1. Il periodo della maturazione
ideologica
1. CONSIDERAZIONI SULLA STORIA DEL MOVIMENTO ANARCHICO IN ITALIA
a. Il socialismo in Italia1
(…) Quando Bakunin venne in Italia, una profonda crisi travagliava
il paese, e specialmente quella parte eletta del paese che
partecipava alla vita politica non per basso egoismo di avventurieri
ed arrivisti, ma per ragioni ideali ed amore sincero di bene
generale.
Il nuovo regno dei Savoia, cui aveva messo capo la lotta per
l’indipendenza d’Italia, non rispondeva punto alle aspirazioni di
coloro che prima e meglio di tutti avevano promosso e sostenuto il
movimento.
Per lunghi decenni schiere di generosi avevano combattuto con
insuperato eroismo per liberare l’Italia dalla tirannide
dell’Austria, del papa, dei Borboni e degli altri principotti che se
ne dividevano il territorio. Era il fiore della gioventù
italiana che, colle cospirazioni, gli attentati, le insurrezioni,
affrontava il martirio; e continuamente decimata dai massacri, dalle
galere, dai patiboli, si rinsanguava sempre con nuovi altrettanto
eroici combattenti.
Le idealità che animavano quegli uomini appaiono, a noi
venuti dopo, insufficienti, vaghe, mistiche, spesso contraddittorie,
ma erano certamente nobili, disinteressate, umanitarie.
In generale essi volevano l’Italia libera dallo straniero e dai
tiranni indigeni, libera dal dominio dei preti e costituita in
repubblica unitaria o federale; e per repubblica intendevano un
“governo di popolo” che assicurasse a tutti libertà,
giustizia, benessere e istituzione.
In conseguenza delle tradizioni classiche e poi per la predicazione
di Giuseppe Mazzini, essi avevano bensì l’assurda pretesa che
l’Italia fosse superiore a tutti gli altri paesi e predestinata (da
Dio, e dalla Natura, e dalla Storia) ad essere maestra e guida di
tutta l'umanità. Ma il loro mistico patriottismo era lungi
dal significare desiderio di dominio sugli altri popoli. Al
contrario, essi affrettavano coi voti e coll’opera l'emancipazione e
la grandezza del popolo italiano anche perchè potesse
compiere la sua missione civilizzatrice ed aiutare a liberarsi tutti
i popoli oppressi: a prova il fatto che i patrioti italiani
accorrevano a combattere e versare il loro sangue in qualunque parte
del mondo dove sorgeva un grido di libertà.
Ma malgrado tanto eroismo e tanta nobiltà di propositi la
causa italiana sembrò per lungo tempo una causa disperata e
trovava appoggio solo tra i “sognatori” assetati d’ideale e alieni
da ogni mira di vantaggio personale. La gente “pratica”, egoista e
pusillanime, subiva pazientemente l’oppressione e per calcolo
acclamava i più forti; ed i peggiori si mettevano al servizio
degli oppressori quali birri e carnefici. La gran massa, misera,
ignorante, superstiziosa, restava come sempre materia passiva,
strumento docile ma infido di chi poteva e sapeva servirsene.
Poi, quando per la costanza ed il crescere dei ribelli, e per
fortunate circostanze politiche europee i servi di Casa Savoia
trovarono opportuno di sfruttare le aspirazioni nazionali per la
sicurezza e l'ingrandimento del regno sardo-piemontese, agli
apostoli ed agli eroi si frammischiarono i trafficanti ed i
profittatori, e l’intrigo diplomatico sopraffece lo slancio
rivoluzionario.
E così, tra i patteggiamenti ed i mercati segreti, le
alleanze tra monarchi, le guerre regie cominciate con dubbia fede e
vergognosamente stroncate per ragioni dinastiche, le dedizioni dei
condottieri popolari, le illusioni degli ingenui ed il tradimento
dei furbi, si arrivò alla costituzione di un regno italico
che era la parodia, la negazione dell’Italia libera e grande sognata
dai precursori.
Non si era raggiunta nè l’unità nè vera
indipendenza.
L’Austria, padrona sempre della Venezia, restava minacciosa al di
qua dell’Alpi, e l’Italia sembrava vivere solo per la protezione
interessata e prepotente dell’imperatore dei francesi. Il Papa
continuava a tiranneggiare Roma ed il Lazio, pronto sempre a
chiamare lo straniero in suo soccorso. Il diritto della nazione a
governarsi da sè ridotto alla concessione di una Camera dei
deputati eletta da un piccolo numero di censiti e tenuta a freno
dalla potestà suprema del re, nonchè da un Senato di
nomina regia. Negata ogni autonomia di regioni e comuni, e tutta
l’Italia sottoposta all’egemonia delle caste burocratica e
militaresca del Piemonte. Le libertà cittadine sempre a
discrezione della polizia. Le condizioni economiche della massa
(proletariato e piccola borghesia) a cui si erano fatte tante
promesse, generalmente peggiorate ed in certe regioni rese
addirittura miserabili per l’aumento delle imposte sulla produzione
e sui consumi. Quindi malcontento generale; e quando il malcontento
scoppiava in tumultuose proteste collettive, la forza pubblica
ristabiliva l’ordine con quei massacri di folle inermi, che
restarono sempre una caratteristica del sistema di governo della
monarchia italiana.
Naturalmente sorsero in abbondanza i patrioti dell’indomani che
vollero prender parte al bottino, senza essere stati alla battaglia;
ed anche molti dei vecchi combattenti, per motivi vari, onorevoli o
meno, si adattarono al nuovo regime e cercarono di profittarne. Ma i
più sinceri, i più ardenti e con essi i nuovi giovani
che per ragioni di età non avevano potuto prender parte alla
riscossa nazionale, ma n’avevano respirata l’atmosfera piena di
entusiasmo e volevano emulare i loro maggiori, rodevano il freno ed
anelavano il momento di ricominciare la rivoluzione e di
completarla.
Ma cosa fare?
I più influenti, i capi, esitavano tra il desiderio di
abbattere la monarchia e la paura di compromettere quel tanto di
unità e di indipendenza che si era raggiunto. La gran
maggioranza dei repubblicani devoti a Mazzini, pur predicando la
repubblica, mettevano al disopra di tutto l’unità della
patria, e nonostante l’avversione al sistema monarchico erano sempre
pronti a mettersi agli ordini del re quando egli li avesse chiamati
a compiere il programma nazionale. Ed in quanto ai garibaldini,
più di tutti ardimentosi e battaglieri ma, al pari del loro
duce, senza idee chiare e programma determinato, salvo l’odio ai
preti ed al dominio straniero, la monarchia poteva sempre a sua
posta fermarli o trascinarli, come e più dei mazziniani, col
solo darsi l’aria di voler fare la guerra all’Austria o al papa.
In realtà non si faceva nulla contro il regime, e forse date
le circostanze era possibile fare qualche cosa d’efficace; ma fra le
aspirazioni contraddittorie persisteva, vivo, insofferente,
tormentoso il desiderio di fare.
D’altra parte un nuovo fermento d’idee agitava le mani...
Vi erano stati bensì dei pensatori poderosi e precursori
geniali capaci di reggere il confronto con qualunque straniero, ma
essi erano restati senza grande influenza o totalmente ignorati,
come per esempio il Pisacane, tanto che occorse scoprirli dopo,
quando già le loro idee erano per altre vie divenute
patrimonio comune.
Ma ora, dopo la costituzione del regno, con una certa libertà
di stampa, con la maggiore facilità di muoversi e stabilire
delle relazioni e per lo stesso sprone delle disillusioni patite, la
gioventù incominciava ad informarsi ed interessarsi delle
idee che agitavano l’Europa. Già il concetto dell’Italia
nazione-messia appariva a molti fantastico ed assurdo ed era
sostituito da una più realistica concezione della storia e
dei rapporti tra i popoli. La credenza in Dio e nel soprannaturale,
tanto cara a Mazzini, era buttata in breccia dal nuovo indirizzo
delle scienze naturali introdotto nelle università italiane
per opera principalmente di valenti professori stranieri. L’idea di
patria e tutte le istituzioni sociali ‒ proprietà,
organizzazione statale, famiglia, diritto civile e penale ‒ erano
discusse e criticate con nuova larghezza di vedute. La questione
sociale, la questione dei ricchi e dei poveri, incominciava ad
attirare l’attenzione e pareva già destinata a svalorizzare e
mettere in oblìo le questioni di nazionalità.
Mazzini e Garibaldi continuavano ad essere idolatrati dalla
gioventù più avanzata, che avrebbe voluto averli come
capi guide, ma trovava sempre più difficile il seguirli.
Poichè Mazzini di fronte all’irrompere delle nuove tendenze
s’irrigidiva nel suo dogmatismo teologico-politico e scomunicava chi
non credeva in Dio; e Garibaldi, il quale voleva persuadere se
stesso e gli altri di stare sempre alla testa del progresso, diceva
e disdiceva ed in fondo non capiva nulla.
Da ciò il disagio morale ed intellettuale, che aggiunto
all’incertezza ed all’impotenza politiche teneva agitata e scontenta
la migliore gioventù italiana.
In tale condizione degli spiriti un uomo come Bakunin, con la fama
di grande rivoluzionario europeo che l’accompagnava, con la sua
ricchezza e modernità d’idee, con la sua foga e la forza
avvincente della sua personalità, non poteva non fare forte
impressione su coloro che lo avvicinavano. Ma non poteva creare un
movimento a larga base, veramente popolare, causa dei pregiudizi
patriottici e borghesi dell’ambiente e per il fatto che molti,
malgrado la mutata coscienza, si sentivano ancora legati da
giuramenti prestati alla vecchia setta; al che bisogna aggiungere le
difficoltà che gli venivano dall’essere straniero, poco
pratico della lingua italiana e soggetto sempre ad essere espulso
dalla polizia.
Ed infatti egli riuscì subito ad interessare degli uomini di
valore, che credettero a prima giunta di trovare nelle sue idee la
soluzione dei dubbi che li tormentavano, ma non potette far presa
sulle masse. D’altronde il pensiero di Bakunin era allora in
continua evoluzione, e se egli, spinto dal suo temperamento e dalla
logica delle sue premesse, arrivò presto a conclusioni
nettamente socialiste ed anarchiche, molti dei suoi primi aderenti
non potettero seguirlo e man mano si ritrassero, sostituiti
però sempre da nuovi più idonei elementi.2
Dal 1864 al 1870, Bakunin, colla propaganda personale in Italia,
colla corrispondenza dalla Svizzera, coi viaggi fatti o fatti fare e
con le pubblicazioni proprie o da lui ispirate, arrivò a
selezionare un certo numero d’uomini che, organizzati intorno a lui
in circoli più o meno segreti, presero contatto con il
movimento socialista internazionale, introdussero in Italia il
socialismo e l’anarchismo e vi fondarono la branca italiana
dell'Associazione Internazionale Italiana dei Lavoratori, di cui
continuarono ad essere gli animatori durante tutta la sua esistenza.
Ma insomma fino alla prima metà del 1870 tutto si riduceva a
pochi gruppi intimi ed a qualche piccola associazione operaia...
Poi vennero la guerra franco-prussiana, la caduta dell’impero e la
proclamazione della repubblica in Francia, la spedizione garibaldina
nei Vosgi l’entrata delle truppe italiane a Roma e la fine del
potere temporale dei papi, le vicende dell’assedio di Parigi, le
elezioni francesi dell’assemblea dei “rurali”, la pace vergognosa,
la fondazione dell’impero germanico; tutte cose che agitarono e
tennero gli animi sospesi, alimentando negli uni le più
audaci speranze e negli altri le più folli paure.
Infine scoppiò l’insurrezione parigina del 18 marzo 1871 ‒ la
Comune di Parigi ‒, repressa due mesi dopo dal governo repubblicano
con una ferocia che indignò i più temperati.
L’annunzio dei fatti di Parigi mise la febbre addosso a tutta la
gioventù politicamente attiva.
Veramente si sapeva poco quello che la Comune fosse davvero, ma la
stessa incertezza delle notizie dava libero campo all’immaginazione,
e ciascuno si foggiava il moto parigino secondo i propri desideri. E
siccome si attribuiva quel moto all’opera dell’Internazionale,
questa profittò di tutta la popolarità di cui godette
la Comune negli ambienti rivoluzionari italiani.
Le false notizie, le esagerazioni, le stesse calunnie della stampa
reazionaria servivano a rinfocolare l’entusiasmo e ad esaltare le
gesta della Comune e la potenza dell’Internazionale...
I primi e più numerosi proseliti si trovarono tra i
garibaldini sempre ardenti di battagliare per qualunque idea
sembrasse loro avanzata.
I giovani mazziniani, ai quali i fatti di Francia avevano mostrato
che la repubblica non significa necessariamente libertà,
eguaglianza e fratellanza e che può benissimo associarsi con
il più retrivo clericalismo ed il più feroce
militarismo, se fossero stati lasciati al loro istinto avrebbero
probabilmente seguito al pari dei garibaldini l’impulso dato dai
bakunisti.
Ed allora si sarebbe costituito un fascio di tutte le forze
rivoluzionarie italiane, che avrebbe potuto mettere a mal partito la
monarchia.
Ma Mazzini, offeso nei suoi pregiudizi teologici, statali e borghesi
e forse irritato dal vedersi sfuggire quella specie di pontificato
che aveva esercitato per tanti anni sul movimento rivoluzionario
italiano, attaccò violentemente la Comune e l’Internazionale
e trattenne i suoi dal passo che stavano per fare.
Bakunin rispose agli attacchi di Mazzini, e la lotta scoppiò
ardente tra mazziniani ed internazionalisti: lotta che servì
ad eccitare la discussione ed a precisare le idee; ma presto
degenerata in odio, mise l’un contro l’altro giovani egualmente
generosi ed entusiasti, e fu in definitiva la causa dell’impotenza
degli uni e degli altri.
In ogni modo l’Internazionale si estese rapidamente nei centri
più evoluti...
Dato l’ambiente italiano ancora tutto vibrante dei ricordi delle
cospirazioni mazziniane e delle spedizioni garibaldine, data
l’eccitazione prodotta dalla Comune di Parigi, data l’influenza
predominante di Bakunin, dati il temperamento e le convinzioni dei
primi iniziatori, l’Internazionale in Italia non poteva essere una
semplice federazione di leghe di resistenza operaia, sia pure a
tendenze radicali, come fu altrove. Essa assunse fin dal principio
un carattere decisamente sovvertitore, che trova un certo riscontro
solo nella Spagna, dove il carattere degli abitanti e la situazione
politica erano quasi come in Italia, e dove del resto il movimento
internazionalista fu iniziato dal Fanelli, mandato colà in
missione dall’Alleanza bakunista.
L’Internazionale nacque in Italia socialista, anarchica,
rivoluzionaria, e per conseguenza antiparlamentare. Ruppe subito con
il “Consiglio generale”, il quale, ispirato da Marx, voleva dirigere
autoritariamente l’associazione ed imporle un programma statalista;
e fu essenzialmente un’associazione fatta collo scopo di provocare
un’insurrezione armata, la quale avrebbe dovuto d’un colpo solo
rovesciare il governo, abolire la proprietà privata, mettere
a libera disposizione dei lavoratori la terra, gli strumenti di
lavoro e tutta la ricchezza esistente e sostituire
all’organizzazione statale e borghese la libera federazione dei
comuni e dei gruppi produttori autonomi.
Si accettava il principio fondamentale dell’Associazione di
lavoratori fondata a Londra nel settembre 1864, e cioè che
“la dipendenza economica dei lavoratori dai possessori delle materie
prime e degli strumenti di lavoro è la causa prima della
servitù in tutte le sue forme, politica, morale e materiale”;
e perciò si riteneva necessario ed urgente abolire la
proprietà privata fondiaria e capitalistica mediante
l’espropriazione senza indennità della classe borghese fatta
direttamente dalla massa sfruttata e soggetta. Si dichiarava il
lavoro dovere sociale per tutti, e quindi si considerava la
condizione di lavoratore superiore moralmente a qualunque altra
posizione sociale, anzi la sola compatibile con una morale veramente
umana, e molti internazionalisti provenienti dalla classe borghese,
per essere coerenti colle loro idee e meglio immedesimarsi col
popolo, si mettevano ad apprendere un mestiere manuale. Si vedeva
nella classe operaia, nel proletariato dell’industria e
dell’agricoltura, il grande fattore della trasformazione sociale e
la garanzia ch’essa si sarebbe fatta veramente a vantaggio di tutti
e non avrebbe dato origine ad una nuova classe privilegiata.
Ma però l’Internazionale non fu mai in Italia propriamente
una organizzazione di classe; ed in essa sugl’interessi contingenti
della classe operaia prevaleva sempre l’ideale della rivoluzione
come fatto che doveva iniziare una nuova civiltà per
l’elevazione morale ed il vantaggio materiale di tutta quanta
l’umanità. Nell’Internazionale in Italia, e del resto era
così un po’ dappertutto, aveva diritto di cittadinanza
chiunque ne accettava i principi, da qualunque classe provenisse. E
quando per conciliare coi fatti il titolo di associazione di
lavoratori si cercava di determinare che cosa fosse un lavoratore,
si conchiudeva che, per l’Internazionale, era lavoratore, “chiunque
lavorava alla distruzione dell’ordine borghese”, frase che
può sembrare un’arguzia, ma che traduceva bene lo stato di
fatto.
Ed invero l’Internazionale era stata introdotta in Italia da
borghesi che, per amor di giustizia, avevano disertato la loro
classe, ed ancora nel 1872 e dopo, in molti luoghi, la maggioranza,
almeno nella parte dirigente e più attiva, non era composta
di operai, ma di giovani provenienti dalla media e piccola
borghesia.
Si faceva un po’ di lotta economica, si provocava qualche sciopero,
s’incitavano gli operai a domandare e pretendere dai padroni ogni
sorta di miglioramenti. Ma ciò si faceva senza entusiasmo,
senza darvi grande importanza, poichè si era convinti che i
padroni esistevano perchè il governo li proteggeva ed
esisterebbero e trionferebbero sempre fino a che durerebbe il
governo. “Non si arriva al proprietario, si soleva dire, se non
passando sul corpo del gendarme”. Forse sarebbe stata la
verità più completa il dire che è “il
gendarme”, cioè chi possiede la forza materiale, che
s’impadronisce della ricchezza, si fa proprietario, e poi assolda,
tra le sue vittime, dei gendarmi per farsi difendere e perpetuare in
sè e nei suoi discendenti il privilegio usurpato; ma allora,
senza che nessuno di noi avesse letto Marx, si era ancora troppo
marxisti. Ma a parte ogni disquisizione teorica sulle origini della
proprietà, si era convinti che la prima cosa da fare era
rovesciare il governo, e perciò si pensava soprattutto alla
insurrezione.
Certamente sperare allora nella vittoria era una illusione.
Senza parlare delle vaste plaghe d’Italia dove le nostre idee erano
assolutamente sconosciute, anche dove eravamo più forti e
numerosi non eravamo in sostanza che un’infima minoranza di fronte
alla totalità della popolazione. E le masse erano ancora del
tutto disorganizzate ed ignare: salvo le nostre sezioni e qualche
associazione che pigliava il motto da Mazzini, le società
operaie esistente erano semplici società di mutuo soccorso
sotto il patronato di grossi proprietari o personaggi dei partiti
borghesi, quando non avevano addirittura il re... o il questore.
Questa era per noi una situazione paradossale, perchè il
nostro scopo non era di impossessarsi del governo con un colpo di
mano (il che sarebbe stato ben difficile per l’esiguità delle
nostre forze, ma forse non impossibile se fossimo riusciti a
trascinare con noi i repubblicani) per poi imporre il nostro
programma mediante la forza statale. Noi, già anarchici
convinti, volevamo abbattere il governo esistente, impedire che se
ne formasse un altro, e lasciare che le masse liberate dalla
pressione dell’esercito e della polizia pigliassero possesso della
ricchezza ed organizzassero da loro la nuova vita sociale.
Ma che sarebbe avvenuto se le masse fossero restate assenti, o si
fossero mostrate ansiose di sottomettersi ad un nuovo governo ed
attendere da esso il proprio bene?
Noi speravamo nel malcontento generale, e poichè la miseria
che affliggeva le masse era davvero insopportabile, credevamo che
bastasse dare un esempio, lanciare colle armi alla mano il grido di
“abbasso i signori”, perchè le masse lavoratrici si
scagliassero contro la borghesia, e pigliassero possesso della
terra, delle fabbriche e di quanto esse avevano prodotto colle loro
fatiche ed era stato loro sottratto. E poi avevamo una fede mistica
nella virtù del popolo, nella sua capacità, nei suoi
istinti ugualitari e libertari.
I fatti dimostrarono allora e poi (e lo avevano già
dimostrato nel passato) quanto eravamo lontani dal vero. Purtroppo
la fame, quando non vi è una coscienza del proprio diritto ed
un’idea che guida l’azione, non produce rivoluzioni: tutt’al
più provoca delle sommosse sporadiche che i signori, se hanno
giudizio, possono domare, meglio che colle fucilate dei carabinieri,
col distribuire un po’ di pane e col gettare dai balconi un po’ di
soldi di rame alla folla tumultuante. E noi, se il desiderio non
avesse fatto velo alla nostra perspicacia, avremmo ben potuto
giudicare dell’effetto deprimente, e quindi antirivoluzionario,
della miseria, dal fatto che la propaganda riusciva meglio nelle
regioni meno misere e tra quei lavoratori, artigiani per la maggior
parte, che si trovavano in condizioni economiche meno disagiate.
Ed in quanto agli “istinti egualitari e libertari” del popolo,
ahimè, quanta fatica ci vuole per risvegliarli! Per allora,
ed anche adesso in quella grande parte della massa non ancora tocca
dalla propaganda, gli “istinti”, i quali sono stati formati dai
millenario servaggio, spingono i lavoratori piuttosto al timore e,
quel ch’è peggio, al rispetto ed all’ammirazione dei padroni,
e quindi ad una docile sottomissione.
Era dunque impossibile una vittoria facile e rapida.
Ma, a parte la questione di tempo, io credo sempre dopo tutto quello
che ho veduto, che le nostre speranze non erano vane e la nostra
tattica non era sbagliata.
In effetti, la nostra propaganda, se non colla rapidità che
avremmo voluto, portava pure i suoi frutti: il numero dei convinti
andava continuamente crescendo, ed intorno ad essi si andava sempre
allargando il cerchio di simpatizzanti, di quelli cioè che
pur non comprendendo e non accettando tutte le nostre idee,
sentivano l’ingiustizia del presente ordinamento sociale e volevano
contribuire al suo cambiamento. Ed i tentativi insurrezionali che
facevamo e ci proponevamo di fare, pur essendo allora condannati ad
insuccesso sicuro, erano mezzo efficace di propaganda, ed un giorno,
a tempi più maturi (chi può giudicare prima del fatto
quando i tempi sono maturi, cioè quando un concorso di
circostanze determina il “momento psicologico” in cui un popolo
è pronto ad insorgere?), un giorno, dico, sarebbero stati la
scintilla che provoca un grande incendio.
Se il nostro lavoro fosse continuato concorde come durante i sette
od otto anni dopo la fondazione a Rimini della Federazione italiana
(1872), ben altra, io credo, sarebbe oggi la situazione italiana.
Ma sul più bello, lo sviluppo del nostro movimento fu
conturbato ed arrestato dall’introduzione in Italia del partito
socialdemocratico, legalitario e parlamentare secondo il tipo
tedesco.
L’esistenza di un altro partito socialista con tendenze diverse di
quelle che aveva l’Internazionale italiana non sarebbe stato un gran
male, anzi avrebbe potuto essere un bene, poichè avrebbe
attratti al socialismo molti elementi che, pur ammettendo la
necessità di una radicale riforma sociale, non potevano per
temperamento e per posizione essere rivoluzionari e con noi non ci
sarebbero venuti mai.
Ma il guaio fu che chi introdusse (almeno con risultati seri,
poichè vi era stato qualche altro tentativo senza successo)
in Italia la nuova tendenza uscì proprio di mezzo a noi.
Alcuni degli internazionalisti tra i più influenti ed amati
(non posso qui fare a meno di nominare l’Andrea Costa),
impressionati dagli apparenti successi del socialismo in Germania,
disgustati di una lotta che era, o sembrava, sterile di risultati
immediati, e forse stanchi delle persecuzioni che ormai erano
diventate ben più serie, preferirono, contro i loro primi
compagni e contro tutto il loro passato, una tattica che prometteva
una relativa tranquillità e rapidi successi personali; e
così gettarono la discordia nelle nostre file e furono la
causa che il meglio delle nostre forze fosse speso in polemiche e
diatribe intestine, anzichè nella propaganda tra le masse e
la lotta contro il nemico comune.
I vecchi internazionalisti che di quella “evoluzione” videro
direttamente i danni morali e materiali fatti al movimento, e
soffrirono nei loro sentimenti profondi per le amicizie male rotte,
gridarono al “tradimento”. E certo parve dar loro ragione il modo
subdolo come si condussero i nuovi convertiti al parlamentarismo,
negando ed affermando, attenuando od accentuando la nuova tendenza
secondo gli ambienti e le circostanze, e trascinando i compagni
più ingenui col sentimentalismo delle amicizie personali e
quasi senza che se ne accorgessero.
Ma fu davvero tradimento cosciente fatto per fini personali, o
frutto di onesta convinzione?
Non spetta a me, parte troppo interessata nella vertenza, il dare un
giudizio definitivo. E d’altronde questi avvenimenti sono di
parecchi anni posteriori al periodo di cui si tratta in questo
libro, e non è il caso di approfondirli e documentarli qui.
Forse lo stesso Nettlau, che ha o può procurarsi il materiale
necessario e che possiede quelle doti di imparzialità e
serenità che forse in questo caso mancherebbero a me, ci
narrerà un giorno quel periodo critico dell’Internazionale
italiana, in cui essa cessò di chiamarsi l’Internazionale e
si scisse in partito anarchico e partito socialdemocratico.
A me basti constatare che tutte le nostre previsioni sulla
degenerazione in cui sarebbe caduto il socialismo fattosi
legalitario e parlamentarista si sono purtroppo verificate, ed al di
là di quello che noi stessi pensavamo.
b. L’evoluzionismo di P. Kropotkin3
Pietro Kropotkin è senza dubbio uno di quelli che hanno
contribuito di più ‒ forse più che gli stessi Bakunin
ed Eliseo Reclus ‒ alla elaborazione e alla propagazione dell’idea
anarchica. Ed egli ha perciò ben meritato l’ammirazione e la
riconoscenza che tutti gli anarchici hanno per lui.
Ma, in omaggio alla verità e nell’interesse superiore della
causa, bisogna riconoscere che l’opera sua non è stata tutta
ed esclusivamente benefica. Non fu colpa sua, al contrario, fu
l’eminenza stessa dei suoi meriti che produsse i mali ch’io mi
propongo d’indicare.
Naturalmente Kropotkin al pari di ogni altro uomo, non poteva
evitare ogni errore ed abbracciare tutta la verità. Si
sarebbe dovuto quindi profittare della sua preziosa contribuzione e
continuare la ricerca per raggiungere nuovi progressi. Ma i suoi
talenti letterari, il valore e la mole della sua produzione, la sua
instancabile attività, il prestigio che gli veniva dalla sua
fama di grande scienziato, il fatto ch’egli aveva sacrificata una
posizione altamente privilegiata per difendere, a costo di soffrire
di pericoli, la causa popolare, e di più il fascino della sua
persona che incantava tutti quelli che avevano la fortuna di
avvicinarlo, gli dettero tale notorietà e tale influenza
ch’egli sembrò, ed in gran parte fu realmente, il maestro
riconosciuto della grande maggioranza degli anarchici.
Avvenne così che la critica fu scoraggiata, e si produsse un
arresto di sviluppo dell’idea. Durante molti anni, malgrado lo
spirito iconoclasta e progressivo degli anarchici, la maggior parte
di essi non fece, in quanto a teoria ed a propaganda, che studiare e
ripetere Kropotkin. Dire diversamente da lui fu per molti compagni
quasi un’eresia.
Sarebbe dunque opportuno il sottomettere gl’insegnamenti di
Kropotkin ad una critica severa e senza prevenzioni per distinguere
ciò che in essi è sempre vero e vivo da ciò che
il pensiero e l’esperienza posteriori possono aver dimostrato
erroneo. Cosa d’altronde che non riguarderebbe solo Kropotkin,
Poichè gli errori che si possono rimproverare a lui erano
già professati dagli anarchici prima che Kropotkin
acquistasse una posizione eminente nel movimento: egli li
confermò e li fece durare dando loro l’appoggio del suo
talento e del suo prestigio, ma noi, i vecchi militanti, vi abbiamo
tutti, o quasi tutti, la nostra parte di responsabilità.
Io ebbi l’onore e la fortuna di essere per lunghi anni legato a
Kropotkin dalla più fraterna amicizia.
Noi ci amavamo perchè eravamo animati dalla stessa passione,
dalla stessa speranza... ed anche dalle stesse illusioni.
Tutti e due di temperamento ottimista (io credo tuttavia che
l’ottimismo di Kropotkin sorpassava di molto il mio e forse aveva
una sorgente diversa) noi vedevamo le cose color di rosa,
ahimè! troppo color di rosa ‑ noi speravamo sono già
più di cinquant’anni, in una rivoluzione prossima, che
avrebbe dovuto realizzare il nostro ideale. Durante questo lungo
periodo vi furono ben dei momenti di dubbio e di scoraggiamento.
Ricordo, per esempio, che una volta Kropotkin mi disse: “Mio caro
Errico temo che siamo noi soli, tu ed io, che crediamo in una
rivoluzione vicina”. Ma erano dei momenti passeggeri: ben presto la
fiducia tornava; ci si spiegava in un modo qualsiasi le
difficoltà presenti e lo scetticismo dei compagni e si
continuava a lavorare ed a sperare.
Nullameno non bisogna credere che noi avevamo in tutto le stesse
opinioni. Al contrario, in molte idee fondamentali noi eravamo lungi
dall’essere d’accordo, e quasi non c’era volta che c’incontravamo
senza che nascessero tra noi delle discussioni rumorose ed
irritanti; ma siccome Kropotkin si sentiva sempre sicuro di aver
ragione e non poteva sopportare con calma la contraddizione, e
d’altra parte io avevo molto rispetto per il suo sapere e molti
riguardi per la sua salute vacillante, si finiva sempre col cambiar
d’argomento per non irritarsi troppo...
Kropotkin era nello stesso tempo uno scienziato ed un riformatore
sociale. Egli era posseduto da due passioni: il desiderio di
conoscere ed il desiderio di fare il bene dell’umanità, due
nobili passioni che possono essere utili l’una all’altra e che si
vorrebbero vedere in tutti gli uomini, senza ch’esse siano per
questo una sola e medesima cosa. Ma Kropotkin era uno spirito
eminentemente sistematico e voleva spiegare tutto con uno stesso
principio e tutto ridurre a unità, e lo faceva spesso,
secondo me, a scapito della logica. Perciò egli appoggiava
sulla scienza le sue aspirazioni sociali, le quali non erano,
secondo lui, che delle deduzioni rigorosamente scientifiche.
Io non ho nessuna competenza speciale per giudicare Kropotkin come
scienziato... Nulladimeno mi sembra che gli mancasse qualche cosa
per essere un vero uomo di scienza: la capacità di
dimenticare i suoi desideri e le sue prevenzioni per osservare i
fatti con un’impassibile obbiettività . . .
Abitualmente egli concepiva un’ipotesi e cercava poi i fatti che
avrebbero dovuto giustificarla ‒ il che può essere un buon
metodo per scoprire cose nuove; ma gli accadeva, senza volerlo, di
non vedere i fatti che contraddicevano la sua ipotesi.
Egli non sapeva decidersi ad ammettere un fatto, e spesso nemmeno a
prenderlo in considerazione, se prima non riusciva a spiegarlo,
cioè a farlo entrare nel suo sistema...
Kropotkin professava la filosofia materialista che dominava tra gli
scienziati nella seconda metà del secolo XIX, la filosofia di
Moleschott, Buchner, Vogt, ecc.; e per conseguenza la sua concezione
dell’Universo era rigorosamente meccanica.
Secondo il suo sistema, la volontà (potenza creatrice di cui
noi non possiamo comprendere la natura e la sorgente, come del resto
non comprendiamo la natura e la sorgente della “materia” e di tutti
gli altri “primi principi”) la volontà, dico, che
contribuisce poco o molto a determinare la condotta degl’individui e
delle società, non esiste, non è che un’illusione.
Tutto quello che fu, che è e che sarà, dal corso degli
astri alla nascita ed alla decadenza di una civiltà, dal
profumo di una rosa al sorriso di una madre, da un terremoto al
pensiero di un Newton, dalla crudeltà di un tiranno alla
bontà di un santo, tutto doveva, deve e dovrà accadere
per una sequela fatale di cause e di effetti di natura meccanica,
che non lascia nessuna possibilità di variazione. L’illusione
della volontà non sarebbe essa stessa che un fatto meccanico.
Naturalmente, logicamente, se la volontà non ha alcuna
potenza, se tutto è necessario e non può essere
diversamente, le idee di libertà, di giustizia, di
responsabilità non hanno nessun significato, non
corrispondono a niente di reale.
Secondo la logica non si potrebbe che contemplare ciò che
accade nel mondo, con indifferenza, piacere o dolore, secondo la
propria sensibilità, ma senza speranza e senza
possibilità di cambiare alcunchè.
Kropotkin, dunque, che era molto severo con il fatalismo dei
marxisti, cadeva poi nel fatalismo meccanico, che è ben
più paralizzante.
Ma la filosofia non poteva uccidere la potente volontà che
era in Kropotkin. Egli era troppo convinto della verità del
suo sistema per rinunziarvi, o solamente sopportare tranquillamente
che lo si mettesse in dubbio; ma egli era troppo appassionato,
troppo desideroso di libertà e di giustizia per lasciarsi
fermare dalla difficoltà di una contraddizione logica e
rinunziare alla lotta. Egli se la cavava inserendo l’anarchia nel
suo sistema e facendone una verità scientifica.
Egli si confermava nella sua convinzione sostenendo che tutte le
recenti scoperte in tutte le scienze, dall’astronomia fino alla
biologia ed alla sociologia, concorrevano a dimostrare sempre
più che l’anarchia è il modo d’organizzazione sociale
che è imposto dalle leggi sociali...
Così, dopo aver detto che “l’anarchia è una concezione
dell’Universo basata sull’interpretazione meccanica dei fenomeni che
abbraccia tutta la Natura, compresa la vita delle società”
(confesso che non sono mai riuscito a comprendere ciò che
questo può significare) Kropotkin dimenticava come se fosse
niente, la sua concezione meccanica e si lanciava nella lotta con il
brio, l’entusiasmo e la fiducia di uno che crede nell’efficacia
della sua volontà e spera di potere colla sua attività
ottenere o contribuire a ottenere ciò che desidera.
In realtà, l’anarchismo ed il comunismo di Kropotkin prima di
essere una questione di ragionamento, erano l’effetto della sua
sensibilità. In lui, prima parlava il cuore, e poi veniva il
ragionamento per giustificare e rinforzare gl’impulsi del cuore.
Ciò che costituiva il fondo del suo carattere era l’amore
degli uomini, la simpatia pei poveri e gli oppressi. Egli soffriva
realmente per i mali degli altri, e l’ingiustizia anche se a suo
favore, gli era insopportabile...
Spinto dagli stessi sentimenti aveva in seguito fatto adesione
all’Internazionale ed accettato le idee anarchiche. Infine, tra i
diversi modi di concepire l’anarchia aveva scelto e fatto proprio il
programma comunista-anarchico, che basandosi sulla
solidarietà e sull’amore va al di là della stessa
giustizia.
Ma naturalmente come era da prevedere, la sua filosofia non restava
senza influenza sul suo modo di concepire l’avvenire e la lotta che
bisognava combattere per arrivarvi.
Poichè secondo la sua filosofia ciò che accade doveva
necessariamente accadere, così anche il comunismo anarchico,
ch’egli desiderava, doveva fatalmente trionfare come per legge della
natura.
E ciò gli levava ogni dubbio e gli nascondeva ogni
difficoltà. Il mondo borghese doveva fatalmente cadere; era
già in dissoluzione e l’azione rivoluzionaria non serviva che
ad affrettarne la caduta.
La sua grande influenza come propagandista, oltre che dai suoi
talenti, dipendeva dal fatto ch’egli mostrava la cosa talmente
inevitabile che l’entusiasmo si comunicava subito a quelli che
l’ascoltavano o lo leggevano.
Le difficoltà morali sparivano perchè egli attribuiva
al “popolo”, alla massa dei lavoratori tutte le virtù e tutte
le capacità. Egli esaltava con ragione l’influenza
moralizzatrice del lavoro, ma non vedeva abbastanza gli effetti
deprimenti e corruttori della miseria e della soggezione. Ed egli
pensava che basterebbe abolire i privilegi dei capitalisti ed il
potere dei governanti perchè tutti gli uomini cominciassero
immediatamente ad amarsi come fratelli ed a badare agl’interessi
altrui come ai propri.
Nello stesso modo egli non vedeva le difficoltà materiali o
se ne sbarazzava facilmente. Egli aveva accettata l’idea, comune
allora tra gli anarchici, che i prodotti accumulati della terra e
dell’industria erano talmente abbondanti che per molto tempo non ci
sarebbe bisogno di preoccuparsi della produzione; e diceva sempre
che il problema immediato era quello del consumo che per far
trionfare la rivoluzione bisognava soddisfare subito e largamente i
bisogni di tutti, e che la produzione seguirebbe il ritmo del
consumo. Di là quell’idea della presa nel mucchio, ch’egli
mise in moda e che è ben la maniera più semplice di
concepire il comunismo e la più atta a piacere alla folla, ma
è anche la maniera più primitiva e più
realmente utopistica. E quando gli si fece osservare che questa
accumulazione di prodotti non poteva esistere, perchè i
proprietari normalmente non fanno produrre che quello che possono
vendere con profitto, e che forse nei primi tempi della rivoluzione
bisognerebbe organizzare il razionamento e spingere alla produzione
intensiva piuttosto che invitare alla presa in un mucchio che in
realtà non esisterebbe, egli si mise a studiare direttamente
la questione ed arrivò alla conclusione che infatti
quell’abbondanza non esisteva e che in certi paesi si era
continuamente sotto la minaccia della carestia. Ma egli si rifaceva
pensando alle grandi possibilità dell’agricoltura aiutata
dalla scienza. Egli prese come esempi i risultati ottenuti da
qualche agricoltore e qualche dotto agronomo sopra spazi limitati e
ne tirò le più incoraggianti conseguenze, senza
pensare agli ostacoli che avrebbero opposto l'ignoranza e
l'avversione al nuovo dei contadini ed al tempo che in tutti i casi
occorrerebbe per generalizzare i nuovi modi di coltura e di
distribuzione.
Come sempre Kropotkin vedeva le cose quali egli avrebbe voluto che
fossero e come noi tutti speriamo ch’esse saranno un giorno: egli
considerava esistente o immediatamente realizzabile ciò che
deve essere conquistato con lunghi e duri sforzi.
In fondo Kropotkin concepiva la Natura come una specie di
Provvidenza, grazie alla quale l’armonia doveva regnare in tutte le
cose, comprese le società umane.
È ciò che ha fatto ripetere a molti anarchici questa
frase di sapore squisitamente kropotkiniano: L’anarchia è
l’ordine naturale.
Si potrebbe domandare, io penso, come mai la Natura, se è
vero che la sua legge è l’armonia, ha aspettato che vengano
al mondo gli anarchici ed aspetta ancora ch’essi trionfino per
distruggere le terribili e micidiali disarmonie di cui gli uomini
hanno sempre sofferto.
Non si sarebbe più vicini alla verità dicendo che
l’anarchia è la lotta, nelle società umane, contro le
disarmonie della Natura?
Ho insistito sui due errori nei quali, secondo me, è caduto
Kropotkin, il suo fatalismo teorico ed il suo ottimismo eccessivo,
perchè io credo di aver constatato i cattivi effetti ch’essi
hanno prodotto nel nostro movimento.
Ci sono stati dei compagni i quali presero sul serio la teoria
fatalista ‒ che per eufemismo chiamano determinismo ‒ e perdettero
in conseguenza ogni spirito rivoluzionario. La rivoluzione, essi
dissero, non si fa: essa verrà quando sarà il suo
tempo, ed è inutile, antiscientifico e perfino ridicolo il
volerla fare. E con queste buone ragioni si allontanarono dal
movimento e pensarono ai loro affari. Ma sarebbe un errore il
credere che questa fu una comoda scusa per ritirarsi dalla lotta. Io
ho conosciuto parecchi compagni dal temperamento ardente, pronti ad
ogni sbaraglio, che si sono esposti a grandi pericoli ed hanno
sacrificato la loro libertà ed anche la loro vita in nome
dell’anarchia pur essendo convinti dell’inutilità della loro
azione. Essi lo han fatto per disgusto della società attuale,
per vendetta, per disperazione, per amore del bel gesto, ma senza
credere con questo di servire la causa della rivoluzione e per
conseguenza senza scegliere il bersaglio ed il momento e senza
curarsi di coordinare la loro azione con quella degli altri.
Da un altro lato, quelli che senza preoccuparsi di filosofia han
voluto lavorare per avvicinare e fare la rivoluzione, han creduto la
cosa ben più facile ch’essa non fosse in realtà, non
ne hanno preveduto le difficoltà, non si sono preparati come
occorreva... e così ci si è trovati impotenti il
giorno in cui vi era forse la possibilità di fare qualche
cosa di pratico.
Possano gli errori del passato servire di lezione per far meglio
nell’avvenire.
2. L’EVOLUZIONE DELL’ANARCHISMO
a. Alla radice delle idee4
Un soffio di rivolta passa dappertutto; e la rivolta è qui
l’espressione di un’idea, là il risultato di un bisogno;
più spesso poi è la conseguenza dell’intrecciarsi di
bisogni e d’idee che si generano e si rinforzano a vicenda; si
scaglia contro la causa dei mali o la colpisce di fianco, è
cosciente o istintiva, umana o brutale, generosa o strettamente
egoista, ma in ogni modo diventa sempre più grande e si
estende ogni giorno di più.
È la storia che cammina; è inutile dunque perdere
tempo a lamentarsi delle vie che essa sceglie, poichè queste
vie le sono state tracciate da tutta un’evoluzione anteriore.
Ma la storia è fatta dagli uomini; e siccome noi non vogliamo
restare spettatori indifferenti e passivi della tragedia storica,
siccome vogliamo concorrere con tutte le nostre forze a determinare
gli avvenimenti che ci sembrano più favorevoli alla nostra
causa, ci abbisogna per questo un criterio che ci serva di guida
nell’apprezzamento dei fatti che si producono, sopratutto per saper
scegliere il posto che dobbiamo occupare nella battaglia.
Il fine giustifica i mezzi. Si è molto maledetta questa
massima; ma in realtà essa è la guida universale della
condotta. Sarebbe però meglio il dire: ogni fine vuole i suoi
mezzi. Poichè la morale bisogna cercarla nello scopo; il
mezzo è fatale.
Stabilito lo scopo a cui si vuol giungere, per volontà o per
necessità, il gran problema della vita sta nel trovare il
mezzo che secondo le circostanze, conduce con maggiore sicurezza e
più economicamente, allo scopo prefisso. Dalla maniera con
cui viene risolto questo problema dipende, per quanto può
dipendere dalla volontà umana, che un uomo o un partito
raggiunga o no il suo fine, che sia utile alla sua causa o serva
senza volerlo, alla causa nemica. Aver trovato il buon mezzo: qui
sta tutto il segreto dei grandi uomini e dei grandi partiti che
hanno lasciato le loro tracce nella storia.
Noi non lottiamo per metterci al posto degli sfruttatori e degli
oppressori di oggi, e non lottiamo neppure per il trionfo di una
vacua astrazione. Non siamo affatto come quel patriota italiano che
diceva: “Che importa che tutti gli italiani muoiano di fame,
purchè l’Italia sia grande e gloriosa!”; e neppure come quel
compagno che confessava essergli indifferente che si massacrassero i
tre quarti degli uomini, perchè l’Umanità fosse libera
e felice.
Noi vogliamo la libertà e il benessere degli uomini, di tutti
gli uomini senza eccezione. Vogliamo che ogni essere umano possa
svilupparsi e vivere il più felicemente possibile. E crediamo
che questa libertà e questo benessere non potranno essere
dati agli uomini da un uomo o da un partito, ma che tutti dovranno
da sè stessi scoprirne le condizioni e conquistarsele.
Crediamo che soltanto la più completa applicazione del
principio di solidarietà può distruggere la lotta,
l’oppressione e lo sfruttamento, e che la solidarietà non
può essere che il risultato del libero accordo, che
l’armonizzazione spontanea e voluta degli interessi.
Secondo noi, tutto ciò che è volto a distruggere
l’oppressione economica e politica, tutto ciò che serve ad
elevare il livello morale ed intellettuale degli uomini, a dar loro
la coscienza dei propri diritti e delle proprie forze e a
persuaderli di fare i propri interessi da sè, tutto
ciò che provoca l’odio contro l’oppressione e suscita l’amore
fra gli uomini, ci avvicina al nostro scopo e quindi è un
bene ‒ soggetto soltanto a un calcolo quantitativo per ottenere con
forze date il massimo di effetto utile. E al contrario è
male, perchè in contraddizione col nostro scopo, tutto
ciò che tende a conservare lo stato attuale, tutto ciò
che tende a sacrificare, contro la sua volontà, un uomo al
trionfo di un principio.
Noi vogliamo il trionfo della libertà e dell’amore.
Ma per questo dovremo noi rinunciare all’impegno dei mezzi violenti?
Niente affatto. I nostri mezzi sono quelli che le circostanze ci
permettono ed impongono.
Certo, noi non vorremmo strappare un capello a nessuno; vorremmo
asciugare tutte le lacrime senza farne versare alcuna. Ma c’è
forza lottare nel mondo tale come questo è, sotto pena di
restare sognatori sterili.
Verrà il giorno, lo crediamo fermamente, in cui sarà
possibile fare il bene degli uomini senza fare male nè a
sè nè agli altri; ma oggi questo è impossibile.
Anche il più puro e dolce dei martiri, quegli che si farebbe
trascinare al patibolo per il trionfo del bene, senza far
resistenza, benedicendo i suoi persecutori come il Cristo della
leggenda, anche lui farebbe del male. Oltre al male che farebbe a
sè stesso, che pur deve contare qualche cosa, farebbe
spargere amare lacrime a tutti quelli che lo amassero.
Si tratta a dunque, sempre, in tutti gli atti della vita, di
scegliere il minimo male, di tentare di fare il meno male per la
più grande somma di bene possibile.
L’umanità si trascina penosamente sotto il peso della
oppressione politica ed economica: è abbrutita, degenerata,
uccisa (e non sempre lentamente) dalla miseria, dalla
schiavitù, dalla ignoranza e dai loro effetti. Per la difesa
di questo stato di cose esistono potenti organizzazioni militari e
poliziesche, le quali rispondono con la prigione, il patibolo ed il
massacro ad ogni serio tentativo di cambiamento. Non vi sono mezzi
pacifici, legali, per uscire da questa situazione; ed è
naturale ciò, perchè la legge è fatta
espressamente dai privilegiati per la difesa dei propri privilegi.
Contro la forza fisica che ci sbarra il cammino, non v’è per
vincere che l'appello alla forza fisica, non v’è che la
rivoluzione violenta.
Evidentemente la rivoluzione produrrà molte disgrazie, molte
sofferenze; ma se anche ne producesse cento volte di più,
essa sarebbe sempre una benedizione in confronto a quanti dolori son
causati oggi dalla cattiva costituzione della società.
E per amor degli uomini che siamo rivoluzionari: e non è
colpa nostra, se la storia ci costringe a questa dolorosa
necessità.
Dunque per noi anarchici, o almeno (giacché infine le parole
sono convenzionali) per coloro fra gli anarchici che la pensano come
noi, ogni atto di propaganda o di realizzazione con la parola o coi
fatti, individuale o collettivo, è buono quando serve ad
avvicinare e facilitare la rivoluzione, quando assicura ad essa il
concorso cosciente delle masse e le dà quel carattere di
liberazione universale, senza di cui potrebbe bensì aversi
una rivoluzione, ma non quella rivoluzione che noi desideriamo. Ed
è sopra tutto in fatto di rivoluzione che bisogna tener conto
del mezzo più economico, poichè per essa la spesa si
totalizza in vite umane.
Conosciamo abbastanza le condizioni strazianti materiali e morali in
cui si trova il proletariato, per spiegarci gli atti di odio, di
vendetta, ed anche di ferocia che potranno prodursi. Comprendiamo
che vi siano degli oppressi che, essendo stati sempre trattati dai
borghesi con la più ignobile durezza e avendo sempre visto
che tutto era permesso al più forte, un bel giorno, diventati
per un istante i più forti, si dicano: “Facciamo, anche noi,
come i borghesi”. Comprendiamo come possa accadere che, nella febbre
della battaglia, nature originariamente generose ma non preparate da
una lunga ginnastica morale, molto difficile nelle condizioni
presenti, perdano di vista lo scopo da conseguirsi, prendano la
violenza come fine a sè stessa e si lascino trascinare ad
atti selvaggi.
Ma altro è comprendere e perdonare certi fatti, altro
è rivendicarli e rendersene solidali. Non sono quelli gli
atti che noi possiamo accettare, incoraggiare ed imitare. Dobbiamo
essere risoluti ed energici, ma dobbiamo altresì sforzarci di
non oltrepassare mai il limite segnato dalla necessità.
Dobbiamo fare come il chirurgo che taglia quando bisogna tagliare,
ma evita di infliggere inutili sofferenze; in una parola dobbiamo
essere ispirati e guidati dal sentimento dell’amore per gli uomini,
per tutti gli uomini.
Ci sembra che questo sentimento di amore sia il fondo morale,
l’anima del nostro programma; che solo concependo la rivoluzione
come il più grande giubileo umano, come la liberazione e
l’affratellamento di tutti gli uomini ‒ non importa a quale classe o
a quale partito abbiano appartenuto ‒ il nostro ideale potrà
realizzarsi.
La ribellione brutale avverrà certamente; e potrà
servire, anche, a dare il gran colpo di spalla, l'ultima spinta che
dovrà atterrare il sistema attuale: ma se essa non
troverà il contrappeso nei rivoluzionari che agiscono per un
ideale, una tale rivoluzione divorerà se medesima.
L’odio non produce l’amore, e con l'odio non si rinnova il mondo; e
la rivoluzione dell’odio o fallirebbe completamente, oppure farebbe
capo ad una nuova oppressione, che potrebbe magari chiamarsi
anarchica, come si chiamano liberali i governanti di oggi, ma che
non sarebbe meno per questo un’oppressione e non mancherebbe di
produrre gli effetti che produce ogni oppressione.
b. Il rifiuto del terrorismo amorfista5
Lettera a Luisa Minguzzi
Pezzi
...In Italia non si ingannano se credono che nella questione
Ravachol io sono d’accordo con Merlino, perchè infatti lo
sono, almeno nel punto di vista generale. Molti giornalisti sono
venuti a domandarmi la mia opinione, ed io gliela ho detta
francamente; ma poi nessuno l’ha pubblicata, forse perchè io
ad evitare falsificazioni ho voluto dettarla.
Revachol mi pare un uomo sincero, devoto alla causa, forse anche
buono di cuore ma traviato da un falso ragionamento fino al punto di
assassinare nel più feroce modo un vecchio impotente ed
innocuo. Ma non è per Ravachol personalmente che noi sentiamo
il bisogno di protestare; è per le difese che fanno di lui
certi suoi amici. L’uno dice che Ravachol ha fatto bene ad uccidere
il vecchio, perchè “era un essere inutile alla
Società”; un altro dice che non vale la pena di far chiasso
per un vecchio che “aveva pochi anni da vivere” e così di
seguito. Il che vuol dire che questi anarchici che non vogliono
giudici, non vogliono tribunali, si fanno poi essi stessi giudici e
carnefici, e condannano a morte e giustiziano quelli che essi
giudicano inutili. Nessun governo ha mai fatto confessar tanto!
Così per le esplosioni. Per uccidere un meschino procuratore
si rischia di uccidere 50 innocenti, per fortuna non è
successo tutto il male che poteva succedere; ma è anche vero
che il procuratore ha avuto di rotto solo il suo urinale!
Si vede nel modo come la cosa è stata fatta, che i suoi
autori disprezzano la vita umana, non si curano della sofferenza
altrui. Ma infine, su tutto questo si potrebbe passare, e
considerare le disgrazie come dolorose conseguenze della guerra.
Ma come non protestare quando sentite dire che si ha torto di
lamentare la morte d’una serva o di un operaio, perchè “i
domestici sono peggio dei padroni e bisogna ammazzarli tutti” ed “i
bambini sono semenza dei borghesi e bisogna pure ammazzarli tutti”?
Come non inorridire quando trovate una donna la quale a voi che
lamentate la disgrazia incorsa a quella povera donna che nella
esplosione della rue Clichy ebbe la faccia lacerata da schegge di
vetro, risponde: “Come! Siete così sensibile voi? Io ho riso
tanto pensando alle smorfie che doveva fare quella donna colla
faccia tutta tagliuzzata”.
Tutto questo vuol dire che succede a molti anarchici quello che
succede ai soldati, agli uomini di guerra, che ubriacati dalla
lotta, diventano feroci e dimentichi perfino del fine pel quale si
lotta finiscono col volere il sangue per il sangue. Non è
più l’amore per il genere umano che li guida, ma il
sentimento di vendetta unito al culto di una idea attratta, di un
fantasma teorico.
Ciò si comprende; tanto più in presenza di una
borghesia che ci dà quotidianamente lo spettacolo della
ferocia, ma non si può approvare, non si può
incoraggiare. Una rivoluzione nella quale trionfassero questi
istinti, sarebbe una rivoluzione perduta. Il terrore provoca la
reazione: prima la reazione della pietà, poi la reazione
degli interessi.
Vi è poi altra cosa. Questi anarchici pare si vogliano fare
distributori di grazia e di giustizia e ciò non è
niente affatto anarchico. Se noi avessimo il diritto di condannare
in nome dell’idea che ci facciamo noi della giustizia, lo stesso
diritto l'avrebbe il governo in nome della giustizia sua.
Naturalmente ognuno crede di avere ragione, e se ognuno avesse il
diritto di condannare quelli che secondo lui hanno torto addio
giustizia, addio libertà, addio eguaglianza, addio anarchia;
i più forti sarebbero, come sono oggi, il governo, ed ecco
tutto.
Noi dobbiamo essere dei libertari. La dinamite è un’arma come
un’altra spesso migliore di un’altra nella lotta contro gli
oppressori: ma come tutte le armi, può essere adoperata bene
o male, può servire a liberare gli oppressi, o a spaventare
ed opprimere i deboli. Noi dobbiamo servirci di tutte le armi, ma
non dobbiamo mai perdere di vista lo scopo, nè la proporzione
tra il mezzo e lo scopo. Io capisco che si possa rischiare di
uccidere degli innocenti per fare un atto risolutivo: far saltare
per esempio un parlamento uccidere lo Czar ‒ ma rischiare di
uccidere 50 persone per rompere l’urinale di un procuratore
pubblico, mi pare una cosa folle ‒ e questa cosa, da folle diventa
criminosa se non è ispirata da cattivo calcolo, ma da
indifferenza per la vita degli altri.
So ben che queste idee non sono fatte per incontrare la simpatia
generale dei nostri amici.
Per quanto si sia anarchici, si è sempre più o meno
uomini del proprio tempo. Ed il popolo dei nostri tempi, come quello
dei tempi passati, si lascia ancora imporre dalla forza, dal
successo, senza guardarci tanto pel sottile. Se esplosioni sono
riuscite, hanno messo paura ... ai paurosi, e molti dei nostri amici
applaudiranno incondizionatamente, senza occuparsi dell’effetto che
hanno sulla massa, che noi dovremmo attirare a noi, senza esaminare
senza fare le parti del bene e del male. È la stessa tendenza
per la quale il popolo applaude a tutti i guerrieri, a tutti i
tiranni che vincono; è la stessa tendenza per la quale
parecchi anarchici divennero boulangistes quando sembrava che
Boulanger stesse per vincere.
Ma contro questa tendenza noi dobbiamo reagire, se no addio
anarchia. La rivoluzione si farebbe ma per aprire il varco a nuovi
tiranni.
La verità è che v’è molta gente che si chiama
anarchica, e che dell’anarchia non ha capito nulla.
Anche in questa occasione i soliti, gli ex amici di Senace hanno
pubblicato un foglio clandestino in cui minacciano bastonate a
quegli anarchici, che non credono che Ravachol sia il tipo degli
anarchici, e che l’eremita di Chambles meritava gli si schiacciasse
la testa a martellate, vale a dire a noi, e le bastonate promesse ce
le darebbero... se noi ce le lasciassimo dare.
Vedete dunque che anarchici! Come l’inquisizione; le bastonate (non
potendo applicare la ghigliottina o il rogo) a quelli che non
pensano come loro e dicono il loro pensiero.
È necessario reagire; mettere i punti sugli i, uscire dai
termini generali i quali spesso fanno credere che si sia d’accordo,
mentre si sta agli antipodi.
Ed io, dopo tutto, son contento di questa specie di crisi,
perchè provocherà delle spiegazioni, in seguito alle
quali si saprà con chi si è d’accordo davvero e con
chi no, e si saprà uscire dall’equivoco, dai tira e molla e
mettersi col lavoro fecondo dalla propaganda fra le masse e
dell’azione veramente rivoluzionaria.
Voi saprete interpretare per il loro verso queste idee buttate
già così confusamente ed in fretta. Io del resto le
svilupperò completamente in un lavoretto che darò alle
stampe al più presto.6
Se volete far leggere questa lettera a qualche amico fatelo pure; ma
però, appunto perchè è buttata giù in
fretta e senza ordine, fatela leggere solo a quelli che conoscete
abbastanza intelligenti per non interpretare le cose a rovescio...
c. La tragedia di Monza7
Prima di tutto riduciamo le cose alle loro giuste proporzioni
Il re è stato ucciso; e poichè un re è pur
sempre un uomo, il fatto è da deplorarsi. Una regina è
stata vedovata; e poichè una regina è anch’essa una
donna, noi simpatizziamo col suo dolore.
Ma perchè tanto chiasso per la morte di un uomo e per le
lacrime di una donna quando si accetta come una cosa naturale il
fatto che ogni giorno tanti uomini cadono uccisi, e tante donne
piangono, a causa delle guerre, degli accidenti sul lavoro, delle
rivolte represse a fucilate, e dei mille delitti prodotti dalla
miseria, dallo spirito di vendetta, dal fanatismo e dall’alcolismo?
Perchè tanto sfoggio di sentimentalismo a proposito di una
disgrazia particolare, quando migliaia e milioni di esseri umani
muoiono di fame e di malaria, fra l’indifferenza di coloro che
avrebbero i mezzi di rimediarvi?
Forse perchè questa volta le vittime non son dei volgari
lavoratori, non un onest’uomo ed un’onesta donna qualunque, ma un re
ed una regina?...
Veramente, noi troviamo il caso più interessante, ed il
nostro dolore è più sentito, più vivo,
più vero, quando si tratta di un minatore schiacciato da una
frana mentre lavora, e di una vedova che resta a morir di fame coi
suoi figlioletti!
Nulladimeno, anche quelle dei reali sono sofferenze umane e vanno
deplorate. Ma sterile resta il lamento se non se ne indagano le
cause e non si cerca di eliminarle.
Chi è che provoca la violenza? Chi è che la rende
necessaria, fatale?
Tutto il sistema sociale vigente è fondato sulla forza
brutale messa a servizio di una piccola minoranza che sfrutta ed
opprime la grande massa; tutta l’educazione che si dà ai
ragazzi si riassume in una apoteosi della forza brutale; tutto
l’ambiente in cui viviamo è un continuo esempio di violenza,
una continua suggestione alla violenza.
Il soldato, cioè l’omicida professionale, è onorato, e
sopra di tutti è onorato il re, la cui caratteristica storica
è quella di essere capo di soldati.
Colla forza brutale si costringe il lavoratore a farsi derubare del
prodotto del suo lavoro; colla forza brutale si strappa
l’indipendenza alle nazionalità deboli.
L’imperatore di Germania eccita i suoi soldati a non dar quartiere
ai Cinesi; il governo inglese tratta da ribelli i Boeri che
rifiutano di sottomettersi alla prepotenza straniera, e brucia le
fattorie, e caccia le donne dalle case, e perseguita anche i non
combattenti, e rinnova le gesta orribili della Spagna in Cuba; il
Sultano fa assassinare gli Armeni a centinaia di migliaia; il
governo Americano massacra i Filippini dopo averli vilmente traditi.
I capitalisti fan morire gli operai nelle miniere, sulle ferrovie,
nelle risaie per non fare le spese necessarie alla sicurezza del
lavoro, e chiamano i soldati per intimidire e fucilare
all’occorrenza i lavoratori che domandano di migliorare le loro
condizioni.
Ancora una volta, da chi viene dunque la suggestione, la
provocazione alla violenza? Chi fa apparire la violenza come la sola
via d’uscita dallo stato di cose attuale, come il solo mezzo per non
subire eternamente la violenza altrui?
Ed in Italia è peggio che altrove. Il popolo soffre
perennemente la fame; i signorotti spadroneggiano peggio che nel
Medioevo; il Governo a gara coi proprietari, dissangua i lavoratori
per arricchire i suoi e sperperare il resto in imprese dinastiche;
la polizia è arbitra della libertà dei cittadini, ed
ogni grido di protesta, ogni benchè sommesso lamento è
strozzato in gola dai carcerieri, e soffocato nel sangue dai
soldati.
Lunga è la lista dei massacri: da Pietrarsa a Conselica, a
Calatabiano, alla Sicilia, ecc.
Solo due anni or sono le truppe regie massacrarono il popolo inerme;
solo alcuni giorni or sono le regie truppe han portato ai
proprietari di Minella il soccorso delle loro baionette e del loro
lavoro forzato, contro i lavoratori famelici e disperati.
Chi è il colpevole della ribellione, chi è il
colpevole della vendetta che di tanto in tanto scoppia: il
provocatore, l’offensore o chi denunzia l’offesa e vuole eliminarne
le cause?
Ma, dicono, il re non è responsabile!
Noi non pigliamo certo sul serio la burletta delle finzioni
costituzionali. I giornali “liberali” che ora argomentano sulla
irresponsabilità del re, sapevano bene, quanto si trattava di
loro, che al di sopra del parlamento e dei ministri, vi era
un’influenza potente, un'“alta sfera” a cui i regi procuratori non
permettevano di fare troppo chiare allusioni. Ed i conservatori, che
ora aspettano una “nuova era” dall’energia del nuovo re, mostrano di
sapere che il re, almeno in Italia, non è poi quel fantoccio
che ci vorrebbero far credere quando si tratta di stabilire le
responsabilità. E d’altronde, anche se non fa il male
direttamente, è sempre responsabile di esso, un uomo che
potendo, non lo impedisce ‒ ed il re è capo dei soldati e
può sempre, per lo meno, impedire che i soldati facciano
fuoco sopra popolazioni inermi. Ed è puranche responsabile
chi non potendo impedire un male, lascia che si faccia in nome suo,
piuttosto che rinunziare ai vantaggi del posto.
È vero che se si prendono in conto le considerazioni di
eredità, di educazione, di ambiente, la responsabilità
personale dei potenti si attenua di molto e forse sparisce
completamente. Ma allora, se è irresponsabile il re dei suoi
atti e delle sue omissioni, se malgrado l’oppressione, lo
spogliamento il massacro del popolo fatto in suo nome, egli avrebbe
dovuto restare al primo posto del paese, perchè mai sarebbe
responsabile il Bresci? Perchè mai dovrebbe il Bresci
scontare con una vita di inenarrabili patimenti un atto che, per
quanto si voglia giudicare sbagliato, nessuno può negare
essere stato ispirato da intenzioni altruistiche?
Ma questa questione della ricerca delle responsabilità
c’interessa mediocremente.
Noi non crediamo nel diritto di punire, noi respingiamo l'idea di
vendetta come sentimento barbaro: noi non intendiamo essere
giustizieri, nè vendicatori. Più santa, più
nobile, più feconda ci pare la missione di liberatori e di
pacificatori.
Ai re, agli oppressori, agli sfruttatori noi tenderemmo volentieri
la mano, quando soltanto essi volessero tornare uomini fra gli
uomini, uguali tra gli uguali. Ma intanto che essi si ostinano a
godere dell’attuale ordine di cose ed a difenderlo colla forza,
producendo così il martirio, l’abbrutimento e la morte per
stenti a milioni di creature umane, noi siamo nella
necessità, siamo nel dovere di opporre la forza alla forza.
Opporre la forza alla forza!
Vuol dire ciò che noi ci dilettiamo in complotti
melodrammatici e siamo sempre nell’atto o nell’intenzione di
pugnalare un oppressore?
Niente affatto. Noi aborriamo alla violenza per sentimento e per
principio, e facciamo sempre il possibile per evitarla: solo la
necessità di resistere al male coi mezzi idonei ed efficaci
ci può indurre a ricorrere alla violenza.
Sappiamo che questi fatti di violenza singola, senza sufficiente
preparazione nel popolo restano sterili e spesso, provocando
reazioni a cui si è incapaci a resistere, producono dolori
infiniti e fanno male alla causa stessa a cui intendevano servire.
Sappiamo che l’essenziale, l’indiscutibilmente utile si è,
non già l’uccidere la persona di un re, ma l’uccidere tutti i
re ‒ quelli delle corti, dei parlamenti e delle officine ‒ nel cuore
e nella mente della gente; di sradicare cioè la fede nel
principio di autorità a cui presta culto tanta parte del
popolo.
Sappiamo che meno la rivoluzione è matura e più essa
riesce sanguinosa ed incerta.
Sappiamo che, essendo la violenza sorgente di autorità, anzi
essendo in fondo tutta una cosa col principio di autorità,
più la rivoluzione sarà violenta e più vi
sarà pericolo ch’essa dia origine a nuove forme di
autorità.
E perciò ci sforziamo di acquistare, prima di adoperare le
ultime ragioni degli oppressi, quella forza morale e materiale che
occorre per ridurre al minimo la violenza necessaria ad abbattere il
regime di violenza a cui oggi l’umanità soggiace.
Ci si lascerà in pace al nostro lavoro di propaganda, di
organizzazione, di preparazione rivoluzionaria?
In Italia c’impediscono di parlare, di scrivere, di associarci.
Proibiscono agli operai di unirsi e lottare pacificamente,
nonchè per l’emancipazione, nemmeno per migliorare in minime
proporzioni le loro incivili ed inumane condizioni di esistenza.
Carceri domicilio coatto, repressioni sanguinose sono i mezzi che si
oppongono non solo a noi anarchici, ma a chiunque osa pensare ad una
più civile condizione di cose.
Che meraviglia, se perduta la speranza di poter combattere con
profitto per la propria causa, degli animi ardenti si lasciano
trasportare ad atti di giustizia vendicativa?
Le misure di polizia, di cui sono sempre vittime i meno pericolosi;
la ricerca affannosa di inesistenti istigatori, che appare grottesca
a chiunque conosce un poco lo spirito dominante tra gli anarchici,
le mille buffe proposte di sterminio avanzate da dilettanti di
poliziottismo, non servono che a mettere in evidenza il fondo
selvaggio che cova nell’animo delle classi governanti.
Per eliminare totalmente la rivolta sanguinosa delle vittime, non vi
è altro mezzo che l’abolizione dell’oppressione, mediante la
giustizia sociale.
Per diminuirne ed attuarne gli scoppi non v’è altro mezzo che
lasciare a tutti la libertà di propaganda e di
organizzazione; che lasciare ai diseredati, agli oppressi, ai
malcontenti, la possibilità di lotte civili; che dar loro la
speranza di poter conquistare, sia pur gradualmente, la propria
emancipazione per vie incruente.
Il governo d’Italia non ne farà nulla continuerà a
reprimere... e continuerà a raccogliere quello che semina.
Noi, pur deplorando la cecità dei governanti che imprime alla
lotta un’asprezza non necessaria, continueremo a combattere per una
società in cui sia eliminata ogni violenza, in cui tutti
abbiano pane, libertà, scienza, in cui l’amore sia la legge
suprema della vita.
d. Errori e rimedi8
Vi è oggi tanta gente varia che si chiama anarchica, e col
nome di anarchia si espongono tante idee disparate e
contraddittorie, che davvero avremmo torto di meravigliarci quando
il pubblico che è nuovo alle idee, e non può a prima
giunta distinguere le grandi differenze che si nascondono sotto il
velo di una parola comune, resta sordo alla nostra propaganda e ci
guarda con sospetto.
Noi non possiamo naturalmente impedire agli altri di prendere il
nome che vogliono; nè l’abbandonar noi il nome di anarchici
servirebbe ad altro che ad aumentare la confusione, poichè il
pubblico penserebbe che noi abbiamo semplicemente voltato bandiera.
Tutto ciò che possiamo, e cioè che dobbiamo fare, si
è di distinguerci nettamente da coloro che dell’anarchia
hanno un concetto diverso dal nostro, o che dallo stesso concetto
teorico tirano conseguenze pratiche opposte a quelle che ne tiriamo
noi. E la distinzione deve risultare dall’esposizione chiara della
nostra morale senza nessun riguardo di persone e di partito.
Poichè questa pretesa solidarietà di partito, fra
gente che poi non apparteneva e non avrebbe potuto appartenere allo
stesso partito, è stata appunto una delle cause principali
della confusione. E si è arrivati a tal punto che molti
esaltano nei “compagni” quelle stesse azioni che vituperano nei
borghesi; e sembra che il loro unico criterio del bene e del male
sia questo: se l’autore dell’atto che si giudica prende il nome di
anarchico, o no.
Molti sono gli errori che hanno menato gli uni a mettersi in
completa contraddizione coi principii che teoricamente professano, e
gli altri a sopportare queste contraddizioni; come molte sono le
cause che hanno attirata in mezzo a noi della gente che in fondo se
ne ride del socialismo e dell’anarchia, e di tutto ciò che
sorpassa gl’interessi delle loro persone.
Io non posso intraprendere qui un esame metodico e completo di
questi errori. Solo accennerò ad alcuni di essi così
come mi si presenteranno alla mente.
Prima di tutto parliamo di morale.
È cosa comune trovare degli anarchici che “negano la morale”.
Al principio è un semplice modo di dire per significare che,
dal punto di vista teorico, non ammettono una morale assoluta,
eterna, immutabile, e che, nella pratica, si ribellano contro la
morale borghese che sanziona lo sfruttamento delle masse e condanna
quegli atti che tornano a pericolo e danno dei privilegiati. Ma poi,
poco a poco, come suole avvenire in tante altre cose, prendono la
figura retorica per l’espressione della verità. Dimenticano
che nella morale corrente, oltre le regole che sono inculcate dai
preti e dai padroni nell’interesse del loro dominio, si trovano
pure, e ne sono in realtà la parte maggiore e sostanziale,
anche quelle regole che sono la conseguenza e la condizione di ogni
coesistenza sociale; dimenticano che il ribellarsi contro ogni
regola imposta colla forza non vuol dire niente affatto rinunziare
ad ogni ritegno morale e ad ogni sentimento di obbligazione verso
gli altri; dimenticano che per combattere ragionevolmente una
morale, bisogna opporle, in teoria ed in pratica, una morale
superiore; e, per poco che il temperamento e le circostanze aiutino,
finiscono col divenire immorali nel senso assoluto della parola,
cioè uomini senza regola di condotta, senza criterio per
guidarsi nelle loro azioni, che cedono passivamente all’impulso del
momento. Oggi si leveranno il pane di bocca per soccorrere un
compagno, domani ammazzeranno un uomo per andare al bordello!...
Altra fonte di errori e di colpe gravissime è stato il modo
come si è interpretato da molti la teoria della violenza.
La società attuale si mantiene colla forza delle armi. Mai
nessuna classe oppressa è riuscita ad emanciparsi senza
ricorrere alla violenza; mai le classi privilegiate han rinunciato
ad una parte, sia pur minima, dei loro privilegi, se non per forza,
o per paura della forza. Le istituzioni sociali attuali sono tali
che appare impossibile di trasformarle per via di riforme graduali e
pacifiche; e la necessità di una rivoluzione violenta che,
violando, distruggendo la legalità, fondi la società
umana sopra basi novelle, s’impone. L’ostinazione, la
brutalità con cui la borghesia risponde ad ogni più
anodina domanda del proletariato, dimostrano la fatalità
della rivoluzione violenta. Dunque è logico, è
necessario che i socialisti e specialmente gli anarchici, siano un
partito rivoluzionario e prevedano e affrettino la rivoluzione.
Ma disgraziatamente c’è negli uomini una tendenza a scambiare
il mezzo col fine; e la violenza, che per noi è e deve
restare una dura necessità, è diventata per molti
quasi lo scopo unico della lotta. La storia è piena di esempi
di uomini che, avendo cominciato a lottare per uno scopo elevato,
hanno poi nel calore della mischia smarrito ogni controllo sopra
loro stessi, han perduto di vista lo scopo e son diventati dei
feroci massacratori. E, come lo dimostrano fatti recenti, molti
anarchici non sono sfuggiti a questo terribile pericolo della lotta
violenta. Irritati dalle persecuzioni, ammattiti dagli esempi di
cieca ferocia che dà ogni giorno la borghesia, essi han
cominciato ad imitare l’esempio dei borghesi; ed allo spirito
d’amore è subentrato lo spirito di vendetta, lo spirito di
odio. E l’odio e la vendetta essi, al par dei borghesi, han chiamato
giustizia. Poi, per giustificare quegli atti, che pur potevano
spiegarsi come effetti delle orribili condizioni del proletariato e
servire come una ragione di più per invocare la distruzione
di un ordine di cose che produce così tristi risultati,
alcuni han cominciato a formulare le più strane, le
più fanatiche, le più autoritarie teorie; e non
badando alla contraddizione, le han presentate come un nuovissimo
progresso dell’idea anarchica . . .
D’altra parte un errore, opposto a quello in cui cadono i
terroristi, minaccia il movimento anarchico. Un po’ per reazione
contro l’abuso che in questi ultimi anni si è fatto della
violenza, un po’ per la sopravvivenza delle idee cristiane, e
soprattutto per l’influenza della predicazione mistica di Tolstoj,
alla quale il genio e le alte qualità morali dell’autore dan
voga e prestigio, incomincia ad acquistare una certa importanza fra
gli anarchici il partito della resistenza passiva, il quale ha per
principio che bisogna lasciare opprimere e vilipendere se stesso e
gli altri piuttosto che far del male all’aggressore. È quello
che è stato chiamato l’anarchia passiva...
È curioso osservare come i terroristi ed i tolstoisti,
appunto perchè sono gli uni e gli altri dei mistici, arrivano
a conseguenze pratiche presso che uguali. Quelli non esiterebbero a
distruggere mezza umanità pur di far trionfare l’idea: questi
lascerebbero che tutta l’umanità restasse sotto il peso delle
più grandi sofferenze piuttosto che violare un principio.
Per me, io violerei tutti i principii del mondo pur di salvare un
uomo: il che sarebbe poi infatti rispettare il principio,
Poichè, secondo me, tutti principii morali e sociologici si
riducono a questo solo: il bene degli uomini, di tutti gli uomini.
e. Il furto come arma di guerra9
In tutti i tempi gli eserciti belligeranti ed i partiti
rivoluzionari hanno considerato atto di buona guerra l’impossessarsi
a danno del nemico di tutto ciò che può facilitare la
vittoria e quindi anche del denaro, che si suol dire essere il nerbo
della guerra.
È permesso agli anarchici, che stanno sempre, almeno
intenzionalmente, in guerra guerreggiata con la classe
capitalistica, è permesso agli anarchici, in coerenza coi
loro principi, togliere ai ricchi della roba (denaro e oggetti
preziosi) per servirsene per la propaganda, per l’armamento e per
tutti i bisogni della lotta? E non potendo requisire il denaro
apertamente, in guerra dichiarata, è permesso impadronirsene
di nascosto, adoperando quelle che possono chiamarsi astuzie di
guerra in una parola rubando?
Teoricamente non pare che vi possa esser dubbio sul diritto di
adoperare, in una guerra giusta, tutti i mezzi atti a facilitare ed
assicurare la vittoria senza ledere il sentimento di umanità.
Ma bisogna vedere se un mezzo è poi realmente utile, se
ciò che è moralmente permesso è praticamente
consigliabile.
Il metodo (il furto per la propaganda) è stato in vari paesi
ed in varie epoche predicato e praticato da speciali gruppi
anarchici; ma ha dato sempre frutti disastrosi.
E potrei dire lo stesso di altri partiti e di epoche gloriose nella
storia d’Italia, ma preferisco non occuparmi qui che delle cose
nostre.
Il denaro corrompe e corrompe pure la necessità di nascondere
il proprio essere, di fingere, d’ingannare, di adoperare quelle arti
necessarie al ladro se non vuole andare in prigione come un
imbecille.
Quanti giovani generosi, quante belle nature si sono sciupate per
questa fisima del rubare per la propaganda!
S’incomincia col ricercare la compagnia dei ladri di mestiere,
perchè anche il rubare è un mestiere che bisogna
imparare. Si perde l’abitudine e poi la voglia di lavorare, e quindi
sul prodotto del furto bisogna prelevare la quota per alimentare il
ladro: alla propaganda va quel che resta, se ce ne resta. E
coll’abitudine del non lavorare viene il gusto del lusso e
dell’orgia, e si finisce col dimenticare le idee, la propaganda, i
principi, e si diventa un ladro volgare.
Peggio ancora: s’incomincia a trattare i propri compagni come
vigliacchi perchè si lasciano sfruttare lavorando, la massa
come disprezzabile gregge, e si finisce col dire: “chi vuole
emanciparsi faccia come me, rubi”, “io la mia rivoluzione l’ho
fatta, faccian gli altri la loro”, e si diventa dei borghesi come e
peggio degli altri.
E questo solo per quei pochi che hanno fortuna e riescono a fare il
colpo grosso. Gli altri consumano la vita in piccole truffe,
furtarelli meschini fatti preferibilmente a danno dei poveri,
perchè rubare ai poveri è più facile e meno
pericoloso, o a danno dai compagni perchè i compagni non
denunciano alla polizia.
I migliori quelli che riescono a salvarsi dalla peggiore decadenza
morale son quelli che si fan cogliere all’inizio della carriera e
vanno in galera prima di essersi completamente corrotti.
Vi possono essere delle eccezioni individuali: io stesso ne potrei
citare se l’argomento non fosse così delicato.
Ma il certo si è che in tutti gli ambienti in cui è
stato ammesso il furto per la propaganda è entrata la
corruzione, la sfiducia tra compagni la maldicenza, il sospetto e
quindi l’inerzia e la dissoluzione. E le spie hanno avuto buon
giuoco, perchè non si è più avuto il modo di
controllare quali sono i mezzi di vita di ciascuno.
No, meglio la penuria di mezzi, meglio il soldino versato e raccolto
con fatica che dà al lavoratore l’orgoglio di concorrere col
proprio sforzo all’opera comune, anzichè, per la speranza
quasi sempre illusoria della grossa somma, correre il rischio di
veder corrompersi e sparire alcuni tra i compagni più
energici e più intraprendenti.
3. LA LEZIONE DEI FATTI
a. La tattica rivoluzionaria10
Noi dobbiamo mescolarci più ch’è possibile alla vita
popolare: incoraggiare e spingere tutti i movimenti che contengono
un germe di rivolta materiale o morale e abituano il popolo a fare i
suoi interessi da sè e a non fidare che nelle proprie forze;
ma senza perdere mai di vista che la rivoluzione per
l’espropriazione e la messa in comune della proprietà e la
demolizione del potere sono la sola salute del proletariato e
dell’umanità e che per conseguenza ogni cosa è buona o
cattiva a seconda che essa avvicini o allontani, faciliti o renda
più difficile tale rivoluzione.
Applichiamo ciò alla questione degli scioperi. Noi siamo
caduti a tal proposto, com’è un po’ la nostra abitudine, da
una esagerazione in un’altra.
Tempo addietro, convinto che lo sciopero è impotente, non
solo per emancipare, ma anche per migliorare in modo permanente la
sorte dei lavoratori, noi trascuravamo troppo il lato morale della
questione e, meno che in qualche regione, abbiamo lasciato questo
mezzo potente di propaganda e di agitazione quasi totalmente ai
socialisti autoritari e agli addormentatori.
Cessata quell’indifferenza in seguito ai grandi scioperi di questi
ultimi tempi e specialmente dopo lo sciopero del porto di Londra che
fece pensare che se gli uomini che lo guidarono avessero avuta una
chiara concezione rivoluzionaria e non ne avessero temuto le
responsabilità, si sarebbe potuto condurre i lavoratori dei
docks a marciare sui quartieri ricchi ed a fare la rivoluzione; si
manifesta ora una tendenza all’eccesso opposto, cioè ad
attendere tutto dagli scioperi e quasi a confondere lo sciopero con
la rivoluzione.
Questa tendenza è molto pericolosa, poichè essa fa
nascere delle speranze chimeriche e la cui pratica sarebbe, non dico
certo altrettanto corruttrice, ma pure fallace e addormentatrice
come lo stesso parlamentarismo.
Si predica lo sciopero generale e sta benissimo: ma si ha torto,
secondo me, quando s’immagina e si dice che lo sciopero generale
è la rivoluzione. Esso sarebbe solo un’occasione magnifica
per fare la Rivoluzione, ma niente di più. Esso potrebbe
trasformarsi in rivoluzione, ma solo se i rivoluzionari avessero
abbastanza influenza, forza e spirito d’iniziativa per trascinare i
lavoratori sulla via dell’espropriazione e dell’attacco armato,
prima che lo snervamento della fame e lo sgomento del massacro o le
concessioni dei padroni non vengano a demoralizzare gli scioperanti
e a ridurli in quello stato d’animo, così facile a prodursi
tra le masse, nel quale si vuole sottomettersi ad ogni costo, e si
considera come un nemico, un pazzo o un agente provocatore chiunque
spinge alla lotta ad oltranza.
Io considero del resto come irrealizzabile un vero sciopero generale
nelle condizioni economiche e morali attuali del proletariato
universale; e credo che la rivoluzione sarà fatta molto prima
che un tale sciopero possa prodursi. Ma di grandi scioperi se ne
producono già e con l’attività e dell’accordo si
può provocarne di più grandi ancora; e potrebbe darsi
che sia quella la forma con cui comincerà, almeno nei paesi
industriali, la Rivoluzione sociale. Bisogna dunque star sul chi
vive per profittare di tutte le occasioni che possono presentarsi.
Lo sciopero non deve più essere la guerra delle braccia
incrociate.
I fucili e tutti gli ordigni per l’attacco e la difesa che la
scienza mette a nostra disposizione, lungi dall’essere resi inutili
dagli scioperi, restano sempre strumenti di liberazione, che negli
scioperi trovano soltanto una buona occasione per essere utilmente
adoperati.
b. Andiamo fra il popolo11
Confessiamolo subito: gli anarchici non si sono mostrati all’altezza
della situazione.
Se si toglie il moto di Carrara che ha dato prova sì del loro
coraggio e della loro devozione alla causa, ma anche
dell’insufficienza della loro organizzazione, appena si sarebbe
parlato degli anarchici in tanto commuoversi di popolo in Sicilia ed
in altre parti d’Italia.
Dopo aver tanto gridato di rivoluzione, la rivoluzione arriva, e noi
siamo stati disorientati e siam restati presso che inerti.
Può essere doloroso il confessarlo, ma il tacerlo e
nasconderlo sarebbe tradire la causa, e continuare negli errori che
ci han condotti a questo punto.
È tempo di ravvederci!
La causa principale, secondo noi, di questa nostra decadenza
è l’isolamento in cui quasi dappertutto siamo caduti.
Per un complesso di cause, che ora sarebbe troppo lungo esaminare,
gli anarchici, dopo la dissoluzione dell’Internazionale, perdettero
il contatto delle masse e si andavano man mano riducendo in piccoli
gruppi, occupati solo a discutere eternamente e, purtroppo a
dilaniarsi tra loro, o tutt’al più a fare un po’ di guerra ai
socialisti legalitari.
Contro questo stato di cose si è tentato più volte di
reagire con più o meno successo. Ma quando si credeva di
poter infine ricominciare un lavoro serio ed a larga base, ecco che
venner fuori alcuni compagni i quali, per una malintesa
intransigenza, elevarono l’isolamento a principio, e secondati
dall’indolenza e dalla timidezza di tanti, che trovavano in quella
“teoria” una comoda scusa per non far nulla e non correre nessun
rischio, riuscirono a ricacciarci nell’impotenza.
Per opera di quei compagni, molti dei quali ci compiacciamo di
riconoscerlo, sono pur animati dalle migliori intenzioni, il lavoro
di propaganda e di organizzazione è diventato una cosa
impossibile.
Volete entrare in un’associazione operaia? Maledizione! Non giova
per il verbo anarchico: ogni buon anarchico se ne deve tener lontano
come dalla peste.
Volete fondare un’associazione dei lavoratori per abituarli a
lottare solidariamente contro i padroni? Tradimento! un buon
anarchico non deve associarsi che con anarchici convinti, vale a
dire deve star sempre cogli stessi compagni, e se vuol fondare
associazioni, non può che dar nomi diversi a un gruppo,
composto sempre dalla stessa gente.
Cercate di organizzare e sostenere scioperi? Mistificazioni,
palliativi!
Tentate manifestazioni ed agitazioni popolari? Pagliacciate!
Insomma tutto quello che è permesso di fare per la propaganda
si è qualche conferenza, dove il pubblico non viene se non
è attirato dalle doti eccezionali di un oratore, qualche
stampato, che è letto sempre dallo stesso circolo di gente; e
la propaganda da uomo a uomo, se sapete trovar chi vi ascolti. E con
questo un gran vociare di rivoluzione: ‒ rivoluzione che, predicata
così, diventa come il paradiso dei cattolici, una promessa di
là di venire, che vi addormenta in un’inerzia beata fino a
che ci credete e vi lascia scettici ed egoisti, quando la fede vi
sfugge.
Ed intanto intorno a noi il popolo si agita e segue altre correnti;
ed i socialisti legalitari ci vincon la mano ed hanno spesso
successi, anche in quei paesi dove come in Italia, il socialismo
è stato per la prima volta bandito e popolarizzato da noi, e
dove noi vantiamo non ingloriose tradizioni di lotte e di sacrifici
sostenuti con costanza e fierezza.
Questa è una tattica micidiale che equivale al suicidio. La
rivoluzione non si fa in quattro gatti. Degl’individui e dei gruppi
isolati possono fare un po’ di propaganda; dei colpi audaci, delle
bombe e simili cose, se fatte con retto criterio (il che purtroppo
non è sempre q caso) possono attirare l’attenzione pubblica
sui mali dei lavoratori e sulle nostre idee, possono sbarazzarci di
qualche ostacolo potente; ma la rivoluzione non si fa che quando il
popolo scende in piazza. E se noi vogliamo farla bisogna che
attirammo a noi la folla, quanto più folla è
possibile.
Ed è anche, questa tattica dell’isolamento, contraria ai
nostri principi ed allo scopo che ci proponiamo.
La rivoluzione, come noi la vogliamo, deve essere il cominciamento
della partecipazione attiva, diretta, vera delle masse, cioè
di tutti, alla organizzazione ed alla gerenza della vita sociale. Se
per impossibile, la rivoluzione potesse essere fatta da noi soli,
non sarebbe la rivoluzione anarchica poichè allora saremmo i
padroni noi ed il popolo, disorganizzato e quindi impotente ed
incosciente, spetterebbe gli ordini nostri, Ed allora tutta
l’anarchia si ridurrebbe ad una vana dichiarazione di principi
mentre in pratica sarebbe sempre una piccola frazione che si
servirebbe delle forze cieche della massa incosciente e sommessa per
imporre le proprie idee: ‒ e questo è l’essenza stessa
dell’autorità.
Figuriamoci che domani con un colpo di mano potessimo, da noi soli,
senza il concorso delle masse, sconfiggere il governo e restare
padroni della situazione. Le masse che non avrebbero preso parte
alla lotta e non avrebbero sperimentata la potenza delle loro forze,
applaudirebbero ai vincitori e resterebbero inerti ad attendere che
noi dessimo loro tutto il benessere che loro promettiamo.
Che cosa faremmo noi? O assumere di fatto se non di diritto, la
dittatura, il che vorrebbe dire riconoscere l’inattuabilità
delle nostre idee antigovernative e dichiararsi sconfitti in quanto
anarchici o fare “per viltade il gran rifiuto”; ritirarci
protestando il nostro sacro orrore del nostro comando, e lasciare
che il comando lo prendano i nostri avversari.
Fu così che avvenne per ragioni del resto alquanto diverse
agli anarchici spagnoli nei moti del 1873. Per un concorso di
circostanze, si trovarono padroni della situazione in varie
città, come per es. in S. Lucas de Barrameda e Cordova: il
popolo non faceva nulla da sè ed aspettava che qualcuno
comandasse il da farsi; gli anarchici non vollero prendere il
comando perchè ciò era contrario ai loro principi...
ed allora subentrò la reazione repubblicana prima, monarchica
poi, che ristabilì il vecchio regime coll’aggravante delle
persecuzioni, arresti e massacri in massa.
Andiamo tra il popolo: questa è l’unica via di salvezza. Ma
non vi andiamo con la boria burbanzosa di persone che pretendono
possedere il verbo infallibile e disprezzano dall’alto della loro
pretesa infallibilità chi non divide le loro idee. Andiamoci
per affratellarci coi lavoratori, per lottare con loro, per
sacrificarsi per loro. Per avere il diritto, per avere la
possibilità di reclamare dal popolo lo slancio e lo spirito
di sacrifico necessario nelle grandi giornate di battaglia decisiva,
bisogna aver dato al popolo prova di sè, bisogna esserci
mostrati primi per coraggio e per abnegazione nelle sue piccole
lotte quotidiane. Entriamo in tutte le associazioni di lavoratori,
fondiamone più che possiamo, provochiamo federazioni sempre
più vaste, sosteniamo ed organizziamo scioperi, propaghiamo
dappertutto con tutti i mezzi, lo spirito di cooperazione e di
solidarietà tra i lavoratori.
E guardiamoci dal disgustarci perchè spesso i lavoratori non
comprendono o non accettano tutti i nostri ideali e stanno attaccati
a vecchie forme ed a vecchi pregiudizi.
Noi non possiamo e non vogliamo aspettare, per far la rivoluzione,
che le masse siano diventate socialiste-anarchiche con piena
coscienza. Noi sappiamo che finchè dura l’attuale ordinamento
economico politico della società, l’immensa maggioranza del
popolo è condannata all’ignoranza ed all’abbrutimento e non
è capace che di ribellioni più o meno cieche. Bisogna
distruggere quest’ordinamento, facendo la rivoluzione come si
può, colle forze che troviamo nella vita reale.
A maggior ragione noi non possiamo aspettare per organizzare i
lavoratori ch’essi siano prima diventati anarchici. Come farebbero a
diventarlo se lasciati soli, col sentimento d’impotenza che viene
loro dall’isolamento?
Come anarchici noi dobbiamo organizzarci tra noi, tra gente
perfettamente convinta e concorde: ed intorno a noi dobbiamo
organizzare, in associazioni larghe, aperte, quanti più
lavoratori è possibile, accettandoli quali essi sono e
sforzandoci di farli progredire il più che si può.
Come lavoratori noi dobbiamo essere sempre e dappertutto coi nostri
compagni di fatica e di miseria.
Ricordiamoci che il popolo di Parigi incominciò a domandare
pane al re fra applausi e lacrime di tenerezza, e due anni dopo,
avendone, come era naturale, ricevuto piombo invece di pane lo aveva
già decapitato. E ieri ancora il popolo di Sicilia è
stato sul punto di fare la rivoluzione pur plaudendo al re ed a
tutta la sua famiglia.
Quegli anarchici che hanno combattuto e ridicolizzato il movimento
dei “fasci”, perchè essi non erano organizzati come vorremmo
noi, perchè spesso si intitolavano da “Maria Immacolata”
perchè avevano nelle loro sale il busto di Carlo Marx
piuttosto che quello di Bakunin, ecc. han dimostrato di non avere
nè senso nè spirito rivoluzionario.
Noi non siamo teneri, oh! no, per coloro che corrompono tutto col
veleno parlamentare, che tutto riducono a questione di candidature e
che (in buona o in mala fede, non importa) vorrebbero fare del
popolo un gregge votante. Ma non è fare il giuoco di questi
aspiranti deputati, e, peggio ancora, non è fare il giuoco
della borghesia e del governo il predicare il disgregamento ed il
lasciare in mano loro tutte le forze organizzate del proletariato?
Ravvediamoci. Il momento è solenne. Noi siam giunti ad uno di
quei momenti critici della storia umana, che decidono di tutto un
nuovo periodo. Da noi, che abbiamo scritto sulla nostra bandiera le
parole redentrici ed inseparabili di socialismo e di anarchia,
dipendono il successo e indirizzo del prossima rivoluzione.
c. Il nostro compito12
… Che cosa dobbiamo fare per metterci in grado di fare la
rivoluzione nostra, la rivoluzione contro ogni privilegio ed ogni
autorità, e vincere?
La tattica migliore sarebbe di fare sempre e dappertutto la
propaganda delle nostre idee; di sviluppare nei proletari, con tutti
i mezzi possibili, lo spirito di associazione e di resistenza e di
suscitare in loro sempre crescenti pretensioni; di combattere
continuamente tutti i partiti borghesi e tutti i partiti autoritari
restando indifferenti alle loro querele; di organizzarci fra quanti
sono convinti e si van convincendo delle nostre idee, e provvederci
dei mezzi materiali necessari alla lotta; e quando fossimo arrivati
ad aver la forza sufficiente per vincere, insorgere da soli, per
conto nostro esclusivo, per attuare tutto intero il nostro
programma, o più propriamente per conquistare a ciascuno
l'intera libertà di sperimentare, praticare ed andare man
mano modificando il modo di vita sociale ch’egli crede migliore.
Ma, purtroppo, questa tattica non può essere sempre
rigorosamente seguita ed è impotente a raggiungere lo scopo.
La propaganda non ha che un’efficacia limitata, e quando in un dato
ambiente si sono assorbiti tutti gli elementi capaci per le loro
condizioni morali e materiali di comprendere ed accettare un dato
ordine d’idee, poco più si può fare colla parola e
cogli scritti fino a che una trasformazione dell’ambiente non abbia
sollevato un nuovo strato della popolazione alla possibilità
di apprezzare quelle idee. L’efficacia dell’organizzazione operaia
è essa pure limitata dalle ragioni stesse che si oppongono
all’estendersi indefinito della propaganda; nonchè da fatti
economici e morali d’ordine generale che affievoliscono o
neutralizzano del tutto gli effetti della resistenza dei lavoratori
coscienti.
Una forte e vasta organizzazione nostra per la propaganda e per la
lotta incontra mille ostacoli in noi stessi, nella nostra mancanza
di mezzi e soprattutto nelle repressioni governative. Ed anche
supponendo che fosse possibile col tempo di arrivare, per mezzo
della propaganda e dell’organizzazione, ad aver la forza per fare la
rivoluzione da noi, direttamente per il socialismo anarchico, si
producono tutti i giorni, e ben prima che noi si sia giunti ad avere
quella forza, delle situazioni politiche nelle quali siamo obbligati
ad intervenire sotto pena non solo di rinunziare ai vantaggi che se
ne possono ricavare, ma anche di perdere ogni influenza sul popolo,
di distruggere una parte del lavoro e di rendere più
difficile il lavoro futuro.
Il problema dunque è di trovare il mezzo per determinare per
quanto sia in noi quelle modificazioni di ambiente necessarie al
progresso della nostra propaganda e di profittare delle lotte fra i
vari partiti politici e di tutte le occasioni che si presentano
senza rinunziare a nessuna parte del nostro programma ed in modo da
facilitare ed avvicinare il trionfo.
In Italia, per esempio, la situazione è tale che è
possibile, è probabile, in un tempo più o meno breve
una insurrezione contro la Monarchia. Ma è certo d’altra
parte che il risultato di questa prossima insurrezione non
sarà il socialismo anarchico.
Dobbiamo noi prendere parte alla preparazione ed alla realizzazione
di questa insurrezione e come?
Vi sono alcuni compagni i quali pensano che noi non abbiamo nessun
interesse a mischiarci in un movimento, il quale lascerà
intatta l'istituzione della proprietà privata e
servirà solo a sostituire un governo ad un altro, a fare
cioè una repubblica, la quale non sarebbe meno borghese e
meno oppressiva di quello che è la monarchia. Lasciamo, essi
dicono, che i borghesi e gli aspiranti al governo si rompano le
corna tra di loro, e noi continuiamo per la nostra strada, facendo
sempre la propaganda anti-proprietaria ed anti-autoritaria.
Ora la conseguenza di questa astensione sarebbe, prima di tutto che
l'insurrezione senza il contingente delle nostre forse avrebbe meno
probabilità di vincere e quindi per causa nostra potrebbe
trionfare la monarchia, la quale, massime in questo momento che
combatte per la vita ed è resa feroce dalla paura, preclude
la via alla propaganda ed a qualsiasi progresso. Di più,
facendosi il movimento senza il nostro concorso, noi non avremmo
nessuna influenza sugli avvenimenti ulteriori, non potremmo cavar
nulla dalle occasioni che si presentano sempre nel periodo di
transizione tra un regime ed un altro, saremmo discreditati come
partito di azione e non potremmo per lunghi anni fare alcuna cosa
d’importanza.
Non è il caso di lasciare che i borghesi si battano tra di
loro, perchè in un movimento insurrezionale la forza, per lo
meno materiale, è sempre il popolo che la dà, e se noi
non siamo nel movimento dividendo coi combattenti i pericoli ed i
successi e cercando di trasformare il moto politico in rivoluzione
sociale, esso popolo non servirà che di strumento in mano
agli ambiziosi che aspirano a dominarlo.
Invece, pigliando parte all’insurrezione (insurrezione che non
avremmo la forza di far da noi soli) e pigliandovi la parte
più grande possibile noi avremmo la simpatia del popolo
insorto, e potremmo spingere le cose più avanti che si
può.
Noi sappiamo benissimo, e non cessiamo mai di dirlo e di
dimostrarlo, che repubblica e monarchia si equivalgono e che tutti i
governi hanno un’eguale tendenza ad allargare il loro potere e ad
opprimere sempre più i governati. Ma sappiamo pure che
più un governo è debole, che più è forte
la resistenza ch’esso incontra nel popolo, e più grande la
libertà più è grande la possibilità di
progredire. Contribuendo in modo efficace alla caduta della
monarchia noi potremmo opporci con più o meno efficacia alla
costituzione o alla consolidazione di una repubblica, potremmo
restare armati e negare ubbidienza al nuovo governo come potremmo
qua e là fare dei tentativi di espropriazione e di
organizzazione anarchica e comunista della società. Noi
potremmo impedire che la rivoluzione si arresti al suo primo passo e
che le energie popolari, svegliate dall’insurrezione, si
addormentino di nuovo. Tutte cose che non potremmo fare, per ovvie
ragioni di psicologia popolare, intervenendo dopo: quando
l’insurrezione contro la monarchia si fosse fatta ed avesse vinto
senza di noi.
Spinti da queste ragioni, altri compagni vorrebbero che noi
lasciassimo da parte per il momento la propaganda anarchica e ci
occupassimo solo della lotta contro la monarchia, per poi ad
insurrezione vinta ricominciare il nostro lavoro speciale di
anarchici. E non pensano che se noi ci confondessimo oggi coi
repubblicani, lavoreremmo a beneficio della prossima repubblica,
disorganizzeremmo le nostre file, confonderemmo la mente dei nostri,
e non avremmo poi, quando vorremmo, la forza d’impedire che la
repubblica si faccia e si fortifichi.
Fra questi due errori opposti, la via che dobbiamo seguire ci pare
chiara.
Noi dobbiamo concorrere con i repubblicani, con i socialisti
democratici e con qualsiasi partito antimonarchico ad abbattere la
monarchia: ma dobbiamo concorrervi come anarchici, per gli interessi
dell’anarchia senza scompaginare le nostre forze e confonderle con
quelle degli altri, e senza prendere nessun impegno che vada oltre
della cooperazione nell’azione militare.
Così solo possiamo, secondo noi, avere, nei prossimi
avvenimenti, tutti i vantaggi di un’alleanza cogli altri partiti
antimonarchici senza rinunziare a nessuna parte del nostro
programma.
4. L’ORGANIZZAZIONE DEGLI ANARCHICI
a. Occorre dividerci... per poi riunirci13
Io tiro avanti aspettando il momento in cui potrò spiegare,
nel modo in cui credo utile, la mia attività e preparandomici
come meglio posso.
Questi giorni sono stato sul punto di partire per l’Italia; ma
subito le cose si sono calmate ed io ho rinunziato a fare un viaggio
che, secondo tutte le probabilità, si sarebbe ridotto ad una
semplice gita di piacere... o di dispiacere. Naturalmente, se
ulteriori notizie mi persuaderanno che c’è da fare, vado
subito.
Disgraziatamente noi siamo ridotti in condizioni di non poter nulla
fare, nulla iniziare da noi e dobbiamo aspettare o l’iniziativa di
altri partiti o il concorso di circostanze completamente
indipendenti da noi.
E ancora, quando queste iniziative o queste circostanze si
presentano noi ci troviamo impreparati, disaccordi tra noi,
impotenti ‒ e lasciamo che il buon momento passi, senza aver fatto
nulla.
Come uscire da questa situazione? come ridiventare un partito che
agisce e fa sentire la sua influenza sul corso degli avvenimenti?
Ecco il problema. Ma per risolverlo bisogna innanzi tutto intendersi
sul significato di questo “noi” che ripetiamo così spesso,
senza sapere chi vi è compreso e chi ne è escluso.
Oggi siamo in tanti a chiamarci anarchici, ma v’è spesso tra
un anarchico e l’altro tanta differenza che ogni intesa è
impossibile e sarebbe assurda. Sicchè invece di cooperare
insieme allo stesso scopo, non riusciamo che a combatterci ed a
paralizzarci gli uni gli altri.
Bisogna innanzi tutto dividerci per poi riunire insieme quelli che
sono d’accordo ed hanno un terreno comune di azione.
Sono degli anni che son convinto di questo bisogno e che lo vado
ripetendo; ma finora non sono riuscito a nulla.
È incapacità mia? È colpa delle circostanze?
Forse c’è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Io non ho
perduto però la speranza di vedere iniziato un nuovo
movimento che avesse in sè le condizioni di vita e di
successo che sono mancate a quel movimento che noi stessi iniziammo
un 20 o 25 anni or sono e che ora, secondo me, sta agonizzando.
Questo per la questione generale. In quanto al caso speciale
dell’Italia in questo momento, a me pare che se i repubblicani
volessero agire, noi non potremmo far di meglio che far massa con
loro. Una volta rotto il sonno in cui l’Italia pare caduta, potremmo
rialzare la nostra bandiera e continuare la lotta a modo nostro e
per i nostri ideali.
b. Organizzatori e antiorganizzatori14
Sono degli anni che si fa tra gli anarchici un gran discutere su
questa questione. E, come avviene spesso, quando si piglia passione
in una discussione ed alla ricerca della verità subentra il
puntiglio di aver ragione, o quando le discussioni teoriche non sono
che un tentativo per giustificare una condotta pratica ispirata da
altri motivi, si è prodotta una grande confusione d’idee e di
parole.
Ricordiamo di passaggio, tanto per sbarazzarcene, le semplici
questioni di parole, che a volte han raggiunto le più alte
cime del ridicolo, come per esempio: “noi non vogliamo
l’organizzazione ma l’armonizzazione”; “siamo contrari
all’associazione, ma ammettiamo l’intesa”; “noi non vogliamo
segretario e cassiere, perchè sono cose autoritarie, ma
incarichiamo un compagno di tenere la corrispondenza, ed un altro di
custodire il denaro” ‒ e passiamo alla discussione seria.
Vi sono tra coloro che rivendicano, con aggettivi vari o senza
aggettivi, il nome di anarchici, due frazioni: i partigiani e gli
avversari dell’organizzazione.
Se non possiamo riuscire a metterci d’accordo, cerchiamo almeno di
comprenderci.
E prima di tutto distinguiamo, poichè la questione è
triplice: l'organizzazione in generale come principio e condizione
di vita sociale, oggi e nella società futura;
l’organizzazione del partito anarchico; e l’organizzazione delle
forze popolari e specialmente quella delle masse operaie per la
resistenza contro il governo e contro il capitalismo.
La necessità dell’organizzazione nella vita sociale, e quasi
direi la sinonimia tra organizzazione e società, è
cosa tanto evidente che si stenta a credere come si sia potuta
negare.
Per rendersene conto bisogna ricordare quale è la funzione
specifica, caratteristica del movimento anarchico, e come gli uomini
e i partiti sono soggetti a lasciarsi assorbire dalla questione che
più direttamente li riguarda, dimenticando tutte le questioni
connesse, a guardare più la forma che la sostanza, infine a
vedere le cose da un lato solo e perdere così la giusta
nozione della realtà.
Il movimento anarchico cominciò come reazione contro lo
spirito di autorità, dominante nella società civile,
nonchè in tutti i partiti e tutte le organizzazione operaie,
e si è andato ingrossando man mano di tutte le rivolte
sollevatesi contro le tendenze autoritarie ed accentratrici.
Era naturale quindi che molti anarchici fossero come ipnotizzati da
questa lotta contro l’autorità e che, credendo, per
l’influenza dell’educazione autoritaria ricevuta, che
l’autorità è l'anima della organizzazione sociale, per
combattere quella combattessero e negassero questa.
E veramente l’ipnotizzazione arrivò al punto da far sostenere
cose veramente incredibili.
Si combatte ogni sorta di cooperazione e di intesa, ritenendo che
l’associazione era l’antitesi dell’anarchia, si sostenne che senza
accordi, senza obblighi reciproci, facendo ognuno quello che gli
passa per il capo senza nemmeno informarsi di quello che fa l’altro,
tutto si sarebbe spontaneamente armonizzato; che anarchia significa
che ogni uomo deve bastare a sè stesso e farsi da sè
tutto quello che gli occorre senza scambio e senza lavoro associato;
che le ferrovie potevano funzionare benissimo senza organizzazione,
anzi che questo avveniva di già in Inghilterra (!); che la
posta non era necessaria e che chi a Parigi voleva scrivere una
lettera a Pietroburgo... se la poteva portare da sè (!!),
ecc. ecc.
Ma queste sono sciocchezze, si dirà, e non vale la pena di
rilevarle.
Sì, ma queste sciocchezze sono state dette, stampate
propagate: sono state accolte da gran parte del pubblico come
l’espressione genuina delle idee anarchiche; e servono sempre come
armi di combattimento agli avversari, borghesi e non borghesi, che
vogliono aver di noi una facile vittoria. E poi quelle sciocchezze
non mancano del loro valore, in quanto sono la conseguenza logica di
certe premesse e possono servire di riprova sperimentali della
verità o meno di quelle premesse.
Alcuni individui, di mente limitata ma forniti di potente spirito
logico, quando hanno accettato delle premesse ne tirano tutte le
conseguenze fino all’ultimo, e, se così vuole la logica,
arrivano senza scomporsi alle più grandi assurdità,
alla negazione dei fatti più evidenti. Ve ne sono
bensì altri più colti e di spirito più largo,
che trovan sempre modo di arrivare a conclusioni più o meno
ragionevoli, anche a costo di strapazzare la logica; e per questi
gli errori teorici hanno poca o nessuna influenza sulla condotta
pratica. Ma insomma, fino a che non si rinunzia a certi errori
fondamentali, si è sempre minacciati dai sillogizzatori ad
oltranza, e si torna sempre da capo.
E l'errore fondamentale degli anarchici avversari
dell’organizzazione è il credere che non sia possibile
organizzare senza autorità ‒ ed il preferire, ammessa quella
ipotesi, piuttosto rinunziare a qualsiasi organizzazione che
accettare la minima autorità.
Ora, che l’organizzazione, vale a dire l'associazione per uno scopo
determinato e colle forme ed i mezzi necessari a conseguire quel
fine, sia una cosa necessaria alla vita sociale ci pare evidente.
L’uomo isolato non può vivere nemmeno la vita del bruto: esso
è impotente, salvo nelle regioni tropicali e quando la
popolazione è eccessivamente rada, a procurarsi il
nutrimento; e lo è sempre, senza eccezioni, ad elevarsi ad
una vita alcun poco superiore a quella degli animali. Dovendo
perciò unirsi cogli altri uomini, anzi trovandosi unito in
conseguenza della evoluzione antecedente della specie, esso deve, o
subire la volontà degli altri (essere schiavo), o imporre la
volontà propria agli altri (essere un’autorità), o
vivere cogli altri in fraterno accordo in vista del maggior bene di
tutti (essere un associato). Nessuno può esimersi da questa
necessità; ed i più eccessivi antiorganizzatori non
solo subiscono l’organizzazione generale della società in cui
vivono, ma anche negli atti volontari della loro vita, anche nelle
loro rivolte contro l’organizzazione si uniscono, si dividono il
compito, si organizzano con quelli con cui vanno d’accordo e
utilizzano i mezzi che la società mette a loro
disposizione... sempre, s’intende, che si tratti di cose volute e
fatte davvero e non di vaghe aspirazioni platoniche, di sogni
sognati.
Anarchia significa società organizzata senza autorità,
intendendosi per autorità la facoltà di imporre la
propria volontà e non già il fatto inevitabile e
benefico che chi meglio intende e sa fare una cosa riesce più
facilmente a far accettare la sua opinione, e serve di guida, in
quella data cosa, ai meno capaci di lui.
Secondo noi l'autorità non solo non è necessaria
all’organizzazione sociale, ma, lungi dal giovarle, vive su di essa
da parassita, ne inceppa l'evoluzione e volge i suoi vantaggi a
profitto speciale di una data classe che sfrutta ed opprime le
altre. Fino a che in una collettività vi è armonia
d’interessi, fino a che nessuno ha voglia o modo di sfruttare gli
altri, non v’è traccia d’autorità: quando viene la
lotta intestina e la collettività si divide in vincitori e
vinti, allora sorge l’autorità, la quale naturalmente
è devoluta ai più forti e serve a confermare,
perpetuare ed ingrandire la loro vittoria.
Crediamo così, e perciò siamo anarchici: chè se
credessimo che non vi possa essere organizzazione senza
autorità, noi saremmo autoritari, perchè preferiremmo
ancora l’autorità, che inceppa ed addolora la vita, alla
disorganizzazione che la rende impossibile.
Del resto, quel che saremmo noi importa poco. Se fosse vero che il
macchinista ed il capotreno ed i capiservizio debbano per forza
essere delle autorità, anzichè dei compagni che fanno
per tutti un determinato lavoro, il pubblico amerebbe sempre
piuttosto subire la loro autorità che viaggiare a piedi. Se
il mastro di posta non potesse non essere un’autorità, ogni
uomo sano di mente sopporterebbe l’autorità del mastro di
posta, piuttosto che portar da sè le proprie lettere.
E allora ... l’anarchia sarebbe il sogno di alcuni, ma non potrebbe
realizzarsi mai.
c. Necessità dell’organizzazione15
Ammessa possibile l’esistenza di una collettività organizzata
senza autorità, cioè coazione ‒ e per gli anarchici
è necessario ammetterlo perchè altrimenti l’anarchia
non avrebbe senso ‒ passiamo a parlare dell’organizzazione del
partito anarchico.
Anche in questo caso l’organizzazione ci sembra utile e necessaria.
Se partito significa l’insieme d’individui che hanno uno scopo
comune e si sforzano di raggiungere questo scopo, è naturale
ch’essi s’intendano, uniscano le loro forze, si dividano il lavoro e
prendano tutte le misure stimate atte a raggiungere quello scopo.
Restare isolati, agendo o volendo agire ciascun per conto suo senza
intendersi con altri, senza prepararci, senza unire in un fascio
potente le deboli forze dei singoli, significa condannarsi
all’impotenza, sciupare la propria energia in piccoli atti senza
efficacia e ben presto perdere la fede nella meta e cadere nella
completa inazione.
Ma anche qui la cosa ci sembra talmente evidente che, invece di
insistere nella dimostrazione diretta, cercheremo di rispondere agli
argomenti degli avversari dell’organizzazione
E prima di tutto ci si presenta l’obbiezione, diremo così,
pregiudiziale. “Ma di quale partito ci parlate?”, essi dicono, “noi
non siamo un partito, noi non abbiamo programma”.
E con questa forma paradossale essi intendono dire che le idee
progrediscono e cambiano continuamente e che essi non vogliono
accettare un programma fisso, che può essere buono oggi, ma
che sarà certamente superato domani.
Ciò sarebbe perfettamente giusto se si trattasse di studiosi
che cercano il vero senza curarsi delle applicazioni pratiche. Un
matematico, un chimico, un psicologo, un sociologo possono dire di
non aver programma o di non avere che quello di ricercare la
verità: essi vogliono conoscere, non vogliono fare qualche
cosa.
Ma anarchia e socialismo non sono delle scienze: sono dei propositi,
dei progetti che anarchici e socialisti vogliono mettere in pratica
e che perciò hanno bisogno di essere formulati in programmi
determinati. La scienza e l’arte delle costruzioni progrediscono
tutti i giorni; ma un ingegnere che vuol costruire, o anche demolire
qualche cosa, deve fare il suo piano, raccogliere i suoi mezzi di
azione e agire come se scienza ed arte si fossero arrestate al punto
ove egli le trova quando dà principio ai suoi lavori.
Può benissimo avvenire che egli possa utilizzare delle nuove
acquisizioni fatte nel corso del lavoro senza rinunciare alla parte
essenziale del suo piano; e può darsi anche che le nuove
scoperte ed i nuovi mezzi creati dall’industria siano tali che egli
vegga la necessità di abbandonare tutto e ricominciare da
capo. Ma ricominciando, avrà bisogno di fare un nuovo piano
basato su quello che si conosce e si possiede fino a quel momento, e
non potrà concepire e mettersi ad eseguire una costruzione
amorfa, con materiali non composti, per il motivo che domani la
scienza potrebbe suggerire delle forme migliori e l’industria
fornire dei materiali meglio composti.
Noi intendiamo per partito anarchico l’insieme di quelli che
vogliono concorrere ad attuare l’anarchia, e che perciò han
bisogno di fissarsi uno scopo da raggiungere ed una via da
percorrere; e lasciamo volentieri alle loro elucubrazioni
trascendentali gli amatori della verità assoluta e del
progresso continuo, che non cimentando mai le loro idee alla prova
dei fatti finiscono poi col far nulla e scoprir meno.
L’altra obbiezione è che l’organizzazione crea dei capi,
delle autorità. Se questo è vero, se è vero
cioè che gli anarchici sono incapaci di riunirsi ed
accordarsi tra di loro senza sottoporsi ad un’autorità,
ciò vuol dire che essi sono ancora molto poco anarchici e che
prima di pensare a stabilire l’anarchia nel mondo debbono pensare a
rendersi capaci essi stessi di vivere anarchicamente. Ma il rimedio
non starebbe già nella non organizzazione, bensì nella
cresciuta coscienza dei singoli membri.
Certamente se in un’organizzazione si lascia addosso a pochi tutto
il lavoro e tutte le responsabilità, se si subisce quello che
fanno i pochi senza metter mano all’opera e cercar di far meglio,
quei pochi finiranno, anche se non lo vogliono, col sostituire la
propria volontà a quella della collettività. Se in
un’organizzazione i membri tutti non si curano di pensare, di voler
capire, di farsi spiegare quello che non capiscono, di esercitare
sempre su tutto e su tutti le loro facoltà critiche, e
lasciano a pochi il compito di pensare per tutti, quei pochi saranno
i capi, le teste pensanti e dirigenti.
Ma, lo ripetiamo, il rimedio non sta nella non organizzazione. Al
contrario, nelle piccole come nella grandi società, a parte
la forza brutale, di cui non può essere questione nel caso
nostro, l’origine e la giustificazione dell’autorità sta
nella disorganizzazione sociale. Quando una collettività ha
un bisogno ed i suoi membri non sanno organizzarsi spontaneamente da
loro stessi per provvedervi, sorge qualcuno, un’autorità, che
provvede a quel bisogno servendosi delle forze di tutti e
dirigendole a sua voglia. Se le strade sono mal sicure ed il popolo
non sa provvedere, sorge una polizia che, per qualche servizio che
rende, si fa sopportare e pagare, e s’impone e tiranneggia; se
v’è bisogno di un prodotto, e la collettività non sa
intendersi coi produttori lontani per farselo mandare in cambio di
prodotti del paese, vien fuori il mercante che profitta del bisogno
che hanno gli uni di vendere e gli altri di comprare, ed impone i
prezzi che vuole ai produttori ed ai consumatori.
Vedete che cosa è sempre successo in mezzo a noi: meno siamo
stati organizzati più ci siamo trovati alla discrezione di
qualche individuo. Ed è naturale che così fosse.
Noi sentiamo il bisogno di stare in rapporto coi compagni delle
altre località, di ricevere e di dare notizie, ma non
possiamo ciascuno individualmente corrispondere con tutti i
compagni. Se siamo organizzati, incarichiamo dei compagni di tenere
la corrispondenza per conto nostro, li cambiamo se essi non ci
soddisfano, e possiamo stare al corrente senza dipendere dalla buona
grazia di qualcuno per avere una notizia; se invece siamo
disorganizzati, vi sarà qualcuno che avrà i mezzi e la
voglia di corrispondere e accentrerà nelle sue mani tutte le
relazioni, comunicherà le notizie secondo che gli pare ed a
chi gli pare, e, se ha attività ed intelligenza sufficienti,
riuscirà a nostra insaputa a dare al movimento l’indirizzo
che vuole senza che a noi, alla massa del partito, resti alcun mezzo
di controllo, e senza che nessuno abbia il diritto di lagnarsi,
poichè quell’individuo agisce per conto suo, senza mandato di
alcuno e senza dover rendere conto ad alcuno del proprio operato.
Noi sentiamo il bisogno di avere un giornale. Se siamo organizzati
potremo riunire i mezzi per fondarlo e farlo vivere, incaricare
alcuni compagni di redigerlo, e controllarne l’indirizzo. I
redattori del giornale gli daranno certamente, in modo più o
meno spiccato, l’impronta della loro personalità, ma saranno
sempre gente che noi abbiamo scelta e che possiamo cambiare se non
ci accontenta. Se invece siamo disorganizzati, qualcuno che ha
sufficiente spirito d’intrapresa farà il giornale per conto
proprio: egli troverà in mezzo a noi i corrispondenti, i
distributori, i sottoscrittori, e ci farà concorrere ai suoi
fini senza che noi li sappiamo o vogliamo; e noi, come è
spesso avvenuto, accetteremo o sosterremo quel giornale anche se non
ci piace, anche se troviamo che è dannoso alla causa,
perchè saremo impotenti a farne uno che rappresenti meglio le
nostre idee.
Cosicché l’organizzazione, lungi dal creare
l’autorità, è il solo rimedio contro di essa ed il
solo mezzo perchè ciascun di noi si abitui a prender parte
attiva e cosciente nel lavoro collettivo, e cessi di essere
strumento passivo in mano dei capi.
Che se poi non si fa nulla di nulla e tutti restano nell’inazione
completa, allora certamente non vi saranno nè capi nè
gregari, nè comandanti nè comandati, ma allora
finiranno la propaganda, il partito, ed anche le discussioni intorno
all’organizzazione... e questo, speriamo, non è l’ideale di
nessuno.
Ma un’organizzazione, si dice, suppone l’obbligo di coordinare la
propria azione e quella degli altri, quindi viola la libertà,
inceppa l’iniziativa. A noi sembra che quello che veramente leva la
libertà e rende impossibile l’iniziativa è
l’isolamento che rende impotente. La libertà non è il
diritto astratto, ma la possibilità di fare una cosa: questo
è vero tra di noi, come è vero nella società
generale. È nella cooperazione degli altri uomini che l’uomo
trova i mezzi per esplicare la sua attività, la sua potenza
d’iniziativa.
Certamente, organizzazione significa coordinazione di forze ad uno
scopo comune ed obbligo negli organizzati di non fare cosa contraria
allo scopo. Ma quando si tratta di organizzazioni volontarie, quando
coloro che stanno nella stessa organizzazione hanno veramente lo
stesso scopo e sono partigiani degli stessi mezzi, l’obbligo
reciproco che impegna tutti riesce vantaggioso per tutti; e se
qualcuno rinunzia a qualche sua idea particolare in omaggio
all’unione, ciò vuol dire che trova più vantaggioso
rinunziare ad un’idea, che d’altronde da solo non potrebbe attuare,
anzichè privarsi della cooperazione degli altri nelle cose
ch’egli crede di maggiore importanza.
Se poi un individuo trova che nessuna delle organizzazioni esistenti
accetta le sue idee ed i suoi metodi in ciò che hanno di
essenziale, e che in nessuna potrebbe esplicare la sua
individualità come egli l’intende; allora farà bene a
restarne fuori; ma allora, se non vuole rimanere inattivo ed
impotente, deve cercare altri individui che pensano come lui e farsi
iniziatore di una nuova organizzazione.
Un’altra obbiezione, ed è l’ultima di cui ci intratterremo,
è che essendo organizzati siamo più esposti alle
persecuzioni del governo.
A noi pare invece che quando più si è uniti tanto
più ci si può difendere efficacemente. Ed infatti ogni
volta che le persecuzioni ci han sorpresi mentre eravamo
disorganizzati ci hanno completamente sbaragliati ed hanno ridotto a
nulla il nostro lavoro antecedente; mentre quando e dove eravamo
organizzati ci hanno fatto più bene che male. Ed è lo
stesso anche per quel che riguarda l’interesse personale dei
singoli: basti l’esempio delle ultime persecuzioni che hanno colpito
gli isolati tanto quanto gli organizzati e forse anche più
gravemente. Questo, s’intende, per quelli che, isolati o no, fanno
almeno la propaganda individuale; chè per quelli che non
fanno nulla e tengono ben nascoste le loro convinzioni, certamente
il pericolo è poco, ma è anche meno l’utilità
che danno alla causa.
Il solo risultato, dal punto di vista delle persecuzioni, che si
ottiene stando disorganizzati, si è di autorizzare il governo
e negarci il diritto di associazione ed a rendere possibili quei
mostruosi processi per associazione a delinquere, che esso non
oserebbe fare contro la gente che afferma altamente, pubblicamente,
il diritto e il fatto di stare associata, o che, se il governo
l’osasse, risulterebbero a scorno suo e a vantaggio della
propaganda.
Del resto, è naturale che l’organizzazione prenda le forme
che le circostanze consigliano ed impongono. L’importante non
è tanto l’organizzazione formale, quanto lo spirito di
organizzazione. Possono esservi dei casi in cui per l’imperversare
della reazione, sia utile sospendere ogni corrispondenza, cessare da
ogni riunione: sarà sempre un danno, ma se la voglia di
essere organizzati sussiste, se resta vivo lo spirito di
associazione, se il periodo antecedente di attività
coordinata avrà moltiplicate le relazioni personali, prodotte
solide amicizie e creato un vero accordo d’idee e di condotta tra i
compagni, allora il lavoro degl’individui anche isolati
concorrerà allo scopo comune, e presto si troverà modo
di riunirsi di nuovo e riparare al danno subito.
Noi siamo come un esercito in guerra e possiamo, secondo il terreno
e secondo le misure prese dal nemico, combattere in grandi masse o
in ordine sparso: l’essenziale è che ci consideriamo sempre
membri dello stesso esercito, che ubbidiamo tutti alle stesse idee
direttive e siamo sempre pronti a riunirci in colonne compatte
quando occorre e si può.
Tutto questo che abbiamo detto è per quei compagni che
realmente sono avversari del principio di organizzazione. A quelli
poi che combattono l’organizzazione solo perchè non vogliono
entrare, o non sono accettati, in una determinata organizzazione, e
perchè non simpatizzano con gli individui che ne fanno parte,
noi diciamo: fate da voi, con quelli che sono d’accordo con voi,
un’altra organizzazione. Noi ameremmo certo poter andare tutti
d’accordo e riunire in un fascio potente tutte quante le forze
dell’anarchismo; ma non crediamo nella solidità delle
organizzazioni fatte a forza di concessioni e di sottintesi e dove
non v’è tra i membri accordo e simpatia reali. Meglio
disuniti che malamente uniti. Peró vorremmo che ciascuno si
unisse coi suoi amici e non vi fossero forze isolate, forze perdute.
d. L’organizzazione come condizione della vita sociale16
L’organizzazione, che poi non è altro che la pratica della
cooperazione e della solidarietà, è condizione
naturale, necessaria della vita sociale: è un fatto
ineluttabile che s’impone a tutti, tanto nella società umana
in generale, quanto in qualsiasi gruppo di persone che hanno uno
scopo comune da raggiungere.
Non volendo e non potendo l’uomo vivere isolato, anzi non potendo
esso diventare veramente uomo e soddisfare i suoi bisogni materiali
e morali se non nella società e colla cooperazione dei suoi
simili, avviene fatalmente che quelli che non hanno i mezzi o la
coscienza abbastanza sviluppata per organizzarsi liberamente con
coloro con cui hanno comunanza d’interessi e di sentimenti,
subiscono l’organizzazione fatta da altri individui, generalmente
costituiti in classe o gruppo dirigente, allo scopo di sfruttare a
proprio vantaggio il lavoro degli altri. E l’oppressione millenaria
delle masse da parte di un piccolo numero di privilegiati è
stata sempre la conseguenza della incapacità della maggior
parte degl’individui di accordarsi, di organizzarsi con gli altri
lavoratori per la produzione, per il godimento e per la eventuale
difesa contro chi volesse sfruttarli ed opprimerli.
Per rimediare a questo stato di cose è sorto l’anarchismo, il
cui principio fondamentale è l’organizzazione libera, fatta e
mantenuta dalla libera volontà degli associati senza nessuna
specie di autorità, cioè senza che nessuno abbia il
diritto di imporre agli altri la propria volontà. Ed è
quindi naturale che gli anarchici cerchino di applicare nella loro
vita privata e di partito quello stesso principio, su cui, secondo
loro, dovrebbe essere fondata tutta quanta la società umana.
Da certe polemiche può sembrare che vi siano degli anarchici
refrattari, ad ogni organizzazione; ma in realtà le molte, le
troppe discussioni che si fanno tra noi sull’argomento, anche se
oscurate da questioni di parole, o avvelenate da questioni
personali, in fondo riguardano il modo e non già il principio
di organizzazione. Così avviene che dei compagni che a parole
sono i più avversi all’organizzazione, quando vogliono
davvero fare qualche cosa, si organizzano come, e spesso meglio
degli altri. La questione, ripeto, sta tutta nel modo.
Io credo soprattutto necessario, urgente, che gli anarchici
s’intendano, si organizzino il più ed il meglio possibile per
influire sulla via che seguono le masse nelle loro lotte per i
miglioramenti e l’emancipazione.
Oggi la più grande forza di trasformazione sociale è
il movimento operaio (movimento sindacale), e dal suo indirizzo
dipende in gran parte il corso che prenderanno gli avvenimenti e la
mèta a cui arriverà la prossima rivoluzione. Per mezzo
delle organizzazioni, fondate per la difesa dei loro interessi, i
lavoratori acquistano la coscienza dell’oppressione in cui giacciono
e dell’antagonismo che li divide dai loro padroni, incominciano ad
aspirare ad una vita superiore, si abituano alla lotta collettiva ed
alla solidarietà, e possono riuscire e conquistare quei
miglioramenti che sono compatibili con la persistenza del regime
capitalistico e statale. Dopo, quando il conflitto diventa
insanabile, viene o la rivoluzione, o la reazione. Gli anarchici
debbono riconoscere l’utilità e l’importanza del movimento
sindacale, debbono favorirne lo sviluppo, e farne una delle leve
della loro azione, facendo tutto quello che possono perchè
esso, in cooperazione colle altre forze di progresso esistenti,
sbocchi in una rivoluzione sociale che porti alla soppressione delle
classi, alla libertà totale, all’eguaglianza, alla pace ed
alla solidarietà fra tutti gli esseri umani. Ma sarebbe una
grande e letale illusione il credere, come fanno molti, che il
movimento operaio possa e debba da se stesso, in conseguenza della
sua stessa natura, menare ad una tale rivoluzione. Al contrario,
tutti i movimenti fondati sugl’interessi materiali ed immediati (e
non si può fondare su altre basi un vasto movimento operaio),
se manca il fermento, la spinta, l’opera concertata degli uomini
d’idee, che combattono e si sacrificano in vista di un ideale
avvenire, tendono fatalmente ad adattarsi alle circostanze,
fomentano lo spirito di conservazione e la paura di cambiamenti in
quelli che riescono ad ottenere condizioni migliori, e finiscono
spesso col creare nuove classi privilegiate e servire a far
sopportare e consolidare il sistema che si vorrebbe abbattere.
Di qui la necessità impellente di organizzazioni prettamente
anarchiche che dentro, come fuori dei sindacati lottino per la
realizzazione integrale dell’anarchismo e cerchino di sterilizzare
tutti i germi di degenerazione e di reazione.
Ma è evidente che per conseguire i loro scopi le
organizzazioni anarchiche debbono essere, nella loro costituzione e
nel loro funzionamento, in armonia coi principi dell’anarchismo, e
cioè che non siano in nessun modo inquinate da spirito
autoritario, che sappiano conciliare la libera azione degl’individui
con la necessità ed il piacere della cooperazione, che
servano a sviluppare la coscienza e la capacità d’iniziativa
dei loro membri, e siano un mezzo educativo per l’ambiente in cui
operano ed una preparazione morale e materiale per l’avvenire che
desideriamo.
e. Caratteri dell’organizzazione antiautoritaria17
Un’organizzazione anarchica deve essere fondata secondo me....
(sulle seguenti basi).
Piena autonomia, piena indipendenza e quindi piena
responsabilità, degl’individui e dei gruppi; accordo libero
tra quelli che credono utile unirsi per cooperare ad uno scopo
comune; dovere morale di mantenere gl’impegni presi e di non far
nulla che contraddica al programma accettato. Su queste basi si
adottano poi le forme pratiche, gli strumenti adatti per dar vita
reale all’organizzazione. Quindi i gruppi, le federazioni di gruppi,
le federazioni di federazioni, le riunioni, i congressi, i comitati
incaricati della corrispondenza o altro. Ma tutto questo deve esser
fatto liberamente in modo da non inceppare il pensiero e
l’iniziativa dei singoli, e solo per dare maggiore portata agli
sforzi che, isolati, sarebbero impossibili o di poca efficacia.
Così i congressi in un’organizzazione anarchica, pur
soffrendo come corpi rappresentativi di tutte le imperfezioni che
non fanno la legge, non impongono agli altri le proprie
deliberazioni. Essi servono a mantenere ed aumentare i rapporti
personali fra i compagni più attivi, a riassumere e fomentare
gli studi programmatici sulle vie e sui mezzi d’azione, e far
conoscere a tutti le situazioni delle diverse regioni e l’azione che
più urge in ciascuna di esse, a formulare le varie opinioni
correnti tra gli anarchici e farne una specie di statistica ‒ e le
loro decisioni non sono regole obbligatorie, ma suggerimenti,
consigli, proposte da sottoporre a tutti gli interessati, e non
diventano impegnative ed esecutive se non per quelli che le
accettano e finche le accettano. Gli organi amministrativi che essi
nominano ‒ Commissione di corrispondenza, ecc. ‒‒ non hanno nessun
potere direttivo, non prendono iniziative se non per conto di chi
quelle iniziative sollecita ed approva e non hanno nessuna
autorità, per imporre le proprie vedute, che essi possono
certamente sostenere e propagare come gruppi di compagni, ma non
possono presentare come opinione ufficiale dell’organizzazione. Essi
pubblicano le risoluzioni dei congressi e le opinioni e le proposte
che gruppi e individui comunicano loro; e servono, per chi se ne
vuol servire, a facilitare le relazioni fra i gruppi e la
cooperazione tra quelli che son d’accordo sulle varie iniziative:
libero chi crede di corrispondere direttamente con chi vuole, o di
servirsi di altri comitati nominati da speciali aggruppamenti.
In un’organizzazione anarchica i singoli membri possono professare
tutte le opinioni e usare tutte le tattiche che non sono in
contraddizione coi principi accettati e non nuocciono
all’attività degli altri. In tutti i casi una data
organizzazione dura fino a che le ragioni di unione sono superiori
alle ragioni di dissenso: altrimenti si scioglie e lascia luogo ad
altri aggruppamenti più omogenei.
Certo la durata, la permanenza di un’organizzazione è
condizione di successo nella lunga lotta che dobbiamo combattere e
d’altronde è naturale che qualunque istituzione aspira, per
istinto, a durare indefinitivamente. Ma la durata di una
organizzazione libertaria deve essere la conseguenza
dell’affinità spirituale dei suoi componenti e
dell’adattabilità della sua costituzione ai continui
cambiamenti delle circostanze: quando non è più capace
di compiere una missione utile meglio che muoia.
2. Antiparlamentarismo
ed elezionismo
1. LA TRUFFA PARLAMENTARE18
a. L’inefficienza dei parlamenti e i problemi del movimento operaio.
Il socialismo fin dal suo nascere, coll’arme della critica positiva,
che si appoggia sui fatti e dei fatti cerca le cause e prevede le
conseguenze, aveva fatto giustizia del suffragio universale e di
tutta quanta la menzogna parlamentare. Che se non lo avesse fatto,
esso non avrebbe avuto ragion di esistere come idea e partito nuovo:
e si sarebbe confuso con l’assurda utopia liberale, che aspetta
l’armonia, la pace, ed il benessere generale della lotta,
liberamente combattuta (sic), tra gente armata di tutta la ricchezza
e di tutta la forza sociale e poveri derelitti cui manca il tozzo di
pane.
Il socialismo, nell’accezione più larga e più
autentica della parola, significa la società fatta strumento
di libertà, di benessere e di sviluppo progressivo ed
integrale per tutti i membri, per tutti quanti gli esseri umani.
Partendo dalla verità fondamentale che l’evoluzione delle
facoltà morali ed intellettuali presuppone la soddisfazione
dei bisogni materiali, e che non può esservi libertà
dove non v’è uguaglianza e solidarietà, esso riconobbe
che la servitù in tutte le sue forme, politica, morale e
materiale, deriva dalla dipendenza economica del lavoratore dai
detentori della materia prima e degli strumenti da lavoro. E dopo
aver cercato a tentoni la sua strada, e prodotta una serie di
progetti artificiosi ed utopistici, trovò infine la sua base
saldissima nel principio, scientificamente dimostrato, della
giustizia, utilità e necessità della socializzazione
della ricchezza e del potere.
Trovato il fine, urgeva occuparsi delle vie e mezzi per
raggiungerlo. E non appena il socialismo, uscito dal periodo della
speculazione astratta, incominciò a penetrare in mezzo alle
masse sofferenti ed a fare le sue prime armi nelle lotte pratiche
della vita, i socialisti s’accorsero che si trovavano stretti in un
cerchio di ferro, che solo poteva rompersi colla diretta azione
delle masse.
Impossibile esser liberi (il socialismo lo aveva dimostrato) senza
essere economicamente indipendenti; e d’altra parte, come si
può arrivare all’indipendenza economica se si è
schiavi?
Il popolo, spogliato di tutto ciò che la natura ha creato per
il sostentamento dell’uomo e di tutto quello che il lavoro umano ha
aggiunto all’opera della natura, dipende per la sua vita dal
beneplacito dei proprietari e si trova ridotto dalla miseria
all’avvilimento ed all’impotenza. E per consolidare e difendere
questo stato di cose, stanno i governi con tutta la forza degli
eserciti, delle polizie e delle finanze.
Quale mezzo legale di emancipazione, quando la legge è tutta
quanta intesa a difendere lo stato di cose che si dovrebbero
distruggere?
Non l’azione politica legale delle masse, che tutta si riassume nel
voto, poichè quest’arma per avere un valore qualsiasi,
suppone già nella maggioranza numerica del popolo quella
coscienza ed indipendenza, che si tratta appunto di rendere
possibile e di conquistare. E d’altronde la borghesia e per essa i
governi non concedono il voto che quando si sono persuasi della sua
innocuità, o quando, di fronte alla attitudine minacciosa del
popolo, lo considerano un mezzo opportuno per sviarlo ed
addormentarlo, caso in cui sarebbe, da tutti i punti di vista, una
sciocchezza il contentarsene. Concessolo, sanno giocarlo e
dominarlo, e, se per avventura si mostrasse indocile, possono
sopprimerlo. Al popolo non resta altra risorsa che quella della
rivoluzione, che il voto avrebbe dovuto rendere inutile.
Non gli espedienti economici legali ‒ mutuo soccorso, risparmio,
cooperative, scioperi ‒‒ poichè la potenza schiacciante e
sempre crescente del capitale, appoggiata, ove occorra, dalla forza
delle baionette, e le condizioni materiali e morali in cui essa ha
ridotto il proletariato, li rendono dei mezzi impotenti, illusori, o
semplicemente ridicoli.
Non vi sono dunque che due vie di uscita. O la rinuncia volontaria
delle classi dominanti al possesso esclusivo della ricchezza ed a
tutti i privilegi di cui godono sotto l’influenza dei buoni
sentimenti che la propaganda socialista può far nascere in
esse: oppure la rivoluzione, l'azione diretta delle masse, eccitata
e mossa dalla minoranza cosciente che si va organizzando nelle file
del partito socialista.
La prima di queste vie, in cui dei generosi quanto ingenui filosofi
credettero un momento, è dimostrata una speranza illusoria,
nonchè da tutta quanta la storia passata, dall’esperienza
sanguinosa dei fatti contemporanei…
Restava la rivoluzione; e tutti i socialisti, che del socialismo non
facevano un oggetto di distrazione contemplativa ma un programma
pratico che volevano al più presto possibile vedere attuato,
furono rivoluzionari.
I socialisti erano bensì divisi in due grandi frazioni
rispondenti a due correnti d’idee. Gli uni, autoritari, volevano
servirsi per emancipare il popolo dello stesso meccanismo che ora lo
tiene sottomesso, e si proponevano la conquista del potere politico.
Gli altri, gli anarchici, considerando che lo Stato non ha ragione
di essere se non in quanto rappresenta e difende gli interessi d’una
classe o di una consorteria e che scompare quando, per
l’universalizzazione del potere e dell’iniziativa, si confonde colla
totalità dei cittadini, si proponevano la distruzione del
potere politico.
Gli uni volevano impadronirsi del governo e decretare, con forme e
modi dittatoriali, la messa in comune del suolo e degli strumenti
del lavoro ed organizzare dall’alto la produzione e distribuzione
socialistica. Gli altri volevano abbattere simultaneamente potere
politico e proprietà individuale, e organizzare la
produzione, il consumo e tutta la vita sociale per mezzo dell’opera
diretta e volontaria di tutte le forze e di tutte le
capacità, che esistono nell’umanità e che cercano
naturalmente di esplicarsi ed attuarsi.
Ma tutti, lo ripetiamo, volevano la rivoluzione, l’appello alla
forza; e per maturare la rivoluzione volevano e praticavano la
propaganda indefessa delle verità scoperte dal socialismo,
l’organizzazione delle forze coscienti del proletariato…
La lotta sarebbe stata senza dubbio lunga e faticosa, ma la via era
tracciata e si sarebbe arrivati direttamente alla vittoria piena e
completa. Ma ecco che, contraddicendo a tutte le tendenze del
programma ed alla propaganda che essi stessi avevano menato con zelo
ed intelligenza, alcuni socialisti credettero bene di mettersi nelle
vie tortuose e senza uscita del parlamentarismo.
Il socialismo, al principio deriso e negato, poscia combattuto con
accanimento, già diventava potente assai perchè i
borghesi vi vedessero un pericolo serio ed una forza di cui
bisognava contare. Gli uni, i soddisfatti, credettero opportuno
aggiungere alle persecuzioni ed ai massacri l’arme della corruzione
e dell’inganno; mentre gli altri, quelli che sotto il nome di
democratici aspiravano ad impadronirsi del governo, pensarono a
mistificarlo e servirsene.
D’altra parte vi erano dei socialisti i quali si trovarono disposti
ad accordarsi a quella borghesia che fieramente avevano combattuta.
O stanchi della lotta e domati dalle persecuzioni: o perchè
in essi il sentimento socialista e rivoluzionario non era in
realtà mai penetrato al disotto dell’epidermide e spariva col
raffreddarsi dei primi entusiasmi giovanili; o perchè avevano
immaginato che la vittoria fosse facile e vicina ed erano
sconcertati dalla scoperta di ostacoli non sospettati, essi
cercavano, forse anche senza rendersene conto esatto, un’occasione,
un pretesto decente per piegare bandiera e farsi accogliere in mezzo
al campo nemico…
Il terreno comune su cui si incontrarono i borghesi, che cercavano
di corrompere, e quei socialisti, che cercavano di essere corrotti,
fu l’urna elettorale. Nè il danno sarebbe stato grande. Ma i
traditori, gli ambiziosi e gli stanchi riuscirono purtroppo a
trascinare all’urna molti buoni, che credevano sinceramente di
acquistare una nuova arma di lotta contro la borghesia, e di
avvicinare con quel mezzo l’avvenimento della rivoluzione.
Naturalmente per mascherare la manovra il passaggio si fece a gradi.
Al principio non s’infirmò nessuna delle conclusioni
acquisite al programma socialista. L’espropriazione per mezzo della
rivoluzione, si andava ripetendo, è l’unico mezzo per
emanciparsi: il suffragio universale, la repubblica e tutte quante
le riforme politiche lasciano il tempo che trovano e non sono che
tranelli tesi all’ingenuità popolare. Però,
s’insinuava dolcemente, qualche bene se ne può cavare:
profittiamo di tutto, serviamoci come armi delle concessioni che
possiamo strappare al nemico, allarghiamo il nostro campo d’azione,
cessiamo dal roderci nella nostra impotenza, siamo pratici. E tosto
si mise avanti il progetto di andare all’urna, scopo a cui tendeva
ed in cui si riduceva tutto quel preteso allargamento di tattica. Ma
siccome non s’osava ancora rinnegare tutto il detto sulla
inutilità della lotta elettorale e sull’azione corruttrice
dell’ambiente parlamentare, si disse che bisognava votare
semplicemente per contarsi, quasi che fosse necessario andare
all’urna e farsi contare dal nemico per giudicare dei progressi del
partito. E per affettare scrupolosità si parlò di
votare un bollettino in bianco, o per dei morti o per degli
ineleggibili. Poi, senza aver l’aria di nulla, i morti diventarono
vivi e gl’ineleggibili si trasformarono in persone che al parlamento
potevano e volevano andarci e restarci. Ma non si osava ancora
confessarlo: si trattava sempre di candidature di protesta: gli
eletti non entrerebbero in parlamento, rifiuterebbero il giuramento
là dove era richiesto, o c’entrerebbero per sputare in faccia
alla borghesia l’infamia sua, e farsi scacciare come nemico che non
transige. Poi nemmeno più questo. In parlamento bisognava
andarci per profittare della tribuna parlamentare, per scoprire e
denunciare al popolo i dietro scena della politica, per avere dei
posti avanzati nel campo nemico, dei posti presi nella cittadella
borghese.
Il deputato socialista non doveva essere legislatore, non doveva
aver nessun legame coi deputati della borghesia, ma stare in
parlamento come spettro minaccioso della rivoluzione sociale in
mezzo a coloro che vivono dei sudori e del sangue del popolo.
Ma che!… oramai si stava sulla china e bisognava andare fino in
fondo. Il partito rivoluzionario, che entrava in parlamento, doveva
diventar riformista, e lo diventò.
L’emancipazione integrale, cominciarono a dire, è una bella
cosa, ma è come il paradiso: una cosa lontana e che nessuno
ha visto mai. Il popolo ha bisogno di miglioramenti immediati.
Meglio poco che nulla. La rivoluzione sarà tanto più
facile quanto più concessioni ci saranno strappate alla
borghesia.
Senza contar quelli, pochi, del resto, che hanno saltato il fosso ed
affermano addirittura che si può raggiungere lo scopo per
evoluzione pacifica.
E s’invocò la scienza, quella povera scienza che s’accomoda a
tutte le salse, per sofisticare all’infinito sul tema evoluzione e
rivoluzione; quasichè vi fosse alcuno che neghi l’evoluzione,
e la questione non fosse piuttosto sulla specie di evoluzione, che
più corrisponde al fine socialista e che quindi i socialisti
devono propugnare.
La rivoluzione non è essa stessa che un modo di evoluzione;
modo rapido e violento, che si produce, spontaneo o provocato,
quando i bisogni e le idee prodotte da una evoluzione precedente non
trovano più possibilità di soddisfarsi, o quando i
mezzi accaparrati da alcuno fanno sì che l’evoluzione oramai
si svolgerebbe in senso regressivo, se non intervenisse a rimetterla
in via una forza nuova: l’azione rivoluzionaria…
Non ritorneremo sulla impotenza del suffragio universale e del
parlamentarismo a risolvere la questione sociale, nè sulla
futilità di tutte le riforme non fondate sull’abolizione
della proprietà individuale, poichè questo deve essere
già una cosa provata per chi è socialista; e noi in
questo opuscolo non dobbiamo difendere i principi socialisti, ma
supporli già dimostrati.
Però, siccome la ragione od il pretesto che serve a certi
socialisti per pigliar parte alle elezioni e per farsi mandare al
parlamento, è il vantaggio che ne potrebbe venire alla
propaganda, noi insisteremo sul danno che invece la propaganda ne
risente.
D’ordinario coloro che vantano l’utilità di avere dei
socialisti nei parlamenti e negli altri corpi elettivi, ragionano
come se per essere eletto bastasse il volerlo. Noi avremmo
là, essi dicono, degli uomini che godrebbero del diritto di
viaggiare gratis o di altri vantaggi economici, che permetterebbero
loro di dedicarsi con maggiore efficacia alla propaganda; degli
uomini che potrebbero osservar da vicino le magagne del mondo
politico e denunziarle al pubblico, e che potrebbero, soprattutto,
servirsi della tribuna parlamentare per difendere i principi
socialisti, e costringere tutto il paese a studiarli e discutere.
Perchè rinunciare a questi benefizi?
Innanzi tutto v’è una pregiudiziale: conserveranno gli eletti
il programma che avevano da candidati, e metteranno a difenderlo la
stessa energia che vi mettevano prima? Certamente sarebbe bello,
onorevole per la natura umana, il poter affermare che qualunque
fossero le convinzioni di ciascuno ed il metodo di lotta prescelto,
mai verrebbero meno la sincerità ed il coraggio. Ma la prova
è fatta; e disgraziatamente, quando si pensa alla condotta
ignobile e vile che han tenuto, in ogni dove, tutti, o quasi, i
deputati socialisti, non è possibile serbare tali illusioni.
L’ambiente parlamentare corrompe, e l’operaio ed il rivoluzionario
cessano di essere tali pel solo fatto di essere diventati deputati.
Del resto non c’è da meravigliarsene.
Voi prendete un lavoratore, lo tirate fuori del suo ambiente, lo
sottraete al lavoro, lo allontanate da voi, di cui egli vedeva e
divideva la miseria, lo mandate in mezzo ai signori, in mezzo al bel
mondo dove si gode e non si lavora, lo esponete a tutte le
tentazioni: e poi vi meravigliate ch’egli si adatti ad un ambiente
ben più confortante di quello in cui viveva prima, ch’egli
cerchi di assicurarsi l’insolito benessere, e dimentichi presto o
tardi i suoi fratelli di miseria e gl’impegni contratti con essi?
Voi prendete un rivoluzionario abituato ad essere palleggiato di
prigione in prigione, ne fate un legislatore; e poi siete sorpresi
s’egli si lascia ammansire dal tepore di una libertà ed una
sicurezza personali mai godute? E d’altronde, il sentimento
dell’impotenza, in mezzo a gente assolutamente refrattaria alla sua
influenza, non spingerà anche chi è perfettamente
sincero, a far concessioni e transizioni, colla speranza di potere
almeno ottenere qualche cosa?
Ma mettiamo pure che nessuno si corrompa, e che gli uomini siano
tutti eroi… anche quelli che smaniano per esser deputati.
Però come si può riuscire a mandare dei socialisti al
parlamento? La maggioranza degli elettori non è socialista,
nemmeno a fabbricarsi un collegio elettorale apposta; che se lo
fosse, allora non avrebbe bisogno di nominare dei deputati, ma
potrebbe, anche quando tutte le altre circoscrizioni fossero
reazionarie, in mille modi più efficaci attaccare il regime
borghese ed essere un centro d’irradiazione socialista. Per formarsi
dunque una maggioranza bisogna transigere, allearsi con questo o con
quello, mistificare il programma, promettere riforme immediate, far
credere una cosa a questo ed un’altra a quello, fare in modo che la
borghesia vi tolleri, che il governo non vi combatta troppo
acerbamente. E allora che diventa la propaganda socialista?
D’altra parte, siccome ogni uomo si stima onesto e quasi tutti si
stimano capaci, così avviene che quasi ognuno che sa dire due
parole, si considera in cuor suo deputabile quanto un altro; alla
nobile ambizione di far il bene e di essere il primo nei rischi e
nei sacrifici si sostituisce a poco a poco, col pretesto del bene
generale, la bassa ambizione degli onori e dei privilegi; e nascono
le rivalità tra i compagni, le gelosie ed i sospetti. La
propaganda dei principi cede il passo alla propaganda delle persone;
la rinascita delle candidature diventa il grande, anzi l’unico
interesse del partito; e una turba di politicanti, che vedono nel
socialismo un mezzo come un altro per farsi strada, si gettano in
mezzo al popolo e mistificano e corrompono programma e partito.
E che diremo della speranza di ottenere per mezzo dei deputati
socialisti delle riforme che possano, aspettando il meglio, lenire i
dolori del popolo e levar degli ostacoli dal suo cammino? I
privilegiati non cedono che alla forza od alla paura. Se anche nel
regime attuale è possibile un qualche miglioramento, il solo
modo per ottenerlo è di agitarsi fuori e contro i corpi
costituzionali, mostrando la ferma decisione di volerlo a qualunque
costo. Affidare ai deputati il patrocinio della volontà
popolare serve solo per fornire al governo il mezzo di eluderla e
per trastullare il popolo con vane speranze.
b. Le menzogne del socialismo legalitario e le insidie della
democrazia borghese
Fra le due frazioni in cui si divideva il partito socialista, gli
autoritari dovevano naturalmente sentire minor ripugnanza per la
tattica parlamentare poichè (salvo l’intermezzo di un periodo
rivoluzionario nel quale per via dittatoriale si sarebbe trasformata
la costituzione economica della società) la forma politica
cui essi aspiravano era una forma qualsiasi di parlamentarismo.
Conservare nel popolo il rispetto del principio di autorità,
e sviluppare in lui l’abitudine di abbandonare in mano altrui la
propria iniziativa e la propria forza, poteva entrare nelle loro
mire, poichè avrebbe facilitato il loro compito il giorno in
cui fossero riusciti ad afferrare il potere.
Ma accettando, di fatto se non in teoria il parlamentarismo
nell’attuale ambiente economico, e sperando e facendo sperare delle
riforme e dei miglioramenti dall’opera dei poteri legali, essi
cessarono di essere rivoluzionari, cessarono in pratica di essere
socialisti e divennero, o van diventando, dei semplici democratici,
repubblicani dove c’è la repubblica, monarchici dove
c’è la monarchia, di cui tutto il programma si riduce al
suffragio universale… salvo, ne conveniamo, le aspirazioni teoriche,
che il suffragio non potrà mai attuare.
È la logica della situazione che s’impone. Repubblicani e
monarchici democratici dicono: che il popolo faccia la sua
volontà… a mezzo delle assemblee elette a suffragio
universale. E le assemblee fanno la volontà dei proprietari,
dei preti e dei politicanti, di cui sono e saranno composte fino a
quando dureranno le attuali condizioni economiche.
I socialisti dovrebbero rispondere, sotto pena di non esser
più socialisti, che il popolo non può fare quello che
vuole, nè saprà quello che deve volere fino a quando
sarà economicamente schiavo. Ma avendo per necessità
elettorali e per convenienze personali, prima trascurata e poi
combattuta, più o meno apertamente, la propaganda
rivoluzionaria, che cosa restava loro se non accettare il terreno
che offrivan loro gli avversari naturali del socialismo? Ed essi lo
hanno accettato, e fino al punto da dimenticare spesso anche le
affermazioni teoriche, che restavano l’unica platonica differenza
tra loro ed i democratici borghesi.
Per gli anarchici era un’altra cosa. Per essi che negano la
delegazione del potere e fanno appello all’azione libera e diretta
di tutti, la “nuova tattica” oltre a far trascurare la propaganda
socialista e rivoluzionaria e gettare il partito nelle braccia dei
borghesi, aveva pure il torto grandissimo di dare alla parte
cosciente delle masse un’educazione diametralmente opposta allo
scopo che gli anarchici vogliono raggiungere, poichè abitua a
fidare negli altri e restare inerti. E perciò gli anarchici,
come partito, restarono incolumi dalla lebbra parlamentare. Coloro,
che per le ragioni da noi accennate ne furono tocchi, cessarono di
essere anarchici, si unirono ai socialisti autoritari, ed insieme
con questi precipitarono giù fino nei bassi fondi del
politicume borghese.
A causa dei voltafaccia, dei tradimenti, delle transazioni e delle
inverosimili coalizioni che produsse la tattica parlamentare, vi fu
nel campo socialista un lungo periodo d’incertezza e di confusione
che paralizzò lo slancio del movimento: ma oggi la posizione
ritorna limpida e chiara.
L’evoluzione delle idee e dei fatti, la logica del metodo,
l’influenza determinante che i mezzi adoperati esercitano sul fine
da raggiungersi hanno fatto sì che ormai di vero socialismo
non v’è più che il socialismo anarchico, che è
di sua natura antiparlamentare e rivoluzionario.
Questo se si piglia la parola socialismo nel senso che gli han dato
i suoi apostoli ed i suoi martiri, e che ne ha fatto la leva potente
che rovescerà il mondo borghese. Che se poi il significato
della parola socialismo dovesse seguire la marcia indietro, che
precipitosamente stanno compiendo i parlamentaristi, e dovesse
significare quella ibrida accozzaglia di riforme burlesche, di
contraddittorie aspirazioni, di menzogne impudenti, che forma la
base dei programmi elettorali “socialisti”, allora potrebbero certo
esser socialisti Guglielmo di Germania e Leone XIII e tutti i
deputati e consiglieri “socialisti”; ‑ ma non lo furono quelli che
svelarono le menzogne della Economia politica ed il nulla della
democrazia, e che debellarono moralmente mazzinianismo e radicalismo
e li resero impotenti per sempre; non lo furono nè Bakunin
nè Marx; non lo furono coloro che per il socialismo
sacrificarono gioventù, pace, amore, libertà; non lo
furono coloro stessi che alle lotte socialiste dei primi anni,
abilmente sfruttate più tardi, debbono la loro attuale
posizione politica; non lo fu l’Internazionale, non lo sono gli
anarchici.
Il socialismo! Che cosa fu!?… a che cos’è ridotto!?…
Uscito fuori dalle speculazioni dei filosofi, dai sogni degli
utopisti, dalle rivolte delle plebi, il socialismo si
annunziò al mondo come la buona novella dell’evo moderno.
Esso era una promessa di civiltà superiore; era la ribellione
contro ogni prepotenza, contro ogni ingiustizia; era l’abolizione
dell’odio, della concorrenza, della guerra; il trionfo dell’amore,
della cooperazione, della pace; era l’avvenimento del benessere e
della libertà per tutti; la realizzazione nel futuro di
quell’eden che la fantasia dei popoli e dei poeti, assetati d’ideale
e ignari di storia, aveva messo all’origine dell’umanità.
Esso era la lotta umana per eccellenza; ed elevandosi al disopra
delle razze e delle patrie, al disopra delle religioni e delle
scuole filosofiche, al disopra delle classi e delle caste esso
abbracciava tutti gli uomini e tutte le donne in un santo ideale di
uguaglianza e di solidarietà.
Esso non domandava la sostituzione di un partito ad un altro o di
una classe ad un’altra, non l’avvento al potere ed alla ricchezza di
un nuovo stato sociale (quarto stato), ma l’abolizione delle classi,
la solidarizzazione di tutti gli esseri umani nel lavoro e nel
godimento comune.
Ed i socialisti erano apostoli, confessori e martiri; essi sentivano
che portavano in sè stessi un mondo, avevano la coscienza
della loro sublime missione, e questa coscienza li faceva fieri,
coraggiosi e buoni.
Ignoranti o dotti, giovani ingenui o vecchi avanzi di altre
battaglie; parte eletta del proletariato o figli di borghesi ribelli
alla classe in cui eran nati, che i loro privilegi di nascita
consideravano come un debito che imponeva loro maggiori doveri verso
la causa dei diseredati, essi avevano fede nel bene ed in loro
stessi, amavano il popolo, erano assetati di scienza e di lotte, e
baldi e fiduciosi affrontavano le beffe e le calunnie, le piccole e
le grandi persecuzioni, il carcere, l’esilio, la miseria, il
patibolo; e andavano avanti.
Votati ad una lotta a morte contro tutte le istituzioni politiche,
economiche, religiose, giudiziarie, totalitarie del mondo borghese;
urtando tanti interessi e tanti pregiudizi; dovendo resistere a
seduzioni e minacce d’ogni sorta, essi, tanto per ripugnanza
naturale contro gli sfruttatori ed i mistificatori del popolo,
quanto per tattica di combattimento, si separavano nettamente da
tutti coloro che non erano popolo e non combattevano per
l’emancipazione integrale del popolo. Essi formavano partito,
scuola, quasi diremmo classe da loro.
Soli contro tutti, essi scrivevano sulla loro bandiera il motto
delle coscienze integre, il motto di chi ha fede in sè e
nella propria causa, il motto sacro dei giorni di battaglia: Chi non
è con noi è contro di noi. Ed intendevano che fossero
con loro tutti i miseri, tutti gli oppressi, tutte le vittime; e
tutti coloro che facevano propria la causa dei miseri e combattevano
per la giustizia, per la libertà e pel benessere generale:
come erano contro di loro tutti i detentori e sostenitori del potere
e tutti coloro che al potere aspiravano.
Altro socialismo, altri socialisti non v’erano.
Ed allora?
Ora v’è un socialismo che serve solo ad ingannare il popolo
con vane promesse per mantenerlo docile o per farsene sgabello; e vi
sono dei socialisti che puttaneggiano nei ministeri e nei
parlamenti, che s’alleano coi borghesi, che si inchinano ai
ministri, che acclamano un imperatore, che si vendono ad un soldato,
che mentono ai loro compagni, che prostituiscono ideali, programma,
coscienza per carpire agli ingenui un voto il quale valga a farli
accogliere in mezzo alla borghesia.
O socialisti, uomini semplici e puri, cui ferve nel petto il santo
amore degli uomini; o socialisti che per le lusinghe di falsi amici
faceste inconsapevolmente gli interessi della borghesia, non sentite
vergogna vedendo la vostra bandiera trascinata nel fango?
Oh! no; cotesti mercanti di voti, cotesti commedianti non sono
socialisti; cacciateli di mezzo a voi. E voi ritornate alle maschie
battaglie che spazzeranno via dal mondo proprietà individuale
e governi, miseria e schiavitù.
2. LA POLEMICA CON MERLINO
a. Maggioranze e minoranze19
... L’amico nostro Merlino, che come sapete, si perde ora nell’inane
tentativo di voler conciliare l’anarchia col parlamentarismo, in una
sua lettera al “Messaggero” volendo sostenere che “il
parlamentarismo non è destinato a sparire interamente e
qualche cosa ne rimarrà anche nella società che noi
vagheggiamo”, ricorda uno scritto da me inviato alla Conferenza
anarchica di Chicago del 1893, in cui io sostenevo che “per talune
cose il parere della maggioranza dovrà necessariamente
prevalere a quello della minoranza”.
La cosa è vera, nè le mie idee sono oggi diverse da
quelle espresse nello scritto di cui si tratta. Ma Merlino,
riportando una mia frase staccata per sostenere una tesi diversa da
quella che sostenevo io, lascia nell’ombra e nell’equivoco quello
che io veramente intendevo.
Ecco: v’erano a quell’epoca molti anarchici, e ve n’è ancora
un poco, che scambiando la forma colla sostanza e badando più
alle parole che alle cose, si erano formati una specie di “rituale
del vero anarchico” che inceppava la loro azione, e li trascinava a
sostenere cose assurde e grottesche.
Così essi, partendo dal principio che la maggioranza non ha
il diritto d’imporre la sua volontà alla minoranza, ne
conchiudevano che nulla si dovesse mai fare se non approvato
all’unanimità dei concorrenti. Confondendo il voto politico,
che serve a nominarsi dei padroni con il voto quando è mezzo
per esprimere in modo spiccio la propria opinione, ritenevano
anti-anarchica ogni specie di votazione.
Contro queste e simili aberrazioni era diretto lo scritto che io
mandai a Chicago.
Io sostenevo che non ci sarebbe vita sociale possibile se davvero
non si dovesse fare mai nulla insieme se non quando tutti sono
unanimemente d’accordo. Che le idee e le opinioni sono in continua
evoluzione e si differenziano per gradazioni insensibili, mentre le
realizzazioni pratiche cambiano a salti bruschi; e che, se arrivasse
un giorno in cui tutti fossero perfettamente d’accordo sui vantaggi
di una data cosa, ciò significherebbe che in quella data cosa
ogni progresso possibile è esaurito. Così, per
esempio, se si trattasse di fare una ferrovia, vi sarebbero
certamente mille opinioni diverse sul tracciato della linea, sul
materiale, sul tipo di macchine e di vagoni, sul posto delle
stazioni, ecc., e queste opinioni andrebbero cambiando di giorno in
giorno: ma se la ferrovia si vuol fare bisogna pure scegliere fra le
opinioni esistenti, nè si potrebbe ogni giorno modificare il
tracciato, traslocare le stazioni e cambiare le macchine. E
poichè di scegliere si tratta è meglio che siano
contenti i più che i meno, salvo naturalmente a dare ai meno
tutta la libertà e tutti i mezzi possibili per propagare e
sperimentare le loro idee e cercare di diventare la maggioranza.
Dunque in tutte quelle cose che non ammettono parecchie soluzioni
contemporanee, o nelle quali le differenze d’opinione non sono di
tale importanza che valga la pena di dividersi ed agire ogni
frazione a modo suo, o in cui il dovere di solidarietà impone
l’unione, è ragionevole, giusto, necessario che la minoranza
ceda alla maggioranza.
Ma questo cedere della minoranza deve essere effetto della libera
volontà, determinata dalla coscienza della necessità;
non deve essere un principio, una legge, che s’applica per
conseguenza in tutti i casi, anche quando la necessità
realmente non c’è. Ed in questo consiste la differenza tra
l’anarchia e una forma di governo qualunque. Tutta la vita sociale
è piena di queste necessità in cui uno deve cedere le
proprie preferenze per non offendere i diritti degli altri.
...Come fa il Merlino a cavare da questo che un resto di
parlamentarismo vi dovrà essere anche nella società
che noi vagheggiamo?
Il parlamentarismo è una forma di governo nella quale gli
eletti del popolo, riuniti in corpo legislativo fanno, a maggioranza
di voti, le leggi che a loro piace e le impongono al popolo con
tutti i mezzi coercitivi di cui possono disporre.
È un avanzo di questa bella roba, che Merlino vorrebbe
conservata anche in Anarchia? Oppure, poichè in Parlamento si
parla, e si discute e si delibera, e questo si farà sempre in
qualsiasi società possibile, Merlino chiama questo un avanzo
di parlamentarismo?
Ma ciò sarebbe davvero giuocar sulle parole, e Merlino
è capace di altri e ben più seri procedimenti di
discussione...
b. Anarchia e parlamentarismo20
...Merlino nega (vedi l’Avanti! del 9 marzo) che la lotta politica
parlamentare sia contraria ai principi socialisti-anarchici.
Intendiamoci bene.
Quello che è contrario ai nostri principii è il
parlamentarismo, in tutte le sue forme e tutte le sue gradazioni. E
noi riteniamo che la lotta elettorale e parlamentare educa al
parlamentarismo e finisce col trasformare in parlamentaristi coloro
che la praticano.
Merlino, che pare si dica ancora anarchico e pare vada facendo
continue riserve sull’abolizione piena ed intera del parlamentarismo
ed accampa la fede nuovissima nella possibilità di un governo
che sia servitore del popolo e si possa congedare quando non faccia
il suo dovere o non si abbia più bisogno dell’opera sua,
dovrebbe innanzi tutto spiegarci che cosa sarebbe questa sua
anarchia parlamentare. Finora il socialismo anarchico alla fin fine,
non è stato che il socialismo antiparlamentare; perchè
allora continuare a chiamarlo anarchico?
L’astensione degli anarchici non è da confrontare con quella,
per esempio, dei repubblicani. Per questi l’astensione è una
semplice questione di tattica: si astengono quando credono imminente
la rivoluzione e non vogliono distrarre forze della preparazione
rivoluzionaria; votano quando non hanno di meglio da fare, ed il
loro meglio è molto ristretto poichè rifuggono per
ragioni di classe dalle agitazioni sovvertitrici degli ordini
sociali. In realtà essi stanno sempre sul buon cammino: essi
vogliono un governo parlamentare e gli elettori che conquistano
adesso sono sempre buoni per mandarli un giorno alla costituente.
Per noi invece, l’astensione si collega strettamente con le
finalità del nostro partito. Quando verrà la
rivoluzione (fra mille anni, s’intende, ci badi il procuratore del
re) noi vogliamo rifiutarci a riconoscere i nuovi governi che
tenteranno d’impiantarsi, noi non vogliamo dare a nessuno un mandato
legislativo e quindi abbiamo bisogno che il popolo abbia ripugnanza
delle elezioni, si rifiuti a delegare ad altri l’organizzazione del
nuovo stato di cose, e quindi si trovi nella necessità di
fare da sè.
Noi dobbiamo far sì che gli operai si abituino, fin da ora,
per quanto è possibile, nelle associazioni di ogni genere, a
regolare da loro i propri affari, e non già incoraggiarli
nella tendenza a rimettersene in altri.
Merlino per ora dice ancora che le elezioni debbono servire come
mezzo di agitazione, che gli eletti socialisti non debbono essere
legislatori, e che la lotta importante si deve fare nel popolo,
fuori del parlamento.
Ma senta un po’ i suoi amici dell’Avanti! Quelli sono logici. Essi
vogliono andare al potere ‒ per fare il bene del popolo, noi non ne
dubitiamo ‒ e quindi hanno ogni interesse a educare il popolo a
nominare dei deputati e ad abituarsi essi a saper governare.
Ma Merlino dove vuole arrivare? Resterà egli eternamente tra
il sì ed il no, tra il mi decido e non mi decido?...
Tutta la forza dell’argomentazione di Merlino consiste in un
equivoco. Egli pone in contrapposto da una parte la lotta elettorale
e dall’altra l’inerzia, l’indifferenza e l’acquiescenza supina alle
prepotenze del governo e dei padroni; ed è chiaro che il
vantaggio resta alla lotta elettorale...
La questione è tutt’altra. Si tratta di cercare qual’è
il mezzo più efficace di resistenza popolare, qual’è
la via che, mentre soddisfa ai bisogni del momento, conduce
più direttamente ai destini futuri dell’umanità,
qual’è il modo più utile d’impiegare le forze
socialiste.
Non è vero che senza il parlamento mancano i mezzi per far
pressione sul Governo e metter freno ai suoi eccessi. Al contrario.
Quando in Italia non v’era il suffragio popolare, v’era una
libertà che oggi ci sembrerebbe grande; e le violenze
governative, molto minori di quelle di Crispi e Di Rudini,
provocavano un’indignazione e una reazione popolare di cui oggi non
si ha più l’idea. Lo stesso suffragio, di cui fan tanto caso,
è stato naturalmente ottenuto quando il suffragio non v’era;
ed ora che v’è, minacciano di toglierlo. Effetto miracoloso
della sua efficacia!...
D’altronde il fatto è questo; se nel paese v’è
coscienza e forza di resistenza, se vi sono partiti
extracostituzionali che minacciano lo Stato, allora il governo
rispetta lo Statuto, allarga il suffragio, concede libertà,
tanto per aprire delle valvole di sicurezza alla crescente
pressione; ed in Parlamento i deputati borghesi tuonano contro i
ministri, tanto per farsi popolari. Se invece il governo vede che i
partiti popolari fondano le loro speranze sull’azione parlamentare e
che la cosa che più gli dà noia sono i deputati
socialisti, allora respinge il suffragio, tien chiuso il parlamento,
viola lo Statuto; e se i deputati hanno il nerbo, cosa rara, di
resistere più che per burla, vanno in prigione malgrado il
medaglino e l’immunità.
Quando Merlino poi dice che gli astensionisti sono dei dottrinari e
si compiace a mettere in bocca loro una serie di ragionamenti che
mena fuori di ogni vita reale ed al più completo quietismo,
allora Merlino è... men che sincero.
Vi sono è vero degli anarchici che si curano poco della
praticabilità delle loro idee e limitano il loro compito alla
predica di nozioni astratte, che essi credono il vero assoluto... se
vero oggi, o vero tra mille anni non importa.
Ma Merlino sa che quella tendenza non è quella di tutti gli
anarchici, che di essa in Italia appena se ne ritroverebbe la
traccia e che, anche all’estero, essa in fondo non è
rappresentata che da poche personalità.
Servirsi dell’esistenza di una tale tendenza per attribuirla a tutti
gli anarchici e darsi così l’aria di aver ragione, può
essere un abile espediente di polemica, ma non è degno di chi
cerca e vuol propagare la verità...
c. Società autoritaria e società anarchica21
...Noi pensiamo che in molti casi la minoranza anche se convinta di
aver ragione, deve cedere alla maggioranza, perchè altrimenti
non vi sarebbe vita sociale possibile – e fuori della società
è impossibile ogni vita umana. E sappiamo benissimo che le
cose in cui non si può raggiungere l’unanimità ed in
cui è necessario che la minoranza ceda non sono le cose di
poco momento; ma anche, e specialmente, quelle di importanza vitale
per l’economia della collettività.
Noi non crediamo nel diritto divino delle maggioranze, ma nemmeno
crediamo che le minoranze rappresentino, sempre, la ragione ed il
progresso... Del resto, se è vero che i rivoluzionari sono
sempre una minoranza, sono anche sempre in minoranza gli sfruttatori
ed i birri.
Così pure noi siamo d’accordo col Merlino nell’ammettere che
è impossibile che ogni uomo faccia tutto da sè, e che,
se anche fosse possibile, ciò sarebbe sommamente svantaggioso
per tutti. Quindi ammettiamo la divisione del lavoro sociale, la
delegazione delle funzioni e la rappresentanza delle opinioni e
degli interessi propri affidata ad altri.
E soprattutto respingiamo come falsa e perniciosa ogni idea di
armonia provvidenziale e di ordine naturale nella società,
poichè crediamo che la società umana e l’uomo sociale
esso stesso siano il prodotto di una lotta lunga e faticosa contro
la natura, e che se l’uomo cessasse dall’esercitare la sua
volontà cosciente e si abbandonasse alla natura, ricadrebbe
presto nella animalità e nella lotta brutale.
Ma – e qui è la ragione per cui siamo anarchici – noi
vogliamo che le minoranze cedano volontariamente quando così
lo richieda la necessità ed il sentimento della
solidarietà. Vogliamo che la divisione del lavoro sociale non
divida gli uomini in classi e faccia gli uni direttori e capi,
esenti da ogni lavoro ingrato, e condanni gli altri ad esser le
bestie da soma della società. Vogliamo che delegando ad altri
una funzione, cioè incaricando altri di un dato lavoro, gli
uomini non rinunzino alla propria sovranità, e che, ove
occorra un rappresentante, questi sia il portaparola dei suoi
mandanti o l’esecutore delle loro volontà, e non già
colui che fa la legge e la fa accettare per forza, e crediamo che
ogni organizzazione sociale non fondata sulla libera e cosciente
volontà dei suoi membri conduce all’oppressione ed allo
sfruttamento della massa da parte di una piccola minoranza.
Ogni società autoritaria si mantiene per coazione. La
società anarchica deve essere fondata sul libero accordo: in
essa bisogna che gli uomini sentano vivamente ed accettino
spontaneamente i doveri della vita sociale, e si sforzino di
organizzare gl’interessi discordanti e di eliminare ogni motivo di
lotta intestina; o almeno che, se conflitti sì producono,
essi non siano mai di tale importanza da provocare la costituzione
di un potere moderatore, che col pretesto di garantire la giustizia
a tutti, ridurrebbe tutti in servitù.
Ma se la minoranza non vuol cedere? dice Merlino. E se la
maggioranza vuol abusare della sua forza? domandiamo noi.
È chiaro che nell’un caso come nell’altro non v’è
anarchia possibile...
d. Concezione integrale dell’anarchia22
...Perchè dice Merlino che “ci veniamo avvicinando”?
Perchè noi ammettiamo la necessità della cooperazione
e dell’accordo fra i membri della società e ci pieghiamo alle
condizioni fuori delle quali cooperazione ed accordo non sono
possibili? Ma questo è socialismo, e Merlino sa che noi siamo
sempre stati socialisti e perciò sempre molto “vicini”.
La questione ora è se il socialismo deve essere anarchico o
autoritario, vale a dire se l’accordo deve essere volontario o
imposto.
Ma se la gente non vuole accordarsi? Eh! Allora sarà la
tirannia o la guerra civile, ma non sarà l’anarchia. Per
forza l’anarchia non si fa: la forza può e deve servire per
abbattere gli ostacoli materiali, per mettere il popolo nella
condizione di scegliere liberamente come vuol vivere, ma più
non può fare.
Ma se “un pugno di farabutti o di nevrotici o anche un solo
individuo si ostina nel dir no, allora non è possibile
l’anarchia?” diavolo! Non sofistichiamo. Questi individui sono ben
liberi di dire no, ma non potranno impedire agli altri di far
sì – e quindi dovranno adattarsi il meglio che possono.
Chè se poi “i farabutti o i nevrotici” fossero tanti da poter
disturbare sul serio la società ed impedirle di funzionare
pacificamente, allora... purtroppo, non saremmo ancora in anarchia.
Noi non facciamo dell’anarchia un eden ideale, che per essere troppo
bello, si debba poi rimandare alle calende greche. Gli uomini sono
troppo imperfetti, troppo abituati a rivaleggiarsi ed odiarsi tra
loro, troppo abbrutiti dalle sofferenze, troppo corrotti
dall’autorità, perchè un cambiamento di sistema
sociale possa, dall’oggi al domani, trasformarli tutti in esseri
idealmente buoni ed intelligenti. Ma quale che sia l’estensione
degli effetti che si possono sperare dal cambiamento, il sistema
bisogna cambiarlo, e per cambiarlo bisogna che si realizzino le
condizioni indispensabili al detto cambiamento.
Noi crediamo che l’anarchia sia prossimamente attuabile,
perchè crediamo che le condizioni necessarie alla sua
esistenza vi siano già negl’istinti sociali degli uomini
moderni, tanto che essi mantengono come che sia in vita la
società, malgrado la continua azione dissolvente,
antisociale, del governo e della proprietà. E crediamo che
rimedio e baluardo contro le cattive tendenze di alcuni e contro i
pericoli d’interessi e di gusti di altri non sia un governo
qualsiasi, il quale essendo composto di uomini non può che
far pendere la bilancia dalla parte degli interessi e dei gusti di
chi sta al governo – ma la libertà la quale, quando ha a base
l’uguaglianza di condizioni, è la grande armonizzatrice dei
rapporti umani.
Noi non aspettiamo per volere attuata l’anarchia che il delitto, o
la possibilità del delitto, sia sparita dai fenomeni sociali;
ma non vogliamo la polizia, perchè crediamo che essa, mentre
è impotente a prevenire il delitto, o ripararne le
conseguenze, è poi per se stessa fonte di mille mali e
pericolo costante per la società; e se per difendersi vi
fosse bisogno di armarsi, vogliamo essere armati tutti e non
già costituire in mezzo a noi un corpo di pretoriani. Noi ci
ricordiamo troppo della favola del cavallo che si fece mettere il
morso e montare in groppa l’uomo per meglio dar la caccia al cervo –
e Merlino sa bene che menzogna sia “il controllo dei cittadini”,
quando i controllati sono quelli che hanno in mano la forza!...
e. Incompatibilità23
...Merlino scrive:
“La difesa sociale (scrivete voi) dev’esser la cura di tutta la
società; e se per difendersi vi fosse bisogno di armarsi,
vogliamo essere armati tutti. Così ragionando,
l’amministrazione della pubblica ricchezza dev’essere la cura di
tutta la società; e se per amministrarla vi fosse bisogno di
far progetti, compilare statistiche, studiare scienze tecniche –
ebbene quelle cose vogliamo farle tutti.
"L’educazione e l’istruzione dei fanciulli dev’essere la cura di
tutta la società. Chi non sa quanto sia pericoloso confidare
a pochi individui la cura di educare la nuova generazione? Dunque
facciamoci tutti professori. E via di questo passo, si nega il
principio della divisione del lavoro, si arriva al concetto
Kropotkiniano, che il popolo in massa distribuirà le case, i
viveri, il lavoro, farà tutto”.
Se noi dicessimo che Merlino per confutarci ci affibbia delle idee
che egli dovrebbe sapere non essere le nostre, egli se ne
offenderebbe – e noi non vogliamo offenderlo. Noi ammettiamo
certamente la divisione del lavoro e ne apprezziamo i vantaggi; ma
ne conosciamo pure i danni ed i pericoli. La divisione del lavoro
è stata una fra le cause dell’assoggettamento delle masse al
dominio delle caste privilegiate. E col principio della divisione
del lavoro si può tentare la giustificazione di tutte le
mostruosità sociali: divisione tra lavoro mentale e lavoro
manuale, divisione fra il lavoro di direzione e quello di
esecuzione, divisione tra il lavoro di produzione e quello di difesa
dei produttori...che poi si riassumono e si concretano nella
divisione tra il lavoro di mangiare e quello di produrre, tra il
lavoro di bastonare e quello di farsi bastonare. Menenio Agrippa
conosceva già quest’argomento.
Noi crediamo che carattere essenziale, non solo dell’anarchismo ma
del socialismo in genere, sia il volere che certe funzioni debbano
appartenere indistintamente a tutti i membri della società,
malgrado i vantaggi tecnici che vi potrebbero essere nell’affidarle
ad una classe speciale. Si divida pure il lavoro fino a che si
può, per aumentare la produzione e facilitare il
funzionamento della vita sociale: ma sian salvi innanzi tutto
l’integrale sviluppo e l’eguale libertà di tutti gli
individui.
Tra le funzioni che, secondo noi, non si possono affidare senza
gravi inconvenienti ad una classe speciale d’individui vi sono
quelle in cui potrebbe esserci bisogno di adoperare la forza fisica
contro un essere umano.
Così per esempio, potrebbe, non lo neghiamo, esservi un
vantaggio tecnico ad avere un corpo di specialisti incaricati di
diagnosticare la follia pericolosa e di portare i matti al
manicomio, ma, che volete? Noi abbiam paura che quei signori dottori
ed infermieri giudicherebbero matti tutti quelli che non la pensano
come loro. Lombroso insegni, che ci rinchiuderebbe tutti, Merlino
compreso! Per la polizia propriamente detta, peggio di peggio:
addestrate un uomo a dar la caccia agli uomini ed avrete,
tecnicamente parlando, un buon agente di polizia; ma nello stesso
tempo avrete spento in lui ogni sentimento di simpatia umana, avrete
spento l’uomo e non troverete più che lo sbirro...
f. L'accordo non è possibile24
...Merlino dice che noi ci sforziamo di esagerare il nostro dissenso
coi socialisti-democratici.
L’accusa sarebbe ben altrimenti giusta se fosse invertita. Sono i
socialisti democratici che continuamente – e disonestamente – si
sforzano di travisare le nostre idee, per poter poi dire che noi non
siamo socialisti, e negare la parentela intellettuale e morale che
li unisce a noi. Ancora l’altro giorno l’Avanti! negava ogni
rapporto tra anarchismo e socialismo, e diceva di noi quello che
avrebbe potuto dire di un partito di piccoli borghesi che si
rivoltasse violentemente contro l’aumento delle tasse e la
concorrenza dei grossi capitalisti: così che uno potrebbe
prendere per anarchici i padroni macellai e fornai di Napoli e
Palermo, quando protestano e resistono contro il calmiere
municipale! E l’Avanti! è ancora uno degli organi meno
intolleranti che vanta il partito socialista democratico!
Noi vogliamo essere un Partito separato, non per il piacere di
distinguerci dagli altri, ma perchè realmente abbiamo idee e
metodi diversi dagli altri partiti esistenti. E respingiamo
assolutamente la supposizione che noi esageriamo in un senso per
fare equilibrio alle esagerazioni opposte degli altri. Noi
sosteniamo quel che sosteniamo, perchè crediamo che sia la
verità, e non per altra ragione. Se ci accorgessimo che nel
nostro programma v’è una parte d’errore, noi ci affretteremmo
a sbarazzarcene; e quando anche gli altri modificassero le loro idee
in modo da incontrarsi con noi, allora... noi e gli altri
costituiremmo naturalmente un partito solo. Ora come ora, le idee
sono differenti, ed è giusto e necessario che vi siano
Partiti differenti.
Noi non vogliamo soltanto resistere alla possibile tirannia dei
socialisti al potere: noi vogliamo far sì che il popolo si
rifiuti a nominare o a riconoscere dei nuovi governanti, e pensi da
se stesso ad organizzarsi localmente e federalisticamente, senza
tener conto delle leggi e di decreti di un nuovo governo, e
resistendo colla forza contro ciò che gli si volesse imporre
per forza. E se, per mancanza di forza sufficiente, non potessimo
raggiungere subito questo nostro scopo, allora in attesa di divenir
più forti, eserciteremmo quell’azione, moderatrice o
eccitatrice secondo i casi, che esercitano i partiti di opposizione
quando non si lasciano corrompere ed assorbire. Il consiglio di
Merlino, di entrare nel partito socialista democratico per poter
prevenire la tirannia dei socialisti al potere equivale a quello di
divenire, per esempio monarchici o repubblicani per evitare che la
monarchia o la repubblica fossero troppo reazionarie. Quest’ultimo
consiglio sarebbe giustificato, se dato a chi è disposto ad
accomodarsi con la monarchia o la repubblica, come sarebbe
giustificato quello di Merlino se noi accettassimo il principio di
un governo socialista e ci dicessimo anarchici solo allo scopo di
prevenire che quel governo fosse troppo autoritario. Ma quello non
è il caso.
Quel che dice Merlino che molti anarchici si dicono oggi
genericamente socialisti e non già comunisti o collettivisti
non perchè vogliono un sistema misto quale lo desidera
Merlino, ma perchè, o sono incerti o non danno importanza
alla questione, o non vogliono farne una ragione di divisione,
è vero. Noi stessi siamo propriamente comunisti, alla sola
condizione (sottintesa, perchè senza di essa non potrebbe
esserci anarchia) che il comunismo sia volontario ed organizzato in
modo che ammetta la possibilità di vivere secondo altri
schemi...
g. Problemi di oggi e di domani. Governo socialista e forze armate25
...Io domandavo se, a senso suo, quel qualsiasi governo, o
parlamento ch’egli crede necessario al buon andamento della
società dovrà avere a sua disposizione una forza
armata.
E Merlino mi risponde che “l’uso della forza dovrà essere
riservato ai casi estremi e non dovrà essere ad arbitrio di
un Governo o di un Parlamento di adoperarla contro i Cittadini
ricalcitranti ad un dato provvedimento”.
Io non ci capisco nulla. Se il Governo non ha il diritto di
costringere i cittadini ad ubbidire alle leggi, allora non è
più un governo, nel senso comune della parola e noi non
avremmo più a domandarne l’abolizione: ci basterebbe di fare
a modo nostro quando quello che esso vuole non ci conviene.
Non vi deve essere una forza armata permanente, dice Merlino, ma i
cittadini stessi potranno esser chiamati in casi straordinari, come
già si usa in Inghilterra e negli Stati Uniti. Ma chiamati da
chi? Dal Governo? E saranno obbligati ad accorrere alla chiamata? In
Inghilterra e negli Stati Uniti vi è una polizia; e le
milizie che il governo chiama in casi straordinari servono, salvo
che non si ribellino, agli scopi del governo, tra cui è
sempre primo quello di tenere a freno ed all’occasione di massacrare
il popolo. E quello il regime politico che vagheggia Merlino?
Ma l’uso della forza va regolato e tolto all’arbitrio di
un’amministrazione centrale qualsiasi, dice Merlino. Che si tratti
dunque di uno Statuto che dovrà fissare i diritti rispettivi
del Cittadino e quelli del Governo e che sarà rispettato...
come lo sono sempre stati gli Statuti!
Noi vogliamo che tutti i cittadini abbiano diritto uguale di essere
armati e di correre alle armi quando se ne presenti la
necessità, senza che nessuno possa costringerli a marciare o
a non marciare. Vogliamo che la difesa sociale, interesse di tutti,
sia affidata a tutti, senza che nessuno faccia il mestiere di
difensore dell’ordine pubblico e viva di esso.
Ma, dice Merlino, se io sono attaccato da uno più forte di
me, come farò a difendermi? Accorrerà la gente ad
aiutarmi? E accorrendo, come farà a giudicare da che parte
sta la ragione? E siccome probabilmente si produrranno opinioni
diverse, si avrà dunque per ogni disputa una guerra civile?
E i carabinieri, rispondo io, sono sempre presenti per difendere chi
è attaccato? Ed è sicuro ch’essi non si mettano mai
dalla parte di chi ha torto? E il giudizio dei magistrati offre
forse più garanzie di giustizia di quello della folla? E la
tirannia è forse preferibile alla guerra civile? Merlino
ragiona come fanno i conservatori. Egli mette innanzi tutti
gl’inconvenienti, tutti i conflitti possibili nella vita sociale, e
se ne serve per dire impossibili ed assurdi gl’ideali nostri –
dimenticando però di dirci come a quegli inconvenienti ed a
quei conflitti si ripara nel sistema suo.
Merlino teme la guerra civile; ma che cosa è un regime
autoritario se non uno stato di guerra, in cui una delle parti
è stata vinta e si trova soggetta? Merlino dirà che
egli è libertario e non già autoritario; ma se
qualcuno, individuo o collettività, minoranza o maggioranza
può imporre agli altri la propria volontà, la
libertà è una menzogna, o non esiste se non per chi
dispone della forza.
Io non ho mai detto che l’Anarchia, specie nei primi mi tempi
sarà l’Arcadia o l’Eldorado. Vi saranno purtroppo guai e
difficoltà inerenti all’imperfezione ed al disaccordo degli
uomini; ma se v’è probabilità che i mali siano minori
che in qualsiasi regime autoritario, ciò mi basta per essere
anarchico.
Il benessere e la libertà di tutti, l’abolizione della
tirannia e della schiavitù non si possono avere se non quando
gli uomini si sforzino di armonizzare i loro interessi e si pieghino
volontariamente alle necessità sociali. Ed io credo che,
abolita la proprietà individuale ed il governo, distrutta
cioè la possibilità di sfruttare ed opprimere gli
altri sotto l’egida delle leggi e della forza sociale, gli uomini
avranno interesse, e quindi volontà, di accordarsi e
risolvere i possibili conflitti pacificamente, senza ricorrere alla
forza. Se ciò non fosse, evidentemente l’anarchia sarebbe
impossibile; ma sarebbero anche impossibili la pace e la
libertà.
Merlino non è persuaso quando gli dico che contro il volere
degli uomini l’anarchia non si fa. Ma sa egli concepire un regime
che si regga senza e contro la volontà degli uomini, o almeno
di coloro tra gli uomini che pensano e vogliono? E conosce egli un
regime che valga più di quel che valgono gli uomini che lo
accettano? Tutto dipende dalla volontà degli uomini.
Cerchiamo dunque di educarli a volere la libertà e la
giustizia per tutti, e a cacciare dal loro spirito il pregiudizio
della necessità del gendarme.
Io dissi che non sono profeta, e Merlino trova che io rispondo come
fanno i socialisti democratici quando si tenta di dimostrar loro
gl’inconvenienti del Collettivismo.
Il caso non è eguale.
I socialisti democratici vogliono che il popolo li mandi al potere,
a far le leggi, ad organizzare la nuova società, e quindi
dovrebbero almeno dirci che uso farebbero di questo potere, e a
quali leggi ci sottoporrebbero. Noi anarchici invece vogliamo che il
popolo conquisti la libertà e... faccia quello che vuole...
Ma insomma, le idee mie possono essere sbagliate, e, come ho detto,
non sarebbe gran male, perchè io non voglio imporle a
nessuno. Merlino però, il quale si lamenta che noi non
vogliamo fare i profeti e non definiamo abbastanza le nostre idee
sull’avvenire, dovrebbe dirci lui che cosa è che vuole.
Non crede nell’“amministrazione” dei socialisti democratici, non
nelle associazioni degli anarchici, e tampoco vuole egli demolire il
presente senza preoccuparsi dell’avvenire. Che cosa vuole egli
dunque?
Criticare le idee degli altri è ottima cosa, ma non basta.
Noi sappiamo che tutti i sistemi hanno i loro lati deboli: il nostro
come quelli degli altri. Ma per rinunziare al nostro bisognerebbe
che ce se ne proponesse uno che abbia meno inconvenienti.
Tutto è relativo. Noi siamo anarchici perchè
l’Anarchia, nel senso che noi diamo alla parola, ci pare la migliore
soluzione del problema sociale. Se Merlino conosce qualche cosa di
meglio, ce lo insegni subito.
3. SOCIALISMO LEGALITARIO E SOCIALISMO ANARCHICO. L’INTERVISTA DI
CIANCABILLA E LA POLEMICA CON L’AVANTI!
a. La situazione del movimento e le sue prospettive26
[Sulla situazione di crisi del movimento in Italia Malatesta, allora
rientrato clandestinamente dall’Inghilterra e stabilitosi ad Ancona,
attribuiva un’influenza solo indiretta alle leggi eccezionali.
Secondo Malatesta la crisi era preesistente ed interna al
movimento.]
– E quali erano queste cause interne di debolezza?
– Principalmente eran questioni teoriche, non ancora ben delucidate,
le quali avevan fatto sì che ci credevano d’accordo, mentre
spesso sotto una stessa fraseologia si nascondevano idee
assolutamente diverse.
Eranvi poi in mezzo a noi degli elementi dissolventi che di
anarchici non avevano che il nome. Fu inoltre gravissimo errore
quello di esserci allontanati dal movimento operaio e di aver
cessato così a poco a poco dall’essere un partito vivente e
popolare, per ridurci invece in un manipolo di dottrinari.
Si può aggiungere che in sui primordi del movimento
anarchico, forse per l’estrema giovinezza ed inesperienza dei suoi
iniziatori, si aveva l’illusione di poter arrivare alla rivoluzione
a breve scadenza; e per conseguenza si trascurava ogni lavoro di
organizzazione che richiedeva opera lunga e paziente, pur
riconoscendone teoricamente l’utilità. E accadde questo
fenomeno: che noi, i quali eravamo sempre stati, sin dalle origini
in lotta con il partito marxista, eravamo per molti lati più
marxisti di quelli che si professavano tali. Così, ad
esempio, accettavamo del marxismo l’inerte fatalismo, la legge del
salario messa in voga da Lassalle, ed altri postulati. Per questo
eravamo persuasi della impossibilità ed inutilità di
qualsiasi riforma e miglioramento delle condizioni del proletariato
in un regime capitalistico. Questo fece sì che non solo noi
non ci occupassimo delle piccole rivendicazioni e lotte operaie che
tutti i giorni fatalmente si combattono in questa "struggle for
life" sociale, ma si ottenesse invece questo effetto negativo: che
appunto nei paesi più avanzati, dove il proletariato aveva
maggior coscienza di organizzazione, e dove, quindi, esso poteva
resistere, imporsi e strappare qualche brandello di concessione,
là gli operai con più difficoltà, e quasi con
diffidenza, ascoltavano noi che predicavamo loro, in modo assoluto,
l’impossibilità di ogni miglioramento nel regime
capitalistico attuale. Questa spiegazione è, secondo me,
più vera e più logica di quella addotta dall’Avanti!
per dar la ragione del fatto che molto spesso è nei paesi
dove il proletariato aveva maggiore coscienza che l’idea anarchica
fece minor progresso perchè gli operai abbandonavano
l’anarchia in forza della predicazione socialista.
– Ma allora tendereste a diventare un partito riformista?
– No, perchè per noi le riforme, se e dove si possono
ottenere non debbono essere che un avviamento alla rivoluzione; e
perciò vogliamo che il popolo le conquisti da se stesso,
senta che sono dovute alla sua energia, e in lui, quindi, si
sviluppi la volontà di pretendere sempre di più. Siamo
un partito rivoluzionario perchè miriamo alla rivoluzione e
perchè riteniamo che le riforme possibili nel regime
capitalistico non possono essere che anodine, spesso semplicemente
temporanee, e che il proletariato non potrà raggiungere la
sua emancipazione senza la trasformazione completa degli ordinamenti
sociali.
Per sistema, noi patrociniamo sempre quelle riforme che più
delle altre, rendono evidente il conflitto tra proprietari e
proletari, tra governanti e governati, e che quindi pretendono
preparare un sentimento cosciente della ribellione, che
esploderà nella rivoluzione definitiva finale.
D’altronde per noi l’essenziale è di stare col popolo, di
mostrargli che noi intendiamo lottare e soffrire con lui, di
sviluppare in lui la coscienza della forza, volontà e potenza
che solo possono venirgli dall’organizzazione. Poi non
mancherà l’occasione di far di più; che veramente in
Italia non sono le occasioni di rivoluzione che sono mancate, ma la
forza nei partiti popolari di approfittarne. Ora noi miriamo appunto
ad acquistare questa forza. Il resto verrà dopo.
– Avete intenzione di dar alla luce nessuno schema di programma?
– Nelle linee generali il programma socialista-anarchico è
abbastanza noto, e noi lo esponiamo e lo difendiamo continuamente
nelle nostre pubblicazioni, nei nostri discorsi e nella propaganda
individuale, che è per ora la parte principale della nostra
attività. Del resto è in discussione fra le sezioni
del nostro partito una formula di programma, diremo così
ufficiale, che vedrà la luce quanto prima, e che, pur
restando fisso nei suoi cardini fondamentali, sarà nella
parte tattica sempre aperto alle modificazioni che il partito, a
seconda delle occasioni, crederà di apportarvi.
– Insomma sembrerebbe che voi pure tendete a seguire in questo la
falsariga del partito socialista…
– No. Il nostro partito si differenzia dal partito
socialista-legalitario oltre che per i suoi principii, anche nella
sua struttura. E ne differisce perchè non è un partito
autoritario, e non è sottoposto a qualsiasi direzione.
Il solo vincolo che unisce noi tutti socialisti-anarchici è
quello di volere le stesse cose, di volerle raggiungere con gli
stessi mezzi generali, e di voler stare uniti per cooperare insieme
al raggiungimento del fine. I nostri organi federali, cioè le
varie Commissioni di corrispondenza, non sono che il mezzo per
mantenere con più facilità le relazioni e gli accordi
fra i compagni, per poterli più rapidamente informare delle
proposte che sorgono dai gruppi, del parere che su di esse danno i
compagni tutti, insieme col concorso che essi vogliono e possono
dare per la loro effettuazione. Del resto tutti i gruppi han piena
autonomia, limitata solo naturalmente dall’impegno di non mettersi
in contraddizione coi principi e colla tattica generale del partito,
violando i quali, i gruppi o i compagni dissidenti verrebbero a
mettersi volontariamente fuori del partito
– Dunque ti sembra che il partito anarchico si sia finalmente messo
sulla buona strada, e progredisca a grandi passi?
– Oh, questo progredire a grandi passi veramente non si può
dire ancora. Ma, come tu dici, siamo sulla buona strada. Prima di
tutto si può affermare con sicurezza che l’intesa è
adesso completa. Molti equivoci sono stati dissipati, molte
questioni che in fondo eran di parole sono state ridotte ai loro
veri termini, e laddove vi erano elementi incompatibili con noi essi
sono stati eliminati. Nei paesi dove il partito anarchico aveva
vecchie tradizioni si sono ricostituite sezioni che lavorano
attivamente ad estendere la propaganda, e ogni giorno riescono a
penetrare in qualche nuovo centro vergine alla nostra azione,
incominciano a partecipare alla vita operaia e ad avere qualche
influenza in mezzo alle organizzazioni economiche. Oltre a parecchie
pubblicazioni di propaganda più o meno periodiche, abbiamo un
giornale, "L’Agitazione", che ha ormai la vita assicurata.
Certamente vi è ancora molto, immensamente da fare prima di
essere un partito che faccia sentire validamente la sua influenza
nella vita pubblica; ma già siamo in tale condizione da poter
guardare con fiducia l’avvenire, ed essere sicuri che qualsiasi
uragano reazionario ci piombi addosso, non riuscirà nè
a distruggere nè ad arrestare l’opera nostra.
– Perchè avete creduto di dover aggiungere alla parola
anarchici l’aggiunta, che quasi può parere un’attenuante, di
socialisti?
– Non è punto un’aggiunta, e tanto meno un’attenuante. Fin
dal 1871, quando incominciammo la nostra propaganda in Italia, noi
siamo sempre stati e ci siam sempre detti socialisti-anarchici.
Nell’uso del linguaggio ci è accaduto di chiamarci
semplicemente anarchici, poichè intendevasi implicitamente
che gli anarchici fossero socialisti, come altra volta quando i soli
socialisti eravamo noi, ci accadeva molto spesso di chiamarci
semplicemente socialisti, poichè s’intendeva (e allora in
Italia lo intendevano tutti) che i socialisti fossero anche
anarchici. Noi siamo stati sempre d’opinione che socialismo ed
anarchia sono due parole che in fondo hanno lo stesso significato;
poichè non è possibile, secondo noi, l’emancipazione
economica (abolizione della proprietà) senza l’emancipazione
politica (abolizione del governo) e viceversa.
Oggi più spesso ripetiamo insieme i due aggettivi non
perchè si siano modificate le nostre idee, ma perchè
oggi son diventati più numerosi coloro i quali credono di
poter arrivare al socialismo per mezzo di un governo; come d’altra
parte vi sono individui i quali si dicono anarchici senza essere
socialisti, il che secondo noi, equivale a non essere nemmeno
anarchici. Però bisogna intendere che per molti i quali si
dicono anarchici respingendo l’appellativo di socialisti, non
è che una questione di parole, volendo anche essi assicurati
a tutti i mezzi di produzione.
I veri anarchici non socialisti, se anarchici si possono chiamare,
non sono che alcuni borghesi i quali per voglia di attirare su di
loro l’attenzione pubblica e di parere originali, o per ragioni
teoriche completamente diverse da quelle che inspirano i veri
anarchici, han preso qualche volta quel nome.
– Credi possibile, almeno momentaneamente, un accordo tra il partito
anarchico e il partito socialista?
– Io credo che coi socialisti legalitari noi abbiamo un immenso
terreno comune nella lotta contro il governo e contro i capitalisti,
e credo che potremmo e dovremmo trovarci d’accordo in tutte le
agitazioni economiche e proletarie quali, ad esempio, quella odierna
contro il domicilio coatto, gli scioperi, le leghe di resistenza,
ecc. Disgraziatamente i socialisti legalitari, col loro spirito
autoritario, hanno la tendenza a voler monopolizzare il movimento
operaio, e a volgere tutte le agitazioni verso uno scopo elettorale,
dimodochè temo che possano sorgere conflitti fra i due
partiti, come già ne sorsero, e per gli stessi motivi, nei
Congressi operai internazionali, nei quali i socialisti intendevano
bensì di ammettere tutti gli operai senza distinzione di
opinione, ma volevano poi escludere gli operai di opinioni
anarchiche. Io mi auguro che quando noi avremo un’influenza ed una
forza reale nel movimento operaio, i socialisti avranno il
sentimento della propria responsabilità, e non vorranno farsi
traditori della causa dei lavoratori, fomentando dissidi, quando di
questi dissidi non vi è ragione reale…
b. L’abbandono dei pregiudizi marxisti27
[Dopo aver accennato alle illazioni del "Resto del Carlino" che
avrebbe scorto nell’intervista da lui concessa a Ciancabilla e nelle
sue affermazioni un avvicinamento ai socialisti legalitari,
Malatesta sostiene che] Maggiore considerazione, perchè
socialista e giustamente autorevole tra i socialisti, merita
l’"Avanti!" il quale trova in ciò che io dissi al
Ciancabilla, un segno evidente di “un’evoluzione dell’anarchismo
verso il socialismo marxista”.
È vecchia abitudine dei socialisti democratici (quando
vogliono essere gentili con noi e non ripetono con Liebknecht che
noi siamo “i beniamini della borghesia e dei governi di tutti i
paesi”), il dire che noi evolviamo verso di loro…
Intendiamoci: per me non vi è nulla di meno che onorevole nel
fatto di evolvere, quando l’evoluzione è frutto di onesta
convinzione. Bisogna però che il cambiamento di opinione vi
sia stato davvero, e sia tale quale si annunzia.
Ora, gli anarchici, ed io con loro, hanno certamente evoluto, ed
è verosimile che continueranno ad evolvere, fino a quando
resteranno un partito vivo capace di profittare dei dettami della
scienza e dell’esperienza e di adattarsi alle variabili contingenze
della vita. Ma io nego assolutamente che noi abbiamo evoluto o
stiamo evolvendo verso il “socialismo marxista”.
E credo, al contrario, che uno dei caratteri più notevoli e
più generali della nostra evoluzione sia l’esserci sbarazzati
dei pregiudizi marxisti, che al principio del movimento avevamo
troppo leggermente accettati e che sono stati la causa dei nostri
più gravi errori.
L’Avanti! è probabilmente vittima di una illusione.
Se esso crede realmente ciò che a più riprese ha detto
sull’anarchismo, che cioè l’anarchismo è l’opposto del
socialismo, e se continua a giudicare di noi dalle falsificazioni e
dalle calunnie con cui, seguendo l’esempio della condotta di Marx
verso Bakunin, si sono disonorati i marxisti tedeschi, allora
è certo che, ogni qualvolta degnerà di leggere uno
scritto nostro o di ascoltare un nostro discorso, avrà la
grata sorpresa di scoprire una “evoluzione” dell’anarchismo verso il
socialismo, che per l’Avanti! pare sia quasi una cosa stessa col
marxismo.
Ma chiunque ha una conoscenza anche superficiale delle idee e della
storia nostra, sa che l’anarchismo fin dal suo nascere fu niente
altro che la conseguenza, l’integrazione dell’idea socialista, e
quindi non poteva e non può evolvere verso il socialismo
cioè verso sè stesso.
Gli errori stessi, gli spropositi, i delitti, detti e commessi da
anarchici, servono a provare la natura sostanzialmente socialista
dell’anarchismo, così come la patologia di un organismo serve
a meglio comprendere i suoi caratteri e le sue funzioni
fisiologiche.
Che cosa v’era in quello che io dissi al Ciancabilla, che potesse
giustificare la conclusione dell’Avanti!?
Noi abbiamo certamente con i socialisti democratici molte idee
comuni, ed abbiamo soprattutto comune il sentimento che ci anima e
sprona a combattere per l’avvenimento di una società di
liberi ed uguali… quantunque ci pare che il loro sistema porti poi
logicamente alla negazione della libertà e dell’eguaglianza.
Noi mettiamo a base fondamentale del nostro programma l’abolizione
della proprietà privata e l’organizzazione della produzione a
vantaggio di tutti e fatta col concorso di tutti – il che è,
o dovrebbe essere, il caposaldo di ogni specie di socialismo. E noi
pensiamo che, essendo i lavoratori i maggiori sofferenti della
società attuale ed i più direttamente interessati a
mutarla, e trattandosi di instaurare una società in cui tutti
siano lavoratori, bisogna che la nuova rivoluzione sia
principalmente opera della classe lavoratrice organizzata e
cosciente dell’antagonismo irreduttibile fra gl’interessi suoi e
quelli della classe borghese – concetto che è merito massimo
di Marx l’avere formulato, propagato e fatto quasi molla motrice di
tutto il socialismo moderno.
Ma in tutto questo l’Avanti! mal potrebbe parlare di evoluzione,
poichè si tratta di propositi e convinzioni che fanno parte
integrante dell’anarchismo, e che gli anarchici propagarono sempre,
e in Italia già molti anni prima che vi esistessero i
marxisti.
Per scoprire dunque se davvero noi abbiamo evoluto verso il
socialismo democratico, che l’Avanti! chiama, molto discutibilmente,
socialismo marxista, bisogna ricercare quali sono le differenze che
ci dividono e ci hanno sempre divisi dai socialisti democratici.
Non è il caso di discutere le teorie economiche e storiche di
Marx, le quali a me (che del resto ho competenza scarsissima)
sembrano in parte erronee ed in parte consistenti solo
nell’esprimere in termini astrusi e far sembrare strane e recondite
delle verità che espresse in linguaggio comune sono chiare,
evidenti e note a tutti. I socialisti democratici hanno cessato da
tempo di tenerne conto nel loro programma pratico, e, se non erro,
stanno per rinunziarvi anche nel campo della scienza.
L’importante per noi, in quanto uomini di partito, è quello
che i partiti fanno e vogliono fare – e non già le idee
teoriche dalle quali cercano, dopo il fatto, di spiegare e
giustificare la loro azione.
Ora dunque, noi siamo in disaccordo ed in lotta con i socialisti
democratici, perchè essi vogliono trasformare la
società presente per mezzo di leggi, e conservare anche nella
società futura il Governo, lo Stato, che diverrà
secondo loro organo degl’interessi di tutti; mentre noi vogliamo che
la società si trasformi per l’opera diretta del popolo e
vogliamo completamente distrutto il meccanismo dello Stato, che
secondo noi resterà sempre un organo di oppressione e di
sfruttamento, e tenderà, per la sua stessa natura, alla
costituzione di una società basata sul privilegio e
sull’antagonismo della classe.
Possiamo aver torto o ragione, ma dove vede l’Avanti! il segno che
noi ci andiamo accostando alla sua concezione autoritaria del
socialismo?
Il partito dell’Avanti!, essendo un partito autoritario, mira
logicamente alla “conquista dei pubblici poteri”.
Abbiamo noi forse cessato di dirigere i nostri sforzi allo scopo di
rendere inutili ed abolire i pubblici poteri, cioè il
governo? O forse abbiamo incominciato a prestar fede a quella
burletta dell’impossessarsi del governo per meglio distruggerlo, che
van ripetendo certi socialisti troppo ingenui… o troppo furbi?
Ben al contrario. A chi penetra a fondo nello studio
dell’anarchismo, sarà facile accorgersi come nei primi tempi
del movimento un forte residuo di giacobinismo e di autoritarismo
sopravviveva in noi, residuo che non oso dire sia assolutamente
distrutto, ma che certamente si è andato e si va sempre
attenuando. Altra volta era opinione comune in mezzo a noi che la
rivoluzione doveva essere necessariamente autoritaria, e non era
raro chi con strana contraddizione pensava si potesse “fare
l’Anarchia per forza”; mentre oggi è convinzione generale
degli anarchici che l’anarchia non può venire
dall’autorità, ma deve sorgere dalla lotta costante contro
ogni imposizione, tanto in tempo di lenta evoluzione, quanto in
periodi tempestosamente rivoluzionari, e che nostro scopo deve
essere il fare in modo che la rivoluzione sia essa stessa e fin dal
primo momento un’attuazione delle idee e dei metodi anarchici.
Il Partito dell’Avanti! è un partito parlamentare sia
riguardo agli scopi futuri, sia riguardo alla tattica presente; e
noi siamo invece avversari del parlamentarismo e come forma di
costituzione sociale e come mezzo attuale di lotta, al punto da
considerare socialismo anarchico e socialismo antiparlamentare come
sinonimi, o quasi.
Ha forse l’Avanti! osservato che sia diminuita in noi
quell’avversione contro il parlamentarismo che è stata sempre
una caratteristica del nostro partito? Abbiamo forse cessato dal
consacrare buona parte delle nostre forze a scalzare dall’animo dei
lavoratori la nuova fede nei parlamenti e nei mezzi parlamentari,
che i socialisti democratici cercano di impiantarvi? È
cessato forse l’astensionismo di essere quasi il segno materiale al
quale riconosciamo i nostri compagni?
Ben al contrario. Al principio del movimento parecchi tra noi
ammettevano ancora la partecipazione alle elezioni amministrative, e
più tardi in mezzo a noi sorse l’iniziativa della candidatura
Cipriani e fu da noi appoggiata. Oggi noi siamo tutti d’accordo nel
considerare le elezioni amministrative tanto perniciose quanto
quelle politiche e forse di più, e respingiamo, a scanso di
equivoci, anche le candidature protesta.
Dov’è dunque l’evoluzione verso il socialismo marxista? (…)
c. Gli "sbandamenti" giustificati dell’Avanti!28
L’Avanti! del 22 corrente cortesemente risponde all’articolo da me
pubblicato nell’Agitazione del 14 sull’evoluzione dell’anarchismo;
ma, secondo me, risponde male e fuori della questione.
Esso vuol dimostrare, in contraddittorio con me, che l’anarchismo
evolve verso il socialismo democratico; ed invece si mette a
sostenere che, in omaggio alla verità ed alla logica,
quell’evoluzione dovrebbe avvenire ed avverrà.
Confondendo in tal modo ciò che è con ciò che
si crede che dovrebbe essere e che sarà, ognuno, il quale
professa onestamente un’idea e la ritiene conforme alla logica ed
alla verità ed ha fede (cioè forte speranza) nel suo
trionfo, potrebbe sostenere che tutti gli altri evolvono verso di
lui; il che poi non cambierebbe le tendenze reali dei vari partiti
ed i rapporti in cui si trovano l’uno verso l’altro.
Io potrei limitarmi a constatare, il modo come l’Avanti! ha schivata
la questione e non aggiunger altro, poichè non si trattava
affatto di discutere i meriti relativi dei programmi socialista
democratico e socialista anarchico. Ma sarà bene seguire
l’Avanti! sul suo terreno e vedere se davvero la verità sta
dalla parte sua e la logica deve menar gli anarchici dove esso dice.
L’Avanti! mi risponde su tre questioni: quella del modo,
radicalmente diverso dal nostro, come i socialisti democratici
intendono attuare la trasformazione sociale; quella dello Stato
nella società futura; e quella delle elezioni.
Sulla prima questione io avevo detto che i socialisti democratici
vogliono trasformare la società presente per mezzo di leggi,
e l’Avanti! risponde che non è vero che essi vogliono
servirsi soltanto di leggi: io veramente il soltanto non ce l’avevo
messo; ma ce l’avessi anche messo, non me ne pentirei, poichè
è noto che per i socialisti democratici ogni propaganda, ogni
agitazione, ogni organizzazione ha per scopo finale la conquista di
poteri pubblici, vale a dire il potere di far le leggi. E la Critica
sociale, di cui l’Avanti! non contesterà l’autorevolezza, nel
suo numero del 16 maggio, lamentando che “la lotta elettorale, che
dovrebbe essere l’indice dell’azione e della forza del partito,
è diventata quasi essa sola quest’azione e questa forza”,
giunse a dire: “astrattamente, metafisicamente, si può
pensare che basti. Il proletariato poco importa che sappia, che
capisca, che voglia, che agisca esso stesso: basta che intuisca e
che voti. Così a poco a poco diventerà maggioranza e
altri per lui trasformerà lo Stato a suo vantaggio”. E se la
Critica trovava che questa verità astratta non è poi
vera in concreto, era solo perchè il governo può
mozzare nel pugno dei socialisti l’arma del voto ed allora il
partito non sarebbe in grado di opporre alcuna resistenza, “neppure
lo sciopero delle arti maggiori nei centri maggiori”.
L’Avanti! può dire, se così gli piace, che questo “non
è vero” e che io conosco male e giudico peggio il programma
dei socialisti democratici; ma sta il fatto che gli anarchici
convengono tutti, in questa questione, nella stessa opinione che ho
espresso io e credo di essere nel vero – dunque, niente evoluzione
nel senso che dice l’Avanti!.
Sulla questione dello Stato, avendo io affermato che lo Stato
sarà sempre organo di sfruttamento, l’Avanti! mi accusa di
essere caduto in “un equivoco molto grosso” perchè... “la
letteratura socialista (democratica) scientifica e popolare è
tutta informata al concetto che, soppressi gli antagonismi di
classe, scompaiono le funzioni oppressive dello Stato”. Questo
è infatti una cosa nota, ed io avevo già detto, nello
stesso brano riportato dall’Avanti!, che secondo i socialisti
democratici lo Stato diverrà, nella società futura
organo degli interessi di tutti; ma è altrettanto noto che
gli anarchici pensano (ed è per questo che sono anarchici)
che lo Stato non solo “è strumento di oppressione in mano
della classe dominante” ma costituisce esso stesso, col suo
personale, una classe privilegiata con i suoi interessi, le sue
passioni, i suoi pregiudizi particolari, e che una società in
cui si fosse abolita la proprietà privata e conservato lo
Stato sarebbe sempre una società basata sull’antagonismo
degl’interessi, e presto vedrebbe risorgere nel suo seno, per opera
e con la protezione dello Stato, il privilegio economico con tutte
le sue conseguenze.
Non è il caso di discutere a fondo questa questione, che
l’Agitazione ha già trattata e su cui dovrà per certo
ritornare continuamente, trattandosi della base stessa del programma
anarchico. Importa solo notare, per gli scopi della presente
polemica, che se mai gli anarchici si convincessero che lo Stato
può diventare un’istituzione benefica ed esistere utilmente
in una società di liberi ed eguali, allora non bisognerebbe
già dire che l’anarchismo ha evoluto verso il socialismo
democratico, ma semplicemente che gli anarchici si sono convinti che
avevano torto e sono diventati socialisti democratici. E questo non
è.
Sulla questione infine dell’astensione elettorale, l’Avanti! ragiona
in modo ancora più singolare.
Io avevo detto: “Noi cerchiamo nel movimento operaio la base della
nostra forza e la garanzia che la prossima rivoluzione riesca
davvero socialista ed anarchica; e ci rallegriamo d’ogni
miglioramento che gli operai riescono a conquistare, perchè
esso aumenta nella classe lavoratrice la coscienza della sua forza,
eccita nuovi bisogni e nuove pretese, ed avvicina il punto limite,
dove i borghesi non possono più cedere se non rinunziando ai
loro privilegi, e quindi il conflitto violento diventa fatale”.
L’Avanti! cita questo brano, ma sopprimendo le parole ch’io ho messo
in corsivo, e ne cava delle conclusioni che, se io mi fossi fermato
là dove l’Avanti! arresta la citazione, sarebbero
perfettamente giuste.
Voi propugnate, dice l’Avanti!, la resistenza operaia nel campo
economico per migliorare le condizioni degli operai; ma siccome vi
sono miglioramenti impossibili ad ottenersi mediante la semplice
resistenza ed ancor meno si può con la resistenza abolire il
capitalismo, la logica vi porterà necessariamente alla
resistenza politica… che per l’Avanti! è sinonimo di lotta
elettorale.
L’Avanti! non ha pensato (quantunque il passaggio da esso soppresso
nella citazione delle mie parole lo faceva chiaramente intendere)
che la logica potrebbe portarci, e ci porta infatti, alla
rivoluzione.
Noi crediamo, per lo meno quanto l’Avanti!, che l’organizzazione
corporativa, la resistenza economica e tutto quanto si può
fare nel regime attuale, non può risolvere la questione
sociale e che, a parte gli effetti morali, appena serve ad
assicurare ad una frazione del proletariato dei miglioramenti che
bisogna poi difendere con una lotta continua contro le insidie
sempre rinascenti dei padroni e siamo convinti che la libertà
ed il benessere assicurati a tutti non si avranno se non quando i
lavoratori si saranno impossessati dei mezzi di produzione ed
avranno avocato a loro l’organizzazione della vita sociale, e che
per far questo bisogna sbarazzarsi del potere che sta a guardia del
capitalismo e si arroga il diritto di sovranità su tutto e su
tutti. Ma crediamo che la lotta elettorale non vale a debellare il
potere, e che se anche lo potesse, non farebbe che passarlo in mano
di altri senza nessun vantaggio sostanziale per il popolo; e
perciò ci sforziamo di allontanare i lavoratori da un mezzo
illusorio e dannoso, ed affrettiamo coi voti e coll’opera il giorno
in cui, cresciuta a sufficienza la coscienza e la forza dei
lavoratori, questi affermeranno coi fatti la ferma decisione di non
volere più essere nè sfruttati nè comandati, e
prenderan possesso, direttamente e non per delegati, della ricchezza
e del potere sociale. Chè se poi questa determinazione dei
lavoratori comincerà a manifestarsi mediante il rifiuto del
lavoro o il rifiuto del servizio militare o il rifiuto di pagare i
fitti ed i dazi, o la confisca popolare dei generi di consumo, o le
barricate e le bande armate, è questione che risolveranno le
circostanze e che, comunque risoluta, menerà sempre agli
stessi risultati: il conflitto violento tra il vecchio mondo che si
ostina a vivere ed il nuovo mondo che vuol trionfare sulle rovine di
quello.
L’Avanti! a quel che pare ci ha completamente fraintesi: esso ha
creduto che noi abbiam cessato di essere rivoluzionari.
Ed invece noi crediamo più che mai nella necessità
della rivoluzione; e non già nel senso “scientifico” della
parola, nel qual senso spesso si chiamano rivoluzionari anche i
legalitari, ma nel senso “volgare” di conflitto violento, in cui il
popolo si sbarazza colla forza della forza che l’opprime, ed attua i
suoi desideri fuori e contro tutta la legalità.
La nostra evoluzione si riduce a questo: che avendo visto che coi
vecchi metodi la rivoluzione non si faceva nè si avvicinava,
abbiamo abbracciato metodi che ci sembrano più atti a
prepararla ed a farla.
I socialisti democratici credono che siamo in errore e quindi fanno
bene a cercare di convertirci, come noi cerchiamo di convertir loro;
ma non diano per fatto quello che è un semplice desiderio,
non vendano la pelle dell’orso prima che l’orso sia in loro potere.
La Giustizia di Reggio Emilia in uno dei suoi ultimi numeri,
riproducendo un passaggio dell’Agitazione, nel quale s’insiste sulla
necessità di preparare e rendere possibile la rivoluzione
mediante l’organizzazione operaia e la piccola lotta quotidiana, si
compiace che noi abbiamo finalmente riconosciuto quello che i
socialisti democratici hanno sempre predicato e praticato, e per cui
noi li abbiamo aspramente attaccati e vituperati.
Ciò non è esatto.
Le ragioni del nostro dissenso dai socialisti democratici sono state
sempre quelle stesse di oggi. Se li abbiamo combattuti con acrimonia
non è stato già perchè essi si occupavano del
movimento operaio più di quello che facessimo noi, ma
perchè essi cercavano e cercano di volgere quel movimento a
scopi che noi crediamo dannosi ai veri interessi del socialismo. Che
anzi fra le cause per cui gli anarchici hanno per lungo tempo
guardato con sospetto le organizzazioni operaie non decisamente
rivoluzionarie, ed oggi ancora alcuni dei nostri non mettono nel
propugnarle tutto il necessario fervore, vi è, non ultima,
quella che i propagandisti del socialismo democratico hanno fatto e
fanno tutto il possibile per discreditarle nell’animo nostro
servendosene per farsi nominare deputati.
Ed io mi sovvengo di essere stato, nel 1890 o 1891, trattato male
dalla Giustizia (non dico ch’io l’abbia trattata meglio)
perchè Prampolini voleva che la manifestazione del Primo
Maggio si facesse invece la prima Domenica del mese, e gli amici di
Reggio pubblicarono uno scritto mio per protestare contro una
proposta che levava alla manifestazione il suo significato e la sua
importanza. Ciò che prova che io ero in disaccordo colla
Giustizia non già perchè quel giornale patrocinava la
resistenza operaia più che non facessero i miei amici, ma
perchè esso tendeva, almeno a giudizio mio, ad evirare il
movimento operaio e l’ostacolava precisamente quando stava per
prendere una via, poco atta a favorire candidature al parlamento, ma
ottima per abituare i lavoratori ad agire di concerto e dar loro
coscienza della propria forza.
Del resto, se gli anarchici hanno a volte ecceduto negli attacchi
contro i socialisti democratici, questi ve li hanno gravemente
provocati, poichè invece di combatterci per quel che siamo,
hanno cercato sempre di presentarci sotto una falsa luce. E proprio
La Giustizia si ostinò una volta nel sostenere che gli
anarchici non sono socialisti: cosa che procurò molto piacere
a Napoleone Colajanni, ma non fece certamente onore allo spirito di
verità, che pur d’ordinario distingue, mi compiaccio nel
riconoscerlo, l’organo socialista di Reggio Emilia.
4. ELEZIONI E VOTAZIONI
a. “Anarchici” elezionisti29
Poichè non vi è e non vi può essere nessuna
autorità che dia o tolga il diritto di dirsi anarchico, siamo
ben costretti di tanto in tanto di rilevare l’apparizione di qualche
convertito al parlamentarismo che continua, almeno per un certo
tempo, a dichiararsi anarchico.
Non troviamo niente di male, niente di disonorante nel cambiare di
opinione, quando il cambiamento è causato da nuove sincere
convinzioni, e non da motivi d’interesse personale; vorremmo
però che uno dicesse francamente quello che è
diventato e quello che ha cessato di essere per evitare equivoci e
discussioni inutili. Ma forse questo non è possibile,
perchè chi cambia d’idee, generalmente al principio non sa
egli stesso dove andrà a parare.
Del resto quel che avviene a noi, avviene, ed in proporzioni assai
maggiori, in tutti i partiti ed in tutti i movimenti politici e
sociali. I socialisti, per esempio, han dovuto soffrire che si
dicessero socialisti sfruttatori e politicanti di tutte le specie;
ed i repubblicani sono pur costretti oggi a sopportare che certi
figuri venduti al partito dominante usurpino niente meno che il nome
di mazziniani.
Fortunatamente l’equivoco non può durare a lungo. Ben presto
la logica delle idee e la necessità dell’azione inducono i
pretesi anarchici a rinunziare spontaneamente al nome e a mettersi
nel posto che loro si compete. Gli anarchici elezionisti che sono
spuntati fuori in varie occasioni hanno tutti più o meno
rapidamente abbandonato l’anarchismo, così come gli anarchici
dittatoriali o bolscevizzanti diventano presto bolscevichi sul
serio, e si mettono al servizio del governo russo e dei suoi
delegati.
Il fenomeno si è riprodotto in Francia in occasione delle
elezioni di questi giorni. Il pretesto è l’amnistia.
“Migliaia di vittime gemono nelle prigioni e nei bagni penali; un
governo di sinistra darebbe l’amnistia; è dovere di tutti i
rivoluzionari, di tutti gli uomini di cuore il fare quello che si
può per fare uscire dalle urne i nomi di quegli uomini
politici che, si spera, darebbero l’amnistia”. Questa è la
nota che domina nei ragionamenti dei convertiti.
In Italia fu l’agitazione a favore di Cipriani prigioniero che
servì di pretesto ad Andrea Costa per trascinare gli
anarchici romagnoli alle urne, ed iniziare così la
degenerazione del movimento rivoluzionario creato dalla prima
Internazionale e finire col ridurre il socialismo ad un mezzo per
trastullare le masse ed assicurare la tranquillità della
monarchia e della borghesia.
Ma veramente i francesi non hanno bisogno di venire a cercare gli
esempi in Italia, poichè ne hanno di eloquentissimi nella
storia loro.
In Francia, come in tutti i paesi latini, il socialismo nacque, se
non precisamente anarchico, certamente antiparlamentare: e la
letteratura rivoluzionaria francese dei primi dieci anni dopo la
Comune abbonda di pagine eloquenti, dovute fra le altre alle penne
di Guesde e di Brousse, contro la menzogna del suffragio universale
e la commedia elettorale e parlamentare.
Poi, come Costa in Italia, i Guesde, i Massard, i Deville e
più tardi lo stesso Brousse, furono presi dalla fregola del
potere, e forse anche dalla voglia di conciliare la nomea di
rivoluzionari con il quieto vivere ed i vantaggi piccoli e grandi
che provengono a chi entra nella politica ufficiale, sia pure come
oppositore. Ed allora cominciò tutta una manovra per cambiare
l’indirizzo del movimento, ed indurre i compagni ad accettare la
tattica elettorale. Molto servì anche allora la nota
sentimentale: si voleva l’amnistia per i comunardi, bisognava
liberare il vecchio Blanqui che moriva in prigione. E con questi
cento pretesti, cento espedienti per vincere la ripugnanza che essi
stessi, i transfughi, avevano contribuito a far nascere nei
lavoratori contro l’elezionismo, e che d’altronde era alimentata dal
ricordo ancora vivo dei plebisciti napoleonici e dei massacri
perpetrati in giugno 1848 ed in maggio 1871 per il volere delle
assemblee uscite dal suffragio universale. Si disse che bisognava
votare per contarsi, ma che si voterebbe per gli ineleggibili, per i
condannati, o per le donne o per i morti; altri propose di votare
schede bianche o con un motto rivoluzionario; altri voleva che i
candidati rilasciassero nelle mani dei comitati elettorali delle
lettere di dimissione per il caso che fossero eletti. Poi quando la
pera fu matura, cioè quando la gente si lasciò
persuadere ad andare a votare, si volle essere candidati e deputati
sul serio: si lasciarono i condannati marcire in prigione, si
rinnegò l’antiparlamentarismo, si disse peste
dell’anarchismo; e Guesde attraverso cento palinodie finì
ministro del governo dell’"unione sacra", Deville divenne
ambasciatore della repubblica borghese, e Massard, credo, qualche
cosa di peggio.
Noi non vogliamo mettere in dubbio preventivamente la buona fede dei
nuovi convertiti tanto più che tra essi ve n’è un paio
con cui abbiamo avuti vincoli d’amicizia personale. In generale
queste evoluzioni – o involuzioni che dir si voglia – s’incominciano
sempre in buona fede; poi, la logica sospinge, l’amor proprio vi si
mischia, l’ambiente vince… e si diventa quello che prima ripugnava.
Forse in questa circostanza non avverrà nulla di quello che
temiamo, perchè i neoconvertiti sono pochissimi e ben poca
è la probabilità ch’essi trovino larghe adesioni nel
campo anarchico, e quei compagni o ex-compagni rifletteranno meglio
e riconosceranno il loro errore. Il nuovo governo che sarà
installato in Francia dopo il trionfo elettorale del blocco di
sinistra, li aiuterà a persuadersi che ben poca differenza
v’è tra esso e il governo precedente, non facendo niente di
buono nemmeno l’amnistia – se la massa non l’imporrà con
l’agitazione. Noi cercheremo, dal nostro punto di vista, di aiutarli
ad intender ragione con qualche osservazione, che del resto non
dovrebbe esser nuova per chi aveva già accettata la tattica
anarchica.
È inutile il venirci a dire, come fanno quei buoni amici, che
un po’ di libertà vale meglio che la tirannia brutale senza
limite e freno, che un orario ragionevole di lavoro, un salario che
permette di vivere un po’ meglio delle bestie, la protezione delle
donne e dei bambini sono preferibili ad uno sfruttamento del lavoro
umano fino ad esaurimento completo del lavoratore, che la scuola di
Stato, per cattiva che sia, è sempre migliore dal punto di
vista dello sviluppo morale del fanciullo di quella impartita dai
preti e dai frati… Noi ne conveniamo volentieri: e conveniamo pure
che vi possono essere delle circostanze in cui il risultato delle
elezioni, in uno Stato od in un Comune, può avere delle
conseguenze buone o cattive e che questo risultato potrebbe essere
determinato dal voto degli anarchici se le forze dei partiti in
lotta fossero quasi uguali.
Generalmente si tratta di un’illusione; le elezioni, quando queste
sono tollerabilmente libere, non hanno che il valore di un simbolo:
mostrano lo stato dell’opinione pubblica, che si sarebbe imposta con
mezzi più efficaci e risultati maggiori se non le si fosse
offerto lo sfogatoio delle elezioni. Ma non importa: anche se certi
piccoli progressi fossero la conseguenza diretta di una vittoria
elettorale, gli anarchici non dovrebbero accorrere alle urne e
cessare dal predicare i loro metodi di lotta. Poichè non
è possibile far tutto al mondo, bisogna scegliere la propria
linea di condotta…
b. L’astratto rigorismo degli “intransigenti”30
Comincio a ricevere qualche giornale spagnuolo, che mi fa crescere
la volontà di andare sul posto, senza, ohimè!
aumentarne la possibilità.
A proposito delle tue osservazioni sul fatto che la caduta della
monarchia spagnuola fu determinata da una manifestazione elettorale,
ti dirò che è vero che tale fatto darà un certo
credito alla lotta elettorale e sarà certamente sfruttato
dagli elezionisti nella loro propaganda e nelle eventuali
discussioni con noi, ma non infirma la nostra tesi, se fatti e
teorie sono debitamente esposti e compresi.
In realtà le elezioni che noi combattiamo, cioè quelle
che servono a nominare dei governanti, o tendono, nel periodo
preparatorio, a discreditare e paralizzare l’azione diretta delle
masse, non sono equiparabili al fatto spagnuolo. Le elezioni
municipali spagnuole sono state l’esplosione del sentimento
antimonarchico della popolazione, che ha profittato per manifestarsi
della prima occasione che si è presentata. La gente è
corsa all’urna come sarebbe corsa in piazza a fare una dimostrazione
se non avesse avuto paura delle fucilate della Guardia Civile.
Non è detto con ciò che le urne hanno decisa la
situazione, poichè se il re non si fosse sentito abbandonato
dalle classi dirigenti e se fosse stato sicuro dell’esercito, se ne
sarebbe infischiato delle elezioni ed avrebbe messo ordine alle cose
con molte manette e qualche buon massacro.
Certamente sarebbe stato molto meglio se la monarchia fosse caduta
in altro modo, in seguito per esempio ad uno sciopero generale od
un’insurrezione armata, perchè il fatto che il movimento
prese le forme elettorali influisce malamente sulla sua natura e sui
suoi probabili sviluppi futuri; ma insomma meglio così che
nulla. Possiamo deplorare che non vi siano state forze sufficienti
per far trionfare i metodi nostri, ma dobbiamo rallegrarci che la
gente cerchi, per una via qualsiasi, di conquistare maggiore
libertà e maggiore giustizia.
Ti ricordi quando Cipriani fu eletto deputato a Milano? Alcuni
compagni furono scandalizzati perchè io, dopo aver predicato
l’astensione, mi rallegrai poi del risultato dell’elezione. Io
dicevo, e direi ancora, che poichè vi sono quelli che, sordi
alla nostra propaganda, vanno a votare, è consolante il
vedere che essi votano per un Cipriani piuttosto che per un
monarchico o un clericale – non già per gli effetti pratici
che la cosa può avere, ma per i sentimenti ch’essa rivela.
Questa delle elezioni è stata sempre una maledetta questione
anche in mezzo a noi stessi, perchè molti compagni danno
estrema importanza al fatto materiale del voto e non capiscono la
natura vera della questione.
Per esempio, una volta a Londra una sezione municipale
distribuì delle schede per domandare agli abitanti del
quartiere se volevano o no la fondazione di una biblioteca pubblica.
Crederesti tu che vi furono degli anarchici i quali, pur desiderando
la biblioteca, non volevano rispondere sì, perchè
rispondere era votare?
E non vi erano, almeno a tempo mio, a Parigi e a Londra di quelli
che trovavano anti-anarchico l’alzare la mano in un comizio per
approvare l’ordine del giorno che esprimeva le loro idee?
Applaudivano gli oratori che sostenevano una data risoluzione, ma
poi si rifiutavano di manifestare la loro approvazione con un’alzata
di mano o con un sì, perchè gli anarchici non votano.
Ritornando alla Spagna, naturalmente la questione si posa
differentemente a riguardo delle elezioni per le Cortes
Costituentes. Qui si tratta veramente di un corpo legislativo che
gli anarchici non debbono riconoscere ed alla cui elezione non
possono partecipare. Naturalmente se Costituente vi deve essere
è preferibile ch’essa sia repubblicana e federalista
anziché monarchica e accentratrice; ma il compito degli
anarchici resta quello di sostenere e mostrare che il popolo
può e deve organizzare da sè il nuovo modo di vita e
non già sottoporsi alla legge. Ed io credo che si può
obbligare la Costituente ad essere il meno reazionaria possibile ed
impedire ch’essa strozzi la rivoluzione meglio agendo di fuori che
standovi dentro.
Io cercherei di opporre alla Costituente dei Congressi permanenti
(locali, provinciali, regionali, nazionali) aperti a tutti, i quali,
appoggiandosi sulle organizzazioni operaie, discuterebbero tutte le
questioni (espropriazione, organizzazione della produzione, ecc.)
stabilirebbero rapporti volontari fra le varie località e le
varie corporazioni, consiglierebbero, spronerebbero, ecc.
Ma è meglio smettere. Tu riceverai questa mia quando forse la
situazione sarà cambiata; ed io riceverò la tua
risposta quando vi sarà stato forse un altro cambiamento.
3. Gli anarchici e il movimento
operaio
1. SINDACALISMO E MOVIMENTO
SINDACALE
a. Il sindacalismo al congresso anarchico di Amsterdam31
La discussione sul sindacalismo e lo sciopero generale fu
certamente, al Congresso Internazionale Anarchico di Amsterdam, la
più importante; ed è ben naturale, poichè si
trattava di una questione d’interesse pratico ed immediato, che ha
il più grande valore sull’avvenire del movimento anarchico e
sui suoi probabili risultati, e poichè precisamente su questa
questione si manifestò la sola differenza seria di opinione
tra i congressisti, gli uni dando all’organizzazione operaia ed allo
sciopero generale un’importanza eccessiva considerandoli quasi la
stessa cosa che anarchismo e rivoluzione, gli altri insistendo sulla
concezione integrale dell’anarchismo e non volendo considerare il
sindacalismo che come un mezzo potente, ma d’altra parte pieno di
pericoli, per avviare alla realizzazione della rivoluzione
anarchica.
La prima tendenza fu rappresentata principalmente dal compagno
Monatte, della Confédération Générale du
Travail di Francia, con un gruppo ch’ei volle chiamare dei “giovani”
malgrado le proteste dei giovani, assai più numerosi, della
tendenza opposta.
Monatte, nel suo notevole rapporto, ci parlò lungamente del
movimento sindacalista francese, dei suoi metodi di lotta, dei
risultati morali e materiali ai quali è già arrivato,
e finì col dire che il sindacalismo è di per se stesso
sufficiente come mezzo per compiere la rivoluzione sociale e
realizzare l’anarchia.
Contro quest’ultima affermazione insorsi energicamente. Il
sindacalismo, io dissi, anche se si abbiglia dell’aggettivo
rivoluzionario, non può essere che un movimento legale, un
movimento di lotta contro il capitalismo entro i limiti che il
Capitalismo e lo Stato gli impongono.
Esso non ha dunque uscita, e non potrà ottenere nulla di
permanente e di generale, se non cessando di essere il sindacalismo,
e promovendo non più il miglioramento delle condizioni dei
salariati e la conquista di qualche libertà, ma
l’espropriazione della ricchezza e la distruzione radicale
dell’organizzazione statale.
Io riconosco tutta l’utilità, la necessità stessa,
della partecipazione attiva degli anarchici al movimento operaio, e
non ho bisogno d’insistere per essere creduto, giacché sono
stato dei primi a dolermi dell’attitudine d’isolamento superbo che
presero gli anarchici dopo lo sfacimento dell’antica Internazionale,
ed a spingere di nuovo i compagni sulla via che Monatte,
dimenticando la storia, chiama nuova. Ma ciò è utile
alla sola condizione che si resti sopratutto anarchici e che non si
cessi di considerare tutto il resto dal punto di vista della
propaganda e dell’azione anarchiche.
Io non domando che i sindacati adottino un programma anarchico e
siano composti di soli anarchici. In questo caso sarebbero inutili,
giacchè farebbero doppio ufficio con i gruppi anarchici, e
non avrebbero più la qualità che li rende cari agli
anarchici, vale a dire quella d’essere oggi un campo di propaganda,
e domani un mezzo per condurre la massa sulla via a farle prendere
in mano il possesso delle ricchezze e l’organizzazione della
produzione per la collettività. Io voglio dei sindacati
largamente aperti a tutti i lavoratori, che cominciano a sentire il
bisogno di unirsi ai loro compagni per lottare contro i padroni; ma
io conosco anche tutti i pericoli che presentano per l’avvenire dei
gruppi fatti allo scopo di difendere, nella società attuale,
degli interessi particolari, e domando che gli anarchici che sono
nei sindacati si diano per missione di salvaguardare l’avvenire,
lottando contro la tendenza naturale di questi gruppi a divenire
delle corporazioni chiuse, in antagonismo con altri proletari anche
più che con i padroni.
Forse la causa del malinteso si trova nella credenza, secondo me
erronea benchè generalmente accettata, che gli interessi
degli operai sono solidali, e che, conseguentemente, basta che degli
operai si mettano a difendere i loro interessi e ad aspirare al
miglioramento delle loro condizioni, perchè siano
naturalmente condotti a difendere gli interessi del proletariato
contro il patronato.
La verità è, secondo me, ben differente. Gli operai
subiscono, come tutti, la legge d’antagonismo generale che deriva
dal regime della proprietà individuale; ed ecco perchè
gli aggruppamenti di interessi, rivoluzionari sempre al principio,
finchè deboli e bisognosi della solidarietà degli
altri, divengono conservatori ed esclusivisti quando acquistano
della forza, e con la forza, la coscienza dei loro interessi
particolari. La storia del tradunionismo inglese ed americano
è là per dimostrare in qual modo si è prodotta
questa degenerazione del movimento operaio allorchè esso si
è appartato nella difesa degli interessi attuali.
È solamente in vista d’una trasformazione completa della
società che l’operaio può sentirsi solidale con
l’operaio, l’oppresso solidale con l’oppresso; ed è compito
degli anarchici il tener sempre vivo il fuoco dell’ideale e
procurare di orientare più che possibile tutto il movimento
verso le conquiste dell’avvenire, verso la rivoluzione, anche, ove
occorra, a detrimento dei piccoli vantaggi che può ottenere
oggi qualche frazione della classe operaia, e che, del resto, non si
ottengono il più sovente che a spese di altri lavoratori e
del pubblico consumatore.
Ma per poter adempiere questa funzione d’elementi propulsori nei
sindacati, bisogna che gli anarchici s’interdicano l’occupazione dei
posti e soprattutto dei posti pagati.
Un anarchico funzionario permanente e stipendiato d’un sindacato
è un uomo perduto come anarchico.
Io non dico che talvolta non possa fare del bene; ma è un
bene che potrebbero fare, al suo posto e meglio di lui, uomini di
idee meno avanzate, mentre lui per conquistare e mantenere il suo
impiego deve sacrificare le sue opinioni personali e fare spesso
cose le quali non hanno altro scopo se non di farsi perdonare la
menda originale d’anarchico.
D’altra parte la questione è chiara. Il sindacato non
è anarchico, ed il funzionario è nominato e pagato dal
sindacato: se egli fà opera d’anarchico, si mette in
opposizione con quelli che pagano e bentosto perde il suo posto od
è causa della dissoluzione del sindacato; se, al contrario,
compie la missione per la quale è stato nominato, secondo la
volontà della maggioranza, allora addio anarchismo.
Osservazioni analoghe feci relativamente a quel mezzo d’azione
proprio del sindacalismo che è lo sciopero generale. Noi
dobbiamo accettare, dissi, e propagare l’idea dello sciopero
generale come un mezzo assai agevole per cominciare la rivoluzione,
ma non dobbiamo crearci l’illusione che lo sciopero generale
potrà rimpiazzare la lotta armata contro le forze dello
Stato.
È stato detto sovente che con lo sciopero gli operai potranno
affamare i borghesi e costringerli a cedere. Non saprei immaginare
una più grande assurdità. Gli operai sarebbero
già da gran tempo morti di fame prima che i borghesi, i quali
dispongono di tutti i prodotti accumulati, comincino a soffrire
seriamente.
L’operaio, che nulla possiede, non ricevendo più il suo
salario dovrà a viva forza impadronirsi dei prodotti:
troverà i gendarmi, i soldati, i borghesi stessi che vorranno
impedirglielo; e la questione si dovrà bentosto risolvere a
colpi di fucile, di bombe, ecc. La vittoria resterà a chi
saprà essere più forte. Prepariamoci dunque a questa
lotta necessaria, anzichè limitarci a predicare lo sciopero
generale come una specie di panacea, che dovrà risolvere
tutte le difficoltà. Per conseguenza, anche come modo di
cominciare la rivoluzione, lo sciopero generale non potrà
essere impiegato che in maniera assai relativa.
I servizi d’alimentazione, ivi compresi naturalmente quelli dei
trasporti delle derrate alimentari, non ammettono una lunga
interruzione: bisogna dunque rivoluzionariamente impadronirsi dei
mezzi per assicurare l’approvvigionamento anche prima che lo
sciopero si sia, per sè stesso, svolto in insurrezione.
Prepararsi a fare ciò non può essere funzione del
sindacalismo; questo può soltanto fornire le schiere per
compierlo.
Su tali questioni, così esposte da Monatte e da me,
s’impegnò una discussione interessantissima, quantunque un
po’ soffocata dalla mancanza di tempo e dalla necessità
seccante di tradurre in parecchie lingue. Si concluse proponendo
diverse risoluzioni, ma non mi sembrò che le differenze di
tendenze siano state felicemente definite; occorre anzi molto acume
per scoprirvele ed infatti la maggior parte dei congressisti non ve
ne scoprirono affatto e votarono egualmente le diverse risoluzioni.
Questo non impedisce che due tendenze reali si siano manifestate,
benchè la differenza esista più nella previsione dello
sviluppo futuro, che nelle intenzioni attuali delle persone. In
effetti, sono convinto che Monatte ed il gruppo dei “giovani” sono
tanto sinceramente e profondamente anarchici e rivoluzionari quanto
non importa qual “vecchia barba”. Essi si dorranno come noi degli
errori che si produrranno fra funzionari sindacalisti; soltanto,
essi li attribuiranno a debolezze individuali. E qui sta l’errore.
Se si trattasse di colpe imputabili ad individui, il male non
sarebbe grande: i deboli spariscono subito ed i traditori sono
subito conosciuti e messi nell’impossibilità di nuocere. Ma
ciò che rende il male serio, è che questo dipende
dalle circostanze nelle quali i funzionari sindacalisti si trovano.
Io impegno i nostri amici anarchici sindacalisti a riflettervi, ed a
studiare le posizioni rispettive del socialista che diventa deputato
e dell’anarchico che diventa funzionario del sindacato: forse il
paragone non sarà inutile.
b. Gli anarchici e le leghe operaie32
Come abbiam detto altre volte, e come giova sempre ripetere, noi
siamo partigiani convinti del movimento operaio, o sindacale che
voglia dirsi.
Esso mette i lavoratori in lotta contro gli sfruttatori, li abitua
all’azione collettiva, alla pratica della solidarietà ed
offre un terreno propizio alla propaganda delle nostre idee. Di
più, esso dà il mezzo per potere, in date circostanze,
chiamare il popolo in piazza e realizzare una delle condizioni
essenziali per una insurrezione vittoriosa, e può sopperire
poi alle prime necessità pratiche dell’indomani della
vittoria
Ma non per questo noi siamo sindacalisti, se per sindacalismo
s’intende quella dottrina che vede nel fatto solo del sindacato
operaio una virtù speciale che deve automaticamente, quasi
senza la coscienza e la volontà degli operai associati,
portare all’emancipazione dal giogo capitalistico ed alla
costituzione di una nuova società.
Noi non crediamo a questa virtù rinnovatrice propria del
sindacato – ed i fatti non confortano a credervi.
I sindacati operai han servito e servono ai conservatori, ai preti,
agli arrivisti di tutte le specie, come possono servire ai
rivoluzionari, e se tendenza propria, naturale, indipendente dalle
influenze esterne, extraeconomiche, essi hanno, è piuttosto
quella di dividere la massa in corporazioni chiuse, lottanti per
interessi particolari in opposizione agli interessi della
generalità.
I sindacati sorgono per resistere alle esigenze dei padroni, per
reclamare dei miglioramenti, per affermare un desiderio di
emancipazione, ed è bene, ma non basta. Se un principio
superiore di giustizia per tutti non ispira gli associati, se al di
sopra delle questioni d’interesse personale, immediato, non vi sono
delle aspirazioni ideali che spingono a sacrificare l’oggi per il
domani, il bene particolare per il bene generale, la lotta contro i
padroni prende sempre, nella pratica, un carattere come di
concorrenza fra commercianti, e finisce in transazioni ed
accomodamenti, che creano forse nuovi privilegi per alcuni favoriti
dalle circostanze, ma confermano la massa nella sua servitù.
E la difesa della “tariffa sindacale” diventa lotta contro gli altri
lavoratori e contro il pubblico in generale.
Quindi quando noi domandiamo che i sindacati siano neutri,
cioè aperti a tutti i lavoratori senza distinzioni di
opinioni e di partiti, non è perchè crediamo che basti
associarsi in vista della lotta economica e che il resto
verrà da sè, ma è semplicemente perchè
solo con la neutralità politica e religiosa si può
raccogliere tutta la massa, o gran parte della massa, per i fini
della propaganda e dell’azione rivoluzionaria. Vogliamo che i
sindacati siano neutri, perchè non possiamo averli anarchici.
E anarchici non possiamo averli, perchè per questo
bisognerebbe che tutta la massa fosse anarchica, o altrimenti il
sindacato si confonderebbe col gruppo anarchico, e lo scopo di
raccogliere gli arretrati per propagandarli ed allenarli alla lotta
verrebbe a mancare.
Secondo noi dunque, il sindacato deve restar neutro, per poter
restare aperto a tutti – ma nel suo seno bisogna lavorare
perchè esso diventi di fatto sempre più
rivoluzionario, sempre più socialista, sempre più
anarchico. E perciò gli anarchici dovrebbero prendere parte
attiva al movimento operaio, favorire e promuovere la costituzione
di sindacati e federazioni di sindacati, appoggiare e provocare
scioperi, ed essere sempre solidali cogli operai in qualunque lotta
essi impegnino contro i padroni e contro le autorità; ma
dovrebbero farlo con criteri propri – cioè badando alle
finalità ulteriori più che al piccolo vantaggio
immediato, agli effetti educativi più che agli effetti
puramente economici, e cercando di sviluppare e mantener vivo lo
spirito di combattività contro i padroni ed il sentimento di
fratellanza e di solidarietà con tutti gli oppressi, siano
essi organizzati o non organizzati.
Gli anarchici dovrebbero anzitutto combattere contro la
costituzione, nel seno del movimento operaio di una classe di
funzionari e di dirigenti che finirebbero coll’avere uno spirito e
degl’interessi opposti a quelli della massa, ed in ogni agitazione
temerebbero per i loro salari e le loro posizioni – e perciò
dovrebbero cercare che il lavoro di amministrazione ridotto alla
più semplice espressione, sia fatto, per quanto è
possibile, gratuitamente, da volontari che si sostituiscono e si
alternano nelle cariche sociali: o quando fosse necessario
compensare chi vi dedica il suo tempo, che il compenso non sia
superiore al salario medio che guadagnano i lavoratori in quel dato
mestiere, ed il personale impiegato si rinnovelli il più
sovente possibile.
Gli anarchici dovrebbero cercare che l’organizzazione avesse una
vita attiva, con riunioni generali e discussioni frequenti per
impedire che il socio comune finisca col diventare un semplice
passivo contributore di quote.
Dovrebbero impedire che le leghe di resistenza si occupassero di
mutuo soccorso, intraprese cooperative ed altre mansioni che
rifuggono naturalmente dai rischi della lotta e cointeressano in
certo modo il lavoratore al mantenimento dell’ordine vigente.
Dovrebbero combattere le alte quote e la costituzione di forti
casse, che paralizzano l’organizzazione e ne arrestano lo slancio
colla paura di perdere il denaro. Le leghe dovrebbero, sì,
educare i soci ai sacrifizii anche pecuniarii, ma impiegare il
ricavato nella lotta, nella propaganda in opere di
solidarietà senza accumulare.
Gli anarchici dovrebbero, primi nei rischi e nei sacrifizii,
rifiutarsi assolutamente di servire da intermediari coi padroni e
colle autorità; ed in caso di sconfitta subirla, se non si
può fare altrimenti coll’animo intento alla rivincita, e non
mai accettarla come il risultato di un accordo che vi tiene
moralmente obbligati.
Dovrebbero combattere ogni contratto che lega i lavoratori per un
dato tempo, e provocare in essi uno stato d’animo che fa loro
sentire la loro vera condizione di schiavi costretti dalla forza,
anche quando apparentemente sembrano liberi contraenti.
Questa tattica, che ci pare indicata dal fine che gli anarchici si
propongono, non è forse la più adatta per la
costituzione di associazioni, stabili, vaste e ricche. Ma noi non
crediamo nell’utilità, nella potenza reale di organizzazioni
mastodontiche, che per la troppa mole non possono muoversi e per il
troppo denaro sviluppano istinti conservativi e bottegai.
Quello che importa è lo spirito di lotta, lo spirito di
solidarietà, lo spirito di associazione. Se una lega, una
federazione si sfascia in conseguenza della lotta e delle
persecuzioni, non fa nulla, quando i suoi membri sono coscienti e le
loro aspirazioni sussistono: essa è presto ricostituita
appena è passata la bufera. Una forte, solida organizzazione
che non si muove per paura di sfasciarsi è un peso morto, un
ostacolo al progresso.
Nel caso che esistano più organizzazioni rivali, come
è il caso ora in Italia con l’Unione Sindacale e la
Confederazione del Lavoro, quale è il contegno che debbano
tenere gli anarchici?
Secondo noi, gli anarchici debbono favorire quelle organizzazioni
che più si accostano ai loro metodi ed ai loro ideali, e
stare, nei periodi di lotta attiva, con quelle che sono in lotta.
Del resto, entrare in tutte le organizzazioni, in tutti gli
aggruppamenti dove sia possibile farlo senza prendere impegni
contrari alle proprie convinzioni e dove si vede la
probabilità di fare una propaganda utile ed esercitare
un’azione feconda. Tenersi estranei il più possibile alle
beghe personali, e spronare i lavoratori ad agire da loro stessi
senza bisogno di capi e soprattutto senza sposare gli odi e le
rivalità di coloro che posano a capi. Combattere l’ingerenza
nelle organizzazioni operaie dei politicanti e degli arrivisti che
si vogliono far sgabello dei lavoratori per aprirsi una carriera nel
mondo borghese.
Vi sono degli anarchici che avversano ogni organizzazione per la
lotta economica e se ne tengono rigorosamente lontani. A noi pare
una tattica sbagliata.
Certamente la lotta economica finché resta solo lotta
economica, non può risolvere la questione sociale.
I miglioramenti possibili in regime capitalista, se diventano
generali, sono annullati dal gioco stesso dei fattori economici, e
quando si trattasse di attaccare nelle sue parti vitali il
privilegio dei proprietari, interverrebbe il potere politico a
garantire colla forza brutale il mantenimento dell’ordine legale.
Dunque la questione deve in definitiva risolversi sul terreno
politico, cioè colla lotta contro il governo. Se i lavoratori
riusciranno ad abbattere il governo, il quale in ultima analisi non
è che la forza armata che sta a difesa del privilegio,
potranno prender possesso della ricchezza sociale e divenire
veramente liberi. Se no, no.
Ma per abbattere il governo ed abbatterlo a scopo di emancipazione
generale, bisogna avere con noi quanta più massa è
possibile, ed una massa quanto più è possibile
cosciente dello scopo per cui si deve fare la rivoluzione. E la
massa non viene alle idee anarchiche così di botto, senza un
tirocinio più o meno graduale.
Bisogna dunque entrare in contatto colla massa, per sospingerla
avanti ed averla con noi in piazza, i giorni della lotta risolutiva.
Le organizzazioni economiche ci sembrano uno dei mezzi migliori di
cui disponiamo.
Certo occorre nella preparazione dei mezzi non perdere di vista il
fine. Ma occorre pure di non trascurare, nella contemplazione
astratta del fine, i mezzi atti a raggiungerlo.
2. NECESSITÀ E PROBLEMI DEL
MOVIMENTO OPERAIO
a. La lotta operaia33
Lasciando da parte i conservatori ed i borghesi di tutte le
categorie i quali, se s’interessano alle associazioni operaie,
è semplicemente nello scopo di far argine con l’inganno alla
marea emancipatrice che sale e servirsi come mezzo di asservimento
di un movimento che per sua natura dovrebbe essere movimento di
liberazione, vi sono tra i riformatori sociali tre partiti (o
scuole) principali, che si trovano, o dovrebbero trovarsi,
più o meno d’accordo nelle piccole lotte quotidiane per la
difesa degl’interessi operai in regime borghese, ma si dividono
radicalmente in quanto agli scopi ultimi a cui vogliono condurre il
movimento e quindi anche nel genere di propaganda che fanno nel suo
seno e nei tipi di organizzazione che preferiscono. Essi sono i
socialisti, i sindacalisti e gli anarchici, tutti e tre convinti che
per emancipare i lavoratori ed instaurare un migliore ordine
sociale, bisogna abbattere il sistema capitalistico, ma divisi sulla
concezione della società futura e sulle vie per arrivarvi.
I socialisti, fra i quali comprendo anche la frazione che ora si
intitola comunista, vogliono diventare governo, non importa ora se
con mezzi legali o con la violenza. Essi credono possedere la
ricetta per guarire tutti i mali e risolvere tutti i problemi
sociali, e vogliono imporre quella loro ricetta in nome di una
pretesa maggioranza legalmente constatata o con la dittatura
usurpata da alcuni individui in nome del loro partito. Le masse
debbono servire solamente per fornire i voti e le braccia necessarie
per mandare al potere i capi del partito, e tutta la tattica
è diretta allo scopo di sottomettere al partito le
organizzazioni operaie. Perciò i dirigenti socialisti (e
peggio se “comunisti”) delle organizzazioni si sottraggono il
più possibile al controllo degli organizzati, soffocano ogni
autonomia ed ogni spirito d’iniziativa e col pretesto della
disciplina nelle azioni collettive educano gli operai all’ubbidienza
passiva ai capi. In tal modo essi si foggiano l’arme per andare al
potere e preparano le masse a piegarsi docilmente sotto la
fèrula del governo di domani.
I sindacalisti hanno delle concezioni più libertarie Essi
vogliono rendere inutile lo Stato, esautorarlo e distruggerlo
mediante i sindacati che a poco a poco dovrebbero assorbire tutte le
funzioni della vita sociale. Naturalmente per questo è
necessario che i mezzi di produzione (terra, materie prime macchine,
ecc.) fossero diventate proprietà collettiva dei sindacati,
comunque federati tra loro.
Non è qui il luogo di discutere questo programma; ma è
certo che per attuarlo bisognerebbe prima espropriare i detentori
della ricchezza sociale, e siccome essi sono difesi dalla forza
armata dello Stato, bisognerà vincere questa forza. E
perciò i sindacalisti quantunque in teoria amino dire che il
sindacalismo basta a sè stesso, debbono poi nella pratica, o
pensare ad impadronirsi dello Stato, col voto o con la violenza, e
diventano socialisti, o pensare a distruggerlo e diventano
anarchici.
Questa loro inconsistenza programmatica si rispecchia nella storia
delle organizzazioni operaie a tendenza sindacalista: presto o tardi
si presentano le circostanze in cui dal terreno puramente sindacale
bisognò passare alla lotta politica propriamente detta, ed
allora viene fuori la divergenza e l’incompatibilità tra i
riformisti ed i rivoluzionari, i parlamentaristi e gli
antiparlamentaristi, i socialisti e gli anarchici, che si trovavano
riuniti sotto il mantello di una mentita neutralità
sindacale. E allora cominciano le lotte intestine e le scissioni.
Intanto, finchè l’equivoco dura, si fa in quelle
organizzazioni opera d’azione diretta, si lascia libertà di
propaganda alle correnti più avanzate e si abituano le masse
ad una fierezza e ad una volontà di lotta che è ottimo
tirocinio per preparare alla rivoluzione. Noi anarchici non possiamo
identificarci con quelle come con nessun’altra organizzazione
operaia, ma dobbiamo preferirle alle altre come il campo più
adatto per estendere la nostra influenza, incoraggiarle,
parteciparvi in tutti i modi non contraddittori con le idee nostre,
senza per questo inibirci l’entrata in qualsiasi altra
organizzazione dove crediamo poter fare opera utile di propaganda,
di critica e di sprone. È quello che più o meno bene
si è fatto finora; ora è tempo, io credo, di
concordare un piano più organico per poter agire con maggiore
efficacia sul movimento e meglio utilizzarlo ai nostri fini.
Le organizzazioni operaie vivono in tali condizioni, subiscono
necessità tali che la posizione degli anarchici che vi
lavorano dentro diventa difficile, e certe volte incompatibile
sempre che dalla predicazione teorica, dalla propaganda
avveniristica bisogna passare alle misure pratiche richieste dalla
lotta effettiva.
Fatte per difendere gli interessi attuali, immediati degli operai in
regime di proprietà privata e di salariato, proponendosi di
riunire il più gran numero possibile di lavoratori senza
badare alle differenze di opinioni religiose e politiche o alla
mancanza di una qualsiasi opinione determinata, dovendo attenuare
gli effetti senza poter distruggere le cause della soggezione dei
lavoratori, anche quando nel programma hanno scritto l’abolizione
del salariato e l’emancipazione integrale, debbono nella pratica
quotidiana accettare il fatto del dominio e del profitto
capitalistico e limitarsi e rendere, mediante una continua
resistenza, meno assoluto quel dominio ed assicurare al produttore
una meno scarsa parte del prodotto. In esso anche il più
deciso rivoluzionario deve subire il metodo riformista che è
quello di conquistare poco a poco dei miglioramenti, che poi si
perdono tutto d’un tratto quando le cause persistenti del male
sociale, cioè il profitto e la concorrenza capitalistica,
menano alle ricorrenti crisi di disoccupazione e di concorrenza per
il pane tra gli stessi salariati. Poichè tutti i vantaggi del
metodo rivoluzionario, buoni a mettere avanti per far comprendere la
necessità della rivoluzione, non hanno efficacia positiva se
non quando la rivoluzione si fa. E la rivoluzione non si può
fare tutti i giorni!
Ma questo è il meno. L’inconveniente più grave sta nel
fatto degli interessi contrastanti tra le diverse categorie di
lavoratori e tra ciascuna categoria di produttori ed il pubblico dei
consumatori.
Si suol dire che i proletari hanno un interesse comune nella lotta
contro i padroni e quindi debbono essere tutti solidali tra di loro
– ed è vero se si tratta dell’interesse di abolire il
patronato ed instaurare una società in cui tutti lavorino per
il maggior bene di ciascuno e di tutti. Ma non è punto vero
nella società attuale dove l’industriale ed il proprietario
di terre per far salire i prezzi ed assicurarsi un maggiore profitto
e per poter inoltre mantenere bassi i salari, cercano di limitare la
produzione e causano la penuria dei prodotti e mancanza di lavoro.
Così si stabilisce un antagonismo spesso involontario ed
inconscio, ma naturale e fatale tra chi lavora e chi è
disoccupato, tra chi ha un posto buono e sicuro e chi guadagna poco
e sta sempre in pericolo di essere licenziato, tra chi sa il
mestiere e chi vuole impararlo, tra il maschio che ha il monopolio
della professione e la donna che si affaccia sul terreno della
concorrenza economica, tra l’indigeno e l’immigrato, tra lo
specialista che vorrebbe proibire agli altri la sua
specialità e gli altri che non vogliono riconoscere il
monopolio, e poi in generale tra categoria e categoria secondo che
gl’interessi transitori o permanenti dell’una contrastano cogli
interessi dell’altra. Alcune categorie si avvantaggiano della
protezione doganale, altre ne soffrono; alcune desiderano certi
interventi dall’autorità statali, certe leggi e certi
regolamenti, mentre altre lottano in migliori condizioni se il
governo non si mischia dei loro affari.
D’altra parte esiste un antagonismo permanente fra ciascuna
categoria di lavoratori e gli altri lavoratori in quanto sono
consumatori dei prodotti di quella. Ogni aumento di salario di una
categoria si traduce in un aumento di prezzo dei suoi prodotti e
causa danno al pubblico, fino a quando l’aumento dei salari di tutte
le categorie ristabilisce l’equilibrio e rende illusorio il
benefizio dell’aumento.
Così avviene che tante organizzazioni operaie, sorte per
iniziativa di pochi generosi con largo spirito di solidarietà
umana e fieri propositi di battaglia, si sono poi, a misura che son
cresciute di numero e di potenza, moderate, corrotte e trasformate
in corporazioni chiuse, preoccupate solo dell’interesse dei soci in
opposizione ai non soci.
Aggiungiamo a tutto questo la burocrazia parassitaria che si
sviluppa nel loro seno, i capi che s’installano alla dirigenza e
manovrano come dei semplici politicanti per restarvi in permanenza,
gli scopi politici antiproletari o antilibertari a cui spesso sono
fatti servire, i contatti ripugnanti ma inevitabili colle
autorità, e ci spiegheremo facilmente l’antipatia e
l’ostilità, che certi compagni, ora credo ridotti a
pochissimi, manifestano contro le organizzazioni operaie.
Ma è consigliabile, è utile, è possibile per
gli anarchici restar fuori delle organizzazioni operaie, o
parteciparvi solo passivamente, semplicemente in quanto sono operai
che hanno bisogno di lavorare e non vogliono fare i crumiri?
A me sembra che sarebbe una sciocchezza, che ammonterebbe in pratica
ad un tradimento della causa rivoluzionaria, o più
generalmente, della causa del progresso e della emancipazione umana.
Il movimento operaio è ormai uno dei fattori principali della
storia di oggi e di quella del prossimo domani, e disinteressarsene
significherebbe mettersi fuori della vita reale, rinunziare ad
esercitare un’azione sensibile sugli avvenimenti, lasciare che i
socialisti, i comunisti, i clericali ed altri partiti di governo
difendendo o affettando di difendere gl’interessi attuali degli
operai, interessi piccoli e transitori ma pur necessari a chi vive
oggi, acquistino la fiducia delle masse e se ne servano per arrivare
al potere, con questo o con un altro regime, e mantenere il popolo
nella schiavitù.
Le organizzazioni operaie per la resistenza contro i padroni sono il
mezzo migliore, forse l’unico accessibile a tutti, per entrare in
contatto permanente colle grandi masse, farvi la propaganda delle
idee nostre, predisporle alla rivoluzione e spingerle o trascinarle
in piazza per qualunque azione preparatoria o definitiva. In esse
gli oppressi ancora docili e sommessi s’iniziano alla coscienza dei
loro diritti e della forza che possono trovare nell’accordo coi
compagni di oppressione: in esse comprendono che il padrone è
il loro nemico, che il governo, già ladro ed oppressore per
la natura sua, è sempre pronto a difendere i padroni, e si
preparano spiritualmente al rovesciamento totale del vigente ordine
sociale.
Fuori delle associazioni operaie noi possiamo fare la propaganda
orale e scritta, organizzare gruppi di studio o d’azione, pagare di
persona in tutte le occasioni, ma resteremmo sempre impotenti a dare
un indirizzo nostro al corso degli eventi e dovremmo accodarci agli
altri, offrirci agli altri, i quali sfrutterebbero il nostro lavoro
ed i nostri sacrifici per fini non nostri, anzi contrari ai nostri.
D’altronde, a causa del nostro programma, noi siamo più che
qualunque altro partito interessati ad un largo sviluppo del
movimento operaio. Noi non vogliamo governare e vogliamo nel limite
delle nostre forze impedire che altri governino, cioè che
impongano con la forza i propri piani ed i propri sistemi di vita
sociale. Noi vogliamo che la nuova società si sviluppi
secondo il volere libero, cangiante, progrediente delle masse (di
cui naturalmente siamo parte anche noi) e per farlo è utile,
necessario che il giorno della rivoluzione vi sia un numero quanto
più grande è possibile d’operai comunque organizzati,
pronti a continuare la produzione, a stabilire le necessarie
relazioni tra paese e paese e tra categoria e categoria, provvedere
alla distribuzione ed a tutti i bisogni della vita, senza affidare a
nessuno il potere di imporre con la forza delle “guardie rosse” i
propri voleri ed i propri interessi.
Dunque a parer mio, gli anarchici dovrebbero penetrare in tutte le
organizzazioni operaie, farvi propaganda acquistarvi influenza ed
accettare in esse tutte le funzioni e tutte le responsabilità
compatibili con la loro qualità di anarchici.
La cosa non è senza pericoli d’addomesticamento, di
deviazione, di corruzione e molti dolorosi e vergognosi esempi si
possono citare contro la mia tesi.
Ma come fare? Se si vuole agire bisogna correre i rischi
dell’azione, che in questo caso sono rischi morali, e diminuirli
colla prescrizione di una linea di condotta ben determinata e con un
continuo mutuo controllo tra compagni.
Se vi sono dei compagni i quali considerano l’anarchia come un
ideale di perfezione individuale e sociale che si realizzerà
forse tra qualche migliaio d’anni, e credono che tutto quello che
v’è da fare oggi sia il tenere la fiaccola accesa per il
culto di pochi, essi hanno delle buone ragioni per tenersi lontani
dai contatti impuri e dalle posizioni compromettenti.
Ma la grande maggioranza degli anarchici ed in specie quelli
aderenti all’U.A.I.34 sono d’opinione, se io non interpreto male il
loro pensiero, che gl’individui non si perfezionerebbero e
l’anarchia non si realizzerebbe nemmeno fra qualche migliaio d’anni,
se prima non si creasse per mezzo della rivoluzione fatta dalle
minoranze coscienti il necessario ambiente di libertà e di
benessere. Per questo vogliamo fare la rivoluzione al più
presto possibile, e per farla abbiamo bisogno di mettere a profitto
tutte le forze utili e tutte le circostanze opportune così
come la storia ce le fornisce.
Le organizzazione operaie non possono essere composte di soli
anarchici e non è desiderabile che lo fossero, perchè
allora sarebbero un inutile duplicato dei gruppi anarchici e
mancherebbero al loro scopo specifico. Gli anarchici che vi lavorano
dentro non possono sempre condursi da anarchici come non si
può condursi da anarchici vivendo nella società
attuale, ma vi possono costituire dei gruppi anarchici che
esercitino un’azione di propulsione e di controllo e debbono
condursi da anarchici quanto più è possibile.
Vi sono in Italia varie grandi organizzazioni operaie. Noi dobbiamo
lavorare e lottare in tutte quante, perchè in tutte vi sono
sfruttati che han bisogno di emanciparsi, in tutte si può far
propaganda e dar l’esempio dell’energia e dello spirito di
solidarietà. Dove è il caso, dobbiamo preferire quelle
che più si avvicinano a noi, ma non dobbiamo abbandonare le
altre al monopolio dei nostri avversari. E dobbiamo appoggiarci ed
intenderci tra noi per il lavoro che facciamo nelle varie
organizzazioni e per l’atteggiamento da prendere e per l’azione da
svolgersi nelle varie occasioni.
Perciò io proporrei che tutti gli anarchici che si trovano in
grado di esercitare dell’influenza nelle organizzazioni operaie
stabiliscano tra di loro un’intesa permanente e si tengano in
rapporti regolari per agire d’accordo.
b. La funzione del sindacato nel periodo transitorio35
Il mio articolo recente su Sindacalismo e Anarchismo ha suscitato
dei dubbi in alcuni compagni, che pur sono d’accordo sulla tesi
generale ch’io sostenevo.
Uno di essi mi scrive:
“Visto che non salteremo a piè pari dalla società
borghese a quella anarchica bell’e organizzata, non potrebbero
essere i sindacati – quelli dei mestieri utili, si capisce, non
quelli dei marmisti o dei gioiellieri! – gli organi per lo meno
provvisori necessari a continuare l’organizzazione della produzione
e della distribuzione che dovrà continuare senza interruzione
anche in periodo rivoluzionario?”
Perfettamente. Ed appunto perchè sono convinto che i
sindacati possono e debbono esercitare una funzione utilissima, e
forse necessaria, nel passaggio della società attuale alla
società ugualitaria, io vorrei che essi fossero giudicati al
loro giusto valore e che si tenesse sempre presente la loro naturale
tendenza a diventare delle corporazioni chiuse intente solo a
propugnare gl’interessi egoistici della categoria, o, peggio ancora,
dei soli organizzati, per potere meglio combatterla ed impedire che
essi diventino degli organi di conservazione. Così come
appunto perchè riconosco l’utilità grandissima che
possono avere le cooperative nell’abituare gli operai alla gestione
dei loro affari e del loro lavoro, e funzionare, all’inizio della
rivoluzione, quali organi già pronti per l’organizzazione
della distribuzione dei prodotti e servire come centri di attrazione
intorno a cui si potrà raccogliere la massa della
popolazione, io combatto lo spirito bottegaio che tende naturalmente
a svilupparsi in esse e vorrei che esse fossero aperte a tutti, che
non dessero alcun privilegio ai loro soci e soprattutto che non si
trasformassero come avviene spesso, in vere società anonime
capitalistiche che impiegano e sfruttano dei salariati e speculano
sui bisogni del pubblico.
Secondo me, cooperative e sindacati, tali quali sono in regime
capitalistico, non portano naturalmente, per loro forza intrinseca,
alla emancipazione umana (è questo il punto controverso), ma
possono produrre il male o il bene, essere organi oggi di
conservazione o trasformazione sociale, servire domani la reazione o
la rivoluzione, secondo che si limitino alla loro funzione propria
di difensori degli interessi attuali dei soci, o siano animati e
travagliati dallo spirito anarchico, che fa loro dimenticare
gl’interessi in omaggio agli ideali. E per spirito anarchico intendo
quel sentimento largamente umano che aspira al bene di tutti, alla
libertà ed alla giustizia per tutti, alla solidarietà,
ed all’amore fra tutti, e che non è dote esclusiva degli
anarchici propriamente detti, ma anima tutti gli uomini di cuore
buono e d’intelligenza aperta.
Per sè stesso il movimento operaio, mirando alla protezione
degl’interessi attuali dei lavoratori e più specialmente dei
membri di ciascun sindacato, tende naturalmente a diminuire la
concorrenza sul mercato del lavoro per poter meglio resistere alle
pretese dei padroni, ad ostacolare l’entrata di nuovi soci alle
organizzazioni arrivate ad un certo limite di potenza, a fare del
lavoro qualificato e meglio pagato un privilegio degli organizzati,
a creare insomma una nuova classe privilegiata, un nuovo ceto
interessato ad intendersela coi padroni, a diventare complice dello
sfruttamento capitalistico, colla compartecipazione agli utili,
coll’azionariato operaio, ecc, a danno della grande massa dei
diseredati, condannati ai lavori puramente manuali e divenuti servi
delle macchine e poco più che pezzi di macchine.
Questo può non accadere se vi è spirito di ribellione
nella massa, e se una luce ideale illumina ed eleva quegli operai
meglio dotati e più favoriti dalle circostanze che sarebbero
in grado di costituire la nuova classe privilegiata. Ma è
indubitato che se si resta sul terreno della difesa degl’interessi
attuali che è il terreno proprio dei sindacati, poichè
gli interessi non sono armonici nè possono armonizzarsi in
regime capitalistico, la lotta tra i lavoratori è un fatto
naturale e può anche in certe circostanze e fra certe
categorie diventare più accanita che tra lavoratori e
sfruttatori.
Per convincersene basta osservare quello che sono le maggiori
organizzazioni operaie nei paesi in cui vi è molta
organizzazione e poca propaganda, o tradizione rivoluzionaria.
c. L'illusione dello sciopero generale36
Lo “sciopero generale” è certamente un’arma potente di lotta
nelle mani del proletariato ed è, o può essere, un
modo ed un’occasione per determinare una radicale rivoluzione
sociale.
Eppure io mi domando se l’idea dello sciopero generale ha fatto
più male che bene alla causa della rivoluzione!
In realtà io credo che nel passato il male abbia superato il
bene; e che oggi potrebbe essere il contrario, cioè potrebbe
lo sciopero generale essere veramente un mezzo efficace di
trasformazione sociale solo se fosse inteso e praticato in modo
diverso da quello che usavano i vecchi sciopero-generalisti.
Nei primi tempi del movimento socialista, e specialmente in Italia
ai tempi della prima Internazionale, quando era fresca ancora la
memoria delle lotte mazziniane ed erano vivi in gran parte gli
uomini che avevano combattuto per “l’Italia”, nelle file garibaldine
e che si trovavano disillusi ed indignati per lo scempio che
monarchici e capitalisti facevano dell’Italia vera, si comprendeva
chiaramente che il regime sostenuto dalle baionette non poteva
essere abbattuto se non convertendo in difensori del popolo una
parte dei soldati e vincendo in lotta armata le forze di polizia e
quella parte di soldati restata fedele alla disciplina.
E perciò si cospirava, cioè si faceva propaganda
attiva tra i soldati, si cercava di armarsi, si preparavano piani di
azione militare.
I risultati, a dir vero, erano meschini, perchè si era in
pochi, perchè gli scopi sociali per i quali si voleva fare la
rivoluzione erano misconosciuti e respinti dalla generalità,
perchè insomma “i tempi non erano maturi”.
Ma la volontà della preparazione insurrezionale vi era e
trovava poco a poco il mezzo di realizzarsi, la propaganda
incominciava ad estendersi e portare i suoi frutti; “i tempi
maturavano”, in parte per opera diretta dei rivoluzionari e
più per l’evoluzione economica che acuiva il conflitto, e
sviluppava la coscienza del conflitto, tra lavoratori e padroni, e
che i rivoluzionari mettevano a profitto.
Le speranze della rivoluzione sociale crescevano, e sembrava certo
che, tra lotte, persecuzioni, tentativi più o meno
“inconsulti” e sfortunati, soste e riprese di attività
febbrile, si arriverebbe, in un tempo non troppo lontano, a
determinare lo scoppio finale e vittorioso, che doveva abbattere il
regime politico ed economico vigente ed aprire le vie ad una
più libera evoluzione verso nuove forme di convivenza
sociale, basate sulla libertà di tutti, la giustizia per
tutti, la fratellanza e la solidarietà fra tutti.
Ma poi, a frenare l’impulso volontaristico della gioventù
socialista (allora si chiamavano socialisti anche gli anarchici)
venne il marxismo coi suoi dogmi e col suo fatalismo. E
disgraziatamente con le sue apparenze scientifiche (si era in piena
ubriacatura scientificista) il marxismo illuse, attrasse e
sviò anche la più parte degli anarchici.
I marxisti incominciarono a dire che ‘‘la rivoluzione viene, ma non
si fa”, che il socialismo verrebbe necessariamente per il “fatale
andare” delle cose, e che il fattore politico (che è poi la
forza, la violenza messa a servizio degl’interessi economici) non ha
importanza e che il fatto economico determina tutta quanta la vita
sociale. E così la preparazione insurrezionale fu trascurata
e praticamente abbandonata.
Di passaggio noterò che quei marxisti che disprezzavano tanto
la lotta politica, quando essa era lotta tendenzialmente
insurrezionale, decisero poi che la politica era il mezzo principale
e quasi esclusivo per far trionfare il socialismo non appena
intravidero la possibilità di andare al parlamento e di dare
alla lotta politica il significato restrittivo di lotta elettorale;
e si sforzarono con questo di spegnere nelle masse ogni entusiasmo
per l’azione insurrezionale.
In questo stato di cose ed in questa disposizione generale degli
spiriti fu lanciata l’idea dello sciopero generale, che fu accolta
entusiasticamente da quelli che non avevano fiducia nell’azione
parlamentare e vedevano aperta una nuova e promettente via
all’azione popolare.
Il guaio però fu che i più videro nello sciopero
generale non un mezzo per trascinare le masse all’insurrezione,
cioè all’abbattimento violento del potere politico ed alla
presa di possesso della terra, degli strumenti di produzione e di
tutta la ricchezza sociale, ma vi videro un sostituto
dell’insurrezione, un modo per “affamare la borghesia” e farla
capitolare senza colpo ferire.
E poichè è fatale che il comico ed il grottesco si
mescolino sempre anche nelle cose più serie vi furono di
quelli che cercavano delle erbe e delle “pillole” capaci di
sostenere indefinitamente il corpo umano senza mangiare per
indicarle ai lavoratori e metterli in grado di aspettare, in un
pacifico digiuno, che i borghesi venissero a chiedere scusa e
perdono.
Ecco perchè ritengo che l’idea dello sciopero generale ha
fatto danno alla rivoluzione. Ora spero e credo che l’illusione di
far capitolare la borghesia per fame sia completamente sparita e se
un poco ne era restata i fascisti si sono incaricati di dissiparla.
Lo sciopero generale di protesta, o per appoggiare delle
rivendicazioni economiche o politiche, compatibili col regime, se
fatto in momento propizio, quando governo e padroni trovano
opportuno cedere subito per paura di peggio, può giovare. Ma
bisogna non dimenticare che bisogna mangiare tutti i giorni e che,
se la resistenza si prolunga solo per parecchi giorni, bisogna o
piegarsi ignominiosamente al giogo padronale, o insorgere... anche
se il governo o le forze irregolari della borghesia non prendono
l’iniziativa della violenza.
Dal che si deduce che uno sciopero generale sia in vista di una
soluzione definitiva, sia per scopi transitori, deve essere fatto
con la disposizione, e la preparazione, di risolvere la questione
colla forza.
3. IL SINDACATO COME MEZZO DI LOTTA E DI EDUCAZIONE RIVOLUZIONARIA E
COME NUCLEO FUTURO DI RIORGANIZZAZIONE SOCIALE
a. L'organizzazione sindacale oggi e domani37
...Noi abbiamo sempre compreso la grande importanza del movimento
operaio e la necessità per gli anarchici di esserne parte
attiva e propulsiva. E spesso è stato per l’iniziativa di
compagni nostri che si sono costituiti aggruppamenti operai
più vivi e più progressivi.
Abbiamo sempre pensato che il sindacato è, oggi, un mezzo
perchè i lavoratori incomincino a comprendere la loro
posizione di schiavi, a desiderare l’emancipazione e ad abituarsi
alla solidarietà con tutti gli oppressi nella lotta contro
gli oppressori – e domani servirà come primo nucleo
necessario alla continuità della vita sociale ed alla
riorganizzazione della produzione senza padroni e parassiti.
Ma abbiamo sempre discusso, e spesso dissentito, sui modi come
l’azione anarchica doveva esplicarsi nei rapporti
coll’organizzazione dei lavoratori.
Bisognava entrare nei sindacati, o restarne fuori, pur prendendo
parte a tutte le agitazioni e cercare di dar loro il carattere
più radicale possibile e mostrarsi primi nell’azione e nei
pericoli?
E soprattutto, se dentro dei sindacati, bisognava o no assumere
cariche direttive e quindi prestarsi a quelle transazioni, quei
compromessi, quegli accomodamenti, a quei rapporti con le
autorità e coi padroni, a cui debbono adattarsi, per volere
degli stessi lavoratori e per il loro interesse immediato, nelle
lotte quotidiane quando non si tratta di fare la rivoluzione, ma di
ottenere dei miglioramenti o difendere quelli già conseguiti?
Nei due anni che seguirono la pace e fino alla vigilia del trionfo
della reazione per opera del fascismo noi ci trovammo in una
singolare situazione.
La rivoluzione sembrava imminente, e vi erano infatti tutte le
condizioni materiali e spirituali perchè essa fosse possibile
e necessaria.
Ma noi anarchici mancavamo di gran lunga delle forze occorrenti per
fare la rivoluzione con metodi e uomini esclusivamente nostri:
avevamo bisogno delle masse, e le masse erano bensì disposte
all’azione, ma non erano anarchiche. D’altronde una rivoluzione
fatta senza il concorso delle masse, anche se fosse stata possibile,
non avrebbe potuto metter capo che ad una nuova dominazione, la
quale anche se esercitata da anarchici sarebbe sempre stata la
negazione dell’anarchismo, avrebbe corrotto i nuovi dominatori e
sarebbe finita colla restaurazione dell’ordine statale e
capitalistico.
Ritrarsi dalla lotta, astenersi perchè non potevamo fare
proprio come avremmo voluto, sarebbe stato un rinunziare ad ogni
possibilità presente o futura, ad ogni speranza di sviluppare
il movimento nella direzione da noi desiderata ‒ e rinunziarvi non
solo per quella volta, ma per sempre, poichè non si avranno
mai masse anarchiche prima che la società sia trasformata
economicamente e politicamente, e la stessa situazione si
ripresenterà tutte le volte che le circostanze renderanno
possibile un tentativo rivoluzionario.
Occorrerà dunque a qualunque costo acquistare la fiducia
delle masse, mettersi in posizione di poterle spingere in piazza e
per questo appariva utile conquistare nelle organizzazione operaie
cariche direttive. Tutti i pericoli d’addomesticamento e di
corruzione passavano in secondo luogo, e d’altronde si supponeva che
non avrebbero avuto il tempo di realizzarsi. Quindi si venne alla
conclusione di lasciare a ciascuno la libertà di regolarsi
secondo le circostanze e come meglio credeva, a condizione di non
dimenticare mai di essere anarchico e di farsi sempre guidare
dall’interesse superiore della causa anarchica.
Ma ora, dopo le ultime esperienze, e vista la situazione attuale che
non ammette connubi transitori e domanda un ritorno rigoroso ai
principi per trovarsi meglio preparati e più profondamente
convinti nelle prossime evenienze, mi pare che convenga ritornare
sulla questione e vedere se sia il caso di modificare la tattica su
questo punto importantissimo della nostra attività.
Spero che il Congresso vorrà esaminare la questione
coll’attenzione che merita.
Secondo me, bisogna entrare nei sindacati, perchè standone
fuori se ne appare nemici, la nostra critica è guardata con
sospetto e nei momenti di agitazione saremmo considerati come
intrusi e male accetto sarebbe il nostro concorso.
Parlo, s’intende, dei veri sindacati composti di lavoratori
liberamente associati per difendere i loro interessi contro i
padroni e contro il governo; e non già dei sindacati
fascisti, spesso reclutati a suon di bastonate e colla minaccia
della fame, i quali sono un’arma di governo ed un tentativo per
meglio sottomettere i lavoratori alle esigenze padronali. Bisogna
entrare nei sindacati ed esercitarvi opera di propulsione, per dare
loro un carattere sempre più libertario e vigilare e
criticare e combattere le possibili debolezze e defezioni dei
dirigenti.
Ed in quanto a sollecitare ed accettare noi stessi il posto di
dirigenti credo che in linea generale ed in tempi calmi è
meglio evitarlo. Però credo che il danno ed il pericolo non
stia tanto nel fatto di occupare un posto direttivo – cosa che in
certe circostanze può essere utile ed anche necessaria – ma
nel perpetuarsi in quel posto. Bisognerebbe, secondo me, che il
personale dirigente si rinnovasse il più spesso possibile,
sia per abilitare un più gran numero di lavoratori alle
funzioni amministrative, sia per impedire che il lavoro
d’organizzazione diventi un mestiere ed induca quelli che lo
compiono a portare nelle lotte operaie la preoccupazione di non
perdere l’impiego.
E tutto questo non solo nell’interesse attuale della lotta e
dell’educazione dei lavoratori, ma anche e maggiormente in vista
dello svolgimento della rivoluzione dopo che la rivoluzione
sarà iniziata.
A giusta ragione gli anarchici si oppongono al comunismo
autoritario, il quale suppone un governo, che, volendo dirigere
tutta la vita sociale e mettere l’organizzazione della produzione e
la distribuzione delle ricchezze sotto gli ordini di funzionari
suoi, non può non produrre la più esosa tirannia e la
paralizzazione di tutte le forze vive della società.
Ma questa espropriazione e questa distribuzione non possono, in
pratica, essere fatte tumultuariamente, dalla massa anche se
sindacata, senza produrre uno sperpero esiziale di ricchezze ed il
sacrificio dei più deboli per opera dei più forti e
brutali; e anche meno si potrebbero in massa stabilire gli accordi
fra le diverse località e gli scambi fra le diverse
corporazioni di produttori. Bisognerebbe dunque provvedere per mezzo
di deliberazioni prese in assemblee popolari ed eseguite da gruppi
ed individui o spontaneamente offertisi o regolarmente delegati.
Ora, se v’è un ristretto numero d’individui che per lunga
abitudine sono considerati capi dei sindacati, se vi sono segretari
permanenti ed organizzatori ufficiali, saranno essi che
automaticamente si troveranno incaricati di organizzare la
rivoluzione, ed essi avranno tendenza a considerare come intrusi ed
irresponsabili quelli che vorranno prendere delle iniziative
indipendenti da loro, e vorranno imporre, sia pure colle migliori
intenzioni la loro volontà – magari con la forza.
Ed allora il regime sindacalista diventerebbe presto la stessa
menzogna e la stessa tirannia che è diventata la cosiddetta
dittatura del proletariato.
Il rimedio a questo pericolo e la condizione perchè la
rivoluzione riesca veramente emancipatrice stanno nel formare un
gran numero d’individui capaci di iniziativa e di opere pratiche,
nell’abituare le masse a non abbandonare la causa di tutti nelle
mani di qualcuno e a delegare, quando delegazione è
necessaria, solo per incarichi determinati e per tempo limitato. Ed
a creare una siffatta situazione ed un siffatto spirito è
mezzo efficacissimo il sindacato se organizzato e vissuto con metodi
veramente libertari.
b. L’unità sindacale38
Si sente oggi da molti il bisogno di arrivare all’“Unità
sindacale”, vale a dire di fondere insieme in un solo grande
organismo le varie organizzazioni operaie che, pur avendo comune lo
scopo della difesa e dell’attacco contro lo sfruttamento
capitalistico, sono state finora divise ed in lotta tra di loro a
causa di differenze nei fini ultimi che si propongono e nei mezzi di
lotta preferiti, e spesso, purtroppo, per ambizioni di capi e
rivalità di reclutamento. E già qualche risultato
pratico sulla via dell’unione è stato raggiunto, come
è la fusione dell’Unione Italiana del Lavoro e di qualche
organizzazione bianca del Cremonese e del Bergamasco colla
Confederazione Generale del Lavoro.
Io, anche se dovessi su questo punto trovarmi in disaccordo con
qualche compagno particolarmente affezionato ad una speciale
organizzazione benemerita del proletariato italiano e più
affine alle idee ed ai metodi anarchici, mi auguro che il movimento
fusionista continui e progredisca fino ad abbracciare tutti quei
lavoratori che in un grado qualunque ed in un qualsiasi modo sentono
l’ingiustizia di cui sono vittime nell’attuale società, che
vogliono lottare contro i padroni per il miglioramento e per
l’emancipazione e che, comprendendo l’impotenza in cui si trova il
lavoratore isolato, cercano nella solidarietà coi loro
compagni di classe la forza di cui hanno bisogno. E vorrei che i
nostri compagni accettassero e magari si facessero antesignani di
questa tendenza, che rappresenta poi l’intimo desiderio di quel gran
numero di lavoratori che si sentono fratelli con tutti quelli che
lavorano e soffrono con loro e non comprendono le ragioni di certe
divisioni e spesso, a causa di quelle divisioni, si appartano
sfiduciati e disgustati – non già, s’intende, perchè
gli anarchici indulgano ai metodi dei dirigenti della Confederazione
generale, ma perchè cerchino di far trionfare colla
propaganda e coll’esempio i metodi che credono migliori e
soprattutto fraternizzino colle masse organizzate nella
Confederazione e facciano in modo, per quel che da loro dipende, che
tutti i lavoratori siano uniti e solidali nella lotta contro i
padroni.
È certo che la divisione della parte eletta del proletariato
tra diverse organizzazioni rivali ed ostili fa sciupare in lotte
intestine quelle forze che dovrebbero essere tutte impiegate
nell’educazione e nella lotta contro il nemico comune, come è
certo che quella divisione fu una delle cause precipue per cui il
proletariato fu sconfitto e sottoposto ad un rincrudimento di
oppressione, proprio quando sembrava che fosse alla vigilia della
vittoria. Quindi è urgente che tutti coloro che vogliono
sinceramente e senza mire personali l’elevazione dei lavoratori e
l’umana emancipazione, facciano il possibile per giungere alla
desiderata unione. E naturalmente noi saremmo fieri se i compagni
nostri, gli anarchici, si distinguessero per il loro zelo in
quest’opera salutare.
Senonchè i partiti politici, i quali del resto sono stati
spesso gli originatori ed i primi animatori del movimento sindacale,
vollero servirsi delle associazioni operaie come campo di
reclutamento e come strumenti pei loro fini speciali di rivoluzione
o di conservazione sociale. Quindi le divisioni tra la classe
operaia organizzata in vari raggruppamenti sotto l’ispirazione dei
vari partiti. Quindi il proposito di coloro che vogliono
l’unità proletaria di sottrarre i sindacati alla tutela dei
partiti politici.
Però in questo affermato proposito di sottrarsi all’influenza
dei partiti politici, di “escludere la politica dai sindacati” si
nasconde un equivoco ed una menzogna.
Se per politica s’intende ciò che riguarda l’organizzazione
dei rapporti umani e più specialmente i rapporti liberi o
coatti tra cittadini e l’esistenza o meno di un “governo” che
assommi in sè i pubblici poteri e si serva della forza
sociale per imporre la propria volontà e difendere
gl’interessi di sè stesso e della classe da cui emana,
è evidente che essa politica entra in tutte le manifestazioni
della vita sociale, e che un’organizzazione operaia non può
essere realmente indipendente dai partiti se non diventando essa
stessa un partito.
Infatti, oggi stesso che tanto si parla di unità, vediamo che
la Confederazione generale, mentre si dichiara autonoma da tutti i
partiti politici, tende a diventare essa stessa “partito del
lavoro”, cioè un partito politico con i suoi scopi ed i suoi
metodi particolari, che nel suo caso sarebbero metodi principalmente
parlamentari. Come del resto, a parte le questioni di parole, fu in
realtà sempre un partito l’Unione Sindacale Italiana, come
partiti o appendici, “masse di manovra” di partiti sono l’Unione
Italiana del Lavoro e le Organizzazioni bianche
È vano dunque sperare, e per me sarebbe male il desiderare,
che la politica sia esclusa dai sindacati, poichè ogni
questione economica di qualche importanza diventa automaticamente
una questione politica ed è sul terreno politico, cioè
colla lotta tra governati e governanti che si dovrà risolvere
in definitiva la questione dell’emancipazione dei lavoratori e della
libertà umana.
Ed è naturale, è chiaro, che debba essere così.
Quindi necessariamente le organizzazioni operaie debbono proporsi
una linea di condotta di fronte all’azione attuale o potenziale dei
governi...
Ora, come fare a mantenere l’unità quando vi sono quelli che
vogliono servirsi della forza dell’associazione per andare al
governo, e quelli che credono che ogni governo è
necessariamente oppressore e nefasto e quindi vogliono avviare
quella stessa associazione alla lotta contro ogni istituzione
autoritaria presente o futura? Come tenere insieme
socialdemocratici, “comunisti” di Stato e anarchici?
Ecco il problema. Problema che si può eludere in certi
momenti, in occasione di una lotta concreta che riunisce tutti, o
almeno una grande massa, in un interesse ed un desiderio comuni, ma
che risorge sempre e non è facile risolvere fino a che
esistono condizioni di violenza e diversità di opinione sul
modo di resistere alla violenza.
Ma allora, quale è la via di uscita di queste
difficoltà, e quale è la condotta che in questa
questione dovrebbero tenere gli anarchici?
Per me il rimedio sarebbe: intesa generale e solidarietà
nelle lotte puramente economiche; autonomia completa degli individui
e dei vari raggruppamenti nelle lotte politiche.
Ma è possibile vedere a tempo dove la lotta economica diventa
lotta politica? E vi sono lotte economiche importanti che
l’intervento del governo non renda politiche fin dall’inizio?
In ogni modo noi anarchici dovremmo portare la nostra
attività in tutte le organizzazioni per predicarvi l’unione
fra tutti i lavoratori, la tolleranza reciproca, l’autonomia dei
vari aggruppamenti, il decentramento, la libertà
d’iniziativa, nel quadro comune della solidarietà contro i
padroni.
E non far gran caso se la mania di accentramento e di autoritarismo
degli uni, e l’insofferenza degli altri ad ogni anche ragionevole
disciplina mena a nuovi frazionamenti. Poichè, se
l’organizzazione dei lavoratori è una necessità
primordiale per le lotte di oggi e per le realizzazioni di domani,
non ha grande importanza l’esistenza e la durata di questa o di
quella determinata organizzazione. L’essenziale è che si
sviluppi nei singoli lo spirito d’organizzazione, il senso della
solidarietà, la convinzione della necessità di
cooperazione fraterna per combattere l’oppressione e realizzare una
società in cui tutti possano godere di una vita veramente
umana.
4. Le idee ed i fatti
1. LA CRISI ATTUALE DELL’ANARCHISMO NEL MOVIMENTO SOCIALE
a. Via e mezzi39
Sono ormai quarant’anni che le idee anarchiche han preso consistenza
di ideale completo di demolizione e ricostruzione sociale;
quarant’anni che gli anarchici predicano e lottano e soffrono;
quarant’anni che i più devoti tra loro languono per le
prigioni o lasciano la vita sui patiboli.
Sono i risultati in proporzione del tempo decorso, degli sforzi e
dei sacrifici fatti?
La nostra critica ha trionfato di tutti i sofismi con cui si
pretende giustificare il sistema sociale attuale: il nostro pensiero
ha agito sulla letteratura e sulla scienza; le nostre previsioni
sull’evoluzione delle istituzioni e dei partiti si vanno
verificando, a riprova della giustezza delle nostre idee: l’opera
nostra, o il bisogno di opporsi all’opera nostra, ha spinto in
avanti gli altri partiti, o ne ha limitato la regressione; il nostro
numero è cresciuto. Ma è la nostra influenza sul
movimento sociale proporzionata al valore delle nostre idee, alla
somma di energie spese e di sacrifici fatti, o anche semplicemente
alla nostra, per quanto scarsa forza numerica?
Certamente no!
Nel corso degli anni molte occasioni si sono presentate in cui
avremmo potuto affermarci efficacemente, ed esse ci han sempre
trovati impreparati, disorganizzati, incerti, capaci solo di
proteste senza portata o di sacrifici quasi inutili.
Recentemente il governo d’Italia impegnò il paese in una
guerra infame, e non potemmo opporre nessuna valida resistenza e
dovemmo assistere impotenti allo spettacolo doloroso di un popolo
che dimentica i suoi più vitali interessi e le sue più
nobili tradizioni, che rinnega ogni sentimento di giustizia e di
libertà e si fa strumento volenteroso in mano ai suoi
oppressori per conquistar loro, fra la strage e le devastazioni,
nuovi sudditi da sfruttare ed opprimere.
Ed oggi che la massa incomincia a rinsavire ed il momento sarebbe
propizio per raccogliere le nostre forze, iniziare una larga e
sistematica propaganda e prepararci per poter mettere a profitto gli
eventi che maturano, oggi ancora noi restiamo impotenti ed inerti,
perchè divisi ed indecisi sul da farsi; o, almeno, gli sforzi
che già fanno tanti compagni devoti sono ancora impari al
bisogno ed alle possibilità, e perciò noi, con questo
giornale, veniamo ad aggiungervi i nostri.
Occorre indagare le ragioni del nostro insuccesso, e portarvi
rimedio.
Certamente, grandi sono le forze che dobbiamo combattere ed
abbattere, immensi i pregiudizi che dobbiamo sradicare, le energie
che dobbiamo scuotere; ed era naturale che le illusioni di rapidi,
immediati successi che animavano i primi assertori dell’anarchismo
si dileguassero al contatto delle dure realtà della vita.
Ma oltre i ritardi, le oscillazioni, gl’insuccessi causati dalle
fatali lentezze dell’evoluzione sociale, vi sono state, secondo noi,
errori e deficienze nostre, che avrebbero potuto essere evitate se
avessimo avuto una più chiara concezione della via da
percorrere, una più coerente attività, una maggiore
resistenza contro le mille cause di deviazione...
Noi siamo nel regime attuale, la minoranza ribelle: una minoranza
che è convinta che il male dipenda dalle basi stesse della
costituzione sociale e che vuole perciò la distruzione
radicale di tutto il sistema.
Noi dobbiamo dunque suscitare nel popolo la coscienza dei suoi
diritti e della sua forza, dobbiamo svelare tutti gli errori, le
menzogne, le ingiustizie che formano il fondamento della
società presente, dobbiamo sforzarci di propagare, pur tra
gli ostacoli e le difficoltà dell’ambiente, il nostro ideale
di libertà, di giustizia, di solidarietà umana;
dobbiamo favorire tutto ciò che può servire ed educare
e migliorare gl’individui; ma non dobbiamo mai dimenticare che, in
ultima analisi, la società presente si regge sulla forza
brutale, sulla forza delle baionette e dei cannoni, e che è
solo con la forza che si potrà risolvere la grande vertenza.
È vero che la società attuale sarebbe, se la borghesia
fosse più intelligente e meno gretta, suscettibile di
miglioramento. Molte sofferenze sono inutili e dannose agl’interessi
dei dominatori, e quindi possono essere alleviate anche in regime
autoritario e capitalistico. E noi siamo lieti di ogni cambiamento
che venga a lenire i dolori dei lavoratori, aumentando nello stesso
tempo la forza di resistenza e di attacco. Ma, preoccupati
sopratutto dell’avvenire, volendo fare la rivoluzione e non farci
distributori di palliativi, noi non sapremmo lottare per i piccoli
miglioramenti se non in modo ed in limiti tali che essi non servano
ad addormentare il popolo e a menomare la capacità
rivoluzionaria nostra.
Questa necessità dell’insurrezione che deriva logicamente dal
genere di rivoluzione che vogliamo fare e dalla natura dell’ideale
cui aspiriamo, fu chiaramente intuita ed affermata nei primi tempi
della propaganda e dell’azione anarchica. E conformemente ad essa
agirono i primi anarchici, quando l’idea nostra, pur nuova e povera
di seguaci, riuscì ad imporsi all’attenzione del pubblico e
fu la speranza degli oppressi, il terrore degli oppressori.
I successi naturalmente non sempre rispondevano alle speranze che
l’entusiasmo giovanile aveva fatto nascere nell’animo degli audaci,
che, in pochi e senza mezzi, osavano continuamente sfidare in tutti
i modi i governi ed i padroni. Ma intanto l’idea si propagava, la
tattica si perfezionava, e tra l’alternarsi di subiti entusiasmi e
transitori scoraggiamenti, si andava verso il giorno in cui il
partito anarchico, conquistata a sè la parte più
cosciente dei lavoratori, e profittando di una crisi politica ed
economica come quelle che fatalmente si producono in una
società in cui tutti gli interessi sono antagonistici,
avrebbero potuto, anche col concorso occasionale di altri partiti
propensi ad insorgere per i loro fini particolari, spingere le masse
alla lotta, disfare le forze opprimenti dello Stato, metter mano
sull’arca santa della proprietà individuale, e cominciare
così la rivoluzione sociale.
Ma a questo punto, sopravvenne una deviazione che fu fatale a tutto
il movimento. Una parte importante di rivoluzionari, quelli che
volevano come gli anarchici la socializzazione della ricchezza, ma
non accettavano il loro programma antistatale ed aspiravano alla
conquista dei poteri governativi, comprendendo forse che una lotta
condotta con metodi illegali sarebbe probabilmente riuscita
contraria alla costituzione di un nuovo regime autoritario, si
avvisarono di entrare nelle vie della legalità ed adottare la
lotta elettorale come mezzo precipuo di azione. E con essi si
unirono molti, anche venuti dagli anarchici, che erano stanchi di
una lotta che presentava molti pericoli e poche speranze di
immediate soddisfazioni personali, e furono felici di mascherare con
pretesti speciali la loro stanchezza od il loro tradimento.
E tutti costoro, che costituirono il partito socialista democratico,
una volta entrati nella via elettorale e parlamentare, scesero
rapidamente di transazione in transazione, e divennero ben tosto un
elemento di conservazione, e furono e sono spesso la migliore difesa
dell’ordine borghese contro gli scoppi sempre possibili della
collera popolare.
D’altra parte molti anarchici, vedendo che le masse seguivano
più volentieri quella che sembrava la via più facile e
che meglio rispettava la loro energia, perdettero fede nella
possibilità dell’insurrezione e, o restarono sfiduciati ed
inerti, o cercarono per altre vie la realizzazione dei loro ideali,
che pur non possono realizzarsi, nè in tutto nè in
parte, se prima non si è abbattuto il regime vigente. Mentre
coloro che conservavano chiaro il concetto del fine da raggiungere,
e dei metodi che esso fine domanda ed impone, furono impotenti ad
arrestare lo sfacelo.
E così non solo non potemmo più determinare delle
correnti d’opinione a noi favorevoli, ma quando si sono presentati
dei fatti, di fronte ai quali ci conveniva prender partito, siamo
restati disorientati, incerti, divisi.
Ma tutto questo è il passato, ed a noi ciò che importa
è l’avvenire.
Bisogna rimettersi all’opera con l’energia, l’entusiasmo, lo spirito
di sacrificio che già furono doti caratteristiche degli
anarchici. Bisogna riaffermare i nostri ideali e la nostra tattica,
e spargerne largamente la conoscenza fra le masse. Bisogna far
sentire la nostra azione in tutte le manifestazioni della vita
sociale. Bisogna coordinare tutte le nostre attività allo
scopo che ci prefiggiamo: la rivoluzione per l’anarchia e pel
comunismo.
b. Insurrezionismo o evoluzionismo?40
È vecchio tema quello di rivoluzione e evoluzione,
continuamente discusso, e continuamente rinascente, a causa
sopratutto dell’equivoco prodotto dal vario significato che si
può dare alle due parole. La parola evoluzione a volte si
prende nel senso generico di cambiamento ed allora afferma un fatto
generale della natura e della storia sul quale si può
discutere dal punto di vista della scienza, ma che non è
messo in dubbio da nessuno nel campo della sociologia; a volte si
prende nel senso di cambiamento lento, graduale, regolato da leggi
fisse nel tempo e nello spazio, che esclude ogni salto, ogni
catastrofe, ogni possibilità di esser affrettato o ritardato
e sopratutto di essere violentato e diretto dalla volontà
umana in un senso o nell’altro, ed allora essa vuole contrapporsi
alla parola ed all’idea di rivoluzione.
E la parola rivoluzione essa pure, secondo che meglio torna alla
tesi che si vuol sostenere, ora si prende nel senso di cambiamento
radicale, profondo delle istituzioni sociali ed in quel senso tutti
– meno forse i religiosi i quali credono che le cose sono quali sono
per volontà di Dio e saran sempre così – tutti possono
dirsi rivoluzionari solo che usino la prudenza di rimandare a tempi
lontanissimi (a tempi maturi, come dicono) l’attuazione dei
cambiamenti auspicati; ed ora si prende nel senso di cambiamento
violento, fatto per forza contro le forze conservatrici ed allora
implica lotta materiale, insurrezione armata, con il corteggio di
barricate, bande armate, sequestro dei beni della classe contro cui
si combatte; sabotaggio dei mezzi di comunicazione, ecc. E
perciò si è discusso e si torna a discutere senza mai
arrivare ad intendersi (o non intendersi) in modo chiaro e
definitivo...
Noi, in presenza di certe idee che si sono manifestate nel campo
nostro e che potrebbero essere il germe di una nuova deviazione (da
aggiungersi al parlamentarismo al cooperativismo all’educazionismo
ecc.), e produrre un nuovo arresto del nostro rinascente movimento
crediamo bene mettere ancora una volta in discussione il vecchio
argomento, e per essere più chiari, invece di contrapporre
rivoluzione ed evoluzione, diremo insurrezione ed evoluzione e
ciò non tanto nella speranza di metter tutti d’accordo,
quanto col desiderio di evitare confusioni e distinguere bene tra
coloro che la rivoluzione la vogliono fare oggi, domani, il
più presto possibile insomma, e quindi vogliono lavorare a
prepararla, e quelli che predicando che la rivoluzione la dovranno
fare i nostri figli o i nostri nipoti, inducono la gente, sia pure
involontariamente, a cercar di cavare il più che si
può dalle circostanze attuali, a non pensare più ad
una rivoluzione oramai rimandata alle generazioni future e quindi a
trovarsi sorpresi ed impreparati quando capitano le occasioni.
La questione è questa.
Per produrre un cambiamento politico-sociale è egli
necessario che il regime vigente sia esaurito e che nella coscienza
di tutti, o almeno della maggioranza, si sia formato un desiderio ed
un concetto chiaro della specie di cambiamento da produrre? Ed
è possibile che in un dato regime sociale, si formi una
coscienza universale favorevole al cambiamento fondamentale di detto
regime?
O non è vero piuttosto che ogni regime, nato per imposizione
forzata sulle masse, ricalcitranti forse ma incapaci di azione
collettiva e cosciente con scopi predeterminati, tende a
consolidarsi e farsi accettare, correggendo i suoi difetti,
compensando nel miglior modo possibile i mali che produce e creando
una mentalità pubblica adatta al suo mantenimento; e quindi
è tanto più forte quanto più ha durato? Non
è egli vero che le rivoluzioni, i progressi di tutte le
specie, si fanno per opera di minoranze, spesso sparute, che
alterando di fatto (colla forza quando si tratta di istituzioni che
colla forza negano alle minoranze il diritto di agire) le condizioni
ambientali, e utilizzando gli istinti oscuri, i bisogni incoscienti
delle masse, le trascinano con loro e le incamminano sopra una via
novella?
I marxisti, che tanta influenza hanno avuto, e tanta nefasta, sulle
tendenze del socialismo contemporaneo, han cullato i malcontenti ed
i ribelli coll’idea che il sistema capitalista portava in sè
i germi di morte, e colla concentrazione della ricchezza il numero
sempre più piccolo di persone e colla miseria crescente
menava fatalmente alla trasformazione sociale
E gli educazionisti, d’altro lato, han creduto e credono ancora che
a forza di propagar l’istruzione, di predicare il libero pensiero,
la scienza positiva, ecc., di istituire università popolari e
scuole moderne, si possa distruggere nelle masse il pregiudizio
religioso, la soggezione morale al dominio statale, la credenza dei
diritti sacrosanti delle proprietà, e rendere così
insopportabile a tutti, e quindi incapace di reggersi, il regime di
menzogna d’ingiustizia e di oppressione che si mira a distruggere.
E ora si aggiunge il sindacalismo dottrinario il quale pretende che
l’organizzazione operaia, il sindacato, conduca per sua virtù
propria automaticamente, alla distruzione del salariato e dello
Stato.
Ora, sta avvenendo invece che il capitalismo si allarga e si
rafforza; ed i marxisti, rinunciando in pratica se non in teoria ai
dogmi della scuola, si danno a predicare e favorire riforme che,
quando fossero possibili, non farebbero che consolidare il
capitalismo stesso, mitigandone gli effetti omicidi, e sostituendo
alla lotta di classe un accordo tra lavoratori e capitalisti che
renderebbe più stabili e più sicure le condizioni
degli uni e degli altri e tenderebbe ad evitare quei conflitti dai
quali potrebbe nascere la rivoluzione. E dove il capitalismo
individuale si mostra impotente a garantire la stabilità
sociale, cioè la perpetuazione del privilegio, già sta
per essere sostituito dal capitalismo di Stato, in cui i
privilegiati invece di capitalisti si chiamerebbero funzionari ed il
popolo di lavoratori sarebbe ridotto a gregge, forse un po’ meglio
pasciuto, forse un po’ meno esposto alle alee della disoccupazione e
della vecchiaia ma più schiavo che in regime capitalista.
Da un altro lato il movimento operaio, a misura che si allarga e si
normalizza tende a salvaguardare gl’interessi immediati come si
può mediante gli accordi coi padroni, e, peggio ancora, tende
a creare privilegi e quindi rivalità di categorie ed a
preparare un quarto stato, una nuova classe di privilegiati che
lascerebbe sotto di sè la grande massa più oppressa e
più incapace di riscossa che mai.
E gli educazionisti debbono pur vedere quanto sono impotenti i loro
sforzi generosi, paralizzati dalla scarsezza dei mezzi, dalle
persecuzioni, o quanto meno dall’opposizione sorda dei poteri
pubblici, e sopratutto dall’influenza dell’ambiente; e debbono con
gran dolore e grande disillusione osservare come l’oscurantismo,
clericale e laico, tiene trionfalmente il campo contro il progredire
e il propagarsi della scienza.
Non v’è dunque, secondo noi, da illudersi, finché
durano le condizioni economiche e politiche attuali, di poter
elevare sensibilmente la coscienza delle masse e trasformare
l’ambiente in modo da renderlo atto alla realizzazione dei nostri
ideali.
Ma il mondo non resta immobile per questo.
Fortunatamente v’è in ogni tempo ed in ogni luogo delle
minoranze che sfuggono, in un grado più o meno grande,
all’influenza dell’ambiente e sono capaci di rivolta morale, che poi
si trasforma in rivolta di fatto e può trionfare quando le
circostanze si prestano e le minoranze sparse sappiano intendersi e
concorrere all’opera comune.
E se lo scopo fosse una semplice rivoluzione politica, un semplice
cambiamento di governo, o anche un cambiamento più profondo
ma fatto per opera di governo, l’insurrezione trionfante di queste
minoranze basterebbe ad attuarne il programma, come è bastato
nelle rivoluzioni passate e contemporanee. Ma noi vogliamo una
rivoluzione profonda, che trasformi tutte le condizioni della vita,
che metta tutto il popolo, cioè tutti gl’individui che
formano il popolo, in grado di concorrere direttamente alla
costituzione delle nuove forme di convivenza sociale, e
perciò dall’insurrezione noi non ci aspettiamo, non possiamo
aspettarci, l’attuazione immediata e generale delle nostre idee, ma
solo la creazione di circostanze più favorevoli alla nostra
propaganda ed alla nostra azione, il principio insomma della nostra
Rivoluzione. E questo noi potremo conseguire, poichè, quando
il governo attuale sarà abbattuto da una insurrezione, quando
non avremo più contro tutte le forze dello Stato, che si
sommano nella forza materiale dell’esercito e della polizia, anche
se gli altri partiti che avranno concorso all’insurrezione mirano,
come certamente mireranno, alla costituzione di nuovi governi, di
nuovi organismi autoritari ed oppressivi noi non prometteremo al
popolo di fare il suo bene, ma lo spingeremo a farselo da sè
stesso, a prendere possesso della ricchezza, a esercitare di fatto
la libertà conquistata, in modo che esso popolo senta
immediatamente i vantaggi della rivoluzione e sia interessato al suo
trionfo e stia, almeno in parte, con noi per opporsi al nuovo giogo
sotto cui lo si vorrebbe mettere.
Praticamente: dovunque in Italia si è fatto della propaganda
con una certa attività ed una certa costanza si è
riusciti a cavar fuori dei nuclei anarchici più o meno
numerosi. Sperare che questi nuclei abbiano ad ingrossare
indefinitamente fino a comprendere tutta quanta la popolazione di
ciascuna località, o la più gran parte di essa,
sarebbe andare incontro ad una sicura disillusione. Ogni
località contiene, in date circostanze, un numero limitato
d’individui più o meno suscettibili di comprendere e far sue
le nostre aspirazioni quindi più grande è la
propaganda che si è fatta in un posto e più difficili
sono i progressi ulteriori.
Ma noi siamo lungi di aver raccolti, anche nelle località
più lavorate, tutti gli elementi disponibili e di averli
coltivati quando è possibile – e quel che è
più, vi è in Italia un numero infinito di
località, vi sono intere regioni, in cui la propaganda
anarchica non è mai penetrata. Perciò la rivoluzione,
ma una rivoluzione in cui sia ben marcata l’impronta anarchica,
può apparire oggi difficile o impossibile. Ma se noi
lavoreremo con attività e costanza, se intensificheremo la
nostra propaganda nei luoghi dove già esistiamo, se faremo
tutto il possibile per penetrare, di vicino a vicino, nei paesi dove
siamo ancora ignorati, noi potremo presto coprire gran parte
d’Italia di una rete di gruppi anarchici capaci d’intesa e d’azione
concentrata. E allora, se avremo la volontà ferma di fare la
rivoluzione, di farla noi, di farla oggi, allora le occasioni non
mancheranno… e se mancheranno le creeremo.
2. LA SETTIMANA ROSSA
a. La rivoluzione in Italia. La caduta della monarchia sabauda41
Non sappiamo ancora se vinceremo, ma è certo che la
rivoluzione è scoppiata e va propagandosi.
La Romagna è in fiamme, in tutta la regione da Terni ad
Ancona il popolo è padrone della situazione. A Roma il
governo è costretto a tenersi sulle difese contro gli assalti
popolari; il Quirinale è sfuggito, per ora, all’invasione
della massa insorta, ma è sempre minacciato.
A Parma, a Milano, a Torino, a Firenze, a Napoli agitazione e
conflitti.
E da tutte le parti giungono notizie, incerte, contraddittorie, ma
che dimostrano tutte che il movimento è generale e che il
governo non può porvi riparo.
E dappertutto si vedono agire in bella concordia repubblicani,
socialisti, sindacalisti ed anarchici.
La monarchia è condannata. Cadrà oggi, o cadrà
domani ma cadrà sicuramente e presto.
È il momento di mettere in opera tutta la nostra energia,
tutta la nostra attività.
Qualunque debolezza, qualunque esitazione sarebbe oggi non solo
vigliaccheria, ma una sciocchezza.
All’opera tutti, con tutte le forze disponibili.
La necessità del momento.
Poichè lo sciopero di protesta si è sviluppato in
rivoluzione bisogna provveder alle necessità della
rivoluzione.
E prima di tutto (dopo l’attacco e la difesa contro le forze
governative) bisogna provvedere all’alimentazione della
cittadinanza.
Bisogna che nessuno manchi di pane che nessun bambino manchi di
latte, che gli ospedali siano forniti di tutto l’occorrente.
Perciò le Camere del lavoro, le organizzazioni operaie ed i
comitati di volontari prendano le misure necessarie perchè il
servizio di approvvigionamento e di distribuzione proceda
regolarmente e sufficientemente.
Noi non intendiamo, ora, abolire la proprietà individuale: ma
pretendiamo che i proprietari, i negozianti, i venditori di tutte le
specie non abusino della circostanza per strozzare la popolazione e
pretendiamo che si provveda per conto del municipio, per conto della
collettività a coloro che sono sprovveduti di ogni mezzo per
comprare il necessario.
Il dazio è abolito, per volontà della popolazione,
bisogna che quest’abolizione vada a vantaggio di tutti, e non
già a profitto dei negozianti. La roba deve essere venduta al
prezzo di prima, meno importo del dazio.
Provvedano a questo i Cittadini stessi per mezzo della Camera del
Lavoro, delle varie associazioni e dei comitati rionali di
volontari.
Ora non è più il caso di preoccuparsi se un barbiere,
per esempio, ha servito o no un cliente, o se un trattore ha aperto
o no la sua bottega. Ora non è più sciopero, è
rivoluzione; e bisogna provvedere alle due prime necessità
della rivoluzione: la difesa armata e l’alimentazione del popolo.
Ciascuno faccia quello che può, non si sciupi la roba,
nè il pane, nè le munizioni.
E si badi di non abusare di bevande alcoliche; perchè
è tempo di tenere la testa a posto.
Il tradimento.
Si è fatto correr la voce che la Confederazione Generale del
Lavoro ha ordinato la cessazione dello sciopero.
La notizia manca di ogni prova, ed è probabile sia stata
inventata e propagata dal governo collo scopo di gettare il dubbio
in mezzo ai lavoratori ed arrestarne lo slancio magnifico.
Ma fosse anche vera, essa non servirebbe che a marchiare d’infamia
coloro che avrebbero tentato il tradimento.
La Confederazione Generale del Lavoro non sarebbe ubbidita.
Già si annunzia che le Camere del Lavoro di Milano e di
Bologna si sono rivoltate agli ordini. La Camera del Lavoro di
Ancona è autonoma. L’Unione Sindacale Italiana certamente non
mancherà il suo dovere. I ferrovieri hanno quasi
completamente arrestato il servizio, e le linee sono state manomesse
in modo che non è possibile al governo di ripararle nel breve
tempo che gli resta di vita.
E poi, ancora una volta, ora non si tratta più di sciopero,
ma di RIVOLUZIONE.
Il movimento incomincia adesso, e ci vengono a dire di cessarlo!
Abbasso gli addormentatori! Abbasso i traditori! Evviva la
rivoluzione!
b. E ora?42
Ora… continueremo. Continueremo più che mai pieni
d’entusiasmo fatto di volontà, di speranza, di fede.
Continueremo a preparare la rivoluzione liberatrice, che
dovrà assicurare a tutti la giustizia, la libertà, il
benessere. Se il governo e la borghesia s’immaginano di aver vinto
la rivoluzione e d’averla domata, s’accorgeranno un giorno quanto
mai è grande il loro errore. Questa volta non han vinto che
uno scoppio spontaneo d’indignazione popolare: non hanno avuto che
un piccolo saggio della collera che van seminando nell’animo dei
lavoratori. Sentiranno un’altra volta il basta formidabile del
proletariato, che porterà fine al regime.
Le nostre intenzioni erano modeste. Appena all’inizio della nostra
preparazione, quando non ancora erano sparite le ultime tracce
dell’ubriacatura libica e il risveglio del popolo italiano era,
nella più gran parte del paese, solo da poco incominciato,
noi non pensavamo certamente di poter fare la rivoluzione con i
comizi ed i cortei del giorno dello Statuto. Noi intentavamo
soltanto di far sentire al governo la necessità di far
liberare le vittime militari (Masetti, Moroni, Fioravanti e gli
altri) e di abolire le compagnie di disciplina. La stupida
proibizione dei comizi ed il feroce eccidio di Villa Rossa spinsero
le cose ben oltre le nostre intenzioni e le nostre speranze. Senza
intesa, senza preparazione, tutta Italia insorse indignata, ed in
molte parti lo sciopero generale di protesta assunse subito aspetto
di rivolta aperta contro le istituzioni dello Stato. Ed il movimento
si andava allargando ed intensificando e nessuno può dire
dove sarebbe finito, se in sul bel principio non fosse venuto a
fermarlo quell’ordine della Confederazione Generale del Lavoro, che
se fu un segnalato servizio reso al governo, fu perciò stesso
il più nero tradimento perpetrato contro il proletariato
italiano. Chi vorrà potrà dire ormai che la
rivoluzione è impossibile e che l’insurrezione popolare
è roba da quarantotto? Estendete ad una gran parte d’Italia –
e la cosa si va facendo quasi diremo da sè – lo stato d’animo
dei lavoratori di Romagna e delle Marche, e l’insurrezione scoppia e
trionfa spontaneamente per un’occasione qualsiasi.
La lezione di questi giorni agitati non deve andar perduta. Noi
abbiamo visto che le masse sono sensibili e disposte alla lotta.
Abbiamo visto che le differenze di scuole, di tendenze, di partito
non impediscono un’azione comune per uno scopo comune, e che lo
sciopero generale è ottimo mezzo per incominciare un
movimento rivoluzionario, ma che non può continuare come
sciopero senza stancare la popolazione e ridurla alla fame; e che
perciò l’astensione dal lavoro deve ben presto cambiarsi in
lavoro fatto a favore della collettività, ed in
organizzazione della raccolta e distribuzione dei generi di consumo
a beneficio di tutti. Abbiamo visto che gli avvenimenti impreveduti
danno quel che possono dare, ma che per riuscire bisogna prepararsi
metodicamente secondo piani preordinati. Ed abbiamo visto ancora che
le occasioni possono capitare quando uno meno se lo aspetta, e che
perciò bisogna star pronti sempre. Tutto quanto non
sarà stato visto inutilmente.
E che cosa farà il governo? V’è chi parla di biechi
propositi di repressione, e non mancano giornali che spingono il
governo su quella via, e designano specialmente noi ai suoi colpi.
Non crediamo che il governo vorrà aumentare il discredito
delle istituzioni violando le leggi fatte per sorreggerle.
Poichè è bene si sappia, noi, pur essendo nemici delle
leggi, per misura di prudenza e finchè siamo i più
deboli cerchiamo di non esporci alle loro sanzioni. Noi vogliamo
fare la rivoluzione e la prepariamo; ma la prepariamo alla luce del
sole, colla propaganda scritta e orale, suscitando nelle masse la
coscienza dei loro diritti e delle loro forze ed ispirando loro
l’ideale di una civiltà superiore, e cercando di mettere pace
e concordia fra i proletari ed affratellarli nella lotta contro il
nemico comune. E tutto questo, per quanto profondamente sovversivo
nel fine, è anche perfettamente legale. In ogni modo noi
stiamo a vedere quel che faranno e ci regoleremo in conseguenza. Il
governo si trova in una tragica posizione. O ci lascia tranquilli e
noi continueremo tranquillamente l’opera nostra, o si abbandona a
persecuzioni, e farà più propaganda in nostro favore
di quella che potremo mai fare noi stessi. Il regime è
condannato, e non si salva più, nè con le blandizie
nè con i rigori. Solamente la rivoluzione sarà tanto
meno violenta, il trapasso alla nuova società tanto meno
doloroso, quanto meno violenta sarà la resistenza.
c. Movimenti stroncati43
Settimana Rossa – Corre in certi ambienti la leggenda ch’io sia
stato l’organizzatore della “Settimana Rossa” del 1914. Grande onore
per me, ma purtroppo non meritato!
La “Settimana Rossa” non fu un movimento preparato e voluto, ma
avvenne impensatamente per la reazione spontanea di un popolo fiero
ad una provocazione insensata e sanguinosa della forza pubblica.
Le cose andarono così.
Da parecchio tempo i partiti sovversivi e specialmente gli anarchici
ed i sindacalisti si agitavano per ottenere la liberazione di
Masetti e l’abolizione delle Compagnie di disciplina. Conferenze e
comizi si moltiplicavano; ma gli effetti erano scarsi ed il governo
non dava segni di cedere. Si cercava qualche altro modo di
manifestazione più clamoroso, che potesse scuotere l’opinione
pubblica ed impressionare le autorità. In un comizio in
Ancona un militare (che non nomino perchè non so se ora ne
avrebbe piacere) lanciò una proposta che fu accolta con
entusiasmo. Siccome si avvicinava la prima domenica di giugno, in
cui il mondo ufficiale commemora “la concessione” dello Statuto
Albertino con riviste militari, ricevimenti reali e prefettizi, noi,
diceva il proponente, dovremmo impedire o almeno disturbare la
festa; convochiamo per il giorno dello Statuto comizi e cortei in
tutte le città d’Italia ed il governo sarà costretto a
tenere le truppe consegnate in quartiere o occupate in servizio di
pubblica sicurezza e le riviste non potranno farsi.
L’idea, fatta sua dal periodico Volontà che stampavamo allora
in Ancona, fu sostenuta e propagata con calore, e quando giunse la
prima domenica di giugno, attuata in molte città. Le riviste
non si fecero: la manifestazione era riuscita, e noi non avremmo per
allora spinte le cose più oltre, anche perchè andava
maturando in Italia un movimento generale e non avevamo interesse a
spendere le nostre forze in tentativi isolati. Ma la stupidaggine e
la brutalità della polizia disposero altrimenti.
In Ancona la mattina le truppe erano restate consegnate e non v’era
stato nulla di grave. Nel pomeriggio vi fu un comizio nel locale dei
repubblicani a Villa Rossa, e dopo che ebbero parlato oratori dei
vari partiti e spiegato le ragioni della manifestazione, la folla
incominciò ad uscire. Ma alla porta c’era la polizia che
intimava di sciogliersi e ritirarsi, mentre poi cordoni di
carabinieri chiudevano tutte le strade per le quali si poteva andar
via ed impedivano il passaggio. Ne nacque un conflitto; i
carabinieri fecero fuoco ed ammazzarono tre giovani.
Immediatamente i tram cessarono di circolare, tutti i negozi si
chiusero e lo sciopero generale si trovò attuato senza che ci
fosse bisogno di deliberarlo e proclamarlo. L’indomani ed i giorni
susseguenti Ancona si trovò in stato d’insurrezione
potenziale. Dei negozi d’armi furono saccheggiati, delle partite di
grano furono requisite, una specie d’organizzazione per provvedere
ai bisogni alimentari della popolazione si andava abbozzando. La
città era piena di truppa, navi da guerra si trovavano nel
porto, ma l’autorità pur facendo circolare grosse pattuglie,
non osava reprimere, evidentemente perchè non si sentiva
sicura dell’obbedienza dei soldati e dei marinai. Infatti soldati e
marinai fraternizzavano col popolo; le donne, le impareggiabili
donne anconetane, carezzavano i soldati, distribuivano loro vino e
sigarette, li inducevano a mischiarsi colla folla; qua e là
degli ufficiali erano sputacchiati e schiaffeggiati in presenza
delle loro truppe e i soldati lasciavano fare e spesso
incoraggiavano con cenni e con parole. Lo sciopero prendeva ogni
giorno più il carattere di insurrezione, e già dei
proclami dicevano chiaramente che non si trattava più di
sciopero e che bisognava riorganizzare sopra nuove basi la vita
cittadina.
Intanto il movimento si era propagato con rapidità fulminea
nelle Marche e nelle Romagne e già si estendeva in Toscana ed
in Lombardia. Lo stato d’animo dei lavoratori era propizio ad un
cambiamento di regime. L’accordo tra i partiti rivoluzionari s’era
fatto da sè, e, malgrado che i Pirolini e i Chiesa e i
Pacetti correvano in automobile per deprecare il movimento, i
lavoratori repubblicani lottavano in bell’armonia cogli anarchici e
con la parte rivoluzionaria dei socialisti.
Si stava per passare agli atti risolutivi. Lo sciopero a tendenza
insurrezionale si estendeva. I ferrovieri si apprestavano a prendere
in mano la direzione del servizio per impedire le dislocazioni di
truppe e non far viaggiare che i treni utili per il movimento
insurrezionale. La rivoluzione stava per farsi, per impulso
spontaneo delle popolazioni, e con grandi probabilità di
successo.
Certamente non si sarebbe in quel momento attuata l’anarchia e
nemmeno il socialismo, ma si sarebbero levato di mezzo molti
ostacoli e si sarebbe aperto il periodo di libera propaganda, di
libera esperimentazione, e sia pure di lotte civili, in capo al
quale noi vediamo rifulgere il trionfo del nostro ideale.
Ma tutto ad un tratto, quando maggiori erano le speranze, la
direzione della Confederazione generale del lavoro con telegramma
circolare dichiara finito il movimento ed ordina la cessazione dello
sciopero. E così le masse che agivano nella fiducia di
prender parte ad un movimento generale, furono disorientate;
ciascuna località vide naturalmente che era impossibile
resistere da sola, e il movimento cessò.
3. LA GRANDE SPERANZA
a. L’alleanza rivoluzionaria44
Il nostro A. F. lamentava in un numero recente i dissidi sorti a
Milano fra anarchici e socialisti e faceva, magari forzando un po’
troppo la nota, un caldo appello alla concordia di fronte al nemico
comune.
Poi, noi richiamavamo l’attenzione dei repubblicani sopra una
sconcia nota poliziesca apparsa nel giornale L’iniziativa, e ancora
una volta mostravamo desiderio di concordia e di cooperazione con i
repubblicani che la repubblica la vogliono fare sul serio e la
intendono come un regime di giustizia e di libertà.
Tutto questo ha dato sui nervi del nostro buono e feroce n. g., il
quale ci piglia bellamente in giro per i nostri “amorosi sensi” e ci
domanda: “A che cosa deve condurre l’“abbracciamoci” coi socialisti
e coi repubblicani? Alla rivoluzione? Per la dittatura di Lazzari o
per la repubblica di Pirolini?”.
Spieghiamoci chiaro.
Umanità Nova è l’organo di tutti gli anarchici e
quindi nelle sue colonne hanno diritto di città tutte le
manifestazioni del pensiero anarchico, anche di quelli che
considerano l’anarchia come un bel sogno, forse irrealizzabile, o
realizzabile solo quando la presente corrotta umanità
avrà dato luogo, non si sa per quale processo di generazione
spontanea, alla nuova umanità, dotata in tutti ed in ciascuno
dei suoi membri delle più mirifiche virtù.
Ma i redattori ordinari di Umanità Nova, e fra essi colui che
funge ora da direttore, sono dei rivoluzionari, vale a dire credono
che ogni albero non può dare che i frutti che comporta la sua
natura, che la società capitalistica e statale tende
inevitabilmente a ridurre le masse proletarie alla miseria economica
ed all’abbiezione morale, e che per poter creare un ambiente sociale
nel quale sia possibile il libero sviluppo dell’individuo e l’inizio
di una nuova civiltà, di una nuova e migliore umanità,
è necessario prima di tutto abbattere colla forza l’ordine di
cose vigenti, profittando delle crisi a cui è soggetto il
regime capitalistico e della volontà fattiva delle minoranze
coscienti e ribelli.
È quindi naturale che noi consideriamo le questioni
principalmente dal punto di vista dell’interesse rivoluzionario,
lasciando ai nostri collaboratori – anarchici più veri e
maggiori – il compito di vigilare alla purezza della dottrina.
Del resto, queste discussioni sull’utilità e sulla
necessità della rivoluzione sono oramai oziose. La
rivoluzione c’è e cammina verso la sua crisi risolutiva. Che
non lo veggano i governi e le classi privilegiate (ma è poi
vero che non lo vedono?) si spiega facilmente con la tradizionale
cecità dei governanti alla vigilia della loro caduta. Che ci
siano degli anarchici – e fra i più nutriti di studi storici
e sociologici che non lo veggono neppure loro, può spiegarsi
con altre ragioni che non importa ora ricercare; in ogni modo,
questo non altera il fatto: la rivoluzione s’agita e freme e sta per
scoppiare.
Se non scoppiasse, vorrebbe dire che le forze contrastanti nel seno
stesso del movimento si sarebbero neutralizzate ed avrebbero dato
modo alla reazione di ricacciarci indietro e di vivere ancora fino
alla prossima crisi.
Può esservi tra gli avversari del regime borghese chi non
comprende come oggi l’interesse supremo è quello di salvare
la rivoluzione?
Ma la rivoluzione perchè? Per la dittatura di Lazzari, per la
repubblica di Pirolini?
Lasciamo andare. Pirolini si ricorderà che per fare la
repubblica bisogna cacciare il re solamente quando il re se ne
sarà già andato; e il buon Lazzari è troppo
vecchio per farci paura.
Vi sono pericoli maggiori che n. g. forse conosce e disdegna
enumerare; ma vogliamo noi, per paura che la rivoluzione non riesca
quale noi la vorremmo, sottometterci indefinitamente alla dittatura
borghese? Certamente la prossima rivoluzione, la rivoluzione
imminente, non sarà anarchica se non in proporzione del
nostro numero, del nostro valore, della nostra preparazione.
E noi, perchè essa sia più anarchica possibile,
dobbiamo moltiplicare i nostri sforzi, intensificare la nostra
propaganda, consolidare le nostre organizzazioni, penetrare
maggiormente in mezzo alle masse e cercare di spingerle il
più possibile nella nostra direzione
Ma con tutto questo, è certo che noi non istituiremo da un
giorno all’altro l’anarchia su tutto il globo terracqueo.
L’anarchia non si fa per forza: volerlo, sarebbe la più
balorda delle contraddizioni. L’anarchia trionferà in tutta
la sua pienezza quando tutti saranno anarchici. E siccome nelle
condizioni attuali è impossibile che tutti diventino
anarchici, è condizione previa del trionfo dell’anarchia la
rivoluzione che rompe violentemente lo stato di cose attuale e rende
possibile l’avvento delle masse a condizioni tali che le rendano
capaci di comprendere ed attuare l’anarchia.
Quello che si può e si deve fare per forza è
l’espropriazione dei capitalisti e la messa a disposizione di tutti
dei mezzi di produzione e di tutta la ricchezza sociale; e,
naturalmente l’abbattimento del potere politico che sta a difesa
della proprietà. Quello che potremo e dovremo difendere,
anche con la forza, è il nostro diritto alla libertà
completa di organizzazione autonoma ed alla esperimentazione dei
metodi nostri. Il resto verrà col progressivo estendersi
delle nostre idee in mezzo alle masse.
Tutto questo non possiamo farlo da noi soli, perchè non siamo
forti abbastanza – e non sarebbe nemmeno desiderabile che lo
facessimo da soli, perchè allora verremmo fatalmente a
trovarci nella posizione di governanti e mancheremmo ai nostri scopi
specifici. Di più, siccome la vita economica non ammette
interruzioni e bisogna mangiare tutti i giorni, dove e quando noi
fossimo incapaci di provvedere con le forze nostre
all’approvvigionamento ed agli altri più urgenti bisogni,
dovremmo essere felici che altri lo facesse per noi, riserbando a
noi stessi la funzione di critica, di controllo e di propulsione.
La rivoluzione, per essere veramente emancipatrice, non deve essere
l’opera particolare di una scuola o di un partito, ma deve essere
opera della massa, di quanto più massa è possibile.
Comprende ora n. g. perchè noi facciamo appello a tutti i
lavoratori al disopra di ogni distinzione di partito? Comprende
perchè i borghesi, che la rivoluzione temono, si sforzano per
dipingerci nemici dei socialisti? Comprende perchè quei capi
socialisti e repubblicani che non vogliono nè il socialismo
nè la repubblica cercano di boicottarci?
Noi siamo convinti che tutti i lavoratori ribelli, malgrado le
differenze di denominazioni e di diversi quadri in cui militano,
hanno in fondo gli stessi sentimenti, lo stesso desiderio ardente di
emancipazione umana. E noi ci sentiamo fratelli con tutti e vogliamo
lottare il più possibile d’accordo con tutti.
Se attacchiamo spesso e volentieri certi dirigenti socialisti
è perchè li vediamo sempre lavorare contro la
rivoluzione, ed i più interessati a mandarli via quali
traditori del socialismo sono proprio i socialisti veri e sinceri.
Se attacchiamo certi capi repubblicani è perchè
sappiamo che la repubblica non la vogliono fare, perchè li
abbiamo visti mandare al macello i loro ingenui seguaci mentre essi
restavano a casa per trescare nella Reggia e nei ministeri, per far
quattrini e per fare la spia; e di quei capi, che han macchiato e
tradito la loro bandiera, i repubblicani sinceri sono i più
interessati a sbarazzarsi.
Ci riflettano i lavoratori socialisti e repubblicani e vedranno da
che parte stanno i loro amici e i loro nemici.
b. Le due vie: riforme e rivoluzione45
Tutta la cosiddetta legislazione sociale, tutte le misure statali
intese a “proteggere” il lavoro ed assicurare ai lavoratori un
minimo di benessere e di sicurezza e così pure tutti i mezzi
adoperati da capitalisti intelligenti per legare l’operaio alla
fabbrica con premi, pensioni ed altri benefizi, quando non sono una
menzogna ed una trappola, sono un passo verso questo stato servile
che minaccia l’emancipazione dei lavoratori ed il progresso
dell’umanità.
Salario minimo stabilito per legge; limitazione legale della
giornata di lavoro; arbitrato obbligatorio; contratto collettivo di
lavoro avente valore giuridico; personalità giuridica delle
associazioni operaie; misure igieniche nelle fabbriche prescritte
dal governo; assicurazioni statali per le malattie, la
disoccupazione, le disgrazie sul lavoro; pensioni per la vecchiaia;
compartecipazione agli utili, ecc. ecc., sono tutte misure per far
sì che i proletari restino sempre proletari ed i proprietari
sempre proprietari: tutte misure che danno ai lavoratori (quando lo
danno) un po’ di benessere e di sicurezza, ma li privano di quel po’
di libertà che hanno, e tendono a perpetuare la divisione
degli uomini in padroni e servi.
Certamente è bene, aspettando la rivoluzione – e serve anche
a renderla più facile – che i lavoratori cerchino di
guadagnare di più e di lavorare meno ore ed in migliori
condizioni; è bene che i disoccupati non muoiano di fame; che
i malati ed i vecchi non siano abbandonati. Ma questo, ed altro, i
lavoratori possono e debbono ottenerlo da loro stessi, con la lotta
diretta contro i padroni, mediante le loro organizzazioni,
coll’azione individuale e collettiva, sviluppando in ciascun
individuo il sentimento di dignità personale e la coscienza
dei suoi diritti.
I doni dello Stato, i doni dei padroni sono frutti avvelenati che
portano con loro i semi della servitù. Bisogna respingerli.
Riconosciuto che tutte le riforme, le quali lascian sussistere la
divisione degli uomini in proprietari e proletari e quindi il
diritto in alcuni di vivere sul lavoro degli altri, non potrebbero,
se ottenute ed accettate come benefiche concessioni dello Stato e
dei padroni che attenuare la ribellione degli oppressi contro gli
oppressori e condurre alla costituzione di uno stato civile in cui
l’umanità sarebbe definitivamente divisa in classi dominanti
e classi soggette, non resta altra soluzione che la rivoluzione: una
rivoluzione radicale che abbatta tutto l’organismo statale, che
espropri i detentori della ricchezza sociale e metta tutti quanti
gli uomini sullo stesso piede d’uguaglianza economica e politica.
Questa rivoluzione deve essere necessariamente violenta, quantunque
la violenza sia per sè stessa un male. Deve essere violenta
perchè sarebbe una follia sperare che i privilegiati
riconoscessero il danno e l’ingiustizia dei loro privilegi e si
decidessero a rinunziarvi volontariamente. Deve essere violenta
perchè la transitoria violenza rivoluzionaria è il
solo mezzo per metter fine alla maggiore e perpetua violenza che
tiene schiava la grande massa degli uomini.
Vengano pure le riforme se possono venire. Esse possono essere di
beneficio momentaneo e servire a stimolare nelle masse sempre
maggiori desideri e maggiori pretese, se i proletari serbano vivo il
sentimento che i padroni ed i governanti sono i nemici, che tutto
ciò che cedono è strappato loro dalla forza o dalla
paura della forza e sarebbe presto ritirato se la paura cessasse.
Chè se invece le riforme fossero raggiunte per accordi e
collaborazione tra dominati e dominatori, non servirebbe che a
ribadire le catene che legano i lavoratori al carro dei parassiti.
Del resto oggi il pericolo che le riforme addormentino le masse e
riescano a consolidare e perpetuare l’organizzazione borghese pare
superato. Non vi sarebbe che il tradimento cosciente di coloro, che
colla predicazione socialista sono riusciti ad acquistare la fiducia
dei lavoratori, che potrebbe dar loro valore.
La cecità della classe dirigente e l’evoluzione naturale del
sistema capitalista accelerata dalla guerra han fatto si che
qualsiasi riforma accettabile dai proprietari è impotente a
risolvere la crisi che travaglia il paese.
Dunque la rivoluzione s’impone, la rivoluzione viene.
Ma come si deve fare, come si deve svolgere questa rivoluzione?
Naturalmente bisogna principiare con l’atto insurrezionale che
spazzi via l’ostacolo materiale, le forze armate del governo, che si
oppone a qualunque trasformazione sociale.
Per l’insurrezione è... necessario prepararvisi il meglio che
si può, moralmente e materialmente; ed è necessario
sopratutto di profittare di tutti i moti spontanei di popolo e
cercare di generalizzarli e trasformarli in movimenti risolutivi,
per evitare il pericolo che, mentre, i partiti si preparano, la
forza popolare si esaurisca in fatti isolati.
Ma dopo l’insurrezione vittoriosa, dopo che il governo è
caduto, che cosa bisogna fare?
Noi, gli anarchici, vorremmo che in ciascuna località i
lavoratori, o più propriamente quella parte dei lavoratori
che ha maggiore coscienza e maggiore spirito d’iniziativa, pigliasse
possesso di tutti gli strumenti di lavoro, di tutta la ricchezza,
terra, materie prime, case, macchine, generi alimentari, ecc., ed
abbozzasse il meglio possibile la nuova forma di vita sociale.
Vorremmo che i lavoratori della terra che oggi lavorano per dei
padroni non riconoscessero più alcun diritto ai proprietari e
continuassero ed intensificassero il lavoro per conto loro, entrando
in rapporti diretti cogli operai delle industrie e dei trasporti per
lo scambio dei prodotti; che gli operai delle industrie, ingegneri e
tecnici compresi, pigliassero possesso delle fabbriche e
continuassero ed intensificassero il lavoro per conto proprio e
della collettività, trasformando subito tutte quelle
fabbriche che oggi producono cose inutili o dannose in produttrici
delle cose che più urgono per soddisfare i bisogni del
pubblico; che i ferrovieri continuassero ad esercitare le ferrovie
ma per il servizio della collettività; che comitati di
volontari o di eletti dalla popolazione pigliassero possesso, sotto
il controllo diretto della massa, di tutte le abitazioni disponibili
per alloggiare il meglio che per il momento si potesse, tutti i
più bisognosi; che altri comitati, sempre sotto il controllo
diretto delle masse, provvedessero all’approvvigionamento ed
alla distribuzione dei generi di consumo; che tutti gli attuali
borghesi siano messi nella necessità di confondersi nella
folla di coloro che furono proletari e lavorare come gli altri per
godere gli stessi benefici degli altri. E tutto questo, subito, nel
giorno stesso o nell’indomani immediato dell’insurrezione
vittoriosa, senza aspettare ordini di comitati centrali o di altre
qualsiasieno autorità.
Questo è quel che vogliono gli anarchici, ed è poi
quello che naturalmente avverrebbe se la rivoluzione deve essere
davvero una rivoluzione sociale e non ridursi ad un semplice
cambiamento politico, che dopo qualche convulsione riporterebbe le
cose allo stato di prima. Poichè, o si leva subito alla
borghesia il potere economico o questa ripiglierebbe in breve anche
il potere politico che l’insurrezione le avrebbe strappato. E per
poter levare alla borghesia il potere economico, bisogna organizzare
immediatamente un nuovo assetto economico basato sulla giustizia e
sull’eguaglianza. I bisogni economici, almeno i più
essenziali, non ammettono interruzioni e bisogna soddisfarli subito.
I “comitati centrali” o non fanno nulla o fanno quando non
c’è più bisogno dell’opera loro.
c. Il censimento dei rivoluzionari46
...È completamente erroneo che per abbattere il capitalismo
bisogna aspettare che i milioni di cattolici siano diventati liberi
pensatori, e che gli operai siano tutti (o in maggioranza)
organizzati per la lotta di classe.
Non equivochiamo. È una verità assiomatica,
lapalissiana, che la rivoluzione non si può fare se non
quando vi sono forze sufficienti per farla. Ma è una
verità storica che le forze che determinano l’evoluzione e le
rivoluzioni sociali non si calcolano coi bollettini del censimento.
I cattolici resteranno numerosi come sono, e magari aumenteranno,
fino a quando vi sarà una classe, potente di ricchezza e di
scienza interessata a tenere la massa nella schiavitù
intellettuale per potere meglio dominarla. Gli operai non saranno
mai tutti organizzati e le loro organizzazioni saranno sempre
soggette a disfarsi o a degenerare fino a quando la miseria, la
disoccupazione, la paura di perdere il posto, il desiderio di
migliorare di condizioni alimenteranno la rivalità tra operai
e daranno modo ai padroni di profittare di tutte le circostanze, di
tutte le crisi per mettere gli operai in concorrenza gli uni contro
gli altri. E gli elettori resteranno sempre montoni per definizione
anche se qualche volta accade loro di tirar delle cornate.
È cosa provata che date certe condizioni economiche, dato un
certo ambiente sociale, le condizioni intellettuali e morali della
massa restano sostanzialmente le stesse e, fino a quando un fatto
esterno, un fatto idealmente o materialmente violento non viene a
modificare quell’ambiente, la propaganda, l’educazione, l’istruzione
restano impotenti e non riescono ad agire che sopra quel numero
d’individui che, in forza di privilegi naturali o sociali, possono
vincere l’ambiente in cui sono costretti a vivere. Ma quel piccolo
numero, quella minoranza cosciente e ribelle che ogni ordine sociale
partorisce in conseguenza delle stesse ingiustizie cui la massa
è soggetta, agisce come fenomeno storico e basta, è
sempre bastato, a far progredire il mondo.
Ogni nuova idea, ogni nuova istituzione, ogni progresso ed ogni
rivoluzione è stata sempre l’opera di minoranze. È
nostra aspirazione, è nostro scopo quello di far assurgere
tutti quanti gli uomini a fattori effettivi, a forze coscienti della
vita sociale; ma per riuscire a questo scopo occorre dare a tutti i
mezzi di vita e di sviluppo, e perciò bisogna abbattere, con
la violenza poichè non si può fare altrimenti, la
violenza che questi mezzi nega ai lavoratori.
Naturalmente il “piccolo numero”, la minoranza, deve essere
sufficiente, e ci giudica male chi pensa che noi vorremmo fare
un’insurrezione al giorno senza tener conto delle forze in contrasto
e delle circostanze favorevoli o meno.
Noi abbiamo potuto fare, abbiamo fatto realmente, in tempi oramai
remoti dei minuscoli moti insurrezionali che non avevano alcuna
probabilità di successo. Ma allora eravamo davvero in quattro
gatti, volevamo obbligare il pubblico a discuterci ed i nostri
tentativi erano semplicemente dei mezzi di propaganda.
Ora non si tratta più d’insorgere per far propaganda: ora
possiamo vincere, quindi vogliamo vincere, e non facciamo tentativi
se non quando ci pare di poter vincere. Naturalmente possiamo
ingannarci e, per ragione di temperamento, possiamo credere il
frutto maturo quando ancora è acerbo; ma confessiamo la
nostra preferenza per coloro che vogliono fare troppo presto contro
quegli che vogliono sempre aspettare, che lasciano di proposito
passare le migliori occasioni, e per paura di cogliere un frutto
acerbo lasciano tutto marcire.
Insomma noi siamo perfettamente d’accordo con "La Giustizia" quando
insiste sulla necessità di fare molta propaganda e di
sviluppare il più possibile le organizzazioni proletarie di
lotta; ma ci stacchiamo recisamente da essa quando pretende che per
agire bisogna aspettare di avere attirato a noi la maggioranza di
quella massa inerte che non sarà convertita se non dai fatti,
che non accetterà la rivoluzione se non dopo che la
rivoluzione sarà iniziata.
d. Movimenti stroncati47
L’occupazione delle fabbriche – I metallurgici cominciarono il
movimento per questioni di tariffe. Si trattava di uno sciopero di
nuovo genere. Invece di abbandonare le fabbriche, restarvi dentro
senza lavorare, e farvi guardia notte e giorno perchè i
padroni non potessero far la serrata.
Ma era il 1920. Tutta l’Italia proletaria fremeva di febbre
rivoluzionaria, e presto la cosa cambiò di carattere. Gli
operai pensarono che era il momento di impossessarsi definitivamente
dei mezzi di produzione. Si armarono per la difesa, trasformarono
molte fabbriche in vere fortezze ed incominciarono ad organizzare la
produzione per loro conto. I padroni cacciati o dichiarati in stato
d’arresto… Era il diritto di proprietà abolito di fatto, la
legge violata in tutto ciò che serve a difendere lo
sfruttamento capitalistico; era un nuovo regime, un nuovo modo di
vita sociale che s’inaugurava. Ed il governo lasciava fare,
perchè si sentiva impotente ad opporsi; lo ha confessato
più tardi scusandosi in parlamento della mancata repressione.
Il movimento si allargava e tendeva ad abbracciare altre categorie;
qua e là i contadini occupavano le terre. Era la rivoluzione
che incominciava e si sviluppava in un modo, direi quasi, ideale.
I riformisti naturalmente vedevano la cosa di mal occhio, e
cercavano di farla abortire. Lo stesso Avanti! non sapendo a che
santi votarsi, tentò di far passare noi per pacifisti,
perchè in Umanità Nova avevamo detto che se il
movimento si estendeva a tutte le categorie, se operai e contadini
avessero seguito l’esempio dei metallurgici, cacciando i padroni e
prendendo possesso dei mezzi di produzione, la rivoluzione si
sarebbe fatta senza spandere una goccia di sangue.
Ma non serviva.
La massa era con noi; eravamo sollecitati a recarci nelle fabbriche
a parlare, incoraggiare, consigliare, ed avremmo dovuto dividerci in
mille per soddisfare tutte le richieste. Dovunque andavamo erano i
discorsi nostri quelli che gli operai applaudivano, ed i riformisti
dovevano ritirarsi o camuffarsi.
La massa era con noi, perchè noi interpretavamo meglio i suoi
istinti, i suoi bisogni, i suoi interessi.
Eppure, bastò il lavoro subdolo della gente della
Confederazione Generale del Lavoro ed i suoi accordi con Giolitti,
per far credere ad una specie di vittoria mediante la truffa del
controllo operaio ed indurre gli operai a lasciare le fabbriche,
proprio nel momento in cui maggiori erano le possibilità di
riuscita.
Ho citato due casi, ed avrei potuto citarne altri: il movimento del
caro-viveri, lo sciopero di Torino e del Piemonte nell’inverno del
1920, gli scioperi di Milano, ecc.; ed arriverei sempre alle stesse
constatazioni.
In piazza, nell’azione, la massa è con noi e disposta ad
agire; ma poi nel più bello si lascia abbindolare, si ferma
scorata e disillusa, e noi ci troviamo sempre vinti ed isolati.
Perchè? Secondo me gli è perchè siamo
disorganizzati, o non abbastanza organizzati.
Gli altri hanno i mezzi di trasmettere rapidamente dappertutto le
notizie, vere o false, che convengono per influire sull’opinione ed
indirizzare l’azione nel senso che vogliono. Per mezzo delle loro
leghe, sezioni, federazioni, disponendo di fiduciari in tutti i
centri, di indirizzi sicuri, ecc., essi possono lanciare un
movimento quando serve ai loro fini ed arrestarlo quando quei fini
sono raggiunti. E per stroncare qualsiasi movimento hanno un mezzo
semplicissimo: quello di far credere in ogni località che
tutto sia finito e che bisogna pensare a salvare il salvabile
Le situazioni ch’io ho descritto si riprodurranno certamente in
Italia e forse a breve scadenza. Vogliamo ancora trovarci nello
stato d’impreparazione impotenti ad opporci efficacemente alle
manovre degli addormentatori ed a cavare da una data situazione
rivoluzionaria tutto il maggior frutto ch’essa può dare?
4. UN’ORGANIZZAZIONE ED UN PROGRAMMA
a. L'Unione Anarchica Italiana48
A quanto ho detto sulla questione dell’organizzazione operaia mi sia
permesso aggiungere qualche parola sull’organizzazione degli
anarchici com’è intesa dall’Unione Anarchica Italiana.
L’Unione Anarchica Italiana è una federazione di gruppi
autonomi uniti per aiutarsi reciprocamente nella propaganda e
nell’attuazione di un programma liberamente accettato. Essa tiene
periodicamente dei Congressi, e tra un Congresso e l’altro è
rappresentata da una Commissione di Corrispondenza che è
nominata dal Congresso e varia ogni volta di personale e di sede. Le
deliberazioni dei Congressi non sono impegnative se non per quei
gruppi che le accettano dopo averne preso cognizione; e per questa
ragione il modo di rappresentanza, qualunque esso sia, non ha
importanza, non potendo dar luogo a ingiustizie e sopraffazioni.
Ogni gruppo, od ogni particolare federazione di gruppi manda i
delegati che può qualunque sia il numero dei suoi componenti,
senza inconvenienti poichè il Congresso non fa leggi
obbligatorie per tutti, ma serve come indicazione delle varie
opinioni: e l’opinione dominante si concreta in deliberazioni che
sono poi sottoposte ai gruppi e hanno sempre valore di consigli e
suggerimenti.
La Commissione di corrispondenza serve a facilitare le relazioni tra
i gruppi, a procurare alle iniziative di ciascuno l’appoggio degli
altri ed a rendere più facile un’azione concertata. Ma non ha
nessuna autorità e nessun mezzo per imporre la propria
volontà.
Ciascun gruppo e ciascun individuo corrisponde, se crede,
direttamente cogli altri senza passare per il tramite della
Commissione di corrispondenza: ciascuno è libero di stampare
quello che crede, di prendere le iniziative che può, di fare
insomma tutto ciò che vuole nell’interesse della causa
comune. Unico vincolo il programma generale, la cui accettazione
è condizione necessaria per entrare nell’Unione.
Questi principi sono accettati da tutti i membri dell’Unione
poichè costituiscono il patto che li ha uniti. E coloro che,
per ignoranza o per fini inconfessabili tentano di far credere che
l’Unione Anarchica Italiana sia un’organizzazione autoritaria dicono
cosa contraria al vero.
L’Unione non intende avere il monopolio dell’organizzazione
anarchica. Ogni anarchico può restare isolato od unirsi in
altre Organizzazioni. L’Unione è felice d’ogni
attività anarchica esercitata dentro e fuori del suo seno, ed
è disposta a dare e ricevere aiuti a tutti e da tutti, sempre
che si tratti di cose che non contraddicano il suo programma.
b. Il programma comunista anarchico49
Noi crediamo che la più gran parte dei mali che affliggono
gli uomini dipende dalla cattiva organizzazione sociale, e che gli
uomini volendo e sapendo, possono distruggerli.
La società attuale è il risultato delle lotte secolari
che gli uomini han combattuto tra di loro. Non comprendendo i
vantaggi che potevano venire a tutti dalla cooperazione e dalla
solidarietà, vedendo in ogni altro uomo (salvo al massimo i
più vicini per vincoli di sangue) un concorrente ed un
nemico, han cercato di accaparrare, ciascun per sè, la
più grande quantità di godimenti possibili, senza
curarsi degli interessi degli altri.
Data la lotta, naturalmente i più forti, o i più
fortunati, dovevano vincere ed in vario modo sottoporre ed opprimere
i vinti.
Fino a che l’uomo non fu capace di produrre di più di quello
che bastava strettamente al suo mantenimento, i vincitori non
potevano che fugare e massacrare i vinti ed impossessarsi degli
alimenti da essi raccolti.
Poi, quando con la scoperta della pastorizia e dell’agricoltura un
uomo potè produrre più di ciò che gli occorreva
per vivere, i vincitori trovarono più conveniente ridurre i
vinti in schiavitù e farli lavorare per loro.
Più tardi, i vincitori si accorsero che era più
comodo, più produttivo e più sicuro sfruttare il
lavoro altrui con un altro sistema: ritenere per sè la
proprietà esclusiva della terra e di tutti i mezzi di lavoro,
e lasciar nominalmente liberi gli spogliati, i quali poi non avendo
mezzi di vivere, erano costretti a ricorrere ai proprietari ed a
lavorare per conto loro, ai patti che essi volevano.
Così, man mano, attraverso tutta una rete complicatissima di
lotte di ogni specie, invasioni, guerre, ribellioni, repressioni,
concessioni strappate, associazioni di vinti unitisi per la difesa,
e di vincitori unitisi per l’offesa, si è giunti allo stato
attuale della società in cui alcuni detengono ereditariamente
la terra e tutta la ricchezza sociale, mentre la gran massa degli
uomini, diseredata di tutto, è sfruttata ed oppressa dai
pochi proprietari.
Da questo dipendono lo stato di miseria in cui si trovano
generalmente i lavoratori, e tutti i mali che dalla miseria
derivano: ignoranza, delitti, prostituzione. Da questo, la
costituzione di una classe speciale (governo), la quale, fornita di
mezzi materiali di repressione, ha missione di legalizzare e
difendere i proprietari contro le rivendicazioni dei proletari; e
poi si serve della forza che ha, per creare a sè stessa dei
privilegi e sottomettere, se può, alla sua supremazia anche
la stessa classe proprietaria. Da questo, la costituzione di
un’altra classe speciale (il clero), la quale con una serie di
favole sulla volontà di Dio, sulla vita futura, ecc., cerca
d’indurre gli oppressi a sopportare docilmente l’oppressione, ed al
pari del Governo oltre di fare gli interessi dei proprietari, fa
anche i suoi propri. Da questo, la formazione di una scienza
ufficiale che è, in tutto ciò che può servire
agl’interessi dei dominatori, la negazione della scienza vera. Da
questo, lo spirito patriottico, gli odi di razza, le guerre, e le
paci armate talvolta più disastrose delle guerre stesse. Da
questo, l’amore trasformato in tormento o in turpe mercato. Da
ciò l’odio più o meno larvato, la rivalità, il
sospetto fra tutti gli uomini, l’incertezza e la paura per tutti.
Tale stato di cose noi vogliamo radicalmente cambiare. E
poichè tutti questi mali derivano dalla lotta fra gli uomini,
dalla ricerca del benessere fatta da ciascuno per conto suo e contro
tutti, noi vogliamo rimediarvi sostituendo all’odio l’amore, alla
concorrenza la solidarietà, alla ricerca esclusiva del
proprio benessere la cooperazione fraterna per il benessere di
tutti, alla oppressione ed all’imposizione la libertà, alla
menzogna religiosa e pseudoscientifica la verità. Dunque:
1) Abolizione della proprietà privata della terra, delle
materie prime e degli strumenti di lavoro, perchè nessuno
abbia il mezzo di vivere sfruttando il lavoro altrui, e tutti,
avendo garantiti i mezzi per produrre e vivere, siano veramente
indipendenti e possano associarsi agli altri liberamente; per
l’interesse comune e conformemente alle proprie simpatie.
2) Abolizione del Governo e di ogni potere che faccia la legge e la
imponga agli altri: quindi abolizione... di monarchie, repubbliche,
parlamenti, eserciti, polizie, magistratura, ed ogni qualsiasi
istituzione dotata di mezzi coercitivi.
3) Organizzazione della vita sociale per opera di libere
associazioni e federazioni di produttori e consumatori, fatte e
modificate secondo la volontà dei componenti, guidati dalla
scienza e dall’esperienza e liberi da ogni imposizione che non
derivi dalle necessità naturali, a cui ognuno, vinto dal
sentimento stesso della necessità ineluttabile,
volontariamente si sottomette.
4) Garantiti i mezzi di vita, di sviluppo, di benessere ai fanciulli
ed a tutti coloro che sono impotenti a provvedere a loro stessi.
5) Guerra alle religioni ed a tutte le menzogne, anche se si
nascondono sotto il manto della scienza. Istruzione scientifica per
tutti e fino ai suoi gradi più elevati.
6) Guerra alle rivalità ed ai pregiudizi patriottici.
Abolizione delle frontiere: fratellanza fra tutti i popoli.
7) Ricostruzione della famiglia in quel modo che risulterà
dalla pratica dell’amore, libero da ogni vincolo legale, da ogni
oppressione economica o fisica, da ogni pregiudizio religioso
Ma non basta desiderare una cosa: se si vuole ottenerla davvero
bisogna impiegare i mezzi adatti al suo conseguimento. E questi
mezzi non sono arbitrari, ma derivano, necessariamente, dal fine cui
si mira e dalle circostanze nelle quali si lotta; giacchè
ingannandosi sulla scelta dei mezzi, non si raggiungerebbe il fine
propostosi, ma un altro, magari opposto che sarebbe conseguenza
naturale, necessaria, dei mezzi adoperati. Chi si mette in cammino e
sbaglia strada, non va dove vuole, ma dove lo porta la strada
percorsa.
Occorre dunque, dire quali sono i mezzi che, secondo noi, conducono
allo scopo prefissoci, e che noi intendiamo adoperare.
Il nostro ideale non è di quelli il cui conseguimento dipende
dall’individuo considerato isolatamente. Si tratta di cambiare il
modo di vivere in società, di stabilire tra gli uomini
rapporti di amore e solidarietà, di conseguire la pienezza
dello sviluppo materiale, morale e intellettuale, non per un dato
partito, ma per tutti quanti gli esseri umani – e questo non
è cosa che si possa imporre colla forza, ma deve sorgere
dalla coscienza illuminata di ciascuno ed attuarsi mediante il
libero consentimento di tutti.
Nostro primo compito quindi deve essere quello di persuadere la
gente.
Bisogna che noi richiamiamo l’attenzione degli uomini sui mali che
soffrono e sulla possibilità di distruggerli. Bisogna che
suscitiamo in ciascuno la simpatia pei mali altrui ed il desiderio
vivo del bene di tutti...
E quando saremo riusciti a far nascere nell’animo degli uomini il
sentimento di ribellione contro i mali ingiusti ed inevitabili di
cui si soffre nella società presente, ed a far comprendere
quali sono le cause di questi mali e come dipenda dalla
volontà umana l’eliminarli; quando avremo ispirato il
desiderio vivo, prepotente, di trasformare la società per il
bene di tutti,50 di coloro che li han preceduti nella convinzione,
si uniranno e vorranno, e potranno, attuare i comuni ideali.
Sarebbe – lo abbiam già detto – assurdo ed in contraddizione
col nostro scopo di voler imporre la libertà, l’amore fra gli
uomini, lo sviluppo integrale di tutte le facoltà umane, per
mezzo della forza. Bisogna dunque contare sulla libera
volontà degli altri, e la sola cosa che possiamo fare
è quella di provocare il formarsi ed il manifestarsi di detta
volontà. Ma sarebbe però egualmente assurdo e
contrario al nostro scopo l’ammettere che coloro i quali non la
pensano come noi c’impediscano di attuare la nostra volontà,
sempre che essa non leda il loro diritto ad una libertà
uguale alla nostra.
Libertà dunque per tutti di propagare ed esperimentare le
proprie idee, senza altro limite che quello che risulta naturalmente
dall’eguale libertà di tutti.
Ma a questo si oppongono – e si oppongono colla forza brutale –
coloro che sono i beneficiari degli attuali privilegi e dominano e
regolano tutta la vita sociale presente...
Al popolo che vuole emanciparsi non resta altra via che quella di
opporre la forza alla forza.
Risulta da quanto abbiamo detto che noi dobbiamo lavorare, per
risvegliare negli oppressi il desiderio vivo di una radicale
trasformazione sociale, e persuaderli che unendosi, essi hanno la
forza di vincere; dobbiamo propagare il nostro ideale e preparare le
forze morali e materiali necessarie a vincere le forze nemiche, e ad
organizzare la nuova società. E quando avremo la forza
sufficiente dobbiamo, profittando delle circostanze favorevoli che
si producono o creandole noi stessi, fare la rivoluzione sociale,
abbattendo, colla forza, il governo, espropriando, colla forza, i
proprietari; mettendo in comune i mezzi di vita e di produzione, ed
impedendo che nuovi governi vengano ad imporre la loro
volontà e ad ostacolare la riorganizzazione sociale fatta
direttamente dagli interessati.
Tutto questo però è meno semplice di quello che
potrebbe a prima giunta parere.
Noi abbiamo da fare cogli uomini quali sono nell’attuale
società, in condizioni morali e materiali disgraziatissime; e
c’inganneremo pensando che basta la propaganda per elevarli a quel
grado di sviluppo intellettuale e morale che è necessario
all’attuazione dei nostri ideali.
Tra l’uomo e l’ambiente sociale vi è un’azione reciproca. Gli
uomini fanno la società come essa è e la
società fa gli uomini come essi sono, e da ciò risulta
una specie di circolo vizioso. Per trasformare la società
bisogna trasformare gli uomini e per trasformare gli uomini bisogna
trasformare la società...
Fortunatamente la società attuale non è stata formata
dalla volontà illuminata di una classe dominante, che abbia
potuto ridurre tutti i dominati a strumenti passivi ed incoscienti
dei suoi interessi. Essa è il risultato di mille lotte
intestine, di mille fattori naturali ed umani agenti casualmente
senza criteri direttivi; e quindi non vi sono divisioni nette
nè tra gli individui nè tra le classi.
Infinite sono le varietà di condizioni materiali; infiniti i
gradi di sviluppo morale ed intellettuale; e non sempre – diremmo
quasi molto raramente – il posto che uno occupa in società
corrisponde alle sue facoltà ed alle sue aspirazioni.
Spessissimo alcuni individui cadono in condizioni inferiori a quelle
a cui sono abituati, ed altri, per circostanze eccezionalmente
favorevoli, riescono ad elevarsi a condizioni superiori a quelle in
cui sono nati. Una parte notevole del proletariato è
già arrivata ad uscire dallo stato di miseria assoluta,
abbrutente, o non ha mai potuto esservi ridotta; nessun lavoratore,
o quasi nessuno si trova nello stato di incoscienza completa, di
completa acquiescenza alle condizioni che gli fanno i padroni. E le
stesse istituzioni, quali sono state prodotte dalla storia,
contengono delle contraddizioni organiche che sono come dei germi di
morte, i quali sviluppandosi producono la dissoluzione
dell’istituzione e la necessità della trasformazione.
Da ciò la possibilità del progresso; ma non la
possibilità di portare, per mezzo della propaganda, tutti gli
uomini al livello necessario perchè vogliano e facciano
l’anarchia, senza un’anteriore graduale trasformazione
dell’ambiente.
Il progresso deve camminare contemporaneamente, parallelamente negli
individui e nell’ambiente; dobbiamo profittare di tutti i mezzi, di
tutte le possibilità, di tutte le occasioni che ci lascia
l’ambiente attuale, per agire sugli uomini e sviluppare la loro
coscienza ed i loro desideri; dobbiamo utilizzare tutti i progressi
avvenuti nella coscienza degli uomini per indurli a reclamare ed
imporre quelle maggiori trasformazioni sociali che sono possibili e
che meglio servono ad aprire la via a progressi ulteriori
Noi non dobbiamo aspettare di poter fare l’anarchia ed intanto
limitarci alla semplice propaganda. Se facessimo così, presto
avremmo esaurito il campo; avremmo convertiti cioè, tutti
quelli che nell’ambiente sono suscettibili di comprendere ed
accettare le nostre idee e la nostra ulteriore propaganda resterebbe
sterile; o se delle trasformazioni d’ambiente elevassero nuovi
strati popolari alla possibilità di ricevere idee nuove,
ciò avverrebbe senza l’opera nostra, forse contro l’opera
nostra e quindi con pregiudizio delle nostre idee.
Noi dobbiamo cercare che il popolo, nella sua totalità o
nelle sue frazioni, pretenda, imponga, prenda da sè tutti i
miglioramenti, tutte le libertà che desidera, man mano che
giunge a desiderarle ed ha la forza di imporle; e propagandando
sempre tutto intero il nostro programma e lottando sempre per la sua
attuazione integrale, dobbiamo spingere il popolo a pretendere ed
imporre sempre di più fino a che non ha raggiunto
l’emancipazione completa...
Noi vogliamo dunque abolire radicalmente la dominazione e lo
sfruttamento dell’uomo sull’uomo, noi vogliamo che gli uomini
affratellati da una solidarietà cosciente e voluta cooperino
tutti volontariamente al benessere di tutti; noi vogliamo che la
società sia costituita allo scopo di fornire a tutti gli
esseri umani i mezzi per raggiungere il massimo benessere possibile,
il massimo possibile sviluppo morale e materiale; noi vogliamo per
tutti pane, libertà, amore, scienza.
E per raggiungere questo scopo supremo noi crediamo necessario che i
mezzi di produzione siano a disposizione di tutti, e che nessun
uomo, o gruppo di uomini possa obbligare gli altri a sottostare alla
sua volontà nè esercitare la sua influenza altrimenti
che con la forza della ragione e dell’esempio.
Dunque, espropriazione dei detentori del suolo e del capitale a
vantaggio di tutti, abolizione del governo...
c. Organizzatori ed antiorganizzatori51
Noi conosciamo bene tutte le deficienze del giornale e, sempre
pronti a lasciare il nostro posto a chi fosse giudicato dai compagni
più adatto di noi, accettiamo intanto con piacere e
gratitudine tutti i suggerimenti che ci pervengono, quantunque il
più delle volte non possiamo utilizzarli, sia per
incapacità nostra (noi non possiamo farci più
intelligenti e migliori scrittori di quello che siamo), sia per le
difficoltà tecniche e materiali fra le quali ci dibattiamo. E
riceviamo con rispetto anche le critiche che ci sembrano
ingiustificate; ma pretendiamo che non si calunnino le nostre
intenzioni, non si travisino i fatti, non si alteri il nostro
pensiero, non ci si faccia dire quello che non abbiamo detto e non
si affetti di ignorare quello che diciamo continuamente.
Siccome nel movimento anarchico vi è una notevole frazione
“individualista” o “antiorganizzatrice” o “antipartitista”, gli
amici-nemici di Umanità Nova si affannano a dire che noi
formiamo, o vorremmo formare, una specie di corporazione chiusa,
intollerante, dogmatica; che vogliamo fare di Umanità Nova
l’organo esclusivo dell’"Unione Anarchica Italiana" (la quale
sarebbe poi, secondo gli stessi, un’organizzazione autoritaria,
accentrata, con mire dittatoriali, ecc.); e che noi cestiniamo
sistematicamente tutti gli scritti che non corrispondono alla
“nostra” tendenza.
Ma qual è questa “nostra” tendenza?
Io che scrivo sono partigiano dell’organizzazione operaia e
dell’organizzazione nel partito, vale a dire che, pigliando il nome
“partito” nel senso vero d’insieme di tutti coloro che “parteggiano”
e lottano per la stessa causa, io credo utile che gli anarchici si
uniscano in una o più organizzazioni, transitorie o
permanenti, locali o generali, secondo le circostanze e gli scopi
immediati o definitivi che si vogliano raggiungere, per coordinare
gli sforzi e fare quelle cose a cui non basterebbero le forze
degl’individui isolati. E conseguentemente sono aderente all’Unione
Anarchica Italiana, nonchè ad altri aggruppamenti che si
propongono lavori speciali che non entrano nel compito generale
dell’Unione.
Però nella redazione di Umanità Nova non tutti la
pensano allo stesso modo, nè tutti aderiscono all’Unione
Anarchica Italiana; e v’è anche chi si dichiara
individualista ed antiorganizzatore. Ciononostante, troviamo modo di
andare d’accordo, perchè pensiamo che si può servire
la causa con metodi e mezzi differenti, purchè l’uno non
cerchi di annientare gli sforzi dell’altro.
Per conto mio non vi è differenza sostanziale, differenza di
principi tra “individualisti” e “comunisti anarchici”, tra
“organizzatori” e “antiorganizzatori”; e si tratta più che
altro di questioni di parole e di malintesi, inaspriti ed
ingigantiti da questioni personali. Lasciando da parte oggi la
questione dell’’individualismo” perchè ne ho trattato
recentemente rispondendo ad “un compagno venuto dall’America”, vi
è forse tra gli anarchici chi è contrario in massima
ad ogni organizzazione operaia? Si può essere avversi a
questo o a quel modo di organizzazione, e gli anarchici tutti non
possono non criticare tutte le organizzazioni esistenti ed anche
tutte quelle possibili nell’attuale ambiente sociale; si può
combattere l’illusione sindacalista che le organizzazioni operaie
bastano per sè sole a risolvere la questione sociale, e noi
l’abbiamo combattuta più di ogni altro – ma non credo che vi
siano degli anarchici i quali vorrebbero veder sparire ogni
organizzazione operaia e ritornare i lavoratori alle condizioni di
un secolo fa, quando essi non contavano nulla come lavoratori, e se
si battevano lo facevano per conto ed al comando dei borghesi senza
alcuna coscienza di classe e senza altre speranze di miglioramento
che quella che basavano sulla bontà dei governi e dei
padroni. Nè credo che vi sia qualcuno che vorrebbe veder
ridotto il vasto movimento operaio, che travaglia il mondo, alla
sola esistenza di sparuti gruppi rivoluzionari, che sarebbero
impotenti a fare qualsiasi cosa importante se non potessero
appoggiarsi a quella parte della massa che nelle associazioni ha
acquistato una coscienza di classe. Se m’inganno, allora lo dicano,
e discuteremo.
Ed in quanto all’organizzazione o alle organizzazioni nel senso del
partito, vi è forse chi vorrebbe che gli anarchici restassero
isolati gli uni dagli altri?
Certamente che no. Ed infatti meno qualche raro pensatore (possibile
più che reale) il quale può isolarsi materialmente dai
suoi contemporanei e cercare la necessaria cooperazione
intellettuale dei suoi simili nella parola stampata, non v’è
nessuno che possa fare le minima cosa senza associarsi, unirsi con
altri. Anche i fatti più caratteristicamente individuali
domandano l’intesa intima di parecchi! Non chiede tutta
un’organizzazione la pubblicazione di un giornale? o una qualsiasi
opera di propaganda e d’educazione alquanto importante? o la
preparazione di una azione risolutiva?
Non potendo dir altro, gli avversari del “partito” si scagliano
contro l’organizzazione “permanente”, senza pensare che
un’organizzazione è fatta per durare fino a che dura la
ragione per la quale è stata fatta; e che come vi sono dei
fatti speciali da compiere in breve che richiedono un’intesa
temporanea, così ve ne sono degli altri come quello della
lotta per l’anarchia, che domandano un’intesa permanente, la quale
cambia gradualmente nei suoi componenti, che poco a poco muoiono, o
restano vittime, o si stancano e sono sostituiti dai giovani
sopravvenuti, ma non ha nessuna ragione per prescrivere
volontariamente un limite di tempo alla sua esistenza. O quando
s’organizza la pubblicazione di un giornale, non si fa come se
questo giornale dovesse viver sempre?
Oppure dicono che essi sono contro un “partito” autoritario,
accentrato, che nega e soffoca l’iniziativa dei singoli. E chi dice
il contrario? Non stiamo continuamente predicando alla gente che
bisogna agire, senza aspettare ordini di capi? che la disciplina
deve consistere nella fedeltà ai propri impegni e
nell’obbligo morale di appoggiare i compagni nelle azioni che si
approvano, e non già nel fare quello che uno non vuol fare, o
peggio ancora nel non fare quello che uno crede buono ed utile di
fare? E non diciamo continuamente che le risoluzioni di congressi e
di comitati non obbligano che coloro che le accettano e fino a
quando non hanno lealmente dichiarato di non accettarle più?
Ma un partito può degenerare e diventare autoritario.
È vero… se non è composto di anarchici coscienti; e
per questo noi (e come noi l’Unione Anarchica Italiana e qualunque
altra organizzazione anarchica) non possiamo che fare la propaganda
anarchica. Possono dire che noi non la facciamo continuamente nei
nostri scritti, nelle nostre conferenze, nelle nostre conversazioni
e lettere private?
Ma realmente, dato lo spirito degli anarchici, il pericolo non
è quello che un “partito anarchico” diventi autoritario, ma
piuttosto quello ch’esso non giunga a prendere consistenza e non
renda quindi quella somma d’azione che gli anarchici potrebbero dare
se solamente sapessero armonizzare e sommare il loro entusiasmo, il
loro coraggio, il loro spirito di sacrificio. E questo è
provato dalla storia di tutte le organizzazioni e tentativi di
organizzazioni che gli anarchici han fatto in tutto il mondo da
quando esiste un movimento anarchico…
d. Lo spontaneismo e l'organizzazione52
I compagni del periodico anarchico L'Adunata dei Refrattari, di
Newark, negli Stati Uniti, hanno nel dicembre passato ripubblicato
in volume la serie di brillanti articoli con cui Luigi Galleani
rispondeva, circa 20 anni or sono, a F.S. Merlino, il quale aveva
affermato, in un’intervista con Cesare Sobrero, che l’anarchismo era
morto, o moribondo. Ed hanno fatto opera buona, poichè
sarebbe stato un peccato davvero che quel lavoro fosse andato
dimenticato e perduto.
In sostanza è una esposizione chiara, serena, eloquente del
comunismo anarchico, secondo la concezione kropotkiniana:
concezione, che io personalmente trovo troppo ottimista, troppo
facilona, troppo fidente nelle armonie naturali, ma che non resta
meno per questo il contributo più grande che sia stato dato
finora alla propagazione dell’anarchismo.
Non starò ad esporre le tesi sostenute dal Galleani,
perchè sono in generale le stesse idee che noi tutti abbiamo
sempre professate e propagate ed anche perchè si tratta di un
lavoro tanto sostanzioso e conciso che mal si presta ai riassunti ed
agli estratti, ed è così bene scritto che a toccarlo
si rischia di sciuparlo.
Noterò soltanto un punto di dissenso apparente ed uno di
dissenso reale.
Il dissenso apparente sta nella questione dell’organizzazione – non
dell’organizzazione operaia intorno alla quale io sono, come sanno i
lettori di questa rivista, quasi completamente d’accordo col
Galleani – ma dell’organizzazione propria degli anarchici come
partito, come insieme di uomini che vogliono la stessa cosa e che
hanno interesse ad unire e coordinare i loro sforzi. Galleani fa una
critica severa quanto giusta di una supposta organizzazione
autoritaria, che è una cosa completamente diversa da quella
che gli anarchici organizzatori predicano e, quando possono,
praticano. Ma è una questione di parola. Se invece di dire
organizzazione si dicesse associazione, intesa, unione o altra
parola simile, Galleani sarebbe certamente il primo a riconoscere
che gli sforzi isolati e discordanti sono impotenti a raggiungere lo
scopo. Infatti egli aveva creato in America, intorno a Cronaca
Sovversiva, tutt’una accolta di consensi e di cooperazioni che, se
mai, aveva proprio il difetto autoritario di dipendere troppo
dall’impulso di una sola persona.
Il punto di dissenso reale è un altro, ed è grave
perchè può influenzare tutta l’azione pratica degli
anarchici oggi e, più ancora, nei giorni di crisi storiche.
Galleani dice:
“Noi non possiamo offrire della città libera e felice che
qualche magnifico profilo disegnato dalla speranza, dalla fantasia e
da qualche logica e positiva induzione, piuttosto che da una
realtà matematica e sicura. Non possiamo d’altronde, senza
arbitrio e senza ridicolo, erigerne l’architettura severa e
completa. La più ideale delle costruzioni potrebbe parere
meschina, forse anche grottesca ai nostri nepoti che la casa
dovrebbero abitare, e la casa sapranno farsi da sè adeguata
ai loro bisogni, rispondere al loro gusto, degna dell’era più
progredita e delle superiori civiltà in cui saranno chiamati
a vivere”.
E sta benissimo Ma poi aggiunge:
“Il nostro compito è più modesto ed anche più
perentorio: dobbiamo lasciare ad essi (ai nipoti) il terreno sgombro
dalle fosche ruine, dalle turpi galere, dai privilegi esosi, dai
monopoli rapaci, dagli eunuchi rispetti umani, dai convenzionalismi
bugiardi, da pregiudizi avvelenati tra cui ci aggiriamo povere ombre
in pena; dobbiamo lasciare ad essi sgombra la terra dalle chiese,
dalle caserme, dai tribunali, dai lupanari e soprattutto
dall’ignoranza e dalla paura che li custodiscono assai più
fedelmente che non le sanzioni del codice e i gendarmi”.
Qui appare l’idea, purtroppo assai sparsa in mezzo ai nostri
compagni, che compito degli anarchici sia semplicemente quello di
demolire, lasciando ai posteri l’opera di ricostruzione. Ed è
idea nefasta.
La vita sociale, come la vita individuale, non ammette interruzione.
Sarebbe, per esempio, ridicolo, e mortale se si facesse davvero, il
volere distruggere tutti i forni malsani, tutti i mulini
antieconomici, tutte le culture arretrate rimettendo ai posteri la
cura di cercare ed applicare metodi migliori per coltivare il grano,
far la farina e cuocere il pane. E così per la maggior parte
delle istituzioni sociali, che compiono male qualche funzione
necessaria, ma la compiono; e non possono esser distrutte se non
sostituendole con qualche cosa di meglio.
Non si tratta di prescrivere la linea da seguire ai posteri, i quali
profitteranno degli sforzi e delle esperienze nostre e faranno,
c’è da sperarlo, molto meglio di quello che sapremmo far noi.
Si tratta di quello che dobbiamo e dovremo far noi, se non vogliamo
lasciare il monopolio dell’azione pratica ad altri, che
indirizzerebbero il movimento verso orizzonti opposti ai nostri.
Quindi necessità di studi e di preparazione per poter
realizzare il più possibile delle nostre idee a mano a mano
che si opera la demolizione.
Questo, almeno, per chi pensa, come me, che l’anarchia sia una cosa
da fare, e non semplicemente da sognare.
e. Individualismo e organizzazione53
La risposta di Adams al mio articolo del n. 13 mi fa vedere ch’io
non riuscii a bene esprimere il mio pensiero, e m’induce quindi ad
aggiungere qualche schiarimento.
Io dissi che “nei loro moventi morali e nei loro fini ultimi
anarchismo individualista e anarchismo comunista sono la stessa cosa
o quasi”.
A questa mia affermazione si può opporre, lo so, mille testi
e non pochi fatti di sedicenti anarchici individualisti i quali
dimostrerebbero che tra anarchici individualisti ed anarchici
comunisti vi è addirittura un abisso morale che li divide. Ma
io nego che quella specie di individualisti possa includersi tra gli
anarchici, malgrado ch’essi amino chiamarsi tali.
Se anarchia significa non governo, non dominio, non oppressione
dell’uomo sull’uomo come mai può chiamarsi anarchico, senza
mentire a se stesso ed agli altri, uno che vi dice francamente che
per soddisfare il suo Io opprimerebbe gli altri senza scrupolo
alcuno e senza altro limite che quello segnatogli dalla sua forza?
Egli può essere un ribelle, perchè si trova in
posizione d’oppresso e lotta per diventare oppressore, come altri
più nobili ribelli lottano per distruggere ogni genere
d’oppressione; ma anarchico non può esser di certo. Egli
è un aspirante borghese, un aspirante tiranno che, impotente
a realizzare da sè e per le vie legali i suoi sogni di
dominio e di ricchezza si accosta agli anarchici per sfruttarne la
solidarietà morale o materiale.
La questione, secondo me, non è dunque tra “comunisti” e
“individualisti”, ma tra anarchici e non anarchici. Ed è
stato grande torto il nostro, o almeno di molti di noi, quello di
discutere certo preteso “individualismo anarchico” come se fosse
davvero una tra le varie tendenze dell’anarchismo, invece di
combatterlo come una delle tante maschere dell’autoritarismo.
Ma, dice Adams “se si leva all’anarchismo individualista tutto
ciò che non è anarchico non c’è più
anarchismo individualista di sorta”. E qui non siamo d’accordo.
Moralmente l’anarchismo basta a se stesso: ma per tradursi nei fatti
ha bisogno di forme concrete di vita materiale, ed è la
preferenza di una forma all’altra che differenzia l’una dall’altra
le vane scuole anarchiche.
Comunismo, individualismo, collettivismo, mutualismo e tutti i
programmi intermedi ed eclettici non sono, nel campo anarchico, che
il modo creduto migliore per realizzare nella vita economica la
libertà e la solidarietà, il modo creduto più
rispondente a giustizia ed a libertà di distribuire tra gli
uomini i mezzi di produzione ed i prodotti del lavoro.
Bakunin era anarchico, ed era collettivista, nemico fiero del
comunismo perchè in esso vedeva la negazione della
libertà e quindi della dignità umana. E con Bakunin e
lungo tempo dopo di lui furono collettivisti (proprietà
collettiva del suolo, delle materie prime e degli strumenti di
lavoro, e attribuzione del prodotto integrale del lavoro a ciascun
produttore, detratta la quota parte necessaria per i carichi
sociali) quasi tutti gli anarchici spagnoli, che pur erano tra gli
anarchici più coscienti e più conseguenti.
Altri per la stessa ragione di difesa e garanzia della
libertà si dichiararono individualisti e vogliono che ciascun
abbia in proprietà individuale la parte che gli spetta dei
mezzi di produzione e quindi la libera disposizione dei prodotti del
suo lavoro.
Altri escogita sistemi più o meno complicati di
mutualità. Ma insomma è sempre la ricerca di una
più sicura garanzia della libertà che forma la
caratteristica degli anarchici e li divide in scuole diverse.
Noi crediamo che la distribuzione dei mezzi di produzione naturali e
la determinazione del valore di scambio delle cose necessarie in
qualunque sistema fuori del comunismo, mal si potrebbero attuare
senza lotte e senza ingiustizie che poi potrebbero finire colla
costituzione di nuove forme d’autorità e di governi. Ma
d’altra parte non ci nascondiamo il pericolo che un comunismo voluto
applicare prima che ne sia ben radicato il desiderio e la coscienza
e più largamente che non lo permettano le condizioni
obiettive della produzione e dei rapporti sociali meni al sorgere di
una burocrazia parassitaria che accetterebbe tutto nelle sue mani e
diventerebbe il peggiore dei governi.
E perciò noi restiamo comunisti nel sentimento o
nell’aspirazione, ma vogliam lasciare libero campo alla
sperimentazione di tutti i modi di vita che si possono immaginare e
desiderare.
Per noi è necessario ed è sufficiente che tutti
abbiano piena libertà e che nessuno possa monopolizzare i
mezzi di produzione e vivere del lavoro altrui.
Adams poi parla della necessità di “un movimento anarchico
organizzato, omogeneo, continuativo e collegato per un’azione comune
di lotta e di rivendicazione” e dice che la nostra propaganda a
fatti deve consistere “non nell’aspettare ad agire, muoversi,
organizzarsi, ecc, che tutti quelli che si dicono anarchici siano
d’accordo su quello che si deve fare, ma nel fare subito, noi
stessi, tutti quanti siamo d’accordo, secondo il nostro programma
teorico e tattico senza astenercene per uno sciocco timore d’urtare
le suscettibilità dei dissenzienti delle varie frazioni o
tendenze”.
Ed io convengo perfettamente con lui; ma mi pare ch’egli si sbagli
quando pensa che se quello ch’egli desidera non si è fatto
finora, o si è fatto poco e male, sia la colpa degli
“individualisti”.
Secondo me la colpa è di uno stato d’animo degli anarchici
che li ha fatti riluttanti ad ogni piano pratico di azione e che
deriva da errori teorici propagati fin dalle origini del nostro
movimento. E questi errori dipendono da una specie di
provvidenzialismo naturale, che ha fatto credere che le vicende
umane avvengono automaticamente, naturalmente, senza preparazione,
senza organizzazione, senza piani preconcetti. Come molti di noi
credono che la rivoluzione verrà da sè, quando i tempi
saranno maturi, per opera spontanea della massa, così credono
pure che dopo la rivoluzione la spontaneità popolare
basterà a tutto e che non v’è bisogno di prevedere e
di preparare nulla. E questa è la ragione dei mali che Adams
lamenta, e non già gli “individualisti” che dopo tutto sono
sempre stati in mezzo a noi una scarsissima minoranza, generalmente
senza credito e senza influenza.
Non sono stati gl’individualìsti che hanno inventata la
massima, secondo me diametralmente opposta al vero, che “l’anarchia
è l’ordine naturale”!
5. IL GOVERNO RIVOLUZIONARIO E LA DITTATURA DEL PROLETARIATO
a. La dittatura del proletariato54
Carissimo Fabbri,
...Sulla questione che tanti si preoccupa, quella della dittatura
del proletariato, mi pare che siamo fondamentalmente d’accordo.
A me sembra che su questa questione l’opinione degli anarchici non
potrebbe esser dubbia, ed infatti prima della rivoluzione
bolscevista non era dubbia per nessuno. Anarchia significa
non-governo e quindi a maggior ragione non-dittatura, che è
governo assoluto senza controllo e senza limiti costituzionali.
Ma quando è scoppiata la rivoluzione bolscevista parecchi
nostri amici hanno confuso ciò che era rivoluzione contro il
governo preesistente, e ciò che era nuovo governo che veniva
a sovrapporsi alla rivoluzione per frenarla e dirigerla ai fini
particolari di un partito – e quasi quasi si sono dichiarati
bolscevisti essi stessi.
Ora, i bolscevisti sono semplicemente dei marxisti, che sono
onestamente e conseguentemente restati marxisti, a differenza dei
loro maestri e modelli, i Guesde, i Plekanoff, gli Hyndmann, gli
Scheidemann, i Noske, ecc, ecc., che han fatto la fine che tu sai.
Noi rispettiamo la loro sincerità, ammiriamo la loro energia,
ma come non siamo stati mai d’accordo con loro sul terreno teorico,
non sapremmo solidarizzarci con loro quando dalla teoria si passa
alla pratica.
Ma forse la verità è semplicemente questa: che i
nostri amici bolscevizzanti coll’espressione “dittatura del
proletariato” intendono semplicemente il fatto rivoluzionario dei
lavoratori che prendono possesso della terra e degli strumenti di
lavoro e cercano di costituire una società, di organizzare un
modo di vita in cui non vi sia posto per una classe che sfrutti ed
opprima i produttori.
Intesa così, la “dittatura del proletariato” sarebbe il
potere effettivo di tutti i lavoratori intenti ad abbattere la
società capitalistica, e diventerebbe l’anarchia non appena
fosse cessata la resistenza reazionaria e nessuno più
pretendesse di obbligare con la forza la massa ad ubbidirgli ed a
lavorare per lui. Ed allora il nostro dissenso non sarebbe
più che una questione di parole. Dittatura del proletariato
significherebbe dittatura di tutti, vale a dire non sarebbe
più dittatura, come governo di tutti non è più
governo, nel senso autoritario, storico, pratico della parola.
Ma i partigiani veri della “dittatura del proletariato” non la
intendono così, e ce lo fanno ben vedere in Russia. Il
proletariato naturalmente c’entra come c’entra il popolo nei regimi
democratici, cioè semplicemente per nascondere l’essenza
reale della cosa. In realtà si tratta della dittatura di un
partito, o piuttosto dei capi di un partito; ed è dittatura
vera e propria, coi suoi decreti, colle sue sanzioni penali, coi
suoi agenti esecutivi e soprattutto colla sua forza armata, che
serve oggi anche a difendere la rivoluzione dai suoi nemici esterni,
ma che servirà domani per imporre ai lavoratori la
volontà dei dittatori, arrestare la rivoluzione, consolidare
i nuovi interessi che si vanno costituendo e difendere contro la
massa una nuova classe privilegiata.
Anche il generale Bonaparte servì a difendere la rivoluzione
francese contro la reazione europea, ma nel difenderla la
strozzò. Lenin, Trotski e compagni sono di sicuro dei
rivoluzionari sinceri, così come essi intendono la
rivoluzione, e non tradiranno; ma essi preparano i quadri
governativi che serviranno a quelli che verranno dopo per profittare
della rivoluzione ed ucciderla. Essi saranno le prime vittime del
loro metodo, e con loro, io temo, cadrà la rivoluzione.
È la storia che si ripete: mutatis mutandis, è la
dittatura di Robespierre che porta Robespierre alla ghigliottina e
prepara la via a Napoleone.
Queste sono le mie idee generali sulle cose di Russia. In quanto ai
particolari le notizie che abbiamo sono ancora troppo varie e
contraddittorie per potere arrischiare un giudizio. Può anche
darsi che molte cose che ci sembrano cattive siano il frutto della
situazione e che nelle circostanze speciali della Russia non fosse
possibile fare diversamente di quello che hanno fatto. È
meglio aspettare, tanto più che quello che noi diremmo non
può avere nessuna influenza sullo svolgimento dei fatti in
Russia, e potrebbe in Italia essere male interpretato e darci l’aria
di far eco alle calunnie interessate della reazione.
L’importante è quello che dobbiamo fare noi – siamo sempre
lì, io sto lontano ed impossibilitato a fare la parte mia…
b. Il governo rivoluzionario dei socialisti55
Passiamo ora alla questione di quello che intendiamo fare dopo
l’insurrezione vittoriosa.
Questa è la questione essenziale, poichè è il
nostro modo di ricostruire che costituisce propriamente l’anarchismo
e che ci distingue dai socialisti. L’insurrezione, i mezzi per
distruggere sono cosa contingente, e a rigore si potrebbe essere
anarchici anche essendo pacifisti, come si può essere
socialisti essendo insurrezionisti.
Si è detto che gli anarchici sono antistatalisti ed è
giusto: ma che cosa è lo Stato? Stato è parola
soggetta a cento interpretazioni, e noi preferiamo adoperare parole
chiare che non dan luogo ad equivoci.
Malgrado la cosa possa sembrar nuova a chi non ha penetrato il
concetto fondamentale dell’anarchismo, la verità è che
i socialisti sono dei violenti, mentre noi siamo contrari ad ogni
violenza, salvo quando essa ci è imposta, per ragion di
difesa, dalla violenza altrui. Siamo per la violenza oggi
perchè è il mezzo necessario per abbattere la violenza
borghese; saremmo per la violenza domani se ci si volesse imporre
violentemente un modo di vita che non ci convenisse. Ma il nostro
ideale, l’anarchia, è una società fondata sul libero
accordo delle libere volontà dei singoli. Siamo contro
l’autorità perchè l’autorità è violenza,
in pratica, di pochi contro i molti; ma saremmo contro
l’autorità lo stesso, se essa fosse, secondo l’utopia
democratica, la violenza della maggioranza contro la minoranza.
I socialisti sono dittatoriali o parlamentari.
La dittatura, s’intitoli pure dittatura del proletariato, è
il governo assoluto di un partito, o piuttosto dei capi di un
partito che impongono a tutti il loro speciale programma, quando non
siano i loro speciali interessi. Essa si annunzia sempre
provvisoria, ma, come ogni potere, tende sempre a perpetuarsi e ad
ingrandire il proprio potere, e finisce o col provocare la
ribellione o col consolidare un regime di oppressione.
Noi anarchici non possiamo non essere avversari di ogni e qualsiasi
dittatura. I socialisti, che preparano gli animi a subire la
dittatura, pensino almeno ad assicurarsi che al potere vadano i
dittatori che essi desiderano, giacchè, se il popolo è
disposto ad ubbidire, c’è sempre pericolo che ubbidisca ai
più abili, cioè ai più malvagi.
Resta il parlamento, la democrazia...
Noi, anche nella migliore ed utopistica ipotesi che i corpi eletti
riescano a rappresentare la volontà della maggioranza, non
potremmo mai riconoscere nella maggioranza il diritto d’imporre la
propria volontà alla minoranza per mezzo della legge,
cioè per mezzo della forza bruta.
Ma vuol dire questo che noi non vogliamo organizzazione,
coordinazione, divisione e delegazione di funzioni?
Niente affatto. Noi comprendiamo tutta la complessità della
vita civile e non vogliamo rinunziare a nessuno dei vantaggi della
civiltà; ma vogliamo che tutto, anche le necessarie
limitazioni di libertà, sia il risultato del libero accordo,
in cui la volontà di ciascuno non è violentata dalla
forza altrui, ma è temperata dall’interesse che tutti hanno
ad accordarsi, nonchè dai fatti naturali indipendenti dalla
volontà umana.
L’idea della libera volontà sembra spaventare i socialisti.
Ma, in tutto ciò che dipende dagli uomini, non è
sempre la volontà che decide? E perchè allora la
volontà degli uni piuttosto che degli altri? E chi
deciderebbe della volontà che ha diritto a prevalere? La
forza brutale? quella che sarebbe riuscita ad assicurarsi un corpo
di poliziotti abbastanza forte?
Noi crediamo che si potrà raggiungere l’accordo ed arrivare
al miglior modo di convivenza sociale solo se nessuno può
imporre la volontà sua colla forza, e ciascuno quindi
dovrà cercare, per necessità di cose oltre che per
impulso di spirito fraterno, il modo di conciliare i desideri propri
con quelli degli altri. Un maestro di scuola, mi si passi l’esempio,
che abbia il diritto di bastonare i discepoli e si fa ubbidire colla
sferza, risparmia ogni lavoro intellettuale per comprendere l’animo
dei fanciulli a lui affidati ed alleva dei selvaggi; un maestro
invece che bastonare non può o non vuole cerca di farsi amare
e ci riesce.
Noi siamo comunisti; ma il comunismo imposto dai birri, no. Questo
comunismo non solo violerebbe la libertà che ci è
cara, non solo non riuscirebbe a produrre effetti benefici
perchè gli mancherebbe il cordiale concorso delle masse e
dovrebbe contare solo sull’azione sterile e perniciosa dei
burocrati, ma condurrebbe certamente alla ribellione, la quale,
essendo per le circostanze anti-comunista, rischierebbe di finire in
una restaurazione borghese.
Questa differenza di programma tra noi ed i socialisti ci
farà nemici l’indomani della rivoluzione, ed indurrà
gli anarchici, che probabilmente saranno in minoranza, a preparare
una nuova insurrezione violenta contro i socialisti?
Non necessariamente.
L’anarchia, l’abbiamo ripetuto spesso, non si fa per forza e noi non
potremmo voler imporre agli altri le nostre concezioni, senza
cessare di essere anarchici, Ma noi anarchici vorremo vivere
anarchicamente per quanto le circostanze esteriori e le
capacità nostre ce lo permetteranno.
Se i socialisti ci lasceranno libertà di propaganda, di
organizzazione, di sperimentazione; se non vorranno obbligarci colla
forza ad ubbidire alle loro leggi quando noi sapessimo vivere
ignorandole, allora non vi sarà nessuna ragione di conflitto
violento.
Una volta conquistata la libertà ed assicuratoci il diritto
di disporre dei mezzi di produzione, noi contiamo, per il trionfo
dell’Anarchia, solo sulla superiorità delle nostre idee. Ed
intanto potremmo concorrere tutti, ciascuno coi metodi suoi, al bene
comune. Chè se invece i governanti socialisti volessero con
la forza dei poliziotti, sottoporre i recalcitranti al loro dominio,
allora… sarebbe la lotta.
c. La ricetta dei comunisti56
Al contrario degli anarchici vi sono molti rivoluzionari i quali non
hanno fiducia nell’istinto costruttivo nelle masse, credono di avere
essi la ricetta infallibile per assicurare la felicità
universale, temono la possibile reazione, temono forse più la
concorrenza di altri partiti ed altre scuole di riformatori sociali,
e vogliono perciò impossessarsi del potere e sostituire al
governo “democratico” di oggi un governo dittatoriale.
Dittatura dunque: ma chi sarebbero i dittatori? Naturalmente,
pensano essi, i capi del loro partito. Dicono ancora per abitudine
contratta o per desiderio cosciente di evitare le spiegazioni
chiare, “dittatura del proletariato” ma questa è una burletta
oramai sfatata.
Ecco come si spiega Lenin, o chi per lui (vedi "Avanti!" del 20
luglio 1920):
“La dittatura significa l’abbattimento della borghesia per opera di
un’avanguardia rivoluzionaria (questa è la rivoluzione e non
già la dittatura), in contrasto con la concezione che sia
anzitutto necessario ottenere una maggioranza nelle elezioni. Per
mezzo della dittatura si ottiene la maggioranza non già per
mezzo della maggioranza la dittatura”. (E sta bene; ma se è
una minoranza che, impossessatasi del potere, deve poi conquistare
la maggioranza è una menzogna il parlare di dittatura del
proletariato. Il proletariato è evidentemente la
maggioranza).
“La dittatura significa l’impiego della violenza e del terrore” (Per
opera di chi e contro chi? Poichè si suppone la maggioranza
ostile e non può trattarsi, nel concetto dittatoriale di
folla scatenata che prende nelle sue mani la cosa pubblica,
evidentemente la violenza ed il terrore dovranno essere praticati
contro tutti coloro che non si piegano ai voleri dei dittatori per
mezzo di sgherani al servizio di essi dittatori).
“La libertà di stampa e di riunione equivarrebbe ad
autorizzare la borghesia ad avvelenare l’opinione pubblica.” (Dunque
dopo l’avvento della dittatura “del proletariato” che dovrebbe
essere la totalità dei lavoratori, vi sarà ancora una
borghesia che invece di lavorare avrà i mezzi di avvelenare
“l’opinione pubblica” ed una opinione pubblica da avvelenare
estranea a quei proletari che dovrebbero costituire la dittatura? Vi
saranno dei censori onnipotenti che giudicheranno di quello che si
può o non si può stampare e dei questori a cui
bisognerà domandare il permesso per tenere un comizio.
Inutile dire quale sarebbe la libertà lasciata a chi non
è ligio ai dominatori del momento).
“Soltanto dopo la espropriazione degli espropriatori, dopo la
vittoria, il proletariato attirerà a sè le masse della
popolazione che prima seguiva la borghesia”. (Ma ancora una volta
che cosa è questo proletariato che non è la massa che
lavora? Proletariato non significa dunque chi non ha
proprietà ma chi ha certe date idee ed appartiene ad un dato
partito?).
Lasciamo dunque questa falsa espressione di dittatura del
proletariato atta a produrre tanti equivoci e discutiamo della
dittatura quale essa è veramente, cioè il governo
assoluto di uno o più individui i quali, appoggiandosi su di
un partito o su di un esercito, s’impadroniscono della forza sociale
ed impongono “colla violenza e col terrore” la loro volontà.
Quale sarà questa volontà dipende dalla specie di
persone che all’atto pratico riusciranno ad impossessarsi del
potere. Nel caso nostro si suppone che sarà la volontà
dei comunisti e quindi una volontà ispirata al desiderio del
bene di tutti.
È già una cosa molto dubbia, poichè
generalmente gli uomini meglio dotati delle qualità
necessarie per arraffare il potere non sono i più sinceri ed
i più devoti alla causa pubblica; e se si predica alle masse
la necessità di sottomettersi ad un nuovo governo non si fa
che spianare la via agli intriganti ed agli ambiziosi.
Ma supponiamo pure che i nuovi governanti, i dittatori che
dovrebbero realizzare gli scopi della rivoluzione siano dei veri
comunisti, pieni di zelo, convinti che dall’opera loro, dall’energia
loro dipenda la felicità del genere umano. Sarebbero degli
uomini sul tipo dei Torquemada e dei Robespierre che, a fine di
bene, in nome della salute privata o pubblica, soffocherebbero ogni
voce discorde, distruggerebbero ogni alito di vita libera e
spontanea: e poi, impotenti a risolvere i problemi pratici da loro
sottratti alla competenza degli interessati, dovrebbero per amore e
per forza lasciare il posto ai restauratori del passato.
La grande giustificazione della dittatura sarebbe
l’incapacità delle masse e la necessità di difendere
la rivoluzione dai tentativi reazionari.
Se davvero le masse fossero armento bruto incapace di vivere senza
il bastone del pastore, se non vi fosse già una minoranza
sufficientemente numerosa e cosciente capace di trascinare le masse
colla predicazione e coll’esempio, allora comprenderemmo meglio i
riformisti, i quali temono la sollevazione popolare e s’illudono di
potere poco a poco, a forza di piccole riforme, che sono poi piccoli
rammendi, minare lo Stato borghese e preparare le vie al socialismo;
comprenderemmo meglio gli educazionisti che non valutando abbastanza
l’influenza dell’ambiente sperano di poter cambiare la
società cambiando prima tutti gli individui; non potremmo
comprendere affatto i partigiani della dittatura, che vogliono
educare ed elevare le masse “colla violenza e col terrore” e
dovrebbero elevare a primi fattori di educazione i gendarmi ed i
censori.
In realtà nessuno potrebbe istituire la dittatura
rivoluzionaria se prima il popolo non avesse fatta la rivoluzione,
mostrando così a fatti la sua capacità di farla; ed
allora la dittatura non farebbe che sovrapporsi alla rivoluzione,
sviarla, soffocarla ed ucciderla.
In una rivoluzione politica in cui si mira solo a buttar giù
il governo lasciando in piedi tutta l’organizzazione sociale
esistente, può una dittatura impossessarsi del potere,
mettere i suoi uomini al posto dei funzionari scacciati ed
organizzare dall’alto il nuovo regime. Ma in una rivoluzione
sociale, dove sono rovesciate tutte le basi della convivenza
sociale, dove la produzione indispensabile deve essere ripresa
subito per conto e vantaggio dei lavoratori, dove la distribuzione
deve essere immediatamente regolata secondo giustizia, la dittatura
non potrebbe far nulla, O il popolo provvederebbe da sè nei
diversi comuni e nelle diverse industrie, o la rivoluzione sarebbe
fallita.
Forse in fondo i partigiani della dittatura (e già alcuni lo
dicono apertamente) non desiderano subito che una rivoluzione
politica, vale a dire che vorrebbero senz’altro impossessarsi del
potere e poi gradualmente trasformare la società per mezzo di
leggi e di decreti. In tal caso essi avrebbero probabilmente la
sorpresa di vedere al potere ben altri che loro stessi; e in tutti i
casi dovrebbero prima d’ogni altra cosa pensare a organizzare la
forza armata (i poliziotti) necessaria ad imporre il rispetto delle
loro leggi. Intanto la borghesia che sarebbe restata sostanzialmente
la detentrice della ricchezza, superato il momento critico dell’ira
popolare, preparerebbe la reazione, riempirebbe la polizia di propri
agenti, sfrutterebbe il disagio e la disillusione di coloro che si
aspettavano l’immediata realizzazione del paradiso terrestre… e
ripiglierebbe il potere o attirando a sè i dittatori, o
sostituendoli con uomini suoi.
Quella paura della reazione, addotta a giustificazione del regime
dittatoriale dipende appunto dal fatto che si pretende fare la
rivoluzione lasciando sussistere ancora una classe privilegiata in
condizione di poter riprendere il potere.
Se invece s’incomincia con l’espropriazione completa, allora
borghesi non ve ne sarà più; e tutte le forze vive del
proletariato, tutte le capacità esistenti saranno impiegate
nell’opera di ricostruzione sociale.
Del resto, in un paese come l’Italia (per applicare il già
detto al paese in cui svolgiamo la nostra attività), in un
paese come l’Italia, dove le masse sono pervase da istinti libertari
e ribelli, dove gli anarchici rappresentano una forza considerevole,
più che per le loro organizzazioni, per l’influenza che
possono esercitare, un tentativo di dittatura non potrebbe essere
fatto senza scatenare la guerra civile tra lavoratori e lavoratori e
non potrebbe trionfare se non per mezzo della più feroce
tirannia.
Allora, addio comunismo!
Non v’è che una via possibile di salvezza: la Libertà.
d. Bolscevismo e anarchismo57
Dopo circa due anni da quando fu scritto, il libro di Luigi Fabbri a
proposito della rivoluzione russa conserva tutta la sua freschezza e
resta il lavoro più completo e più organico che io
conosca sull’argomento. Anzi gli avvenimenti posteriori che si sono
svolti in Russia sono venuti a confermare il valore del libro dando
un’ulteriore e più evidente conferma sperimentale alle
deduzioni che il Fabbri cavava dai fatti allora conosciuti e dai
principi generali sostenuti dagli anarchici.
Materia del libro è un caso particolare del vecchio eterno
conflitto tra libertà e autorità che ha riempito di
sè tutta la storia passata e travaglia più che mai il
mondo contemporaneo, e dalle cui vicende dipende la sorte della
rivoluzione in atto e di quelle che stanno per venire.
La rivoluzione russa si è svolta con lo stesso ritmo di tutte
le rivoluzioni passate. Dopo un periodo ascendente verso una
maggiore giustizia ed una maggiore libertà, che è
durato fino a quando l’azione popolare attaccava ed abbatteva i
poteri costituiti, è sopravvenuto, non appena un nuovo
governo è riuscito a consolidarsi, il periodo della reazione,
l’opera, a volte lenta e graduale, a volte rapida e violenta, del
nuovo potere, intesa a distruggere quanto più è
possibile delle conquiste della Rivoluzione e a stabilire un ordine
che assicuri la permanenza al potere della nuova classe governante e
difenda gli interessi dei nuovi privilegiati e di quelli tra i
vecchi che sono riusciti a sopravvivere alla tormenta.
In Russia, grazie a circostanze eccezionali il popolo abbatté
il regime zarista, costruì per libera e spontanea iniziativa
i suoi sovieti (che furono comitati locali di operai e contadini,
rappresentanti diretti dei lavoratori e sottoposti al controllo
immediato degli interessati), espropriò gli industriali ed i
grandi proprietari fondiari ed incominciò ad organizzare
sulla base dell’uguaglianza e della libertà e con criteri di
giustizia, sia pure relativa, la nuova vita sociale.
Così la Rivoluzione si andava sviluppando e, compiendo il
più grandioso esperimento sociale che la storia ricordi, si
apprestava a dare al mondo l’esempio di un grande popolo che mette
in opera per sforzo proprio tutte le sue facoltà, e raggiunge
la sua emancipazione ed organizza la sua vita conformemente ai suoi
bisogni, ai suoi istinti, alla sua volontà, senza la
pressione di una forza esteriore che lo inceppi e lo costringa a
servire gli interessi di una casta privilegiata.
Disgraziatamente però, tra gli uomini che maggiormente
contribuirono a dare il colpo decisivo al vecchio regime, vi erano
dei fanatici dottrinari, ferocemente autoritari perchè
fermamente convinti di possedere “la verità” e di avere la
missione di salvare il popolo il quale, secondo la loro opinione,
non poteva salvarsi se non per le vie indicate da loro. Costoro,
profittando del prestigio che dava loro la parte presa nella
rivoluzione e soprattutto della forza che veniva loro dalla propria
organizzazione, riuscirono ad impossessarsi del potere, riducendo
all’impotenza gli altri, ed in specie gli anarchici, che avevano
contribuito alla rivoluzione quanto e più di loro, ma non
potettero opporsi validamente alla loro usurpazione, perchè
disgregati, senza intese preventive, quasi senza alcuna
organizzazione.
Da allora la rivoluzione era condannata.
Il nuovo potere, come è nella natura di tutti i governi,
volle assorbire nelle sue mani tutta la vita del paese e sopprimere
ogni iniziativa, ogni movimento che sorgesse dalle viscere popolari.
Creò in sua difesa prima un corpo di pretoriani, poi un
esercito regolare ed una potente polizia che uguagliò e
superò in ferocia e mania liberticida quella stessa del
regime zarista. Costituì un’innumere burocrazia; ridusse i
sovieti a puri strumenti del potere centrale o li sciolse colla
forza delle baionette; soppresse con la violenza, spesso
sanguinaria, ogni opposizione; volle imporre il programma sociale
agli operai e ai contadini riluttanti, e così
scoraggiò e paralizzò la produzione. Difese
bensì con successo il territorio russo dagli attacchi della
reazione europea, ma non riuscì con questo a salvare la
rivoluzione poichè l’aveva strozzata esso stesso, pur
cercando di difendere le apparenze formali. Ed ora si sforza di
farsi riconoscere dai governi borghesi, di entrare con loro in
rapporti cordiali, di ristabilire il sistema capitalistico… insomma
di seppellire definitivamente la rivoluzione. Così tutte le
speranze che la rivoluzione russa aveva suscitate nel proletariato
mondiale saranno state tradite. La Russia non tornerà certo
allo stato di prima, poichè una grande rivoluzione non passa
mai senza lasciar tracce profonde, senza scuotere ed innalzare
l’animo popolare e senza creare delle nuove possibilità per
l’avvenire. Ma i risultati ottenuti resteranno ben inferiori a
quello che avrebbero potuto essere e si sperava che fossero, ed
enormemente sproporzionati alle sofferenze patite ed al sangue
versato.
Noi non vogliamo troppo approfondire la ricerca delle
responsabilità. Certo molta colpa del disastro spetta alle
direttive autoritarie che si dettero alla rivoluzione; molta colpa
spetta anche alla singolare psicologia dei governanti bolscevichi,
che pur sbagliando e riconoscendo e confessando i loro errori,
restano sempre convinti lo stesso d’essere infallibili e vogliono
sempre imporre con la forza le loro mutevoli e contraddittorie
volontà. Ma è altrettanto, o più vero ancora,
che quegli uomini si sono trovati alle prese con difficoltà
inaudite e che forse molto di quello che a noi sembra errore e
malvagità, fu l’effetto ineluttabile della necessità.
E perciò noi volentieri ci asterremmo dal dare un giudizio,
lasciando che giudichi più tardi la storia serena ed
imparziale, se è vero che una storia serena ed imparziale sia
mai possibile. Ma v’è in Europa tutto un partito che è
abbacinato dal mito russo e vorrebbe imporre alle prossime
rivoluzioni gli stessi metodi bolscevichi che hanno uccisa la
rivoluzione russa; ed è urgente quindi mettere in guardia le
masse in generale, ed i rivoluzionari in specie, contro il pericolo
dei tentativi dittatoriali dei partiti bolscevizzanti. E il Fabbri
ha reso un segnalato servizio alla causa mostrando all’evidenza la
contraddizione che v’è tra dittatura e rivoluzione.
L’argomento principe di cui si servono i difensori della dittatura
che si continua a chiamare dittatura del proletariato, ma è
poi in realtà – ormai tutti ne convengono – dittatura dei
capi di un partito sopra tutta quanta la popolazione, l’argomento
principe, dico, è la necessità di difendere la
rivoluzione contro i tentativi interni di restaurazione borghese e
contro gli attacchi che verrebbero dai governi esteri, se il
proletariato dei loro paesi non sapesse tenerli in rispetto facendo,
o almeno minacciando di fare, esso stesso la rivoluzione appena
l’esercito fosse impegnato in una guerra.
Non v’è dubbio che bisogna difendersi; ma dal sistema che si
adopera nella difesa dipende in gran parte la sorte della
rivoluzione. Che se per vivere si dovesse rinunziare alle ragioni ed
agli scopi della vita, se per difendere la rivoluzione si dovesse
rinunziare alle conquiste che sono lo scopo primo della rivoluzione,
allora varrebbe meglio essere vinti onoratamente e salvare le
ragioni dell’avvenire, anzichè vincere tradendo la propria
causa.
La difesa interna bisogna assicurarla distruggendo radicalmente
tutte le istituzioni borghesi e rendendo impossibile ogni ritorno al
passato.
È vano il volere difendere il proletariato contro i borghesi
mettendo questi in condizioni d’inferiorità politica. Fino a
che vi sarà gente che ha e gente che non ha, quelli che hanno
finiranno sempre col burlarsi delle leggi; anzi, appena svaniti i
primi bollori popolari, sono essi che andranno al potere e faranno
le leggi.
Vane le misure di polizia, che possono ben servire ad opprimere, ma
non serviranno mai per liberare.
Vano, e peggio che vano micidiale, il cosiddetto terrore
rivoluzionario. Certo è tanto grande l’odio, il giusto odio,
che gli oppressi covano nell’animo loro, sono tante le infamie
commesse dai governi e dai signori, sono tanti gli esempi di ferocia
che vengono dall’alto, tanto il disprezzo della vita e delle
sofferenze umane che ostentano le classi dominanti, che non
c’è da meravigliarsi se in un giorno di rivoluzione la
vendetta popolare scoppia tremenda ed inesorabile. Noi non ce ne
scandalizzeremmo e non cercheremmo di frenarla se non con la
propaganda, poichè il volerla frenare altrimenti porterebbe
alla reazione. Ma è certo, secondo noi, che il terrore
è un pericolo e non già una garanzia di successo per
la rivoluzione. Il terrore in generale colpisce i meno responsabili;
mette in valore i peggior elementi, quelli stessi che avrebbero
fatto i birri e i carnefici sotto il vecchio regime e sono felici di
sfogare, in nome della rivoluzione, i loro cattivi istinti e
soddisfare sordidi interessi.
E questo se si tratta del terrore popolare esercitato direttamente
dalle masse contro i loro oppressori diretti. Chè se poi il
terrore dovesse essere organizzato da un centro, fatto per ordine di
governo per mezzo della polizia e dei tribunali cosiddetti
rivoluzionari, allora esso sarebbe il mezzo più sicuro per
uccidere la rivoluzione e sarebbe esercitato, più che a danno
dei reazionari, contro gli amanti di libertà che resistessero
agli ordini del nuovo governo ed offendessero gli interessi dei
nuovi privilegiati.
Alla difesa, al trionfo della rivoluzione si provvede interessando
tutti alla sua riuscita, rispettando la libertà di tutti e
levando a chiunque non solo il diritto, ma la possibilità di
sfruttare il lavoro altrui.
Non bisogna sottomettere i borghesi ai proletari, ma abolire
borghesia e proletariato assicurando a ciascuno la
possibilità di lavorare nel modo che vuole e mettendo tutti
gli uomini validi nell’impossibilità di vivere senza
lavorare.
Una rivoluzione sociale, che dopo aver vinto sta ancora in pericolo
di essere sopraffatta dalla classe spossessata è una
rivoluzione che si è arrestata a mezzo cammino; e per
assicurarsi la vittoria non ha che da andare sempre più
avanti sempre più in fondo.
Resta la questione della difesa contro il nemico di fuori.
Una rivoluzione che non vuol finire sotto i talloni di un soldato
fortunato non può difendersi che per mezzo di milizie
volontarie, facendo in modo che ogni passo fatto dagli stranieri sul
territorio insorto li faccia cadere in un tranello, cercando di
offrire tutti i vantaggi possibili ai soldati mandati per forza e
trattando senza pietà gli ufficiali nemici che vengono
volontariamente. Si deve organizzare il meglio possibile l’azione
guerresca; ma è essenziale evitare che coloro i quali si
specializzano nella lotta militare esercitino, in quanto militari,
una qualsiasi azione sulla vita civile della popolazione.
Noi non neghiamo che dal punto di vista tecnico più un
esercito è retto autoritariamente e più ha
probabilità di vittoria, e che il concentramento di tutti i
poteri nelle mani di uno solo – se capita che quest’uno sia un genio
militare – costituirebbe un grande elemento di successo. Ma la
questione tecnica non ha che una importanza secondaria – e se per
rischiare una sconfitta da parte dello straniero si dovesse
rischiare di uccidere noi stessi la rivoluzione, si servirebbe molto
male la causa.
L’esempio della Russia serva a tutti.
Il farsi mettere il freno nella speranza di essere meglio guidati
non può condurre che alla schiavitù. Tutti i
rivoluzionari studino il libro di Fabbri. È necessario per
esser bene preparati ad evitare gli errori in cui sono caduti i
Russi.
6. L’ALLUVIONE FASCISTA
a. Analisi di un errore58
Dico la mia opinione sui bisogni del nostro movimento nell’ora
attuale. I compagni giudicheranno ed agiranno con quella disciplina
anarchica che non è l’ubbidienza ai voleri di altri, ma
spontanea coerenza con le proprie convinzioni.
Quando tornai in Italia, nelle circostanze che tutti conoscono, la
rivoluzione era all’ordine del giorno. Proletariato, borghesia,
governo, partiti, tutti vivevano nella speranza o nel timore di una
prossima, imminente sollevazione popolare, dalla quale poteva
risultare un radicale cambiamento negli ordini politici ed
economici. Ma, come sempre, occorreva la spinta iniziale per
determinare il movimento ed occorreva l’intesa di nuclei coscienti e
fattivi per indirizzare detto movimento a scopi determinanti ed
impedire che esso si esaurisse in disordini inutili e sanguinosi,
senza risultati tangibili e duraturi.
La situazione era urgente. Lo stato di tensione spirituale in cui si
trovavano le masse non poteva durare a lungo; il governo o la
borghesia sarebbero usciti dallo stato di depressione morale e
d’impotenza materiale in cui erano caduti, e difatti già
incominciavano ad apprestare i mezzi di repressione; nè le
condizioni economiche, colle crescenti esigenze dei lavoratori e la
progressiva diminuzione della produzione, potevano ammettere il
prolungarsi di una condizione di ansia e di incertezza che impediva
al capitalismo di funzionare mentre non permetteva il lavoro libero,
associato, senza sfruttamento padronale, che avrebbe dovuto
risolvere il problema.
Il partito socialista che comprendeva allora anche coloro che poi si
sono costituiti in partito comunista, e che era di gran lunga il
più forte tra i partiti anticostituzionali, cercava di
procrastinare nella convinzione, o col pretesto, che il tempo
lavorava per noi, che ogni giorno passato aumentava la
probabilità di vittoria.
A me sembrava il contrario, e perciò desideravo che quel che
si poteva fare si facesse subito.
La storia passata non m’ispirava soverchia fiducia nella
capacità e soprattutto nella volontà rivoluzionaria
dei dirigenti socialisti, e d’altra parte come anarchico non potevo
non avere le peggiori prevenzioni contro il regime burocratico e
dittatoriale che, in caso di vittoria, i socialisti avrebbero
tentato d’imporci.
Ma come fare? Noi eravamo troppo poco numerosi per potere, con
qualche probabilità di successo, prendere da soli
l’iniziativa dell’azione; e pure bisognava fare il possibile
perchè la situazione tanto eccezionalmente favorevole alla
rivoluzione non andasse miseramente sciupata! Perciò io fui
tra i più caldi fautori del “fronte unico” che fu uno sforzo
per trascinare all’azione coloro che, avendo promesso la
rivoluzione, gli uni per scopi sporcamente elettorali, gli altri per
un transitorio entusiasmo provocato dai fatti di Russia, non
potevano decentemente confessare che essi la rivoluzione non la
volevano, perchè, a non parlare che delle ragioni oneste, non
la credevano possibile.
I fatti mi hanno dato torto. Il “fronte unico” non era stato voluto
realmente che dagli anarchici e quando venne il momento di agire si
sfasciò miseramente.
Il modo come si strozzò il magnifico movimento, che poteva
ben essere risolutivo, dell’occupazione delle fabbriche, la fine
vergognosa dell’agitazione pro vittime politiche cessata non appena
furono arrestati i membri anarchici del comitato mostrarono quanto
torto avevamo avuto fidando nel concorso degli “affini”.
Noi dicemmo parole dure, gridammo al tradimento; ed avevamo ragione
se consideriamo le promesse che i socialisti avevano fatto alle
masse, se ci ricordiamo il modo come essi soffocavano ogni
agitazione promettendo la rivoluzione sicura a breve scadenza.
L’Avanti!, per esempio, per indurre gli operai a lasciare
tranquillamente le fabbriche assicurava che la rivoluzione si
sarebbe fatta “tra poche settimane”!
Ma se trascuriamo i modi poco leali e guardiamo il fondo delle cose,
se consideriamo il tipo di organizzazione adottato dai socialisti ed
il personale che costituisce la loro classe dirigente, e
principalmente la maniera come essi concepiscono il divenire
rivoluzionario, allora dovremo convenire che non furono essi i
traditori, ma noi gl’ingenui.
b. Che fare?59
“Che fare?” è la domanda che con più o meno forza
tormenta sempre l’animo di tutti gli uomini lottanti per un ideale e
che risorge imperiosa nei momenti di crisi, quando un insuccesso,
una disillusione spinge al riesame della tattica seguita, alla
critica degli errori eventuali, ed alla ricerca di mezzi più
efficaci. E ben fa il compagno Outcast a rimettere la questione sul
tappeto ed invitare i compagni a riflettere ed a decidere sul da
farsi.
La situazione oggi è per noi difficile ed in certe regioni
addirittura disastrosa. Ma insomma chi era anarchico resta
anarchico, e, se da una parte siamo indeboliti dalle molteplici
sconfitte, abbiamo guadagnato dall’altra una preziosa esperienza,
che aumenterà in seguito la nostra efficienza, se poco poco
sappiamo farne tesoro. Le defezioni, del resto rare, che si sono
prodotte nel campo nostro in fondo ci giovano perchè ci hanno
sbarazzato di elementi deboli ed infidi.
Che fare dunque?
Non m’intratterrò dell’agitazione fatta all’estero contro la
reazione italiana. Certamente tutto ciò che serve a far
conoscere al proletariato mondiale le vere condizioni d’Italia e le
infamie inaudite che sono state commesse e continuano a commettersi
dagli scherani della borghesia per soffocare e distruggere ogni
movimento emancipatore, non può che giovare. Già
leggiamo di un comizio internazionale di protesta contro il fascismo
che ha avuto luogo a New York il 18 corrente – siam sicuri che i
nostri amici e quanti han senso di libertà e di giustizia
faranno tutto quello che possono in America, Inghilterra, Francia,
Spagna, ecc.
Ma a noi interessa soprattutto quello che si deve fare qui in
Italia, perchè siamo noi che dobbiamo farlo, e perchè,
se è bene tener conto di tutte le forze ausiliarie, è
essenziale però non contare troppo sugli altri e cercare la
salute in noi stessi, nell’opera nostra.
Noi in questi ultimi anni ci siamo accostati per un’azione pratica
ai diversi partiti d’avanguardia e ne siamo usciti sempre male.
Dobbiamo per questo isolarci, rifuggire dai contatti impuri, e non
muoverci o tentare di muoverci se non quando potremo farlo con le
sole nostre forze ed in nome del nostro programma integrale?
Io non lo credo.
Poichè la rivoluzione non possiamo farla da soli, cioè
poichè non possiamo colle nostre sole forze attirare e
spingere all’azione le grandi masse necessarie alla vittoria, e
poichè anche aspettando un tempo illimitato le masse non
potranno diventare anarchiche prima che la rivoluzione sia
incominciata, e noi resteremo necessariamente una minoranza
relativamente piccola fino al giorno in cui potremo cimentare le
nostre idee nella pratica rivoluzionaria, negare il nostro concorso
agli altri ed aspettare per agire di essere in grado di farlo da
soli, sarebbe in pratica, e malgrado le parole grosse ed i propositi
radicali, un fare opera addormentatrice ed impedire che s’incominci
colla scusa di volere con un salto arrivare di botto alla fine.
So bene – se non lo sapessi da lungo tempo lo avrei appreso
recentemente – che salvo individui e gruppi che mordono il freno
della disciplina dei partiti autoritari e vi restano colla speranza
che i loro capi un qualche giorno si decideranno ad ordinare
l’azione generale noi, gli anarchici, siamo i soli a volere la
rivoluzione davvero, ed a volerla il più presto possibile. Ma
so anche che le circostanze sono spesso più forti della
volontà degli individui e che una volta o l’altra, se i
nostri cugini dei vari lati non vorranno morire ignominiosamente
come partiti e fare omaggio alla monarchia di tutte le loro idee e
di tutte le loro tradizioni, di tutti i loro sentimenti migliori,
dovranno decidersi a rischiare la lotta finale. Oggi potrebbero
anche esservi spinti dalla necessità di difendere la loro
libertà, i loro beni, la loro vita.
Noi dovremmo quindi essere sempre disposti a secondare chi vuole
agire, anche se questo implica il rischio di essere poi lasciati
soli e traditi.
Ma nel dare agli altri il nostro concorso, o meglio nel cercare
sempre di utilizzare le forze degli altri e profittare di tutte le
possibilità di azione, noi dobbiamo restare sempre noi
stessi, e metterci in grado di far sentire la nostra influenza e
contare almeno in proporzione delle nostre forze reali.
E per questo importa intendersi, collegarsi, organizzarsi nel modo
più efficace possibile.
Altri, per fini che non vogliamo qualificare, continui pure a
svisare e calunniare i nostri scopi. Tutti i compagni che vogliono
fare davvero, giudicheranno che cosa convenga loro di fare.
In questo momento, come in tutti i periodi di depressione e di
stasi, siamo afflitti da una recrudescenza di bizantinismo; e
v’è chi si diverte a discutere se siamo un partito o un
movimento, se bisogna unirsi in unioni o federazioni e mille altre
simili sciocchezze; forse sentiremo dire un’altra volta che “i
gruppi non debbono avere nè segretario nè cassiere, ma
debbono incaricare un compagno di custodire il denaro”. I bizantini
son capaci di tutto; ma gli uomini fattivi lascino cuocere nel loro
brodo quelli in buona fede e soprattutto quelli in cattiva fede, e
pensino a fare.
Ciascuno faccia quello che gli pare, con chi gli pare, ma faccia.
Nessun uomo di buona fede e di buon senso negherà che per
agire con efficacia bisogna intendersi, unirsi, organizzarsi.
Oggi la reazione tende a soffocare ogni movimento pubblico, e
naturalmente il movimento tende a “nascondersi sotto terra”, come
dicevano i russi.
Ritorniamo alla necessità dell’organizzazione segreta, e sia.
Ma l’organizzazione segreta non può esser tutto e non
può comprendere tutti.
Noi abbiamo bisogno di mantenere e di accrescere il nostro contatto
colle masse, abbiamo bisogno di cercare nuovi proseliti facendo la
più ampia propaganda possibile, abbiamo bisogno di serbare
nel movimento tutti quegli elementi che non sono adatti per
un’organizzazione segreta e quelli che per essere troppo conosciuti
rischierebbero di comprometterla. Non bisogna dimenticare che i
membri più utili per un’organizzazione segreta sono quelli di
cui gli avversari non sanno le idee, e che possono lavorare senza
essere sospettati.
Non bisogna dunque, secondo me, disfare nulla di quello che esiste.
Bisogna aggiungervi dell’altro: e quest’altro sia fatto in modo che
risponda ai bisogni del momento. Non si aspetti l’iniziativa degli
altri: che ciascuno prenda le iniziative che crede nella sua
località, nel suo ambiente, e cerchi poi, colle dovute
precauzioni, di collegare la propria alle altrui iniziative per
arrivare a quell’intesa generale che è necessaria per
un’azione che valga. Siamo, è vero, in un momento di
depressione. Ma oggi la storia cammina veloce: apprestiamoci per i
prossimi avvenimenti.
c. La fallita ricerca di alleanze60
... Noi abbiamo sempre ricercata l’alleanza di tutti quelli che
vogliono fare la rivoluzione per potere abbattere la forza materiale
del comune nemico, ma abbiamo sempre altamente proclamato che questa
alleanza doveva durare solo il tempo dell’atto insurrezionale, e che
subito dopo o magari, se possibile e necessario, durante la stessa
insurrezione cercheremmo di attuare le idee nostre opponendoci alla
costituzione di qualsiasi governo, di qualsiasi centro autoritario,
e trascinando le masse alla presa di possesso immediata di tutti i
mezzi di produzione e di tutta la ricchezza sociale ed
all’organizzazione diretta della nuova vita sociale conformemente al
grado di sviluppo ed alla volontà delle stesse masse nelle
varie località.
Purtroppo i partiti sovversivi autoritari italiani han mostrato di
non avere capacità e voglia di fare la rivoluzione e
dureranno a non potere e non volere farla sino a quando saranno
affetti dalla lue parlamentaristica. Ma ciò non impedisce che
noi, non potendo fare la rivoluzione da soli, dobbiamo spiare tutte
le occasioni che potrebbero, magari contro la volontà dei
capi, determinare un movimento insurrezionale.
E d’altra parte, se anche vedessimo la possibilità di fare da
soli una insurrezione vittoriosa, non dovremmo noi – poichè
il nostro scopo non è fare un colpo di mano per impossessarci
del potere, ma è quello di suscitare tutte le energie
popolari ad iniziare l’era della libera evoluzione – non dovremmo
noi far appello a tutti i partiti sovversivi, a tutte le
organizzazioni proletarie per cercare di trascinare nel movimento
tutta la massa che sta divisa tra i vari partiti e le varie
organizzazioni?
Noi non vogliamo “aspettare che le masse diventino anarchiche per
fare la rivoluzione”, tanto più che siamo convinti che esse
non lo diventeranno mai se prima non si abbattino violentemente le
istituzioni che le tengono in schiavitù. E siccome noi
abbiamo bisogno del concorso delle masse, sia per costituire una
forza materiale sufficiente, sia per raggiungere il nostro scopo
specifico di combattimento radicale dell’organismo sociale per opera
diretta delle masse, noi dobbiamo accostarci ad esse, prenderle come
sono, e come parti di esse spingerle il più avanti che sia
possibile. Questo, s’intende, se vogliamo davvero lavorare per
l’attuazione pratica dei nostri ideali e non già contentarci
di predicare al deserto per la semplice soddisfazione del nostro
orgoglio intellettuale.
d. Mussolini al potere61
I lavoratori non seppero opporre la violenza alla violenza
perchè erano stati educati a credere nella legalità, e
perchè, anche quando ogni illusione era diventata impossibile
e gl’incendi e gli assassini si moltiplicavano sotto lo sguardo
benevolo delle autorità, gli uomini in cui avevano fiducia
predicarono loro la pazienza, la calma, la bellezza e la saggezza di
farsi battere “eroicamente” senza resistere – e perciò furono
vinti ed offesi negli averi, nelle persone, nella dignità,
negli affetti più sacri.
Forse, quando tutte le istituzioni operaie erano state distrutte, le
organizzazioni sbandate, gli uomini più invisi e considerati
più pericolosi, uccisi o imprigionati o comunque ridotti
all’impotenza, la borghesia ed il governo avrebbero voluto mettere
un freno ai nuovi pretoriani che oramai aspiravano a diventare i
padroni di quelli che avevano serviti. Ma era troppo tardi. I
fascisti oramai sono i più forti ed intendono farsi pagare ad
usura i servizi resi. E la borghesia pagherà, cercando
naturalmente di ripagarsi sulle spalle del proletariato.
In conclusione, aumentata miseria, aumentata oppressione.
In quanto a noi, non abbiamo che da continuare la nostra battaglia,
sempre pieni di fede, pieni di entusiasmo.
Noi sappiamo che la nostra via è seminata di triboli, ma la
scegliemmo coscientemente e volontariamente, e non abbiamo ragione
per abbandonarla. Così sappiano tutti coloro i quali han
senso di dignità e pietà umana e vogliono consacrarsi
alla lotta per il bene di tutti, che essi debbono essere preparati a
tutti i disinganni, a tutti i dolori, a tutti i sacrifici.
Poichè non mancano mai di quelli che si lasciano abbagliare
dalle apparenze della forza ed hanno sempre una specie di
ammirazione segreta per chi vince, vi sono anche dei sovversivi i
quali dicono che “i fascisti ci hanno insegnato come si fa la
rivoluzione”.
No, i fascisti non ci hanno insegnato proprio nulla.
Essi hanno fatto la rivoluzione, se rivoluzione si vuol chiamare,
col permesso dei superiori ed in servizio dei superiori.
Tradire i propri amici, rinnegare ogni giorno le idee professate
ieri, se così conviene al proprio vantaggio, mettersi al
servizio dei padroni, assicurarsi l’acquiescenza delle
autorità politiche e giudiziarie, far disarmare dai
carabinieri i propri avversari per poi attaccarli in dieci contro
uno, prepararsi militarmente senza bisogno di nascondersi, anzi
ricevendo dal governo armi, mezzi di trasporto ed oggetti di
casermaggio, e poi esser chiamato dal re e mettersi sotto la
protezione di dio… è tutta roba che noi non potremmo e non
vorremmo fare. Ed è tutta roba che noi avevamo preveduto che
avverrebbe il giorno in cui la borghesia si sentisse seriamente
minacciata.
Piuttosto l’avvento del fascismo deve servire di lezione ai
socialisti legalitari, i quali credevano, e ahimè! credono
ancora, che si possa abbattere la borghesia mediante i voti della
metà più uno degli elettori, e non vollero crederci
quando dicemmo loro che se mai raggiungessero la maggioranza in
parlamento e volessero – tanto per fare delle ipotesi assurde –
attuare il socialismo dal parlamento, ne sarebbero cacciati a calci
nel sedere.
e. I nostri propositi62
Anarchici, noi restiamo anarchici malgrado tutto e malgrado tutti.
Noi siamo stati vinti in quel periodo di lotta che si è
chiuso colla “presa di Roma” dell’ottobre 1922. Ma non sarà
una sconfitta, del resto prevedibile, che ci farà rinunziare
alla lotta, nè alla speranza e certezza di vincere. Non vi
rinunzieremo nemmeno per cento, mille sconfitte, poichè
sappiamo che nei progressi umani è stato sempre a forza di
perdere che s’è finito col vincere.
Invece, noi studieremo le ragioni che furono causa del nostro
insuccesso per trovarci meglio preparati ad agire con risultati
migliori quando circostanze nuove ci richiameranno all’azione
pratica.
Quali furono i nostri errori? Quali le nostre deficienze? Quale la
nostra parte di responsabilità nella sconfitta?
A parte le questioni tecniche di organizzazione e di preparazione,
che non vanno trattate in questo luogo, gli anarchici, o almeno il
più degli anarchici, han creduto le cose molto più
facili di quello che realmente sono, e si sono beatamente cullati in
una specie di provvidenzialismo, che ha fatto creder loro che
bastano un ideale luminoso ed uno spirito eroico perchè poi
tutto si accomodasse da sè. Han creduto nella
“spontaneità delle masse”, nell’“ordine naturale” ed in altri
miti creati dal desiderio ed anche da pigrizia intellettuale… e la
“natura” è restata sorda e cieca come sempre, e le masse
hanno ondeggiato da un polo all’altro secondo che le spingeva ora
l’illusione di un facile paradiso, ora la speranza di qualche
meschino vantaggio materiale, ora lo scoraggiamento e la livida
paura.
No! le cose non si accomodano da sè, e le masse, fino a che
non saranno illuminate, sono materia bruta, buona, secondo che i
coscienti ed i volenti le guidano, per ogni opera bella come per
ogni mostruosità.
In fondo, resta sempre vero il proverbio che “il mondo è di
chi se lo piglia”, cioè favorisce gli uni o gli altri,
cammina avanti o indietro secondo gl’impulsi che riceve. Ma a
volerselo pigliare si è in molti e per scopi vani e
contrastanti. Bisogna quindi che si tenga conto di tutte le forze
operanti per dirigerne la risultante il più possibile verso
la propria meta.
Sapere quello che si vuole, misurare quello che si può, ed
invece di perdersi nei sogni, preparare un programma pratico
applicabile mano mano alle questioni che giornalmente si presentano
e non già buono solo per quando l’anarchia sarà fatta.
Ecco quello che occorre.
Santo è l’ideale; ma esso non si realizza da sè per
“leggi storiche” o per interventi provvidenziali. C’è una
via, o piuttosto ci sono delle vie per giungere all’ideale, e queste
vie noi ci proponiamo specialmente di studiare.
In alto i cuori.
I tempi sono tristi, e dalle parole che dicono alcuni nostri
collaboratori in questo primo numero spira una certa aria di
pessimismo. Ma non importa. Il pessimismo, quando non è vile
adattamento, quando è coscienza delle difficoltà,
serve a meglio temprare gli animi alla lotta.
La grandezza degli ostacoli sia la misura dello sforzo che tutti
dobbiamo fare.
f. Dopo un eventuale trionfo insurrezionale63
Io non parlerò del modo come può essere combattuta ed
abbattuta la tirannia che oggi opprime il popolo italiano. Qui noi
ci proponiamo di fare semplicemente opera di chiarificazione delle
idee e di preparazione morale in vista di un avvenire, prossimo o
lontano, perchè non ci è possibile far altro. E del
resto, quando credessimo giunto il momento di una più fattiva
azione… ne parleremmo anche meno.
Mi occuperò dunque solo, e ipoteticamente, dell’indomani di
una insurrezione trionfante e dei metodi di violenza che alcuni
vorrebbero adoperare per “fare giustizia” ed altri credono necessari
per difendere la Rivoluzione contro le insidie dei nemici.
Mettiamo da parte “la giustizia”, concetto che è servito
sempre di pretesto a tutte le oppressioni, a tutte le ingiustizie e
che spesso non significa altro che vendetta. L’odio ed il desiderio
di vendetta sono sentimenti irrefrenabili che l’oppressione
naturalmente risveglia ed alimenta; ma se essi possono rappresentare
una forza utile a scuotere il giogo, sono poi una forza negativa
quando si tratta di sostituire all’oppressione non un’oppressione
novella, ma la libertà e la fratellanza fra gli uomini. E
perciò noi dobbiamo sforzarci di suscitare quei sentimenti
superiori che attingono l’energia nel fervido amore del bene, pur
guardandoci dallo spezzare l’impeto, fatto di fattori buoni e
cattivi, necessario a vincere. Lasciamo che la massa agisca come la
passione la spinge, se per meglio indirizzarla occorresse metterle
un freno che si tradurrebbe in una nuova tirannia – ma ricordiamoci
sempre che noi anarchici non possiamo essere nè dei
vendicatori, nè dei “giustizieri”. Noi vogliamo essere dei
liberatori e dobbiamo agire come tali per mezzo della predicazione e
dell’esempio.
Occupiamoci della questione più importante, che è poi
la sola cosa seria messa innanzi, in quest’argomento, dai miei
critici: la difesa della rivoluzione.
Vi sono ancora molti che sono affascinati dall’idea del “terrore”.
Ad essi sembra che ghigliottina, fucilazioni, massacri,
deportazioni, galera (“forca e galera” mi diceva recentemente un
comunista dei più noti) siano armi potenti ed indispensabili
della rivoluzione, e trovano che se tante rivoluzioni sono state
sconfitte e non han dato il risultato che se ne aspettava è
stato a causa della bontà, della “debolezza” dei
rivoluzionari, che non hanno perseguitato, represso, ammazzato
abbastanza.
È un pregiudizio corrente in certi ambienti rivoluzionari,
che ha origine dalla rettorica e dalle falsificazioni storiche degli
apologisti della Grande Rivoluzione francese e che è stato
rinvigorito in questi ultimi anni dalla propaganda dei bolscevichi.
Ma la verità è proprio l’opposto; il terrore è
sempre stato strumento di tirannia. In Francia servì alla
bieca tirannia di Robespierre e spianò la via a Napoleone ed
alla susseguente reazione. In Russia han perseguitato ed ucciso
anarchici e socialisti, han massacrato operai e contadini ribelli,
ed han stroncato insomma lo slancio di una rivoluzione che poteva
davvero aprire alla civiltà un’era novella.
Coloro che credono nella efficacia rivoluzionaria, liberatrice della
repressione e della ferocia hanno la stessa mentalità
arretrata dei giuristi i quali credono che si possa evitare il
delitto e moralizzare il mondo per mezzo di pene severe.
Il terrore, come la guerra, risveglia i sentimenti atavici belluini
ancora mai coperti da una vernice di civiltà, e porta ai
primi posti gli elementi peggiori che sono nella popolazione. E
piuttosto che servire a difendere la rivoluzione serve a
discreditarla, a renderla odiosa alle masse e, dopo un periodo di
lotte feroci, mette capo necessariamente a quello che oggi
chiamerebbero “normalizzazione”, cioè alla legalizzazione e
perpetuazione della tirannia. Vinca una parte o l’altra, si arriva
sempre alla costituzione di un governo forte, il quale assicura agli
uni la pace a spese della libertà ed agli altri il dominio
senza troppi pericoli.
So bene che gli anarchici terroristi (quei pochi che vi sono)
respingono ogni terrore organizzato, fatto per ordine di un governo
da agenti prezzolati, e vorrebbero che fosse la massa che
direttamente mettesse a morte i suoi nemici. Ma questo non farebbe
che peggiorare la situazione. Il terrore può piacere ai
fanatici, ma conviene soprattutto ai veri malvagi avidi di denaro e
di sangue. E non bisogna idealizzare la massa e figurarsela tutta
composta di uomini semplici, che possono bensì commettere
degli eccessi, ma sono sempre animati da buone intenzioni. I birri
ed i fascisti servono i borghesi, ma escono dal seno della massa!
Il fascismo ha accolto molti delinquenti e così ha, fino ad
un certo punto, purificato preventivamente l’ambiente in cui si
svolgerà la rivoluzione; ma non bisogna credere che tutti i
Dumini e tutti i Cesarino Rossi siano fascisti. Vi sono di quelli
che per una ragione qualsiasi non hanno voluto o non han potuto
diventare fascisti; ma sono disposti a fare in nome della
“rivoluzione” quello che i fascisti fanno in nome della “patria”. E
d’altronde, come gli scherani di tutti i regimi sono stati sempre
pronti a mettersi al servizio dei nuovi regimi e diventarne i
più zelanti strumenti, così i fascisti di oggi si
affretteranno domani a dichiararsi anarchici, o comunisti o quel che
si voglia, pur di continuare a fare i prepotenti e sfogare i loro
istinti malvagi E se non potranno nei loro paesi perchè
conosciuti e compromessi, andranno a fare i rivoluzionari altrove e
cercheranno di emergere mostrandosi più violenti, più
“energici” degli altri e trattando da moderati, da codini, da
“pompieri”, da contro-rivoluzionari quelli che la rivoluzione
concepiscono come una grande opera di bontà e di amore.
Certamente la rivoluzione va difesa e sviluppata con logica
inesorabile; ma non si deve e non si può difenderla con mezzi
che contraddicono ai suoi fini.
Il grande mezzo di difesa della rivoluzione resta sempre quello di
togliere ai borghesi i mezzi economici del dominio, di armare tutti
(fino a quando non si possa indurre tutti a gettare le armi come
giocattoli inutili e pericolosi) e di interessare alla vittoria
tutta la grande massa della popolazione.
Se per vincere si dovesse elevare la forca nelle piazze, io
preferirei perdere.
g. Repubblica "democratica"?64
Si afferma che, mutata la situazione attuale, si farà la
repubblica. E sia! Conveniamo anche noi che, non potendo noi per
mancanza di consensi e di forze sufficienti, instaurare oggi la
libera federazione delle comunità anarchiche, la sola
soluzione pratica immediata del problema politico è la
repubblica.
Ma che specie di repubblica sarà quella che dovrà
governarci e, naturalmente, opprimerci e sfruttarci?
Giuseppe Mazzini diceva, ed i repubblicani ripetono approvando:
“L’argomento continuamente ripetuto che per fondare la repubblica si
richiedono anzi tutto repubblicani e virtù repubblicane,
somma a dire che l’educazione repubblicana deve darsi dalle
monarchie e, in altri termini, che la fede in un principio deve
insegnarsi dal principio contrario. Le repubbliche si formano
appunto per creare, con l’educazione repubblicana, i repubblicani”.
Ma allora chi farà questa repubblica che dovrà creare
i repubblicani?
Il popolo per mezzo del suffragio universale?
Il popolo, nella sua stragrande maggioranza non è
repubblicano, e non può esserlo perchè, secondo lo
stesso Mazzini, è stato educato dalla monarchia ad un
principio contrario. Perciò si potrà ben fare una
repubblica come se ne son fatte tante in America ed in Europa per la
mancanza di pretendenti monarchici abbastanza forti e prestigiosi e
per altre circostanze politiche; ma sarà, al pari di tutte le
altre esistenti, una repubblica fondata, come le monarchie, sui
privilegi di pochi e sulla miseria e l’ignoranza dei molti, non
già quella repubblica vagheggiata dal Mazzini, che dovrebbe
creare repubblicani e virtù repubblicane.
Infatti la repubblica esiste da secoli in Svizzera, esiste da oltre
un secolo nelle Americhe, da cinquantacinque anni in Francia, e in
nessun luogo vediamo un popolo repubblicano nel senso elevato che
Mazzini dava alla parola. Dappertutto domina il capitalismo,
dappertutto durano gli stessi mali che si lamentano nelle monarchie,
dappertutto urge sempre il pericolo della reazione e la minaccia di
un fascismo nazionale.
L’esperienza storica degli ultimi centocinquanta anni smentisce
tutte le speranze poste nel suffragio universale e nel governo
popolare. La democrazia, intesa come strumento di liberazione e di
giustizia, ha fatto fallimento dovunque e sempre; essa non ha fatto
che illudere il popolo con la parvenza di una bugiarda
sovranità, ha tradito la volontà della stessa
maggioranza ed ha sostituito l’onnipotenza di una piccola oligarchia
di capitalisti e di politicanti a quella dei re e degli imperatori.
Per emanciparsi bisogna essere capaci e degni di emancipazione, e
per arrivare a quella capacità ed a quella dignità
bisogna prima essere emancipati. Come si esce da questo circolo
vizioso?
Esclusa la monarchia, più o meno costituzionale, escluso il
cosiddetto governo della maggioranza (democrazia), non restano altri
modi di reggimento politico che la dittatura e l’anarchia.
Forse nel pensiero intimo di Mazzini era la dittatura (“la dittatura
dei migliori”), che avrebbe dovuto educare il popolo alle
virtù repubblicane e fondare la vera repubblica. Ma nè
Mazzini, nè quelli che egli avrebbe giudicati migliori,
avevano le qualità che occorrono per conquistare ed
esercitare la dittatura. Uomini di fede e d’alta moralità,
sacerdoti di un’idea, inceppati dai più nobili scrupoli, essi
avrebbero potuto, se i tempi fossero stati propizi, fondare forse
una religione ed una chiesa, ma certamente non avrebbero potuto
dominare uno Stato e resistere all’assalto degl’interessi contrari.
Di ben altra stoffa e ben meno pura, sono fatti i dittatori!
Esempi contemporanei ci dispensano dal fare una critica estesa del
sistema dittatoriale. Esso, senza parlare delle difficoltà
pratiche che lo rendono impotente a risolvere i problemi sociali,
è la negazione della libertà e dell’iniziativa, e
quindi non può dare quell’educazione che si acquista solo
coll’esercizio della libertà. Perciò noi siamo
decisamente avversi – ed in questo crediamo avere consenzienti i
repubblicani – ad ogni dittatura, sia che si presenti apertamente
come dominio di uno o pochi individui, sia che si nasconda dietro la
maschera di un partito o di una classe.
Resta l’anarchia.
Ma se l’anarchia non può farsi subito perchè la grande
massa non la comprende e non la vuole?
Certo l’anarchia qual regime generale applicato in tutti i luoghi ed
a tutte le funzioni della vita sociale non può farsi domani;
ma può sempre farsi, quando vi sia libertà
sufficiente, in quei luoghi ed in quelle categorie dove si trovano
anarchici forti abbastanza per applicare le loro idee.
Dunque, non governo di uno, di pochi o di molti, non governo della
maggioranza, ma libertà per tutti di fare quello che sono
capaci di fare, senza ledere l’eguale libertà degli altri.
Ed in fondo è così, con spirito e con metodi
essenzialmente, anche se incoscientemente, anarchici, per libera
iniziativa di individui e di aggruppamenti volontari, che il mondo
ha progredito, che la civiltà è andata faticosamente
costituendosi. I governi, autocratici o democratici, monarchici o
repubblicani sono stati sempre fattori di conservazione e di
reazione, sempre difensori dei privilegi stabiliti, sempre ostacolo
al progresso; e si è andato avanti solo quando, ed in quanto,
delle forze, intellettuali e materiali, sono riuscite a sfuggire
alla pressione governativa.
Il problema dunque è di conquistare almeno un minimo di
libertà, indispensabile ad ogni progresso.
In Italia avremo la repubblica, e noi contribuiremo al suo trionfo
concorrendo ad abbattere l’ostacolo comune che preclude il cammino a
noi ed ai repubblicani; ma non diventeremo repubblicani per questo.
Noi profitteremo delle circostanze per rinforzare la nostra
compagine, per allargare la nostra propaganda e mireremo sempre
all’immediata espropriazione dei capitalisti, come condizione
preliminare di ogni vera libertà.
Io non sono repubblicano, perchè repubblica significa
democrazia, cioè, nel senso più genuino della parola,
governo della maggioranza. Ed io sono contrario al governo della
maggioranza come al governo della minoranza – anche lasciando da
parte la questione, pure importantissima, del modo come fatalmente,
in qualunque regime elettoralistico, si fabbrica una maggioranza e
se ne falsifica la opinione.
Perciò sono anarchico.
Gli aggettivi “sociale”, “federalista” ecc. appiccicati alla parola
repubblica mi sono sempre sembrati una burletta. Vi possono essere
dei repubblicani socialisti, come ve ne possono essere borghesi o
clericali, dei repubblicani unitari e accentratori, come dei
repubblicani federalisti e discentratori, i quali potranno fare la
propaganda per far votare le leggi che loro piacciono. Ma la
repubblica resta la repubblica, cioè una forma di governo a
cui dà sostanza la volontà di quelli che riescono a
farsi passare come rappresentanti della maggioranza – e se la sua
proclamazione non sarà preceduta da una profonda rivoluzione
sociale che distrugga nel fatto il privilegio economico, essa
sarà necessariamente capitalistica e accentratrice, e forse
anche clericale.
Un governo repubblicano, come qualsiasi altro governo, tende innanzi
tutto a consolidare e ad allargare il suo potere; ed il solo limite
alle sue invasioni contro la libertà dei singoli, individui o
collettività, sta nella resistenza che si riesce ad opporgli.
Il compito degli anarchici, poichè non possono per mancanza
di forza e di consensi fare l’anarchia dappertutto, è di
creare alimentare, organizzare quella resistenza, rifiutare per
conto loro qualsiasi contributo obbligatorio allo Stato (servizio
militare, pagamento d’imposte, ecc.) e reclamare e pretendere per
loro e per quelli che con loro consentono, piena libertà e
libero accesso ai mezzi di produzione.
h. Perchè voglio rimanere in Italia65
Non voglio abbandonare l’Italia, sebbene, malgrado l’apparenza di
libertà che mi è concessa, io sia prigioniero come se
fossi chiuso in una cella o in una tomba. Tutti i miei movimenti
sono sorvegliati; i poliziotti non mi lasciano un momento; la
corrispondenza è censurata; se ricevo una visita, se
qualcuno, per la strada, mi rivolge la parola o mi saluta, se vado a
trovare un amico, inchieste e rapporti seguono immediatamente
compromettendo spesso le persone con le quali sono in relazione.
È una situazione intollerabile e ne soffro assai.
Può darsi che, essendo in Francia, io abbia
l’opportunità, insieme con te e coi nostri compagni, tra i
rifugiati e proscritti italiani, numerosissimi a Parigi, di fare un
lavoro più utile. Come tu dici, potrei spendervi, ai fini
della nostra propaganda, il bisogno d’attività che mi
tormenta.
Ciò nonostante, non voglio allontanarmi da Roma. Mussolini
non è immortale; il regime abominevole che la dittatura
fascista impone all’Italia non può più durare a lungo;
un giorno verrà e presto, forse, in cui questo regime odioso
crollerà. Ebbene, io voglio essere qui. Quasi tutti gli amici
nostri sono carcerati o proscritti Quando avverrà il crollo
del fascismo, rientreranno in massa e con tanto più ardore
alla lotta, quanto più a lungo ne saranno stati, loro
malgrado, lontani; ma non conosceranno abbastanza bene la
situazione: saranno poco o male informati sul corso degli
avvenimenti, sulla mentalità delle masse popolari, sui centri
di agitazione antifascista e sulle possibilità di azione
rivoluzionaria, ed avranno necessariamente di quelle esitazioni, di
quelle mancanze d’audacia, di quegli eccessi di temerità, di
quegli errori tattici che possono riuscire fatali ai movimenti
rivoluzionari.
Ebbene! Io sarò qui. So bene che non ci sono uomini
indispensabili ma in determinate circostanze, ce ne sono degli
utilissimi ed io spero che il giorno in cui, scosso il giogo
dittatoriale e debellato il virus fascista, il proletariato d’Italia
ritornerà allo spirito di rivolta e al senso della
libertà, io spero che quel giorno la mia presenza e la mia
lunga esperienza non saranno inutili. Comprendi, ora, per quali
gravi ragioni, e malgrado il dispiacere che ne provo, ricuso di
abbandonare il posto, di vigilanza oggi e di lotta domani, che gli
eventi mi assegnano?
5. Alla ricerca dell’anarchismo:
problemi da approfondire
1. IL GRADUALISMO ANARCHICO
a. La rivoluzione in pratica66
Noi vogliamo fare la rivoluzione al più presto possibile,
profittando di tutte le occasioni che si possono presentare. Meno un
piccolo numero di “educazionisti”, i quali credono nella
possibilità di elevare le masse alle idealità
anarchiche prima che siano cambiate le condizioni materiali e morali
in cui esse vivono e quindi rimettono la rivoluzione a quando tutti
saranno capaci di vivere anarchicamente, gli anarchici sono tutti
d’accordo in questo desiderio di rovesciare al più presto
possibile i regimi vigenti: anzi spesso sono essi soli quelli che
mostrano una reale volontà di farlo.
Del resto, rivoluzioni ne sono avvenute, ne avvengono e ne
avverranno indipendentemente dalla volontà e dall’azione
degli anarchici; e poichè gli anarchici non sono che una
piccolissima minoranza della popolazione e l’anarchia non è
cosa che si possa fare per forza, per imposizione violenta di
alcuni, è chiaro che le rivoluzioni passate e quelle prossime
future non sono state e non potranno essere rivoluzioni anarchiche.
In Italia due anni or sono la rivoluzione stava per scoppiare e noi
facemmo tutto quello che potemmo per farla scoppiare, e trattammo da
traditori del proletariato i socialisti ed i confederali che, in
occasione dei moti contro il caro-vita, degli scioperi del Piemonte,
della sommossa di Ancona, dell’occupazione delle fabbriche,
arrestarono lo slancio delle masse e salvarono il traballante regime
monarchico.
Che cosa avremmo fatto se la rivoluzione fosse scoppiata davvero?
Che cosa faremo nella rivoluzione che scoppierà domani?
Che cosa han fatto, che cosa avrebbero potuto e dovuto fare i nostri
compagni nelle recenti rivoluzioni avvenute in Russia, in Baviera,
in Ungheria ed altrove?
Noi non possiamo far l’anarchia, o almeno l’anarchia estesa a tutta
una popolazione ed a tutti i rapporti sociali perchè finora
nessuna popolazione è anarchica, e non possiamo accettare un
altro regime senza rinunziare alle nostre aspirazioni e perdere ogni
ragion di essere in quanto anarchici. E allora che cosa possiamo e
dobbiamo fare?
Questo era il problema messo in discussione a Bienne, e questo
è il problema che maggiormente interessa nel momento attuale,
così gravido di possibilità, quando ci potremmo
trovare improvvisamente di fronte a situazioni tali che c’impongano
di agire subito e senza esitazione o di sparire dal campo della
lotta dopo di aver facilitata la vittoria agli altri.
Non si trattava di dipingere una rivoluzione quale noi la vorremmo,
una vera rivoluzione anarchica quale sarebbe possibile se tutti, o
almeno la grande maggioranza degli uomini abitanti un dato
territorio fossero anarchici. Si trattava invece di cercare quello
che di meglio si potrebbe fare in favore della causa anarchica in un
rivolgimento sociale quale può avvenire nella realtà
presente.
I partiti autoritari hanno un programma determinato e vogliono
imporlo colla forza; perciò aspirano ad impossessarsi del
potere, non importa se con mezzi legali od illegali, e quindi
trasformare la società a modo loro, mediante una nuova
legislazione. E da questo dipende il fatto che essi, rivoluzionari a
parole e spesso anche nelle intenzioni, esitano poi a fare la
rivoluzione quando le occasioni si presentano; essi non sono sicuri
della acquiescenza sia pure passiva, della maggioranza, non hanno
forza militare sufficiente per far eseguire i loro ordini su tutto
il territorio, mancano di uomini devoti competenti in tutte le
infinite branche dell’attività sociale… e sono quindi indotti
a rinviare sempre l’azione a più tardi, fino a quando la
sommossa popolare non li spinga quasi riluttanti al governo, dove
poi vorrebbero restare indefinitivamente, e perciò cercano di
frenare, sviare, arrestare la rivoluzione che li ha innalzati.
Noi al contrario abbiamo bensì un ideale per il quale
combattiamo, che vorremmo veder realizzato, ma non crediamo che un
ideale di libertà, di giustizia, di amore possa realizzarsi
per mezzo della violenza governativa. Noi non vogliamo andare al
potere e non vogliamo che nessuno vi vada. Se non possiamo impedire,
per mancanza di forza, che governi esistano e si costituiscano, noi
ci sforziamo e ci sforzeremo perchè questi governi restino o
diventino più deboli che sia possibile, e perciò siamo
sempre pronti ad agire quando si tratta di abbattere o di indebolire
un governo, senza troppo (dico troppo e non punto) preoccuparci di
quello che verrà dopo.
Per noi la violenza non serve e non può servire che a
respingere la violenza e quando invece è adoperata per
raggiungere dei fini positivi, o fallisce completamente, o riesce a
stabilire l’oppressione e lo sfruttamento degli uni sugli altri.
La costituzione di una società di liberi, ed il suo
progressivo miglioramento non può essere che il risultato
della libera evoluzione; ed il nostro compito di anarchici è
appunto quello di difendere, di assicurare la libertà
dell’evoluzione.
Abbattere, o concorrere ad abbattere il potere politico, qualunque
esso sia, con tutta la sequela di forze repressive che lo
sostengono; impedire, o cercare d’impedire che si costituiscano
nuovi governi e nuove forze repressive, e in tutti i casi non
riconoscere mai alcun governo e restare sempre in lotta contro di
esso e reclamare, e pretendere potendo anche colla forza, il diritto
di organizzarci e vivere come ci pare ed esperimentare le forme
sociali che ci sembrano migliori, sempre, s’intende, che non ledano
l’eguale libertà degli altri: ecco la nostra missione.
Fuori di questa lotta contro l’imposizione governativa che genera e
rende possibile lo sfruttamento capitalistico; quando avessimo
spinto ed aiutato la massa del popolo ad impossessarsi della
ricchezza esistente e specialmente dei mezzi di produzione, quando
fossimo arrivati al punto che nessuno possa imporre agli altri con
la violenza la propria volontà e nessuno possa colla forza
sottrarre agli altri il prodotto del loro lavoro, noi non potremmo
più che agire mediante la propaganda e l’esempio.
Distruggere le istituzioni, i meccanismi, le organizzazioni sociali
esistenti? Certamente, se si tratta d’istituzioni repressive, ma
esse in fondo non sono che piccola cosa nella complessità
della vita sociale. Polizia, esercito, carcere, magistratura, cose
potenti per il male, non esercitano che una funzione parassitaria.
Sono altre le istituzioni e le organizzazioni che, bene o male,
riescono ad assicurare la vita all’umanità; e queste
istituzioni non si possono utilmente distruggere se non
sostituendole con qualche cosa di meglio.
Lo scambio delle materie prime e dei prodotti, la distribuzione
delle sostanze alimentari, le ferrovie, le poste e tutti i servizi
pubblici esercitati dallo Stato o dai privati, sono stati
organizzati in modo da servire interessi monopolistici e
capitalistici, ma rispondono ad interessi reali della popolazione.
Non possiamo disorganizzarli (e del resto non ce lo permetterebbe la
popolazione interessata) se non riorganizzandoli in modo migliore. E
questo non si può fare in un giorno; nè, allo stato
delle cose, noi abbiamo le capacità necessarie a farlo.
Felicissimi dunque se, aspettando che possano farlo gli anarchici,
lo facciano altri, magari con criteri diversi dai nostri.
La vita sociale non ammette interruzioni, e la gente vuol vivere il
giorno della rivoluzione, il giorno dopo, e sempre.
Guai a noi, guai all’avvenire delle nostre idee, se noi dovessimo
assumere la responsabilità di una distruzione insensata che
compromettesse la continuità della vita!
Discutendo di queste materie fu sollevata a Bienne la questione del
danaro, questione grave quanto altre mai.
D’abitudine nel campo nostro si risolve semplicisticamente la
questione dicendo che il danaro si deve abolire. E sta bene, se si
tratta di una società anarchica, o di una ipotetica
rivoluzione da fare di qui a cento anni, sempre nell’ipotesi che le
masse possano diventare anarchiche e comuniste prima che una
rivoluzione abbia cambiate radicalmente le condizioni in cui vivono.
Ma oggi la questione è ben altrimenti complicata.
Il danaro è mezzo potente di sfruttamento e di oppressione;
ma è anche il solo mezzo (fuori della più tirannica
dittatura, o del più idillico accordo) escogitato finora
dall’intelligenza umana per regolare automaticamente la produzione e
la distribuzione.
Per ora, forse più che preoccuparsi dell’abolizione del
denaro, bisognerebbe cercare un modo perchè il denaro
rappresenti davvero lo sforzo utile fatto da chi lo possiede.
Ma veniamo alla pratica immediata, che è la questione che
veramente si discuteva a Bienne.
Figuriamoci che domani avvenga una insurrezione vittoriosa. Anarchia
o non anarchia, bisogna che la popolazione continui a mangiare ed a
soddisfare a tutti i bisogni primordiali. Bisogna che le grandi
città siano approvvigionate più o meno come
d’abitudine.
Se i contadini e i carrettieri, ecc., si rifiutano di fornire i
generi che sono nelle loro mani ed i loro servizi gratuitamente,
senza riceverne il danaro che essi sono abituati a considerare
ricchezza reale, che cosa si fa?
Obbligarli colla forza? allora non solo addio anarchia, ma addio
ogni qualsiasi rivolgimento per il meglio. La Russia insegni.
Dunque?
Ma, rispondono generalmente i compagni, i contadini comprenderanno i
vantaggi del comunismo o almeno della permuta diretta tra merce e
merce.
Sta benissimo; ma non certo in un giorno, e la gente non può
restare senza mangiare nemmeno un giorno.
Io non ho inteso proporre delle soluzioni.
Intendo piuttosto richiamare l’attenzione dei compagni sopra
problemi gravissimi, di fronte ai quali ci troveremo nella
realtà di domani.
b. anarchia e anarchismo67
Il mio ultimo articolo sull’argomento ha attirato l’attenzione di
parecchi compagni e mi ha procurato osservazioni e domande numerose.
Forse non fui abbastanza chiaro; forse anche disturbai le abitudini
mentali di alcuni che più di tormentarsi il cervello amano
adagiarsi sulle formule tradizionali e sono infastiditi da tutto
ciò che li costringe a pensare.
In ogni modo io cercherò di spiegarmi meglio, contento se
coloro a cui quello che dico sembra alquanto eretico vorranno
intervenire nella discussione e concorrere a determinare un
programma pratico di azione, che possa servirci di guida nei
prossimi rivolgimenti sociali.
I nostri propagandisti si sono finora occupati principalmente della
critica della società attuale e della dimostrazione della
desiderabilità e della possibilità di un nuovo
ordinamento sociale fondato sul libero accordo, in cui tutti
potessero trovare, nella fratellanza e nella solidarietà e
colla più completa libertà, le condizioni per il
massimo sviluppo materiale, morale ed intellettuale. Essi cercavano
anzitutto d’infiammare gli animi colla concezione di quello stato di
perfezione individuale e sociale che altri chiama utopia e noi
chiamiamo ideale, e compivano opera buona e necessaria,
perchè stabilivano la mèta verso la quale debbono
tendere i nostri sforzi; ma erano (eravamo) deficienti e presso che
incuranti nella ricerca delle vie e dei mezzi che a quella
mèta possono condurci. Ci occupammo molto della
necessità di distruggere radicalmente le cattive istituzioni
sociali, ma non prestammo sufficiente attenzione a quello che
bisognava fare, o lasciar fare, di positivo, nell’atto e
nell’immediato indomani della distruzione perchè la vita
degl’individui e della società potesse continuare nel miglior
modo possibile, pensando, o agendo come se pensassimo, che le cose
si sarebbero accomodate da loro stesse, per legge naturale, senza il
cosciente intervento della volontà per indirizzare gli sforzi
verso lo scopo prefisso. Ed a questo si deve probabilmente
l’insuccesso relativo dell’opera nostra.
È tempo oramai di guardare il problema della trasformazione
sociale in tutta la sua vasta complessità e cercare di
approfondire il lato pratico della questione. La rivoluzione
potrebbe avvenire domani, e noi dobbiamo metterci in grado di agire
nel suo seno colla più grande efficacia possibile.
Poichè in questo transitorio momento la trionfante reazione
c’impedisce di fare molto per allargare la propaganda in mezzo alle
masse, utilizziamo il tempo per approfondire e chiarificare le
nostre idee sul da farsi, intanto che cerchiamo di affrettare coi
voti e coll’opera il momento di agire e di attuare.
Io mettevo a base delle mie osservazioni due principi.
Primo: L’anarchia non si fa per forza. Il comunismo anarchico,
applicato in tutta la sua ampiezza e portante tutti i suoi benefici
effetti, non è possibile se non quando grandi masse di
popolo, che abbracciano tutti gli elementi necessari ad attuare una
civiltà superiore alla presente, lo comprendano e lo
vogliano. Si possono concepire dei gruppi selezionati, i cui membri
vivano tra di loro e con gruppi consimili in rapporti di volontaria
e libera comunanza, e sarà bene che ve ne siano e
dovrà essere compito nostro il costituirne, per la
sperimentazione e per l’esempio; ma questi gruppi non saranno ancora
la società comunista anarchica e saranno piuttosto casi di
devozione e di sacrificio in favore della causa, fino a quando non
saranno riusciti a conglobare tutta o gran parte della popolazione.
Non si tratterà dunque, l’indomani della rivoluzione
violenta, se rivoluzione violenta deve essere, di attuare il
comunismo anarchico, ma di avviarsi verso il comunismo anarchico.
Secondo: la conversione delle masse all’anarchia ed al comunismo – e
nemmeno al più blando dei socialismi – non è possibile
fino a che durano le attuali condizioni politiche ed economiche. E
siccome queste condizioni, che mantengono i lavoratori in
schiavitù, per il beneficio dei privilegiati, sono mantenute
e perpetuate per mezzo della forza brutale, è necessario
cambiarle violentemente per l’opera dell’azione rivoluzionaria di
minoranze coscienti. Dunque, se è ammesso il principio che
l’anarchia non si fa per forza, senza la volontà cosciente
delle masse, la rivoluzione non può essere fatta per attuare
direttamente ed immediatamente l’anarchia, ma piuttosto per creare
le condizioni che rendano possibile una rapida evoluzione verso
l’anarchia.
È stata spesso ripetuta la frase: “La rivoluzione sarà
anarchica o non sarà”. L’affermazione può sembrare
molto “rivoluzionaria”, molto “anarchica”; ma in realtà
è una sciocchezza quando non è un mezzo peggiore dello
stesso riformismo per paralizzare le buone volontà ed indurre
la gente a star tranquilla, a sopportare in pace il presente,
aspettando il paradiso futuro.
Evidentemente, “la rivoluzione anarchica” o sarà anarchica o
non sarà. Ma non vi sono state rivoluzioni nel mondo, quando
non ancora si concepiva la possibilità in una società
anarchica? E non ve ne saranno più fino a quando le masse non
saranno convertite all’anarchismo? E poichè non riusciamo a
convertire all’anarchismo le masse abbrutite dalle condizioni in cui
vivono, dobbiamo rinunziare ad ogni rivoluzione ed acconciarci a
vivere in regime monarchico-borghese?
La verità è che la rivoluzione sarà quello che
potrà essere, ed è nostro compito affrettarla il
più possibile e sforzarci perchè essa sia il
più radicale possibile.
Ma intendiamoci bene.
La rivoluzione non sarà anarchica, se come è purtroppo
il caso, le masse non saranno anarchiche. Ma noi siamo anarchici,
dobbiamo restare anarchici ed agire come anarchici, prima, durante e
dopo della rivoluzione.
Senza gli anarchici, senza l’opera degli anarchici, se gli anarchici
aderissero ad una qualsiasi forma di governo e ad una qualsiasi
costituzione cosiddetta di transazione, la prossima rivoluzione
invece di segnare un progresso della libertà e della
giustizia ed un avviamento verso la liberazione integrale
dell’umanità, darebbe luogo a nuove forme di oppressione e di
sfruttamento forse peggiori delle attuali, o nella migliore ipotesi
non produrrebbe che un miglioramento superficiale, in gran parte
illusorio e completamente sproporzionato allo sforzo, ai sacrifici,
ai dolori di una rivoluzione, quale quella che si annunzia per un
avvenire più o meno prossimo.
Nostro compito dopo aver concorso ad abbattere il regime attuale
è quello di impedire, o cercare d’impedire, che si
costituisca un nuovo governo; o non riuscendovi, lottare almeno
perchè il nuovo governo non sia unico, non accentri nelle sue
mani tutto il potere sociale, resti debole e vacillante, non riesca
a disporre di sufficiente forza militare e finanziaria, e sia
riconosciuto ed ubbidito il meno possibile. In tutti i casi, noi
anarchici non dobbiamo mai parteciparvi, mai riconoscerlo e restare
in lotta contro di esso come siamo in lotta contro il governo
attuale.
Noi dobbiamo restare in mezzo alle masse, spingerle all’azione
diretta, alla presa di possesso degli strumenti di produzione ed
all’organizzazione del lavoro e della distribuzione dei prodotti,
all’occupazione degli ambienti abitabili, all’esecuzione dei servizi
pubblici senza aspettare deliberazioni od ordini di autorità
superiori – e a quest’opera noi dobbiamo concorrere con tutte le
nostre forze, e per questo cercare fin da ora di acquistare quante
più cognizioni c’è possibile.
Ma se dobbiamo essere intransigenti nell’opposizione contro tutti
gli organi di compressione e di repressione contro tutto ciò
che tende ad ostacolare colla forza la volontà popolare e la
libertà delle minoranze, noi dobbiamo ben guardarci dal
distruggere quelle cose e disorganizzare quei servizi utili, che non
possiamo sostituire in modo migliore.
Noi dobbiamo ricordarci che la violenza, necessaria purtroppo per
resistere alla violenza, non serve per edificare niente di buono:
che essa è la nemica naturale della libertà, la
genitrice della tirannia e che perciò deve essere contenuta
nei limiti della più stretta necessità.
La rivoluzione serve, è necessaria, per abbattere la violenza
dei governi e dei privilegiati; ma la costituzione di una
società di liberi non può essere che l’effetto della
libera evoluzione. Ed alla libertà dell’evoluzione,
continuamente minacciata fino a che esisterà negli uomini
sete di dominio e di privilegi, gli anarchici debbono vegliare.
c. Gradualismo e realismo68
... A parte l’odiosità della parola, che è stata
abusata e discreditata dai politicanti, l’anarchismo è stato
sempre e non potrà mai essere altro che riformista. Noi
preferiamo dire riformatore per evitare ogni possibile confusione
con coloro che sono ufficialmente classificati come “riformisti” e
vogliono con piccoli e spesso illusori miglioramenti rendere
più sopportabile e quindi consolidare il regime attuale,
oppure s’illudono in buona fede di potere eliminare i lamentati mali
sociali riconoscendo e rispettando, in pratica se non in teoria, le
fondamentali istituzioni politiche ed economiche che di quei mali
sono la causa ed il sostegno. Ma insomma è sempre di riforme
che si tratta, e la differenza essenziale sta nel genere di riforma
che si vuole e nel modo come si crede di poter raggiungere la nuova
forma cui si aspira.
Rivoluzione significa, nel senso storico della parola, riforma
radicale delle istituzioni, conquistata rapidamente per mezzo della
insurrezione violenta del popolo contro il potere ed i privilegi
costituiti; e noi siamo rivoluzionari ed insurrezionisti
perchè vogliamo non già migliorare le istituzioni
attuali ma distruggerle completamente, abolendo ogni dominio
dell’uomo sull’uomo ed ogni parassitismo sul lavoro umano;
perchè vogliamo far questo il più presto possibile e
perchè siamo convinti che le istituzioni nate dalla violenza,
si sostengono colla violenza e non cederanno che ad una violenza
sufficiente.
Ma la rivoluzione non si può fare quando si vuole. Dovremo
noi restare inerti, aspettando che i tempi maturino da loro?
E anche dopo un’insurrezione vittoriosa, potremo noi di punto in
bianco realizzare tutti i nostri desideri e passare come per
miracolo dall’inferno governativo e capitalistico al paradiso del
comunismo libertario, che è la completa libertà
dell’individuo nella voluta solidarietà d’interessi con gli
altri uomini?
Queste sono illusioni che possono allignare in mezzo agli autoritari
i quali considerano la massa come materia bruta alla quale chi
possiede il potere può dare, a forza di decreti e con l’aiuto
dei fucili e delle manette, l’impronta che vuole.
Ma non hanno presa in mezzo agli anarchici. Noi abbiamo bisogno del
consenso della gente, e quindi dobbiamo persuadere colla propaganda
e coll’esempio, dobbiamo educare e cercare di modificare l’ambiente
in modo che l’educazione possa raggiungere un numero sempre
più grande di persone.
Tutto è graduale nella storia come nella natura. Come la diga
cede d’un tratto (cioè rapidissimamente, ma sempre
condizionata dal tempo) o perchè l’acqua si è andata
accumulando fino a superare con la sua pressione la resistenza
oppostagli, oppure per il disgregarsi progressivo delle molecole che
ne compongono il materiale, così le rivoluzioni scoppiano per
il crescere delle forze che aspirano alla trasformazione sociale
fino al punto sufficiente per abbattere il governo esistente e per
l’indebolimento crescente, per ragioni interne, delle forze di
conservazione.
Siamo riformatori oggi in quanto cerchiamo di creare le condizioni
più favorevoli ed il personale più cosciente e
più numeroso che si può per menare a bene una
insurrezione di popolo; saremo riformatori domani, ad insurrezione
trionfante e a libertà conquistata, in quanto cercheremo, con
tutti i mezzi che la libertà consente, cioè con la
propaganda, con l’esempio, con la resistenza anche violenta contro
chiunque volesse coartare la nostra libertà, cercheremo,
dico, di conquistare alle nostre idee un numero sempre più
grande di adesioni.
Ma non riconosceremo mai – ed in questo il nostro “riformismo” si
distingue da certo “rivoluzionarismo” che va ad affogarsi nelle urne
elettorali di Mussolini o di altri – non riconosceremo mai le
istituzioni, prenderemo o conquisteremo le riforme possibili con lo
spirito con cui si va strappando al nemico il terreno occupato per
procedere sempre più avanti, e resteremo sempre nemici di
qualsiasi governo, sia quello monarchico di oggi, sia quello
repubblicano o bolscevico di domani.
d. Il possibilismo anarchico69
Nelle polemiche che sorgono tra gli anarchici sulla tattica migliore
per giungere o avvicinarsi alla realizzazione dell’anarchia – e sono
polemiche utili, anzi necessarie, quando sono ispirate alla mutua
tolleranza ed alla mutua fiducia e non trascendono in odiose
questioni personali – avviene sovente che gli uni in tono di
rimprovero chiamano gli altri gradualisti e questi respingono la
qualifica come se fosse un’ingiuria.
Ed intanto il fatto è che, nel senso proprio della parola,
gradualisti siamo tutti, e tutti, sia pure in modi diversi, dobbiamo
esserlo per la logica stessa dei nostri principi.
È vero che certe parole, specialmente in politica, cambiano
continuamente di significato e spesso ne assumono uno contrario a
quello originale, logico e naturale.
Gioverebbe mettere un freno a questo sistema di usare le parole in
un senso diverso dal loro proprio, che è fonte di tante
confusioni e tanti malintesi. Ma chi potrebbe riuscirvi, specie
quando il cambiamento è prodotto dall’interesse che hanno i
politicanti a coprire con buone parole i loro fini malvagi?
Potrebbe darsi dunque che la parola gradualista, applicata agli
anarchici, finisse coll’indicare davvero quelli che colla scusa di
fare le cose gradualmente, a misura che diventano possibili,
finiscono col non muoversi più o col muoversi in una
direzione opposta a quella che conduce all’anarchia. E allora
bisognerebbe respingere il nome; ma la cosa resterebbe vera lo
stesso, cioè che tutto nella natura e nella vita procede a
gradi e che, applicando al caso nostro, l’anarchia non può
venire che poco a poco.
L’anarchismo, dicevo, deve essere necessariamente gradualista.
Si può concepire l’anarchia come la perfezione assoluta, ed
è bene che quella concezione resti sempre presente alla
nostra mente, quale faro ideale che guida i nostri passi. Ma
è evidente che quell’ideale non può raggiungersi d’un
salto, passando di botto dall’inferno attuale al paradiso agognato.
I partiti autoritari, quelli cioè che credono morale ed
espediente imporre colla forza una data costituzione sociale,
possono sperare (vana speranza del resto!) che, quando si saranno
impossessati del potere, potranno a forza di leggi, decreti… e
gendarmi sottoporre tutti e durevolmente al loro volere.
Ma una tale speranza ed un tale volere non sono concepibili negli
anarchici, i quali non vogliono nulla imporre salvo il rispetto
della libertà e contano per la realizzazione dei loro ideali
sulla persuasione e sui vantaggi sperimentati della libera
cooperazione.
Ciò non significa che io creda (come a scopo polemico mi ha
fatto dire un giornale riformista poco informato o poco scrupoloso)
che per fare l’anarchia bisogna aspettare che tutti siano anarchici.
Io credo al contrario – e perciò sono rivoluzionario – che
nelle condizioni attuali solo una piccola minoranza favorita da
circostanze speciali possa arrivare a concepire l’anarchia, e che
sarebbe una chimera lo sperare nella conversione generale se prima
non si cambia l’ambiente, nel quale prosperano l’autorità ed
il privilegio. Ed appunto per questo credo che bisogna, appena
è possibile, cioè appena si sia conquistata la
libertà sufficiente e vi sia in un dato luogo un nucleo di
anarchici abbastanza forte per numero e capacità da bastare a
sè stesso ed irradiare intorno a sè la propria
influenza, bisogna, dico, organizzarsi per applicare l’anarchia o
quel tanto di anarchia che diventa mano a mano possibile.
Poichè non si può convertire la gente tutta in una
volta e non si può isolarsi per necessità di vita e
per l’interesse della propaganda bisogna cercare il modo di
realizzare quanto più di anarchia è possibile in mezzo
a gente che non è anarchica o lo è in gradi diversi.
Il problema dunque non è se bisogna o no procedere
gradualmente, ma quello di cercare quale è la via che
più rapidamente e più sinceramente conduce
all’attuazione dei nostri ideali.
Oggi in tutti i paesi del mondo la via è preclusa dai
privilegi conquistati attraverso una lunga storia di violenze e di
errori, da certe classi, che oltre la supremazia intellettuale e
tecnica che deriva loro da quei privilegi, dispongono per difendere
la loro posizione della forza bruta assoldata nelle classi soggette
e ne usano, quando occorre, senza scrupoli e senza limite.
Perciò è necessaria una rivoluzione, la quale
distrugga lo stato di violenza nel quale oggi si vive e renda
possibile la pacifica evoluzione verso sempre maggiore
libertà, maggiore giustizia, maggiore solidarietà
Quale dovrebbe essere la tattica degli anarchici prima, durante e
dopo la rivoluzione?
Quello che sarebbe necessario fare prima della rivoluzione per
prepararla ed attuarla la censura forse non lo lascerebbe dire; ed
in ogni modo è sempre un argomento che si tratta male in
presenza del nemico. Ci sarà però lecito il dire che
bisogna restare sempre se stessi, propagare ed educare il più
possibile, fuggire ogni transazione col nemico e tenersi pronti,
almeno spiritualmente, per afferrare tutte le occasioni che si
possono presentare.
Durante la rivoluzione?
Incominciamo col dire che la rivoluzione non la possiamo fare noi
soli; e non sarebbe, a parte la questione della forza materiale,
nemmeno desiderabile il farla da soli; perchè se non si
mettono in movimento tutte le forze spirituali del paese e con esse
tutti gl’interessi e tutte le aspirazioni palesi o latenti che
stanno nel popolo, la rivoluzione sarebbe un aborto. E nel caso,
poco probabile, che vincessimo da soli, ci troveremmo nell’assurda
posizione o di imporsi, comandare, costringere gli altri e quindi
cessare di essere anarchici ed uccidere la rivoluzione stessa col
nostro autoritarismo, oppure di “fare per viltade il gran rifiuto”,
cioè ritrarci indietro e lasciare che altri profitti
dell’opera nostra per scopi opposti ai nostri.
Bisognerebbe dunque agire di conserva con tutte le forze
progressiste esistenti, con tutti i partiti d’avanguardia ed
attirare nel movimento, sommuovere, interessare le grandi masse,
lasciando che la rivoluzione, della quale noi saremmo un fattore fra
gli altri, produca quello che può produrre.
Ma non per questo dovremmo rinunziare al nostro scopo specifico: al
contrario dovremmo tenerci ben uniti tra noi e ben distinti dagli
altri per combattere in favore del nostro programma: abolizione del
potere politico ed espropriazione dei capitalisti. E se, nonostante
i nostri sforzi, riuscissero a costituirsi nuovi poteri che vogliono
ostacolare l’iniziativa popolare ed imporre il loro volere, noi
dovremmo non parteciparvi, non riconoscerli mai cercare che il
popolo rifiuti loro i mezzi per governare, cioè i soldati e
le contribuzioni, fare in modo ch’essi restino deboli… fino al
giorno in cui si potrà abbatterli del tutto. In tutti i casi
reclamare ed esigere, magari colla forza, la nostra piena autonomia
ed il diritto ed i mezzi per organizzarci a modo nostro ed
esperimentare i metodi nostri.
E dopo la rivoluzione, cioè dopo la caduta del potere
esistente ed il trionfo definitivo delle forze insorte?
Qui entra veramente in campo il gradualismo.
Bisogna studiare tutti i problemi pratici della vita: produzione,
scambio, mezzi di comunicazione, relazioni fra gli aggruppamenti
anarchici e quelli che vivono sotto un’autorità, tra
collettività comunistiche e quelli che vivono in regime
individualistico, rapporti tra città e campagna,
utilizzazione a vantaggio di tutti delle forze naturali e delle
materie prime, distribuzione delle industrie e delle colture secondo
le condizioni naturali dei vari paesi, istruzione pubblica, cura dei
fanciulli e degl’impotenti, servizi igienici e medici, difesa contro
i delinquenti comuni e quelli più pericolosi, che tentassero
ancora di sopprimere la libertà degli altri a vantaggio di
individui o di partiti, ecc, ecc. E d’ogni problema preferire quelle
soluzioni che non solo sono economicamente più convenienti,
ma che rispondono meglio al bisogno di giustizia e di libertà
e lasciano più aperta la via ai futuri miglioramenti, Nel
caso, anteporre la giustizia, la libertà, la
solidarietà ai vantaggi economici.
Non bisogna proporsi di tutto distruggere credendo che poi le cose
si aggiusteranno da loro. La civiltà attuale è frutto
di una evoluzione millenaria ed ha risolto in qualche modo il
problema della convivenza di milioni e milioni di uomini, spesso
affollati sopra territori ristretti, e quello della soddisfazione di
bisogni sempre crescenti e sempre più complicati. I suoi
benefici sono diminuiti – e per la gran massa quasi annullati – dal
fatto che l’evoluzione si è compiuta sotto la pressione
dell’autorità e nell’interesse dei dominatori; ma se si
toglie l’autorità ed il privilegio, restano sempre i vantaggi
acquisiti, i trionfi dell’uomo sulle forze avverse della natura
l’esperienza accumulata dalle generazioni estinte, le abitudini di
socievolezza contratte nella lunga convivenza e negli esperimentati
benefici del mutuo appoggio – e sarebbe stolto, e del resto
impossibile, rinunziare a tutto questo.
Noi dobbiamo dunque combattere l’autorità ed il privilegio,
ma profittare di tutti i benefici della civiltà; e nulla
distruggere di quanto soddisfi, sia pur malamente, ad un bisogno
umano se non quando abbiamo qualche cosa di meglio da sostituirvi.
Intransigenti contro ogni imposizione ed ogni sfruttamento
capitalistico, noi dovremo essere tolleranti con tutte le concezioni
sociali che prevalgono nei vari raggruppamenti umani, purchè
non ledano la libertà ed il diritto uguale degli altri; e
contentarci di progredire gradualmente a misura che si eleva il
livello morale degli uomini e crescono i mezzi materiali ed
intellettuali di cui dispone l’umanità – facendo, questo
s’intende, il più che possiamo – con lo studio, il lavoro, la
propaganda, per affrettare l’evoluzione verso ideali sempre
più alti.
Io ho qui sopra prospettato dei problemi più che delle
soluzioni; ma credo di avere esposto succintamente i criteri che
debbono guidarci nella ricerca e nell’applicazione delle soluzioni,
le quali saranno certamente varie e variabili a seconda delle
circostanze ma dovranno sempre uniformarsi, per quanto dipende da
noi, ai principi basilari dell’anarchismo: nessun comando dell’uomo
sull’uomo, nessuno sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
Ai compagni tutti il compito di pensare, studiare, prepararsi – e
farlo sollecitamente ed intensamente, perchè i tempi sono
“dinamici” ed occorre tenersi pronti per ciò che può
accadere.
2. GRADUALISMO. CHIARIMENTI, DIVERGENZE ED ERRORI
a. Rimasticature autoritarie70
Dalle scarse notizie che accidentalmente arrivano fino a me, rilevo
che vi sono alcuni compagni che si sono rimessi a sostenere che per
far trionfare l’anarchia sarà necessario, quando
scoppierà la rivoluzione, obbligare la gente a fare a modo
nostro, fino a quando essa si sarà convinta che noi abbiamo
ragione e farà spontaneamente quello che al principio le
faremo fare per forza. Insomma assumere la funzione di governo.
S’intende che il governo che vorrebbero costituire quei singolari
anarchici dovrebbe essere una cosa blanda e provvisoria, dovrebbe
governare il meno possibile e durare pochissimo: ma anche ridotto ai
minimi termini dovrebbe sempre essere un governo, cioè un
gruppo di uomini che si attribuiscono la facoltà d’imporre al
popolo le proprie idee… ed i propri interessi.
E questo per essere pratici, per aderire alla realtà, ecc.
Sembra sentire i discorsi che facevano i guerraioli quando
predicavano la guerra per distruggere la guerra!
La cosa non è nuova. Durante tutto il corso del nostro
movimento vi sono stati degl’individui che, pur dicendosi anarchici
anzi più anarchici degli altri, hanno espresso concetti e
propositi ultra autoritari: soppressione per i nostri avversari
delle libertà elementari di parola, stampa, riunione, ecc.;
lavoro forzato sotto il comando di soprastanti anarchici; fanciulli
strappati alle famiglie per educarli anarchicamente; polizia rossa,
armata rossa, terrore rosso. E per quanto sia evidente la
contraddizione tra l’idea di libertà che è l’anima
dell’anarchismo, e l’idea di coercizione, pure a rifletterci bene
non v’è di che troppo meravigliarsi. Nati e cresciuti in una
società in cui ognuno è costretto a comandare o essere
comandato, influenzati da una tradizione millenaria d’oppressione e
di servitù, non avendo altro mezzo per emanciparsi che quello
di ricorrere alla violenza, per abbattere la violenza che ci
opprime, è difficile pensare e sentire da anarchici, è
difficile soprattutto concepire e rispettare il limite che separa la
violenza che è giusta e necessaria difesa dei propri diritti,
dalla violenza che è violazione di diritti altrui. E
perciò v’è sempre chi ricade nell’autoritarismo e per
arrivare all’anarchia vuole agire come agiscono i governi, vuole
insomma essere governo.
Naturalmente le intenzioni sono sempre buone; siamo anarchici
sì, essi dicono, ma siccome le masse sono tanto arretrate
bisogna spingerle avanti colla forza. Qualche cosa come insegnare ad
uno a camminare legandogli le gambe!
Io non voglio qui dilungarmi su questo errore di voler educare la
gente alla libertà, all’iniziativa ed alla fiducia in se
stessa per mezzo della coercizione. Nè voglio insistere sul
fatto che chi sta al governo ci vuol restare, sia pure col sincero
proposito di fare il bene, e quindi prima di tutto pensa a
costituire un partito o una classe di cointeressati ed una forza
armata fedele e disciplinata per tenere a freno i ricalcitranti;
cose che accadrebbero ai governanti “anarchici” come agli altri, sia
perchè sono una necessità della situazione, sia
perchè noi anarchici non siamo poi di tanto migliori della
comune umanità. Questo menerebbe a ripetere tutte le ragioni
che l’anarchismo oppone all’autoritarismo, ragioni che quei
compagni, i quali, a quanto mi si dice non sono dei novellini,
debbono conoscere al pari di me.
Voglio solo far notare, che, come avviene spessissimo, quelli che
più si vantano di essere pratici e di non perdersi nei sogni,
sono poi quelli che più sognano cose impossibili.
Infatti, è chiaro che per impossessarsi del governo e non
esporci ad un fiasco sicuro che ci discrediterebbe e c’impedirebbe
per molto tempo ogni azione utile, bisognerebbe disporre di una
forza numerica e di una capacità tecnica sufficienti. Noi
probabilmente non avremo al principio della prossima rivoluzione,
quella forza e quella capacità, ma, supposto che l’avessimo,
che bisogno ci sarebbe allora di farsi governo e mettersi sopra una
via che necessariamente ci condurrebbe verso una mèta opposta
a quella che vogliamo raggiungere? Essendo così forti, noi
potremmo facilmente mettere la gente sulla buona via per mezzo della
propaganda e dell’esempio, e sviluppare e difendere la rivoluzione
con metodo perfettamente anarchico, cioè col concorso
volontario ed entusiasta della massa interessata al suo trionfo.
Questo per quelli che intendessero impossessarsi del governo come
anarchici per fare l’anarchia, o almeno indirizzare la rivoluzione
verso l’anarchia. Che se si volesse andare al governo insieme coi
partiti autoritari, i quali mirerebbero innanzi tutto a soffocare
l’iniziativa popolare e ad assicurare lo sviluppo e la permanenza
delle istituzioni governative, allora sarebbe il caso di defezione
pura e semplice, e conservare il nome d’anarchici sarebbe una
menzogna e un inganno. Col risultato che, dopo di aver messo le
nostre forze al servizio dei nuovi dominatori ed averli aiutati a
consolidarsi al governo, non appena non si avrebbe più
bisogno di noi, saremmo ignominiosamente scacciati e resteremmo
impotenti e disonorati.
Invece, pur minoranza come siamo, restando in mezzo alle masse per
spingerle ad abbattere l’autorità politica ed il privilegio
economico e ad organizzare da loro stesse la nuova vita sociale e
dandone noi stessi l’esempio, in grande o in piccolo secondo le
forze che potremo raccogliere nelle varie località e nelle
varie corporazioni operaie, senza prendere responsabilità che
non possiamo assolvere, noi potremo dare alla rivoluzione un
carattere profondamente rinnovatore e preparare la via per il
trionfo dell’anarchia integrale.
Non riusciremo forse ad impedire la costituzione di un nuovo
governo, ma potremo impedire ch’esso diventi forte e tirannico ed
obbligarlo a rispettare, per noi e per quelli che si unirebbero a
noi, la massima libertà possibile ed il diritto all’uso
gratuito dei mezzi necessari alla produzione.
In ogni caso, anche vinti, daremo un esempio fecondo di risultati
concreti in un prossimo avvenire.
b. L'errore del "tutto e subito"71
Voglio esprimere la mia opinione sulla causa per la quale alcuni
compagni, certamente sinceri e pieni di ardore per il trionfo
dell’anarchia, sono indotti a rimettere in discussione le basi
stesse dell’anarchismo.
Fenomeni simili si producono in tutti i partiti all’indomani di una
sconfitta, e non vi sarebbe nulla di strano che lo stesso avvenisse
in mezzo a noi. Ma a me pare che, nel caso nostro, questa ricerca
affannosa di vie novelle, piuttosto che la conseguenza di nuove e
più ardite e più vere concezioni, sia l’effetto della
persistenza di vecchie illusioni che quei compagni, malgrado la
lunga esperienza, sperano ancora di poter realizzare immediatamente,
come lo si sperava agli inizi del movimento.
Sessanta e più anni or sono noi pensavamo che l’anarchia ed
il comunismo potessero sorgere come conseguenza diretta, immediata
di un’insurrezione vittoriosa. Non si tratta, dicevamo, di giungere
un giorno all’anarchia e al comunismo, ma di cominciare la
rivoluzione sociale coll’anarchia e col comunismo. Bisogna,
ripetevamo nei nostri manifesti, che la sera del giorno stesso in
cui saranno vinte le forze governative ciascuno possa soddisfare
pienamente i suoi bisogni essenziali, sentire senz’altro ritardo i
benefici della rivoluzione.
Era insomma l’idea che, accettata un po’ più tardi da
Kropotkin, fu da lui popolarizzata e quasi fissata come programma
definitivo dell’anarchismo.
Secondo noi bastava distruggere gli ostacoli materiali, cioè
sconfiggere la forza armata che difendeva i proprietari, e tutto
sarebbe andato da sè.
E badavamo soprattutto a perfezionare il nostro ideale, facendoci
l’illusione che la massa ci seguisse, anzi credendo di non essere
che gl’interpreti degl’istinti profondi di essa massa.
Eravamo in pochi, ma avevamo una fiducia illimitata sull’efficacia
della propaganda. Il nostro ragionamento in proposito era dei
più ingenui: se, noi pensavamo, essendo in dieci a far
propaganda in un mese siamo diventati venti, ora che siamo in venti
in un altro mese diventeremo quaranta, e poi da quaranta ottanta e
così di seguito. Raddoppiando il numero di mese in mese
presto avremo avuto la forza necessaria per fare la rivoluzione.
La rapida organizzazione dei corpi di mestiere e lo spirito di
solidarietà tra gli oppressi in lotta per l’emancipazione
avrebbero risolte tutte le difficoltà. L’Associazione
Internazionale dei Lavoratori (la Prima Internazionale) che stava
allora nel suo più florido periodo, sembrava già
pronta per sostituire la sua organizzazione a quella della
società borghese.
Data questa idea, è chiaro che ci doveva sembrare che
l’anarchia stesse per sorgere subito, spontaneamente, per la
volontà e la capacità di tutta la popolazione, o
almeno della parte cosciente e attiva della popolazione, appena
fosse liberata dalla forza bruta che la teneva soggetta.
Ma coll’andar del tempo lo studio e più la dura esperienza ci
mostrarono che molte delle nostre convinzioni erano effetto del
nostro desiderio e delle nostre speranze e non corrispondevano ai
fatti reali...
Stando così le cose, che cosa bisognava fare? Abbandonare la
lotta, diventare scettici ed indifferenti, o rinunziare all’anarchia
ed aderire ad un partito autoritario?
Alcuni lo fecero; ma i più tra noi, quelli che avevano
nell’animo “il fuoco sacro” furono compresi più che mai della
nobiltà e della grandezza della missione che gli anarchici si
erano data. Essi restarono convinti che l’aspirazione alla
libertà integrale (quello che potrebbe chiamarsi lo spirito
anarchico) è stata sempre la causa di ogni progresso
individuale e sociale, e che invece tutti i privilegi politici ed
economici (che sono poi i diversi aspetti di una stessa oppressione)
se non trovano nell’anarchismo più o meno cosciente un
ostacolo sufficiente, tendono a respingere indietro l’umanità
verso la più fosca barbarie. Essi compresero che l’anarchia
non poteva venire che gradualmente, a misura che la massa arriva a
concepirla e desiderarla; ma che non verrebbe mai se mancasse la
spinta di una minoranza più o meno coscientemente anarchica,
che agisce in modo da preparare l’ambiente necessario.
Restare anarchici, agire da anarchici in tutte le possibili
circostanze restava il dovere da noi liberamente scelto ed
accettato.
Ho detto più sopra che, secondo me, i cosiddetti
revisionisti, ancora sotto l’influenza dei pregiudizi
dell’anarchismo primitivo, s’illudono di poter fare il comunismo e
l’anarchia d’un colpo solo; ma siccome comprendono anch’essi che la
massa è ancora impreparata, cadono nell’assurdo di volerla
preparare coi metodi autoritari. Lo dicono poco chiaramente, credo
anzi che essi stessi non se ne rendano conto esatto, ma il fatto mi
sembra questo: essi vorrebbero fare il comunismo rimandando la
libertà a più tardi, e vorrebbero educare il popolo
alla libertà per mezzo della tirannia.
A me pare, e credo che questa sia oramai l’opinione di quasi tutti
gli anarchici, che la rivoluzione non può cominciare col
comunismo, o sarebbe, come la Russia, un comunismo da convento, da
caserma e da galera, peggiore dello stesso capitalismo. Essa deve
attuare subito quello che si può, ma non più di quello
che si può; basterebbe per cominciare attaccare con tutti i
mezzi possibili l’autorità politica ed il privilegio
economico, disciogliere l’esercito e tutti i corpi di polizia,
armare tutta quanta la popolazione, requisire a vantaggio di tutti
le sostanze alimentari e provvedere alla continuità
dell’approvvigionamento e spingere le masse, soprattutto spingere le
masse ad agire senza aspettare ordini dall’alto. E badare a non
distruggere se non quello che si può sostituire con qualche
cosa di migliore. Poi si procederà verso l’organizzazione del
comunismo volontario o quelle altre forme, probabilmente varie e
multiple, di convivenza sociale che i lavoratori, illuminati
dall’esperienza, preferiranno.
Se gli anarchici volessero assumere da soli la funzione di governo
(cosa del resto che non avrebbero la forza di fare), o, peggio
ancora, volessero unirsi ai partiti autoritari per dettar leggi e
regole obbligatorie, non farebbero che tradire se stessi e la
rivoluzione. Allora essi, invece di spingere verso l’anarchia colla
propaganda e coll’esempio, contribuirebbero, volenti o nolenti, a
strappare al popolo quelle conquiste ch’esso avrebbe fatte nel
periodo insurrezionale: farebbero insomma quello che han fatto
sempre tutti i governi.
c. Un governo di "anarchici"?72
...Dunque Pardaillan è d’accordo con me e con tutti gli
anarchici nel “respingere assolutamente” un governo che sia quello
che generalmente s’intende per governo e che è stato ed
è ogni governo esistito ed esistente, cioè un organo
che fa la legge e la impone a tutti mediante la forza materiale.
Solamente egli ha un debole per la parola governo e per conservarla,
pur restando anarchico, vorrebbe cambiarne il significato.
Egli mi domanda: “Possono gli anarchici, senza cessare di esser
tali, concepire un governo che non abbia il significato
antilibertario del solito governo?”
Rispondo: Si. Se io, per esempio, cambio il significato della parola
carnefice, posso benissimo concepire un carnefice dall’animo buono e
sensibile che non farebbe male una mosca; o se dó alla parola
sedia il significato di lampada elettrica posso benissimo concepire
una sedia che mi faccia lume.
Ma a che servirebbe rivoluzionare in tal modo il dizionario?
Evidentemente ad intenderci meno che mai.
E perchè il Pardaillan, il quale vorrebbe che gli anarchici
costituissero una forza capace d’influire potentemente sul corso
degli eventi, non esita a porsi in contrasto con la massa degli
anarchici e creare nuovi ragioni di scissione e quindi di debolezze
per la fisima di chiamare governo quello che non sarebbe governo?
Egli ragiona così: Il popolo è abituato ad essere
governato ed ubbidisce al governo qualunque esso sia; può in
certi momenti abbattere un dato governo, ma lo fa con l’idea di
vederlo sostituito da un governo migliore. Chi è più
svelto ad occupare il posto lasciato vuoto dal governo caduto e dire
il governo sono io è subito riconosciuto ed ubbidito.
Facciamo in modo d’essere noi i primi a dire il governo siamo noi e
potremo fare non l’anarchia, ma quel tanto di bene che si
potrà, ed intanto toglieremo ai politicanti la
possibilità di sfruttare la situazione.
Mi perdoni il compagno Pardaillan, se glielo dico un po’
ruvidamente: il suo ragionamento ed il suo proposito mi sembrano
tanto ingenui da raggiungere quasi l’infantilità,
poichè certamente non sarebbe cosa seria il dirsi governo e
non fare quello che deve fare un governo e che la gente aspetta da
esso, cioè dare degli ordini e farli eseguire per mezzo della
polizia, dell’esercito, dei magistrati e dei carcerieri.
Pardaillan dice che ha l’impressione (non so da dove ricavata) che
io, accettando la proposta di dare un significato libertario alla
parola governo per servircene noi a modo nostro, sia già
disposto a cercare insieme a loro (i revisionisti) il modo migliore
per impedire a questo governo di diventare quello che assolutamente
non deve essere.
Ma se il governo sarà composto di anarchici, chi
s’incaricherebbe di tenerli nei limiti assegnatigli da Pardaillan?
Non potrebbero essere che gli anarchici che non sono al governo,
vale a dire che gli anarchici dovrebbero trattare il governo formato
dai loro compagni come tratterebbero qualunque altro governo. E
allora?
No: sarà colpa del mio modo di esprimermi, ma Pardaillan mi
ha compreso proprio a rovescio.
Io credo – gioco di parole a parte – che noi non potremmo diventare
governo se non in combutta coi partiti autoritari e dopo che gli
anarchici avessero perduto quell’ardente desiderio di libertà
per tutti, che forma la loro specifica ragion d’essere. E credo che
se per singolarissime circostanze noi riuscissimo a sembrare
governo, presto vorremmo essere governo sul serio, e non saremmo
migliori degli altri.
Ma supponiamo pure che riuscissimo ad impadronirci del governo ed
avere a nostra disposizione le forze dello Stato senza avere prima
cessato di essere anarchici, e supponiamo che riuscissimo a
resistere all’influenza corruttrice della nuova posizione e
restassimo intenti solo a garantire la libertà di tutti ed a
promuovere il bene generale, che cosa ne risulterebbe?
Il popolo, dice Pardaillan, è abituato ad esser governato e
se abbatte un governo è sempre pronto ad accettarne un altro.
È vero; ma questo popolo accettando un governo aspetta che
esso governi, cioè che emani ordini e decreti e mandi
dappertutto i suoi funzionari per farli eseguire. Se gli ordini non
vengono, se non vengono le nuove autorità con i relativi
gendarmi, allora o il popolo fa da sè ed in questo caso
entrerebbe nella via dell’anarchismo, o accetta un altro governo che
governi davvero.
Mi pare che Pardaillan fraintenda completamente, se non lo scopo
supremo degli anarchici, certo l’attuale compito loro nel movimento
sociale.
Il nostro compito è quello di spingere il popolo a reclamare
e prendersi tutte le libertà possibili e a provvedere da
sè ai propri bisogni senza aspettare gli ordini di una
qualsiasi autorità. Nostro compito è quello di
dimostrare l’inutilità e la dannosità del governo,
provocando ed incoraggiando, colla predicazione e con l’azione,
tutte le buone iniziative individuali e collettive…
In conclusione, Pardaillan vorrebbe impossessarsi del governo per
impedire che se ne impossessassero gli altri. Io penso al contrario
che se governo v’ha da essere, se cioè noi fossimo impotenti
ad impedire che si formi un nuovo governo, sarebbe preferibile che
lo formino gli autoritari anzichè gli “anarchici”. Un governo
di autoritari potrebbe trovare un freno nell’opposizione degli
anarchici ed esaurirsi a misura che il popolo impara ad organizzarsi
e fare da sè. Ma di un governo di "anarchici" chi ce ne
libererebbe?…
Si rassicurino i compagni “revisionisti”. Noi siamo tutt’altro che
“dogmatici” Noi siamo travagliati come loro dalla ricerca del
meglio; noi sappiamo come loro che c’è tante idee da
rivedere, tanti problemi da approfondire; ed accogliamo con simpatia
qualunque opinione sulla nostra condotta passata, qualunque critica,
qualunque proposta anche contrarie alle opinioni nostre per vedere
ciò che se ne può cavare in pro della causa comune. Ma
siamo e vogliamo restare anarchici, e gli scritti dei “revisionisti”
fanno l’impressione – parlo per me personalmente – che si voglia
fare un’evoluzione verso metodi autoritari. Di qui la scissione ed
il tono aspro della polemica.
Vi sono quattro problemi che, secondo me, sono per gli anarchici di
tutti i paesi i problemi massimi dell’ora presente:
1. Concorrere all’insurrezione con tutte le forze rivoluzionarie
progressiste senza lasciarsi assorbire e dominare dai partiti
più numerosi, più ricchi e meglio organizzati;
2. Utilizzare le organizzazioni operaie per la demolizione e la
ricostruzione pur evitando i mali ed i pericoli del sindacalismo;
3. Assicurare l’alimentazione del popolo senza l’intervento di un
potere centrale che, avendo il monopolio delle cose di prima
necessità, diventerebbe il peggiore e più potente dei
tiranni;
4. Provvedere all’armamento di tutta la popolazione: cosa
indispensabile perchè se qualcuno (individuo, partito o
classe) avesse il monopolio della forza armata, egli sarebbe in fin
dei conti il dominatore di tutto e di tutti.
Il mio voto è che si lavori tutti alla soluzione – teorica e
pratica – di questi problemi, senza escludere naturalmente gli altri
cento problemi che altri potrà formulare.
Se potremo trovarci tutti d’accordo tanto meglio; e se no faccia
ciascuno a suo modo tutto quello che può.
Il campo della lotta è immenso; c’è posto per tutte le
buone volontà.
d. Il rovescio della medaglia: l'attendismo dei compagni spagnoli73
Roma, 9 giugno 1931
...In quanto alla corrispondenza dalla Spagna pare anche a me che
quei compagni non si rendono un conto chiaro di quello che stanno
facendo i governi di Madrid e di Barcellona, i quali, al pari d’ogni
governo, cercano innanzi tutto di consolidarsi al potere
appoggiandosi su vecchi e nuovi privilegi. Sorti da un movimento
popolare debbono mostrarsi più liberali del regime decaduto,
ma fatalmente, per necessità d’esistenza e per istinto di
comando, faranno tutto il possibile per ostacolare lo sviluppo della
rivoluzione.
Secondo me, bisognerebbe profittare di questi primi tempi di
debolezza e di disorganizzazione governative, per strappare allo
Stato ed al capitalismo il più che si può. Più
tardi la Costituente ed il potere esecutivo cercheranno di
ritogliere al popolo i vantaggi ottenuti, e non rispetteranno che
quelle conquiste popolari che stimeranno troppo pericoloso
attaccare.
Trovo veramente troppo esageratamente ottimista il dire che la
“libertà politica non è limitata da nessuna
autorità” quando sappiamo che la guardia civile (che
corrisponde ai nostri carabinieri) e stata conservata e leggiamo che
qua e là in tutta la Spagna, da Sevilla a San Sebastiano, si
spara sulla folla e si proclamano stati d’assedio. Il fatto di aver
permesso un comizio in un teatro di Barcellona prova solo che il
governo non lo ha creduto pericoloso, o non si è sentito
abbastanza forte per impedirlo.
Il compito dei rivoluzionari sarebbe quello di profittare della
presente debolezza del governo per imporgli la dissoluzione dei
corpi di polizia, l’armamento generale della popolazione, la
demolizione del Castello di Montjuich, ecc.
Non sono poi nemmeno d’accordo con quei compagni dell’“Ufficio
libertario di corrispondenza” nel pensare che la situazione, dal
nostro punto di vista e per gli scopi nostri, sia più
favorevole in Catalogna che nelle altre parti della Spagna.
Il proletariato catalano, secondo l’idea che me ne feci nelle due
volte che sono stato in quei paesi, è il proletariato
più cosciente, più serio, più avanzato che vi
sia nel mondo. Metto quindi in lui le più grandi speranze; ma
mi pare che se in Catalogna si può fare più facilmente
che altrove una radicale rivoluzione politica, vi sono invece
maggiori difficoltà per raggiungere l’emancipazione
economica, senza la quale le libertà politiche finiscono col
non contar nulla e sparire. E credo che la difficoltà viene
proprio dal grande sviluppo industriale del paese.
A causa dell’industria la massa degli operai catalani si trova
legata alla borghesia da una certa solidarietà d’interessi.
Se cessa l’esportazione, se si disorganizza il commercio (e
ciò non potrebbe non avvenire in caso di rivoluzione
economica) l’operaio della città catalana resta senza lavoro
e non mangia. Quindi una rivoluzione economica non si potrebbe fare
che sopra vasta scala, quando il proletariato delle città e
quello delle campagne di molta parte della Spagna agissero
d’accordo. Con energia ed unione, gli operai catalani potrebbero, io
credo, fin da ora costringere i padroni a dar lavoro a tutti
(cioè a dividere fra tutti il lavoro che c’è), e
pagare salari sufficienti per una vita decente; ma non potrebbero
sopprimere completamente i padroni, i quali hanno in mano non solo
gli strumenti di lavoro, che si possono toglier loro con
facilità, ma anche l’organizzazione dello scambio colle altre
regioni della Spagna e dell’estero, che è più
difficile sostituire da un giorno all’altro.
Invece in altre regioni, e specialmente al Sud, in Andalusia, la
situazione mi sembra più favorevole. Là la massa vive
coi prodotti della campagna, e vive male perchè il più
dei prodotti è portato via dai proprietari ed inoltre grandi
estensioni di terre sono lasciate incolte. I lavoratori andalusi,
che hanno spirito ribelle ed aspirano da secoli al possesso della
terra, potrebbero occupare le terre incolte e coltivarle per loro
conto, e nello stesso tempo impedire ai proprietari delle terre
coltivabili di asportare e mandare via i prodotti. Sarebbe
l’espropriazione pura e semplice, e non si avrebbe da resistere che
ai tentativi di repressione militari, i quali sarebbero impotenti di
fronte ad un movimento di una certa importanza.
Ma io parlo da lontano e posso facilmente sbagliarmi. In ogni modo
mi pare che la situazione spagnuola presenta infinite
possibilità e dà la speranza che il movimento possa
svilupparsi e metter capo ad una vera rivoluzione sociale.
Io pagherei non so che per poter andare in Spagna e mi arrabbio per
la mia impotenza. Sono sempre sotto gli occhi dei poliziotti e non
posso fare un passo senza averli attorno...
Roma, 7 marzo 1932
...Sono stato quasi due mesi senza sapere nulla dalla Spagna. Solo
da qualche giorno ricomincio a ricevere dei giornali di Spagna e
vado apprendendo quello che è avvenuto in questi ultimi
tempi. Peccato! quale situazione è stata sciupata! Ma forse
c’è ancora da sperare.
Sono così incompletamente e male informato che non oso
esprimere una opinione decisa sulla condotta dei compagni spagnoli:
sono essi che stanno sul posto, sono essi che hanno la
responsabilità morale e materiale, e quindi sono essi che
debbono decidere. Nullameno mi pare di poter dire che gli anarchici
ed i sindacalisti spagnoli non seppero profittare dell’occasione che
offriva loro la rivoluzione del 14 aprile con il susseguente
entusiasmo popolare. Secondo me fu un errore grandissimo il
rimettersi a fare degli scioperi per limitati miglioramenti
economici, come quelli che si fanno in tempi tranquilli. Quello era
il tempo della lotta politica; non già s’intende nel senso in
cui generalmente i compagni spagnoli prendono la parola politica; ma
nel senso di lotta contro il potere politico. Bisognava armarsi,
esigere la dissoluzione della Guardia Civica e degli altri corpi di
polizia, obbligare i padroni (se per il momento non si poteva
abolirli) a dar lavoro a tutti i disoccupati, ecc. In ogni modo,
disertare le urne e restare in posizione d’aperta ostilità
contro il Governo di Madrid e quello della Generalidad di Catalogna.
E come sarebbe stato bello, almeno quale atto simbolico, la
demolizione del Castello di Montjuich…
3. I PROBLEMI DELLA RICOSTRUZIONE
a. La nostra "mania ricostruttoria"74
...Ci si accusa di “mania ricostruttoria”; si dice che parlare di
“indomani della rivoluzione”, come facciamo noi, è una frase
che non significa nulla perchè la rivoluzione è un
profondo cambiamento di tutta la vita sociale, che è
già cominciata e che durerà secoli e secoli.
Tutto questo è un semplice equivoco di parole. Se si piglia
la rivoluzione in quel senso, essa è sinonimo di progresso,
è sinonimo di vita storica, che attraverso mille vicende
metterà capo, se i nostri desideri si realizzano, al trionfo
totale dell’anarchia in tutto quanto il mondo. Ed in quel senso era
un rivoluzionario Bovio e sono rivoluzionari anche Treves e Turati e
magari lo stesso d’Aragona. Quando ci mettete di mezzo i secoli,
ognuno vi concederà tutto quello che volete.
Ma quando noi parliamo di rivoluzione, quando di rivoluzione parla
il popolo, come quando si parla di rivoluzione nella storia
s’intende semplicemente insurrezione vittoriosa.
Le insurrezioni saranno necessarie fino a che vi saranno dei poteri
che colla forza materiale costringeranno le masse all’obbedienza; ed
è probabile, purtroppo, che di insurrezioni se ne dovranno
fare parecchie prima che si sia conquistato quel minimo di
condizioni indispensabili perchè sia possibile l’evoluzione
libera e pacifica e l’umanità possa camminare senza lotte
cruente ed inutili sofferenze verso i suoi alti destini.
Ma ora dobbiamo occuparci della prossima insurrezione, che come ogni
insurrezione non potrà durare che un breve tempo, prepararci
a quello che dobbiamo fare mentre essa dura e nel suo immediato
indomani per trarne il massimo profitto possibile in favore dei
nostri ideali.
Poichè non possiamo e non vogliamo imporre le nostre idee a
nessuno ed in fin dei conti se la gente crede necessario un governo
noi non possiamo impedire che se lo faccia e se lo goda, noi
dobbiamo reclamare per noi e per coloro che riusciremo ad attirare
nella nostra orbita, il diritto ai mezzi di lavoro e la piena
libertà di non riconoscere il governo costituito; e questa
libertà siamo disposti a difendere, potendo, anche colle
armi.
Ma se non riconosciamo il governo bisogna pure che troviamo un modo
di vivere per liberi accordi, senza governo, nonchè un modo
per mantenere le necessarie relazioni economiche colle masse che ad
un governo stanno sottoposte.
Noi abbiamo sempre reclamata la libertà di propaganda e di
esperimentazione. Che cosa esperimenteremmo se non avessimo qualche
idea concreta da mettere in pratica? Noi fidiamo per la propagazione
delle nostre idee, in periodo insurrezionale e post-insurrezionale,
sulla efficacia dell’esempio, ma quali esempi potremmo dare se non
sapessimo che cosa fare? Se non riusciamo a vivere meglio degli
altri, come potremmo sperare che le masse accettassero i metodi
nostri? Se un governo intelligente, conoscendo la nostra
incompetenza, la nostra impreparazione, ci facesse il tiro birbone
di lasciarci per un momento la libertà che noi reclamiamo,
che figura faremmo se non sapessimo come organizzare una vita
sociale rispondente ai nostri ideali?
La nostra missione di anarchici, secondo alcuni, sarebbe solo quella
di distruggere. Ma mentre distruggiamo dobbiamo pur vivere,
cioè consumare; vorremo noi che gli altri lavorassero e
producessero per provvedere ai nostri bisogni, mentre noi ci
dedichiamo all’opera geniale del distruggere?
E poi, distruggere che cosa? Una volta distrutta la forza brutale
che ci opprime, non si distrugge più se non quello che si
sostituisce con qualche cosa di meglio.
Io non credo negli schemi logici, direi quasi nelle fantasticherie
storico-filosofiche di Vico e di Ferrari, le quali del resto non si
applicano realmente che alle forme più appariscenti, ma meno
sostanziali della vita sociale. Non v’è generazioni che
distruggono e generazioni che edificano. La vita è un tutto
inscindibile, e la distruzione e la creazione sono atti
contemporanei. Vi sono soltanto periodi in cui si crea e si
distrugge rapidamente, ed altri in cui si crea e si distrugge meno
rapidamente...
b. Lo sviluppo delle idee e la loro applicazione alle attuali
contingenze75
Ho l’impressione, sia per quello che appare nei vani nostri
periodici in Italia e fuori, sia per quello che i compagni ci
mandano e che resta in gran parte impubblicato per mancanza di
spazio o per soverchia insufficienza di composizione, ho
l’impressione, dico, che non siamo ancora riusciti a far comprendere
a tutti gli scopi che ci proponiamo con questa pubblicazione.
V’è infatti chi, interpretando a modo suo il nostro espresso
desiderio di praticità e di realizzazione, crede che noi
intendiamo “iniziare un processo revisionista dei valori
dell’anarchismo teorico” e, secondo le proprie tendenze e le proprie
preferenze teme, o spera, che noi si voglia rinunziare, in pratica,
se non in teoria, alle nostre concezioni rigorosamente anarchiche.
Non v’è da tanto.
In realtà noi non crediamo, come qualcuno ci ha fatto dire,
che vi sia “antinomia tra teoria e pratica”. Crediamo invece che in
generale la teoria è vera solo se è confermata dalla
pratica, e che nel caso nostro se non si può fare subito
l’anarchia non è già per deficienza della teoria, ma
perchè non tutti sono anarchici, e gli anarchici non hanno
ancora la forza di conquistare almeno la loro libertà e di
imporne il rispetto.
Insomma noi restiamo fermi nelle idee che fin dall’origine sono
state l’anima del movimento anarchico e non abbiamo proprio nulla da
rinnegare. Diciamo questo non a titolo di merito, poichè se
credessimo di essere nel passato caduti in errore sentiremmo il
dovere di confessarlo e di correggerci; ma lo diciamo perchè
è un fatto. E chi conosce gli scritti di propaganda sparsi un
po’ dappertutto dai fondatori di questa rivista ben difficilmente
riuscirebbe a trovare una sola contraddizione tra quello che diciamo
ora e quello che dicevamo già più di cinquant’anni or
sono.
Non è dunque di “revisione” che si tratta, ma di sviluppo
delle idee e della loro applicazione alle contingenze attuali.
Quando le idee anarchiche erano una novità che meravigliava e
sbalordiva e non si poteva che far la propaganda in vista di un
lontano avvenire e gli stessi tentativi insurrezionali ed i processi
volontariamente provocati ed affrontati non servivano che a
richiamare l’attenzione pubblica a scopo di propaganda, poteva
bastare la critica della società attuale e l’esposizione
dell’ideale a cui si aspirava. Anche le questioni di tattica non
erano in fondo che questioni sui mezzi migliori per propagare le
idee e preparare gl’individui e le masse alle agognate
trasformazioni.
Ma oggi i tempi sono più maturi, le circostanze sono
cambiate, e tutto fa credere che, in un tempo che potrebbe essere
imminente ma che certo non è molto lontano, ci troveremo
nella possibilità e nella necessità di applicare le
teorie ai fatti reali e mostrare che non solo abbiamo più
ragione degli altri per la superiorità del nostro ideale di
libertà, ma anche perchè le nostre idee ed i nostri
metodi sono i più pratici per il raggiungimento del massimo
di libertà e di benessere possibile allo stato attuale della
civilizzazione.
La stessa reazione imperversante e trepida mantiene il paese in uno
stato di equilibrio instabile che lascia aperta la via a tutte le
speranze come a tutte le catastrofi. E gli anarchici possono da un
momento all’altro esser chiamati a mostrare il loro valore e ad
esercitare sugli avvenimenti una pressione che potrà a prima
giunta non essere preponderante, ma che sarà tanto più
grande quanto maggiore sarà il loro numero e la loro
capacità morale e tecnica.
Necessità quindi di approfittare di questo periodo
transitorio, che non può essere se non di calma preparazione,
per mettere insieme il più possibile di forze morali e
materiali e tenersi pronti per tutto quello che potrà
avvenire.
Il fatto che non bisogna perder di vista è questo: noi siamo
una minoranza relativamente piccola, e resteremo tale fino al giorno
in cui un cambiamento nelle circostanze esteriori – condizioni
economiche migliorate e libertà aumentata – non
metterà le masse in condizioni di potere meglio comprenderci
e noi in posizione di potere esplicare praticamente l’opera nostra.
Ora, le condizioni economiche non miglioreranno sensibilmente e
stabilmente e la libertà non aumenterà seriamente fino
a che vigerà il sistema capitalistico e l’organizzazione
statale che sta a difesa del privilegio. Quindi il giorno in cui per
cause che sfuggono in gran parte alla nostra volontà ma che
esistono e dovranno produrre i loro effetti, l’equilibrio
sarà rotto e scoppierà la rivoluzione, noi ci
troveremo come ora in esigua minoranza tra le varie forze in
conflitto.
Che cosa dovremo fare?
Disinteressarsi del movimento sarebbe un suicidio morale per ora e
per sempre, poichè senza l’opera nostra, senza l’opera di
quelli che vogliono spingere la rivoluzione fino alla trasformazione
totale di tutti gli ordinamenti sociali, fino all’abolizione di
tutti i privilegi di tutte le autorità, la rivoluzione
finirebbe senza aver nulla trasformato d’essenziale, e noi ci
troveremmo nelle stesse condizioni d’ora. In un’altra futura
rivoluzione saremmo sempre piccola minoranza e dovremmo ancora
disinteressarci del movimento, e cioè rinunziare alla ragione
stessa della nostra esistenza che è quella di combattere
sempre per la diminuzione (fino a che non si potrà conseguire
l’abolizione completa) dell’autorità e del privilegio –
almeno per noi che crediamo che la propaganda, l’educazione non
possa, in ogni dato ambiente sociale, che raggiungere un numero
limitato d’individui, e che occorre cambiare le condizioni
ambientali prima che sia possibile l’elevazione morale di un nuovo
strato d’individui.
Che fare dunque?
Provocare, se ci è possibile, noi stessi il movimento,
parteciparvi in ogni modo con tutte le nostre forze, imprimervi il
carattere più libertario e più egualitario che per noi
si potrà, appoggiare tutte le forze di progresso, difendere
il meglio quando non si può raggiungere l’ottimo; ma
conservare sempre ben distinto il nostro carattere di anarchici che
non vogliono il potere, e mal sopportano che altri lo prenda.
V’è tra gli anarchici – noi diremmo tra sedicenti anarchici –
chi pensa che, non essendo le masse capaci ora di organizzarsi
anarchicamente e di difendere la rivoluzione con metodi anarchici,
dovremmo noi stessi impossessarci del potere ed “imporre l’anarchia
con la forza”. (La frase, come sanno i nostri lettori, è
stata pronunziata letteralmente, in tutta la sua crudezza).
Io non starò a ripetere qui che chi crede nella potenza
educativa della forza brutale e nella libertà promossa e
sviluppata per opera dei governi, può essere tutto quello che
vuole, potrebbe anche aver ragione contro di noi, ma certamente non
può dirsi anarchico se non mentendo a se stesso ed agli
altri…
e. Il pericolo dell'interruzione rivoluzionaria76
A proposito della recensione ch’io feci nel numero 9 di “Pensiero e
Volontà” del libro di Galleani La fine dell’anarchismo? il
compagno Benigno Bianchi mi scrive:
“Credo che non ti rincrescerà se ti scrivo per richiamare la
tua attenzione su un tuo periodo che potrebbe provocare malintesi
incresciosi. Intendo parlare del secondo capoverso delle parole del
Galleani riportate nel tuo articolo.
“In detto passo il Galleani dice della necessità di sgombrare
ai nepoti il terreno dai pregiudizi, dai privilegi, dalle chiese,
dalle galere, dalle caserme, dai lupanari, ecc. È
perciò necessario distruggere e non costruire.
“Tu rispondi candidamente che sarebbe ridicolo, e mortale se si
facesse davvero, il voler distruggere tutti i forni malsani, tutti i
mulini anti-economici, tutte le culture arretrate rimettendo ai
posteri la cura di cercare ed applicare metodi migliori per
coltivare il grano, per fare la farina e cuocere il pane.
“O buon Errico, il cuocere il pane, in un modo o nell’altro è
indispensabile, come è necessario coltivare il grano e
macinarlo ed il voler distruggere questi mezzi come altri consimili,
più che l’essere ridicolo è vera pazzia!
“Quindi queste cose si rinnoveranno, si trasformeranno si
perfezioneranno; ma non vorrai mica rinnovare e perfezionare le
galere, le chiese, le caserme, i lupanari e nemmeno i monopoli ed i
privilegi di cui parlava il Galleani.
“A me pare che il paragone non regga e conseguentemente cade tutto
l’ordito dell’articolo critico in parola. La serietà della
Rivista e l’autorità della tua parola mal sopportano questi
stiracchiamenti polemici”.
Naturalmente le osservazioni del compagno Bianchi non mi rincrescono
punto. Al contrario, io la ringrazio di avermi fornito l’occasione
di ritornare sopra una questione ch’io considero di vitale
importanza per lo sviluppo e la riuscita del nostro movimento.
Lasciamo da parte Galleani. Se l’ho male interpretato egli
può dirlo meglio di chiunque altro, ed io sono sempre pronto
a fare ammenda. Discutiamo l’argomento in sè.
L’esempio del pane da me citato pare al Bianchi uno stiracchiamento
polemico: a me invece sembra calzante. Io ho l’abitudine (non so se
è un pregio o un difetto) di cercare sempre esempi
elementari, semplici, direi anche grossolani, perchè essi
scartano tutti gli artifici retorici e mettono a nudo il nocciolo
delle questioni.
I mezzi per fare il pane sono indispensabili, quindi, dice il
Bianchi, sarebbe pazzia pensare alla loro distruzione anzichè
al loro perfezionamento. Ma il pane non è la sola cosa
indispensabile – io dico anzi che sarebbe molto difficile trovare
una qualsiasi istituzione attuale, anche fra le peggiori, anche le
galere, i lupanari, le caserme, i privilegi, i monopoli, che non
risponda direttamente o indirettamente ad un bisogno sociale e che
sia possibile distruggere realmente e permanentemente se non si
sostituisce con qualche cosa che soddisfi meglio il bisogno che l’ha
generata.
Non mi domandate, diceva un compagno, che cosa sostituiremo al
colera: questo è un male, ed il male bisogna distruggerlo e
non sostituirlo. È vero, ma il guaio è che il colera
perdura e ritorna se non si sostituiscono condizioni igieniche
migliori a quelle che permettono il sorgere ed il propagarsi
dell’infezione.
Il pane è una cosa necessaria, siamo d’accordo. Ma la
questione del pane è più complessa di quello che
può sembrare a chi vive in un piccolo centro agricolo e
magari produce egli stesso il grano necessario alla sua famiglia.
Fornire il pane a tutti e un problema che abbraccia tutta quanta
l’organizzazione sociale; il modo di possedere e di lavorare la
terra, i mezzi di scambio, i trasporti, l’importazione del grano se
quello che si produce nel paese è insufficiente, la
distribuzione tra i vari centri abitati e poscia tra i singoli
consumatori; vale a dire implica le soluzioni da dare alle questioni
della proprietà, del valore, della moneta, del commercio,
ecc. Oggi la produzione e la distribuzione del pane si fa in modo
che i lavoratori restano sfruttati ed umiliati, i consumatori
restano derubati, e a spese dei produttori e dei consumatori
prospera tutto un esercito di parassiti. Noi vogliamo invece che il
pane si produca e si distribuisca per il maggior bene di tutti,
senza sciupio di forze e di materiale, senza oppressione di alcuno,
senza parassitismi, con giustizia e con bontà; e dobbiamo
cercare il modo di realizzare la nostra aspirazione o quanto
più è possibile, in un dato momento, di quella nostra
aspirazione i nipoti faranno certamente meglio di noi; ma noi
dobbiamo fare come sappiamo e possiamo – e farlo subito, il giorno
stesso della crisi, poichè, se per l’interruzione del
servizio ferroviario, o le manovre dei padroni mugnai e fornai, o
l’occultamento del prodotti, i grandi centri venissero a mancare di
pane (e altre cose di prima necessità) la rivoluzione sarebbe
perduta e trionferebbe la reazione sotto forma di restaurazione, e
sotto forma di dittatura.
Distruggiamo i monopoli, d’accordo. Ma i monopoli, quando non siano
quelli dei bottoncini da camicia o del rossetto per le labbra di
certe signorine, i grossi monopoli (acqua, elettricità,
carbone, trasporti di terra e di mare, ecc.) rispondono sempre ad un
servizio pubblico necessario; e non si distruggono quei monopoli, o
se ne produce il sollecito ritorno, se nell’atto stesso che si
mandano via i monopolisti non si continua il servizio e,
possibilmente, in modo migliore di quello che avveniva sotto di
loro.
Bisogna abolire le galere, questi tetri luoghi di pena e di
corruzione dove, mentre i detenuti gemono, i guardiani si fanno il
cuore duro e diventano peggiori dei guardati: d’accordo. Ma quando
si scopre un satiro che stupra e strazia dei corpicini di povere
bimbe bisogna pur provvedere a metterlo in stato di non poter
nuocere, se non si vuole ch’egli faccia altre vittime e finisca poi
coll’essere linciato dalla folla. Ci penseranno i futuri? No,
dobbiamo pensarci noi, perchè questi fatti avvengono oggi Nel
futuro, speriamo, i progressi della scienza ed il mutato ambiente
sociale avranno rese impossibili quelle mostruosità.
Distruggere i lupanari, questa turpe vergogna umana, vergogna
più per chi ne sta fuori che per le disgraziate che vi stanno
dentro: certamente. Ma il lupanare si riformerà subito,
pubblico o clandestino, sempre che vi saranno donne che non trovano
lavoro adatto e vita conveniente. Quindi necessità di
un’organizzazione del lavoro in cui vi sia posto per tutti, e
un’organizzazione del consumo in modo che tutti possano soddisfare i
loro bisogni.
Abolire il gendarme, quest’uomo che protegge con la forza tutti i
privilegi ed è il simbolo vivente dello Stato:
d’accordissimo. Ma per potere abolirlo permanentemente e non vederlo
ricomparire sotto altro nome ed altra uniforme, occorre saper vivere
senza di esso, cioè senza violenza, senza sopraffazioni senza
ingiustizie, senza privilegi.
Abolire l’ignoranza: d’accordo. Ma evidentemente bisogna prima
istruire ed educare, e prima ancora creare condizioni sociali, che
permettano a tutti di profittare dell’educazione e dell’istruzione.
“Lasciare ai nepoti una terra senza privilegi, senza chiese, senza
tribunali, senza lupanari, senza caserme, senza ignoranza, senza
stolide paure”. Sì, questo è il nostro sogno e per
realizzare questo sogno noi combattiamo. Ma questo significa lasciar
loro una nuova organizzazione sociale, nuove e migliori condizioni
morali e materiali. Non si può sgomberare il terreno e
lasciarlo nudo, se su di esso debbono vivere degli uomini: non si
può distruggere il male senza sostituirvi il bene, o almeno
qualche cosa che sia meno male.
Non si tratta d’imporre niente ai nepoti. È da sperare,
ripeto, ch’essi faranno meglio di noi; ma noi dobbiamo fare oggi
quel che sappiamo e possiamo, per vivere noi, e per lasciare ai
nepoti qualche cosa di più che belle parole e vaporose
aspirazioni.
È uno stato d’animo che, malgrado molta propaganda in
contrario, persiste ancora in parecchi compagni e che, secondo me,
sarebbe urgente cambiare.
La convinzione, che è anche la mia, della necessità di
una rivoluzione per eliminare le forze materiali che stanno a
difendere il privilegio e ad impedire ogni reale progresso sociale,
ha fatto sì che molti han dato importanza esclusiva al fatto
insurrezionale senza pensare a quello che bisogna fare perchè
una insurrezione non resti uno sterile atto di violenza a cui poi
verrebbe a rispondere un altro atto di violenza reazionaria. Per
questi compagni tutte le questioni pratiche, le questioni di
organizzazione, il modo di provvedere al pane quotidiano sono oggi
questioni oziose: sono cose, essi dicono che si risolveranno da
sè, o le risolveranno i posteri.
Ricordo il 1920, quando ero incaricato della direzione di
"Umanità Nova". Era l’epoca in cui i socialisti cercavano
d’impedire la rivoluzione, e purtroppo vi riuscirono, dicendo che,
in caso di movimento insurrezionale, le comunicazioni coll’estero
sarebbero interrotte e che saremmo morti tutti di fame per mancanza
di grano: vi fu perfino chi disse che la rivoluzione non si poteva
fare perchè in Italia non si produce caucciù! Io,
preoccupato della questione essenziale dell’alimentazione e convinto
che la deficienza di grano si poteva compensare utilizzando tutte le
terre disponibili per la cultura di piante e semi nutritivi a rapido
sviluppo, pregai il nostro compagno dottor Giovanni Rossi, agronomo
provetto, di scrivere una serie di articoli con nozioni pratiche di
agricoltura dirette appunto allo scopo che avevamo in vista. Il
Rossi gentilmente lo fece. Era cosa evidentemente utilissima ma era
cosa pratica e perciò non piacque a tutti. Vi fu un compagno,
irritato perchè io gli avevo rifiutato l’inserzione non so
più se di una poesia o di una novella, il quale mi disse
bruscamente: “Già, tu preferisci che in "Umanità Nova"
si parli di aratri, di fagioli, di cavoli e simili sciocchezze!”
Ed un altro compagno, che la pretendeva allora a superanarchico,
tirava incoscientemente la conseguenza logica di quello stato
d’animo. Messo colle spalle al muro in una discussione, come quella
che facciamo adesso mi rispose: “Ma queste sono cose che non mi
riguardano. A provvedere il pane ed il resto ci debbono pensare i
dirigenti”.
E la conclusione è proprio questa: o alla riorganizzazione
sociale ci pensiamo tutti, ci pensano i lavoratori da loro stessi e
ci pensano subito, mano mano che vanno distruggendo il vecchio, e si
avrà una società più umana, più giusta,
più aperta ai progressi futuri; o ci penseranno “i dirigenti”
e avremo un nuovo governo, che farà quello che han fatto
sempre i governi, cioè farà pagare alla massa gli
scarsi e cattivi servizi che rende, togliendole la libertà e
lasciandola sfruttare da parassiti e privilegiati di tutte le
specie.
d. La sicurezza pubblica77
Il mio articolo del n. 10 Demoliamo e poi? ha lasciato perplesso
qualche compagno, forse perchè scuoteva delle vecchie
abitudini mentali, o forse piuttosto perchè io non sviluppai
abbastanza il mio pensiero e riuscii oscuro.
Cercherò di spiegarmi meglio.
C’è, per esempio, il compagno Salvatore Carrone il quale
immagina nientedimeno! ch’io, dopo o durante la rivoluzione, vorrei
conservare provvisoriamente gendarmi, tribunali, galere, e tutto
l’apparato repressivo dello Stato; e getta il suo grido d’allarme
contro questo che ci lascerebbe nel circolo vizioso: la reazione che
provoca la rivoluzione e la rivoluzione che sbocca in una nuova
reazione. E giustamente osserva che “la rivoluzione può
essere guidata da uomini di cuore, di buon senso e volenterosi di
fare il bene, ma a poco a poco attorno a questi buoni s’infiltrano
torbidi elementi che avendo una vasta rete d’accoliti sparsi nella
nazione, accerchiano i buoni e fatalmente li spodestano, o questi
per reggersi al potere tradiscono la rivoluzione, adoperando per la
bisogna appunto il gendarme, e il tribunale coi suoi accessori”.
Perfettamente d’accordo, ed io non ho mai detto cosa diversa.
Io dico che per abolire il gendarme e tutte le istituzioni sociali
malefiche bisogna sapere che cosa vogliamo sostituirvi, non in un
domani più o meno lontano, ma subito, il giorno stesso della
demolizione. Non si distrugge, realmente e permanentemente, se non
quello che si sostituisce; e rimandare a più tardi la
soluzione dei problemi che si presentano coll’urgenza della
necessità sarebbe dare alle istituzioni che si pretende
abolire il tempo di rifarsi della scossa ricevuta ed imporsi di
nuovo, forse con altri nomi, ma certo colla stessa sostanza.
Le nostre soluzioni potranno essere accettate da una parte
sufficiente della popolazione ed avremo fatto l’anarchia, o un passo
verso l’anarchia; o potranno non essere comprese ed accettate e
allora la nostra opera servirà per propaganda, e
poserà innanzi al grande pubblico il programma del prossimo
avvenire. Ma in ogni caso delle soluzioni nostre dobbiamo averle:
soluzioni provvisorie, rivedibili, e correggibili sempre al lume
dell’esperienza, ma necessarie se non vogliamo subire passivamente
le soluzioni degli altri, limitandoci alla poco proficua funzione di
brontoloni incapaci ed impotenti.
A proposito di gendarmi io citavo il caso del satiro e dicevo della
necessità di provvedere a metterlo nell’impossibilità
di nuocere.
Il Carrone sembra propendere per il linciaggio. È una
soluzione primitiva, selvaggia, che ripugna alla mentalità
moderna, ma è una soluzione; e varrebbe sempre meglio che la
beata fiducia che quelle cose, fatta la rivoluzione, non avverranno
più, o il magro espediente di rimandare il problema ai
nepoti. Senonchè avverrebbe come è sempre avvenuto in
casi simili (ed anche recentemente a Roma ed altrove) che la folla
irritata, commossa, non sapendo con chi prendersela, si scagli chi
sa su quanti poveri diavoli indicati al suo furore da donne rese
isteriche dallo sdegno e dalla paura. E allora la gente calma
invocherebbe l’intervento della polizia, di una qualsiasi polizia
professionale… che a sua volta molesterebbe molti innocenti e
d’abitudine non riuscirebbe a trovare il colpevole.
Che cosa bisognerebbe dunque fare?
Persuadere la gente che la sicurezza pubblica, la difesa della
incolumità e della libertà di ciascuno deve essere
affidata a tutti; che tutti debbono vigilare, che tutti debbono
mettere all’indice il prepotente ed intervenire in difesa del
debole, che i compaesani, i vicini, i compagni di lavoro debbono
all’occorrenza farsi giudici e, nei casi estremi, come quello in
discussione, affidare chi è riconosciuto colpevole alla
custodia ed alla cura di un manicomio, aperto sempre al controllo
del pubblico. Ed in ogni caso evitare che la difesa contro i
delinquenti diventi una professione e serva di pretesto alla
costituzione di tribunali permanenti e di corpi armati, che
diventerebbero presto strumenti di tirannide.
Ma insomma questa della delinquenza non è che una questione
secondaria, per quanto sia la prima che si affaccia alla mente di
coloro a cui si parla per la prima volta dell’inutilità e
della nocuità del governo. Nessuno pretenderà che
qualche satiro o qualche prepotente sanguinano possano arrestare il
corso della rivoluzione!
L’importante, l’immediatamente urgente è l’organizzazione
della vita materiale, la soddisfazione cioè dei bisogni
primordiali ed il lavoro che a quei bisogni deve provvedere.
Poichè quello che non riusciremo noi a fare ed a far fare con
metodi nostri sarà fatto necessariamente da altri con metodi
autoritari.
L’anarchia non si realizzerà se non quando si saprà
vivere senza autorità, ed in quelle proporzioni in cui si
riuscirà a fare a meno dell’autorità.
Ma ciò non vuoi dire che bisogna, come il Carrone pensa o
crede ch’io pensi, “aiutare in caso di rivoluzione il partito
più affine colla speranza che questo faccia meno reazione
durante l’opera nostra di sostituire il bene al male”.
Noi possiamo avere rapporti di cooperazione coi partiti non
anarchici finché abbiamo con loro un nemico comune da
combattere e che non potremmo abbattere da soli; ma dal momento che
un partito va al potere e diventa governo, noi non possiamo avere
con lui che rapporti di nemico a nemico.
Certamente noi abbiamo interesse, finchè esiste un governo,
che questo sia il meno oppressivo, cioè il meno governo
possibile. Ma la libertà, anche una libertà relativa,
non si ottiene da un governo aiutandolo. Si ottiene solo facendogli
sentire il pericolo di troppo comprimere.
4. IL RUOLO DEL MOVIMENTO ANARCHICO
a. Revisionismo anarchico?78
...Premetto che di “atti di contrizione” non ne ho fatto alcuno. Io
potrei facilmente documentare che quello che dico adesso sono andato
dicendolo da anni; e se ora v’insisto di più ed altri vi fa
più attenzione di prima si è perchè i tempi
sono più maturi, in quanto l’esperienza ha persuasi molti, i
quali prima si pascevano di quel beato ottimismo kropotkiniano, che
io solevo chiamare “provvidenzialismo ateo”, a scendere dalle nuvole
e tener calcolo delle cose quali sono, tanto differenti da quelle
che si vorrebbe che fossero.
Ma lasciamo questi ricordi storici d’interesse personale, e veniamo
alla questione generale ed attuale.
Noi di questa rivista, al pari di altri compagni in altre
pubblicazioni nostre, non abbiamo per nulla preteso di avere bella e
pronta la soluzione infallibile ed universale di tutti i problemi
che ci si affacciano alla mente; ma, riconosciuta la
necessità di un programma pratico, adattabile alle varie
circostanze che possono presentarsi nello svolgersi della vita
sociale prima, durante e dopo la rivoluzione, abbiamo invitato tutti
i compagni che hanno delle idee da esporre e delle proposte da fare
a concorrere alla elaborazione di detto programma. Quindi, quelli
che trovano che tutto è andato bene finora e che bisogna
continuare come per il passato, non hanno che da difendere il loro
punto di vista; mentre gli altri che d’accordo con noi pensano che
bisogna prepararsi intellettualmente e materialmente alla funzione
pratica spettante agli anarchici, anzichè aspettare
passivamente il verbo nostro dovrebbero cercare di dare essi stessi
il loro contributo al dibattito che li interessa.
Per conto mio, io credo che non vi sia “una soluzione” ai problemi
sociali, ma mille soluzioni diverse e variabili, come è
diversa e variabile, nel tempo e nello spazio, la vita sociale.
In fondo, tutte le intuizioni, tutti i progetti, tutte le utopie
sarebbero egualmente buone a risolvere il problema, cioè a
contentar la gente, se tutti gli uomini avessero gli stessi desideri
e le stesse opinioni e si trovassero nelle stesse condizioni. Ma
questa unanimità di pensiero e questa identità di
condizioni sono impossibili e a dir vero non sarebbero nemmeno
desiderabili; e perciò nella nostra condotta attuale e nel
nostro progetto d’avvenire dobbiamo tener presente che non viviamo,
e non vivremo neppure domani in un mondo popolato da soli anarchici:
invece siamo e saremo ancora per lungo tempo una minoranza
relativamente piccola. Isolarsi non è generalmente possibile,
e qualora lo fosse sarebbe a detrimento della missione che ci siamo
dati, nonchè del nostro benessere personale. Bisogna dunque
trovare il modo di vivere in mezzo ai non anarchici nel modo il
più anarchico possibile e con il maggior vantaggio possibile
per la propaganda e per l’attuazione delle nostre idee.
Noi vogliamo fare la rivoluzione, perchè crediamo nella
necessità di un cambiamento radicale, che non può
essere pacifico a causa della resistenza dei poteri costituiti,
negli ordinamenti politici ed economici vigenti per creare un nuovo
ambiente sociale che renda possibile quell’elevamento morale e
materiale delle masse che la propaganda, l’educazione, è
impotente a produrre nelle circostanze attuali, ma non potremmo fare
una rivoluzione esclusivamente “nostra” appunto perchè siamo
piccola minoranza, perchè non abbiamo il consenso delle masse
e non vorremmo, anche potendolo, imporre con la forza la
volontà nostra per non andare contro i fini che ci
proponiamo. Dunque, per uscire dal circolo vizioso, dobbiamo
contentarci di fare una rivoluzione il più “nostra” che sia
possibile, favorendo e partecipando, moralmente e materialmente, ad
ogni movimento diretto nel senso della giustizia e della
libertà e maggiore giustizia. E questo non significa
“accodarci” agli altri partiti, ma spingerli avanti e mettere le
masse in presenza dei vari metodi affinché possano giudicare
e scegliere. Potremo essere abbandonati, traditi, come ci è
avvenuto altre volte; ma bisogna ben correrne il rischio se non si
vuoi restare praticamente inattivi e rinunziare ad apportare la
forza delle nostre idee e della nostra azione nel corso della
storia.
Altra osservazione... Il socialismo nel senso largo; della parola,
l’aspirazione al socialismo si presenta quale problema di
distribuzione in quanto è lo spettacolo della miseria dei
lavoratori di fronte all’agiatezza ed al lusso dei parassiti e la
rivolta morale contro la patente ingiustizia sociale che hanno
spinto i sofferenti e tutti gli uomini di cuore a ricercare ed
immaginare dei modi migliori di convivenza sociale. Ma la
realizzazione del socialismo – sia esso anarchico o autoritario,
mutualista o individualista, ecc. – è eminentemente problema
di produzione. Quando la roba non c’è, è vano cercare
il miglior modo di distribuirla, e se gli uomini sono ridotti a
contendersi il tozzo di pane, i sentimenti di amore e di fratellanza
si trovano in gran pericolo di cedere il passo alla lotta brutale
per la vita.
Oggi fortunatamente i mezzi di produzione abbondano. La meccanica,
la chimica, l’agraria, ecc, hanno centuplicata la potenza produttiva
del lavoro umano. Ma bisogna lavorare, e per lavorare utilmente
bisogna sapere: sapere come si deve lavorare e come si può
economicamente organizzare il lavoro.
Se gli anarchici vogliono agire efficacemente fra la concorrenza dei
diversi partiti bisogna che si approfondiscano, ciascuno nel ramo in
cui si sente più adatto, nello studio di tutti i problemi
teorici e pratici del lavoro utile.
Ancora. Noi non siamo più in tempi ed in paesi in cui bastava
ad una famiglia un pezzo di terra, una vanga, un pugno di semi, una
vacca ed un po’ di galline per vivere soddisfatta. Oggi i bisogni si
sono moltiplicati e complicati in modo enorme. L’ineguale
distribuzione naturale delle materie prime obbliga ogni
agglomerazione d’uomini ad avere rapporti internazionali. La stessa
densità della popolazione rende, nonchè miserabile,
assolutamente impossibile la vita dell’eremita, se fossero molti ad
avere di quei gusti.
Noi abbiamo bisogno di ricevere i prodotti di tutto il globo, noi
vogliamo la scuola, la ferrovia, la posta, il telegrafo, il teatro,
la pubblica igiene, il libro, il giornale, ecc.
Tutto questo, che è il frutto della civiltà, bene o
male funziona: funziona a vantaggio principalmente delle classi
privilegiate, ma funziona; ed i benefici possono con relativa
facilità essere estesi a tutti, quando fosse abolito il
monopolio della ricchezza e del potere.
Vogliamo noi distruggerlo?
O siamo in grado di organizzarlo subito in modo migliore?
La vita sociale, specialmente la vita economica non ammette
interruzione. Bisogna mangiare ogni giorno, bisogna ogni giorno
alimentare i fanciulli, i malati, gl’impotenti; e vi sarebbe anche
chi dopo aver fatto le schioppettate durante la giornata vorrebbe la
sera andare al cinema. Per provvedere a questi bisogni improrogabili
– lasciamo stare il cinema – vi è tutta un’organizzazione
commerciale, che compie male, ma in qualche modo compie la sua
funzione. Bisogna evidentemente utilizzarla, togliendole quanto
più è possibile del suo carattere sfruttatore ed
accaparratore.
È tempo di finirla con quella retorica – poichè non si
tratta che di retorica – che voleva compendiare tutto il programma
anarchico nel famoso “demoliamo”.
Demoliamo, sì, o cerchiamo di demolire, ogni tirannia, ogni
privilegio. Ricordiamoci però, che governo e capitalismo sono
solamente delle superstrutture che tendono a restringere i benefizi
della civiltà ad un piccolo numero d’individui, e che per
abolirli non occorre rinunziare a nessuno dei prodotti dell’ingegno
e del lavoro umano. E quindi è ben più quello che
bisogna conservare di quello che bisogna distruggere.
In quanto a noi non dobbiamo distruggere se non quello che possiamo
sostituire con cosa migliore. Ed intanto lavorare in tutti i rami
per migliorarci e migliorare: rifiutandoci s’intende ad accettare ed
esercitare qualunque funzione coercitiva.
Ho gettato giù qualche osservazione. Altre ne farò
quando capiterà l’occasione.
I compagni le tengano nel conto che credono, e se pare loro che ne
valga la pena, ne facciano argomento di discussione.
Ma per carità, non aspettino da noi la formula magica.
Noi non siamo e non vogliamo parere dei padri eterni.
b. La funzione degli anarchici79
Vi è in una sezione del nostro movimento un gran fervore di
discussioni sui problemi pratici che la rivoluzione dovrà
risolvere.
Ed è questo un gran bene e di ottimo augurio, anche se le
soluzioni proposte finora non sono nè abbondanti nè
soddisfacenti.
È passato il tempo in cui si pensava che l’insurrezione
bastasse a tutto, e che una volta vinti l’esercito e la polizia ed
abbattuti tutti i poteri costituiti, il resto, che era poi
l’essenziale, verrebbe da sè.
Siamo dunque d’accordo nel pensare che oltre il problema di
assicurare la vittoria contro le forze materiali dell’avversario vi
è anche il problema di far vivere la rivoluzione dopo la
vittoria. Siamo d’accordo che una rivoluzione la quale producesse il
caos non sarebbe vitale.
Ma non bisogna esagerare: non bisogna credere che noi si debba e si
possa fin d’ora trovare una soluzione ideale per tutti i possibili
problemi. Non bisogna voler troppo prevedere e troppo determinare,
altrimenti invece di preparare l’anarchia faremmo dei sogni
irrealizzabili oppure cadremmo nell’autoritarismo e, coscientemente
o no, ci proporremmo di agire come un governo che in nome della
libertà e della volontà popolare sottopone il popolo
al proprio dominio.
Mi accade infatti di leggere le più strane cose: strane se si
considera che sono scritte da anarchici.
Un compagno, ad esempio, dice che “le folle avrebbero ragione
d’inveire contro di noi se dopo di averle invitate ai dolorosissimi
sacrifici di una rivoluzione si dicesse loro: fate ciò che la
volontà vi suggerisce, raggruppatevi, producete convivete
come meglio vi aggrada”.
Ma come! non abbiamo noi sempre detto alle folle che non debbono
aspettarsi il bene nè da noi nè da altri, che il bene
debbono conquistarselo da loro stesse e che avranno solo quello che
sapranno prendere e conserveranno solo quello che sapranno
difendere? È giusto e naturale che noi, iniziatori e
propulsori e parte della massa noi stessi, dobbiamo cercare di
spingere il movimento nella direzione che ci sembra migliore e
perciò essere preparati il più possibile per le cose
che si debbono fare, ma resta sempre fondamentale il principio che
la decisione spetta alla libera volontà degli interessati.
Leggo pure: “Creeremo un regime che se non sia del tutto libertario
abbia l’impronta nostra e soprattutto dia adito alla progressiva
attuazione dei nostri postulati”.
Che cosa è questo? Un piccolo governo, bono bono, che
avrà cura di suicidarsi al più presto per far luogo
all’anarchia!!!
Ma non eravamo già d’accordo nel pensare che ogni governo ha
tendenza non a suicidarsi, ma a perpetuarsi e diventare sempre
più dispotico, e che missione degli anarchici è quella
di combattere, anche se obbligati a subirlo, qualunque regime non
fondato sulla libertà piena e intera? E non dicevamo anche
che gli anarchici al potere non potrebbero fare diversamente dagli
altri?
Un altro compagno, tra quelli che più si preoccupano della
necessità di avere un “piano” e che in sostanza non spera che
nei sindacati operai, dice:
“A rivoluzione trionfata, si affidi alla classe lavoratrice –
già da noi precedentemente educata a questa grande funzione
sociale – la gestione di tutti i mezzi di produzione, di trasporto,
di scambio, ecc.”.
Già da noi precedentemente educata a questa grande funzione
sociale! Ma tra quanti secoli quel compagno vuol fare la invocata
rivoluzione? E almeno bastassero i secoli! Ma il fatto è che
non si educa la massa se essa non si trova nella possibilità
e nella necessità di fare da sè, e che
l’organizzazione rivoluzionaria dei lavoratori, utile e necessaria
finchè si vuole, non può estendersi e durare
indefinitamente: arrivata ad un certo punto, se non sbocca
nell’azione rivoluzionaria, o il governo la strozza, o essa da se
stessa si corrompe o si sfascia – e bisogna ricominciare da capo.
Come è vero che gli uomini “pratici” sono spesso i più
ingenui utopisti!
Ma tutta questa discussione non saprebbe forse alquanto di accademia
se nel caso concreto si trattasse di un paese in cui la libera
organizzazione dei lavoratori è distrutta ed interdetta, la
libertà di stampa, di riunione, di associazione soppresse ed
i propagandisti anarchici, socialisti, comunisti, repubblicani sono
o rifugiati all’estero, o relegati nelle isole, o chiusi in
prigione, o messi altrimenti in condizioni di non poter nè
parlare, nè muoversi e quasi neppure respirare?
Si può ragionevolmente sperare che il prossimo rivolgimento,
in un paese ridotto nelle condizioni descritte, sarà la
rivoluzione sociale in tutto il senso ampio e profondo che noi diamo
alla parola? Non sembra che oggi il possibile e l’urgente sia
piuttosto la riconquista delle condizioni necessarie alla propaganda
e all’organizzazione?
A me sembra che la ragione per cui si veggono tante
difficoltà e si cade in tante incertezze e contraddizioni si
è che o si vuole fare l’anarchia senza anarchici, o
perchè si crede che la propaganda basti a convertire
all’anarchia tutta o gran parte della popolazione prima che le
condizioni ambientali siano radicalmente mutate.
Vi è chi suol dire che “la rivoluzione sarà anarchica
o non sarà”. Ancora una di quelle frasi d’effetto che
guardate in fondo o non dicono nulla o dicono uno sproposito.
Infatti, se s’intende dire che la rivoluzione quale la vorremmo noi
deve essere anarchica, si fa una vera tautologia, cioè un
giro di parole che non spiega nulla, come se si dicesse, per
esempio, la carta bianca deve essere bianca. Se poi s’intende dire
che non vi può essere altra rivoluzione che quella anarchica,
allora si dice uno sproposito perchè vi sono stati e
certamente vi saranno ancora nella vita delle società umane
dei movimenti che, cambiando radicalmente le condizioni esistenti
danno una nuova direzione alla storia successiva, e perciò
meritano il nome di rivoluzioni. Ed io non saprei ammettere che
tutte le rivoluzioni passate pur non essendo anarchiche siano state
inutili, nè che saranno inutili quelle future che non saranno
ancora anarchiche. Anzi inclino a credere che il trionfo completo
dell’anarchia, piuttosto che per rivoluzione violenta, verrà
per evoluzione, gradualmente, quando una precedente o delle
precedenti rivoluzioni avranno distrutti i più grossi
ostacoli militari ed economici, che si oppongono allo sviluppo
morale delle popolazioni, all’aumento della produzione fino al
livello dei bisogni e dei desideri e all’armonizzazione
degl’interessi contrastanti.
In ogni modo, se teniamo conto delle nostre scarse forze e delle
disposizioni prevalenti tra le masse e se non vogliamo prendere per
realtà i nostri desideri, dobbiamo aspettarci che la
prossima, forse imminente, rivoluzione non sarà anarchica, e
perciò quello che più urge è di pensare a
quello che possiamo e dobbiamo fare in una rivoluzione in cui non
saremo che una minoranza relativamente piccola e mal armata.
Alcuni compagni, forse suggestionati ancora dalle vanterie
socialiste e dalle illusioni che fece nascere la rivoluzione russa,
credono che il compito degli autoritari sia più facile del
nostro perchè essi hanno un “piano”; impossessarsi del potere
e imporre con la forza i loro sistemi.
Ciò non è vero. Il desiderio di afferrare il potere
socialisti e comunisti ce l’hanno certamente, ed in date circostanze
possono riuscirci. Ma i più intelligenti tra loro sanno bene
che stando al potere potrebbero bensì tiranneggiare il popolo
e sottoporlo ad esperimenti capricciosi e pericolosi, potrebbero
sostituire alla borghesia attuale una nuova classe privilegiata, ma
il socialismo non potrebbero farlo, il “piano” non potrebbero
applicarlo. Come si può mai distruggere una società
millenaria e fondare una nuova e migliore società con decreti
fatti da pochi uomini ed imposti colle baionette! Ed è questa
la ragione onesta (delle altre meno confessabili ragioni non voglio
occuparmi) è questa la ragione onesta per la quale in Italia
socialisti e comunisti negarono il loro concorso ed impedirono la
rivoluzione quando c’era la possibilità di farla. Essi
sentivano che non avrebbero potuto dominare la situazione ed
avrebbero dovuto o lasciar libero il campo agli anarchici o farsi
strumenti della reazione. Nei paesi poi dove al potere ci sono
andati si sa quello che hanno fatto.
Il compito nostro, se solamente avessimo la forza materiale per
sbarazzarci della forza materiale che ci opprime, sarebbe di molto
più facile, perchè noi non pretendiamo dalla massa se
non quello che la massa è capace e vogliosa di fare,
limitandoci a fare tutto quello che possiamo per svilupparne la
capacità e la volontà.
Dobbiamo guardarci però dal diventare noi stessi meno
anarchici perchè la massa non è capace d’anarchia. Se
la massa vorrà un governo, noi probabilmente non potremo
impedire che un nuovo governo si formi, ma non dovremo meno per
questo fare il possibile per persuadere la gente che il governo
è inutile e dannoso e per impedire che il nuovo governo
s’imponga anche a noi ed a quelli che non lo vogliono. Noi dovremo
adoperarci perchè la vita sociale, e specialmente la vita
economica, continui e migliori senza l’intervento del governo, e
perciò dobbiamo essere preparati il più possibile pei
problemi pratici della produzione e della distribuzione,
ricordandoci d’altronde che i più adatti ad organizzare il
lavoro sono quelli che lo fanno, ciascuno nel proprio mestiere.
Noi dovremo cercare di essere parte attiva, e se possibile
preponderante, nell’atto insurrezionale. Ma, abbattute le forze
repressive che servono a tenere il popolo nella schiavitù,
disfatti l’esercito, la polizia, la magistratura, ecc., armata tutta
la popolazione perchè possa opporsi ad ogni ritorno offensivo
della reazione, indotti i volonterosi a prendere in mano
l’organizzazione della cosa pubblica ed a provvedere, con criteri di
giustizia distributiva, ai bisogni più urgenti servendosi con
parsimonia delle ricchezze esistenti nelle varie località,
dovremo adoperarci perchè si eviti ogni sperpero e si
rispettino e si utilizzino quelle istituzioni, quei costumi, quelle
abitudini, quei sistemi di produzione, di scambi, d’assistenza che
compiono, sia pure in modo insufficiente e cattivo, delle funzioni
necessarie, cercando bensì di far sparire ogni traccia di
privilegio, ma guardandoci dal distruggere ciò che non si
può ancora sostituire con qualche cosa che risponda meglio al
bene di tutti. Spingere gli operai ad impossessarsi delle fabbriche,
federarsi tra loro e lavorare per conto delle collettività, e
così spingere i contadini ad impossessarsi delle terre e dei
prodotti usurpati dai signori ed intendersi cogli operai pei
necessari scambi.
Se non potremo impedire la costituzione di un nuovo governo, se non
potremo abbatterlo subito, dovremo in tutti i casi negargli ogni
concorso. Negare il servizio militare, negare il pagamento delle
imposte. Non ubbidire per principio, resistere fino all’ultima
estremità ad ogni imposizione delle autorità e
rifiutarsi assolutamente ad accettare qualunque posto di comando.
Se non potremo abbattere il capitalismo, dovremo esigere per noi e
per tutti quelli che vogliono il diritto all’uso gratuito dei mezzi
di produzione necessari per una vita indipendente.
Consigliare quando avremo consigli da dare, insegnare se sappiamo
più degli altri; dar l’esempio della vita per libero accordo;
difendere, anche colla forza, se è necessario e se è
possibile, la nostra autonomia contro qualunque pretesa governativa…
ma comandare mai.
Così non faremo l’anarchia, perchè l’anarchia non si
fa contro la volontà della gente, ma almeno la prepareremo.
e. La libera sperimentazione80
La presente, incerta, tormentata, instabile situazione
politico-sociale dell’Europa e del mondo, che dà luogo a
tutte le speranze ed a tutti i timori, rende più che mai
urgente il bisogno di tenersi pronti per i più o meno
prossimi, ma immancabili rivolgimenti. E perciò si ravviva la
discussione, del resto sempre attuale, del modo come adattare le
nostre aspirazioni ideali alla realtà contingente dei vari
paesi, e passare dalla predicazione ideale alla pratica
realizzazione.
E, come è naturale in un movimento quale è il nostro,
che non riconosce autorità di uomini e di testi ed è
tutto fondato sulla libera critica, varie sono le opinioni e varia
la tattica seguita.
Così, alcuni dedicano tutta la loro attività a
perfezionare e predicare l’ideale, senza poi troppo guardare se sono
compresi e seguiti e se quell’ideale sia o non applicabile nello
stato attuale della mentalità popolare e delle esistenti
risorse materiali Essi, più o meno esplicitamente ed in gradi
che variano da persona a persona, restringono il compito degli
anarchici, oggi alla demolizione degli attuali istituti oppressivi e
repressivi, domani alla vigile sorveglianza contro il costituirsi di
nuovi governi e nuovi privilegi, trascurando tutto il resto, che
è poi il grave, ineluttabile ed improrogabile problema della
riorganizzazione sociale sopra basi libertarie. Essi credono, per
quel che riguarda i problemi di ricostruzione, che tutto si accomodi
da sè, spontaneamente, senza preparazione precedente e senza
piani prestabiliti, grazie ad una mitica capacità creativa
della massa, o in forza di una pretesa legge naturale per la quale,
non appena eliminata la violenza statale ed il privilegio
capitalistico, gli uomini diventerebbero tutti buoni ed
intelligenti, sparirebbero subito gli antagonismi d’interessi, e
l’abbondanza, la pace, l’armonia regnerebbero sovrane nel mondo.
Altri invece, animati soprattutto dal desiderio di essere, o
sembrare pratici, preoccupati dalle prevedibili difficoltà
della situazione all’indomani della rivoluzione, consci della
necessità di conquistare l’adesione del grosso pubblico, o
almeno di vincerne le ostili prevenzioni causate dall’ignoranza dei
nostri propositi, vorrebbero formulare un programma, un piano
completo di riorganizzazione sociale, che rispondesse a tutte le
difficoltà e potesse soddisfare quelli che, con frase
tradotta dall’inglese, han preso a chiamare “l’uomo della strada”,
cioè l’uomo qualunque che non ha partito preso, non ha idee
determinate, giudica a volta a volta secondo che è ispirato
dalle passioni e dagli interessi del momento.
Da parte mia, credo che gli uni e gli altri hanno la loro parte di
ragione e la loro parte di torto; e che, se non fosse la malaugurata
tendenza all’esagerazione ed all’esclusivismo, le due opinioni
potrebbero contemperarsi e completarsi l’una con l’altra per
adeguare la nostra condotta alle esigenze dell’ideale ed alle
necessità della situazione, e raggiungere così la
massima efficienza pratica, pur restando strettamente fedeli al
nostro programma di libertà e giustizia integrali.
Negligere tutti i problemi di ricostruzione, o prestabilire piani
completi ed uniformi sono due errori, due eccessi, che per vie
diverse menerebbero alla nostra sconfitta in quanto anarchici ed al
trionfo di nuovi o vecchi regimi autoritari. La verità sta
nel mezzo.
È assurdo il credere che, abbattuti i governi ed espropriati
i capitalisti, “le cose si accomoderanno da sè”, senza
l’azione di uomini che abbiano un’idea preconcetta sul da farsi e si
mettano subito all’opera per farlo. Forse ciò potrebbe
accadere – e magari sarebbe preferibile che così accadesse –
se si avesse tempo di aspettare che la gente, tutta la gente,
trovasse modo, provando e riprovando, di soddisfare nel miglior modo
i propri bisogni e i propri gusti, d’accordo con i bisogni e con i
gusti degli altri. Ma la vita della società, come la vita
degli individui, non ammette interruzioni. L’indomani immediato
della rivoluzione, anzi il giorno stesso dell’insurrezione, bisogna
provvedere all’alimentazione ed agli altri bisogni urgenti della
popolazione, e quindi occorre assicurare la continuazione della
produzione necessaria (pane, ecc.), il funzionamento dei principali
servizi pubblici (acqua, trasporti, elettricità, ecc.) e lo
scambio ininterrotto tra le città e le campagne.
Più tardi le maggiori difficoltà spariranno: il lavoro
organizzato direttamente da coloro che realmente lavorano
diventerà facile ed attraente; l’abbondanza della produzione
renderà inutile ogni calcolo sul rapporto tra prodotti fatti
e prodotti consumati e ciascuno potrà davvero “prendere nel
mucchio” quello che gli piace; le mostruose agglomerazioni cittadine
si dissolveranno, la popolazione si distribuirà razionalmente
su tutto il territorio abitabile, ed ogni località, ogni
raggruppamento, pur conservando ed aumentando a benefizio di tutti
tutte le comodità fornite dalle grandi imprese industriali e
pur restando legato a tutta l’umanità per sentimento di
simpatia e di solidarietà umane, potrà in generale
bastare a sè stesso e non essere afflitto dalle opprimenti e
dispendiose complicazioni della vita economica attuale. Ma queste, e
mille altre belle cose che si possono immaginare, riguardano
l’avvenire, mentre ora urge pensare al modo di vivere oggi, nella
situazione che la storia ci ha tramandata e che la rivoluzione,
cioè un atto di forza, non potrà cambiare
radicalmente, da un giorno all’altro, come con un colpo di bacchetta
magica. E poichè, bene o male, bisogna vivere, se noi non
sapremo o non potremo fare il necessario, lo faranno altri con scopi
e risultati opposti a quelli a cui miriamo noi.
Non bisogna trascurare “l’uomo della strada”, che è poi in
tutti i paesi la grande maggioranza della popolazione, e senza il
cui concorso non v’è emancipazione possibile; ma non bisogna
neppure fare troppo affidamento sulla sua intelligenza e sulla sua
capacità d’iniziativa.
L’uomo ordinario, “l’uomo della strada”, ha molte ottime
qualità, ha immense potenzialità che danno sicura
speranza ch’esso potrà un giorno formare l’umanità
ideale che noi vagheggiamo; ma esso ha intanto un grave difetto che
spiega in gran parte il sorgere ed il persistere delle tirannie:
esso non ama pensare, ed anche nei suoi conati di emancipazione
segue sempre più volentieri chi gli risparmia la fatica di
pensare e prende su di sè la responsabilità di
organizzare, dirigere… e comandare. Esso, purchè non lo si
disturbi troppo nelle sue abitudini, è soddisfatto se altri
pensa per lui e gli dice quello che deve fare anche se a lui non
resta che il dovere di lavorare e di ubbidire.
Questa debolezza, questa tendenza della folla ad aspettare e seguire
gli ordini di chi si mette alla sua testa, ha mandato a male tante
rivoluzioni e continua ad essere il pericolo che minaccia le
rivoluzioni prossime future.
Se la folla non fa da sè e subito, bisogna bene che
provvedano al necessario gli uomini di buona volontà, capaci
di iniziativa e di decisione. Ed è in questo, cioè nel
modo di provvedere alle necessità urgenti, che dobbiamo
distinguerci nettamente dai partiti autoritari.
Gli autoritari intendono risolvere la questione costituendosi in
governo ed imponendo colla forza il loro programma. Essi possono
anche essere in buona fede e credere sinceramente di fare il bene di
tutti, ma in realtà, ostacolando la libera azione popolare,
non riuscirebbero ad altro che a creare una nuova classe
privilegiata interessata a sostenere il nuovo governo, ed in
sostanza a sostituire una tirannia con un’altra.
Gli anarchici devono bensì sforzarsi di rendere il meno
faticoso possibile il passaggio dallo stato di servitù a
quello di libertà, fornendo al pubblico il più
possibile d’idee pratiche ed immediatamente applicabili, ma debbono
guardarsi bene dall’incoraggiare quell’inerzia intellettuale e
quella tendenza a lasciare fare agli altri ed ubbidire, che abbiamo
lamentate.
La rivoluzione, per riuscire veramente emancipatrice, dovrà
svolgersi liberamente in mille modi diversi, corrispondenti alle
mille diverse condizioni morali e materiali degli uomini d’oggi per
la libera iniziativa di tutti e di ciascuno. E noi dovremo suggerire
e realizzare il più possibile quei modi di vita che meglio
corrispondono ai nostri ideali, ma soprattutto dobbiamo sforzarci di
suscitare nelle masse lo spirito d’iniziativa e l’abitudine di fare
da sè.
Noi dobbiamo evitare anche le apparenze del comando, ed agire colla
parola e con l’esempio come compagni tra compagni; e ricordandoci
che a voler troppo forzare le cose nel senso nostro e far trionfare
i nostri piani, correremmo il rischio di tarpare le ali alla
rivoluzione ed assumere noi stessi, più o meno
inconsciamente, quella funzione di governo, che tanto deprechiamo
negli altri.
E come governo noi non varremmo certamente meglio degli altri. Forse
anche saremmo più pericolosi per la libertà,
perchè convinti fortemente di aver ragione e di fare il bene,
saremmo inclini, da veri fanatici, a considerare quali
contro-rivoluzionari e nemici del bene tutti quelli che non
pensassero ed agissero come noi.
Chè se poi quello che gli altri fanno non fosse quello che
vorremmo noi, la cosa non avrebbe importanza, sempre che fosse
salvaguardata la libertà di tutti. Ciò che veramente
importa è che la gente faccia come vuole, perchè non
vi sono conquiste assicurate se non quelle che il popolo fa coi
propri sforzi, non vi sono riforme definitive se non quelle
reclamate ed imposte dalla coscienza popolare.