilibrio
forzato di questi due elementi opposti produce nullameno nel suo
spirito un'unità colle forze misteriose di una dialettica,
che sfuggirà sempre alla critica. Il primo principio
nell'opera di Campanella è la teocrazia, dalla quale deriva
l'unità del genere umano sotto una sola legge e un solo
pastore: tutti i pontefici, tutte le religioni, tutte le tradizioni
sono identiche come rivelazioni di Dio, perchè il loro scopo
divino era la giustizia; le contraddizioni delle religioni non sono
che l'espressione della nostra ignoranza e della nostra
perversità. Le due grandi unità dell'impero romano e
del papato debbono dunque fondersi in una sola. Secondo Campanella
il moto e le forme della storia sono determinate dagli spostamenti e
dai mutamenti nelle religioni; le idee sole generano i fatti. Solo i
dogmi possono distruggere i dogmi; ogni scetticismo contiene il
germe di una affermazione; il progresso continuo nella storia e ogni
epoca della civiltà sono formati di una critica e di una
fede. La politica, che per tutti gli scrittori di quel tempo era lo
studio dei mezzi per giungere al comando e conservarlo, diventa
così lo studio dei modi, coi quali le idee si svolgono e i
personaggi operano nella storia preordinata da un disegno immutabile
ed infallibile. L'impassibilità morale di Machiavelli
nell'analisi della lotta politica si riproduce in Campanella entro
la luce di un'idea superiore: tradimento e strage da
necessità drammatiche si mutano in fatalità storiche,
da interesse egoistico in beneficio mondiale. L'astuta
crudeltà dei consigli di Sarpi a Venezia per conservare la
republica, già nell'intenzione più nobili e
storicamente più logici di quelli di Machiavelli nel
Principe, perdono nel filosofo calabrese ogni infamia, per non
essere più che una crisi indispensabile alla guarigione di un
morbo. Quindi Campanella, purificato il passato della storia con
quella interpretazione, ne idealizza l'avvenire nella Città
del Sole, utopia ispirata da Platone e da Tommaso Moro, nella quale
la più invincibile eguaglianza, la più amorosa
fraternità e la più sicura comunione di ogni bene si
sviluppano sotto il più assoluto ed innocuo dei dispotismi a
cominciare dall'anno 1600. Ma per facilitare questa conquista della
giustizia nella storia, ancora inferma del proprio passato,
Campanella si rivolge al papato, lo arma, lo avventa su tutti,
eretici, dissidenti, o restii; lo dilata, invoca un concilio di
tutte le religioni, risolve tutte le antitesi in una republica del
genere umano col pontefice, solo, armato a sua difesa. La religione
della nuova utopia, che sembrerebbe un'epurazione del cristianesimo,
ne è invece l'annientamento in una formula più alta,
entro la quale la tragedia di Cristo perde tutti gli assurdi crudeli
del proprio dato, e nella quale la società rispettata dal
cristianesimo sacrifica finalmente tutti i propri vecchi privilegi.
Ma siccome questa rivoluzione deve cominciare nel 1600, Campanella,
sempre positivo anche nelle più fantastiche combinazioni
della filosofia, vedendo che la Spagna ha rinnovato l'impero romano
e domina il mondo, le si rivolge come al papato per disciplinarla
contro tutti alla conquista universale. Il demone della dialettica
lo trascina, non vede più le difficoltà, non conta le
stragi, non calcola le rovine: tutto sarà riscattato dalla
felicità futura. La Città del Sole sarà la
patria di tutti coloro che l'avranno perduta. Papato romano ed
impero spagnuolo, annullandosi col proprio trionfo, fonderanno una
democrazia mondiale ed eterna. L'immobilità della fine
dà quindi al moto del suo sistema la vertigine passionata di
una precipitazione; senonchè il mare così concepito
nell'inerzia di una immutabilità assoluta non è
più che un immenso stagno. Campanella nemmeno lo sospetta.
Quindi distrutta ogni individualità della nazione e del
cittadino, soppressa ogni legalità secondo il pensiero di S.
Tommaso e di Platone, negata ogni libertà all'anarchia delle
persone tumultuanti nelle gare sociali; estirpata la famiglia,
abolita la proprietà, equiparati i sessi, sottoposti
gl'imenei a regole igieniche ed astrologiche, le donne sterili
consacrate al piacere, bruciati tutti i vecchi libri depositari
pericolosi di vecchi errori; tutta la terra coltivata come un campo,
la scienza pari in tutti, una lingua universale per un pensiero
identico in ognuno; una religione senza misteri e senza ideali,
composta delle memorie di tutti i profeti da Cristo a Xahnoxis, da
Pitagora a Campanella; una serie di pene e di ricompense distribuite
con monastica norma - tutto questo sogno e questo rinnovamento non
sono che una morte, della quale il profeta invasato non s'accorge.
Nel fervore della distruzione egli non ha nulla risparmiato: come
per Bruno, benchè il pensiero di questo poggi più
alto, il cristianesimo non è per lui che un momento della
religione universale, la distruzione della società un mezzo
di progresso. La Riforma di Lutero, demenza teologica ed
insufficienza politica dalla quale l'universalità del loro
ingegno e il cosmopolitismo del loro carattere ripugnano
istintivamente, finisce per attirare lo sforzo maggiore della loro
critica. Entrambi ignorano la vita del proprio secolo, non
comprendono e non parlano all'Italia, ma, rapiti in sogno dal genio
della rivoluzione, accumulano teoriche su teoriche, adorano le
scienze naturali, non appartengono a nessuna classe, vivono e
muoiono del proprio apostolato. La loro fede è tutta
nell'umanità concepita nell'unità della storia senza
confini nè di epoca nè di razza; le loro aspirazioni
salgono verso una libertà di pensiero redentrice di ogni
spirito in ogni spirito; laonde ignoranti sublimi moltiplicano
intuizioni e invenzioni lasciando ad altri, forse minori
nell'ingegno, la gloria di battezzarle col proprio nome; credenti
dell'incredulità la confessano col martirio contro i bigotti
di una fede basata sull'ignoranza delle plebi e costretta a
difendersi colla violenza.
Epperò nella rivoluzione della Riforma, preludio di maggiori
rivoluzioni, essi rappresentano una società nuova che
sfuggendo al medioevo si precipita nell'avvenire colla foga di un
condannato evaso dal carcere. Il loro pensiero si smarrisce tuttavia
nella penombra della nuova alba, la loro scienza è costretta
ancora a bamboleggiare per l'insufficienza di metodi troppo tardi al
volo delle idee; le loro profezie cadono nella demenza, le loro
creazioni improvvisate con rottami franano sovra di essi, ma il loro
carattere e la loro coscienza segnano nella storia europea la
più tragica e la più consolante delle
originalità. All'indomani del medioevo, nel giorno della
Riforma, essi vivono già nel futuro e muoiono per la sua
libertà con un eroismo, che non ha più bisogno di
essere compreso per mantenersi invitto o di credere al paradiso per
abbandonare la terra.
L'emancipazione scientifica.
Nullameno l'opera loro informe ed inorganica non potè avere
nella storia maggior valore degli abbozzi nell'arte, e degli aborti
nella natura. Il grand'uomo non è colui che sorprende un
fenomeno o indovina un problema, ma che fonda una teoria o
stabilisce una legge. L'immenso lavoro del secolo, cominciato con
essi, aveva d'uopo di spiriti pazientemente indagatori, che
sostituissero alle troppo rapide sintesi e alle arbitrarie
affermazioni la certezza di una nuova esperienza. Al clamore delle
università disputanti succede quindi l'operosità di
gabinetti isolati: i grandi scopritori solitari, ad immense distanze
l'uno dall'altro, invece di disputare, si consultano colla posta. La
forza dell'ingegno questa volta si esprime colla lentezza delle
conclusioni. Tutto è da rifare e a tutto si mette mano.
L'Italia senza vita politica non possiede più nè
storici, nè letterati, nè statisti, nè
filosofi: Cartesio dittatore della rivoluzione contro Aristotele
nasce in Francia. La rivoluzione filosofica, impossibile prima della
scientifica, sarebbe inutile in una nazione incapace di applicarla.
Laonde lo scadimento della coscienza italiana si rivela nei libri
sempre più inetti di tutte le scuole politiche. Mentre la
reazione rivoluzionaria del papato, oppugnando anche le scienze, non
può isolarle come l'eresia per soffocarle coi supplizi, i
bisogni della vita e lo scetticismo generale proteggono tutti
gl'inventori contro le demenze di tarde persecuzioni. Paolo Sarpi ha
delineato nella lotta contro Paolo V i confini fra chiesa e stato;
Galileo nella lettera al padre Castelli (1613) scrive la più
energica e precisa dichiarazione dei diritti della scienza. Alla
dualità dell'impero e del papato succede quella della scienza
e della religione: entrambe universali, organizzate, solidali per i
propri addetti. Preti e scienziati, spesso mutando campo, combattono
ovunque la stessa battaglia; la politica vi pare estranea ed invece
vi è più interessata che alle vecchie dispute
filosofiche. L'emancipazione del pensiero scientifico diventa un
progresso sulla liberazione del pensiero religioso. L'umanità
senza unità anche nella religione, non essendovene alcuna
veramente universale, la raggiunge finalmente nella scienza, mentre
la supremazia di Roma discende a fatto superstizioso e la scienza,
che non può avere capitali, ricusa dogmi e pontefici. Quindi,
meno compromessa della filosofia dalla debolezza dei propri cultori,
lascia Galileo disdire le proprie teoriche, e prosegue a
moltiplicarne le prove. Ogni giorno crescono scolari al maestro
condannato, da tutta l'Europa arrivano notizie di scoperte.
Campanella entusiasta di Galileo, come Bruno lo era stato di
Copernico, lo difende con un coraggio più forte della
tirannia papale. La matematica educata da Tartaglia e da Cardano
previene Keplero e anticipa su Newton con Cavalieri: Galileo,
superiore a tutti, divide con Machiavelli la gloria di primo
prosatore, inventa il termometro, trova l'isocronismo del pendolo,
stabilisce la legge dell'assonanza e della consonanza nella musica,
fonda la meccanica e l'idraulica, chiarisce ed assicura il sistema
di Copernico, costruisce il telescopio, raggiunge gli astri, li
novera, li descrive, scopre le montagne della luna, nota le fasi di
Venere, sorprende i satelliti di Giove, avverte l'anello di Saturno,
interpreta le macchie solari, accumula invenzioni, scoperte,
teoriche sulla base incrollabile del metodo sperimentale, prima che
Bacone si avvisi di predicarne la necessità. La chiesa,
illuminata dall'istinto, sente che Galileo, mutando il concetto del
mondo, rovescia involontariamente i dogmi cattolici, e lo colpisce
con un processo gli minaccia la tortura, gli impone di rinnegarsi.
Invano Galileo vecchio e cieco si arresta; la scienza prosegue.
Castelli e Torricelli suoi scolari sviluppano l'idraulica, questi
trova il peso dell'aria ed inventa il barometro; Giambattista Porta,
trattando i fenomeni della visione, scopre la camera oscura,
Dedominis spiega l'arcobaleno, Baldassare Peruzzi ha già
determinato la prospettiva. Mentre l'insurrezione filosofica di
Telesio contro l'idea della natura di Aristotele non aveva avuto
altro merito che di rovesciare l'autorità di un errore
millenario colla libertà di un nuovo errore, presto il metodo
sperimentale afferra le più necessarie verità. Dopo
gli studi di Salviani sulla ittiologia, Aldrovandi compie una vasta
storia naturale, dalla quale usciranno tutte le altre; Girolamo
Fabrizio tenta il problema del linguaggio; Andrea Cisalpino, genio
vasto e precursore, rinnova quasi tutto il campo delle scienze e
crea il metodo mineralogico; Fabrizio d'Acquapendente e Paolo Sarpi
scoprono la circolazione del sangue; Fracastoro indovina dai fossili
i primi segreti della geologia e intuisce lo teoria atomistica
combattendo le cause occulte. Alessandro Benedetti da Legnano
rinnova la gloria del Mondino da Bologna, aprendo il primo teatro
anatomico e tracciando le prime linee dell'anatomia patologica;
così la chirurgia, diventando scienza, sottrae il corpo umano
alla tirannia della religione e i morti alle spiegazioni
superstiziose. La chimica, nel delirio dell'alchimia e nelle avare
ricerche della pietra filosofale, ha sorpreso molti misteri della
vita: tutto vive, ogni fenomeno contiene la propria causa, ogni
causa è limitata alla natura. Dio, che spiegava tutto, ora
non rende più ragione di nulla; le scienze, invece di
negarlo, lo dimenticano: la geologia riconosce alla terra
un'antichità troppo più remota di quella attribuitale
dalla Bibbia: la geografia, scoprendo agli antipodi i confini della
storia sacra, ha trovato l'altra metà della storia umana. Nel
nuovo cielo, troppo vasto per il dio di Mosè, la terra e il
sole non sono che due piccole stelle fra milioni di mondi; Cristo
non è più che un profeta fra i profeti, e Dio una
ipotesi fra le ipotesi. Cartesio, che lo deduce dalla ragione, ve lo
sottomette: solo il pensiero regna. Roma non dirige più il
mondo, perchè ogni uomo che pensi dipende solo dalle leggi
del pensiero. La libertà scuote tutte le vecchie tirannie,
sbertando tutte le autorità irragionevoli. La democrazia
trionfante nei due campi della Riforma e del cattolicismo trascina i
gesuiti contro Giansenio, che rinnovando le teoriche agostiniane
della grazia vorrebbe scemare la poca libertà rimasta nel
cattolicismo all'individuo morale; e il papato appoggia i gesuiti.
Col terribile dubbio di Cartesio, che si arresta solo alla
verità del pensiero, la filosofia si libera finalmente da
Aristotele, e il pontefice greco della scuola e il pontefice romano
della religione e il re del diritto divino soccombono
simultaneamente. Cartesio è il Lutero della filosofia.
Quindi si compie l'avvento del diritto pubblico. Alberigo Gentile
ottiene ancora all'Italia la gloria di precorrere l'Europa nel
diritto della natura e delle genti: la sua opera De iure belli apre
la strada a Grozio e a Puffendorf per determinare coll'equilibrio
dei diritti i caratteri e la posizione dell'individualità
nazionale nella nuova storia. Ma, simile a Giordano Bruno, egli non
è che un precursore condannato a parlare per se stesso invece
di parlare a nome di un popolo. Dietro Grozio si avanza l'Olanda,
dietro Alberigo Gentile sta immobile l'Italia: ecco la differenza
fra i due autori. Infatti Alberigo Gentile, figlio di un riformato
rifuggitosi in Germania per evitare le persecuzioni di Roma, aveva
dovuto crescere nel pensiero e col pensiero germanico.
L'Italia coopera al movimento ideale dell'Europa, ma ne accompagna
pedissequamente la storia, mentre, combattuta fra l'antagonismo
franco-spagnuolo ed esercitata dal dissidio cattolico-protestante,
cresce in secreto liquidando il proprio passato. Firenze si
spegnerà silenziosamente, Venezia getterà ancora
qualche lampo prima di tramontare, Napoli ripreparerà il
proprio regno per contendere al Piemonte la gloria di costituire
l'unità italiana, Roma è immortale.
Capitolo Terzo.
I regni del Piemonte e delle due Sicilie.
Il secolo di Luigi XIV.
La pace di Vestfalia arresta l'influenza politica della Germania in
Europa; protestantesimo e cattolicismo sospendono la guerra
riconoscendo l'impossibilità di una vittoria finale, e
s'acconciano a vivere l'uno presso l'altro come due varietà
del cristianesimo. L'eresia scientifica, trionfante su tutti i punti
del pensiero europeo, li obbliga a riunirsi contro di essa in una
unità di difesa contro la terribile unità de' suoi
attacchi. Il diritto delle genti è secolarizzato, ogni
nazione individuandosi non è più un frammento animato
e protetto dall'idea del papato e dell'impero. Nessun ricordo delle
antiche unità. Nell'Europa la lotta storica prosegue fra
nazioni distinte ed originali. Apparentemente nulla pare cangiato:
la nobiltà, il clero, i re, i parlamenti, il papa, Lutero,
tutti conservano la propria posizione; ma uno spirito nuovo la muta
ogni giorno con una interpretazione dissolvente. Gli eserciti
stanziali sopprimono quello stato medioevale di guerra, nel quale
ogni uomo doveva di momento in momento mutarsi in soldato; il modo
scientifico della guerra riduce la milizia a professione, l'ambiente
commerciale le impone scopi economici, assoggettandola alle leggi
della nuova scienza finanziaria. Gli alti dominii, i vassallaggi
assurdi, le dipendenze fittizie, tutti i residui dell'antica
organizzazione feudale, si sgretolano rapidamente sotto l'azione
della nuova atmosfera: oramai non vi sono più che cittadini;
la gerarchia sociale non esprime che una inevitabile graduazione di
uffici sempre più rappresentativi. La legge non consacra
ancora questa uguaglianza, ma la coscienza ne è così
profondamente convinta che viola e delude la legge; la
libertà religiosa, scientifica e filosofica sta per produrre
la libertà politica. La ragione di stato non si limita
più all'interesse del sovrano, dacchè il popolo
osserva e giudica colle norme del proprio interesse e al lume della
propria coscienza. Una guerra minuta ed incessante assale tutti i
privilegi e tutte le autorità; si deve rendere ragione di
tutto, non si può essere creduto superiore ad alcuno che
sapendo o potendo maggiormente.
Mentre in tutte le storie la classe dominante aveva sempre avuta la
preponderanza economica, ora la ricchezza diventa la maggior forza
della politica: ma poichè guerre di rapine, taglie e
confische divennero impossibili, non si può più
arricchire che nel lavoro e col lavoro. Le colonie danno alle
nazioni la tendenza e il carattere d'immense società
commerciali: la finanza sorge dall'economia come l'algebra
dall'aritmetica, misurando coll'unità del proprio valore
cose, individui e governi. Quindi una borghesia nuova invade la
storia, riempie le scuole, si precipita alle colonie, applica tutte
le scoperte scientifiche, si giova di tutti i progressi, tende a
sostituire l'aristocrazia in tutte le funzioni.
Coll'infallibilità dell'istinto essa si appoggia e appoggia i
re senza credere al loro diritto divino; l'aristocrazia annichilita
dalle centralizzazioni regie, attirata nella corte dalle seduzioni e
dalle necessità della propria vita, abbandona i castelli per
diventare cortigiana, mentre il popolo perde sino il ricordo
dell'antico vassallaggio. L'ultima devozione, il supremo entusiasmo,
il superstite vanto di essa è la servilità verso il
re, che l'ha distrutta; il suo orgoglio si esprime col fasto di un
lusso maggiore delle sue ricchezze. Il re rimane dunque solo nella
nazione. Superiore all'aristocrazia, alla borghesia e al popolo, non
appartiene a nessuna classe: questa che pare grandezza non è
che decadenza, giacchè invece di essere un potere vivo e
personale egli è appena un rappresentante, un simbolo
costretto ad accogliere l'idea della nazione. Quindi nel giorno che
pregiudizi o privilegi gli persuadano di essere minacciato nella
sublimità della propria posizione, non avrà nè
un'idea nè una forza, colla quale resistere all'invasione
democratica. L'aristocrazia senza influenza e senza valore,
divorando col più ignobile parassitismo la maggior parte
delle rendite dello Stato nella cassetta del sovrano, non
potrà che morire con lui, e non ne avrà forse il
coraggio; quel giorno la democrazia troverà facilmente la
propria republica.
La democrazia, principio e fine della sovranità individuale,
deve abbattere i re in tutte le nazioni per crearne uno in tutte le
coscienze.
Ma la democrazia religiosa di Lutero si arresta alla pace di
Vestfalia. Una atonia sorprende la Riforma sui confini tracciati
dalla spada di Gustavo Adolfo. Nemmeno tutta la Germania è
protestante; il moto fallisce in Ungheria, è respinto dalla
Polonia; non si estende alla Russia, non s'insinua che inutilmente
nei paesi latini. L'Inghilterra vi si muta improvvisando una
republica per conquistarvi alcuni progressi democratici; poi, fedele
al carattere della propria storia, richiama i re cacciati e riprende
il proprio corso colla libertà legale. La sua rivoluzione non
ha quindi espansione politica, e, breve, sanguinosa, sembra quasi
una rivolta. La ristorazione di Monk scema l'opera di Cromwell al
punto che occorre una nuova espulsione degli Stuardi e l'elezione
della dinastia protestante d'Orange perchè non vada perduta.
L'Inghilterra, una volta così efficace sul continente colle
vittorie contro la Francia, vi perde pressochè ogni
influenza, mentre dilatandosi sui mari vi raccoglie la gloria e la
potenza di Venezia. Le sue colonie diventano così floride e
numerose che il suo impero commerciale supera per estensione e
ricchezza quello antico di Roma. L'Austria cattolica eredita dalla
Spagna l'impero, nella cui forma federale può contenere
ancora la Germania luterana vibrante della memoria di Gustavo Adolfo
e fisa instintivamente al piccolo trono di Prussia. La Spagna di
Carlo V vede tramontare il sole della gloria entro i propri confini,
mentre il suo impero colpevole di aver rappresentato l'ultima
unità medioevale si sfascia come un immenso scenario, nel
quale s'ingolfano i terribili uragani delle sue sierre.
La Francia, regia e unitaria, guerriera e liberale, s'avanza sola
sull'Europa. Mentre la Riforma tenta replicatamente di infrangerla,
il genio di Caterina dei Medici innestato su quello di Luigi XI
schiaccia nel sangue, consuma col fuoco, disperde negli esigli,
annienta colla sapienza di una tirannia feroce sino
all'insensibilità e duttile sino alla spira la rivoluzione
degli Ugonotti. Quindi Richelieu, compiendo l'opera di Caterina,
purga da ogni ribellione tutto il suolo francese, emancipa la
politica dalla religione, rovina la Spagna, frena l'Inghilterra; con
lui sfolgora la grande civiltà francese già in lotta
per la conquista del mondo. Cartesio è il primo re del
pensiero moderno, che s'impone all'Europa liberandola da Aristotele.
Dietro lui una legione di scrittori estrae e diffonde le idee
latenti nella rivoluzione della Riforma col fascino di una
letteratura incomparabile. La democrazia si avanza precipitosa e
rumoreggiante. La Germania è ancora chiusa nella coccia della
feudalità, l'Inghilterra ripiombata nell'immobilità
delle proprie forme, la Spagna inerte sotto le rovine del proprio
impero appena illuminato dagli ultimi fuochi dell'inquisizione,
quando la Francia, gioviale ed incredula, colta e superba, si libera
dall'oppressione della propria aristocrazia e dall'eccessiva
costrizione dell'unitarismo regio coll'insurrezione carnevalesca
della Fronda. Regalità e feudalità vi perdono per
sempre l'intangibilità nel ridicolo di una guerra e
nell'ignominia di un equivoco, che lascia al popolo l'orgoglio di
aver potuto ridere ragionevolmente per molti giorni di tutte le
autorità politiche.
Ma la democrazia rientra nelle forme monarchiche per la
necessità di un ultimo periodo regio, che dia alla Francia
col predominio sull'Europa, la più irresistibile espansione
ideale.
Il grande secolo francese incomincia. Parigi succede a Roma
nell'importanza: Bossuet diventa un papa francese contro il
pontefice romano sostenendo l'inviolabilità del gallicanismo;
Colbert contro la tradizione agricola di Sully ottiene al commercio,
al lavoro e quindi al lavorante e al capitalista, come giovani forme
della ricchezza, la supremazia contro tutte le altre classi sociali;
l'Accademia reca nella letteratura l'unità monarchica
raddoppiando la penetrazione del pensiero coll'infallibilità
della parola ed assicurando la diffusione della verità col
gusto della bellezza. Quindi la letteratura prende la forma di un
contagio, dal quale nessuno resta immune. Tutte le idee trionfano in
tutte le espressioni. L'Europa meravigliata si lascia invadere e
soggiogare. Parigi è un immenso faro, la gloria, la moda, la
passione, il vizio e la virtù di tutto il mondo. Luigi XIV
può essere impunemente, senza alcuna vera qualità di
guerriero o di statista, meschino nello spirito, eccessivo nel
temperamento, violento nel carattere: vanitoso sino ad odiare tutti
i grandi uomini che lo circondano, può trovare nella
libertà dell'Olanda una offesa al proprio dispotismo:
incapace di sentire la grandezza ideale come Federico II, può
profondere nel fasto di Versailles la metà del tesoro
francese, esagerare il cattolicismo monarchico gallicano colla
revoca dell'editto di Nantes, lasciarsi governare tutta la vita
dalle donne, non sopportando neppure il dubbio che qualcuno o
qualche cosa gli resista: può non comprendere e non meritare
la propria posizione, avere tutti i difetti di Enrico IV senza le
qualità di Luigi XI e credersi nullameno un sole come
Alessandro, giacchè con lui la Francia illumina il mondo; e
solamente con lui dopo Carlomagno torna alla testa dell'impero.
Infatti le sue guerre la rinnovano e la rimutano: tre volte, a
Nimega, a Riswik, a Utrecht, le vittorie francesi obbligano tutti
gli stati a ripiegarsi sopra se medesimi e a discutere il proprio
diritto precisando la propria fisonomia. La Spagna diventa un regno
subalterno francese; l'Olanda, resistendo alle forze combinate della
Francia e dell'Inghilterra, riprende il corso naturale della propria
rivoluzione e sacrifica i De Witt a Guglielmo III d'Orange, che
spodesta gli Stuardi: sul Reno comincia la grande contesa di confine
tuttavia ardente tra la Francia e la Germania, dell'unità
dell'una colla federazione dell'altra, troppo forti entrambe per
imporsi mutuamente una linea che divenga un lineamento della loro
fisonomia geografica. La Germania, proclamando la permanenza della
Dieta di Ratisbona nel 1663, colla camera imperiale e colla camera
aulica composta metà di protestanti e metà di
cattolici, accenna già al grande dualismo politico
dell'Austria e della Prussia, che si muterà presto in duello
per riserbare al vincitore la gloria di unificare la federazione. La
Scandinavia e la Danimarca, la Polonia e la Russia si muovono
egualmente nell'orbita francese. L'Austria, succeduta alla Spagna in
Italia, vi ripete il suo ufficio, impedendo a questa di mutarsi in
provincia borbonica ed improvvisandovi col regno indipendente delle
due Sicilie un dispotismo illuminato e benevolo.
Venezia, Genova e la Corsica.
La storia italiana di questo periodo non è che una appendice
e un episodio della rivoluzione di Luigi XIV. Solo la decadenza dei
vecchi principati indipendenti e il rigoglio dei due nuovi regni vi
hanno carattere nazionale. Il problema del futuro regno italico
comincia a precisarsi nella rivalità di Torino e di Napoli,
libere entrambe dallo straniero e capaci di assimilarsi altre forze
nazionali.
Venezia, segregata dalla storia italiana, nella quale non
rappresenta più nè un'idea nè una forza, si
consuma in un lungo duello coll'oriente. Attirata, nel 1644, dalla
pirateria dei cavalieri di Malta in una nuova guerra contro
Costantinopoli, vi prodiga le ultime ricchezze e le estreme prove di
quel valore, col quale aveva anticamente conquistati tutti i mari.
Invano i suoi ammiragli affondano replicatamente le armate turche, e
Lazzaro Mocenigo, sublime di lirico eroismo, muore vittorioso sotto
le mura di Costantinopoli nell'incendio che gli divora la nave;
più invano ancora Francesco Morosini, ultimo capitano,
offusca la gloria di tutti i suoi predecessori, resistendo vent'anni
all'assedio di Candia e soggiogando più tardi tutta la Morea.
La repubblica morente sulle lagune non può mantenere la vita
nelle proprie colonie: gli scarsi aiuti del papa e dei nobili
venturieri francesi capitanati da La Feuillade e da Navailles, gli
accordi con Sobieski e le vittorie del principe Eugenio di Savoia in
Ungheria non bastano ad impedirle il trattato di Passarowitz (1718),
nel quale, abbandonando tutti i possessi d'oriente, conserva appena
le isole Jonie, quasi per lasciare in quella culla della poesia il
testamento della propria storia.
Genova, sua eterna rivale già salvata dall'eroica
generosità di Andrea Doria, resiste con maggiore energia ai
nuovi attacchi, ma il suo spirito republicano langue nell'equivoca
libertà misuratale dal protettorato francese. Carlo Emanuele
II, fedele al programma politico della propria casa, le insidia la
vita instancabilmente e invade le sue frontiere, compra in Raffaele
della Torre un ribaldo peggiore del Vachero per assassinarla con una
insurrezione di banditi: Genova, forte contro tale invasione, si
torrebbe facilmente di dosso l'avvoltoio savoiardo, se Luigi XIV non
la costringesse al disarmo, conculcando il suo orgoglio cittadino
colla propria vanità dispotica (1688). L'umiliazione del doge
Francesco Maria Imperiale-Lercaro a Versailles prostra lo spirito
dell'altera republica e chiude per sempre l'altera tradizione di
Andrea Doria. Quindi una prosperità commerciale inalterata,
mentre quella di Venezia diminuisce giorno per giorno, non basta
più a mantenerle nella esistenza di grosso comune la vita di
piccolo stato.
Infatti le nuove insurrezioni della Corsica (1731) rivelano tutta
l'insufficienza politica e militare della republica destreggiantesi
meschinamente per opporre all'odio patriottico dei ribelli
l'autorità equivoca dei vescovi, e invocante contro il
Ciaccaldi e il Giafferri, generali improvvisati della rivolta, i
reggimenti imperiali d'Austria. Ma, pochi anni dopo, la Corsica
insorge di nuovo, dichiarando la propria franchigia ed eleggendo a
re Teodoro Neuhof, ardito avventuriero e ciarlatano (1736): poi la
guerra prosegue così atroce che Genova è costretta a
chiamarvi i francesi per soffocarla nel sangue senza ottenere alcuna
pace. Oramai l'isola non può essere per la republica
nè uno stato soggetto, nè una colonia: pel primo
Genova dovrebbe avere l'antica forza militare, per la seconda
possedere attitudini agricole estranee alla propria natura. Invece,
travolta nelle guerre di successione, deve cedere col trattato di
Worms (1743) il marchesato di Finale e sopportare le ingiurie
dell'Inghilterra, per soccombere abbandonata dai francesi e dagli
spagnuoli sotto le forze riunite dell'Austria e del Piemonte.
Se non perisce interamente, come la inanità del suo governo
vorrebbe, solamente la reciproca diffidenza dei due conquistatori e
lo slancio della sua plebe marinara, insorta al grido di un
fanciullo rimasto poi nella storia col nome di un eroe, lo
impedisce. In un giorno solo gli austriaci del parricida Botta sono
respinti. Ma la momentanea energia della plebe, capace di resistere
trionfalmente agli sforzi combinati dall'Austria, del Piemonte e
dell'Inghilterra, non bastano a risollevare la viltà del
senato: così quando gli aiuti di Francia e di Spagna liberano
la città dall'assedio, Richelieu ne diventa il generale
supremo, e Genova, reintegrata dal trattato di Aquisgrana (1748) in
quasi tutto il proprio dominio sotto la protezione degli interessi
europei, non è più che la larva di se medesima. Il suo
senato, equivoca clientela di tutte le corti, non ha fede nel popolo
e non gliene ispira; la sua borghesia dimentica nell'acquisto delle
ricchezze la passione della libertà; il suo governo, sempre
schiavo di protettorati stranieri, non conserva dell'antica
grandezza che il fasto presuntuoso e l'inutile duplicità.
Infatti la Corsica, insorta alla voce dell'ultimo e migliore dei
suoi eroi, costituendosi in una republica di tipo olandese sotto lo
statolderato di Pasquale Paoli, batte tutte le truppe genovesi,
sgomina ogni combinazione del senato, profitta dell'attrito fra
Genova e la Santa Sede, improvvisa un governo talmente superiore a
quello di Genova, che questo con inetto e codardo espediente
è costretto a vendere l'isola alla Francia (1768).
Così finiscono contemporaneamente Genova e la Corsica.
Pasquale Paoli, soldato non meno prode di Guglielmo d'Orange e
politico generoso quanto Giorgio Washington, dovette esulare, povero
e vinto, perchè l'Italia, incapace di risorgere come l'Olanda
e l'America con una vera rivoluzione, non poteva ancora affermarsi
in faccia al mondo se non coll'apparente inutilità di
politiche grandezze individuali e solitarie.
Gli altri principati italiani.
Mantova, scaduta ad un principe poeticamente lussurioso, dopo la
liberazione di Torino (1706) espia l'errore di essersi appoggiata ai
francesi nella futile speranza di salvarsi da essi coll'appoggio
dell'Austria, vedendo il suo ultimo duca tradito dalla Francia e
destituito dall'imperatore morire di tristezza a Padova.
L'imprendibile rocca della contessa Matilde, indarno agognata dai
Veneziani, diventa quindi la più terribile fortezza
dell'impero austriaco in Italia. Lo splendore della sua vita si
spegne fra le nebbie silenziose dei suoi stagni, mentre Venezia,
antica rivale, deve rimpiangerla come unico baluardo contro
l'espansione imperiale. Ferdinando Gonzaga, principe di Castiglione
delle Stiviere, e Pico della Mirandola spariscono egualmente dal
numero dei principi, riparando a Venezia, città morente
mutata in ospizio di moribondi. Più fortunato, il duca di
Modena per aver aderito alla parte imperiale può conservare
il proprio stato ed insidiare persino Ferrara al pontefice; mentre
la famiglia dei Farnesi, colpita nella discendenza, deve cedere il
piccolo trono ai Borboni di Spagna (1731). Elisabetta Farnese
maritata a Filippo V ottiene nel trattato di Londra per il proprio
primogenito, incapace di succedere al padre nel regno di Spagna
perchè figlio di secondo letto, i ducati di Toscana e di
Parma dichiarati, per un richiamo alle antiche formule, feudi
dell'impero. Il pontefice protesta vigorosamente per Parma e
Piacenza immuni da ogni diritto imperiale, e solo dalla chiesa e per
la chiesa costituite in ducato; Cosimo III di Toscana imita il papa
dichiarando Firenze piuttosto pronta a perire che a perdere la
propria libertà. Vane proteste di minimi ed inutili regnanti
condannati a sparire dalle necessità della nuova storia!
L'Europa non bada ai guaiti dei due principati decrepiti, che
passano dai Farnesi e dai Medici ai Borboni e da questi ai Lorena.
Giangastone, ultimo pronipote di Lorenzo il Magnifico, più
vile dell'ultimo Gonzaga, accoglie in Firenze l'infante don Carlo
che deve succedergli, e chiude la storia della propria casa
coll'osceno suggello di una spintria (1737). Dell'antico governo
fiorentino, al quale Cosimo I aveva dato la terribile unità
del proprio spirito, non resta più che una memoria lontana
nel popolo e la gloria immortalata dai monumenti dell'arte. Ma i
trattati di Londra, di Siviglia e di Firenze, coi quali si era
disposto della successione dei due grossi ducati, non possono in
tanta tempesta delle guerre di successione essere rispettati.
L'Italia è preda e campo di tutti i contendenti: da un lato
la Spagna e la Francia, dall'altro l'Austria, in mezzo il Piemonte
sempre vinto e sempre invincibile, giacchè necessario
all'equilibrio dei maggiori avversari, sollecitato da tutti e da
tutti regalato di qualche provincia al finire di ogni guerra.
Coll'insediamento dei Borboni nel cuore d'Italia la bilancia delle
potenze precipita da un canto: la Santa Sede spodestata di Parma e
di Piacenza, asserragliata dal ducato di Toscana e dallo stato di
Napoli, teme di perdere altre terre; il Piemonte pensa con terrore
ad una conquista borbonica del Milanese che contemporaneamente
minaccerebbe gli ultimi giorni e gli ultimi possessi di Venezia.
L'Austria respinta definitivamente dall'Italia perderebbe
così quasi ogni importanza europea sotto l'impero di Luigi
XIV formato dalla Francia e dalla Spagna.
Il Piemonte nelle guerre di successione.
Mentre tutta l'Europa si drizzava fremendo ai nuovi appelli di
guerra per la successione austriaca di Maria Teresa, in Italia solo
il Piemonte vigilava nell'armi. Da molti anni, attraverso invasioni
e conquiste, dalle quali usciva sempre maggiore e libero sotto il
governo dei propri duchi, esso rappresentava la vitalità e
l'avvenire d'Italia. La sua politica tra avvenimenti così
mobili mostra una fissità meravigliosa e si riassume in due
parole: destreggiarsi per ingrandirsi. La coscienza di essere
necessario a tutte le contese mantiene nel suo coraggio naturale una
costanza eroica, che la duplicità della sua diplomazia
illumina di luce incerta; i suoi duchi, volgari nelle armi e nella
politica, ottengono dalla necessità europea quanto nessuna
grandezza di cuore o di ingegno avrebbe potuto meritare ad alcun
altro principe italiano. Il suo popolo, ignorante e compatto come
gli antichi romani, non ha nè pensiero nè sentimento
proprio. Nessuna guerra lo stanca, nessuna sconfitta lo prostra,
nessuna libertà lo tenta. La fortuna di casa Savoia è
talmente fusa con quella del Piemonte che nulla può
scinderle.
Carlo Emanuele II, fedele al nome dell'avo, ritenta già nel
1672 l'impresa di Genova cogli stessi mezzi e col medesimo successo:
alla sua morte, nel 1675, la duchessa reggente Maria Giovanna deve
resistere a Luigi XIV, che rinnovando le insidie di Richelieu alla
duchessa Cristina, vorrebbe mutare il Piemonte in feudo francese e
il giovane duca, Vittorio Amedeo II, in re di Portogallo. Ma questi,
accortosi della trama, la sventa, doma la piccola ribellione di
Mondovì, e, cedendo agli ordini della Francia, massacra con
un'ultima strage gli ultimi Valdesi. L'inutile viltà di
questa carneficina, nella quale egli non figurò che come il
più abbietto vassallo di Luigi XIV, lo attirò poco
dopo in guerra contro la Francia per la successione del Palatinato.
Destro e bugiardo, dopo aver molto temporeggiato trattando
contemporaneamente con Luigi XIV e coll'imperatore Leopoldo I,
dovette finalmente decidersi per questo, onde resistere a Catinat
disceso a Pinerolo. Ma peggior generale che politico, malgrado il
valore di Eugenio di Savoia accorso a sostenerlo, fu battuto a
Staffarda (1690), a Marsaglia (1693), e dovette per non perdere
interamente lo stato tradire i propri alleati, stipulando colla
Francia la neutralità dell'Italia. Ma più che le
infide tergiversazioni lo soccorsero i bisogni di Luigi XIV, il
quale, divisando di impadronirsi della successione spagnuola col
proprio nipote duca d'Angiò, mirava a liberarsi dalle armi
dei confederati e considerava una prima pace col duca di Savoia come
un mezzo di persuaderla agli altri. Infatti a Ryswick, villaggio
olandese, fu conchiusa la grande ed effimera pace, che dopo una
guerra esiziale di due lustri ristaurava con pochi mutamenti
l'aspetto territoriale europeo stabilito dal trattato di Nimega. Il
duca di Piemonte, miracolo di doppiezza e di fortuna, ricuperava
persino le fortezze sino allora occupate dalla Francia, e fidanzava
col figlio del Delfino la propria figliuola Maria Adelaide.
Ma alla nuova guerra determinata dall'elezione del duca
d'Angiò a re di Spagna, il Piemonte, stretto fra i due
maggiori contendenti, deve ancora scendere in campo ed essere campo
alle più fiere battaglie. La sua politica non muta, sempre in
partita doppia, aspettando dagli avvenimenti, l'ordine e l'ora di
tradire qualunque alleato. Mentre Venezia, sollecitata da ambo le
parti, può ricusarsi alla lotta col pretesto di ultime
imprese in Oriente, confessando così di non appartenere
più alla storia italiana; e Mantova, imitando le
infedeltà savoiarde, è destinata a sparire come un
principato minimo ed inutile; il Piemonte forte del presente e
dell'avvenire d'Italia deve partecipare a quella guerra che fissa la
fisonomia dell'Europa moderna. I suoi tradimenti esprimono i
contraccolpi dell'avvenimento europeo nel fatto italiano, e la sua
vittoria finale come regno consacra la necessità di uno stato
italiano tra Francia ed Austria, non meno forte e più moderno
di entrambe. La Francia non può quindi vincere la guerra se
non distruggendo il Piemonte, indispensabile a tutta l'Europa contro
l'espansione francese, che, secondo la frase classica di Luigi XIV,
aveva già spianati i Pirenei; la Spagna decaduta e subalterna
deve perdere fatalmente in Italia i dominii conquistati nell'apogeo
del proprio impero; l'Austria sola può succederle, ma con
minore importanza e zona più breve. Infatti questa,
discendendo in Italia, invece di occupare la Toscana e le due
Sicilie come provincie dell'impero, è costretta malgrado ogni
trionfo a riconoscervi un regno e un ducato, autonomo il primo e
soggetto il secondo al suo protettorato.
La guerra della successione spagnuola fu aspra e fortunosa. Vittorio
Amedeo II e Catinat sostennero male il primo urto del principe
Eugenio di Savoia generalissimo degli austriaci: Villeroy, succeduto
a Catinat guerriero d'antica virtù, cadde di disastro in
disastro, finchè il duca di Vendôme, impetuoso e
scaltrito, potè arrestare la fortuna imperiale. Ma il
tradimento di Vittorio Amedeo, alleatosi abilmente coll'Austria,
imbrogliò la guerra: Eugenio di Savoia e il duca di
Vendôme, richiamati l'uno in Baviera e l'altro in Francia,
cessero il campo a minori generali. Allora le sorti del Piemonte
pericolarono daccapo, Torino fu assediata, Pietro Micca la
salvò, Eugenio di Savoia la liberò dall'assedio nel
1706. Quindi gli imperiali, voltandosi verso Napoli male difesa dal
vicerè, marchese di Vigliena, la conquistarono a nome del
pretendente austriaco Carlo III sconfitto in Spagna da Filippo V; il
marchese Spinola potè appena impedire loro la Sicilia;
Vittorio Amedeo cupido della Provenza tentò coi confederati
l'impresa di Tolone, e vi si condusse e vi fu battuto come un
brigante. La Sardegna, sforzata dall'ammiraglio inglese Leake,
passò dall'ubbidienza spagnuola all'austriaca; il papa stesso
s'impegnò in guerra coll'Austria per sostenere i diritti
della chiesa, mandando il suo generale bolognese Marsigli a
mescolare la comicità delle proprie disfatte agli orrori di
una guerra, che insanguinava tutta l'Europa.
Ma la fortuna di Luigi XIV precipitò dappertutto: sbaragliati
i suoi eserciti, distrutte le sue flotte, il tesoro esausto, la
Francia prostrata, tutta l'Europa minacciante ai confini. L'altero
chiese pace. I confederati, imponendo troppo dure condizioni, la
trassero in lungo, finchè la morte dell'imperatore Giuseppe
I, al quale successe il fratello Carlo, pretendente austriaco, e la
caduta del ministero Marlborough in Inghilterra poterono agevolare
gli accordi fra la Francia, la Gran Brettagna, la Prussia, gli stati
generali d'Olanda e la Savoia. Quest'ultima, al trattato di Utrecht
(1713) spalleggiata validamente dall'Inghilterra, dopo vane
insistenze per dilatarsi sul territorio francese, guadagnò,
oltre il riconoscimento delle concessioni sui territori lombardi,
ottenuti coll'ultimo tradimento dall'imperatore Leopoldo I, la
Sicilia col titolo di re per i propri duchi e col diritto sovrano di
agguerrirsi e di fortificarsi.
Così il Piemonte si costituiva per primo in regno italiano
col consenso e per opera della nuova Europa.
Al trattato di Rastadt stretto poco dopo fra i due supremi generali,
Villars e Eugenio di Savoia (1714), si convenne che l'Austria
succederebbe alla Spagna nei dominii italiani del regno di Napoli,
del ducato di Milano e della Sardegna.
Però quest'assetto politico dell'Italia doveva mutarsi in
breve per iniziativa di un grande italiano. Giulio Alberoni, povero
prete piacentino, presentato dal duca di Vendôme a Filippo V
di Spagna, potè persuadergli per moglie Elisabetta Farnese,
donna di alti spiriti e di fiero carattere. Quindi, divenuto con lei
e per lei primo ministro, volle con ammirabile superbia ed astuzia
di ingegno risollevare la Spagna dalla bassezza politica, nella
quale il trattato di Utrecht l'aveva precipitata. Rapidamente
improvvisò eserciti, armate, finanze, deludendo tutte le
diplomazie, galvanizzò il re, minacciò
contemporaneamente la reggenza francese, il re di Piemonte in
Sicilia e l'Austria in Sardegna. La temerità di tanti disegni
gli attirò sopra tutta l'Europa senza che il suo spirito
sbigottisse; ma la fiacchezza di Filippo V esaltato dalle prime
vittorie non resse alle prime sconfitte, onde l'Alberoni, cacciato
di Spagna, povero ed altero tornò in Italia per esaurirvi
nella ridicola impresa di San Marino la potenza di un ingegno
politico, che aveva potuto sollevare mezza Europa. Le conseguenze
dei suoi moti determinarono però un migliore riparto negli
stati politici d'Italia, giacchè la Sicilia fu ceduta
all'Austria e la Sardegna al re di Piemonte. Questi, vecchio ed
affievolito da tante vicissitudini, dopo aver compiute parecchie
buone riforme, volle abdicare nel 1730 in favore del figlio Carlo
Emanuele III, ma più infelice di Carlo V, avendo poi tentato
di riprendere la corona, fu da quello chiuso nel castello di Rivoli,
ove perì miseramente.
Quindi un'altra successione preparò all'Italia una altra
guerra e un altro regno. Alla Prammatica sanzione emanata
dall'imperatore Carlo VI nel 1724 per assicurare l'integrità
dei possessi austriaci, conferendone l'eredità alla propria
figlia Maria Teresa contro le due figlie del defunto imperatore
Giuseppe I suo fratello, l'assetto politico dell'Italia si
cangiò nuovamente. Per ottenere l'assenso della Spagna e
della Francia alla nuova legge di successione, l'imperatore
acconsentì che i ducati di Parma, Piacenza e Toscana,
derelitti per difetto di discendenza nelle proprie dinastie,
passassero dai Farnesi e dai Medici all'infante don Carlos di
Spagna. Ma poichè le proteste dei principi elettori di
Baviera e di Sassonia contro la Prammatica sanzione, e la
successione di Augusto II di Polonia, alla quale concorrevano lo
stesso principe di Sassonia e Stanislao Leszinski, già re di
Polonia e genero di Luigi XV, aggiunsero altri problemi alla
grossissima questione della successione austriaca, s'accese una
guerra europea: da una parte l'imperatore d'Austria, dall'altra il
Piemonte, la Francia e la Spagna. Questa volta le proteste degli
alleati e dell'imperatore, per quanto ipocrite, suonavano tutte in
favore della libertà polacca, annunziando colla
necessità di questa menzogna la verità del nuovo
diritto nazionale.
Sulle prime Francia e Piemonte avendo conquistato il Milanese, Carlo
Emanuele III sognava già di ridurlo a propria provincia,
quando il maresciallo Villars, sospettoso della duplicità
savoiarda e non meno cupido della Lombardia per la Francia, si
gettò attraverso quel sogno dissipandolo. Intanto gli
spagnuoli, sbarcando nei porti della Toscana, già guadagnati,
muovevano coll'infante don Carlos all'impresa di Napoli e
saccheggiavano Mirandola e Piombino. L'agevole guerra si
compì colla grossa vittoria del marchese di Montemar a
Bitonto sugli austriaci; la Sicilia si arrese quasi senza colpo
ferire, e il regno fu costituito fra le acclamazioni di tutto il
popolo sempre infervorato di ogni nuovo signore (1735). Nullameno
questa volta vi erano legittime speranze di un ritorno all'antica
autonomia. La guerra intanto proseguiva fierissima nella Italia
superiore. Gli austriaci respinti a Parma, battuti a Guastalla, dopo
diversi altri scontri vennero ad un accordo, col quale la Toscana
alla morte dell'ultimo duca Giangastone doveva passare alla casa di
Lorena, il regno di Napoli veniva riconosciuto indipendente, il re
di Sardegna acquistava con due distretti del milanese al di
là del Ticino la superiorità sui feudi delle Langhe, e
la Francia appropriandosi il ducato di Lorena riconosceva la
Prammatica sanzione.
Lo scopo italiano della guerra era dunque raggiunto.
Oramai l'Europa riconosceva due grossi regni nella penisola. La
Toscana, passata dai Medici ai Lorena, guadagnava una migliore
dinastia; Venezia, estranea all'Italia come nei primi tempi
medioevali, agonizzava lentamente; la Lombardia, sottomessa
all'Austria, migliorava la propria condizione amministrativa;
Genova, sempre agognata dal Piemonte, era una preda ancora troppo
grossa per essergli conceduta. Ma alla morte dell'imperatore Carlo
VI la guerra riavvampò per la successione di Maria Teresa,
maritata a Francesco di Lorena granduca di Toscana. Francia, Spagna,
Baviera, Russia, Sardegna e le due Sicilie si scagliarono contro
Maria Teresa: questa, fuggiasca da Vienna, riparò fra gli
ungheresi, che, giurando cavallerescamente di morire tutti per lei,
ristorarono la sua fortuna con inaudito valore. Naturalmente Carlo
III si alleò allora con lei, tradendo i confederati. La
guerra imperversò quindi in un viluppo spaventoso sulle
sponde del Po, del Panaro e della Secchia: il ducato di Modena ne
andò rotto, la Savoia fu invasa. Il trattato di Worms (1743)
fra Inghilterra Austria e Piemonte, togliendo a Genova il marchesato
del Finale per attribuirlo a Carlo Emanuele, trascinò la
republica nella guerra: gli austriaci ritentarono la conquista di
Napoli; ma, fallendo nell'impresa di Velletri, dovettero
abbandonarne ogni idea. Il Piemonte, diventato bersaglio di tutta la
guerra, si difese validamente, resistè al principe Conti,
parve anche una volta presso a sfasciarsi dopo la rotta di Bisignana
e le perdite di Alessandria, Tortona, Casale e Asti; ma l'accortezza
politica di Carlo Emanuele lo salvò, abbindolando la Francia,
generosa con lui di un trattato che lo avrebbe costituito signore di
Lombardia, e profittando della pace di Dresda fra Maria Teresa e
Federico II, e della successione di Ferdinando IV a Filippo V di
Spagna.
Finalmente alla pace di Aquisgrana (1748), dopo l'episodio di
Genova, la pace riconobbe a Filippo Borbone, fratello minore di
Carlo III di Napoli, il ducato di Parma, il duca di Modena fu
reintegrato, il Piemonte giunse al Ticino, il regno di Napoli
diventò più compatto e forte che non mai in tutto il
passato della sua storia, la Toscana si cangiò in un ducato
dell'impero austriaco, la Lombardia in una sua provincia, Venezia
rimase rispettata perchè negletta, il popolo trascurato
perchè impotente. Di Lucca nessuno si accorse.
Il Papato.
In tutto questo periodo di un secolo la sua opera politica fu peggio
che nulla. Dopo la terribile energia di Pio V nella Bolla in Cœna
Domini l'irruenza altera di Paolo V contro Venezia e il nepotismo
depravato e rapace di Urbano VIII, la vita del papato si allenta in
una inerzia, che rivela nella decadenza della sua idea la nullaggine
del suo regno. Innocenzo X (1644) non è più che un
giocattolo nella mano fine di donna Olimpia Pamphili e un flagello
in quella sanguinaria di Carlo Emanuele II infuriante sui valdesi:
Alessandro VII, Clemente IX passano inosservati nella lunga serie
dei papi. Innocenzo XI, tenace sino alla caparbietà, è
il solo che osi resistere a Luigi XIV, togliendo le immunità
agli ambasciatori e contraddicendo al gallicanismo malgrado
l'invasione dei francesi in Avignone e la minaccia di peggior guerra
contro Roma; ma la sua energia personale non può trasfondersi
nel papato, che patteggia col suo successore Alessandro VII. Le
contese del 1707 fra Clemente XI e Giuseppe I d'Austria par il
ducato di Parma e Piacenza, ridichiarato feudo dell'impero, e le
altre del 1716 con Vittorio Amedeo II a cagione della Sicilia e di
alcuni feudi piemontesi soggetti a privilegi ecclesiastici,
rinfocolando gli animi con discussioni e scomuniche, resero sempre
più inefficaci ed assurde le viete pretese dell'impero e del
papato. Ad ogni elezione di pontefici, le numerose fazioni
contendenti nel conclave non ebbero più altro scopo che di
impossessarsi di un grado e di un regno favorevole alla
vanità e all'avarizia. Il papato non era più che un
pontificato incapace di provocare o di sedare in Europa la
più piccola discordia; le sue armi spirituali, una volta
così terribili, non spaventavano più le coscienze, la
nuova fede protestante e la nuova incredulità scientifica ne
ridevano del pari.
Quindi Benedetto XIV (1740) giungendo al pontificato vi portò
una disinvoltura bonaria ed incredula degna del secolo di Voltaire:
invece di maledire sorrise, mutò le scomuniche in
discussioni, cercò di resistere coll'elasticità dopo
le troppe prove infelici della rigidezza. Con lui comincia un'epoca
nuova nella storia del papato, oramai ridotto a semplice grado
ecclesiastico e a una abbazia grossa quanto un regno. A distanza di
un secolo e mezzo, dopo Sisto V, egli è il solo pontefice che
lo uguagli nell'importanza e gli assomigli nella popolarità:
quegli benefico perchè terribile, questi accetto
perchè mite, ambedue mondi nel costume e inclinati a
considerare la religione piuttosto come un istrumento che come un
principio della storia.
Ma una insolubile contraddizione violentava lo spirito del papato,
forzandolo ad affermarsi come regno su titoli medioevali santificati
dalla religione, mentre tutte le nazioni d'Europa rimutavano il
proprio diritto. Le antiche concessioni dell'impero, annullate
gradatamente in tutti i principati della penisola, non potevano
essere conservate nello stato pontificio: un popolo nuovo sorgeva
nell'Europa, ostinato di già a cercare in se stesso l'origine
di ogni legge politica. Impero e papato non esistevano più in
nessuna coscienza; quindi, urtandosi come forme vuote, dovevano
empire del proprio suono tutte le terre. Ma gli stati, respingendo
la supremazia ideale di Roma e reagendo contro i privilegi del
clero, invece di rinnovare le contese medioevali fondavano una nuova
legislazione. Filosofi, giureconsulti, scienziati, statisti,
scrittori, tutti si opponevano al papato, decomponendolo nella
più fine analisi, dissolvendolo nei più caustici
epigrammi. La sua impotenza politica saltava agli occhi di tutti; la
sua immobilità nell'immensa rivoluzione rimutante l'Europa
diventava un anacronismo.
Il nuovo problema italico.
Il problema politico si era capovolto. Mentre per tutto il medioevo
lo scopo della storia italiana era stata la federazione contro le
violenze unitarie di ogni barbara conquista, ora raggiunta colla
federazione la grande civiltà del rinascimento e adempito
l'ufficio della prima educazione europea, l'Italia si volgeva a
creare il proprio regno. E come, nell'incapacità di fare in
se stessa le grandi rivoluzioni necessarie alla creazione dell'uomo
e dello stato moderno, doveva aspettarne i benefici contraccolpi
dalla Germania, dall'Inghilterra, dall'America, dalla Francia, da
tutte le nazioni già costituite o più pronte a
costituirsi; così, invertendo il processo della federazione,
ingrossava quello fra i suoi principati meno logoro dalle lotte
medioevali. Solo il Piemonte non aveva avuto importanza nel medioevo
e non vi aveva espresso alcuna idea, quando Milano e Venezia, Verona
e Firenze, Napoli e Palermo, Pavia e Ravenna, Genova e Bologna
brillavano di ogni civiltà alzando le proprie cronache a
grado di storia.
Il Piemonte, riserbato a più alti destini, entra nella storia
d'Italia all'agonia degli altri principati, e simile a Roma antica
afferma subito la propria tendenza alla conquista del regno.
L'unità di quest'idea spiega l'incessante duplicità
della sua condotta e la brutalità militare della sua vita. Il
Piemonte non ha significato che nella politica italiana. Ma le
guerre della successione spagnuola lo mutano in piccolo regno,
quelle per la successione austriaca ricostituiscono solidamente
l'altro di Napoli. Quindi la storia d'Italia non si svolge
più che nell'inconscia e fatale rivalità dei due regni
condannati a non potersi nè confederare nè combattere
e a doversi nullameno soverchiare nello scopo finale di un'unica
monarchia italiana; mentre Roma, pietrificata nelle memorie
medioevali, e l'Austria, succeduta all'impero come potenza moderna
conquistatrice, raddoppiano con una inutile alleanza gli ostacoli
alla formazione del regno. Contro l'opposizione di Roma e
dell'Austria l'Italia avrà l'invincibile soccorso del diritto
e della rivoluzione: nella rivalità dei due regni il Piemonte
prevarrà necessariamente a Napoli, perchè la futura
monarchia dovendo risultare dal diritto moderno con un processo di
annessioni plebiscitarie, il Piemonte conquisterà meglio di
Napoli le simpatie e gl'interessi della maggior parte d'Italia.
Infatti i suoi contatti con Genova, con Milano, colla Toscana, con
Venezia, colle Romagne gli permetteranno di loro affratellarsi,
eccellendo nella libertà e nell'indipendenza dallo straniero,
mentre lo stato pontificio, separando come un enorme muraglione il
regno napoletano da tutto il resto d'Italia, impedirà nella
grande metropoli del sud il formarsi del carattere e delle
affinità nazionali. Le annessioni, come ultima formula
dell'antica confederazione, si volgeranno più facilmente al
Piemonte che alle due Sicilie; e poichè nella storia come
nella vita chi non sale discende e chi non prosegue indietreggia,
vedremo Napoli non solo abbandonare presto ogni tendenza italiana
per chiudersi nell'angustia dei propri confini, ma inseguita entro i
medesimi dallo spirito rivoluzionario, diventare con Roma e
coll'Austria centro di ogni reazione politica.
Capitolo Quarto.
Genio e carattere nazionale
durante la formazione dei due regni
Le scuole politiche.
Dal periodo di Luigi XIV alla rivoluzione francese la vita politica
dell'Italia si addensa nella riforma di pressochè tutti i
suoi stati. Si direbbero i primi soffi del vento annunzianti
l'uragano. La lotta s'impegna fra Roma e i governi per la
laicità dello stato; i principi reclamano la propria
indipendenza contro i privilegi del clero, non intendono riconoscere
investiture, sopprimono le immunità, affermano nella politica
un diritto civile superiore al diritto canonico. Così la
riforma luterana penetra nel cattolicismo, emancipandone gli stati.
La guerra si accanisce in battaglie quotidiane per diritti massimi e
minimi entro procedure assurde, che impongono alle riforme le curve
dell'arte e della scienza curialesca. Ma sotto il dibattito legale
si agitano le idee filosofiche ed economiche del secolo.
L'organizzazione sociale, ancora improntata sul tipo medioevale col
re assoluto, col papa onnipotente, colle classi antagoniste ed
irrefondibili, contraddice allo spirito di libertà e di
uguaglianza della nuova civiltà. I principi, assalendo Roma,
combattono il proprio diritto divino, senza sospettare che
all'indomani della loro vittoria il popolo, invece di applaudire, li
scaccerà colla più grande delle rivoluzioni.
Ma questo per ora non mostra nè genio nè carattere
politico. La politica e la legislazione abbandonate al principe non
esprimono più alcuna azione popolare; il perfezionarsi della
loro giustizia e l'allargarsi della loro democrazia paiono piuttosto
beneficenza di sovrano che esigenza di popolo. Le antiche
rivalità municipali sono cadute colle vecchie energie: non
più virtù militari o civili, nessuna funzione che
permetta l'esercizio di grandi qualità, nessuna carriera che
l'avvilimento cortigiano non interrompa o snaturi. Principe e corte
riassumono tutti i poteri e tutte le forze vive dello stato: mai
dispotismo fu più assoluto e meno esorbitante. Tutto stagna.
Il popolo sogna nel pensiero di qualche solitario come Vico, non si
riconosce nelle storie di Giannone, ride alle commedie di Goldoni,
delira ai melodrammi di Metastasio. Quindi l'insurrezione dei
dialetti, che aveva detronizzato la letteratura nazionale, cessa
improvvisamente: sul teatro gli attori scacciano le maschere, e
l'opera soverchia la commedia. L'ultima creazione della prosa
popolare è Meneghino, immagine del popolo crapulone e
codardo, nel quale il buon senso non serve più che a
giustificare l'abbiezione del carattere e l'ignoranza del pensiero.
Dal 1650 al 1707 le scuole politiche italiane si oscurano nel
più squallido tramonto. La scuola della ragione di stato,
quella federale, dei tacitisti, dei republicani, dei monarchici, non
hanno più uno scrittore degno di essere letto; il catalogo
delle loro opere basta a rivelare coi loro titoli l'assurdità
delle materie e dei metodi, coi quali furono composti. L'Italia non
ha più pensiero politico, perchè la sua vita politica
ha perduto ogni spontaneità e ogni indipendenza. Le
rivoluzioni di Masaniello a Napoli e di Alessio Battiloro a Palermo
non attirano l'attenzione di alcun scrittore; gli sforzi del
Piemonte per espandersi fra le percosse di tutta l'Europa non
bastano a ravvivare la morta tradizione del regno; l'atonia dello
stato pontificio ha sorpreso lo spirito de' suoi sudditi; i
mutamenti dinastici di Toscana, di Parma, di Napoli, di Milano
avvengono senza strappi nelle abitudini e nella coscienza delle
singole regioni. Tutti sono così persuasi
dell'impossibilità di ogni libero moto italiano che sulla
terra delle rivoluzioni regna per la prima volta una calma
indefinibile. Malgrado i contraccolpi delle guerre europee
strazianti la penisola, la sua vita interna prosegue fra così
grandi franchigie, che le permettono di seguire a non grande
distanza i progressi delle maggiori nazioni già emancipate.
La vecchia scienza politica, costrutta da Machiavelli
nell'empietà e trasportata da Botero nella religione,
soccombendo nella impossibilità di qualsivoglia azione,
dimentica tutti i precetti di stato, gli assiomi delle perfidie
sovrane e i teoremi dell'ubbidienza popolare, coi quali si era
destreggiata per due secoli fondando e difendendo i principati.
Oramai ogni espediente sarebbe inutile, ogni teorica impossibile. Il
mondo del rinascimento è vanito; un'altra rivoluzione dopo
quella di Germania e d'Inghilterra sta per scoppiare. Si ritorna
all'antica politica creata da Platone e descritta da Aristotele,
nella quale il bene pubblico ripiglia il posto di quello del
sovrano. Il dualismo della chiesa e dell'impero, l'una concepita
nella verità divina e l'altro nella verità umana, che
aveva riempito il medioevo, si compone dopo il trattato di Vestfalia
nella formula di un diritto al tempo stesso umano e divino, ideale e
reale. Ogni individuo è pari all'umanità, ogni stato
è fatto in lui, con lui, per lui: ogni governo esprime
l'azione di tutti su tutti, ispirata alla verità, dominata
dalla giustizia. L'interesse politico non può essere che il
bene universale: il diritto dello stato domina quello degl'individui
come il tutto domina le proprie parti senza sopprimerle. La scienza
politica si muta quindi in scienza della storia: quella del governo
in scienza giuridica ed economica. Al segreto della vecchia politica
succede la pubblicità della nuova; non vi sono più
nè sovrani nè sudditi: lo stato composto di cittadini
è una unità costituita di unità.
Queste idee diffuse in Germania, in Inghilterra e sopratutto in
Francia interrompono per sempre la lunga ed oramai inutile serie
degli scrittori politici italiani bamboleggianti nei catechismi
politici. L'ultimo scrittore è Gregorio Leti, bizzarra natura
d'improvvisatore, che coglie a volo tutti gli effimeri aspetti della
propria epoca, e li fissa in abbozzi degni di Salvator Rosa pel
colorito. Incredulo, bugiardo, negligente, penetrante, passa
attraverso il mondo come un viaggiatore frettoloso, che parla e
schizza, racconta ed esamina: non rispetta nulla, ma fa buon viso a
tutto; mente, ma cerca per istinto la verità; non arriva alla
satira del Boccalini, e nullameno la sorpassa colla
terribilità di un buon senso, che rispecchia capovolta
l'immagine di tutte le assurdità ancora venerate e rovescia
colla rapidità della propria onda cristallina gli avanzi di
tutte le rovine medioevali. Ma egli muore nel 1701, quando al
dominio ispanico sta per succedere l'austriaco, e Napoli e Torino si
mutano in capitali di due grossi regni.
Giambattista Vico.
Dopo di lui la scienza politica passa dagli aridi e goffi trattati
di se stessa nella storia. Giambattista Vico, un solitario grande
quanto la solitudine, medita nel trambusto del proprio secolo e nel
silenzio della propria vita il problema della storia universale.
Ignorato ed incompreso, non comunica col proprio tempo che per la
critica colla quale lo respinge: ultimo fra i cinquecentisti in
ritardo, adora il classicismo e lo tradisce inconsciamente col
proprio genio novatore. Le scuole, nelle quali era cresciuto, non
avevano potuto nè contenerlo, nè soddisfarlo: aveva
studiato la grammatica in Alvarez, la filosofia in Suarez, il
diritto in Vultejo: incapace di scendere nel fôro, si
rifugiò nella miseria della pedagogia e, solo per nove anni
nella rocca di Vatolla, visse in una biblioteca come Campanella
aveva vissuto in un carcere. Ma ritornato a Napoli e divenuto per
forza di protezioni professore di rettorica nell'Università,
fu tratto nella battaglia del cartesianesimo di allora. La sua
cultura classica e la sua ignoranza del moto filosofico che agitava
l'Europa lo misero fra gli oppositori: vide in Cartesio un Crisippo,
in Gassendi un Epicuro, se non che, oppugnando Cartesio, fu
trascinato oltre nella filosofia e nella storia. Un istinto di terre
lontane, una inconscia bramosia di scoperte lo attirava
nell'antichità, quasi che solamente risalendo tutto il
passato potesse affacciarsi all'avvenire. Studiava da solo, non si
concedeva altro maestro che se stesso. Simile a Rousseau, non aveva
a quarant'anni scritto che due opuscoli quasi insignificanti.
Quindi, nell'esumare l'antichità italica, l'urto della
filosofia di Pitagora contro le leggi delle XII tavole lo gitta nel
diritto storico di Roma; Grozio lo soccorre, ma il diritto
filosofico di questo raddoppia la contraddizione portandola dalla
storia di Roma in quella del mondo: la republica ideale di Platone
triplica l'antitesi col proprio quadro ideale, da cui non sorge e su
cui nessuna storia si modella. La lotta fra la giustizia e la storia
affatica lungamente il suo genio, finchè Leibnitz colla
teorica dell'armonia prestabilita gli apre un'uscita improvvisa su
meravigliose quanto confuse prospettive. E Vico si precipita. Tutto
parte da Dio e ritorna a Dio; Dio congiunge spiriti e materie,
sensazione ed idea. Nosse velle posse, son la triade divina, che
atteggiano la vita dell'uomo e la storia dell'umanità. La
storia non distrugge la filosofia come la fisica non sopprime la
metafisica; l'interesse è la sensazione che sveglia l'idea
dell'uomo e forma le nazioni nella storia. La quale, essendo una
continua realizzazione d'idee provocate dall'utilità o dalla
necessità, passa dall'infanzia alla giovinezza, per finire
nella maturità come la vita dell'individuo. La storia di Roma
si apre all'occhio di Vico come una lotta del diritto fra patrizi e
plebei, nella quale ogni fase realizza una giustizia, e ogni fatto
la prepara; la storia di Roma esprime tutta quella del mondo e ne
rivela la preistoria.
Un lampo abbagliante scopre a Vico i primi giorni
dell'umanità; gli mostra il terrore adunare i primi uomini, i
padri dominare le prime adunanze, i forti stabilire i primi confini,
i violenti insanguinarli, i deboli rifugiarvisi e mutarvisi in
schiavi. Tale è l'origine di ogni città, una vittoria
di padri o di patrizi. Vico raggiunge Hobbes nella descrizione dello
stato selvaggio, ma lo supera nell'interpretazione delle prime forme
civili: incontra Bodin nella decomposizione feudale di Roma antica,
ma con occhio più sicuro ripete e migliora la sua analisi. A
forza d'interpretazioni ideologiche e politiche Vico dissipa ogni
dubbio nella storia del diritto umano. Un'immensa erudizione lo
soccorre, una divinazione prodigiosa gli rivela tutte le
intimità della vita romana. Dove Machiavelli non aveva veduto
ed ammirato che la grandiosità di certe apparenze militari e
politiche, Vico scopre una giurisprudenza e una psicologia
universale. Brisson, Sigonio, Gravina, tutti i grandi interpreti
dell'antichità, rimangono dietro di lui; dal diritto romano
giunge al diritto feudale del medioevo, e lo penetra e lo spiega col
medesimo processo. La storia è la fisica del diritto, del
quale la filosofìa è la metafisica; ma la fisica non
essendo vera che nella costanza e nell'universalità de' suoi
fenomeni, la storia di Roma dev'essere identica a quella del mondo.
Da questa affermazione teoretica Vico scende alla prova. Nulla lo
spaventa. Limitato alla bibbia, ai greci e ai latini, egli ignora le
storie dell'India e della China: l'orbita tracciata da Aristotele e
da S. Tommaso è un circolo fatato ed infrangibile per il suo
pensiero, ma da questa prigione egli spinge lo sguardo su tutte le
lontananze e ne fissa con meravigliosa audacia il disegno sulle
proprie carte. Persiani, spartani, ateniesi, cartaginesi, ebrei,
egiziani, tutti ripetono la storia di Roma; la identità della
loro idea non è un plagio o una trasmissione, ma un
carattere, una necessità al tempo stesso fisica e spirituale:
l'uomo uguale dappertutto crea dappertutto la medesima storia. Le
etimologie lo dimostrano. Nessun filosofo inventa ed affida ad alcun
popolo un'intera civiltà; la mitologia è un linguaggio
dei popoli incolti come l'immagine è l'espressione naturale
dei fanciulli; le divinità non esprimono che i momenti di
un'idea o di un fatto; il mito è al tempo stesso un quadro e
una sintesi, ingrandita o svisata dalla tradizione.
Con questo sforzo Vico ha creato la scienza della storia: gli
accidenti politici e militari, che vi tenevano il primo posto,
rimettono la maggior parte della loro importanza; la storia è
la psicologia dell'umanità, la legislazione è il moto
della giustizia e la rivelazione della verità nella storia.
Nessuna contraddizione deve dunque esservi insolubile, altrimenti
l'unità divina e l'unità umana ne andrebbero rotte. Il
modello di Roma dà la certezza a tutti i modelli frammentari
delle altre storie. Tutte le lingue e le letterature debbono
esprimere il fatto di Roma: Omero stesso non vi si sottrae, e il suo
olimpo rappresenta nel patriziato degli Dei quello dei quiriti;
l'Iliade descrive semplicemente gli ospizi violati, i rapimenti, le
guerre perpetue degli eroi; l'Odissea significa le pretese delle
plebi che vogliono i connubi contro l'ostinata opposizione dei
patrizi, e le sconfitte e le restaurazioni di questi che
ristabiliscono l'ordine colle pene più atroci. I drammi
omerici si mutano in simboli politici alzando la loro verità
individuale a verità rappresentativa.
Da questo immenso lavoro uscì la storia ideale, eterna,
comune a tutte le nazioni, e il diritto universale condensato nella
Scienza Nuova. Il processo della quale essendo di ricostruzione,
creò di contraccolpo la critica e stabilì
l'unità del genere umano. Ogni uomo, interrogando se stesso,
può trovare la storia dell'umanità. Il diritto
è al tempo stesso principio e risultato della storia: le tre
età degli Dei, degli eroi e degli uomini formano la triade
progressiva di ogni storia che si apre e si chiude con un circolo:
lingue e letteratura rispecchiano queste tre fasi. La storia
è una eterna ripetizione come la vita; non vi sono più
casi ma leggi, non più arbitrio ma ordine. Civiltà e
forme politiche, volgo e patriziato, idiotismo e genio, tutto
è contenuto e dominato dal proprio periodo, e serve
immancabilmente alla sua realizzazione; ma il circolo si chiude
fatalmente in ogni storia, e l'umanità muore continuamente in
ognuno di essi. Vico, che ha tutto spiegato col modello ideale di
Roma, giungendo al medioevo e vedendolo finire nelle monarchie del
proprio tempo, nelle quali si risolve la barbarie eroica della
feudalità, si arresta. Dove va l'Europa? Il grande solitario,
che aveva interrogato tutto il mondo forzandone il silenzio
coll'insistenza del proprio genio, non osa rispondere; un'ombra
fredda gli discende sul pensiero e, velandogli intorno tutte le
forme della vita, gli insinua nel cuore un terrore di cimitero.
Oramai tutto è decadenza: i cartesiani gli ricordano le
sterili filosofie di Roma decrepita; l'individualismo rivoluzionario
che si avanza non gli pare più che egoismo frammentario; il
sensismo di Locke gli sopprime la morale; la nuova fisica gli toglie
Dio. Tutto è finito, il circolo fatale sta per chiudersi, e
Vico vecchio, ignorato, ignorante del proprio mondo, incapace di
comprendere l'Italia, di osservare l'Europa, di sorprendere il
progresso della politica e della civiltà mondiale, circondato
da tutte le macerie, colle quali ha ricostrutta la storia eterna,
soccombe come un titano dell'epoca divina sotto le rovine delle
montagne da lui stesso lanciate contro il cielo.
Il suo genio eccentrico avendo compito l'opera immane deve sparire,
giacchè nell'imminente rivoluzione sarebbe peggio che
inutile. Simile a Copernico, a Colombo, a Galilei, a Newton, egli
non ha misurato l'importanza della propria scoperta. Piamente
cattolico, non sospetta nemmeno che la sua storia ideale, maggiore
del cristianesimo, lo abbia livellato con tutte le altre religioni,
mentre il suo diritto universale sopprime per sempre ogni diritto
divino di papi e di imperatori. Egli, che si astiene dal commentare
Grozio per non frequentare un eretico, è il più grande
eresiarca del secolo, colui che lo emancipa dal peso di tutte le
autorità, mostrando nella storia eterna il diritto universale
come unico principio. Se l'idea del progresso gli si piega
fatalmente in circolo, presto illustri scolari, dei quali
rabbrividirebbe leggendo le opere, riprenderanno la sua linea per
mutarla in spira. Condorcet, Herder, Comte, Hegel creeranno la
filosofia della storia guidati dai lampi della Scienza Nuova; la
critica seguendo le sue orme con Nièbuhr permetterà a
Mommsen di ricostruire la storia di Roma, mentre lingue e
letteratura ritroveranno nelle temerarie etimologie e nelle
sistematiche interpretazioni del solitario napoletano il segreto
delle loro origini e delle loro forme.
Vico, italiano senza un'Italia che potesse colla propria vita
nazionale imporre al suo genio il senso della lealtà, doveva
creare e smarrirsi necessariamente nelle astrazioni. Il suo diritto
universale e la sua storia eterna non potevano arrivare alla teorica
intera del progresso, quando intorno a lui la vita politica
tramontava nella più ignobile decadenza. Vico in Germania, in
Inghilterra, in Francia, circondato, aiutato dall'immensa creazione
politica, scientifica e filosofica di quelle nazioni, avrebbe creato
un capolavoro degno di contendere colla Divina Commedia. Solo,
incompreso ed incomprensibile, ignorato ed ignorante del proprio
tempo, si chiuse in se medesimo, radunò tutta
l'antichità per lui conoscibile e soffocò nel circolo,
che imponeva alla storia. Ma suicidandosi in una meditazione, nella
quale i lampi aumentavano fatalmente l'oscurità, violentando
il passato, aperse l'avvenire senza vederlo, più infelice di
Mosè che potè scorgere dal Tabor la terra promessa,
ingenuo come Colombo che, scoperta l'America, sognava la
restituzione di Gerusalemme alla cattolicità.
L'Italia non si accorse di lui, come non si era accorta di Dante,
non aveva creduto a Colombo, ascoltato Machiavelli, compreso
Michelangelo, protetto Galileo, difeso Bruno, come doveva
abbandonare fra poco Pietro Giannone nella carcere di Tomaso
Campanella. In una nazione, condannata a una grandezza puramente
ideale, il genio deve essere incompreso o tradito, mentre la
realtà non può prestare alcun appoggio a' suoi
tentativi o giovarsi immediatamente delle sue scoperte. Così
l'Italia, che tradiva o ignorava i propri pensatori, cedeva alle
altre nazioni magari nemiche i propri generali e vinceva con essi le
maggiori battaglie d'Europa. Senza Eugenio di Savoia e Raimondo
Montecuccoli l'Austria non avrebbe potuto resistere al periodo di
Luigi XIV; senza Vico l'opera di Montesquieu sarebbe rimasta
inutile, e quella di Herder impossibile; senza Giannone la lotta dei
governi contro il papato non sarebbe passata dalla polemica alla
storia.
Pietro Giannone.
Accanto a Vico, sconosciuti l'uno all'altro, Pietro Giannone, il
più profondo giureconsulto e il più celebre avvocato
di Napoli, pubblica nel 1723 la propria Storia civile. Il successo
ne è istantaneamente tale che supera lo scandalo: l'Europa
s'affretta a tradurla, Roma colpita a morte prorompe all'anatema, il
principato compromesso dall'eccesso della difesa, che la nuova
storia gli prodiga in tutto il passato, si rivolta e minaccia il
proprio difensore. Il popolo, troppo spregiato da Giannone
perchè sempre sottomesso al clero, incapace di comprendere
questa grande rivolta, cede ai sobillamenti dei preti e muta il nome
dell'illustre storico in improperio, costringendolo ad esulare a
Vienna.
Ma la sua Storia civile del reame di Napoli, dedicata a Carlo VI
imperatore di Germania, riassume in sintesi potente la vecchia e
nuova lotta dello stato contro la chiesa. Erudita fino alla minuzie,
spesso profonda quanto una filosofia, arguta e mordace,
apparentemente imparziale e nullameno violenta come una requisitoria
e implacabile quanto una sentenza, racconta ed esamina la conquista
assidua e devastatrice della chiesa sullo stato; scruta tutte le
tendenze della politica ecclesiastica, la perfidia delle intenzioni
e dei mezzi, la rovina dei risultati spirituali e sociali. Giammai
Roma aveva ricevuto più vigoroso attacco. Una ragione
superiore guida lo storico, una passione onesta lo sostiene, una
fede cristiana pura sino all'ingenuità e salda fino al
martirio lo illumina. Il concetto della nuova storia, che il diritto
risiede nell'universalità dei fedeli, era già stato
affermato da Marsilio di Padova e da Paolo Sarpi, ed è la
democrazia applicata alla chiesa; la sua contraddizione deriva dal
sostenere che i principi come i capi della società laica ne
hanno ereditato i diritti contro la conquista di Roma. La forza di
questa storia civile è meno nel suo dato, evidentemente
falso, che nella terribilità del processo critico e
descrittivo, col quale suscita tutte le coscienze contro il
dispotismo papale. Il parallelo fra la chiesa primitiva e la chiesa
romana, la formazione del regno pontificio, lo stabilirsi del
diritto canonico, la sottomissione dello stato alla chiesa, sono
trattati con sì profondo magistero d'arte e di scienza e
arrivano a tanta evidenza di rappresentazione, che fanno dimenticare
i molti errori e superano tutte le antiche polemiche sostenute da
principi o scrittori contro il papato. Invano i gesuiti, ritorcendo
con splendida temerità gli argomenti di Giannone, affermano
che la fonte dei diritti anzichè nei principi è nei
popoli, e spingono la democrazia all'ultima verità; il popolo
italiano, sprezzato giustamente da Giannone, non afferra la replica
gesuitica e si mantiene estraneo al grande dibattito fra la chiesa e
lo stato. La facile conclusione dall'universalità dei fedeli
a quella dei cittadini, e quindi alla sovranità della
democrazia, è impossibile alla coscienza del popolo da troppo
lungo tempo straniero alla politica e degradato dalla superstizione.
Giannone stesso non osa tutte le conseguenze del proprio problema.
Il suo dispregio pel popolo gl'impone la servitù verso i
principi; il suo carattere non ha la forza del suo ingegno.
A Vienna, sotto la protezione dell'imperatore, scrive il Triregno,
nel quale, universalizzando le idee della Storia civile e
commentando Machiavelli, si lascia di gran lunga addietro ogni
scrittore contemporaneo. Il Triregno riproduce nella storia la forma
imposta da Dante al proprio poema. Nel primo regno sta il mondo
antico pagano colle sue religioni positive, colle sue mitologie
umane, pieno di eroi, forte della propria coscienza storica che crea
la civiltà dell'Egitto e della Grecia, o resiste colla
solitaria e sovrumana ostinazione degli ebrei, o si espande dovunque
colle fatate vittorie di Roma. Quindi al regno terrestre
dell'antichità succede quello celeste di Cristo, che
attraverso un divino idealismo promette nullameno una redenzione
politica, e vuole la giustizia sulla terra, l'uguaglianza nella
storia, la felicità materiale sino ad assicurare la
risurrezione dei corpi. Così sollecitando tutti gli istinti e
animando tutte le passioni, il regno celeste di Cristo suscita eroi,
martiri, taumaturghi, trasforma il mondo romano e rovescia gli idoli
delle antiche nazioni. Ma i cristiani si stancano di attendere un
messia incapace di mantenere le proprie promesse, l'eccidio di
Gerusalemme scoraggia coloro che aspettavano quello di Roma; e sorge
il terzo regno di dubbi, di sofismi, di raggiri. Il pessimismo
prevale, la chimera del millennio prostra le genti alla chiesa, i
teologi si domandano dove sia il cielo e disputano sulla
resurrezione reale o metaforica, sugli angeli, sull'inferno, sul
redentore, onde viene fondata la tirannia teologica. Finalmente S.
Gregorio Magno stabilisce l'ammissione immediata dei credenti in
cielo, rendendo inutile la resurrezione dei morti, il giudizio
universale, l'intero dramma del cristianesimo primitivo. La chiesa
è quindi l'arbitra della sorte delle anime, può
canonizzare e dannare; il purgatorio, stazione dei morti, diventa
prigione dei vivi costretti dall'amore a sottomettere al clero le
proprie preghiere e a comprare da lui la beatitudine dei propri
defunti. All'avvento di Cristo si sostituisce dunque quello del
pontefice; la chiesa sorge a detrimento degli stati, il papa
tesoreggia sulla imbecillità delle moltitudini e dei re,
carpisce il dominio temporale a Carlo Magno, si asside al disopra di
ogni impero e di ogni popolo. Contro questo ultimo regno Giannone
bandisce la rivolta.
Ma al momento di stampare il Triregno, l'Austria, perdendo le due
Sicilie dichiarate indipendenti, ritira la pensione allo storico che
deve ancora esulare. Da Venezia l'indipendenza italiana peggiore
della dominazione austriaca lo costringe a riparare a Ginevra,
inviolabile asilo di tutti i ribelli. Qui lo attendeva un dramma
peggiore di quello che a Venezia aveva travolto Giordano Bruno.
Carlo Emanuele III per comporre il lungo dissidio colla Santa Sede,
provocato da Vittorio Amedeo II nel suo effimero regno di Sicilia,
discese alla più vile delle insidie: stipendiò il
traditore Guastaldi, che trasse il povero Giannone nella speranza di
farvi la pasqua entro il confine savoiardo, ove fu arrestato, quindi
gittato nel castello di Miolan (1736), poi nella rocca di Ceva,
finalmente nella cittadella di Torino. Nessuna sevizia fu
risparmiata al martire: gli fu strappata la grande opera del
Triregno, negato il conforto del figlio offertosi generosamente a
dividere con lui il carcere, imposta un'abiura. Giannone
piegò, scrisse un ultimo commento alle Deche di Tito Livio,
nel quale, spingendo all'estremo le proprie teoriche, propose al
piccolo e perfido re di Savoia di schiacciare Roma sotto una
invasione italiana. La sua fiacchezza d'uomo, che non aveva mai
potuto trionfare della propria fede cattolica, annullò da
ultimo il suo ingegno politico e gli tolse di comprendere quanto
ogni più volgare capiva, cioè l'impossibilità
di una rivoluzione politica nel regno senza soccorso e coscienza di
popolo. Dopo dodici anni Giannone morì prigioniero nella
cittadella di Torino, lasciando sullo scudo già tanto
bruttato dei Savoia una macchia, che nessun secolo varrà
più a cancellare. Carlo Emanuele III fu degno di Vittorio
Amedeo II che ricompensava l'eroismo di Pietro Micca con due rate di
pane militare alla sua famiglia, e peggiore di Cosimo II che
consegnava Pietro Carnesecchi a Pio V.
Il carattere italiano d'allora impediva che nessuna riforma potesse
mutarsi in rivoluzione e nessun ingegno politico svilupparsi
praticamente. Vico si smarrì nelle astrazioni, Giannone
fuorviò nella storia: in entrambi la coscienza, troppo
inferiore al pensiero, concesse loro di scendere a tutte le
viltà della cortigianeria. La brillante e poderosa
incredulità del cinquecento non sosteneva più l'anima
italiana; una superstizione era calata nel popolo, prostrandolo
così agli idoli e ai preti che nemmeno i massimi ingegni,
come Vico e Giannone, potevano mantenersi dritti. Quindi isolati,
sviati, forzati a guardare indietro per andare avanti, essi
diffidavano perfino della stampa per un ultimo pregiudizio di
classici eruditi. Mentre gli enciclopedisti in Francia scrollavano
ogni autorità, e Voltaire aggiungeva il fascino dell'arguzia
allo scetticismo di Bayle, e il grave Montesquieu nelle Lettere
Persiane derideva con inimitabile e profondo umorismo ogni
religione; nell'Italia di Guicciardini e di Paolo Sarpi, Giannone e
Vico, i maggiori ribelli, soccombevano ancora come Galileo alla
autorità di Roma. Lodovico Muratori nel silenzio di una
solitudine pari a quella di Vico ammassava i materiali di tutta la
storia italiana senza interessarvisi che quale erudito: neanche per
lui esisteva un presente e si preparava un avvenire. Un'arcadia
grottescamente raffinata e senile imponeva alla letteratura la
peggiore delle sterilità nella pretensione di tutte le forme:
non vi erano più nè idee, nè passioni,
nè patria politica, poichè le corti erano tutto e
nelle corti non si può essere che servi. La fede era
diventata superstizione, l'autorità un potere materiale;
l'abbandono di ogni funzione civile consigliava un ozio voluttuoso e
allegro, nel quale la vecchia duplicità italiana riparava da
ogni pericolo. Quantunque Malpighi, Redi e Morgagni creassero la
fisiologia e la anatomia patologica per attestare all'Europa che in
Italia le scienze vivevano ancora, il moto del pensiero italico
nullameno languiva. Le stesse impulsioni francesi non bastavano a
rianimarlo. Mentre Germania, Francia, Inghilterra lottavano di
creazioni ingrandendo il mondo moderno, l'Italia, che nel
cinquecento aveva ancora tanti artisti e poco dopo superava coi
Socini la riforma di Lutero assicurando con Bruno e Campanella la
compagnia dell'eroismo al genio, non aveva più che Metastasio
e Goldoni. Il livello del dispotismo doveva ancora per molti anni
schiacciare la massa inerte degl'italiani per livellare le loro
superstiti differenze regionali.
Metastasio e Goldoni.
Metastasio è il poeta di questo momento.
Come Giannone aveva dedicato la propria storia civile a Carlo VI di
Germania diventando suo storiografo, Metastasio diviene il poeta
laureato di Maria Teresa. Il suo verso è così facile e
vuoto che, scritto per l'orchestra, pare uscito da un istrumento; i
personaggi de' suoi melodrammi non hanno maggior realtà delle
maschere nell'antica commedia dell'arte, e si muovono attraverso un
ambiente tragico nel quale la catastrofe attende puntualmente la
stretta di un crescendo musicale. Nessuna idea, nessuna passione,
nessuna coscienza. La melodia e il colore delle parole sono lo scopo
e la gloria del poeta; il suo pubblico assiste alla pompa eroica di
queste tragedie senza credere alla loro realtà e senza alcun
bisogno di credervi. La fantasmagoria dell'opera supera quindi nella
sua strana e multipla grandiosità tutti i sogni dell'Ariosto;
il suo meccanismo montato da Zeno si maschera sotto il
drappeggiamento gettatovi da Metastasio fino a simulare quello della
tragedia; la musica vi accoglie gli amori eterei del Petrarca, le
collere tempestose di Dante, la malinconia soave del Tasso, il lazzo
amabile del Boccaccio, l'elegia del Sannazzaro, l'idilio del
Guarini, tutto il ciclo della cavalleria, tutti gli eroi
dell'antichità, per dissolverli nell'unità
indefinibile della propria espressione. Metastasio è il poeta
dell'opera: la sua patria è il palcoscenico, i suoi
personaggi sono i cantanti, le quinte formano i suoi quadri, la sua
poesia è una musica nella musica. Il pubblico, che non pensa,
non sente, non ricorda, non aspira, si riposa a questo spettacolo
del quale la vita è tutta nella esteriorità. Il dramma
mutato in occasione di romanze e di trilli esprime il trionfo del
cantante, onde, leggendolo dopo averlo udito, il maggior diletto che
se ne prova deriva ancora dalla ricordanza delle note. Nullameno
Metastasio pretendeva di scrivere tragedie, e i critici
contemporanei per tali le discussero: i Martinez gli coniarono una
medaglia colle parole-Sophocli italo-Rousseau e Voltaire stesso lo
ammiravano. Lo sdilinquimento dell'elegia, la morbidezza
dell'idillio, gli equivoci delle commedie e la ferocia delle
catastrofi tragiche composero questi drammi per il popolo più
spensierato ed inetto che abbia mai riempito un teatro.
L'assurdità di una tale arte e l'insoffribile vacuità
di una tale poesia non offesero allora alcuna coscienza; le
discussioni che se ne fecero provano ancora maggiormente a quale
nullità fosse disceso lo spirito italiano, giacchè nei
pochi accenni alla vera tragedia, sparsi tra quei melodrammi,
nessuno badò. E il Regolo e il Gioas hanno brani, dai quali
sembra d'intravvedere l'accigliata ed energica figura di Alfieri.
Metastasio chiude l'Arcadia e trionfa, riassumendone sul teatro,
mediante la musica, le poche bellezze.
Dopo di lui le accademie decadono, i pastorelli e le ninfe non
possono più leggere le loro filastrocche senza timore di
annoiare, nessuno si contenta più della pura
musicalità del verso o della sola dolcezza della parola. Una
grande separazione sta per compiersi: la poesia ritornerà in
se stessa, la musica oltrepasserà la poesia per diventare
l'espressione dei sentimenti, che nessuna parola potrà mai
significare. Metastasio, adorato vivo nella gloria di un trionfo
senza esempio, ricadrà nell'oblio. Il suo successore a corte
fu il Casti, poichè tutte le decadenze debbono finire
all'infamia. Ma poeta di corte e di volgo, inconsciamente abbietto
ed amabile, buon uomo e buon cristiano, dolce nel verso quanto ricco
nei contrasti ed ingenuo nelle conclusioni, Metastasio è
l'immagine dell'Italia d'allora, con tutte le qualità e i
difetti del suo spirito resi inutili dalla sua vita.
Infatti Goldoni, ritraendola, non dipinse che il pubblico di
Metastasio. Le sue maschere, i suoi gentiluomini, le sue servette,
le sue donnine innamorate, i suoi giovanotti eleganti, i suoi abati,
sono quelli stessi che divertiva Metastasio, senza idee, senza
passioni, senza coscienza. Goldoni, dominato da Molière come
un satellite da un astro, aspirò alla commedia di carattere
colla stessa ingenuità colla quale Metastasio aveva aspirato
alla tragedia. Poeta del dialetto e inimitabile improvvisatore,
colse sul vivo incidenti comici, labili ed efficacissime scene:
poeta italiano invece, ignorò la lingua, il genio, il
carattere d'Italia. Fu vivace quanto superficiale, osservatore
solamente sicuro nella prima spontaneità: non avendo nella
coscienza contraddizioni morali col proprio mondo non potè
nè penetrarlo, nè dominarlo. Però lo
divertì più lungamente di Metastasio. Nessuno de' suoi
personaggi ha vita interiore, nessuna delle sue commedie contiene un
brano o esprime un segreto della società; le scene sgusciano
rapide e piacevoli, gli attori parlano naturalmente, il fatto si
svolge, s'intrica, si risolve, si appiana; ma i caratteri vi si
mostrano come comparse, i sentimenti vi trovano posto come
riempitivi. Manca il cuore, lo spirito è assente. A Goldoni
come a Metastasio fallì il popolo; ambedue soccombettero al
pubblico. Metastasio più felice non sospettò di se
stesso; Goldoni a Parigi allibì, e tacque per dieci anni. La
grandezza della nazione francese, la sua immensa civiltà in
subbuglio per l'imminente rivoluzione, tutte quelle passioni di
cuore e di testa, tutte quelle energie di temperamento e di
carattere, tutto quel popolo vero, forte, vivo, il più vivo
d'Europa, soffocarono la sua immaginazione e inaridirono la sua
vena, uguale se non maggiore di quella di Lope de Vega. Goldoni non
potè più osservare, non seppe più comprendere.
Dopo dieci anni scrisse il Burbero benefico in francese, e fu ancora
un ricordo italiano e una imitazione francese.
La Francia aveva avuto Molière; l'Italia non poteva avere che
Goldoni.
Capitolo Quinto.
Il periodo delle riforme
Influenza europea.
La grande preparazione europea all'imminente rivoluzione francese
giunge in Italia e la solleva.
La lotta per la laicità dello stato, della quale Giannone era
stato il grande storico, è già scoppiata in tutti gli
stati, mentre una nuova democrazia borghese vi afferma un diritto
politico basato sul diritto civile e sull'eguaglianza economica. La
Francia guida il movimento. La sua letteratura, universale per
superiorità di bellezza, serve da veicolo a tutte le idee
della scienza e della filosofia; la sua incredulità, pari a
quella italiana del rinascimento, sgretola ogni autorità del
passato; Law, sottomettendo l'aristocrazia alla banca, estrae
dall'illusione di una ricchezza improvvisata, per la quale tutta la
nazione delira, il segreto della nuova società. Il valore
economico supera tutti i valori religiosi e feudali; i fisiocratici,
coll'esagerare l'importanza della produzione agricola, emancipano la
terra da ogni gravame antiquato; Turgot, mettendo la produzione a
base unica di tutte le società, sopprime a nome della scienza
ogni classe inutile; Voltaire conduce filosofi, letterati e lettori
contro il cattolicismo; Rousseau scatena tutti gli infelici contro
la vecchia società, dissolvendone nel Contratto sociale ogni
vincolo; Diderot raduna nell'Enciclopedia tutte le scienze e le
discipline per spingerle alla rivolta. L'aristocrazia cede
sorridendo, la regalità tuffata in turpitudini secolari
brontola, il popolo sberta e minaccia. L'Inghilterra, che organizza
parlamentarmente la propria rivoluzione del secolo anteriore,
prepara la scienza della legalità alla nuova rivoluzione
costretta a negare tutta la storia per rimutarne l'ultima epoca; e,
mentre la Francia si moltiplica per bastare alla distruzione
dell'Europa medioevale, essa perfezionando l'ingegno dei propri
ministri, da Orazio Walpole a Guglielmo Pitt, traversa trionfante la
corruzione della propria epoca giorgiana. Nella Ispagna Carlo III,
già re di Napoli, seguendo il ministro conte d'Aranda, in
Portogallo re Giuseppe, abbandonandosi al marchese di Pombal, in
Prussia Federico II, maggiore di tutti come generale, re e statista,
in Austria Giuseppe II, associandosi Kaunitz, in Russia Caterina II,
assorbendo dall'Europa con mirabile facilità ogni nuovo
elemento civile, rinnovano lo spirito e il carattere delle proprie
nazioni.
Attraverso diversità di metodi e di propositi il moto
rivoluzionario scompagina l'antica Europa e ne rinnova le
legislazioni, ne ricorregge i diritti, vi dilata le scienze, toglie
l'onnipotenza alla religione, la divinità ai re, la
supremazia al patriziato, l'immunità al clero. Alla passione
delle conquiste militari e della libertà di coscienza succede
quella di una civiltà universale: le scienze ne sono le forze
novelle e le massime glorie, la ricchezza diviene la migliore delle
armi, il diritto l'unica verità riconosciuta, la
libertà condizione suprema di ogni giustizia e di ogni vita.
Tutti i popoli si scuotono sulle basi centenarie; una discussione
assordante agita i più svariati problemi, nulla sfugge alla
critica; la indagine, cominciata colla profanazione
dell'autorità, finisce al rispetto della verità; i
governi sentono il bisogno di giustificarsi a se medesimi,
giustificandosi in faccia al popolo, e il loro concetto di
rappresentanza diventa così chiaro nella pubblica coscienza
che nessun diritto antico basta più ad assolvere
l'ingiustizia di un processo o di un privilegio.
L'Europa non subisce più la tirannia di alcuna nazione: tutte
vi sono forti, armate, capaci di resistere nei propri confini,
inette alle improvvise ed umiliatrici conquiste di una volta. Si
livellano codici e costumi; produzioni e commerci cementano e
fortificano l'accordo delle letterature e delle scienze; la
religione caduta in discredito non scaglia più un popolo
sopra un altro; ognuno vuol conquistare il proprio posto nella
natura e nella storia. Dio è lontano, il papa quasi
dimenticato, i re discussi, le aristocrazie negate. Ogni popolo
cerca la propria orbita naturale; la rivoluzione delle colonie
americane improvvisa oltre l'Oceano una Europa contro l'Europa,
aprendo nella storia un'epoca nuova con un nuovo modello di
società; Londra è il primo emporio del mondo, Parigi
ne è il faro, Berlino la più forte caserma, Vienna la
metropoli della più vasta confederazione, Pietroburgo la
capitale improvvisata della Russia avanzantesi in Europa, Roma una
Gerusalemme, nella quale la gloria eterna dell'arte vince come a
Benares quella della religione.
Intorno a Roma l'Italia si muove lentamente guidata dai suoi
principi. Dopo mezzo secolo di battaglie, la più lunga pace
della sua storia (1748-1796) le permette il raccoglimento necessario
ad imitare in se stessa il grande periodo delle riforme, che
ringiovanisce l'Europa. La geografia politica italiana è
divisa fra i due grossi stati di Napoli e di Torino, nei quali cova
l'avvenire del regno italico: una rivalità inconscia li
unisce quindi nella stessa lontana speranza di conquista e li
obbliga ad irrobustirsi, assimilandosi i nuovi elementi di
civiltà. Venezia agonizza dimenticata; la Lombardia prospera
sotto l'influsso liberale di Giuseppe II; la Toscana, prediletta
dalla natura e dalla storia, improvvisa coi Lorena una riforma che
sarebbe una rivoluzione se il popolo potesse parteciparvi. Ma solo
dai regni indipendenti di Napoli o di Torino sorgerà la
nazione italiana, annullando le superstiti forme federali malgrado
lo stato pontificio che vi arresta ad ambo i confini l'inconsapevole
preparazione unitaria.
La riforma politica ed amministrativa dell'Italia mira dunque a
compiere l'opera del dispotismo col distruggere nella moderna
civiltà le ultime differenze regionali. Domati i costumi
colla soppressione delle energie municipali, l'imminente
legislazione deve informarsi a criteri generali dedotti dalla
scienza che pareggia tutti gli individui; i principi uniti contro il
papa per la laicità dello stato stabiliscono coi sudditi i
rapporti del nuovo diritto; ogni loro atto è una
emancipazione, ogni progresso una livellazione. Ma il popolo,
ricevendo dal principe questi benefici, non sa giovarsene
immediatamente, e coll'integrarne le relazioni sentirvi una
rivoluzione. La depressione secolare delle forze, colle quali aveva
creato il rinascimento, non gli permette ancora di assurgere a
più alta vita: i suoi costumi vili ed abbietti gli contendono
il concetto della nuova libertà; accetta le riforme, ma non
può ancora riformarsi; guarda a principi e a ministri,
applaude e critica, ma poco pensa e meno vuole. Il suo pensiero non
è peranco originale, il suo carattere non è più
eroico. Nell'uomo manca tuttavia il cittadino e nel cittadino il
patriota. Se la patria non è più assolutamente la
regione, non è ancora l'Italia; difettano armi, armati, idee
e volontà di ribellione. I popoli dei vari stati s'ignorano
l'un l'altro; le riforme, migliorando la loro sorte, sembrano
isolarli ancora più nel nuovo benessere. L'educazione
prodotta dalle riforme sarà dunque puramente esteriore e
senza frutti politici, se prima la passione della rivoluzione
francese non vi discenda, frangendo la cornice dei vecchi stati,
entro i quali stagna la vita regionale.
Nella storia non havvi di attivo se non ciò che è
spontaneo, e d'intero se non quanto è originale. Le riforme
derivate dall'Europa in Italia la lasciano sempre addietro di un
periodo: infatti allo scoppio della rivoluzione francese, che
dovrebbe produrre la rivoluzione italiana, l'Italia resiste o cede
quasi a novella conquista.
Ecco le sue riforme.
Le Due Sicilie.
Carlo III, creato da una mirabile fortuna re delle due Sicilie, si
accinse con buona volontà a migliorarle. Il regno, splendido
per natura, aveva ubertà di suolo, prontezza di spiriti,
buoni confini, invidiabili opportunità di mare, ma pessimi
gli ordini politici, inservibili i congegni amministrativi. Non
strade, non ponti, non manifatture: povero il commercio marittimo,
quello dei grani impacciato; servitù regie, feudali,
comunali, di pascolo isterilivano le terre; feudi, fidecommessi,
privilegi di caccia, di forni, di molini inceppavano la
proprietà, moltiplicando le angherie delle amministrazioni e
delle leggi. Diecimila feudatari nominavano ancora giudici e
governatori, imponendo pedaggi, decime, servigi, primizie; trentun
mila frati, ventitrè mila monache, cinquanta mila preti
ingrassavano sopra un immenso patrimonio immune; in quattordici
provincie non un solo tribunale di giustizia, i ladri numerosi
quanto i frati, i contrabbandieri più dei preti. La Sicilia,
sempre infelice, caduta dal cattivo governo di Filippo IV di Spagna
sotto quello peggiore di Vittorio Amedeo II di Savoia, infestata da
pirati, da masnadieri, da scomuniche, con sessantatrè mila
fra preti e monaci sopra 1,200,000, soffocata da vincoli feudali,
con una bizzarra legislazione composta di statuti romani, barbari,
arabi, normanni, di decreti angioini, di costituzioni aragonesi, di
prammatiche vicereali, di consuetudini paesane, era anche in
più tristi condizioni.
Carlo III cercò ripararvi: Bernardo Tanucci, toscano, lo
consigliava.
Questi ordinò la giurisdizione laicale togliendo ai preti le
immunità del fôro, limitando le ordinazioni dei
sacerdoti a dieci per mille, negando alle bolle dei pontefici ogni
effetto senza l'accettazione del re, impedendo nuovi acquisti al
clero, tassandone i beni, abolendo le loro innumerevoli
immunità personali. S'oppose all'impianto dell'inquisizione
tentato dal cardinale Spinelli per eccitamento di Benedetto XIV,
soppresse le decime in Sicilia, vi introdusse il codice carolino
compilato da Pasquale Cirillo, vietò i testamenti all'anima,
dichiarò il matrimonio contratto civile. Quindi
sfrattò i gesuiti, aperse nuove scuole, slargò
l'università, negò al papa l'umiliante tributo della
chinea. Lo stato rifioriva. Fiaccati i preti, Tanucci si volse ai
baroni restringendo i loro diritti, aiutando i comuni a riscattarsi
dai feudatari, riordinò la magistratura, richiamò
l'antica prammatica aragonese del sindacato per gli amministratori
del pubblico denaro, provvide al commercio punendo i fallimenti e
liberandolo da ogni eccezione di fôro o di casta,
instituì una borsa, creò un archivio, stabilì
un sistema ipotecario. Ma queste riforme, con mirabile pertinacia
preparate ed ottenute dal Tanucci nel regno di Carlo III e di suo
figlio Ferdinando, allorchè quegli passò al trono di
Spagna, perchè pensiero di statista superiore e solitario,
per quanto coadiuvato da una nobile schiera di napoletani, peccarono
nel metodo, e, trascendendo i principii e i fini della scienza,
fallirono nel resultato.
Nella contesa della laicità dello stato il Tanucci
oltrepassò, come Giuseppe II, i limiti per perseguitare la
chiesa nella libertà invincibile dei propri ordini;
nell'ammodernamento del governo, preoccupato di schiacciare clero ed
aristocrazia, non intese la natura del terzo stato, e invece di
aiutarne lo sviluppo e di sbarazzargli gradatamente la strada,
volle, preterendo sentimenti e costumi, porre un liberalismo
incomprensibile alla coscienza napoletana. Le plebi recalcitrarono,
la monarchia lo abbandonò, e Tanucci, vittima del rancore di
Carolina d'Austria, moglie prepotente e lasciva di Ferdinando,
dovette esulare, lasciando lo stato con uno schema di costituzione
tanto superiore al proprio tempo che nessuno dei tre ordini
clericale, feudale e popolare l'intese. La monarchia stessa, che
l'aveva largita inconsapevolmente, poteva ritirarla d'ora in ora;
quindi la ritirò in parte senza che il popolo, inerme e dal
Tanucci non addestrato alla milizia, la difendesse. La riforma
dispotica era un effetto del liberalismo europeo stillato nella
mente di un ministro e della negligenza brutale di un re per le cose
del proprio governo; ma dispotica nelle intenzioni e nel processo,
rinvigoriva il dispotismo regio senza elevare il popolo, rimanendo
politicamente una esteriorità poco efficace, abbozzo ed
aborto di uno statista, al quale erano contemporaneamente mancati
dinastia e popolo. Le superstiziose turbe napoletane, incapaci di
trasformarsi in cittadini, non ebbero per l'opera del grande
ministro nè riconoscenza nè coscienza; laonde,
pervertite dal più ignobile fra i cleri cattolici ed eccitate
dalla più oscena tirannide, insorsero presto per ristabilire
nel delirio dell'anarchia l'antico dispotismo della monarchia e
della religione.
Parma e Piacenza.
Non più fortunato del Tanucci il francese Dutillot, ministro
di Parma sotto i duchi Filippo e Ferdinando iniziò colla
Santa Sede lo stesso litigio e introdusse nello stato le medesime
riforme. Papa Rezzonico e Clemente XIII resisterono gagliardemente
contro la emancipazione dello stato dalle giurisdizioni e dai
privilegi ecclesiastici, molto più che trattavasi, secondo le
loro pretese, di un feudo di Roma. La lotta aspra salì per
tutti i gradi della polemica, piovvero libri ed opuscoli, il papa
mandò un monitorio: Dutillot, destro e sicuro,
proclamò l'indipendenza del ducato, sfruttò i gesuiti,
innalzò l'università di Parma al maggiore livello,
tassò preti e frati, avocò tutte le cause ai tribunali
dello stato, rimondò i benefizi ecclesiastici, limitò
le manimorte, sovrappose la legge civile al diritto canonico. Le sue
idee francesi trionfarono, poichè tutte le altre corti
borboniche, pel trattato del 1761 chiamato patto di famiglia, si
mantenevano solidali nella contesa. Infatti allo scoppio del
monitorio papale, Luigi XV fece occupare dal marchese di
Rochechouart Avignone e tutto il contado venesino, mandando
commissari del parlamento di Provenza a prenderne possesso in suo
nome come di paese annesso alla corona: il re di Napoli prese
Benevento. La Spagna minacciò. Evidentemente il principato
vinceva, le pretese papali della bolla in coena Domini non
attiravano più che sarcasmi e violenze; ma la disputa, falsa
nel principio che riconosceva nei principi la sovranità
inalienabile nel popolo, non era sostenuta che da giuristi e da
casuisti, primo fra quelli Francesco Riga piacentino. Il popolo,
nemmeno consultato, vi assisteva spettatore, profittando della
vittoria del principato. Senonchè Dutillot subì presto
la sorte del Tanucci, e dovette esulare, cacciato dalla petulanza
lasciva della duchessa Maria Amalia, sorella di Maria Carolina.
Invano con accorto proposito aveva egli voluto ammogliare l'infante
Ferdinando con Beatrice, unica figlia ed erede degli Estensi di
Modena, per comporre così nell'Italia centrale un forte
stato. Maria Teresa d'Austria aveva potuto sventargli il disegno col
matrimonio della propria figlia Maria Amalia, togliendo col pericolo
di una confederazione fra i grossi stati italiani quello di una
guerra d'indipendenza. L'infante Ferdinando, niente migliore del re
Ferdinando di Napoli, era stato invano educato alle idee liberali da
Condillac, da Millot e da Mably: la bigotteria de' suoi primi anni
gli aveva umiliato fatalmente lo spirito già scarso, la
depravazione della moglie glielo travolse. Quindi Llano, ministro
spagnuolo succeduto a Dutillot, contro il quale era insorto l'odio
popolare per suggestione del clero, non potè proseguire
nell'opera liberale.
Papa Ganganelli, spirito conciliativo sino alla remissione, si
rappattumò con Parma, concedendo la soppressione dei gesuiti;
ma il ducato non ebbe più altra vita che quella di corte,
orgia ignobile e malsana, nella quale staffieri e gentiluomini si
passavano da mano a mano la duchessa come una cavalla, cui nessuna
striglia poteva calmare il prurito e nessuna sella stancare le reni.
La Toscana.
Tali riforme dei Borboni, esclusivamente dovute al valore dei
ministri, furono superate da quelle dei Lorena più
sinceramente riformatori di un popolo più colto e gentile.
Già per opera dei Medici la Toscana era divenuta obbediente
al potere, unte e quasi sfiaccolata nei costumi, viziata nella
giustizia civile, con leggi diverse nella città e nella
campagna, con privilegi che testimoniavano della sua antica
formazione tutta di aggregati municipali.
Il Sanese era sempre riguardato paese di conquista:
università, arti e mestieri conservavano statuti e giudici
propri; Firenze era infestata da trenta tribunali oltre il
magistrato supremo ridotto a semplice tribunale civile. Lo statuto
fiorentino riformato nel 1415 suppliva alle imperfezioni di
millecinquecento statuti parziali non mai cassati; le leggi
granducali talvolta savie, troppo spesso oscure, intricandosi nelle
anteriori di rado abolite, producevano viluppi, pei quali
s'angustiavano i possessi e si eternavano le liti. Vigenti ancora
gli atroci editti di Cosimo II contro i ribelli, le pene crudeli e
sproporzionate, molti impieghi trasmessi per eredità:
quarantasette feudi fra imperiali e granducali, questi ultimi
conceduti da Cosimo per battere moneta, incagliavano e disonoravano
il paese.
Francesco di Lorena intese al riparo, ma lontano dal ducato, marito
di Maria Teresa, avaro e fraudolento, poco seppe giovare, malgrado
il consiglio del Rucellai. Migliore e di lui più avventuroso
il figlio Pietro Leopoldo, potè meritamente levare grande
fama di sè in un secolo, nel quale pressochè tutti i
principi, dal reggente di Francia a Federico II, da Giuseppe
d'Austria a Caterina di Russia, erano spiriti superiori. Con
ammirabile fretta e mano sicura, appena fatto granduca,
uniformò le leggi, tolse gl'inutili magistrati, ridusse e
scelse i giudici, aperse una camera di commercio, sottomise tutti
alla stessa giustizia, persino se medesimo e il fisco. Pubblicato un
nuovo ordinamento di procedura commise a Giuseppe Vernaccini, quindi
a Michele Ciani, finalmente al Lampredi il codice, che, interrotto
poi dalla rivoluzione francese, fu nullameno l'ammirazione
dell'Europa. Soppresse la pena di morte, i delitti di alto
tradimento, le immunità, i privilegi personali, i luoghi di
asilo, la tortura, la confisca, il giuramento dei rei, le denunzie
segrete, i processi di camera, i testimoni ufficiali, ogni avanzo di
barbarie. Nell'amministrazione, dietro gli avvisi liberali del
Giannini e del Fabbroni, sostituì una gabella unica alle
molteplici dogane: libero l'entrare, l'uscire, il circolare d'ogni
merce, libera da matricole l'industria, esonerati i contadini da
servigi di corpo, prosciolte le terre dalle servitù del
pascolo pubblico. Dopo aver concesso la vendita dei beni comunali,
affidò l'amministrazione dei comuni ai possidenti,
cassò l'appalto delle tasse, disdisse l'obbligo alle famiglie
di comprare una quantità fissa di sale.
Le finanze, improvvisamente rifiorite, permisero stupende opere
pubbliche, ponti, strade, lazzeretti, rifugi, conservatorii:
Ximenes, Ferroni e Fabbroni curarono il prosciugamento delle
maremme: quella di Siena fu sanata, val di Nievole, val di Chiana e
Pietrasanta ridotte a florida coltivazione. Di riforma in riforma,
malgrado le ingenti spese, accrebbe le entrate di L. 1,237,969 e in
37 anni da ottantasette ridusse a ventiquattro milioni il debito
pubblico adoperandovi la propria ricchezza e la dote della moglie;
cinque ne lasciò poi nel tesoro al successore, dopo averne
speso trenta in opere pubbliche. Ma di spirito troppo pacifico,
esagerò l'errore di tutti gli statisti italiani di allora,
abolendo ogni nave da guerra, vendendo persino alla Russia le due
fregate Boemia e Ungheria regalategli da Maria Teresa, sopprimendo i
cavalieri di santo Stefano. Questo dispregio delle armi rivela il
carattere delle riforme italiane, nelle quali il principato non
mirava più a crescere e confessava di non sapersi difendere,
aspettando sempre dall'Europa le decisioni sulla propria vita.
L'idea italiana era dunque perita in esso, il distacco fra principe
e sudditi diventava anche maggiore colle riforme, che sapienza
generosa di sovrano o di ministri praticavano senza nemmeno
sospettare nel popolo il principio supremo della sovranità, o
cercare nella sua totalità le ragioni del governo.
Quindi lo schema di costituzione, che Leopoldo meditava di largire,
divenne il più ammirabile e generoso nonsenso politico della
storia moderna. In esso il principe voleva ammanettarsi
volontariamente senza emancipare il popolo col riconoscere da lui la
sovranità, ed ignorando ogni principio e forma di elettorato
politico. Naturalmente di questo statuto non potè esserne
nulla, giacchè avrebbe impedito la rapidità delle
riforme granducali e chiamato ad agire nel governo un popolo ancora
inconsapevole di se medesimo. Nobile ed accorta al tempo stesso per
assicurare nella pubblica opinione il credito governativo fu invece
la pubblicazione degli stati di finanza e delle ragioni delle
principali riforme nel libro dallo stesso granduca compilato:
Governo della Toscana sotto il regno di Pietro Leopoldo.
Nullameno Pietro Leopoldo, cedendo al proprio carattere pettegolo ed
intemperante, varcò spesso i confini della prudenza e della
giustizia, specialmente nel litigio religioso con Roma. La Toscana
aveva allora 243 conventi e 22,268 fra preti, monache e frati, senza
le altre confraternite ed associazioni religiose: la bigotteria era
enorme; la corruzione specialmente nei monasteri anche maggiore;
diritti, privilegi e pretese della curia insoffribili. Pietro
Leopoldo abolì il Tribunale della nunziatura, cacciò i
gesuiti possessori di cinquanta collegi, tolse le immunità
ecclesiastiche; soppresse eremiti, frati mendicanti, duemila e
cinquecento confraternite, molte fraterie, fra le quali i barnabiti
inetti educatori, frenò le monacazioni, vietò le
flagellazioni e i pellegrinaggi, ordinò il seppellimento nei
cimiteri. Ma, trascinato dall'equivoco esempio del fratello Giuseppe
II, animò e sostenne il moto giansenista del vescovo di
Pistoia, Scipione de' Ricci, tentando un sinodo che abortì
nell'impotenza, mescolandosi ad innovazioni religiose, che colpendo
la superstizione violavano la coscienza e cacciavano il governo in
dispute insolubili di sagrestia. La rivoluzione religiosa, sempre
impossibile in Italia, lo era allora maggiormente nella ignavia dei
caratteri e nell'ignoranza di tutti gli spiriti.
Quindi lo scisma di Scipione de' Ricci, malgrado il valore personale
del vescovo ribelle e la bontà indiscutibile delle sue opere,
la fiacchezza della Santa Sede e l'energia di Leopoldo, conchiuse ad
uno scandalo, che scemò nel popolo l'autorità e la
riconoscenza delle altre riforme. Infatti, se la Toscana molto
più colta e civile delle due Sicilie si assimilò con
maggiore prontezza le leggi leopoldine, specialmente quelle
amministrative, così poco crebbe a sviluppo politico ed
alzò la propria coscienza che, sorpresa dalla rivoluzione
francese, non seppe nemmeno, come Napoli, improvvisare una
repubblica impotentemente classica e generosa quando Leopoldo, per
la morte del fratello Giuseppe II era già diventato
imperatore d'Austria.
La Lombardia.
Nella Lombardia, sottomessa all'Austria e nominalmente governata dal
vicerè Francesco III d'Este, il progresso legislativo
seguì quello della Toscana e delle due Sicilie. Furono tolti
molti abusi, svincolato il commercio dei grani, emancipate la
finanze, pubblicata una tariffa uniforme per tutto lo stato. La
misura dei terreni, imposta da Carlo VI, servì di base al
censimento, permettendo agli antichi gloriosi comuni di ricomparire
amministrativamente: si apersero strade e canali, sorsero ricoveri,
si disciplinò l'istruzione dalle scuole elementari
all'università, si preparò la migliore monetazione del
secolo. Il governo, nonchè prendere ombra dei novatori, se ne
giovava: a Pavia, Scarpa, Spallanzani e Volta davano alle scienze un
impulso che dura tuttavia; Natali, Zola, Tamburini fondavano una
scuola antipontificia, dalla quale derivò molta
libertà del pensiero italiano; il governatore Firmian, emulo
di Tanucci e di Dutillot, proteggeva Vallisnieri e Borsieri,
liberaleggiando come tutti i grandi ministri del tempo; ma al
disotto della numerosa aristocrazia dei belli spiriti il popolo
fiacco, senza carattere e senza idee, si adagiava nel nuovo
benessere che gli sembrava una libertà: i costumi erano
abbietti in alto, in mezzo, in basso: nessuna coscienza politica,
non più attitudini militari. La grande tradizione lombarda
morendo non aveva lasciato nè poesia nè storia. Pietro
Verri, che tentò di scrivere quest'ultima, non riuscì
a venderne una sola copia, lui vivo. Così mutata in provincia
dell'impero austriaco, la Lombardia non aveva più importanza
di Modena, feudo tedesco, e di Lucca, diventata patrimonio di
ottantotto famiglie che la governavano col discolato. Venezia non
era più che la pietrificazione di se stessa. Il suo gran
consiglio somigliava una innocua assemblea di convento; il suo doge
era una maschera solenne fra le maschere allegre che popolavano
tutto l'anno la piazza di San Marco; il tribunale dei dieci era
quasi dimenticato, e la sua polizia non si componeva più che
di una combriccola di bricconi. Quindi Brescia, Bergamo, Verona,
Padova, Udine, Cividale, Treviso, quasi tutte le città
soggette, vivevano in una specie di libera vita amministrativa, che
permetteva loro qualche apparenza di vita politica colla
impunità di disordini lontanamente simili alle antiche lotte
settarie. Nullameno anche a Venezia scoppiò il dissidio
ecclesiastico a proposito del patriarcato d'Aquileia, nel quale
l'Austria voleva riprendere il diritto di nomina alternata. E
poichè Benedetto XIV, quantunque benigno colla propria
decisione, non aveva al solito soddisfatto nessuno dei contendenti,
il senato si spinse oltre all'attacco ed emanò contro gli
ordini frateschi, sui beni e privilegi del clero, gli stessi decreti
di Tanucci, di Dutillot e di Leopoldo. Clemente XIII reagì,
poi la querela si estinse nell'oblio; i tempi di Paolo Sarpi e di
Paolo V erano troppo lontani e la rivoluzione francese oramai troppo
vicina.
Genova, eterna rivale di Venezia, dopo la cessione della Corsica
alla Francia nel 1768, si consuma in sterili agitazioni
democratiche, imitando il moto di tutti gli stati che la circondano.
Ma la sua indipendenza non è più che una larva, la sua
vita un rimescolio di minute attività commerciali senza
coscienza nè di stato, nè di governo. La sua bandiera
non sventola più rispettata sui mari corsi da bandiere
inglesi, francesi, olandesi, americane: il protettorato della
Francia l'umilia, una senilità incurabile la debilita,
togliendole, come a Venezia, la speranza di una morte gloriosa.
Il Piemonte.
La fortuna, che ha trasformato il Piemonte in regno, permettendogli
una specie di centralizzazione francese, con un popolo addestrato
alle armi, con una dinastia bellicosa e un antico programma di
conquista, non basta nullameno a mantenergli l'energia del
progresso. Se il suo stato è il meno decadente, il suo
governo è il meno riformatore. La Lombardia caduta sotto
l'Austria è diventata imprendibile, la Francia salvaguarda la
falsa indipendenza di Genova; quindi il Piemonte si arresta. Il suo
dispotismo regio e militare non s'accorda col soffio liberale che
vivifica l'Europa: la sua vecchia politica di doppiezza e di guerra
non è più possibile nell'epoca nuova. Il Piemonte
regno diventa quindi meno efficace del Piemonte ducato: una paralisi
subitanea lo ferma sulla via della storia, i suoi principi decadono,
i suoi ministri non sono più che amministratori, governo e
corte hanno tendenze e forme francesi, il popolo aspirazioni e
costumi italiani. La sua indipendenza perde ogni significato dal
momento che il Piemonte non è più l'unico regno
progressivo e perciò l'unica speranza d'Italia. La piccineria
di un egoismo piemontese raggricchia perciò corte e governo,
e, togliendo loro collo slancio della conquista l'intrepidezza
dell'avventura, li obbliga per reazione a restringersi nel
dispotismo più ombroso ed antipatico. Mentre tutti i principi
d'Europa e d'Italia sono miscredenti, i Savoia diventano bigotti:
l'Austria ospita Giannone, e Carlo Emanuele III lo rapisce a
tradimento per farlo morire in carcere. La lotta con Roma non ha in
Piemonte lo stesso significato liberale che a Napoli e a Firenze: il
re emancipa i servi per farne dei sudditi, toglie le dominazioni
temporali ai vescovi di Tarantasia, Moriana e Novara, poscia Massano
ai Ferrero, Voghera ai Del Pozzo, l'indipendenza alla val d'Aosta,
il senato a Casale piuttosto per spirito di centralizzazione che di
riforma. Il più liberale de' suoi ministri, il conte
Radicati, è condannato all'esilio e nei beni da Vittorio
Amedeo II, per avergli suggerito quanto Tanucci, Dutillot e Leopoldo
dovevano più tardi gloriosamente praticare; D'Ormea, il
più destro, disonora se stesso e Carlo Emanuele III
coll'assassinio di Giannone: Bogino, il migliore, compie il catasto,
riforma la moneta, redime la Savoia dalle manimorte e dai legami
feudali, ripopola, pacifica, dirozza colle due università di
Sassari o di Cagliari la Sardegna, e Vittorio Amedeo III, succeduto
nel 1773, a Carlo Emanuele III, per primo atto di governo lo
scaccia. Ma l'intima contraddizione, che obbliga il Piemonte ad
esagerare il proprio dispotismo regio e militare in una bigotteria
stupida e feroce mentre gli altri stati italiani morti alla politica
possono liberaleggiare nel governo, s'acuisce al punto che tutti i
migliori spiriti debbono uscirne. Alfieri, Lagrangia, Berthollet,
Bodoni, lo stesso Denina, per quanto Vittorio Amedeo gli avesse
stampato Le Rivoluzioni d'Italia, cercano in un esilio volontario
una libertà italiana che non assomigli all'avara tirannica
indipendenza piemontese.
Lo Stato pontificio.
Peggiore di tutti, lo stato pontificio non ha e non può avere
riforme, giacchè il loro principio deriva appunto dalla lotta
dei principi contro la chiesa per la laicità dello stato. Il
governo teocratico di Roma, condannato all'immobilità del
proprio contenuto religioso, avversa ogni diritto moderno. La
sovranità divina del pontefice vi è pietrificata nella
forma medioevale; il popolo non vi esiste; non havvi altra carriera
che la ecclesiastica, funzioni e cariche che pei preti, legislazione
che le costituzioni papali sovrapposte al diritto romano. Roma in
lotta col mondo si restringe ogni giorno più nella reazione,
come in una armatura di guerra. Francesco Beccatini nella vita
apologetica di Pio VI confessa che, ad eccezione della Turchia, lo
stato pontificio è il peggio amministrato d'Europa. Vietata
ogni esportazione di grano, vincolati tutti i commerci interni,
l'annona assurdamente tirannica colla facoltà di comprare
ogni cosa a prezzo da lei stessa fissato; abbandonate e isterilite
le fertili terre dell'Adriatico, talchè davasi ai vicini
permesso di coltivarle per proprio conto. Angherie e vessazioni di
ogni sorta soffocavano qualunque germe di vita economica; il
tribunale delle grascie tassava le bestie a propria voglia ed
incettava tutto l'olio per rivenderlo più caro; non
manifatture, dazi altissimi d'introduzione e quindi un contrabbando
universale e feroce. Negli undici anni che regnò Clemente
XIII si registrarono dodicimila omicidi, dei quali quattromila nella
sola Roma.
Papa Lambertini, succeduto al troppo debole Clemente XII, che
nominava arcivescovo e cardinale di Toledo il terzogenito di
Elisabetta Farnese fanciullo di soli sette anni, aveva arrestato con
destrezza degna di Voltaire la decadenza del papato, riconciliandolo
o meglio tentando riconciliarlo coi tempi nuovi; ma dopo di lui papa
Rezzonico (Clemente XIII) volle ritornare inflessibile, opponendo al
progresso del secolo la reazione di idee medioevali. I ducati di
Parma e Piacenza, che la chiesa si ostinava a dichiarare propri
feudi, mentre le monarchie subivano una ultima trasformazione
annullando in se stesse gli avanzi della feudalità, furono la
causa prima de' suoi dissidi con tutte le potenze d'Europa. Il
papato, ultimo rappresentante del periodo feudale, doveva
necessariamente diventare il bersaglio di tutte le corti. Le sue
pretese erano così assurde nel diritto moderno, la sua
incapacità politica così evidente, l'antitesi del suo
dato divino colla sua forma monarchica così irriducibile, le
sue bolle così pazze colle loro idee e col loro linguaggio di
un mondo già svanito, che popoli e principi l'oppugnarono.
Dal momento che il principato liberaleggiava creando la
laicità e la democrazia dello stato moderno contro il papato
e la feudalità, bisognava che l'istinto e la ragione popolare
fossero pei principi contro il papa anche allora che per
contraddizioni di battaglia questi sostenesse la libertà
contro il dispotismo regio. Quindi lo stato pontificio fu invaso
sotto papa Rezzonico o Clemente XIII; altre contese scoppiarono con
Genova, Parma, Venezia, la Savoia, la Francia, la Spagna, il
Portogallo, l'Austria, l'Olanda, con tutti. Papa Rezzonico
trovò nobili parole contro l'invasione dei propri stati,
affermando che avrebbe preso piuttosto la via dell'esilio che
rispondere come padre di tutti i fedeli alla guerra colla guerra;
Clemente XIV, più aspro, fu anche più inutilmente
risoluto: il maggiore dissenso era per la soppressione dei gesuiti.
Soppressione dei gesuiti.
Stati, governi, filosofi, letterati, aristocrazie e popoli si
levavano contro di essi, reclamando con decreti, con scritti, con
violenze la loro abolizione. I gesuiti resistevano calmi ed
intrepidi, destreggiandosi nei governi, ribattendo gli argomenti
degli scrittori, ammansando e deviando l'odio popolare. La loro
potenza era in due secoli mirabilmente cresciuta: avevano meglio dei
francescani missioni in Asia, in Africa, in America, dovunque;
innumerevoli collegi presso tutti i popoli civili, dei quali
signoreggiavano l'educazione; consiglieri di ogni scuola, avevano
immensi stabilimenti commerciali, colonie e stati come il Paraguai;
regnavano nella teologia contro i domenicani, nella morale contro i
giansenisti, a Roma sul papa, ubbidendolo nullameno coll'eroismo di
una disciplina che non discuteva nessun ordine, con un concetto
così alto della monarchia papale da morire per essa e da essa
condannati in un silenzio sublime di fede. Il cattolicismo non aveva
migliore milizia, Roma più invincibili pretoriani. Da due
secoli essi la difendevano contro tutti, e le avevano riconquistato
molte provincie protestanti, arrestando la Riforma e tentando
d'indigare la rivoluzione delle scienze; avevano educati molti re,
sedotti ministri e favorite, accese molte rivolte e sedate
altrettante ribellioni, sostenuta con intrepidezza filosofica la
tesi del regicidio e della sovranità popolare, provocati
forse parecchi regicidi, sollevandosi al disopra dei popoli e dei re
con una democrazia papale più logica e più vasta della
cesarea. Nulla li spaventava: la fede era in loro pari al coraggio,
la destrezza raddoppiata dal segreto. Mentre Giansenio, esagerando
la teoria di sant'Agostino sulla grazia, prostrava il libero
arbitrio già tanto fiaccato dal cristianesimo, i gesuiti gli
avevano opposto Molina difendendo nel cattolicismo i resti della
ragione e della libertà umana; quando Giannone più
tardi si richiamava al diritto del principato dai soprusi della
chiesa, essi avevano appellato al popolo dal diritto del principato.
Quindi tutti li odiavano.
In un mondo incredulo e corrotto si opponeva loro di rilassare la
morale; in un secolo rivoluzionario, che acclamava Mandeville e
Diderot, Voltaire e Rousseau, Elvezio e Holbach, erano accusati di
sostenere l'antica tesi di san Tommaso sul diritto del popolo di
uccidere il tiranno. Parrebbe una contraddizione, e non era. La
rivoluzione, guidata dallo spirito francese al rinnovellamento dello
spirito d'Europa, riconosceva istintivamente nei gesuiti la sola
forza del papato. Tutti gli altri ordini religiosi, gli stessi preti
dai più poveri curati ai più ricchi cardinali non
avevano più l'antica fede battagliera; gran parte del clero
viveva nella più crassa ignoranza, i prelati affettavano
l'incredulità come ai tempi migliori del rinascimento, i
domenicani non ispiravano più alcun timore, i francescani
meritavano più poco rispetto. I gesuiti soli combattevano per
Roma, erano la sua tradizione unitaria, i soldati del suo dogma
papale. La loro tesi del regicidio e la loro temeraria affermazione
della sovranità popolare contro i principi non derivavano dai
principii ancora torbidi e dalle passioni latenti della rivoluzione,
ma erano audaci e abili espedienti di guerra, improvvisati secondo i
luoghi ed i tempi nell'interesse dell'idea cattolica e papale. La
loro democrazia non era che la base di un dispotismo pontificio
tanto maggiore di quello dei Cesari, quanto l'impero cattolico era
più vasto del romano.
Quindi nella lotta dei principati europei contro il papato, come
superstite forma medioevale e ultimo rappresentante del patto antico
fra la chiesa e l'impero, tutti si accordavano a chiedere
violentemente la soppressione dei gesuiti. Era un imporre al nemico
di disarmarsi, secondo l'acuta frase di Federico II. Roma resisteva.
Gli argomenti svolti contro i gesuiti l'avrebbero dovuta persuadere
a conservare nel loro ordine una milizia, contro la quale
gl'increduli delle nuove filosofie e i nuovi giuristi del principato
avevano dovuto stringere una coalizione mondiale. Giammai lotta ebbe
incidenti più vari, scene più equivoche e tremende.
Pascal alla testa di Portoreale scrisse contro i gesuiti un
capolavoro, Le Provinciali, dando alla prosa francese quella
terribile agilità che doveva farne il più mirabile
istrumento di distruzione; dietro lui tutti i maggiori letterati
infuriarono: gli statisti sospinsero contemporaneamente gli assalti;
i parlamenti se ne immischiarono; gelosie di donne, di vescovi e di
riti imperversarono e tutto crollò simultaneamente intorno ai
gesuiti. Questi stettero superbi di coraggio e di fede. Papa
Ganganelli, Clemente XIV, troppo timido per solo pubblicare la
solita bolla In Coena Domini, piegò sotto lo sforzo
universale, sacrificando nei gesuiti gli ultimi legionari del
papato. Il quale in tanto frangente fu al disotto non solo della
propria idea, ma di ogni più piccolo stato italiano. Clemente
XIII aveva già negata l'ospitalità ai sei mila gesuiti
cacciati di Spagna e tradotti a Civitavecchia entro la stiva di
vecchi bastimenti, lasciandoli errare di spiaggia in spiaggia sei
mesi; Clemente XIV, meno abbietto e più imprudente,
gettò Ricci, loro generale, nelle carceri di Castel
Sant'Angelo. Ma il generale, degno dei propri soldati, non
piegò sotto alcuna minaccia, non soccombette ad alcuna
insidia, ricusò l'offerta d'un vescovado per non
sottoscrivere una carta, e moribondo dettò una protesta
nobilmente superba d'innocenza, commovente di rassegnazione ai
voleri della chiesa. Pio VI, succeduto a Ganganelli, che si disse
morto di veleno, rese al cadavere del generale tutti gli onori,
ribadendo così l'errore commesso dal papato colla
soppressione della compagnia di Gesù. Infatti Federico II e
Caterina di Russia, i due maggiori sovrani del secolo per ingegno e
potenza, ne lo sbertarono vivamente, mentre Voltaire e D'Alembert,
quegli lo spirito più acuto, questi la migliore testa
filosofica della Francia, spingevano l'abilità della vittoria
ottenuta contro Roma sino a lodare entusiasticamente i gesuiti. Nel
periodo delle riforme il papato aveva dunque commesso, per imitarle,
il più assurdo degli spropositi, disarmandosi in faccia al
principato intento a laicizzarsi e alla vigilia di una rivoluzione,
che doveva spezzare la base millenaria della idea cattolica romana.
Ma questo errore era ancora una conseguenza della sua organizzazione
politica; per la quale doveva come Torino, Genova, Venezia e Napoli
subire le fluttuazioni delle volontà e delle guerre europee
invece di librarvisi sovranamente nella semplicità del
sacerdozio. Poiché le accuse ai gesuiti non erano che
politiche, e il papato sacrificandoli moriva con loro, la riforma
romana fu un suicidio.
Infatti Pio VI, sbigottito dalle troppe innovazioni di Giuseppe II
contro la chiesa, dimenticando l'antica altezza dei pontefici che
citavano a Roma gli imperatori di Alemagna, pensò invece di
andarlo a visitare a Vienna; ma il viaggio clamoroso non gli
fruttò che complimenti ironici dall'imperatore, mentre il
ministro Kaunitz, stringendogli alteramente la mano invece di
baciargliela, lo abbassò al livello di tutti i principotti
italiani più o meno sottomessi all'Austria.
Il papato era morto. Ricci, il suo ultimo eroe e il suo martire
più originale, aveva trovato in Kaunitz un vendicatore anche
troppo pronto.
Giuseppe Parini.
Ma per tutto questo periodo il genio italiano tace. Vico e Giannone
sono morti senza successori; la grande tradizione italica si
interrompe. Tutti guardano involontariamente alla Francia e ne
seguono a distanza il moto, appropriandosene stentatamente le idee.
La nazione addormentata nell'ozio non ha più energie di
speranze o di ricordi; i governi riformano dispoticamente tutti i
congegni amministrativi senza apprendere alla coscienza publica una
scintilla di patriottismo. Lo scarso patriziato intellettuale vive
di idee e di sentimenti esteri, la maggior parte degli scrittori
pellegrinano a Parigi come alla capitale del pensiero moderno.
Nullameno la letteratura nazionale si emancipa dalla servitù
scolastica coll'imitazione delle letterature straniere; Baretti
trasporta da Londra Shakespeare in Piemonte e tempesta sui vecchi
classici con foga bizzarra ed efficace; Cesarotti traduce Ossian;
Verri imita Young nelle Notti romane; Beccaria si assimila in un
libercolo meraviglioso di buon senso e di limpidezza tutte le
critiche recenti sulle legislazioni penali e ne detta un altro sullo
Stile, del quale trova le leggi nella psicologia; Cesarotti nel
Saggio sulla filosofia delle lingue scioglie i legami della
pedanteria, che paralizzavano la prosa italiana. Comincia uno stile
nuovo con idee, forme e andamenti più liberi derivati
dall'estero. L'originalità italiana manca; Filangeri con
entusiasmo giovanile improvvisa un trattato sulla legislazione, nel
quale ospita tutte le idee francesi componendone quasi una nuova
arcadia scientifica; Mario Pagano e Melchiorre Delfico, destinati
alla gloria politica dell'imminente rivoluzione, esperimentano se
stessi combattendo gli antichi abusi; Galiani, l'ingegno più
acuto e brillante del mezzogiorno, economista, letterato capace di
tutto comprendere e di tutto rivelare, diventa parigino ed eredita
da Voltaire il bastone di maresciallo dello spirito. Gli economisti
tardi ed impacciati non arrivano ad alcun sistema, imitano i governi
studiando e proponendo riforme senza dare ai propri studi nè
principii nè forma di scienza. Mentre la Francia ha i
fisiocratici e l'Inghilterra Adamo Smith, l'Italia non ascolta che
l'abate Genovesi, perde Galiani e vede Gian Maria Ortes, forse il
migliore dei propri economisti, smarrirsi fra la doppia
oscurità del passato e dell'avvenire. Novatore d'istinto come
Vico, Ortes per andare avanti guarda indietro e rinnova con audace
interpretazione economica tutto il medio evo cogli asili, i
conventi, i feudi; poi, discendendo nella politica, vuol ripetere il
vecchio patto fra la chiesa e l'impero perchè quella sia il
potere legislativo e questo l'esecutivo. Il suo ingegno è
forte, la sua logica ben addestrata, ma per seguire la tradizione
italiana deve respingere tutto il mondo moderno; quindi la sua opera
inutile di scrittore passa inosservata. Beccaria e Verri, Ricci e
Palmieri seminano intanto buone idee e ne tentano applicazioni,
quantunque sfiduciati del paese e senza troppa fede nella scienza;
ma nessuno di loro sa giungere al potere per ritemprare nelle
esperienze gli equivoci assiomi delle teoriche. La mancanza di
libertà legali e il distacco fra principe e popolo, isolando
ogni meditazione, costringeva al vago ed all'esagerato: i governi
praticavano riforme con vedute proprie e con intenzioni dispotiche
per emanciparsi al tutto da Roma e schiacciare sotto il proprio
livello gli ultimi talli dell'aristocrazia. Nè il principato,
nè la nazione badavano dunque ai novatori: la rivoluzione
fermentava altrove, il moto italico era riflesso.
Nullameno anche in Italia l'uomo moderno aveva già trovato
nell'arte un'espressione immortale. Giuseppe Parini e Vittorio
Alfieri rappresentano in due classi distinte e con diverso
temperamento il medesimo uomo. Stranieri alla società nella
quale sono nati e debbono forzatamente vivere, la dominano
coll'altezza di una coscienza e di un carattere ad essa
incomprensibile. Una dignità insolita, un'alterezza originale
alza le loro fronti e le loro parole tra la folla delle teste e dei
discorsi comuni. Parini è uomo più di meditazione che
di azione: il suo mondo interno fondato sulla natura e sulla ragione
contrasta involontariamente al secolo fittizio e convenzionale; la
sua cultura austeramente classica attraverso Dante e Plutarco arriva
inconsapevolmente alle nuove idee agitanti l'Europa. Nè molto
forte, nè troppo vario nell'ingegno, sorvola a tutti
coll'originalità di un senso morale così schietta e
profonda che da sola è già una poesia capace delle
più fervide e magnanime aspirazioni. In lui l'uomo produsse
l'artista: la sua poesia fu la parola del suo pensiero, lo sfogo del
suo sentimento. Semplice come un contadino, onesto come un antico,
liberale come un moderno, ma con un'intima misura che frenando la
passione le associava la forza della ragione, egli mortificò
la società del suo tempo in un poema ironico non sorpassato
ancora in nessuna letteratura. Il paragone fra l'aristocrazia
d'allora e l'antica, dal quale erompe la satira, non è che
un'inconscia finezza del poeta animato da ben più nobile ira;
Parini, avendo l'aria d'invocare la soldatesca virilità dei
vecchi signori, richiama a un'altra virilità moderna senza
nè ferocie tiranniche, nè privilegi micidiali. Un
nuovo mondo, una più giovane coscienza si schiudono nei suoi
versi. Il pedagogo che ammonisce e il poeta che deride sono del
secolo di Rousseau; il sentimento religioso di Parini ricorda la
teologia naturale del Vicario savoiardo; nello stridore della sua
ironia borghese passano a volta a volta gli stessi fremiti che
sollevano le migliori pagine delle Confessioni. Parini ignora forse
Rousseau, ma il secolo congiunge le loro due opere riunendo in uno
sforzo comune l'impeto delle loro due poesie. Il dolore delle
ingiustizie sociali non turba a Parini nè l'equilibrio del
pensiero, nè l'equaninimità del sentimento; quindi
l'ironia colla quale flagella la società non è
più quella del buon senso, scettica ed allegra come in
Boccaccio e in Ariosto, ma un'ironia più profonda, tragica e
profetica, che annunzia nella dissoluzione di un mondo decrepito
l'alba di un mondo migliore. È l'ironia del senso morale. Fra
poco il suo sibilo si muterà in bufera rivoluzionaria per
spazzare tutta quella vecchia società, ma il poeta, percosso
di terrore ed incapace di vedere il sereno fra gli squarci della
tempesta, cesserà di cantare. Forse lo stesso implacabile
disprezzo gli si muterà all'ultima ora in misericordia,
quando il sangue dell'aristocrazia trucidata, colando per tutte le
terre di Francia, susciterà in Italia un'arcadica demagogia
scimmiottante negli abiti e nelle parole la terribilità della
scena parigina. Allora Parini vecchio romperà il silenzio per
scrivere a Silvia l'ode Sul vestire alla ghigliottina, lasciando
incompiuto il poema del Giorno, nel quale aveva saputo rattenere per
molti anni lo sdegno rivoluzionario.
Vittorio Alfieri.
Dove Parini aveva guardato, l'Alfieri si avventò: quegli
aveva maneggiato lo scudiscio dell'ironia, questi si scaglia sulla
vecchia società colla classica scure del littore romano.
Con terribile prontezza Alfieri vede e misura la nullaggine della
società, dalla quale è nato, e la sua fibra gagliarda,
il suo eletto orgoglio ne sono così ributtati che fugge
viaggiando per l'Europa. È poeta e s'ignora, è tragico
e si arrovella con se medesimo, ma l'Italia l'insegue dappertutto.
L'infingardaggine e la vigliaccheria paesana irritano la sua
attività contendendone ogni campo. L'izza del poeta diventa
furore. Non ha frequentato le scuole, non conosce i classici, cerca
una modernità, che sente e non sa ancora esprimere; è
uomo nobile di nascita ed abborre l'aristocrazia, cerca uomini e non
ne trova nemmeno nella borghesia e nel popolo. Tutte le idee
francesi fermentano nel suo spirito, risvegliando il suo orgoglio
italiano contro la Francia stessa. Finalmente un caso gli getta un
Plutarco tra le mani, e gli eroi della antichità diventano i
suoi contemporanei, gli uomini del suo spirito; un altro caso gli
suggerisce di schizzare una scena tragica nella camera dell'amante
ammalata; e il poeta, rivelandosi subitamente a se stesso, si
scaglia sugli altri per trarli nel proprio mondo colla forza
irrompente di un convertito e coll'albagia di un antico signore.
La sua tragedia è una battaglia della libertà contro
la tirannia, della virtù contro il vizio, del genio contro la
mediocrità, dello stato contro la chiesa. Non vi sono
nè mezzi caratteri, nè figure di accompagnamento; vi
si ama, ma non vi si veggono amanti; la scena è occupata dal
tiranno e dal ribelle, aspri, enormi, inflessibili. Il verso stride
come un ferro rovente nell'acqua, le parole squillano come mazze
sugli scudi, la frase balena come una lama di pugnale. Non
varietà di scena, non episodi, non dramma vero, non tragedia
umana; ma una lotta di idee espresse da personaggi che paiono vivi,
tanta è la vita che erompe da quelle idee: una battaglia di
sentimenti con eroi che sembrano veri, tanto il loro unico
sentimento è sincero. Nel teatro di Alfieri vi è
già la libertà, ma non vi sono i liberi; la republica,
non i republicani; il clero, non i sacerdoti. Il personaggio tipico
non vi arriva alla suprema verità individuale, ma forse mai
verità tipica fu più intensa.
Il pubblico, che accorre a queste tragedie, ne esce stordito.
Quell'azione rapida, stringata, sopra una scena nuda, squallida,
senza incidenti, con pochi personaggi, con una sola idea e una sola
passione, gli è penetrata nell'anima come un ferro;
Metastasio colle sue nenie, co' suoi vapori, colle sue decorazioni
orientali, è superato. Quei pochi attori che sembrano ruggire
invece di recitare, che mettono nelle proprie parole un'energia
eccessiva anche per l'azione, che parlano seriamente di morire, e
amano e odiano con così irresistibile furia, producono sulle
immaginazioni deboli l'effetto di una evocazione. Nessun lenocinio,
nessuna concessione in queste tragedie; nella loro nuova
moralità il vizio è sempre vittorioso e la
virtù sempre sacrificata; l'eroismo soccombe come il genio;
la necessità della lotta, la gloria della sconfitta, lo
stoicismo dell'olocausto, ecco la loro retorica.
Volendo essere il redentore d'Italia, Alfieri si getta al teatro,
perchè solo con esso e per esso può giungere al
pubblico. L'immunità della poesia salva le sue tragedie dalle
repressioni dei governi. Le sue maledizioni che tuonano su tutte le
corti, i suoi furori che esaltano tutte le plebi, le sue bestemmie
che inseguono il clero persino nella chiesa, la sua modernità
che lo obbliga a prendere le idee della Francia e a rinnegarla per
conservarsi italiano, il suo classicismo che spezza tutte le vecchie
maschere teatrali collo scoppio di parole e di sentimenti originali,
il suo orgoglio di uomo che lo erge sprezzante in faccia a tutti i
re, la sua alterezza di grande uomo che lo innalza sopra il popolo,
la sua irrequietezza di poeta che lo costringe a ripetere senza
rinnovarle le proprie tragedie, la sua passione per la Toscana che
gli rivela il segreto della tradizione italiana, il suo amore
burbero, lirico, tragico per l'Italia, l'asprezza del suo carattere
e del suo genio, la spontaneità della sua natura stretta fra
due mondi e nullameno capace di contenerli, gli danno una
popolarità e una gloria senza raffronti in tutta la
letteratura nazionale. Non lo si capisce bene, ma lo si segue: gli
altri poeti ammutoliscono, e paiono come tanti veltri intorno ad un
cinghiale. Alfieri è da solo un'altra Italia. Dalle sue
collere, che sono uragani, verrà una fecondazione non prima
conosciuta: le sue invettive si muteranno in tremuoti; la
rapidità delle sue tragedie, che sembrano affrettarsi con
feroce impazienza verso la catastrofe, accelererà la
rivoluzione italiana.
Ma Alfieri non ne vedrà che l'inizio e non potrà
intenderne il processo. Gli eccessi del Terrore francese gli
rivolteranno la coscienza e gli ispireranno il Misogallo, ammirabile
ed assurda reazione della personalità italiana contro la
rivoluzione, dalla quale riceveva la vita; Napoleone non
imporrà, colle proprie vittorie romane, rispetto alla
protervia socratica del suo carattere sempre più alto di
tutti gli avvenimenti e più puro del più puro fra i
suoi personaggi. L'anima d'Alfieri, tempestosa come quella di Dante
ma più nobile ed efficace a creare col proprio esempio una
generazione di uomini nuovi, inizierà la terza epoca
italiana. Come poeta ed artista Alfieri non vale certo nè
Schiller, nè Goethe, suoi contemporanei; come uomo è
il solo che possa rivaleggiare, sebbene da lui diversissimo, con
Franklin. Questi è l'originalità e la gloria del
carattere americano; quegli la modernità e la grandezza del
carattere italiano: Franklin ha il buon senso sereno di un mondo che
comincia; Alfieri il senso tragico di due mondi che si cozzano, sui
quali fosco ed eroico si alza, urlando ai codardi che fuggono come
ai vincenti che si sbandano, ai re che soccombono come ai tribuni
che tradiscono, mentre con lirico oblìo di ogni proprio
pericolo guarda la bandiera della libertà salire sempre
più alto su monti di feriti e di morti.
Alla fine di questo periodo così attivamente riformatore
nessuno stato italiano cova quindi una rivoluzione. Il principato
cresciuto a regno nel Piemonte, nelle due Sicilie e nello stato
pontificio ha esaurito la propria formula. Le vere differenze
regionali sono pressochè scomparse: un medesimo dispotismo ha
livellato i popoli della penisola, sciogliendoli dai legami della
feudalità e del municipalismo; ma fra popolo e governo si
è venuto scavando inavvertitamente un abisso. L'uno comanda e
l'altro ubbidisce: la legge non congiunge libertà ed
autorità, coscienza pubblica e coscienza privata sono
antagoniste. Se la separazione doganale e politica isola ancora i
popoli d'Italia, una stessa negazione significata dalla medesima
indifferenza per i propri principati li affratella: tutti i migliori
spiriti sono riformatori, i più alti sono inconsciamente
rivoluzionari. Il patriottismo retorico del Machiavelli, dopo avere
squillato nelle odi di tutti i poeti del seicento e del settecento,
diventa vera poesia in Parini e in Alfieri. Si comincia a vedere una
Italia intera al disotto e al disopra di tutti i suoi principati
immobili nel mondo europeo; e poichè questi non possono
più combattersi l'un l'altro per agglomerarsi in un corpo
solo, son tutti egualmente inutili e tutti saranno rovesciati
dall'imminente rivoluzione francese.
Gli animi sono sospesi, i governi disarmati, i popoli inermi, gli
scienziati distratti, i filosofi silenziosi, gli statisti
paralizzati: solamente i poeti cantano, ma la loro voce, come quella
dell'alcione, annuncia la tempesta.
La tempesta scoppiò a Parigi.
LIBRO TERZO
LA DEMOCRAZIA MODERNA
Capitolo Primo.
Le repubbliche
Rivoluzione francese.
La grande rivoluzione agitante tutta l'Europa si svolse in Francia;
nessuna dopo quella del cristianesimo fu più rapida, vasta e
profonda: il mondo intero ne uscì rinnovato.
Essa negò la monarchia cristiana nella sua trinità di
re, aristocrazia e religione per sostituirvi la sovranità
popolare, il governo della borghesia e la superiorità della
giustizia filosofica sulla giustizia cristiana. La sua passione era
la libertà, le sue forze quelle dell'industrialismo contro il
militarismo, il suo programma l'uguaglianza civile; il suo spirito
era classico, il suo temperamento insubordinato. Appena comparsa
sulla scena storica, entro le forme antiche dei parlamenti, le ruppe
ed invase, rovesciando tutti gli ordini. Incalcolabili dolori,
inesauribili speranze la spingevano. La monarchia borbonica,
rappresentata dal meno cattivo e dal più inetto de' suoi re,
scese al disotto del ridicolo e dell'infamia nella propria
resistenza, trincerandosi entro la bigotteria cattolica ed invocando
lo straniero. La plebe ruggì; sessanta mila banditi, prodotti
dalle fiscalità incredibili dell'ultimo regime, accorsero in
bande a Parigi e s'improvvisarono eroi, carnefici, popolo, pubblico,
sovrano. L'aristocrazia o seguì nel tradimento di un
volontario esilio la corte, o si chiuse nei propri castelli, o si
buttò per nativa generosità o per tarda ipocrisia
nella rivoluzione; e ovunque fu trucidata. Il clero, incredulo e
corrotto, disparve quasi nella prima lotta per ricomparire
più tardi coraggiosamente alla testa d'insurrezioni realiste
e parricide; la borghesia vincitrice e vittoriosa fu travolta dallo
stesso uragano che la portava a rovesciare tutto dinanzi a
sè. La successione febbrile e fantastica delle forme
politiche nella rivoluzione superò ogni tragedia, sgominando
previsioni di sapienti, abilità di pratici, pretensioni di
tribuni, combinazioni di partiti, intrepidezze di fanatici,
disperazioni di deboli e di forti.
L'Europa, destandosi dal sogno arcadico delle riforme,
allibì, e, improvvisamente pentita delle proprie idee,
armò con senile imprevidenza tutte le antiche monarchie
contro la rivoluzione francese. Il pericolo era imminente, ogni
dinastia minacciata, tutto l'antico assetto politico sommosso.
Ciascun'ora recava da Parigi annunzi di stragi: decapitati il re e
la regina, nobili e preti passati a fil di spada, distrutti i
castelli, incendiati i conventi, dichiarata la guerra a tutti i re,
gridata libertà a tutti i popoli. I rivoluzionari apparivano
sulla scena sinistri ed affascinanti, per sparire quasi
istantaneamente, precipitati nel medesimo gorgo che inghiottiva
l'aristocrazia, o troncati dalla stessa mannaia che aveva tagliata
la testa del re. Luigi XVI, prima di essere giustiziato, aveva
dovuto deporre il bilancio della monarchia innanzi alla convenzione
come davanti ad una assemblea di creditori, che lo avessero
condannato per fallimento doloso; aristocrazia e clero, commessi
della regalità, avevano subìto le sorte del
principale. Non più diritto divino, non più supremazie
storiche di vincitori e di vinti stabilite nel medio evo, non
più autorità di pontefici e di Dio confiscanti la
terra a nome del cielo ed imperanti al pensiero col doppio mito
della rivelazione e della risurrezione. La politica, che,
rappresentando sino allora l'abilità dell'interesse regio
sopra o contro l'interesse nazionale, aveva sempre pensato ed
operato nel mistero, improvvisamente trascinata in piazza non
è più che una discussione di tutti, nell'interesse di
tutti, necessariamente tumultuosa, aggressiva, intrattabile in
quell'ora suprema di delirio e di distruzione. Dio, disperso nei
cieli, abbandona sulla terra i propri altari; la monarchia non trova
giustificazione ai propri titoli, l'aristocrazia ai propri gradi, il
clero alla propria autorità. La ragione trionfa, la scienza
sovrasta, la filosofia si esalta, la politica delira. Nulla è
più rispettato, perchè tutto deve essere ridiscusso;
la demenza imperversa tra la foga irrefrenabile delle passioni
necessarie all'immane sforzo di sconvolgere tutto il passato; la
frenesia della libertà riproduce quindi l'insania del
dispotismo; una distruzione maniaca seppellisce i guastatori sotto
le rovine; uomini e partiti si dissolvono entro la trama sempre
lacerata e sempre rammendata di un parlamentarismo, che imitazioni
classiche ed estranee ordiscono e passioni nazionali ed istantanee
stracciano.
La guerra civile avvampa prima che regii e preti l'attizzino; le
coscienze violate urlano, martiri e carnefici lottano d'eroismo, il
mondo atterrito e nauseato torce lo sguardo dall'instancabile
carneficina, l'Europa si coalizza e si avventa sulla Francia per
toglierle, liberando Luigi XVI, di compiere intera la rivoluzione.
Senonchè la Francia, galvanizzata dal pericolo, illuminata
dall'istinto, taglia la testa al proprio re e la gitta come una
sfida all'Europa monarchica. La sfida è raccolta, ma la
vittoria resta alla Francia. Esausta, senza denaro, lacerata dalle
fazioni, smezzata dalla guerra civile, essa lancia nullameno un
milione e mezzo di coscritti a tutte le frontiere; inesperienza e
tradimenti di generali non la perdono; il genio e la passione
riparano a tutto, trionfano di tutto. La storia si muta in poema, la
tragedia sta per tramontare nell'epopea. Il popolo, che nella
demenza delle prime ore ha massacrato quasi tutta l'aristocrazia
della scienza e del patriziato, ne improvvisa un'altra di eroi, di
generali, di ministri, che sconfiggono gli eserciti di Federico II,
le diplomazie dell'Austria, i complotti di Roma, le macchinazioni
dell'Inghilterra. Dal 1789 al 1796 la bufera rivoluzionaria non
rallenta un minuto. La sua opera di distruzione è così
rapida ed universale che nessun occhio può cogliere tra il
polverio delle macerie l'originale fisonomia dell'epoca, che vi
comincia: pare un guasto ed è una rinnovazione, un massacro
ed è un olocausto, un delirio ed ogni colpo vi è
infallibile, una passione ed è un'idea, una improvvisazione
ed è un sistema, un sistema ed è un mondo.
L'America aveva cominciato poco prima coll'insurrezione degli Stati
Uniti; l'Europa ricomincia colla rivoluzione della Francia. Bisogna
quindi che una guerra trascini questa fuori dei propri confini:
tutte le monarchie europee, rovesciate dalla rivoluzione francese,
riveleranno nella caduta la propria vacuità, ma per
risollevarsi dovranno tendere la mano ai popoli. Quando un popolo
rialza un re, finisce di essergli suddito; appena il diritto divino
patteggia col diritto umano, cessa di essere un diritto; quando un
clero è costretto a discutere la propria religione, la fede
in essa è già morta; allorchè spunta
l'elettore, il monarca scompare. La sovranità è
inscindibile. La formula conciliativa delle moderne costituzioni
esprime, tentando coprirla, l'antitesi di un'idea nuova con una
forma antica; ma ogni idea, presto o tardi, deve trovare di per
sè la propria forma. Nessuna forma vuota ha mai potuto o
potrà mai riprodurre la propria idea svanita: vi è
generazione, non risurrezione: ogni corpo ha un'anima, nessun
cadavere può rianimarsi.
Al rompere della rivoluzione francese, l'Italia vi è
così poco preparata, che il Bertola (1787) nella prefazione
della propria filosofia della storia dichiara che l'Europa non teme
più rivoluzioni, e Pietro Verri, uno dei migliori,
entusiasmato per le benigne intenzioni di Leopoldo II salito al
trono d'Austria, consiglia a tutti di diventare buoni sudditi del
nuovo monarca. A Pistoia e a Livorno sono scoppiati tali tumulti
contro le riforme4 leopoldine da costringere il nuovo granduca
Ferdinando III a sospenderne e a ritirarne alcune; a Napoli la
prepotenza di Acton, Silio inglese di Messalina austriaca, fa
dimenticare la benefica onnipotenza del Tanucci; Dutillot e Bogino,
già caduti in disgrazia, si sono ritirati dalla politica.
Le armi della nazione scarseggiavano; pochi gli armati, e tra essi
troppi stranieri. Il Piemonte manteneva ancora quindici castelli e
trentacinque mila soldati; Genova, abbastanza bene fortificata, poco
più di un migliaio e mezzo; altrettanti Modena, la
metà di questi Parma, due centinaia Lucca, quattro mila la
Toscana, cinque o sei mila il papa colle fortezze del Po, d'Ancona e
di Civitavecchia; duemila stranieri, alcuni bastimenti, l'arsenale
non assolutamente sprovvisto, Venezia. Acton a Napoli ringagliardiva
con futile vanità il naviglio e riordinava l'esercito con
istruttori francesi, licenziando gli svizzeri, restringendo in due
reggimenti gli spagnuoli, i fiamminghi e gl'irlandesi, aggiungendo
un battaglione di cacciatori albanesi al reggimento Reale Macedonia
di greci. La Lombardia, forte per Mantova e Milano, non assoldava
più di quattro mila uomini cerniti dagli ergastoli o
ingaggiati. L'abisso, che separava il popolo dal governo, lo
divideva pure dall'esercito. Quarantotto anni di pace avevano tolto
da ogni memoria l'immagine della guerra, favorendo la putrefazione
della coscienza pubblica.
L'antica Italia dei guelfi e dei ghibellini, così
inesaustamente e terribilmente guerriera, non era certo
riconoscibile in questa ultima Italia di cavalieri serventi e di
eserciti inservibili, ove Ferdinando IV con cinica profezia poteva
dire delle proprie milizie «scapperanno, scapperanno!».
Quindi la rivoluzione francese dagli stati generali con impetuoso e
rapido crescendo arriva alla costituzione del 1791; il re spaventato
fugge affrettando la catastrofe; ma scoperto a Varennes e ripreso,
la sua causa è ormai separata da quella della rivoluzione. Le
ostilità fra corte e rivoluzione rifiammeggiano, le plebi
tumultuano. All'assemblea costituente, tosto disciolta, succede la
legislativa tutta composta di membri nuovi; l'Europa freme, i popoli
esultano, i re si alleano minacciosamente ed emanano il proclama
insolente di Pillnitz. L'assemblea legislativa alla minaccia
dell'invasione risponde imponendo agli emigrati di ritornare entro
un anno in Francia sotto pena della confisca dei beni, e al clero il
giuramento civico. La coscienza falsa e bigotta di Luigi XVI
ricalcitra; la sua diplomazia, costretta a dichiarare la guerra a
Francesco II d'Austria, che pretendeva si rendessero Avignone al
papa e i diritti feudali ai principi tedeschi proprietari
dell'Alsazia, tratta ancora segretamente con Vienna; alcuni rovesci
all'aprirsi della campagna spargono nella nazione la paura del
tradimento; finalmente il veto contro la deportazione dei preti, e
il manifesto ingiurioso del duca di Brunswick, minacciante Parigi di
un'esecuzione militare se fosse recato oltraggio alla famiglia
reale, persuadono tutti che la corte è il nemico, il popolo
insorge, invade le Tuileries, sforza le prigioni, massacra svizzeri,
prigionieri, preti, aristocratici. Il delirio del sangue sale a
tutte le teste, mentre l'entusiasmo patriottico infiamma tutti i
cuori. Volontari accorrono sotto le bandiere da tutti gli angoli
della Francia. Dumouriez, succeduto a Lafayette, batte i prussiani a
Valmy (1792); Custine entra trionfante a Spira, a Worms, a Magonza,
a Francoforte; Montesquieu occupa Chambéry, Anselme ghermisce
Nizza al re di Savoia collegatosi all'Austria e alla Prussia contro
la Francia.
Ma la rivoluzione vittoriosa alle frontiere raddoppia la propria
vittoria all'interno e processa il re. La storia non aveva ancora
avuto uguale giudizio; diritto divino e diritto umano, elettore e
monarca sono di fronte: soccombe il re. La monarchia, uccisa
nell'idea, non risorgerà che finzione di se medesima,
sottomessa nel nuovo diritto costituzionale alla sovranità
popolare. Quindi tutte le monarchie europee colpite al cuore da
questa negazione del loro principio si coalizzano: Inghilterra.
Spagna, Olanda s'aggiungono all'Austria, alla Prussia e al Piemonte
contro la Francia. La convenzione superbamente eroica dichiara loro
la guerra. Le prime armi sono infelici; la Vandea violata nella
propria coscienza religiosa ed esasperata dalla decapitazione del re
insorge. La guerra civile si mescola così alla guerra
straniera, mentre la rivoluzione accampata a Parigi fra banditi
indisciplinabili, plebi sanguinarie e partiti implacabili, senza
denaro, senz'organizzazione, senza autorità, oppugnata
dall'aristocrazia, combattuta dal clero, non abbastanza aiutata
dalla borghesia, raddoppia il proprio eroismo, moltiplica il proprio
genio, risponde colla morte alla morte, muta il massacro in governo,
improvvisa quindici eserciti di centomila soldati ciascuno, arriva
col trionfo della Montagna sulla Gironda all'esplicazione della
propria formula finale. In questa vertigine di sangue la sua opera
legislativa prosegue falsa nei metodi, violenta nelle forme, ma
infallibile nei concetti. Tutto cede alla fatalità della sua
idea. Mentre a Parigi i partiti trucidandosi l'un l'altro alzano una
piramide di cadaveri, che gela l'Europa di orrore, gli eserciti
republicani dissipano gli eserciti regi con una furia e una
facilità di uragano. Pichegru e Jourdan battono gli
austro-inglesi a Monseron e a Fleurus (1794): lo statolder fugge e
gli stati generali proclamano la republica batava. Dumas, padre del
grande romanziere, snida gli austro-sardi dai passi alpini del
piccolo San Bernardo e del Cenisio; Dumerbin sconfigge i sardi a
Saorgio e s'impadronisce di Savona; Dugommier ricacciati gli
spagnuoli oltre i Pirenei, li prostra alla Montagna Nera in una
battaglia di quattro giorni, nella quale muore vittorioso. Quindi
Pérignon, suo successore, penetra nella Catalogna, e Moncey,
sostituito a Mailer nei Pirenei occidentali, conquista la Biscaglia
e l'Alava.
Il rombo di tante vittorie spaventa così Federico Guglielmo
II di Prussia che, staccandolo dalla coalizione gli persuade la pace
di Basilea, nella quale cede alla Francia il Reno per confine:
quindi gli Elettori di Sassonia, di Annover e Assia Cassel, il
granduca di Toscana e poco dopo la Spagna, seguendo il prudente
esempio, riconoscono la republica francese.
Ma le due maggiori potenze dell'Austria e dell'Inghilterra,
quantunque sconfitte in più battaglie, stanno pronte alla
riscossa: l'Inghilterra tiene vittoriosa i mari, la Vandea
eroicamente reazionaria si batte ancora per la corte vilmente
raminga e per l'aristocrazia più vilmente agglomerata a
Coblenza. A questo punto (1795) andò in vigore la
costituzione dell'anno III, che affidava il potere legislativo a due
consigli, i cinquecento e gli anziani, e l'esecutivo a un direttorio
di cinque membri eletti dal corpo legislativo: dopo di che si
riprese la guerra. Carnot, incomparabile organizzatore della
vittoria, tracciò egli stesso il disegno per la campagna del
1796, secondo il quale i tre eserciti della Sambra e Mosa, del Reno
e dell'Italia avrebbero dovuto prendere simultaneamente l'offensiva.
Ma i due primi, guidati da Jourdan e Moreau, avendo commesso
l'errore di avanzarsi sovra due linee parallele invece che
convergenti, furono sconfitti dall'arciduca Carlo: il terzo scese in
Italia con Napoleone Bonaparte, fanciullo come Annibale e forse il
solo degno di essergli paragonato.
Condizioni della penisola.
Allo scoppio della rivoluzione francese esistevano in Italia quattro
maniere di governo: quello austriaco nei ducati di Milano e di
Mantova; la teocrazia negli stati romani; la republica medioevale a
Venezia, a Genova, a Lucca e a San Marino; stavano ducati e regni
indipendenti, la Toscana, Parma, Modena, le due Sicilie e il
Piemonte. Nelle republiche il patriziato erasi insignorito del
governo, identificandosi collo stato, ma fossilizzandosi nella
più grottesca e vacua delle forme; la burocrazia austriaca
fondata da Giuseppe II nella Lombardia vi contrastava a tutte le
tradizioni feudali e clericali; Parma e Modena, ubbidiente agli
impulsi borbonici francesi, si erano esaurite oppugnando le
pretensioni di Roma; il movimento riformista delle due Sicilie e
della Toscana, scendendo dall'alto attraverso capricci di sovrani e
sapienza di ministri, aveva piuttosto sommosso che illuminato le
coscienze, spostando molti interessi senza organizzarne alcuno. A
Roma una falsa teocrazia, assalita e screditata in ogni parte,
conservava nullameno costumi e idee medioevali: la sua legislazione
si componeva ancora di ottantaquattromila leggi, la sua politica
considerava Napoli, Milano, Genova, Parma e Modena come stati
rivoluzionari, e vi prodigava ogni sorta di consigli e di richiami
per eccitarvi una reazione religiosa. Il Piemonte, che negli ultimi
due secoli era stato il regno più vivo d'Italia e nel quale
sembrava prepararsi la nuova politica nazionale, arrestatosi
improvvisamente, affettava pietà cattolica ed amore al
feudalismo, mentre tutti gli altri stati battagliavano riformando
contro Roma.
Nè governi, nè popoli erano dunque pronti a una
rivoluzione: la coscienza degli uni era chiusa, quella degli altri
vuota.
Al rombo della tempesta francese tutti i principi italiani
sbigottirono: Pio VI propose un'alleanza sul genere di quella di
Pillnitz, che naturalmente non potè essere stretta; Napoli
stava imbronciata col papa per la chinea; Venezia temeva pel proprio
commercio; l'Austria dubitava anche allora di ogni lega italiana; il
duca di Modena, massaio volgare e vigliacco, preparava un grosso
tesoro per fuggirsene; la Toscana, più aperta alle nuove
idee, simpatizzava ingenuamente per la republica francese, e fu poi
la prima a riconoscerla; il Piemonte, vano della propria antica
capacità militare e più facilmente minacciato di ogni
altro nella Savoia, davasi l'aria di armare. Vittorio Amedeo III,
legato per molti matrimoni ai Borboni, aveva ospitato gli emigrati,
mutando Torino in una fucina di contro-rivoluzione: quindi
impazzando del proprio grado di re cristiano, aveva per le
sollecitazioni dei preti, dei fuorusciti e del nuovo imperatore
preso l'offensiva (1792). Ma i soldati piemontesi, imbozzacchiti
dalla lunga pace e capitanati dalla più inetta aristocrazia
di corte, si copersero di ridicolo, abbandonando più di una
provincia in mano al nemico. Genova, dominata dai riguardi
mercantili e timida di una alleanza così col Piemonte come
coll'Austria, mentre vorrebbe restare neutrale, viene incalzata a
decidersi dalle prepotenze inglesi, che assalgono sino nel suo porto
le navi francesi; la Corsica, delirante per la nuova libertà
concessale dalla republica francese, risogna l'antica indipendenza,
e Pasquale Paoli, il suo eroe più puro, offusca tutta la
propria vita coll'errore supremo di cedere l'isola all'Inghilterra
per timore della volubile fede francese. Venezia ospita a Verona
Luigi XVIII sempre inteso da lungi a miserabili congiure realiste, e
lo caccia poi alla prima intimazione francese; Roma, in sulle prime
riguardosa per paura dei furori rivoluzionari, ed esasperata poi
dalle persecuzioni al clero, lancia scomuniche contro la republica
francese, facendo trucidare dalla propria plebaglia Ugo Basville. A
Napoli la reazione cominciata colla sostituzione dell'inglese Acton
al toscano Tanucci prosegue con terribili forme inquisitoriali: la
corte, resa crudele dalla paura e fanatica dall'odio, istituisce una
giunta di stato con poteri esorbitanti; si accumulano prove su
ventimila rei, sospetti su cinquantamila; le prime ingenue
dimostrazioni liberali provocano esecuzioni; tre giovanetti
esordiscono nel martirio. La regina Carolina delirante dichiara di
stimare una spia meglio di un gentiluomo, i libri di Filangeri sono
bruciati dal boia, re Ferdinando non esce più dalla propria
colonia di San Leucio, sozzo lupanare nel quale intendeva forse
riprodurre la Città del Sole di Campanella, che per segnare
decreti di morte. La corte ricusa gli ambasciatori francesi; poi,
atterrita dalla squadra dell'ammiraglio Latouche, li riceve,
promette la neutralità e la viola alleandosi all'Inghilterra
per assaltare Tolone. Intanto per far denari ruba gli argenti alle
chiese, spoglia i banchi, ed improvvisa un esercito e un'armata
relativamente enormi, ma di nessun valore. Ma poichè nel
periodo del Terrore il re di Piemonte, per ribrezzo dei republicani,
non osa allearsi coi lionesi e coi provenzali insorti a guerra
civile, la republica, soffocati prontamente quei moti nel sangue,
spinge Kellermann, abilmente impetuoso, nella Savoia; Ventimiglia ed
Oneglia sono invase: altri francesi piombano dal Cenisio, Saorgio
è espugnato, il colle di Tenda preso. Nullameno il Piemonte,
decaduto dall'antico valore resiste colla vecchia pertinacia; e,
cessato il Terrore, mentre Prussia e Spagna si compongono colla
republica, esso dura alla guerra coll'allenza dell'Austria. Quindi
Scherer, spalleggiato vigorosamente da Massena e Serrurier, batte il
generale Colli a Loano; l'Austria manda Beaulieu e la Francia
contrappone Napoleone Bonaparte.
Discesa di Napoleone.
La guerra cresce istantaneamente. Napoleone, italiano, giovane e
genio, muta improvvisamente strategia e tattica; questa perfeziona
sull'esempio di Federico II, quella inventa colla prodigiosa
facilità degli antichi condottieri. Vi è in lui del
Nicolò Piccinino, ma raddoppiato da un ingegno politico che
mira più alto e più lontano. Egli stesso s'ignora, ma,
rivelandosi al mondo, si scopre a se medesimo. L'Austria sola
è nemica della Francia: quindi colpirla con una guerra
rapida, impetuosa ed irresistibile, ecco il suo disegno. Alla testa
di trentasei mila uomini, laceri, scalzi, entusiasti, circondato da
vecchi generali e da eroi ancora sconosciuti si dirupa sull'Italia.
Vincitore a Montenotte, pel passo di Millesimo sbocca sul centro
nemico, separa austriaci e piemontesi, si piega su questi; da
Cherasco bandisce all'Italia il primo proclama di libertà e
concede al re di Sardegna, tardi atterrito, un armistizio, pel quale
s'impadronisce di quante fortezze gli occorrono. Secondo le idee del
direttorio, la Lombardia doveva essere conquistata per ridarla
all'Austria in cambio dei Paesi Bassi; ma Bonaparte accarezza
già forse in mente altro pensiero. Quindi, appena quetato il
Piemonte, perseguita Beaulieu, lo inganna, passa il Po a Piacenza,
lo batte a Fombio, lo sgomina a Codogno, lo prostra a Lodi, lo
ricaccia oltre il Mincio, ed entra a Milano. Parve un sogno ed era
un risveglio. L'antica metropoli lombarda rivale di Roma risorgeva
col vecchio antagonismo. Napoleone parlava di libertà, e
sopprimeva la giunta di governo affidando l'amministrazione al
municipio senza definirlo, ordinando guardie nazionali, permettendo
tutte le speranze di una vita indipendente, vessando e taglieggiando
peggio che per necessità di guerra. Le contraddizioni fra i
modi di conquista e le dichiarazioni liberali esasperarono quindi
gli umori reazionariamente patriottici; onde Pavia, insorgendo
indarno, soccombe nell'atroce punizione di un saccheggio.
Ma Bonaparte infrancato dalla sosta incalza ancora Beaulieu sino al
Tirolo: Venezia decrepitamente imbecille crede sfuggire al problema,
che la urge, sottraendolo al consiglio, ed evitare la guerra
chiudendosi in una neutralità disarmata. Ma tutti violano il
suo territorio: Napoleone entra a Verona, cinge Mantova di assedio.
Se non che questa fortezza essendo troppo ben munita per cedere ai
primi assalti, egli con assennata temerità ripassa il Po,
prende Ferrara, entra a Bologna, ove il senato risognando l'antica
indipendenza municipale gli presta un giuramento equivoco, col quale
vorrebbe sottrarsi al giogo pontificio. Il papa, prima così
violento contro i francesi, ruina improvvisamente a patti umilianti,
e si degrada sino a pubblicare un monitorio, immortale esempio di
viltà, nel quale a nome della religione inculca a tutti i
popoli di obbedire i loro reggitori quali si siano, mirando
così ad ammansire i nuovi conquistatori francesi che
occupavano tutta la fronte superiore de' suoi stati. Il duca di
Modena, fuggito a Venezia, ha ceduto la città e pagato parte
del proprio tesoro; a quello di Parma è stata concessa una
tregua avvilente; la Toscana, incapace di difendersi, si abbassa
sino a chiedere che Livorno le sia tolto piuttosto per la via di
Pisa che per quella di Firenze; il re di Napoli, pazzo di terrore,
consacra al cielo la propria corona, implora dai vescovi prediche
guerriere, domanda ai sudditi di conservarsi tranquilli, e,
disdicendo la propria alleanza coll'Austria, ottiene egli pure una
tregua, che gli pare una vittoria.
Giammai nella storia italiana era stata più unanime codardia.
Intanto, malgrado il desolante saccheggio di ogni tesoro artistico e
scientifico avaramente e impudentemente organizzato da Napoleone, la
fermentazione delle idee liberali procede a scoppi e a fumacchi: il
contagio republicano s'appiglia a tutta l'Italia, l'inettitudine dei
principi anima alla rivoluzione, la rilassatezza di ogni governo
alla rivolta; volgo e feccia di ogni classe mestano e sbraveggiano;
congiure regie e liberali s'attraversano; gli inglesi soffiano e
pagano.
L'Austria, ancora non doma, rimanda Wurmser al soccorso di Mantova,
ma anche questi, non meno facilmente sconfitto dal giovane capitano,
riesce appena a gittarsi nella piazza per rimanervi assediato;
Alvinczy, altro generalissimo sceso alla riscossa, è battuto
definitivamente a Rivoli dopo molto armeggiare, e l'imprendibile
fortezza deve arrendersi al genio di Napoleone.
Questa vittoria, cacciando gli austriaci dall'Italia, la
sottometteva ai francesi. Poco dopo, Napoleone con marcia
arditissima torna sull'Adige per assalire Vienna, troppo tardi e
invano difesa dal migliore de' suoi generali, l'arciduca Carlo.
Questi, sconfitto al Tagliamento e all'Isonzo, deve ritirarsi colle
baionette alle reni; le alpi Noriche sono già di Bonaparte,
ma il direttorio non può mandare l'esercito del Reno a
congiungersi con quello d'Italia, e l'Austria per questa volta
salvata accetta la pace di Leoben (1797), nella quale, cedendo
Belgio e Lombardia alla Francia, acquista per tradimento di
Napoleone la Venezia.
Costituzioni republicane.
All'apparire degli eserciti francesi la scena politica italiana muta
improvvisamente di aspetto. Il dispotismo illuminato dei principi
retrograda sulle vie delle riforme, mentre la corte romana, dianzi
combattuta nel nome della libertà, viene vivamente invocata
come appoggio supremo all'autorità pericolante. La borghesia
colta accetta accademicamente le nuove idee, come sentendosi
chiamata al governo, e s'improvvisa republicana; ovunque spuntano
giacobini italiani più retori e infinitamente meno coraggiosi
dei giacobini francesi; l'arcadia poetica risorge nell'arcadia
politica; scoppiano declamazioni e congiure. Si parla di
libertà e si prosegue ad aspettarla come un dono dalla
Francia, che invece la gualcisce e la scema ogni giorno; mancano
tradizione e coscienza politica. Tutto è gazzarra,
improvvisazione, ladroneccio e plagio; i democratici riscaldano a
freddo i furori rivoluzionari francesi, che già tendevano ad
agghiacciarsi; gli aristocratici risognano una republica patrizia,
nella quale conservare la stessa importanza con mutati privilegi;
s'ordiscono sètte. Il patriottismo paesano, angusto ma
sincero, offeso dalle rapine francesi, rigetta le nuove idee; la
fede religiosa s'adonta della nuova tirannia atea; l'emancipazione
francese assomiglia nelle apparenze alla servitù tedesca.
Ma attraverso tutte le contraddizioni il contagio della
libertà si propaga: le idee francesi compensano i modi della
dominazione francese, la costituzione delle nuove republiche
italiane è tal fatto che, per quanto effimero ed incompiuto,
rimescola tutti gli spiriti e crea una nuova generazione di uomini.
A Milano e a Bologna si fondano due republiche, la cisalpina e la
cispadana. Erasi da prima costituito un comitato per preparare la
costituzione alla cisalpina; ma naturalmente il direttorio, imbevuto
di classico spirito rivoluzionario e da conquistatore, impose la
propria. Vi furono quindi quattro direttori e quattro congregazioni
di costituzione, di giurisprudenza, di finanza e di guerra; un
consiglio generale di 160 membri e uno degli anziani di 80.
Però si ebbe un nome, una bandiera e un esercito; Bonaparte,
come un condottiero antico, dettava e imperava. Nel Piemonte,
ricaduto sotto il vassallaggio della Francia come ai tempi della
Riforma, Carlo Emanuele IV, più nullo di Vittorio Amedeo III,
subiva vessazioni ed ingiurie, reagendo con inutile stizza contro le
congiure giacobine, che dissolvevano il suo governo: persino la
Sardegna era insorta domandando gli Stamenti. La republica di
Venezia, dopo aver agonizzato nella più supina codardia
accettando anche di rimutare la propria costituzione dietro un
ordine francese, aveva trovato nel tradimento di Napoleone, che
l'abbandonava all'Austria in cambio della Lombardia dichiarata
indipendente e del Belgio ceduto alla Francia, un motivo drammatico
col quale rendere decente la propria morte. Dieci giorni dopo
soccombeva l'aristocrazia di Genova, che, sostenuta sulle prime
dalla plebe, non aveva poi saputo opporre alle truppe francesi se
non pochi tumulti a Polcevera e ad Albaro. Poco appresso una
sommossa scoppiata a Roma, nella quale rimase ucciso il generale
francese Duphot, decise della caduta del papato. Questo aveva
già rinnegato ogni verità assoluta delle proprie
pretese, cedendo nel trattato di Tolentino (1797) il contado
Venesino alla Francia, e alla Cispadana Ferrara, Bologna e la
Romagna; il papa atterrito era inutilmente disceso dalle altezze
medioevali della scomunica alle piaggerie del monitorio,
destreggiandosi colla viltà di vani espedienti fra le strette
della rivoluzione. Quindi il generale Berthier dietro ordini del
direttorio marciava su Roma, ove, penetrato senza colpo ferire, si
stanziava al Quirinale, piantando sul Campidoglio l'albero della
libertà ed imponendo al papa di abdicare. Ma questi, vinto e
prigioniero come re, ricusa improvvisamente come pontefice di
rinunciare al regno, di cui è depositario; laonde,
cacciatone, migra a Siena per andare a morire a Valenza dimenticato
nel trambusto dell'epopea napoleonica. Una republica romana, sonora
e vacua, di forme antiche e senza vita moderna, risorge dopo
migliaia di anni fra le rovine del Foro e il silenzio del Vaticano
come fantastica decorazione carnevalesca, che basta nullameno a
surrogare l'inutilità di un regno papale. Il suo fatto
storicamente enorme passa quindi inosservato: appena Vienna e Napoli
se ne querelano, e i trasteverini per vanagloria offesa di borgo
privilegiato tumultuano. Ma per convincere tutti che il papato non
ha più fede nel proprio regno politico, ecco giungere
l'enciclica di Pio VI sul nuovo giuramento da prestarsi a Roma di
odio alla monarchia secondo la classica e declamatoria formula
rivoluzionaria, e spiegare con ingenua sottigliezza come un
cristiano, non dovendo odiare nessun governo, possa però
giurare soggezione alla republica. L'enciclica sciogliendo
così i sudditi dal giuramento di fedeltà al papa dava
più che l'abdicazione ricusata non avesse potuto impedire.
Intanto re Ferdinando di Napoli, sollecitato dalla rovina delle
finanze proprie e del regno nel mantenere su piede di guerra
sessanta mila inutili soldati, e dalle istanze dei reazionari che lo
circondano, urge Piemonte e Toscana perchè si uniscano con
lui per abbattere la Francia. Napoleone, terrore epico e fantastico
di tutti i principi italiani, è in Egitto, terra della morte:
le sabbie del deserto hanno paralizzato lo slancio del suo esercito
e ne saranno forse il sudario. Quindi Ferdinando, incuorato da
promesse austriache e russe, chiama Mack alla testa del proprio
esercito, e marcia su Roma. Championnet, sbandato negli
accantonamenti d'inverno, non può vietargli l'ingresso:
Ferdinando entra come un trionfatore nella città eterna, vi
richiama il papa, e dall'alto del Campidoglio con voce di coniglio
proclama all'Europa «che i re sono svegliati». Ma i
nuovi crociati saccheggiano il Vaticano, indi fuggono col re
prudentemente travestito dinanzi a Championnet pronto alla riscossa.
Questi li perseguita, li sgomina, giunge per le campagne sollevate a
furore regio e religioso dai preti sotto le mura di Napoli. Allora
la corte, spogliati ladramente musei e banchi, fugge sul naviglio di
Nelson in Sicilia, ove la popolazione, ingenuamente retriva e sempre
nemica di Napoli per tradizione autonoma, li accoglie festosamente.
L'anarchia insanguina Napoli assediata: la plebaglia incitata dai
preti e fervida d'entusiasmo resiste all'invasione francese; la
borghesia culta e fanatica di libertà arriva invece sino al
tradimento patteggiando con Championnet: deliri e carneficine
disonorano la difesa dei lazzaroni, che improvvisano un governo e un
esercito con Michele lo Pazzo, nuovo e più eroico Masaniello.
Ma la guerra civili fra rivoluzionari e regii apre le porte di
Napoli a Championnet, che, affermandosi napoletano con scaltrezza
politica, e dando una guardia d'onore a San Gennaro, seda
prontamente gli umori feroci della plebe.
L'improvvisazione delle republiche cisalpina, cispadana e romana
diventa a Napoli esplosione. Il popolo vi si mescola per
l'abolizione di poche gabelle: si sciolgono subito i fidecommessi, i
dominii feudali, le giurisdizioni e il satellizio baronali, i
servigi di corpo, le decime, le caccie riservate, i titoli
nobiliari; si correggono le banche. La republica partenopea, in
questo maggiore delle altre, si dà una costituzione per la
maggior parte opera di Mario Pagano, nella quale qualche cosa
è salvata all'originalità paesana dalla imitazione
francese; ma invece di sviluppare quanto restava di vitale nelle
vecchie leggi e tradizioni, tutto viene abbandonato a chimere
classiche. Si ristabiliscono i censori e gli efori, confondendo il
principio di sovranità con quello di rappresentanza; si
astrae da ogni realtà storica, si dimentica ogni immediata
convenienza.
Il governo vi è poco più di un'accademia di retori e
di filosofi sognanti e sottilizzanti all'infinito sui principii; ma
vi brillano caratteri di splendore lirico e di purezza adamantina.
Le feste vi si succedono colla rapidità delle leggi, mentre
nè città nè campagne intendono nulla a questa
republica; gli usi e le clientele feudali e clericali vi rimangono
fiorenti, la barbarie irritata dall'antitesi del classicismo
rivoluzionario sta per prorompere, gli interessi violentemente
spostati si coalizzano e preparano armi omicide. Giammai più
magico sogno ebbe più tragico risveglio, nè più
miti e sereni rivoluzionari apparvero sulla scena storica per
sparire nel turbine di una catastrofe. La republica partenopea pare
un melodramma scritto per una accademia e invece recitato pel popolo
da una compagnia di poeti e di scienziati. Solo forse fra tutti
Melchiorre Delfico, che vi partecipò, seppe scriverne una
critica mirabile di acutezza e di buon senso.
Ma intanto il direttorio, appesantendo la mano sulla republica
partenopea, vi leva una contribuzione di ottanta milioni; indi
spedisce Faypoult commissario contro Championnet, troppo mite, al
quale finisce per sostituire Macdonald, precipitando il governo
nella tristissima condizione di essere odiato dagli aristocratici,
maledetto dal clero, biasimato dai democratici, oppresso dagli
stranieri, con troppa libertà formale e troppo poca
indipendenza politica, senza nè disciplina di partito,
nè consenso di popolo, in faccia alla Sicilia fanaticamente
reazionaria e aiutata da tutti i nemici della Francia. Ma questa,
come consapevole dell'imminente reazione, affrettando l'unificazione
dispotico-rivoluzionaria di tutta la penisola, aveva già
costretto re Carlo Emanuele IV, assalito quasi contemporaneamente da
sommosse giacobine e dalle republiche genovese e cisalpina, a cedere
prima la cittadella di Torino, quindi ad abdicare. Re Carlo, meno
abbietto ma non meno vile di re Ferdinando, dopo inutili ed
umilianti querele aveva consentito l'abdicazione, consegnando
prigioniero il suo ultimo ministro Priocca, feroce quanto onesto
reazionario, e comandando persino ai piemontesi di ubbidire al nuovo
governo. Poi giunto in Sardegna, fuori del tiro del cannone
francese, ritirava la data abdicazione siccome impostagli dalla
violenza, quasi che un re per timore della morte potesse abdicare in
mani straniere senza consenso di popolo. Così sembrava allora
finire ignobilmente la dinastia dei Savoia, guerriera e crudele,
più fortunata nella duplicità che potente nelle armi;
mentre il granduca Ferdinando III di Toscana, costretto dai medesimi
procedimenti rivoluzionari a dimettersi senza avere nel trambusto
disonorato il proprio governo con vane e sanguinarie reazioni,
partiva da Firenze altero come un gentiluomo, e ricusando persino di
portare seco una cassetta dei camei appartenenti al museo. Per una
di quelle antitesi, che danno così spesso alla storia la
vivacità di una commedia, il migliore dei principi italiani,
il solo capace d'imporre rispetto ai giacobini coll'aristocratica
nobiltà del carattere e coll'onesta intelligenza di governo
era allora un austriaco! Lucca nei medesimi giorni era tolta alla
propria decrepita aristocrazia dal generale Serrurier, e mutata in
republica sovra il solito modello.
L'apparente risultato di questa prima rivoluzione era quindi di
stabilire in Italia il governo democratico: tutti gli stati vi
diventavano republicani. Dell'antica Italia dei municipi, delle
signorie, dei principati, dei regni non restava più nulla.
Assetto rivoluzionario.
Un'altra èra incominciava. Milano a capo della rivoluzione
era la capitale della cisalpina, che, fusa colla cispadana,
comprendeva tutta la Lombardia austriaca coi ducati di Mantova,
Modena e Massa, con Bergamo, Brescia, Crema, la Valtellina, le tre
legazioni di Bologna, Ferrara, e dell'Emilia sino a Pesaro; Venezia,
diventata provincia tedesca, aveva lasciato ai turchi e ai russi le
sue ultime provincie ionie; il Piemonte si era volontariamente
annesso alla Francia; Firenze, Roma, Napoli, Lucca saggiavano la
propria republica. Ma nessuna era più stato nè
possedeva vero governo. Un'antitesi irriducibile stava in fondo a
questa rivoluzione, che dava la libertà e toglieva
l'indipendenza, emancipava la coscienza e sopprimeva la
personalità politica. Invano la cisalpina, avendo ottenuto un
riconoscimento ufficiale dalla Francia, riceveva ambasciatori da
tutta l'Italia, dalla Spagna e persino dal pontefice, cui aveva
tolto parecchie provincie; il rifiuto dell'Austria a riconoscerla,
perchè sottomessa alla Francia e difesa da un corpo francese
di occupazione, svelava l'assoluta nullità della sua forma
politica. Infatti appena fondata e riconosciuta, Trouvé
giungendovi con mandato del direttorio ne rimutava la costituzione a
forma più aristocratica, cacciando colle baionette i deputati
dal consiglio; poi il generale Brune e Fouché la
rimaneggiavano ancora nominando e destituendo.
La rivoluzione non era ancora che nelle idee, e così torbida
che i migliori cervelli ne ammalavano. Tutta la storia e la
tradizione italiana parevano dimenticate: si viveva nel sogno,
nell'entusiasmo e nella cabala. I furbi arruffavano, i generosi
s'infiammavano e s'impermalivano. Il popolo per tre secoli, sino
dall'epoca delle grosse signorie, divezzato dal governo, non aveva
nè concetti, nè carattere politico; l'inazione della
lunga servitù e la passione della superstizione religiosa lo
avevano paralizzato. L'improvvisazione confondeva tutti. Congegni
amministrativi e municipali andavano rotti: impossibile rinsaldarli
ai nuovi per ottenere il necessario giuoco meccanico. Le Provincie
sconosciute l'una all'altra; nessun fatto comune fra loro se non
questa conquista francese assurda nel suo dono della libertà,
tirannica nell'imposizione della costituzione, spogliatrice per
contribuzioni e rapine, labile e contraddittoria in tutti i
provvedimenti. Non una città, un principio, una famiglia, un
uomo che servisse di unità. Il popolo inetto ed inerte, al
quale i preti solo potevano soffiare nell'orecchio parole capaci di
farlo prorompere contro i francesi, come a Verona, a Lugo, a Pavia,
in Piemonte, nel Napoletano; l'aristocrazia composta ancora di
cicisbei e di cavalieri serventi, e solo spasimante di vanità
e di privilegi; la borghesia chiusa nell'angustia dei propri negozi,
o sbalestrata fuori di se medesima dal tumulto delle idee
rivoluzionarie, senza nè ideali precisi, nè pratica
alcuna di governo. Non si aveva nè il concetto della
federazione, nè quello dell'unità; l'abitudine della
servitù secolare toglieva l'idea e il carattere
dell'indipendenza, mostrando nei francesi dei nuovi signori. Infatti
il Piemonte, dopo un supremo tentativo del suo re per ottenere dal
direttorio ingrandimenti in Lombardia, secondo la vecchia politica
di Savoia, si era annesso alla Francia, e la cisalpina sfiduciata di
se medesima stipulava col direttorio che ventimila francesi
stanzierebbero sempre nella Lombardia per difenderla. Di
libertà si declamava con fervore comico e sincero, con frasi
classiche e giacobine, senza intendere nulla nè dei
principii, nè degli ordini: v'era smania di emanciparsi dagli
ultimi legami medioevali e dal dispotismo dei principi e dei papi,
ma come per trarre l'ultima conseguenza del grande periodo anteriore
delle riforme. I patrioti erano partigiani della Francia, i
reazionari per contraccolpo difendevano la nazionalità; i
liberali volevano la tirannide rivoluzionaria; i conservatori
rievocavano il vecchio dispotismo colla prepotenza del suo ordine,
nel quale le plebi godevano della più comoda e profittevole
anarchia.
Quindi il problema italico non fu discusso in nessuna republica
italiana. Milano non pose davvero la propria candidatura a capitale
della confederazione o dell'unità. Roma non riapparve colla
magia della sua eterna gloria, e malgrado la propria rivoluzione
rimase sempre nel concetto di tutti come la città del
pontefice; di Napoli lontana si parlava come di stato straniero; la
Toscana gentile e quieta sembrò fra tanto frastuono affettare
la compostezza. L'idea, il principio, l'unità nuova
dell'Italia erano a Parigi; la negazione degli stati italiani
anteriori non produceva novelle affermazioni: non si pensava
all'indomani, alla catastrofe che potrebbe ingoiare tutti quei
governi provvisori; non si proponevano leghe difensive, non si
coordinavano armi e finanze. La cisalpina aveva un esercito proprio,
ma ordinato da istruttori francesi e appartenente alla Francia.
Tranne la Sicilia e la Sardegna, rimaste fedeli ai loro re per
gelosa rivalità di autonomia, nessuno degli stati e dei
governi italiani aveva saputo trovare all'ultim'ora un sentimento o
una idea per difendersi. Erano dunque finiti anche prima. Ma nulla
di originale sorgeva dalle rovine.
L'Italia republicana non era che il fantasma del proprio cadavere
regio, evocato dalla magica forza della rivoluzione francese.
Vi erano allora tre partiti: regio, democratico e nazionale. Il
primo e più forte dei tre aveva le masse brute, capaci di
sollevarsi per una strage, poi il clero, i vecchi governi colla loro
tradizione e coll'organismo spezzato non morto, coll'odio allo
straniero rapinante e col fanatismo religioso. Ma pronto per una
reazione, associandosi alla prima coalizione europea, questo partito
non aveva altro programma che il passato, altra idea che la
negazione della rivoluzione. Quello democratico invece, tratto dal
nulla e costituito signore officiale dell'Italia, aveva per alleato
il direttorio, essendone fatalmente il servo. Le sue idee astratte e
cosmopolite fuori della storia e della tradizione, senza abbastanza
solidità o elasticità per il governo, non
raggiungevano nè l'indipendenza, nè la libertà.
Laonde pareva ai più composto di pazzi e di avventurieri,
che, volendo rimutare istantaneamente tutto, riuscivano solo a tutto
fracassare. Il terzo partito, nazionale, si era mostrato la prima
volta (1796) nella Lega Nera, poi nel 1798 formò la
Società dei Raggi: quindi, eletta sede a Bologna, stendeva le
ramificazioni per tutta l'Italia. Era suo principale intendimento
ottenere l'indipendenza d'Italia, subordinando il moto democratico
all'ascendente di un patriziato republicano sull'antico stampo
veneto o genovese; e perciò sorsero clubs antifrancesi a
Napoli, in Lombardia e in Piemonte. Ma se la sua intenzione era
giusta, il modo della sua idea s'imbrogliava nel passato. Un
patriziato sul modello di Venezia e di Genova non poteva sorgere
fuori di quelle republiche, e molto meno poi creare una nuova
Italia, essendo esso medesimo piuttosto un effetto che una causa:
d'altronde una novella aristocrazia rivoluzionaria e conservatrice,
indipendente e liberale, senza una monarchia o una republica
preordinata, era un altro fantasma, una rievocazione classica come
tante dei giacobini. Così il partito nazionale, confessando
da se medesimo la propria nullaggine, si nascose per operare nel
mistero di una setta invece di agire apertamente e publicamente
sulle masse; e più tardi, preso fra due fuochi, si disciolse
per passare nelle file del partito francese, o peggio ancora in
quelle del partito imperiale.
La reazione austro-russa.
Intanto una formidabile reazione si preparava entro la nuova
coalizione europea.
La fortuna di Francia intristiva; il suo esercito e il suo miglior
generale sembravano cercare inutilmente per l'Egitto e per la Siria
le antiche orme di Alessandro Magno; i suoi soldati effettivi non
erano più che centocinquantamila, le sue finanze erano
esauste, le rapine nei paesi protetti non v'ingrassavano che gli
amministratori; scarsa in tutti gli ordini la subordinazione, troppo
viva la lotta tra esaltati e patriotti, generale la stanchezza della
lunga rivoluzione e delle troppe guerre. Nullameno bisognava
resistere a questa seconda coalizione. La linea di difesa dal Texel
al Faro era forse la più lunga di tutta la storia moderna:
Scherer comandava l'esercito d'Italia, Macdonald quello di Napoli,
Massena quello di Svizzera, Jourdan quello del Danubio, Bernadotte
quello sul Reno, Brune quello di Olanda.
Già al congresso di Rastadt alcuni ministri francesi erano
stati proditoriamente massacrati da ussari austriaci. Suvoroff
s'avanzava terribile nella Moravia; l'Inghilterra sublime nella
tenacità dell'odio e dell'avarizia mercantile, gettava denaro
e fiamme dovunque; l'Austria, condensandosi in uno sforzo supremo,
muoveva 225,000 soldati, quantunque s'impedisse anticipatamente ogni
vittoria legando colla pedanteria del consiglio aulico l'ingegno dei
propri generali.
L'Italia regia e cattolica si risollevava.
Sino dallo stabilirsi della republica partenopea erano scoppiate
tali ribellioni nelle provincie, che obbligarono il neonato governo
a feroci repressioni: i francesi di Championnet riscuotendo le
contribuzioni rubavano e maltrattavano; baroni, preti e corte
aizzavano; ogni pretesto poteva d'ora in ora diventare causa.
Infatti quattro fuorusciti còrsi, che si spacciano
improvvisamente e impudentemente per principi borbonici, bastano a
determinare una rivolta: il cardinale Ruffo, astutamente terribile
come un condottiero del rinascimento, raccozza tosto alcune bande e
sbarca in Calabria per ingrossarle in esercito. Campagne,
città, villaggi, casolari tumultuano nel nome della
religione, colla frenesia della morte. L'insurrezione diventa
crociata, mescolando fanatismi e superstizioni di ogni sorta: il
cardinale prodiga assoluzioni a tutti gli eccessi, stupra e
benedice, incendia ed affoga: peggiore di lui, re Ferdinando nomina
generali e chiama amici i capitani cannibali di quelle orde, mentre
a Napoli i republicani divagano ancora nell'ideale. Ma
l'insurrezione si propaga alla novella di tutta Europa congiurata
contro la Francia; il direttorio, quasi per compromettere
maggiormente la posizione della republica partenopea, dichiara i
beni della corona di Napoli patrimonio della Francia. Fu l'ultimo
tracollo. Invano due colonne di republicani si spiccano per la
Calabria guidate da Giuseppe Schipani e da Ettore Carafa; più
invano quest'ultimo moltiplica eroismi che lo assomigliano ad Aiace,
giacchè la classica idealità e l'idillico platonismo
del governo tolgono animo e forze ad ogni resistenza. La discordia
sconvolgendo tutti i campi incrocia le scomuniche del cardinale
Capece al cardinale Ruffo e di questo a quello; l'inane republica
per sostenersi invoca fanciullescamente l'aiuto di Francia impegnata
in ben altra contesa, e si espande in querele per l'abbandono. Ma
l'esercito della Santa Sede, come la chiamavano allora, avanza
raddoppiando di ferocia; Macdonald, richiamato in Lombardia per
aiuto a Moreau già battuto a Cassano, ha il tempo appena di
ributtare uno sbarco di anglo-siculi a Castellamare, e parte cedendo
la republica alla morte. Tutto precipita intorno ad essa. Non armi,
non denaro, non popolo, nullameno il governo invasato d'eroica
teatralità dimentica ogni più volgare prudenza sino a
respingere le assennate proposte del generale Matera per una
sospensione della costituzione e per organizzare il Terrore. Si
prosegue nelle feste e nelle declamazioni. L'enfasi tocca il
grottesco per ridiventare sublime nel martirio: «pera la
republica piuttosto che commettere una violenza», fu l'ultima
formula del governo. E perì.
Congiure realiste vampeggiano a Napoli prima ancora che sia bloccata
per mare e per terra: il direttorio dichiara la patria in pericolo e
mette finalmente all'asta i beni della corona, ma per non trovare
più che un solo compratore; Michele lo Pazzo, convertito alla
repubblica, offre di armare ventimila lazzaroni, e il governo per
timore di tradimento rifugge da questa suprema misura. Allora le
bande calabresi, turche, russe, inglesi assaltano la città,
conquistandola malgrado gl'incredibili eroismi dei difensori. Il
presidio francese assiste inerte alla battaglia, inerte alla
carneficina dopo la vittoria, inerte alla capitolazione, che la
regina Carolina e Nelson violarono malgrado l'inopinata onorevole
resistenza del cardinale Ruffo: quindi patteggia la propria resa
consegnando ai borbonici i republicani napoletani militanti fra le
proprie file. Trentamila persone furono imprigionate, trecento
vittime illustri tratte al patibolo, sei mila republicani perirono
tra le fila dei combattenti o tra i supplizi, sette mila sospetti
vennero condannati all'esilio o costretti a salvarsi colla fuga. Si
bandirono fanciulli di dodici anni, furono bruciati prigionieri per
le piazze, venduta la loro carne, mangiata publicamente. Mario
Pagano il maggior filosofo, Cirillo il miglior scienziato, Vincenzo
Russo il più eloquente oratore, Caracciolo il più
prode ammiraglio, Ettore Carafa il più prodigioso eroe,
Eleonora Pimentel la più bella sibilla della republica, tutti
perirono giustiziati colla sublime serenità di sognatori, che
nemmeno lo spavento della morte poteva destare.
Poi su questa ruina ideale s'aggravò, immonda rovina, la
restaurazione borbonica.
Intanto Macdonald accorse verso Lombardia al soccorso di Moreau,
mentre intorno tutta la campagna napoletana arde e mareggia.
Coll'esercito diviso in due corpi, egli si dirige rapidamente su
Roma; costretto, saccheggia San Germano, brucia Isola; a Roma lascia
artiglierie e salmerie, difilandosi rapido per la Toscana. Quivi
pure la sollevazione regia e religiosa ha sconvolto Arezzo e
Cortona. Macdonald prende questa, minaccia quella, ma incalzato
dalle necessità sempre più urgenti di Moreau, si
affretta a calare arditamente per la valle del Panaro. Era tempo ed
era tardi. Moreau, riparato in Liguria per avere almeno libera la
ritirata in Francia dal Colle di Tenda, era cinto dagli austriaci di
Melas e dai russi di Suvoroff: tutto sembrava perduto per la Francia
nell'alta Italia. Scherer, surrogato a Joubert sul principio della
guerra e rotto due volte da Kray a Verona e a Magnano, aveva
già dovuto cedere il comando supremo a Moreau, per fuggire
fra le esecrazioni dei republicani. Moreau, raccattando l'impero
sopra un campo di sconfitta e non riuscendo ad impedire la
congiunzione di Suvoroff cogli austriaci, sconfitto da forze
preponderanti a Cassano, era stato costretto ad abbandonare Milano
ai vincitori e a riparare oltre il Po in Alessandria. Milano, invasa
dai confederati, li aveva acclamati stordendoli di feste e di
servilità: si erano cacciati, arrestati i republicani; si era
invocata la ripristinazione della servitù austriaca con
omelie e Te Deum, mentre d'un tratto di penna Francesco II
condannava quattrocento giacobini a trascinare le navi alle bocche
di Cattaro; primo martirio che doveva destare nella coscienza
italiana l'odio di patria allo straniero.
In Piemonte sollevazioni sanguinarie avevano preceduto la conquista
di Suwaroff; quindi Torino capitolava e il Fiorella, ultimo
difensore della rocca, resisteva solo per soccombere onorevolmente.
Tutta la cisalpina e il Piemonte erano dunque perduti per la Francia
e per la rivoluzione. I confederati avevano ripreso Roma
scacciandone il generale Garnier; nella Toscana reggeva per il
granduca, riparato a Vienna e riacclamato dalla plebe, un Sommariva.
Quindi il generale Macdonald, scontrati austriaci e russi alla
Trebbia, mentre Moreau ingrossato di qualche aiuto mandava Victor a
tendergli la mano, moltiplicando invano arte e valore, ne forza il
passo in tre battaglie, e sempre sanguinosamente respinto,
minacciato d'estrema rovina, con meravigliosa ritirata sfugge per la
Toscana in Liguria. Il generale Moreau, costretto ad avanzarsi,
solo, con mossa fortunata ed ardita libera Tortona dall'assedio; ma
la fortuna francese ruina egualmente d'ogni parte. Tutte le fortezze
capitolano; Joubert, rimandato generalissimo in Italia con nuovo
esercito, è sconfitto ed ucciso alla prima battaglia di Novi;
Championnet, che si accinge a vendicarlo, muore anche più
infelicemente dal dolore di essere rotto; Mantova si arrende a Kray,
Clément deve cedere Cuneo, Mounier perdere Ancona.
La ristorazione regia e religiosa è compiuta: solo il
Piemonte e lo stato pontificio non vi si ricompongono nella vecchia
integrità. Suvoroff, già risalito verso la Svizzera,
dove l'indomabile Massena lo attende per distruggerlo, aveva indarno
voluto ricostituire il Piemonte per ridarlo a Carlo Emanuele,
sebbene questi con insigne viltà non avesse osato durante la
guerra sbarcare dalla Sardegna per mettersi alla testa delle proprie
truppe. Ma l'Austria, quasi sollecitata da tanta ignavia, aveva con
astuta ingordigia sventato ogni disegno dell'onesto barbaro, badando
invece ad occupare con uguale intenzione di conquista le tre
legazioni della cisalpina. Così e colla Venezia, la Lombardia
e mezzo il Piemonte avrebbe alzato contro Francia un baluardo
imprendibile. Suvoroff, troppo ingenuo politicamente per comprendere
tale giuoco, abbandonava quindi l'Italia, da lui riconquistata con
effimere vittorie alla reazione europea, per vanire fra le grandi
Alpi come un ciclone incomprensibile ed inutile.
Il moto republicano sembrava cessato.
Infatti se nella sua prima irresistibile espansione dovuta alle
vittorie francesi il popolo si era appena mosso, ora invece si
cacciava con impeto universale nella reazione provocata
dall'Austria. Il grido di «morte ai giacobini» risonava
per ogni dove; da Napoli i furori assassini si erano propagati ad
Arezzo, a Cuneo, a Cortona, a Genova, alle Romagne, a Milano, a
Torino, a Roma. I preti soffiavano, ma l'odio alla rivoluzione era
istintivo nell'anima popolare. Le rapine e le taglie francesi sovra
una nazione tanto abituata ai dolori delle servitù straniere
non bastavano a spiegare l'unanime ferocia di quest'odio: il fervore
della superstizione, giacchè vera passione religiosa in
Italia non fu mai, poteva concorrere nella furia della reazione, ma
era insufficiente a promuoverla. D'altronde la coscienza politica
della moltitudine non aveva patito dai francesi violazione nè
di nazionalità nè di libertà, mentre tutti i
governi antecedenti non erano meno stranieri ed oppressori, e a
Napoli s'aggravava la peggiore delle tirannidi, in Lombardia pesava
l'Austria, in Piemonte gli ultimi re stringevano tutti i freni, e
nello stato pontificio lo sgoverno dei papi sgomentava persino la
servilità lodatrice degli scrittori.
L'unanimità delle violenze popolari era dunque prodotta
dall'urto ideale della rivoluzione francese nella coscienza storica
dell'Italia cristallizzata nelle forme monarchiche e papali. La
condizione spirituale ed economica del popolo vi era infatti
confortata dal lungo uso della servitù e dalla quiete
egoistica, nella quale i governi lo lasciavano senza chiamarlo mai
all'armi o costringerlo a faticare per le vie del progresso. E
poichè l'abbiezione come ogni altro modo della vita ha i
propri vantaggi, e crea col tempo abitudini ribelli ad ogni
mutamento, una specie di benessere animale dava alla coscienza
popolare l'illusione di una felicità, che nessun altro
straniero o padrone avrebbero avuto diritto di turbare. Le
catastrofi e le guerre immense della Francia per aver fatta la
propria rivoluzione, ingigantite e falsate dai racconti di tutti,
spaventavano il popolo. I giacobini italiani, costretti a violare
ogni regionale individualità senza poter nemmeno accennare
alla costituzione di uno stato libero ed uno, sembravano
naturalmente pazzi e parricidi, giacchè il loro programma
imponeva la guerra contro tutti, persino in casa; e il popolo non
voleva battersi. La rivoluzione, concepita nella fatalità
della propria idea e del proprio processo, significava un aumento di
miseria per incalcolabili spese militari, e il popolo era anche
troppo povero; significava l'abbandono della religione,
giacchè il papa era contro la rivoluzione, e il popolo era
superstizioso; significava un governo di borghesi arruffoni e
venturieri, poichè i pochi buoni erano sconosciuti al volgo
ignorante, e il popolo, padroni per padroni, preferiva gli antichi
riveriti per tradizione e che sapeva fiacchi. Poi i principi per
spingerlo alla reazione lo avevano sguinzagliato, lasciando libera
carriera a tutti i suoi istinti bestiali, mentre i giacobini nella
loro prima espansione non avevano parlato che di libertà e di
ordine con frasi così classiche e con astrazioni così
vuote che il popolo non vi aveva capito gran cosa. La sua coscienza
politica non era ancora che napoletana, ligure, lombarda, toscana,
veneta, così contornata e limitata da ognuno di questi stati
frammentari che la necessità della loro federazione non
avrebbe potuto essere intesa che dai principi, e quella più
alta dell'unità offendeva mortalmente tutte le gelose
individualità regionali. Così, quando alla prova dei
fatti, unico argomento per la masse, i giacobini non seppero
nè piantare governi liberi, nè attuare prontamente
riforme sociali, che alleviando le miserie popolari convincessero le
coscienze con un improvviso benessere; e le spese, e le taglie e
tutti i mali della guerra crebbero sugli antichi dolori, il popolo,
non vedendo nella rivoluzione che un peggioramento, insorse a
brigantaggio intorno agli eserciti degli alleati che si battevano
per i principi. Di questi nessuno seppe essere nè re,
nè soldato, nè uomo. Il problema dell'unità e
della libertà italica non esisteva ancora per il popolo.
I liberali furono compassionevoli per incapacità politica e
per tragici martirii. Erano scienziati, artisti, belli spiriti,
liberi pensatori, non concordi in una sola idea, non affratellati in
un unico sentimento, non rannodati da alcun metodo. Servi quanto il
popolo e dal popolo disertati, domandavano alla Francia
l'unità, la libertà, l'indipendenza e quella
personalità politica, che ognuno deve creare in se stesso; e
poichè la Francia, dibattendosi essa medesima nell'antitesi
dei propri dati rivoluzionari colle proprie tradizioni di conquista
e colle necessità dei propri interessi immediati, non poteva
concedere una costituzione senza violarla considerando fatalmente i
paesi liberati come soggetti, i giacobini italiani strillavano
all'abbandono e al tradimento. Avrebbero voluto tutto senza far
nulla: stipulavano un presidio francese nella cisalpina invece di
attuarvi la coscrizione come in Francia; a Napoli ricusavano
d'armare i lazzari volonterosi e invocavano dal direttorio un
esercito; le poche legioni lombarde unite a Scherer nel primo
scoppio della reazione furono insignificanti di opere e di aiuto, le
liguri mandate da Moreau verso Macdonald alla Trebbia furono
disperse al primo urto; Lahoz, il miglior generale italiano nella
patria dei più grandi generali del mondo e nel paese che
aveva vissuto dieci secoli di guerra e per la guerra, passò
prontamente e senza gloria dai rivoluzionari agli imperiali. L'altro
generale italiano, Pino, che lo prostrò in uno scontro
ariostesco all'assedio di Ancona, era egli stesso guerriero di
scarso valore. Non un diplomatico o uno statista apparve nelle tante
republiche improvvisate, che richiamasse la gloria politica del
medio evo e del rinascimento. Rivoluzione e reazione rimasero allo
stesso livello intellettuale; la viltà dei principi fu
compensata dalla declamatoria insufficienza o dall'inutile solitario
eroismo dei rivoluzionari.
Era e doveva essere uno sfacelo.
Bisognava che i principati e i regni sorti dal rinascimento
cadessero, mentre le improvvisazioni rivoluzionarie incomprese dal
popolo fallivano come i tentativi isolati dei pensatori e degli
scrittori nel periodo antecedente. L'Italia, troppo più
addietro della Francia nel corso politico, guadagnava però in
tale trambusto la doppia coscienza dell'esaurimento del proprio
passato e della necessità di un futuro diverso. I principi
reintegrati non potrebbero più ottenere il cieco rispetto di
prima, poichè nessuno crederebbe più alla loro
stabilità dopo così facile caduta; i republicani,
cacciati dalla reazione e ospitati in Francia, vi stringerebbero
nella umiliazione di quella sconfitta la prima lega nazionale.
Infatti il loro manifesto squillante di rettorica al direttorio,
affermando la libera unità d'Italia e invocandola ancora
puerilmente dalla Francia, non parlava più di unità
cisalpine o partenopee. Fra la ruina dei principati solo il papato
risorgeva più idealmente vigoroso. Se come regno la sua
decadenza era pari a quella dei Borboni e dei Savoia, avendo col
trattato di Tolentino abbandonato parte delle proprie terre e
permesso coll'enciclica di Pio VI ai romani di giurar fede alla
republica, e nella furia della reazione invocati russi e turchi,
benedetti i cannibali di Ruffo e di Branda-Luciani, approvata lo
superstizione che nominava sant'Antonio protettore di Napoli contro
san Gennaro reo in faccia al popolo di avere compito il proprio
miracolo del sangue per ordine di Championnet; nullameno era stato
l'unità e la forza spirituale della reazione. Tutti i
principi lo sentivano e piegavano innanzi ad esso. Re Ferdinando di
Napoli poteva nella stupidità della propria natura pretendere
come l'Austria a conquistare qualche terra papalina dal proprio
canto, entrando la seconda volta a Roma per cacciare il generale
Garnier, ma il papato lo dominava nella persona del cardinale Ruffo.
La lotta dei principati contro la chiesa nel periodo delle riforme
s'investiva in un'alleanza di quelli con questa contro la
rivoluzione. Scienza e filosofia dovevano quindi gettare la maschera
per passare francamente nel campo democratico. D'ora innanzi il
papato, traendo dalla accettata infallibilità dei propri dati
religiosi argomento per la verità del proprio assolutismo
politico, sarebbe la suprema forza ideale dei principi italiani
contro l'unità e la libertà d'Italia; ma, rovesciato
al pari di loro dalla rivoluzione republicana, dovrà essere
una seconda volta soppresso con loro dalla rivoluzione imperiale di
Napoleone, per perdere nella coscienza italiana ogni valore storico
e sparire per sempre entro la formazione di una terza Italia.
Capitolo Secondo.
Fine delle republiche.
Il Consolato francese.
All'eco dei disastri francesi Bonaparte vincitore ad Aboukir
abbandona l'esercito d'Egitto, approda a Fréjus con quasi
tutto lo stato maggiore e si difila su Parigi. L'entusiasmo scoppia
sotto i suoi piedi. Il direttorio, nonchè processarlo quale
disertore, lo accoglie come un padrone cui tutti anelano di
sottomettersi: i Bruti come ad un Cesare col quale risalire al
potere, i moderati come ad un forte capace d'infrenare finalmente la
demagogia, i realisti come ad un futuro Monk, i disimpiegati e
gl'intriganti come al più fortunato dei venturieri, i soldati
come al prediletto della vittoria. I generali, quasi paladini di
nuovo ciclo romanzesco, gli si stringono intorno: Fouché, il
più terribile politico, e Talleyrand, il più duttile
diplomatico fra i giacobini, gli si offrono; questi lo concilia con
Sieyès daccapo invocato oracolo di nuova costituzione.
Così il miglior teorico e il maggior soldato della
rivoluzione si accordano ad abbattere il direttorio e ad emanare la
costituzione dell'anno VIII. Da essa, attraverso inutili
complicazioni di liste dipartimentali, comunali e nazionali, di un
consiglio di stato che proponeva le leggi, di un tribunato che le
discuteva, di un corpo legislativo che le votava mutamente, di un
potere esecutivo affidato a un grande elettore vitalizio, specie di
re costituzionale moderno e di idolo indiano, sorge vivo e forte il
consolato. Sieyès, sorpassato, si ripiega silenziosamente sul
senato; Bonaparte, primo console, ottiene più che una
dittatura. Quindi collocatosi al centro dei partiti, li neutralizza
abilmente consolando la stanchezza generale della lunga anarchia
colla visione dell'unità. Limita il numero dei giornali,
rinsalda la sbranata amministrazione comunale entro circoscrizioni
prefettizie ubbidienti ad ogni impulso del gabinetto centrale,
ricostituisce nel nuovo dispotismo democratico la gerarchia del
merito concentrando tutti gl'ingegni intorno a se medesimo, deporta
senza processo i più accaniti giacobini, schiaccia e placa la
Vandea, doma le fazioni, mette l'uguaglianza nelle leggi e nelle
loro applicazioni, consentendo alle inevitabili differenze naturali
e storiche della società; finalmente, con suprema
abilità di conciliatore, adula l'instituto e decreta pompose
onoranze funebri a Pio VI morto esule a Valenza.
Oramai tutti respirano: al terrore del Terrore succede un'esplosione
di giocondità che circonda Bonaparte di un'aureola meno
fulgida e più cara dell'altra gloria.
Battaglia di Marengo.
Ma quantunque Massena e Brune abbiano già salvata la Francia,
quegli sconfiggendo Suvoroff nella Svizzera e questi costringendo
gli anglo-russi a capitolare in Olanda, dietro continue invocazioni
di pace il nuovo console non bada che ad allestire la guerra.
Siccome il supremo grado politico gli vieta il comando degli
eserciti, Bonaparte nomina pro forma generalissimo Berthier e con
trentacinque mila coscritti emula Annibale al passaggio del San
Bernardo. L'impresa di tale valico era così temeraria che
Napoleone, avvisandone clamorosamente l'Europa, ingannò tutti
col dire la verità. Melas, che s'accaniva intorno alle
possibili discese in Liguria, non vi credette e lasciò
sguernite Alpi e Lombardia. La guerra mutava. L'eroico Massena,
mandato innanzi da Napoleone per la riviera di ponente contro Melas,
mentre Moreau penetrando nella Germania contro Kray passava
già vittoriosamente il Danubio, aveva resistito più
che umanamente entro Genova per dare al primo console il tempo di
varcare le Alpi; e mal domo dalla fame conchiudeva col nemico
superiore non vincente una capitolazione, che volle con epico
orgoglio chiamata solamente convenzione. Per essa usciva da Genova
intatto coll'onore delle armi, mentre Melas, superbo di aver vinta
la guerra, aveva appena il tempo di voltarsi al clamore di Napoleone
entrato in Milano. Il vecchio generale austriaco, che l'aspettava
ingenuamente a Ventimiglia, tardi pentito s'affretta intrepidamente
alla battaglia; la presa di Piacenza operata con fulminea
rapidità da Murat, tagliando in due l'esercito imperiale, non
lo sgomenta; ma Bonaparte, rinfiancato dalle artiglierie trovate in
Milano, con maggior ardimento lascia scoperta la Lombardia per
correre sul nemico nelle pianure del Piemonte. La battaglia divampa
a Marengo così fiera tra i veterani imperiali e le reclute
francesi che queste ormai piegano sotto il loro terribile sforzo,
quando Desaix tragicamente fortunato arriva a rinforzo e muore
strappando ai tedeschi la vittoria.
Questa rotta costerna sì fattamente gli austriaci che cedono
tutte le fortezze pur di ritirarsi a Mantova, curvi sotto la
sprezzante meraviglia dell'Europa per tanto avvilimento: ma
poichè Francesco II, trattando contemporaneamente della pace
con Bonaparte e con Moreau, tergiversa sino ad arrestare slealmente
l'ambasciatore francese e ad accettare 62,000,000 di sussidi
dall'Inghilterra, Napoleone riprende sdegnato la guerra iniziando la
famosa campagna d'inverno terminata in venti giorni. Augereau
è sul Meno. Moreau sull'Inn, Brune sul Mincio; Macdonald,
rivaleggiando con Napoleone, si spicca da Moreau con quindici mila
uomini e traversa lo Spluga per formare l'ala sinistra dell'esercito
d'Italia. Quindi Moreau annichilendo a Hohenlinden l'arciduca
Giovanni e Brune ricacciando Bellegarde dal Mincio, fiaccano,
l'orgoglio di Francesco II, che colla pace di Lunéville
(1801) subisce presso a poco le condizioni del trattato di
Campoformio.
L'Italia ritorna sotto il protettorato francese.
Bonaparte vincitore ripristina la republica cisalpina, creandovi una
consulta con podestà legislativa e una commissione di governo
con potere esecutivo, entrambe sottomesse a Petiet ministro
straordinario di Francia. Quindi riapre l'università di Pavia
chiusa dai sospettosi tedeschi, piaggia i dotti, accarezza gli
aristocratici; questa volta le sue intenzioni sono così
mutate da quelle della prima campagna del 1796 che i democratici,
trascurati o reietti, sono forzati di accorgersene, ma, incapaci di
un qualunque riparo, avvallano più profondamente in questa
nuova contraddizione. Dalla cisalpina tornando prontamente in
Francia, il console per rispetto di Paolo I di Russia, ostinato
protettore del Re di Savoia, lascia in sospeso la riorganizzazione
del Piemonte. Veramente dopo la vittoria di Marengo aveva proposto a
re Carlo Emanuele di ritornarlo in seggio se rinunciasse Nizza e
Savoia alla Francia; ma questi, che prima aveva abdicato per timore,
sicuro in Sardegna, si ricusò ai pericoli di un simile
ritorno e nemmeno volle discutere la nuova offertagli cessione di
tutta la cisalpina. Le condizioni del Piemonte, economicamente
tristissime, peggioravano in questa suprema incertezza di governo,
che permetteva agli amministratori e ai generali francesi ogni sorta
di eccessi. Cresceva la confusione dei partiti: chi voleva essere
francese, chi italiano, chi piemontese; gli aristocratici rimanevano
bigottamente col re, i democratici si laceravano mutualmente.
Intanto Napoleone, modificando ancora le proprie intenzioni, cedeva
per consiglio di Prina tutto il Novarese alla cisalpina.
A Genova, sottomessa da Melas ad una reggenza imperiale e reale, si
costituivano come nella cisalpina una commissione e una consulta
sotto al ministro straordinario generale Dejean; Modena annessa alla
cisalpina aveva pel trattato di Lunéville ceduto alla
Brisgovia il proprio duca; Parma invece ingrossava il proprio con
tutta la Toscana sino a farne un re d'Etruria. Con questo titolo
l'infante di Spagna e duca di Parma doveva difendere l'Italia
centrale e specialmente Livorno dagli assalti inglesi; ma questi si
spense ben presto, e la reggenza assunta da Luisa di Borbone pel
figlio giovanissimo Carlo Lodovico vi era regolata dispoticamente da
Murat. La pronta ed esemplare punizione di Arezzo aveva già
tolto alla Toscana il mal vezzo di scannare proditoriamente i
francesi, acclamando i tedeschi come liberatori.
Napoli rimasta sola alla guerra dopo il trattato di Lunéville
e minacciata da Murat con grosso esercito, non ebbe altro riparo che
il solerte ingegno della regina Carolina, la quale, recatasi a
Pietroburgo, ottenne per l'intercessione di Paolo I pace dal
console. Ne furono condizioni lo sgombro dei soldati regi da Roma,
la chiusura di tutti i porti agl'inglesi, la cessione di
Portolongone e di Piombino alla republica francese, lo stanziamento
di due grossi presidii francesi negli Abruzzi e nelle Calabrie.
Il Concordato.
A miglior fortuna invece sembrava risorgere il papato. Morto Pio VI
nel Delfinato e radunatosi all'ombra labile delle bandiere tedesche
il conclave in Venezia, venne eletto Barnaba Chiaramonti, già
vescovo d'Imola, uomo di buoni costumi e di miti propositi.
L'Austria, per l'assurdo diritto di veto concesso dal papato alle
tre grandi potenze cattoliche, diede l'esclusione al filosofo
Gerdil, e, fissa nell'idea di ulteriori conquiste, mirava ad
impedire il ritorno a Roma del nuovo papa. Pio VII invece vi si
affrettò, accolto dai romani come liberatore. Quindi
ristorò le finanze comunali, trasferendo molti loro debiti
alla camera pontificia; abolì parecchie gabelle privilegiate;
creò due tasse, l'una reale e l'altra dativa: quella
conteneva fra le altre una contribuzione di valimento per la sesta
parte di tutte le rendite sopra coloro che le consumassero fuori di
stato, questa manteneva ancora le gabelle del sale obbligatorio e
del macinato. Pei beni ecclesiastici venduti cassò la
vendita, salvando ai compratori il rimborso del quarto.
Ma un nuovo accordo del papa col primo console doveva rinnovare
improvvisamente il prestigio del papato. Affogatasi la rivoluzione
in quell'orribile mareggio di sangue che aveva allagato mezza
Europa, e cominciata la reazione conservatrice col trionfo di
Bonaparte, questi, fatto l'animo a maggiori grandezze, comprese
tosto la necessità di un componimento con Roma. Già
negli spiriti rifioriva il sentimento religioso, atteggiandosi nella
letteratura con nuove forme romantiche; erano cessate le
persecuzioni, emigrati e preti venivano riammessi, surrogandosi per
questi ultimi il giuramento civico con una semplice promessa; il
bisogno del culto e della pace religiosa cresceva tutti i giorni.
Accordandosi con Roma, la rivoluzione trionfava una seconda volta
della monarchia, alla quale non era rimasta altra forza che la
devozione di alcune campagne.
Così Bonaparte, che tre giorni dopo la vittoria di Marengo ne
aveva fatto parola col cardinale Martiniana, rinnovò
abilmente le pratiche, blandendo la vanità del pontefice e
minacciandolo al tempo stesso con un concilio nazionale di vescovi
giurati, da lui medesimo adunato in Parigi. Roma, desolata per la
sospensione di ogni culto cattolico in Francia, si vedeva minacciata
da un nuovo scisma gallicano, nel quale la maggior parte dei
credenti francesi avrebbe potuto gittarsi, trascinando coll'esempio
l'Italia ridotta a potestà di Napoleone e già da gran
tempo inquinata di giansenismo. Il moto, provocato dal Ricci vescovo
di Pistoia, erasi piuttosto allentato che estinto: Degola, Palmieri,
Zola, Tamburini, Gauthier, Vailna, combattevano ancora per simile
dottrina; alcuni vescovi italiani, come il Solaro di Novi, parlavano
perfino di aderire al concilio parigino. Roma piegò. Il
cardinale Consalvi, l'arcivescovo di Corinto e il teologo Caselli
trattarono a Parigi del concordato con Giuseppe Bonaparte, Cretet e
Bernier curato di San Lodo. Le condizioni gravissime per Roma
ribadirono molte delle vecchie contraddizioni politiche e religiose
del papato. Questo concedeva al governo francese di regolare
l'esercizio del culto con norme di polizia, riconosceva le nuove
circoscrizioni rivoluzionarie delle diocesi e i vescovi nominati ad
esse dal console, imponeva le dimissioni ai vescovi profughi che
avevano nobilmente ricusato di giurare, ordinava a tutti i vescovi
di non eleggere a curati che persone ben accette al governo; ogni
alto e basso funzionario ecclesiastico doveva giurar fede alla
republica; si riconoscevano al primo console tutti i diritti e le
prerogative degli antichi re cristianissimi; si assolveva finalmente
la vendita dei beni ecclesiastici. Per questo articolo gli scrupoli
di sua santità furono maggiori che per tutto il resto, ma gli
argomenti usati dall'Albani e dal Merenda per vincerli rivelarono
colla loro casistica sottigliezza l'inanità della sua
coscienza politico-religiosa. I due teologi infatti poterono
persuadergli che, con la promessa di non molestare nel possesso i
compratori di tali beni, ne conferiva loro immediatamente la
proprietà invece di riconoscerla come un fatto giuridico
anteriore. Ma riconquistando la Francia al cattolicismo e
patteggiando così col primo console, il papato acquistava
un'importanza politica che lo rimetteva alto sull'Europa. Il vecchio
principio monarchico rappresentato dalla famiglia del re decapitato
soccombeva daccapo al principio ieratico di Roma, mentre la
rivoluzione stessa, costretta ad entrare attraverso il consolato
nella forma imperiale per organizzare le proprie idee, sembrava
nuovamente sottomettersi alla più antica autorità
religiosa contro la quale era insorta. L'avvenire era dunque
signoreggiato dal cattolicismo come il passato. Roma imperava;
Napoleone dopo tante vittorie rivoluzionarie doveva ripristinare il
regno e capitolare col pontefice per fondare il proprio governo. Il
fatto pareva ed era enorme. Non si vedeva allora che il papato
separandosi dal principio monarchico si suicidava, per non rimanere
che un semplice pontificato religioso. Ma Napoleone, che,
confessando contro i giansenisti la propria ammirazione per la
podestà unica ed universale del papato, aveva già
scoperte le proprie tendenze all'impero, si affrettava a
conquistarlo coll'aiuto morale di Roma. Tutto gli giovava, lo
splendore di tante vittorie, l'improvvisa irresistibile fortuna, il
codice promulgato, il governo assodato, la pronta ed uniforme
amministrazione, la stessa tradizione monarchica e l'oscura
necessità della rivoluzione di contraddirsi nella forma
imperiale per conquistarvi l'unità indispensabile ad una
lotta decennale contro l'Europa. L'Inghilterra, rimasta ultima nella
guerra, rovesciava Pitt e piegava alla pace di Amiens; Paolo I di
Russia, supremo ostacolo per l'annessione del Piemonte alla Francia,
moriva strozzato dai satelliti di suo figlio Alessandro. Quindi
Napoleone, con un decreto antidatato per nasconderne al nuovo czar
l'impertinenza, annette immediatamente il Piemonte alla Francia,
dividendolo in sei dipartimenti; e blandisce la vanità del
giovane imperatore, pregandolo di associarsi a lui per dare
finalmente pace al mondo travagliato.
Saliceti, secondo ordini segreti, riforma daccapo Lucca con
più aristocratica costituzione e ne reca il governo in mano
ai più grossi proprietarii e negozianti; Moreau di Saint
Méry viene mandato a reggere Parma scaduta alla Francia per
la morte del duca Lodovico.
Consulta di Lione.
Riconciliatosi col papato, vinta l'Austria, adescato lo czar,
pacificatosi coll'Inghilterra, adorato dall'esercito e dal popolo,
Napoleone si servì astutamente dell'Italia per saggiare in
Francia i primi effetti d'un'apparizione imperiale. Laonde, fingendo
di cedere a supplicazioni di popoli italiani, convocò a Lione
una consulta straordinaria per dare stabile ordinamento alla
cisalpina, facendone al tempo stesso un vero stato e un forte
baluardo contro l'Austria. Vi convennero rappresentanti di tutte le
città allora affratellate, e ne uscì senza
discussione, perchè imposto dal console e vegliato da
Talleyrand, uno statuto col quale si stabilivano tre collegi
elettorali permanenti e a vita completantisi da se medesimi:
cioè trecento grossi proprietari, duecento grossi negozianti
ed altrettanti letterati. Era ufficio loro nominare i membri della
censura, della consulta, del corpo legislativo, dei tribunali, della
camera dei conti: i possidenti dovevano sedere a Milano, i
commercianti a Brescia, i dotti a Bologna. Come magistrato supremo,
la censura composta di nove possidenti, di sei dotti e di sei
commercianti sedeva invece a Cremona, adunandovisi cinque giorni
dopo lo scioglimento dei collegi e sciogliendosi dieci giorni
appresso. Il corpo legislativo non poteva nè proporre
nè discutere, ma solo squittinava. Era unica religione la
cattolica, e con incredibile regresso venivano ripristinati i fori
ecclesiastici. Presidente per dieci anni, rieleggibile, quindi a
vita, Bonaparte; vice-presidente Melzi.
Era una creazione dispotica con governo dittatoriale: di
sovranità popolare, di elettorato, d'indipendenza e di
libertà nemmeno un cenno. Ma a questa mostruosa republica,
campata fuori della storia e del diritto come un'assurda transazione
fra la rivoluzione e l'impero, la conquista e l'autonomia, si appose
il nome di italiana. Questa grande parola, finalmente pronunciata,
compensava col proprio valore ideale tutti gl'inevitabili e
inestricabili errori dell'opera.
Bonaparte stava lontano, Melzi presente si obliava nella pompa della
propria carica: il ministro Prina rinsanguava le finanze, si
sviluppavano le armi, si cassavano gli ultimi privilegi
aristocratici, si favorivano gl'ingegni, crescevano le speranze di
vera indipendenza, quantunque represse dal governo ligio agli ordini
del primo console. Molti furono carcerati per ciò solo che
parlavano troppo di libertà. Intanto il nuovo benessere
materiale aumentava, giustificando in parte le impudenti adulazioni
di tutti gli scrittori al nuovo padrone. Naturalmente Genova, fra il
Piemonte divenuto provincia francese e la recente republica
più napoleonica che italiana, dovette riformarsi, supplicando
con servile ipocrisia il primo console a darle nuova costituzione. E
la grazia fu concessa, e la costituzione fu coi tre collegi dei
possidenti, dei negozianti e dei dotti, che rappresentavano
sovranità ed elettorato con un senato di trenta membri ed un
doge eletto per sei anni: i distretti nominavano le consulte
giurisdizionali, e queste eleggevano i membri della consulta
nazionale. Il protettorato francese stava al disopra di tutto, e
più alta di esso la volontà del primo console.
Mentre gli aristocratici, lusingati con ogni maniera di uffici,
aderivano in massa al nuovo regime, e i democratici, spesso
carcerati od espulsi, vedevano vanire sotto la prepotente ingerenza
dei proconsoli di Bonaparte il proprio sogno di una vera republica
italiana, re Carlo Emanuele di Savoia, ramingo per l'Italia in preda
a nere malinconie, abdicava davvero il perduto regno al fratello
Vittorio per consacrarsi tutto alle pratiche religiose, e Murat
scacciava con tirannica crudeltà dalla Toscana i proscritti
napoletani. La restaurazione napoleonica pigliava l'andatura di
tutte le altre: si ordinava a Soult, accantonato sul Tronto, di
condurre l'esercito a messa nelle domeniche: si ricercavano fra le
macerie della rivoluzione e il disordine di tutti quei governi e
quei costumi improvvisati i resti dell'antico rispetto
all'autorità, invocando Dio e incensando il papa,
distinguendo i marchesi e dispettando ogni uomo di carattere,
abituando al dispotismo coi benefizi dell'uniformità
amministrativa e dell'uguaglianza legale.
Ma la segreta dialettica della rivoluzione incalzava il consolato
all'impero, costringendo Napoleone a farsi gridare imperatore.
Capitolo Terzo.
I regni francesi in Italia.
L'impero francese.
Da console vitalizio ad imperatore il passo non parve enorme,
poichè l'elezione plebiscitaria, per quanto equivoca nel
modo, salvava la democrazia, e la rivoluzione, uscendo dal costume,
restava nelle leggi. Pio VII, sempre rimorchiato da tutti i grandi
avvenimenti, venne sino a Parigi per incoronare il nuovo imperatore
nella chiesa di Nostra Donna (1804), rinnegando così l'antica
monarchia del diritto divino. I Borboni adunati a Colmar per
protestare vi gettarono invece le basi di un sistema rappresentativo
da concedere alla Francia quando cadesse Napoleone, senza accorgersi
di uccidere così una seconda volta il proprio principio
tradito dal papa. Plebe e soldati esultavano, l'Europa ammirava ed
armava, l'Italia al solito invitava. I delegati della republica
italiana andarono a Parigi per scongiurare Napoleone a ridurli sotto
la propria monarchia, cingendosi la corona ferrea; ed egli,
incalzato dai ricordi di Carlomagno, ridiscese a Milano con un
esercito di cortigiani fra gli osanna del popolo. Si disse allora
che, strappando di mano all'arcivescovo Caprara la corona, mentre
questi si disponeva ad incoronarlo, e calcandosela alteramente sul
capo, Napoleone esclamasse minaccioso: «Dio me la diede, guai
a chi la tocca!» Lirica sfida che la storia contemponea
raccolse, e alla quale la storia posteriore non credette.
Nullameno una specie di regno d'Italia era fondato: Eugenio di
Beauharnais, figliastro di Bonaparte, vi dominava vicerè; il
ducato di Parma vi diveniva semplice dipartimento, la republica di
Genova colla solita forzata spontaneità vi si annetteva,
Lucca e Piombino costituivano un principato per Elisa e Felice
Baciocchi, che doveva presto assorbire tutta la Toscana. Intanto
l'Europa eccitata dall'Inghilterra, spergiura alla pace d'Amiens, e
alla quale Napoleone aveva già risposto coll'insensata
minaccia del campo di Boulogne, preparava contro di lui una terza
coalizione. Austria, Russia, Napoli, Svezia, Turchia risorgono a
difesa del diritto publico europeo conculcato dall'usurpatore; Pitt
è il tesoriere della nuova guerra, la Russia forma il
retroguardo dello immenso esercito. Ma Napoleone, sollecitato da
Fouché ad una pronta vittoria, viola con incredibile
temerità il territorio prussiano, piglia il generale
austriaco Mack alle spalle, lo chiude in Ulma, lo fa prigioniero,
marcia su Vienna, vi penetra, emana decreti dall'imperiale
Schönbrunn. L'arciduca Carlo, incalzato da Massena vincitore a
Caldiero, si ripiega invano sull'Austria, giacchè l'esercito
italico, congiuntosi con quello di Napoleone, prostra ad Austerlitz
con maggiore vittoria tutta la massa degli austro-russi.
L'Austria fiaccata patteggia a Presburgo (1805), abbandonando il
regno d'Italia, la Venezia, la Dalmazia e l'Albania; la Russia
retrocede, la Prussia scende a nuove cessioni, i Borboni di Napoli
allibiscono. La regina Carolina, che vantavasi ancora impudentemente
di avere ingannato Napoleone con una finta neutralità,
resiste sola fra lo sbigottimento generale. All'annunzio della
battaglia di Austerlitz e del decreto di Napoleone che annunciava al
mondo: «i Borboni di Napoli hanno cessato di regnare»,
gli inglesi e i russi sbarcati nel regno per difenderlo si ritirano,
il re preparandosi a fuggire ordina ai generali di morire piuttosto
che cedere una sola fortezza, la regina ostinata all'ultima
resistenza è travolta dalla fuga generale. Giuseppe
Bonaparte, nominato da Napoleone re di Napoli, si avanza con
Saint-Cyr e Massena. Tutto piega; Gaeta sola resiste, intanto che
gl'inglesi occupano Capri, e la regina riparata in Sicilia scatena
le vecchie bande di Rodio e di Fra Diavolo sul continente. Ma i
tempi sono mutati: l'entusiasmo superstizioso ed anarchico della
prima reazione non si rinnova.
Appena insediato, Giuseppe Bonaparte, piuttosto ministro di
Napoleone che re, ordinava il regno alla francese tra le feste
solite in Napoli per tutti i conquistatori. Stabiliva ministeri e
consigli di stato, aboliva ventitre tasse indirette per sostituirvi
la fondiaria senza esenzioni, ma purtroppo senza catasto; dava a
censo il Tavoliere delle Puglie, toglieva giurisdizioni feudali e
privilegi di nobili, svincolava fidecommessi, aboliva conventi,
disciplinava la publica istruzione, sistemava giuoco e
prostituzione, illuminava le strade, ne apriva di nuove. Il codice
di Napoleone, quantunque senza giurati e con tribunali d'eccezione
in quel primo trambusto, recava un indicibile miglioramento alla
giurisprudenza e alla giustizia, semplificando ed irrobustendo
l'amministrazione.
Ma il regno era sommosso da congiure e da insurrezioni. Carolina da
Palermo e Saliceti primo ministro da Napoli combattevano un'orribile
guerra di agguati e di assassinii; le bande dei briganti
pullulavano; l'inglese Sidney Smith, sbarcato nel golfo di
Sant'Eufemia, sconfiggeva il generale Regnier a Maida; Massena
stesso, malgrado il terrore del proprio nome, non giungeva a
quietare le Calabrie. Re Giuseppe poco amato e niente stimato,
perchè fatalmente sottomesso ai voleri di Napoleone, non
soddisfaceva ad alcun partito; la necessità delle feroci
repressioni governative giustificava le crudeltà efferate del
brigantaggio regio; la terribile dichiarazione di Napoleone:
«i popoli di Napoli e di Sicilia sono caduti in poter nostro
per diritto di conquista e come formanti parte del grande
impero», neutralizzava tutti i benefici del nuovo regime. Se
la memoria della teatrale ma nobile republica partenopea
s'indeboliva nel popolo, il nuovo dispotismo faceva amare l'antico
pieno di privilegi per tutti: il sentimento nazionale resisteva
validamente alla minaccia di una francesizzazione, che avrebbe fatto
discendere Napoli a grado di lontana e smembrata provincia francese.
Ma come tutte le sventure dovessero raddoppiare di dolori in quella
tragica transizione, la regina Carolina insaniva sui fedeli
siciliani, spremendo loro ogni denaro, violando le loro antiche
immunità parlamentari e sacrificandoli ai cortigiani fuggiti
da Napoli. L'attitudine alle idee moderne imposte dalle armi
francesi era dunque molto minore nelle Due Sicilie che nell'alta
Italia, a giudicare dalla facilità onde questa si era
sottomessa al governo napoleonico, e dall'entusiasmo col quale la
sua miglior gioventù entrava nell'esercito del nuovo regno
per partecipare alle guerre europee. Anzi le differenze storiche e
politiche fra queste due massime parti d'Italia, specialmente nel
grado e nella diffusione della cultura, vigoreggiavano talmente che
una fusione di Napoli con Milano sarebbe parsa ad entrambe una
conquista, e Napoli vi si sarebbe sentita degradare. Ma così
grande fatto era impedito sopratutto dallo stato pontificio, che
avrebbe tagliato in due il regno italico, e dal problema di Roma
inevitabile capitale d'Italia, prima ed ultima condizione di una
ricostituzione nazionale. La disperata resistenza delle Calabrie e
l'indomabile perfidia della corte borbonica, discordi nel sentimento
per quanto unite nell'intenzione contro lo straniero, non potevano
quindi giungere a risultato di sorta perchè entrambe fuori
dalla storia: il dispotismo regio, siccome contrario al diritto
moderno, la ribellione popolare, siccome tendente a difendere in
Napoli l'antica idea federale, mentre tutto quell'incalzare di
mutamenti serviva a cancellare i confini e a sopprimere le
differenze dell'antica federazione. Così il partito
democratico, per giusto ed insieme erroneo odio allo straniero,
ritornando a Ferdinando di Borbone per evitare Giuseppe Bonaparte,
si suicidava nella più dolorosa contraddizione, per risorgere
più tardi nella negazione d'ogni piccolo stato italiano entro
la grande ideale repubblica di Giuseppe Mazzini.
Allo sbaraglio di questa terza coalizione europea il regno d'Italia
comprende ormai tutta l'Italia superiore; la Toscana e lo stato
pontificio stanno per sparirvi, quello di Napoli non appartiene che
formalmente a Giuseppe Bonaparte; solo la Sicilia e la Sardegna
restano a testimonio degli antichi stati italiani, ma sotto un
protettorato inglese che ne viola la libertà e ne compromette
l'indipendenza peggio dell'unificazione napoleonica.
Quarta e quinta coalizione europea: 1807-1809.
A questo punto le segrete e trascendenti necessità della
rivoluzione francese in Europa sembrano spingere Napoleone alla
follia. Il demone della guerra lo attira a nuovi campi di battaglia,
che coll'apparenza d'un disastro per le nazioni vinte non daranno
alla Francia alcun vantaggio positivo. Così dopo aver
sovvertito col trattato di Lunéville dalle basi la
costituzione dell'impero germanico, Napoleone ne cancella persino il
nome e sostituisce il protettorato francese alla supremazia
dell'Austria. La nuova confederazione del regno sbozzata da
Talleyrand sottomette la vecchia confederazione tedesca all'impero
francese con un'alleanza nella quale Napoleone è padrone. Se
il trattato di Lunéville aveva secolarizzati parecchi
principati tedeschi, l'atto della nuova confederazione ne mediatizza
molti altri piuttosto ad incremento dei sovrani che a favore dei
popoli; ma, costringendo la Prussia ad impossessarsi dell'Hannover,
e annettendo col trattato di Tilsitt la Pomerania alla Germania,
Napoleone scaccia da questa l'Inghilterra e la Svezia. Il principio
di nazionalità contenuto nella rivoluzione francese si
verifica quindi per opera dell'impero attraverso i capricci e le
necessità momentanee d'una politica personale. Se non che
l'ascendente di Napoleone aumenta le sue prepotenze. Invano la
Turchia si umilia, la Russia patteggia, e Pitt muore forse
credendosi vinto nell'immane tenzone. La guerra, che si rinfocola
presto colla Prussia violata nell'onore di nazione dai modi
tirannici e sprezzanti di Napoleone, richiama la Russia ancora
sanguinante per le vecchie sconfitte in campo a soffrirne di
peggiori.
Napoleone, infiammato dalla rivalità con Federico il Grande,
precipita gli armamenti e mena la guerra con tanta rapidità
che in una sola settimana rovescia esercito e trono prussiano.
L'Europa urla al prodigio; la rotta di Rossbach è vendicata,
la spada di Federico II viaggia scortata trionfalmente a Parigi. Ma
caduta la monarchia, il popolo insorge, e i russi avanzano.
Napoleone a Posen ridesta tutte le speranze polacche per tradirle
poi nella costituzione del piccolo ducato di Varsavia: quindi di
fitto verno s'inoltra la prima volta per quei climi inospitali senza
sole. I russi resistono ad Eylau e ad Heilsberg per soccombere a
Friedland (1807) con tanta strage che la pace diviene necessaria. E
questa fu maggiore della battaglia, giacchè a Tilsitt
Napoleone ed Alessandro si divisero l'Europa in due immensi imperi
d'oriente e d'occidente. Suprema illusione suscitata in loro dalla
storia per annullare il valore ideale di tutte le monarchie e
gettare i popoli offesi nella propria personalità in braccio
a una democrazia più grande di tutti gl'imperi! Napoleone,
trascurando i popoli nei rimaneggiamenti della carta europea, non si
accorgeva di lavorare unicamente per essi. Infatti, esclusi dalla
diplomazia, violentati nelle nazionalità, offesi nelle
tradizioni, sollevati dalle idee rivoluzionarie, pareggiati dal
codice napoleonico, accettano la libertà ed insorgono per
l'indipendenza. Le vecchie dinastie abbattute si affratellano con
essi promettendo le medesime libertà e la stessa uguaglianza
della rivoluzione francese; le inversioni scoppiano dovunque.
Austria, Russia, Prussia parlano di emancipazione e di democrazia:
Napoleone, rappresentante della rivoluzione francese, diventa il
tiranno, e deve violentare tutte le genti, spremendo loro sangue e
denaro per guerre che rinnovano l'Europa rovesciandola.
L'Inghilterra, instancabile nell'assoldare l'Europa regia e feudale
contro la rivoluzione francese, diventa campione della
libertà di commercio per resistere al blocco continentale; le
sconfitte, che disperdono gli eserciti, adunano i popoli; le
vittorie, che rovesciano le nazioni, le liberano contemporaneamente
dal loro passato, ringiovanendole coll'insurrezione popolare; i
trattati stretti e violati arbitrariamente tolgono ogni valore
all'antico diritto publico e ogni credito alla diplomazia per render
e la politica un interesse di popoli anzichè di gabinetti;
mentre la Francia, sublime di eroismo e di pazzia, illumina e
brucia, batte e ritempra, frantuma e ricompone tutta l'Europa. La
lotta è fra due mondi; Napoleone enorme, inconsapevole e
fatale, li fonde, per cadere poi soffocato, a un'ora prestabilita,
sotto il loro peso.
La sua politica necessariamente assurda negli scopi e nei mezzi non
arretra davanti alcun ostacolo; spezza la Prussia in quattro
dipartimenti alla francese per poi restituirla smezzata al re
Federico Guglielmo III: da Berlino, imitando il disperato
provvedimento della republica americana e della convenzione, intima
il blocco all'Inghilterra, audacia maggiore di quella da lui
mostrata al ponte d'Arcole, gigantesca guerra economica che Proudhon
solo nella implacabile temerità del proprio genio doveva
ammirare trent'anni dopo. Quindi perduto come un poeta nel sogno
dell'impero di occidente getta corone a tutti i propri fratelli: a
Luigi quella d'Olanda, che era republica e aveva tanto combattuto
per farsi indipendente; ad Elisa quella d'Etruria; a Girolamo quella
di Vestfalia, regno improvvisato, assurdo come una chimera e greve
come un incubo; a Giuseppe toglie Napoli per surrogargli Murat e
dargli invece la Spagna. Nel Veneto costituisce dodici ducati,
ricordo dei pari di Filippo Augusto e dei cavalieri della Tavola
Rotonda, impegnandovi un quindicesimo delle entrate che ne caverebbe
il regno d'Italia; si riserba sei grandi feudi nel regno di Napoli,
altri nel resto d'Italia e in Germania. Rievoca il cerimoniale di
Luigi XIV, scimmiotteggia l'antica etichetta, s'umilia agli
inflessibili aristocratici.
Ma l'utopia dell'impero occidentale, dopo averlo spinto sino ai
confini della Russia, lo trascina all'estrema punta del Portogallo.
Questo e la Spagna sono retti da due dinastie esaurite, che
Napoleone vuole naturalmente sostituire. Così, dopo aver
concesso pace alla Spagna entrata nell'ultima coalizione e rimasta
scoperta dopo la grande vittoria di Jena, la tenta diabolicamente
coll'offerta del Portogallo scaduto a Maria I, pazza, e a Don
Giovanni per essa reggente, principe peggio che imbecille. La Spagna
governata da Godoy, ignobile guardia di corpo diventato amante della
regina e padrone del re, morde all'amo: un esercito francese con
Dupont snida la dinastia dei Braganza da Lisbona, Murat occupa
militarmente la Spagna. La corte vi si smarrisce nelle più
nauseanti sozzure: la regina minacciata di perdere il trono non
pensa che all'amante, Ferdinando principe ereditario insidia la vita
al padre Carlo IV, questi preferisce il drudo di sua moglie al
figlio; Napoleone li coglie tutti a Bajona con uno stesso tradimento
e li spodesta. I Borboni di Spagna finiscono peggio che quelli di
Francia: Luigi XVI ebbe la gloria del patibolo, Carlo IV
pattuì il castello di Compiègne e trenta milioni di
reali, Ferdinando si congratulò persino con chi gli occupava
il trono. Murat, facile vincitore di quella scenica guerra, avrebbe
ambito alla corona di Carlo V che toccò invece a Giuseppe
Bonaparte, tolto a Napoli come un fattore ad una masseria.
Ma la Spagna è la prima nazione che si solleva contro
Napoleone: Austria, Prussia, Italia non avevano avuto che volontari;
qui tutto il popolo diventa esercito. Napoleone moltiplica invano
generali, battaglie, vittorie; il suo genio militare sfolgoreggia
più abbagliante che mai nel disegno della campagna (1808),
cui viene egli stesso a dirigere e che gli riapre le porte di
Madrid; nullameno il popolo spagnuolo ha ferito Achille al tallone.
L'Inghilterra aiuta l'insurrezione con Wellington, generale mediocre
e perfetto, che dovrà vincere fra non molto il grande
condottiero. Ogni siepe si muta in baluardo, ogni casa in fortezza,
ogni uomo in soldato, ogni frate in eroe, ogni parroco in capitano.
Il marchese La Romana, disertando alla testa di tutti gli spagnuoli
dalle rive del Jutland per venire al soccorso della patria insorta,
emula la ritirata di Senofonte, Saragozza offusca la gloria di
Numanzia, Mina risuscita Viriate. Intanto re Giuseppe e Napoleone
sbarazzano la Spagna dal secolare fardello dei privilegi
ecclesiastici e feudali: il governo è liberale ma tiranno, la
nazione reazionaria ma indipendente; antitesi insolubile allora e
che si risolverà dodici anni dopo colla rivoluzione del 1820,
quando libertà ed indipendenza si saranno fuse nella
democrazia. Questa guerra originale di popolo rende egualmente
insignificanti le sconfitte e le vittorie: i francesi non posseggono
mai che il campo sul quale combattono, o la città nella quale
si fortificano. La loro gloria militare si appanna, l'eco della
resistenza spagnuola traversa la Germania e la solleva.
Dumouriez, già traditore della convenzione e assoldato ora
dai nemici della Francia, scrive il manuale della guerra per bande,
la Prussia si prepara al riscatto, l'Austria alla rivincita: intorno
ad esse, ancora informe ma immensa, una nuova Germania unitaria
freme guerra e libertà; le idee rivoluzionarie e francesi,
che l'hanno desta, la spingono già contro la Francia
conquistatrice e tiranna con Napoleone. Questi, pronto al pericolo,
si restringe con Alessandro di Russia, e al colloquio di Erfurt, nel
quale riconfermando il trattato di Tilsitt, assodano la divisione
dei due imperi orientale ed occidentale, può mostrargli
stipata sotto i loro piedi nel gran teatro una platea di re. Ma
questo accordo dei due imperatori, assurdo nell'idea quanto falso
nell'intenzione, non sgomenta l'insurrezione tedesca, che spinge
l'Austria a farsi assalitrice per la libertà d'Europa. I re
hanno già imparato dalla rivoluzione come ricorrere alle
masse: il loro linguaggio è mutato quanto il loro diritto; la
nazione sola può dare la vittoria, essendo la ragione e la
forza della guerra.
Nullameno il genio militare di Napoleone prevale ancora nel
disaccordo delle due grandi potenze tedesche: la Prussia smembrata
ed incerta fallisce alla guerra, l'Austria abbandonata vi soccombe,
benchè Napoleone, tradito alla propria volta da Alessandro di
Russia, sia solo a combatterla. Con un esercito quasi tutto della
confederazione e con cinque battaglie respinge l'arciduca Carlo al
di là del Danubio, marcia su Vienna e la prende in pochi
giorni. Il popolo, poco compatto nelle troppe nazionalità e
non ancora abbastanza rivoluzionario, s'accascia; dinastia e governo
rimangono soli coll'esercito contro Napoleone. Questi da
Schönbrunn ordina l'aggregazione degli stati pontifici
all'impero. Se il papato incoronando Napoleone imperatore aveva
tradito il principio della monarchia per diritto divino, il nuovo
impero cesareo, formula sintetica ed effimera della monarchia e
della democrazia, vendica quel tradimento, affermandosi con orgoglio
antico e con empietà moderna padrone del papato. Così
finisce il duello fra papato ed impero durato tanti secoli.
Napoleone trionfante a Schönbrunn crede di essere un
imperatore, e non è che il condottiero della rivoluzione.
Mentre infatti medita di spezzare la monarchia austriaca per ridurla
in provincie del proprio fantastico impero, la guerra lo obbliga a
ripassare il Danubio; sorpreso ad Essling dall'arciduca Carlo,
è quasi battuto e sarebbe catturato, se il suo mediocre
avversario ne avesse il coraggio. Questa esitanza lo salva,
permettendogli di ritirarsi sulla Lobau in mezzo al Danubio. La
Germania urla freneticamente: il sorcio è nella trappola! ma
l'arciduca Carlo, quasi atterrito dalla possibilità di tanta
vittoria, dubita ancora. Napoleone improvvisa come Cesare un ponte
sul Danubio, ne tocca l'altra riva, si congiunge all'esercito
d'Italia vincitore dell'arciduca Giovanni, ripassa il gran fiume, e
a Wagram, dopo orrendo macello, impone all'Austria la pace.
La Prussia, percossa di terrore, lascia esulare il duca di
Brünswick e uccidere il maggiore Schill, che la chiamavano a
guerra d'insurrezione; l'Olanda preparata dagli inglesi alla rivolta
la procrastina; la Germania impreparata si vi addestra nelle
società segrete e nelle canzoni; il Tirolo, insorto con
Andrea Hofer a una crociata commovente di mistico eroismo «in
nome di Dio e della Santissima Trinità», lascia
fucilare piangendo il proprio generale, sublime natura di cristiano
attardato nella storia; la Russia lontana, immobile alleata della
Francia, scruta pensosa in quella sconfitta, che toglie all'Austria
altre duemila miglia quadrate e tre milioni di sudditi, obbligandola
a gettare una delle proprie principesse in braccio al vincitore per
dargli una dinastia.
Mutamenti politici in Italia.
L'Italia aspettava da queste nozze il proprio re.
Infatti il regno d'Italia era venuto d'anno in anno crescendo.
Quattro strade meravigliose aperte attraverso al Sempione, al
Cenisio, al Monginevra e al Colle di Tenda, lo congiungevano
all'impero; una corte, ministri, ambasciatori, un istituto, scuole,
ospedali, fabbriche grandiose consolavano Milano della mancanza di
vera libertà. D'altronde pochi erano a sentire tale difetto,
e questi i giacobini. L'applicazione del codice francese rimutava
quotidianamente tutta la società; l'abolizione graduale, poi
totale dei conventi, la purificava; la coscrizione la rinvigoriva.
Napoleone per i propri bisogni incessanti di guerre badava a questa
sopratutto, ed era il massimo dei benefici per una gente snervata da
due secoli di inerte schiavitù. L'abitudine delle armi
ritemprava i caratteri; le idee rivoluzionarie ricostituivano la
coscienza. Napoleone, ridiscendendo in Italia dopo la grande
vittoria sulla Prussia, forse irritato egli stesso dalle troppe
piaggerie, disse fieramente che le donne italiane non avrebbero
dovuto permettere ai giovani di comparire loro innanzi se non
recando onorevoli cicatrici. A Venezia sognava di formare una
flotta, a Milano promise di accrescere il regno. Infatti il 22
novembre 1807 spodestò la regina reggente di Toscana, che
cedette quasi ringraziando, per sostituirle la propria sorella
Elisa, amazzone ariostesca sempre cavalcante fra generali e soldati:
mutamento che tolse la Toscana alla segreta reazione bigotta di
Luisa di Borbone. Il trapasso da una dinastia all'altra fu governato
saviamente dal Degerando, buon amministratore quanto scarso
politico; poco dopo Parma e Piacenza si fusero nel dipartimento del
Taro. Al trono di Napoli, vacante per l'elezione di Giuseppe
Bonaparte re di Spagna, fu eletto Gioacchino Murat, il cavaliero
più impetuoso e pomposo del ciclo napoleonico. Napoli, terra
di feste e di sommosse, magnificente e selvaggia, volubile e
passionata, era fra tutti i regni dell'immenso impero quello che
meglio conveniva a questo cognato dell'imperatore destinato a
diventare re.
Laonde fu accolto da ogni sorta di luminarie e di adulazioni appena
annunziò di accettare la costituzione largita in Bajona dal
suo antecessore. Firrao, cardinale di Napoli, sorpassò
Gamboni, patriarca di Venezia, nelle servilità al nuovo re:
il tradimento di Pio VII verso i Borboni di Francia si ripeteva per
tutta la gerarchia della chiesa contro tutti i re spodestati. Per
prima impresa Murat, miglior soldato e sovrano più altero di
Giuseppe Bonaparte, assalta a Capri e costringe alla resa Hudson
Lowe, futuro carceriere di Napoleone; quindi, imitando da lontano
l'equivoco esempio dell'imperatore, vezzeggia i baroni e dispetta i
republicani memori ancora contro di lui dello sfratto dalla Toscana,
finge dimenticare la riconosciuta costituzione per regnare
dispoticamente a mezzo dell'antica feudalità: errore enorme
che annullava tutto il pericolo anteriore delle riforme e l'altro
della republica partenopea contraddicendo a tutte le idee del
momento. E siccome le Provincie al solito non quietavano,
costituì legioni provinciali, una per ognuna di esse,
abituando ed addestrando il popolo alle armi. Ma se questo era un
grande vantaggio per l'educazione dei caratteri mediante l'abitudine
della disciplina e il tonico dei pericoli, non bastava nullameno a
compensare i danni e i dolori di una incredibile licenza soldatesca.
Su questi malumori soffiava la corte di Palermo avaramente fissa al
riconquisto del regno. Calabrie ed Abruzzi battagliavano ancora con
intendimenti diversi: alcuni, implacabili nemici di ogni straniero,
vi agognavano, il ritorno di Ferdinando; altri, indomabili amanti
della republica, si ostinavano contro ogni re: fra questi e quelli
scorazzavano ignobili e feroci banditi per vaghezza di sacco e di
sangue.
I carbonari, nuova setta destinata a grande celebrità,
scesero dalla purezza del loro principio religioso-politico secondo
il quale consideravano Gesù come primo dei republicani e
prima vittima del dispotismo, sino a trattare per mezzo del duca di
Moliterno colla corte borbonica. Erano stati introdotti nel regno
dal Menghella ministro di polizia; ma, quantunque avessero dovuto
poco dopo rifugiarsi in fondo alle Calabrie, dimenticarono per odio
allo straniero Murat la perfidia anche troppo provata della regina
Carolina. Fra le tante inversioni di quel periodo politico si videro
quindi i carbonari associati come rappresentanti del liberalismo
colle vecchie bande borboniche, che avevano assassinata la republica
partenopea. Tale falsa alleanza, inintelligibile per il popolo, non
potè naturalmente giovare troppo nè all'idea
democratica, nè alla causa regia, mentre Murat spiegava
invece la più ammirabile energia alla conquista della
Sicilia. Che se la viltà dei nuovi soldati napoletani guidati
dal Cavaignac rese inutile uno sbarco ben riuscito, e gl'inglesi
poterono preservare l'isola dall'invasione, nullameno la rivolta
delle bande regie carbonare nelle Calabrie fu domata dal generale
Manhès con sì tremenda ferocia che i luoghi purgati
rimasero deserti. Capobianco, capo dei carbonari, vi perì
miseramente in un'insidia.
Ma più grossa questione stava per risolversi in Italia.
Se la rivoluzione francese nella sincerità della propria idea
republicana, decapitando il re per sostituire al vecchio principio
monarchico quello moderno della sovranità popolare, aveva poi
dovuto naturalmente sopprimere il papato, imbastendo a Roma una
indefinibile republica; e se Napoleone, ricostituendolo nel
concordato per farne puntello al proprio dispotismo cesareo,
sembrava invece averne riaffermato la necessità millenaria;
tuttavia il principio rivoluzionario, dirigente attraverso tutte le
antitesi la politica dell'impero, esigeva daccapo la sua
soppressione. L'impero come forma rivoluzionaria non poteva
mantenersi in se stesso il papato sempre ostile col proprio diritto
canonico ad ogni progresso del diritto civile, sempre superiore ad
ogni altra sovranità pel proprio principio teocratico, sempre
incompatibile con ogni riorganizzazione dell'Italia per il proprio
minimo regno. Quindi nel concordato rivoluzione e papato avevano
patteggiato come potenze piuttosto irreconciliabili che concordi,
ribadendo nel nuovo patto ricalcato sull'antico l'antitesi secolare
della chiesa collo stato. La religione vi si atteggiava sempre a
fatto storico superiore a tutte le leggi della storia, mentre la
chiesa, seguitando a dirvisi radice di ogni verità e di ogni
diritto, pretendeva di assegnare ancora la parte ai re e ai popoli
col verificare la giustizia di tutte le leggi, approvando o
condannando tutti i governi. Ciò era assurdo ed impossibile
dopo la rivoluzione francese. La religione nel secolo XIX, e in
tutti i secoli avvenire, non doveva essere più che un
inviolabile principio spirituale, significato ed operante con
organismo pari a quello della scienza e dell'arte: non più
papi-re o principi-cardinali sotto pena che la sovranità
popolare fosse negata; il sacerdozio stesso per l'efficacia del
proprio esercizio aveva d'uopo di liberarsi da tutte le armature e
le armi, che nei secoli passati lo avevano trasformato in ministero
politico di un governo monarchico-feudale.
Involontariamente l'incoronazione di Napoleone metteva il principio
della consacrazione religiosa più alto di quello
dell'elezione popolare. Impero e papato, restavano dunque distinti e
aggrovigliati come nel medioevo, con tutti i problemi delle
investiture e delle immunità ancora insoluti. L'accordo
doveva presto mutarsi in dissidio per entrambi, risognando il
passato in una nuova contesa sulla universalità del
dispotismo. Il papa concepirebbe ancora l'imperatore come proprio
gendarme e vorrebbe colla sua spada difendere dalle conseguenze
rivoluzionarie i propri privilegi; l'imperatore considererebbe il
papa come proprio ministro e vorrebbe ottenere dalla sua insidiosa
predicazione l'ubbidienza del popolo.
La lotta religiosa era dunque inevitabile. Infatti si accese
all'indomani del concordato per opera di Napoleone, che ne
trasgredì molti articoli: a tutte queste cause spirituali,
s'aggiungevano le ragioni politiche. Lo stato pontificio, tagliando
l'Italia in due, v'impediva ogni opera militare e civile; la
violazione del suo territorio vi diventava così necessaria a
ogni momento che il papa stesso finì poi coll'accordarla.
Naturalmente i nemici della Francia ne profittavano quanto
Napoleone. Questi, più forte e più violento, pretese
di essere solo in tale beneficio come successore di Carlomagno primo
donatore di quegli stati alla Santa Sede. Il papa gli rispose come
agli antichi imperatori di Germania, sostenendo la donazione libera
ed assoluta, e schermendosi come padre di tutti i fedeli, da
un'alleanza militare colla Francia. Ma questa ragione, per essere
troppo buona, menava diritto all'abolizione del potere temporale.
Infatti Napoleone minacciò subito il papa di restituirlo
semplice vescovo di Roma. Quindi il generale Miollis pretestando di
andare verso Napoli occupò Roma (1808) e si stanziò al
Quirinale, intimando ai cardinali napoletani e del regno d'Italia di
rimpatriare tosto. Pio VII protestò; Napoleone di rimando
mutò le quattro Provincie di Ancona, Macerata, Camerino e
Urbino in tre dipartimenti del regno italico. Allora i vescovi
oscillarono sul giuramento di fedeltà imposto dal nuovo
padrone, e al solito cercarono salute nell'equivoco della formula.
La nuova guerra coll'Austria sospese per un istante la querela, ma
le sconfitte dell'arciduca Carlo in Germania, costringendo
l'arciduca Giovanni a ritirarsi dall'Italia inseguito colla
baionetta alle reni dal vicerè Eugenio, permisero a Napoleone
di decretare da Vienna, nell'ebbrezza del trionfo, l'abolizione del
regno pontificio. Impero e papato medioevali cadevano così
sotto il medesimo colpo.
Il papa protestò fra la disattenzione sprezzante del mondo.
Napoleone, abolendo il papato medioevale, invocava invece del
diritto moderno quello di Carlomagno, e sognava di ricostruirne un
altro a Parigi con un papa, docile istrumento politico. La sua
fantasia esaltata dalla teatralità di tanti regni
improvvisati si smarriva nel desiderio di un impero
politico-religioso come quelli dell'Asia: l'esempio della Prussia,
della Russia e dell'Inghilterra, nelle quali i sovrani sono papi, lo
spingeva a farsi signore del cattolicismo riorganizzando ogni
confessione religiosa dell'Impero. Già a Parigi aveva adunato
il gran sinedrio per accordare le pratiche ecclesiastiche colle
leggi francesi; al papa, prima di torgli il regno, aveva chiesto che
un terzo almeno dei cardinali votanti in conclave fossero francesi,
per impadronirsi così dell'elezione papale, Pio VII
avvertì il pericolo e resistette. Ora, decaduto, scomunicava
con effimera arditezza l'imperatore, effondendosi in lamenti per
tutto il rapido viaggio da Roma a Savona assegnatagli per carcere.
Quindi Roma diventava la seconda città dell'impero francese:
Napoleone, aspettando il figlio che sta per nascergli, lo nomina
anticipatamente re di Roma. L'antica città trasognata accetta
nuove forme politiche. L'ordine del buon governo, creato da Sisto V
e organizzato da Clemente VIII per amministrare i comuni, viene
sostituito da municipi alla francese; il consiglio comunale romano
s'intitola pomposamente senato, si purga il territorio dai banditi,
si coscrivono legioni. Il nuovo codice livella tutte le antiche
leggi, riformando la società; il giuramento politico imposto
al clero è più presto accettato dai vescovi che dai
parroci; nullameno molti giurano, altri fuggono vilmente. Nessuna
grandezza di carattere in essi. Si conservano i due conventi di
Montecorona e di San Romualdo; si decretano imperiali le spese del
Sacro Collegio e di Propaganda Fide; si concede persino una pensione
alla parmense duchessa di Borbone e a Carlo Emanuele di Sardegna,
sepolto a Roma in pratiche della più imbecille bigotteria. Ed
entrambi accettano.
Prony francese e Fossombroni italiano concordano studi sul
risanamento delle paludi Pontine.
Ma la coscienza politica del popolo romano non si risveglia. I
più non credono alla stabilità del nuovo governo;
l'aristocrazia, ligia al papato per egoismo di privilegio, si chiude
nel riserbo dei timidi; la borghesia non vigoreggia nè per
scienze, nè per industrie, nè per governo; il popolo
non è che clientela delle grandi case patrizie; clero e
superstizione paralizzano ogni moto. Nullameno le violenze francesi
esasperano; perfino la lingua italiana è minacciata di cedere
alla francese negli atti ufficiali; delirio di unità
dispotica, intelligibile solo in una natura onnipotentemente
violenta come Napoleone!
Per contrasto il papa s'acconciava a resistenza passiva, dopo aver
lanciata la scomunica e ricusato di riconoscere il divorzio di
Napoleone. Quindi all'accusa di aver colla scomunica tentato di
sollevare il popolo francese contro l'imperatore, rispondeva,
contraddicendo agli antichi principii papali, la scomunica non
sciogliere i sudditi dal vincolo di fedeltà, e la
consacrazione degli imperatori non essere che la vidimazione
religiosa dell'elezione popolare: terribile risposta che, annullando
il nuovo diritto divino di Napoleone, riproduceva le teoriche della
rivoluzione. E la querela, avviluppandosi in questioni di
gallicanismo e di investiture, rievocava i tempi più torbidi
del medio evo. Ma fra queste ambagi il pensiero di Napoleone,
incaponitosi a volere un papa a Parigi togliendo a Roma l'ultima
superiorità di centro cattolico, si veniva chiarendo tra
minaccie e blandizie al pontefice per mezzo del clero e della
diplomazia. Pio VII, sempre sdegnato, ricusava di provvedere alle
molte sedi vescovili vacanti col riconoscere le nomine imperiali.
Napoleone, dopo aver nominato ad arcivescovo di Parigi il cardinale
Maury, come uno dei più fedeli giannizzeri, convocava un
concilio per riparare a questo danno, facendo eleggere dai capitoli
i nuovi vescovi. Brevi pontifici e decreti imperiali si urtavano; la
polizia armeggiava nella più goffa delle persecuzioni; i
cardinali divisi in rossi e neri parteggiavano vivacemente pel papa
e per l'imperatore, i vescovi oscillavano, il clero basso,
più sicuro nella fede ma più scarso nell'intelligenza,
non sapeva più che cosa credere. Napoleone, arieggiando con
grottesca gravità Costantino e Carlomagno, discuteva tutti i
giorni con ecclesiastiche commissioni, proponeva loro quesiti,
anticipandone prepotentemente la soluzione. Le pretese contro il
pontefice, a proposito dei privilegi gallicani e per strappargli il
consenso all'abolizione del regno pontificio, crescevano di quanto
s'indeboliva la costanza di questo. Pio VII viveva cinto d'assedio
da prelati d'ogni genere e guardato a vista da soldati. Quindi,
passando dalle minaccie ai fatti, Napoleone imprigionava i suoi
scarsi fedeli, confiscava beni e prebende ai capitoli e ai preti
ricalcitranti; il popolo, malgrado la secolare superstizione, non si
commoveva a questo duello fra un papa prigioniero e un imperatore
onnipotente. Forse non aveva ancora dimenticato con quanta
remissione Pio VI avesse trattato colla rivoluzione francese.
Il concilio nazionale adunato a Parigi, e al quale avevano aderito
anche vescovi italiani, destreggiandosi colla tradizionale
abilità di tutte le assemblee ecclesiastiche, appoggiava le
pretensioni imperiali, senza nè violare i dogmi romani
nè stabilire contro il papa alcun principio chiaro. Lo
scandalo, prima divertente per tutti i vecchi increduli della
rivoluzione e i nuovi miscredenti della scienza, diventava ignobile
per la politica servilità dei prelati e per
l'ambiguità del pontefice, resistente a Napoleone senza usare
la scomunica contro quel concilio subdolamente ribelle. L'agonia del
principio politico nella chiesa romana appariva dall'incertezza e
dalla vacuità delle ragioni intese così a mantenerlo
come a rimuoverlo. Infatti Pio VII trattò con una deputazione
del medesimo concilio, (composta di quindici fra cardinali,
arcivescovi e vescovi), del quale oppugnava l'autorità
condannandone le teoriche; e si lasciò tanto da questa
persuadere colla minaccia della rottura del concordato e d'altri
maggiori mali alla chiesa, che tolse la scomunica, cedette a tutte
le pretensioni imperiali sulle nomine dei vescovi, estese il
concordato, già per lui umiliante, alle chiese di Toscana e
di Parma, mostrandosi persino disposto a dibattere in altro trattato
la propria condizione di ex-re di Roma. Poscia, pentito, si
ritrattò. Napoleone, fatto più forte dalle concessioni
ottenute, insisteva per la loro esecuzione immediata e per
l'abdicazione alla sovranità di Roma col relativo giuramento
di fedeltà all'impero. Ma Pio VII, tornato alla
caparbietà secondo le contraddizioni della propria natura,
tenne sodo malgrado ogni pressione e il trasferimento da Savona a
Fontainebleau, ove due anni dopo doveva concedere a Napoleone vinto
e quasi prigioniero quanto aveva negato a Napoleone onnipotente.
Quasi contemporaneamente Carolina d'Austria doveva esulare dalla
Sicilia.
Il suo governo nell'isola, peggiorando ogni giorno per la
necessità di una lotta senz'idea e senza speranza, aveva
stancato prima l'affetto, poi la pazienza del popolo. Murat da
Napoli, sempre intento alla conquista dell'intero regno borbonico,
manteneva intelligenze con bassa gente, specialmente in Messina.
Carolina, avvertitane, vi spedì il marchese Artali, uomo dei
peggiori anche in quell'epoca, il quale vi menò tanta strage
di rei, di sospetti e di innocenti, da provocare per disperazione la
stessa rivolta che intendeva prevenire. Ma gl'inglesi, annettendo
capitale importanza all'occupazione della Sicilia, nella quale
tenevano quindici mila uomini e dalla quale padroneggiavano il
Mediterraneo, avvisarono, per non alienarsi affatto il popolo,
d'infrenare le sevizie e lo sperpero della corte. Era allora
ministro delle finanze il Medici, destro e dispotico e nullameno
inetto a fronteggiare tante spese; i napoletani ricoverati a corte,
gentiluomini, banditi e spie, divoravano ogni rendita; le fazioni di
Calabria, le spedizioni di Castellamare e di Procida avevano
dissestato irreparabilmente i bilanci: le trecento mila lire
sterline date a sussidio dall'Inghilterra non bastavano nemmeno al
lusso della corte.
Il parlamento di Sicilia convocato nei tre bracci dal Medici (1810),
mise per opera dei baroni sdegnati contro la corte tanta
difficoltà all'esazione dei così detti donativi che
non fu possibile ricavarne alcun partito. Capitanava l'opposizione
il principe di Belmonte, che per staccare il popolo dalla devozione
al re persuase ai baroni di rinunziare agli ancora vigenti diritti
feudali. Era questo un espediente politico ed insieme un
irresistibile influsso dei tempi. Si riformarono pure, sebbene con
criteri più polizieschi che giuridici, gli ordini giudiziari.
Medici dovette dimettersi, la regina inviperiva alla imprevista
opposizione. Tommasi, succeduto nella direzione delle finanze,
propose due espedienti: una tassa dell'uno per cento su tutti i
contratti e una vendita a lotto di alcuni beni pii; e l'uno e
l'altro fallirono per accordo unanime del popolo. Quindi i baroni,
ingagliarditi dal successo, precipitano le mosse: la regina
più feroce ancora imprigiona i loro capi e li separa nelle
prigioni delle varie isole meditando di spegnerli; se non che
gl'inglesi, gelosi del possesso delll'isola, attraversano
così ribaldo disegno. Lord Bentinck, succeduto a lord
Amherst, accorgendosi che la regina tratta con Napoleone già
scontento di Marat e abbastanza abile per servirsi di Carolina
stessa e del suo nuovo odio agli inglesi per la conquista
dell'isola, spiega un'ammirabile risolutezza. Minaccia
d'imprigionare tutta la corte, si reca in mano il governo
dell'isola, costringe Ferdinando ad abdicare in favore del principe
ereditario, libera i baroni, convoca il parlamento, e da questo fa
promulgare una costituzione all'inglese. Libertà eccessiva ed
incomprensibile in un paese ancora feudale, che volle invece il
cattolicismo unica religione di stato e la deposizione del re
qualora non la professasse! Nullameno l'abolizione dei gravami
feudali e la soppressione delle bandite rianimava il paese. Ma la
regina, relegata a Castelvetrano, anzichè impaurirsi,
riannoda intrighi e congiure, aduna i malcontenti, crede alle
promesse di Napoleone, galvanizza il codardo Ferdinando irritato per
la soppressione dei suoi privilegi di caccia, lo spinge a Palermo
perchè, affermandosi ristabilito in salute, riassuma
l'autorità regia. Nella città scoppia una sommossa;
agl'inglesi, odiati come stranieri ed oppressori malgrado l'imposta
costituzione, anzi forse maggiormente per questo, si minaccia un
altro Vespro. Senonchè Bentinck raccozza i propri soldati,
occupa militarmente Palermo, cinge di forte assedio la villa del re,
lo spaventa, gl'impone, oltre una nuova rinuncia, lo sfratto della
regina.
L'indomabile donna era vinta, però nell'ultim'ora non
piegò e non pianse: tutto l'orgoglio feroce della sua razza
le bruciò in cuore come sopra un altare sacro agl'idoli
sanguinosi dell'antico dispotismo, senza che nessuno potesse
vantarsi di aver mai potuto spegnere tale fiamma. Laonde, tedesca,
parve rampollata di Sicilia, terra di vulcani e rifugio di banditi,
nei quali circola ancora il sangue voluttuoso e crudele degli
antichi libici, dei mori, degli arabi, dei normanni, dei turchi,
degli spagnuoli.
Partita la regina per Vienna, l'opposizione di regia si mutò
in popolare. Si capì subito che Bentinck voleva comandare al
parlamento, e che le tasse da lui levate per mantenere il proprio
esercito erano un tributo della Sicilia all'Inghilterra; i
democratici si urtarono ai baroni e ai preti; questi, perduto
l'appoggio della corte e aborrendo dallo straniero, non seppero a
che o a chi puntellarsi: la stessa contraddizione di tutti gli stati
italiani, emancipati dalle idee liberali e sottomessi da occupazioni
forestiere, si aggravò sull'isola.
Da questa Bentinck minacciava tutta l'Italia; Pellew signoreggiava
l'Adriatico.
Intanto il regno d'Italia politicamente non progrediva. Al sud
dominava Murat; Roma discesa a dipartimento francese, contraddiceva
a tutta la propria importanza italiana; Milano, sede del
vicerè e capitale della Lombardia, stava sottomessa a Parigi
come un capoluogo dell'impero. La costituzione
republicano-dittatoriale, accettata piuttosto che data dalla
consulta di Lione, si era mutata in monarchica senza bisogno di
ritocchi: si era affermato che la corona d'Italia resterebbe sempre
disgiunta da quella di Francia. Ma avendo Napoleone un solo figlio,
tale separazione diveniva peggio che problematica. Intorno a questo
problema s'affaticavano già Eugenio di Beauharnais e
Gioacchino Murat, entrambi inutilmente gelosi e perduti nello stesso
sogno. Gli antagonismi federali della penisola per quanto domati
dall'ammirabile amministrazione unitaria dell'impero, ringhiavano
ancora. Genova e Venezia odiavano Milano; Roma non comprendeva nulla
al gran moto, attardata ancora nella lentezza del governo dei papi;
Torino si rammaricava per il perduto onore di capitale; Palermo
esecrava Napoli; questa desiderava più che non comprendesse
la conquista di tutta l'Italia. Unità vera nazionale non era
ancora che nello spirito di pochi, ed anche in essi piuttosto fede
poetica ed eroismo sentimentale che concetto organico. Roma sola
avrebbe potuto imporre silenzio al regionalismo, ma nella mente di
tutti era sempre la città del papa. In ogni costituzione
italiana il primo articolo affermava immutabilmente unica religione
la cattolica. Ferveva negli animi un forte desiderio d'indipendenza
piuttosto prodotto dalle violenze, colle quali Napoleone strozzava
ogni iniziativa nazionale, e dalle terribili imposte di denaro e di
sangue, che da coscienza politica. Non si aveva alcuna idea sul come
fondare la unità o stringere una confederazione. Le promesse
tentatrici dell'Austria e dell'Inghilterra sviavano gli sguardi
verso altri padroni: i regii sognavano un principe tedesco che
prendesse il posto del Beauharnais e del re di Roma; i liberali
aspettavano ancora libertà ed indipendenza dalla Francia, o
disperati di questa si univano ai regi sperando poi di sopraffarli.
Murat, insano imitatore di Napoleone, negava ogni costituzione,
anche quella giurata a Bajona.
Il regno italico non si sarebbe potuto costituire allora che contro
Napoleone, il quale lo spezzava in dipartimenti conquistati, e
contro tutta l'Europa combattente l'impero francese in nome della
libertà, ma non disposta ad applicarla rivoluzionariamente
colla soppressione in Italia di tutti i principati a vantaggio della
sovranità popolare. L'antitesi politica dell'Europa era
allora più che mai diametrale. Napoleone, portando
inconsciamente la rivoluzione in tutti gli stati, ne aveva perduto
il senso, al punto di non essere più che un imperatore del
basso impero, vivente nell'esercito e per l'esercito; il suo impero
non era che un assurdo mosaico geografico, sempre ricomposto e male
unito da grumi di sangue. Le monarchie feudali invece,
risollevandosi dall'urto delle sue conquiste, rispondevano col grido
della rivoluzione francese: indipendenza e libertà!
Così, alla vigilia dell'ultima campagna di Russia, Napoleone
restringeva il proprio dispotismo, per ottenere dall'artificiale
unità del comando i miracoli della spontaneità
rivoluzionaria del 1793; e i re largheggiavano di concessioni e di
promesse ai popoli. Ma, caduto Napoleone, le ricomposizioni
nazionali riprodurrebbero quasi tutta l'antica geografia politica,
mentre la contraddizione dell'immensa tragedia si schiarirebbe
improvvisamente: da un canto la reazione della santa alleanza,
dall'altro la rivoluzione.
Per ora il regno d'Italia guadagnava nell'aggregazione all'impero
francese idee, costumi, congegni amministrativi, forme politiche,
ordini giudiziari, coscrizione e milizie, unità d'imposte e
di leggi, e sopratutto la coscienza della propria inanità
storica. Il bigottismo regio e cattolico vi era ancora profondamente
radicato, la servilità agli stranieri mantenuta dalla
necessità di servire ad essi anche pei migliori spiriti e pei
più forti caratteri, le provincie separate e rivali non
sognavano che governi separati, mentre tutta l'Italia non era ancora
che uno dei tanti satelliti dell'astro francese.
Capitolo Quarto.
Caduta di Napoleone.
Campagne di Russia.
Il sogno dell'impero d'occidente, spingendo finalmente Napoleone
contro la Russia, lo sfracella nella sola realtà imperiale
ancora capace di avvenire in Europa. L'impero napoleonico svanisce,
mentre la Russia, attirata dalla guerra sino a Parigi, entra
definitivamente nell'orbita europea, iniziandovi il grande periodo
slavo.
La incredibile guerra s'accende tra Russia e Francia quasi senza
motivo: da un canto Napoleone, bruno condottiero dell'occidente;
dall'altro Alessandro, candido e mistico, con tutto l'oriente ancora
separato dalla storia d'Europa. La libertà, librata sulla
tirannia militare dell'uno e sul dispotismo ieratico dell'altro,
sfavilla. La guerra prepara alla storia battaglie, nelle quali
interi eserciti spariranno senza traccia, incendi di città
così vasti da illuminare tutto un regno, stragi che la neve
sottrarrà col proprio bianco mistero, al computo inorridito
della statistica. Napoleone s'avanza (1812) con seicento cinquanta
mila soldati, cinquecento generali, centodieci aiutanti; polacchi,
prussiani, austriaci, tedeschi, spagnuoli, portoghesi, svizzeri,
italiani, marciano sconosciuti gli uni agli altri e fisi alle sue
aquile: ottanta mila cavalli rumoreggiavano come turbine intorno ad
esse. Un codazzo di re attende in timido silenzio gli ordini
dell'imperatore.
La Russia aspetta intrepidamente il grande urto. I suoi soldati
superano il milione, l'Inghilterra le profonde tesori; la Svezia
attende un cenno da Bernadotte, suo nuovo re ed antico generale di
Napoleone, per discendere terribile nella guerra; Dumouriez,
l'implacabile traditore, suggerisce il piano della nuova campagna
contro la Francia. Moreau accorre dall'America per eseguirlo. Lungi,
a tutti i confini dell'immenso impero s'addensano orde di armati,
che arriveranno forse a guerra finita. I cosacchi s'adunano e volano
sulle steppe coll'impeto delle bufere, le popolazioni sciamano dalle
città, il silenzio della solitudine circonda spaventoso la
marcia degli invasori. Napoleone s'avanza da Varsavia verso Mosca,
ma lentamente, attraverso campagne abbandonate e città vuote,
dietro un nemico invisibile, che lo attira ritirandosi e lo inganna
coi cosacchi, gli intorbida le già incerte cognizioni del
paese, profitta di tutta la sua inesperienza. Invano i generali
consigliano di svernare a Vitepsck: Mosca lontana affascina
Napoleone come un miraggio. Smolensko soccombe all'invasione, ma
vendica la propria resa incendiandosi. Centomila della grande armata
sono già periti, gli altri soffrono la fame; Mosca è
ad ottanta leghe. Da essa Napoleone spera dettare la pace. Kutusoff,
supremo difensore della città sacra, battuto a Borodino
è costretto a ritirarsi, e Napoleone entra vittorioso
nell'inviolabile fortezza degli czar. Ma il medesimo eroismo, che
aveva incendiato lungo la marcia dei francesi ogni villaggio, brucia
Mosca; il più grande incendio della storia illumina la
più breve delle sue conquiste. I russi, già chiedenti
pace a Smolensko, la ricusano a Mosca; la ritirata è
inevitabile ed impossibile. L'esercito cinque volte decimato
riprende la via di Parigi lontana come un sogno; ma la Russia insta
feroce ed innumerevole da ogni banda; a Malo-Jaroslavetz gl'italiani
salvano il passo alla grande armata: la confusione del terrore
penetra nelle file fracassate de' suoi reggimenti, che non trovano
più nè generali nè bandiere, non hanno
più nè armi nè viveri, ignorano le strade e non
s'intendono l'un l'altro, non sanno ancora il perchè della
prima vittoria e non impareranno mai la ragione di quella suprema
sconfitta. Poi la neve bianca fredda incessante acciecante confonde
cielo e terra, copre cavalli cannoni strade fossi fiumi villaggi
città campagne; cancella gradi, gela armi mani occhi parole
cuori pensieri. L'esercito non è più che un'orda; la
Russia non è più che una bufera; la follia della morte
sibila fra il silenzio della neve che cresce sotto i piedi e sulle
spalle, abbattendo i vivi e seppellendo i morti. I cosacchi
turbinano, si lasciano dietro qualche macchia di sangue che la neve
nasconde prontamente, e scompaiono nella neve.
Solo Napoleone pallido, più terribile di quell'uragano,
più freddo di quel ghiaccio, più grande di quel
silenzio, cammina alla testa di tutti, pensando ancora. La sua
guardia stretta dietro di lui pare un corteo di ombre dietro un
fantasma.
Il suo XXIX bollettino all'Europa finisce con questa frase quasi
inintelligibile nella sublimità del proprio orgoglio:
«la salute di Sua Maestà non fu mai migliore».
Adsum qui feci!
Solo in tale procella di due mondi scatenati dalla sua
volontà, non vinto ancora, quantunque abbandonato dagli
alleati, tradito a Parigi da Malet, che in una notte s'impossessa
della capitale ed annunziandolo morto sta per decretare la decadenza
della sua dinastia, Napoleone diserta da quell'esercito di martiri,
del quale la forza suprema sta ancora nel seguirlo, e, traversando
la Germania insorta, accorre più rapido delle proprie aquile
a Parigi.
Appena giunto loda, rimbrotta, sferza, rianima la devozione
imperiale: a Fontainebleau (1813) circuisce Pio VII e gli appare
così grande nell'estremo sforzo di quell'ora contro tutta
l'Europa, che l'imbelle pontefice gli accorda la rinunzia al potere
temporale e la facoltà pei metropolitani d'instituire
vescovi, se Roma ritardi la loro instituzione oltre sei mesi. Era
tutto quanto Napoleone gli aveva chiesto tempestando a Savona
dall'alto di una potenza apparentemente5 invincibile; e allora il
papa aveva balbettato concedendo, contraddicendosi, ritrattandosi.
Adesso, dopo così formale abdicazione, appena sottratto al
fascino di Napoleone, protesta daccapo contro la propria debolezza.
Ma il grande atto è compiuto; il papato si è
suicidato, il papa è ridisceso volontariamente dal grado di
re a quello di primo vescovo della cristianità. Impero e
papato soccombono alla stessa catastrofe, papa ed imperatore muoiono
nella stessa abdicazione.
Intanto Napoleone non perde un minuto: la sua prodigiosa
attività, aiutata dalla mirabile organizzazione delle
prefetture, riprepara nell'impero sconvolto un nuovo esercito; la
publica opinione, stordita dal rombo di tanti disastri e dalle nuove
grida di rivincita, non sa più come giudicare: il linguaggio
dell'imperatore suona altero come nei giorni della vittoria.
Napoleone batte moneta con ogni espediente, deferisce la reggenza a
Maria Luigia, e alla testa di un esercito di coscritti si riavventa
sulla Germania, pigliando l'offensiva. Murat, al quale abbandonando
i resti della grande armata aveva ceduto il comando, inquieto per il
proprio regno di Napoli, diserta vilmente; Eugenio, che gli succede,
non vale di più; Ney, che basterebbe forse contro tanta
rovina, non è che generale e deve ubbidire al vicerè.
Ma la sesta coalizione è già stretta. Prussia,
Austria, Germania si rivoltano: Blücher è il nuovo eroe
prussiano, Schwartzenberg il generalissimo aulico dell'Austria.
Tutte le nazioni sono in piedi contro Napoleone al grido
d'indipendenza e nel nome della libertà; nullameno il terrore
del suo genio è tale che gli si offre ancora per confine il
Reno conquistato dalla rivoluzione. Egli non può accettarlo:
la follia dell'impero lo costringe a volerne i confini all'Oder e
all'Elba; la storia ha bisogno della guerra nazionale per svecchiare
e chiarire la coscienza europea. Quindi Napoleone, dimentico della
Francia, non campeggia più che per il proprio impero; a
Lützen, a Wurschen, a Bautzen la vittoria gli sorride ancora:
l'Austria ingelosita del movimento tedesco diretto dalla Prussia
propone una pace per impedire la formazione di una nuova Germania:
Napoleone, più superbo che mai, ripretende l'integrità
dell'impero dall'Illiria ad Amburgo, e la guerra si rinfocola.
Castlereagh invelenisce col proprio odio inglese lo sdegno di tutta
l'Europa, Bernadotte e Moreau parricidi combattono contro la
Francia, Jomini dotto stratega svizzero la diserta; l'eroismo
germanico emula quello della convenzione: filosofi, scienziati,
poeti, diplomatici, donne e fanciulli si gettano alla guerra.
Napoleone resiste invano: battuto a Lipsia, è già
vinto; costretto a ritirarsi in Francia, la difende colla foga di
una improvvisazione, che ripete i miracoli del 1796; ma tutto crolla
intorno. Il suo impero si sfascia come un scenario; i re
improvvisati si spogliano come tante comparse al finire del dramma.
Wellington minaccia i Pirenei, il principe di Orange solleva
l'Olanda, le città anseatiche insorgono, la confederazione
del Reno è spezzata, Illiria e Tirolo si scuotono; Murat,
stupidamente traditore, s'accorda coll'Austria; la Svizzera,
giustamente ribelle, scrolla il protettorato francese.
Proposizioni di pace rallentano indarno questa guerra che deve
congiungere con due campagne inverse Parigi e Mosca; Napoleone
ricusa tutti i patti, non promette nessuna libertà, non
domanda che soldati per vincere. La Francia non ne ha più.
Gli alleati, vinto il Reno senza colpo ferire e violati gli antichi
confini francesi, si congregano ancora a Châtillon incerti sul
come ordinare la Francia: la loro esitanza in faccia alla
rivoluzione li fa somigliare a gufi esposti al sole. Napoleone
delirante adesso esige il Reno e compensi per i propri fratelli
spodestati: suprema pretesa feudale, che solamente egli, estremo
imperatore militare, poteva affacciare! Ma Pozzo di Borgo, il suo
terribile rivale còrso, persuadendo agli alleati di marciare
su Parigi, dà la formula finale di questa guerra delle
nazioni e spezza l'incanto dell'impero.
Parigi disonora nella propria capitolazione se stessa e Marmont:
Napoleone, separato dal popolo per la fatale follia dell'impero, non
può, come Alessandro di Russia e la convenzione, bandire la
guerra nazionale; quindi abdica (1814) a Fontainebleau, riserbandosi
la sovranità dell'isola d'Elba e stipulando il ducato di
Parma e Piacenza per la moglie. Così il ridicolo si mesce al
sublime. Il suo ultimo addio non è alla nazione, ma ai
soldati.
I Borboni rientrano in Francia sottomessi ad una costituzione, che
tradiranno, ma che ha già distrutto il principio della loro
monarchia divina.
Catastrofe dei regni francesi in Italia.
In Italia il disastro della campagna di Russia aveva ingagliardito
la vecchia opposizione regio-cattolica.
Già da tempo questo partito, aiutato da Palermo, da Roma e da
Vienna, intendeva ad una restaurazione. Per esso il codice francese
era una tirannia e l'amministrazione napoleonica un saccheggio.
Colle guerre del 1805 crebbe l'agitazione: il Polesine si
dichiarò in favore dell'Austria; l'anno seguente Parma si
ammutinò nel nome del papa; nel 1807 i regii di Napoli
sconfitti si unirono agl'insorti delle Calabrie; nel 1809 tutta
Italia rispose all'insurrezione del Tirolo. La polizia di
Beauharnais, sequestrando le carte al conte di Goess, emissario
austriaco, vi scoprì compromessi tanti nobili lombardi, che
non ne osò il processo; a Como un montanaro organizzò
una banda d'insorti; ad Arezzo il clero ordinò una vasta
insurrezione, che pochi gendarmi bastarono nullameno a domare; a
Lugo un'associazione teocratico-antinapoleonica disciplinava
l'assassinio sui francesi e sui franchi muratori. Le società
cattoliche assalivano la rivoluzione in Napoleone, quelle
democratiche combattevano in Napoleone la contro-rivoluzione della
sua dittatura militare; quindi le necessità del combattimento
strinsero le due parti, mentre la sollevazione spagnuola sembrava
giustificare tale mostruosa alleanza, provando ai regii come si
potesse ritorcere la rivoluzione contro Napoleone, e ai democratici
come battersi momentaneamente sotto l'infamata bandiera dei vecchi
signori.
Poi la rivoluzione operata dal Bentinck in Sicilia contro la regina
Carolina, avendolo reso popolare, gli permise di capitanare la
propaganda regia e rivoluzionaria contro Napoleone. La carboneria
calabrese, dianzi smarrita in un misticismo evangelico, si
trasformò per la nuova influenza britannica in partito
costituzionale, infiammandosi al contatto di tutte le feroci
passioni meridionali. Murat le oppose Manhès e
giustiziò Capobianco; naturalmente questa repressione
sanguinosa accrebbe la forza della setta. Intanto Bentinck trattava
con Genova e con Milano, a quella promettendo l'antica repubblica, a
questa un regno italico indipendente.
Il partito dell'indipendenza italiana, che nel 1799 osteggiava
austriaci e francesi, regii e democratici, costretto all'assurdo
dalla forza delle circostanze, doveva ora sostenere i governi di
Beauharnais e di Murat. Quegli, figliastro di Napoleone e a lui
fedele, non avrebbe mai osato in tempo utile la rivolta necessaria a
costituirsi indipendente; questi, piuttosto generale di cavalleria
che re, impetuoso ed inetto, teatrale ed inconsapevole, non si era
ancora fuso col proprio popolo, dandogli la costituzione giurata di
Bajona, e non intendeva nulla nè di governo nè di
storia italiana. D'altronde avrebbero avuto nemici l'Austria e il
papa nell'ora imminente della grande restaurazione europea.
Il partito democratico rifugiato nelle sètte non aveva
nè un fatto nè una forma politica entro cui operare in
nome proprio, mentre tutta la storia era allora occupata dalla
dittatura militare di Napoleone e dalla reazione nazionale europea
contro la medesima. L'Italia, non essendo ancora nazione,
giacchè il regno italico sbozzato dalla rivoluzione nella
cisalpina era di fatto diventato un dipartimento dell'impero
francese, e quello di Napoli successivamente conceduto a Giuseppe
Bonaparte e a Murat appariva come un'usurpazione contro i Borboni
ancora saldi in Sicilia e riconosciuti da tutta Europa, e Roma tolta
al pontefice non era divenuta capitale d'Italia, e il neonato re di
Roma non bastava nemmeno al vacillante impero paterno; l'Italia non
poteva compiere la propria reazione nazionale assicurandosi
l'indipendenza o guadagnandosi una costituzione come la Francia, la
Prussia, la Spagna, la Germania. La forma politica del regno, dovuta
esclusivamente alla rivoluzione francese, doveva sparire sotto la
grande reazione europea, perchè nella storia le forme di
accatto non sono vitali; d'altronde la nazionalità italiana,
costretta ad essere per l'inevitabile soppressione del papato la
più rivoluzionaria d'Europa, non poteva derivare da una
reazione monarchica imitante i gridi liberali solo per odio alla
dittatura soldatesca di Napoleone.
La reazione italiana non poteva non concludere alla ristorazione
dello stato anteriore alla rivoluzione.
Quindi al fracasso dei primi rovesci napoleonici le cospirazioni
austro-liberali e regio-cattoliche cominciano a mostrarsi. Il
massacro dell'esercito italiano in Russia giustifica per la sua
inutilità nazionale il rinfocolamento degli sdegni;
l'imminenza di nuovi padroni agghiaccia gli ultimi entusiasmi per la
libertà e ravviva l'orgoglio codardo e perverso delle antiche
servitù. Murat, disertando il comando supremo della grande
armata per timori sul proprio regno di Napoli, appena giunto a
Milano, assiepato dal partito dell'indipendenza, si gonfia alla
speranza di conquistare tutta Italia, solo superstite della caduta
di Napoleone. Contro questi già covava rancore per il
contrastato sbarco in Sicilia e gli accordi segreti tentati colla
regina Carolina contro di lui. Bentinck, risoluto quanto sottile
diplomatico, scoperte tali velleità, badava ad infiammarlo
per spingerlo in mezzo agli alleati; ma coll'orecchio teso al rombo
delle grandi battaglie Murat esitava ancora per concordarsi al
più forte. Intorno a lui molti suoi generali cospiravano per
imporgli una costituzione: Guglielmo Pepe tentò di
proclamarla a Sinigallia.
Intanto Eugenio di Beauharnais, rimandato da Napoleone in Italia per
levarvi uomini e denaro, si avviluppava involontariamente nello
stesso problema di Murat, quantunque più sinceramente devoto
alla Francia e all'imperatore. La rotta di Lipsia, col togliere a
Napoleone ogni ragionevole speranza di rivincita, obbligava Eugenio
a discutere la propria posizione in Italia. Quindi il desiderio di
rimanervi mutandoglisi fatalmente nel sogno di un proprio regno
indipendente, pose anche egli una seconda candidatura regale e fece
saggiare la publica opinione da fidati. Murat se gli accostò,
offrendo di spartirsi fra loro amichevolmente l'Italia: Eugenio,
diffidente dell'emulo, non abbastanza staccato dalla Francia e
troppo poco risoluto per l'energia di un tradimento efficace,
esitava. L'opinione publica gli era contraria; l'aristocrazia lo
aborriva e infiammava l'odio popolare contro Prina e
Méséan, ministro segretario. Murat infervorato
seduceva il generale Pino per tentare un moto nel regno malgrado il
principe vicerè, e fallito nel disegno si buttava finalmente
all'Austria, avendo già occupato Roma e le Marche; mentre
Eugenio, costretto a ritirarsi sull'Adige dinanzi al nembo
dell'invasione austriaca malgrado alcune brillanti fazioni, sembrava
dimenticare i sogni regali in più generosi propositi di
vittorie campali. Ma anche questa gloria doveva essergli contesa.
Nugent, sbarcato a Goro, invadeva il Ferrarese; Bellegarde instava
da Verona; Bentinck, approdato a Livorno con quindicimila uomini,
muoveva alla conquista di Genova; Murat minacciava da Bologna.
Oramai del dominio francese in Italia non restava che la parte
compresa fra il Mincio e il Po e le Alpi: i greci e i calabresi di
lord Bentinck avevano conquistato Genova ripristinandovi
ipocritamente l'antica republica; tutti i proclami degli alleati
promettevano libertà, indipendenza, unità, confermando
nella menzogna di questo espediente la verità della nuova
ancora immatura idea politica di una terza Italia.
Alle novelle della presa di Parigi e della abdicazione di Napoleone,
Eugenio pattuiva con Bellegarde, generalissimo austriaco, il ritorno
dei soldati francesi in Francia e la facoltà agli italiani di
conservare la parte di regno occupata sino a che i loro delegati,
abboccandosi coi confederati a Parigi, stabilissero una nuova
condizione politica. Questa convenzione di Schiavino Rizzino era
l'atto mortuario del regno italico. Ma partiti i soldati francesi,
dopo grandi e tristi saluti ai soldati italiani loro affratellatisi
sui campi di tante vittorie, e dispostosi il vicerè a
ritirarsi in Baviera presso la famiglia del re suo congiunto; alla
notizia che l'Imperatore Alessandro consentiva a conservargli il
regno italico, rinacquero in lui e nei partigiani le speranza. Si
fecero brogli, l'esercito italiano aderiva, ma Milano
tumultuò. La plebaglia, assediando il palazzo del senato,
domandò la revoca di un dispaccio che riconosceva il governo
di Beauharnais, e la convocazione dei collegi elettorali; la sala
delle deliberazioni fu invasa; quindi si corse infuriando al
ministero delle finanze. Prina sorpreso nel proprio palazzo, e
strangolato, morto a colpi di ombrello. Questa sedizione, opera
della nobiltà milanese, ingelosita dell'importanza politica
acquistata nella nuova amministrazione dagli italiani convenuti
d'ogni parte del regno, fu invano frenata negli ultimi eccessi
dall'onesta energia della cittadinanza. Infatti, senza nè
attendere che i collegi fossero in numero, nè convocare
quelli dei dotti e dei commercianti, nè ammettere al
suffragio gli elettori delle provincie conquistate dai tedeschi e
presenti in Milano, si impose al regno d'Italia la decisione di
centosettanta elettori del ducato di Milano, i quali, dichiarato
vacante il trono di Napoleone, inviarono commissioni al campo degli
alleati per chiedere ingenuamente l'indipendenza del regno d'Italia
e la sua maggiore estensione possibile, sotto una monarchia
costituzionale con un principe austriaco. Al solito la religione
cattolica doveva essere l'unica religione dello stato.
Naturalmente l'Austria largheggiò di equivoche promesse,
delegando la reggenza a Bellegarde e riducendo Lombardia e Venezia a
provincie austriache. Genova, indarno invocante l'indipendenza
garantitale dal trattato di Aquisgrana (1748), fu ceduta al re di
Piemonte, talmente fortunato nel trambusto che per poco non ottenne
a confine degli stati restituitigli il Mincio. Invece gli fu
assegnato il Ticino. Francesco d'Este, cugino e cognato
dell'Imperatore d'Austria, dopo aver sperato anch'egli la corona
d'Italia o almeno di Piemonte, dovette contentarsi di quella di
Modena. Maria Luisa di Borbone ex regina d'Etruria ebbe Lucca, e
Maria Luisa d'Austria Parma in vitalizio. Ferdinando III tornava in
Toscana dal trilustre esilio e, cassando tutti i mutamenti della
rivoluzione francese, la rimetteva quale ai tempi di Pietro
Leopoldo; Pio VII, reintegrato a Roma, vi cancellava ogni traccia
rivoluzionaria.
Murat solo restava, estrema comparsa d'un dramma finito.
Intanto che il congresso di Vienna discuteva per ricomporre la carta
politica d'Europa, Napoleone dal ridicolo regno dell'isola d'Elba
tendeva occhi ed orecchi ai subiti rumori di malcontento scoppiati
colla sua caduta. Parigi, dopo di essersi degradata in così
festosa accoglienza agli alleati che lo stesso Alessandro di Russia
se ne sdegnò, pentita e fatta accorta della impenitente
malvagità dei Borboni, rammentava melanconicamente le glorie
napoleoniche fra le umiliazioni dell'occupazione straniera;
l'Austria, gelosa della nuova importanza della Prussia, le
contendeva ringhiando la Sassonia; la Russia s'accaparrava la
Polonia; intorno alla Francia temuta quantunque vinta ingrossavano
Piemonte, Olanda e Svizzera con nuovi territori. Talleyrand, con
suprema abilità di diplomatico francese, seminava gelosie fra
i re per indebolirli: i principotti della Germania esclusi dal
Congresso reclamavano; Murat, prima riconfermato da Alessandro, poi
minacciato dall'Austria e istigato dall'Inghilterra intesa ad
intorbidare il congresso, insorgeva con ottantamila uomini per
combattere i Borboni di Francia e domandava il passo.
In Italia, il fermento cresceva. I soldati, i venturieri, i
liberali, i politicanti addestrati dall'impero, si buttavano a
congiure; congiuravano Austria e i Borboni contro Murat, per lui
Francia, Russia e Prussia segretamente ostili all'Austria: questa,
dopo aver guadagnato in Italia col Lombardo-Veneto un regno quasi
uguale al napoleonico, mirava a soggiogarla tutta, o a dominarla
almeno con un protettorato pari a quello di Napoleone; Murat,
quantunque incapace di signoreggiare col pensiero tanto tumulto di
combinazioni politiche, stringeva convulsamente la spada. Una vasta
cospirazione, secondo la quale si dovevano catturare i realisti, il
generale austriaco Bubna a Torino, Bellegarde e Sommariva a Milano,
mentre Murat invaderebbe Roma e le legazioni, fu tramata. Talleyrand
vi mestava, Romagnosi e Gioia, i due migliori ingegni italiani,
v'entrarono. Ma Talleyrand, che avrebbe voluto in Italia un moto
francese in favore dei Borboni contro l'Austria, denunziò la
congiura a Bellegarde.
I Cento giorni.
In quell'istante medesimo Napoleone, fuggito dall'isola d'Elba,
approdava in Provenza.
Il vessillo tricolore ridesta l'entusiasmo, le aquile napoleoniche
volano di campanile in campanile, i Borboni fuggono salvi, fra il
disprezzo del popolo che sdegna colpirli, e la viltà
dell'aristocrazia che non osa difenderli. L'imperatore entra
trionfante a Parigi, vi concede una carta, ibrida mescolanza di idee
imperiali e democratiche, e sembra atteggiarsi a sovrano
costituzionale. Ma la sua natura e lo scopo inconscio del suo
ritorno non mirano a questo: è necessario trattare di
effimera la ristorazione borbonica, per riconfermare, nei popoli la
fede alle idee della rivoluzione e alla grandezza della Francia con
un ultimo miracolo contro tutta l'Europa. Borboni, aristocratici,
preti, stranieri, tutti allibiscono. I re disputanti a Vienna si
concordano nella paura e, suprema confessione d'impotenza,
dichiarano Napoleone fuori dell'umanità, mettendo due milioni
sulla sua testa. Così alla nuova sfida rivoluzionaria essi
rispondono come tanti bargelli con una taglia. Ma in Francia i
democratici parlamentari, benchè soli, non tacciono. La loro
opposizione irrita il carattere tirannico di Napoleone, che si
precipita alla guerra: i consigli di Carnot non gli giovano; la
demenza dell'impero lo riprende così, che invece di difendere
la Francia proclamandovi la libertà e la guerra nazionale,
prende l'offensiva con 180,000 soldati.
Murat impaziente aveva già occupato Roma, donde il papa
fuggiva, e le Marche con due colonne, la prima guidata dal Lechi e
la seconda da lui stesso; quindi, continuando le proteste agli
alleati, diramava agli italiani un manifesto per chiamarli
all'indipendenza. Ma l'impresa non era possibile6 . Murat e i
liberali si ingannavano reciprocamente colla stessa millanteria.
Questi affermava di avere sessantamila soldati e ne guidava appena
la metà; quelli promettevano immensi aiuti, e non ne fu
nulla. Solo in Romagna v'ebbe qualche moto: le altre provincie
stettero a guardare, lesinando i viveri. Nullameno gli austriaci
ripiegarono sul Po. Forse passando in Lombardia Murat vi avrebbe
trovato aiuto da sollevazioni parziali, ma lettere della moglie lo
richiamavano a Napoli, minacciata dagl'inglesi. Allora tradito
perdette ogni coraggio politico. Inseguito, si apre il passo a
Macerata con un battaglione di cerne, quindi Bianchi lo batte a
Tolentino, mentre Nugent per la Toscana si difila sul regno; una
altra sconfitta lo prostra a Ceprano, obbligandolo a riparare
fuggiasco e disarmato a Napoli. Finalmente, imitando Napoleone in
ogni errore, concede la costituzione, e stretto da Campbell,
commodoro inglese, il quale minaccia di bombardare Napoli, esula
(maggio 1815), raccomandando al nuovo governo il debito pubblico, la
recente nobiltà, gli onori e i gradi militari.
Un mese dopo Napoleone, malgrado che il Belgio siasi sollevato per
lui e la Sassonia, la Baviera e il Würtenberg abbiano risposto
al suo appello, soccombe per sempre a Waterloo dopo la splendida ed
inutile vittoria di Ligny. Oramai la sua missione è finita: i
Borboni possono essere daccapo reintegrati in Francia, il congresso
di Vienna seguitare le proprie sedute, la santa alleanza saldare
insieme tutte le monarchie di Europa con ferri benedetti,
dacchè la lirica riapparizione di Napoleone nei cento giorni
è bastata a togliere ogni credito di stabilità alla
ristorazione.
Napoleone, abbandonato dai popoli, si desta dal lungo sogno
imperiale, per riconoscersi sconfitto dalle idee liberali. La
rivoluzione, rovesciando il suo impero, trionfa del proprio
imperatore, mentre la legale Inghilterra con feroce
impassibilità lo relega come un volgare delinquente in
un'isola deserta. Là, solo sopra uno scoglio nel cospetto del
mondo, agonizza cinque anni, vigilato da un carceriere più
gelido d'un cadavere e più insistente di un'ombra,
coll'oceano per compagno, meno vasto del suo pensiero ma eterno come
il suo nome.
Murat, già obliato, approda in Corsica quasi tratto
all'incanto della cuna di Napoleone. Una stessa fatalità lo
condanna a perire, imitando da lungi l'imperatore come un paladino
generoso ed infedele. Napoleone si era ripresentato improvvisamente
alla Francia risollevandola nei cento giorni: Murat pensa di
sbarcare nelle Calabrie per riaccendervi una guerra nazionale. Ma
sperduto da una tempesta, discende a Pizzo con appena ventotto
compagni e, bello ancora come un guerriero delle leggende malgrado i
suoi quarantott'anni, grida all'Italia il comando di una di quelle
irresistibili cariche di cavalleria, che lo avevano fatto credere ai
cosacchi figlio della tempesta. Ma l'Italia non risponde; pochi
gendarmi bastano a catturarlo, e lo fucilano.
La sua ultima parola: salvate la faccia! riassume la sua vita di
cavaliere fortunoso, pomposo, sempre piumato, sempre in parata,
più superbo della propria bellezza, alla quale una corona era
necessaria come acconciatura, che del trono regalatogli
dall'imperatore.
Il partito dell'indipendenza italiana, dopo aver perduto in Prina il
suo ministro migliore, perdendo in Murat l'unico generale, non ebbe
più rappresentanti.
Il secondo periodo della rivoluzione italiana era conchiuso. La
restaurazione assettava l'Italia come prima della rivoluzione, ma lo
spirito nazionale era profondamente mutato. L'Italia dei cicisbei,
addormentata nelle riforme, stupidamente devota ai propri re,
adorante il papa come un semidio, sferzata da Parini, schiaffeggiata
da Alfieri, non esisteva più. Vent'anni di vita e di guerre
europee l'avevano trasformata. Tutti gli antichi principi erano
stati cacciati: nuovi governi, altre classi, un popolo più
omogeneo l'avevano riempita. I soldati italiani si erano battuti in
Spagna, in Germania, in Russia, dappertutto; costituzioni date,
rimutate, tolte, riconcesse, avevano parlato di un'Italia intera: il
papa aveva abiurato abdicando il papato; tutti i principi erano
fuggiti sconfessando il proprio diritto; gli stessi ultimi
conquistatori avevano publicato promesse di libertà,
d'indipendenza e di unità.
Se Napoleone non aveva potuto serbare sulla fortissima testa la
corona di ferro, e Murat era morto nello sforzo di ghermirla; se
Genova e Venezia non esistevano più, e Pio VII tornava a
Roma, Vittorio Emanuele a Torino, Ferdinando III in Toscana,
Ferdinando IV a Napoli, i gesuiti dappertutto; nessuno di questi
tornanti poteva vantarsi di riconoscere la società che li
accoglieva. Una bufera di vent'anni, squassando tutti gli spiriti,
vi aveva deposto germi di nuove idee: l'arcadia del secolo anteriore
era già lontana quanto la scolastica di san Tommaso.
Un altro uomo era nato in Italia col cittadino. La patria non era
più in nessuno di quei piccoli stati; si sentiva, si
discorreva involontariamente d'Italia. La opposizione politica si
disegnava; da un canto i re, dall'altro i popoli: quelli dietro al
papa, questi intorno alla libertà. I governi dovevano mutarsi
in congegni di polizia e in macchine di compressione contro il
pensiero nazionale per aumentare la sua forza; il carattere
uscirebbe temprato da questo attrito; tutte le scienze e le arti si
preparavano già a cospirare nella politica e colla politica.
Mentre la storia d'Italia nel medio evo e nel rinascimento aveva
avuto a principio la federazione contro l'unità, e dal
rinascimento alla rivoluzione francese invertendosi era passata
all'unità colla formazione dei tre grossi regni dei Savoia,
della Chiesa e dei Borboni; ora l'unità, diventando coscienza
per la simultanea soppressione di tutti i regni operata dalla
rivoluzione e dall'impero francese, esigeva una nuova forma unitaria
republicana o monarchica.
La storia moderna d'Italia risulterebbe quindi dal contrasto dei
residui stranieri, federali, regi e cattolici, alla sua
unità.
Gli scrittori durante la rivoluzione e l'impero francese.
Se Parini ed Alfieri preludendo alla rivoluzione francese non ne
compresero poi alcuno dei caratteri, Monti e Foscolo rappresentarono
meravigliosamente la generazione da essa sorpresa. Appena l'Italia
prese fuoco alla rivoluzione, la sua senile letteratura
ammutolì. Le carneficine di Parigi e il rombo delle guerre
francesi, caccianti austriaci, principi e papi per improvvisare
republiche servili ma rivoluzionarie, sconvolsero il classicismo
compassato dei retori, predisponendoli all'opposizione. Ma
l'abitudine della servitù e l'apparire trionfale di Napoleone
imperatore li riconciliò alla cortigianeria: allora tutti,
capi politici ed amministrativi, ministri e deputati, scienziati e
filosofi, poeti e prosatori adularono. L'oraziano Fantoni, che aveva
protestato per l'annessione del Piemonte alla Francia, non
osò continuare; Monti, di già glorioso per avere
imprecato nella Basvilliana alla convenzione regicida, maledisse
poco dopo al sangue del vile Capeto succhiato alle vene dei figli di
Francia; Cesarotti, il bardo ossianico, sentì scoppiarsi alle
labbra la tromba della gloria soffiandovi dentro il nome di
Napoleone; solamente Alfieri, sopravissuto al proprio periodo e
ributtato dal nuovo, proruppe ad un odio misantropo, che gli fece
approvare persino gli inutili assassinii sui francesi e scrivere col
sangue avvelenato del proprio cuore il Misogallo. Foscolo, classico
e republicano, coll'anima onesta di Parini e il carattere sdegnoso
d'Alfieri, si cacciò all'opposizione liberale, sognando una
Italia republicana.
Gli scienziati blanditi da Napoleone, o solitari nei propri studi,
poco intesero e sperarono nel movimento; i più si appagarono
di vani onori e del più vano grado di deputato nel collegio
dei dotti, limbo nel quale Napoleone chiudeva anticipatamente
qualunque pensiero potesse resistergli. Filosofi veramente degni di
questo nome e che potessero dare alla loro filosofia la importanza
raggiunta dallo Spallanzani, dal Volta e dal Lagrange colle
moltiplicate scoperte alla scienza, l'Italia non aveva. Mentre il
Soave trionfava dietro Condillac malgrado la forte opposizione del
Gerdil, e Draghetti cercava di fondare la psicologia sull'istinto, e
Miceli respingendo l'ontologia di Wolff s'affrettava a un sistema di
tutte le scienze, e Pino, Palmieri, Carli, Borrelli combattevano
oscuramente per soccombere sotto la fama di Tracy, Romagnosi e
Gioia, poco letti e meno stimati, guidavano il pensiero italiano
verso il secolo XIX. Superiore al Janelli, che si era smarrito entro
la vastità di Vico, Romagnosi tentò di naturalizzare
le idee straniere, ripensandole nel metodo italiano. Quindi Bonnet,
Smith, Condillac, Bentham ripassarono per il suo sillogismo entro
interminabili esposizioni polemiche, per naufragarvi in spiegazioni
non abbastanza originali e male sorrette dalla logica stecchita
degli enciclopedisti. Il suo ingegno, mezzo italiano e mezzo
francese, sorpreso nell'affacciarsi al secolo XIX dall'immenso moto
napoleonico, perdette il coraggio della propria rivoluzione malgrado
l'oscura necessità dialettica, che lo spingeva a
geometrizzare tutte le idee per assicurare la filosofìa nella
scienza. Infatti, sempre più giurista che filosofo e miglior
analitico che sintetico, Romagnosi dovette smarrirsi nella storia;
derise Hegel conoscendolo appena da alcune pagine di Lerminier,
comprese male Vico e lo combattè peggio per concludere a
questo concetto spaventato e spaventoso: che la civilizzazione in
sostanza non è che un'arte arbitraria e la storia una
composizione del caso. Così, spiritualista nella ricerca
delle cause assegnabili, si mostrò inconsciamente positivista
nelle scienze morali; e le sue opere migliori rimasero la Genesi del
diritto penale e il Diritto publico universale, quantunque il
fondamento filosofico ne sia scarso e la modernità troppo
annebbiata. Mentre la Germania aveva Hegel e la Francia Comte,
l'Italia soccombeva ancora con Romagnosi alla fatica di assimilarsi
le idee europee, o brancicava con Melchiorre Gioia tutti i fatti,
studiando invano il metodo per disciplinarli. Questi pure, seguace
del Bentham nell'economia e del Locke nella logica, tentò
coll'istinto delle terre lontane di fondare la Filosofia della
statistica e radunò nel Prospetto delle scienze economiche
sopra ogni materia i giudizi dei dotti, le opinioni dei popoli e gli
esperimenti dei governi. Se non che il numero dei fatti lo
imbrogliò; dai fenomeni non giunse ad indovinare le cause,
teorizzò arbitrariamente su fatti pochi e talvolta incerti:
non comprese la morale, trascurò il popolo, e, proclamando la
tirannide amministrativa, obliò troppo spesso i rapporti fra
l'economia politica e la legislazione, fra i periodi della storia e
i caratteri della società. Vero economista dell'epoca
napoleonica, maneggiò i numeri come soldati, lanciandoli alla
conquista del mondo senza più cura degli errori che dei morti
se la vittoria gli sottomettesse la ragione su fatti futuri, o se
nel circuire un'idea coi propri calcoli, come un esercito blocca una
fortezza, potesse far pompa di molte forze. Però, come
impossessandosi di una città non se ne conquista nè la
storia nè lo spirito, così dilatando le condizioni e
le conseguenze materiali di un'idea non se ne ottiene l'essenza.
Nullameno Romagnosi e Gioia furono i due spiriti più moderni
del periodo napoleonico, nel quale, influenzando sull'educazione
della gioventù, quantunque senza rivolgersi direttamente al
popolo, prepararono più efficacemente d'ogni altro scrittore
la sua nuova coscienza alle idee rivoluzionarie.
Vincenzo Monti
Il poeta della loro epoca, lirico, pomposo, sonante, è Monti.
Nella sua fantasia infatti le nozze di un principe romano assumono
la importanza d'una battaglia europea, la scoperta di Montgolfier
provoca lo stesso entusiasmo che la nomina a cardinale di un
protettore. Ignorando la Grecia e il greco traduce nullameno Omero
nella musica di un endecasillabo rimato sulle guerre napoleoniche;
quindi, sferzato dalla nobile ira di Alfieri, improvvisa tragedie,
nelle quali il pensiero si spampana in aforismi morali e la passione
si squaglia nell'incandescenza delle parole. Dall'assassinio di Ugo
Basville prende argomento ad un poema, che dovrebbe significare la
lotta fra Roma e la rivoluzione francese, ma non comprende nulla
alla loro antitesi: e sogna, immagina, sentenzia con vena
inesauribile, nascondendo il voto del pensiero nel rombo della
frase, perdendosi nel volo del proprio estro che uguaglia spesso
quello dell'aquila. Lo dissero un Dante redivivo, e somigliava a
Dante come uno stucco somiglia ad un marmo. Dante è la
coscienza costretta a diventare poesia dalla propria
intensità; Monti è la fantasia inconsapevole, aperta a
tutti gli spettacoli, abbandonata a tutti i venti, satura di tutti i
colori, vibrante di tutti i suoni. La confusione europea, gettandolo
dalle imitazioni classiche alle romantiche, non gli toglie nè
scioltezza, nè arditezza; ma Prometeo, la grande tragedia
dell'anima, si muta nel suo canto in una novella mitologica, le
battaglie entro i dizionari per la classicità delle locuzioni
diventano le più vere di tutta la sua vita; vede sempre in
Napoleone un Giove, e lo maschera col paludamento degli imperatori
romani, mentre Canova egualmente classico, capovolgendo l'errore, lo
scolpisce nudo col mondo in mano nel cortile di Brera. Le violenze
delle amministrazioni rivoluzionarie gl'inspirano la Mascheroniana,
nella quale vibrano robusti sdegni patriottici; poi Napoleone cade,
e questa immane caduta che trascina seco un mondo, questo immenso
bolide, forse il maggiore apparso nella storia, che traversando il
cielo di due continenti va a precipitare sopra un'isola deserta in
mezzo all'oceano, gli suggerisce appena una canzone, il Ritorno di
Astrea per gli austriaci riconducenti la reazione e la
schiavitù. Del suo tempo, della Francia, dell'Italia,
dell'Europa, Monti non ha che veduto la fantasmagoria, ascoltato i
suoni, ripetute le parole; idee e passioni non lo hanno toccato. Ma
nullameno riassume, come ogni grande poeta, il proprio paese, nel
quale la rivoluzione era piuttosto importata che originale, e le
idee si combattevano come gli eserciti per trionfare altrove. Monti
non riflette, non ama, non odia, ma si scalda a tutti i fatti,
s'interessa a tutte le scene, applaude tutti i vincitori, incita
tutti gli sdegni, dà il volo a tutte le speranze, e per
evitare rimpianti crede sempre a quello che appare. Quindi
l'arcadia, calpestata da Parini e da Alfieri, rifiorisce con lui in
una poesia, nella quale l'uomo è fuori del poeta.
Ugo Foscolo.
Ma poeta e uomo sorgevano contro Monti in Foscolo; se quegli era
stato il più numeroso poeta per tutti i vincitori; questi
è l'eroe più nobile del partito rivoluzionario, e la
poesia deriva in lui dalla politica e viceversa. Materialista ed
entusiasta, scettico e credulo, egli si dibatte già nel
grande dramma del nostro tempo, fra le necessità atee della
scienza e quelle mistiche della religione. Come erede del secolo
XVIII, Foscolo è miscredente, come profeta del secolo XIX,
sentendo che la fede sta per riapparire nel mondo, soffre di non
poterla accogliere e la rimpiange come una illusione. Non è
nemmeno italiano: l'Italia è per lui una patria d'accatto. Ma
alla sua coscienza la patria è più necessaria della
luce per gli occhi. Foscolo non può sentirsi uomo che
riconoscendosi ed essendo riconosciuto cittadino. La tragedia
spirituale gli si muta quindi in dramma politico. Questo si acuisce
al punto da comunicargli nel Jacopo Ortis la malattia del suicidio;
senonchè la forte natura del poeta trionfa, l'esercizio della
vita militare lo risana, le crisi della politica lo irrobustiscono.
Fin dal 1795, essendo imprigionato dalla inquisizione di Venezia per
cospirazione, e già degno di ricevere dalla madre, una greca
di Zante, l'eroico consiglio: «muori, figlio mio, piuttosto
che denunciare i tuoi amici». Il tradimento di Campoformio
contro Venezia lo sprofonda sempre più nella democrazia;
più tardi soldato volontario nelle truppe della cisalpina,
vagheggiando l'impresa d'Italia, la riconosce immensa, desolante,
impossibile. Ma quando l'astro di Napoleone sta per abbacinare il
poeta, e Monti brucia verso l'imperatore tutti gli aromi delle
proprie strofe, e Giordani disonorando la dignità della prosa
italiana gli tesse il più ignobile dei panegirici, Foscolo,
smanioso di patria e di libertà, gl'impone di mutarsi in un
Washington per creare l'Italia, come un impresario avrebbe potuto
chiedere a Goldoni di mutare lo scioglimento di una commedia. Il
segreto, dell'epoca gli sfugge, le improvvisazioni effimere delle
violenze imperiali e la viltà di tutte le insufficienze
democratiche lo sbalestrano fuori del mondo fra i Sepolcri,
ispirandogli il carme più sublime del secolo. Quindi,
ammalandosi di quella stessa miseria d'Italia che vorrebbe guarire,
Foscolo dalla cattedra di Pavia predica e sferza, grida nelle
liriche, protesta sul teatro colla Ricciarda e coll'Ajace.
Ma coloro stessi che rispondono alle sue parole non le comprendono.
Alla rotta di Lipsia rompe il proprio bando per partecipare alle
congiure di Milano contro Beauharnais, le quali invece di concludere
alla libertà producono la ristorazione del patriziato
milanese e dell'Austria colla più assassina delle sommosse.
Laonde Foscolo, troppo tardi consapevole dell'inganno, s'invola
nobilmente all'infamia di nuovi onori nella lontana Inghilterra. Ma
nemmeno sulla classica terra della libertà trova pace.
Perseguitato dalle calunnie di tutti, esaurito dalle proprie
passioni, sfiduciato persino della storia d'Italia, si difende
ancora dall'accusa di non combattere l'Austria col rispondere che
ogni battaglia sarebbe inutile; finchè cessa di scrivere, e
corroso dalla miseria si spegne silenziosamente nell'oblio. In
questo periodo l'ira fantastica e rettorica di Alfieri è
diventata passione in lui, senza che il concetto di una nuova Italia
gli si sia abbastanza schiarito nella mente. Quindi egli la chiese
egualmente alle sètte, a Napoleone, alla cisalpina,
inconsapevole dei principii, dei modi che le sarebbero stati
necessari; difese la republica di Venezia, forma esausta di
più esausto principato; sostenne il papa contro Napoleone,
non accorgendosi che l'abolizione del papato era il primo passo
verso un futuro regno italico; non comprese il popolo e che dal
popolo solo poteva uscire la nazione. Quantunque più vero del
Monti, era anch'egli un classico ostile alla modernità,
appartato nell'orgoglio che il pensare e il sentire sinceramente
bastassero. Odiava la turba, il commercio, la volgarità
rivoluzionaria; adorava la libertà senza sospettare che la
democrazia fosse appunto il trionfo del numero sul genio e quella
plebea uguaglianza, contro la quale aveva nobilmente protestato nei
Sepolcri.
I poeti dialettali.
Fra la coscienza solitaria del Foscolo e l'incoscienza espansiva di
Monti satireggiava l'istinto del Porta. Questi sorge improvvisamente
entro la pesante atmosfera del dialetto milanese per diradarla.
Prima di lui la Lombardia non ha poeti o tipi popolari consacrati
alla gloria della satira. L'antico Beltramo di Gaggiano, cacciato
nell'oblio dal Meneghino del Maggi, non è più
ricomparso: ma lo stesso Meneghino, impantanato nelle quattro
commedie attraverso le quali si era mostrato, sembrava presso a
soffocare, malgrado tutti gli sforzi del Balestrieri per allungargli
la vita. Senonchè colla rivoluzione francese Porta compare
sulla piazza di Milano come uno sconosciuto onnipotente, al quale
tutta la città appartiene tosto; le parole gli svelano le
Idee, le idee gli disegnano le figure, le figure gli danno la scena.
La sua strofa rapida ed aerea coglie a volo le rime, scintilla,
trilla, si modula in tutte le gole, si adatta a tutte le
intelligenze. Milano stupita impara i versi prima di conoscere il
poeta; questa nuova poesia è così perfetta che
naturalmente resterebbe anonima come i proverbi. Che importa il nome
del poeta? Ma egli è al centro dell'anima popolare, pensa,
sente, palpita, soffre, ride con essa. Porta, oscuro impiegato
napoleonico, rovista in quel sommovimento della vecchia
società per trarne fuori la caricatura. Il suo occhio
è infallibile; la sua mano, schizzando la figura della
marchesa Travasa, una discendente di donna Quinzia del Maggi,
improvvisa un capolavoro. La marchesa Travasa parve una rivelazione
e diventò un funerale: tutta la vecchia aristocrazia
morì in lei. Ma il poeta nell'orgasmo della propria caccia
colpisce monache, borghesi, preti, cardinali, scuole del Lancastro,
romanticismo e liberalismo. Il suo buon senso inesorabile fa
giustizia di tutto, la sua satira stende l'inventario di quel mondo
in dissoluzione, obliandosi nella gaiezza dell'imprevisto e nella
comicità dei difetti. Non è più la satira di
Parini e non è ancora quella di Giusti; il poeta non condanna
ma deride, non odia ma sberta, non strappa ma cincischia. Quel
mondo, che si sgretola, non è più abbastanza
importante per irritarlo; l'altro, che vi si sostituisce, non
è ancora abbastanza organico per contentarlo. Quindi Porta,
dopo aver ghignato sull'aristocrazia e sul clero, sorride sul
popolo. I suoi due eroi Giovanin Bongée e
Marchionn-di-gamb-avert, quest'ultimo tratto dai Dialoghi del Maggi,
rappresentano non solo la minchioneria ma la viltà del popolo
milanese, sul quale s'accavallano le onde sanguigne dell'immensa
tempesta napoleonica senza che possa mai sollevarsi. Giovanin
Bongée e Marchionn-di-gamb-avert non sanno farsi rispettare
dai soldati francesi, che tolgono loro la moglie dopo l'amante; sono
emancipati e non aspirano ancora a surrogare i padroni dispersi
dalla rivoluzione. Il liberalismo dei democratici imploranti la
libertà dall'imperatore, il dispotismo dei regii promettenti
la libertà nella ristorazione, la nullaggine dei governi
ridotti ad amministrazioni dai francesi, la buaggine dell'Italia
più che mai in balia del caso, senza coscienza, senza stato e
senza storia, fanno ridere il poeta; ma il suo riso, abbastanza
forte per non sgomentarsi in tanto cataclisma, è già
una speranza. Dietro al buon senso si prepara il carattere, dietro
al buon cuore si addestra il coraggio; quindi pochi anni dopo
Tommaso Grossi, nell'ammirabile novella dialettale La fuggitiva,
dipingendo la tragedia di una fanciulla che fugge da Milano per
seguire confusa nel tumulto della grande armata il proprio amante
ucciso poi alla Moscowa, getta il ponte dalla satira alla
drammatica. La coscienza ha trovato se stessa nell'eroismo
dell'amore.
Milano, la città più avanzata d'Italia, è
quindi la sola che con Porta arrivi a dare la satira di se medesima.
La poesia dialettale veneziana, dal primo periodo del Calmo e del
Veniero attraverso l'altro ricchissimo del Baffo, del Labia, del
Gritti e del Lamberti, finisce nella insignificanza del Buratti
ostile al regno italico e plaudente ai tedeschi come il Monti. La
poesia meridionale invece ha nel Meli un poeta degno di rivaleggiare
con Porta, e che rabbrividisce egli pure al solo pensiero della
rivoluzione. Ma poichè la Sicilia ha sempre sognato la
propria autonomia, il Meli ne tratta il dialetto come una lingua.
Nulla di più soave e di più elegante della sua poesia:
Petrarca pare grossolano e Poliziano sgarbato al confronto. Se non
che il Meli, natura riflessiva e sentimentale quanto il Porta era
caustico ed espansivo, sembra vivere tuttavia nel tempo di Rousseau
e così soffre ancora di quella sua triste malattia che vedeva
nella natura un rifugio dalla società. Il suo pessimismo si
placa solo nell'idillio, o prorompendo invece di fare la critica
alla società, come nel grande ginevrino, discende nel fondo
della coscienza per processarvi amaramente l'opera di Dio. Meli,
contemporaneo del Porta, gli è anteriore di un periodo. La
bufera della rivoluzione, che caccia da Napoli Ferdinando e
Carolina, non basta a trarlo dal suo sonnambulismo: anzi il poeta
entra nella villa favorita dell'ignobile tiranno per baciargli la
mano e chiedergli come prezzo dei propri versi una pensione. Quando
un fulmine colpisce la statua dell'Europa a Palermo, Meli, spaurito
dell'augurio e temendo che le genti collettizie della rivoluzione
giungano anche in Sicilia, prega santa Rosalia di preservare l'isola
da tanto flagello: finalmente nel Sogno di venticinque anni racconta
d'aver sognato che l'Europa era sossopra con tutti i troni
rovesciati e un milione di uomini morti e morenti, e di essersi
destato felicemente perchè tutto era ancora a posto.
Ecco l'incomparabile poeta del mezzogiorno in faccia alla
rivoluzione.
Il popolo italiano, cacciatovi dentro a colpi di baionetta, non la
cantò nè per amore nè per odio, non vi
sentì la propria vita rinnovata, non vi scorse il ritorno
della gloria colle guerre, non vi distinse l'arrivo di nuovi
principii fra le catastrofi: quindi a Milano, la città
più avanzata e nullameno soccombente nell'ultima ora ad una
reazione della propria aristocrazia austriacante, Porta, cogliendo
l'assurdo di quella prima ricomposizione italica fra un patriziato
senza carattere politico, una borghesia senza carattere nazionale e
un popolo senza carattere morale, non potè scrivere che una
satira sana ma incosciente, irresistibile e leggera, nè
amara, nè tonica.
Capitolo Quinto.
L'Italia sotto la reazione della santa alleanza
Il trattato di Vienna.
Apparentemente la rivoluzione francese è vinta. Sulla
republica e sull'impero si rialza stranamente la antica monarchia
dei Borboni, che, accettando una Carta, sembra prestarsi ad un
giuoco troppo breve per essere pericoloso. Le invettive alla
rivoluzione scrosciano ancora da ogni parte d'Europa: l'Inghilterra,
rispettata rappresentante della libertà, insinua con
Castlereagh le diffidenze più caparbie contro i principii
rivoluzionari; la Prussia, già sospinta nel nuovo periodo
della nazionalità germanica e quindi forzata ad irrobustire
la propria dinastia per mutarla in pernio storico, seguita a
blaterare con ingenua magnanimità contro l'invasione
napoleonica; l'Austria, ridivenuta suprema mediatrice nelle ultime
coalizioni e cresciuta nella longanime resistenza a massimo impero,
si instituisce depositaria dell'autorità; la Spagna,
rientrata nell'indipendenza, s'infervora intorno all'ignobile
Ferdinando VII ricantando l'eroismo della propria guerra contro i
francesi; la Russia, attirata dall'immensa cometa napoleonica
nell'orbita europea, vi porta un misticismo politico oscillante con
ritmo misterioso fra libertà e servitù.
Nei trattati di Vienna, complemento a quello provvisorio di Parigi,
l'Europa preparavasi a restaurare il prisco edificio politico,
riponendo in bilancia come a Vestfalia tutti i propri interessi. La
rivoluzione non era stata che una sommossa e l'impero napoleonico
che un'avventura; ma poichè si riconosceva attraverso le
antitesi delle loro due forme politiche come un medesimo principio
li avesse prodotti lanciandoli vittoriosi sull'Europa, si mirava a
contrapporne loro un altro, rinfiancato con unanimi affermazioni di
alleanze e con trasposizioni arbitrarie di popoli soggetti.
Naturalmente questo principio doveva essere l'autorità regia
delegata da Dio e testimoniata dalla religione. La nuova importanza,
ottenuta dalle monarchie colla umiliazione della Francia, parlava
abbastanza chiaramente contro di essa, che da tanto eroismo e da
tanto genio non aveva per colpa del principio rivoluzionario
guadagnato se non un restringimento di territorio e una elemosina
insultante di vita sotto lo scettro dei Borboni. Senza di questi si
credeva che sarebbe stata smembrata.
Non si vedeva allora che i trattati di Vienna erano un altro effetto
della rivoluzione francese, come già quello di Vestfalia era
stato una conseguenza della rivoluzione protestante. L'accordo di
tutte le monarchie per resistere al principio rivoluzionario finiva
fatalmente a riconoscerlo più vitale che mai. Un profondo
dualismo divideva quindi l'Europa: lo spirito rivoluzionario rimasto
nei codici, nelle carte, nelle memorie, nelle fantasie e nelle
coscienze, proseguiva la propria opera latente, disonorando negli
animi più eletti quel congresso di sovrani, che per
assicurarsi sul trono mentivano alle promesse di libertà
prodigate ai popoli nel mattino delle insurrezioni federali.
D'altronde il concetto politico della nuova santa alleanza, redatto
in stile mistico dallo czar Alessandro, era peggio che
inintelligibile ad un'Europa uscita dalla scientifica empietà
del secolo antecedente. Questi quattro massimi re che si obbligavano
diplomaticamente alle virtù evangeliche, giurando di amarsi
di una indissolubile amicizia fraterna, governando i sudditi da
padri, mantenendo sinceramente la religione e la pace,
considerandosi come membri di una medesima nazione soggetta a
Gesù Cristo supremo imperatore, e da lui incaricati di
dirigere le varie parti della stessa famiglia, dovevano
necessariamente sembrare stravaganti al vivido spirito del secolo
già affrettantesi a rivoluzionare tutte le scienze naturali e
sociali. L'abdicazione della personalità politica, imposta al
popolo dalla santa alleanza in nome della beatitudine patriarcale e
del dogma cristiano, era una demenza, alla quale gli stessi
diplomatici del congresso dovevano segretamente concedere ben poco
rispetto. Infatti l'Inghilterra, ormai vecchia nelle proprie
libertà legali, vi si ricusò: lo czar, rientrando nel
proprio immenso impero barbaramente ieratico ed esercitato da un
continuo moto di espansione alle frontiere turche ed orientali,
dovette invece riconfermarvisi senza poter insistere efficacemente
al di fuori sull'Europa occidentale: la Prussia se ne giovò
all'interno per disciplinare il nazionalismo dei propri popoli entro
la forma monarchica e sotto la direzione della propria dinastia:
l'Austria per posizione storica e per necessità dialettica
rimase sola rappresentante della santa alleanza contro ogni
innovazione rivoluzionaria. La sua politica fu quindi di reazione e
di compressione. Ma siccome le conseguenze dei principii liberali
sollecitate dall'inesauribile fecondità delle forme
rivoluzionarie penetravano per ciascun vano delle leggi avvelenando
ogni differenza del suo impero eterogeneo, la diplomazia austriaca
assunse terribili modi inquisitoriali. Per impedire le
manifestazioni del pensiero si impegnò contro di esso in una
guerra universale senza requie e senza fine. Talleyrand,
coll'inventare allora la parola legittimità in favore dei re,
suggerì ai popoli quella di liberalismo: mentre la
rivoluzione, condannata dall'inerzia nei fatti a raddoppiare di
vigore nell'idea, trascinava la monarchia ad una discussione di
principii, per imporle anticipatamente la sconfitta.
La nuova geografia politica d'Europa differì dalla vecchia,
ma non rivelò abbastanza l'immenso mutamento avvenuto nella
storia europea. La Russia si accrebbe della Finlandia, della
Moldavia e della Bessarabia; la Prussia si raddoppiò quasi,
divorando gli stati inferiori limitrofi; nella Germania, sempre
unita federalmente, Prussia ed Austria si equilibrarono, traendola
colla fatalità del loro inconciliabile dualismo a stringersi
piuttosto intorno a quella che a questa, per formarsi in nazione. La
supremazia onorifica della dieta restava all'Austria, quella
politica cresceva alla Prussia.
I Paesi Bassi furono ceduti all'Olanda come doppio freno per la
Francia e per il settentrione; l'Italia ricadde sotto il
protettorato austriaco.
Condizioni italiane.
Tutte le vaporose speranze suscitatevi dal trambusto rivoluzionario
erano svanite ai primi venti freddi della reazione: le promesse
russe nel 1805 di unirla in una confederazione di tre soli stati,
alla quale sarebbero alternativamente capi il re di Piemonte e
quello delle due Sicilie col papa gran cancelliere; le altre
dell'arciduca Giovanni nel proclama del 1809, quelle del Nugent e
del Bentinck nel 1813 e 1814, le ultime del Murat e del Beauharnais
più segrete e credibili, tutte erano egualmente dimenticate.
L'Austria rassicurata nelle sue prime menzogne all'Italia dal
trattato di Praga (1813), libera ora per quello di Vienna, si
disponeva a stendere sulla penisola il sudario gelato della propria
tirannide.
Gli stessi principi avrebbero forse con unanime codardia invocato il
suo appoggio, se con pronto ed insidioso proposito non si fosse ella
stessa affrettata a porgerlo. I popoli, ancora senza vera opinione
politica, rientravano inconsciamente sotto la ristorazione quasi a
riparo della troppo lunga procella rivoluzionaria, mentre i
principi, annullati dalla rivoluzione, ritornavano al potere con un
odio esasperato da umiliazioni ventennali, preceduti da uno sciame
di aristocratici ingordi ed abbietti, intolleranti ed intollerabili.
I preti, deliranti di ignobile entusiasmo per il ripristinamento del
potere temporale, si accingevano a riconquistare sulle coscienze
l'antica autorità medioevale; la stessa borghesia, più
implicata nella rivoluzione, per l'impossibilità
d'intravedere salvezza in qualunque sistema politico avvenire, si
lasciava andare ad una rassegnazione suaditrice ai nuovi despoti di
ogni assolutismo.
L'imperatore Francesco, gelida natura di tiranno, si era affrettato
a dichiarare coi delegati lombardi e col marchese di San Marzano
legato sardo a Vienna, che i lombardi dovevano dimenticare di essere
italiani. La costituzione, se può così chiamarsi,
conceduta al Lombardo-Veneto dichiarato regno, consisteva nel
governo di un vicerè e in due ordini di congregazioni
provinciali e centrali, diciassette le prime e due le seconde. Le
congregazioni centrali si componevano di un deputato nobile e di un
borghese, mandati da ciascuna provincia e da ogni città
regia: le città regie erano tredici in Lombardia e nove nel
Veneto. Non vi si era eleggibile che possedendo un reddito annuo di
quattro mila scudi in beni stabili, mentre per le congregazioni
provinciali bastavano soli duemila. Ineleggibili i sacerdoti e i
publici funzionari; gli eletti duravano in carica sei anni; per
l'elezione alle congregazioni provinciali ogni municipio proporrebbe
un nobile ed un borghese; ogni congregazione provinciale trarrebbe
da quei nomi la terna da proporsi alla congregazione centrale, e il
governo nominerebbe. Per le congregazioni centrali i municipi
proponevano, le congregazioni provinciali facevano la terna, e il
governo sceglieva. Questa rappresentanza senza rappresentanti doveva
dare avviso sulle operazioni censuarie, sulla distribuzione delle
imposte, sulle rendite e sulle spese dei comuni,
sull'amministrazione degli istituti di beneficenza: il governo
l'ascolterebbe o no. Il governatore adunava, presiedeva, proponeva
il lavoro, decideva, licenziava; anche per indirizzare suppliche
all'imperatore occorreva il permesso.
Queste le massime concessioni. Poi nel 1815 l'Austria, fatta
più sicura dalla calma apparente di ogni spirito
rivoluzionario, introdusse la coscrizione militare e i propri
codici, secondo i quali bastava un indizio solo a togliere la
libertà ad un accusato: a questo si negava qualunque
conoscenza sugl'indizi dell'accusa nei casi urgenti, e tutti i casi
potevano esserlo egualmente; il giudizio era statario.
L'arciduca Antonio, preposto al governo del regno, sembrò
vergognarsene e si dimise: l'arciduca Ranieri suo successore, meglio
scelto dal Metternich, non intese che a far danaro, lasciando
facoltà di ogni ribalderia ai governatori che ne commisero
siffattamente da indignarne persino storici tedeschi come il
Gervinus.
In Toscana il ritorno di Ferdinando III, al quale l'Austria aveva
preservato il ducato nel congresso malgrado le insistenze del
Labrador legato spagnuolo che lo pretendeva per l'ex-regina
d'Etruria, ricondusse il governo delle leggi leopoldine contro ogni
innovazione republicana o napoleonica. Secondo le tradizioni della
propria casa, il granduca fu mite e cominciò da un'amnistia
generale; ma il suo concetto di uno stato patriarcale senza
nè carattere nè idee politiche, frollato nella
mansuetudine di una vita di obbedienza e di comodi materiali, era
forse più nocivo delle feroci reazioni piemontesi e
napoletane allo spirito nazionale. Una polizia vigile e destrissima
chiamata per ironia buon governo, vi finì di avvelenare la
publica coscienza, insidiandone tutti i pensieri: furono soppressi i
monti di pietà, chiuse le scuole delle arti, richiamate al
governo le nomine dei gonfalonieri e dei priori schiacciando
così i resti della vita municipale, patteggiata con Roma la
sanatoria dei beni ecclesiastici venduti, riaperti molti conventi ma
ricusati i gesuiti. Il Fossombroni, il Corsini e il Frullani, nuovi
ministri, resisterono nobilmente alla reazione, che avrebbe voluto
retrocedere oltre le riforme leopoldine; quindi evitarono
l'insidiosa offerta dell'Austria per una lega di tutti i principi
italiani sotto l'alta direzione di Vienna, senza poterne però
scansare l'alleanza: l'Austria doveva concorrere con 80.000 uomini e
la Toscana con 6000 alla difesa dei reciproci territori.
E la Toscana parve allora modello di governo: infatti a Napoli, a
Torino, a Roma le cose andavano ben peggio.
Re Vittorio Emanuele I, tornato dalla Sardegna, nella quale
dimorando otto anni non aveva procurato miglioramento di sorta,
quantunque la condizione del paese senza strade e senza commerci,
colle terre incolte per difetto di bestiame e soggette quelle dei
poveri a servitù di pascolo e ad imposte esorbitanti, mentre
quelle dei ricchi e le città ne erano esenti e il clero
dissanguava le popolazioni già esangui colle decime, fosse
miserrima, non recava che odio alla rivoluzione in una mente chiusa
ad ogni idea moderna. Vile e superstizioso, vano ed implacabile,
circondato da ingorda aristocrazia, si accinse con un corteo di
fantasmi a ricostrurre il passato.
Quindi ristabilì le dignità e i dignitari del 1798,
prendendone i nomi nel vecchio calendario del Palmaverde,
abolì le ordinanze dei francesi, ripristinò la
nobiltà, le commende, i fedecommessi, le primogeniture, i
fori privilegiati, gli uffici di speziale e di causidico, le
sportule per i giudici, l'interdizione dei protestanti, i distintivi
degli ebrei, le procedure segrete, ogni tortura. Dando forza
retroattiva all'editto 21 maggio 1814, che richiamava le
costituzioni del 1770, turbò le persone e i patrimoni,
annullò i matrimoni contratti civilmente, cassò gli
affitti non cessanti nel 1814, sbandì i francesi stanziati
nel regno dopo il 1796, trattò di chiudere la via del
Moncenisio e di abbattere il ponte sul Po, perchè costruzioni
francesi. Destituì venticinque professori d'università
nominati dalla Francia, e di demenza in demenza richiamò alle
bandiere i coscritti del 1800 supplendo coll'ingaggio ai morti ed
agli invalidi. Ipoteche, riforme amministrative, regolare
graduazione di giudizi, tutto fu cancellato; imposti comandanti
militari alle provincie con giudici mal pagati e costretti a
vivacchiare colle sportule dei litiganti. Sola istituzione
napoleonica conservata, la polizia, ma affidandola a gendarmi feroci
ed irresponsabili. Non più sovranità di legge: lettere
regie limitarono contratti, ruppero transazioni, annullarono
sentenze per arricchire la nobilaglia impoverita; infamie e brogli
imperversarono fra iattanze militali ed aristocratiche, al di sopra
delle quali l'implacabile egoismo del re faceva pensare alle
peggiori mostruosità dei governi orientali.
La cosa giunse a tale che i governi di Francia, d'Inghilterra,
persino di Russia, ne fecero rimostranze consigliando a Vittorio
Emanuele un temperato regime costituzionale. Ma solamente il
minaccioso dilatarsi dell'influenza austriaca arrestò questa
pazza reazione del Piemonte, e persuase al re la necessità di
ordini più vitali. Infatti per riordinare l'esercito ricorse
al generale Gifflenga di scuola napoleonica, e col conte Prospero
Balbo surrogò agl'interni l'inettamente reazionario
Borgarelli. Poco dopo, alle insistenti proposte dell'Austria per una
lega di principi italiani, potè, validamente patrocinato
dallo czar, non solo ricusarsi come la Toscana, ma tentare contro la
stessa santa alleanza una lega segreta di stati minori, quali la
Sassonia, la Baviera, Napoli e Roma, che naturalmente abortì.
In questa iniziativa e nella resistenza opposta all'Austria, intesa
ad ottenere dal vecchio re l'abolizione della legge salica per
trasportare sul capo di Francesco d'Este, duca di Modena e marito
della sua unica figlia Beatrice, la corona contro i diritti del ramo
Carignano, giacchè nemmeno Carlo Felice, fratello di Vittorio
Emanuele, aveva figli, fu la salvezza e il grande avvenire del
Piemonte.
Nei due ducati di Lucca e di Parma, scaduti all'infanta Maria Luisa
di Borbone e a Maria Luisa d'Austria moglie di Napoleone, con
diritto di riversibilità di Lucca alla Toscana e di Parma ai
Borboni di Lucca nella morte delle due duchesse, la reazione
somigliò piuttosto a quella della Toscana che di Piemonte.
L'ex-imperatrice, perduta in ignobili amori, mentre Napoleone
grandeggiava ancora alto sul mondo dallo scoglio di Sant'Elena, non
ebbe maggior coscienza politica che morale e concesse all'Austria
facoltà di presidio in Piacenza, lasciando il governo del
ducato agli amanti.
Del marito e del figlio, fra un poema conchiuso e una tragedia che
incominciava, ella non sentì nè la grandezza nè
la pietà: cattiva sposa e madre peggiore, non si
ricordò di essere stata imperatrice e s'accorse appena di
essere duchessa; anodina nipote di Carolina di Napoli e di
Antonietta di Francia passate attraverso la rivoluzione, quella
coll'eroismo disperato della tirannia, questa col romanticismo
infelice della regalità, ebbe i difetti di entrambe senza il
prestigio del loro carattere.
Maria Luisa di Borbone, traslocata dall'effimero ducato a Lucca,
mutò i capricci amorosi della gioventù nei capricci
bigotti della vecchiaia, senza lasciare del proprio estremo
passaggio politico altra traccia che l'aver ricusato per suggestione
dei preti l'offerta delle tre legazioni come nuovo ducato, prima e
indarno pretese dall'Austria.
Francesco IV di Modena invece, gareggiando nella reazione con
Vittorio Emanuele I e Ferdinando IV, l'inaugurò con publico
bando, nel quale ripristinava il governo anteriore al 1797. Quindi
vennero ristabiliti cogli antichi codici i tribunali ecclesiastici e
i privilegi dei nobili, rimessi i gesuiti affidando loro
l'istruzione della gioventù. Una persecuzione poliziesca
insidiava tutti coloro segnalatisi per valore o per impieghi nella
rivoluzione e nell'impero napoleonico; si violavano case e
coscienze, si compravano segreti, s'inventavano congiure. Francesco
IV, ghibellino a Vienna, guelfo a Roma, gesuita dovunque, concepiva
politica e stato come gli antichi signori del rinascimento,
risognando impossibili combinazioni che gli dessero tutta l'Italia.
Si era tenuto così sicuro della successione di Piemonte per
la propria moglie Beatrice, che nel 1814 aveva fatto ai collegati
formale domanda del porto della Spezia, a fine di avere aperta una
via facile e sicura per l'isola di Sardegna. Bazzicava preti per
mutarli in istrumenti di politica, come avrebbe trattato coi
carbonari per comprometterli nei propri disegni; ma altrettanto vile
nell ingegno che nel carattere, così inetto generale che
angusto statista, parodiando inconsapevolmente gli antichi signori,
non era più che una caricatura fra i nuovi despoti.
Degno di lui Ferdinando di Borbone, IV a Napoli e III in Sicilia,
profittò della propria reintegrazione a re delle due Sicilie
per intitolarsi I. Quantunque sotto la pressione di Bentinck avesse
conceduto agli isolani una costituzione imitata sul modello inglese,
poscia diffuso contro l'ultima impresa di Murat un proclama al
popolo napoletano, nel quale riconosceva la sovranità
popolare promettendo ogni libertà costituzionale, appena
sicuro di sè cassò la costituzione siciliana invisa
all'Austria e non più difesa dall'Inghilterra, la quale
spinse l'abbiezione fino a consegnare nelle mani del tiranno i
nobili siciliani recalcitranti. A Napoli invece il re, dimentico di
tutte le promesse, rientrò nella reggia con aspetto
così grullo che gelò l'entusiasmo stesso dei lazzaroni
usi alla teatrale maestà di Murat. Si ricostruì
l'antico governo: il regno continentale fu diviso in quindici
provincie, la Sicilia in sette valli; nuovi codici compilati a cura
del Tommasi, miglior ladro che giureconsulto, tolsero quasi tutti i
benefici dei codici napoleonici, s'introdussero delitti di lesa
maestà e quattro gradazioni nella pena di morte; degli
antichi tre bracci parlamentari non fu più parola. Il
Tavoliere delle Puglie, distribuito dai francesi fra piccoli
possessori, fu ridato in possesso comune, danneggiandone i recenti
agricoltori ed inceppandone per sempre l'agricoltura. Il governo
affidato al Canosa infuriava con ogni sorta di ribalderie e di
ribaldi, opponendo la setta assassina dei calderari alla setta
politica dei carbonari: rifermentavano le ferocie della prima
reazione, bande armate infestavano con tanta spavalda sicurezza che
si dovette patteggiare con esse quasi con nemico regolare, per
scannarle poi violando la capitolazione. Col concordato di Terracina
(1818) si riconcessero alla curia romana pressochè tutti i
privilegi cassati dal Tanucci insino alla rivoluzione,
indietreggiando di mezzo secolo in un giorno; le finanze esauste per
mala amministrazione, per peggiore assetto d'imposte e per
depauperamento del paese non bastavano più alle ingenti
spese, dacchè l'alleanza dell'Austria era costata 25 milioni
di lire ed altrettante e più ne costavano le truppe
austriache stanziate nel regno. Inoltre le codarde liberalità
del re, fra le quali 60,000 lire al Metternich come duca di
Portella, 40,000 al Talleyrand duca di Dino e al Bianchi generale
austriaco nominato duca di Casa-Lanza dal paese dell'ultima
convenzione con Murat, 70,000 ducati d'oro a Nugent, ottenuti colla
vendita a vilissimo prezzo dei vastissimi tenimenti di
Castelvolturno, e i trattati commerciali coll'Inghilterra, colla
Francia, colla Spagna, finivano d'immiserire un erario che non era
stato mai ricco.
La restaurazione borbonica, meno sanguinaria questa seconda volta,
fu però così inetta da togliere al regno ogni
carattere di indipendenza. Oramai Ferdinando non era più che
un vicerè austriaco, difeso da truppe austriache e solo in
esso fidente. Ai reclami di Pietroburgo e di Vienna destituì
Canosa; cedette a Roma, al clero, all'aristocrazia, ai lazzaroni,
alla Francia, all'Inghilterra, alla Spagna, a tutti; la corte
onnipotente non comandava più, mentre in essa si organizzava
per interessi di casta l'opposizione al partito rivoluzionario. La
monarchia borbonica era piuttosto una negazione della rivoluzione
che una istituzione indipendente: serviva alle due classi estreme
della società contro la media, senza regnare con programma
proprio. La stessa unificazione della Sicilia, giovevole agli scopi
ancora lontani dell'unità nazionale, era stata meno un atto
d'energia che una conseguenza della uniformità legislativa
lasciata da Napoleone come necessità a tutti i governi. La
bestialità di Ferdinando, barattante persino i papiri in
kanguros per arricchire il proprio serraglio, e le ecatombi compiute
nelle prime reazioni toglievano alla corte e al governo ogni
speranza di coscienza; i regi non erano più che una camorra e
i liberali una setta, entrambe egualmente bisognose del re: l'una
per difendere in lui i propri interessi, l'altra per incarnare in
lui le proprie idee costituzionali. Ferdinando invecchiato non
rappresentava più che l'inanime senilità della
monarchia.
Roma stessa non era più Roma.
Quantunque Pio VII, ritornandovi, passasse di trionfo in trionfo, e
Murat a Cesena, Carlo IV di Spagna alle porte della città, la
ex-regina d'Etruria Maria Luisa e l'ex-re di Sardegna Carlo Emanuele
a quelle del Quirinale, gli si prosternassero in umili ossequi, e
quest'ultimo, geloso di essere il primo nell'avvilirsi, volesse
baciargli il piede mentre le popolazioni superstiziose assiepavano
le vie osannando; il pontefice riedeva troppo sminuito
nell'autorità per riatteggiarsi davvero a re. Già
l'Austria aveva più volte accennato ad insignorirsi di tutto
il regno pontificio nelle guerre napoleoniche, quasi accettandone la
decadenza pronunciata dalla rivoluzione e da Napoleone: al trattato
di Parigi Metternich consegnava a lord Castlereagh una protesta
contro il ristabilimento del potere temporale, chiedendo la cessione
dei territori romani all'Austria pei diritti del sacro romano impero
e per gli accordi stipulati dianzi coll'Inghilterra. Più
tardi insistette gagliardamente per impossessarsi delle tre
legazioni, e tutta la diplomatica abilità del cardinale
Consalvi, legato al congresso di Vienna, non sarebbe bastata a
contrastargliele, se Napoleone, fuggendo dall'isola d'Elba e
largheggiando di promesse col pontefice per farsene un alleato, non
avesse persuaso al congresso che bisognava cedere al papa. Nullameno
l'Austria conservava diritto di guarnigione a Ferrara e a Comacchio.
Il regno papale distrutto dalla rivoluzione francese, assorbito
dall'impero napoleonico, veniva dunque negato dall'Austria in nome
di quello stesso sacro romano impero, al quale essa medesima aveva
rinunciato. Il papa ridiventava un principotto italiano soggetto al
protettorato austriaco, senza maggior prestigio politico degli
altri. Infatti il suo ritorno a Roma si macchiò di tutte le
colpe reazionarie, che infamarono quello dei Borboni e dei Savoia.
Il cardinale Rivarola, focosa natura di prete condottiero, mandato a
Roma in qualità di legato a latere, inaugurò la
propria amministrazione provvisoria abolendo con publico bando ogni
legge e contratto napoleonico. Le antiche ottantaquattromila leggi
risuccedevano al codice francese; i vecchi tribunali ecclesiastici
alla corte di cassazione, i cardinali ai prefetti, il monopolio dei
prelati, l'inquisizione e la tortura agli ordini liberali della
rivoluzione. Si costituì una setta di sanfedisti, fanatici ed
assassini, che dovevano poi disonorare inutilmente religione e
governo papale. L'amministrazione dello stato, già migliorata
dagli altri principi prima della rivoluzione e dai papi invece
conservata nel vecchiume medioevale, si volle a questo ricondotta,
cancellandovi ogni traccia delle recenti migliorie; le milizie
vennero racimolate per le strade; il commercio e l'industria furono
sottoposti all'arbitrio di concessioni camerali; la censura
peggiorò d'ignoranza fanatica; si misero al bando tutti
gl'impiegati liberali per sostituire loro chierici in ogni uffizio
laicale; si distrusse qualunque vita municipale; si tolsero tutte le
forme di elettorato politico ed amministrativo; si perseguitarono
patrioti, scienziati, scrittori, quanti per pensiero e per opera si
stimassero favorevoli alla passata rivoluzione. Rivarola, in onta ai
capitoli del trattato di Parigi, con una sola sentenza ne colpiva
508.
La corte romana, timorosa dell'Austria e de' suoi maneggi per
l'abolizione del regno temporale, non ebbe il coraggio, e non poteva
averlo, di appoggiarsi alle idee liberali. Si ricusò
all'alleanza richiestale, ma non osò stringere contro Vienna
l'altra col Piemonte; fulminò i carbonari, nei quali il
liberalismo era ancora inceppato da troppe idee cattoliche e dal
tradizionale rispetto alla monarchia, e non pensò a
propiziarsi le popolazioni con miglioramenti amministrativi.
Così il motu-proprio, col quale il Consalvi, unico uomo di
stato a Roma, intendeva a frenare la ridicola ed esosa reazione, non
produsse alcun effetto, e Pellegrino Rossi, futuro ministro di Pio
IX, forse anche allora propenso a un moderato governo papale,
dovette scampare esulando da Bologna.
Colle altre corti italiane le relazioni di Roma non furono senza
difficoltà. La Toscana, ancora imbevuta di idee
giansenistiche e di tradizioni leopoldine, ricalcitrava; a Napoli,
Ferdinando intitolandosi primo re delle due Sicilie intendeva
rimangiarsi i vecchi tributi alla Santa Sede, ma si lasciava poi
trascinare al concordato di Terracina, pel quale i beni
ecclesiastici invenduti dovevano essere divisi fra i conventi
ripristinati, e sui libri introdotti nel regno si riammetteva
l'appello al papa. Vittorio Emanuele I parve resistere un istante
alle pretensioni di Roma ridimandante l'omaggio del calice pel
ricavato apostolico dei reali di Sardegna sui feudi di alcune
diocesi; quindi, cedendo alle paure religiose, disfece il concordato
di Bonaparte e ne strinse col Consalvi un altro poco meno grave di
quella di Napoli. L'Austria invece, fedele alle tradizioni
giuseppine, non solo nominava vescovi nella Lombardia esercitando
poteri competenti a Roma, ma li pretendeva anche nei nuovi acquisti
di Ragusi e di Venezia, e li ottenne per privilegio dal papa nel
1817.
Nullameno Roma si mostrava diminuita. In molti paesi stessi del
concordato restava colpa pei dignitari ecclesiastici il comunicare
direttamente con Roma; in nessuno si erano ripristinate intere le
immunità reali personali e locali; limitato il diritto di
acquisto delle mani morte; quasi tutte le prelature di nomina o di
proposizione governativa, sorvegliati i possessi ecclesiastici,
necessario l'exequator regio; distrutti gli ordini e i feudi
militari ecclesiastici. Il clero sentendosi indebolito si appoggiava
naturalmente ai re, ma questi, sicuri dal liberalismo in quel primo
fervore della reazione, si sottraevano all'aiuto di Roma per memore
timore della sua pertinace7 tirannia. Le tradizioni del principato
nel periodo delle riforme risorgevano, giacchè i pericoli
erano ancora remoti, la rivoluzione lontana e Roma troppo vicina.
Il principio religioso di questa non era ormai più attivo che
come superstizione di volgo cortigiano o plebeo; se parlamenti e
corti vi aderivano, i fatti che avevano distrutto il governo dei
papi vivevano ancora nella coscienza di tutti. D'altronde lo stesso
pontefice Pio VII aveva abdicato, e Napoleone e l'Austria
credendogli si erano impossessati o volevano impossessarsi di Roma;
la rifioritura dei privilegi chiesastici sbocciava fra quella dei
privilegi aristocratici e ne acquistava tutta l'antipatia e
l'irragionevolezza. Poi la monarchia sola si riaffermava assoluta,
mentre aristocratici e preti non erano che suoi valletti.
Roma era così avvilita, malgrado ogni superbia di concordati,
che il suo unico pensatore, capace eroicamente di proclamarla ancora
signora del mondo sulle rovine fumanti della rivoluzione, fu un
laico, il conte Giuseppe De Maistre, savoiardo per la cupezza della
politica, francese per l'impeto irresistibile dell'eloquenza.
Infatti, gigantesco e fosco come il medio evo del quale riassume
l'anima e condensa la voce, De Maistre nega ogni civiltà e
progresso; per lui l'uomo è malvagio, nato nel peccato,
vivente di peccato e nel peccato malgrado ogni redenzione. La vita
dell'individuo e della società è quindi soggetta alla
doppia legge della espiazione e della riversibilità:
«La terra è un immenso altare, dove tutto ciò
che vive deve essere immolato senza termine, senza misura, senza
interruzione, fino alla consumazione delle cose, sino all'estinzione
del male, sino alla morte della morte». Il giusto soffre
dunque per il peccatore, le rivoluzioni scontano le pene del passato
e le proprie in eccessi inevitabili. Le costituzioni debbono essere
suggerite da Dio, che non parla ai popoli che per mezzo dei re: il
re è il legislatore, carnefice e sacerdote della legge. Tutto
è quindi rivelazione, e poichè anche i re sono uomini
e possono fallire, la verità è a Roma depositata da
Dio nel papato eterno, universale, onnipotente. alto sul mondo come
un faro, nebuloso e fiammeggiante come un Sinai, dal quale s'ode di
secolo in secolo la voce di Dio.
Era l'ultimo sublime sforzo della reazione medioevale, al quale Roma
non poteva prestarsi: Pio VII non era Gregorio VII.
Roma invece patteggiava nei concordati, accattando pel proprio
regno, destreggiandosi nella diplomazia, riorganizzando i gesuiti
per lanciarli di nuovo alla conquista di tutti i piccoli interessi e
di tutte le piccole coscienze. Il suo periodo di supremazia politica
era passato, il suo tempo religioso proseguiva adattandosi
inconsciamente alla nuova epoca storica; mentre la filosofia
tedesca, riprendendo il lavoro della filosofia francese nel secolo
antecedente, invece di abbattere il mondo della religione ne creava
un altro, nel quale questa non era più che uno fra molti
elementi spirituali.
Roma abbandonò il proprio teologo o seguendolo da lungi lo
diminuì nelle interpretazioni col Cavedoni, col Leopardi,
esoso genitore del grande poeta, col Canosa, poliziotto stupidamente
feroce, coi sanfedisti inettamente superstiziosi e inutilmente
assassini. La corte di Savoia, dopo essersi giovata di De Maistre
come ambasciatore a Pietroburgo, non ardì servirsi di lui
quale politico.
Il liberalismo.
Ma se il liberalismo non aveva ancora un ingegno così ardente
di scrittore come il De Maistre, si dilatava sotto le pressure della
reazione monarchico-religiosa con ammirabile celerità. Le
idee di uguaglianza, di sovranità popolare, di diritto civile
e politico si allargavano nelle coscienze: l'abbiezione del
presente, malgrado i vantaggi della sua pace, rendeva belle le
memorie delle agitazioni rivoluzionarie, quando esisteva il regno
d'Italia, e le legioni italiane si addestravano nel campo di
Boulogne, battagliavano in Ispagna, in Germania, in Russia,
dappertutto; s'udivano in cuore le antiche fanfare, agli occhi
sventolavano le bandiere vittoriose. Impiegati, soldati,
politicanti, professori, mercanti, industriali, borghesi, popolani,
molti anche dell'aristocrazia malvisi alle corti, si rinfiammavano
nelle visioni del passato, beffando e contrastando alla
ristorazione; gl'interessi offesi si coalizzavano, la fugace
unità della dominazione napoleonica aveva interrotto la
tradizione e scemata la certezza delle divisioni federali.
Criticando i nuovi governi si opponeva loro inevitabilmente l'utopia
di una Italia intera, poichè nella negazione di ogni fatto
politico deve contenersi l'affermazione di un fatto maggiore. La
partecipazione alla vita europea nei vent'anni della rivoluzione
aveva dato alle coscienze una elasticità, che soffriva della
nuova compressione. Tutti coloro abituati a pensare e ad agire
odiavano quindi una ristorazione, che non avendo passato da
riprodurre interdiceva l'avvenire. Mentre Napoleone, costretto ad
amministrare con violenta dittatura, manometteva i diritti di tutte
le amministrazioni da lui stesso liberate dei vecchi ceppi, i nuovi
governi per imitare il suo assolutismo richiamavano ogni ordine e
diritto sotto l'arbitrio della polizia. Una tirannide minuta ed
odiosa soffocava così quelle speranze, che già
promettevano all'Italia la personalità nazionale.
Poi le confessioni di Napoleone prigioniero a Sant'Elena, nelle
quali riaffermava la necessità per l'Europa di ricostituire
l'Italia, le risollevavano.
Mentre gli stati prima della rivoluzione poggiavano su privilegi e
gerarchie immobili di classi, la rivoluzione, richiamando in disputa
ogni principio di autorità ed aprendo la società come
una carriera libera a tutte le forze individuali, aveva per sempre
sommosso il loro vecchio assetto. Nulla poteva più
riaddormentare la svegliata individualità. Ma poichè
la rivoluzione era venuta dall'estero, le coscienze italiane
accogliendola non potevano intenderla ancora che molto
imperfettamente; i sentimenti anticipavano sulle idee; queste,
imbrogliandosi fra abitudini incorreggibili ed irrefrenabili
velleità, concordavano ad affermazioni fantastiche. Le
monarchie, accolte con ovazioni quasi unanimi da principio,
ripugnarono ben presto; il malcontento si accrebbe d'altre cagioni;
infierirono pestilenze e carestie, alle quali i governi non seppero
in alcun modo provvedere. Il bisogno di libero scambio fra tante
dogane, di strade praticabili, di leggi discusse, di giudizi
publici, di sicurezza nel debito publico, di uguaglianza nelle
imposte, di pubblicità nell'amministrazione, di
libertà nel pensiero, nella parola e nei viaggi, di azione
politica nella vita, divenne passione, accumulando speranze e
rancori, studi ed armi, propositi di vendetta e di emancipazioni.
La carboneria, mescolatasi invano a tutte le congiure per costituire
un regno italico nelle ultime ore della rovina napoleonica,
diramò le proprie propaggini per ogni città ed ogni
villa, cosicchè un rapporto del governo austriaco
l'estimò in breve ad 80,000 membri. Vi si era rifugiata la
maggior parte dei bonapartisti sdegnanti la ristorazione o da essa
ricusati. Nell'alta e nella media Italia le società degli
Adelchi e degli Adelfi, nate dal bonapartismo liberale, si
moltiplicavano, mentre i liberi-muratori già aderenti a
Napoleone si rivoltavano contro i nuovi governi legittimi; nelle
Calabrie interi numicipi erano ordinati in Vendite di carbonari;
queste avevano già guadagnato le Romagne, il Piemonte, la
Lombardia, i ducati di Modena e di Parma. Altre sètte
pullulavano. Maggiore fra esse l'Ausonia, che giurava formare una
republica italiana divisa in ventuno stati, ciascuno dei quali
manderebbe un deputato annuale all'assemblea sovrana; assemblee
provinciali nominerebbero corti di cassazione, consigli
dipartimentali, distretto e cantone, capi delle guardie nazionali,
arcivescovo, prefetti dei seminari e dei licei. Il potere esecutivo
sarebbe affidato a due re di terra e di mare eletti per ventun anni
dall'assemblea senza distinzioni ereditarie; imposta progressiva, il
più povero pagherebbe un settimo della propria rendita, il
più ricco sei settimi; il papa sarebbe pregato di diventare
patriarca della republica dietro risarcimento dei beni temporali
toltigli; il collegio dei cardinali non risiederebbe nella
republica, ed eleggendo un nuovo papa questi risiederebbe altrove;
conservati degli ordini monastici solo i mendicanti.
Tale il concetto fantastico e bigotto dei settari di allora.
I carbonari non erano molto più pratici, benchè a
contatto della Francia, nella quale Buonarrotti socialista discepolo
di Baboeuf li aveva trapiantati, assorbissero idee più
positive. Alti personaggi come Lafayette, Dupont de l'Eure e Luigi
Bonaparte, figlio del re di Olanda, vi mestavano; ma l'arcadia
politica dominava ancora tutte le sètte. Il romanticismo
diffuso dalla letteratura si compiaceva nel segreto e nel terrore
d'iniziazione teatralmente tragiche: si tenevano adunanze
misteriose, si lanciavano minaccie ai sovrani e si colpiva raramente
qualche poliziotto; s'inventavano lugubri scherzi per atterrire le
fantasie e spaventare i governi. Ma questi, inseverendo nella
reazione, spingevano allo scoppio: le sètte reazionarie
spalleggiate dalle polizie cercavano a sfida le liberali, i moti
rivoluzionari della Grecia accendevano gli animi, si attendevano
esplosioni in tutta l'Europa. Un mondo sotterraneo si agitava sotto
il mondo politico della ristorazione; piccole ribellioni a Macerata
e nel Polesine (1817) represse ferocemente dal papa e dall'Austria
iniziavano la guerra, mutando le forche in labari e i condannati in
eroi. La santa alleanza, congregata ad Aquisgrana (1818), stringeva
i freni del dispotismo, stabilendo di impedire ogni governo
costituzionale e spronando a repressioni implacabili; il dispotismo
nel precisarsi schiariva la libertà; il duello segreto delle
sètte colle polizie assumeva proporzioni europee. Spagna,
Francia, Germania fermentavano; l'Italia era tutta minata, e
nullameno l'imminente esplosione non doveva fare che poco fumo e
fracasso.
Le società, appunto perchè segrete, perderebbero la
voce nel gran giorno della pubblicità. L'immensa massa del
popolo incapace di entrare in esse non poteva comprenderle; il loro
lavoro segreto, parcellario e quindi inorganico, non giungerebbe ad
immedesimarsi istantaneamente colla vita del popolo secondo le
necessità della rivoluzione. La coscienza politica era ancora
allo stadio sentimentale; si amava la libertà senza saperla
definire; dalle monarchie si attendevano costituzioni che nessuno si
curava di precisare; il concetto lirico dell'unità italiana
veniva negato ovunque dai risvegli federali; l'affratellamento delle
congiure non compensava la scarsezza di relazioni fra le provincie;
il problema del papato veniva peggiorato dalle idee religiose dei
settari, che, affermando per primo articolo la necessità del
cattolicismo, negavano la libertà religiosa. Mancava una
città, una dinastia, una classe, un uomo, nel quale
imperniare il movimento; non armi, non denari, non ordini, non idee.
Le monarchie forti della identità di interessi, aiutate da
Roma e sorrette dall'Austria, avrebbero fatalmente prevalso alla
borghesia settaria, frazionata in sètte mal sicure di
programmi e di capi.
Il problema italico non si era ancora rivelato ad alcuna coscienza
nella terribile semplicità dei propri termini.
L'Italia non poteva costituirsi nazionalmente che colla federazione
o coll'unità; per l'una e per l'altra, Austria e papato erano
ostacoli invincibili. Per la federazione bisognava che un accordo
spontaneo e quindi impossibile di principi concedesse ai popoli una
stessa costituzione liberale, dichiarando tosto la guerra
all'Austria. Ma il papa per il proprio principio teocratico non
potrebbe concederla, e l'Austria invaderebbe tutti gli stati prima
che questi si preparassero alla guerra. E dietro l'Austria
minacciava la santa alleanza. Per l'unità il problema
peggiorava ancora: republicana, doveva sopprimere tutti i principi;
monarchica, divorarli con una conquista. Chi sarebbe il
conquistatore? E Roma? e Vienna? e la santa alleanza?
Invece il problema si sminuzzava in ognuno degli stati. I settari
sognavano un'incognita costituzione per emancipare se stessi,
disponendosi ingenuamente a dimenticare i compagni congiurati delle
altre provincie e ad agire magari separatamente come poi avvenne.
Mentre l'idealità e l'intenzione erano italiane, coscienza,
metodo e scopo erano ancora federali. Napoli si conservava tuttavia
straniera a Firenze, a Milano, a Genova, a Torino. Di Roma, sola
capitale, centro ideale storico, appena si parlava. L'imminente
insurrezione non era e non poteva essere che una fase del duello fra
le sètte e le polizie, un modo di pubblicità per le
idee politiche, che, celate nelle società segrete, si
scoprirebbero al popolo nell'inevitabile e generoso disastro d'una
sconfitta. Quindi la necessità per l'insurrezione di fallire
discendeva non solo dalla mancanza di una coscienza e di un'idea
politica, ma dalla fatalità dell'Italia futura, alla quale
simili forme e moti angustamente ed egoisticamente regionali
contraddicevano. Ogni loro fallimento e le conseguenti rovine
educherebbero gli animi a un più largo concetto dell'Italia,
togliendoli di prova in prova all'inganno di compiere una
rivoluzione colle monarchie della ristorazione. E poichè la
storia utilizza sempre le forme che mantiene in se stessa, quelle
monarchie risorte contro la rivoluzione francese dovevano servire
alla futura rivoluzione italiana, ammaestrando il liberalismo tanto
col combatterlo che col prestarsi ad assurde improvvisazioni
costituzionali. La federazione indietreggerebbe così
lentamente dinanzi all'idea dell'unità; il papato si
scoprirebbe inconciliabile colla nuova Italia; l'Austria resterebbe
unico nemico della sua indipendenza; e la libertà, sempre
tradita dalle monarchie, si alzerebbe sopra di esse alla visione
della republica, o guadagnerebbe la meno trista fra loro, per
conquistare con essa tutta l'Italia e mutarla in nazione.
INDICE
LIBRO PRIMO: Il federalismo municipale
Capitolo primo. La fusione barbarica
- L'individualità romana e cristiana
- La federazione nell'impero
- Fondazione del regno
- Il patto di Carlomagno, e la dominazione franca
- Catastrofe del regno
Capitolo secondo. I Comuni
- Loro origini
- Vescovi e consoli
- Guerre municipali
- Le discese di Federico Barbarossa
- La guerra delle città ai castelli
- Il podestà
- I guelfi e i ghibellini
- Il capitano del popolo
- Ezzelino da Romano
- Carlo d'Angiò
- I tiranni
- Bonifacio VIII e Enrico VII di Lussemburgo
Capitolo terzo. Le Signorie
- Loro primi atteggiamenti
- Roberto di Napoli e Bertrando del Poggetto
- Lodovico il Bavaro e Giovanni di Boemia
- Trionfo dei signori
- Cola di Rienzi
- Il cardinale Albornoz
- L'unità ideale italiana
- Petrarca e Boccaccio
Capitolo quarto. Venezia nella storia italiana
Capitolo quinto. La rivoluzione militare
- Incapacità militare dell'Italia
- I masnadieri
- I condottieri
- Effetti della rivoluzione militare nelle repubbliche
- Trionfo delle capitali
- Conseguenze della rivoluzione militare nel resto d'Italia
Capitolo sesto. I principati
- Il secolo XV
- Impossibilità del regno
- Lodovico il Moro e Alessandro Borgia
- Leone X e Lutero
- Lodovico Ariosto e Nicolò Machiavelli
- La retrogradazione d'Italia
LIBRO SECONDO: Gli Stati
Capitolo primo. L'epoca della Riforma in Italia
- Condizioni spirituali
- Contraccolpi politici
- I gesuiti
- Attività del Piemonte nella decadenza degli altri stati
italiani
Capitolo secondo. La rinnovazione dello spirito nazionale
- Torquato Tasso
- Gli scrittori politici
- Giordano Bruno e Tommaso Campanella
- L'emancipazione scientifica
Capitolo terzo. I regni del Piemonte e delle due Sicilie
- Il secolo di Luigi XIV
- Venezia, Genova e la Corsica
- Gli altri principati italiani
- Il Piemonte nelle guerre di successione
- Il Papato
- Il nuovo problema italico
Capitolo quarto. Genio e carattere nazionale durante la formazione
dei due regni
- Le scuole politiche
- Giambattista Vico
- Pietro Giannone
- Metastasio e Goldoni
Capitolo quinto. Il periodo delle riforme
- Influenza europea
- Le due Sicilie
- Parma e Piacenza
- La Toscana
- La Lombardia
- Il Piemonte
- Lo Stato pontificio
- Soppressione dei gesuiti
- Giuseppe Parini
- Vittorio Alfieri
LIBRO TERZO: La democrazia moderna
Capitolo primo. Le repubbliche
- Rivoluzione francese
- Condizioni della penisola
- Discesa di Napoleone
- Costituzioni repubblicane
- Assetto rivoluzionario
- La reazione Austro-Russa
Capitolo secondo. Fine delle republiche
- Il consolato francese
- Battaglia di Marengo
- Il concordato
- Consulta di Lione
Capitolo terzo. I regni francesi in Italia
- L'impero francese
- Quarta e quinta coalizione europea (1807-1809)
- Mutamenti politici in Italia
Capitolo quarto. Caduta di Napoleone
- Campagna di Russia
- Catastrofe dei regni francesi in Italia
- I cento giorni
- Gli scrittori durante la rivoluzione e l'impero francese
- Vincenzo Monti
- Ugo Foscolo
- I poeti dialettali
Capitolo quinto. L'Italia sotto la reazione della santa alleanza
- Il trattato di Vienna
- Condizioni italiane
- Il liberalismo