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     ALFREDO ORIANI
     (OTTONE DI BANZOLE)
     QUARTETTO
    
     BARI
     GIUS. LATERZA & FIGLI
     1919
    
    
     DIAPASON
    
    Caro Bariè,
    
    Casola Valsenio 17 dicembre 1881.
    
    Ho finito or ora il libro, e riprendo la penna per dedicartelo.
    Quando, fra qualche mese o qualche anno sarà stampato, chissà quali
    avventure, sorprendendo le nostre vite e divertendone la direzione
    apparente, potrebbero impedirmi di farlo. Forse la malinconia che
    c'invade, allorchè l'opera ancora tiepida della nostra mano,
    separandosi improvvisamente da noi, ci abbandona come un emigrante
    mal in arnese, il quale salpi verso ignote miserie, è uno dei
    sentimenti più amari ed inesprimibili. La generazione ideale, poichè
    più alta nella vita della generazione animale, è quasi sempre più
    lunga, sempre più dolorosa; quindi se il bambino prosegue quasi
    nella esistenza del padre, e sviluppandone i disegni, che la
    trascendono, vi si incorpora, il libro appena nato si contrappone
    all'autore con una personalità già perfetta ed indipendente. E,
    mentre quello sembra colla prova della nostra virilità darci l'altra
    di una nuova ricchezza, questo ci lascia nella lassitudine
    dell'esaurimento un senso più vivo della nostra debolezza. Che egli
    muoia prima di noi o ci sopravviva, e la sua fortuna sia come quella
    di un avventuriero, il quale diventa imperatore o portinaio; che
    egli passi fra la gente come un'apparizione di bellezza e di gloria,
    ovvero come un accattone, il quale mendica un'occhiata e riceve un
    sogghigno; che le sue mille edizioni, o le sue mille copie lo
    diffondano attraverso tutti i climi, al disopra dei monti e al di là
    dei mari, ovvero avvizziscano nell'ombra muffosa di un magazzino di
    libreria per finire sui banchi del commercio, come certi miserabili
    finiscono sul banco delle assise, non ci appartiene più e non ci
    conosce. Sarà forse ricevuto colla più nobile accoglienza dove nulla
    al mondo potrebbe decidere quelle stesse persone a riceverci;
    discenderà fin dove, per quanto intrepidi nella curiosità ed ottusi
    nel senso, non consentiremmo giammai a discendere: libero come un
    trovatello non sentirà nè riconoscenza, nè ingratitudine: avrà una
    patria ed una lingua, una civiltà ed un popolo, ma come molti
    trovatelli, i quali ripetono la sciagura donde nacquero, se avrà
    figli, saranno bastardi.
    
    Il sentimento melanconico di cotesto abbandono ha probabilmente
    generato fino dalla antichità la prefazione, questa parola di
    rimpianto e di amore, che quasi tutti gli deponiamo sulla fronte,
    come l'ultimo bacio per una partenza senza ritorno. E mentre egli si
    smarrisce nella lontananza infinita dei casi, noi torniamo a
    rincantucciarci nel nostro angolo, e se pensiamo ancora a lui in
    qualche ora di tristezza, o ci voltiamo talvolta di soprassalto
    udendo pronunciare il suo nome; quando passarono molti anni
    incontrandoci su qualche tavolo straniero, o la sua idea parandocisi
    innanzi al pensiero come la prima volta che l'amammo e fu nostra,
    stentiamo forse a riconoscerla, come molte delle donne, che ci
    parvero belle un giorno e che credemmo di amare.
    
    Già Pascal lo ha scritto da due secoli, che volendo giudicare
    l'opera propria, appena fatta è troppo presto, dopo è troppo tardi:
    prima vi siamo ancora dentro, dopo non possiamo più rientrarvi;
    laonde val meglio seguire l'andazzo dei padri, che fatti i figli,
    lasciano a loro medesimi la cura di vivere, e forse danno così alla
    società i suoi più robusti individui. Perchè dunque vi è ancora chi
    scrive libri? Sono il bisogno di un'espansione individuale, o
    l'espressione di un bisogno collettivo? Se belli, forse l'uno e
    l'altro; se brutti, forse egualmente ancora; ma infermi nati di una
    malattia saranno le più miserabili creature fra i viventi, non
    avranno nemmeno la pietà, che consacra i deboli, la guerra, che
    inorgoglisce i tristi.
    
    E mentre nella solitudine del mio castellaccio, in mezzo a campi
    coltivati da migliaia di anni, circondato dalle forme embrionali di
    una civiltà, alla quale molte altre contribuirono, fra gente di
    contado e di villa, e i giornali che recano la sera le notizie del
    mondo, e i mercanti che il venerdì vi conducono la retroguardia dei
    suoi infiniti interessi, mi isolo qualche mese e scrivo un libro;
    tu, spirito fine e gentile, nato per vivere fra pareti rivestite di
    arazzi e respirare l'aria profumata delle serre, sei lontano, nella
    antica Chersoneso. Il vento, che ti arriva dalle lande superiori, è
    carico di indefinibili sentori: le montagne, che laggiù
    asserragliano l'orizzonte, sono forse del Caucaso, e hanno dato il
    nome alla nostra razza; la terra, che mediti riabbellire
    coltivandola, fu già coltivata dai greci, che vi mandarono le prime
    colonie, per cingere tutti i seni del Mediterraneo colla
    passamanteria delicata della loro civiltà. Intorno a te la pianura
    ha l'ondulazione sconfinata di un mare: gli alberi, la vegetazione
    tozza o sregolata di una natura, che l'uomo non ha ancora epurato o
    contenuto; il primo grano, che ti sei seminato fra i piedi, agiterà
    le spiche all'altezza della tua testa fra sei mesi; i puledri, che
    già accorrono al suono della tua voce di padrone, discendono da quei
    cavalli arabi, che portarono trionfalmente per tutta l'Asia e fin
    dentro i confini dell'Europa la religione voluttuosa ed austera del
    grande Maometto. Il paesaggio, che circoscrive il tuo pensiero e
    contorna i tuoi sogni, è quello stesso di tremila anni fa, quando i
    Greci vi discesero esuli di una vita, che il pensiero rendeva già
    troppo grave, per rituffarsi nella natura, e rifiorirvi nella sua
    eterna giovinezza.
    
    Al pari di te avevano una fantasia popolata di statue, l'intelletto
    carico come una trireme, il cuore educato da grandi sentimenti e
    spossato da grandi passioni. Dotati di un genio indefettibile
    ripeterono la Grecia su quei lidi, coprirono il mare di barche, le
    sponde di templi, la terra di olivi e di viti; l'arte innamorata di
    loro non volle abbandonarli, e decorò tutte le loro opere: la
    filosofia, che avevano fuggita come un etèra di malvagie influenze,
    ma di seduzioni irresistibili, venne a cercarli nell'esilio, e si
    assise nobilmente superba, severamente ciarliera in mezzo ai loro
    circoli. Poi i Romani, che avevano sconfitto gli ultimi Etoli,
    passarono per quei remoti sobborghi di Atene, come un'orda brutale
    che distruggendo disciplinava, e il sorriso, che l'uomo aveva dato
    alla natura sulle spiaggie dell'Eusino, disparve. Più tardi un poeta
    innamorato ed infelice vi ramingò condannato dall'ira di un
    imperatore e dalla civetteria di una principessa; più tardi ancora,
    i Romani diventati Greci un'ora prima di morire, abbandonarono la
    loro terribile città conquistatrice per venire sull'Ellesponto, che
    i primi Greci avevano sentito così bello, e spirarvi mollemente in
    una musica di profumi e di colori, di parole e di baci. Quindi
    dall'Asia, che Milziade aveva respinto, ed Alessandro invaso per il
    primo, ruppe un'onda incontenibile di cavalli e di bandiere; la luna
    parve discesa dal cielo e procedere tremenda alla loro testa: il
    grido delle battaglie echeggiò oltre Roma fino a Tule, oltre
    Babilonia fino a Pechino; il fumo degli incendi si disciolse in
    pioggia fino sulle steppe della Mongolia e sulle dune della
    Brittania. Poi un immenso baleno, bianco come quello di una
    scimitarra, albeggiò sulla cupola di Santa Sofia, quando la
    mezzaluna vi si rizzò nella sua fredda gloria di pianeta, e la croce
    disparve dalle costellazioni di quel cielo così azzurro.
    
    Chersoneso era una baia, la Grecia una penisola; la prima era stata
    dimenticata, la seconda era appena un ricordo.
    
    Ma oltre quelle sponde, che i Greci avevano benedette della loro
    presenza, e alle quali il mare diceva le novelle di tutte le altre
    terre, si stendevano solitudini più grandi di tutti quegli
    avvenimenti, più terribili allo sguardo che non tutte quelle
    tragedie al pensiero. La fama raccontava di montagne, che la neve vi
    aveva alzate e che il ghiaccio vi aveva rese eterne; qualche volta
    in un rombo lontano lontano sembrava di ascoltare fracasso di fiumi,
    lunghi come una vita e vasti come un pelago; talora un cavaliere, in
    costume irreconoscibile, si affacciava al confine della landa come
    un'apparizione misteriosa, gettava uno sguardo su quel mondo già
    vecchio due volte, e spariva in un turbine di vento con un galoppo
    fantastico. Quel cavaliere, cui l'immaginazione trepidante dava il
    nome di Sarmata, era l'avvenire, e adesso è il presente. Il Sarmata
    si chiama Russo; ha sconfitto l'altro ieri l'ultimo Cesare romano,
    che gli aveva mosso contro da Parigi, e si è fermato ieri per la
    seconda volta sotto le mure di Bisanzio: egli è l'ultimo vincitore
    nella storia dell'Europa, l'ultimo impero nella geografia
    dell'Occidente.
    
    Sgraziato come tutti i colossi e senza verginità di adolescenza come
    tutti i mostri, egli è passato dalla infanzia alla virilità, dalla
    crudeltà della selvatichezza alla ferocia della civiltà. Privo di
    tradizione e quindi di ideale, la sua unità è un'agglomerazione, la
    sua vita un istinto, la sua forma un embrione, la sua potenza una
    massa, la sua difesa la natura, la sua ricchezza gli viene dalla
    atonia di ogni sentimento e dalla brutalità di ogni bisogno. A volta
    a volta nomade e contadino come l'arabo, il cielo gli negò
    coll'azzurro la bontà del cuore, il sole non gli accese coi raggi la
    generosità nel pensiero: quindi il freddo, che restringe tutti i
    pori, gli racchiuse per sempre l'egoismo nell'anima, e la neve, che
    confonde tutte le fisonomie, gli intorbidò le forme dell'intelletto.
    L'uniformità della natura pesò sulla sua società: i gruppi umani
    apparvero disseminati nel suo impero come i gruppi degli alberi per
    le sue steppe, poi come gli uccelli unirono gli alberi col loro volo
    di landa in landa, i cavalli congiunsero gli uomini colle loro corse
    di provincia in provincia; e lontano, al di là degli occhi, al
    disopra del pensiero, come una montagna dalla vetta invisibile, il
    trono e l'altare furono una visione bianca e fredda, terrifica ed
    incompresa. Dalla sua cima la legge ruinò e si distese come un
    vento, che inclina tutte le piante e rugge agli angoli di tutti i
    tetti; sulla sua cima lo czar, fantasma sublime ed ignoto, aperse la
    mano a benedire come un pontefice e la strinse per brandire la spada
    come un imperatore: e d'allora la croce di Ivano il Grande sfolgorò
    contro la luna falcata di Maometto secondo, e la lotta fra la
    costellazione e il pianeta ricominciò più violenta ed implacabile.
    
    Prevalse la croce, giacchè se una bufera d'inverno può prostrare le
    forze della primavera, questa non potrà mai prevalere contro la
    rigidità dell'inverno. Il Nord è invincibile nella sua corazza di
    ghiaccio, ma sarà sempre torbido nella sua aureola di neve. Impero
    vasto forse più che il romano, esso è un oceano di terra, nel quale
    qualche grossa città pare un'isola e qualche bella provincia un
    arcipelago: come il romano, racchiude molti popoli, ma in questo
    diverso, non ha nè detrito di civiltà, avanzi di religione o macerie
    di storie, colle quali covare una nuova èra mondiale. Cresciuto ai
    confini della vera Europa potè, esercitando una specie di
    contrabbando sulla frontiera, impadronirsi di qualche idea, ma la
    sua è una cultura artificiale, e prima che il sole la schiuda
    naturalmente sulla sua immensa superficie, dovranno passare altri
    secoli, nè forse il sole vi sarà mai caldo abbastanza. Se Pascal ha
    avuto torto affermando che la giurisprudenza varia coi gradi del
    meridiano, Bukle ha avuto ragione constatando che la civiltà è
    soggetta alle leggi del calorico, e non può salire al disopra di un
    certo grado di latitudine. Nullameno un fermento, ancora mal
    giudicato, fa oggi gonfiare la crosta di questo impero, che la
    geografia misurando ha trovato quasi pari al chinese, sebbene la
    statistica sommando lo trovasse di tanto inferiore; si direbbe che i
    suoi frequenti terremoti siano una palpitazione di vulcani i quali
    rompendo fra poco il loro fragile coperchio, lanceranno fino al
    cielo una spuma di lava e di fiamma. Lo squilibrio, che la
    differenza di popolo nella differenza di clima deve arrecare alla
    regolarità delle sue funzioni, e l'antagonismo tra la forma feudale
    della sua gerarchia e la forma democratica della sua cultura; la sua
    stessa estensione, per la quale la volontà della legge si rilassa
    inevitabilmente come una corda troppo lunga, e l'altezza
    inaccessibile del trono, che diventa così il centro misterioso di
    tutta la sua vita, ma il mistero responsabile di tutte le
    contraddizioni: forse la miseria della minoranza più spirituale
    colata sopra la povertà della maggioranza quasi bruta, come una
    putrefazione di germi precoci sopra un marciume di germi serotini; e
    forse una sofferenza, alla quale occorreva la uniformità di un tale
    impero per diventare più forte di lui, essendovi egualmente
    uniforme, hanno prodotto questo fermento sotterraneo per tutta la
    Russia, i terremoti che subissano la reggia non potendo rovesciare
    il trono, i vulcani che avventano bombe invece di lapilli, e questa
    rivolta, nella quale i ribelli hanno la terribile ubiquità dei
    fantasmi, e il motto della quale è il più incomprensibile nella
    storia, e il più assurdo nella vita - NIKIL - . Forse Napoleone
    portando inconsciamente la rivoluzione francese in tutta la Europa
    per stabilirvi il proprio impero, ve ne lasciò la semenza in quella
    orribile ritirata, l'ultima epopea dell'Occidente, che ha trovato un
    pittore ed aspetta ancora un poeta: forse l'impero russo vi perirà,
    e dai suoi frammenti, come da quello dell'impero romano, nasceranno
    tante nazioni. Ma a rovescio dell'altro, che aveva i nemici alla
    periferia, esso li ha al centro; quelli erano barbari e questi sono
    civili; i primi portavano un sangue giovane ad un cervello esausto,
    ad un cuore caduco; i secondi infonderanno idee mature ad un
    cervello adolescente, ad un cuore quasi animale.
    
    E mentre nell'aria vibrano i fremiti della tempesta e la terra ti
    sussulta sotto i piedi, tu alzi appena il capo, e guardando al nord,
    ti stringi nelle spalle. Scettico, ma forte come un greco, tu sai
    che la vita è ancora più piccola che breve, che le tue pianure sono
    fertili, i tuoi cavalli veloci, i tuoi servi laboriosi. Sia che la
    croce e la mezzaluna si urtino un'altra volta sui tuoi campi, o una
    rivoluzione te ne cacci; che la tua provincia diventi un regno e il
    tuo villaggio una capitale, e lo schiavo di oggi si faccia padrone
    di domani, tu, greco, ammetti con Aristotile che vi saranno sempre
    degli schiavi, sai che la vita è breve, e la necessità del mietere
    non deriva dall'aver seminato, ma dal dover macinare. Uscito dalla
    società per rientrare nella natura colla stessa facilità, onde
    leggendo si passa da Swinburne ad Esiodo, tu vi hai recato la calma
    della ragione nella pace dell'istinto, la semplicità di un raffinato
    nella innocenza di un ignaro: e quando tutta l'Europa guarda verso
    l'America, tu, nipote di Colombo, hai guardato verso la Russia. Ora
    la tua vita chiusa entro la rivoluzione dell'anno agricolo non ha
    altra varietà che le stagioni, altro scopo che una messe, altro
    avvenire che questo scopo medesimo. La terra coltivata esprimerà il
    tuo pensiero, il benessere dei tuoi contadini attesterà il tuo
    piccolo regno. Così ispirandoti ad un verso di Virgilio, il tuo
    poeta antico prediletto, attui l'ultima scena del Faust, il tuo
    poema moderno preferito, ed immergendoti nella vegetazione di una
    terra vergine, purifichi il tuo spirito da tutte le malattie
    ereditarie delle nostre vecchie civiltà.
    
    Ed ora che la natura ti ha reso straniero al mondo, esule, nobile e
    felice, non ti dolga se il migliore dei tuoi amici venga a parlarti
    di battaglie ideali, ostinandosi nella guerra, alla quale ti sei
    sempre rifiutato. Forse a qualche ora della notte o del meriggio,
    quando il tuo spirito riposa, un'immagine del mondo abbandonato ti
    sovviene ancora e svanisce; o nelle tue lunghe escursioni qualche
    fiore innominato o qualche canzone selvaggia ti hanno già ricordato
    i nostri fiori dal nome sapiente, le nostre romanze dal ritmo
    squisito. Che se migliaia di miglia ci allontanano e due mondi
    diversi ci separano, la nostra amicizia non ne sarà per questo meno
    intima, o il nostro commercio meno stretto. Gettati dalla natura nel
    medesimo stampo, e condannati dal destino alla medesima vita,
    sebbene tu abbia potuto eludere la condanna, ci saremo pur sempre
    presenti; e mentre tu mi troverai spesso a vagabondare pe' tuoi
    campi, io t'incontrerò sovente fra i miei libri, nella luce di un
    pensiero o nel sorriso di una frase, nell'ombra di un quadro o nelle
    pieghe di una statua.
    
    Quando prima di partire per il tuo nuovo mondo mi scrivevi
    dissuadendomi da questa inutile e crucciosa guerra letteraria, le
    condizioni della nostra presente letteratura entravano forse per
    gran parte nel tuo saggio e malinconico consiglio. Se è sempre
    triste il nascere, vi sono epoche, nelle quali è tristissimo nascere
    uomo di pensiero o di azione.
    
    Nei periodi di un fatto o d'un'idea ve ne sono alcuni che ci
    sollevano, altri che ci lasciano affondare, finchè un nuovo gettito
    sotterraneo non gonfi l'onda e l'innalzi fino al raggio del sole. La
    prima metà del nostro secolo fu per l'Italia una delle più belle
    fioriture d'ingegni, una delle messi più ricche di caratteri. La
    necessità sempre più crescente della rivoluzione metteva negli
    eletti della vita una vera forza di rappresentanza, che le finzioni
    parlamentari hanno poscia cercato inutilmente d'imitare, e che non
    raggiungeranno giammai. Ognuno di essi sentiva di riassumere qualche
    bisogno, o di esprimere un'idea nazionale; quindi molti furono i
    grandi, moltissimi gli illustri. Come se l'Italia volesse
    conquistarsi l'ammirazione dell'Europa per strapparle in un applauso
    il permesso di risuscitare, profuse i pensatori e gli artisti, i
    martiri e gli eroi; laonde dopo la rivolta del '31, esplose la
    insurrezione del '48, scoppiò la rivoluzione del '59. L'epopea fu
    così meravigliosa, che parve un miracolo, e resterà una favola; ma
    nessuno ha ancora osato fare il computo di tutti i sacrifici, che vi
    contribuirono, di tutti gli ingegni, che vi cooperarono. Vi furono
    libri che valsero battaglie, battaglie che nessun libro saprà mai
    narrare: si udirono motti che erano poemi, si fecero poemi, dei
    quali nemmeno un motto fu scritto. Accanto ai colossi del pensiero
    si drizzarono i giganti dell'azione, le corone dell'alloro furono
    posposte alle ghirlande del martirio, il sangue fu scialacquato come
    il danaro, le parole ebbero efficacia di fatti, i fatti prontezza di
    parole. E il sogno colorato dalla luce di tante fantasie si
    solidificò, come per incanto, sotto lo sforzo di tutte le volontà,
    mentre l'Europa guardava attonita dalle Alpi, e Roma si levava
    trasognata sul Tevere. Ma appena compiuto il prodigio, tutti si
    mirarono in faccia e nessuno più si riconobbe; quasi tutti i
    caratteri si ritirarono, quasi tutti gl'ingegni rimasero; gli eroi
    diventarono militari, i martiri si cangiarono in impiegati. L'epopea
    finiva fatalmente alla commedia, dacchè l'idea si era tradotta nel
    fatto, e il sentimento si riabbassava verso il senso. Era una legge
    della vita e della storia. Ma allora quelli, che avevano fatto
    l'Italia, cominciarono a sentirsi vecchi e ad essere riconosciuti
    per tali dai sorvenienti, leggeri e rapaci come tutti i saccomanni
    dopo la battaglia: l'arte e la filosofia, la politica e la milizia
    trionfanti non piacquero più, e si chiese del nuovo. L'ingegno, che
    si era manifestato così splendidamente nei padri, i figli se lo
    supposero volentieri, e guardando ai rivali d'oltr'alpe, si
    accinsero a sorpassarli nelle opere, come li avevano raggiunti nella
    vita. Ma la nazione aveva esaurito creandosi forse l'ingegno di due
    età, e i novatori d'Italia diventarono i plagiarii dello straniero.
    La generazione del '49 mancò nella storia del nostro pensiero.
    Fortunatamente l'ombra del monumento eretto sul suo confine lo
    nascose, e i posteri non s'accorgeranno forse della lacuna. Ma
    poichè l'impotenza rende malvagi e il sacrifizio ingrati, i nuovi
    scrittori risero dei vecchi, Guerrazzi fu troppo asmatico, Manzoni
    troppo cristiano, Niccolini troppo rettorico, Leopardi troppo
    classico. Il dualismo fra la scuola toscana e la scuola lombarda
    divenne scisma, e le eresie avvamparono nelle sue polemiche. Intanto
    nessun nuovo campione discendeva bene in armi nell'agone a
    percuotere sugli scudi dei vecchi tenitori di campo. Qualche paggio
    faceva bensì prova di destrezza giocarellando con una mazza, o un
    catafratto, chiuso nell'armatura pesante della erudizione, si
    pavoneggiava tutto solo; o un cavaliero, montato sopra un magro
    cavallo, tentava un giro al galoppo e, cascando ai primi passi col
    cavallo sul petto, giaceva. Finchè i tenitori di campo rimasero,
    malgrado le vanterie dei torneadori e le grida della folla, non vi
    fu nemmeno un duello, ma uno ad uno quegli scudi terribili furono
    levati. Sul primo c'era scritto Arnaldo da Brescia, sul secondo
    Assedio di Firenze, sul terzo Promessi Sposi. Uno solo, toscano alla
    parola, vestito classicamente, con un elmo tedesco sulla testa,
    aveva osato farsi largo fra la ressa e percuotere sprezzantemente
    col proprio scudo, nel quale era scolpito un Satana, sullo scudo di
    Manzoni. Se non che uno scudiero, dal volto smorto e gli occhi
    rossi, veniva in quello stesso momento a levare lo scudo glorioso:
    il vecchio guerriero era morto senza sapere della sfida. L'audace
    aveva troppo tardato.
    
    Quindi egli rimase solo, e fu primo.
    
    Ma questo illustre, per il quale ogni aggettivo comincia oggi a
    parer piccolo, e che seguaci fanatici invocano col nome ridicolo di
    pontefice, si era faticosamente educato alla stessa scuola degli
    antichi, fra le ombre incappucciate del primo rinascimento. I suoi
    giovani canti erano sembrati echi di perdute ballate; poi la
    rivoluzione, strappandolo a quei sogni toscani, gli aveva insegnato,
    coll'eroico linguaggio dei fatti, nuovi ritmi e nuove parole.
    Nullameno ignorato od incompreso per molti anni, invece di
    capitanare il nuovo movimento, parve ne continuasse un altro; mentre
    i giovani volontarii della letteratura, che avevano forse lasciato
    allora le bandiere del Garibaldi, ne cercavano un altro egualmente
    splendido, ma altrettanto facile. Invece il nuovo duce, che varcate
    le Alpi scrutava in quel momento per la Germania, preludendo alle
    teoriche ed ai trionfi di Moltke, affermava la necessità di una
    profonda dottrina per ogni ordine di milizie, e di una grande
    tradizione per una grande arte. Naturalmente i giovani volontari non
    intesero, o sdegnarono, e l'austero superbo rimase senza esercito.
    
    Intanto due capitani di ventura levavano il campo a rumore: uno era
    vestito da bardo, l'altro da menestrello. Il primo coi panni
    sciattati, un mantello reale, ricamato di perle e schizzato di fango
    neglicentemente gettato sulle spalle, coi capelli che gli
    svolazzavano da un elmo fantastico, si abbandonava alla stupenda
    dolcezza del proprio canto, e cantava di tutto. Aveva la voce
    maschia e molle, le note piene, le cadenze quasi sempre leziose: ma
    le canzoni salivano dalle sue labbra con un volo inesauribile di
    insetti in un raggio di sole, e la sua fronte, sulla quale le
    visioni passavano come le nuvole in cielo, aveva una ineffabile
    espressione di malinconia. Bardo e capitano fu troppo l'uno per
    poter essere l'altro, nobile e bello non cercò d'ingrossare il
    proprio seguito, e procedette combattendo e cantando come un eroe di
    Ossian. La gente lo chiamava Prati, i giovani imparavano le sue
    canzoni, i critici insultavano il poeta e la sua poesia. L'altro
    menestrello era una figura femminea. Portava le scarpette scollate,
    le calze di seta, il giustacuore a sbuffi con un cuore, trafitto da
    una freccia d'oro, ricamato sul petto, e un berrettino con due penne
    di airone, che gli ricadevano sui ricci profumati della
    capigliatura. I suoi occhi avevano il languore spasimante di un
    paggio, le sue dita erano cerchiate di anelli come quelle della sua
    dama; e toccando il mandolino con una grazia piena di civetteria si
    avanzava occhieggiando ai balconi. Un giorno, da una finestra
    inghirlandata di vasi, una mano bianca gli aveva gettato un mazzo di
    viole, ed egli le portò sempre sul petto. Quelle viole diventarono
    la sua poesia, il loro profumo fu tutto il suo pensiero, ed il suo
    sentimento. La gente lo chiamava Aleardi, le donne cantavano le sue
    romanze, i critici basivano di ammirazione in faccia alla sua poesia
    ed al poeta.
    
    Ma dietro loro, nel corteo variopinto, più di una figura e di una
    testa avrebbero dovuto attirare l'attenzione. Due vecchi, Mamiani e
    Tommaseo, dalla fronte alta e serena, procedevano a braccetto dietro
    la medesima idea e la medesima musa: il primo aveva pur trovato
    qualche canto, oggi perduto, e che sarà forse rintracciato fra un
    secolo; il secondo aveva dato il volo a qualche inno, che pochi
    avevano letto, ma che molti avevano ammirato, come un anello, che
    tentava di congiungere filosofia e religione, la tradizione
    dell'arte antica col sentimento dell'arte moderna. Però l'Uberti,
    malgrado i grandi sforzi, non potè uscire dal manipolo tumultuoso
    dei Tirtei da bivacco, i quali seguitavano le loro storpie canzoni
    senza l'accompagnamento delle fanfare ed il rullo dei tamburi: e
    quindi un levita ed un alfiere, irrompendo dalle file, parvero
    raggiungere per un momento i due acclamati capitani. Il primo era
    Zanella, il secondo Praga: questi morendo nominò eredi lo Stecchetti
    ed il Boito, all'uno lasciando la sensualità famigliare, all'altro
    la stramberia immaginosa. Zanella invecchiando sentì morirsi intorno
    quasi tutte le proprie poesie. Eppure pensatore modesto aveva avuto
    qualche nuovo ed elevato pensiero, cesellatore paziente aveva dato a
    qualche strofa la solida eleganza di un bronzo, la finitezza
    squisita di una orificeria. L'altro fu più una poesia che un poeta.
    Il tremito convulso della mano gli guastò quasi sempre il disegno, o
    gli intorbidò il colore, mentre il suo pensiero, che avrebbe avuto
    la grazia della leggerezza, prendeva volentieri la goffaggine della
    gravità; e la pretensione dell'orgoglio falsificava l'ingenua
    violenza o la mollezza nervosa del suo sentimento. Nullameno egli fu
    nuovo, e più semplice sarebbe stato originale.
    
    Intanto Rovani, discendendo la parabola luminosa dei suoi Cento
    Anni, arrivava fatalmente alla Giovinezza di Cesare, abbandonato da
    Tarchetti e da Nievo, che gli si erano serrati attorno per un
    momento. Ambedue erano morti presto, ambedue prima di spegnersi
    ebbero o parvero avere un'ora di astro. Forse il raggio della pietà
    accresceva la luce della loro gloria, e la morte incontrata
    all'avanguardia parve al resto dell'esercito un segno di vittoria.
    Il primo scrisse perchè sentì, ed il suo stile peccò come il suo
    sentimento; il secondo pensò e sentì ciò che scrisse, ed il suo
    stile avrebbe forse potuto mantenere ciò che aveva promesso.
    Tarchetti è diventato un martire nel martirologio della boemia,
    Nievo è dimenticato persino dai cronisti dell'arte. E mentre il
    romanzo si contorceva nella culla, il dramma e la commedia si
    contorcevano nell'agonia. Giacometti, ingegno vasto, ma corroso
    dalla rettorica, aveva ceduto il campo ai sorvenienti: Cicconi,
    sbocciato e caduto come un fiore, non aveva lasciato dietro sè che
    alcune foglie secche: Gherardi del Testa tentava ancora di celiare:
    Ferrari costruiva impalcature, per le quali i personaggi salivano
    come manovali, la schiena carica di tanti frammenti di una tesi:
    Torelli, un novizio, che alla prima prova era parso un maestro,
    ridiventava mano mano uno scolaro; Marenco imperversando pestava
    idillio e tragedia; Bersezio credendo di dipingere qualche scena non
    si accorgeva di pitturare appena una quinta, e il nostro teatro
    italiano era sempre uno scalo dell'arte francese. Però la sua
    illusione abbacinava il pubblico, che intronato dai critici
    gazzettieri, cominciava a credere nella nuova arte.
    
    Allora due nuovi scrittori comparvero nell'arringo: un bozzettista,
    che si fece poi viaggiatore: un novelliere, che salì fino al
    romanzo, De Amicis e Verga. Al primo salto oltrepassarono tutti e
    nessuno li ha ancora sorpassati. Quegli s'impossessò della fibra
    scossa dall'Aleardi, ed ottenne un secondo trionfo di lagrime.
    Soldato formò dei soldatini di piombo per il pubblico, che ne
    impazzì, perchè piangevano senza perdere la vernice: li depose nel
    proprio libro come dentro a una scatola, e il libro diventò una
    strenna. Tutti vollero averlo, la bottega dell'editore fu messa a
    ruba. Ma nessuno di quei soldati era dell'esercito che aveva fatto
    l'Italia, nessuno aveva la fibra dei veterani del trentuno, nessuno
    l'impeto lirico dei ribelli del quarantotto, nessuno il sentimento
    epico dei volontari del cinquantanove. Invano Garibaldi aveva difeso
    Roma da tutta l'Europa, invano Lamarmora più tardi aveva salvata la
    medesima Europa alla Cernaia, e le aveva per prezzo del servizio
    dimandato l'Italia; invano tutti i villaggi erano clamorosi di
    soldati e di racconti guerreschi, gli eroi ed i martiri caldi di
    entusiasmo e di ferite: De Amicis invece di vedere e di ascoltare,
    aveva monturato i versi dell'Aleardi, e ne avea fatti tanti soldati.
    Nullameno i paesaggi salvarono le figure dei quadri, e la madre del
    figlio fu la più nobile e fortunata risorsa dello scrittore. Verga
    più coraggioso e più acuto sfiorò appena l'idillio e cercò il
    dramma. I suoi primi libri furono più un ricordo che una scoperta,
    ma imitando gli altri finì per trovare se stesso; e oggi, dopo un
    raccoglimento di qualche anno, ricompare più severo e più italiano,
    mentre Fogazzaro tenta di oscurarlo colla sua Malombra, Faldella
    vezzeggia ancora nei racconti, Barrili trova lettori per le proprie
    immutabili favole, orlate della stessa immutabile frangia di
    riflessioni; Capuana ne cerca per i suoi nuovi e piccoli esperimenti
    naturalisti, e il Pratesi quasi ignorato ne merita.
    
    Che se il romanzo aspetta ancora il proprio grand'uomo, il teatro
    ieri ha perduto uno dei suoi migliori, che molti credevano tale,
    Cossa è morto improvvisamente. I suoi primi saggi passarono
    inosservati, poi diede il Nerone, e l'Italia che giustamente si era
    appena voltata all'Arduino del Morelli, ed avrebbe dovuto voltarsi
    al San Paolo del Gazzoletti, svenne quasi d'entusiasmo davanti a
    questo capolavoro di una sera. I critici da giornale unirono in coro
    teorie ed applausi; si parlò di arte nuova, di uomini, che sulla
    scena venivano dopo tanti secoli a sostituire i personaggi, di una
    storia e di una vita, che uscirebbero rinnovellate da quest'arte. I
    drammi successivi, per quanto poveri, non valsero a smagare queste
    promesse, alle quali il poeta nella sua contegnosa modestia non
    aveva forse mai pensato, e il nome e l'arte del Cossa invasero
    pubblico e scena. Ingegno lirico senza profondità di sentimento nè
    elevatezza di pensiero, invece di concepire un dramma trovò spesso
    una scena, ve ne mise altre intorno, e lo fece; ma sempre lirico
    ripetè le stesse figure o le stesse idee, sostituendo una stampiglia
    ad un'altra, applicando alla storia la piccola pittura di genere
    invece della grande pittura accademica. Se non che a forza di
    impicciolire i personaggi, li fece quasi passare per uomini e
    credere vivi, benchè campati nel vuoto e moventisi per una scena,
    nella quale l'impero romano, reso con un processo di decalcomania,
    aveva appena il valore di una ornamentazione da piatti. Come tutti i
    piccoli, che la piccolezza inconsapevole rende temerari, affrontò
    tutte le epoche, si attaccò a tutti i colossi, Mario e Nerone,
    Cleopatra e Messalina, Beethoven e Ariosto, Giuliano l'Apostata e il
    Duca Valentino, alla repubblica di Rienzi e a quella di Cirillo,
    mettendo sempre un'epoca intorno ad un individuo, come si mette la
    paglia attorno ad un bicchiere, perchè non si rompa; poeta senza
    verso, dopo che Foscolo e Manzoni avevano scritto i versi dell'Aiace
    e dell'Adelchi; drammaturgo senza potenza di evocazione; artista,
    che del teatro aveva imparato la decorazione ed il macchinismo. Non
    avendo fiato per le tragedie, credette di salvarsi chiamando drammi
    le proprie, ma in questi drammi, ai quali la volgarità della forma
    avrebbe pur sempre conteso l'esistenza, non seppe convenire le vere
    fisonomie tragiche, le fatalità psicologiche o storiche, da cui
    solamente il dramma si forma. Ma il pubblico ristufo dei
    gentiluomini apocrifi del Ferrari si apprese ai romani falsi del
    Cossa, e contrapponendo per un istante l'uno all'altro i due
    scrittori, li riunì come due amici nel medesimo applauso. La fortuna
    di questi romani usuali ne attirò altri: drammi e romanzi
    pullularono. Tito Vezio e Spartaco tornarono col Castellazzo e col
    Giovagnoli per mettersi il nostro sentimento moderno sotto la loro
    tunica antica. Cavallotti, condannato dal destino alla rivolta in
    politica ed alla imitazione in arte, per essere originale seguendo
    il Cossa, andò in Grecia; ed egli, il poeta più sgraziato nella
    forma, rappresentò il popolo più poetico della terra: non pensando
    che scrivere una tragedia greca dopo Eschilo era una follia, e
    bisognava chiamarsi Shakespeare o Goethe, perchè la follia potesse
    essere genio; dopo Sofocle era un'imprudenza e bisognava essere un
    poeta come Foscolo, perchè la profonda umanità del sentimento e la
    irresistibile bellezza del verso la facessero perdonare. Ed invece
    parmi che a Milano l'Aiace fosse fischiato la prima volta. Col
    Cavallotti si unì il Salmini, ingegno rozzo, ma più forte; artista
    forse altrettanto scomposto, ma più serio. Ed ora è morto egli pure.
    Poi fra tutti questi rantoli di tragedie il Giacosa mise il riso
    gaio di una fiaba, che per un'ora trionfò di tutto e di tutti;
    senonchè temperamento delicato e spirito fine, salito trionfalmente
    dalla leggenda medioevale alla commedia goldoniana, volle essere
    tragico, come i tragici, che aveva quasi fatto dimenticare, ed
    allora il vincitore fu vinto. Ma col Giacosa avevano già preluso il
    Martini ed il De Renzis tentando i proverbi; però, se il primo
    valeva infinitamente più del secondo, nessuno dei due ricordò
    nemmeno da lungi il Marivaux o il Musset: invece di cammei fecero
    delle stampe, non furono abbastanza poeti per avere le perle,
    abbastanza orefici per saperle legare. Quindi il Martini arrischiò
    il racconto, e piacque; il De Renzis pretese al romanzo, e decadde.
    
    E in questa catena di opere e di scrittori, che doveva legare il
    teatro italiano moderno al teatro italiano antico, che l'Italia non
    ha mai veramente avuto malgrado il Goldoni; nella quale Cossa colava
    il il bronzo delle statue antiche, Ferrari la ghisa dei mascheroni
    moderni, l'ultimo anello fu il solo, che non si rompesse sotto lo
    sforzo della critica. Il teatro popolare, che colle radici piantate
    nel cuore del popolo, fuori di ogni abitudine classica, prosperava
    più forse per un rigoglio di natura, che per una coscienza
    artistica, trovò nel Gallina il proprio instauratore. Il quale,
    giovandosi col tristo esempio del Torelli, che aveva fatto accettare
    sulla scena il proprio dialetto italiano, v'impose il vernacolo di
    Goldoni; il pubblico accorse, applaudì, non osò sentenziare fra
    questo principiante e i decani, fra quest'arte fresca e quell'arte
    decrepita, ma l'incertezza del pubblico fu il maggiore dei trionfi,
    giacchè per la prima volta il pubblico si trovava in faccia a del
    nuovo. Gallina aveva vinto, il teatro era nato: ma siccome i bambini
    non divertono che per una mezz'ora, quelle sue commedie, penetranti
    come un vagito e graziose come un sorriso, non potevano, e non
    possono bastare alla vita di un teatro.
    
    Nè questa guerra nell'arte fu solo di uomini, chè sull'orme di Sara
    e di Ouida, due inglesi della colonia italiana, molte donne, che
    l'esempio della principessa Trivulzio ed il più alto ancora della
    Lorenzi non aveva scosso, entrarono in lizza. Ma siccome le donne,
    che pensano, sono una rarità nel loro sesso; così le donne, che
    scrivono, debbono avere il valore di una grande eccezione nel
    nostro: una scrittrice o è molto o è nulla; le nostre non furono che
    troppe. In un secolo, al quale la Stäel apre la soglia, George Sand
    illumina il meriggio, Giorgio Elliot rinchiude le porte del
    sepolcro, la donna che vuol perdere il proprio sesso, facendosi
    scrittrice, deve barattarlo con un'immensa gloria sotto pena di fare
    un contratto altrettanto dannoso che ridicolo. Certamente il
    pensiero non ha sesso, ma la sua è una fatica talmente maschia, che
    le donne non possono sopportarla, o sopportandola, vi si snaturano.
    
    Ed ecco l'arte dell'Italia fatta dirimpetto all'arte, che ha fatto
    l'Italia.
    
    Che cosa è il Nerone in faccia all'Adelchi? l'Arduino di Ivrea in
    faccia all'Arnaldo da Brescia? Che cosa sono i Rossi ed i Neri del
    Barrili in faccia all'Assedio di Firenze? Una volta i filosofi
    italiani si chiamavano Rosmini, Gioberti, Romagnosi: l'ultimo
    scolaro di quest'ultimo, grande quanto il maestro, il Ferrari, è
    morto ieri, e nessuno se ne è avveduto. Come si chiamano oggi i
    filosofi d'Italia? Ho letto Vera, e l'enormità di Hegel mi ha
    ispirato una calda ammirazione per l'interpetre; Ausonio Franchi,
    che Michelet battezzò il primo logico del secolo, si è ritirato
    dalla lotta; Augusto Conti, sentimento greve e ragione leggera,
    scema l'imponenza dell'autorità e il prestigio della poesia alla
    vecchia causa, che difende: Ardigò applica a se stesso la teorica
    della evoluzione, e di canonico si trasforma in ateo; Bovio, una
    nebulosa nella scuola, è diventato una nebbia nel Parlamento. E gli
    altri? Messedaglia e Correnti hanno trovato per la loro scienza una
    delle prose più belle del tempo; il Villari, spirito saldo ed acuto,
    preludia vigorosamente nella critica e nella storia; il padre Tosti
    mantiene il magnifico stile italiano di una volta, l'abate Fornari
    incolla l'abate Cesari sull'abate Gioberti, il Minghetti risente del
    Costa, il Tabarrini unisce al profumo dell'eleganza antica i sentori
    della vita moderna, il Bonghi, mente vasta e profonda, prodiga
    osservazioni e consigli talmente buoni, che nemmeno egli stesso sa
    praticare. Chi dunque alza una bandiera, la quale raccogliendo tutti
    gli sparsi manipoli, rannodi un esercito? Dov'è la lingua vera?
    quale è lo stile vivo? Manzoni prima di morire si abboccò col Bonghi
    su questo: che ne decisero dunque? Chi ha ragione, la piazza o la
    scuola, la tradizione o la vita? Certo col linguaggio della scuola
    non si può esprimere tutto, ma col linguaggio della piazza è
    altrettanto certo che non si è intesi da tutti. E non per tanto lo
    stile è tutta l'arte, perchè in pari tempo parola e frase, colore e
    disegno, ombra e luce, forma e sostanza. Quale oggi di tutti questi
    giovani ribelli, che disprezzano il passato e i passati, scrive una
    pagina come alcune del Tommaseo, o detta solamente un periodo, che
    si riconosca fra centomila, e sia forse il più bello, come uno
    qualunque del Mazzini? Profeta, apostolo e condottiero, la missione
    e l'epopea della sua vita gli contesero di essere forse dei
    primissimi fra gli scrittori del secolo, e non per tanto d'Italia fu
    il più nuovo ed il migliore. Immaginoso come il Niccolini ebbe il
    calore del Guerrazzi, colla fluidità del Manzoni e la precisione del
    Tommaseo: italiano dei tempi futuri, sarebbe parso un contemporaneo
    agli italiani del secolo d'oro, e nullameno le sue erano idee, alle
    quali egli primo aveva dovuto trovare una formula italiana. Filosofo
    etico come Socrate, non entra e non entrerà nella storia della
    filosofia del nostro secolo, che si inizia con Kant, sale fino ad
    Hegel, ridiscende fino a Spencer; ma se in lui la elevazione del
    sentimento superò quasi sempre l'altezza del pensiero, la perfezione
    del suo linguaggio ispirerà sempre una ammirazione malinconica, come
    se nella fiamma dello stile, col quale doveva riscaldare tutto un
    popolo, egli gettasse, sacrificatore disperato, colla sua vita di
    uomo la sua immortalità di artista. Ed oggi il Saffi, modesto Aronne
    di questo Mosè, che ha potuto morire nella terra promessa, conserva
    tuttavia nella devota interpetrazione del recente evangelo un raggio
    di quella purezza, che l'anima sembra comunicare alla parola, un
    residuo di quella efficacia nella frase, che il maestro gli apprese
    scaturire dalla sincerità del pensiero e dalla rettitudine della
    intenzione. Mazziniano meno ligio alla nuova legge, ma che pagò col
    proprio esilio e col sangue dell'eroico fratello la fede all'Italia,
    Giovanni Ruffini, del quale i giornali recano oggi la mesta notizia
    della morte, dovette farsi inglese per vivere del proprio ingegno e
    della propria gloria. La patria ingrata non lo conobbe che tardi, e
    non mandò nessuna rappresentanza ai suoi funerali. Scrittore del
    tempo eroico, quando lo scrivere era un combattere, egli parve dopo
    artista altrettanto fine, ma la sua arte, sempre mazziniana
    d'ispirazione, rimase ottimista, difendesse l'Italia o un'idea,
    sognasse una patria od una virtù. E nullameno fu posposto al
    D'Azeglio ed al Grossi, pei quali vi furono monumenti, oggi già più
    vecchi dei loro libri già morti. L'Ettore Fieramosca ed il Marco
    Visconti contemporanei del Dottor Antonio destarono un entusiasmo,
    che dura tuttavia in rispetto, malgrado che il primo fosse una
    degenerazione dei poemi guerrazziani, e il secondo rappresentasse la
    putrefazione del genere Walter Scott, che Manzoni, con uno sforzo
    allora incompreso e adesso ancora quasi incomprensibile, aveva
    alzato quasi sino alla maniera del Balzac. Ed oggi, che i violenti
    attacchi del Carducci alla lirica manzoniana hanno quasi reso di
    moda il disprezzo del grande poeta e romanziere, che fu naturalista,
    per usare questa nuova parola, quando solo Balzac lo era senza
    teorizzarne, e Zola sognava forse nell'utero materno, si osano
    citare a modelli il D'Azeglio ed il Grossi, la nullità del pensiero
    ed il lattime del sentimento: dai quali derivò la teorica dei buoni
    libri, eretta a dogma dai manzoniani. Per essa la moralità privata
    deve valere l'ingegno pubblico dell'autore, e la misericordia delle
    intenzioni ogni altra qualità di fantasia e di sentimento, di forma
    e di sostanza. Così la critica minuscola, ridotta dai giornali a
    sacerdozio come l'arte, crea e distrugge le effimere riputazioni sui
    giornali sbocciati. La grande critica tace: Settembrini,
    temperamento storico ed ingegno sistematico, è morto: il De Sanctis,
    temperamento poetico ed ingegno filosofico, dopo aver messo la
    psicologia a base della critica, sostituì troppo spesso la
    intuizione all'analisi; quindi i suoi ritratti diventarono teste, e
    le pretese lezioni di anatomia si cangiarono troppo sovente in
    speculazioni metafisiche, nelle quali il tempo storico era appena un
    colore, e il simbolismo dell'idea toglieva quasi ogni significato
    alla varia composizione umana dell'individuo. Il Carducci, lirico ed
    erudito, volle essere critico, e lo fu splendido e forte come in
    tutto ciò, che ottiene sempre dalla sua volontà. Forse se non il
    genio, poichè dei primi fra i primi del mondo, egli ha comune nel
    secolo col Balzac la nobile ed incalcolabile energia della volontà,
    colla quale coltivando instancabilmente il proprio terreno è
    arrivato a farne un ricco giardino, sebbene la sua flora originaria
    non fosse nè troppo varia, nè molto opulenta. Ma egli vi trasse semi
    da tutti i climi, le palme dell'Africa e gli abeti della Germania,
    le rose della Grecia ed i gazuma dell'America; vi educò la vite
    colla stessa perfezione dei vignaiuoli francesi, amò l'edera e si
    compiacque ad incoronarne le vecchie statue dissepolte, colle quali
    andava ornando i viali. Ma nella critica preferì la necroscopia alla
    diagnostica, i morti ai vivi, simile in questo al D'Ancona, che
    spinse la passione dell'anticaglia fino alla ghiottornia dei più
    minuti particolari, sprecando non si sa se più ingegno o dottrina;
    mentre il Zendrini, morto da poco, scambiava la propria cultura per
    una capacità critica, e il Massarani sdottrineggia ancora pigliando
    l'arte per la riprova di una teoria morale, piuttosto che per una
    totale rappresentazione della vita: il Trezza svapora in una
    fraseologia nebbiosa, il Franchetti nell'Antologia oscilla fra il
    buon senso ed il buon gusto, il Nencioni in articoli brevi e
    talvolta bulinati corregge l'influsso delle letterature straniere
    sulla nostra, analizzando gli esempi che la più parte invocano senza
    conoscere. Così, mentre la critica diventata embriologia nel Bartoli
    studia con amore sapiente le origini della nostra letteratura, e
    falsa o sdegna l'opera contemporanea, il verso che tubava ieri
    coll'Aleardi, zirla adesso col Fontana, parla collo Stecchetti,
    sorride col Panzacchi, stuona col Rapisardi, abbaia col Cavallotti,
    novella col Giacosa, si libra col Zanella, esulta ancora col Prati,
    crea col Carducci. Questi risuscita miracolosamente gli antichi
    metri latini, e vince nella prosodia una battaglia combattuta
    infelicemente da altri ingegni in altri secoli, ma il pubblico
    applaude senza gustare: Rapisardi, invidioso della risurrezione,
    profana il sepolcro dell'epopea, e ne trascina sulla piazza il
    cadavere purulento. Quando alla vita scema lo splendore manca il
    rispetto alla morte: i forti sono prudenti, i deboli sfacciati. E
    tra il Carducci e il Rapisardi, un poeta ed un ingegno, Renato
    Fucini è ancora l'uno e l'altro, sebbene il Porta gli sia ancora
    troppo al disopra e il Belli ancora molto innanzi. Ma primo fra i
    nostri lirici viventi, il Carducci pretende di essere l'ultimo nella
    storia e nella nostra lirica, poichè essa muoia: e già la musica,
    questa lirica della lirica, agonizza. Verdi, il superstite
    dell'immortale quadriglia, ricorregge colla mano tremula le opere
    della giovinezza, come un vecchio capitano ama di riforbire egli
    stesso la spada, che non può più cingere: il Boito ha impiegato
    dieci anni a scrivere il Mefistofele e riposa sugli allori
    guadagnati contro il Gounod: il Gobatti, giovane e fortunato
    condottiero dei Goti, ha d'uopo ancora di nuove battaglie e di nuovi
    trionfi. La musica classica è quasi obliata malgrado il valore dei
    suoi tre ultimi campioni, lo Sgambati, il Bazzini, il Rinaldi; nella
    piccola musica si adora il Tosti, e si misconosce il Gordigiani, si
    chiedono romanze da salone, le quali girino sulle casse dei
    pianoforti come tanti scarabei luminosi, invece di libellule, che
    balzino nei raggi del sole e vi scintillino. Così il canarino vince
    l'usignolo, e il profumo dei fazzoletti copre l'olezzo dei fiori.
    
    Ed ecco l'arte dell'Italia fatta alla sbarra del mondo e della
    storia.
    
    Certo la grande questione pregiudiziale della lingua ha
    efficacemente contribuito alla attuale miseria, epperò sorvolandola,
    penso collo Zola, che la nuova lingua dovrà uscire dalla officina
    del giornale, se nella scuola la tradizione contende il passo alla
    vita. Naturalmente occorrerà un lungo processo, ma diggià
    sull'incudine dell'articolo quotidiano qualche lamina viene
    superbamente battuta. La necessità di trovare un nome per ogni nuovo
    oggetto ed una formula per ogni nuova idea, egualmente compresa da
    tutti con uguale prontezza, ma specialmente uno stile agile e
    nervoso, elegante nella semplicità della eleganza moderna, colla
    fluidezza di un discorso e la correzione di un testo, predomina il
    giornale. Fiume e cloaca, che raccoglie ogni rivo e ogni scolo, come
    l'orchestra sognata da Berlioz, ha tutti gli strumenti e tutte le
    voci; effimero ed immortale come la vita, ne ha la stessa unità
    multiforme; è la forza più grande del nostro secolo, e ne sarà la
    gloria. Il giornale è essenzialmente moderno. La lingua, che in
    fondo non è se non un dialetto epurato, vi è in continua fusione; le
    parole vi si rompono e vi si formano fra un rombo assordante, un
    lavoro minuscolo ed assiduo, al quale cooperano migliaia di operai
    senza nome, mentre pochi direttori si aggirano fra di loro,
    sorvegliando con orgoglio di padroni. Molti articoli, che oggi si
    leggono già negligentemente, avrebbero fatto strabiliare inserti
    nelle pagine di un libro di trent'anni fa. Nullameno pochi sono
    ancora coloro, ai quali si possa riconoscere il merito vero di
    stilisti, sebbene, come osserva giustamente il Martini, il
    miglioramento nello scrivere comune italiano cominci ad essere
    sensibile. Tra i primi il Martini stesso, il De Zerbi, il Panzacchi,
    diversi di opinione e di indole; il primo forse ancora troppo
    toscano, il secondo ancora scorretto, il terzo italiano veramente,
    più fino di gusto e più forte di studi. Ingegno alato si posò
    dappertutto per involarsi appena posatosi; nato oratore come pochi,
    poeta che potrebbe tradurre nel verso più di una musica gentile,
    mentre tutti gli storpiano in musica le sue delicate romanze;
    critico, pel quale nessuna musica ha molti misteri, quella dei
    colori e delle note, della poesia e della prosa. Egli è celebre ed
    avrebbe potuto essere glorioso, se la pagana serenità del suo
    spirito, e l'ateniese indolenza del suo temperamento fosse stata
    guasta da un solo vizio: la vanità. Intorno ad essi altri molti
    vanno sorgendo, ma parlando di stilisti non posso citare nè il
    Ferrigni, nè il Petruccelli della Gattina. Il primo, costretto ad
    una moltiplicazione miracolosa di articoli, si sorregge collo
    spirito, come gli operai estenuati si rinforzano coi liquori; il
    secondo discende ancora nel giornale, come in un campo chiuso, a
    commettervi qualche prodezza colla vanteria di un vecchio
    giostratore. Pensatore senza sistema, dialettico senza metodo,
    artista senza forma, egli ha reso quasi cosmopolita il proprio
    ingegno: conosce tutte le lingue, meno l'italiana, ha difeso tutte
    le idee ed abbandonate tutte le opinioni. Ma la sua fibra, che nè
    gli anni, nè le apoplessie poterono fiaccare, è ancora della vecchia
    razza, che ha fatto l'Italia. Quando Petruccelli della Gattina sarà
    morto, nessuno si accorgerà della sua perdita, nullameno di tutti i
    giovani, oggi illustri, che piglieranno il suo posto senza dirlo,
    nessuno vi porterà la stessa ricchezza di cognizioni ed altrettanta
    forza d'ingegno.
    
    E scioccamente i giovani letterati si lagnano ora della loro fortuna
    nel popolo, giacchè la sorte non fu mai più lieta ai novizi. Quelli
    che battono il teatro si dolgono perchè la società non abbia ben
    contornata la propria fisonomia come in Francia, dove il salone
    uniforma costumi e linguaggio, quasichè la società dovesse esistere
    per l'arte, e non questa per quella; mentre nella stessa Francia i
    grandi scrittori, da Balzac a George Sand, da Zola a Flaubert,
    cercarono i loro modelli fuori dell'ambiente falso del salone,
    falsato ancora peggio dal Dumas e dal Feuillet. Tutti gli altri del
    romanzo e del melodramma, del canzoniere e della tragedia guaiscono
    sulla indifferenza crudele del pubblico, mentre questi, che teme
    istintivamente la miseria della nostra arte, ne ricusa la coscienza,
    ed è pronto ad acclamare delirando ogni più vaga apparenza di
    grandezza. Applaude ancora al Ferrari: per dieci anni ha messo Cossa
    sugli altari, ed oggi paga una sottoscrizione per erigergli un
    monumento; si sollevò come un sol uomo alla marcia trionfale dei
    Goti, ha imparato a mente tutte le canzoni dello Stecchetti, batte
    perfino le mani ai greci di Cavallotti. Giammai vi fu epoca nella
    quale la celebrità fosse più pronta, e la gloria più facile. Tutti i
    grandi sono morti, tutti i seggi sono vuoti. Lo Stecchetti oggi è a
    fianco del Carducci, come il Leopardi trenta anni or sono era a
    fianco del Manzoni. Che se malgrado queste eccellenti disposizioni,
    cui la storia dovrà un giorno trovare piuttosto ridicole, nessun
    nuovo nome sorge dalla folla, si è che nessuno arriva nemmeno ad
    essere la larva di uno scrittore; e quando non si tocca la vita è
    più spregevole che pietoso il lagnarsi della immortalità. Muoia
    domani il Carducci, e dovremo per decoro di patria augurarci che le
    Alpi, le quali non poterono mai trattenere gl'invasori, trattengano
    la nostra letteratura dal commercio europeo. Che avrebbero dunque
    esclamato questi pigmei, i quali implorano istantemente il pubblico
    di farli grandi, poichè la natura non volle, se invece di capitare
    oggi, che il minimo della statura nella leva è diventato il massimo
    della statura nell'arte, fossero nati ottanta anni or sono fra i
    colossi, che hanno fatto l'Italia, ed ella avesse detto loro, come
    disse a Rossini, a Leopardi, a Manzoni: siate la mia gloria in
    Europa, poichè io debbo con questa ricomprarmi la libertà; mentre la
    Francia aveva Balzac e Hugo, la Germania Gian Paolo Richter ed
    Heine, l'Inghilterra Dikens e Thakeray, la Polonia Mickiewitz, la
    Russia Gogol e Puskin, l'America Pöe e Longfellow?
    
    Se domani avremo una guerra, Cavallotti potrà essere il Petöfi, come
    lo è stato il Berchet? Non sanno dunque costoro, che dopo la Grecia
    l'Italia è artisticamente la più grande nazione, che l'Europa è il
    continente più piccolo per la geografia, ma il più grande per la
    storia, che l'America passa già dall'industria all'arte attraverso
    la scienza, e che per rappresentare il pensiero di un popolo anche
    in un solo e nel più piccolo dei momenti, bisogna essere ben grande,
    e quando non si ha questo onore doloroso non bisogna commettere la
    sciocchezza di augurarselo, o peggio la viltà di mentirlo? Quando
    Castelar combattendo la elezione di Amedeo di Savoia a re di Spagna
    opponeva la storia spagnuola alla nostra, conchiudendo ad ogni
    periodo del discorso col pesante ritornello: siete piccoli! aveva
    torto; ma noi eredi di una rivoluzione, che non avremmo mai saputo
    compiere, possiamo e dobbiamo ripetercelo amaramente sul volto,
    perchè la prima speranza di un risorgimento sta nella coscienza
    della propria prostrazione.
    
    E ora che la natura ti ha ripreso dalla società, e il vento della
    steppa t'invola ad uno ad uno i ricordi d'Italia, t'immagini tu come
    sia la nostra coscienza nazionale? Mentre Garibaldi è ancor vivo
    crederai che in noi sia spento il senso epico della nostra
    rivoluzione? Nullameno, sventura od infamia, è vero. Quando Vittorio
    Emanuele morì all'improvviso, parve che il cuore della nazione desse
    un balzo, e da tutte le labbra rompesse un tremendo singulto: egli
    era l'Agamennone della nostra Iliade, il simbolo più sintetico della
    nostra idea. L'individuo non montava, e fosse stato pur pazzo, nullo
    come suo nonno, o inferiore come suo padre, poichè con lui si era
    trionfato e in lui s'incontravano la tradizione romana e l'italiana,
    il concetto dei pensatori e la visione dei poeti: poichè aveva
    riassunto tutte le forze, quella di Garibaldi e di Cavour, di
    Mazzini e di Cattaneo: poichè aveva fuso il regno di Piemonte con
    quello di Napoli, la repubblica di Genova con quella di Venezia, il
    ducato di Milano con quello di Firenze; poichè aveva riaperto Roma,
    chiusa dai papi al mondo civile; poichè infine tutto quello che si
    era voluto, e che si era fatto, aveva dovuto passare attraverso lui,
    come per un perno, che intrecciando i fili, torce la corda; tutti
    coloro, che la miseria di partito non abbassava sotto il livello del
    cittadino, dovevano convenire in questo simbolo, che uscendo dalla
    vita per entrare nella storia, prendeva la consacrazione della
    irrevocabilità. Cattolici e repubblicani, conservatori e socialisti,
    l'unità italiana doveva imporsi a tutti ed essere accettata da tutti
    come un campo, dal quale si erano scacciati i barbari e che restava
    libero ed aperto ad ogni coltura. E parve che fosse così. Quindi una
    voce, alla quale tutti risposero, invocò un monumento, che fosse
    testimone eterno di un'ora già passata, ma che resterà una stazione
    nel viaggio della civiltà. Si apersero sottoscrizioni, e tutti
    sottoscrissero, poveri e ricchi, vecchi e fanciulli. La mente
    raggiava, il cuore batteva. Ma quando il monumento dovè uscire dal
    sentimento per concretarsi nell'idea e tradursi nella forma, nessuno
    più si comprese. Le opinioni irruppero, i disegni fioccarono, le
    commissioni moltiplicorono i pareri e i dissensi. Nullameno vi era
    una idea vecchia di migliaia di anni, destinata a viverne altre
    migliaia, che era tutto il nostro passato, in nome della quale
    eravamo risorti, perchè con essa eravamo vissuti, perchè per essa il
    mondo aveva vissuto con noi. E questa idea era il Campidoglio. Come
    ora fosse sconciato non caleva; il Campidoglio era pur sempre il
    Campidoglio, il vertice più alto della civiltà antica, il primo
    centro della unità mondiale, che l'idea cristiana non osò occupare,
    e fece bene, poichè essa era un'idea religiosa, e il Campidoglio è
    un'idea civile. Roma era stata saccheggiata molte volte, distrutto
    il suo impero, ma nessuno di quei barbari trionfatori aveva osato
    fermarsi sul Campidoglio e diventarvi una statua. Se Giulio Cesare,
    al quale l'Italia deve ancora un monumento, che le consacrerebbe il
    primato fra le nazioni, l'avesse occupato, nessuno avrebbe potuto
    porsi al suo fianco: ma l'imperatore Marco Aurelio vi è appena una
    decorazione, incomparabile artisticamente, e senza storico valore.
    Perchè dunque tutti non hanno gridato: in Campidoglio, in
    Campidoglio!? Perchè quest'idea non venne ancora in mente ad alcuno?
    Perchè non si è sentita la necessità di riannodare la nostra storia
    all'antica, mantenendo la grande tradizione romana, che pure è la
    sorgente di tutta la vita moderna? Perchè rompere la serie dei
    periodi nella eterna idea dello stato, abbandonando il Campidoglio,
    che la repubblica di America ha dovuto copiare per ingrandire con
    questo simbolo il proprio fatto? Perchè lo stato moderno non risale
    il Campidoglio per provare alla chiesa la propria indipendenza, e al
    mondo la eternità del loro dualismo parallelo e fatale? Rienzi, che
    sognò forse primo la nuova Italia, morì sui gradi della scalea
    capitolina; perchè Vittorio Emanuele, che ha riparato la sconfitta
    di quel vinto sublime, non la monta, e mettendosi sul piedestallo di
    Marco Aurelio, calmo altrettanto, non mostra al mondo che tutte le
    epoche storiche si verificano solamente in Campidoglio, e che la
    libertà moderna per essere immortale deve prendere il posto
    dell'antica?
    
    Forse metteranno Vittorio Emanuele in una piazza recente di Roma;
    così il rappresentante di tutta la nostra epopea sarà trattato come
    i rappresentanti delle sue fasi, poichè Cavour, Mazzini e Garibaldi
    dovranno egualmente occupare una piazza romana, ed allora col
    sentimento epico della rivoluzione avremo perduto la coscienza della
    nostra storia. E poichè ad ogni errore di testa, ne segue fatalmente
    un altro di cuore, e quando la testa si annebbia, il cuore marcisce,
    si sono invitati perfino gli stranieri al concorso per questo
    monumento, che costerà nove milioni, come se si trattasse di una
    grand'opera decorativa e non di un simbolo, che l'unità monarchica
    del fatto costringe nell'unità individuale del re; mentre avvenuto
    colla unità repubblicana, il simbolo avrebbe avuto una unità
    allegorica; come se a questo monumento, che noi facciamo a noi
    stessi, perfino i manovali e la sabbia non dovessero essere
    italiani.
    
    Ed ecco, mio nobile esule, come la letteratura è prostrata in
    Italia, perchè, figli di ribelli conquistatori, noi abbiamo questa
    ciera da domestici, accattiamo originali da copiare nei libri e
    nelle leggi, e antesignani nelle scienze e nella filosofia,
    nell'arte e nell'industria, anche quando eravamo servi dello
    straniero, oggi liberi ed italiani non abbiamo nè l'orgoglio del
    passato, nè la dignità del presente. Forse non si è osservato
    abbastanza come i figli dei grandi uomini siano quasi sempre al
    disotto della media, in contraddizione con tutte le leggi
    biologiche: ma forse questo fenomeno, che dipende dall'enorme
    consumo di forze, onde si distinguono le grandi vite, si verifica
    egualmente nei popoli. Dopo la rivoluzione dell'ottantanove e
    l'impero napoleonico, due immense combustioni di pensiero, la
    Francia fu esausta e cadde sotto la restaurazione, un governo anche
    più piccolo nelle idee, che nei fatti; ma la decadenza fu effimera,
    e i bambini nati a quell'epoca, composero quella splendida fioritura
    d'ingegni, che va oggi morendo. La vita è immortale, e le giornate
    del tempo sono senza numero: però ogni giornata è chiusa fra due
    crepuscoli, e il nostro meriggio durò dal quarantotto al
    cinquantanove. Forse i grandi scrittori, che dovranno mantenere la
    nostra gloriosa tradizione sono già nati e tempestano nelle scuole
    elementari: fors'anche qualcuno dell'avanguardia a quest'ora si
    dibatte nei primi dolori del genio e dubita di se stesso, come tutti
    i forti. Coraggio, incognito infelice! Al pari di te noi tutti
    provammo le angoscie del dubbio e le ebbrezze della fede, delirammo
    di orgoglio e di umiltà, nel nostro secreto ci credemmo gli ultimi
    ed i primi. Come tu fra poco, avventammo il nostro libro primo nato,
    quasi uno squillo di fanfara in un mattino di battaglia; ma noi ci
    battevamo sotto l'eccelso monumento eretto dai nostri padri e la sua
    ombra agghiacciò il nostro entusiasmo. Ci sentimmo piccoli e deboli.
    Come gli egiziani moderni, che guardando le piramidi millenarie non
    hanno più nemmeno il coraggio di alzare una casipola, e spiegano
    lungo le vie le stuoie per dormirvi, noi scrivemmo articoli e
    bozzetti, romanze e canzoni, radunammo parecchi materiali e finimmo
    per servirci sopra. Invano gli stranieri ci derisero, invano i
    superstiti di quell'epoca gloriosa ci incuorarono: colle forze ci
    venne meno la fede, ed allora ridemmo, perchè il sorriso della
    incredulità cela spesso il sogghigno della impotenza. Chiunque tu
    sia, che applaudiranno domani, tu sarai fatale a noi tutti, giacchè
    i nostri abbozzi spariranno nelle tue opere, e i nostri nomi si
    perderanno dentro il fracasso del tuo. Larve del diluculo noi
    spariremo all'alba; manovali innominati, che ammassammo la sabbia ed
    i mattoni, moriremo appena arrivi l'architetto del nuovo monumento.
    Questo è il destino di tutti i deboli, che la natura dispone a
    gradini nella sua scalea, sulla cima della quale non arrivano che i
    forti; embrioni compassionevoli, noi vivremo nella vita del genio,
    che realizzerà la nostra forma, come tutti i malati e gli incompleti
    vivono della vita che i robusti fanno alla umanità.
    
    Non ridere, incognito superbo, del nostro sogno, che tu dovrai
    attuare; il nostro dolore è comico, il tuo sarà tragico, ma pur
    sempre dolore.
    
    Allorchè un contadino montato sopra uno dei tuoi puledri russi, che
    qui vincono tutte le nostre corse, ti recherà dalla città più vicina
    questo mio nuovo libro, parmi d'intendere fin d'ora il tuo
    malinconico ed amichevole: ancora! e ancora un errore, giacchè non è
    nemmeno un vero quartetto! Ma non ti dolga troppo dei tuoi saggi
    consigli, poichè l'effetto oramai ne è maturo. Entrato, tu sai
    perchè, in questa guerra letteraria, promisi sempre a me stesso di
    non morirvi: concepii un disegno, e lo attuai. Vinto ad ogni
    battaglia ed insultato come tutti i vinti, non scesi mai, nè
    scenderò alla scempiaggine della replica, alla bassezza del lamento:
    i vinti hanno torto. Altri sarà più fortunato, perchè più forte:
    pochi più sinceri ed intrepidi. Poichè ogni pompa dell'arte mi era
    contesa per la miseria dell'ingegno, ebbi l'orgoglio della nudità
    del mio pensiero; dissi tutto, forse dissi male, però dissi. Nella
    società due sole persone possono essere senza riguardi, il lazzarone
    ed il principe, ed essendo liberi, sono forse i meno sfortunati:
    lazzarone del pensiero, io volli essere pari al principe nella
    libertà, e se le mie parole dovevano andare perdute, non compresi
    perchè avessero ad essere menzognere.
    
    Questo libro è il principio della fine.
    
    Domani comincerò il Sì, e sarà l'ultimo della serie concepita dieci
    anni fa. Tu ne conosci le idee, e ne indovini meco la sorte. Sarà la
    suprema battaglia perduta, dopo la quale, anche essendo buon
    patriota, mi sarà permessa la ritirata; la coscrizione non dura
    adesso che tre anni, io ne avrò passati dieci sotto le armi. Un
    proverbio dice che una bella ragazza non può dare più di quello che
    abbia, e gli scrittori buoni o cattivi non sono in migliori
    condizioni; laonde raggiungerò forse la tua vita di coltivatore,
    lasciando ad altri lo sfracellarsi inutilmente il cranio contro le
    porte bronzee della gloria, o l'aprirle validamente coll'appoggiarvi
    solo un dito.
    
    I deboli tentando la prova sono eroici, ostinandovisi diventano
    ridicoli. Forse, anzi senza forse, la prova è già fallita, ma la
    costanza non è composta altrimenti della caparbietà, e non è facile
    nè a chi le ha, nè a chi le giudica, il distinguerle nettamente.
    
    A rivederci dunque.
    
    Quando il tuo cavallo russo ti sprofonderà galoppando dentro la
    steppa, e il tuo occhio si riposerà nell'infinito della pianura, e
    il verde della terra e l'azzurro del cielo si fonderanno in una sola
    sensazione entro il tuo cuore, in una sola idea entro il tuo
    cervello, ricordati, se puoi, l'amico lontano, del quale la fantasia
    prediletta è sempre stata di partire dal mondo sopra un cavallo
    nero, stellato sulla fronte. È una fantasia senza significato, ma
    che mi appare sempre al pensiero, nella stanchezza di una
    meditazione, o nella noia di una distrazione. Mi sembra di vedermi
    innanzi il cavallo sellato, e di avere agli occhi il deserto. Il
    cavallo è alto e leggiero, la criniera gli tocca i ginocchi, la coda
    gli batte i garretti: è senza testiera, la sella è piccola, il
    deserto è sconfinato. In sella adunque e al galoppo:
    
    
    
    Allons, capitaine, appareillons pour l'infini
    
    
    
    come urlava il marinaio di Baudelaire alla morte.
    
    In sella ed al galoppo, ecco adesso la tua vita: a rivederci dunque,
    nobile esule, a rivederci forse nella steppa, nel silenzio della
    natura, nel deserto del mondo, nella solitudine dell'infinito.
    
    
    
    Ottone di Banzole.
    
    VIOLINO
    
    Annottava.
    
    
    
    Egli andò lentamente verso la scranna, sulla quale aveva posato il
    violino; lo prese, ne saggiò l'accordatura, ed avvicinandosi un
    altro passo alla finestra, senza rivolgere il capo, incominciò a
    suonare così:
    
    
    
    Poichè siamo soli in questo gabinetto, mettetevi là, su quella
    poltrona, ed ascoltatemi. Fra poco sarà notte: adesso il cielo è
    opaco come un mare e silenzioso come un deserto. Avete mai
    riflettuto su quest'ora del vespro, quando tutto sta per sparire, e
    nulla è ancora scomparso? Vi è mai sembrato di perdere in quest'ora
    la coscienza del mondo, e di sentirvici come un pellegrino, il quale
    cammina alla ventura, distratto dalla curiosità del viaggio, ma
    rattristato dal mistero del proprio pellegrinaggio? Guardatevi
    attorno. Tutto questo bel gabinetto, di cui ogni mobile è come un
    capitolo di romanzo o un canto di poema, nel quale avete accumulato
    tutti i comodi della vostra eleganza ed i capricci della vostra
    fantasia, non lo si vede quasi più; i colori della tappezzeria sono
    periti, le forme dei mobili si sono dileguate. I quadretti, che
    rivestivano addirittura le pareti, hanno perduto i personaggi delle
    loro scene, e le statuette di Sassonia se ne sono andate lasciando
    sulle scarabattole un mucchio biancastro di ghiaia. Un'ombra di
    sotterraneo è sorta a poco a poco dagli angoli, come dai canti più
    inesplorati del vostro cuore si sono forse sollevati dei ricordi, e
    ha occupato tutto l'ambiente: la grande specchiera si è spenta,
    l'orologio non batte più. Perchè non l'avete caricato, signora? È da
    un pezzo? A qual minuto della vostra vita si è arrestato? Ve lo
    ricordate nemmeno? È stato al minuto, che Mefistofele aveva promesso
    a Faust, e al quale Faust non credeva? e voi, signora, più fortunata
    di Faust, e più bella di Margherita, ci avete creduto? Quando il
    cuore, che è l'orologio della nostra vita, si ferma, perchè
    l'orologio del tempo seguiterebbe? Io non lo so se il tempo sia una
    forma vacua o una realtà, nella quale si muova la nostra vita; non
    so se, come fu detto anticamente, sia la misura del moto; ma se lo
    fosse, perchè non si arresterebbe, quando la nostra vita si arresta
    sul vertice di un minuto, dal quale abbraccia tutto il proprio
    paesaggio? Amore e ragione hanno di questi minuti, sui quali
    arriviamo qualche volta, e dai quali discendiamo come dalla cima di
    uno scoglio nell'oceano, mentre i mostri marini ci seguono colla
    gola spalancata e le rondini tessono sul nostro capo cogli ultimi
    raggi del sole il velo ondeggiante del loro volo. Cantare
    coll'usignolo o volare colla rondine, ecco un destino. Quando il
    sole è partito per un altro mondo e la luna galleggiando per il
    cielo, come un avanzo di naufragio sulle onde, dà una fisonomia di
    ammalato al paesaggio, allora l'usignolo canta invisibile nel
    fogliame. Egli è solo. Nel giorno tutti ciarlano e si muovono. Egli
    ha aspettato il silenzio di tutti per il proprio monologo, al quale
    non chiede e non spera risposte. Il suo canto vario ed inesauribile
    ha l'accento di tutte le passioni e l'eco di tutti gli accenti. Fra
    gli accordi più pigri di una fantasticheria, a volta a volta getta
    una invocazione così ardente ed acuta, che traversa il silenzio
    della notte, come in fondo all'orizzonte un lampo di calura solca la
    tenebra dell'infinito. Egli si ascolta e si risponde: può darsi che
    ami, ma siate sicura, non ama che l'amore. Non è vero che richiami
    la propria compagna e la inviti alle nozze notturne sotto i raggi
    della luna e le esalazioni dei fiori. La sua è una poesia più vasta
    e più alta, il suo canto un romancero, dove gl'inni svolazzano fra
    le elegie, e lo strambotto interrompe spesso la modulazione
    cadenzata di una saffica. Come un poeta seduto sulle macerie di una
    morta città egli canta nel silenzio e nel deserto: attinge in se
    stesso l'ispirazione, trova nel proprio cuore le ragioni di essere
    mesto od allegro, e mentre la vita gli passa innanzi coi suoi mille
    problemi e le sue mille contraddizioni, egli le coglie a volo, e le
    libera nuovamente in un trillo o in una corona. Solo come tutti i
    grandi spiriti, non gli basta la solitudine e cerca il secreto; si
    nasconde nell'albero più foglioso, nella macchia più bruna, canta
    tutta la notte, e all'alba, quando tutti si ridestano, cerca un
    fitto anche più cupo e si nasconde. L'arte è così. Che cosa
    farebbero nel mondo dei lavoratori la poesia e la musica? Avete mai
    osservata la luna a giorno alto? Invece di un astro pare un cencio,
    un avanzo di quegli aquiloni di carta, che i fanciulli lasciano di
    marzo salire nel cielo. Ma anche il giorno ha il suo poeta, piccolo
    e a bruno come tutti i poeti del nostro secolo. Perchè mai nel
    nostro secolo la poesia è così triste mentre la vita è così florida?
    Forse l'usignolo ha ragione, o signora; la poesia ha bisogno della
    notte, come la musica del silenzio. Guardate il poeta del giorno
    come sta in alto. Ve l'ho detto; è vestito a bruno e non canta;
    appena appena incontrandosi con qualcuno scambia un saluto sommesso,
    come gli avvisi dei barcaiuoli pei canali di Venezia. Ma invece di
    cantare vola sempre. Le sue ali sono come due remi, la sua coda come
    la barba di Mefistofele. Non scende a terra, perchè se vi scendesse,
    non potrebbe più alzarsene: ha le ali troppo lunghe. Vi sono molti,
    signora, che non possono stare per terra, vi cresca la polvere od il
    fango, e una volta precipitativi, debbono morirvi di fame guardando
    in alto. La rondine vola. Essa è libera; il falco non è abbastanza
    agile per raggiungerla, il cacciatore quasi sempre troppo superbo
    per tirarle contro. E la rondine vola dalla mattina alla sera,
    quando l'aria è ancora umida dalla rugiada della notte, quando bolle
    nel meriggio, quando ondula al vento del vespro: vola sempre,
    s'innalza a picco, si abbandona strisciando, si libra e volteggia,
    si arresta e si disserra, destreggia e precipita, si piega sopra
    un'ala come una gondola, sopra un fianco, parte per lungo viaggio e
    ritorna, leggiera ed instancabile, muta e bruna, a stormo e sempre
    sola. Ed è sempre allegra. Come l'usignolo è inesauribile nel canto,
    essa è infaticabile nel volo: l'usignolo canta perchè è il poeta
    della notte e del pensiero, essa vola perchè è il poeta del giorno e
    dell'azione. Solo il vespero è senza poeta. L'allodola, che trilla
    così lieta al mattino, si è già riparata nel nido, la cicala ha
    mandato il suo ultimo saluto al sole, e i grilli attendono forse le
    lucciole nascoste nel grano. È l'ora dell'agonia, sentite la campana
    che l'annuncia. La sua voce lenta e solenne si perde nell'ombra come
    la vita, ma i suoi rintocchi sono contati come gli ultimi minuti del
    morente. Fra poco cesserà, l'aria sarà più fosca, e i morenti
    saranno morti. Avete mai pensato che questa stessa campana
    annunzierà forse la nostra morte? Voi siete bella, siete bionda,
    siete fresca: i vostri occhi scintillano come un lago, il vostro
    cuore olezza come un giardino: non vi ricordate di quando eravate
    bambina, non vi rammentate più che un giorno non sarete più donna?
    Eppure, signora, non vi è meriggio senza ombra, per quanto intenso
    ed abbagliante: sul mare si disegna l'ombra delle navi che
    viaggiano; sul deserto si stampa l'ombra degli uccelli che migrano.
    Ma voi siete troppo felice nella vostra bellezza, e la felicità è
    gemella dell'obblio. Quanti uomini di quelli, che passandovi
    innanzi, si sono inginocchiati ai vostri piedi come ad una immagine
    miracolosa, vi ricordate, signora? Molti forse vi hanno amato, e
    coloro, che parlavano meno, vi amavano di più. Viandanti stracchi o
    scoraggiati si accompagnarono con voi per qualche miglia; non so se
    tutti erano belli, ma tutti avrebbero voluto esserlo per
    accompagnarvi sempre. La loro anima era forse carica di speranze
    morte, il loro cuore un nido di desiderii neonati: viaggiatori
    giovani o vecchi, col raggio dell'alba o coll'ombra del vespero
    sulla fronte, guardavano verso di voi come al sole, che è la guida
    di tutti i pellegrini, l'astro di tutti i viventi, il focolare di
    tutti gli assiderati. Lungo la via senza meta e che bisogna pure
    percorrere, il solo piacere è di fermarsi sopra una pietra miliare
    all'ombra di un albero e barattare con un compagno i discorsi lenti
    e malinconici del viaggio. Poi si prosegue per la strada polverosa,
    nella quale il vento cancella le orme, e i passeggeri non cessano
    mai. Dove vada tutta questa gente, nessuno lo sa, ma tutti fanno la
    medesima strada per cadere ad un'ora misteriosa in uno dei suoi
    fossi, e restarvi. Forse molti di coloro, che vi offersero il
    braccio, vi sono già caduti, e voi non ricordate nemmeno il loro
    nome: molti proseguiranno in gruppo per dimenticare nel chiasso di
    una conversazione la faticosa necessità del cammino, o avranno a
    braccio un'altra donna e le ripeteranno le stesse parole, che vi
    dissero un giorno. Il vento della sera si è alzato e susurra fra gli
    alberi del giardino. Sentite come i grilli canticchiano e i
    gelsomini odorano. Il gelsomino è il fiore della notte; nel giorno o
    è chiuso o avvizzito, o morto o non nato: aspetta l'ombra per
    schiudersi, il fresco per olezzare. Allora tutti i suoi bottoni
    sbocciano e come l'usignolo apre il concerto dei propri odori.
    Gl'insetti randagi del giorno dormono nell'erba, gli uomini sono
    ricoverati nelle case. È per la delicatezza del suo odore, o per la
    singolarità di non odorare se non la notte, che ne avete fatto il
    vostro fiore prediletto?
    
    Certo la donna non è mai più bella che nella notte, perchè l'amore
    cerca le tenebre ed il riposo, l'olezzo e la voluttà. Una volta ho
    veduto un gelsomino sul vostro tavolo da notte e non me lo sono più
    dimenticato. Una folla di rapporti fantastici fra il suo colore ed
    il vostro, fra il vostro alito ed il suo, mi occupò istantaneamente
    lo spirito; poi vi chinaste a respirare il suo profumo, e mi parve
    che gli diceste qualche cosa. Era una confidenza? Non lo so, e
    nullameno la compresi. Il linguaggio non ha centomila espressioni,
    delle quali la migliore non è certo la parola? Tutto non parla nel
    mondo? L'universo non è come un discorso, nel quale ogni individuo
    rappresenta una sillaba? La solidarietà misteriosa, che unisce tutti
    i viventi, non lega forse le loro voci, e non sarebbe strano, che
    mentre tutti si scaldano al medesimo sole e respirano la medesima
    aria, non parlassero un medesimo linguaggio, e non componessero un
    coro? Se invece di restare in questo gabinetto discendessimo in
    giardino, come voi udite senza avvertirla la voce del grillo, egli
    udrebbe senza badarvi la mia, ascoltando la voce di qualche sua
    compagna. Fra la moltitudine degli effluvii e dei discorsi ciascuno
    sceglie quello che gli si indirizza, e vi risponde; ma la sinfonia,
    che risulterà inevitabilmente dall'accordo di tutte le voci e dalla
    innumerevole partitura di tutti gli strumenti noi non possiamo
    sentirla più del moscerino, che ronza, o del bue, che mugge. Se vi
    fosse una montagna, dalla cima della quale abbracciare tutto il
    paesaggio della terra ed intenderne il concerto infinito,
    v'inviterei meco a salirla, e fosse pure alta o scoscesa, vi terrei
    sempre per mano ripetendovi: salite! Quando l'aria diventasse troppo
    rada, per impedirvi di accorgervene, vi direi: guardate come la luce
    è pura! Se l'altezza vi desse le vertigini, vi mostrerei la cima,
    ripetendovi: salite! Se il freddo vi gelasse la fronte, allora
    forse, solamente allora oserei dirvi: non sentite, signora, come la
    mia mano brucia nella vostra! E saliremmo: l'aquila vi vedrebbe
    senza paura passare rasente il proprio nido, perchè voi, signora,
    avete la più dolce fisonomia di questo mondo: dalla vetta di un
    pinacolo il camoscio ci indicherebbe con un fischio il sentiero più
    sicuro e più breve; la rosa delle alpi, questo mistico fiore, che
    vive di neve e di sole, di bianco e di azzurro, tremerebbe di
    confusione vedendovi, perchè voi siete più bianca della sua neve,
    perchè i vostri occhi sono più azzurri del suo cielo, perchè i
    vostri capelli sono più biondi del suo sole. E saliremmo sempre: gli
    abeti bruni come la folla degli uomini ed egualmente clamorosi
    stormirebbero al basso; i ghiacciai arderebbero in alto con un
    incendio di colori e di scintille, di raggi e di baleni. Non vi pare
    che sarebbe una bella ascensione? Talora guadagnando un monte si
    guadagna un cuore. Invano la montagna sarebbe levigata come uno
    specchio o irta come una lima: le nostre mani avrebbero una presa
    più fina di quella di una mosca, e più forte di quella di un
    artiglio: io vi farei arco delle spalle e vi ripeterei sempre:
    avanti, excelsior! Se ci siamo alzati più in su dell'aquila, saliamo
    ancora, perchè i raggi della luna si posano dove non arrivano i
    piedi dell'aquila, e i raggi discendono invece di salire: il sole
    passa al disopra della luna, le stelle migrano al disopra del sole,
    il pensiero vola al disopra delle stelle, Dio sta al disopra del
    pensiero. Ormai tocchiamo la vetta; salite meco e fidatevi, perchè
    ho giurato di riaccompagnarvi nel mondo quale ne siete uscita, e la
    mia parola è sicura come voi siete bella.
    
    Poi arrivati sulla vetta mi sederei ai vostri piedi e guardandovi
    negli occhi vi direi: eccoci giunti, o signora; chinate pure lo
    sguardo ed ascoltate la musica, che si innalza fino a noi coi vapori
    attratti dal sole. I vapori ricadranno in pioggia, ma la musica
    svanirà lentamente nel silenzio dell'azzurro. Benchè soli come
    Satana e Cristo, non temiate che vi tenti. Il mondo non parve bello
    al Nazareno, poichè il mondo non è bello se non da vicino come tutte
    le piccolezze: da questa cima i suoi imperi fanno appena una macchia
    di paesaggio e le sue più enormi città un mucchio di ghiaia. Siamo
    soli, signora, ma talmente in alto che non ci resta più che
    l'orgoglio dei nostri cuori, e la serenità dei nostri pensieri. Non
    vi sentite più grande così? Ma se credendo alla mia parola e
    accettando la mia mano acconsentiste a seguirmi su questa cima così
    perigliosa ed eterea: se almeno questa volta desideraste ciò che
    desiderai, voleste ciò che volli, faceste ciò che feci, qui
    nell'azzurro, che le nubi non hanno mai contaminato, dove l'aria non
    svia più i raggi del sole, e nessuno ci ascolta, perchè gli uomini
    sono troppo in basso e le stelle troppo in alto; questo secreto che
    porto da lunghi anni come una luce nella mente, come un tesoro nel
    cuore, come una catena alle mani, sul quale avete tante volte
    soffiato e non si è spento, nel quale cacciaste tante volte le dita
    gettandone all'aria le perle e non è scemato, sotto la quale i miei
    polsi hanno tante volte sanguinato strappando, e non l'hanno
    rotta... ve lo dirò, qui, solo, senza lagrime, senza parole, con uno
    strido acuto, supremo:
    
    Ah!
    
    Il cantino si è rotto, signora, ma un violino come una barca non si
    arresta per la rottura di una corda. Poichè siamo soli in questo
    gabinetto mettetevi là, su quella poltrona, ed ascoltatemi. Oramai è
    notte: il cielo è opaco come un mare e silenzioso come un deserto.
    Avete mai riflettuto a questi due infiniti, che rinchiudono
    l'orizzonte creandolo? Eppure l'orizzonte è la cornice di ogni
    quadro. Nella indefinibile unità del suo colore trema una confusione
    di tinte indefinibili. Da lui il zaffiro ha preso il turchino, lo
    smeraldo il verde, l'ametista il violetto, il topazio il biondo, il
    rubino il lampo sanguigno, la perla il pallore, l'opale le iridi;
    voi, signora, lo splendore e la mobilità, la leggerezza e le nuvole.
    - Fatti un abito di taffetà, poichè la tua anima è cangievole come i
    suoi colori - disse una volta Shakespeare ad una donna, ed ella
    forse gli rispose con un sorriso più ricco di espressioni, che non
    di tinte il taffetà. Riso e sorriso, ecco la vita, signora. Se il
    sole fosse così bello, perchè gli uomini avrebbero inventato gli
    ombrelli, e Dio ne avrebbe loro suggerita l'idea colle nuvole? Se il
    cielo ci fosse destinato, perchè gli avrebbero negato l'aria,
    rendendolo sordo? Se il genio non fosse una colpa, perchè sarebbe
    costantemente infelice, e se l'amore non fosse una brutalità, come
    tutti gli animali vi si accorderebbero? La poesia è una noiosa
    menzogna, e la prova ne sta in questo, che le signore vi si
    annoiano. Invano si è voluto spiegarlo col paragone del flauto, il
    quale della musica, che gli fanno suonare, non sente se non la
    incomoda ripienezza del soffio, giacchè nella poesia dell'amore, chi
    dei due sia l'istrumento, se l'uomo o la donna, si debba ancora
    sapere. E poi gli strumenti non si giudicano sempre con facilità.
    L'asino non è mai passato per un eroe, e nullameno colla sua pelle
    si coprono i tamburi, e coi tamburi si indicono le battaglie. Le
    pecore, che belano così poco, benchè il belato sia uno dei linguaggi
    più facili, prestano le loro viscere ai violini, che se ne fanno le
    corde. E quando un grande suonatore vi suonerà un pezzo di
    Beethoven, o io stesso col singhiozzo nell'anima vi parlerò col mio
    violino per dirvi così tutto quello, che non oso; e voi forse
    cesserete per un istante di sorridere - le mie lagrime saranno forse
    sincere, ma i miei lamenti saranno di un altro povero morto: voi non
    potrete ancora comprendermi, ed io sarò un pazzo, perchè bisogna
    essere pazzo per sperare che una budella esprima ciò cui non basta
    una lingua, e una corda possa altrimenti giovare che ad impiccarsi.
    Se i Romani avessero conosciuto il violino, forse vi avrebbero fatto
    le corde con budella di schiava; e chissà se non fossero stati
    migliori dei nostri, e la storia dell'arte non vantasse uno
    Stradivarius di più. Come le lettere avevano gli schiavi per i
    dizionari, la musica avrebbe avuto gli schiavi per gl'istrumenti; la
    scienza, compiacente come sempre a tutte la tirannie, avrebbe forse
    trovato nelle fanciulle circasse la fibra migliore per i cantini; e
    voi, signora, ascoltandoli avreste sorriso come adesso col vostro
    bel sorriso di corallo, perchè il corallo è colore di sangue. Riso e
    sorriso, ecco la vita. Il sole fa sorridere le labbra delle nuvole,
    che avventano la folgore, come le goccie di rugiada, che incoronano
    le rose: le stelle sorridono di tutti i miopi, che le puntano coi
    telescopii, e ridono di tutti i ciechi, che piangono non vedendole:
    i vecchi sorridono dei giovani, che hanno la saggezza di essere
    folli, e i giovani ridono dei vecchi, che hanno la follia di essere
    saggi: il credente sorride dell'ateo, che ha la sventura di essere
    solo in questo mondo, e l'ateo ride del credente, che avrà la
    disgrazia di essere male accompagnato nell'altro. Riso e sorriso,
    che mostrano sempre i denti, perchè dopo il bacio vi è quasi sempre
    il morso. E voi, signora, preferite mordere o baciare? Forse l'uno e
    l'altro, forse baciare quando vi mordono, e mordere quando vi
    baciano, per contraddire sempre, perchè la contraddizione è il primo
    sintomo della forza e il primo beneficio della libertà. Se così non
    fosse, perchè i piccoli negherebbero sempre i grandi, e le donne
    avrebbero sempre ingannato gli uomini? Poichè la contraddizione è
    l'essenza della vita individuale, l'amore, che la perpetua, è
    costretta a servirsi egualmente del bacio e del morso. Solo negli
    animali morde il maschio, e negli uomini la femmina: variante
    misteriosa, che indica forse negli uni il pudore di quella, e negli
    altri la debolezza di questo. E poichè la debolezza conduce spesso
    alla tirannia, gli uomini dopo i ginecei inventarono gli harem, come
    dopo il vino i liquori; invenzione sciagurata, che toglieva la
    conquista all'amore, ed impediva il bacio per evitare il morso.
    L'amore ha d'uopo di libertà, come la luce di ombra per produrre il
    colore; giacchè non è vero che l'ombra sia nemica della luce, come
    afferma Mefistofele, e dovesse appiattarsi nella profondità dei
    corpi, quando raggiò la rivale. Non è vero che quando il sole
    discende dal suo carro di gloria, per mescersi famigliarmente colle
    stelle, essa ricompaia e ricopra astiosamente l'universo; e non è
    vero che nel principio fossero le tenebre, e che alla fine saranno
    le tenebre. L'ombra invece è innamorata della luce e la segue
    dappertutto. Mentre i colori si posano ovunque scintillando,
    osservate come l'ombra si sdraia voluttuosamente sotto a tutti i
    corpi, e col proprio contrasto raddoppia la loro vivezza: quando il
    meriggio discende, l'ombra si allunga, sale per lo stelo dei fiori,
    per il tronco degli alberi con una leggerezza amorosa, e li avvolge
    nel proprio vapore; come voi, signora, avrete molte volte riposto
    negli astucci i brillanti, che ad un ballo vi avevano fatto prendere
    per una bella notte stellata. Non è vero che l'ombra detesti la
    luce, e la menzogna sia nemica della verità, giacchè non si
    bacerebbero così spesso sulla medesima bocca e con tanto trasporto.
    Avete mai veduto due gemelle vestite con altrettale eguaglianza? Se
    la verità è il sole della vita, la menzogna ne è l'ombra; e per la
    strada del pellegrinaggio, quando la fatica ci ha affranti e la
    polvere riarsi, l'ombra di un albero è pure la sola speranza ed il
    solo ristoro. Che sarebbe di noi tutti, se costretti alla verità,
    dovessimo sollevare sempre il velo sulla cuna delle nostre
    intenzioni, o alzare il coperchio sulla tomba dei nostri ricordi? Se
    io dovessi confessarvi tutte le ragioni, perchè m'incanto a
    guardarvi, e voi tutte le altre, perchè vi lasciate guardare? Poichè
    i costumi sono la gentilezza delle nazioni, i complimenti sono la
    bontà degli individui: ma, come il bello ideale nella pittura non è
    che la correzione del brutto nel vero, il buono ideale nella vita
    non ci viene che dall'oblio volontario del cattivo. Mentite dunque,
    signora, poichè la misura della bontà consiste nel bene che si
    prodiga, e la natura diede per noi alle donne la menzogna e la
    bellezza. Profondete gli sguardi ed i sorrisi, i giorni e le notti;
    gettate a piene mani speranze e soddisfazioni, ricordi ed oblii;
    sminuzzate l'amore per moltiplicare gli amanti; invece di essere un
    sole immobile nella vanità della propria mole, siate la cometa, che
    vaga per l'empireo, ed ha un saluto per tutte le stelle. Bella come
    la primavera, siate così piena di grida e di fiori, abbiate la foga
    dei suoi balli, dei suoi canti, la sua gioventù eterna, che dà poco
    e si contenta di meno, ma che colora e profuma, accorda e solleva,
    scorazza e non fugge. Poichè tutto è menzogna nella vita, mentite
    voi pure, signora; mentite come mentono il pianto del bambino, che
    finge di arrivare fra noi dal cielo degli angeli, e il pianto del
    moribondo, che è sicuro di ritornarvi: come la povertà, che ha il
    medesimo sole della ricchezza, la ricchezza, che ha le medesime
    malattie della povertà; la scienza, che non sa nulla come la
    religione; l'arte, che ha tutti i difetti della vita, la vita, che
    ha tutte le impotenze dell'arte. Mentite pure se tutto mente; la
    gioia, che esagera se stessa per affliggere l'invidia; il dolore,
    che si macera per desolare la pietà; la pietà, che offrendosi ad
    ognuno, non si dà mai per riserbarsi a tutti; l'imbecillità, che si
    arroga i diritti del genio; il genio, che nell'amarezza della
    propria vanità si dichiara imbecille. Bisogna pur mentire, signora,
    per essere amabili, e lasciarsi ingannare per essere felici. Che
    importa la fine? Vi è forse una fine? Riso e sorriso! ma sorridendo,
    aprite tanto le labbra, che vi si possa gettar dentro un bacio, e
    spalancando le braccia, badate di chiudere gli occhi come la carità,
    che è la prima di tutte le virtù. L'elemosina consola più il ricco
    che il povero, perchè quegli non dà che il superfluo, mentre questi
    non riceve nemmeno il necessario; la fede giova più all'incredulo
    che al credente, poichè il primo vede sempre il secondo nella pania
    delle sue stesse sciagure; la speranza frutta meglio a chi la dà che
    a chi la raccoglie, giacchè l'uno ne è il padrone e l'altro ne è il
    servo. Vedete bene, signora, che nella nostra divisione la giustizia
    ha dato a voi tutto, e a me solamente il resto, a voi un palchetto
    di prima fila, e a me un posto nell'orchestra. E quando voi
    apparivate e tutte vi guardavano, io ero laggiù talmente lontano,
    che nemmeno il vostro pensiero poteva raggiungermi. Allora non so
    cosa mi accadesse nell'anima, ma, come se una bufera mi si
    scatenasse nel cervello, mi sentivo dei lampi dentro gli occhi e dei
    sibili alle orecchie. Quindi riafferravo disperatamente il violino,
    e mentre tutta l'orchestra reboava, e la luce dei mille fanali
    sembrava incendiare le decorazioni della scena, solo, senza più
    vedere nè intendere ricominciavo delirando a suonare. Nella effimera
    onnipotenza di quell'impeto, mi pareva che il mio violino coprisse
    tutti gli altri, e le sue note mi turbinassero sulla testa come
    tante faville e sopra un vulcano. Ogni crina del mio arco aveva la
    potenza di una corda, ogni corda dell'istrumento la sensibilità di
    un viscere vivo. Io stesso vibravo per ogni fibra, ma innalzandomi
    al disopra di tutta l'orchestra, vedevo la vostra dolce figura
    salire sempre più in alto, come camminando la notte per un bosco si
    vede la luna scavalcare ad una ad una tutte le cime degli alberi.
    Poi la visione mi si cangiava: ero nella tenebra, un vento gelato mi
    soffiava sulla fronte, le corde mi si irrigidivano sotto le dita
    come le gomene di una nave. L'ultima raffica strappava la vela,
    l'ultima onda di canto sommergeva il ponte, l'ultima stella spariva
    dietro le nuvole, l'ultima speranza cadeva sul cassero come un
    gabbiano sbattuto dalla tempesta nella alberatura: l'ultimo atto era
    finito, e la gente se ne andava. Io solo era rimasto nell'orchestra,
    voi sola eravate seduta nel palchetto. La lumiera salendo squarciava
    il zodiaco dorato. Allora un'orribile tentazione di suonare, perchè
    vi voltaste, mi artigliava il cuore: senonchè le dita, raggrinzite
    convulsivamente sulla tastiera, non sapevano più scorrere; e voi mi
    rivolgevate indolentemente le spalle. Finalmente ero rimasto ultimo
    nel teatro, io, che era l'ultimo anche fuori. Essere solo non è
    forse essere l'ultimo, come essere primo non significa essere solo?
    E questa giustizia mi faceva ridere di un riso muto, di pazzo, che
    invece di muovere la bocca agita le mani, e brancola, stritola, coi
    polmoni gonfi, il cervello in fiamme, il cuore che gli urla, tutte
    le fibre tese, vibranti come tante corde, che si romperanno ad ogni
    scoppio, perchè anche le corde si schiantano:
    
    Ah!
    
    La seconda corda si è rotta, ma una suonata come una impiccagione
    non si sospende per la rottura di una corda. Poichè siamo soli in
    questo gabinetto, restate là, su quella poltrona, ed ascoltatemi. È
    notte. Il cielo si è fatto buio come un mare, e silenzioso come un
    deserto. Avete mai riflettuto, voi, che sarete stata per tanti il
    loro più grande pericolo, ai pericoli del deserto e del mare, dei
    miraggi e delle sirene? Eppure nessun miraggio ha il fascino dei
    vostri occhi, e nessuna sirena la soavità della vostra voce. Quando
    tutti vi hanno detto che siete bella, lo avete saputo solamente
    allora, e quindi troppo tardi per ricordarvi dei primi, troppo tardi
    ancora per ringraziare gli ultimi? Perchè, se il genio si ignora
    spesso, la bellezza si conoscerebbe sempre! Volete che vi descriva
    col mio arco, come il pittore lo oserebbe col pennello? Non ho più
    che due corde, ma noi pure siamo in due, e se fallo, voi ne avrete
    sempre una per sferzarmi, io quell'altra per punirmi. Lasciatemi
    provare, e se vi conosco più della gloria, che non ho ancora
    raggiunto, non vi dispiaccia di ascoltarmi. I vostri capelli d'oro,
    biondi come l'oro della sua aureola, sono più lunghi del mantello
    incantato, sul quale essa vola sempre dinanzi agli avvenimenti.
    Quantunque neri più che l'ombra di un sepolcro, i vostri occhi
    risplendono come una fiamma; nessun fiore è più colorito del vostro
    sorriso, nessun frutto forse più sapido della vostra bocca. Leggiera
    come una rondine e forte come un falco, il vostro volo ha la grazia
    di uno scherzo e l'impeto di una minaccia; ma come l'orizzonte, del
    quale avete preso la leggerezza e le nuvole, siete inafferrabile e
    mutevole. I profumi vi attirano, i colori vi innamorano: vi ho
    veduto sulle vesti tutte le tinte dell'iride, vi ho odorato sulla
    testa tutte le fragranze della terra, dai sentori acuti del tropico
    agli olezzi morbidi delle serre, dalle essenze sapienti del lambicco
    agli olezzi morbidi del deserto. Ho veduto la vostra testa sorgere
    da un abito di raso bianco, coi capelli bagnati di stille, che erano
    perle, come una rosa delle alpi spunta sulla neve: vi ho veduta più
    pallida nel rosso che eccita i tori, più candida nel bruno che
    adombra la morte, più florida nel giallo che è il colore della
    ricchezza. Ho veduto il vostro collo rifulgere come quello di una
    colomba fra i bagliori dei brillanti, e sanguinare come per un colpo
    di ghigliottina fra le gocce dei coralli. Talora i vostri abiti
    avevano la fluidezza di un velo, tal'altra i panneggiamenti duri del
    marmo; il velluto vi cadeva attorno colla pesantezza di un
    cortinaggio; la seta vi rideva addosso con una gaiezza scoppiettante
    ad ogni più piccolo moto: i merletti vi gettavano un'ombra diafana,
    come i loro ricami, sul seno e sui polsi. Quando camminavate, tutta
    la vostra persona si animava; i vestiti le si drappeggiavano sopra
    con un discernimento da artista; seduta, avevate delle pose da
    regina e da tigre, da statua e da sogno. Il vostro piede piccolo, ma
    fatto per calpestare tutto ciò che gli altri ammirano, le pellicce e
    i mosaici, i fiori e gli affetti, si posava dovunque egualmente
    imperioso; la vostra mano, sempre molle e profumata, esprimeva il
    torpore terribile di un agguato, come la stanchezza soave di una
    carezza: facevate dei dialoghi, che parevano soliloqui: avevate dei
    silenzi, che somigliavano ai dialoghi, distrazioni che occupavano
    tutti, attenzioni che distraevano ognuno. Ricordo per gli uni e
    speranza per gli altri, lodata in pubblico e calunniata in secreto,
    amata colla veemenza del corpo che esige e coll'impeto dell'anima
    che invoca; secreto che tenta, contraddizione che punge, mistero che
    arrovella, eravate allora, come adesso, una eccezione senza regola;
    una signora bianca e bionda, nobile e fine, delicata ed
    infrangibile, che essendo forse cattiva piaceva a tutti, o essendo
    forse buona non soddisfaceva ad alcuno. Le onde della ammirazione
    rompendosi incessantemente ai vostri piedi, non arrivavano mai ad
    appannarvi la fronte colle proprie spume; l'alcione, che annunzia
    con profetica pietà la tempesta, a farvela rivolgere verso i nuovi
    pericoli. Quando la bufera di una dichiarazione vi soffiava sul
    volto, colla stessa furia del vento lacerando una vela, i vostri
    capelli si alzavano appena colla leggerezza di una nebbia dorata dal
    sole, e gli ignari credevano che fosse l'alito del vostro ventaglio.
    Se la notte aggiungeva la poesia delle proprie tenebre a quella
    della tempesta, e i naufraghi guardavano verso di voi coll'ultimo
    raggio della speranza, nell'ultima luce del pensiero, il vostro
    occhio diventava immobile come una stella, e gli ingenui credevano
    che foste distratta. E all'alba, quando tutti questi naufraghi della
    notte, che avrebbero dovuto galleggiare cadaveri sulle onde, se ne
    andavano tranquillamente nelle lancie, salutandovi da lungi sul
    ponte, un sorriso bianco come un lampo vi passava sulle labbra. La
    festa era finita, amiche e innamorati dileguavano, e voi ritornavate
    sola nel vostro appartamento. Simile agli esuli del genio chiusi nel
    loro pensiero, voi passate per la società, velata nella vostra
    bellezza, lasciandovi dietro una traccia di profumi e di desiderii.
    Tutto vi appartiene. Come per gli idoli dei santuari più celebri,
    gli omaggi e i tributi si ammassano sul vostro altare; i fiori della
    primavera e i frutti dell'autunno, le primizie del cuore ed i
    capolavori dell'ingegno. Ma forse nella vostra alterigia vi pare
    soverchia compiacenza lo scegliere, ed accogliete collo stesso
    disprezzo l'offerta del povero e del ricco, dell'inetto e del
    grande. Inettitudine e grandezza d'altronde sono spesso sinonimi.
    Solo la bellezza sempre sentita è sempre ben giudicata. Nell'immenso
    lavorio del mondo essa è lo scopo unanime, la speranza di tutti, il
    premio di pochi. Per voi, signora, l'uomo, questo lavoratore
    immortale, che soccombe sempre e non smette mai, allunga i giorni e
    si accorcia all'opera la vita: per voi ha traversato i deserti, o ha
    tolto i diamanti alle sabbie, le penne allo struzzo; o è salito fino
    al polo e ha raggiunto una volpe turchina per farvene un manicotto.
    Per voi nelle fabbriche si storpiano i fanciulli e si estenuano gli
    adulti: per voi si tesse il vetro e si solidifica la canepa, si
    domano i cavalli e il vapore, si inventano le navi e i palloni, si
    forbiscono le parole e le spade, si cesellano le coppe e i pensieri,
    si verniciano le carrozze e i sentimenti, si ricamano i metalli e le
    liriche. Per voi l'oro diventa un talismano e le gemme tante goccie
    di vischio; le nuvole si cambiano in un tulle, i fiori scompaiono
    nelle essenze e ricompaiono nella cera; per voi si tempra l'acciaio
    e si stemprano i caratteri, l'elefante si lascia sdentare perchè il
    suo avorio intarsi l'ebano del vostro letto, le immagini schizzano
    dai marmi e si colorano sulle tele, le visioni passano nei poemi e
    parlano nelle musiche, la scienza numera, l'arte inventa,
    l'industria uccide, la pace snerva, la guerra diserta. Per voi la
    storia è una serie di drammi, dove si mutano le parole e durano le
    scene, si alternano le decorazioni e si ripetono le catastrofi; per
    voi i desiderii piangono come i ricordi, e le loro lagrime grandi
    come gli occhi sono più amare di un veleno; per voi le speranze sono
    azzurre come il cielo ed agitate come il mare; per voi le gioie sono
    più vaste di un desiderio e più labili di una rimembranza, iridate
    come una lagrima, pronte come un veleno, piene di canti come il
    cielo e di naufragi come il mare. Nella tenda del deserto e nella
    casetta di ghiaccio, nel wighwam del selvaggio e nel palazzo
    dell'incivilito, nelle foreste dove l'uomo è ancora un animale, e
    nelle città dove non è più che una cifra; nella piroga del cannibale
    e sul vascello dello scienziato; sulle vette dell'Imalaya, dove non
    pascolano che i vapori, e nei cimiteri della storia, dove non
    vegliano che le rovine; sotto le fronti contuse dal diadema,
    circoncise dalle cesoie, scalpate dal coltello; dentro i cuori che
    ignorano, i cuori che apprendono, i cuori che rammentano; sulle
    stuoie d'oriente e sui guanciali di occidente, dove l'uomo pensa e
    sente, crea e distrugge, voi siete la prima idea e il bisogno
    supremo, la voluttà nella vita e l'aspirazione oltre la tomba;
    perchè siete la bellezza, e la donna, che è la bellezza della
    bellezza, come Dio, è il pensiero del pensiero. E voi siete
    dappertutto, vi troviamo dovunque: chine sulla nostra culla o sul
    nostro feretro per gettarvi un sorriso; sul nostro cuore ad
    origliare, sul nostro pensiero ad aizzarlo; eravate dietro a noi
    come una sorgente dietro a un ruscello, ci siete dintorno come la
    luce, dinanzi come un mare. Se vi scacciamo per un momento dal
    cervello, vi troviamo subito nel cuore; se vi esiliamo dal futuro,
    vi incontriamo nel passato; se ci cadete dai sensi come un peso
    troppo greve, ci salite nella mente colla leggerezza di un sogno. Il
    nomade del deserto scorge i vostri occhi nel miraggio delle sabbie,
    il marinaio travede la vostra figura nella bruma dell'oceano, il
    modesto vi cerca nella quiete del proprio riposo, l'ambizioso
    nell'orgia dei propri trionfi; siete sopra tutti i golgota, a piedi
    di tutte le croci, per ricevere il saluto estremo dei santi; in
    tutti i circhi ad insultare dai gradini le ultime convulsioni dei
    martiri. Voi riempite le Tebaidi di anacoreti e le biblioteche di
    libri, la notte di ombre, e i giorni di sogni; vi sdraiate su tutti
    i troni e per tutti i fanghi, coprite egualmente di baci tutte le
    mani ruvide che eseguiscono e le delicate che ordinano, le forti che
    abbattono e le più forti che elevano; abbandonate egualmente coloro
    che partono e coloro che restano; generose e crudeli pei vincitori e
    pei vinti; lievi come il nevischio e gravi come la valanga, farfalle
    nell'aria, lombrichi sulla terra, istinto nel sangue, amore nel
    cuore, ideale nella mente. La vostra parvenza azzurreggia nelle
    fiamme sulla fucina del fabbro e sul fornello dell'alchimista; passa
    come una larva sulla carta, dove il geografo ritrae i lineamenti del
    mondo, e dove il generale segna le tappe delle sue vittorie: per
    quanto il poeta s'innalzi nel proprio volo oltre i calcoli sublimi
    dell'astronomo, è sicuro di rinvenirvi ritta sull'orlo di una stella
    coricata indolentemente sullo strascico di una cometa. Perfino il
    filosofo, che oltrepassa il poeta di più ancora che non egli lo
    scienziato; quest'incompreso che sta nell'incomprensibile, ed è
    un'idea che vive nell'idea; che di lassù vede gli avvenimenti della
    nostra storia, come di quaggiù l'astronomo vede le stelle;
    quest'uomo, che ha obliato tutto il mondo per impararne le leggi, e
    non ha voluto sentir nulla per poter pensar tutto, egli pure vi
    trova lassù nel sesso di una parola, nella desinenza di un nome, e
    riprecipita sulla terra per prosternare ai vostri piedi, che
    lasciano l'orma sulla polvere, una fronte, sulla quale le stelle
    sarebbero superbe dì comporsi in corona. Voi conoscete il vecchio
    emblema del drago che uccide il leone, dell'astuzia che vince la
    forza, poichè ve l'ho veduto spesso al dito sopra un anello: e voi
    avete sempre vinto, poco importa se la vostra vittoria di donna fu
    nell'impedire ad un uomo una nuova conquista del pensiero. Gli
    imperi ideali non crollano come gli imperi storici? La tirannide di
    una teorica dura forse più che quella di una dinastia, i sistemi
    della filosofia più che i trattati della politica, i monumenti della
    poesia più che i templi della religione? Se ogni popolo ha il
    proprio dio, quante divinità mancano allora nel pantheon delle
    mitologie? Se ogni generazione ha un grande poeta, quanti poeti
    mancano nella storia della letteratura? Tutto passa, anche il
    passato, tutto muore anche i cadaveri: il tempo spiana le ruine, il
    vento dissipa la polvere dei sepolcri meglio chiusi, e non resta che
    il presente, questo minuto, che cade incessantemente dall'orologio
    della eternità, e si colora cadendo come una bolla di sapone nel
    sole. Invano chini sull'orlo del mondo tentiamo talora di
    sorprendere il suo tuffo nell'oceano delle età, o rientrando
    precipitosamente in noi stessi cerchiamo la sua traccia nella nostra
    vita; giacchè le ombre non lasciano vestigia, ma l'ombra continua
    imputridisce e corrode. Ad ogni attimo, che ci scivola addosso, gli
    atomi della nostra esistenza si disgregano, e si separano come tanti
    pellegrini ad un crocicchio, alcuni portando seco, attraverso
    infinite migrazioni, una scintilla, colla quale comporrano nuove
    vite. Avete mai riflettuto come ci salgono nella mente le passioni,
    o come ci discendono nel cuore le memorie? Non so, ma parmi che le
    passioni sorgano in noi dagli abissi della animalità, mentre le idee
    ci colano nel sangue dagli abissi dello spirito. Il cielo non è un
    abisso come il mare? E talvolta mi sembrava che il dio misterioso
    della creazione mi avesse dalla eternità seppellito nel profondo
    della vostra anima, e che a certe ore mi levassi, e per un filo più
    sottile del più sottile fra tutti i fili cominciassi la più strana
    salita. Nell'ombra cieca di quelle latebre sentivo muoversi una
    infinità di ombre, fantasmi forse di vite passate, larve forse di
    vite future; ma sulla bocca del pozzo, più lungo che nella più
    profonda miniera, la vostra bella testa rutilava in un nimbo di
    luce. Salivo. Le mie mani stringevano con una energia inesprimibile
    quel filo, che non avrebbero nemmeno dovuto sentire; il respiro mi
    si faceva affannoso, gli occhi mi si dilatavano come quelli di un
    felino. Le ombre sfiorandomi come per guardare il fortunato, che
    montava alle regioni della vita, mi gettavano nell'anima un
    raccapriccio senza nome: la vostra luce attirava colla stessa forza
    del sole, che raggira i pianeti. Avete mai provato in fondo al cuore
    una ondulazione insensibile, un moto lento di spirale, che
    s'innalzava sempre colla continuità e colla leggerezza di un'ombra?
    Ero io. Alle volte giungevo talmente in alto, che le ombre mi
    restavano laggiù sotto i piedi, e passavo fra gli ospiti del vostro
    cuore. Erano molti, alcuni li ho poi riconosciuti nella vostra
    società. In cima la luce cresceva, e cresceva la bellezza del vostro
    viso; l'aria cominciava a discendere satura di profumi, trepida di
    suoni. Ma a quella luce la mia corda diventava bionda come un filo
    di sole: una volta, che salii fino quasi al cratere, la riconobbi
    per uno dei vostri capelli. Però senza che le forze mi mancassero,
    quando già ricevevo il bacio dell'aria sulla fronte, e sentivo gli
    ospiti del vostro cuore bisbigliare sotto di me come una platea di
    spettatori, e colla testa sotto alla vostra stavo per chiedervi in
    un altro bacio il battesimo della vita, improvvisamente il vostro
    capello si rompeva:
    
    Ah!
    
    La terza corda si è rotta, signora, ma il suicidio è ancora
    possibile quando ne resta una. È notte: il cielo è bruno come un
    mare e silenzioso come un deserto. Avete mai riflettuto che il
    silenzio è nero e l'ombra è silenziosa, e quando si riuniscono sul
    mondo fanno la notte, quando si congiungono sopra un uomo fanno la
    morte? Il vento della sera non soffia più, le stelle hanno
    naufragato nelle tenebre, le voci sono sprofondate nel silenzio.
    Poichè il mondo si è dileguato, e siamo soli in questo gabinetto,
    rimanete ancora per pochi istanti su quella poltrona, ed
    ascoltatemi. L'infinito e la eternità ci circondano; il primo è
    buio, la seconda immobile. La luce è un moto nella tenebra, il tempo
    un moto nella eternità; furono e quindi non saranno, l'infinito e
    l'eternità sono. Noi passiamo, voi proseguirete, io mi fermo.
    Ascoltatemi. Non ho più che una corda per esprimermi, ma non ho più
    che una parola da dire, l'estrema e l'unica, e quando l'avrò detta,
    il silenzio non sarà per questo più profondo, nè l'oscurità più
    fitta. Non è forse la sola consolazione per chi parte di non
    abbandonare alcuno, e per chi muore di non lasciare infelici? Se
    così non fosse, il mondo non sarebbe sempre un ululato di funerale,
    poichè la morte vi è incessante? Vedete bene che potete ascoltarmi,
    signora, se la vostra memoria non sarà nemmeno costretta alla
    gentile pietà dell'eco. Sono solo, la mia cuna fu deserta, come sarà
    dimenticato il mio sepolcro: non ho che il violino per parlare e il
    violino per vivere. Ignoro le sillabe, non so comporre una parola;
    le mie sillabe sono le note, le mie parole le battute; i miei
    periodi scritti in cifra, come tutti quelli che contengono un
    secreto, sono una varietà del linguaggio. L'aristocrazia non è una
    varietà in un popolo? Però di tutte le arti la mia è la più
    infelice, perchè la più mortale; e mentre di un terremoto restano
    almeno le ruine, non un'eco rimane di una grande suonata. Soli di
    tutti gli uomini, la nostra vita è un sopravvivere a noi stessi e
    alla nostra gloria, che muore posandoci sulla fronte una corona,
    della quale i fiori avvizziscono al contatto dei nostri capelli.
    Quindi nessun artista desta il nostro entusiasmo, e soccombe più
    disperatamente sotto la lapidazione dell'applauso. Io sono solo, non
    come voi, signora, che siete sola, perchè siete al disopra, ma
    perchè ho il nulla sulla testa e il vuoto sotto i piedi; perchè
    cammino e non proseguo, sono partito e non arrivo, creo e non formo.
    Il sole della mia vita illumina, ma non riscalda; l'orezzo dei miei
    meriggi è senza riposo, come l'ombra delle mie notti senza sonno.
    Fra coloro che possono, coloro che vogliono e coloro che sanno, io
    solo vorrei quello che non posso, e non so quello che voglio: quando
    desidero non mi è lecito sperare, quando spero non desidero più. Il
    mio passato non si dilegua, il mio futuro non giunge. Il sorriso
    scivola sulle mie labbra, come sulla superficie di un vetro; i
    dolori passano dentro il mio cuore invisibili, come i mostri nella
    profondità del mare. Le prime illusioni della giovinezza svanirono
    come i vapori iridati dell'alba, le ultime illusioni della mia
    virilità come le nuvole nella notte. Ma se nella serie drammatica
    l'egloga è il vagito, l'idillio il sorriso, la commedia il riso, la
    tragedia il rantolo; quattro forme che comprendono tutta la vita,
    come le quattro corde del mio violino esprimono tutta la musica:
    osservate come il vagito ed il rantolo, il cantino ed il basso, la
    corda dello strido e la corda del gemito siano gli estremi della
    gamma. L'egloga è il vagito che cerca, l'idillio il sorriso che
    trova, la commedia il riso che prende, la tragedia il rantolo che
    lascia. Nella commedia la coscienza si eleva sugli altri, e li
    ferisce: nella tragedia supera se stessa e si suicida. Così voi,
    signora, siete al disopra del mondo, e ne ridete; ma siete al
    disotto di voi stessa, e v'ignorate. Ah! non vi lusinghi l'altezza
    dello scoglio, e contentatevi della vostra magnifica terrazza piena
    di aranci e di magnolie. Sulla cima dell'Etna Empedocle è più alto
    di Aristofane sul palco del proprio teatro, ma per discenderne non
    gli resta più che gettarsi dentro al vulcano. E vi è una vetta
    ancora più alta dell'Etna, alla quale pochi potranno salire, e dalla
    quale nessuno può discendere. Di là si scorge la carovana della
    umanità passare per il panorama dell'infinito, come una carovana di
    camelli nel deserto, atteggiando una labile coreografia di fatti e
    di sogni. Quella è la cima del Nirvana, un monte di dolori più alto
    del Davalaghiri gettato sul Everest, del Chimborazo gettato sul
    Davalaghiri, sul quale la indifferenza sta eternamente. Un uomo solo
    vi è arrivato e si chiamava Bouddha; ma noi spiriamo tutti sui
    gioghi più bassi della tragedia, mentre egli ci guarda sublime di
    insensibilità dibatterci nelle spirali della vita, bambini col riso
    convulso di un solletico, uomini col riso straziante di una
    convulsione. Egli vede la rivolta di tutti e la rissa di ognuno
    contro il medesimo problema; la folla che stramazza nel piano, i
    pochi che rotolano dai dirupi, l'arte che soccombe di angoscia, la
    scienza che muore d'inanizione, la filosofia che s'inerpica e si
    arresta morente ad ogni minuto, la religione che precipita
    agonizzante di scheggia in scheggia: mira la rivelazione del nulla,
    suprema verità, nelle anime; quelle che si contraggono nello
    strazio, che si gelano nell'orrore, che si frantumano nella
    disperazione, che si dissolvono nella coscienza del dolore
    universale: guata la santa indignazione dei martiri e la collera
    virile degli eroi, l'avvilimento contenuto dei buoni e il motteggio
    funebre dei tristi, la desolazione incredula di quelli che pregano e
    lo spavento credulo di quelli che bestemmiano, quelli che uccidono e
    quelli che generano, quelli che nascono e quelli che muoiono; ma di
    lassù, dalla cima del Nirvana, nella indifferenza dell'infinito,
    dell'assoluto, della insensibilità. Discendiamo, signora, o se ci è
    fatalmente conteso, restiamo, voi sul carro di Tespi, io sul Caucaso
    di Eschilo: là almeno si ride, qua almeno si piange; ma più in alto,
    fra il Caucaso ed il Nirvana, vi è ancora meno aria che fra la luna
    ed il sole; un etere sottile, che impedisce la vita e non produce la
    morte. Poichè la nostra esistenza è una scala, alla quale rompiamo
    giornalmente i gradini, montandoli; e quindi la commedia non può più
    discendere fino all'idillio, nè l'idillio sino all'egloga: poichè
    non mi è dato invitarvi sulla mia tragica balza, lasciate almeno che
    vi miri laggiù in tutta la vostra bellezza di donna, e la vostra
    festività di commedia. Sgranate le perle del vostro riso, lanciate i
    trilli del vostro canto, vibrate i raggi dei vostri occhi;
    moltiplicate il numero delle vostre feste ed aumentatene la pompa;
    mettetevi la corona d'oro sulla testa e il manto di porpora sulle
    spalle; togliete all'alba i colori e al mare i riverberi, e fatevene
    una bellezza, la quale stordisca il desiderio e confuti il paragone,
    accechi la memoria ed aromatizzi il pensiero. Solo sul mio dirupo vi
    guarderò non visto e non cercato. Nel silenzio della notte, quando i
    venti dormivano negli antri e le stelle vegliavano nel cielo, le
    oceanidi venivano a frotte sotto lo scoglio, i capelli verdi fluenti
    sulle spalle bianche del candore della perla, ed offrivano a
    Prometeo il ristoro del loro compianto, la distrazione del loro
    chiacchierio. Ma nessuno degli spensierati, che solcano, cantando,
    il mare, ha mai diretto la prora verso il mio Acrocerauno. Da molti
    anni vi sono solo e ignorato, come le ceneri di Biorn lo scandinavo,
    il primo che scoperse l'America, e che i compagni seppellirono sopra
    un promontorio di Vinland. Egli il primo era partito per un nuovo
    mondo senza sapere quale si fosse l'antico, nè dove giungessero i
    suoi confini; la sua barca bruna come il mistero, che affrontava,
    aveva tre vele come sono tre le virtù: era leggiera come la poesia,
    e piccola come la fortuna di tutti coloro che inventano. Nessuno
    sapeva forse del viaggio, nessuno sospettava l'impresa: forse il
    capitano non volle nemmeno confessarla, e, issando la vela, credette
    di salpare per l'infinito. Ora egli dorme sulla cima di un
    promontorio sconosciuto, e l'amante del poeta scandinavo porta il
    nome di un mercante fiorentino. E che importa la gloria? Quando le
    brezze del mare porteranno su quella cima il fumo delle vaporiere e
    le canzoni dei naviganti, il vecchio marinaio non alzerà nemmeno la
    testa per rispondere con un sorriso: perchè egli sa da molti secoli
    che tutte le navi arrivano al medesimo porto, la morte, e che tutte
    le gioie di una traversata non valgono la quiete di un sepolcro.
    Rimanti dunque sul tuo scoglio, sublime marinaio! La tua conquista
    fu più vasta di quella di Cesare, e ben maggiore il tuo coraggio.
    Invano gli uragani, che ti strapparono la vela, volevano farti
    piegare la fronte; o i mostri, che addentavano meravigliati la
    carena della tua nave, tentavano rattenerla nel suo viaggio fatale.
    Ma quando la terra del mistero, lacerando i veli di un mattino,
    sfolgorò ai tuoi occhi di profeta, il tuo cuore, che aveva resistito
    a tutti i colpi della fortuna, fu percosso mortalmente, e, guardando
    la cima più alta di una scogliera, l'additasti ai tuoi compagni di
    eroismo: là. E là ignoto così alla patria, che avevi abbandonato,
    come all'altra che hai scoperto, senza poesia e senza storia, tu sei
    il più grande fra i grandi, se la grandezza di un imperatore si
    misura a quella del suo impero, e la statura di un cadavere a quella
    della sua fossa. Non hai tu l'America per regno, e l'America per
    sepolcro? Io non ho nulla, un violino ed una corda; la ricchezza di
    ogni impiccato, un legno ed un laccio. Il vento della notte si è
    quetato: sentite come il silenzio pesa nell'ombra, e come l'aria si
    è fatta densa. Avete mai pianto, signora? Avete mai fatto piangere?
    La ferita che sanguina e il dolore che lagrima, non essendo mortali,
    sono quasi sempre curati; ma la scienza non ha rimedi per le ferite
    incruente, nè la pietà consolazioni per i dolori muti. Non vi sono
    ospedali per i malati dell'anima, non vi sono ricoveri per gli
    invalidi del pensiero. Voi siete bella e ricca, nobile e giovane.
    Nata nell'accampamento dei conquistatori, sotto una tenda di seta,
    siete sempre passata per il mondo nei carri della vittoria. Le
    livree dei vostri servitori sono più splendide del mio abito di
    rapsodo; i cavalli della vostra calesse avrebbero potuto servire per
    la biga di Cesare. Quando, sola o a braccio di qualche principe, vi
    chinate a cogliere un fiore del vostro giardino, non avete mai
    pensato che centomila povere donne errano pei campi cercando un filo
    di gramigna, o frugano coll'unghia la terra per scovarvi una patata.
    Buona come tutti quelli, che ignorano, siete naturalmente
    insensibile come tutti quelli, che non hanno sofferto. Il vostro
    appartamento è ammobigliato come la più doviziosa fantasia di poeta:
    il vostro cuore è gremito di una folla sfarzosa come un teatro.
    Qualche volta vi sono entrato, ma come uno straniero, al quale la
    volgarità dell'abito non attirava nemmeno l'attenzione; e ne sono
    uscito poco dopo come uno straniero che non aveva amici fra quella
    folla. Sempre che v'incontro, mi pare che voi passeggiate per il
    mondo, ed io vi viaggio col violino sul dorso, facendomene il giorno
    un istrumento per vivere, la notte un guanciale per dormire. Nato
    fra gli schiavi, mi toccò l'ufficio anche più miserabile di
    divertire i padroni con la musica, come le schiave mie sorelle con
    la loro bellezza. Esse mi ammirano e mi disprezzano, io non li
    disprezzo e non li ammiro. Fra lo scoppio degli applausi non sento
    mai una voce che mi parli, nelle sospensioni più anelanti del
    silenzio non veggo nessun volto, che mi comprenda; i fantasmi delle
    mie musiche traversano invisibili le sale, e si perdono al di fuori,
    nella notte, come una processione di defunti. Quanti ne avete
    contato, signora, questa sera? Forse uno, forse meglio nessuno. Un
    solitario non è forse un incompreso, altrimenti perchè sarebbe
    solitario? Nullameno il mio braccio non fu mai più potente, nè la
    mia anima più commossa. Avevo ancora una speranza nel cuore, povera
    ammalata, alla quale non aveva giovato il sole di nessun clima e la
    brezza di nessun mare, e che è morta di freddo, come muoiono tutti
    gli ammalati. Avete sentito l'ultimo rantolo della sua voce,
    l'ultimo sguardo dei suoi occhi? Essa è morta in questo gabinetto,
    mentre voi non l'ascoltavate nemmeno morire! Ascoltatemi dunque -
    Addio, ultimo vapore del mare disseccato, ultimo rumore della terra
    deserta. Figlia della fede, che illumina, e della carità, che
    riscalda, tu sei morta nelle tenebre, come la fede che è una luce, e
    nell'acqua, come la carità che è un fuoco. Che avresti tu fatto
    nella solitudine del mio pensiero, che avresti tu detto nel silenzio
    del mio cuore? Addio dunque, figlia primogenita dell'ideale, sorella
    cadetta del dolore. Il cielo è nero, il tempo è freddo. Dove vuoi tu
    che ti seppellisca? Nel deserto, il Simoum verrebbe a scoprirti,
    dopo che le sabbie avrebbero corrosa la tua bellezza di morta: nel
    mare, sei troppo leggiera, e galleggeresti eternamente alle pioggie
    ed al sole. Poichè non ami più il canto degli uccelli e il profumo
    dei fiori, l'oasis non ti è sepolcro conveniente: e giacchè sei
    morta per tutti, il mausoleo dell'arte coi suoi cadaveri di marmo
    non potrebbe ricordarti a nessuno. Nullameno mi bisogna pur
    seppellirti. Se il cielo non può ricevere il tuo spirito, perchè tu
    eri una virtù della terra, e la terra non può ricevere il tuo corpo
    di vapore e di luce, ti depongo sotto questo boabab antico, e ti
    abbandono. Dormi adunque in pace, tu, che vegliavi anche nelle mie
    notti; riposa dunque nel sonno, tu, che non eri mai stanca. Addio
    per sempre. Addio, speranza, che salisti per tutte le sfere della
    vita; addio, granito, che diventasti terra; terra, che diventasti
    fiore; fiore, che diventasti colomba; colomba, che diventasti donna:
    addio, donna, che fosti rassegnazione; addio, uomo, che fosti
    costanza; addio, amore, che fosti generazione; addio, generazione,
    che volevi essere immortalità; addio, speranza, che sei vissuta e
    sei morta, sei morta e non risorgerai. Senza lagrime, perchè le
    lagrime sono dei fanciulli, e tu sola in me sapevi piangere: senza
    lamenti, perchè i lamenti non erano che l'espressione della tua
    impazienza, e adesso sei paziente, perchè sei morta, ti depongo qui
    nell'abbandono. Addio, passato, che dilegui; futuro, che dissipi;
    presente, che ti risolvi. Addio, speranza; addio, mamma della mia
    morte; addio, figlia della mia vita. - Adesso il mio strumento non
    ha più che una corda, e la mia vita un giorno; però se si romperanno
    ad un tempo, la corda farà forse più rumore della vita. Tutto è
    finito, vi ho detto tutto; e voi non potete aver compreso. Forse se
    sapeste che la mia vita è sospesa a questa corda, e che io stesso
    col coraggio del giustiziato, il quale accelera il proprio
    supplizio, l'ho tentata con tutti gli sforzi; se poteste sentire
    come cede, e cosa dicono i suoi stridori, e cosa tace il mio
    silenzio: se in quest'ultimo minuto, coll'audacia di chi ha davanti
    a se stesso l'eternità, solo, nell'ombra che è già la morte, e nel
    silenzio che è già l'oblio, vi urlassi la mia indicibile parola,
    rompendo nel suo singulto la corda:
    
    Ah!
    
    
    
    E la corda si ruppe con uno schiocco violento. Egli alzò la testa,
    che teneva piegata sulla tastiera, e lasciandosi cadere l'arco con
    un gesto trasognato, andò lentamente ad abbattersi sopra una
    poltrona.
    
    La notte era buia, il gabinetto era nero.
    
    Allora la signora, levandosi adagio, venne ad appoggiarsi come una
    visione alla spalliera della poltrona. Una pallidissima aureola
    bionda parve tremarle sulla testa. Poi si chinò sopra di lui colla
    lentezza di un'ombra, s'intese un soffio, e l'aureola si spense.
    
    VIOLA
    
    
    
    Ero solo.
    
    Nel salone, immenso come tutti quelli dei palazzi antichi ed
    illuminato da tre lumiere di Murano vecchio, cento fiammelle di gas,
    al posto delle candele, aprivano le grandi ali di farfalle
    riempiendo tutto l'ambiente di un chiarore bianco e crudo. Le spalle
    delle signore e le camicie degli uomini avevano un riverbero
    marmoreo, una tinta unita e fredda, che respingeva gli sguardi. Il
    salone era rosso, i mobili dorati. Un odore sottile, che le sottane
    delle signore agitavano come un vento, pareva alzarsi dai fiori del
    tappeto, che lo scalpiccio di tutti quei piedi non poteva avvizzire.
    Benchè animatissima, la festa non era che al principio; molte
    bellezze nubili vi sfolgoravano, ma si notava ancora l'assenza di
    due o tre glorie del matrimonio, solite ad arrivare sempre le
    ultime, o per un calcolo sapiente di civetteria, o per
    quell'orgoglio dei sovrani di non apparire tra la folla, se non
    quando questa prova finalmente il bisogno di un capo, e di andarsene
    quando comincia a perderne la coscienza. Il valtzer, precipitando in
    una ripresa piena di scoppi, aggirava tutta quella massa silenziosa
    di ballerini, che abbracciati senza guardarsi nemmeno, si parlavano
    forse con una quantità di piccole strette. E solo, sopra un divano
    dominato da una mensola carica di fiori ed avvolto quasi fra il
    panneggiamento di una tenda damascata, la quale sdraiava sul tappeto
    una magnifica frangia tutta ad ovoli e a fiocchi, io guardavo.
    
    Donna Augusta lasciò il proprio ballerino ad un'altra signora, e
    venne a cadere quasi stancamente sul mio divano. Era vestita di
    nero, nuda le spalle, con uno strascico leggiero come una nuvola e
    lungo come quello di una cometa. Alcuni grappoli di bacche rosse,
    colti come lì per lì ad una siepe, le disegnavano le pieghe
    dell'abito, stirandolo alle ginocchia e rialzandolo ai fianchi per
    formare la caduta della coda, dalla quale spuntava la trina di una
    sottana, diafana e bianca come un merletto di galaverna; mentre un
    grossissimo corallo brillantato le faceva sulla nuca da capocchia
    all'anellone delle treccie nere, e un'altra collana di coralli della
    più bella tinta sanguigna, un rosario di sangue, le ravvivavano il
    candore del seno, umido in quel momento come il marmo di una chiesa.
    Ella s'abbandonò sulla spalliera, percuotendosi il mento colle piume
    nere del ventaglio, sospeso alla cintura per una minima catenella
    d'oro. I monili delle sue braccia, formati da tante pallottole di
    corallo infilate in un cordoncino di seta, si urtarono con un suono
    sordo di gragnuola; e il brillante, che incappellava il perno del
    ventaglio, le gettò nell'ombra della mano un balenio labile ed
    acuto.
    
    - Pensate forse all'ode di Byron sul ballo, voi, che non ballate
    come lui? - mi si rivolse improvvisamente con uno dei suoi moti più
    vivaci, che parevano sempre seguitare un discorso.
    
    - No.
    
    - Siete funebre: davvero che il vostro abito nero, come dice Musset,
    pare un abito da lutto.
    
    - In questo caso le bacche del vostro potrebbero essere goccie di
    sangue. Avete ucciso qualcuno con una parola o con un sorriso?
    
    - Ah! - esclamò - passarono quei tempi. La tragedia è stata espulsa
    contemporaneamente dal teatro e dalla vita; la commedia trionfa
    dapertutto. Le passioni oggi sono ridicole, i capricci appena
    tollerati, purchè brevi. Voi altri uomini non amate più, cercate di
    scegliere: noi...
    
    - Di preferire.
    
    - Se fosse possibile, benchè sia quasi sempre troppo faticoso.
    
    E si gettò addietro in una posa, che diede una mollezza di più alla
    sua lassitudine. Poi girò l'occhio sulla folla, e, cogliendo a volo
    l'attitudine goffa di un ballerino, me l'accennò con un sorriso. Era
    allegra; le spalle, alzandosele ancora nelle ultime violenze del
    respiro, le facevano aprire la bocca e mostrare due file di denti,
    bianchi come quelli di un cagnuolo. Ad un tratto mi si appressò, e
    piantandomi negli occhi i suoi occhi verde-mare, pieni di ombre e di
    guizzi:
    
    - Se indovino me lo confesserete? datemi la vostra parola. Voi
    cercate un romanzo.
    
    - Piccolo.
    
    - Una novella allora.
    
    - Ma che lo fosse davvero.
    
    Ella alzò le spalle alla freddura.
    
    - L'avete trovata?
    
    - Sapete bene che cercando non accade mai.
    
    - Lo so - rispose con un'inflessione quasi grave nella voce. Quindi:
    - Lieta o malinconica?
    
    - Mi è indifferente.
    
    - E il titolo l'avete?
    
    - Sì.
    
    - Quale?
    
    - La Viola.
    
    - Mio Dio, è un po' fuori di stagione: mutiamo fiore.
    
    - Impossibile, perchè è un istrumento.
    
    - Ma se non conoscete la musica!
    
    - E quindi me ne occupo per non essere un'eccezione.
    
    - Come la volete lunga?
    
    - Quanto un capriccio.
    
    - Bella?
    
    - Altrettanto.
    
    - Allora vi contentate di poco: i capricci non sono belli che prima
    e dopo.
    
    - A rovescio delle commedie, che non divertono se non
    negl'intervalli: la solita differenza fra l'arte e la vita.
    
    - Quanti personaggi?
    
    - Pochi, uno per corda basterà.
    
    Ella sorrise.
    
    - Sapete che mi divertite!
    
    Io m'inchinai al complimento, ed ella proseguì:
    
    - Ditemi almeno che cosa ne farete?
    
    - La metterò fra altre tre, Violino, Violoncello e Contrabbasso,
    dentro un libro.
    
    - Che naturalmente chiamerete Quartetto.
    
    E si distrasse ancora.
    
    - Voi, che ve ne occupate come romanziere - mi si rivolse gravemente
    dopo qualche minuto - avete ancora trovato un amore vero, di quelli,
    che uccidono per forza propria, e non per una circostanza drammatica
    ed esterna? Nel nostro secolo si ama poco, nella nostra classe non
    si ama più. Guardate questa folla; le signore sono slavate, gli
    uomini volgari. Se, ripetendo il celebre scherzo di Locke,
    applicassimo il fonografo a questo salone, e potessimo leggere
    domattina le conversazioni di questa notte, forse capiremmo anche
    meglio il perchè di questa osservazione, diventata quasi impossibile
    a forza di essere comune, che nella nostra classe non si ama più.
    
    - Di chi la colpa?
    
    - D'entrambi; di noi signore, che non sappiamo più ispirare; di voi
    altri signori, che non sapete più sentire. La nostra bellezza, che
    era delicata, si è fatta fievole; la nostra anima leggiera divenne
    futile. L'estrema volubilità della moda ci assorbe tutto il tempo,
    giacchè usciamo di casa due o tre volte al giorno, e dobbiamo
    improvvisare almeno sei abiti per stagione. Quindi la nostra vanità
    è senza requie, ed oramai senza soddisfazione. Vedete: oggi non vi è
    quasi più differenza di classe; la moglie dell'affittaiuolo veste
    come la moglie del principe che affitta; sono state educate nel
    medesimo convento, si servono della medesima sarta e delle stesse
    beneficenze. Le carrozze cominciano ad essere senza stemma, come le
    carte da visita, come le livree senza galloni, i guardaportoni senza
    mazza. I saloni per riempirsi hanno dovuto spalancare porte ed usci
    alla folla promiscua dei teatri; quindi nessuno vi dominò più. Le
    grandi dame ricusarono di sgrossare gl'invitati ben ricevuti e mal
    graditi, e trovarono più superbo il deriderli segretamente,
    subendoli in pubblico; le piccole signore vi continuarono le
    intimità del collegio, i borghesi vi raccolsero i rimasugli delle
    antiche buone maniere, e se ne decorarono; i popolani arricchiti,
    più rozzi e più forti, vi perdettero la loro forza originale ed il
    loro danaro acquisito. Le loro figlie sposarono i nobili decaduti o
    derubati; i loro figli si abbeverarono di umiliazioni, ed impararono
    a scrivere firmando le cambiali di coloro, che sulla onorabilità già
    offuscata del proprio nome li introducevano nelle case patrizie,
    dorate dall'oro antico ridorate dall'oro moderno. Una volta il
    salone era come una scuola superiore di buon gusto, l'anticamera
    dell'accademia per i letterati, o del parlamento per i politici: gli
    artisti vi arrivavano trionfando, il danaro redento da una
    prodigalità sontuosa e benefica. Oggi non è più nulla: vi si parla
    poco, vi si ama punto. Guardate: in tutti i saloni si giuoca; ma non
    ai giuochi d'azzardo, dove le maniere si formerebbero ancora nella
    necessità di mentire la propria forza o la propria fortuna, sibbene
    a bezigue o a picchetto. La bigotteria legittimista o mazziniana ha
    tolto lo spirito di una volta alla galanteria, la sincerità alla
    frivolezza: non si confessano più gli amanti, ma si palesano; lo
    scandalo, che spesso era la rivelazione di una bella originalità, e
    quindi accolto col sorriso, oggi è implacabilmente scacciato: e nel
    secolo, dove il matrimonio fu proclamato un contratto, e i principi
    del sangue in esilio sposano le figlie dei biscazzieri, non si
    permette più ad una signora di darsi per nulla, ad un uomo di
    offrirsi per intero.
    
    E un sorriso di leggiera ironia chiuse questa maschia invettiva.
    Donna Augusta si raccolse un momento, quindi seguitò senza darmi
    tempo di rispondere:
    
    - Che cosa venite a fare nella nostra società? Voi non avete le
    qualità necessarie per descriverla: non vedete come tutto vi è senza
    fisonomia, faccie e discorsi, azioni e sentimenti? Non vi è più nè
    una bella donna, nè un gran gentiluomo. Ieri un duca ricusava di
    battersi con un deputato, adducendo per pretesto la religione, come
    se il duello, invenzione cristiana, non fosse sempre stato un
    privilegio dell'aristocrazia. A questa festa non si è osato
    d'invitare la marchesa ***, perchè fuggita dal marito, e i giornali
    ne hanno parlato. Guardate in tutta questa folla; non vi è nè un
    poeta, nè un artista, nè un filosofo, nè un uomo di stato. Individui
    senza nome proprio, nè di famiglia, sono ammessi e fanno la legge;
    perchè oggi col suffragio universale la legge è il numero;
    l'aristocrazia non osa più essere se stessa, la borghesia, che ha
    conquistato il pensiero e il denaro, non è ancora arrivata a
    preferire quello a questo; invidia i nobili, che ha sconfitto e li
    scimmieggia; ne questua le parentele, ne mendica gl'inviti. Se
    domani la plebe facesse una rivoluzione, i banchieri del nostro
    secolo non saprebbero morire come i baroni del secolo passato; la
    religione non ha più nè un apostolo, nè un pensatore; la politica un
    riformatore od un tiranno. Non sorridete: bisogna bene che anche noi
    donne impariamo a fare un discorso, adesso che si sta discutendo la
    nostra capacità elettorale in parlamento. Sapete perchè
    l'aristocrazia non ama e non lavora, la borghesia lavora e non ama,
    la plebe ama e lavora? Perchè l'aristocrazia è morta, la borghesia è
    moribonda, la plebe è giovane, ed ha ancora davanti a sè un
    avvenire.
    
    - Siete anche voi del partito di Schopenhauer come le signore
    tedesche: l'amore è il veicolo della vita?
    
    - Forse meglio, la vita stessa: chi non vive non può amare, perchè
    non ha nulla da trasmettere.
    
    - Così votereste per la repubblica.
    
    - Giammai, è una forma antiquata. Tutte le repubbliche, che hanno
    vissuto, furono oligarchiche, le moderne non vivranno. In America,
    osservate, è appena l'amministrazione di un'immensa colonia; in
    Francia, un interregno; in Isvizzera, una parrocchia. Roma ha
    conquistato il mondo, Venezia raccolse la tradizione di Roma: Victor
    Hugo con tutta la enormità del proprio ingegno non ha potuto nemmeno
    rendere commovente l'agonia della seconda repubblica francese:
    Gambetta colle sue spalle da Ercole non sosterrà la terza. Solo la
    Comune ha saputo morire come Sardanapalo; e, quando si muore così,
    si rinasce.
    
    - Forse.
    
    - Perchè in basso, al disotto di noi, che viviamo di tradizione e di
    etichetta, di lusso e di incredulità, la plebe crea ad ogni attimo
    il proprio presente, lavora per tutti e crede in se stessa. Come non
    crederebbe nel moto essa, che è il vapore? Talvolta, sola in
    carrozza, mi diverto a confrontare le figure che incontro. Quale
    differenza fra coloro, che ordinano, e coloro, che ubbidiscono! Noi
    signore, colla personcina esile e la pelle bianca per difetto di
    sangue, non avremo mai figli capaci di lottare coi discendenti delle
    popolane dalle carni bronzine e le spalle poderose. I nostri figli
    non montano nemmeno più a cavallo, non tirano di scherma. Evitano
    l'università, perchè vi troverebbero negati i loro privilegi, mentre
    i borghesi vi studiano tutte le scienze per dominare fra il popolo.
    Ma neppur essi vinceranno. Noi avevamo un principio ed eravamo un
    tipo: accampati sulle rovine dell'impero romano, dovevamo mantenere
    la disciplina nei barbari vittoriosi, e ripigliare la civiltà dai
    vinti: e l'abbiamo fatto. Quando l'aristocrazia sentì scemare la
    propria efficacia nel popolo, si condensò e produsse la monarchia:
    noi abbiamo durato qualche cosa come una dozzina di secoli, il mondo
    moderno è l'opera nostra. Ma la borghesia nata nell'ottantanove è un
    assurdo. Noi avevamo diviso il mondo in due classi, ufficiali e
    soldati: essi vi hanno aggiunto quella dei fornitori, e vorrebbero
    che il loro denaro valesse come il sudore dei soldati e il sangue
    dei generali. Perchè terzo stato? Perchè non il quarto, il quinto,
    tutti gli altri, sino a tornare nell'antica divisione, da un canto i
    lavoratori delle braccia, dall'altro quelli della testa? Se noi
    fummo qualche volta la rapina, essi sono il furto; se noi fummo la
    violenza, essi sono la frode; se noi fummo la distruzione, essi sono
    la fame. Ma noi almeno eravamo belli. Paragonate, voi artista, i
    nostri palazzi colle loro case, le nostre chiese coi loro teatri, il
    nostro onore colla loro probità. Voi sapete che il genio non può
    mentire, perchè la menzogna è un'infermità. Ebbene, confrontate le
    nostre letterature: per i nostri ritratti occorrevano dei Dante e
    degli Shakespeare, mentre per loro oggi bastano dei Flaubert e dei
    Zola. La superiorità dell'artista non è solo nell'ingegno, ma nel
    modello: la scultura greca è più bella della nostra, perchè i Greci
    erano più belli di noi come popolo.
    
    Ma in quel momento cominciava una quadriglia, e il ballerino venne
    ad inchinarsi davanti a Donna Augusta. Era un bel giovane biondo,
    dalla fisonomia signorile e macilenta. Donna Augusta me lo mostrò
    con un'occhiata, quasi a commento delle proprie osservazioni, e
    levandosi con grazia inimitabile mi gettò in un sorriso la promessa
    di ritornare. Rimasi solo, ancora nel turbine di quella sua
    conversazione. Non era strana, perchè conoscevo Donna Augusta da due
    anni, e le avevo già scoperto sotto l'apparente frivolezza della
    vita un colto ed originale talento di pensatore. Come si facesse a
    legger tanto, e ad aver tanto imparato, era un mistero: ma ella era
    al corrente di tutto, dell'ultima moda e dell'ultimo libro. Fra
    gl'inglesi preferiva Carlyle, fra i tedeschi Stirne. Però nei
    circoli eleganti nessuno lo sospettava nemmeno: ricordavano ancora
    la sua celebre avventura, un romanzo a mille variazioni, con un
    illustre defunto, al quale era mancato il tempo per diventare un
    grand'uomo, un deputato morto alla sua prima campagna come Hoche; ma
    i più la credevano una delle solite signore, che hanno imparato le
    lingue estere dalla governante, e sanno suonare passabilmente il
    pianoforte. D'altronde un piccolo difetto confermava il pubblico in
    questo giudizio. Donna Augusta rideva sempre. Era un sorriso
    nervoso, che le increspava la piccola bocca ad ogni minuto, dinanzi
    a tutti: un sorriso, che era forse una timidezza sopra tutta
    quell'audacia, un impaccio invincibile nella sua insuperabile
    disinvoltura.
    
    In quel momento Donna Augusta ballava la quadriglia con tutta la
    foga di una giovinetta e la voluttà educata di una gran signora. Il
    ballerino, porgendole la mano, le diceva sempre qualche motto, al
    quale ella rispondeva con un sorriso, torcendosi lo strascico
    intorno agli stivalini, alzandosi sopra la sua onda nera colla
    grazia di un'ondina e gli atteggiamenti labili di una visione.
    Quindi, incrociandosi colle amiche, alitava una parola nel loro
    cicalio profumato, o coglieva a volo tutte le risorse di una posa,
    distribuendo i favori di un gesto, accettando gli omaggi di uno
    sguardo. Il suo abito nero fra tutti quei cilestri e quei rosa era
    di un effetto quasi eccessivo, di un risalto, che le attirava
    involontariamente tutte le occhiate e il peso di tutte le
    osservazioni. Poi mi distrassi, e le sue ultime parole mi
    risuonarono ancora all'orecchio nella loro stravagante verità. Era
    forse la prima volta in un salone, che una signora osasse non solo
    pensarle, ma dirle. Infatti quella festa, colla sua allegria di
    veglione e la sua famigliarità di club, era brutta: le signore
    parevano tanti figurini di moda, gli uomini tanti camerieri. Il
    salone enorme colla volta dipinta dagli Zuccari, i cornicioni
    frastagliati, i mobili dorati, le porte scolpite, faceva pensare ad
    un'altra gente, ad altri costumi, quando le dame erano in
    guardinfante, ed i cavalieri in cappa. Pochi ufficiali facevano
    tintinnire le rotelle degli speroni, poche gemme rutilavano fra
    quella confusione di colori. Gli uomini vestiti di nero formavano
    una cintura funebre intorno al gran quadrato della quadriglia, come
    intorno ad un catafalco: le signore stecchite, come tanti manichini
    entro le loro corazze di seta, non agitavano che la testa, un viso
    di bambola, cogli occhi lucidi, la bocca rosea, le spalle acute, il
    seno pallido. E movendosi con una compostezza automatica formavano
    certe figurazioni incomprensibili, aggruppandosi e sciogliendosi
    mutamente, in un ballo senza musica e senza danza, l'ultima
    goffaggine del sussiego, l'ultima creazione dell'impotenza.
    
    Donna Augusta mi passò vicino.
    
    - Ceneremo assieme: fate preparare.
    
    Ubbidii.
    
    Quando la quadriglia fu terminata, un cameriere ci aveva già
    disposto dinanzi un tavolino nero, grande quanto un bacile, con due
    piatti.
    
    - Portatemi dunque dell'acqua - ella ordinò. - Ancora un sintomo; io
    sono astemia, il vino è troppo forte per noi.
    
    - Ecco che negherete pure il vino dell'aristocrazia.
    
    - Sicuro! - insistè con uno scoppio del suo sorriso.
    
    - Ad un'aristocrazia, che ha avuto una parte così brillante nella
    nostra rivoluzione!
    
    - Ricasoli ha inventato il Chianti.
    
    - Siamo giusti: contiamo, sono molti: Cavour, Manzoni, Niccolini,
    Leopardi, Mamiani, Cibrario, Sclopis, Manin, D'Azeglio, Lamarmora,
    Pallavicini, Capponi, Dandolo.
    
    - Questi sono i nobili: potreste contarne altri, ma sarebbero ancora
    individui. Anzitutto la nostra non fu una rivoluzione: una
    rivoluzione è un'idea nella storia della umanità, la nostra fu un
    fatto. Per parlare di aristocrazia, l'Italia ne aveva tre: una a
    Torino, una a Napoli, una a Roma. Quella di Torino si è battuta per
    il re, come se si trattasse di una conquista, e non era che una
    egemonia; quella di Napoli lo ha abbandonato nella sconfitta, come
    ha fatto quasi sempre per tutti i propri re; quella di Roma, la più
    grande, che avrebbe potuto essere un'oligarchia, perchè in ogni
    famiglia vi è ancora una tradizione di regno, non ha capito nulla, e
    non si è mossa. Nessuno dei nobili, che mi avete citato, rappresenta
    la propria classe, come da Chateaubriand a Montalambert in Francia
    gli scrittori aristocratici rappresentano la propria. Solitari nello
    studio, volontari nella rivoluzione, come la chiamate voi.
    L'aristocrazia è morta, osservatevi intorno.
    
    - Questo è il suo funerale - dissi ripreso dalla mia idea.
    
    - I perduti non ne hanno: essa è rimasta addietro nella storia, come
    un reggimento di veterani in una grande marcia sforzata. Almeno
    avesse avuto una Beresina!
    
    - Le occorreva un Napoleone.
    
    - Ogni avvenimento si proporziona i propri uomini. L'aristocrazia
    non ha avuto un generale, perchè non era un esercito; un uomo
    politico, perchè non era una classe; un oratore, perchè non era un
    sentimento. Se l'aristocrazia non fosse stata morta, avrebbe dovuto
    capitanare il moto della penisola, essa, che avanti di ogni altro
    poteva avere il senso dell'unità. Prima che Mazzini predicasse la
    fratellanza fra le provincie italiane e la insegnasse nelle
    congiure, un marchese di Napoli e un barone di Torino erano già
    fratelli, perchè erano uguali. Il privilegio serviva loro di unità.
    Bisognava che l'aristocrazia italiana dopo il primo regno italico
    avesse aperto gli occhi, e, presentendo i nuovi tempi, vi si fosse
    acconciata, acconciandoseli. In nessuna nazione del mondo la nobiltà
    è numerosa e storicamente importante come in Italia: ogni città di
    provincia conta ancora la propria dinastia. Tutto era possibile ad
    una classe, che avrebbe avuto per sè le campagne, e non avrebbe
    avuto contro nessuna altra forza di ricchezza, perchè la gente
    industriale non era ancora organizzata. La borghesia rivoluzionaria,
    una avanguardia di scienziati e di poeti, affamata di libertà,
    febbricitante di entusiasmo, ma in fondo ammalata di vanità come
    tutti gli eroi, si sarebbe battuta furiosamente sotto la nostra
    bandiera, perchè non avremmo avuto che ad aprire le nostre fila, e a
    decorare coi nostri titoli i suoi più illustri capitani per
    mantenerle la disciplina, e toglierle ogni voglia di ribellione.
    Allora non vi sarebbero stati che due soli interessi in azione:
    quello del popolo, che è il benessere materiale: quello
    dell'aristocrazia, che è il benessere intellettuale. Invece si unì
    coi preti, e credette di impedire la rivoluzione disprezzandola:
    doppio errore, che produsse due deformità: il clericalismo, che si
    batte oltre i confini della religione; il legittimismo, che si batte
    entro la piccola cerchia monarchica per difendere nel re i propri
    minimi privilegi di cortigiano. Ah! è sempre stato il mio sogno.
    
    - Il vostro sogno di gloria e di amore.
    
    - Noi avremmo oggi un senato più numeroso della camera, pieno di
    grandi nomi e di uomini superiori; amministreremmo tutto il paese, e
    non vi sarebbero ladri nell'amministrazione; serviremmo
    nell'esercito, e i nostri contadini si batterebbero come leoni col
    loro signore alla testa. Avremmo un re, che sarebbe nostro pari,
    come un presidente repubblicano è pari con tutti i cittadini; tutte
    le glorie e tutte le grandezze, anche il papato, che avremmo
    subordinato alla patria, come fece sempre Venezia. Ma Venezia era
    un'oligarchia, e l'oligarchia è la nobiltà nel patriziato. Invece
    abbiamo degli ufficiali, che si arruolano per trenta scudi al mese;
    dei deputati, che speculano sul loro mandato; dei consigli comunali,
    che sono camorre; dei saloni, i nostri saloni, che paiono sale
    d'ospedale, dove si raccolgono tutte le anemie del corpo e le tisi
    dell'anima. Confessate, voi, che non avete la goffaggine di essere
    uno dei soliti liberali, che era un bel sogno!
    
    - Bello come l'impossibile, che è la grande tentazione dei tiranni e
    delle donne. E voi adesso, invece di essere qui, sareste a Roma, nel
    vostro palazzo che sarebbe una reggia, più regina della moglie del
    re, perchè l'impero della donna è di inspirazione e di influenza, e
    bisogna essere unicamente donna per averlo. Madame Recamier ebbe un
    impero ben più vasto di madama Staël. Come le principesse del
    rinascimento avreste la vostra corona di poeti e di scienziati, di
    politici e di capitani; sareste un idolo ed un oracolo; gentile come
    Lucrezia Borgia e terribile come Caterina Medici, riverita come
    Vittoria Colonna e amata come Imperia. Il vostro salone sarebbe un
    olimpo, il pantheon di tutte le grandezze, il tempio di tutte le
    glorie. Avreste le spade di Vittorio e di Garibaldi nella stessa
    panoplia, le bandiere della Cernaia e di Montevideo, di Goito e di
    Calatafimi nello stesso trofeo. Nel vostro circolo avrebbero
    discusso Curci e Gioberti, Cavour e Mazzini, e verrebbero adesso a
    stringersi la mano papa Pecci e re Umberto, mentre Morelli vi
    cercherebbe una testa di madonna, Boito penserebbe al suo Nerone,
    Carducci ad un'ode pagana, e Vera, il grande hegeliano, mostrerebbe
    ad Ardigò, il nuovo positivista, il trionfo del proprio sistema sul
    vostro, la necessità dei contrari e la loro fusione.
    
    Ma ella non mi ascoltava nemmeno. Si era abbandonata nuovamente sul
    divano, la faccia immobile in un pensiero. La eletta e delicata
    vigoria del suo corpo si esprimeva in quell'attitudine con una
    potenza, che faceva ricordare il sublime ritratto di Agrippina; ma
    il suo viso più corretto nelle linee si dilatava alla fronte per una
    più vasta vita cerebrale. I suoi occhi, grandi e tagliati a
    mandorla, avevano una profondità dolcemente appannata, come a certe
    ore del mattino l'aria vela tremolando la cavità di una forra. Le
    sue spalle erano larghe e il suo seno ampio, benchè la cintura le
    serrasse troppo la vita, divenuta eccessivamente sottile sotto la
    pressione continua della moda. A che pensava in quel momento donna
    Augusta? Le dicerie sulla sua relazione con quell'illustre defunto,
    che l'Italia ha già dimenticato, e che passò attraverso il
    Parlamento come una cometa fra una folla di astri minori, mi
    ritornarono allora nella memoria. Quelle idee, frammenti di un
    antico mondo, colle quali uno spirito audace aveva forse sognato di
    ricostruirne un altro, e che ella gettava alla rinfusa contro la
    società moderna, come un grande artista si divertirebbe amaramente a
    scagliare negli ornati gessosi dei nostri edificii i rottami di un
    antico cornicione in terra cotta, mi parvero come le reminiscenze di
    un amore sconosciuto fra due grandi anime, le strofe mutilate di un
    poema rimasto inedito in un secolo, che non sente più l'epopea. Ella
    me ne aveva discorso altre volte, ma come per incidente, vibrando il
    bagliore di un'osservazione nel crepuscolo brumoso delle solite
    conversazioni. In quel momento ella aveva forse abbandonato la
    festa, e vagava come uno spirito, che non ha ancora potuto morire,
    per un cimitero silenzioso. La sua fronte troppo vasta per una
    donna, e che ella, malgrado le esigenze della moda, mostrava sempre
    nella sua orgogliosa nudità, aveva l'arditezza di una cupola gettata
    sopra un tempio; mentre il suo candore, che aveva resistito a tutto,
    pareva come la casta ragione del suo orgoglio.
    
    Gli invitati sparpagliati per l'immenso salone, a gruppi, presso un
    divano, intorno a una poltrona; le signore sedute, gli uomini quasi
    tutti in piedi rumoreggiavano fra un tintinnio di piatti e di
    bicchieri, di posate e di risa; intanto che i camerieri,
    superbamente gallonati, passavano e ripassavano fra di loro come
    tanti dignitarii in mezzo ad un popolo. Per un momento, colle
    signore nascoste da tante cinture di uomini e che non mostravano se
    non una macchia stuonata dell'abito, il salone mi parve come una
    enorme tavolozza, sulla quale aspettassero dei mucchi giganteschi di
    colori. Sebbene il vento circolasse liberamente dalle finestre
    aperte, l'aria troppo satura di profumi s'aggravava sul respiro, e
    le cento fiammelle a gas vibravano un calore accecante di meriggio.
    L'animazione della festa era al colmo, i fiori cominciavano ad
    avvizzire, la musica taceva, i discorsi si alzavano stormendo con un
    suono secco di pioppi. Lo scoppio di una bottiglia di champagne
    tuonò.
    
    Donna Augusta mi guardò. Mi affrettai ad alzarmi, e, inchinandomele
    senza dir altro, le offersi il braccio. Ella mi guardò ancora, e si
    levò. Traversammo quasi inosservati il salone: nell'anticamera le
    avvolsi intorno al petto uno scialle chinese, miracolo di
    un'industria, che vanta forse trenta secoli di studii e di
    progressi; ella mi lasciò fare, se ne accomodò i capi sulle braccia,
    stringendoselo con una sola ondulazione su tutta la persona. Si
    assicurò in una mano il mazzo dei gelsomini, il ventaglio
    nell'altra, quindi rivolgendomi il capo respirò potentemente l'aria
    più fresca dell'anticamera.
    
    - Grazie - mi disse poi, infilandomi da se stessa il braccio per
    discendere lo scalone.
    
    Io non risposi.
    
    Il servitore gallonato, che aspettava all'ultimo pianerottolo, ci
    riconobbe e corse a chiamare la carrozza. Era scoperta: non dovemmo
    attendere neanche un minuto. Ella vi salì colla leggerezza di un
    levriero e per risparmiarmene il giro si sdraiò a sinistra: montai.
    Ella ordinò al cameriere, che chiudeva lo sportello:
    
    - Al lago.
    
    La notte era tiepida, la luna sorgeva allora. Traversammo la città
    senza dire una parola. I cavalli, due superbi trottatori, battevano
    sonoramente l'unghia sul ciottolato, trasportandoci colla rapidità
    di una visione: ma appena fuori delle mura il vento della campagna
    ci richiamò colla sua dolce sensazione. Ella cangiò posa, scambiò
    meco un'occhiata, e seguitò a tacere. Io aspettavo. Il nostro
    silenzio, leggero come il venticello, aveva la medesima mitezza
    della campagna e la stessa soavità del crepuscolo lunare. Ella
    pensava sempre. La tappezzeria bruna della carrozza e l'abito nero
    davano alla sua testa come una sembianza di statua, alla quale i
    riflessi dorati dello scialle chinese parevano tessere un'aureola
    evanescente. La campagna era bruna e profonda. L'ombre frastagliate
    degli alberi cominciavano a ricamare la strada aperta dal solco
    raggiante dei fanali: i domestici in serpa stavano immobili. Il suo
    mazzo di gelsomini avvizzito dal bollore della festa esalava un
    odore più acuto ed insieme delicato, che mi distrasse. Era l'aroma
    del suo pensiero femminile, o il preludio di ciò, che forse mi
    avrebbe detto fra poco? Infatti si raddrizzò leggermente sul
    cuscino, mosse la testa, e con quell'accento trasognato, che in lei
    sembrava uscire da un lungo soliloquio, mi domandò:
    
    - Ci pensate ancora?
    
    Non compresi.
    
    - Allora ecco la vostra novella.
    
    Involontariamente mi sfuggì un atto troppo vivo di curiosità, ella
    lo represse con un sorriso, e chinò il capo colla civetteria dei
    grandi oratori, che preparano una improvvisazione. Il trotto dei
    cavalli, cadenzato e poderoso come un rullo, avvolgeva la carrozza e
    dava il prestigio di una confidenza a quanto ella stava per
    narrarmi. La luna tardava a sorgere: ella incominciò nell'ombra a
    bassa voce:
    
    - Vi ricordate la prima volta, che vi presentai alla duchessa di
    Campiano? fu ad una festa di ballo nelle sale dell'ambasciatore di
    Germania: quella sera la duchessa era anche più bella del solito,
    era vestita di bianco, stellata di diamanti. Mi pare che poco dopo
    veniste a dirmi molto bene della duchessa come donna e come dama; ma
    non mi sovvengo che me ne abbiate più parlato. Voi partiste, ella
    morì dopo tre mesi. Nessuna meglio di lei incarnava il tipo tanto
    studiato e così poco capito della gran dama moderna: ne aveva tutte
    le qualità e tutti i difetti, i caratteri tradizionali e le
    espressioni contemporanee. Nata in una delle famiglie più nobili e
    più ricche di provincia, era cresciuta a Firenze in mezzo agli
    splendori delle ricchezze, alle sontuosità dell'eleganza. La conobbi
    maritata, ed ignoro la sua infanzia; ma so che, essendo figlia
    unica, non fu posta in convento, e che sua madre in gioventù non era
    stata meno bella, nè meno elegante. Il suo fisico ve lo rammentate
    senza dubbio, il suo morale non lo avete certamente nè indovinato,
    nè studiato. Ella aveva ventitre anni, due bambine, sei milioni di
    dote, un marito. Educata in un ambiente aristocratico al disopra del
    mondo, come il suo palazzo antico era al disopra di tutte le case
    circostanti, ella non ne sapeva nulla; sembrava istruita ed era
    ignorante, non aveva letto nessun libro forte, nè riflettuto ad
    alcun problema umano: non sapeva la storia di nessun popolo e di
    nessuna idea. Dolce nel carattere come tutti quelli, che non
    incontrarono mai difficoltà; nervosa fino alle lagrime e
    all'entusiasmo, non aveva mai provato una qualsivoglia profonda
    emozione di pietà o di ribrezzo, di odio o di amore. Però aveva
    un'affabilità irresistibile ed una insolenza incantevole, le maniere
    morbide e i sentimenti duri: credeva nella religione senza sentirla,
    accettava i giudizi della propria classe al momento che imperavamo,
    come ne aveva appreso i modi, e li avrebbe forse istintivamente
    cercati per la delicatezza innata del suo organismo. Superba fino ad
    infrangere le leggi dell'etichetta per affermarsi più vivacemente,
    ma umile e tremante davanti ad ogni pregiudizio; colla freschezza di
    tutti i bisogni e la decrepitudine di tutte le idee; di una
    storditaggine, che andava fino alla poesia, e di una osservanza, che
    oltrepassava la meticolosità; mettendosi naturalmente al centro di
    tutto senz'altra attrazione che quella delle rose, il colore e il
    profumo; adorando le feste e i ricevimenti, nutrendosi di occhiate e
    di sorrisi, non concependo nulla al disopra di se stessa, e non
    curando quanto poteva essere al disotto; sapendo di essere bella e
    ricca, nobile e giovane, di possedere tutto e di potere esigere il
    resto, di essere un'arbitra in casa ed una sovrana fuori; era
    felice. Il suo egoismo, che aveva la profondità dell'inconscio e la
    ingenuità dell'esperienza, essendo una grazia, poteva parere un
    diritto: la sua bellezza aveva una gracilità, che la rendeva più
    poetica, e dalla quale il mondo interpetrava facilmente la
    delicatezza dell'anima. Del resto l'avete veduta. Ma quello, che
    tutti sentivano e nessuno formulava, era la sua coscienza di gran
    dama, di unicamente dama: vergine senza lirica, sposa senza
    passione, madre senza fanatismo. Le sue bambine non erano per lei
    che due gioielli, i più carini, fors'anche i più preziosi, ma
    solamente una decorazione; suo marito nient'altro che il suo stesso
    nome e la sua posizione sociale. La vita vera per lei si componeva
    del palazzo e della villa, del salone e della carrozza, di tutte
    quelle compiacenze minime e quotidiane, che attirano i privilegi
    della ricchezza e dell'aristocrazia, dalla servilità dei domestici
    alle deferenze dei signori più cospicui, delle persone più illustri.
    La sua vanità, sempre tesa come quella di una cantante, le faceva
    subordinare tutta la propria esistenza all'approvazione del
    pubblico, che affettava di non curare; ma il pubblico era per lei di
    due sorta: quello della piazza, al quale faceva la corte, perchè lo
    temeva; quello dei saloni, che le faceva la corte, perchè la
    desiderava. Come le sue eleganze sorpassando la moda non arrivavano
    mai all'arte, il suo gusto, raffinato senza cultura e senza
    elevatezza, avrebbe preferito un sopramobile ad un quadro, uno
    scialle ad un arazzo. Il carattere dominante della sua eleganza e
    l'ultimo verbo della sua coscienza era la distinzione; questa parola
    tutta moderna, che vale da sola un dizionario, e contiene tutte le
    nostre malattie e le nostre superiorità, i nostri sentimenti secreti
    e le nostre preferenze confessate. Che cosa è davvero questa
    distinzione, la quale si applica indifferentemente al colore di una
    stoffa e alla punta di una scarpa, al portamento di una donna e alle
    forme di un cavallo? Nè Baiardo, nè Vittoria Colonna, che mi avete
    citato, sarebbero oggi distinti per gente di salone: forse Olimpia
    Pamphili, se si occupasse meno di politica; ma Paolina Borghese col
    suo bel corpo di marmo e la sua bell'anima di ferro, no certamente.
    La bellezza distinta deve essere gracile o almeno angolosa, ma senza
    idealità nella delicatezza, nè vigore nella angolosità; il profilo
    di Napoleone primo parrebbe troppo arcigno, la testa della
    principessa di Lamballe troppo vaporosa. L'affermazione, comune
    oggi, che le statue greche vestite sarebbero brutte, esprime tutto
    il contenuto della distinzione moderna; la quale non vuole più il
    nudo e non sente più il forte, preferisce la decorazione alla
    semplicità, la mortificazione della fisonomia alla sua calma
    olimpica o alla sua maestà eroica. I gentiluomini emigrati a
    Coblenza, che trovavano ridicolo Charette, il quale si batteva e
    vinceva per loro. La duchessa di Campiano, che accusava Garibaldi di
    non avere un aspetto signorile, non osando più rinfacciargli la
    umiltà della nascita! Così ogni vera originalità viene condannata,
    poichè attesta una superiorità; mentre la distinzione non è che una
    supremazia collettiva come un marchio effimero di grandi decaduti
    fra la folla dei sorgenti. Quando i Greci non ebbero più nè potenza,
    nè libertà, nè arte, nè filosofia, rimasero il secreto della
    eleganza; sbertarono i Romani, loro padroni, col nome di barbari, e
    i Romani risposero chiamandoli greculi. Forse allora fu inventata la
    distinzione, come una rivincita dei vinti contro i vincitori,
    l'ultimo orgoglio di una razza moribonda, l'estremo vanto di una
    impotenza, nella quale sopravvivevano i ricordi e svanivano i
    residui di un'êra immortale. Oggi noi siamo greculi fra il popolo,
    che ritorna romano. Castellani nel medio evo, potentotti all'alba
    del rinascimento, principi al suo meriggio, signori al suo tramonto,
    perimmo nella rivoluzione francese. Fino all'ultimo, quando cessammo
    a poco a poco di essere noi la civiltà, la proteggemmo; e l'arte e
    la scienza, l'industria ed il commercio, tutto fu nostra clientela.
    Adesso una immedicabile incapacità ci condanna al più ignobile dei
    parassitismi, siamo senza testa e senza cuore, senza funzione nello
    stato e senza carattere nella nazione. Il disprezzo del denaro, che
    era stata la nostra ultima virtù, è perito colla nostra ricchezza;
    accattiamo gli impieghi e vendiamo i blasoni: sopprimete la
    monarchia, che ci dà ancora qualche onorificenza nei balli di corte,
    e saremo senza prestigio. Solo l'aristocrazia inglese, sorta
    l'ultima, quando la nostra, la più antica, cominciava a decadere, ha
    ancora una qualche coscienza di se stessa; ma la rivalità di
    opulenza coi grandi industriali la costringe alle stesse avare
    cupidigie, alle ferocie della grande cultura contro i poveri
    contadini; e mentre i mercanti uccidono gli operai nelle fabbriche,
    i lordi disertano la Scozia e l'Irlanda. Però la nobiltà inglese ha
    un orgoglio, e noi non abbiamo che una vanità. Essa crede alla
    propria superiorità naturale, e quindi empie le proprie fila di
    tutti gli aristocratici del caso, nati nelle soffitte e che
    giganteggiano fra la plebe; giacchè l'aristocrazia o è un fatto
    naturale o è nulla: noi invece ci siamo chiusi nella sua forma
    storica, e vi ci siamo incadaveriti, rinnegando il principio, che
    l'aveva creata, e faceva la sua forza. Quando il cristianesimo
    bambino si contrappose alla filosofia greca, Tertulliano gli salvò
    la vita nel terribile confronto con una sola parola: tutto ciò che
    vi era in essa d'immortale era un prodromo del cristianesimo:
    l'aristocrazia doveva ad ogni generazione ripetere il motto di
    Tertulliano alla plebe, e strappandole ad uno ad uno i suoi grandi,
    dire loro: voi mi appartenete. Invece la nostra vanità li ha
    respinti; mentre essi erano belli, noi volemmo essere distinti;
    mentre essi erano forti, noi ci vantammo di essere eleganti; mentre
    essi lavoravano, noi dichiarammo umiliante ogni lavoro. Essi
    inventarono il vapore, e noi perdemmo il coraggio di domare un
    puledro; svilupparono le scienze, e noi abbandonammo le scuole;
    mantennero l'arte, e noi abbassammo gli artisti al livello degli
    artigiani. Andammo ancora a teatro, ma unicamente per far pompa di
    una indifferenza insultante, arrivando infallibilmente dopo il primo
    atto e partendo al penultimo: leggemmo i loro libri, ma senza
    spremerne il significato, come si odorano i fiori in certi momenti
    di distrazione, o li accettammo come un omaggio dovuto alla nostra
    regalità, un passatempo prodigato alla nostra noia. E per
    l'illusione logica di tutti coloro che sopravvivendo a se stessi si
    credono i soli a vivere, battezzammo la nostra congregazione col
    nome di alta società, il nostro mondo coll'aggettivo di grande. Poi
    costretti all'appariscenza del lusso, non avendo più alcuna
    apparenza di grandezza, fummo più condiscendenti verso il danaro che
    verso l'ingegno; non dimandammo la fedina criminale all'usura, e
    chiedemmo al genio il suo blasone. Le signore presero per propri i
    colori della tisi, non ispirarono più passioni e non ne sentirono;
    bandirono dalla vita l'idillio ed il dramma per lasciarvi una
    commedia senza spirito, una satira senza profondità. Per essere
    veramente dame cessarono di essere donne: ebbero una religione senza
    pietà, una fede senza luce; furono senza patria, perchè non avevano
    più famiglia; senza poesia, perchè erano senza vita. Ah! me ne
    dimenticavo quasi, la duchessa di Campiano era così.
    
    
    
    E donna Augusta si raccolse un istante.
    
    
    
    - Quando conobbi la duchessa di Campiano la sua bellezza era in
    fiore, e la sua celebrità cittadina nel massimo frastuono. La sua
    vita, vuota di sentimenti e di azioni, era occupata febbrilmente
    dalle visite e dai balli, da tutte le necessità mondane delle sue
    innumerevoli relazioni e dei suoi trionfi. Colla casa piena delle
    più abili cameriere, non pensava mai che alle eleganze della
    toletta, alle soddisfazioni delle più minuscole vanità. La duchessa
    di Campiano non aveva salone. Dava due o tre grandi balli
    nell'inverno, qualche mattinata, qualche rarissima serata, se
    qualcuno o qualche cosa gliene fornivano il pretesto, perchè non
    sentiva nè il raccoglimento della famiglia, nè l'intimità di una
    corte. Le occorreva la folla sempre e dappertutto. I suoi trionfi di
    decorazione avevano d'uopo di una luce da palcoscenico, del fracasso
    di una grande orchestra, dell'applauso di una platea; e quindi le
    conveniva mutare spesso di pubblico per non stancarne la sensibilità
    di spettatore e permettere a se stessa il bis di qualche abito o di
    qualche piccolo motto. Come una prima donna nella retroscena di un
    teatro fra la folla degli inservienti e degli istrioni senza nome,
    la duchessa di Campiano era sempre sola nel suo palazzo e fuori,
    camminando circonfusa di una superbia indefinibile, passando come
    una visione che non scaldava i cuori e non ottenebrava le menti;
    leggiera ma inconsistente, profumata ma insipida, insensibile ma non
    sentita. Tutti la vantavano, e nessuno l'ammirava. Aveva dello
    spirito, e i suoi motti non restavano; era bella, e non aveva ancora
    destata una passione.
    
    Ma ella non se ne accorgeva. La necessità di questa prova, che è una
    tentazione degli spiriti elevati, ella non la sospettava nemmeno; la
    unanimità dei complimenti le attestava la propria eccellenza, le
    temerità di qualche uomo, che come baleni da una nuvola troppo
    carica di elettrico le scattavano attorno, le provavano la sua
    onnipotenza di donna. Non avendo mai riflettuto, non aveva mai
    dubitato: invece di osservare, guardava; invece di cercare,
    accoglieva. Ella era dappertutto; non avrebbe permesso ad un ballo
    di essere citata senza avervi fatta una apparizione; ai bagni, non
    si sarebbe lasciata passare un'onda al di sotto senza sollevarvisi.
    Come una regina, aveva nominato le proprie dame di corte, quattro o
    cinque signore, alle quali gettava gli avanzi dei propri trionfi, e
    che la decantavano dovunque per dichiarare la propria intimità con
    lei e col suo genere di vita. Una sola volta disse meco di volersi
    comporre un salone, ma le difficoltà ne la spaventarono; e non vi
    sarebbe riuscita. La povera duchessa avrebbe dovuto far ballare
    tutte le sere per divertirsi e per far divertire. Ella non lo
    voleva, e il duca non glielo avrebbe permesso malgrado la sua grande
    condiscendenza. Essi vivevano quasi separati in un commercio molto
    amabile ed insieme molto freddo. Il loro matrimonio, determinato da
    mille ragioni di interessi, non aveva avuto naturalmente che il
    significato di una associazione, nella quale la galanteria era
    potuta arrivare sino alle conseguenze dell'amore. Del resto il duca
    era un gentiluomo molto distinto, che sapeva dirigere un ballo come
    guidare un tiro a quattro, e avrebbe disimpegnato nobilmente
    qualunque carica a corte. Non aveva voluto essere deputato; ma,
    appena l'età glielo permettesse, sarebbe senatore. Che cosa egli
    medesimo facesse e di che vivesse, era un mistero: era non so cosa
    in municipio, qualche cos'altro in molte banche, presidente di una
    società operaia o simile, per quella solita contraddizione del
    popolo, che odia i signori, e non sa far niente, se non sono almeno
    in apparenza alla sua testa; ed ecco un sintomo della legittimità
    dell'aristocrazia. Ma il duca lasciava la massima libertà alla
    duchessa. La conobbi e mi piacque: ella mi preferì per un certo
    tempo, perchè con tutte le smanie secrete di sovranità, aveva un
    bisogno ancora più secreto di essere dominata e di obbedire. Come a
    tutti i satelliti le occorreva un astro, intorno al quale gravitare;
    e prima che entrassi nella sua intimità, era quasi a discrezione di
    una cameriera. La duchessa, che parlava moltissimo come tutte le
    signore senza spirito, mi raccontò presto tutta la sua vita e le sue
    idee, con la ingenuità di chi non può nemmeno sospettare di aver
    torto, perchè non vede il contrario. Non era nè felice nè infelice,
    ma era contenta senza volerlo ammettere, per quella condiscendenza
    volgare verso il dolore, che è in tutti i discorsi sulla vita. Forse
    qualche volta si annoiava, ma era una lassitudine dei nervi, più che
    una stanchezza dello spirito, una disoccupazione della testa,
    piuttosto che un vuoto nel cuore. Siccome si afferma che il cervello
    di noi altre donne è più piccolo di quello degli uomini, avrei
    voluto vedere quello della duchessa, perchè fra il cervello di noi
    signore e quello delle altre donne ci deve essere altrettanta
    differenza. Benchè facciate il romanziere, non saprete mai misurare
    il cervellino di una dama, e farne la nomenclatura delle idee. Un
    uomo solo, il più gran genio del nostro secolo, Balzac, ci ha
    ritratte con una verità insuperabile ed insultante, impassibile ed
    immortale. Voi, mio caro Di Banzole, perderete dieci volte la vita
    prima di apprendere a decomporre la più semplice delle nostre
    fisonomie, a risolvere la più facile delle nostre contraddizioni.
    Forse il piccolo è più difficile del grande, forse il microscopio ha
    più secreti del telescopio. Nemmeno le grandi donne vi riescono:
    guardate la Stäel, George Sand, Giorgio Eliot, Elisabetta Browning,
    e paragonatele a Balzac. Le loro analisi femminili sono le più
    monche e le più false della letteratura moderna: o romanticismo
    tragico della prima maniera, o romanticismo casalingo della seconda;
    analisi vera mai. Quante volte Balzac deve aver sorriso dall'alto
    della sua immensa opera di titano, osservando le grandi scrittrici
    del nostro secolo salire sulle montagnuole dei giardini per
    imitarlo, e credere così di riuscirvi. Non si giudica se non ciò che
    si è oltrepassato; non si ritrae se non quello che ci è sottoposto:
    noi donne non possiamo comprenderci, e gli uomini non lo possono del
    pari, se non alzandosi al disopra del rapporto, che li unisce con
    noi. Dante, Shakespeare, Goethe, Balzac... Anche voi altri siete in
    pochi. Ma se i primi tre sorpresero i generi e le specie, il quarto
    fece ancora meglio, e sorprese le famiglie e gli individui. Oggi si
    vorrebbe fare di più, e Zola studia le malattie; ma ciò è molto
    meno, perchè le eccezioni sono più facili della regola, ed hanno
    fatalmente minore estensione e minore profondità. E voi, Di Banzole,
    dove tendete col vostro povero lirismo filosofico, che non riscalda
    e non rischiara, che ha tutti i difetti della lirica e della
    filosofia, quando vogliono diventare drammatica? Voi, che siete
    sempre al di là del vero, e al disotto del bello: povero romanziere
    di una nazione, che non ne ha avuto che uno, e non ne ha più; che
    credete alla necessità di scrivere, mentre potreste fare come me,
    che racconto solamente...
    
    - Raccontate dunque.
    
    - È vero. Quasi rimpetto al palazzo della duchessa di Campiano,
    all'angolo di una casetta antica colle bifore, appoggiato ad un
    pilastro di granito rosso, stava sempre un povero zoppo. I suoi
    cenci pieni di colori e di buchi avrebbero entusiasmato un pittore,
    la sua testa fatto fantasticare più di un poeta. Una gran barba, che
    cominciava a brizzolarsi anzi tempo, gli saliva fino agli occhi, e
    gli scendeva sul petto. I capelli gli uscivano a ciuffi dalle
    orecchie, e quando si traeva il berrettone per tenderlo col gesto
    umile del mendicante, gli si vedevano incollati sulla fronte, come a
    certe figure delle stampe antiche. Era zoppo da una gamba, pallido e
    sofferente. L'enormità del suo piede infermo, tutto fasciato di
    stracci, spiegava forse l'espressione macilenta del suo viso, e la
    malinconia del suo sguardo. Aveva gli occhi neri, oblunghi, di un
    taglio squisito e di una profondità mistica. S'appoggiava su due
    gruccie; una lunga, imbottita, che gli sorreggeva l'ascella; l'altra
    piccola, a bastone, sulla quale la sua mano si era deformata nella
    lunga e faticosa pressione. Da qualunque finestra del palazzo
    Campiano vi affacciaste, eravate sicuro di trovarlo accanto al suo
    pilastro, la fronte china, le spalle curve. Quando pioveva, si
    riparava sotto l'arco della porta più vicina, e vi restava
    invariabilmente sino all'ora di notte. Quindi se ne andava a passo
    lento, e mi ricordo di aver sentito più di una volta
    dall'appartamento della duchessa la percossa cadenzata delle sue
    stampelle, che nella notte rimbalzava sino ai vetri delle nostre
    finestre. La mattina tardi, mai prima delle nove, ricompariva al suo
    posto. Non chiedeva l'elemosina che alla gente ben vestita, ma la
    dimandava col gesto: si spiccava appena dal pilastro, allungando uno
    dei bastoni, si protendeva, abbassava la testa, alzava gli occhi con
    una attitudine da martire. Il suo berrettone, scuro e senza fiocco,
    era di quelli, che usano i carrettieri nella campagna romana. Ma non
    ringraziava altrimenti che battendo gli occhi e non invocava mai il
    nome di Dio. Forse la distinzione delle sue maniere, Donna Augusta
    ebbe un sorriso, e la sua poca importunità gli valevano la
    tolleranza delle guardie, e un ricolto quotidiano abbastanza
    abbondante. Però egli non mutava mai vestito; solamente nell'inverno
    si ravvoltolava in un mantello vecchio, a doppio bavero, con un
    grosso fermaglio a catenella di ottone, e si metteva due guanti a
    maglia senza dita. Il pallore di quel po' di faccia scoperta gli si
    faceva livido, e l'occhio gli si velava di una lagrima diacciata. Ma
    nemmeno allora, sotto il peso di quella nuova miseria, apriva la
    bocca, o faceva un gesto di più. Per una di quelle solite
    contraddizioni, che sono quasi sempre un'insolente ironia, si
    chiamava Prospero; e i monelli, che qualche volta avevano cercato
    inutilmente irritarlo, lo avevano battezzato Prosperaccio. A pochi
    passi, svoltando, v'era la chiesetta di santa Barnaba, nella quale
    la duchessa andava quasi sempre la domenica a messa. La messa era
    alle undici e mezzo. Appena ella usciva a piedi del portone,
    Prospero, che spiava chissà da quanto tempo, si raddrizzava alla
    meglio, tirava indietro il piede ammalato, e si cavava il berrettone
    come i devoti all'avvicinarsi del viatico. La duchessa ne sorrideva
    nel suo interno, e gli dava invariabilmente mezza lira. Ma neanche a
    lei Prospero aveva mai detto grazie colla voce. Se fra giorno la
    duchessa usciva a piedi, sola, e passava dall'altro canto della
    strada, Prospero non le andava incontro ad importunarla; restava
    addossato al proprio pilastro, dritto nella posa più composta, e si
    cavava il berrettone senza curarsi che la duchessa lo vedesse o no,
    e gli rispondesse con uno dei suoi invisibili cenni del capo. Se la
    duchessa gli passava vicino in compagnia di qualche amica, Prospero
    si traeva rispettosamente il berrettone, ma non lo allungava. La
    duchessa colpita da questa discrezione piena di buon gusto lo aveva
    elevato a suo primo povero, e ne aveva parlato colle signore.
    Qualcuna era passata apposta di lì per conoscere Prospero, gli aveva
    fatto l'elemosina, ricevendo lo stesso ringraziamento muto, e
    riportandone la stessa buona impressione. Ma a poco a poco Prospero
    era entrato nel palazzo di Campiano. Non che vi avesse mai posto il
    piede, ma aveva attirato l'attenzione dei domestici, sempre pronti a
    sorvegliare le preferenze dei padroni; e la sua sorte se ne era
    ancora avvantaggiata. Le cameriere gli davano qualche soldo, gli
    sguatteri qualche avanzo. Egli accettava tutto cogli stessi buoni
    modi, ma non parlava che con una vecchia guardarobiera, la quale,
    passandogli innanzi, si fermava sempre a dirgli qualche cosa. Non so
    qual genere di amicizia fosse la loro, ma ella se ne vantava cogli
    altri servitori, e aveva potuto parlarne anche colla duchessa, che
    aveva sorriso. Prospero, raccontava la vecchia, le dimandava sempre
    nuove della salute della signora duchessa, parlava di lei come di
    una santa, e le augurava tutte le felicità; una volta aveva persino
    chiesto se era contenta al mondo, e se andava bene in famiglia.
    
    - Figuratevi, tutti l'adorano.
    
    - Lo credo bene - aveva risposto Prospero; poi aveva strizzato gli
    occhi soggiungendo: - e col signor duca?!
    
    - Ma si adorano: non vi è mai stato marito e moglie che si amino di
    più.
    
    La duchessa sorrideva sempre di questo racconto, che l'altra le
    ripeteva ad ogni caso, con intenzione maligna, mentre invece chissà
    cosa aveva raccontato a Prospero sulle relazioni intime della
    duchessa col duca.
    
    Infatti la loro freddezza non poteva essere un secreto nel palazzo.
    Il duca allora aveva una ballerina celebre, che gli costava più di
    uno scandalo. E poco a poco io stessa mi ero interessata a quel
    povero zoppo. Qualche frase della duchessa, la miseria pittoresca
    degli abiti di lui, l'espressione quasi mistica della sua faccia, il
    suo contegno, la immobilità della sua vita, lì, all'angolo di quella
    casa, mentre tutta Firenze gli si agitava incessantemente intorno,
    me lo richiamavano tratto tratto alla mente con una di quelle
    insistenze inesplicabili, le quali ci producono la sensazione
    indefinibile di qualche cosa, che stia per aggiungersi alla nostra
    vita, di un altro filo, che entri nella nostra trama. Ma quando gli
    passavamo innanzi colla duchessa, siccome gli guardavo nella faccia,
    egli evitava costantemente, e con una specie di paura, il mio
    sguardo. La duchessa invece arrivava qualche volta perfino a
    sorridergli. Una domenica di primavera, che ritornavamo da una
    visita, la duchessa aveva un mazzo di viole bianche ad un bottone
    del cappotto: quella mattina ella era di una gaiezza eccessiva:
    appena vide Prospero si cercò in tasca il portamonete, ma non
    trovandoselo, si sbottonò il cappotto:
    
    - Poveraccio! - esclamò col suo riso inimitabile - dammelo tu,
    Augusta.
    
    Gli eravamo già davanti. Prospero, che si era tratto rispettosamente
    il berrettone vedendoci spuntare all'angolo della strada, si curvava
    già per il suo inchino, quando la duchessa nel riabbottonarsi il
    cappotto perdette una viola. Malgrado la difficoltà di
    quell'attitudine e della gruccia, colla quale si sorreggeva,
    Prospero si precipitò per raccoglierla con tale violenza, che gli
    strappò un urlo sommesso di dolore; si rialzò pallido come uno
    spettro, e mentre stavo per aprire il mio portabiglietti, ci disse
    con accento cavernoso:
    
    - Se la mi permette, tengo questa.
    
    La preghiera andava alla duchessa, ma era rivolta a me. Lo sentii, e
    sentii che Prospero mi temeva. La duchessa soffocò una risata al
    complimento, lo ringraziò con un moto di testa come avrebbe risposto
    in un salone alla galanteria di un principe del sangue, e passammo
    oltre. Ne scherzò meco lungo tutta la strada, poscia non ne parlammo
    più. Poco dopo io partii per Ostenda. Quando ritornai, qualche cosa
    era accaduto fra il duca e la duchessa. Una sera d'estate, che
    uscendo dal Niccolini si erano fermati a prendere un sorbetto al
    Bottegone, una ragazza ed un vecchio vennero a piantarsi davanti al
    loro tavolino. Il vecchio suonava la viola, la ragazza cantava
    accompagnandosi sulla chitarra. Quella ragazza, l'ho poi vista molte
    volte, era di una rara bellezza, sebbene già avvizzita. Si diceva
    spagnuola, e vestiva il costume andaluso come lo acconciano in
    teatro, ma forse non era che siciliana. I capelli di un nero senza
    nome, pieni di ondulazione e di lampi, le incorniciavano con
    civetteria di ritratto il volto livido ed ovale. Aveva una fronte
    molto alta, con due sopracciglie troppo sottili, ma di una grande
    purezza di disegno, sopra due occhi, dei quali era impossibile
    immaginare gli eguali. Erano così profondi, che di primo tempo non
    se ne sentiva la grandezza: avevano le palpebre quasi lunghe come la
    frangia della gonnella, e una luce che teneva dell'abbarbaglio. Il
    naso leggermente ricurvo colle narici palpitanti le dava un profilo
    da uccello di rapina, mentre le labbra, rientrando, le lasciavano
    trasparire la bianchezza stridula dei denti di porcellana. Era di
    mezza statura, le spalle piuttosto curve, i fianchi arcuati, le
    braccia lunghe; ma il busto, a colori sotto la baschina nera, le
    rialzava il seno con una temerità, che aveva quasi della violenza, e
    dava al difetto delle sue spalle e dei fianchi tutta la
    provocazione, che possono contenere questi due deliziosi difetti.
    Infatti il suo collo era curvo come le sue spalle; pareva tutta un
    po' curva, col seno troppo alto come le donne, che sapendone
    profittare, vi mettono col piccante di una sincerità la tentazione
    di tutte le interpetrazioni. Quindi camminava quasi sempre a testa
    china, appoggiandosi naturalmente la chitarra sul grembo turgido
    come il seno. Spesso pure si guardava i piedini, i più piccoli che
    io abbia visto, calzati invariabilmente di una scarpetta scollata,
    di pelle bronzina, sopra le calze di una tinta molto pallida. Ma
    quando guardava era un'impressione di luce come il muoversi di uno
    specchio, dentro al quale mille lingue di fiamme vampeggiassero e
    svanissero. Però la sua voce stridula sarebbe stata insopportabile
    senza la stravaganza di quel costume, e la poesia della sua figura.
    A Firenze le avevano messo nome la Gitana, ed era l'avvenimento di
    tutti i caffè. Una folla di ragazzi e di donne la seguivano di uno
    in altro più per vederla che per udirla. Ella cantava una romanza
    spagnuola, o togliendo di mano al vecchio, un insipido figurante, la
    viola, vi suonava alla meglio un fandango. Quando aveva finito si
    traeva di tasca un piattino bianco, e andava disinvoltamente in
    giro, destreggiandosi tra le frasi e le occhiate. La prima sera il
    duca e la duchessa si erano fermati ad udirla quasi con piacere; ma,
    tornandosi a casa la sera dopo, allo svoltare di una strada avevano
    trovato la Gitana. Il duca, pretestando di essere aspettato altrove,
    aveva lasciato la duchessa al portone, ed ella si era naturalmente
    immaginato che ritornasse sulle orme della Gitana. Infatti era stato
    così. La duchessa, che non poteva essere gelosa, non si sarebbe
    occupata di questa nuova avventura, se il duca non si fosse
    imprudentemente mostrato la notte in ogni caffè di Firenze dietro la
    Gitana, come un novellino. Le amiche della duchessa si affrettarono
    quindi a pungerla con nuove malignità; e, malgrado che ella ne
    ridesse con una gaiezza fino ad un certo punto sincera, la sua
    indifferenza non giunse a togliere ogni alimento alla loro
    cattiveria. O il duca impazzisse davvero, o qualche cosa di funesto
    dovesse cadere sulla famiglia Campiano, il suo carattere si era
    fatto piuttosto chiuso, perdendo così col bell'umore la sua sola
    grazia. Un'altra sera, al Bottegone, che la marchesa Erminia
    d'Armillara era colla duchessa e col duca, la Gitana venne a
    postarsi davanti al loro tavolino. Io ero a pochi passi col povero
    Rattazzi. La Gitana aveva rinnovellato il proprio abito,
    conservandone ed arricchendone il costume. La baschina nera ricamata
    in oro sfolgorava, il busto aveva un balenio d'iride, le calze erano
    di seta, e un magnifico fornimento di corallo rosa le ornava la
    testa ed il collo, i polsi e gli orecchi. M'ingannai o mi parve che
    ella mettesse una speciale intenzione nel prescegliere il tavolino
    della duchessa, la quale naturalmente finse di non accorgersene.
    
    Quella sera i tavolini erano più affollati, la gente gremiva il
    marciapiede: sarà stata circa un'ora; non passava più alcuno per la
    strada. Tutta quella gente che si era fermata al caffè veniva da
    teatro. La Gitana cantò una romanza napoletana, come un complimento,
    che ella spagnuola facesse all'Italia, e che la goffaggine del suo
    accento straniero rendeva più grazioso. La canzone aveva il colore e
    la nudità del mezzogiorno. Il pubblico, in quell'ora per la maggior
    parte di giovanotti eleganti, l'accolse con una simpatia clamorosa:
    e quindi s'intesero dei bisbigli, che scoppiarono al finale in un
    motteggio di applausi. Ma tutta quella folla aveva penetrata la
    oltraggiosa intenzione della Gitana; la presenza della duchessa
    atteggiava quasi drammaticamente la volgarità della scena. Il duca,
    che non poteva non provare quella tensione, profittando del cicalio
    della duchessa colla marchesa D'Armillara, per una delle sue morbose
    vanità di scandalo, si mise francamente a guardare la Gitana. La
    quale cantò la romanza più malamente del solito. Si volle il bis, la
    replicò, la dovette replicare ancora, e andò in giro. La duchessa,
    che non perdevo d'occhio, ebbe un'occhiata sublime di indifferenza
    quando la Gitana le si presentò col piattello: mi sembrò che l'altra
    trasalisse, ma certo trasalì la folla, che passò istantaneamente
    dalla parte della duchessa. La Gitana proseguì la questua sotto il
    nuovo peso di tutti gli sguardi e la percossa di tutte le parole, e
    si fermò davanti a noi. Il povero Rattazzi la guardò attraverso i
    suoi occhiali usi a scrutare dappertutto, la prese, la gittò dentro
    uno dei suoi motti, profondi e freddi come un pozzo. In quel momento
    alla luce di un fanale scorsi Prospero appoggiato all'angolo del
    Duomo, che seguiva collo sguardo la Gitana. Non so perchè fremetti.
    Poi la Gitana prese dal vecchio la viola e suonò la nuova canzone di
    Piedigrotta con una posa più corretta di artista: salutò, partì,
    gran parte del pubblico fece altrettanto. Allora me ne andai io pure
    senza parlare alla duchessa. L'indomani ricevetti un suo biglietto
    pressante; risposi che non avrei potuto sull'atto, e che a sera
    sarei passata al suo palazzo. Mi aspettava: era agitata, una collera
    fredda le balenava dagli occhi. Senza darmi nemmeno il tempo di
    interrogarla, mi raccontò come il duca volesse invitare la Gitana
    per la loro ultima serata d'addio agli amici, prima di partire per
    Sesto Fiorentino. La duchessa aveva sulle prime creduto ad uno
    scherzo di cattivo genere, ma egli si era fatto serio, mettendosi a
    spiegarle tutte le ragioni in favore della propria proposta. Certo
    la Gitana era tutt'altro che una buona cantante, ma essendo
    spagnuola, col costume spagnuolo, suonando dei balli di Spagna,
    offrendo così l'occasione di improvvisarne qualcuno colle nacchere,
    diventava più che possibile in una serata di amici, che l'avrebbero
    presa come un anticipo sui divertimenti della campagna. E il duca
    tornava sullo scherzo con quella persuasione dei propositi
    deliberati, che fanno sentire sotto la gaiezza dell'accento
    l'irritazione di uno sforzo. La duchessa offesa più nel suo orgoglio
    di dama, che nella sua dignità di donna, si era opposta con
    risolutezza sprezzante, senza degnarsi neppure di cercare se sotto
    quella sconvenienza si nascondesse una abbiezione. La discussione,
    lunga e difficile per se stessa, si era finalmente conchiusa in un
    alterco; ma siccome il duca non poteva addurre altre spiegazioni a
    questo capriccio che la propria volontà, la duchessa aveva allora
    dovuto provarne la percossa come donna. La sua testa ne aveva
    rintronato, immaginandosi subito che quello fosse un proposito della
    Gitana per mettersi meglio in voga, una condizione infame che gli
    avesse messo ai propri favori. Qualunque altra donna al posto della
    duchessa avrebbe trovato nello sdegno o nel dolore della propria
    coscienza la forza di umiliare o di convincere quell'uomo: sarebbe
    stata solenne nel silenzio, e eloquente nelle parole; avrebbe avuto
    di quelle frasi che tolgono il respiro, di quelle osservazioni che
    dissolvono ogni pertinacia. Ella non trovò nulla. Non contrappose
    che la propria vanità di dama, non invocò che le convenienze
    dell'etichetta: poi gittandosi nell'ironia, senza osare di
    strappargli il secreto, volle flagellarlo col ridicolo di ricevere
    condizioni chissà da chi e a che prezzo, mentre tutta Firenze ne
    rideva. Il duca, che non mancava al tutto di spirito, l'aveva
    rimbeccata; i sarcasmi erano arrivati fino alle insolenze, le
    insolenze quasi alle minaccie. Ella già impaurita aveva allora
    dichiarato che ritirerebbe gl'inviti: egli l'aveva guardata
    freddamente negli occhi, e l'aveva sfidata a questo coraggio. Quello
    sguardo l'aveva atterrata. Il duca se n'era andato intanto che ella
    scoppiava a piangere; e in quel momento, raccontandomelo, le lagrime
    le tornavano nuovamente agli occhi. Sulle prime aveva pensato di
    dare la serata, e di mancarvi con un pretesto qualunque; ma poi
    aveva riflettuto che la sua assenza renderebbe anche più viva
    l'ingiuriosa presenza della Gitana nel suo salone. Era pallida,
    cogli occhi gonfi, la testina arruffata e spiritata. La inanità
    della sua natura si rivelava tutta in quel frangente, guadagnandovi
    quasi una grazia di bambino. Le idee più strane, i divisamenti più
    inconcepibili le si affaccendavano nel discorso; poi ne smarriva il
    filo, e si abbandonava a lagnanze di un comico irritante. L'ascoltai
    pazientemente. Però siccome non le rispondevo, alla fine
    s'inciprignì anche meco. Le amiche l'abbandonavano. Invece non
    volevo che vedere a qual partito si appiglierebbe; ma non ne
    trovando, conchiuse quasi sbadatamente di avermi mandato a chiamare
    perchè le dissuadessi il marito. Allora le feci notare la
    sconvenienza di invocare un estraneo in questo loro pericoloso
    dissenso; se non che mi interruppe, e passandosi la mano sulla
    fronte con un gesto carino, inesprimibile di superbia, disse:
    parliamo d'altro. Quindi si mise per altri argomenti senza però
    diventar più calma. Eravamo nel suo salotto favorito, una scatola di
    raso, un astuccio delicato per una preziosa pupattola. Malgrado il
    turbamento di quella giornata, ella aveva trovato il tempo per una
    toletta dolcissima, di un buon gusto minuzioso, che finiva di
    togliere alla sua figura ogni supposizione di forza, per lasciarla
    come dentro un vapore bianco, un'aria profumata. Nessuno dei suoi
    lineamenti esprimeva un pensiero, nessuna delle sue contrazioni
    tradiva una passione. Allora la richiamai al primo discorso,
    promettendole di fare ogni possibile per distogliere il duca dal suo
    tristo capriccio, se le circostanze me ne porgessero il destro. Ella
    mi enumerò quindi tutte le necessità dei riguardi mondani, il
    rispetto del nome, del salone, degli invitati, e conchiuse:
    
    - Infine anch'io sono donna.
    
    Quando uscii dal palazzo rividi Prospero non più appoggiato al suo
    pilastro, ma dirimpetto al portone. Erano le dieci. L'osservai
    meravigliata di quella sua ora insolita, e mi parve che egli pure mi
    esaminasse; ma i miei cavalli partirono rapidamente, e lo perdei.
    L'indomani mi fu impossibile vedere il duca; assunsi qualche
    informazione, e seppi che tutte le sere andava dalla Gitana, la
    quale abitava il pianterreno di una casipola a S. Spirito. Recandomi
    quindi dalla duchessa, per strada, vidi la guardarobiera stretta in
    colloquio con Prospero al solito pilastro. Credetti che si trattasse
    di una confidenza, perchè parlavano in fretta, a bassa voce,
    Prospero cogli occhi fissi al suolo, come chi stia per prendere una
    risoluzione, l'altra con gesti concitati, guardandosi spesso
    intorno. Quando mi scorse, sussultò, ne diede l'avviso a Prospero,
    che levò repentinamente la testa, scambiarono ancora una parola, e
    si separarono. Ma la vecchia forse temendo che la interrogassi,
    invece di entrare a palazzo, tirò oltre. La duchessa non era in
    casa. Ripassando dinanzi a Prospero mi sembrò che fosse più pallido
    e sofferente, si trasse rispettosamente il berrettone, ma non me lo
    tese. Io stessa ero nervosa: nella sera Rattazzi venne a vedermi, e
    mi distrasse. Eravamo alla vigilia dell'ultima spedizione di
    Garibaldi a Roma, vi basti questo. Rattazzi mi espose il proprio
    piano, nel quale il pubblico non doveva capir nulla, come infatti
    avvenne, e che doveva attirargli, sulla sua piccola testa di
    grand'uomo, la esecrazione temporanea di tutto il paese. In quel
    momento Rattazzi era persino bello: i suoi occhi bruni ed acuti come
    la punta di un succhiello avevano attraverso gli occhiali un
    dardeggiamento assiduo ed insopportabile; le sue frasi scattavano,
    la sua ossuta figura di scheletro pareva slogarsi a certi gesti
    terribili ed imprevisti. Il duca e la duchessa colla miserabilità
    dei loro dissidii mi passarono quindi di mente; ma all'indomani la
    Gazzetta d'Italia annunziava che la Gitana era stata uccisa nella
    notte, tornandosi a casa, per un viottolo presso S. Spirito, da un
    accattone zoppo, che si chiamava Prospero. Compresi subito che
    doveva essere lui. Il giornale raccontava tutti i particolari della
    tragedia. Pareva che da qualche notte lo zoppo pedinasse
    instancabilmente la Gitana; e più d'una volta, fermandola per
    chiederle l'elemosina, avesse tentato di parlarle: ella gli aveva
    badato poco o punto, finchè l'ultima sera aormandola sempre a poca
    distanza, Prospero l'aveva raggiunta per quel viottolo deserto. Era
    oltre mezzanotte, non passava anima viva. Prospero si era levato il
    berrettone colla sinistra, tenendolo umilmente; ma la Gitana,
    importunata, gli si era rivolta di mal garbo, e il vecchio suonatore
    lo aveva minacciato. In quello stesso punto Prospero si era
    allungato improvvisamente vibrandole una orribile coltellata nel
    seno: la Gitana era caduta gittando un urlo straziante, il vecchio
    si era slanciato; ma, vedendo l'altro col coltello fumante, aveva
    pensato meglio di darsela a gambe, mentre Prospero, che, perduto
    l'equilibrio, si reggeva a stento sul bastone, traboccava egli pure
    sul corpo insanguinato della Gitana. La strada era deserta, il
    vecchio suonatore scomparso cacciando stridi da spiritato. Che cosa
    si fossero detti quei due in quel momento nessuno lo sapeva; ma
    quando sopravvennero le guardie, e fu prontamente, la Gitana era
    morta. Due seconde coltellate, una alla gola e l'altra al cuore
    l'avevano quasi dissanguata; Prospero, che le aveva lasciato il
    coltello nell'ultima ferita, tentava di rialzarsi sulla gruccia.
    Alle interrogazioni violente delle guardie, e a tutte le irruenze
    dell'altro vecchio, che vedendolo disarmato voleva finirlo, non
    aveva risposto una sola parola; solamente aveva osservato che
    ammanettandolo non avrebbe potuto camminare; e si era lasciato
    condurre al primo corpo di guardia. I questurini avevano raccolto la
    chitarra rotta ed insanguinata; il coltellaccio omicida era
    terribile, un'arma da beccaio perfezionata da un assassino. Vi ho
    ripetuto tutti questi particolari perchè mi si sono fissati uno ad
    uno nella mente. Ma quale era la causa di un simile delitto? La
    Gazzetta, che vi consacrava un lungo articolo colla compiacenza
    propria dei giornali per i delitti misteriosi, moltiplicava le
    congetture più drammatiche, finendo per attaccarsi all'ultima, che
    Prospero fosse disperatamente innamorato della Gitana. Intanto
    prometteva per l'indomani altri dati sulla vittima, che pareva una
    signora napoletana, costretta da una passione infelice a quel povero
    e tristo mestiere. Tutta Firenze non parlò che del trucissimo caso,
    e del lungo articolo della Gazzetta; la curiosità cittadina fu
    eccitata, gli altri giornali intervennero, e allora le ipotesi e le
    spiegazioni si urtarono. Ognuno conosceva qualche lembo del secreto,
    qualche circostanza decisiva; fu un pettegolezzo assordante e
    feroce. Quel dopo pranzo la duchessa era venuta a trovarmi e non
    aveva dissimulato la propria allegria. Mi assicurò che Prospero era
    proprio lui, e che era innamorato della Gitana. Siccome lo aveva
    letto nella Gazzetta, lo aveva già creduto. Avrebbe desiderato
    parlarmi del duca, ma voleva essere interrogata, e non lo feci.
    Allora l'inconscia brutalità del suo egoismo, che in quella
    tragedia, forse degna di un grande poeta, non vedeva se non il
    trionfo legittimo di un'etichetta, mi irritava contro di lei.
    Domenica sera la sua ultima serata non avrebbe una stonatura! Ma
    fossi troppo aggrondata, o ella sentisse confusamente in me la
    cattiva impressione dei suoi discorsi, e ne temesse qualche scoppio,
    mi fece ancora un complimento, e se ne andò. Seppi che la sera di
    quel giorno il duca partì per Sesto Fiorentino. L'avventura ben
    altrimenti sanguinosa di Mentana mi fece presto scordare di
    Prospero; quando, molti mesi dopo leggendo nella stessa Gazzetta il
    resoconto del discorso di Rattazzi, quel capolavoro che durò tre
    giorni e che io andavo religiosamente ad ascoltare dalla tribuna
    diplomatica, mi cadde sott'occhio l'annunzio della causa di
    Prospero. Era per l'indomani. Difendeva un avvocato di nome ignoto
    come accade sempre per i poveri; un giovane, che adesso è una
    piccola celebrità ed un piccolo talento. L'indomani Rattazzi non
    parlerebbe. Decisi quindi che sarei andata alle Assise. La sera
    m'incontrai da Gino Capponi colla duchessa, la quale aveva pure
    letto l'annunzio, e si sentiva la medesima voglia: concertammo di
    esservi insieme. Era una magnifica giornata. Andando a prendere la
    duchessa nella mia carrozza, rividi il pilastro abbandonato di
    Prospero, e tutti i particolari e le congetture della catastrofe mi
    si affollarono torbidamente nell'anima.
    
    Un mistero così profondo, che nessuno l'aveva ancora penetrato e che
    non si scoprirebbe nemmeno al processo, stava forse in fondo a
    quella tragedia di strada. Perchè Prospero aveva ucciso la Gitana?
    La supposizione che fosse innamorato mi pareva, non so perchè,
    assurda: ma ero altrettanto sicura che Prospero l'aveva uccisa per
    conto proprio, e per una ragione non vile. In quel momento la sua
    fisonomia mistica e indolorita di martire, condannato a vivere del
    proprio martirio, mi riappariva al pilastro, e mi commoveva. La
    duchessa, vestita con un'audacia piena di colori, abbottonandosi in
    quell'istante un lunghissimo guanto, mi si rivolse, e col suo
    accento leggero:
    
    - Ti ricordi, Augusta - proruppe - la mattina della viola?
    
    Quando entrammo alle Assise la folla ingombrava i pressi e lo
    scalone: era un viavai, un romorio confuso e crescente. I ricordi si
    risvegliavano, la causa minacciava di farsi grossa. Potemmo a stento
    aprirci il passo, e coi biglietti d'invito essere introdotte nella
    tribuna. La sala era così gremita che le teste vi formavano un
    ciottolato; le signore abbondavano, alcuni avvocati illustri erano
    nei posti distinti e nelle tribune. Guardai Prospero. Nè la sua
    faccia, nè i suoi abiti erano cangiati. Stava seduto sulla ignobile
    panchina, la gruccia distesa lungo la gamba, e l'altro bastone fra i
    piedi: non pareva nè turbato, nè avvilito. Col berrettone a fianco e
    la testa nuda conservava il solito contegno rispettoso; solamente
    quella depressione dei capelli, che gli cadevano sulla fronte,
    lasciandogli quasi calva la nuca, gli dava un'aria anche più
    mistica. Il suo giovane avvocato in toga era più pallido e più
    nervoso di lui. Naturalmente egli dubitava di se stesso, mentre
    l'altro era sicuro della propria condanna. L'arrivo della duchessa,
    una delle glorie mondane di Firenze, produsse un movimento nella
    folla: le teste si agitarono e si volsero; quindi corse un bisbiglio
    insensibile, che ella colse a volo come un profumo. Il suo volto
    sfavillò. In quel momento Prospero si torse verso di noi e vide la
    duchessa, che innanzi a me coll'abito vivacissimo attirava tutti gli
    sguardi. Una vampa di rossore gli bruciò istantaneamente sulla
    faccia, poi si fe' pallido, e rimase su lei coll'occhio sbarrato. La
    duchessa, che guardava giù nel pubblico col canocchiale, non aveva
    ancora osservato il reo. Il cancelliere seguitava a leggere l'atto
    d'accusa, mentre sul tavolo, dinanzi al presidente, il coltellaccio
    omicida gettava qualche bianco riverbero, che finì per attrarre gli
    occhi della duchessa. Ella me lo indicò con un gesto di orrore,
    riportando istintivamente lo sguardo sull'accusato. Quando il
    presidente, un vecchio in capelli bianchi, cominciò
    l'interrogatorio, si fece nel pubblico un silenzio di statua:
    Prospero tentò di sollevarsi sulle gruccie, il presidente lo invitò
    con parole gentili a rimaner seduto, ma egli volle alzarsi
    egualmente, e si atteggiò come al pilastro. La sua figura di
    mendicante impietosiva, il suo piede enorme entro quel fagotto di
    stracci sembrava rendere impossibile tutto il racconto dell'accusa.
    Nessun lineamento della sua fisonomia, nessuna attitudine del suo
    corpo tradiva lo sforzo di un'ipocrisia, o una qualunque tendenza
    sanguinaria. Un fremito di pietà e di simpatia corse nel pubblico.
    Prospero disse nettamente, con voce cavernosa di malato, il proprio
    nome, e quando il presidente gli domandò se ammetteva di aver ucciso
    la Gitana, alzò gli occhi verso di noi, e rispose:
    
    - Sì.
    
    - E la ragione?
    
    Prospero abbassò la testa, come allorchè ringraziava dell'elemosina,
    e non disse altro, solamente fece un gesto di stanchezza. Il
    presidente se ne avvide, e gli ripetè l'invito di sedere, che questa
    volta egli accettò. Quindi non aperse più bocca. Invano il
    presidente mise tutto in opera, esortazioni, consigli, minacce,
    spiegandogli come quel mutismo potesse nuocere alla giustizia, e a
    lui stesso nell'animo dei giurati. Prospero sembrava ascoltarlo
    attentamente, ripeteva ogni tanto quel cenno, che poteva parere ad
    un tempo di ringraziamento e di scusa, ma non parlava, non si
    muoveva. Tutti gli occhi della gente erano conversi in lui, tutti i
    pensieri, e tutte le volontà di quella massa gli pesavano addosso.
    Furono cinque minuti drammatici e febbrili. Prospero vinse. Il suo
    avvocato, il Pubblico Ministero stesso lo esortarono con parole,
    nelle quali vibrava una persuasione sincera, una benevolenza quasi
    eccessiva: ma egli ripetè ad entrambi il suo cenno umile, quasi di
    rammarico, e non parlò. Il pubblico affaticato da quella tensione
    ruppe in un chiacchierio fragoroso, mentre il presidente dava la
    parola all'accusa. Il magistrato fu limpido e tagliente; riassunse
    con sobrietà di grande oratore il fatto, urtando nel mistero di quel
    mutismo senza curarsi neanche di sfondarlo con un'ipotesi e concluse
    per l'assassinio premeditato senza circostanze attenuanti. Prospero
    fu impassibile. Toccava all'avvocato. La sua estrema pallidezza e il
    suo volto convulso attrassero persino l'attenzione dell'accusato.
    L'esordio fu rettorico ed infelice; ripetè senza profitto per
    l'accusato il racconto dell'accusa, andando innanzi sulle frasi,
    affettando un talento di romanziere, che analizza dipingendo e trova
    nell'analisi l'argomento della difesa. Poichè non si scorgeva un
    movente al delitto, dunque mancava. Prospero era pazzo.
    
    A questo punto Prospero intervenne, e gridò risolutamente:
    
    - No.
    
    - La ragione dunque? - ripetè il presidente.
    
    Prospero non gli si volse nemmeno, ebbe un gesto d'indifferenza, e
    si cacciò la mano in seno ricadendo nel silenzio di prima; mentre
    tutta la folla guardava verso l'oratore, cui l'interruzione aveva
    arrestato bruscamente a mezzo di un periodo. L'avvocato stentava a
    rimettersi.
    
    In quel momento, io che guardavo Prospero, lo vidi trarsi di seno la
    mano, e spiare verso di noi: la duchessa osservava con un mezzo
    sorriso l'impaccio dell'avvocato; Prospero teneva in mano il
    cadavere di quella viola, che ella aveva perduto un anno prima, e
    della quale allora non si ricordava più.
    
    Prospero abbassò lentamente la testa, come se la piegasse sul
    patibolo.
    
    La duchessa non aveva veduto, io sola avevo compreso.
    
    
    
    E donna Augusta tacque.
    
    - La viola? - proseguì.
    
    - La viola! - ella replicò con atto nervoso - non vi basta questo
    per la vostra novella? La viola gliela vidi cader di mano; ma la
    duchessa non lo ha mai saputo, perchè se glielo avessi detto ne
    avrebbe insuperbito, e non lo meritava.
    
    La notte era tiepida, il lago ancora lontano.
    
    - Ritorniamo - disse donna Augusta e ne diede l'ordine al cocchiere.
    
    Quel racconto l'aveva così agitata, che me la sentivo fremere
    vicino. La luna alta sopra la carrozza dava alla sua faccia come il
    pallore di una lunga emozione, che da quel racconto prolungandosi
    attraverso altri ricordi si perdesse in un tetro presentimento. Ma
    la curiosità mi rimorse, e senza badare alla sua meditazione:
    
    - Prospero fu condannato?
    
    - Ah! - ella proruppe con un impeto quasi sdegnoso - siete dunque un
    romanziere da epilogo, il quale accompagna tutti i suoi personaggi
    fuori del dramma, sino alla tomba, per convincere bene il lettore
    che si tratta di un fatto vero e che egli non vi ha colpa, se
    sciaguratamente il fatto fosse brutto. Ma, mio povero Di Banzole -
    proseguì con ironia sibilante e sferzandomi il volto cogli sguardi -
    non avete dunque ancora compreso con tutto il vostro lirismo
    filosofico che il dramma avviene negli individui, ma non è l'opera
    speciale di nessuno di loro; che essi vi entrano senza capirlo, vi
    periscono senza saperlo, ne escono senza accorgersene: che in fine
    vi hanno la parte della grandine nella tempesta? Che cosa ne è dei
    suoi grani? Poichè avete tanto bisogno di saperlo, il loro
    diacciuolo ridiventa acqua, l'acqua vapore, il vapore diacciuolo,
    quindi grandine e daccapo la tempesta. Che cosa è il dramma? Voi
    dovreste saperlo più di me, giacchè ne scrivete; ma nessuno lo ha
    ancora ben definito: scoppia nella vita degli individui come in
    quella dei popoli, qualche volta dura un'ora, qualche volta un'êra.
    La storia di Roma non è un dramma? Il cristianesimo non è un dramma,
    come il Giulio Cesare di Shakespeare, nel quale il protagonista
    muore al primo atto? Dove trovate una tragedia in cinque atti più
    bella della vita di Napoleone? Il primo atto in Italia, il secondo
    in Egitto, il terzo a Mosca, il quarto a Waterloo, il quinto a
    Sant'Elena. Nella vita dell'umanità ogni popolo è forse un
    personaggio: ebbene, voi, che v'interessate ai drammi, avete ancora
    indovinato la trama di questo, riconosciuto quali siano i primi
    attori? Quante comparse mute, o delle quali nessuno ricorda più
    adesso le poche parole! Il dramma è molto ricco, poichè muta spesso
    di scena: il primo atto è stato tutto in Asia, il secondo in Europa,
    il terzo è cominciato col secolo in America. Dove sarà il quarto?
    Chi eseguirà il quinto? A chi è destinato questo spettacolo enorme,
    del quale l'illuminazione costa tanti soli, e nel quale il mutamento
    di una scena significa quasi sempre l'eccidio di una razza? Il
    dramma individuale è ben piccolo paragonato al dramma storico, alla
    tragedia umanitaria; ma tutto è forse riassunto nel dramma
    individuale. Non sono le gocce, che fanno il mare, i vapori, le
    nuvole, quindi la grandine e i diacciuoli, dei quali volevate sapere
    il destino come quello di Prospero? Prospero è perito nell'urto di
    due estremità. L'ultimo della plebe amava la prima
    dell'aristocrazia: nella impossibilità di congiungersi, quegli, che
    si moveva, si sarebbe rotto infallibilmente; ecco il dramma e la
    catastrofe. Il dramma non riposa sopra un'opposizione di due
    individui, che non possono nè separarsi nè unirsi, e, della quale la
    risoluzione avviene nel terzo termine, che è la loro razza? Non vi
    ricordate più che tutto è triplo, la trimurti indiana, che passa
    trinità cristiana; il triangolo, che diventa l'emblema di Dio e il
    cappello del prete; i tre momenti dell'idea brahminica ed hegeliana,
    le tre grazie e le tre virtù; il parlamento, che è triplo, senato,
    camera e corona; la famiglia, che è tripla, padre, madre e bambino,
    o marito, moglie ed amante...
    
    E rise gaiamente. Ma poco dopo arrivavamo in città: il suo palazzo
    apparì.
    
    - Salite? - mi domandò quando l'ebbi aiutata a discendere.
    
    - Vi ricordate la canzone della Gitana?
    
    - No.
    
    - Allora, buona notte.
    
    Ella sorrise amichevolmente e mi tese la mano. Gliela strinsi,
    m'inchinai, e mi avviavo già per l'atrio, quando ella mi richiamò
    con un grido:
    
    - Di Banzole!
    
    Tornai indietro: ella era già in cima al primo pianerottolo.
    
    - Perdono: quella viola bianca, ora me ne rammento, era zoppa.
    
    E disparve con un ultimo sorriso d'ironia.
    
    VIOLONCELLO
    
    La casa era nel fondo di una strada umida e buia, a cul di sacco:
    aveva tre piani e due finestre cogli scuri verdi ad un battente
    solo. Nè di giorno nè di notte la strada s'illuminava mai di un bel
    raggio; il sole vi passava al disopra, la luna vi si ratteneva
    sull'orlo dei tetti, come respinta dal tanfo grasso che ne saliva,
    mentre l'ombra addensata da tutti quegli sfondi sembrava piena di
    agguati e di abbandoni. Era d'estate. Le case purulente di quella
    muffa, che pare una malattia vergognosa dei muri, e non si trova
    quasi mai nelle campagne, dove il sole e l'aria mantengono in ogni
    miseria una certa quantità di salute, erano piuttosto alte. Le
    finestre, abbandonate penzoloni sui gangheri in attitudini
    patibolari, non si chiudevano nemmeno di notte, forse perchè
    l'aspetto esterno delle case tradiva fin troppo l'aspetto interno
    delle famiglie, e il pudore se n'era da gran tempo involato
    coll'anima di tante speranze morte e le visioni di tanti desiderii
    vivi. Dalle soglie logore dall'uso e calcinate dal fango un'ombra
    greve irrompeva fino al rigagnolo della strada, dando quasi quasi la
    medesima tinta scura ai sassi, sui quali passavano pur tuttavia i
    riverberi indeboliti del giorno e i passi di tutta la gente. Le case
    si rassomigliavano tutte; appena qualcuna di un piano solo e
    coll'impanata invece dei vetri, pareva un abituro campestre. Difatti
    in quel quartiere, egualmente separato dalla città e dalla campagna,
    v'era uno strano miscuglio di persone e di mestieri;
    un'agglomerazione di braccianti e di operai, che non dovevano
    nemmeno riconoscersi fra loro. La strada si vuotava rapidamente al
    mattino, e si riempiva lentamente la sera. Nel giorno qualche donna
    in ciabatte la traversava o la percorreva: qualche vecchio passava
    adagio e si allontanava come una miseria, che non sa più dove andare
    e vagola ancora per poco. Fiacchieri e biroccie non arrivavano mai
    sino in fondo al muraglione, che la chiudeva. La strada non aveva
    chiesa. Ma il rigagnolo, nel quale sovrannuotavano immondizie di
    ogni sorta, esalava fetidi vapori, specialmente se il tempo si
    mettesse alla pioggia, o il lungo sereno fosse arrivato al secco.
    Allora diventava una fila di pozzanghere, alimentate giornalmente
    dall'acqua delle finestre, che lasciavano nelle ineguaglianze del
    ciottolato una poltiglia nerastra, piena di bave e di fili, di
    insetti e di residui. E la notte, alla luce dei fanali, da quelle
    pozzanghere invisibili prorompevano bagliori metallici, mentre certe
    masse chimeriche, attirate e respinte dai lampioni, riempivano
    tratto tratto la strada. E su dai sassi della strada, fuori delle
    porte, giù dalle finestre, per tutta la tenebra della sua lunghezza
    venivano un tanfo umidiccio e viscoso, un silenzio morbido, nel
    quale s'affondavano le case coi loro abitatori ignoti, sino al
    muraglione, che la separava prudentemente da tutto il resto del
    mondo.
    
    Era già notte. Un ragazzo si arrestò un istante alla vetrina del
    caffè, dalla quale usciva un inquieto rumorio di istrumenti; parve
    indeciso, si trattenne, e, come per sottrarsi ad una tentazione
    troppo forte, se ne spiccò con un salto. Sempre lungheggiando i muri
    arrivò senza incontrare anima viva alla penultima casa, ne infilò la
    porta aperta, bussò nell'uscio di faccia, all'ultimo piano. Una
    donna gli aperse.
    
    - Hai fatto tardi! - gli disse, guardandolo amorosamente con voce di
    strana dolcezza - dove ti sei fermato?
    
    Intanto egli si era cavato il berretto, avvicinandosi al tavolo,
    dove la donna cuciva a macchina. Il lume a petrolio riparato da un
    cappello bucherato, di carta verde, gli illuminava la faccia
    incorniciata da una magnifica capigliatura bionda, tutta a ricci.
    Egli stette così, come dubitando di dire qualche cosa, poi la donna
    gli alzò gli occhi in volto con muta interrogazione.
    
    - Hai fame?
    
    - Adesso poi: sono stato a teatro.
    
    La notizia parve così stravagante, che la donna si voltò di
    soprassalto.
    
    - A teatro - seguitò il ragazzo ridendo - ; ecco, dietro il vicolo,
    ma si sentiva lo stesso. Non vi era nessuno: si sentiva come di
    dentro, l'orchestra, i cori, poi di quando in quando la voce della
    donna. Come dev'essere bello il teatro! facevano la Norma.
    
    E il ragazzo sospirò. Quindi la donna si alzò per servirgli da cena
    ripetendogli:
    
    - Hai fame?
    
    - Sì.
    
    Il ragazzo aveva forse tredici anni, era alto e magro. Benchè non
    ancora formato e vestito miseramente, la finezza della pelle e la
    delicatezza dei lineamenti lo rendevano già singolarmente bello. Due
    occhi bianchi, ma enormi, colle palpebre molto lunghe, gli
    illuminavano la faccia tinta del più soave incarnato, con una bocca
    fresca e un mento piccino come quello di una donna. Nei capelli
    arruffati gli si riconosceva ancora la discriminatura, che forse
    quella donna gli faceva ogni mattina, ricacciandogli i ricci dietro
    le orecchie rosee dagli orli ribattuti. Era vestito di una giacca
    logora al bavero ed alle orlature, di un paio di calzoni più chiari
    della giacca, e di un corpetto a maglia, quantunque la stagione
    cominciasse già a farsi tiepida; ma il ragazzo era freddoloso, e si
    lasciava volentieri ovattare coll'egoismo minuscolo dei fanciulli
    troppo amati. A vederlo non si sarebbe creduto un popolano, o almeno
    non lo era che alle estremità; le mani troppo grosse per i polsi,
    colle dita schiacciate e le nocche salienti, e i piedi, che
    s'indovinavano male sotto la rozza calzatura. Ma la sua bocca aveva
    una dolcezza quasi ancora da bambino, mentre la parte superiore del
    viso era già di uomo. Qualche cosa gli dilatava gli occhi e la
    fronte alta, sporgendo sull'arco delle sopracciglia, ed era come una
    luce incalorita dai riverberi dei capelli, più fini della seta, e di
    un biondo così puro che avrebbero fatto invidia ad una polacca. Poi
    la donna lo chiamò nell'altra camera. La cena era già pronta sopra
    un tavolino, con un tovagliolo e pochi piatti; egli sedette, mangiò
    di buona voglia, rispondendo a monosillabi, mentre ella lo
    sorvegliava amorosamente assaporandogli sul volto la gioia sensuale
    di ogni boccone.
    
    D'improvviso egli scappò a dire:
    
    - Cosa siamo dunque noi al mondo?
    
    - Siamo i poveri.
    
    - Siamo gli ultimi!
    
    - Non si è mai l'ultimo, perchè dopo i poveri ci sono i malati, dopo
    i malati ci sono i morti.
    
    La donna era giovane. Un erpete rosso-cupo le deturpava il sorriso
    della bocca rischiarato da due grandi occhi pieni del lume placido
    di una lampada. Non aveva altro; il resto della fisonomia sarebbe
    stato ripugnante senza quella espressione di profonda tenerezza e di
    mite rassegnazione. I capelli pettinati con estrema cura e coronati
    da un vecchio nastro di velluto nero le lasciavano già trasparire la
    cute biancastra: le spalle le sporgevano in arco, mentre il petto le
    rientrava con una pietà malaticcia sotto quel corsetto di flanella a
    scacchi rossi e nerognoli. Era una povera figura colle mani
    rachitiche e il collo grinzoso, nel quale un buon osservatore
    avrebbe distinto il battito pericoloso di una vena: non aveva forse
    ventott'anni, era secca, scarna, cogli occhi troppo belli e la voce
    troppo dolce, sebbene appannata da un'invincibile reuma di petto,
    che era forse una bronchite. Aveva lo sguardo estatico e la parola
    lenta; ma ogni qualvolta egli le cacciava nelle pupille il razzo
    bianco dei propri occhi, o la ravvolgeva nel turbine caldo e
    romoroso di una scappata, lo sguardo le si velava come per resistere
    al penetrante prestigio di quel ragazzo, che oramai cominciava a non
    esserlo più. Allora il suo viso storto a sinistra si illuminava di
    un intimo sorriso; ella si rigettava adagio sulla spalliera bianca
    della sedia, una mano sul tavolo, la testa sopra una spalla, e
    sospirava.
    
    Ma la cena era finita; ella s'alzò, ripiegò il tovagliuolo, rimise i
    piatti nella madia, soffiò via le ultime briciole dal tavolino,
    mentre Giorgio si alzava stirandosi le membra come un gattino.
    
    - Tu hai sonno questa sera - ella disse guardandogli negli occhi - .
    Se domani mattina ti alzi mezz'ora prima a studiare, ti lascio
    andare a letto.
    
    Giorgio non se lo fece dire due volte. Il letto era nella cucina, in
    un angolo, un letticciuolo di legno con una coperta fiorata di
    percalle, e un piumino rosso sui piedi a fioretti trapunti. Aveva un
    comodino di fianco, una madonna coll'ulivo benedetto al disopra.
    Nell'altra parete la tafferia calata faceva da seconda tavola; c'era
    una piccola madia in un cantone, la scaffa nell'altro con sopra la
    rastrelliera dei piatti. Alcune casseruole di rame sospese alla
    cappa del focolare gli davano una qualche speranza di cucina; un
    tavolinetto esagono nel mezzo serviva a tutti gli usi. E con tutto
    ciò quella cucina era un modello di mondezza. Il ragazzo si spogliò
    in un batter d'occhio, gittando uno ad uno i panni sul letto, finchè
    rimase in camicia colle scarpe: se le trasse, lesto, senza usare le
    mani, e prima che la donna, occupata a comporre gli abiti sopra una
    sedia, avesse il tempo di fare la piega, era già sotto le lenzuola.
    Vi si agitò qualche minuto coi brividi del freddo, raggomitolandosi,
    la testa affondata nel cuscino, e chiuse gli occhi. La donna gli
    rimboccò la coperta sotto il materasso, gli accomodò e gli distese
    la piega del lenzuolo con compiacenza prolungata, senza che egli
    sembrasse nemmeno accorgersene; poi il ragazzo spalancò
    improvvisamente gli occhi, ed allungò le labbra. Ella si chinò,
    ricevette il suo bacio sulla fronte, glielo rese, lo contemplò
    un'ultima volta e: - Dormi - disse.
    
    Egli si strinse nelle spalle, e l'altra uscì tirandosi dietro la
    porta.
    
    Quell'altra camera piccola e bianca, con un lettino, un armadio, un
    tavolo per la macchina da cucire, era la sua: aveva una sola
    finestra colle tende, il pavimento rotto. Posò il lume sul tavolo, e
    si sedette guardando l'uscio della cucina per aspettare che Giorgio
    si addormentasse.
    
    Allora il suo volto perdette la dolcezza di poco dianzi, e una
    contrazione penosa le stirò gli occhi senza poterne trarre una
    lagrima. Forse una mezz'ora passò così, poi si levò col viso sempre
    egualmente triste, ed, aprendo adagio adagio l'uscio della cucina,
    ascoltò. Un raggio del lume, filtrando per la porta, le mostrò
    Giorgio nella stessa posizione, colla testa mezzo nascosta fra il
    cuscino ed il lenzuolo. Lo sentiva respirare. Allora s'inoltrò sulla
    punta dei piedi fino al capezzale, e stette contemplandolo nella
    tenebra. Ma lo vedeva come in un raggio di sole, coi capelli biondi
    pieni di sorrisi, gli occhi bianchi come due fiori animati, il viso
    dolce ed aristocratico, che faceva spesso soffermare i passanti la
    domenica quando uscivano insieme a spasso: un viso di fanciullo e di
    giovinetto, lucente di poesia e di avvenire; lo vedeva dormire sul
    lettino sotto i propri occhi, in una posa di uccellino, respirando
    un alito soave, riposando, sognando, calmo e felice sotto la sua
    protezione invisibile e senza sentirla.
    
    - Se morissi troppo presto - mormorò piangendo finalmente una
    lagrima, e piegandosi a sfiorargli i capelli: ma un pensiero anche
    più angoscioso gliela abbruciò istantaneamente, e stringendosi con
    una mano la fronte, mentre si rialzava quasi con un senso di
    ripugnanza sdegnosa:
    
    - Anche tu! anche tu! morirò magari troppo tardi... povera Anna!
    
    Quindi tornò al lavoro. Anna era una ragazza abbandonata nel mondo.
    Aveva appena conosciuta la madre, e il padre le era morto da molti
    anni lontano, a Nizza, dove suonava il violoncello nel teatro
    comunale. Ella aveva ricevuta la notizia quasi senza piangere,
    perchè il padre, o per la professione, o per abitudini malsane di
    vita, non si era mai occupato di lei: ella aveva imparato il
    mestiere della sarta, e ne viveva mediocremente. Cresciuta sola,
    coll'anima troppo bella, e il corpo troppo brutto, era diventata
    misantropa per eccessiva tenerezza; e poichè i rudi e immondi
    contatti della società la disgustavano, a poco a poco rinunciò a
    fare da sarta, prese la clientela di un grande magazzino da
    biancheria, e cucì a macchina. Così non usciva quasi mai di casa:
    andava a prendere il lavoro, e lo riportava, guadagnava poco e
    faceva dei risparmi. E perduta nel fondo della propria miseria
    fisica e sociale, senza guardarsi dintorno per non desiderare quello
    che non potrebbe avere, si era come rassegnata al proprio destino.
    Era così. Fuori il mondo aveva delle città e delle campagne, i monti
    ed il mare, i fiori e gli uccelli, l'amore ed il lusso: vi erano dei
    signori in carrozza e dei mendicanti senza scarpe, tutta la vita e
    tutta la natura; ma era fuori, lontano. Ella non guardava e non
    ascoltava, giacchè nelle sue poche intimità col mondo ne aveva preso
    fin troppo disgusto. Poi aveva poca salute, una sensibilità così
    tarda e squisita, che nel mondo non avrebbe potuto vivere; ma sola
    nella propria camera, colla macchina, senza un vaso sulla finestra,
    nè un uccellino in gabbia, lavorando tutto il giorno, e coricandosi
    stanca, era quasi contenta. Non aveva nè rammarichi nè speranze, non
    pensava nè agli uomini nè a Dio, simile ad un fiore non sbocciato
    per alcuno in un angolo ignorato, con una tinta troppo pallida per
    essere mai scoperto, o un sapore troppo recondito per attirare
    gl'insetti vagabondi.
    
    Una volta si era ammalata, e non aveva chiamato il medico: la febbre
    le era durata molti giorni, e quindi più nulla.
    
    Nella casa non aveva relazioni, si faceva la propria cucina, e dava
    il resto del pranzo ad una vecchia, che veniva una mezz'ora tutte le
    mattine a tirarle l'acqua e a farle i più grossi servigi. La vecchia
    era golosa, e si ubbriacava spesso, ma Anna non se ne curava; e
    d'altronde le parlava pochissimo. I risparmi li portava ogni tre
    mesi alla cassa, e sommavano già a qualche centinaio di franchi.
    Quando non lavorava leggeva; ma invece di leggere dei romanzi come
    tutte le sue pari, preferiva i viaggi, come un'occhiata gettata
    distrattamente al di fuori, così da lontano, che lo spettacolo
    perdeva le tentazioni. E a forza di togliere ogni rapporto ed ogni
    ideale alla propria vita se la era resa più leggiera: infatti non
    aveva durata. I giorni potevano essere dieci come mille; essa non li
    guardava venire, giacchè non le avrebbero apportato nulla; non si
    voltava a vederli passare, perchè non le avevano portato via nulla.
    Abitava ad una finestra, dove il sole non veniva quasi mai, in una
    strada senza sfondo, in un quartiere dove nessuno la conosceva, e
    nessuno passava.
    
    E a poco a poco si era fatta pigra, si alzava più tardi la mattina,
    si coricava più presto la sera, viveva di latte e di erbaggi. Un
    giorno ebbe l'idea di comperarsi una macchina da caffè, ed ebbe un
    vizio: il caffè col latte a colazione, a pranzo, e a cena.
    
    Un altro giorno, tornando dal magazzino, la vita, che aveva evitato
    così bene fino allora, la investì e la sopraffece. Un giovane
    l'aveva guardata e l'aveva seguita: poi un'altra volta la fermò
    addirittura; era molto bello, abbastanza ben vestito. Allora in lei
    accadde un rivolgimento profondo e terribile: da tutte le fibre del
    cuore le irruppero i sentimenti dell'amore, in tutti i muscoli del
    corpo le palpitarono i fremiti della giovinezza; si sentì sollevata
    a tutte le altezze, gittata a tutti i venti, immersa in tutti i
    raggi; fu come se una goccia sopra un sassolino della spiaggia fosse
    ripresa dal mare, e partecipasse istantaneamente alla immensità
    della sua estensione, a tutte le vibrazioni della sua eterna
    mobilità.
    
    Poi lo sbalzo di un'onda ricacciò ancora la goccia sopra un
    sassolino della spiaggia. Il giovane l'aveva amata due mesi per
    mangiarle quei risparmi, e l'aveva bastonata prima di abbandonarla.
    
    E strano, ella riprese il proprio equilibrio. Ma un nuovo bisogno,
    che passandole attraverso come una tradizione le si prolungava
    davanti indefinitamente, la tolse alla solitudine di prima: il mondo
    afferrandola e ballottandola crudelmente per un attimo l'aveva
    buttata alla natura, la quale s'impossessa di tutto e non cede
    nulla. Anna aveva abortito dopo quattro mesi dall'abbandono; e la
    maternità, destandole l'amore nella coscienza, l'aveva come rimessa
    nel quadro della creazione. Allora invece di ritirarsi dal mondo, vi
    ritornò con un'altra necessità di parlare e di sentirsi rispondere,
    di essere buona ella che non era mai stata cattiva, di essere madre
    ella, che non poteva essere donna.
    
    Il suo amore si era dissipato come uno di quei temporali, che
    intristendo all'alba cielo e terra, si risolvono in uno scoppio,
    dopo il quale il sole sfolgora e gli uccelli cantano. Finalmente
    viveva.
    
    Quell'uomo non lo vide più. Invece contrasse qualche amicizia, e il
    suo dramma essendo rimasto ignorato, il suo ingresso nel mondo potè
    essere senza scandalo.
    
    In quell'anno conobbe la mamma di Giorgio, giovane ancora, inferma,
    e sempre nei rimpianti del proprio passato di mezza signora, perduto
    dietro un uomo, che l'aveva amata tirandosela dietro nella miseria.
    Poi egli ne era morto, estenuato dal lavoro e dai rimbrotti.
    Giorgio, bello come un serafino, non bastava al cuore di quella
    donna ammalata di egoismo; la quale sentendosi peggiorare, volle
    essere portata al nuovo ospedale, dove la raccomandazione di una
    signora le aveva fatto sperare un'assistenza piena di distinzione. E
    là era morta. Anna aveva adottato Giorgio. Quindi cominciò per
    entrambi una nuova vita. Ella gli aveva fatto un letticciuolo nella
    cucina, ed un immenso posto nella propria anima. Tutti i rumori
    folli e le compiacenze chiacchierine della maternità invasero la
    casetta: due o tre vasi di fiori vennero sul davanzale della
    finestra, un canarino vi portò la propria gaiezza di bel forestiero,
    colle piume dorate da un sole più caldo, e il canto appreso da una
    primavera più bella della nostra: un gatto vi aggiunse un'altra
    fanciullezza coi giuochi acrobatici e le malvagità carezzevoli. Il
    deserto fu popolato, la famiglia composta. La domenica, quando
    uscivano a spasso, la gente si fermava ad ammirare quel bel bambino
    e quella buona donna, accompagnandoli con un sorriso pieno di
    benevolenza: fuori per la campagna la natura era una festa.
    Quell'immenso verde li accoglieva da ogni parte, il cielo aveva
    delle trepidazioni di lago, il vento delle ondate di profumi; poi,
    quando ritornavano a casa per la strada umida e buia, il canarino
    lanciava dei razzi scoppiettanti di note, e il gatto trovava delle
    parole rauche di gioia, mentre i fiori sulla finestra sembravano
    pieni di una curiosità affettuosa per i fratelli lontani lungo i
    margini dei fossi e fra gli spini delle siepi.
    
    I primi anni passarono così. Giorgio andava alla maestra, Anna
    lavorava più di prima, facendo egualmente qualche risparmio, perchè
    fra tutti quattro, col canarino e col gatto, un po' di riso e di
    latte, qualche frutto e qualche erba bastavano a nutrirli.
    
    Poi Giorgio si rivelò.
    
    Ella lo aveva collocato presso un sarto come garzone, dicendogli per
    incoraggiarlo che così potrebb'essere ben vestito; ma il ragazzo
    annoiato mortalmente della bottega, dove lo strapazzavano troppo
    spesso, perdeva le lunghe mezz'ore per istrada ascoltando gli
    organetti, o dietro un gruppo di suonatori ambulanti. Quindi
    guardava con ammirazione i loro vecchi istrumenti pieni di gobbe e
    di malattie: le trombe avevano delle raucedini da invalidi, i
    clarinetti delle gutturalità cavernose, i violini mettevano degli
    stridori spasmodici; ma da tutti quei corpi infermi prorompeva una
    musica chiassosa, una foga di ballo, nella quale la canzone
    dell'amore tradito metteva a quando a quando un sentimento di
    malinconia, una soavità sensuale di martirio. E le faccie riarse dei
    suonatori, sotto i capelli unti e scoloriti dal sole delle grandi
    strade, avevano un'indifferenza gioconda di chi non serve a nulla e
    non appartiene a nessuno; una esultanza di festa inesauribile,
    offerta a tutti, accettata da pochi e nullameno pagata con una
    elemosina universale. Non erano quasi mai più di tre, qualche rara
    volta con una donna, più spesso con un ragazzo. Allora Giorgio
    stentava a frenarsi, e, mentre quegli andava in giro col cappello,
    invece di buttargli un soldo, che non aveva, si sentiva tentato di
    dirgli:
    
    - Vengo con te?
    
    Ma i ragazzi avevano tutti un'attitudine stanca, una fisonomia
    triste, che lo facevano pensare.
    
    E allora in casa cominciò a suonare.
    
    Il primo strumento fu un pettine dentro un foglio di carta, poichè
    gli organini di latta, a rucchette, costavano fino a dieci soldi, e
    lasciavano tutte le voci alzarsi insieme ronzando. Il pettine invece
    bastò per qualche tempo. Era una musica fra il suono ed il canto,
    che frantumandosi fra quei denti come fra le corde di un'arpa, si
    ripercuoteva nella carta dando già un suono metallico, una
    diffusione cristallina alla sua voce. Egli vi ripetè quanto udiva
    per strada con entusiasmo di fanciullo e di principiante; ma sopra
    tutto furono canzoni d'amore dalla cantilena dolce e le cadenze
    affaticate, nelle quali moriva qualche cosa che avrebbe dovuto
    vivere, sospirava qualche cosa che non aveva potuto respirare.
    
    La mattina presto e la sera dopo pranzo la musica non cessava mai;
    una ad una tutte le suonate della strada dovevano passare dentro
    quel pettine e svolazzare nella camera con uno starnazzo infernale,
    mentre la macchina seguitava a cucire col suo fracasso di telaio, e
    l'Anna, emaciata dal lavoro, si curvava sulla tela nell'ombra del
    paralume.
    
    Ma neanche questo durò. Il pettine, che l'accompagnava in tasca
    dappertutto, un bel giorno fu abbandonato per lo scacciapensieri,
    uno strumento, che par fatto di uno scorpione, ed ha il ronzio di
    un'ape. Egli vi si perfezionò rapidamente, poi lo smise per la piva,
    e giunse non si sa come a possedere un organetto col mantice a pezze
    e le note raffreddate. Allora gli parve di entrare per davvero
    nell'arte. Non era più la sua voce incanalata o battuta in un arnese
    qualunque, una specie di soliloquio, nel quale prevedeva e sapeva
    già tutto; ma un dialogo vero, dove le risposte dell'organetto
    avevano una varietà piena di ribellioni e di misteri. Bisognava
    cercare le note una a una, raggrupparle sotto uno sforzo della
    volontà, nella forma di un pensiero. La lotta era accanita.
    L'orecchio, che aveva ritenuto e come contrassegnato tutti i suoni
    di una canzone, al primo accento di un tasto trovava la traccia
    della nota vera; e quindi principiava come una caccia. Le mani
    correvano febbrilmente sulla tastiera, le note vibravano
    inabissandosi dentro la cavità misteriosa del mantice, ma un dito le
    afferrava, l'orecchio le ormeggiava, il pensiero tagliava loro la
    strada, e le ricacciava su, in frotte, sotto i tasti, facendole
    passare per le feritoie, quasi nel dolore di una stretta, nella foga
    di una carica.
    
    Se non che le note erano poche, e la canzone, così aitante per
    strada, usciva storpia dall'organetto. E l'Anna cominciava a
    protestare. L'organetto con tutti quegli stridori di chiavistello
    diventava a volta a volta così straziante, che ci voleva tutto
    quell'affetto tiranno pei bambini e l'amabilità di Giorgio, perchè
    ella si frenasse nella voglia di scaraventarglielo fuori dalla
    finestra. Ma il ragazzo fingeva di non accorgersene, o se la
    irritazione di lei giungeva al colmo, si alzava, e, abbracciandole
    il collo, le dava un gran bacio negli occhi.
    
    - Ma vuoi dunque diventare un suonatore?
    
    - Sì - aveva risposto colla fronte aggrottata sul cattivo
    istrumento.
    
    Ma dopo alquanti giorni l'Anna si stizzì davvero. Giorgio era venuto
    a casa con un violoncello da contadino, comprato per quattro lire in
    una cocomeraia. Il ragazzo era talmente sudato, che ella ne tremò.
    Giorgio non rispondeva, posò per terra l'istrumento più grande di
    lui, e, appoggiando le spalle alla tastiera per sostenerlo, si volse
    finalmente. Aveva tutte le scarpe infangate, la giacca spaccata
    sotto le ascelle; ma una speranza indefinibile, un orgoglio di prima
    conquista gli raggiavano sulla fronte.
    
    Questa volta Anna fu violenta.
    
    - Chi ti ha dato i quattro franchi? - proruppe dopo un gran fracasso
    di parole e di minacce.
    
    - Beppe; ma gli ho detto che gli lascio le mie due settimane.
    
    - E tu come farai a mangiare?
    
    Giorgio, che aveva resistito fino allora, riparando il violoncello
    col proprio corpo, a questa ultima osservazione si sentì vacillare,
    ed abbassò la testa.
    
    - Non sai che bisogna guadagnarsi il pane? - ella ripetè
    coll'accento duro della povera gente.
    
    Ma il volto dianzi così animato di Giorgio esprimeva una tale
    angoscia di umiliazione, che ella fu presso a commoversi, e non osò
    seguitare.
    
    Ci fu un istante di silenzio. Due lagrime, grosse come gli occhi,
    gli rotolarono lentamente per le guancie: ma ad un tratto sollevò il
    volto, e scuotendone i ricci colla energia di un'ispirazione:
    
    - Quando avrò imparato, guadagnerò.
    
    - Morirai prima - fe' l'Anna ingrossando la voce: - a suonare
    quell'istrumento viene la tosse, e si sputa sangue. Anche l'altro
    giorno hanno portato al camposanto un bambino come te, e lo hanno
    seppellito dentro la cassa dell'istrumento.
    
    - Aveva imparato? - proruppe Giorgio.
    
    Ella titubò.
    
    - Io imparerò, io!...
    
    
    
    Ma non imparò.
    
    Invece, poichè la vocazione gli si faceva ogni giorno più manifesta
    ella gli pagò una specie di maestro, vecchio suonatore di orchestra,
    già amico del padre, e col quale aveva conservato una certa
    relazione. Ma Giorgio dovette andare egualmente a bottega, perchè
    Anna col suo buon senso di massaia non voleva illudersi sulle voglie
    impetuose ed effimere della fanciullezza. Giorgio vi si acconciò di
    buon grado. Sulle prime non doveva prendere che due lezioni la
    settimana; ma colla seduzione della propria incantevole natura ebbe
    presto innamorato il vecchio celibe, che vivendo solo come un orso
    era naturalmente pazzo per i bambini. Gaspare, che abitava in un
    quartiere povero come quello dell'Anna, quantunque meno remoto, era
    pieno di piccole manie; adorava la musica, e non vi era mai riuscito
    a nulla. Roso da una invidia benevola per i veri suonatori, e dopo
    aver sognato per tutta la vita di entrare nell'orchestra del teatro
    comunale, per una di quelle arcane ferocie del destino era ancora a
    suonare nei teatri secondari, dove il direttore di orchestra si
    mutava tutti i giorni, e i cantanti recitavano male, come egli
    diceva da gran tempo col solito motto. Egli aveva dunque accettato
    quella proposta come un complimento; e rivoltosi al ragazzo, che lo
    guardava con ammirazione mista di terrore:
    
    - Ah! tu vuoi suonare? - aveva detto prendendogli un pezzo di
    guancia fra le dita ed aggrottando i sopracigli smisuratamente
    lunghi - ah! tu vuoi suonare il violoncello, vecchio brigante? Non
    sei di cattivo gusto per la tua età. Il violoncello è il primo
    istrumento del mondo, è tenore, baritono, soprano, contralto, tutti
    insieme con un petto solo: basta un petto solo, veh! per far tutto.
    Si fa anche tutto con una corda sola, ma allora si sa proprio
    suonare.
    
    - Sì?! - ripetè Giorgio, che beveva con avidità quelle parole
    incomprensibili.
    
    - Sì, eh! tu capisci, e va bene; ma bada che con una corda sola è
    più facile impiccarsi che suonare il violoncello. Basterà se impari
    con tutte. Studierai?
    
    - Sempre, voglio diventare come voi.
    
    - Ah! - esclamò il vecchio colpito da quest'elogio innocente, il
    primo di sua vita; e chinandosi da tutta l'altezza della propria
    statura di pertica, colle rughe che gli drizzavano tremolando i peli
    bianchi della barba, prese il bambino fra le braccia e lo baciò.
    Giorgio, punto atterrito da quel bacio, glielo rese con una stretta
    al collo. L'amicizia era fatta.
    
    Allora fu convenuto del prezzo, e il vecchio Gaspare si lasciò
    andare quasi volentieri fino alla miseria di cinque franchi il mese.
    
    - Mi direte poi se ha una vera disposizione - gli disse l'Anna
    all'orecchio, mentre il ragazzo era andato nell'angolo a guardare il
    violoncello dentro la cassa aperta.
    
    - Non dubitate, me ne intendo io.
    
    L'Anna aveva riaccompagnato Giorgio dal sarto, ammonendolo di essere
    più buono, adesso che per contentarlo ella dovrebbe lavorare due ore
    di più tutte le notti. E l'Anna, che era nella effusione
    sentimentale del benefizio, seguitò a parlargli del presente e del
    futuro, stringendogli la manina, che teneva fra le proprie, con tale
    emozione, che egli stesso ne fu preso, e si mise a piangere
    silenziosamente a testa bassa.
    
    - Andiamo, andiamo - borbottò tutta confusa di abbandonarsi così per
    strada, e di avergli fatto troppo sentire il peso della nuova
    grazia. Ma Giorgio rialzò la testa, e guardandola cogli occhi
    lagrimosi:
    
    - Imparerò io, non dubitare - le disse con accento vibrato.
    
    Quel giorno stesso il sarto avendolo licenziato mezz'ora prima,
    Giorgio si cacciò a corsa per strada, ed arrivò ansante alla porta
    di Gaspare: era socchiusa, la spinse, e si fermò nel mezzo della
    saletta male illuminata dalla luce sporca del cortile. La differenza
    di temperatura e di atmosfera lo destò da quel sogno, e stava già
    per sottrarsi non visto e vergognoso, quando l'uscio della cucina si
    aperse, e Gaspare gettò una forte esclamazione:
    
    - Cosa fai lì, brigante - gridò indovinando di già a mezzo, ed
    ingrossando la voce per ischerzo.
    
    E si avanzò verso di lui.
    
    Giorgio vedendolo avvicinarsi così minacciosamente, con una calotta
    nera sulla testa, dalla quale gli sfuggivano agli orecchi due ciuffi
    grigiastri di capelli, il collo avvoltolato in un fazzoletto nero,
    tutto il corpo dentro un antico soprabito, che gli si drappeggiava
    sinistramente su quella magrezza di spettro, ebbe un fremito
    nell'anima.
    
    Egli non capiva ancora la bontà di quella faccia grottesca coi baffi
    dritti a spazzola, e due occhi cilestri, già appannati dalla
    vecchiaia, che fra quelle sopracciglie parevano due viole nell'ombra
    e negli spini di una siepe.
    
    - È troppo presto: sarai già scappato di bottega, birichino?
    
    - No: il padrone mi ha mandato via prima.
    
    - E allora? - incalzò, levando la mano come per volerlo percuotere,
    ma con celia così evidente, che anche Giorgio se ne accorse.
    
    Giorgio abbassò gli occhi, e stringendosi dentro gli abiti colla
    moina adorabilmente imbarazzata dei fanciulli, che desiderano e
    tremano contemporaneamente, non rispose.
    
    - Va pur là, devi essere un buon capo.
    
    Un odore di soffritto, che veniva dall'uscio socchiuso della cucina
    con uno scoppiettio grillettato, attrasse involontariamente
    l'attenzione del fanciullo.
    
    - Sei dunque venuto a pranzo? - disse ironicamente il vecchio
    Gaspare, cogliendo a volo quel movimento, e voltandosi egli pure
    verso la cucina, dove stava forse per bruciarglisi qualche
    intingolo.
    
    - No, no - rispose vivamente il fanciullo col rossore della
    vergogna, e girando gli occhi verso il violoncello nell'ombra del
    cantone:
    
    - Volevo sentir suonare; - eppoi subito dopo congiungendo le mani ad
    una preghiera di grazia inimitabile:
    
    - Vada là, suoni, suoni.
    
    E gli tese le mani.
    
    Il vecchio vacillò.
    
    - Va via, va via - fe' attirandolo come per dargli un bacio, e
    resistendovi: - corri a casa, e di' che pranzi con me: questa sera
    avrai la prima lezione.
    
    Giorgio studiava con frenesia. Il suo orecchio era così fino, e le
    sue mani assecondavano così bene ogni atto del pensiero, che la
    musica pareva discendergli lungo il braccio e passare sul
    violoncello, piuttosto che salire dalle sue corde.
    
    Quando Gaspare, per meglio apprenderglielo, insisteva lungamente
    sull'alfabeto musicale, egli si sentiva come preso d'impazienza; ma
    appena l'altro toccava il violoncello, la sua attenzione arrivava ad
    una immobilità, che gli produceva sulla memoria gli effetti
    prodigiosi della fotografia. Si ricordava ogni scambio di dita, ogni
    movimento di braccia con tale precisione, che, diventato sordo di un
    tratto, avrebbe potuto integralmente riprodurre la lezione. Per lui
    tutto diventava ritmo. In preda ad una fissazione non cercava e non
    sentiva che la nota; per lui un'associazione di idee era
    un'associazione di suoni, nè più nè meno che per il pittore ogni
    oggetto è una sintesi di colori. Quindi colla freschezza sensistica
    del ragazzo distingueva tutta una scala dentro l'oscillazione di una
    nota, e decomponendola involontariamente come in un prisma cercava
    la quantità vera di ogni suono; ma tutto ciò piuttosto per un impeto
    d'istinto, che per una coscienza di pensiero. E come la fantasia
    imbarcandosi talora sopra una parola, ma lontano lontano attraverso
    regioni già scomparse dalla storia, egli si allontanava
    misteriosamente sulle oscillazioni di una nota, l'orecchio teso come
    una vela al vento e l'anima più bianca della vela addossata nella
    sua conca. La gente, non accortasi sulle prime del mutamento, prese
    quindi a risentirsene, quando le sue disattenzioni diventarono
    addirittura distrazioni, nelle quali si perdeva lunghissimi tratti.
    L'Anna taceva o si limitava a qualche amorevole rampogna, ma il
    padrone, un uomo sulla quarantina, di aspetto bilioso e di umore
    sempre nero, passava oltre, ed erano scappellotti, che gli
    rintronavano gli orecchi come colpi di piatti.
    
    Intanto viveva una vita stranamente operosa, giacchè l'Anna lo aveva
    persuaso a studiare molte altre cose per figurare un giorno
    decentemente nel gran mondo. Si alzava ogni mattina per tempo,
    faceva le lezioni, poi andava a bottega, e la sera da Gaspare prima
    del teatro: quindi tornava a casa, e fino alle dieci era musica.
    Giorgio non aveva nè compagni nè amici: viveva solo, non parlava
    quasi mai, ma quella precoce e sfrenata attività cerebrale gli aveva
    di già mutata la fisonomia. Gli occhi gli si erano fatti più grandi,
    la fronte più alta, le guancie più pallide, di un pallore quasi
    cereo, sotto al quale le vene azzurrine sembravano nervature di
    corolla. Il collo, forse troppo esile per sostenere il peso di
    quella testa, si era piegato leggermente a sinistra, le spalle gli
    si erano ingobbite, mentre i magnifici capelli biondi, troppo lunghi
    per la sua età, gli cadevano ancora in anella, e davano alla sua
    testa una rassomiglianza meravigliosa col suonatore di violino di
    Raffaello. E con quei panni poveri e trasandati, i calzoni a
    pillacchere, che gli battevano sulle scarpe spelate, la giacca più
    lunga da una parte, un cappello piccolo rigettato sulla nuca, quando
    passava per istrada cogli occhi inchiodati sui ciottoli, o in alto
    nella dilatazione di uno sguardo, che non vedeva già più, molte
    signore si voltavano ad esaminarlo con ammirazione pensosa.
    
    Egli non sapeva nemmeno di essere bello.
    
    Un desiderio lo corrodeva atrocemente senza che osasse aprirsene
    coll'Anna, della quale cominciava a comprendere gl'immensi
    sacrifici. Anzi talvolta pensava rabbrividendo a quella sua vita di
    ragno, sempre cogli occhi sulla tela, il naso affilato dalla
    malattia, curva sul manubrio della macchina, le spalle negli orecchi
    e le mani scheletrali piantate sul tavolino come una branca di
    sparviero. Sempre che entrasse in casa, la trovava nella stessa
    posizione, ed ella si voltava sorridendo.
    
    Giorgio avrebbe voluto un violoncello, magari cattivo, su cui
    sfogare il tumulto, che gli intronava la testa. A volta a volta gli
    pigliava una smania di prove sopra qualche nota o un gruppo, che si
    torturava ad intrecciare mentalmente di cento guise, per fonderlo
    poscia in uno scoppio o diffonderlo in una lontananza: poi nella
    questua quotidiana per le strade raccoglieva troppi motivi, che
    Gaspare non gli permetteva mai nelle lezioni, giacchè il suonare a
    mente, diceva lui, guastava l'orecchio e la mano, il sentimento e la
    testa. Ma gli esercizi del vecchio metodo, col quale Gaspare era
    diventato suonatore di ultima fila, non bastavano più a Giorgio.
    
    La sua prodigiosa attitudine finiva talvolta per spaventarlo.
    
    - Chi ha inventato la musica? - gli chiese un giorno il ragazzo.
    
    Gaspare rimase sconcertato, e dopo lunga esitanza rispose con un
    sorriso:
    
    - Dio.
    
    - Bravo! - esclamò il ragazzo alludendo all'inventore.
    
    Adesso Giorgio aveva trovato un altro grande divertimento.
    
    La sera sulle otto, all'ora del teatro, andava dietro un vicolo, nel
    quale arrivavano a quando a quando dei brani di opera. Il vicolo era
    quasi buio e deserto: egli si appoggiava alla parete nell'ombra di
    una porta, ed ascoltava colla fronte in alto, quasichè dai tetti del
    teatro s'involassero col soffio della musica le visioni fantastiche
    della scena. Così le ore gli passavano come minuti. Ma per quanto i
    suoi sensi fossero fini e l'anima li acuisse ancora, gli accadeva
    troppo spesso di precipitare nel silenzio dopo di essersi innalzato
    sulle ali di qualche nota, o di aver turbinato in un pieno
    tempestoso di orchestra. E allora il dramma, che si agitava lungi
    nelle profondità imperscrutabili di quei muri, pareva inabissarsi
    sinistramente nel buio di un sotterraneo. Quindi colla fantasia del
    ragazzo proclive alla fola, e i sensi sureccitati da quelle crisi
    violente di musica e di silenzio, si creava una fantasmagoria fosca
    di visioni: si sentiva il freddo del terrore sulla fronte, vedeva
    l'ultima luce di un velo bianco nelle tenebre, ascoltava la ressa
    spaventosa di un passo nell'ombra, un tintinnio lugubre di
    ferraglia, che discendeva nelle spirali del buio; e, trattenendo
    involontariamente il respiro, si stringeva al muro, mentre il vicolo
    gli si allungava davanti nella notte, e il fanale lontano del gas
    non illuminava alcuno col suo chiarore rossastro. Gli pareva di
    essere solo, perduto in una sciagura misteriosa: ma d'improvviso
    scoppiava un altro canto, l'orchestra si appressava colla sonorità
    trionfale di una banda, i cori arrivavano colla giocondità del loro
    accordo indebolito attraverso i muri come un rumore discreto di
    festa, nella quale la voce pura del soprano sparpagliava dei mazzi
    di note o si alzava in un inno luminoso come un razzo. Poi uno
    strepito copriva tutto come un ululato di bosco, un fracasso di
    uragano prigioniero entro una sala, e che stia quasi per sbalzarne
    la volta. Il pubblico applaudiva: le teste si agitavano, gli occhi
    balenavano, le mani si percotevano l'una l'altra con rabbia demente,
    mentre una donna vestita di bianco e d'oro, ritta sui lumi della
    ribalta come sopra i gradini di un altare, curvava lievemente la
    fronte raggiante di un vapore di gloria. Allora anch'egli vedeva
    attraverso i muri, come se si trovasse nella sala; i palchi erano
    pieni, le signore si sporgevano dai parapetti, metà della platea era
    in piedi: un'onda di teste rimbalzava e cadeva quasi giù dall'orlo
    del loggione pieno di urla, l'orchestra era muta, e i suonatori
    cogl'istrumenti in mano guardavano dentro il palcoscenico,
    illuminato come il palazzo di un sogno, ricco come la reggia di un
    imperatore immaginario. Poi una tenda calava su tutto quell'incanto
    e la reggia spariva. Ma il frastuono della sala cresceva, la
    tempesta diventava bufera, si udivano grida di trionfo e singulti di
    naufragio; i lumi roteavano, le teste della platea fluttuavano come
    la schiuma di un'onda, i veli delle signore tremolavano come
    altrettante alberelle fiorite che si sfrondino tra il profumo, i
    bastoni percossi sul pavimento imitavano le vibrazioni secche della
    gragnuola. L'uragano cresceva, aveva delle folate e delle raffiche,
    degli aneliti e dei vortici, finchè la tela s'involava ad un ultimo
    scoppio, e riapparivano la reggia e la regina. Allora era un
    trionfo, una demenza di evviva, una girandola di sguardi, una
    pioggia di sorrisi bianchi come i gelsomini; i cortigiani erano
    scomparsi e le musiche tacevano.
    
    E Giorgio ritto per aria, nel mezzo della sala, simile all'angelo
    del lampadario dorato, si sentiva spingere dal vento di tutti quegli
    applausi verso il palcoscenico, sul quale la regina si ritirava
    l'ultima volta nella maestà del suo paludamento bianco e oro, mentre
    le ovazioni stormivano ancora, e la tela si abbassava lentamente
    sugli ultimi fremiti della tempesta.
    
    - Ah! - ruggiva Giorgio scagliandosi sul palcoscenico, di cui non
    restavano più che il basamento della grande sala e i mobili, intanto
    che il pubblico, in piedi per andarsene, gli aveva già voltato le
    spalle.
    
    Ma il telone gli precipitava sul collo come il ferro di una
    ghigliottina.
    
    Il pubblico non era più quello.
    
    - Ah!
    
    Con quest'esclamazione Giorgio si toglieva quasi sempre dal vicolo,
    accorgendosi di aver fatto tardi. E nella notte quelle visioni di
    gloria lo inondavano di splendori. L'ideale della sua arte, così
    poco mondano per se stesso, si vestiva di quella decorazione, mentre
    col violoncello fra le ginocchia gli pareva di sospendere ai fili
    invisibili delle proprie note migliaia e migliaia di anime
    sconosciute. Allora una grande ascensione avveniva nel suo cuore,
    come se un altro spirito vi si alzasse nel rossore di un'alba
    polare, e le parole del violoncello diventassero il suo divino
    linguaggio.
    
    Ma ormai Giorgio ne sapeva quanto il maestro, che per quella
    assimilazione involontaria delle nature incompiute, le quali credono
    di svilupparsi nelle nature più ricche, assistendole, considerava
    come propri i suoi progressi. Infatti Giorgio aveva tutto ciò che
    mancava a lui e nelle proporzioni più giuste; la misura, il senso
    fine, il sentimento contenuto ed elevato, l'attitudine fisica,
    questa materialità tremenda ed incomprensibile, che fa uscire
    accenti sovrumani dal gozzo di un cantante imbecille, e toglie al
    più gran genio di poter esprimere, altrimenti che scrivendolo, il
    proprio canto. Perfino il difetto delle mani troppo grandi lo
    favoriva. Un giorno finalmente Gaspare gli permise di portarsi a
    casa il violoncello per far sentire all'Anna la romanza del tenore
    nel terzo atto del Faust. Giorgio avrebbe voluto che Gaspare
    assistesse all'esperimento, ma egli ricusò per una modestia, che era
    una grossa superbia. Anna strabiliò alla novità inaspettata, ma come
    intese quella musica di Giorgio, il cuore le sobbalzò. Giorgio aveva
    una fisonomia signorile, alla quale l'ispirazione di quel momento
    aggiungeva un significato romantico. Ella ascoltò colle lagrime agli
    occhi, e il cuore grosso di una gioia, che era quasi un dolore. Era
    strano, era impossibile, che Giorgio potesse suonare così, fosse
    così bello!
    
    Gli anni erano passati inavvertiti. E il loro spirito confuso
    cercava a tastoni le date nella memoria per misurare la strada
    percorsa e contare i giorni vissuti col povero orfanello, allevato
    da lei per carità di madre sterile. Ma quando Giorgio all'ultima
    nota della romanza le cacciò gli occhi negli occhi col raggio
    dell'artista, ella si sentì ferita, e si allentò sulla sedia. Una
    rivoluzione le scoppiava nell'anima, accumulatavi insensibilmente
    nei lunghi giorni solitarii col ragazzo, che le diventava uomo alle
    sottane, e le gettava negli orecchi le modulazioni di tutte le voci,
    le voci di tutte le passioni.
    
    - Dio! che cos'è? - esclamò Giorgio, correndo ad abbracciarla - non
    sei contenta?
    
    L'Anna trasalì, e lasciandosi cadere la testa sul petto soffocò un:
    
    - Oh!
    
    Giorgio tremava, ma ella si levò impetuosamente, lo respinse, e andò
    all'armadio. Giorgio non l'aveva mai veduto aperto. Anna si cercò
    febbrilmente la chiave in tasca, e spalancandolo alla fine, gli
    mostrò dentro una cassa di violoncello: l'altro frenò appena un
    urlo. Con un forza nervosa, che non si sarebbe mai creduta nel suo
    corpicciattolo, essa l'afferrò, la trasse dall'angolo, la posò per
    terra con una mano sola, e girando convulsamente la chiavetta, che
    era ancora nella toppa d'ottone, scoperse un magnifico violoncello.
    
    La cassa era foderata in felpa verde, scolorita.
    
    Giorgio si era appressato.
    
    - Eccolo! - gli disse con un gesto quasi solenne.
    
    - Era di mio padre, bada! Sai che ti amo molto per dartelo... e
    tu... - ma un nodo di tosse, che pareva un singhiozzo, le soffocò la
    voce, squassandole il petto. Una vampa di rossore le salì
    dall'erpete delle guancie sino alla fronte; ella chiuse gli occhi, e
    con accento fioco, il volto annebbiato da un cordoglio
    inesprimibile, proseguì adagio:
    
    - Mio padre mi ha sempre detto che è un istrumento prezioso, è un
    Albani. Mio padre era primo suonatore nell'orchestra del teatro
    comunale, dava dei concerti, e avrebbe potuto diventare un signore:
    invece è morto lontano, nella miseria, lasciandomi questa sola
    eredità. Ho voluto tardare a dartelo, perchè volevo essere sicura
    che saresti un suonatore: ora ti credo. Tu sarai più bravo di lui,
    io non me ne intendo, ma lo sento nel cuore. Ecco la mia eredità, ti
    ho dato tutto.
    
    Giorgio ebbe un singulto.
    
    - Non piangere - ella proseguì con voce sorda; - forse verrà anche
    la tua volta, ma tu almeno potrai piangere sul tuo violoncello. Io
    no...non posso... - esclamò agitando la testa, e dando in un grido,
    che tentò invano di nascondere sotto una risata.
    
    - Porta via - soggiunse allungandoglielo - : va di là in cucina, e
    suona quello che vuoi.
    
    Così dicendo tornò al lavoro. Giorgio rimasto coll'istrumento in
    mano, istupidito e commosso, non sentiva nè il fracasso procelloso
    della macchina, che pareva rompersi sotto le pedate, nè il soffio
    sibilante di quell'anelito, che la faceva quasi rassomigliare ad una
    locomotiva.
    
    Poi si distrasse, e, lasciando l'istrumento appoggiato ad una sedia,
    le venne dinanzi. Anna aveva il naso sulla tela; le mani le
    tremavano convulsamente.
    
    Ella non gli badò.
    
    - Anna - susurrò il ragazzo, allungando la mano sulla tela per
    pigliarle una mano; le strinse una palma fra le dita, e, curvandosi,
    aspettò che levasse il viso.
    
    La macchina proseguiva a corsa.
    
    - Anna! - replicò più forte, vibrando di tutto quel trasalimento.
    
    Ella rallentò il pedale.
    
    - Tu sei la mia mamma.
    
    - La tua mamma non ti amava.
    
    Ma come pentita fermò la macchina, e gli guardò in faccia. Tutti e
    due avevano le lagrime agli occhi.
    
    - Vuoi un bacio? - esclamò Giorgio colla grazia di un bambino, che
    non ha nulla di meglio da offrire.
    
    - Andiamo, sì, l'ultimo.
    
    Da quel giorno l'umore dell'Anna fu più ineguale. La mattina non
    andava più in cucina a farlo alzare, non lo aiutava più a vestirsi,
    non gli dirigeva più le solite ammonizioni di portarsi bene a
    bottega e di non sprecare i pochi soldi delle mancie. Invece lo
    trattò da uomo, quasi col rispetto dovuto ad un dozzinante. Ma egli
    non se ne accorgeva, accettando quel miglioramento con un senso di
    egoismo soddisfatto; e a poco a poco fu meno diligente a bottega.
    
    Il padrone in fine di settimana gli trattenne due franchi. Giorgio,
    che ne aveva già fatti altri tre di debito per comprare della
    musica, rimase con pochi soldi in tasca, e non si arrischiò di
    consegnarli all'Anna, come faceva sempre: ma ella non mostrò di
    notarlo. D'allora tutto il danaro fu speso in musica; Gaspare gli
    prestò la propria, se ne fece prestare da altri per lui, che passò
    le notti intere a suonare col sordino, o accennando semplicemente le
    note coll'arco, ed ascoltandole nel pensiero. Non dormiva, non
    mangiava quasi più. Dal canto proprio l'Anna, che era sempre vissuta
    di un becchime da uccello, smise anch'essa di mangiare: l'erpete,
    allargatosi mano mano, le nascondeva un altro rossore più cupo nello
    scavo delle gote. E quel lavoro ostinato cresceva sempre. Adesso
    ella si alzava più presto e si coricava più tardi, cucendo dei monti
    di roba, curva sulla macchina, gli occhi appannati da quell'eterno
    riverbero della tela, sulla quale di notte il lume a petrolio
    stendeva la propria luce oscillante e veemente. E poichè la lunga
    abitudine la dispensava quasi da ogni attenzione, ella si lasciava
    come scorazzare da quel rotolio, che le toglieva di vedere o di
    sentire tutto il resto. Solamente nella estenuazione della fatica
    qualche volta abbandonava improvvisamente regolo e pedale; e allora
    la sua faccia, insensibile nel lavoro come quello di un automa,
    prendeva un'aria di rassegnazione mal doma, con una fiamma rossa
    negli occhi. Ma non parlava quasi mai, nemmeno seco stessa, come i
    solitarii, o tutt'al più con un gesto, un sorriso, che erano tutta
    una fisonomia, il riassunto sublime di un discorso desolante.
    
    Un giorno, portandosi alla bocca un pezzo di tela per trattenere un
    insulto di tosse, vi lasciò una bava sanguigna. Rimase un istante
    pensierosa, poi un sarcasmo le contrasse la bocca.
    
    - Ohi! - esclamò - la gioventù, l'amore e la morte hanno il medesimo
    segno.
    
    Ma, invece di riprendere il lavoro, si buttò sul letto.
    
    Giorgio arrivò a casa più presto, e, trovandola coricata, sbigottì.
    
    - Stai male?
    
    Ella saltò a sedere sul letto col volto infiammato.
    
    - Perchè? no.
    
    Poi Giorgio le narrò come Gaspare avesse tanto parlato di lui col
    direttore d'orchestra, che questi aveva promesso di venirlo a
    sentire, e quindi ci poteva essere la speranza di un concerto alla
    Società filarmonica. Pronunciando queste parole, il cuore di Giorgio
    batteva come un pendolo.
    
    - Sarà il principio della tua fortuna.
    
    - E anche della tua.
    
    Ella si era seduta sulla sponda del letto.
    
    - Fai ancora all'amore? - gli domandò improvvisamente - già i
    compagni ti avranno messo su.
    
    Giorgio ebbe una vampa di rossore, e si coprì di tale confusione,
    che l'Anna comprese la sua verginità, ed ebbe un brusco movimento.
    
    - Allora bisogna che tu sia ben vestito; con questi stracci non ci
    puoi andare al concerto. Domani mattina dirai al padrone che ti
    prenda la misura di tutto un abito nero: il nero ti farà parere un
    signore; perchè vedi, me ne intendo io, ho fatto la sarta. Colla tua
    pelle bianca e i capelli biondi... Saprai poi salutare, quando vieni
    fuori, a tutta la gente, che ti guarda negli occhi...? Figurati che
    la sala sarà piena, ci saranno delle signore e delle ragazze, che ti
    batteranno le mani.
    
    - Suonerò bene, non aver paura.
    
    - E quando tornerai in questa miseria, ti parrà di soffocare e
    penserai che tutte quelle belle signore, che ti guardavano, saranno
    nei loro appartamenti parlando forse di te. Sono sicura che
    incontrerai, ma poi ti sembrerà di star peggio, qui, solo con me.
    
    - Tornerò a suonare - rispose Giorgio coll'ingenuità dell'egoismo: -
    darò degli altri concerti.
    
    - Anderai a girare il mondo?
    
    - Sì, sì.
    
    - Allora guadagnerai dei quattrini; i signori ti faranno dei
    complimenti, e ti inviteranno a pranzo per sentirti suonare dopo.
    
    - Non ci andrò - ripetè con un impeto d'orgoglio.
    
    - Perchè?
    
    - La mia musica vale di più: non è già un divertimento.
    
    Anna si arrestò; poscia guardandolo con malinconia:
    
    - E quando sarai famoso?!
    
    - Presto - replicò Giorgio, che non comprese il significato della
    domanda.
    
    - Va a suonare, va.
    
    Era vero. Il direttore d'orchestra venne a casa di Gaspare, e si
    mostrò poco commosso. Incoraggiò il ragazzo a proseguire, ma notò
    subito molti difetti di scuola e di interpetrazione: i tempi non
    erano sempre giusti, le note affettavano una smanceria di linguaggio
    umano, i bassi avevano poca profondità. Solo gli acuti gli
    piacquero.
    
    - I vostri acuti sono perlati - disse finalmente; - avete superato
    una grande difficoltà.
    
    Quindi Gaspare gli si raccomandò per un concerto, dipingendo alla
    propria maniera la posizione di Giorgio, ed insistendo con tale
    servilità, che l'orgoglio del ragazzo cominciò a sanguinare.
    
    Il direttore promise così così, ingrandendo gli ostacoli, il
    pubblico che era svogliato, i concerti giù di moda, e sfruttati da
    tutti i grandi suonatori vaganti; nullameno procurerebbe, e disse al
    ragazzo di andare da lui per la risposta decisiva e per intendersi
    sulla musica. Egli aveva scritto un concerto per violoncello e
    pianoforte, ancora inedito, che potrebbe servire a meraviglia.
    
    - Anzi, anzi - esclamò Gaspare - sarà una magnificenza.
    
    Quando il direttore fu andato via:
    
    - Vuole che suoni la sua musica, ecco perchè!
    
    - Eppoi se non è bella, mi darà la colpa - ruppe improvvisamente
    Giorgio.
    
    - Come siamo superbi! - rispose Gaspare, che in fondo divideva il
    dispetto del ragazzo per la freddezza del direttore; ma
    fortunatamente tutto andò per la meglio. Giorgio accettò di suonare
    quel concerto, una povera imitazione di Vieuxtemps, aggiungendovi
    un'elegia di Fumagalli, e la sublime romanza del Tannhauser. Per un
    ragazzo era fin troppo. Aveva un mese di tempo, Gaspare s'incaricava
    di tutto.
    
    - Tu studia e lascia fare.
    
    Fu convenuto che Giorgio per quel mese non andrebbe a bottega;
    Gaspare avviserebbe il padrone, e l'Anna non ne saprebbe nulla fino
    all'ultima sera.
    
    Giorgio doveva passare tutte le giornate in casa di Gaspare
    studiando.
    
    Allora tutta la sua espansione cessò. Colla precocità di tutti i
    grandi artisti egli intuiva di già la vita in ogni rapporto
    coll'arte: quel concerto doveva essere la sua prima e più importante
    affermazione. Bisognava stordire il mondo per regnarvi poscia. La
    musica era la più grande delle arti, il violoncello il migliore
    degli strumenti. Egli lo sapeva e tutti lo dicevano, ma, appunto per
    questo, guai se non arrivasse ad esprimersi come sentiva, a far
    piangere come aveva pianto tante altre volte suonando!
    
    Egli non sapeva ancora darsi la formula della perfezione, che
    sognava, e nella quale dovevano sparire scrittore e suonatore,
    partizione e strumento, la nota diventare una parola, e la parola un
    verbo. Allora solamente la musica era musica, quando diceva ciò che
    tutte le altre arti non possono, e parlando un linguaggio
    intelligibile a tutti, quantunque intraducibile per ognuno,
    ricordava alla coscienza ciò che essa non ha mai saputo, ma forse
    sempre presentito.
    
    Giorgio sentiva tutto questo in confuso e, se non misurava sempre
    l'altezza cui la passione dell'arte lo spingeva, ne aveva già le
    vertigini e il freddo. Più spesso lo sviluppo del linguaggio
    musicale lo preoccupava dolorosamente. Egli lo avrebbe voluto col
    rilievo della plastica e la luce dei colori: quindi il pianoforte,
    colle sue note già fatte, di una misura e di un accento immutabile,
    non era per lui nemmeno un istrumento. Invece il violoncello aveva
    tutti i fremiti della carne e le vibrazioni del pensiero: ma come la
    parola parlata, la sua parola ritmica doveva dir tutto e mostrar
    tutto. Da qual cuore usciva dunque quell'elegia di Fumagalli? Era il
    primo singhiozzo, o l'ultimo rantolo del dolore? Quelle lagrime
    cadevano colla rugiada dell'alba, o con quella della sera? Gli occhi
    avevano la profondità del cielo o quella del mare, cerulei o neri?
    Cercavano in cielo, o scrutavano sotto terra? Quando egli suonava
    quell'elegia gli pareva di vederne la donna, conosceva il suo
    dramma, udiva la musica nel suo cuore, e la ripeteva sul violoncello
    senza sapere come o perchè.
    
    Ma la sera del concerto quella evocazione della sua anima doveva
    essere visibile a tutti, lì, presso lui, vestita come un angelo,
    colla veste troppo lunga, che le si ammassava ai piedi, e il corpo
    spossato.
    
    Quel fantasma era una ossessione, che non lo lasciava più.
    
    Gaspare gli andava dicendo:
    
    - Studii troppo, ti ingrosserai la mano e l'orecchio.
    
    Finalmente arrivò la vigilia del gran giorno.
    
    In quel mese l'Anna era talmente deperita, che quando Giorgio se ne
    accorse rimase sgomento. Nullameno ella gli aveva cucito sei camicie
    alla moda e due cravatte di raso nero, che lo fecero piangere di una
    tenerezza mista quasi di rimorso. L'Anna si era forse uccisa a
    lavorare per lui; infatti non le restavano più che la pelle e le
    ossa, con due grandi occhi azzurri giù nella profondità dell'orbita,
    brillanti di una luce intollerabile. La sera, quando Giorgio tornò
    di bottega coll'abito nuovo, ella pretese che se lo provasse, e gli
    accomodò con civetteria di donna il nodo della cravatta e i riccioli
    sulla fronte. Ma dopo un lungo esame concluse che il soprabito era
    mal fatto.
    
    - Quando sarai ricco, bada di vestir sempre bene - esclamò con
    un'ammirazione malinconica, che lo fece arrossire; quindi:
    
    - Adesso va di là in cucina; lascia qui il violoncello, ed entra
    come se questa fosse la sala. Io mi metto là in fondo; tu entri, fai
    l'inchino al pubblico, ti accomodi a sedere, e suoni. Ti voglio
    vedere.
    
    - Perchè non vieni al concerto?
    
    - Io, così! finiresti col vergognartene.
    
    Giorgio, che si sentì penetrato troppo, fin dove non voleva arrivare
    egli stesso, abbassò il volto; ma ella proseguì:
    
    - Devi entrare disinvolto, sai? Non t'impacciare, il mondo è senza
    simpatia per quelli che lo temono, senza pietà per quelli che lo
    fuggono. Vediamo, va.
    
    Giorgio andò: stette nella cucina due secondi, poi aprì l'uscio, e
    si avanzò superbamente fino alla sedia, presso alla quale aveva
    lasciato il violoncello; fece un piccolo cenno col capo, e si adattò
    l'istrumento fra le gambe, saggiandone l'accordatura.
    
    - Vuoi che suoni? - disse smettendo la posa teatrale, e
    rivolgendosele con un sorriso.
    
    - No - ella rispose trattenendo uno sbocco di sangue.
    
    Quindi aperse il comò; ne trasse uno scudo, e glielo offerse.
    
    - Divertiti, va a teatro.
    
    - Ma perchè mi fai tutto questo? - proruppe commosso ed umiliato da
    quella bontà inesauribile.
    
    - Dà mente a me, distraiti; domani sera suonerai meglio, altrimenti
    stanotte non dormirai.
    
    - Allora mi spoglio.
    
    - Mai; avvezzati l'abito addosso, se no domani sera parerai
    impacchettato.
    
    Giorgio uscì trionfante, e l'Anna si buttò sul letto piangendo.
    
    Si sentiva morire! Un gran bollore di sangue le montò dai polmoni
    con una nausea calda: potè appena nello spasimo afferrare il vaso da
    notte, e lo empiè mezzo. Un pallore cinereo le si diffuse sotto quel
    rosso ecchimosato dell'erpete, e le fe' una fronte di morta. Ricadde
    sull'origliere. In un mese la tisi, aiutata da quell'atroce lavoro
    della macchina, l'aveva uccisa senza uno scoppio di tosse. Anna lo
    sapeva. Era notte, il lume a petrolio ardeva sul tavolo: la camera
    era quieta, fuori la strada silenziosa. Allora le parve di non
    essere più nel mondo, e un pianto a goccioloni le cadde dagli occhi,
    mentre l'anima costernata le si sdraiava in fondo alla coscienza
    come dentro al sepolcro. Riassunse tutta la propria vita con uno
    sguardo, una vita grigia e taciturna, di lavoro automatico, in una
    stamberga, in fondo ad un quartiere abbandonato, dirimpetto ad un
    muraglione, che le toglieva ogni prospettiva. Ella non aveva
    vissuto, non aveva avuto nè mamma nè babbo, non aveva visto nulla,
    nè posseduto nulla. Era calata lungo la corrente dei propri giorni,
    come per uno di quei fossi metà ignoti e metà sotterranei: adesso il
    fosso era secco, e sovra i margini del suo pantano nemmeno un fiore
    agonizzava. Poichè non aveva avute speranze, non aveva rimpianti. Il
    sepolcro era per lei un'altra camera, in un quartiere abitato da
    gente ignota, perchè nessuno è più ignoto dei morti. Così il
    crepuscolo della sua giornata tramontava nella notte, e l'ombra dei
    suoi giorni si perdeva nella eternità. Tutto questo era giusto, ma
    era stato altresì inutile. Ella, che non aveva parenti, era senza
    santi. Però in quell'infinita oscurità dell'indomani, che le si
    diffondeva già intorno, e in quell'ultimo dolore del corpo
    singhiozzava con tale passione, che quel dolore da solo non avrebbe
    potuto produrre. E, cercando spasmodicamente colla testa dove
    riposarla, girava gli occhi nella curiosità desolata dei moribondi!
    
    Anna aveva dunque vissuto?
    
    Poi nel fosco e freddo paesaggio del passato distinse qualche
    sprazzo di luce, qualche angolo fiorito: un uccello cantava da una
    siepe, un sorriso balenava da una pozzanghera. Poi arrivavano rumori
    di festa, e la gente cominciava a passare; uno si era fermato,
    mentre il sole irrompeva con tutta la potenza del proprio incendio.
    Quindi il sole impallidiva, e passava altra gente: erano donne e
    bambini, sorrisi e sarcasmi, grida e chiacchierii; una monotonia
    inesauribile di attività minute in una immensa società misteriosa.
    
    Anna aveva dunque vissuto?
    
    Bisognava morire. Ma perchè soffrir tanto? In ultimo la vita si
    divide; una metà guarda indietro: cosa faranno coloro, che lasciamo?
    Una metà guarda innanzi: dove andremo noi, che partiamo? Ella
    pianse, poscia il dolore le si calmò in una specie di sonnolenza.
    Non dormiva; il silenzio della camera le pesava sul respiro, la
    fiamma del lume a petrolio le bruciava nel petto. Le pareva
    impossibile di poter confessare: ho vissuto! e subito dopo morire.
    In quel momento ella sentiva come non mai prima la poesia
    irresistibile della vita e del moto. Voleva essere in due anche lei,
    perchè tutti sono in due nella vita, la sposa ed il marito, la madre
    ed il figlio. Ella invece, avendo dovuto esser sola, non era mai
    stata nulla. Quindi il mistero del mondo si complicava del suo
    piccolo destino, il dramma eterno della vita colla sua effimera
    tragedia. Perchè dunque non aveva mai potuto amare ed essere amata?
    Tutte le forme dell'affetto le si erano perciò agglutinate
    mostruosamente nella coscienza: aveva ancora le tenerezze della
    bambina, le simpatie della giovinetta, le affezioni della ragazza,
    le passioni della donna; poi tutte le soavità dell'amicizia e
    gl'impeti dell'amore, le idolatrie della madre, e le bramosie della
    sposa, gli entusiasmi della vergine, e le gelosie della ganza. Ella,
    che aveva vissuto tanti anni così calma, credendosi quasi una donna
    dell'altro mondo, cominciava a comprendere di essere come tutte le
    altre. Perchè dunque morire? Perchè aveva dovuto suicidarsi con quel
    lavoro della macchina? Perchè le avevano fatto inghiottire tutte le
    amarezze, e adesso le facevano sputare tutto il sangue? Perchè
    dunque c'era Dio?
    
    Morire, abbandonare Giorgio nel mondo senza esperienza e senza
    aiuto!
    
    - Giorgio! - mormorò fiocamente spalancando gli occhi e avventando
    come un grido in faccia ad un invisibile interlocutore.
    
    Giorgio non venne a casa che tardi, ella lo sentì, ma finse di
    dormire. Il ragazzo rimase due minuti a guardarla con una tenerezza
    piena di apprensioni, e andò a coricarsi in cucina. L'indomani
    Giorgio era invitato da Gaspare; passò la giornata fuori.
    
    Benchè si sentisse molto male, l'Anna si era alzata per non
    scoraggiarlo: vegliò al suo abbigliamento, e, appena sola, tornò a
    letto. Contro tutte le istanze di Gaspare stesso aveva rifiutato di
    assistere al concerto, prestando per suprema ragione la mancanza di
    un vestito adatto. Fu l'ultimo giorno. Lo sfinimento di tutte le
    forze le dava la rassegnazione dell'impotenza. Quindi scrisse una
    lettera, che era il suo testamento, se la nascose sotto il
    capezzale, e ricoricandosi disse con un mesto sorriso le stesse
    parole di Byron:
    
    - Adesso dormiamo.
    
    La finestra era socchiusa: il gatto era scappato fin dal gennaio
    dietro una misteriosa avventura di amore, il canarino era morto coi
    primi freddi dell'anno.
    
    Ella se ne ricordò, e il malinconico destino di quel povero uccello,
    vissuto sempre in gabbia, che non aveva conosciuto nè la patria
    lontana, nè la nuova dove avevano trasportati prigionieri, chi sa da
    quanti secoli, i suoi avi, le parve pieno di triste affinità col
    proprio. Anche il canarino non aveva avuto nè nido nè figli: perchè
    dunque era vissuto?
    
    Dopo una lunga meditazione, nella quale si rimproverò di essere
    stata la sua carceriera, se ne distolse susurrando:
    
    - Beh! tanto è finito.
    
    Non ci pensava: tutto le moriva in cuore, anche il problema della
    vita. Allora ebbe un letargo, era già morta.
    
    Passarono molte ore, poi si destò come ad un richiamo.
    
    - Il concerto?!
    
    Erano circa le sei della sera.
    
    D'improvviso tutto quell'egoismo dell'agonia svanì, e rientrando
    precipitosamente nel mondo vi riconobbe tutti i viventi. Fu un
    tumulto. Il concerto, Giorgio, il suo trionfo, l'amore di madre e di
    donna, che gli portava e che sembrava già morto, tutto rifulse in
    quell'ultimo crepuscolo. Rivide Giorgio, e le parve di abbracciarlo
    stretto per portarselo nella eternità. Ma in quell'abbraccio si
    sentì mancare il respiro: le mancava davvero.
    
    Allora colla ostinazione e l'avvedutezza dei moribondi si stese sul
    letto, e vi rimase cercando di raggranellare tutti gli atomi delle
    proprie forze; fece una provvista di aria e di pensiero, stette
    ancora chi sa quanto così; quindi lasciandosi scivolare dal letto
    con una circospezione indefinibile, adagio, a passi insensibili per
    consumare meno energia, arrivò al tavolino.
    
    Voleva scrivergli una lettera.
    
    Quando sentì di riuscirvi, mise un sospiro di gioia, la più intensa
    di tutta la sua vita. Era quasi felice nel sentimento poetico della
    propria morte: un chiarore di aureola le imbiancava il volto.
    
    Scrisse un pezzo, poi chiuse la lettera, e, sorridendo come una
    bambina, tornò a letto.
    
    - Ora è proprio finita.
    
    Ma poco dopo intese aprire violentemente la porta; Giorgio entrò
    rosso ed ansante.
    
    - Fra un'ora incomincia - esclamò - . Sono scappato, volevo vederti.
    
    Ella, che non capì quella curiosità affettuosa, le diede un
    significato tragico.
    
    - Non aver paura, morirò dopo - disse con voce quasi insensibile.
    
    - Vieni?
    
    - Sento di qui.
    
    In quel momento, animato dalla corsa e dall'emozione, Giorgio era
    bellissimo: non sapeva bene quello che si facesse: distingueva
    appena gli oggetti. La espressione morente dell'Anna gli sfuggì.
    
    Ella chiuse gli occhi abbacinata dalla sua visione.
    
    - Scappo.
    
    E scappò senza attendere la risposta.
    
    Era notte: un chiarore pallido, filtrando per la finestra, bagnava
    cinque o sei mattoni del pavimento, il grugno brunito della macchina
    e lo specchietto della parete avevano a quando a quando un raggio.
    Tutti gli altri mobili erano spariti, la piega del lenzuolo,
    prolungandosi verso terra, faceva una chiazza indecisa nell'ombra.
    
    Anna sonnecchiava: per un momento le parve di udir suonare, poi più
    nulla.
    
    Aveva freddo, ma non ebbe la forza di ravvoltolarsi addosso le
    coperte, e si tirò solo un lembo del lenzuolo sul volto. La notte e
    il freddo crescevano, il chiarore si appannò, poi si spense del
    tutto nella camera.
    
    Non si intese più nulla.
    
    Alle undici il rumore di un fiacchero, che si fermava alla porta,
    salì: poco dopo Giorgio rientrava col violoncello in una mano, e il
    fiammifero nell'altra. Era raggiante, si accostò premurosamente, ma
    udendo il suo piccolo respiro rantoloso, e vedendole gli occhi
    chiusi, non osò chiamarla. Anna si teneva con una mano il lenzuolo
    sulla bocca, l'altra le pendeva abbandonata lungo la sponda del
    letto.
    
    Stette così infra due di narrarle tutto, le sale, il pubblico, la
    propria paura, poi i primi applausi, applausi sempre, un trionfo,
    una demenza, i signori che gli stringevano la mano, le signore che
    lo guardavano cogli occhi inumiditi: e Gaspare, il suo padrone, il
    sarto che era venuto in camerino a dargli un bacio e a dirgli che
    gli regalava il vestito. Ma l'Anna aveva gli occhi chiusi, e il suo
    piccolo respiro rantolava insensibilmente fra le fila del lenzuolo.
    
    Giorgio guardava sempre col fiammifero, riparandolo coll'altra mano.
    Appoggiò il violoncello alla testiera del letto come per farle
    capire, se si destava, di essere tornato, e sulle punte dei piedi
    andò in cucina.
    
    Era così affaticato da tutte quelle emozioni, che si addormentò.
    
    Quando si svegliò la mattina, era solo.
    
    L'Anna era morta; non aveva più il lenzuolo sul volto, ma il
    lenzuolo era macchiato di sangue.
    
    
    
    Gaspare aveva ospitato Giorgio.
    
    Sciaguratamente la lettera trovata sotto il capezzale dell'Anna non
    giovò a nulla; alcuni parenti lontani s'impossessarono dei pochi
    mobili, senza che si trovasse un avvocato per difendere la causa
    dell'orfanello. D'altronde nè Gaspare nè Giorgio insistevano; questi
    si portò via i panni, la musica, il violoncello, ed entrò con
    Gaspare nell'orchestra sotto il solito direttore; poi un impresario
    gli offerse di fare un viaggio per l'Italia e per l'estero dando
    concerti. Giorgio accettò con entusiasmo. Però i loro conti
    fallirono quasi interamente. Quindi da Venezia, la terza stazione
    del pellegrinaggio, entrarono in Germania già decaduti dalle prime
    pretensioni, fermandosi in tutte le città, e adattandosi alle
    esigenze della speculazione per fare quattrini. Se non che quella
    vita, tanto sognata, finì presto per mortificargli, colla passione
    della musica, la squisita sensualità artistica. Ogni giorno si
    faceva più malinconico, non parlava, ricusava tutte le sollecitudini
    dell'impresario, il quale per tenerlo allegro avrebbe voluto
    visitare i luoghi dove transitavano. Invece di passare come uno
    straniero poetico e fatale incantando la gente, e lasciandosi dietro
    una lunga commozione di ricordi, si accorgeva di non essere che un
    povero ragazzo in mano ad un mercante, il quale lo faceva suonare
    negl'intervalli delle commedie in tutti i teatrucoli, e, urgendo il
    bisogno, gli avrebbe fors'anche imposto le birrerie. Fortunatamente
    l'impresario, una natura di boemo, metà speculatore e metà
    dilettante, che aveva vissuto la più strana vita di avventure, si
    compiaceva troppo nella mobilità di quel vagabondaggio per pensare
    molto a sfruttarlo. Quindi trattava Giorgio da camerata, dandogli
    volta per volta pressochè la metà vera dell'incasso; e mentre egli
    la spendeva il più presto possibile in bagordi, ai quali aveva la
    prudenza di non invitarlo, per non compromettergli la salute,
    Giorgio la riponeva quasi integralmente.
    
    La sua sola e grande spesa erano i vestiti e le biancherie; voleva
    scendere ad un albergo più che decente, arrivare e partire sempre
    dal teatro in carrozza. Ma sebbene fosse oramai un uomo, era ancora
    vergine o quasi, giacchè l'attività incessante dell'anima gli
    produceva come un'inerzia nei sensi. Vestiva di nero, come gli aveva
    consigliato l'Anna, e, unico malvezzo della professione, portava i
    capelli in una pioggia di riccioli sulle spalle, i quali
    gl'incorniciavano romanticamente la magnifica testa, fine nella
    bocca, altera e quasi brusca nell'altezza e nella convessità della
    fronte. Una lanuggine trascurata gli metteva un pallido color
    d'ambra sul pallore quasi cereo delle gote, che un largo cerchio
    turchino sotto gli occhi solcava con una patetica espressione di
    malattia. L'impresario, sui cinquant'anni, aveva ancora tutta la
    giovinezza ostinata di certi dissoluti, e si ubbriacava di donne e
    di vino, trovando sempre, diceva lui, il manico, pel quale pigliava
    le cose e le persone. Ma se acchiappava non sapeva tener stretto, e
    peggio s'innamorava tuttavia come un fanciullo. A Gratz si legò con
    una serva di birraria, bella ragazza, bionda come Giorgio, e che
    Giorgio detestò quasi subito. Quindi una rottura. Giorgio, che
    s'accorgeva di non ricevere più la metà degli incassi, disgustato da
    quella facilità di amori, se ne lagnò aspramente con lui; la
    servetta volle interloquire ad insolenze, e l'impresario fidandosi
    sulla propria superiorità di guida, che sa la lingua del paese, con
    un ragazzo abbandonato, inesperto e quindi nella impossibilità di
    ribellarsi, sbraveggiò. Giorgio allora lo guardò con disprezzo,
    avvertendolo che si sarebbero separati.
    
    - Voi? Non trovate neanche la stazione per andarvene, povero coso!
    
    Giorgio gli voltò le spalle senza dir altro.
    
    La mattina per tempissimo, colla prima corsa, partì; ma, ancora
    fanciullo, nel timore di essere inseguito, invece di ritornare,
    proseguì verso Vienna. Rimase due giorni nascosto in un piccolo
    paese; quindi diede volta per l'Italia. Rivide Venezia, tutto il
    Veneto, a piccole tappe, senza aprir mai la cassa del violoncello; e
    si trattenne a Milano. Da Milano discese a Firenze, gironzolò per
    tutta la Toscana, finendo per fermarsi a Scarperia sotto
    l'Appennino. L'incantevole paesello lo innamorò, non era ancora la
    primavera: i monti bianchi di neve si alzavano a picco,
    prolungandosi indefinitamente come un muraglione che dividesse due
    mondi. Era un paesaggio severo ed aggradevole, romito e gentile. Una
    mattina entrò in una piccola osteria, a mezza strada, fra il paese e
    la montagna. La strada vi faceva un gomito, e a poca distanza una
    casetta nuova, con dinanzi due aiuole ed una cancellata di ferro,
    sorgeva in mezzo ad un orto. Tutta la sua facciata era coperta di
    pianticelle rampicanti. Forse l'ortolano, che l'abitava, era pure il
    padrone dell'orto. Giorgio rimase pensieroso a guardarla dall'uscio
    dell'osteria, mentre gli ammanivano il pranzo.
    
    - Potreste alloggiarmi qui? - domandò all'ostessa, che era venuta a
    chiedergli se gli piaceva il pecorino nella minestra.
    
    Ma ella, che dalla fisonomia e dagli abiti lo prendeva per un gran
    signore, si scusò della povertà dell'osteria, buona appena per i
    pecorai della montagna: quindi Giorgio la interrogò sulla casetta di
    contro. L'ortolano presente si mescè al dialogo, e convenne di
    affittargli una stanza.
    
    - Quella di mio figlio: l'ho messo nel seminario di Firenzuola.
    
    Il prezzo fu di dieci franchi al mese, l'ostessa per altri quaranta
    s'incaricò del pranzo: era il mese di marzo, e il seminarista non
    doveva tornare a casa che sulla fine del settembre. Giorgio fu
    contentissimo: l'ortolano andò subito coll'asino a prendere i bauli
    dall'albergo; e quella sera stessa, prima di coricarsi, Giorgio potè
    contemplare lungamente dalla finestra i monti bianchi di neve. La
    cameretta era piccina, colle tende. La famiglia dell'ortolano si
    componeva della moglie, una donna sulla quarantina, una bambinetta,
    due garzoni, poche galline, quattro mucche e due grossi cani
    pastori.
    
    In casa credevano di avere un inglese, che sapesse l'italiano.
    
    Per alcuni giorni Giorgio non aprì ancora la cassa del violoncello.
    Dal primo istante tutti si erano innamorati di lui per la sua
    ammirazione della vita campagnuola; l'ortolana specialmente per la
    sua ghiottornia del latte: poi l'olio, il pane e il vino, queste tre
    perfezioni della Toscana, che egli lodò con entusiasmo sincero, gli
    dettero il prestigio di un gran signore, che sa essere giusto col
    paese e colla povera gente.
    
    Ma Giorgio, che voleva evitare ogni soverchia famigliarità, stava
    malinconicamente chiuso nella modesta cameretta, o uscendone a
    passeggiare, rispondeva breve e garbato con un sorriso più dolce di
    ogni risposta.
    
    Aveva poco più di duemila franchi, due anni quindi di vita oziosa e
    tranquilla, ignoto a tutto il mondo, studiando fra quella dolce
    natura. In viaggio aveva comprato molti libri. Fece un disegno di
    vita, e vi si conformò abbastanza scrupolosamente. Aveva pressochè
    diciott'anni, ed era solo al mondo, come il più giovane garzone
    dell'orto, un trovatello di Firenze.
    
    Allora la rivoluzione, che fermentava da lungo tempo nel suo
    spirito, scoppiò. Rimeditando il viaggio in Germania, ne risentì una
    profonda umiliazione per se medesimo e per l'arte. Gli parve di
    essersi degradato ad un'apostasia, e che il pubblico avesse avuto
    fin troppa ragione di accoglierlo così freddamente. Infatti il mondo
    era tutto pieno di rapsodi come lui, che viaggiavano solleticando
    gli orecchi, come gl'impresari dei teatrucoli meccanici solleticano
    gli occhi. Non era così la musica, non era così il violoncello. Poco
    prima di morire l'Anna gli aveva detto che se ne sarebbe fatta
    sepolcro, e vi avrebbe abitato per tutta l'eternità: come mai aveva
    egli potuto suonarvi dunque dei valtzer, e gettare nel raccoglimento
    divino di quella morte la volgarità chiassosa di un ballo? Che cosa
    ne aveva detto l'anima della morta chiusavisi volontariamente per
    seguirlo dappertutto? A questo pensiero un rimorso, che era quasi
    una paura, gli addentava il cuore, mentre il suo spirito cercava di
    rifugiarsi in un nuovo e più alto concetto dell'arte. Il bisogno di
    una formula, che spiegasse l'essenza della musica, lo urgeva, senza
    che il suo ingegno troppo esaltato ed insieme troppo povero di
    nozioni positive potesse arrivarvi. Secondo lui la musica era nata
    ultima nella storia dell'arte, quando il poema era già morto con
    Dante, e il dramma con Shakespeare: gli antichi non l'avevano
    nemmeno sospettata. Era nata quando la poesia del popolo tramontando
    nella poesia dell'individuo diventava lirica con tutta la varietà
    dei ritmi e delle passioni.
    
    Ma come la lirica era la quintessenza della poesia, la musica era la
    quintessenza della lirica, giacchè solo la melodia degli accenti e
    la composizione misteriosa delle sillabe producevano nella massa il
    suo sentimento. Egli non sapeva la storia del linguaggio, ma
    l'inventava così: prima il gesto, poi il suono, poi la parola, poi
    la poesia, poi la musica: la musica, l'ultimo sforzo del linguaggio
    umano, che esprimeva quanto le altre forme non avrebbero saputo o
    potuto. Era quindi nata dopo che le tre grandi manifestazioni del
    linguaggio, la linea, il colore e la parola, si erano esaurite; dopo
    che la poesia si era ammutolita in faccia all'ultimo dubbio, e la
    religione aveva sospirato sul cadavere dell'ultima speranza. Allora
    dalla cima della piramide umana, alla quale tutti i popoli avevano
    portato un sasso o lasciato un rabesco, la musica aveva alzato
    l'ultimo canto della vita. Essa era ancora là, misteriosa come la
    vita medesima, riassumendone tutte le armonie, e ripetendole.
    
    Secondo lui nel mondo la poesia rappresentava l'infanzia della
    musica, come il graffito era forse ad un tempo l'infanzia della
    pittura e della scultura: ma la musica era inoltre tutta l'anima del
    linguaggio. Che altro aveva determinato l'accordo delle vocali e
    delle consonanti, l'allinearsi delle sillabe, il disporsi delle
    parole? La musica era l'architettura del linguaggio umano, mentre la
    poesia non ne era che l'ornato: la musica sentiva le convenienze
    intime e i rapporti misteriosi dei suoni colle idee: essa scriveva i
    periodi larghi e maestosi delle storie, le strofe leggiere per i
    conviti, raggruppava i versi degl'inni e dava loro il volo delle
    freccie; gettava le ottave dei poemi come gli archi dei portici,
    tirava le linee degli esametri come le linee dei cornicioni; tutto
    il linguaggio era un'orchestra, prosa e poesia, periodo cifrato e
    periodo scritto, le stesse leggi e gli stessi principii; la parola
    vi era sempre regolata dal tempo come la nota; e poi le gamme e le
    serie, e poi la musica ancora, sempre e dappertutto, nelle linee e
    nei numeri, nell'uomo e nella natura, nella eternità e
    nell'infinito.
    
    E il suo spirito si smarriva sbigottito fra questo caos di idee,
    come il viaggiatore per le rovine di un antico mondo geologico.
    Quindi tutti i problemi della coscienza venivano a tempestare in
    quel problema artistico. Prima di possedere la musica come arte,
    l'umanità l'aveva avuta come ricordo o presentimento divino. L'anima
    dei primi abitatori, abbandonandosi al rumore dei fiumi, aveva nella
    inesauribilità di quel suono trepidato la prima volta nel sentimento
    dell'eterno: il bianco è un unisono di colori; il tuono una nota,
    che nessuno può fare se non Dio; l'amore, la gloria, i funerali, il
    paradiso... musica, null'altro che musica. Forse nell'ultima
    giornata della storia essa sarebbe il linguaggio dominante.
    
    E allora, quasi l'ammasso informe di quelle idee mal nate e mal vive
    fosse già disposto nell'ordine di un sistema, si lanciava d'un salto
    alla musica moderna. Siccome l'epopea era discesa da gran tempo nel
    sepolcro, e il dramma era più che morto negli ultimi tentativi per
    risuscitarlo, la musica melodrammatica doveva essere morta del pari.
    Le necessità della scena l'avevano sempre soffocata, giacchè un
    dramma ha più efficacia in prosa che in verso, in verso che in
    musica. Nel dramma primeggia la rappresentazione della verità
    esterna, e quindi il linguaggio dell'arte che evoca un fatto, deve
    possibilmente essere lo stesso, col quale il fatto avveniva nella
    storia. Gli uomini parlano non cantano, la vita storica è azione e
    non sentimento. Egli negava il melodramma, e più ferocemente ancora
    la lirica musicale rifatta sulla lirica poetica. Perchè ripetere
    colla musica ciò che si è già potuto dire colla poesia? Poi nel
    melodramma prevaleva fatalmente la voce umana, mentre Beethôwen
    aveva pur dovuto confessare di non potersi costringere nella sua
    piccola gamma. L'uomo non poteva essere che un istrumento nella
    grande orchestra della natura, o tutto al più una specie di
    condensatore, nel quale passavano le varie forme della musica.
    Quindi l'arte doveva significare l'azione reciproca dell'uomo sulla
    natura, e della natura sull'uomo.
    
    Ma questa concezione, dandogli le vertigini orgogliose di una
    scoperta, impiccioliva ancora la sua piccola personalità di
    violoncellista. Ormai non ammetteva più che la forma orchestrale
    colle voci umane discese ad istrumento di canto o di accompagno:
    nessuna scena, ed un'orchestra immensa in un teatro enorme. Là
    doveva eseguirsi la musica del nuovo genio, forse già nato, perchè
    quando una rivoluzione è iniziata, poco sta ad arrivarne il
    conduttore. Da Beethôwen a Berlioz il gran concerto e la grande
    sinfonia tendevano alla trasformazione del teatro e del gusto
    musicale. Wagner per difendere il dramma aveva dovuto innalzarlo nel
    mito, la grande regione musicale, trascinandosi dietro il mondo
    nell'ascensione. Ma dopo Wagner ogni altro dramma sarebbe
    impossibile collo sviluppo assorbente dell'orchestra nell'opera. Ciò
    era fatale e provvidenziale; le corde di una gola non potevano
    prevalere contro quelle di un violino. Da questo egli deduceva la
    subordinazione di ogni individuo nell'opera immensa dell'orchestra.
    Oggi che tutte le grandi arti erano morte per l'eccessiva importanza
    dei singoli artisti, e il libro aveva ucciso il monumento secondo la
    terribile frase di Hugo, solo la musica poteva ottenere
    l'annichilamento di mille volontà nel prodigio della sinfonia. La
    sinfonia era l'ultimo monumento della civiltà, l'ultima cattedrale
    della religione.
    
    Poi la musica conteneva tutto. Berlioz non aveva scritto la
    Dannazione di Faust, Beethôwen la Tragedia di Cristo, Haidn il Poema
    della Creazione? E in tutte queste opere le parole avevano appena un
    valore di spunto per la frase musicale. I quartetti di Boccherini,
    di Mozart, di Mendelsonn, di Goldmark non valevano le poesie di ogni
    altro poeta? Chopin non era stato il sentimento poetico più squisito
    del nostro secolo? Schumann e Raff non avevano scritto senza parole,
    l'uno il Carnevale, e l'altro il Fiore misterioso?
    
    Così proseguendo a sbalzi gettava il ponte di una induzione su due
    nozioni fragili e lontane, avventava un giudizio nella mischia
    indistricabile di mille contraddizioni. Aveva letto troppi libri
    negli ultimi mesi, quindi un capitolo di Wagner, il trattato sulla
    istrumentazione di Berlioz finirono di sconvolgergli la testa. Ma
    coll'energia, che si attinge quasi sempre dalla coscienza del
    sacrificio, si inabissava intrepidamente nelle conseguenze più
    profonde e gelate del proprio sistema. Adesso un suonatore non
    poteva essere più che un istrumento, nel quale passava qualche filo
    di musica, un rigagnolo destinato a formare un fiume e ad ignorarne
    il corso.
    
    Come dunque aveva egli osato di credersi un artista per avere
    espresso un pensiero o una passione di altri?
    
    Comporre la propria musica e suonarla, ecco l'ultimo sogno. Gli
    antichi rapsodi, i meno antichi trovieri non inventavano assieme
    musica e poesia; non erano poeti, attori e suonatori ad un tempo?
    L'arte consisteva tutta nell'idea, epperò l'eseguire non era un
    creare, ma un trasmettere.
    
    Giorgio volle essere artista. Aveva diviso la musica in epica e
    lirica, sinfonia e ode, quartetto e romanza. Egli sarebbe un lirico.
    Allora non ebbe più requie. Pensò di scrivere il proprio romancero,
    e di suonarlo in un nuovo pellegrinaggio pel mondo; e siccome nei
    mesi passati in orchestra con Gaspare, il direttore gli aveva
    appreso alcune lezioni di contrappunto, credette che potessero
    bastargli. Come tutti i giovani ribelli, egli non ammetteva quasi
    regole di sorta. In tale fermento di spirito trascorse un mese.
    Quando gli parve di aver trovato la nuova maniera, scrisse una lunga
    lettera esplicativa a Gaspare, che gli rispose con entusiasmo,
    lagnandosi solamente della loro separazione. E il suonatore scrisse
    musica. La sua prima romanza fu per l'Anna, una melodia semplice e
    lenta, nella quale agonizzava un gran dolore, e che malgrado alcune
    reminiscenze classiche era piuttosto bella. Un'armonia grave e
    monotona vi imitava il crepuscolo della sera, ricordando la
    semplicità di un povero destino operaio: poi alcune strida
    esprimevano quella terribile vigilia dell'Anna sul letto e la
    rivelazione terribile ed impetuosa, che ella aveva provato della
    vita; quindi l'armonia si prolungava attenuandosi, interrotta ancora
    da un singhiozzo, e si spegneva nelle lontananze dell'oblio come
    nella oscurità della tomba.
    
    La prima volta, che la suonò per intero, l'ortolana, sola in casa,
    ne fu talmente compresa, che gli entrò in camera tra meravigliata e
    piangente.
    
    Giorgio, che non era soddisfatto dell'opera, l'accolse freddamente,
    e le disse di averla scritta in tre giorni.
    
    - In casa mia?
    
    La buona donna non ne rinveniva.
    
    - Le è morto qualcuno? - chiese poi - : io ho subito pensato al mio
    primo bambino.
    
    Allora Giorgio palpitò e, appena uscita la Rosa, scrisse nel petto
    del violoncello, sotto la cordiera, questa epigrafe
    
    /* QUI GIACE ANNA VENTURI. */
    
    Il sepolcro dell'Anna aveva quindi l'iscrizione.
    
    Poscia compose un'altra romanza per Gaspare, che, avendola mostrata
    al direttore d'orchestra, si intese rispondere come fosse piena
    zeppa di errori grammaticali. Gaspare non volle crederlo; la portò
    al professore di contrappunto, una gloria del Liceo, il quale,
    riconoscendovi molto ingegno, ripetè presso a poco lo stesso
    giudizio. Allora Gaspare coll'anima addolorata aveva scritto a
    Giorgio di non fidarsi della propria testa per quanto buona, e di
    venire al liceo per impararvi davvero il contrappunto. La lettera
    lunga dieci facciate, era piena di contorsioni affettuose.
    
    Giorgio sorrise sdegnosamente, e si disse che cominciava la
    persecuzione. Se i vecchi professori non l'avessero rinnegato, egli
    non sarebbe stato un vero rivoluzionario dell'arte.
    
    «Ciò che è grande non cresce veramente che dopo negato», pensò col
    celebre verso di Hamerling, che aveva trovato recentemente in un
    libro.
    
    E Giorgio non mandò altra musica al povero Gaspare.
    
    Faceva una strana vita: s'alzava per tempissimo e si coricava tardi.
    Tutto il giorno lo passava fuori per la campagna col violoncello sul
    dorso, cosicchè i villani, incontrandolo, stupivano di questo
    signore, benissimo vestito, colle spalle cariche di una gran cassa
    come un facchino. Ma sopratutti l'ortolana non cessava dalle dolci
    rimostranze.
    
    - L'aria della montagna è buona - ella diceva - ma il vento ben
    capriccioso.
    
    Giorgio aveva finalmente concepito il proprio poema. Se Haidn aveva
    scritto Le Stagioni, egli scriverebbe Il Giorno. Il giorno non era
    tutta la vita, poichè la vita non è se non una successione di
    giorni? Voleva dipingere il preludio dell'alba, le prime tinte
    opaline, poi le note acute dei rossi sprizzanti dal fondo ancor buio
    della notte, l'accordo lento dei gialli, l'insistenza tremula dei
    violetti, dietro i quali bolliva un gorgoglio mano mano più
    balenante. E allora i boschi stormenti con un fremito indebolito di
    contrabbassi salgono di tonalità, gli alberi isolati accordano il
    loro murmure, le siepi seguitano col sordino, i fiori allungano le
    smorzature. Il gran concerto delle voci sale. I torrenti incalzano
    col pieno delle riprese, le allodole ripetono i motivi del flauto,
    il fringuello schizza delle note di ottavino, il bue apre dei
    muggiti di clarone, gli armenti arrivano con tutta una banda di
    clarinetti, alla quale gli uccelli mescolano il pizzicato dei
    violini; e la sinfonia pastorale di Beethôwen si diffonde dalla
    terra al cielo in un dialogo infinito, cui l'uomo aggiunge un'altra
    musica, l'idea.
    
    L'alba è piena, il mondo è desto. Poi in mezzo ad un accordo fuso
    come un unisono, fra uno scoppio abbagliante di gloria, spunta il
    sole. Tutto sussulta, i colori balzano sugli oggetti, gli occhi sono
    rivolti in alto. Il mattino riprende la propria festa; i fiori e gli
    alberi si salutano, tutte le conversazioni del giorno innanzi
    proseguono, si rintrecciano le commedie degli amori. Le api col
    vizio mattinale di tutti gli operai bevono i primi bicchierini nelle
    corolle rugiadose, e il gallo batte l'ali con uno strido dispotico.
    Solo l'uomo lavora, ma la sua canzone s'innalza gioconda nel mattino
    fra il rumore degli istrumenti. Quindi i cavalli passano tintinnando
    colla sonagliera, l'asino raglia stuonato come un corista, il
    postiglione getta dalla cima dell'alpe lo schiocco della sua frusta,
    come una battuta di nacchere nel ballo. Il sole monta, è già
    mezzogiorno. L'ombra sfinita si raggomitola ai piedi degli alberi, i
    lavoratori meriggiano al rezzo setacciato di una quercia. Per la
    strada deserta, come nella notte, non passa più che il ramarro, o le
    lucertole scherzano sopra un pilastro arroventato, mentre dagli
    alberi, presso e lontano, il coro delle cicale cresce con vibrazione
    uniforme ed instancabile. Laggiù in fondo l'aria turbina, il cielo
    pare di metallo bianco: una solitudine ardente si distende sul
    mondo. Ma in quel silenzio soffocante i gatti vanno a sdraiarsi al
    sole, e i cani scuotono la bocca bagnata guardando al padrone, che
    disteso per terra apre involontariamente le braccia e chiude gli
    occhi. È l'ora dell'amore. La voluttà s'innalza nell'aria come da un
    braciere, e cade dalle foglie coll'ombra come un refrigerio. Il
    vento vellica tutte le labbra, il sonno intorpidisce tutte le
    coscienze. Il sole stesso è immobile: la sua grande pupilla di leone
    ha un dardeggiamento insopportabile, una fissazione dissolvente. E
    per la solitudine silenziosa le cicale invisibili rumoreggiano come
    per coprire discretamente l'anelito di qualche parola, intanto che
    le messi ondulano, le piante sonnecchiano, gli animali riposano, il
    sole guarda, il vento sospira, e l'ombra si allunga adagio. Quindi
    un fremito passa per tutta la natura. Gli armenti escono dai boschi
    ai prati, il bue ritorna al campo, i viandanti ricominciano a
    passare per la strada, gli uccelli volano e cantano, l'uomo canta e
    lavora. Il sole e l'ombra discendono riavvicinando tutti i viventi.
    Il cielo è tornato turchino, le foglie hanno dei sorrisi più calmi,
    ogni linguaggio un accento più mite. E a poco a poco i toni si
    raffreddano. I boschi s'infittano, le vette dell'Appennino si
    abbrunano, le cicale accordano il loro accompagnamento stridulo col
    murmure delicato del vento e il susurro più commosso degli uccelli.
    Ecco il vespero col raccoglimento della sua malinconia e il
    crescendo del suo pallore. Il sole brucia ancora un istante sulla
    montagna, l'ombra ha tutto allagato, e la canzone del lavoratore
    s'interrompe nell'aria fresca tra i richiami dei passeri. È l'ora
    dell'agonia e della musica umana: mentre la tenebra s'inoltra sul
    mondo, l'uomo si avanza nell'infinito. Allora la voce gli si
    affievolisce, e dal cuore misteriosamente commosso gli si alza il
    canto della sera. Come la natura finisce nell'uomo, la sinfonia
    conchiude alla elegia fra l'umidore della rugiada, che pare un
    pianto, e la prima luce delle stelle, che non è ancora un sorriso.
    Il murmure roco delle foglie somiglia ad un brontolio di trapassati;
    laggiù i lumi vagabondi delle lucciole simulano il corteo di un
    funerale, che gli ultimi rintocchi dell'avemaria abbiano annunziato
    nella sera. La tenebra arriva colla morte, i dubbi cadono dalle
    stelle. E nella dissoluzione di questo mondo, che gli svanisce
    dintorno, l'uomo, che non osa parlare, si rifugia nel canto. Gli
    ultimi ricordi gli prorompono col volo delle nottole da tutti i vani
    della memoria, le ultime larve sfuggono nell'ombra sempre più densa,
    le ultime voci si acquetano in un silenzio sempre più lungo. L'uomo
    non sente più, pensa; l'elegia, che era come la sua orazione sul
    giorno morente, diviene il soliloquio del suo pensiero.
    
    Così Giorgio aveva sentito e creato il proprio poema. Ma appena si
    propose di scriverlo cominciarono le difficoltà. Conoscendo troppo
    poco il contrappunto ed avendone l'istinto, gli scoppiava ad ogni
    passo nella coscienza il bisogno delle regole negate. Invano per
    facilitarsi l'ispirazione usciva fuori alla campagna come un
    pittore, e vi restava le intere giornate; che dovette accorgersi ben
    presto come l'andare in cerca d'impressioni o di idee prestabilite
    fosse un'altra follia. Allora colla reazione dei caratteri nervosi
    si chiuse in casa, dicendosi che ogni sensazione per riuscire
    artistica doveva subire una lunga incubazione. Per tre mesi rimase
    invisibile a tutti, scrivendo una pagina e stracciandola cento
    volte, passando lunghe settimane a perfezionare sul violoncello una
    nota imitativa. Egli voleva rendervi tutta l'orchestra non solo, ma
    tutte le voci della natura, dai cori dei boschi ai pieni dei
    torrenti, dall'accompagnamento insensibile degl'insetti agli a solo
    dell'usignuolo. E, mentre si stremava contro queste impossibilità,
    un orgoglio caldo gli andava salendo al cervello, come se in quella
    ignorata casetta di ortolano egli preparasse una nuova epoca per
    l'arte, e quella buona gente dovesse apprenderlo un giorno e fare su
    di lui una leggenda. Quindi fra di loro si faceva più volgare e più
    povero per raffinatezza di vanità.
    
    Ma un giorno fu quasi per tradirsi col più giovane garzone
    dell'orto, che avendogli portato da Firenze un grosso pacco di carta
    da musica, gli domandava a cosa servisse.
    
    - A tutto - concluse Giorgio troncando il discorso, che aveva già
    cominciato.
    
    Con questo però il poema non andava innanzi. Allora pensò di farne
    la partitura per orchestra. Le intestature riuscirono incredibili:
    Quercie e Pioppi, Il Fiume, I Grilli, Il Sole. E si mise subito a
    scriverle per impossessarsi bene della natura di ogni istrumento, e
    farlo poscia passare nel corpo del violoncello. Fu un lavoro
    accanito e doloroso, nel quale lo sorprese l'inverno. Ma per quegli
    sforzi l'umore gli si faceva sempre più nero; mentre i lunghi
    esercizi, massime di notte, quando scendeva di letto e si metteva a
    studiare il canto di qualche uccello, cominciarono ad irritare la
    gente di casa. L'ortolana, così commossa alla prima romanza, era
    adesso più insofferente di ogni altro.
    
    Giorgio non le rispondeva o faceva un sorriso di compassione.
    
    Anche l'inverno passò. Giorgio, che per vegliare al caldo aveva
    dovuto rifugiarsi nella stalla delle mucche, sentì la primavera con
    un impeto di gioia. Aveva scritto e rifusa nel violoncello tutta la
    partitura, un enorme volume diviso in tre libri: Alba, Meriggio,
    Sera. Tutti tre formavano un concerto di almeno cinque ore. Giorgio
    ne era talmente entusiasmato, che fra quelle dolcezze di primavera
    consentì perfino a suonare in un ballo di parrocchiani, dove tutti
    rimasero inebbriati: quindi il mondo lo riattirò. Conchiuso quel
    lavoro colossale, provò così vivamente il prurito di parlarne, che
    prese a frequentare il grande caffè di Scarperia, dove la sera
    convenivano, coi pochi signori del paese, molte altre persone di
    buone maniere. Naturalmente Giorgio trasse dai bauli gli abiti
    belli, e parve loro un gran signore, anche dopo essersi confessato
    per un artista rifuggitosi in quella incantevole solitudine per
    accudire ad una grand'opera. La vanità terrazzana ne fu soddisfatta,
    il segreto di Giorgio circolò, e tutte le ragazze parlarono dei
    magnifici capelli lunghi del suonatore.
    
    Una sera Giorgio intese annunziare l'arrivo di una famiglia
    americana, immensamente ricca, alla grande villa presso la casetta
    dell'ortolano. Parlavano di una ragazza bellissima e stravagante.
    Tutti raccontavano le sue follie, che a Giorgio parvero, com'erano,
    le più naturali del mondo; ma, avendo voluto dirlo, dovette
    accalorarvisi.
    
    - Ah! - esclamò un uomo, che cominciava a diventar vecchio, bella
    testa di campagnuolo dorata dal sole e animata dalla malizia di
    mercato. - Ella, signore mio bello, s'innamorerà, glielo predico io.
    
    - Bravo, signor Simone! - risposero in coro.
    
    Giorgio rimase interdetto: poco dopo uscì dal caffè col cuore
    agitato. Era una notte tiepida. Venne fuori del paese sovra
    pensieri, e si trovò involontariamente davanti alla villa, che la
    bella incognita doveva occupare l'indomani, a duecento metri dalla
    casetta dell'ortolano. Allora per uno di quei tristi ed
    inesplicabili presentimenti si disse che quella donna gli sarebbe
    fatale; il sangue gli diè un tuffo, la fantasia gli si accese. Era
    di primavera, le stelle della notte sorridevano, le acacie
    all'ingresso del villaggio mandavano a quando a quando un soffio
    pimentato, le tuberose e le gardenie della villa esalavano un odore
    più esotico, un sentore aristocratico e strano. Giorgio si sedette
    sul muricciuolo del cancello; la notte e la primavera lo
    ubbriacavano. Per molte ore i suoi sensi furono in orgasmo e il suo
    pensiero non si staccò dalla bella incognita, alla quale si
    compiacque di attribuire una fisonomia di regina, bruna, cogli occhi
    enormi, il portamento e le forme superbe. Si coricò quasi all'alba.
    La mattina presto era già in piedi ben vestito, ma gli americani non
    arrivarono che sul vespro senza che egli potesse vederli. Quella
    sera invece di andare al caffè scrisse una romanza con questo
    titolo: «A te».
    
    Per uno dei soliti casi di vicinato egli potè divenire presto amico
    dell'incognita, e frequentare la sua villa. La fanciulla non era
    bella: bionda con due occhi cilestri, un naso all'insù, un musetto
    rotondo, di un colorito smagliante. Si erano conosciuti alla cascina
    dell'ortolano, dove era entrata un mattino col babbo, vecchio
    negoziante arricchito, grasso e bonario, per mangiare delle fragole
    col latte. Giorgio in quel momento suonava a bella posta. La
    relazione presto fatta divenne presto intima, perchè Giorgio ebbe
    per loro il pregio di una scoperta. In casa tutti amavano la musica;
    Mary, si chiamava così, suonava il piano ai genitori, che,
    ascoltandola in estasi, ripetevano sempre lo stesso elogio per la
    musica italiana, la prima del mondo. La madre stava per Verdi, il
    padre per Bellini; Giorgio invece li disprezzava entrambi, e
    d'italiani non ammetteva che due antichi, un grande ed un colosso,
    Palestrina e Marcello. Laonde accaddero frequenti discussioni, nelle
    quali Giorgio rivelò volentieri il proprio secreto. Allora tutto si
    mutò a suo riguardo, e mentre prima l'avevano giudicato un povero
    diavolo, buono per divertirsene in campagna, dopo lo riguardavano
    col rispetto ossequioso, che talvolta i borghesi milionarii, di
    temperamento delicato, hanno per gli artisti in genere. Giorgio non
    disse tutto, nè della propria famiglia, nè come vivesse: solo
    confessò di essersi ritirato in campagna per scrivere un'opera, che
    ricusò di mostrare malgrado tutte le seduzioni e le moine. E una
    volta che Mary ne lo stuzzicava, rispose alteramente che la sua non
    era musica da signorina.
    
    La ragazza ne fu punta.
    
    Frattanto in quella villa e in quella vita di agiatezza raffinata
    Giorgio si svestiva della prima ritrosia. Tutti parlavano bene
    l'italiano ed amavano l'Italia: avevano servitori e carrozze,
    cavalli da sella e due bei cani da caccia. Giorgio era invitato a
    pranzo quasi tutti i giorni, lo tempestavano di biglietti, lo
    soffocavano di cortesie. Egli lasciava fare. La mamma sedotta dal
    suo aspetto aristocratico e da quel suo abbandono misterioso nel
    mondo voleva essere la sua nonna: il padre lo portava seco a caccia,
    e gli parlava delle Ande a proposito dell'Appennino, Mary diventava
    sempre più buona. Sul principio aveva avuto delle maniere piene di
    bruscherie, che lo irritavano, quando pigliandolo improvvisamente
    dentro una frase insidiosa voleva penetrare nel secreto della sua
    vita. Giorgio si vergognava di essere povero e plebeo. Poi poco a
    poco divenne malinconico, e cominciò a sottrarsi a qualche pranzo,
    ad evitare qualche scampagnata. In paese non compariva quasi più, o
    scansava studiosamente il gran caffè, dove lo dicevano già
    innamorato. Infatti lo era e al punto, che toccando raramente il
    violoncello, non suonava più che quell'ultima romanza.
    
    Giorgio non aveva suonato alla villa se non per accompagnare Mary
    nell'Ave Maria del Gounod, la quale naturalmente egli giudicava
    molto al disotto dell'altra del Cherubini, o dell'Arcadet a sole
    voci. Ma la signora Edvige, la mamma, che non conosceva queste
    ultime due, ed era fanatica del Gounod, aveva troncato sdegnosamente
    a mezzo tutti i paragoni. E una notte, quando Giorgio suppose che i
    genitori dormissero, avendo veduto il lume alla finestra di Mary,
    aperse il piccolo cancello del bosco sempre socchiuso, e venne a
    nascondersi nell'ombra di una siepe col violoncello. La notte era
    molto buia. Egli attese lungo tempo, poi suonò la romanza «A te» con
    tale passione, che alla fine gli venne da piangere, e dovette
    scappare. Gli era parso di sentirsi a mezzo la romanza chiamare
    dalla voce dell'Anna. L'indomani non osò presentarsi alla villa,
    quell'altro giorno nemmeno, finchè ricevette una lettera di Mary e
    della signora Edvige, le quali, fingendosi scherzosamente inquiete
    sulla sua salute, gliene domandavano novelle, e lo invitavano a
    pranzo.
    
    - Di chi è quella romanza, che avete suonato l'altra sera sotto le
    mie finestre? - gli chiese improvvisamente Mary.
    
    - La signora Edvige ha sentito? - egli susurrò a precipizio.
    
    - Ma certo - rispose Mary con indifferenza - : scommetterei che è la
    vostra.
    
    - Appunto.
    
    - Andate a prendere il violoncello e tornate subito a suonarcela -
    disse con quell'affettazione d'impero, che andava così bene al suo
    visetto.
    
    Dovette ubbidire, se non che avendo paura non la suonò come quella
    notte.
    
    La signora Edvige e il padre lo guardavano, Mary era distratta.
    Quando Giorgio ebbe finito, dopo i soliti complimenti dei due
    vecchi, Mary s'impossessò della musica. Giorgio, che rimetteva già
    l'istrumento nella cassa, tese la mano; ma ella guardandolo
    arditamente:
    
    - Non è per me? - domandò.
    
    Giorgio impallidì.
    
    Mary si gettò attorno uno sguardo, vide che non erano sorvegliati,
    gli stese rapidamente una mano, allungandogli il volto e mormorando:
    
    - A te?
    
    Giorgio non capì o non si arrischiò di cogliere quel bacio.
    
    Da quel giorno furono amanti. Egli si sentiva scoppiare d'amore e
    d'orgoglio, ella era allegra come prima, e cominciava già a
    canzonare la sua aria fatale. Parlavano spesso di musica senza
    intendersi, perchè Mary non la pigliava che come un divertimento,
    col quale interrompere gli altri, e Giorgio invece come la più alta
    manifestazione del pensiero religioso. Laonde nell'amore egli non
    sognava che conversazioni mute guardandosi negli occhi, effusioni
    sentimentali, baci al lume di luna, mentre nel suo orgoglio di
    povero plebeo avrebbe voluto vedersi ai piedi quell'ereditiera di
    milioni offerentesi con una trepidazione di terrore.
    
    - Mi amerai sempre, sempre? - le domandava spesso cogli occhi gonfi.
    
    Ella rispondeva di sì col suo più bel sorriso, e poco dopo gli
    parlava di un viaggio in America, dove resterebbe forse due o tre
    anni. Giorgio non osava insistere; una volta ella gli disse
    leggermente:
    
    - Vieni anche tu?
    
    - Non posso - mormorò Giorgio, pensando alla spesa, ed obliando in
    quel momento le risorse del violoncello.
    
    - È vero, non ci pensavo.
    
    Un'altra volta, che erano al piano, avendo provato la canzone del
    salice nell'Otello, Giorgio nella soave vanità d'impietosirla cesse
    finalmente, e le raccontò la propria vita, le sofferenze da bambino,
    la mamma morta all'ospedale, l'eroismo, il martirio dell'Anna. Ma
    Giorgio, combattuto ancora dalla falsa vergogna della miseria,
    raccontava così male che Mary, invece di sentirsene tocca, finì
    quasi col riderne.
    
    - Sarà stata innamorata di voi!
    
    Giorgio rimase colpito dall'osservazione e peggio da quel voi, che
    non avevano mai usato nella loro secreta intimità. Troncò il
    racconto, ma tornando al violoncello non seppe resistere alla
    compiacenza di spiegarle, come ne avesse fatto il sepolcro romantico
    dell'Anna, e vi avesse incisa l'iscrizione. Questa volta Mary non si
    tenne.
    
    - Bello! - esclamò curvandosi vivamente per leggere l'iscrizione.
    
    - Questa invece è brutta: se me lo aveste detto, vi avrei disegnato
    delle magnifiche lettere. Datemi quel temperino che almeno le
    accomodi.
    
    E piegandosi sulla cordiera, si mise realmente a correggere gli
    sgorbii. Giorgio non poteva osservare quello che facesse, ma il
    legno così grattato metteva tali stridori di lamento, che il
    pensiero gli corse all'Anna moribonda, mentre dalla figurina di
    Mary, quasi accovacciata sul violoncello, gli veniva un'emanazione
    odorosa e penetrante.
    
    Mary si volse ridendo:
    
    - Leggete
    
    /* qui giace anna venturi «suonate per lei» */
    
    Aveva aggiunto monellescamente: ma vedendolo rannuvolarsi, e fare
    come un gesto di minaccia, fuggì sghignazzando per la porta.
    
    Da quel giorno cominciarono gli attriti secreti; ella, che affettava
    di esser gelosa di quella morta, e gliene rinfacciava ad ogni
    momento l'affetto; egli, che sentiva in quei rimproveri una punta
    avvelenata di scherno per la propria miseria di artista, mentre
    tutte le bramosie dell'uomo gli si destavano impetuosamente dinanzi
    a quella donna, che aveva col fascino morbido della sensualità tutte
    le lusinghe laceranti della civetteria. Ogni giorno si accorgeva di
    amarla di più e di rovinarsi per quest'amore, che gl'imponeva di
    vestirsi sempre a festa e di non pranzare più alla bettola. Adesso
    l'ortolana doveva cucinargli un pranzetto, che egli aveva la
    scortesia di trovare costantemente poco buono. Una volta
    indispettita ella lo punse sull'americana, e Giorgio proruppe in una
    scena.
    
    Intanto l'amore non inoltrava; non si erano ancora baciati, non
    avevano parlato di matrimonio.
    
    Giorgio volle metterne il discorso una sera, ed ella rise, perchè la
    mamma voleva farle sposare qualche signore toscano, che avesse un
    gran titolo.
    
    - Non ci penso neanche, verrà poi - ella concluse.
    
    A Giorgio parve di morire. Un avvilimento pieno di rancori gli
    rovinò sulla coscienza, e non parlò più. Mary sembrava non
    accorgersene, la signora Edvige colla faccia rosea, incorniciata di
    capelli bianchi, illuminata da una grande espressione di bontà,
    vegliava in quel momento su di loro come sopra due fidanzati. E
    quella mamma così buona non aveva capito quell'immenso amore per sua
    figlia! Ma Giorgio era povero, senza parenti, senza posizione, senza
    nome: se lo confessava, e subito dopo l'orgoglio di artista gli
    saliva al cervello, bruciandogli le lagrime degli occhi. Paganini
    non aveva sollevato l'Europa guadagnando milioni e milioni? Paganini
    aveva forse più ingegno di lui? Quindi un odio ancora voluttuoso, un
    disprezzo feroce e carezzevole gli veniva per Mary, una donna, che
    non sapeva indovinare quello che egli sarebbe forse tra poco.
    Giorgio ignorava ancora che la donna è quasi sempre così, e non può
    amare gli uomini superiori se non a patto di abbassarli. Ma se nella
    propria alterezza di artista avesse forse potuto consolarsene,
    essendo povero e plebeo si arrovellava di restarle socialmente
    inferiore; mentre la signora Edvige, parlandogli dei futuri
    concerti, si dichiarava sua protettrice, e s'incaricava fin d'ora
    della vendita dei biglietti, promettendogli con certo accento
    particolare grandi incassi.
    
    Quando arrivò il mese di luglio, alla villa si discusse dei bagni.
    La signora Edvige preferiva Pegli, il babbo Viareggio: Mary non
    consultò nemmeno Giorgio, e la mamma, invitandolo, gli disse che a
    Viareggio sarebbe forse possibile qualche concerto.
    
    - M'incarico io di prepararvi il pubblico, ne avrete fin troppo, e
    potremo mettere il biglietto al prezzo che vorrete. Io ne sono
    pratica; spesso la stagione delle acque vale quella dell'inverno.
    
    Giorgio era rosso come una bragia, ma l'accento della signora Edvige
    era così sincero e benevolo, che egli comprese di non potersi
    offendere. Fortunatamente Mary sopravvenne, e, distraendo la mamma,
    gli diede il tempo di rimettersi. Mary parve non accorgersi del suo
    imbarazzo.
    
    - E così venite? - insistè la signora Edvige.
    
    Egli balbettò alla meglio di aver incominciato un altro poema, e di
    voler restare nella solitudine per finirlo.
    
    Dopo otto giorni la villa era deserta.
    
    Rimasto solo, Giorgio si sentì abbandonato come la prima volta alla
    morte dell'Anna. Per molti giorni stette chiuso in camera a piangere
    disperatamente la partenza di Mary fra mille altri dolori di uomo e
    di artista. Gli pareva di essere un esiliato nel mondo, senza
    famiglia e senza patria, senza mestiere e senza denaro. Adesso non
    credeva più neanche alla musica. Che cosa era l'arte, se avendola
    avanzata di un passo col poema, essa non gli aveva servito nemmeno a
    soggiogare la piccola testa di Mary? In che consisteva la sua
    sovranità, se gli artisti dovevano essere sempre poveri e spregiati?
    E le ultime parole della signora Edvige sul concerto gli cadevano
    nel cuore come tante goccie di piombo. Non v'era dunque differenza
    fra il musicista e il saltimbanco? La gente veniva egualmente a
    vedere o ad ascoltare, gettando la stessa elemosina a chi lo
    divertiva? Poi Mary gli riappariva, ed egli l'amava appunto perchè
    era una smentita continua al suo orgoglio, alle sue delicatezze
    giovanili, alle sue sincerità popolane. Mary camminava sopra di lui
    come per un campo, stracciando i fiori e lacerando le frondi.
    L'amava ella? Cosa faceva a Viareggio? Con chi parlava? Con chi
    rideva? Mille volte al giorno Giorgio soccombeva alla tentazione di
    andarla a vedere, e di tornarsene incognito; mille volte sul punto
    di partire aveva paura, e restava. Era una vita d'inferno. Ad ogni
    ora veniva a guardare la villa abbandonata sperando di incontrarsi
    col giardiniere e così di penetrarvi: se ne ricordava i particolari
    più minuti, i discorsi più insipidi, le scene più effimere. Il
    giardiniere, accortosene, lo canzonava; nel caffè grande di
    Scarperia facevano peggio. Una sera, che Giorgio vi entrò, le
    punture furono tali e tante, che accadde una scena. Giorgio dopo di
    essersi schermito colle insolenze tirò un bicchiere alla testa di un
    avventore, un uomo sulla quarantina, fortunatamente senza colpirlo,
    e lo sfidò a duello. La gente, che si era interposta fra i due,
    aveva quasi voglia di bastonarlo, e gli rise in faccia alla sfida:
    nel villaggio l'uso del duello non esisteva. Giorgio tornò a casa
    lagrimoso, e non ardì più di mostrarsi in paese, dove il suo alterco
    prese proporzioni enormi, e la sua passione per l'americana
    l'aspetto più grottesco. Mangiava appena, non dormiva più. La notte,
    due fantasmi inseparabili gli venivano sempre al capezzale, Anna e
    Mary: Anna non era più gobba, non aveva più quell'erpete sulla
    faccia, ma i suoi begli occhi di martire brillavano come la stella
    del mattino.
    
    Mary invece diventò la fidanzata del marchese Soderini, uno dei
    grandi nomi della Toscana, giovane, bello e povero, che rialzava con
    questo matrimonio l'antica fortuna della propria casa.
    
    Se Giorgio non ne morì, fu perchè non si muore di dolore; se non ne
    ammalò subito, la sua vergine giovinezza era ancora troppo forte.
    Mary non gli aveva più scritto, nessuno si ricordava più di lui,
    nemmeno il vecchio Gaspare. Allora i disegni più infantili di
    vendetta gli passarono dinanzi; andare a Viareggio, apprendere per
    dove erano partiti, poichè si diceva che viaggiassero, seguirli
    travestito in ferrovia, all'albergo, ucciderli col medesimo pugnale,
    ed uccidersi. L'ebbrezza del sangue gli saliva al cervello, la
    sinistra poesia del delitto gli entusiasmava l'immaginazione. Mary
    avrebbe impallidito vedendolo, gli si sarebbe buttata alle ginocchia
    pentita, innamorata, perchè quel matrimonio era forse una violenza
    dei suoi genitori; e allora egli le imponeva di fuggire, tornavano a
    viaggiare, vivendo di concerti, passando dappertutto come una
    visione di musica, un fantasma di amore. Oppure se Mary non l'amava,
    come non lo aveva forse mai amato, imporle un'ultima notte d'amore,
    un'ora sola di voluttà nel fondo di un sepolcro, e poi al mattino,
    quando sorgeva il sole, abbassarne il pesante coperchio di marmo, e
    dormire.
    
    Ma le difficoltà dell'esecuzione impedivano ogni disegno. Pensò di
    morire da solo, gittandole nell'anima il rimorso di un delitto, e
    non vi si decise, perchè era troppo ed insieme troppo poco, e per
    farlo avrebbe avuto bisogno della sua presenza, cadendole ai piedi
    insanguinato. La necessità di un dramma lo perseguitava: non voleva
    morire nell'ombra, dileguare nel silenzio. La sua bella testa di
    giovanetto pigliava una fisonomia dolorosa di sonnambulo,
    un'espressione di martirio. La notte, invece di coricarsi, usciva
    pei campi, estenuandosi in corse folli, addormentandosi poi sotto un
    albero in un sonno pieno di fantasmi e di singhiozzi. E in casa,
    dove lo spiavano da qualche tempo, cominciavano a stancarsi di lui,
    che era mezzo matto, che bisognava un giorno o l'altro aspettarsi
    qualche cosa di grosso; la sua passione per la signorina americana
    avrebbe meritato gli scappellotti, quelle stranezze quotidiane
    peggio ancora. L'ortolano voleva cacciarlo addirittura, ma la donna
    lo proteggeva ancora. E una volta, che ella volle parlargli, Giorgio
    sulle prime andò in bestia, poi ruppe in un pianto disperato, che
    fece piangere anche lei; quindi le cadde colla testa in grembo come
    un bambino.
    
    - Dunque non ha proprio nessuno al mondo?! - Giorgio non rispondeva.
    
    - Si faccia coraggio, passerà: noi poverette abbiamo più cuore, ma
    le signore... si figuri... Povero signorino!
    
    Finalmente si ammalò. Il medico constatò una minaccia di tifo, che
    fortunatamente svanì in meno di dodici giorni, durante i quali Mary
    tornò alla villa col fidanzato. Giorgio non lo seppe, e non seppe
    nemmeno che la signora Edvige mandasse a prendere sue notizie. Poi
    un mattino il servitore mancò, perchè i padroni avevano saputo
    tutto. Appena Giorgio potè alzarsi, ed imparò quel ritorno, volle
    partire, così ancora convalescente, malgrado ogni rimostranza. Pagò
    generosamente tutte le spese e gl'incomodi di cui era stato causa,
    fece i bauli, e sopra una vettura noleggiata a Scarperia partì per
    Firenze. Erano le quattro dopo pranzo, col sole velato, il vento
    fresco. Passando dinanzi alla villa, sperava che Mary sarebbe alla
    finestra e lo vedrebbe pallido come un moribondo, che andava a
    morire lontano da lei; quindi si era sdraiato nella posa più
    pietosa, la sua bella testa sopra una palma, senza cappello, coi
    ricci biondi che gli svolazzavano al vento, il violoncello a fianco
    nella cassa, il suo piccolo bagaglio metà legato sulla serpa, metà
    dietro le ruote. Le finestre della villa rimasero chiuse. Invece
    presso Scarperia fece alzare il mantice della carrozza per non
    essere veduto attraversando il paese. La sera sull'imbrunire giunse
    a Firenze.
    
    Il suo primo pensiero fu di scrivere una lettera a Mary. Vi passò
    attorno la notte, e finalmente al mattino era compiuta; sedici
    lunghe facciate, un'elegia ed una requisitoria scritta colle lagrime
    e col sangue. La rilesse ancora una volta inorgogliendone, ed uscì
    per impostarla. Era più calmo, si cercò quel giorno stesso una
    cameretta, e vi si rifugiò.
    
    La lettera a Mary rimase senza risposta. Era il mese di settembre
    coi giorni ancora lunghi e caldi: Firenze abbandonata dai forestieri
    e dai fiorentini sembrava quasi più bella. Tutte le sere Giorgio
    andava a vedere tramontare il sole dal cimitero di S. Miniato, e si
    sentiva una gran voglia di morire con lui in un magnifico vespro,
    cogli occhi incantati nei suoi ultimi raggi, e gli orecchi pieni
    dell'ultimo addio, che la terra gli mandava. Poichè nessuno lo
    conosceva, o gli indovinava dal viso il suo dramma, nessuno doveva
    udire il suo poema; egli sarebbe venuto a bruciarlo nel cimitero,
    fra mezzo ai grandi morti nel silenzio della notte. Questo tetro
    pensiero, che era ancora un pensiero di amore sebbene non volesse
    confessarlo, gli faceva battere il cuore ad ogni signorina dalla
    fisonomia straniera, a cui s'imbattesse. Tutte le notti i suoi sogni
    partivano per Scarperia, e ne ritornavano singhiozzando. Poi il
    mattino, aprendo la finestra, cercava involontariamente cogli occhi
    il bianco profilo di quella magnifica villa.
    
    Nullameno Firenze cominciava ad interessarlo. Uno dei suoi luoghi
    favoriti era il Mercato Vecchio, una città microscopica dentro la
    grande, una topaia dentro il portentoso capolavoro di una
    cattedrale. Egli ci viveva col popolo, mangiando alla stessa cucina
    economica e succolenta, abbandonandosi alla novità musicale di quel
    gergo, melodico come un canto. Talvolta pure si metteva dietro a un
    suonatore ambulante, e gli dava sempre un soldo, spremendo un'acuta
    voluttà dagli sguardi curiosi del povero rapsodo, il quale si vedeva
    perseguitato da quel bel signore, e non sapeva che quel signore era
    forse il primo violoncellista del mondo. E a poco a poco la musica
    lo riattirava. Il pretesto di quel poema, opposto alla signora
    Edvige, per sottrarsi ai bagni, gli ritornava alla memoria, e una
    sera seduto sul piedistallo del David in faccia al sole morente,
    guardando le prime ombre discendere dai colli decise di scrivere la
    Notte. In quei giorni si legò con un giovane fiorentino, piccolo e
    bruno, boemo come lui. Pareva poverissimo, ma era allegro,
    chiacchierava bene e volentieri. Alle prime parole simpatizzarono,
    alla fine della colazione erano intimi. Giorgio, che dalla morte
    dell'Anna non si era più sfogato, si gettò nel cuore del nuovo
    amico, parlandogli da solo per due ore, piangendo e bestemmiando;
    mentre l'altro ascoltava mano mano più severo, rispondendo appena
    con qualche parola. Egli si chiamava Momo Martelli, un nome
    diventato celebre nella letteratura di questi ultimi anni, e che
    allora si nascondeva dietro varie maschere di pseudonimi.
    
    Momo taceva. Lo lasciò effondersi liberamente sulle proprie
    sciagure, ma al capitolo dell'arte protestò energicamente. Momo non
    era uno dei soliti boemi, che si credono novatori per ciò solo che
    sono ribelli; aveva ancora un sincero entusiasmo pei vecchi
    capolavori, e lacerava con mordace ironia la inane vanagloria dei
    nuovi artisti, che, dopo aver deriso il passato, lo copiano. Per la
    prima volta Giorgio si trovava di fronte a un ingegno giovane come
    il suo, ma più colto e più forte: quasi quasi se ne adontò. Momo
    aveva delle frasi più dense di pensiero, e lo stringeva così forte,
    che Giorgio inferocito della sconfitta gli disse con uno scatto di
    orgoglio:
    
    - Vieni domani, ti farò sentire il mio Giorno.
    
    - Lo sentirò al concerto, che darai: io discuto volentieri
    un'opinione, non un'opera coll'autore. C'è il pericolo di non
    capirsi, e quasi sempre la sicurezza di guastarsi. In pubblico non è
    così: il nostro giudizio si integra di tutte le sensazioni dei vari
    temperamenti. Piuttosto domani ti porterò un libro di Balzac; se
    questo non ti salva, tu sei perduto - aggiunse con un sorriso, che
    voleva essere scherzoso ed invece era triste.
    
    La mattina Giorgio ricevette il piccolo volume, e lo rilesse due
    volte con un tremito sempre maggiore di sentimenti e di idee.
    Avrebbe voluto veder Momo per parlargliene, ma non riuscì a
    trovarlo; gli andò a casa, lo cercò per Firenze, salì due o tre
    volte alla Laurenziana, dove gli aveva detto di capitare sovente, e
    alla fine del quinto giorno lo sorprese in una delle solite bettole
    di Mercato Vecchio.
    
    - Così? - chiese Momo.
    
    - Gambara è morto pazzo, ma aveva ragione.
    
    - Me lo immaginavo - e non volle intendere altro.
    
    Invece parlarono di dare un concerto ai primi della stagione
    d'inverno. Momo tornò alla carica, perchè il concerto fosse, secondo
    il solito, con accompagnamento di orchestra; ma Giorgio fu
    irremovibile.
    
    - L'orchestra sono io.
    
    Questa volta Momo non sorrise, disse che s'incaricava di far cantare
    i giornali, dove scriveva, e nei quali aveva moltissimi amici. La
    sala sarebbe una delle solite.
    
    - Se tu mi sei contro?! - disse Giorgio ammirato di quella facilità.
    
    - Mio caro, nel mondo bisogna avere due opinioni su tutto, forse per
    essere perfetti - seguitò con ironia - bisognerebbe avere anche due
    morali. Io ti condanno, ma lavorerò perchè il pubblico ti assolva,
    e, se ci riesco, il pubblico avrà preso a prestito la mia opinione
    invece che quella di un altro. Mio caro, il pubblico di tutte le
    sale, non bisognerebbe mai dimenticarselo, siccome giudica sempre
    sopra una prima sensazione, ha bisogno che qualcuno gli prepari il
    proprio giudizio; i critici da giornale non servono ad altro, e se
    vogliono fare di più, cessano di essere capiti. Forse riusciremo, ma
    la tua vittoria non sarà per questo una vittoria decisiva nel campo
    dell'arte.
    
    E questo concerto divenne il tema delle loro conversazioni e dei
    loro sforzi.
    
    Momo, maggiore di cinque o sei anni, e che allora lavorava ad un
    romanzo, buscandosi la vita quotidiana cogli articoli di giornale,
    era di una compiacenza inesauribile. Firenze cominciava a
    ripopolarsi, Mary non era ancora tornata da Scarperia. Quando ebbero
    fissato il giorno del concerto, Momo aprì la crociata nei giornali a
    favore dell'amico con una serie di articoli sopra la musica moderna,
    sul Berlioz, e sul Rinaldi, questo illustre italiano incognito
    solamente in Italia; e Giorgio, che non approvava le sue idee
    artistiche, giungeva quasi a lagnarsene. Il giorno spuntò. Giorgio
    non dormiva da parecchie notti, era sparuto e nervoso come un
    malato; aveva indossato una nuova marsina del miglior taglio, e per
    gentile superstizione l'ultima delle sei camicie, che la povera Anna
    gli aveva cucito per il primo concerto. Momo, che si era accorto di
    quel convulso, non lo lasciò tutto il giorno, e fece inutilmente
    ogni sforzo per distrarlo. Mano mano che s'avvicinava l'ora, Giorgio
    si rabbuiava e non parlava più: per strada i grandi cartelli
    colorati, col suo nome a lettere cubitali, gli davano dei sussulti.
    
    Passando davanti al campanile di Giotto:
    
    - Se la mia musica fosse così, credi che la capirebbero? - disse
    Giorgio.
    
    - Credo di sì.
    
    - T'inganni, le creazioni fantastiche non sono intelligibili che
    alle fantasie.
    
    E non parlarono più.
    
    La gente e le carrozze assiepavano la porta del palazzo del
    concerto: essi passarono inosservati, e per una porticina secreta
    furono nel camerino, dove li aspettava il violoncello. Alcuni amici
    di Momo, musici e giornalisti, vennero poco dopo; si sentiva il
    rumorio della sala come uno stormire discreto di fronde, dall'uscio
    socchiuso penetravano dei soffi profumati.
    
    Giorgio era pallido come un morto.
    
    - Avresti paura? - gli mormorò Momo all'orecchio.
    
    - È un fiasco!
    
    - Lo berremo - rispose Momo con gaiezza affettata.
    
    - Sì, perchè sarà avvelenato.
    
    Fu l'ultima parola. Accordò il violoncello, ordinò al cameriere di
    portarlo sul palco, ed attese. Gli amici rientrarono nella sala.
    Giorgio e Momo rimasero soli. Erano entrambi febbricitanti: Giorgio
    camminava su e giù, guardò all'orologio, quindi fermandosi dinanzi a
    Momo aprì le braccia. Egli comprese, vi si gettò, e si dettero un
    bacio come per un ultimo addio.
    
    Giorgio entrò nella sala. Fu un'apparizione. Quella sua figura
    delicata e signorile destò un murmure di simpatia; arrivò colla
    testa alta, prese il violoncello, fece un inchino quasi orgoglioso
    al pubblico, e si assise. La sala era gremita, le signore
    abbondavano in mezzo ad una moltitudine di colori. Ma con tutta la
    sua iattanza Giorgio non osò di alzare gli occhi. La sala era
    inondata di luce, si sarebbe udito il fluttuare di un velo: Giorgio,
    che dava il concerto a proprie spese, vi aveva impiegato gli ultimi
    danari riuscendo ad una discreta decorazione. Incominciò: la mano
    gli tremava talmente, che le prime note quasi non s'intesero; poi si
    rimise, e attaccò il preludio. Alla terza frase il pubblico fremè.
    Gli uomini ascoltavano, le signore guardavano: la musica, una
    descrizione a tocchi sobrii e risentiti, fu subito compresa, e
    proseguì crescendo di colorito e di vivacità come l'alba: si udiva
    il vento del mattino, si discerneva lo stormire delle piante, il
    risvegliarsi simultaneo e nullameno graduale di tutta la natura. Ma
    quando nell'incalzare di tutte le voci e nel lampeggiamento di tutti
    i colori rifulse il sole, la frase, che si era innalzata
    ingrossandosi di tutti gli altri accordi, ebbe uno scoppio così
    potente, che il pubblico urlò. Giorgio provò la percossa voluttuosa
    di quell'applauso, e senza badarvi proseguì lo sviluppo della frase
    rompendola in cento razzi, in una pioggia di sorrisi e di colori,
    che sembravano cadere nella sala come tante faville di girandola,
    tante foglie vaganti di fiori. Allora gran parte del pubblico,
    levandosi come per respirare meglio la freschezza di quel mattino,
    applaudì con nuovo impeto, e Giorgio dovette sorgere egualmente per
    ringraziare. Quindi girando gli occhi nella sala, non vide che teste
    luminose in un'agitazione di marea. Mary col fidanzato guardava
    dalla seconda fila; era ancora più bella, coi ricci biondi, che
    avevano lo splendore dorato di un raggio. Giorgio vacillò, ricadde
    sulla sedia, e involontariamente si passò la mano sul volto.
    Riprese, ma la definizione così viva dell'alba perdeva nella luce
    crescente la propria chiarezza, sminuzzandosi in un chiacchierio
    affaccendato di tutti i piccoli viventi. Invano il violoncello
    moltiplicava i miracoli della imitazione, ripetendo la stessa parola
    in tutti i linguaggi, chè alla descrizione mancava pur sempre
    l'insieme di un'idea, e quindi la intelligibilità della
    rappresentazione. Giorgio aveva voluto esprimere intimamente tutti
    gli individui della natura, dimenticando che l'uomo non intende che
    l'uomo, e animando l'universo non può dargli che la propria vita.
    Che se nel dramma il protagonista diventa drammatico solo perchè lo
    si riguarda momentaneamente isolato da tutti gli altri uomini, e si
    separa il suo destino singolare dal fato comune; nella sinfonia
    invece tutti gli esseri della natura debbono perdere la
    individualità delle loro sensazioni per esprimere un'idea o un
    sentimento umano. Giorgio invece aveva voluto riprodurre
    integralmente nel proprio poema l'anima di tutti i viventi, e
    piuttosto che una sinfonia n'era risultato un tumulto. Ma come in
    quest'audacia stava la vera originalità della sua composizione e
    ogni speranza della battaglia, l'orgoglio esaltato gli dava
    un'incredibile energia di attacco. Curvo sull'istrumento, che i
    lunghi capelli gli piovevano romanticamente dalla fronte, ne provava
    tutti i fremiti e tutte le vibrazioni. Non vedeva più la luce della
    sala, non sentiva più il calore umano di quella folla. La sua
    immaginazione si era perduta nei quadri del poema, come un
    viaggiatore nella visione dei propri ricordi. Allora appunto il sole
    si fermava sul meriggio con un immenso abbarbaglio di fornace.
    L'aria oscillava, la terra si screpolava, tutte le piante erano
    immobili. Nell'oppressione ineffabile di quell'ora Giorgio si sentì
    oppresso; il respiro gli si fece più difficile, il braccio gli cadde
    quasi penzoloni lungo le gambe. Il sudore della spossatezza gli
    bagnava la fronte. Gli pareva che le corde del violoncello si
    fossero allentate. Poi in quello sfinimento improvviso tutti
    l'abbandonarono, non seppe più bene dove fosse, cosa facesse. Come
    viaggiatore, che, traballando per la stanchezza, cerchi di cadere
    all'ombra di un albero, egli andava involontariamente ad abbattersi
    sotto la malinconia dei suoi giorni più tristi, finendo quasi per
    provare una specie di benessere in quel languore esausto del
    meriggio. Ma il vento tornava a far stormire le frondi, Giorgio si
    ascoltava intorno un susurro. Non si ricordava più da quanto tempo
    suonasse. Il susurro sorgeva dal pavimento con uno scalpiccio di
    piedi, uno stridio di sedie mosse qua e là; un sibilo di parole
    correva tra le file delle poltrone smorzandosi nel fiotto dei
    ventagli, nell'accento soffocato di un'esclamazione, mentre il
    fruscio degli abiti delle signore imitava le prime impazienze del
    vento nell'ora del temporale, e la percossa di qualche canna le
    prime battute della grandine. Giorgio lo avvertiva. Ma intanto che i
    sensi gli si ottundevano nella stanchezza, la coscienza gli si
    rischiarava nella visione della realtà. Sciaguratamente poema e
    concerto non erano nemmeno a mezzo. Allora l'impossibilità di
    giungere in fondo lo colpì in mezzo al cuore come una palla. Non vi
    era più scampo, egli stesso era prostrato, le dita non gli
    rispondevano più agli atti del pensiero. Il meriggio era appunto la
    pagina più faticosa e difficile nell'esecuzione. Il suo cuore ebbe
    una suprema convulsione di ferito, le sue tempia si lacerarono in
    uno scoppio. Il mormorio del pubblico cresceva di minuto in minuto,
    vi si distinguevano i fremiti della collera, i soffii gelati
    dell'ironia; tutte le bocche avevano una moina insultante, tutti i
    gesti un'intenzione malevola. E mentre lo stesso dolore di quelle
    trafitture gli comunicava un'ultima suprema energia, un nome gli
    squillò nell'orecchie: Mary. Giorgio alzò il capo.
    
    In quel momento Mary si arrovesciava sulla spalliera della sedia,
    colle piume del ventaglio fra i denti, guardando il marchese
    Soderini, che le terminava nei capelli la frase di uno scherzo. Gli
    occhi di Mary schizzarono come uno scintillio sul volto di Giorgio;
    il pubblico, vedendolo alzare il capo, era rimasto intento.
    
    Giorgio impallidì come uno spettro, rimase cogli occhi sbarrati nel
    volto di Mary, che non riusciva a soffocare la propria ilarità;
    quindi facendo all'improvviso un gesto orribile, inesprimibile di
    follia si alzò, brandì il violoncello come un violino, e fuggì a
    precipizio per l'usciuolo.
    
    Il camerino era vuoto.
    
    Il cappello a cilindro stava solo nel mezzo del tavolo. Giorgio non
    vide nemmeno la cassa dell'istrumento, si cacciò il cappello in
    testa, e si precipitò per scappare: la sala rumoreggiava. Ma in
    quella rientrarono nel camerino il cameriere e Momo, pallido egli
    pure come un morto. Giorgio aveva una fisonomia insostenibile;
    respinse il cameriere con un gesto, respinse Momo che gli tenne
    dietro, e sempre col violoncello in mano irruppe nel corridoio, calò
    le scale. Momo tentò due volte di trattenerlo parlandogli: il rumore
    della sala cresceva, alcuni signori cominciavano già a discendere.
    Giorgio saltò addirittura gli ultimi gradini, vide un fiacchero
    dirimpetto al portone, vi corse, vi gettò il violoncello, e quando
    fu seduto, non ebbe ancora la forza di parlare.
    
    - La cassa? - esclamò Momo, guardando l'istrumento, per una di
    quelle sensazioni della realtà, inevitabili anche nelle più violente
    tempeste dello spirito.
    
    Giorgio si voltò di soprassalto, e con un'occhiata che intendeva ben
    diversamente la sua domanda:
    
    - Domani - rispose.
    
    Fu la sola parola di tutto il tragitto: Momo aveva dato al cocchiere
    l'indirizzo di Giorgio, ma quando il fiacchero si arrestò, Giorgio
    prese il violoncello, e impose a Momo di restare. Si era ricomposto,
    o pareva; solo la voce gli tremava ancora.
    
    - Rimani: ho bisogno di essere solo - disse con accento sicuro.
    
    Momo fe' un diniego col capo.
    
    - Tu hai paura che mi ammazzi - seguitò l'altro con uno strano
    sorriso - per loro?!
    
    Momo insisteva: allora Giorgio tornò a sedersi, e parlò così
    lucidamente, con tale tranquillità, che l'altro dovette arrendersi.
    Solamente nel salutarlo gli appressò gli occhi agli occhi per
    studiarne bene lo sguardo, e ripetè:
    
    - Lasciami salire.
    
    - No - disse l'altro risolutamente tendendogli la mano, ed entrò
    solo in casa.
    
    Salì le scale al buio, la camera era al terzo piano. Quand'ebbe
    acceso il lume, si guardò involontariamente nella specchiera sopra
    il canterano, e la sua fisonomia stravolta gli fece così male, che
    tutta la collera gli riavvampò. Aveva la faccia di un'immobilità
    marmorea, la bocca ringrinzita da un tremito di paralisi. Con un
    moto violento si slanciò sul violoncello, lo afferrò con ambe le
    mani per il manico, ed alzandoselo sopra la testa lo sbattè con
    rabbia demente a più riprese per terra. Un'ira selvaggia gli
    centuplicava la forza nelle braccia, mentre le schegge balzavano
    grandinando nelle pareti, e le corde slacciate sibilavano per l'aria
    attorcigliandoglisi alle mani con movimenti viperei. Ma egli
    proseguiva, inebriandosi di quel dolore feroce, attraverso il quale
    sentiva confusamente di commettere un'insensatezza e un'infamia. La
    piccola camera pareva in tempesta: il pavimento traballava, i vetri
    delle finestre tintinnivano: una voce tuonò dal piano sottoposto
    senza che Giorgio l'intendesse.
    
    Colle mani sanguinolenti dalle ferite delle chiavi, seguitava a
    percuotere il troncone del manico per terra, trasportato dall'impeto
    di quella furia, colla bocca, che aveva finalmente trovata la
    contorsione del pianto.
    
    Ad un tratto lasciò cadere il troncone, e si chinò a raccogliere una
    carta. Era una lettera. Cogli occhi che leggevano a stento, gli
    parve di riconoscere il grosso carattere dell'Anna.
    
    Il cuore gli si arrestò così bruscamente, che cadde quasi in
    deliquio. Era proprio il carattere dell'Anna, la lettera doveva
    essere nascosta entro il violoncello.
    
    Allora, sotto la pressione di una nuova paura, strappò il suggello.
    
    La lettera era senza busta.
    
    /* «Caro Giorgio, */
    
    «Ti scrivo prima di morire. Ecco, tu adesso sei al concerto, ma io
    ti sento di qui. Troverai il mio testamento in un'altra lettera
    sotto il capezzale; con essa ti lascio la mia poca miseria,
    pregandoti di conservarla anche quando sarai diventato un signore,
    come un ricordo del bene che ti ho voluto, dopo che ti era morta la
    mamma, e ti ho raccolto.
    
    «Eri bello come un angelo, povero Giorgio! Ogni giorno ti facevo
    sempre più mio come se ti avessi fatto davvero. Tu non puoi
    ricordartene, perchè i bambini sono senza memoria, ma io mi rammento
    di tutte le tue cattiverie; ogni mattina ti alzavi più cattivo per
    me. Dopo che hai avuto il violoncello, io non ho contato più nulla.
    Tu sei bello e di una razza di signori: io sono brutta, di povera
    gente, e mi sono ammazzata a lavorare per te. Cosa vuol dire? non ci
    pensiamo più. Quando sarò morta, fa conto, come ti ho detto, che mi
    abbiano seppellita dentro il violoncello: te l'ho dato come il capo
    più caro della mia miseria, tientelo come una reliquia. Adesso, a
    pochi minuti dalla morte, non ho più vergogna di dirtelo, perchè lo
    saprai quando sarò spirata: io ti amo, Giorgio. Ti amo come il mio
    bambino, se ti avessi fatto, come il mio amante, se avessi avuto da
    te un altro bambino. Ma sono vecchia per te; ho trentasette anni,
    sono gobba, e non potrei ispirare che un poco di pietà. Figurati se
    non l'ho capito subito! Ora, che parlo per l'ultima volta, voglio
    parlare. Diventerai un signore, avrai tante belle donne, che ti
    ameranno: io non te lo posso impedire, e non lo vorrei: ma pretendo
    un posto nel tuo cuore, un cantuccio dove non ci sia nessuno, e dove
    tu verrai tutte le volte che avrai bisogno di una mamma, o di una
    sorella. Io sarò sempre lì; mentre le altre donne ti faranno delle
    carezze, o tu ne farai a loro, io ti aspetterò lì colla tua musica;
    tu dopo farai il confronto fra noi e loro, e ci amerai di più.
    Nessuno al mondo ti vorrà mai bene come meriti, e come hai bisogno.
    Si dice che i moribondi vedono nel futuro; bada dunque alle mie
    parole: nessuno ti amerà come io ti ho amato. Se un giorno non te ne
    accorgi, non sarai un gran suonatore.
    
    «Non ho più forza di andare innanzi.
    
    «Quando leggerai questa lettera sarò morta: prendila come la
    preghiera della mia agonia.
    
    «Sta attento. Io non so dove si vada dopo morti, ma fa conto che ti
    vegga sempre, e se un giorno tu dovessi dimenticarmi, o suonare un
    altro violoncello, che tu sia maledetto da Dio, e non sappia più nè
    dove andare, nè dove stare come Caino. Egli non aveva ucciso che suo
    fratello; tu avresti ucciso tutta la tua famiglia nella tua Anna.
    
    «Ti saluto, e credimi per sempre la tua
    
    /* «ANNA VENTURI.» */
    
    All'ultimo periodo la calligrafia era quasi illeggibile.
    
    Giorgio aveva scorso quella lettera cogli occhi balenanti, e un
    convulso, che gli faceva tremare tutto il corpo a verga a verga.
    Aveva i capelli irti, una specie di bava alla bocca. La sua
    fisonomia era diventata orribile nel terrore, la fronte imperlata di
    sudore, il corpo raggricciato in una contorsione di vecchio e
    insieme di bambino.
    
    Quando l'ebbe finita, rimase egualmente fiso, cogli occhi che non
    leggevano più, la ragione schiacciata nel cervello da un gran dolore
    improvviso. Tutti i muscoli gli battevano.
    
    - Oh! - mormorò con gesto disperato, tentando di slacciarsi la
    cravatta per poter singhiozzare; ma non vi riuscì.
    
    Allora barcollando, metà ebbro e metà svenuto, andò tastoni verso il
    letto, e vi cadde. Ansimava, gli battevano i fianchi, gli sibilava
    il respiro. Tutto l'impeto di quella convulsione gli si addensava in
    una necessità di pianto, che gli gonfiava il petto, martellandogli
    il cranio. Furono pochi minuti di uno sforzo e di uno spasimo
    supremo. Era caduto bocconi sul letto colle braccia distese sul
    cuscino, le gambe floscie, che gli tremavano.
    
    Ad un tratto gli mancarono, e cascò pesantemente per terra. Non
    gridò nemmeno, ma poco dopo s'intese un rantolo.
    
    Non aveva potuto piangere...
    
    
    
    Se andate al manicomio di Bologna l'illustre professore Roncati vi
    mostrerà un pazzo interessante. È un bel giovane biondo, coi capelli
    lunghi, la fisonomia nobile e triste. Il professore, che aveva avuto
    l'idea di un'orchestra, voleva farne di lui il direttore; ma Giorgio
    si scusò, spiegandogli a lungo l'impossibilità di ottenere qualche
    cosa di buono con simili elementi.
    
    - Ma ho tutti gl'istrumenti - insisteva il professore.
    
    - La musica è un accordo di pensieri prima che d'istrumenti. I pazzi
    non si accorderanno mai.
    
    - E tu sei pazzo? - gli aveva chiesto ridendo.
    
    - Non lo so: gli altri sono senza testa, io invece sono senza cuore.
    
    Ecco la sua pazzia; dice che non lo ha più, e non si ricorda dove lo
    abbia perduto. Ma se gli fate osservare che gli batte sotto la terza
    costola sinistra, egli vi guarda con due grandi occhi, fa un pallido
    sorriso, e ripete invariabilmente:
    
    - Batte, ma non suona.
    
    CONTRABBASSO
    
    Il teatro Brunetti era già pieno. Una folla incredibile lo stipava
    da cima a fondo. Nella platea, un ciottolato di teste slavate da un
    immenso riverbero, i colori vampeggiavano qua e là sui cappellini
    delle signore; mentre un ondeggiamento sollevava ancora qualche
    fila, appena un nuovo arrivato volesse allinearvisi, o una qualunque
    curiosità serpeggiasse. Non si discerneva più nulla, nè differenza
    di persone, nè diversità di posti. Solamente la riga delle poltrone
    guernite in felpa rossa, serrate dagli altri scanni, che l'altezza
    delle loro spalliere diventava quasi invisibile nell'accavallamento
    di tutte quelle teste, aveva ancora qualche punto sanguigno. E dalla
    porta, sotto l'ombra della prima galleria, che i becchi di tutto il
    teatro non giungevano a diradare; fra le due gradinate, gremite
    quanto la platea e perdute egualmente in una penombra di cantina,
    nuovi flotti venivano a schiacciarsi contro le ultime panche con un
    vocìo soffocato di violenza. Ai lati dell'orchestra, più numerosa
    del solito e piena di un'animazione febbrile, salivano altre due
    file di persone, che gl'inservienti in livrea gialliccia non
    riuscivano a trattenere, e le quali ostinandosi contro ogni evidenza
    a trovar posto, si serravano sotto le colonne fra le gradinate e le
    panche. Un moto sordo di pigiamento dava un tremolìo quasi
    minaccioso alla base del teatro, che le esili colonne di ghisa
    inargentata parevano sostenere con uno sforzo supremo. Ad ogni
    istante, fra la gente già seduta, qualcuno si alzava in piedi per
    respirare a pochi centimetri più in alto, e si girava intorno uno
    sguardo meravigliato. Il caldo era soffocante, l'aria torbida.
    Nullameno la folla cresceva, le teste si moltiplicavano assiduamente
    a tutti gli ordini; la ressa alle porte dell'orchestra, per le quali
    si arrivava ai posti distinti diventati platea, e dalle quali i
    tardivi guardavano sollevandosi sulle spalle di chi stava loro
    innanzi, si raddoppiava. Le corsie brulicavano. E in alto, nel cielo
    del teatro, le scalee del loggione parevano in un'ondulazione di
    bosco, mentre, forse nella vanteria di una sfida alle vertigini,
    molti corpi si protendevano dal davanzale, e molte mani balenavano
    in un gesto inesprimibile; e tutta quella siepe umana restava bruna,
    campata in aria sopra un pericolo, che poteva essere una minaccia
    per chi la riguardava dal fondo agitarsi tempestosamente. Poi il
    susurro della platea, che lassù scoppiava in clamori; le grida,
    nelle quali andavano rotte le parole, e che le volte comprimevano
    ingrossandole, davano un fracasso di tumulto a quel frastuono di
    agitazione, una violenza di rivolta alla impazienza di tutto il
    pubblico, nel quale l'attesa aumentava col numero, e il sangue
    s'infiammava col calore di tutti gli aliti e l'attrito di tutti i
    corpi. La prima e la seconda galleria, trasformate in tanti
    palchetti, erano zeppe di spettatori e di spettatrici. Le signore
    più ricche di Bologna vi si mostravano in vistose toelette, a colori
    chiari, coi volti animati dal calore dell'ambiente e dalla
    eccitazione della serata. Le conversazioni erano vive, i binoccoli
    puntati da tutte le gallerie e da tutti i palchi, dal loggione e
    dalla platea. I forestieri, accorsi numerosamente dalla vicina
    Romagna e dalle altre provincie, si notavano alla curiosità più
    insistente delle domande, agli accenni, ai gesti, coi quali
    s'indicavano le signore, e si movevano sui sedili per attirare gli
    sguardi come nei loro piccoli teatri cittadini; ed alzavano la voce.
    Attraverso le file degli stalli, fra i palchi, di galleria in
    galleria, si scambiavano saluti e convegni per la fine dello
    spettacolo: molti cercavano lungamente fra la folla per sorprendervi
    qualcuno, che avrebbe dovuto convenirvi; gli studenti del loggione,
    colla volgarità chiassosa della loro natura, gettavano a quando una
    parola sconveniente. A fianco della bocca d'opera le barcaccie
    rigonfie di uomini avevano acceso tutto il lusso delle loro candele
    a gas. Gli eleganti si alternavano all'onore del parapetto guardando
    nella moltitudine colla indifferenza sicura dei privilegiati. Ma
    tutti alzavano involontariamente la testa, ed osservavano in alto.
    Ogni galleria aveva tante file di sedie quante ne poteva contenere,
    e non pertanto un'altra fila di uomini, in piedi, si schiacciava
    contro il muro, nelle tenebre, con una regolarità militare. Qua e
    là, disseminate fra gente sconosciuta, si vedevano molte signore
    distinte, alle quali la poca sollecitudine o la troppa avarizia
    avevano impedito di ottenere un palchetto: alcune affogavano nella
    marea della sala, non difese nemmeno dalla rispettabilità di una
    poltrona. Ma il prezzo dei palchetti era salito ad una somma
    provincialmente assurda: due erano vuoti, e solleticavano tutte le
    curiosità. Si sospettava più di una grande famiglia, si susurravano
    molti nomi. Gli uomini alla moda avevano il loro contegno più
    disinvolto, quella finta negligenza di chi, avendo vissuto qualche
    mese a Parigi, non si meraviglia più di nulla; mentre le signore dei
    palchetti, abbassando tratto tratto uno sguardo inorridito sulla
    platea, cercavano d'incontrarsi negli occhi delle amiche, che già vi
    soffocavano, e che quella sera non guardavano a nessuno.
    
    Ma l'orchestra non si apprestava ancora. Secondo il gergo teatrale,
    quella sera avevano fatto porta da tre ore, e da tre ore il loggione
    era pieno. La platea aveva cominciato a riempirsi poco dopo, e molti
    installativisi al buio aspettavano, chi sa da quanto, in piedi,
    addossati ad una colonna o ad una panca che tutto fosse rigonfio, e
    finalmente il direttore salisse sulla scranna. Ma l'orologio
    avanzava con lentezza disperante. Intanto il teatro stipato era già
    uno spettacolo per se stesso. Le piccole lumiere, a tre becchi,
    sospese in giro agli ordini, avventavano una vampa al viso delle
    signore appoggiate sui davanzali, ed illuminavano ogni macchia della
    decorazione. Il parapetto della prima galleria, enfiata come un
    ventre, sembrava vicino a crepare sotto il peso enorme che la
    dilatava; e la sua tinta gialliccia, diluita e scrostata, accresceva
    il terrore di tale impressione. Il teatro con tutta quella luce e
    quella gente pareva più vecchio: i cuscinetti dei davanzali orlati
    di passamanteria, che avrebbe dovuto essere bianca, erano di una
    sordidezza senza nome; la tappezzeria dei palchi, divisi da un
    tramezzo poco più alto dei sedili, e che consisteva in una povera
    carta a quadretti nerognoli e rosei, aveva una povertà più
    vergognosa fra quegli abiti di seta, le trine e i merletti, il
    scintillamento dei colori, i ventagli piumati, i guanti
    grigio-perla, il balenìo dei binoccoli perlati, i razzi delle gemme,
    lo schiumare dei fazzolettini di battista, tutto quel lusso del
    teatro comunale, che ne richiamava la magnifica decorazione a
    rilievi e a dorature, a frangie e a velluti. Una volgarità di ressa
    usciva da ogni palco; le signore in gran toletta, gli uomini senza
    l'abito nero e il piastrone bianco, tutti i posti occupati, così che
    le pose eleganti diventavano impossibili, e le figure aristocratiche
    scapitavano. Alcune grandi dame, forse non mai comparse al Brunetti,
    avevano un'aria impacciata, una specie di malessere, che era forse
    un malcontento: qualche vecchia invece, dalla fisonomia signorile e
    mummificata, tornata fanciulla nell'ingenuità dell'oblio, osservava
    con beata compiacenza; mentre forse nella memoria le si ridestavano
    i ricordi della Malibran, quegli entusiasmi, che oggi paiono
    impossibili, e che allora erano così veri fra quei vecchi senza
    passato, e quei giovani senza presente. Infatti gl'iniziati del
    piccolo gran mondo bolognese si accennavano sorridendo la presenza
    di molte fra le antiche glorie mondane, dimenticate da venti anni
    nel fondo dei loro palazzi; e che riapparivano forse un'ultima volta
    con un ultimo rimasuglio di mode trapassate, un cravattone o una
    bavarina, e mettevano nella confusione di un palchetto il rilievo
    delle loro fisonomie di antenati, il disaccordo della loro
    immobilità. Poi tutto il teatro ondulava, le fiammelle del gas
    avevano uno sbattimento increscioso, tutte le teste si movevano, i
    discorsi fluttuavano in un mormorio incessante; il telone della
    bocca d'opera, un immenso lenzuolo giallo a toppe, cogli orli
    segnati da due o tre striscie cremisi, che gli davano un'apparenza
    di tendone da fiera, palpitava; un'agitazione sommessa scuoteva
    tutti gli spiriti, un incomodo scomponeva tutte le pose. Sotto
    l'ombra della prima galleria, dalle gradinate e dalla platea, dal
    loggione e perfino dall'atrio gremito più che un mercato, saliva e
    discendeva un fremito mano mano più tempestoso, una trepidazione
    barcollante, nella quale si sentivano come degl'impeti di collera e
    delle sospensioni di minaccia. Ma nell'aria già morbida di tutti
    quei fiati cominciava a pesare un'oppressione sempre più grave: la
    freccia dell'orologio s'appressava alle otto, e molti sguardi si
    alzavano alla volta, osservando il timpano di cristallo e i quattro
    sfiatatoi agli angoli, che naturalmente non si aprirebbero per tutta
    la sera. Una voce dal loggione, dove si soffocava per tempo, avventò
    una protesta, alcune altre le si unirono, ma tutto il teatro si
    volse sdegnato, e le voci tacquero. Fuori l'aria era così frizzante,
    che, aprendo la vetriata, qualche corrente pericolosa poteva
    invadere il palcoscenico. Ad un tratto il direttore, in abito nero,
    salì sulla sedia. Un sibilo di silenzio corse per tutto il teatro, i
    suonatori guardavano le partiture, l'orologio era quasi sulle otto.
    Il pubblico ebbe un enorme sospiro di soddisfazione: lo spettacolo
    sarebbe puntuale. Ma nel loggione e sotto la prima galleria il
    murmure si allontanava come un susurro di vento per un bosco; tutti
    si adattavano il più comodamente sugli scanni, le fisonomie si
    ricomponevano, le pose da teatro ricomparivano. La bacchetta del
    direttore percosse la lingua di latta sul leggìo, e l'orchestra
    attaccò la sinfonia. Era la Traviata di Verdi, cantava la Patti. Il
    pubblico stette fra contegnoso e disattento. L'orchestra diretta
    mediocremente eseguiva colla stessa bravura che al Comunale, poichè
    composta all'incirca degli stessi elementi: i violini erano
    numerosi, tutti allievi o quasi dell'illustre Verardi. Mano mano il
    pubblico si faceva più immobile, gli sguardi si aguzzavano. La
    sinfonia passò inosservata, forse qualche frase destò un fremito, ma
    l'opera era troppo vecchia per tutte le curiosità, troppo udita per
    tutti gli orecchi, e cantavano la Patti e Niccolini. Però verso il
    finale, quando il telone parve ondeggiare insensibilmente, tutto il
    pubblico ebbe un sussulto. La Patti doveva essere in iscena, la
    grande artista, la diva, come la chiamavano i giornali, l'usignolo,
    come molti se la ricordavano ancora, diventata adesso una cantante
    drammatica, e che ritornava al Brunetti, perchè il Comunale non
    poteva contenere tutta la folla necessaria per i suoi diecimila
    franchi di ogni sera. Il telone fiottava già sotto il soffio di
    tutte le bocche, e la frase finale della sinfonia si smorzava senza
    che la sua tragica mestizia impietosisse pure un cuore. Per un
    momento sembrò che nessuno respirasse, poi come se l'anelito di
    tutto il pubblico avesse uno scoppio, il telone si scisse e sparve
    in alto sotto le quinte. La Patti era in iscena, seduta sopra un
    divano, discorrendo col medico e con alcuni amici. Tutti non videro
    che lei. Era vestita da ballo, scollacciata, con un abito
    elegantissimo, volgendo le spalle al pubblico. Nella platea sorse un
    applauso di saluto, ma la curiosità e l'emozione erano tali, che
    l'applauso fu scarso, ed ella si torse appena colla testa per
    coglierlo. Quindi i cori degli invitati entrarono, ed ella si alzò
    gettando loro le prime note in una parola d'invito. Allora quella
    donnina, piccola, colla fisonomia rapace, gli occhi neri, secca,
    colle spalle aguzze, la persona senza forme, ma circonfusa di
    un'eleganza che impediva ogni analisi, campeggiò fra quella folla di
    straccioni, abbigliati di un povero uniforme in velluto da
    gentiluomini in un secolo equivoco, colle calze di cotone e i pizzi
    rammendati. Era in piedi, trascinando fra gli abiti orlati d'oro
    annerito delle coriste il suo magnifico strascico, sul quale
    scintillavano i ganci brillantati; ma così straniera a quella festa,
    che la sua contraddizione col teatro sprizzò vivamente. La scena era
    la solita di tutte le rappresentazioni. Una specie di gran salone di
    quell'architettura da palcoscenico, la quale fortunatamente ha
    trovato pochi imitatori, occupava tutta la bocca d'opera, con una
    sola porta nel fondo, e una tavola da locanda nel mezzo, lunga e
    stretta. La tavola aveva una tovaglia di carta, e una vecchia tenda
    orlata d'oro, che la fasciava fino ai piedi, dandole una strana
    fisonomia da altare e da banco di pasticciere. Sulla tavola i soliti
    calici di legno inargentato, quattro candelabri di bronzo, una conca
    in legno dorato piena di fiori naturali, quattro pasticci di
    cartone, cinque o sei bottiglie di legno nero col collo bianco, e
    due bottiglie vere di champagne dinanzi alle poltrone, che
    interrompevano alle estremità il giro delle sedie. Le poltrone,
    vecchio stile indefinibile, erano dorate, in felpa rossa; mentre le
    altre sedie ad angolo retto le avrebbero superate in ricchezza se la
    loro doratura fosse stata più visibile e lo stile meno sgraziato; ma
    non avevano imbottiture di sorta. Evidentemente a quella cena
    dovevano assistere due personaggi. Non v'erano altri mobili.
    Solamente due tavolini dorati, da muro, sostenevano nella parete di
    carta due specchi dipinti, bianchi da un lato e turchini dall'altro,
    per imitare possibilmente il gioco luminoso dei cristalli: e due
    ritratti di antenati fiancheggiavano la porta, adorna di un gran
    lavoro di stucchi, a volute e fiorami. Il sofà era rimasto vuoto.
    Alfredo doveva arrivare ad ogni istante; infatti entrò poco dopo col
    visconte suo amico. Ambedue erano abbigliati come coristi, solamente
    di abiti più ricchi; una casacca smollata colla bavarina, le
    orlature a merletti, i calzoni larghi a mezza gamba, le scarpine
    scollate, e un cappellone piumato nella mano. Impossibile immaginare
    un costume più falso, e due fisonomie meno amabili. Alfredo aveva
    una grossa testa a lineamenti regolari, che il volgo poteva forse
    trovar bella, coi lunghi capelli neri, divisi femminilmente sulla
    fronte e accartocciati sulle orecchie, ma che sulle sue spalle quasi
    esili, e con quella rotondità piuttosto boffice delle guance, gli
    davano un'aria di fantoccio. Il visconte era insignificante come un
    cameriere. Un mormorìo di ripugnanza corse fra il pubblico, che
    probabilmente si ricordò l'Armando di Dumas. L'apertura drammatica
    era presso che la stessa, però quale differenza nel secondo
    personaggio! La Patti poteva ben essere Margherita: forse non aveva
    nè la sua anima buona malgrado tutti i capricci, nè il suo corpo
    ancora soave di tutta la freschezza della gioventù e aromatizzato
    dal sentimento della morte vicina; ma la magrezza della sua persona
    poteva ben far credere ad una tisi, e lo sfarzo inimitabile del suo
    abbigliamento bastava a spiegare tutto un presente di dissipazioni
    parigine, di milioni fusi con uno sguardo, di amori pagati con poco
    più di un sorriso. Le camelie, che le guernivano il vestito e le
    biancheggiavano sulla testa, erano forse una vera predilezione di
    questa donnina, che, avendo odorato tutti i fiori della vita,
    preferiva adesso per orgoglio nauseato i fiori senza profumo e l'uva
    candita, ultimo ricordo della sua infanzia povera nei campi, che le
    ritornava falsificandosi attraverso la vita di cortigiana e la sua
    cucina di malata. I lumi, il belletto, la biacca, tutte le risorse e
    le menzogne delle tolette teatrali aiutavano nella fantasia del
    pubblico l'immagine di Margherita, così poco vera e così poco
    grande, e che nullameno ha commosso per dieci anni l'Europa; ma
    Armando, questo provinciale ingenuo sino alla goffaggine, che si
    trova un po' dappertutto, e attraversa per un istante la gran vita
    mondana per finire in un impiego subalterno, dove oblia prontamente
    la breve primavera della gioventù, che può averlo reso poeta un
    mattino: l'Armando di Dumas, che Parigi ha ingentilito senza
    corrompere, che la passione spiritualizza, e la sincerità rende
    quasi simpatico, non era certo riconoscibile in quel figuro vestito
    di velluto, coi calzoni orlati di una passamanteria, che gli velava
    i magri polpacci, e quella testa, che avrebbe figurato abbastanza
    bene nella vetrina di un barbiere fra le guglie dei ceroni e le
    iridi delle boccette.
    
    La cena fu brevissima: gli ospiti si erano appena seduti, che
    Alfredo fu invitato a ripetere quel brindisi di una intonazione da
    baccanale, con cui Verdi ha creduto inutilmente di soddisfare alla
    doppia esigenza di una scena di baldoria e di un coro. Alfredo non
    fu nè gran signore, nè gran tenore; non ebbe alcuna delle finezze di
    entrambi, e sparve quasi nella risposta di Margherita. Ella fu
    splendida di brio, e quando tutti si alzarono, e aggirandosi fra di
    loro col bicchiere in mano cantò l'ultimo ritornello, se quella
    gente fosse stata davvero elegante, sarebbe parso di assistere ad
    un'ultima ora carnevalesca in casa di una grande mantenuta. Non fu
    che un lampo, il pubblico non lo colse, e rimase nella prima
    diffidenza. Sciaguratamente il biglietto era troppo alto per una
    città di provincia, e lo spettacolo solamente alla prima scena,
    perchè gli spettatori lo avessero già dimenticato. Quindi Violetta,
    sorpresa da un deliquio, andò a cadere sul sofà; Alfredo, che stava
    per uscire cogli altri, si trattenne, e le fece quella celebre
    dichiarazione dello stile verdiano il più puro, nella quale l'amore
    del collegiale è forse reso con tutto il caldo ed i fiori della sua
    rettorica. Non era certo la dichiarazione di un elegante ad una
    donna del genere di Margherita; ma se il suo soffio lirico,
    arrivando da una terra vergine ed ardente, saliva troppo in alto,
    dissipava con felice contrasto i fumi grassi di quella cena, per
    crudele fatalità dei coristi troppo apparente. Ella lo sentì, e come
    desta da un olezzo di aria nativa, ruppe in un grido di emozione.
    Quel linguaggio poetico, il solo genere di linguaggio falso che non
    avesse udito da molto tempo, e che in quel momento esprimeva una
    vera passione, le ricordò forse un altro mondo, dove si amava e si
    viveva altrimenti: se non che ricomponendosi d'improvviso, ed
    avanzando la fronte verso di lui come per bagnarla nel sentore delle
    sue ultime parole, con un sorriso ancora gaio, ma già diversamente
    gaio di poco dianzi, quando agitava nella piccola mano il bicchiere
    dello champagne, e con una bonomia intenerita nella voce, che era
    già una tristezza nel cuore, consigliò ad Alfredo il solito
    consiglio di fuggire e di amare un'altra. Il rimedio volgare era
    forse ben adatto, ma la piccola beffa, che lo accompagnava in fondo,
    ne impediva singolarmente la pratica. Malgrado la bontà di quella
    commozione, il gesto e le parole di Margherita avevano ancora la
    monellesca amabilità, il pungente scetticismo della mantenuta:
    Alfredo n'era impacciato, Violetta tornava a riderne.
    
    Il suo magnifico abito di raso aveva dei sibili di serpente, mentre
    il suo ventaglio piumato, che valeva forse tutto il patrimonio di
    Alfredo, le batteva sul petto colla impertinenza superba di chi non
    ha cura nemmeno di se stesso. Se Alfredo non fosse stato sincero,
    avrebbe provato la falsa vergogna di quella posizione, e sarebbe
    fuggito; invece fu goffo e fu amato. Le donne pretendono sempre un
    sacrificio, e preferiscono fra tutti quello di un'umiliazione. Il
    dramma vivo di Dumas e di Verdi cominciava a questo punto. La Patti,
    fino allora una prima donna impeccabile, fu improvvisamente
    l'artista, che sapeva recitare come la Ristori. Seduta languidamente
    sopra quel povero sofà rosso, sorreggendosi la testa colla mano, in
    un abbattimento, che tradiva già un'implacabile malattia, parve
    perdersi silenziosamente nel vuoto gelido del passato. La sua posa,
    che avrebbe entusiasmato uno scultore per la involontaria
    espressione di tristezza, era già un capolavoro. A che pensavano in
    quell'istante Violetta e la Patti? Alla dichiarazione di Alfredo, o
    di Niccolini? A quell'amore vergine, idolatra, del povero
    provinciale, che ha vissuto quattro anni nel quartiere latino
    ricordandosi la inevitabile Provenza fra i sogni incendiarii di
    Parigi, dove la vita ha ancora più seduzioni dell'immortalità, e i
    propositi feroci delle ambizioni soccombono quasi sempre alle
    tentazioni del piacere? O all'amore tardivo di questo tenore
    ammogliato con quattro o cinque figli, la voce già velata e la
    fisonomia teatrale piena di rughe, che la seguiva per tutto il
    mondo, attraverso le ironie del pubblico e le indiscrezioni dei
    giornali, e che forse l'amava con tutto l'egoismo di un uomo, il
    quale sente mancarsi ad un tempo la vita dei sensi e la vita
    dell'arte? O sentiva il terrore della solitudine in quell'ignobile
    teatro di provincia, dove la maggioranza l'ammirava forse più per la
    paga che per la voce, ed entusiasmandosi per l'artista conserverebbe
    forse tutto il proprio disprezzo per la donna? O la sua grand'anima,
    sparendo davvero nel tragico destino di Margherita, si fermava come
    lei a mezzo il corso carnevalesco della propria esistenza, sorpresa
    da una di quelle ripugnanze, che sono come l'esplosione di un
    disgusto accumulato insensibilmente, una negazione disperata di
    tutto ciò che si è voluto preferire nel mondo, i diamanti veri e i
    sentimenti falsi, il lusso del corpo e la miseria dell'anima? E la
    sua voce aveva delle trepidazioni di spavento; mentre, passeggiando
    per il palcoscenico cogli occhi sbarrati, ella sembrava cercare una
    spiegazione su quelle asse, dalle quali si erano alzati tanti
    desiderii e sulle quali erano cadute tante speranze di donne. Forse
    in quell'istante il suo pensiero si era appannato, e la coscienza le
    si destava alla puntura di un nuovo sentimento. Poi le ultime parole
    della dichiarazione le tornarono involontariamente sulle labbra,
    quando, lontano dalle quinte o dalla strada, la voce di Alfredo
    risalse e la percosse. Era un'eco del cuore o un'illusione
    dell'orecchio? O il povero innamorato, che aveva giurato di partire
    per sempre e che ella aveva trattenuto scherzosamente con un fiore,
    era ancora sotto le finestre, a Parigi, dove la folla passa come la
    fiumana; e, non sapendo spiccarsene, le ripeteva di laggiù a tutta
    gola, come un vero ragazzo, la sua prima dichiarazione? Forse ella
    non lo comprese bene, ma la follia di quell'insistenza le rianimò
    tutte le follie della sua vita tragica ed allegra. Perchè amare? Chi
    amare? Comunque principii, l'amore non finisce sempre ad un modo,
    nella voluttà prima, nella nausea poi? La morte non era essa pure la
    nausea della vita? Se Alfredo l'amava davvero, tutti quelli, che si
    erano rovinati per lei, l'avevano amata almeno altrettanto, poichè
    qualcuno n'era morto. Avevano goduto con lei, poi l'avevano
    abbandonata. E godere dunque, sempre e dappertutto, sinchè si può
    essere o si può ricevere una voluttà! La fiumana di Parigi, che
    passava a notte così avanzata sotto le sue finestre, era sempre così
    torbida; tutti i caffè erano aperti, i clubs affollati, i teatri
    rilucenti, tutti si apprestavano a godere, gli uomini offrivano un
    desiderio, le donne donavano una soddisfazione, nessuno aspettava il
    mattino, nessuno credeva all'indomani. Essere bella ancora, avere
    più diamanti che sorrisi, più sorrisi che pensieri, era tuttavia un
    destino; e mentre laggiù, in fondo, la massa della popolazione
    lavora e stenta, non avere che a bramare per ottenere, essere una
    piccola regina, alla quale tutti i re della ricchezza offrano un
    trono; bella come un capriccio e debole come una malata, giovane
    come il mattino e nullameno moribonda come la sera. Si era decisa
    nuovamente. Il suo gesto piccino aveva avuto l'espressione
    superbamente scettica del giuocatore, che arrischia per la centesima
    volta l'ultima posta. Allora la sua canzone di guerra col mondo
    scoppiò in un ritornello pieno di trilli e di baci, di note acute e
    di sentimenti leggieri come il suo sacco di giovane volontaria nelle
    bande del brigantaggio femminile. La sua voce aveva degli scoppi di
    fanfara, l'abito le garriva come una bandiera al vento, il ventaglio
    brillantato balenava come un'arma omicida. Una gaiezza di recluta
    alla prima marcia le animava tutti i moti, e le accendeva già i
    fuochi della vittoria negli occhi neri come l'abisso. Non era più la
    Violetta della cena, sofferente ed avvilita pur non volendo
    sembrarlo; ma la Violetta di vent'anni, l'etèra moderna, che deve al
    lusso tutto il proprio prestigio, e uccide col lusso tutti quelli
    che lo sentono. L'ingenuità di questa vanteria, uscendo
    dall'abbattimento di poco d'ora, aveva la soavità di una brezza e il
    fresco mordente di un'alba. Così trovando nell'ultima ostinazione
    della vanità femminile le stesse lunghe compiacenze delle sue prime
    conquiste, si attardava sulle frasi del soliloquio, dilettandosi ad
    esaurirne la sonorità nelle gamme più bizzarre del ritmo, nelle
    pazzie più scapestrate della modulazione. Quindi sollevando
    improvvisamente una parola la sparpagliava in un turbine di note, la
    raggruppava ancora, l'avventava sopra un'altra, la perdeva in una
    discesa precipitosa; e riafferrandola giù nel crepuscolo dell'ultima
    nota, la gittava entro un gorgheggio, riscagliandola in alto, sulla
    cima più acuta di un trillo, dove vibrava come uno squillo e
    raggiava come un baleno. E la sua mano secca sotto il guanto
    grigioperla sembrava appuntarla con un gesto indefinibile, mentre il
    suo volto splendeva di luce febbrile, e il suo sorriso passava sulle
    teste della platea come un riverbero, che faceva vacillare i cuori e
    battere le palpebre.
    
    Poi tutte le mani si percossero, e una nuvola gialla cadde sugli
    sguardi del pubblico. Il primo atto era finito. Allora il teatro fu
    in sommossa: quasi tutti gli uomini si alzarono in piedi, quasi
    tutte le signore mutarono attitudine. Le conversazioni
    rumoreggiavano.
    
    - Dunque?! - proruppe, torcendosi come uno scoiattolo sulla sedia,
    il violoncellista dell'ultima fila al secondo contrabbasso della
    prima, appoggiato al parapetto della ribalta e sorreggendosi sul
    manico dell'istrumento - mi pare che questo sia canto! La tua
    Frezzolini non ci ha che fare.
    
    Ma s'interruppe dispettosamente per guardare nel pubblico, che
    lasciava finire il primo applauso di convenzione, obliandosi nel
    fracasso dei discorsi.
    
    - Vedi - proseguì levandosi in piedi senza parere niente più alto,
    cogli occhi grigi, scintillanti come quelli di un pollo, e la voce
    stridula come una lima: - vedi - ripetè, mostrandogli il pubblico
    con un gesto veemente di disprezzo; - non hanno capito. Hanno
    battute le mani agli ultimi trilli, e diranno che la Donadio li sa
    fare anche lei. Ti ricordi Salvini? - seguitò stringendosi la fronte
    illuminata da un pensiero - la Patti è Salvini che canta.
    
    - La Cazzola allora.
    
    Il violoncello si volse al violinista, che aveva parlato, un ragazzo
    dai capelli rossi e la fisonomia ebete, e insultandolo collo
    sguardo:
    
    - Questo dev'essere per te un ricordo di muratore.
    
    Il contrabbasso ebbe un principio di sorriso.
    
    Era un vecchio alto e grasso, la faccia del tutto rasa, con un
    cravattone nero, che a prima vista sembrava un collare. Due ganascie
    di gran mangiatore, penzoloni sotto il mento, gli scoprivano due
    magnifiche fila di denti ancora bianchi, capaci di stritolare tutti
    gli ossi di un pranzo. La calvizie inoltrandosi gli aveva dato un
    po' d'intelligenza alla fronte, sotto la quale una bonomia
    inalterabile ammolliva ancora i suoi lineamenti linfatici,
    congiungendogli insensibilmente il sorriso della bocca con quello
    degli occhi. Il resto della persona gli spariva dietro l'enorme
    contrabbasso, sul quale la sua mano di pizzicagnolo posava con una
    specie di poderosità pacifica. Un immenso soprabito, tagliato a
    giacca, coi bottoni neri di prunello sopra un fondo color tabacco,
    gli ingrossava il busto smollato dentro un immenso corpetto, sul
    quale una collana femminile, d'oro, attorcigliata con un resto di
    pretensione, faceva sospettare di qualche antico orologio a cipolla.
    Ma in quel momento Bartolomeo sembrava concentrato in un pensiero
    difficile. I suoi sopraccigli, grigi e ricurvi sugli occhi,
    s'andavano contraendo, mentre una contentezza ilare gli saliva dalle
    labbra, illuminandogli le guancie tinte ancora di un magnifico
    vermiglio. Rimase qualche minuto così, poi la marea del teatro,
    sorpassando la ringhiera dell'orchestra e scompigliandola, lo destò.
    Il teatro reboava. Un rumore composto di un'infinità di mormorii, di
    gesti, di cenni, di occhiate e di sorrisi riempiva tutto l'ambiente,
    agitandone l'aria, che si vedeva distintamente bruciare sulle
    fiammelle del gas. Il caldo era opprimente, tutte le fronti
    rilucevano, i ventagli susurravano sui petti delle signore, i
    fazzoletti biancheggiavano in tutte le mani. Nella platea era un
    continuo sorgere e risedersi, nei palchi già pigiati le visite
    sopravvenivano e si pigiavano, il frastuono cresceva per le
    gallerie, scoppiava in grida sul loggione. Lassù il calore
    dell'entusiasmo, raddoppiato da tutto l'altro del gas e della gente,
    doveva essere arrivato ad una temperatura di deserto africano.
    Nullameno panche, gradinate, muri, parapetti, tutto rimaneva
    letteralmente imbottito di figure umane; lo skacò placchettato di un
    poliziotto, arenatosi lassù come in un banco di sabbia fino al
    collo, gettava qualche riverbero metallico fra quel grigio
    tumultuoso di bruma: e dalla platea all'atrio, per la porta, l'onda
    di coloro, che uscivano e rientravano, quelli che non potevano più
    reggere all'arrembatura, e quelli non ancora entrati, i quali non
    speravano se non in ciò, s'accavallava in grossi fiotti, vibrando
    nel frastuono della sala grida di soffocazione. Le signore della
    platea erano già ardenti, le altre dei palchi scintillavano. La luce
    profusa di tutte le fiamme diventava la sola aria dell'ambiente, non
    si vedeva più una faccia pallida, tutti gli occhi rutilavano, tutte
    le bocche si movevano. Solo in un palchetto una principessa
    ottuagenaria, vestita di un moerro del suo tempo, con una fisonomia
    di mummia, ancora spiritosa quando parlava, e la nipote gracile,
    smorta, vestita di bianco come un angelo, diafana come una visione,
    fredda come una statua, sembravano non partecipare alla confusione
    bollente della serata. La vecchia teneva quasi sempre la testa
    bassa, la giovane l'appoggiava al tramezzo, e guardava in alto con
    due occhi affossati, che sulla sua faccia impassibile avevano una
    luce spettrale. La gente si voltava spesso a guardarle. Poi su
    quell'agitazione di marea, contenuta e raddoppiata dalle gallerie,
    fra tutte le conversazioni, nelle teste e nei cuori, suonava il nome
    della Patti. Quel primo atto, un capolavoro per qualche iniziato,
    non aveva soddisfatto interamente al gusto sempre grossolano, e
    questa volta avaro del pubblico. Ma quel turbine di note esplose
    all'ultima scena, e l'atmosfera del teatro dissolvevano già ogni
    incertezza; mentre la famigliarità di tutte le pose pigiate e delle
    attitudini compromesse disponeva involontariamente a maggiore
    compiacenza.
    
    Poi la bacchetta del direttore percosse sul leggìo, che il pubblico
    non si era ancora ricomposto.
    
    L'idillio campestre della Signora delle Camelie, narrato dal Dumas
    con minutezza così vera e commovente, si apriva invece con una
    romanza di Alfredo, eco indebolita dall'altra del Rigoletto, senza
    luce e senza calore. Quel povero Alfredo, che per far credere di
    essere in campagna, compariva in stivaloni di pelle lucida, vestito
    di velluto granatino, i pizzi ai polsi ed al collo, il gran cappello
    piumato nelle mani per darsi un contegno, era ancora più ridicolo
    che alla presentazione del primo atto, nel quale la goffaggine
    stessa della situazione poteva far scomparire la sua. Egli venne
    dritto alla ribalta, come chi si affretti a sdebitarsi di un
    incarico, e cantò con sicurezza di vecchio tenore la propria
    felicità di giovane innamorato. La frase leziosa del finale gli
    valse il primo applauso della sera, e il dramma si riannodò
    immediatamente. Colla delicatezza sempre poco delicata delle sue
    pari, Violetta voleva vendere i cavalli guadagnati in altri amori
    per aiutare quello di Alfredo, e seguitare quella vita di campagna,
    che Verdi in tutto il melodramma non ha voluto svolgere con una
    scena sola. Forse il suo temperamento tragico e lirico ad un tempo,
    innamorato delle catastrofi e delle passioni esplodenti, non ha
    osato di affrontare un interno casalingo, la mattina, quando l'aria
    è fresca, il cielo azzurro, e la casetta apre tutte le proprie
    finestre alla primavera. Una magnifica scena, come nel Tristano e
    Isotta del Wagner, avrebbe potuto spiegare il passaggio troppo
    brusco dell'ultima decisione di Violetta nel primo atto al
    sacrifizio nel secondo, appena si presenta il padre di Alfredo; ma
    Verdi non potè o non volle, e senza saper come si siano uniti,
    Alfredo e Violetta si separano immediatamente. Così quest'idillio,
    quest'amore, sul quale si è tanto discusso e che tanti hanno provato
    nella vita, non trova dentro l'opera destinata ad immortalarlo una
    sola frase, che lo renda nell'abbandono gentile della confidenza,
    quando il mondo lo aveva quasi obliato, e la natura lo riconfortava
    colla sua eterna salute. Ma Dumas nella Signora delle Camelie
    disegnava un carattere, e Verdi nella Traviata espresse il solito
    amore di tutti i suoi melodrammi, senza preoccuparsi delle
    differenze, che potessero correre fra Violetta e le sue altre
    eroine. Nella gamma dell'amore egli arriva subito ed
    involontariamente alle note più acute, alla prepotenza più acre del
    desiderio o al dolore più spasimante del sacrificio. Come per Victor
    Hugo il personaggio è per lui una forma vuota, nella quale gittare
    indifferentemente una passione o un pensiero, che lo animi di quella
    vita eccessiva, cui l'uomo non prova davvero se non in qualche
    terribile coincidenza. Quindi l'architettura complicata dei loro
    drammi, le passioni irrefrenabili, gli eroismi fatali, le
    contradizioni strazianti, tutto l'apparato romantico, che,
    trasfigurando la realtà, squilibra incessantemente il sentimento del
    personaggio stesso e del pubblico. Malgrado la differenza di nazione
    e di razza, Manrico e Radamès sono lo stesso individuo, come Gilda e
    Violetta, Ernani e Don Alvaro, Riccardo e Don Carlos, Dea e Cosetta,
    Gilliat e Guynwplaine, il marchese di Lantenac e Don Silva; perchè
    Hugo e Verdi fanno delle statue e non degli uomini, e sono come due
    fratelli, dei quali il minore aspetta che il primogenito abbia
    parlato per cantare. Talora si uniscono, e ne esce una grand'opera
    come il Rigoletto; talora non s'intendono, e producono due mostri
    come nell'Ernani. Così della Signora delle Camelie, aneddoto triste
    e volgare della cronaca parigina, che Dumas ha narrato con vecchia
    sapienza di novelliere e giovane entusiasmo di predicatore, Verdi ha
    fatto una tragedia, nella quale non si sente che un grido di amore,
    con quattro personaggi insignificanti come una decorazione, una
    trama molle quanto una matassa, una sceneggiatura falsa come quella
    di un giornale illustrato, un processo psicologico, che mutila i
    caratteri e deforma le situazioni. Invano l'anima, stanca da
    quest'alternativa di cicalio e di gemiti, o disorientata da tutti
    questi avvenimenti, che cadono come tante tegole dai tetti, domanda
    la dolce malinconia di quest'amore, nel quale il sorriso della tisi
    ingannava così spesso ambo gli innamorati, e la verginità
    dell'inesperienza nell'uno e dell'oblio nell'altra si fondevano come
    due soffi in un bacio, due note in un accordo. La figura di
    Violetta, questa donna, della quale ogni particolare dovrebbe essere
    supremamente elegante: sempre leggiera anche nelle violenze più
    inebrianti del senso, o negl'impeti più disperati del sacrifizio:
    sempre mantenuta anche nel breve idillio coniugale, poichè invece di
    morire ricacciandosi nella miseria morale della sua vita anteriore,
    riprende facilmente il corso delle antiche feste: sempre sfarzosa e
    sempre con un uomo, al quale concede le proprie notti: la figura di
    Violetta così vera nelle contradizioni e così falsa nell'eroismo,
    fragile e terribile nella sua effimera prepotenza di grande mondana,
    spregevole e pietosa nell'ultima lotta col destino, contro al quale
    non ha mai saputo lottare colle forze del lavoro e le energie della
    volontà; questa figura composita come i suoi pranzi, i suoi profumi,
    le sue tolette, le sue preferenze e le sue antipatie, diventa una
    figlia nobile dalla bellezza spirituale, colle stigmate del
    romanticismo sulla fronte; povera anima che aspira al cielo,
    assetata di amore e di ideale, che parrebbe un angelo smarrito sulla
    terra, se i singhiozzi laceranti del suo petto di tisica non la
    tradissero per una donna. La bianchezza della sua fronte di
    predestinata è la stessa di Gilda, la vergine soave; il sacrificio
    del suo amore quello medesimo di Eleonora, l'altera castellana: il
    suo cuore è sempre puro, la sua testa illuminata dal sole della
    poesia. Malgrado la differenza degli abiti e delle parole, mutando
    scena, ella sarebbe probabilmente l'una e l'altra; e quando si
    sentirà soccombere sotto il peso del dramma, o morire nell'ultima
    stretta della catastrofe, troverà la frase di quelle martiri,
    ineffabile e sublime come l'ultimo accento dell'amore e la prima
    parola della fede.
    
    In quel momento Violetta stava attendendo il padre di Alfredo. Era
    vestita semplicemente, ma le cattive abitudini della mantenuta, o la
    falsa vanità della cantante le avevano fatto mettere una moltitudine
    di brillanti sopra quel corsettino da campagna. Le signore, che non
    l'abbandonavano un solo istante col cannocchiale, susurrarono
    mostrandosi la raggiante ricchezza di quelle gemme. Evidentemente
    Violetta preferiva i diamanti ai cavalli. Ma il padre di Alfredo,
    Moriami, bell'uomo camuffatosi male appositamente, dal portamento
    vivace e la voce poderosa, entrò poco dopo. Con una condiscendenza
    inesplicabile per la decorazione della scena rimproverò acerbamente
    a Violetta l'estrema eleganza della casa, che pareva appena quella
    di un giardiniere; e perdendosi subito dopo nelle rimostranze di
    padre offeso dalle follie del figlio per una donna, stava per
    trascendere, che Violetta lo trattenne con un gesto. Allora la vera
    ed unica scena dell'opera scoppiò; Moriami fu un padre ordinario, ma
    un baritono corretto, la Patti un miracolo di arte e di natura. La
    insulsaggine del pretesto inventato da Dumas e musicato da Verdi per
    mettere la tragedia nel racconto e l'equivoco sulla scena, uccidendo
    nell'anima di Violetta la vita e in quella di Alfredo l'amore; la
    povera storia di quella sorella perduta in un villaggio di Provenza,
    la quale deve sposare un possidentuccio qualunque con centomila lire
    di patrimonio, mentre ella ne porterà forse ventimila in dote, e che
    spaventati dallo scandalo di Alfredo non possono più unirsi, come se
    le amanti dei fratelli disonorassero le sorelle a cinquecento miglia
    di lontananza; questo padre, che arriva dal fondo della Provenza
    attirato dai debiti del figlio, una delle più forti attrazioni, e
    per persuadere la donna, che egli crede il suo mal genio, ad
    abbandonarlo, non trova nulla di meglio a dirle che lo scrupolo
    piuttosto ebete del proprio futuro genero; la musica triviale come
    le parole del racconto e la posizione del dialogo, la cantilena dei
    ritornelli, la nudità del motivo e la miseria dell'accompagnamento,
    tutto si illuminò e disparve alle prime parole di Violetta.
    Coll'accento della paura, che la sorpresa intenerisce ed aggrazia,
    la voce rotta dai singhiozzi, sublime di debolezza e di entusiasmo,
    ella gli confessò il proprio amore per Alfredo, amore quasi santo
    per la redenzione della donna, quasi sacro in quella brevità di
    tisi. E mano mano che il canto angosciato le si affievoliva, quasi
    il solo pensiero di perdere Alfredo le rompesse l'ultimo filo di
    voce, le sue parole frettolose risuonavano con un borbottio
    d'invocazione, e i suoi occhi si figgevano nella faccia del vecchio
    con espressione imbambolata. Forse col presentimento degli infelici
    aveva paura di quel volto bonario, sul quale le passioni non avevano
    mai balenato, e che solo la morigeratezza e l'egoismo avevano potuto
    conservare così fresco. Tutto in lei pregava per l'amore. Ma colla
    testardaggine della gente onesta, la quale, trovandosi ad avere dal
    proprio canto la virtù e l'interesse, diviene scettica sulla
    importanza delle passioni, egli seguitò a darle i consigli di
    circostanza. Nè la magrezza della sua personcina, nè il rossore
    della febbre l'impietosivano: non si accorgeva di strapparle dalle
    labbra l'ultima goccia di cordiale, di soffocarle nel cuore l'ultima
    speranza della vita. E la musica nella sua fraseologia rettorica e
    plebea esprimeva abbastanza bene questo carattere vero a forza di
    essere brutale, questa posizione tragica, nella quale la ragione
    parlava col vecchio e la poesia singhiozzava colla giovane.
    Naturalmente il pianto è uno dei primi sintomi della debolezza, e
    Violetta cedè. Forse ella stessa non ne capiva bene il motivo, ma
    per uno di quegli abbandoni disperati, propri delle nature
    patetiche, si lasciava cadere ai piedi della prima contraddizione
    colla voluttà singhiozzante del sacrificio. Allora la vita degli
    ultimi mesi in campagna coll'amore di Alfredo, affluendole
    impetuosamente al cuore, le sgorgò in lagrime dagli occhi. La sua
    fiacchezza di donna e di malata le fece provare anticipatamente
    tutto l'orrore del distacco, e di un ritorno alla vita della
    cortigiana, che non può credere più alle illusioni del lusso, o
    sperare in un ideale più alto. Per un momento si era lusingata di
    rientrare nella virtù di un unico amore, e la virtù la rigettava sul
    corso rumoroso del vizio. Il cuore le batteva, il petto le bruciava.
    Le pareva impossibile di cedere, ella che aveva tutti i diritti di
    una moribonda, il suo ultimo mese a chi vivrebbe ancora molti anni;
    mentre sapeva di non costar nulla ad Alfredo, e che una rottura
    sarebbe forse la morte per entrambi. Ma una mano di ferro le era
    discesa sul cuore, e l'aveva prostrata. Il feroce destino della sua
    vita la ripigliava stracciandole tutti i sogni, pestandole tutte le
    speranze. La cortigiana doveva morire cortigiana, nella miseria di
    uno spedale, o nella vergogna di un sequestro. Quindi una luce
    improvvisa illuminò il destino, che la uccideva, e riapparve la
    provvidenza della sua infanzia, quando la mamma l'ammaestrava
    accanto al focolare, inculcandole l'umiltà dei principii e la
    purezza dei sentimenti. Le sembrò di ritrovarsi nell'antica casetta
    montanara, intatta ancora dal giorno della sua fuga, poichè la mamma
    ne era morta poco dopo. Ma un'altra casa sopra una più bella
    costiera piena di aranci e di olivi, fra una corona di colline,
    sotto un cielo di smalto, in faccia ad un mare di zaffiro, in
    un'aria imbalsamata, in mezzo ad un sorriso eterno di giocondità e
    di salute, le passò come una visione nel pensiero. La conosceva, era
    la casa di Alfredo, che egli le aveva tante volte descritto. Il
    vecchio cane pastore era sdraiato sulla porta, la capra favorita
    della mamma brucava ad una siepe. La porta era spalancata, il prato
    deserto. Ma ad una finestra del primo piano una fanciulla pettinata
    modestamente ricamava un paio di pantofole da uomo, col volto
    illuminato da un impercettibile sorriso. Era la sorella d'Alfredo,
    la vergine, alla quale ella non poteva essere presentata, l'angelo
    della famiglia, che stava per aprire le ali bianche al volo. Le
    sembrava di vederla in alto, dal prato della casa, alla guisa dei
    mendicanti, che venivano spesso ad implorarla. Allora tutta la
    ribellione del suo dolore ammutolì, e comprese di essere
    inevitabilmente perduta. Il destino, che la buttava ai piedi di
    quella vergine, come gli antichi guerrieri venivano a gettare ai
    piedi delle loro spose i prigionieri di guerra, era la provvidenza
    della sua infanzia, che sparisce talvolta, ma non dilegua, perdona
    forse, ma non oblia. L'ora della espiazione era suonata prima
    dell'ora del pentimento. Le ginocchia le si piegarono quasi
    involontariamente; ma come se l'aria di quella visione l'avesse già
    purificata, col gesto del pellegrino, che sta per riprendere
    coraggiosamente la via dolorosa del pellegrinaggio, stese la mano al
    vecchio, e cantò la preghiera dell'addio. Come la figlia di Jefte
    ella moriva per la parola di un padre, ma senza la poesia
    dell'innocenza e l'onore del corteggio. La sua lamentazione, lenta
    come i rintocchi di un'agonia, calava laggiù, in una valle della
    Provenza, sotto la finestra, alla quale la sorella di Alfredo
    lavorava senza alzare gli occhi dal ricamo; mentre Violetta,
    stringendo convulsamente la mano del padre, gli mormorava un saluto
    per la vergine, che doveva ignorare per sempre l'infamia del suo
    nome, e l'eroismo del suo sacrificio. La sua voce, sempre soave,
    aveva un accento ineffabile di malinconia in questa romanza, la più
    bella e la più vera di tutta l'opera; ma alla ripresa, quando il
    presentimento della morte le ebbe tolto ogni forza, anche la voce le
    si affiocò senza appannarsi, ed abbandonando la mano del vecchio,
    gli ripetè con tale sfinitezza - Dite alla giovane sì bella e pura -
    che il pubblico strozzato dall'emozione scoppiò in un urlo.
    Istantaneamente l'incanto si ruppe, Violetta scomparve e rimase la
    Patti, un'artista inimitabile, alla quale il teatro chiese due volte
    il bis, due volte soffocandolo sotto un grido fanatico di applauso.
    A poco a poco il calore dell'ambiente aveva guadagnato tutte le
    anime, quella romanza le incendiò. La sua tristezza era così vera,
    che l'amore ed il suicidio di Violetta diventavano reali, atroci,
    inevitabili. Non si vide altro, non si comprese di più. Per qualche
    minuto lo spettacolo rimase sospeso. L'applauso diventava ovazione,
    crescendo d'intensità e di frastuono; si sentivano i fremiti,
    scoppiavano già le strida della demenza. L'emozione del pubblico era
    talmente viva, che per sopportarla dovette ricorrere al bis. L'arte
    è un punto, l'artificio una linea: questo si raggiunge una volta,
    questa si può prolungarla sempre. Il pubblico, che aveva sobbalzato
    alla voce di Violetta, giudicò allora quella della Patti, e il
    giudizio fu così lusinghiero, che la grande cantante ebbe un sorriso
    di regina, curvandosi sotto il vento degli evviva. L'artista ed il
    popolo si erano intesi prima; la donna ed il pubblico s'intendevano
    adesso.
    
    Quando il padre fu uscito, Violetta rimase sola per scrivere ad
    Alfredo il terribile biglietto. I violini di Verardi interpetrarono
    mirabilmente le poche e stupende note, colle quali Verdi ha reso
    l'ansia di quel momento, ma nè la musica, nè la voce, nè la
    perfezione inimitabile dell'attrice poterono risollevare il
    pubblico. La reazione dell'entusiasmo lo prostrava. Alfredo rientrò,
    e l'accordo fra il pubblico e la Patti si ruppe di nuovo.
    
    Quella figura di barbiere, camuffato da postiglione, smagava tutta
    la passione di Violetta. Ella avrebbe avuto talmente torto di
    amarlo, che era impossibile credere al dolore delle sue menzogne e
    alla verità del suo olocausto. La farsa spuntava sotto la tragedia.
    Forse Violetta fingeva quel convulso per non parere troppo
    cortigiana; poichè l'insulsaggine in mostra sulla fisonomia del suo
    innamorato doveva averle reso ben uggioso il lungo faccia a faccia
    in campagna. Flora l'invitava ad una festa. Parigi rumoreggiava da
    lontano, attirandola come l'oceano attira il marinaio.
    Involontariamente tutti gli orecchi riudivano i gorgheggi
    leggermente avvinazzati del primo atto: ma d'improvviso, mentre
    l'ironia del pubblico, malcontento del tenore e forse geloso
    dell'uomo, agghiacciava quella scena di addio a parole mozze,
    Violetta riapparve con un grido talmente lacerante, che tutti
    impallidirono. Molti si voltarono, sporgendosi per vedere se fosse
    caduta ai piedi di Alfredo con una bava di sangue alle labbra; ma
    Violetta era già scomparsa, e Alfredo si fregava le mani in faccia
    al pubblico colla vanità di un uomo idolatrato.
    
    Il resto dell'atto sembrò interminabile, il dolore di Niccolini fu
    ridicolo essendo falso, e lo sarebbe stato più essendo vero; i
    conforti di Moriami, di una scioccheria appena perdonabile ad un
    padre, che non può aver torto vantando i prodigi del proprio cielo
    provenzale. Niccolini seduto sull'unica poltrona di casa, la mano
    alla fronte, conservava abbastanza sangue freddo per non scomporsi
    la sapiente pettinatura; mentre Moriami imbarazzato sotto quella
    parrucca ed entro quegli abiti da vecchio, egli che la sera dopo
    doveva essere il più bel Barbiere di Siviglia, seguitava la predica.
    La quale produsse finalmente il solito effetto, e quando sperava di
    aver persuaso il figlio a prendere il primo treno per la Provenza,
    questi indovinando dall'ultima lettera di Flora, trovata sul tavolo,
    che Violetta sarebbe a quella festa per trovargli il successore,
    scappava impetuosamente per Parigi.
    
    Si credeva che il telone sarebbe calato secondo il solito, per dare
    alla prima donna il tempo della grande toletta da ballo; ma forse la
    Patti volle provare di riuscirvi in pochi minuti, e l'atto seguitò.
    Solamente la scena passava dalla campagna a Parigi, in casa di
    Flora, che quella sera dava un ballo in costume. Gl'invitati alla
    cena di Violetta dovevano convenire nella festa di Flora. Infatti
    un'orda di zingarelle e di ballerine sboccò da una porta laterale
    del gran salone, illuminato da palle di carta oliata, che imitavano
    i globi di cristallo: ma Verdi o l'impresario non avendo osato
    affrontare la realtà di un ballo, la scena rimase fredda. Poco dopo
    un fiotto di mattadori spagnuoli irruppe dalla medesima porta, e
    volle cantare un secondo coro alla padrona di casa, che non ne capì
    nulla come il pubblico. Se gl'invitati seguitavano a venire a torme,
    la festa doveva finire per essere ben numerosa. Però la crisi del
    dramma appressava. Alfredo, pallido ancora dalla lunga corsa dal
    casino a Parigi, entrava vestito da ballo come alla prima cena di
    Violetta: gli stessi amici lo aspettavano al giuoco. Accettò, ed
    aveva appena puntato il primo luigi, che Violetta giungeva a braccio
    del barone, parata di un abito di raso bianco, meno bianco tuttavia
    del suo volto. Uno strascico lungo come la coda di una cometa,
    ornato di camelie bianche e costellato di brillanti, la seguiva
    ondulando sulla scena. L'abito era un capolavoro di ricchezza e di
    semplicità. Ella pareva uno spettro. I capelli neri, divisi sulla
    fronte come quelli di una madonna, le cadevano sulle orecchie con
    una trascuratezza, che stringeva il cuore. All'estremo pallore della
    faccia e al largo cerchio turchino sotto gli occhi, si capiva subito
    che quella donna doveva aver pianto troppo o dormito troppo poco; e,
    venuta per forza alla festa, si era lasciata abbigliare dalla
    cameriera senza accorgersene. Violetta non si sarebbe mai disposto
    quelle camelie in fila sul fianco, come un rosario di fiori, nè
    piantato quel fermaglio sull'ultimo bottone del corsetto scollato.
    Fiori e gemme erano troppi: una collana di perle le cingeva il
    collo, i monili le salivano per tutto il guanto quasi all'altezza
    del gomito, una minutaglia di brillanti le balenava da ogni piega
    dell'abito, persino dalle fibbie delle scarpe. La pompa insultante
    della toletta guastava l'aristocratica delicatezza della sua figura,
    alla quale la piccola camelia bianca sulla fronte avrebbe dato un
    ben altro significato di poesia.
    
    Come tutti gl'innamorati, che cercano uno scandalo, Alfredo aveva
    subito alzato la voce provocando il barone al giuoco. Il barone
    aveva acconsentito ed aveva perduto. Fortunatamente quando l'alterco
    stava per scoppiare, e Violetta lo seguiva con occhio smarrito, un
    servo venne ad annunziare la cena. In due ore era la seconda per i
    coristi, che nullameno urlarono ad unanimità: andiamo! I due rivali
    dovettero seguirli per ultimi, non senza scambiare prima qualche
    frase equivoca di minaccia; e la scena rimase vuota. Ma Violetta
    rientrò barcollando quasi immediatamente; aveva indovinato il
    disegno di Alfredo, e voleva impedirlo affrontando magari tutte le
    contumelie ed i graffi della sua gelosia. Da vero collegiale Alfredo
    non capì nulla della sua costernazione. Violetta avrebbe voluto
    inginocchiarglisi ai piedi, se il pericolo di essere sorpresi non
    l'avesse trattenuta, e cogli occhi dilatati dallo spavento, che le
    battevano come nell'abbarbaglio di un miraggio, vacillava ad ogni
    sua cattiva parola. Egli era superbo, affettato. Quella preghiera
    sbigottita gli saliva alla testa come l'ultimo incenso di un amore
    non ancora ben spento; epperò, malgrado ogni feroce proposito, gli
    trasse di bocca qualche motto di fuga. Allora Violetta ebbe un gesto
    così sublime di disperazione, che tutto il teatro fremè: Niccolini
    invece saltò alla porta con due grandi passi tragici, e, prima che
    ella avesse il tempo di vietarlo, chiamò tutti i coristi. Era
    destinato che quegl'infelici non dovessero cenare. Infatti
    accorrendo di malumore gli fecero cerchio intorno come in piazza:
    gli altri invitati arrivavano, Flora si mise a fianco di Violetta,
    il barone pretesto imbecille di tutta la scena, si cacciò
    coraggiosamente fra loro ed Alfredo, che aveva avuto il tempo di
    atteggiarsi con tutta la maestria di un provetto cantante. Ma questa
    volta fu tenore e buono. La sua invettiva, da principio a voce
    sorda, crebbe tremendamente di parola in parola, come se nella
    veemenza dell'ira gli si rischiarasse la voce. I capelli neri
    arricciati con tanta civetteria sulla fronte, questa volta gli
    squassavano come una criniera, mentre colla faccia vampeggiante di
    rossore, e i garretti tesi come un leone che sta per spiccare lo
    slancio, gualciva nella mano contratta la terribile borsa.
    Sciaguratamente per lui Verdi aveva perduto tutto l'impeto della
    maledizione, ripigliandone la cadenza con una modulazione da
    stornello nel momento, che lo scoppio di quella collera, quasi degna
    di un eroe e così vera per un geloso, doveva avere la detonazione di
    una bomba. Niccolini dovette scomporsi. Il pubblico lo perdette di
    vista per Violetta. Aggrappata alle sottane di Flora col viso
    stravolto dall'orrore dello sfregio imminente, il seno anelante, la
    bocca aperta per un urlo impossibile, che sospendeva il battito di
    tutti i cuori, tremava ed oscillava come un giunco. La sua veste
    bianca pareva una falda di neve, la sua faccia una faccia
    fantastica. Era troppo! Quella scena di Alfredo doveva essere un
    sogno peggiore di ogni realtà, una immaginazione spaventevole di un
    fatto non mai accaduto! E in quel raccapriccio Violetta
    rassomigliava all'olandese del vascello incantato, colla
    indescrivibile fisonomia, che solo una tempesta di mille anni ha
    potuto comporre. Non le restavano più che gli occhi e la bocca, il
    resto era tutto bianco come una nebbia, che sarebbe svanita con un
    soffio. Ma i suoi occhi ardevano, e nelle contrazioni della bocca
    muta le ruggivano tutte le strida della procella. Tratto tratto una
    frase infame di Alfredo l'attirava e la respingeva, mentre un
    terrore tragico le saliva dall'anima sul volto come un'ombra sopra
    una larva. Le sue mani sole parlavano, e una parola inarticolata,
    unica e tremenda, una negazione irresistibile ed inutile le
    crepitava nell'ultima convulsione dei lineamenti. Ognuno tremava, ma
    la tensione delle anime era tale, che la più piccola percossa
    avrebbe determinato un'esplosione. E fra il rombo di quell'anatema
    ed il silenzio di quell'esecuzione, nella quale la vittima era
    innocente, Violetta cresceva. Ritta sulla punta dei piedi, le mani
    raggrinzite sulle spalle di Flora come per sollevarsi al disopra di
    quel gesto che le cadeva sul capo, la sua bianca figura sembrava
    allungarsi in un prodigio di luce bianca: e quando Alfredo, sfinito
    di rabbia, le scaraventò in faccia la borsa, trattenendo lo scatto
    più brutale di uno schiaffo, ella pure gli si avventò dall'alto del
    suo bagliore di angelo, e respinta dalla ferita mortale si abbattè
    vacillando sulle spalle di Flora.
    
    Il teatro ruppe in un urlo di liberazione; l'incubo si era risolto
    nella morte.
    
    Ma invece di attendere ai rimproveri del padre, che arrivava in buon
    punto per compiacersi dell'opera propria, o al borbottio di Alfredo
    prolungato dalla musica in una imitazione di gargarismo, mentre il
    barone approfittava del frastuono per minacciare impunemente, tutti
    gli sguardi si accalcarono intorno al sofà di Violetta. Era svenuta
    in atteggiamento scultorio. Poi sembrò ridestarsi, e girando intorno
    gli occhi, sentì nella cantilena del coro il dolore della propria
    ferita. Alfredo si era quasi rincantucciato come un pauroso dietro
    la gente. Allora senza vederlo, con un gesto di martire, ella esalò
    l'ultimo sospiro d'amore. Il sacrifizio era compiuto e la vittima
    era viva. Il suo abito bianco pareva una tunica di angelo, la
    camelia della sua fronte un astro. La sua voce pura, come il suo
    cuore dopo l'olocausto, cantava fra quella turba ad una visione
    trionfante, quando Alfredo sapendo finalmente la verità verrebbe a
    morire d'amore sulla sua fossa recente. Un'ultima generosa
    malinconia velava la gioia del suo perdono, mentre i suoi occhi
    illuminati dalla fede si appannavano di una lacrima tardiva. Ella si
    obliava nel canto. La sua invocazione, forte sul principio come il
    grido di un risorto, s'indeboliva lentamente nel murmure concitato
    della folla, sulla quale la sua anima bianca si librava come una
    nuvola di sacrificio sull'altare. L'accordo tumultuoso di quel
    pieno, che sembrava sostenerla, dava un'acutezza quasi più limpida
    agli squilli, una lentezza più mesta alle cadenze della sua voce.
    Tutta l'orchestra ondeggiava, la bacchetta del direttore non
    percuoteva più la lingua di latta, e la Patti cantava sempre in
    quell'attitudine di statua, animata da un sentimento che eccedeva la
    vita, e al quale solamente il suo canto poteva infondere la verità.
    Quindi il telone avviluppò nuovamente tutta la scena, e il finale
    s'interruppe senza che paresse esaurito.
    
    Il pubblico, che non se l'aspettava, ne rimase intontito. Poi le
    conversazioni risorsero in mezzo ad un applauso pieno di urla rotte
    e di gesti maniaci. La platea era in piedi, uomini e signore, tutta
    la gente si sporgeva dai palchi, si protendeva dalle gallerie,
    precipitava quasi dal loggione. Era come un'enorme scommessa a chi
    troverebbe la percossa più sonora, l'evviva più clamoroso, il grido
    più entusiasta. E tutto ciò in uno strepito di sommossa, che
    eccitava perfino le adesioni compassate dei pochi aristocratici,
    alzando il pigolìo delle signore a schiamazzo di fanciulli. Per tre
    o quattro volte il telone si squarciò, e la Patti vi apparve nel
    mezzo come dentro una nuvola; la sua testa non aveva più il tragico
    pallore, e si chinava sotto la carezza della tempesta con una grazia
    di airone. Quindi un bisogno più intenso arrestò l'ondata
    dell'applauso, e ognuno si volse con una specie di precipitazione al
    vicino: vi furono ancora degli scoppi parziali, degli impeti, che
    dal loggione attraversavano la platea, e l'ovazione si sommerse nel
    rumorio delle conversazioni. L'aria era salita a una temperatura
    tropicale senza che alcuno vi badasse: i visi erano caldi come le
    parole, gli occhi scintillavano come le osservazioni.
    
    - Bartolomeo, meo, marameo - guaì il violoncellista slanciandosi
    verso il contrabbasso caduto pesantemente a sedere; e ripetendo con
    perfetta intonazione le ultime note della Patti nel finale
    dell'atto: - finalmente se ne sono accorti; hanno applaudito al
    miracolo! Te lo avevo predetto - insistè con una esplosione di
    orgoglio dispettoso.
    
    La sua testina di monello ingegnoso e depravato gettava lampi,
    mentre tutti i suoi moti scattavano con un'energia, che non si
    sarebbe mai sospettata in quel corpicciattolo. Tutta l'orchestra era
    in piedi, una ressa di artisti stringeva il direttore disceso dal
    pulpito.
    
    - Li vedi, Bartolomeo - proruppe accennandoglieli imprudentemente
    del dito - che ricevono l'imbeccata? Ah! se io fossi quella donnina,
    piccola come tutti i tesori, che hanno un valore inestimabile;
    ancora abbastanza bella, perchè la sua voce che è la prima bellezza
    del mondo sia bene incorniciata dal suo volto, credi tu che vorrei
    venire al Brunetti? Perchè canta questa donna? Diecimila franchi per
    sera... e poi? A che cosa le servono diecimila franchi? per comprare
    un abito, e tornando nuovamente sulla scena guadagnarne altri
    diecimila. Ciò è assurdo: è la nostra vita miserabile trasportata
    nelle ricchezze, il nostro mestiere nel genio. Noi possiamo vivere
    così: abbiamo preferito di tirare un arco piuttosto che una sega, ci
    pagano quattro franchi per sera la nostra segatura di note, che il
    pubblico piglia per musica e se la goda: ciò è abbastanza degno di
    noi e di lui. Io non canterei.
    
    - Perchè? - domandò ingenuamente Bartolomeo, che aveva ascoltato
    mezzo distratto quel discorso proferito con una precisione piena di
    sussulti.
    
    - Tu non lo capisci, aspetta - fe' attirando una sedia col piede, e
    sedendoglisi presso con famigliarità protettrice ed ironica.
    
    - Ti sentiresti capace d'innamorarti della Patti?
    
    Bartolomeo provò una tale percossa a quest'esordio, che il
    violoncellista gli posò una mano sopra i ginocchi per trattenerlo.
    
    Quindi riprese:
    
    - Ti sono piaciuti i diamanti della Patti? Te lo leggo sulla faccia,
    li hai ammirati. Ella ha voluto farne pompa anche in campagna, ed
    era una scempiaggine; nel ballo, ed è stata una provincialata.
    Eppure il più piccolo di quei diamanti costa forse più di quello,
    che nè tu nè io guadagneremo mai nella nostra carriera di suonatori.
    I diamanti bisogna averli, ma nel cassetto, per godere ogni tanto
    della loro purezza, che supera quella dei fiori, della loro luce,
    che vince quella del sole. Li porti? Ed allora fossi pure un
    imperatore, non sei più che un povero borghese, il quale ha bisogno
    di fare invidia per sentirsi superiore, e fra tutte le invidie
    sceglie quella dei miserabili, che è la più bassa. Perchè la Patti
    se li è messi stasera? Per provare al pubblico che i diecimila
    franchi di ogni sera sono una verità, e alle signore dei palchi, che
    essa, una cantante, ha più gioie di loro, principesse di nascita o
    milionarie di posizione. La Patti è una donna: ecco perchè canta.
    Perchè vendere per diecimila franchi la sua voce e la sua anima? Se
    io le fossi amico, le direi che un cavallo da corsa, a Londra, in
    tre minuti vince centomila lire di premio, e due milioni di
    scommessa, in faccia allo stesso pubblico, al quale essa getta così
    se medesima, e che non l'ha mai applaudita come Gladiateur o
    Iroquois. Bada; il Brunetti contiene tremila persone, il Covent
    Garden poco più: al gran Derby, io ci sono stato, nelle corse meno
    frequentate vi sono trecentomila persone. Ecco il pubblico nella
    verità della sua natura grossolana, che non può andare al di là
    della sensazione, e preferisce quindi la più acuta, quella di una
    scommessa sopra un cavallo, all'altra di una sorpresa in una scena.
    Credi tu che questa gente, la quale applaude con tanto fracasso,
    possa aver compreso l'arte divina, con cui la Patti ha cantato tutto
    quell'atto? Allora perchè non ha applaudito il primo, diversamente,
    ma non meno perfetto? Ma il sentimentalismo di questo è più facile
    del brio di quell'altro. Si distingue una donna, che pianga da una
    che rida, ma cogliere la differenza fra due lagrime o due sorrisi,
    ecco l'incomodo per coloro, ai quali manca l'intelligenza penetrante
    della realtà, o il senso squisito dell'arte. Vedrai che a
    quest'altro atto la platea scoppierà in grida, e i palchi in
    singhiozzi; la Patti sarà sublime a buon mercato, poichè il patetico
    profuso nella scena basta per sè solo a commovere una massa. Ed ella
    colla Malibran, la prima artista del nostro secolo, al disopra della
    Sontag e della Galletti; ella, che crea colla voce, come Verdi può
    creare colla penna, e spesso molto meglio; già abbastanza ricca per
    vivere come una regina, ed abbastanza gloriosa per rientrare
    nell'isolamento di tutti i grandi spiriti, viene in quest'ignobile
    cantina del Brunetti davanti a un pubblico, nove decimi del quale
    non conoscono la musica, per ottenere diecimila franchi di paga, e
    diecimila applausi di buona mano. Ciò è ancora più vigliacco che
    assurdo.
    
    Bartolomeo travolto da quest'eloquenza fece un gesto per resistere.
    
    - Aspetta - gridò l'altro. - Se la sua fosse la beneficenza del
    genio, che si prodiga in capolavori per decorare la vita sciagurata
    dell'umanità, e si getta egli stesso in elemosina come un gran
    signore, il quale non avendo più denaro si offre per un servizio: se
    ella fosse Dante o Beethôwen, Michelangelo o Shakespeare,
    bisognerebbe cadere colla fronte per terra, e adorare quest'artista
    incomparabile, che passa attraverso l'Europa per improvvisare un'ora
    di gioventù nei cuori più invecchiati, un profumo di primavera nelle
    anime più inaridite. Ah! sarebbe più bello di Dante, e più grande di
    Shakespeare: l'arte non ha altra missione, far dimenticare la vita
    rappresentandola, illuminare la realtà trasfigurandola nel sogno. Ma
    no, mio caro - proseguì incalorandosi e contraendo la faccia a una
    fisonomia ringhiosa di scimmia: - diecimila applausi, che valgono
    ancora molto meno, di gente, che ella non conosce e non vorrebbe
    conoscere personalmente, che la farebbero forse ridere se non
    piangere coi loro giudizi.
    
    E si arrestò ansante: il teatro tumultuava sempre. Si girò intorno
    uno sguardo, quindi rivoltandosi verso Bartolomeo quasi inebetito da
    quel lungo discorso:
    
    - Non è vero che ho ragione?
    
    - Ma allora come faremmo noi a sentirla?
    
    - Faremmo a meno. Bevi forse del tokai tu? Ho forse una madonna di
    Raffaello sopra il mio letto, io che non ci credo, e la terrei tanto
    volentieri? Guarda: se io avessi dei milioni, non come i nostri
    milionari di Bologna: essi sono miserabili, nessuno ne ha nemmeno un
    paio di dozzine, e vedi che è un'inezia. Se io fossi milionario
    anderei subito domattina dalla Patti, e le direi: il vostro
    impresario vi dà diecimila franchi per sera perchè cantiate, io ve
    ne do quindicimila, e compro il vostro silenzio. Se me lo
    permettete, verrò a tenervi compagnia; canterete, se ve ne salta il
    ticchio, ma se m'accorgo che lo fate per sdebitarvi, ve ne manderò
    altrettanti ogni mattina per il mio cameriere, e non metterò mai il
    piede nel vostro appartamento. Ecco che cosa direi a questo genio
    che si degrada, a questa donna che si prostituisce. Le direi: andate
    a Roma, a Parigi, vi darò un palazzo grande come una reggia: voi già
    sareste ricca da comprarlo volendolo; siate una gran signora,
    gettate alla porta quel Niccolini, che non è mai stato un gran
    tenore e non può essere più un grande amante; aprite i vostri saloni
    a tutta l'aristocrazia del pensiero, e componetevi una corte di
    sovrani come Napoleone I. Voi avete la sua potenza ed il suo genio,
    giacchè vi trascinate dietro la stessa Europa incatenata al vostro
    carro: aspettate che il vostro spirito avvampi nella febbre
    dell'arte, e allora cantate per essi, che potranno comprendervi.
    Aspettate che Victor Hugo, il vecchio sublime, venga qualche sera a
    riposarsi nel vostro salotto, e ravvivatelo col canto: egli sarà
    l'idea e voi sarete la parola, egli il ritmo e voi la modulazione:
    aspettate che qualche grande ambizioso vinto vi domandi un'ora di
    calma, e allora cantate come voi sola potete cantare. Sarete la
    prima donna, e la prima dama del nostro secolo. Ma non mischiate mai
    danaro nella vostra arte, siate come Dante e come Shakespeare, come
    Beethôwen e Michelangelo: lasciate agl'istrioni la plebe dei teatri,
    che vuole divertirsi perchè fatica, e giudicare perchè paga. Il suo
    denaro eccellente per pagare delle scarpe o saldare dei pranzi non
    può valutare la vostra anima, essere il prezzo della vostra voce. I
    capolavori sono fatalmente gratuiti, anche quando non sono pubblici.
    Forse ella è donna, e non mi comprenderebbe, e allora le getterei un
    milione in faccia, proprio come nel finale di quest'atto, e le direi
    colla mia voce più insolente: giacchè la sordidezza della vostra
    anima è pari alla purezza della vostra voce, tenetevi il pubblico e
    Niccolini, fatevi pagare tutte le sere come le coriste; ma, per
    quanto gl'impresari vi paghino bene, non raggiungerete mai il prezzo
    di un cavallo da corsa, e sarete sempre meno stimabile; il cavallo
    corre per guadagnare la bandiera, mentre voi cantate per intascare
    il premio.
    
    In quel momento il direttore risalse sulla scranna.
    
    - Aspetta - gridò il violoncellista vedendo Bartolomeo, che si
    alzava senza rispondere: - sai che cosa è la Patti?
    
    - Sei matto, tu!
    
    - Infelice! - egli rispose compiangendolo con un gesto comico di
    disperazione - tu non mi comprenderai, e la mia definizione della
    Patti sarà la più bella di quante ne daranno i giornali.
    
    - La Patti è...
    
    Fortunatamente la bacchetta del direttore percosse la lastra
    tagliandogli netta la parola; ma Bartolomeo, che l'aveva intesa,
    alzò vivamente l'arco per darglielo sulla testa. Il violoncellista
    fu presto a balzare indietro, e sempre ridendo tornò alla propria
    sedia. Bartolomeo guardava già al sipario; la preoccupazione del suo
    spirito si era fatta grave come una malinconia. Appoggiato al grosso
    manico del contrabbasso arricciato e borchiato come un pastorale, la
    mano sulle chiavi e la testa sulla mano, aspettava che il telone si
    squarciasse nell'atteggiamento vanitoso di un concertista, che
    attende il proprio pezzo. La sua alta statura, che lo faceva quasi
    dominare tutta l'orchestra, rendeva anche più sensibile il contrasto
    della posa romantica colla sua fisonomia bonaria di grande
    mangiatore. Il violoncellista, che non lo perdeva d'occhio, se ne
    accorse, e quando il sipario si scisse, e la Patti apparve in fondo
    all'alcova, sdraiata sul lettino, vestita di bianco, alle ultime
    note del celebre preludio celando rapidamente la testa dietro il
    violoncello:
    
    - Meo! - gridò.
    
    Egli si volse, e l'altro gli rise in faccia con tale escandescenza,
    che raccapricciando di essere penetrato, Bartolomeo impallidì.
    
    A rovescio di Dumas, che descrive la miseria di Margherita in mezzo
    al magnifico appartamento sequestrato dai creditori, Verdi ha
    immaginato una modesta cameretta, come se uscendo da quel ballo
    fatale, Violetta avesse abbandonato il barone e fosse ricaduta nella
    miseria. Ma la musica non avrebbe potuto raccontare tutti i dolorosi
    particolari della Signora delle Camelie, analizzare le ultime
    lacerazioni della realtà nella trama già troppo logora dei suoi
    ultimi giorni. In questo la musica, linguaggio eccezionale, rimane
    troppo al disotto dal linguaggio ordinario, pel quale un'esistenza
    può passare intera. La piccola camera aveva le pareti giallognole,
    una toeletta dozzinale in un canto, una specie di alcova in fondo,
    con uno straccio di cortina bianca, sotto la quale riposava una
    forma ancor più bianca. Era la Patti. La scena indicava il mattino,
    e pareva notte. Una miseria mal dissimulata dalla decenza faceva
    sentire un'aria fredda nella camera, che il respiro troppo tenue
    dell'inferma, e il sonno troppo lieve dell'infermiera non bastavano
    ad animare. La camera vuota pareva troppo grande. Il caminetto di
    carta non aveva nè fuoco nè legna: era in sulla fine di carnevale,
    l'aria di Parigi all'alba pungeva senza dubbio. Sul tavolo da notte
    una bottiglia d'acqua, e due o tre boccette luccicavano alla fiamma
    del lumino riparato da un cappello verde. Violetta si destò per
    chiedere un sorso d'acqua, ma nell'accostare le labbra al bicchiere
    nascose la faccia contro il grembo dell'Annina. Per un'ultima
    civetteria di grande artista la Patti riservava l'effetto del
    proprio volto per quando scenderebbe dal letto. Adesso non si
    discerneva che una cuffietta bianca, dalla quale sfuggivano
    sull'origliere alcune ciocche brune: il resto era confuso sulla
    coperta. Poi il medico arrivò mattiniero secondo il solito, e
    Violetta volle alzarsi.
    
    Allora un raccapriccio gelato corse per tutto il pubblico. La tisi
    lenta, che la divorava da qualche anno, non le aveva lasciato più
    che la pelle cenerognola e poche ossa, fortunatamente nascoste dal
    vestito. Ma i suoi movimenti erano così rotti, che sembrava di
    intenderle scricchiolare ad ogni istante. Il suo bel viso da uccello
    di rapina, a forza di assottigliarsi, era rientrato nel profilo
    tagliente del naso, mentre gli occhi le si erano sprofondati
    nell'orbita, e il loro cerchio turchino era disceso giù nello scavo
    delle guancie. Ma la bocca livida aveva ancora i denti bianchi come
    nei giorni del suo bel sorriso. Una piccola cuffia da notte, di una
    semplicità molto povera, tratteneva il disordine dei suoi magnifici
    capelli neri, e le si annodava sotto il collo con due lunghe
    cordelle cadenti sul seno. Ella si appressava, sorreggendosi sulla
    spalla del medico e sul braccio di Annina con uno sforzo così
    faticoso, che le traeva ad ogni passo dal petto uno scoppio di
    tosse. Nulla restava più della Violetta, che Parigi aveva ricevuto
    un mattino dalle mani della provincia, fresca come un pomo, per
    gettarla nella terribile operosità delle proprie cucine, e trarla
    frutto candito dall'aspetto malsano e il sapore composito. Tutta
    quella decorazione, abbagliante a forza di essere ricca, che aveva
    fatto di Violetta una delle tante fantasime del lusso, una figura
    volgare e straordinaria appunto come una decorazione improvvisata,
    nella quale non si erano risparmiati nè danari nè uomini; la
    Violetta, che passava fra le duchesse del bosco di Boulogne come una
    duchessa di un'altra aristocrazia, che era una curiosità per tutti
    gli uomini ed una novità per tutti i luoghi; la Violetta, che una
    sera, d'improvviso, era saltata a piè pari dal proprio trono
    vendereccio per infilare il braccio di Alfredo, e fuggire con lui in
    campagna a respirare l'aroma della terra; la Violetta dell'ultimo
    ballo, spettro regale, che ricompariva nella sala del trono per
    ricevere un insulto plebeo da un suddito pazzo di amore: tutto era
    sparito senza traccia e senza speranza. Solo i capelli, ricciuti e
    neri come una volta, gettavano ancora sotto il trapunto della
    cuffietta qualche ilare riflesso.
    
    Tutto le era stato egualmente fatale, il vizio come la virtù.
    
    Poi, sedendosi, trovò ancora un gesto della passata eleganza, e
    lasciando la mano, bella tuttavia, sulla spalla del medico, lo
    ringraziò con uno straziante sorriso. E cantò.
    
    La musica delle sue parole sembrava battuta sul ritmo affaticato del
    suo cuore, mentre la sua voce, fattasi più pura nello sfacelo di
    tutto il corpo, aveva l'inesprimibile limpidezza del pensiero nei
    moribondi. Si sentiva morire. Invano il medico colla pietà dozzinale
    del mestiere le diceva di confidare nella convalescenza vicina,
    mischiando le proprie frasi fredde tra le parole intenerite di
    Violetta. Poi l'ultima speranza, la sublime illusione di ogni
    martire, che aspetta di veder squarciarsi il cielo, ammalata
    anch'essa di tisi, le si svegliò in cuore. Da molti giorni Violetta
    aspettava una lettera di Alfredo. In quella rassegnazione d'agonia
    ella non domandava più che di vederla per inebriarsi l'estrema volta
    d'orgoglio, e concedergli il perdono del martirio. Sempre donna,
    voleva Alfredo ai piedi per sentirlo rabbrividire al suo aspetto di
    agonizzante, egli che le aveva affrettato la morte, e, mentre
    singhiozzerebbe, adagiargli il capo sulla spalla e spirargli l'anima
    nel petto. Era l'ultima decorazione della sua vita, il gran finale
    del suo ultimo atto. Quindi uscita l'Annina, si trasse di seno la
    lettera del padre, conciso rescritto di grazia, e la rilesse forse
    per la centesima volta. Dopo essersi battuto col barone ed averlo
    ferito, Alfredo era scappato all'estero per stordirsi; ma il padre
    impaurito del suo cordoglio ostinato, gli aveva scritto rivelandogli
    finalmente il secreto: Alfredo era già forse in viaggio, ed
    affrettava col cuore febbricitante d'impazienza l'impeto del treno,
    che lo portava. Ella lo vedeva laggiù, in fondo alla Francia,
    cacciare la testa dagli sportelli, guardando verso Parigi, e
    ritirarla con atto di scoraggiamento. Allora una eguale paura la
    sopraffaceva, e, piegando il volto sul seno, ripeteva a bassa voce
    colla parola di tutti gl'infelici, che la vita uccide e la morte non
    disillude: è tardi! Ma l'orgasmo di quell'attesa le si fece
    improvvisamente così vivo, che dovette levarsi. Un raccapriccio
    gelato le passò sulla faccia, travedendosi nello specchio: vi si
    appressò. Una boccetta azzurra, dal collo lungo, vi esalava ancora
    il profumo favorito dei suoi fazzoletti, sui quali aveva forse tante
    volte lasciata la bava sanguigna dei primi scoppi di tosse. Ella
    sorrise, poi chinandosi sulla lastra sino quasi a toccarla colla
    fronte, parve voler esaminare attentamente la povera sembianza, che
    la guardava dal cristallo con due grandi occhi di spettro. Una mano
    le corse involontariamente al riccio, che le usciva dalla cuffia,
    immutata bellezza della sua gioventù, sul quale avevano scintillato
    tanti brillanti, e nel quale forse si erano tuffati tanti baci di
    tante persone. Quindi ridivenne seria obliandosi per qualche minuto
    nella propria apparizione. A che pensava? Quali ricordi le tornavano
    alla memoria dai giorni lontani della vita, dal mattino campestre o
    dal meriggio parigino, e, migrando lontano come uccelli passeggeri,
    quale strido le gettavano dall'ultima curva dell'orizzonte? Forse il
    loro volo era così denso, che la loro ombra le imbruniva il volto:
    lo abbassò, e sempre barcollando tornò ad aggrapparsi alla poltrona.
    Vi sedette.
    
    Allora l'ultima speranza, che le agonizzava in cuore, si rizzò per
    dare uno sguardo d'addio al mondo. Era un canto sommesso come una
    preghiera mormorata ai piedi di un altare, sotto la volta scura di
    una chiesa, che le colava insensibilmente dalle labbra, mentre
    l'occhio le strisciava sullo smorto paesaggio della vita. Le ultime
    foglie gialle erano già cadute sul terreno, tutte le mandre avevano
    riparato alle stalle, il vento passava in silenzio per la campagna
    brulla, il sole si spegneva a poco a poco come una lampada funerea.
    Ma ella non rabbrividiva. La sua canzone solitaria si perdeva
    nell'aria come l'ultimo fumo di una ruina. La testa abbandonata sul
    cuscino, che le rammorbidiva la spalliera della poltrona, le mani
    incrociate sul grembo nell'attitudine dei morti, l'occhio immobile
    come vetro, cantava lentamente. Quella cuffia da nonna dava un'altra
    malinconia alla sua nenia, una inconsapevolezza di vecchiaia, nella
    quale il linguaggio non è più che un'eco. Finì, poi riprese, cullata
    dalla sua monotonia, trasportata dal suo murmure verso il silenzio
    del sepolcro. Che cosa diceva quel canto? Nessuno lo distingueva
    bene, ma tutti capivano ed impallidivano al barcollamento di quella
    testa vicina ad addormentarsi nell'ultimo sonno, e che affondata nel
    cuscino sembrava dentro una culla. Tutto il genio infermo di Verdi
    mormorava in questa ultima romanza del dramma più accarezzato dal
    suo cuore di artista. Poi un singhiozzo, che era un insulto di
    tosse, la interruppe. Il pubblico rattenuto sino allora dal rispetto
    della morte, si scatenò in un applauso furente mentre il baccanale
    del bue grasso passava sotto le finestre dell'inferma con strepito
    avvinazzato. Quindi Violetta, ridivenendo nuovamente la Patti,
    dovette ripetere la romanza.
    
    Naturalmente la ripetizione fu ancora più acclamata, ma la Patti si
    scompose talmente alla fine, che se la cameriera avesse tardato a
    rientrare colla grande notizia di Alfredo, forse non avrebbe saputo
    ricoricarsi moribondamente sulla poltrona. Allora la Violetta
    d'altra volta riapparve entro un baleno acciecante di vita. Aveva
    già compreso; ansava, cogli occhi in fiamme, le mani brancicanti,
    sentendolo salire per le scale, mentre Annina non si era ancora
    spiegata. Vedeva, udiva, poi l'anelito la soffocava, e le forze
    stavano per abbandonarla, quando Alfredo comparì sulla porta, ed
    ella gli si precipitò nelle braccia con un urlo straziante di
    demenza. Perchè mai Alfredo era sempre Niccolini, cogli stessi
    stivaloni e il medesimo cappello piumato? Perchè Verdi, obliando
    tutto il proprio ingegno, ha scritto il dialogo dei due amanti con
    quella volgare stampiglia di frasi, sciupando una scena, che sarebbe
    stata sublime in mano a qualunque altro: e stretto della necessità
    di una bella romanza è andata a cercarla nell'ultimo atto del
    Trovatore? Perchè Verdi è così spesso un altro, che scrive della
    musica da capobanda, senza testa e senza cuore? Perchè quando si sa
    mettere nella bocca di Violetta quell'ultima frase, mandando
    l'Annina per il medico, nella quale si sente dissolversi tutto il
    suo cuore, e che la Patti cantava come non è possibile immaginarlo
    senza averla sentita; perchè dunque mungerla in una cadenza, che
    dovrebbe far trasecolare la stessa Annina, e cader le braccia ad
    Alfredo per quanto sinceramente innamorato? Perchè nel duetto
    seguente la disperazione ribelle di Margherita, e la speranza
    rassegnata di Alfredo si esprimono col medesimo canto, mentre
    sentimento e parole sono così terribilmente opposti? Perchè questo
    fatale convenzionalismo, che deforma la bellezza e mutila l'arte:
    perchè, essendo grandi, non si osa essere liberi, e Verdi viene
    anch'egli colla turba dei minori e degli uguali a curvare la fronte
    incoronata sotto certe forche caudine? Perchè mai, quando Wagner le
    ha rovesciate con un cozzo superbo, i critici le rialzano, e artisti
    come Verdi vi ripassano?
    
    La Patti era in piedi: un riflesso d'incendio le bruciava il viso
    illividito, la cuffia gettata indietro con gesto quasi feroce le
    svelava l'altezza della fronte, solcata da una ruga profonda e
    battuta da un vento di tempesta. Un momento parve dimenticarsi di
    Alfredo per ridiscendere come un giudice nella propria vita, e
    risalirne come un condannato, che montando il patibolo si ferma in
    faccia al cielo per disonorarlo con una suprema bestemmia
    d'innocente. L'accompagnamento su tutte le corde basse imitava
    l'anelito faticoso d'un'ultima collera. Poi fece un passo, e
    sollevandosi sulle punte dei piedi, le braccia levate, le mani
    raggrinzite nello sforzo impotente di un graffio, squassando la
    testa nel delirio di una imprecazione, avventò la prima nota. Era
    orribile, era vero. Tutta l'orchestra batteva, tutte le dita
    pizzicavano le corde con inconscia veemenza; Niccolini stava
    intontito, il pubblico era perduto di terrore. Ma le forze
    l'abbandonarono, e l'imprecazione le morì in lamento soffocato. Il
    destino aveva vinto. Perchè dunque le gettava Alfredo fra le
    braccia, pronto a condurla sposa in Provenza, adesso che ella non
    aveva più la forza di un bacio? Ah! era vile, era degno di Dio!
    Invano con faccia di marito bonario, Alfredo ripigliava uno ad uno i
    suoi accenti, e la pregava di calmarsi per non fare troppo soffrire
    lui medesimo; chè ella non lo sentiva nemmeno, e seguitava a gemere
    nel singhiozzo convulso dell'orchestra.
    
    Allora la corda di un contrabbasso vibrò con tale violenza, che la
    Patti stessa, curva sui lumi della ribalta, fra le braccia di
    Alfredo, si volse involontariamente. Era Bartolomeo con due grandi
    lagrimoni per la faccia, che pizzicava rabbiosamente la propria
    corda: ma l'arco gli cadde di mano a quell'occhiata, rumoreggiando:
    ella si rivoltò, alcuni suonatori si torsero. Bartolomeo era
    scoperto, piangeva; però nessuno sorrise, tutti erano commossi. Il
    maligno violoncellista, estatico, non si avvide fortunatamente di
    nulla; poi, quando la Patti si abbattè nuovamente sulla poltrona,
    l'orrore fu tale, che egli stesso balzò in piedi. Il pubblico non
    potè nemmeno applaudire. Quindi l'ultima scena precipitò. Annina, il
    padre di Alfredo e il dottore rientrarono insieme. Naturalmente la
    musica sofferse del loro ingresso, e ricomparvero le frasi di
    riempitivo, questa volta quasi naturali, per la qualità dei
    personaggi e la loro posizione drammatica. La stessa volgarità delle
    parole li rendeva veri. Violetta moriva: l'anelito delle spalle e il
    cerchio turchino sotto gli occhi le diventavano più visibili, il
    naso le si profilava sotto la mano della morte. La vittima era
    adagiata sull'altare attendendo la fiamma del cielo. Una emozione
    religiosa s'impadronì di tutti i cuori, assiderandoli nella paura
    dell'invisibile. La fisonomia della morente si illuminò. Il
    martirio, nobilmente accettato e intrepidamente sofferto, le dava
    l'ineffabile sembianza dei santi. Cortigiana immolatasi per la
    felicità d'una vergine sconosciuta, moriva sulla soglia del
    santuario, come gli antichi romei in vista del Golgota, sul quale
    era spirato il loro Dio: e allora, pregando per un più santo Romeo,
    cui il cielo concederebbe di baciare la terra bagnata del sangue
    divino, gli affidava nell'ultima preghiera l'adempimento del proprio
    voto mortale. La peccatrice perdonata, non era degna di morire nel
    tempio di Dio. Un'altra vergine sconosciuta, forse romita di qualche
    povera casetta, doveva ricevere dalle mani di un sacerdote il cuore
    di Alfredo. Ella solamente doveva essere madre, e piangendo sul capo
    dei figli insegnar loro la virtù del dolore. Violetta no; il suo
    labbro non avrebbe potuto baciare, senza profanarle, quelle teste
    innocenti, il suo nome sarebbe sempre stato per loro una condanna
    d'infamia. Ma in quel momento, purificata dalla morte, coi piedi
    sulla terra e la fronte nel cielo, non pregava più, ammoniva. China
    sul suo diletto, porgendogli come reliquia il proprio medaglione,
    gli ordinava di amare un'altra donna e di procedere come un forte
    sul cammino della vita. La sua voce non era più umana, la sua musica
    era più che divina. Era un alito più leggiero di quello d'un
    morente, e profumato come d'un fiore; una voce, che salendo in alto
    si attardava in un'eco, aveva la dolcezza diffusa di un murmure e la
    soavità penetrante di un bacio. Non era più nè voce, nè musica, ma
    l'anima che si dilatava in una oscillazione di luce; la fiamma, che
    discesa sull'altare del sacrificio aveva consumato la vittima, e
    risaliva lentamente verso il cielo. Allora un grido supremo di
    Alfredo percosse il teatro, grido di spavento e di negazione umana
    dinanzi a quella visione di paradiso; poi il coro degli altri
    mormorò bassamente, e tutto tacque. Violetta era morta; ma il suo
    cadavere respirava ancora. Si alzò, battè gli occhi, brancicò la
    luce, mandò qualche suono che parve di parole, indi un grido, e si
    spezzò. Violetta era morta prima.
    
    Allora tutti cacciarono il solito urlo, e il telone si abbassò per
    sempre sulla Traviata.
    
    Lo spettacolo essendo finito, incominciava il trionfo. L'aria era di
    fornace, densa ed insoffribile: un'afa torbida s'aggravava su tutti
    i respiri e tutti gli occhi. Palchi e platea si alzarono: nel
    loggione il soffio dell'uragano piegò tutte le teste della plebe sul
    parapetto, e squassò sonoramente tutte le braccia. Fu uno scoppio
    irresistibile, che salì come un unisono procelloso, mentre la
    percossa delle mani imitava lo scroscio della grandine, e l'accento
    dell'applauso femminile vi aggiungeva come un sibilo di rami secchi.
    Uomini e signore, aristocratici e borghesi, tutti applaudivano col
    medesimo orgasmo, con una impossibile vanità di far spiccare il
    proprio applauso. Nelle barcacce gli eleganti erano montati sui sofà
    e sugli sgabelli, i fiori piovevano; i cartellini a mille colori,
    coi due versi della lapide collocata a perpetua memoria nell'atrio,
    svolazzavano con un volo di farfalle intorno alle lumiere: la gente
    li ghermiva e si sentiva ripetere lo splendido distico
    dell'impresario poeta:
    
    /* Adele Patti dell'Italia vanto, Qui Felsina beò col divo canto. */
    
    Un vecchio dandy con un piede sul parapetto della barcaccia immaginò
    di agitare il fazzoletto bianco, e tutti lo imitarono con un urrà,
    di cui gran parte andava a lui stesso: altri gestivano coi cappelli,
    gli aggettivi più entusiastici e più audaci esplodevano. La folla
    fraternizzava, tutti vociavano col vicino incoraggiandosi a battere
    più violentemente, nessuno accennava ad uscire, i volti
    s'infiammavano come le teste ad ogni squarciarsi e racchiudersi del
    telone. La Patti correva sola alla ribalta con passo saltellato di
    fanciulla, sorridendo, ringraziando con un sorriso di vanità
    intenerita, ponendosi le mani sul cuore, portandosi una volta le
    dita sulle labbra. Intorno a lei i mazzetti fioccavano percotendola
    sulle vesti: ella li raccoglieva, ne inseguiva qualcuno, lo
    raccattava, lo perdeva sempre sorridendo, con una famigliarità di
    scherzo, con un sollazzo di ricreazione. E il pubblico andava in
    visibilio di questo sfarfallare della grande artista, di questo
    giuoco, nel quale egli era il leone ed ella la cagnuola. Poi
    l'entusiasmo vero lo riprendeva, e allora in mezzo a quella
    compiacenza metà paterna e metà infantile, ritornava popolo, e le si
    serrava intorno per alzarla sulle proprie voci se non sulle proprie
    braccia. Il palcoscenico stesso era invaso: molti, i più fortunati,
    avevano rotto la consegna, e si erano affollati nelle quinte per
    stringerle la mano fra una chiamata e l'altra: non si pensava più
    alla presentazione, al decoro dell'etichetta, alla distanza del
    genio. Quindi nella dimestichezza della ressa erano spuntati
    addirittura sul palco, in soprabito e cilindro, in giacca,
    disinvolti come tanti inservienti, dividendo l'ovazione colla diva,
    applaudendola dietro la testa, urlandole sul volto i loro
    complimenti forsennati. Ed ella rideva, facendosi sempre più
    piccola, discendendo al livello di tutti, curvandosi per cogliere
    l'applauso di tutti. Un momento, sulla soglia d'una quinta, mentre
    affranta dall'incessante ringraziare riparava nell'interno, si vide
    un signore, un vecchio notissimo, trattenerla porgendole da bere in
    un calice d'argento: era una reliquia, il bicchiere consacrato dalle
    labbra della Malibran. Ella lo prese con nobile gesto d'orgoglio, e
    bevve. Il pubblico non comprese, ed applaudì anche più
    strepitosamente. Intanto nessuno si moveva. Il telone si abbassava e
    si alzava come al vento, ed ella con quell'abito semplice, il volto
    ripulito dalla fisonomia biaccosa di tisica, arrivava insino alle
    barcacce, ai lumi della ribalta, si piegava sull'orchestra più
    rumoreggiante di tutto il resto del teatro, si gettava nella platea
    e nei palchi a gesti commossi e graziosi. Ma il loggione, troppo
    alto e troppo lontano per essere veduto, ingelosiva e lanciava urla,
    che parevano minaccie: ella alzò una volta il capo, e lo chinò con
    tale espressione di meraviglia sbigottita, che fu per lui il miglior
    complimento possibile. Il loggione indovinò e ruggì. Allora dalle
    sue tenebre, fra gli urli degli evviva e dei bis, una voce più forte
    di tutto lo schiamazzo ridomandò l'ultima romanza: tutti si volsero
    ed acconsentirono, le domande s'intrecciavano, si rivolevano tutti i
    pezzi più belli, ostinandosi in quell'impossibilità di averli con
    una compiacenza demente ed adulatrice. Giammai tempesta di teatro fu
    più ruinosa, nè folla più fitta e scompigliata. La maggior parte era
    in piedi sugli scanni, battendo i piedi, percotendo i bastoni,
    sbatacchiando i coperchi dei sedili per disperazione di non poter
    fare di più. Ma se il pubblico non si stancava, la Patti era
    esausta. Il suo passo diventava lento, il suo gesto spossato: la
    fatica dell'opera e l'emozione di quel turbine, per quanto vi fosse
    avvezza, la sopraffacevano. Il pubblico lo sentì, e si acquetò quasi
    d'improvviso. Ella riapparve ancora una volta, un urrà fece tremare
    la volta del teatro, e un paio di guanti, lanciato da un palchetto,
    venne a caderle ai piedi. Era l'ultima follia della sera. Ella lo
    raccolse con un sorriso, lo strepito ondeggiò, il sipario calò per
    l'ultima volta. Allora le piccole vanità vollero tentare di mettersi
    in mostra applaudendo ancora, mentre la folla si voltava per uscire:
    vi furono sforzi feroci, grida isolate e rauche, parve quasi che
    l'applauso si ragglomerasse, salì, oscillò, e si disciolse
    inutilmente. Tutti erano stanchi. Quindi la moltitudine cominciò ad
    occuparsi di se stessa, e un'altra curiosità la distrasse. Così
    denso ed illuminato, in quell'ondeggiamento di colori e di persone,
    il teatro era un altro spettacolo.
    
    Mezz'ora dopo in una piccola bottiglieria presso il Brunetti,
    affollata di gente, un gruppo di suonatori d'orchestra discuteva la
    Patti. Erano tutti giovani, che avevano preso nel mezzo Bartolomeo
    come un giocattolo, ma che nel calore della disputa se lo andavano
    dimenticando. Il buon uomo ascoltava intontito quella diatriba
    appassionata, nella quale sfolgoreggiavano le nuove teoriche
    dell'arte. I nomi celebri abbondavano fra una agglomerazione
    violenta di giudizi e di osservazioni bislacche, di argomenti acuti
    e di appunti sensati. Naturalmente Bodoni, il violoncellista, col
    suo entusiasmo a fondo pessimista, dominava la discussione,
    animandola. In quel momento lottava col primo violino di spalla, un
    giovane alto e magro dalla fisonomia malaticcia e l'accento freddo.
    Era il miglior allievo dell'illustre Verardi, una speranza
    dell'arte, di già celebre per tutta la città. Bartolomeo,
    contrabbasso dozzinale d'orchestra, guardava con rispetto misto di
    ammirazione quel ragazzo di vent'anni, che dava dei concerti, e
    ch'egli credeva destinato ad un immenso avvenire.
    
    - Ah, lo stile! - interrompeva il violoncellista - hai ragione. La
    Patti lo ha castigato, la sua misura è ineffabile, il suo accento
    sicuro. D'accordo; bisogna saper disegnare per essere pittore, ma il
    colore è più che il disegno, e il colore stesso non è che un
    elemento dell'arte. La vita sola, mio caro, chiamala anima, realismo
    o idealismo, tutte parole inutili, che spiegano male il secreto; la
    vita sola è tutta l'arte.
    
    Ma si fermò come sorpreso da una interna contraddizione. Rimase un
    istante concentrato, indi proruppe quasi stizzosamente:
    
    - Credi tu che la Patti sia un genio? No, perchè allora sarebbe
    troppo grande. Essere stasera Violetta per diventare domani sera
    Rosina nel Barbiere, poi Ofelia nell'Amleto, poi Dinorah, poi
    Margherita nel Faust, poi Amina nella Sonnambula: mio caro, ma
    allora è un fondere Verdi con Rossini, Rossini con Thomas, Thomas
    con Meyerbeer, Meyerbeer con Gounod, Gounod con Bellini: e nota che
    dietro Verdi c'è Dumas, dietro Rossini Beaumarchais, dietro Thomas
    Shakespeare, dietro Gounod Goethe, dietro Bellini c'è Romani, e
    quindi non c'è nessuno. Sarebbe troppo, ed è impossibile. La sua
    piccola testa dovrebbe contenere tutta la sostanza di quei cervelli
    creatori, se la magìa del canto le venisse da coscienza di ingegno
    drammatico. Ella non ne sa niente.
    
    - Che! - esclamarono tutti in coro.
    
    - Silenzio! Non m'interrompete - gridò con gesto vivacissimo,
    levandosi in piedi e cacciandosi più innanzi coi gomiti fra i
    bicchieri - . Credi tu che Salvini sia arrivato al fondo
    dell'Amleto, egli che lo fa come nessuno al mondo lo ha mai fatto? O
    Modena, il suo sublime maestro, che declamando Dante spingeva
    l'impudenza del proprio genio fino a fingersi Dante medesimo
    nell'atto d'improvvisare quei versi, come se Dante li improvvisasse,
    e si arrestava correggendoli: credi tu che Modena abbia sorpreso il
    processo del genio dantesco? Parla con Salvini di Shakespeare, e
    sentirai che genere di analisi: leggi ciò che Modena ha scritto su
    Dante, se vuoi comprendermi, e comprenderai che nessuno dei due
    artisti ha capito i due poeti. Eppure li rendono, e forse nè Dante,
    nè Shakespeare, assistendo alle loro recite, li avrebbero rinnegati.
    Perchè? Mistero. Cantanti, comici, suonatori, non comprendono mai
    quello che fanno; qualche volta lo sentono e nullameno lo rendono
    male; più spesso non lo sentono, e lo rendono benissimo. Quando la
    Patti fugge singhiozzando fra le quinte, la prima cosa, che le
    presentano, è un bicchiere di acqua o di vino per risciacquarsi la
    bocca; ecco per la sincerità della sua emozione drammatica. È la
    voce, il gesto, la fisonomia, è un arcano inesplicabile, che crea
    questi artisti, i quali muoiono senza provare quasi mai nessuna
    delle emozioni o delle idee, che destano negli uomini d'ingegno. La
    Patti possiede questo segreto: la sua voce ha le flessioni di tutti
    i sentimenti, le gradazioni di tutte le espressioni, lì, pronte al
    minimo cenno, sopra qualunque parola. Rossini si vantava di poter
    mettere in musica anche la lista del bucato, e ci sarebbe riuscito;
    la Patti, se vuole, ti farà piangere con uno stornello da osteria e
    col più sciocco. Rossini è un genio intellettuale, la Patti è un
    genio fisico. Qui sta la differenza.
    
    - Come si accordano allora?
    
    - Ecco ancora il mistero! Come stanno assieme anima e corpo? eppure
    ci stanno. Tu sei un grande suonatore: lasciamelo dire - ripetè ad
    un gesto del violinista: - tu suoni Beethôwen. Ebbene, giacchè
    dovresti secondo il tuo sistema averlo compreso, ti sentiresti di
    tradurre nel linguaggio comune le idee, che egli ha espresso col
    linguaggio musicale? Boito, e vedi che ha dell'ingegno, si è provato
    di scrivere la poesia di alcune fra le romanze senza parole di
    Mendelsonn, e ha dovuto smettere, poichè si accorgeva di diventare
    ridicolo. E tu vuoi che la Patti, afferrando il significato morale
    delle due Margherite, quella di Dumas e quella di Goethe, senta
    egualmente la diversità di questi due amori, ella che nell'amore è
    arrivata fino a Niccolini, e si è fermata? Eccolo lì il tuo genio
    femminile colla sua gamma di mondi e la sua scala semitonata di
    personaggi, che vanno dalla servetta alla dama, dalla civettuola
    alla martire, passando attraverso l'imperatrice e l'eroina: il tuo
    genio, che, identico a se stesso in ogni secolo e in ogni clima,
    rivivrebbe in tutti i temperamenti: eccolo lì, in adorazione,
    davanti alla testa grossa di Niccolini, il quale, credo, si tinga i
    capelli, e dovrebbe tingersi la voce per farla parere più giovane;
    eccolo lì, che viaggia l'Europa per fare quattrini, e si mette i
    diamanti regalati come i galloni della propria livrea di cantante.
    Questo genio - seguitava con una specie di rabbia - il quale in
    fondo non è che l'eco delle idee altrui, e non ha più coscienza di
    un'eco; questo miracolo, che appassiona tutto un mondo e me per il
    primo; quest'artista, che adoro e che disprezzo, che ha aspettato,
    dicono, quarant'anni per innamorarsi di Niccolini, un Alfredo, che
    ne ha cinquanta, e ch'ella ha nullameno anteposto al marchese
    proprio marito. Eccolo lì; questo genio femminile, al quale Rossini,
    il genio intellettuale, disse un giorno colla sua solita profondità:
    quando si è la Patti, si sposa un principe del sangue o un tenore:
    cioè, o si ha una grand'anima, e si diventa una gran dama, che non
    canta più che per amore; o si ha una piccola anima, e si resta una
    grande artista, che canta per i quattrini e s'innamora sul
    palcoscenico come le coriste. Naturalmente il tuo genio non capì: ed
    ecco la tua Patti, marchese di Caux, al Brunetti con Niccolini.
    Assurdo, demenza, vigliaccheria!
    
    Questa violenta diatriba pronunciata con voce stridula e
    accompagnata da una bufera di gesti sbaragliò per un momento tutto
    il coro degli elogi. Bodoni era rimasto in piedi, assaporando sulle
    faccie ammirate e confuse degli amici il trionfo dei propri
    paradossi. I suoi occhietti grigi di pollo scintillavano, mentre le
    dita per un vizio di suonatore gli picchiavano inconsciamente sul
    marmo del tavolino una suonata inintelligibile. Ma il violinista
    replicò. Egli era freddo e non gestiva. La sua fisonomia, smorta di
    ammalato, sarebbe stata quasi inanime senza la vivacità degli occhi,
    nei quali a quando a quando passava un baleno. Bodoni stava per
    ribattere, quando un altro lo prevenne.
    
    - Tu già sei sempre dell'avviso contrario - gli disse un clarinetto
    con accento piccato. Ma Bodoni non gli si volse nemmeno, e seguitò a
    guardare il violinista.
    
    Questa attenzione lo lusingò.
    
    - Tu parli benissimo, ma sei andato fuori di questione. Appunto
    perchè la voce della Patti non è perfetta come quella della
    Frezzolini, e Bartolomeo aveva ragione...
    
    - Niente, niente, non lo dirò mai più - interruppe Bartolomeo con
    impeto così comico di convinzione, che tutti sorrisero; e l'altro
    seguitò:
    
    - Appunto per questo avevo voluto insistere sulla purezza del suo
    stile e sulla perfezione del suo metodo. Se non hai ragione in
    tutto, ne hai moltissima qui: il segreto dei cantanti sta nella
    impostatura della voce, nel conoscerne bene il registro, e nel saper
    formare la nota. Il resto è natura; il timbro, l'accento, la pasta,
    l'estensione non si acquistano. Per esempio, io preferisco i bassi
    della Stolz a quelli della Patti: la Galletti ha molte note
    migliori, ma è un altro temperamento di artista; forse egualmente
    forte, ma più limitato. Non so se la Patti nell'ultimo atto della
    Favorita la vincerebbe. La Patti invece è insuperabile, e mi pare
    che oltrepassi persino le esigenze dell'immaginazione nell'agilità:
    le sue note si sgranano come perle e balzano come tanti martelli di
    pianoforte. Quanti anni di studio le costeranno!...
    
    - Peggio per lei - irruì Bodoni. - Guerra all'agilità, abbasso le
    variazioni. Se Thalberg non fosse morto, io voterei serenamente la
    sua decapitazione; egli rappresenta la putrefazione nella musica. Le
    sue variazioni sopra un motivo mi hanno sempre avuto l'aria di vermi
    sopra una carogna.
    
    - Bene! - fu urlato in coro.
    
    - Non è questo che intendevo - proseguì senza scomporsi il
    violinista. - Prima di tutto vi è variazione e variazione.
    
    - Cioè gargarismo e gorgheggio, d'accordo - intercettò ancora
    Bodoni.
    
    - Sia come vuoi; ma quelle del finale del primo atto...
    
    - Ah, non me lo dire! Sì, ecco le variazioni: ciò è giusto, è
    sublime. Io firmo, io, e non vario per questo. Ma che accento in
    quegli scatti, che legature di orefice fra quegli sbalzi di tono e
    in quel rimescolamento di note! Ma questo è vero, questo è ancora
    canto, e non vocalizzo! Ti ricordi la Donadio nella Sonnambula? E
    c'è chi la paragona alla Patti! Morte alla Donadio, a questa bella
    donna, che pare una fattora e deve avere, sono io che te lo
    assicuro, un'anima più grossa del corpo della Patti. Il suo rondò
    finale nella Sonnambula, che faceva delirare al Corso, è un affare
    di cariglione, o, se ti piace meglio, non è più un pezzo della
    Sonnambula, ma uno squarcio d'esercizio.
    
    - È troppo! - esclamò il violinista rattenendolo con un gesto di
    pacificazione.
    
    - Sì, ciò che dissi anch'io quella sera; è troppo! - replicò
    l'implacabile Bodoni con accento di scherno - ma il pubblico allora
    applaudiva in delirio, e stasera è quasi rimasto freddo ai gorgheggi
    della Patti. Giustissimo: Berlioz, Beethôwen, Donizetti, che muoiono
    quasi nella miseria, mentre Marchetti, che ha musicato il Ruy-Blas
    di Hugo peggio che Garibaldi non abbia scritto il proprio sbarco dei
    Mille, morirà nelle ricchezze guadagnate.
    
    Lascia stare Garibaldi - disse severamente il clarinetto entrato
    nella disputa: - tu non sei neanche degno di nominarlo.
    
    - Come tu di averlo avuto generale a Mentana quando sei scappato.
    Niente: io sono aristocratico. Se i repubblicani arrivassero al
    potere, forse la loro prima legge sarebbe di abolire la dote dei
    teatri per distribuire ai poveri i diecimila franchi della Patti. Io
    che invece sono aristocratico, preferisco la musica ai poveri.
    Probabilmente per l'onore dell'umanità, la tua repubblica del dovere
    non sarà mai che una prosa fredda come quella di un processo
    verbale, la forma più bassa della letteratura, mentre la musica è la
    cima più alta dell'arte. Se ti dicessero stasera: sta in te, puoi
    fare la repubblica o avere la Patti? Ebbene, tu sceglieresti la
    repubblica, infelice clarinetto, e anderesti in piazza con un'altra
    guardia nazionale a stonare l'inno di Garibaldi, che è brutto.
    Ricordati, patriota repubblicano, che l'inno austriaco di Haydn è
    sublime. Se tu fai la repubblica, io ti abbandono Niccolini, che è
    degno di cantare i vostri inni democratici, e mi tengo la Patti.
    Bartolomeo, tu sei un uomo onesto: giurami che sei del mio gusto, e
    che accetterai la Patti piuttostochè la repubblica.
    
    Una risata clamorosa accolse questa diversione su Bartolomeo, che
    sbattè gli occhi in segno di assenso.
    
    - Pensaci, mio caro Bartolomeo, se vuoi diventare il suo amante,
    perchè sei vecchio e il tempo stringe. La Patti non è bella come
    femmina, ma è talmente elegante come donna, che Cremona, il pittore
    milanese, le ha proposto di farle un ritratto, sedotto dalla
    intonazione della sua toeletta. T'immagini tu di essere il suo
    amante, nel suo magnifico appartamento di Parigi, perchè sono sicuro
    che ne ha uno magnifico, dopo averla veduta in teatro fra il delirio
    del pubblico, sopra una bufera di desiderii: sapendo che fra un'ora
    ella ti aspetterebbe in un gabinetto di raso, e che quattromila
    persone si farebbero tagliare a pezzi per entrarci in vece tua. Ciò
    è superbo. Ecco la vita, mio povero clarinetto repubblicano: posare
    i piedi dove gli altri arrivano appena colla fronte, possedere ciò
    che tutti desiderano, e magari gettarlo. La tua repubblica è una
    livellazione, una pianura: io pittore preferisco il paesaggio
    accidentato della montagna, io uomo adoro le cime e vi pianto sempre
    i miei castelli fantastici. Se fossi come te, mio grande Bartolomeo,
    l'amante della Patti, vorrei un gabinetto di raso cilestro, mi
    coricherei sopra un divano colla pancia in aria, e vorrei che ella
    mi si accovacciasse daccanto sul tappeto come una cagnina. Allora
    chissà a che cosa si pensa. Ma in mezzo alle tue distrazioni non
    avere che a dirle: Adelina, accendimi il sigaro, e cantami il finale
    del Trovatore, la frase più bella di Verdi, la frase più sublime di
    Eleonora: ed ella, che la canterebbe per me solo, come in teatro e
    meglio. Tu sai la mia stranezza: io adoro la voce senza
    accompagnamento di sorta, perchè mi pare che il linguaggio vero sia
    così. L'Adelina mi canterebbe sul capo come a Manrico, e all'ultima
    nota, colla sua leggerezza di prima donna, che ha migliorato sul
    palcoscenico la naturale facilità di cadere, mi si rovescerebbe
    addosso, gettandomi un bacio dentro la bocca. Così.
    
    E accompagnando il fatto alle parole, si avventò alla faccia di
    Bartolomeo, che lo aveva ascoltato a bocca aperta, e vi soffiò
    dentro come sopra una candela.
    
    Bartolomeo, che si era abbandonato alla poesia buffona e voluttuosa
    di quel sogno, ebbe un tale sussulto e strizzò gli occhi così
    comicamente che la discussione degenerò in baia, ed egli ne fu la
    vittima. Allora gli rinfacciarono la commozione all'ultimo atto in
    quel violento pizzicato, quando piangeva a lacrimoni, guardando
    morire la Patti. Egli non negava.
    
    - Che! sissignore, ho pianto, ed ella mi ha visto.
    
    - Lo hai dunque fatto apposta - esclamò Bodoni.
    
    - Io! no; mi vergognavo anzi: ma non ho potuto mandarla giù; mi si è
    serrato il gozzo a quella vocina, con quella cuffia, che la faceva
    quasi parere più bella.
    
    - La voce?
    
    - No.
    
    - E tu ti sei innamorato!
    
    - No.
    
    - Sì, sì - gridavano in coro.
    
    - Domattina - disse il violinista - io debbo esserle presentato da
    Verardi, che ella desidera gentilmente di conoscere: glielo dirò.
    
    A queste parole, pronunciate coll'accento più freddo, Bartolomeo
    ebbe davvero spavento. Il carattere serio del violinista fra tutti
    quei cervelli scapestrati gl'ispirava una tale stima, che non dubitò
    nemmeno dello scherzo. Ma Bodoni non gli diede il tempo di
    rimettersi.
    
    - Io ti osservavo, sai. Tu le hai fatto la corte tutta la sera:
    negli intervalli, quando ti parlavo, eri distratto, pensavi a lei.
    Senti, mio povero Bartolomeo. Tu lo sai se ho amato nessun
    contrabbasso come te: questa passione ti ucciderà. Nel - Gran Dio,
    morir sì giovane - la Patti si è voltata per vedere quale era il
    contrabbasso, che accompagnava con gemiti così sdegnosi e profondi
    le sue ultime grida di disperazione. In quell'occhiata le vostre
    anime si sono intese, ma una barriera insormontabile dividerà sempre
    i vostri corpi. Ella è un soprano e tu un basso. La natura e l'arte
    ti hanno votato all'accompagnamento, per te non vi sono duetti. Tu
    non dormirai questa notte: domani sera soffrirai come un dannato
    vedendo il tuo tragico ideale trasformato in una Rosina briosa sino
    alla sfrontatezza; perchè capirai, che se la Patti dovesse
    trattarti, avrebbe per te le maniere canzonatorie di Rosina e non la
    dolcezza mesta di Violetta. Poi la Patti partirà, e tu cosa farai a
    Bologna? Penserai a lei.
    
    - Senza dubbio - esclamò Bartolomeo.
    
    - Questo pensiero ti ammazzerà, perchè l'impotenza è più micidiale
    dello stravizio, e il desiderio logora più dell'uso.
    
    - Ma io non sono innamorato.
    
    - Generosa menzogna! Tu vuoi salvare la tua donna dal ridicolo: ma
    giacchè sei generoso, sarai naturalmente sciagurato. Ella non ti
    imita, e affronta la caricatura: in questo momento la Patti e
    Niccolini sono in una camera da letto dell'Hôtel Brun. Tu
    impallidisci - gridò - mentre tutti invece lo facevano arrossire,
    guardandolo: infelice, tu vali più di Niccolini, e morirai della sua
    morte! Avete quasi la stessa età: solamente tu morrai di fame, ed
    egli precisamente dell'opposto: te l'ho già detto, ma se il
    desiderio logora più dell'uso, l'uso ha questo di orribile, che
    logora anche il desiderio.
    
    Queste ultime parole portarono l'ilarità al colmo. Ma il padrone
    disse di voler chiudere, e il gruppo degli amici dovette alzarsi. I
    conti della birra e del vino sviarono per un momento l'attenzione,
    Bartolomeo potè alzarsi, ricevette ancora qualche risata, e,
    infilandosi il sopratutto, si avvicinò alla porta. Una contestazione
    minacciava d'insorgere, l'oste piuttosto villano alzava la voce,
    quando Bartolomeo si ricordò improvvisamente di essere aspettato a
    casa, si volse, diede un'occhiata e, vedendosi inosservato, se la
    svignò.
    
    Quando arrivò a casa, Adelaide, che lo attendeva, da due ore, lo
    accolse malamente. Per un motivo inesplicabile, invece di coricarsi,
    lo aveva aspettato in cucina, a tavola, con un vecchio mazzo di
    carte in mano.
    
    - Finalmente! - esclamò con quella collera fredda, che in certuni è
    il colmo della esasperazione.
    
    Bartolomeo divenne mogio mogio, perchè aveva paura: Adelaide era la
    sua amante da sei mesi. Si erano conosciuti da lunghi anni in teatro
    senza parlarsi, poi il caso li aveva messi ad uscio e uscio, e
    allora avevano stretta relazione, passando alle intimità per finire
    nell'amore. Ma veramente non si amavano. Adelaide, vedova, aveva
    maritata l'unica figlia fuori di Bologna, e, rimasta sola,
    s'ingegnava a levar le macchie dagli abiti, a stirare, per buscarsi
    la vita; poi la sera, capitando, faceva la corista al Brunetti o la
    cameriera alle prime donne di prosa e di canto, che vi transitavano.
    Naturalmente a tutti questi mestieri la sua coscienza si era fatta
    più larga che pulita. Ella non se ne nascondeva, anzi sui primi del
    loro incontro aveva affettato una tale insubordinazione beffarda a
    tutti gli scrupoli, che Bartolomeo, timido anche in quell'età,
    trovandovi del piccante, si era lasciato accalappiare. Solo, di
    costumi morigerati, suonando tutte le sere, aveva messo da parte
    qualche cosa; l'Adelaide l'aveva indovinato. Quindi cercò di
    attirarselo, e Bartolomeo gliene fornì il pretesto; poichè,
    costretto a mangiare in trattoria come tutti gli scapoli, aveva
    finito per rimpiangere la vita di famiglia, il pranzetto quotidiano
    discusso ogni sera ed allestito ogni mattina, le piccole provviste,
    le festicciuole, tutte le gioie casalinghe, pigre e squisite
    malgrado la loro volgarità. Alla trattoria non poteva fare nessuno
    dei propri comodi, non sbottonarsi il corpetto e il primo bottone,
    il più alto, dei calzoni, come la natura gl'imponeva sempre a mezzo
    del pranzo: l'inverno aveva freddo alla testa mezzo calva, ma tenere
    il cappello mangiando era troppo, la berretta sarebbe stata
    abbastanza, ma non l'osava per soggezione dei camerieri e degli
    avventori. Sopra tutto la pipa l'angustiava. Bartolomeo possedeva
    una enorme testa di moro, in spuma, diventata nera come un moro
    originale, e nella quale fumava da molti anni in casa per non
    correre il rischio e l'incomodo di portarla fuori. Il solo astuccio
    era già un bauletto, la lunghissima cannuccia, a nocciolo d'ambra, e
    di ciliegio boemo, diceva lui, odorava ancora. Per Bartolomeo questa
    pipa era quasi tutta la famiglia, perchè il vecchio merlo dal becco
    giallo, che teneva in cucina, rappresentava l'amicizia. Pranzare
    modestamente in cucina, massime l'inverno, col merlo che verrebbe a
    beccare sulla tavola, la pipa, carica come una bomba inoffensiva a
    fianco, con un immenso paltò spelato, che gli faceva da veste da
    camera, annusando il profumo dei piatti sopra i fornelli, dando
    un'occhiata alle casseruole, servendosi e servendo qualcuno, era da
    lungo tempo il suo ultimo sogno. Secondo lui le serve erano tutte
    ladre; giovani aprivano la casa agli amanti, vecchie ai figli e ai
    parenti. Così, ammassando qualche mobile e le stoviglie necessarie a
    piantar casa, aveva oltrepassato la cinquantina senza sapere neppur
    egli come: una volta faceva da scrivano in uno studio di notaro, poi
    aveva smesso, e non faceva più nulla. L'inverno andava al sole nei
    giardini pubblici, e si fermava coi giardinieri in lunghi cicalecci:
    al tempo cattivo in qualche caffè a leggere i giornali o giocare la
    partita a domino, o da qualche amico. Del resto suonava spessissimo,
    anche di giorno, avendo la clientela di quasi tutti i curati: non vi
    era festa senza il suo contrabbasso.
    
    Poscia aveva conosciuto l'Adelaide. Una volta doveva essere stata
    piuttosto bella, adesso era ancora benissimo conservata: aveva le
    carni vermiglie, i capelli neri, i denti bianchi. Naturalmente le
    borsine degli occhi si cominciavano a gonfiare, e gli angoli della
    bocca le si raggrinzivano; ma il suo seno aveva ancora un magnifico
    turgore, massime per la vita troppo corta e le spalle un po' tozze,
    che lo facevano stare più alto. Il resto era quasi insignificante,
    statura comune, naso regolare, fronte egualmente, come nei connotati
    dei passaporti. Solo, come segno particolare, aveva una lanuggine,
    oramai barba, lungo le guancie, e due occhietti neri, rotondi,
    affossati, di una mobilità eccessiva, a volta a volta di una gelida
    durezza. Adelaide conquistò Bartolomeo in pochi giorni. La prima
    domenica pranzarono assieme in cucina, la stessa sera Adelaide
    rimase nella sua camera. Bartolomeo era felice: l'Adelaide, da donna
    accorta, aveva conservato la propria stanza, che comunicava colla
    cucina e rispondeva libera sul pianerottolo, per ricevervi qualcuna
    delle proprie pratiche: vi aveva messo un fornello, e talora vi
    stirava. Ma siccome qualche soldo lo guadagnava essa pure, sul
    principio contribuì alle spese domestiche. Fu un incanto, giammai
    due coniugi avevano vissuto più armonicamente. Bartolomeo
    ringiovaniva, sebbene si accorgesse di non essere innamorato.
    Sedotto da quel benessere sensuale, cui l'ordine e l'economia davano
    quasi un'apparenza di virtù, e soddisfatto nell'egoismo di vecchio
    celibe, che vorrebbe la famiglia senza i suoi impicci, si
    abbandonava morbidamente in quella nuova vita del focolare. Avevano
    comprato un fusto di vino e un mezzino di castagne da cuocere sotto
    la cenere alla sera. Adelaide, che s'intendeva veramente di cucina,
    preparava certi pranzetti, ai quali Bartolomeo paragonava con
    voluttà orgogliosa i pranzi della locanda, cogli umidi riscaldati
    mille volte e gli arrosti lessati prima nella pentola. Ma, per
    l'istinto di tutte le felicità e la prudenza naturale ai suoi anni,
    Bartolomeo non aveva aperto bocca con alcuno; solamente aveva finto
    di sdegnarsi coll'ultimo oste e di averne trovato un altro, che gli
    mandava il pranzo a casa. Infatti la colazione colle ova e la
    Gazzetta dell'Emilia la faceva sempre al solito caffè.
    
    Ma Adelaide lo dominava. A poco a poco gli invadeva tutta la vita a
    forza di rendergliela comoda e di risparmiargliene le brighe. Gli
    aveva compiuto il fornimento della casa, aumentata la biancheria,
    rimesso quasi a nuovo il vecchio letto di noce a due posti,
    ricoprendolo di un grande baldacchino bianco e decorandolo di una
    bella madonna a stampa colorata. Ella stessa faceva la spesa, e
    stabiliva il pranzo: gli fissava l'ora per tornare a casa o per
    alzarsi, lo mandava sino in giro per qualche commissione, che egli
    sulle prime accettava con una specie di contentezza galante. Se non
    che una volta avendo voluto rifiutarsi, ella fu così ragionevole
    nelle osservazioni e severa nelle parole, che dovette arrendersi con
    un sentimento di soggezione. Quello fu il primo sintomo del
    servaggio. Poco tardarono gli altri, insignificanti all'apparenza,
    ma così frequenti, che si trovò arretato prima di sentirsi nella
    rete. Un altro giorno gli fece una scena di gelosia. Bartolomeo, che
    non vi aveva mai pensato, ne ringalluzzì, ma poco dopo si sorprese a
    pensare sul passato poco scabro di lei, e a domandarsi se alla
    propria volta dovesse essere geloso. Il problema era difficile, la
    china molto sdrucciolevole. La loro vita di camerati, alla quale la
    differenza di sesso aggiungeva un'attrattiva di più, leggiera fino
    allora, diventerebbe una vita di matrimonio, tanto peggiore quanto
    era fuori della legge, il giorno che, facendosi geloso, affermasse
    la propria solidarietà con quella donna. Si accorgeva di non amarla,
    ma che d'ora innanzi non avrebbe più potuto fare senza di lei. E lì
    erano rimasti, quando capitò la Patti. Adelaide, che avrebbe voluto
    servirle da cameriera per buscarsi qualche grossa mancia, non voleva
    saperne di corista, ma quando si vide rifiutata per la prima volta,
    diceva lei e non era vero, la sua collera e la sua lingua non
    conobbero più freno. Bartolomeo, cui i lirismi dei giornali avevano
    desto il prurito delle negazioni, l'aveva secondata, promettendosi a
    teatro una cattiva impressione; ma a rovescio di ogni calcolo,
    sollevato dal più grande entusiasmo, si era nella sincerità della
    propria grossolana natura dimenticato persino della Adelaide.
    
    Quando entrò nella cucina, e la vide alla tavola colle carte in
    mano, allibì: la fisonomia dell'Adelaide stanca dal sonno e gonfia
    dall'ira, non prometteva niente di buono; e, sintomo spaventevole,
    ella non si era tratta nemmeno il sopratutto. Bartolomeo indovinò,
    che lo aspettava così da quasi tre ore. Poi le sue frasi a pranzo
    contro la Patti gli tornarono nella mente, urtandosi coi discorsi
    entusiastici della bottiglieria. L'Adelaide fu tremenda. Invano per
    calmarla egli affettava la più grande docilità; la voce di lei si
    alzava ad ogni parola, stridula e sibilante, come uno scudiscio,
    sferzandolo, non lasciandogli nemmeno il tempo di offendersi,
    destandogli una inesprimibile ripugnanza per quella donna, che gli
    si rivelava in un momento, mentre la sua anima era tutta piena della
    rivelazione della Patti. Ma colla prudenza di un uomo, che sa
    compatire una stranezza, e rattenuto da un sentimento delicato,
    poichè l'Adelaide non era in fondo che sua ospite, e si sarebbe
    vergognato di cacciarla così su due piedi, si lasciò generosamente
    opprimere: solamente, essendogli sfuggito un moto di diniego ad una
    sua laida stupidaggine contro la Patti, ella esclamò furiosamente:
    
    - Ah! anche tu sei innamorato di quel baccalà?! Tutti urlavano
    stasera: sì! perchè non la vedevano da vicino come noi. Va là, è
    secca come un uscio, ha tutta la pelle grinza. Se ci aveste guardato
    al collo, invece di guardarla cantare, ve ne sareste accorti. Ci
    voleva ben altro che quel vezzo di perle, che ella si sarà
    guadagnato senza cantare. Oh! - insistette ad un altro suo moto -
    credi che cantasse anche allora! Sarebbe carino per l'uomo in quel
    momento di sentirla stonare, perchè la tua Patti stona. L'ho sentita
    io, non importa che mi dicano di no, perchè le orecchie io le ho
    buone, più degli altri, e me ne sono accorta. Sì, stona come
    Niccolini, che è vecchio come te ed è il suo amante: degni uno
    dell'altro: vivono assieme e guadagnano assieme - aggiunse con un
    sibilo, che esprimeva più di tutte le frasi di Bodoni.
    
    - Cosa importa se ama Niccolini - disse nobilmente Bartolomeo.
    
    - A me?! e a te?
    
    - Io...
    
    - Mo! innamòrati: è la donna dei vecchi; già alla sua età bisogna
    essere ragionevoli. Non ho fatto così anch'io? - strillò,
    guardandolo con una sfacciataggine, che era il colmo dell'ingiuria.
    
    A questo insulto, che lo toccava nella sua sola debolezza,
    Bartolomeo provò una stretta al cuore.
    
    - Solamente - seguitò, gonfiando il petto e arrovesciando il collo
    con moto d'orgoglio - la tua Patti pare la carcassa di un ombrello.
    Pelle e voce, come i rosignuoli; non è vero, tu che la credi tanto
    brava, la prima donna del mondo?
    
    - Ma non ne parliamo più; a te non è piaciuta, ecco tutto.
    
    - Ti do fastidio?
    
    - Ma no: hai ragione, se la vuoi.
    
    - Se la voglio? tientela la tua ragione; per chi mi pigli? Credi che
    sia perchè non mi ha voluto nel camerino? Non ci penso nemmeno. La
    sua cameriera l'ho vista: dicono che è una sarta di Parigi, ma
    l'ultimo abito dell'ultimo atto non era nemmeno stirato. Fin lì ci
    arriviamo anche noi, a Bologna, non ci è bisogno d'andare a Parigi
    per questo. Cosa credono questi forestieri? Poi lei è italiana, e
    dovrebbe avere più riguardi: invece li ha tutti per Niccolini. È
    lei, che gli tinge i capelli per ingannare il pubblico; lo vorrà
    forse vendere. Già quello che si compra si può anche vendere.
    
    Bartolomeo non ne poteva più.
    
    - Ci mettiamo a letto? - borbottò dopo un momento, andando verso il
    lume sulla tavola.
    
    Ma ella lo fermò con una occhiata. Bartolomeo non l'aveva mai vista
    così.
    
    - Hai sonno! - quindi si gonfiò ancora, ghermì il lume e con un
    gesto, che la Patti stessa le avrebbe invidiato, gli si avanzò fin
    sotto al naso, e gli soffiò in faccia:
    
    - Buona notte! - quindi voltandogli le spalle, invece di andare
    nella camera, aprì l'uscio della propria stanza, e lo rinchiuse a
    chiavistello.
    
    Bartolomeo rimase al buio. Non capiva bene. Il furore dell'Adelaide
    doveva dipendere da altro che l'avere egli fatto troppo tardi quella
    sera: forse ella non aveva potuto perdonare alla Patti lo sfregio di
    averla ricusata, e la ovazione del teatro l'aveva esasperata. Egli
    no invece, amava il merito ed applaudiva volentieri. Ma quella
    congiura in tutti di dirgli che era innamorato della Patti,
    cominciava ad impensierirlo seriamente. Se n'erano dunque accorti?
    Aveva commesso qualche imprudenza, o tra le sue parole, che pure gli
    sembravano castigate, glien'era sfuggita qualcuna, la quale potesse
    comprometterlo?
    
    E intanto che questi pensieri gli battevano sul cervello, aveva
    acceso un altro lume. Attese, origliò. Adelaide non si andava a
    letto. Allora si arrestò discutendo seco medesimo se dovesse dirle
    qualche buona parola: ma a mezzo la riflessione si accorse di essere
    egli dal lato della ragione e di avere ricevuto in compenso un sacco
    di contumelie. Infine il torto era di Adelaide. Però una voce
    segreta gli diceva con insistenza sempre maggiore di picchiare al
    suo uscio. Naturalmente Adelaide doveva aver sofferto dello sfregio,
    in teatro, dove i pettegolezzi sono così facili e pungenti;
    bisognava compatirla, le donne sono sempre donne. Tornò ad
    aspettare: la sua bontà avrebbe voluto, ma il suo coraggio non
    osava; tentennò, si ammonì, si spinse due o tre volte verso
    quell'uscio chiuso, che in quel momento rappresentava il più grande
    ostacolo di tutta la sua vita. Era molto tardi, aveva quasi freddo.
    L'aspetto del focolare e degli arnesi tenuti con estrema pulizia lo
    commossero; l'Adelaide era pure una brava donna. Forse le avrebbe
    dovuto maggiori riguardi in tale critica circostanza, giacchè colle
    donne non è mai questione che di tatto. In quel momento la sua
    grossa faccia di contrabbasso esprimeva un imbarazzo pieno di
    benevolenza, che avrebbe commosso un nemico. Finalmente la bontà del
    suo cuore trionfò della timidezza del suo carattere, e camminando
    sulle punte dei piedi, colla circospezione d'uno scolaro, che vuole
    origliare alla porta del maestro, venne ad incollare l'orecchio alla
    fessura dell'uscio. Però malgrado tutti gli sforzi di leggerezza lo
    scricchiolio delle scarpe lo aveva tradito. Un fruscio di abiti
    usciva dalla stanza. Si sveste! pensò Bartolomeo, e credendo il
    momento buono, picchiò discretamente alla porta: ma quasi
    contemporaneamente, come risposta collerica, che non lascia nemmeno
    esaurirsi la domanda, uno stivaletto lanciato a tutto braccio venne
    a percuotere proprio dove egli si appoggiava colla fronte.
    
    La sua anima era così disposta alla benignità d'un accomodamento,
    che fu miracolo se non gli cadde la candela di mano. Si drizzò
    pallido, e sempre indietreggiando sulle punte dei piedi, tornò alla
    tavola. Pareva prostrato. Una malinconia improvvisa venne da tutti
    gli angoli della cucina, nella quale aveva sorriso a tanti
    pranzetti, e che in quel momento era tornata fredda come prima
    quando, vivendo solo, non vi accendeva mai il fuoco. Abbassò la
    testa. L'altro stivaletto gettato collo stesso impeto, invece di
    battere nella porta, urtò nel canterano e produsse un suono secco:
    intese il letto scricchiolare sotto il peso di Adelaide, che vi si
    rannicchiava ferocemente, sentì il suo soffio smorzare la candela, e
    rimase colla propria in mano guardando. Aveva tuttavia il paltò
    nelle braccia, il largo cappellone in testa. Sospirò, poi, scuotendo
    malinconicamente il capo colla rassegnazione della buona gente che
    crede di disarmare il destino accettandolo, andò verso l'uscio della
    propria camera, e vi sparì. La cucina restò abbandonata come un
    campo di battaglia, dal quale ambe le parti si erano ritirate negli
    accampamenti.
    
    Ma a letto il pensiero gli tornò sulla Patti. Sentiva ancora la sua
    voce, vedeva ancora la sua gracile e pallida figura muoversi
    stancamente sul palcoscenico in una penombra mortuaria, con
    un'aureola di martirio sulla fronte; e, mentre il cuore gli si
    tornava giovanilmente ad intenerire, la Patti rientrava nella scena
    sorridendo sotto la grandine degli applausi, disinvolta come una
    regina, amabile come una fanciulla. Allora tutto il pubblico subiva
    il prestigio della donna dopo aver provato il fascino dell'artista,
    e l'onda del desiderio di tutti arrivando al cuore di Bartolomeo lo
    bagnava entro una spuma mordace. Invano Niccolini, preso per mano la
    Violetta, veniva ad opporsi all'impeto della marea; la tempesta
    raddoppiava di violenza, e investendo quel bianco fantasma di donna,
    lo portava sempre più in alto, come quelle larve di nebbia, che
    dondolano mollemente in fondo all'orizzonte marino. Bartolomeo
    pensava alla Patti. Tutti i sarcasmi sguaiati di Bodoni e le infamie
    dell'Adelaide gli suonavano alle orecchie. Le aveva intese susurrate
    tutto il giorno, le aveva lette nei giornali velate dalla forma più
    trasparente dell'indiscrezione, abbigliate colla frase più ipocrita
    d'un complimento: poi le aveva ascoltate la sera nell'orchestra, le
    aveva colte nel pubblico, finalmente Bodoni le aveva disciplinate in
    una teoria paradossale e l'Adelaide denudate nel più cinico
    impudore. Ma la Patti usciva radiosa da quella bruma d'improperi.
    Egli non ci credeva. Forse l'amore di Niccolini non era vero, forse
    era la pietà d'una grand'anima d'artista per questo infelice tenore,
    vicino a perdere la voce senza essersi acquistato un patrimonio.
    Fors'anco la Patti lo amava, ma se la ragione intima di questo amore
    gli sfuggiva, doveva esserci, e degna di una donna, che arrivava col
    proprio genio all'altezza dei genii più eccelsi. Giammai donna aveva
    potuto cantare così. La Malibran, egli non l'aveva sentita, e
    nullameno era sicuro che a quei tempi dovevano contentarsi di poco.
    E quell'ultimo sogno tratteggiato con causticità così voluttuosa da
    Bodoni gli fluttuava sul letto, riempiendogli la camera di luce.
    Essere la Patti o essere il suo amante era troppo anche per un
    sogno. Essere giovane, perchè la Patti per lui, malgrado ogni
    verità, non aveva che venticinque anni; essere bella e cantare a
    quel modo! Nessuna regina aveva un regno più vasto o un popolo più
    innamorato. Tutti i giornali bruciavano per lei gli incensi più
    odorosi, la gente si pigiava alle porte del suo albergo, si
    schiacciava nei suoi teatri; molti avrebbero rubato per comprare un
    biglietto di loggione, i milionari le gettavano i diamanti come
    fiori, i sovrani andavano in camerino a baciarle la mano. In nessun
    paese del mondo vi era una donna come lei. Ma essere il suo amante
    era ancora più bello. Qui la sua immaginazione si perdeva. Solo, in
    quel letto a due posti, non pensava più all'Adelaide e non sentiva
    più la realtà della camera. I suoi desiderii non si formulavano
    ancora, ma le immagini più bislacche si accendevano e svanivano nel
    suo cervello come fosforescenze di legno imputridito, che, imitando
    il bagliore delle gemme, vibravano nella notte incomprensibili
    sorrisi. In quell'aurora boreale della passione tutti gli oggetti e
    tutti i colori gli si confondevano; Niccolini e la Patti non erano
    più che una luce ed un'ombra, un canto ed un accompagnamento, che
    passandogli per l'anima, se la trascinavano dietro. Egli non sapeva
    bene se vegliava o sognava.
    
    La mattina si era già scordato di tutto, ma attese invano che
    l'Adelaide gli portasse il caffè a letto, una delle ultime e più
    voluttuose abitudini della sua nuova vita. Si alzò avvilito, poi
    sentendo rumore nella cucina, così come si trovava, in manica di
    camicia e in ciabatte, finse di aprire sbadatamente la propria
    porta: nello stesso momento, quasi il suo pensiero fosse stato
    penetrato, l'uscio dell'altra stanza si rinserrava, e la cucina
    restava deserta. Il focolare era spento, un fornello acceso. La
    cocoma del caffè vi gorgogliava spumeggiando. Egli non osò
    trattenersi, ritornò nella propria stanza, e uscì di casa senza aver
    visto l'Adelaide. Appena fuori la regolarità delle abitudini lo
    calmò al punto, che entrando nel caffè aveva già il solito sorriso
    per i camerieri. A colazione lesse tra gli amici abituali un
    brillante articolo del Panzacchi sulla Patti, poi rimase solo,
    rilesse l'articolo, lo confrontò coll'altro della Gazzetta
    dell'Emilia, andò verso i giardini. A quell'epoca non c'erano ancora
    i tramways. Vi rimase fin tardi, poi ritornando s'incontrò
    fortunatamente in Bodoni. Quel giorno era vestito di un paltò
    incredibile, giallognolo di crema, sul quale la sua piccola testa
    smorta, senza quella barbetta tosata rabbiosamente alla Enrico IV e
    macchiata di rossiccio e di castano, sarebbe parsa una cimasa di
    latte e miele. Ma era serio.
    
    - Vieni a pranzo con me - gli disse a bruciapelo.
    
    A Bartolomeo si allargò il cuore.
    
    Il discorso cadde naturalmente sulla Patti e sugli articoli dei
    giornali, che Bodoni trovava nauseanti d'imbecillità. In nessuno,
    nemmeno il tentativo di un'analisi, tutti s'erano tratti d'impaccio
    rovesciando sul capo dell'artista i superlativi più strani; così chi
    aveva capito aveva capito.
    
    - Invece - seguitava con accento severo - hanno gratificato
    Niccolini di complimenti velenosi. Anzi tutto questo amore potrebbe
    essere una invenzione sciagurata, ma quando pure fosse una realtà,
    il pubblico non avrebbe a ridirvi. Che importa se una grande artista
    ama un genio o un idiota, un sovrano o un paltoniere? La Patti non è
    la Patti, che sulla scena, e allora Niccolini scompare nel proprio
    personaggio tenorile: fuori essa è libera d'avere, e non può a meno
    di averli, tutti i gusti della femmina e le incongruenze della
    donna. Chi deciderà del gusto? L'eccessiva raffinatezza coincide
    colla brutalità, o se non vi coincide sempre, vi si allea sovente.
    Il selvaggio e il gastronomo preferiscono le bistecche crude: il
    facchino non cerca che la carne nelle donne; in Oriente, dove la
    voluttà fu più profondamente studiata, la carne è rimasta l'unico
    pregio delle donne. Se la Patti ama Niccolini, forse è nella regola
    del genio. Le nature volgari trovano facilmente qua e là il proprio
    ideale; le nature superiori se lo formano nella disperazione
    d'incontrarlo, e lo incarnano nel primo venuto. Che io getti dunque
    un mantello di porpora sopra un manichino di pioppo o di amaranto,
    il mantello solo dà al manichino quel paludamento da re o da regina,
    sul quale vengo a deporre i miei baci o le mie corone. In questa
    creazione dell'amore fra creatore e creatura non vi può essere
    giudice, poichè il giudice vede cogli occhi del corpo, e il creatore
    con quelli dell'anima. Sai tu perchè i giornali stamane celiavano
    educatamente su Niccolini? Perchè la folla non tollera superiorità,
    colle quali non possa avere contatto, e accusando la Patti di amare
    Niccolini, ha creduto di bollare il suo genio col marchio della
    natura femminile. Se nella Patti la donna fosse pari all'artista non
    sarebbe più donna. Ma la folla affermando la gran legge, che non vi
    siano individui slegati nella serie della vita e il genio non debba
    essere immune dalle nostre infermità, non sente che l'istinto
    invidioso del rettile contro il volatile, dell'anitra contro
    l'aquila.
    
    Bartolomeo, cui la conclusione troppo filosofica del discorso aveva
    imbarazzato, non ne gustò meno per questo l'assennatezza del
    principio, e avrebbe quasi voluto rinfacciargli i paradossi della
    sera innanzi, se il timore di qualche altra scarica non l'avesse
    rattenuto. Bodoni sembrava malinconico: Bartolomeo glielo disse.
    
    - La Patti mi fa male. È triste, mio caro, avere ventiquattro anni,
    capir tutto e capire per giunta che non faremo mai nulla. Fra
    vent'anni io sarò come te. Che cosa ti è accaduto nella vita? nulla.
    Che cosa mi accadrà? nulla. Tu almeno non capisci; perdonami, mio
    buon Bartolomeo, questa insolenza che t'invidio: io debbo invece
    morire di freddo al sole.
    
    Con questi discorsi erano arrivati dinanzi alla locanda, una delle
    solite, metà osteria e metà albergo; molta gente l'ingombrava. Un
    cameriere di vecchia conoscenza venne incontro a Bartolomeo e gli
    fece mille complimenti, domandandogli dove era stato per sei mesi,
    se ritornava davvero, e scherzando gettava tratto tratto
    un'allusione galante, arrischiava un gesto confidenziale. Bartolomeo
    s'impacciava, Bodoni si era già seduto alla tavola col capo fra le
    mani. La sala rumoreggiava, era un va e vieni di camerieri, un
    vociare stonato, un cozzar di bicchieri e di piatti: dalla cucina,
    che si vedeva in fondo alla sala, veniva un odore grasso, uno
    stridio di frittura, che nauseava il palato; le berrette bianche dei
    cuochi passavano e ripassavano davanti all'uscio con un volo di
    colombi, gli ordini dei camerieri in cucina salivano e discendevano
    sulla gamma più assurda, nella varietà più strampalata di accenti.
    Bartolomeo si faceva grave, era senza appetito: Bodoni sembrava
    mangiare per compiacenza. Intorno a loro fioccavano i giudizi e le
    osservazioni sulla Patti, la esorbitanza del suo prezzo di cantante,
    nel quale nessuno osava acconsentire.
    
    - Eppure - osservò Bartolomeo - tutta questa gente non avrà mai
    speso meglio quindici lire. Quante volte le avranno bevute in tanto
    vino cattivo. In fin dei conti la Patti è unica al mondo.
    
    - Quale voluttà, ma quale sciagura! - mormorò Bodoni. Ad un tratto
    s'imbrunì.
    
    - Ecco - disse - accennando ai discorsi di quella gente, perchè io
    avevo ragione d'insultare la Patti per essere venuta al Brunetti; il
    pubblico sarà sempre al disotto dell'arte, che per una fatalità
    della creazione gli è destinata. Vedi, mio caro, la gloria, che
    attira tutti gl'ingegni, è composta di questi discorsi; tutto
    finisce nel popolo, scienze, arti, industria, commercio, tutto per
    questo bruto che è senza riconoscenza, perchè è senza intelletto. I
    grandi uomini vissero sempre miserabili: e che importa al monello,
    il quale mangia le pesche, se l'albero muoia? Egli non ci pensa o,
    se pure, non se ne preoccupa, perchè sa che i peschi non finiranno
    mai. Quattro secoli fa non c'era musica a proprio dire, musica come
    intendiamo noi, quindi malgrado la ferocia dei costumi la poesia e
    la pittura erano nella massima voga. Oggi la poesia è rimasta nel
    sentimento di pochi, la pittura di pochissimi. Invano si fanno le
    esposizioni e si vende un quadro di Meissonier cinquecentomila lire:
    ciò prova che il lusso dei ricchi ha ancora bisogno di questa
    decorazione, ma l'anima del popolo non è più nella pittura. Sai tu
    che cosa si diceva quattro secoli fa in ogni palazzo e in ogni
    taverna? Michelangelo sta sbozzando una statua, Raffaello dipinge un
    quadro, Brunelleschi alza un palazzo, Ghiberti fonde un bronzo; e
    ognuno s'interessava all'opera, e l'artista povero si sentiva
    intorno una simpatia, che lo sorreggeva e dalla quale assorbiva la
    vita necessaria all'opera propria. E quando l'opera era finita, la
    moltitudine si pigiava alla porta del santuario, bestemmiando,
    osannando, perchè quella era l'opera di tutti eseguita da un solo.
    Oggi non è più così. Lo sviluppo dell'industria e delle macchine ha
    quasi ucciso l'uomo nell'operaio; i miracoli della meccanica più
    grossolani e di una utilità più immediata bastano alla sua fantasia,
    l'arte si è isolata nella classe dei ricchi. Qui la musica ha
    battuto la pittura. Siccome l'arte non giova che a interrompere la
    serie delle sensazioni reali con un'altra serie di sensazioni
    ideali, la musica è più facile ed efficace della pittura. La musica
    dell'orecchio vinse quella dell'occhio, giacchè in fondo, si tratta
    di due specie e di un genere solo. Anzitutto un quadro non si
    traduce, e sebbene al mondo si facciano molte copie, esse rispondono
    meno a un vero bisogno di pittura che a una moda decorativa: la
    musica invece la traduci, la trascrivi e, quello che è infinitamente
    meglio, la suoni da te solo, forse malissimo, ma ancora abbastanza
    bene per appagare il tuo sentimento di mezz'ora. La musica della
    pittura ci arriva attraverso un'immagine immutabile e che non
    possiamo quindi consultare in tutti i nostri bisogni: l'altra musica
    invece non ha immagini, parla e noi inventiamo il personaggio,
    magari noi stessi o un altro, poco monta; ride e noi inventiamo la
    bocca, piange e noi inventiamo gli occhi, esulta e la sua gioia
    serve ugualmente alla gioia di tutti, sospira e il suo sospiro
    solleva egualmente tutti i dolori. Alteri il tempo d'un motivo e ne
    fai così il linguaggio di qualunque situazione; e mentre il quadro
    non è appeso che alla parete del milionario e devi andare a
    cercarvelo, la romanza ti segue dappertutto entro il cervello, la
    riprendi e l'abbandoni dove vuoi. Ricco e povero ne hanno quasi un
    numero uguale, una medesima ricchezza, e perfino l'infelice, cui la
    natura discordò l'organo vocale, può ripeterle e gustarle nel
    pensiero. Sai tu perchè gli appartamenti sono oggi meno decorati e
    meno artisticamente? Perchè in ogni appartamento vi è un pianoforte:
    il pianoforte ha cacciato il quadro. Metti una statua in una
    soffitta e ne avrai una cattiva impressione, mettivi un violino e
    potrai dimenticarti presto di essere in una soffitta. Vedi:
    l'architettura è morta, la scultura sta morendo, la pittura per
    salvarsi è diventata letteratura. Al secolo d'oro il soggetto del
    quadro era un pretesto per disegnare un bel corpo o stendere un
    magnifico accordo di colori; adesso che il sentimento della bellezza
    e il senso del colore si è perduto anche nella classe dei ricchi,
    che comprano i quadri, la pittura è diventata romanzo. I compratori
    le domandano dei fatti e non dei colori, delle idee e non delle
    forme: quindi l'epopea e la tragedia vi signoreggiano, sotto di esse
    imperversa il dramma, più basso sghignazza la commedia, in fondo
    smorfeggia l'idillio, dal cui incesto colla realtà è nata la pittura
    di genere, il genere più odioso fra tutti i generi esistenti e
    possibili. Ma nella musica stessa comincia il decadimento, e la sua
    diffusione n'è causa; la diffusione, che degrada anche le religioni,
    perchè così si arriva nel popolo. Il concime fa nascere il fiore, ma
    se il fiore lo tocca colle foglie avvizzisce. Ti vuoi persuadere
    della nullità del popolo in arte, una verità che la scempiaggine del
    giornalismo liberale è quasi riuscita a far passare per una
    menzogna? Ricordati tutte le canzoni popolari delle nostre due
    rivoluzioni '48 e '59 e giudica se il maggior avvenimento accadutoci
    da millecinquecento anni, la resurrezione della terza Italia
    ottenuta con tanti miracoli di ingegno e di sangue, non ha inspirato
    che l'inno di Garibaldi e «l'Armata se ne va». Il popolo, mio caro,
    non è che plebe, e la plebe è un bruto. I Romani, che l'avevano
    conosciuta, invece di buttarle come noi la sovranità nazionale o la
    infallibilità politica, le davano «panem et circenses», cioè pane e
    sangue. Ma in questo caso il pane era sprecato.
    
    E Bodoni stanco egli stesso dalla lunga dissertazione non disse
    altro. Bartolomeo, che non ne aveva capito quasi nulla, invece di
    domandarne spiegazioni, sedotto dai discorsi dell'altra gente
    ritornò sulla Patti, e l'altro, che per caso si trovava ad essere
    veramente serio quel giorno, cominciò su lei un'analisi fine e
    profonda. I più vicini si misero ad ascoltare, ed allora alzò
    involontariamente la voce, crebbe di vena, trovò una vivacità
    d'appendicista, per uno di quei successi di trattoria, ai quali si
    resiste così difficilmente e che ottenuti umiliano tanto.
    Fortunatamente l'ora del teatro si avvicinava, pagarono il conto,
    Bartolomeo trovò che era troppo caro avendo mangiato così male, poi
    fu tutto contento di accompagnare Bodoni a casa per non passare
    dalla propria.
    
    Il teatro fu egualmente affollato, la Patti una Rosina inimitabile,
    una cantante anche più perfetta.
    
    Siccome la maggior parte del pubblico l'aveva già veduta nelle parti
    di Violetta, la sua trasformazione parve ed era veramente un
    miracolo; l'ovazione salì di scena in scena, piovvero i fiori, tutti
    i complimenti che una folla in delirio può tributare a un idolo.
    Bartolomeo piangeva, ma erano lagrime d'allegria. A rovescio delle
    predizioni di Bodoni, la malizia di Rosina gli riusciva più grata
    del sentimentalismo di Margherita. Niccolini fu un Lindoro come era
    stato un Alfredo, Moriami invece il più bel barbiere di Siviglia.
    Alle emozioni terribili della sera innanzi successero le emozioni
    gaie, il solletico sensuale della commedia più bella, forse l'unica
    che si conosca nell'arte. La Patti sfoggiò tutte le risorse del
    mestiere, fu un organetto come sua sorella Carlotta, un usignolo,
    una capinera, un'equilibrista, che si dondolava sopra il filo d'una
    nota, e l'attenuava all'infinito senza romperla. La sera innanzi
    aveva trionfato lo stile, quella sera signoreggiava il metodo, prima
    il sublime dell'arte nel canto, poi il sublime della natura nella
    voce.
    
    Durante lo spettacolo Bartolomeo, che si era dimenticato di essere
    sotto gli occhi dell'Adelaide, fu di una ilarità clamorosa, cercando
    inutilmente di ottenere una seconda occhiata dalla Patti, mentre
    svolazzava col suo gramurrino di farfalla sui lumi della ribalta.
    Poi, quando il telone si abbassò all'ultimo atto, egli fu dei primi
    ad applaudire cacciando addirittura le mani sul palcoscenico. Il suo
    faccione imporporato dallo sforzo e la sua statura gli avrebbero in
    tutt'altra occasione attirato gli occhi del pubblico, ma l'emozione
    dell'ultimo addio alla grande artista e la confusione di tutta
    l'orchestra non lo permise. La Patti tornò chi sa quante volte a
    salutare, duecento mani parevano volerle brancicare la veste; ed
    ella tornò ancora, ricevette sulla fronte tutto l'anelito di quel
    saluto, aprì i raggi di tutte quelle occhiate, strisciò come un
    sogno su tutte quelle fantasie, battè come un palpito in tutti quei
    cuori, si chinò, si rizzò nel suo sottanino di libellula, coi suoi
    occhi d'Andalusa, col suo corpo d'uccellino, sopra i suoi stinchi di
    mosca, col suo prestigio di artista, colla sua magìa di cantante,
    balenò, oscillò, disparve.
    
    Il telone la celava forse per sempre agli occhi dei bolognesi.
    
    Quella sera i suonatori si dispersero col pubblico, e Bartolomeo
    rimase solo. Attese mezz'ora nella bottiglieria, poi dovette andarsi
    a casa. La casa gli parve deserta, sulla tavola non trovò la candela
    coi zolfini, nella camera dell'Adelaide non si udiva rumore.
    Nullameno era rientrata. Tutto il suo buon umore sparì: la cucina
    abbandonata aveva un aspetto desolante, non vi erano legne
    nell'angolo, mancava l'acqua nei secchi. Perse qualche minuto in
    questa analisi, poi vergognandosi di potere essere sospettato
    dall'altra stanza, prese l'ordinaria risoluzione contro la
    tristezza, e si mise a letto.
    
    Il pensiero della Patti lo riassalì nuovamente. Una a una si ricordò
    le moine del suo gesto, le carezze della sua voce, le sue malizie
    procaci di Rosina nelle scene col vecchio o negli incontri con
    Lindoro, e un fremito sottile gli passava fra la pelle e le
    lenzuola, dove aveva dormito l'Adelaide. Bartolomeo avendo trovato
    il letto disfatto, come al mattino nell'uscire di casa, si era
    coricato dall'altro lato. Quindi le memorie di tutta la sua vita
    povera e modesta s'illuminarono come ai bagliori di un gran sogno,
    nel quale era solo colla Patti. Finalmente poteva alla propria volta
    essere come tutti i principi e farle la corte. Per loro tutte le
    porte erano sempre aperte, avevano dei brillanti da offrire, dei
    grossi titoli, e quella disinvoltura da gran signori, la sola, che
    anche vincendo l'indomani una cinquina al lotto, egli non potrebbe
    mai sperare. Per lui non c'era nulla. Povero suonatore di fila,
    accettato raramente al Comunale, vivendo delle proprie economie, non
    aveva che il diritto di sognare; miserabile diritto, che aumentava
    la forza del desiderio e il rammarico della impotenza. Nullameno si
    cacciava voluttuosamente in quel sogno. La Patti gli pareva la
    donnina più adorabile, per lui che aveva il gusto delle donnine da
    tenere sulle ginocchia. Steso sul letto, la pancia in aria, la testa
    ravvoltolata in un vecchio folardo, guardava con due grandi occhi
    spalancati nella tenebra la magìa della propria visione. Aveva
    caldo, la faccia gli scottava. Colle mani brancicanti sotto le
    coperte, e un prurito per tutte le vene, si veniva accarezzando il
    ventre come nell'intima e indefinibile voluttà di premerlo sopra una
    donna e di sentirla schiacciarvisi sotto. Se la Patti fosse stata
    seco in quel punto l'avrebbe forse soffocata per farle sentire tutta
    la propria forza. Poi chiudeva gli occhi, il sogno cresceva. La
    scena arrivava al punto, nel quale le commedie fanno calare il
    telone e i romanzi di una volta mettevano i puntini, ma sul quale si
    ostinava come al punto migliore agitando la testa sul cuscino. E un
    riso di contentezza gli restava sulle labbra di essere così felice,
    senza che il pubblico potesse nemmeno sospettarlo, con quella donna,
    difesa dalla etichetta di tutte le aristocrazie, e che era allora
    nel suo letto, di Bartolomeo, il quale la chiamava semplicemente
    Adelina, un nomignolo più breve di Adelaide ed infinitamente più
    vezzoso.
    
    D'un tratto si sorprese a ripeterlo con voce alta; allora si scosse
    e si volse sopra un fianco.
    
    Il sogno si alterò, si confuse, finchè svanì in un altro e si
    sciolse.
    
    Ma la mattina sentì più acutamente la necessità di una spiegazione
    con Adelaide.
    
    Sebbene l'avesse già osservato la sera nel coricarsi, il disordine
    della camera gli fece male; il portacatino era ancora presso la
    finestra pieno di acqua sudicia, la tovaglia gettata sul comò, il
    letto disfatto anche dall'altra parte. Una tale confusione nella
    propria vita e nelle proprie cose non se la ricordava. Fece la
    grande risoluzione. Così come si trovava, udendo l'Adelaide in
    cucina, uscì di camera. Non aveva che i calzoni con le tracolle e i
    piedi dentro due ciabatte tagliate da lui stesso colle forbici in
    due stivaletti vecchi. L'Adelaide accennò di ritirarsi, ma egli la
    trattenne:
    
    - Adelaide!
    
    - Che cosa volete?
    
    - Sei stizzita?
    
    - Che cosa ve n'importa? - E aveva già la maniglia della propria
    porta in mano.
    
    La cocoma del caffè fumava sul fornello.
    
    - Ma aspetta almeno di fare il caffè.
    
    - Quando sarà fatto tornerò - e disparve.
    
    Egli rimase come un palo. Cominciava a perdere la testa. Se aveva
    compreso lo sdegno dell'Adelaide la prima sera, mezzo giustificato
    dalla mancia perduta e dalla sua vanità offesa di grande cameriera,
    non capiva l'ostinazione contro di lui, che alla fin fine non
    c'entrava nè punto nè poco. L'Adelaide lo sospettava dunque di
    qualche cos'altro? Era gelosa del suo entusiasmo per la Patti,
    entusiasmo sincero, che egli non aveva avuto mai per nessuna donna?
    
    Finì di vestirsi ed entrò in cucina. Ella non tornava, allora
    convenne a lui di ritirare la cocoma, che schiumava sul fornello, ed
    attese inutilmente. Quindi con malizia di ragazzo pensò di tornare
    nella propria camera e di spiare l'Adelaide, quando verrebbe a
    prendere il caffè. Vi riuscì. Ella era seria.
    
    - Ma che cos'hai contro di me? - conchiuse finalmente, non riuscendo
    a finire l'esordio.
    
    - Io! nulla.
    
    - Allora?
    
    - Allora?
    
    - Io non capisco più.
    
    - Già gl'innamorati...
    
    Bartolomeo tremò, nullameno si affrettò a negare.
    
    - La Patti vi ha stregato, me ne sono accorta, non importa che
    facciate degli sforzi per negarlo, perchè anche l'altra sera me ne
    avvidi alle prime parole. Cosa volete farvene di una povera corista
    come me dopo una prima donna come lei? Avete ragione: tutto il
    pubblico dalla vostra parte. Io non sono mai stata una prima donna.
    Zitto! - esclamò vedendo che voleva interromperla... - Che cosa vuol
    dire? che ritorniamo come prima: voi non avete mai sentito nulla per
    me, e se io non posso dire altrettanto per voi - aggiunse con un
    tremito nella voce - la colpa sarà tutta mia. Delle sciocchezze al
    mondo ne facciamo tutti: benedetto chi non le paga. Lasciate stare;
    qui le parole sono di più, ci siamo capiti. Voi avete delle pretese,
    che io non posso soddisfare: se lo sapessi, non sarei costretta a
    menare la vita che meno. Dunque voi farete a modo vostro come avete
    sempre fatto, e se non mi volete più vedere in cucina, ditemelo.
    
    - Ma io...
    
    - Non siete voi il padrone?
    
    - Andate là, andate là...
    
    Ella afferrò la cocoma, e gli volse le spalle con quel gesto di
    bonomia rassegnata, che fa tanta impressione in certi momenti.
    
    Bartolomeo rimase prostrato. Al caffè trovò i soliti avventori che
    parlavano della Patti leggendo gli addii dei giornali: uno propose
    di andare alla stazione per vederla, che ci sarebbe chi sa quanta
    gente, ma il cameriere bene informato assicurò che era partita per
    Roma colla corsa delle otto. I discorsi seguitarono su quel tema,
    poi gli avventori si dispersero ognuno dal proprio canto. Bartolomeo
    rimase solo. Era una giornata umida di primavera. Egli si avviò a
    testa bassa sotto i portici meditando sul proprio caso, ma non aveva
    fatto cento passi che se lo era scordato entro la tristezza del
    tempo. Quindi tornò alla Patti e, soffrendo per causa sua, entrò
    poco a poco nel carattere dell'innamorato. Mentre ella seguitava la
    strada dei trionfi, egli più povero ed abbandonato di prima
    cominciava a morire in quella giornata senza sole, umida e
    solitaria. Non sapeva nè dove stare, nè dove andare. Le gambe lo
    portavano ai giardini, ma non sarebbe possibile rimanervi: i
    nuvoloni crescevano in cielo. Si rimise a riflettere sul celibato
    impostogli per una metà dalla sua posizione sempre troppo incerta e
    per l'altra dall'avarizia dell'egoismo, che lo lusingava di vivere
    sempre colla medesima forza. Adesso egli non apparteneva a nessuno,
    non poteva attaccarsi a nessuno. I suoi amici di una volta erano già
    tutti vecchi ed accasati; i giovani li vedeva qualche sera dopo il
    teatro, e ridevano; ma se domani si fosse ammalato non avrebbe
    ricevuto una visita, non avrebbe avuto una mano per curarlo. Ebbe
    paura. I giardini erano bruni e deserti, qualche monello sfuggito di
    bottega o di scuola, o qualche altro abbandonato come Bartolomeo vi
    vagolavano: i giardinieri erano scarsi e non zufolavano come al
    solito. Sedendosi sopra uno dei sedili artificiali di gesso, gli
    sembrò che fosse bagnato. Il Brunetti resterebbe chiuso forse per
    una settimana; dove passare la sera? Allora sentendosi cadere
    addosso i brividi delle fronde intirizzite, pensò per la centesima
    volta alla Patti. L'eco solo del suo nome pronunciato a bassa voce
    lo riscuoteva. Si scaldò un istante alla sua visione, poi
    rincantucciandosi in un angolo di quella vita, che riempiva tutto un
    mondo, si compiacque a seguirne il pellegrinaggio imperiale. Almeno
    ella era felice. Gli pareva di essere diventato come del suo
    seguito, un fagotto di quei moltissimi, che si portava sempre
    dietro, e sui quali chi sa quante volte chinava la testa per
    dormire. Rimase molte ore nel giardino, cercando d'incontrarsi in
    qualcuno; quindi tornò in città, annasò ancora in qualche caffè e,
    non imbattendosi in anima viva, pensò di andare a pranzo. In tanta
    ruina il suo stomaco era ancora intatto. Sciaguratamente tornò alla
    trattoria del giorno innanzi, dove il cameriere lo accolse colle
    solite chiacchiere; il pranzo gli parve detestabile: la sera per
    disperazione egli, che abbominava il teatro come suonatore
    d'orchestra, andò al Corso. I discorsi della Patti lo seguivano
    dappertutto, l'aria pareva vibrare ancora delle sue note. Lo
    spettacolo, una commedia, gli sembrò incomprensibile; quando la
    gente se ne andò, uscì macchinalmente egli pure. Per istrada
    incontrò Bodoni col paletot di crema, che salutandolo senza fermarsi
    gli ravvivò tutti i pensieri del mattino sulla miseria
    dell'isolamento. Dovette andarsi a casa; qui lo aspettava un secondo
    stringimento di cuore. La cucina era assettata, la sua camera era
    tornata al solito aspetto di ordine e di decenza, rifatto il letto,
    chiusi i cassetti del comò, le scarpe lustrate sul baule, il
    portacatino colla brocca pieno d'acqua al suo posto; ma l'Adelaide
    non c'era. Se ci fosse stata e avesse solamente aperto bocca sarebbe
    scoppiato a piangere come un bambino. Invece si coricò e per colmo
    di stranezza, egli, che non l'aveva mai fatto per riguardo alle
    lenzuola, caricò ed accese la magnifica pipa. E allora col caldo del
    letto e col fumo del tabacco, le due voluttà, che maggiormente li
    attirano, i sogni della Patti tornarono a riempirgli la camera.
    Nell'altra Adelaide dormiva pacificamente.
    
    Così durò molti giorni. Siccome ella aveva smesso di farsi il caffè
    la mattina, Bartolomeo non vide più l'Adelaide. Sulle prime non
    indovinò, poi aprendo a caso la madia, gli cascò la mano sul vaso
    del caffè, e lo sentì vuoto: forse la povera donna non aveva denari
    per comprarne. Egli fremè ed uscì per riempirlo; ma per quanto vi si
    scervellasse quel contegno gli riesciva inesplicabile. Mise il caffè
    nella madia, e attese lungamente nella cucina, se la sentisse
    rientrare. Giorno per giorno l'Adelaide gli assumeva nella coscienza
    una grande dignità di carattere, e se al principio gli era stata
    simpatica per i modi aperti, adesso gli diventava rispettabile come
    una dama. Aveva maritato bene la figlia e non volendo esserle a
    carico, come diceva lei, s'ingegnava in mille lavori: non era più
    giovane, ma tuttavia abbastanza ben mantenuta per ispirare qualche
    cosa ad un uomo.
    
    Chi sa se non c'era molto cuore sotto quelle sue bruscherie, e
    dentro quella sua vita troppo spalancata. Alle volte il lepre sta
    dove meno si pensa. D'altronde in quei cinque o sei mesi egli non
    aveva avuto a lagnarsi di lei, nè come donna, nè come massaia. La
    vivacità dei suoi discorsi rendeva anche più saporiti i pranzetti,
    che sapeva fare con sì poca spesa; e qui Bartolomeo, guardando la
    fiamminga della minestra asciutta, si ricordava il proprio piatto
    prediletto, recato da lei all'ultima perfezione, un ricordo di
    Napoli, dove il grande Bottesini lo aveva una sera invitato a cena.
    Erano maccheroni all'acciugata, che a Bologna avevan dovuto
    diventare vermicelli senza troppo scapitarne. Si rammentava come
    l'Adelaide li riserbasse per il venerdì, giorno nel quale, malgrado
    tutte le bravate, voleva assolutamente mangiare di magro; e soleva
    farli seguire da alcune cotolette di tonno alla graticola, un tonno,
    che pareva a quel modo tutt'altra cosa.
    
    Ma l'Adelaide non si vide.
    
    La sera Bodoni al caffè aveva due magnifiche fotografie della Patti,
    in costume di Violetta all'ultimo atto; e rammentandogli la famosa
    occhiata nel «Gran Dio, morir sì giovane», gliene volle regalare
    una. Il suo cuore si commosse nuovamente a quella povera immagine
    bianca, abbandonata sulla spalliera della poltrona.
    
    - Sei ancora innamorato? - gli domandò Bodoni accarezzandosi la
    barbetta.
    
    - Matto!
    
    - Io incomincio ad innamorarmi adesso. La lontananza per i grandi
    artisti è come la morte per i grandi uomini: l'uomo scompare nel
    personaggio, i difetti sfumano e la fisonomia vigoreggia. La Patti!
    - seguitò con quell'entusiasmo, che faceva di lui una contraddizione
    così piena di sorprese - darei tutta la mia miserabile vita di
    suonatore per essere il suo amante solo una mezz'ora, e potermela
    stritolare sul petto come un istrumento, troppo buono per cederlo ad
    un altro. Guarda la bocca: t'immagini tu come debbano baciare queste
    labbra, che fanno delle note più dolci di tutti i baci?
    
    E cedendo all'impeto riprese dalle mani di Bartolomeo la fotografia
    per baciarla.
    
    - Bacia anche tu.
    
    Bartolomeo non se lo fece ripetere due volte.
    
    Poi Bodoni notò improvvisamente la sua tristezza e gliene chiese la
    causa con accento amichevole. Bartolomeo titubò, perchè da molti
    giorni soffriva un gran bisogno di sfogarsi, ma il carattere
    caustico dell'amico lo rattenne. Si fece più serio, intascò la
    fotografia, ravvoltolandola in un giornale, che Bodoni rubò
    tranquillamente al caffè, e cadde in un pesante silenzio. Quella
    vita cominciava a superare le sue forze. Poi, sentendoselo
    continuamente attribuire per malizia o per ischerzo, aveva finito
    col credersi davvero innamorato della Patti; e se non voleva
    convenirne, dipendeva dalla ripugnanza istintiva di ogni passione a
    mostrarsi apertamente. Ma questo culto ideale non bastava a
    sorreggerlo contro le difficoltà rinascenti delle giornate deserte e
    dei cattivi pranzi in trattoria. Invano nei momenti più difficili
    ricorreva all'occhiata del «Gran Dio, morir sì giovane», nella quale
    le loro anime, trasportate dalla medesima poesia, si erano sfiorate
    in un contatto fatale. Quello sguardo era stato per lui come una
    stretta di mano in un'ora di pericolo, una parola d'eguaglianza
    barattata in un momento d'ispirazione fuori delle differenze e delle
    contraddizioni del mondo.
    
    Bodoni gli aveva spiegato in modo molto oscuro il contatto secreto
    degli spiriti sotto la pressione di un medesimo sentimento, ma egli
    non vi aveva capito se non che Bartolomeo solo e la Patti avevano
    cantato quel pezzo.
    
    E gli bastava.
    
    Tornando a casa Bartolomeo si andava tastando in tasca la
    fotografia. Non sapeva ancora dove nasconderla, e provava già le
    trafitture voluttuose di un secreto pieno di pericoli. Passò per la
    cucina senza fermarsi, e si chiuse a chiave nella propria camera.
    L'indomani invece di andare da Bodoni, che si scordò l'appuntamento,
    dovette gironzolare per Bologna, comperò l'Illustrazione Italiana,
    che rappresentava la Patti nella Traviata alla scena della borsa. Il
    quadretto gli parve un capolavoro, l'articolo, datato da Roma,
    carico di ironie per Niccolini, una vera indecenza. In fondo
    all'articolo si annunziava che la Patti partirebbe l'indomani per
    Madrid; ma egli non se ne fece caso, perchè la loro distanza non
    cresceva così e non scemava.
    
    Invece passando dal Brunetti imparò che il teatro si sarebbe
    riaperto fra tre giorni, e questa notizia lo esilarò; fece la solita
    passeggiata ai giardini, vi si trattenne poco, rientrò in città
    sempre in preda alla solita inquietudine. A casa la cucina era
    vuota, il focolare freddo. Allora gli venne in mente il caffè, e
    andando alla madia guardò se l'Adelaide se ne fosse servita. Nulla:
    il vaso era intatto al posto dove l'aveva lasciato.
    
    - È dunque una scommessa! Ma perchè - seguitò ad alta voce - mi fa
    la camera se non vuole saperne? - Così dicendo spinse la porta per
    constatare rabbiosamente come tutto fosse assettato; senonchè,
    appoggiata sulla cimasa del letto, sotto l'immagine della madonna di
    San Luca, la fotografia della Patti, che egli aveva studiosamente
    nascosta fra cinque o sei quaderni di musica, gettava un baleno
    nerognolo.
    
    Bartolomeo cacciò un grido: era impossibile, l'Adelaide vinceva.
    
    Da quattro o cinque giorni non l'aveva veduta. Come potesse vivere
    da se stessa, lavorando poco o punto ed essendo senza risparmi,
    Bartolomeo non lo capiva; giacchè, vissuto sempre celibe e non
    avendo conosciuto le donne che in certi momenti e da certi punti di
    vista, ignorava la loro scienza minuscola della vita, come esse, che
    dissipano così facilmente i milioni, riescano a campare senza stento
    con pochi centesimi. Gli venne persino in mente di osservare nella
    cucina e negli armadi se l'Adelaide non gli rubasse qualche cosa;
    non lo credeva, ma il dispetto di sentirsele inferiore era tale, che
    se ne sarebbe quasi compiaciuto. Contò i rami, andò all'armadio; fra
    le biancherie cercò subito l'involto, nel quale teneva le quattro
    posate d'argento comprate a peso da un amico orefice; esaminò la
    bica dei lenzuoli, sommò ad occhio i mantili e le tovaglie, senza
    osare di spostarli. Tutto gli parve a posto, allora arrossì. Perchè
    dunque l'Adelaide gli teneva il broncio? Si mise a riflettere sulla
    natura di lei; benchè non vi trovasse a ridire, n'era poco contento.
    Era una donna onesta, nel senso popolano della parola, che lasciava
    la roba a posto e non tirava a far sacchetto, sapeva cucinare e
    mandare innanzi una famiglia con poca spesa, ma in fondo a tutte
    queste belle qualità, egli sentiva un difetto, una certa freddezza
    di animo, una soverchia maturità di ragione, che gli faceva paura.
    L'Adelaide non aveva mai torto, non si stupiva di nulla. Spesso
    chiacchierando dopo cena col bicchiere in mano, lo aveva fatto
    precipitare di sorpresa in sorpresa colle sue massime sulla vita, di
    uno scetticismo pratico ben più tremendo di quello che affettava
    Bodoni. L'Adelaide gli voleva dunque bene? Abbandonata dalla figlia,
    sola nel mondo colla vecchiaia e la miseria dinanzi, forse gli si
    era affezionata per una conformità di gusti e di destini; però,
    essendo ancora donna, aveva le gelosie del proprio sesso. Fra tutti
    quei pensieri decise di volere un secondo discorso con lei, e uscì
    di casa colla fotografia della Patti in tasca per andare a pranzo.
    
    I vermicelli furono detestabili, le acciughe erano rancide, l'olio
    sapeva di muffa: perfino la pasta di Faenza, solita ad essere buona,
    non aveva retto alla cottura, e i vermicelli facevano, come suol
    dirsi, la colla. Nulla gli andava più per il verso: gli dettero
    delle seppie per calamaretti, ordinò un mezzetto di Chianti invece
    del solito vino romagnolo, e gli portarono del vino rosso bolognese,
    che è l'ultimo vino del mondo. A poco a poco la sua collera saliva.
    Nella sala molti mercanti di granaglie e di maiali facevano un
    chiasso indiavolato, bevendo e mangiando come tanti eroi di Omero;
    due orbini che vennero a suonare, e che essi accolsero colla
    vanteria crapulona dei mercanti, riempiendo loro il piattino di
    soldi ed offrendo loro da bere nei propri bicchieri, lo fecero quasi
    dare in escandescenza. Poi gli orbini non finivano più, le risa e le
    oscenità degli altri montavano di tono, quasi tutta quella gente
    aveva il cappello in testa e stava a tavola nelle più sguaiate
    attitudini, mentre egli per educazione, sebbene mezzo calvo,
    rimaneva a testa nuda. Non prese nemmeno la frutta e scappò. Gli era
    venuto un pensiero. Nella cucina, sotto la tavola, ci doveva essere
    un barilotto di vino di Castel San Pietro, ancora mezzo, da quando
    s'erano bisticciati coll'Adelaide: comprò una ciambella inzuccherata
    dal primo fornaio, e corse a casa per accendere il fuoco, e fumare
    nella pipa. Il barilotto era quasi vuoto: dunque l'Adelaide se n'era
    servita anche dopo? Questa debolezza lo rallegrò, ma nel cantone non
    c'era legna: si mise in veste da camera, si cavò le scarpe, accese
    la pipa e portando la bottiglia del vino sul focolare, si sedette
    sotto la cappa del camino come nell'inverno. Sulle prime tutte
    queste buone disposizioni non sortirono effetto, ma al quarto
    bicchiere la sua malinconia si rischiarò: fortunatamente la boccia
    di vetro bianco, dalla quale mesceva, era capace di due buoni litri.
    Egli si stese sul seggiolone di faggio, allungò i piedi sugli alari,
    e finita la ciambella che gli parve piccola, cominciò a soffiare nel
    fumo. A poco a poco diventava allegro. Le memorie della cucina gli
    calavano intorno dalle casseruole appese alle pareti, come da tanti
    quadri, dei quali la poca fiamma della candela non lasciasse
    distinguere le immagini: ed erano figure grasse, profumate di
    intingoli, con un riso giocondo sul volto, che tratto tratto si
    illuminava di un grande riverbero, quasi che il focolare fosse
    acceso. Di sotto alla tavola, dalla madia uscivano echi di vecchi
    discorsi, frammenti di scene casalinghe, quando collo stomaco pieno
    ed il cuore digiuno si era abbandonato alle piacenterie
    confidenziali della luna di miele coll'Adelaide. Dalla trave di
    mezzo penzolava ancora la canna, alla quale si erano dondolati tante
    volte i coteghini grassi, fra le ghirlande delle salciccie, mentre
    un prosciutto attaccato più in là, ad un gancio, aveva l'aria d'un
    violino. Egli stesso gli aveva trovata questa somiglianza e l'aveva
    mille volte ripetuta coll'Adelaide, quando giungendo a casa troppo
    presto se ne tagliava una fetta dicendo:
    
    - Suono, eh!
    
    E l'Adelaide sorrideva al suo bell'appetito di suonatore.
    
    Poi il fumo alcoolico della pipa, giacchè da fumatore arrabbiato vi
    fumava dei mozziconi di sigaro lavati nel rhum, avvolgeva quelle
    figure paffute e rossiccie in una nuvola aromatica. Mezzo coricato
    sul seggiolone, la pipa sul petto, respirava lentamente, operazione
    che aveva la voluttà di tutti i giuochi automatici e nella quale si
    sarebbe addormentato, se la necessità di tenere la cannuccia fra i
    denti non lo avesse tenuto desto; tornò a bere. Ma l'ebbrezza del
    vino, più calda di quella del fumo, gli accese i sensi già
    vellicati. Ad un tratto la cucina rischiarata a stento dalla candela
    di sego sopra la tavola, allargandosi in un incendio di luce,
    divenne un teatro gremito di spettatori; il focolare era il
    palcoscenico, lo sfondo giù ai lati l'apertura delle quinte dove
    formicolava la popolazione misteriosa dei teatri. Lo spettacolo era
    abbagliante. Un'oppressione voluttuosa pesava nell'aria facendo
    battere tutte le palpebre e aprire tutte le bocche. E una figura
    patetica di donna, moribonda bellezza di martire, alla quale la
    morte aggiungeva una bellezza di più, taceva in mezzo a
    quell'aureola, sopra a quel silenzio angosciato di tutti. Una storia
    indicibile di dolori era scritta sul suo volto, una memoria d'amore
    le impallidiva sulla fronte. Poi senza scomporsi, come se non ne
    avesse avuto la forza, cominciava a cantare, calando un lungo
    sguardo verso di lui.
    
    Ma in quella l'Adelaide, non sospettandolo in casa, rientrava per la
    porta della cucina. Aveva il solito impenetrabile di Casimiro
    grigio, il cappello scuro con una vecchia penna di struzzo colorata
    di rosso. La sua figura atticciata diventava tozza sotto l'ombra di
    quelle grandi ali. Sembrava aver fretta, ma vedendolo si arrestò. La
    candela del tavolo non illuminava abbastanza bene la scena, perchè
    ella potesse vedere subito la boccia, ed il bicchiere sopra lo
    sgabello del focolare. Nullameno finì per accorgersene.
    
    - Oh! - esclamò Bartolomeo rimettendosi a sedere sul seggiolone.
    
    - Scusate se vi disturbo - rispose con accento secco, che finì di
    svegliarlo, andando verso la madia per accendervi una candela e
    ritirarsi. Bartolomeo accennò di scendere.
    
    - Non v'incomodate, ho già fatto: vi lascio in libertà - seguitò con
    intenzione evidente.
    
    - Non potete fermarvi un pochino!
    
    - A far che?
    
    Bartolomeo avrebbe voluto calar giù, ma temendo di farlo male per il
    vino, che cominciava a pesargli sullo stomaco, rimase sotto l'ombra
    del camino, che ingrossava singolarmente la sua figura già grossa.
    Tutti i proponimenti del giorno gli si affollarono nella memoria.
    
    - Aspettate: oh! ecco: sentite.
    
    - Cosa?
    
    - Ve l'ho pur detto, io non ci capisco nulla.
    
    - Nemmeno io.
    
    - Allora?
    
    - Cosa volete dire?
    
    Bartolomeo s'incagliò ancora: ella ripetè l'atto di andarsene.
    
    - Io sono sempre quello stesso - disse finalmente con un immenso
    sforzo, e un sospiro di soddisfazione.
    
    Ella finse di non comprendere.
    
    - Volete far la pace?
    
    - Sentiamo: condizioni e patti!
    
    - Ah! - fece Bartolomeo.
    
    - Scusate; questo nome vi dà fastidio?
    
    Egli s'imbrogliò nuovamente, ma per una di quelle scappate, che non
    vengono se non agl'ingenui in certi momenti:
    
    - Cosa avete fatto tutti questi giorni? - prosegui.
    
    La domanda era così imprevista che ella stessa titubò.
    
    - Ho lavorato.
    
    Bartolomeo comprese la portata di quella parola, e si arrestò.
    Malgrado tutta la buona volontà non trovava modo di venire ad una
    spiegazione, parendogli di aver egli tutti i torti e nel sentimento
    della vergogna sentendosi crescere ancora l'imbarazzo. Un sospiro
    leggiero, che l'altra colse benissimo, gli uscì dalla bocca.
    
    - Buona notte! - ella disse questa volta incamminandosi.
    
    - Ma è dunque molto tardi?
    
    - Non saranno nemmeno le nove.
    
    - È presto.
    
    - Buona notte!
    
    - Buona notte! - rispose Bartolomeo con voce, nella quale l'umiltà
    dell'accento faceva sentire la malinconia di una preghiera.
    
    Ella entrò nella propria stanza, e l'altro, appena scomparsa, fece
    un gesto violento contro se medesimo quasi per darsi un pugno.
    
    - Bamboccio!
    
    Quella fu la sua sera peggiore. Per uscire di casa avrebbe dovuto
    rivestirsi, rimettersi le scarpe, riannodarsi il fazzoletto, tutta
    una farragine d'incomodi, dei quali ognuno aveva in quel momento
    l'intensità di un supplizio. Poi non sapeva, una volta fuori, dove
    dare del capo. Ma rimanere in casa, solo in cucina, coll'Adelaide di
    là, che lo sentirebbe andarsi a letto così presto, era impossibile.
    Tentennò lungo tempo in preda ad una collera, che cresceva di minuto
    in minuto, coi ricordi di tutte le contrarietà toccategli nella
    giornata e le difficoltà di una soluzione altrettanto inevitabile
    che impossibile.
    
    Nei giorni seguenti cadde in una tetra malinconia, dalla quale non
    uscì nemmeno a teatro.
    
    L'oscurità, che l'aveva protetto contro i pericoli del mondo
    permettendogli di vegetare prosperamente all'ombra come una pianta
    grassa, gli diventava una tenebra di prigione, fuori della quale il
    paesaggio ardente della vita spiegava la pompa delle sue
    decorazioni. Tutti erano felici intorno a lui, il giorno si
    occupavano dei propri affari, la sera andavano a teatro per
    divertirsi, mentre egli, accasciato tutto il giorno sotto l'incubo
    di se medesimo, doveva venirvi per diventare parte inavvertita del
    loro divertimento. Almeno la Patti aveva diecimila franchi ogni sera
    senz'essere schiava del pubblico. Al Brunetti due settimane dopo
    ognuno parlava ancora di lei, che era in Ispagna e faceva delirare
    quel popolo, ancora abbastanza romano per preferire l'orgoglio a
    tutte le virtù e il sangue a tutti i piaceri.
    
    E allora si obliava nei sogni della Spagna, che non conosceva
    nemmeno per lettera, alla quale non attribuiva nè gli aranci, nè le
    palme, nè i costumi ancora medioevali, nè le architetture moresche
    capricciose come le sue colline e trasparenti come le sue nuvole.
    Però in fondo ad ogni sogno trovava sempre una tristezza più cupa,
    simile alla tenebra di una lanterna magica, che pare più densa
    quando l'apparizione è svanita. Il giorno non andava più ai giardini
    pubblici, che la esultanza di primavera gli rendeva odiosi, ma
    girellava per la città come tutti i vagabondi, che cercano
    d'ammazzare il tempo e invece soccombono sotto di lui. E poco a poco
    si scordava della Patti e dell'Adelaide, le due cause della sua
    infelicità, per non sentire che il proprio malessere, una stanchezza
    morale, che gli dava l'uggia di ogni persona, un esaurimento fisico,
    che gli dava la nausea di ogni cosa. Trascorse ancora una settimana.
    Il suo aspetto cominciava ad intristire, le borse sotto gli occhi
    gli si erano ingrossate, perfino il suo bell'appetito, l'amico
    fedele di tutta la vita, stava per abbandonarlo. Allora per
    disperazione cominciò ad alzarsi più tardi e a coricarsi più presto:
    aveva fatto una specie di raccolta di tutti i giornali, che
    parlavano della Patti, e li andava rileggendo. Qualche mattino mancò
    alla colazione del caffè, dove i soliti avventori si fecero caso
    della sua assenza; a pranzo non andò più alla trattoria, che aveva
    scelto dopo il disastro domestico, e si abbandonò alla ventura per
    l'izza di dover parlare col cameriere, o di incontrarsi con persone
    conosciute. Anche Bodoni, cui prediligeva sopra tutti, gli era
    divenuto insoffribile; mentre una delle sue ultime parole di quella
    sera alla bottiglieria gli era rimasta confitta nella memoria come
    un chiodo arroventato.
    
    - Ella ti avrà reso miserabile per sempre!
    
    Era un venerdì di primavera, era piovuto tutto il mattino, poi aveva
    soffiato un vento freddo senza spazzar via le nuvole. Il cielo era
    torbido, la città pareva bigia. Bartolomeo era uscito. Fosse il
    tempo o altro, si sentiva anche più triste; da due giorni non aveva
    quasi mangiato, aveva fatto un giro per il Pavaglione, era entrato
    macchinalmente in S. Petronio, poi era tornato a casa, sorpreso da
    un freddo, che in quello scoraggiamento prese per un sintomo di
    malattia. Si sdraiò sulla vecchia poltrona, affagottato dentro un
    paltò d'inverno, lasciando errare gli occhi sui tetti vicini, pei
    quali i passeri pigolavano lamentevolmente. Il sentimento della
    morte lo invadeva. La sua camera poco allegra per la qualità
    dell'arredo e il colore della luce gli ricordò quella della Traviata
    all'ultimo atto; proprio in quel momento tornava a piovere. Le
    percosse dell'acqua contro i vetri lo fecero fremere di terrore, poi
    abbassò la testa come un malato, e chiuse gli occhi. Il Bartolomeo
    di una volta era morto.
    
    Ma la porta della camera si aperse con fracasso, e l'Adelaide entrò
    rossa come un gambero. Aveva un giornale in mano.
    
    - Leggi - esclamò dandogli del tu per la prima volta dopo la
    rottura.
    
    Egli si destò di soprassalto, ma l'altra non badando alla
    prostrazione del suo aspetto, cogli occhi sfolgoranti di disprezzo:
    
    - Ah! tu non ne saresti capace. Te lo leggo io; sta attento, come
    tratta in Spagna la tua Patti; - e senza dargli tempo nè di
    rispondere, nè di capire, con voce concitata, che la passione di
    quel momento aguzzava come un pugnale, spuntandolo tratto tratto ad
    una frase, gli lesse un articolo riportato da un giornale di Madrid.
    Con stile vivace, pieno di reticenze insidiose e di approvazioni
    ironiche si narrava come re Alfonso si fosse invaghito della Diva e
    per non imbarazzarsi con Niccolini, diventato geloso fuori di tempo,
    gli avesse fatto bere d'accordo con lei un narcotico a cena.
    Niccolini si era addormentato, ma o la dose fosse troppo lieve, o
    essi profittandone subito facessero troppo rumore, si era svegliato
    prima. Allora il re aveva sorriso e se ne era andato; Niccolini era
    rimasto e aveva bastonato la Diva. Forse questa era una storia di
    giornale, ma l'Adelaide lo credeva, e:
    
    - Tieni - fe' lanciandogli il giornale sul ventre - te lo diceva
    pure: è una... e si fermò meravigliata della faccia di Bartolomeo,
    che ella credeva allibito. Era quasi ilare.
    
    - Ma tu! - esclamò.
    
    Egli si levò in piedi. La pioggia scrosciava ancora nei vetri, il
    cielo si era fatto più buio, e nullameno egli riacquistava il bel
    colore d'una volta.
    
    - Non eri dunque innamorato tu, che hai fatto tanto?
    
    Bartolomeo ebbe un gesto di stupore, che voleva dire:
    
    - Puoi crederlo?!
    
    - Però confessalo, se non fosse stato così...
    
    - Sei tu, che lo hai detto.
    
    Rimasero incerti tutti e due, ella collo sguardo ardente, egli quasi
    curioso. Per un momento si studiarono.
    
    - Ma se è brutta!... - ella proseguì esaminandolo; Bartolomeo non si
    mosse.
    
    Allora Adelaide ebbe come un gesto di dispetto contro se stessa
    nello sforzo di cercare inutilmente una spiegazione, e ripetè più
    forte:
    
    - Che cos'era dunque? Tutti impazziscono per questa donna, che pare
    un'acciuga.
    
    Bartolomeo ebbe un lampo.
    
    - Oggi è venerdì.
    
    Ella comprese, egli titubò.
    
    - Se potessi credere...
    
    - Li faresti?... i vermicelli all'acciugata...
    
    - Forse...
    
    - Te lo dirò io - esclamò con un sorriso che gli morì nullameno in
    un sospiro: era, ecco...
    
    E non trovò altro.
    
    
    
    Tre mesi dopo Bodoni, incontrando Bartolomeo al caffè del Corso, gli
    correva incontro col suo riso sinistro sulle labbra.
    
    - È proprio vero che hai sposato la grossa Adelaide?
    
    Bartolomeo chinò la testa.
    
    Bodoni si arrestò, poi dardeggiandogli un'occhiata in faccia:
    
    - Ti piace la trippa?
    
    - No - rispose ingenuamente Bartolomeo.
    
    - Avrai una vecchiaia infelice.
    
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