Avvertenza alla prima edizione
Le pagine seguenti trovansi a far da preambolo ad una serie di
opuscoli, direi quasi per caso.
Le scrissi fin dal 7 di aprile (e tal data conviene che serbino,
perché in questa stampa nulla vi aggiungo e nulla ne
tolgo), a richiesta di una nuova rivista di Parigi, il “Devenir
Social”, che comincerà a pubblicarle in un dei suoi
prossimi fascicoli.
Ebbe voglia di leggerle, nell'originale italiano, il mio cortese
amico Benedetto Croce di Napoli, il quale mi chiese gli
permettessi di darle alle stampe, come primo di quei saggi intorno
alla concezione materialistica della storia, che egli già
da gran tempo, per la conoscenza che ha dei miei studii e delle
mie opinioni su tale argomento, mi consigliava di pubblicare.
Per tale offerta, che accettai con animo grato, io mi trovo ora
nell'impegno di continuare, senza soverchio indugio, e a non
lunghi intervalli, la pubblicazione di questi saggi. Così
che anticiperò di un anno su quello che avrei avuto in
animo di fare, se appunto la gentile offerta di un amico, fattosi
per cotal modo mio spontaneo editore, non mi avesse indotto a
passar sopra a certe difficoltà che nascevano in me dal
sentirmi non del tutto maturo all'impresa.
Roma, 10 giugno 1895
Avvertenza alla seconda edizione.
Nel rivedere la stampa di questa seconda edizione, che vien fuori
a così breve distanza dalla prima, io mi son ristretto a
portarvi alcune poche correzioni di sola e pura forma.
Roma, 15 ottobre 1895.
Avvertenza alla terza edizione.
Serbo a quest'opuscolo, come il lettore può vedere in fine,
la data del 7 aprile 1895, quando appunto finii di scriverlo, per
darlo a pubblicare per la prima volta in francese nel "Devenir
Social". Da quella primitiva redazione non mi dilungai di molto
nelle due edizioni italiane, che vennero fuori a breve distanza
l'una dall'altra, quell'anno stesso, dal 10 di giugno al 15 di
ottobre, e nella riproduzione francese apparsa ben due volte
presso gli editori Giard et Brière.
Ora all'editore italiano occorrono esemplari, così di
questo come degli altri miei Saggi sul materialismo storico: ed io
acconsento che essi siano via via ristampati, non potendo io
né rivederli a fondo, né rimaneggiarli
nell'intrinseco, per molte ragioni, ma soprattutto per questa, che
a me pare che siano lavori da lasciare proprio così come
furono concepiti la prima volta.
Questa terza edizione di questa commemorazione non è,
dunque, salvo alcune correzioni nelle parole e nel giro di qualche
frase, se non la ristampa della seconda. Il lettore rimanga di
ciò inteso. Riportandosi alla data della prima
pubblicazione potrà facilmente identificare certe allusioni
storiche, e non vorrà prendere abbaglio nel sentir parlare
insistentemente di questo secolo... che era poi il decimonono.
Ho aggiunto a questa ristampa la traduzione del Manifesto, che fu
chiesta da molti recensenti delle altre due edizioni del mio
scritto, il quale parve non del tutto intelligibile, per la
mancanza appunto di tale sussidio.
Roma, 9 maggio 1902.
Di qui a tre anni noi socialisti potremo celebrare il nostro
giubileo. La data memorabile della pubblicazione del Manifesto dei comunisti
(febbraio 1848) ci ricorda il nostro primo e sicuro ingresso nella
storia. A quella data si riferisce ogni nostro giudizio ed ogni
nostro apprezzamento su i progressi, che il proletariato è
andato facendo in questo cinquantennio. A quella data si misura il
corso della nuova èra, la quale sboccia e sorge, anzi si
sprigiona e sviluppa dall'èra presente, per formazione a
questa stessa intima ed immanente, e perciò in modo
necessario e ineluttabile; quali che sian per essere le vicende
varie e le successive fasi sue, per ora di certo imprevedibili. A
tutti quelli fra noi, cui prema e giovi di possedere la piena
consapevolezza dell'opera propria, occorre di tornare più
volte col pensiero su le cause e su i moventi, che determinarono
la genesi del Manifesto,
in quelle circostanze in cui esso per l'appunto apparve, e
cioè alla vigilia della rivoluzione, che scoppiò da
Parigi a Vienna, da Palermo a Berlino. Soltanto per cotesta via ci
è dato di trarre dalla stessa forma sociale, nella quale
ora noi viviamo, la spiegazione della tendenza al socialismo; e di
giustificare in conseguenza, per la stessa presente ragion
d'essere di tale tendenza, la necessità del suo effettivo
trionfo, del quale facciamo tuttodì il presagio.
Quale è, in fatti, se non questo, il nerbo del Manifesto; o la sua essenza,
e il suo carattere decisivo?
Sarebbe cosa vana, invero, il voler ciò ricercare invece
nelle misure pratiche, che ivi son suggerite e proposte in fine
del Capo secondo, come adottabili nella eventualità di un
successo rivoluzionario del proletariato, o nelle indicazioni di
orientamento politico, rispetto agli altri partiti rivoluzionarii
di allora, che trovansi al Capo quarto. Coteste indicazioni e
cotesti suggerimenti, per quanto apprezzabili e notevoli nel tempo
e nelle circostanze in cui furon formulati e dettati, e per quanto
soprattutto importanti per giudicare in modo preciso dell'azione
politica che i comunisti tedeschi spiegarono nel periodo
rivoluzionario del 1848-50, non costituiscono oramai più
per noi un insieme di vedute pratiche, per rispetto alle quali ci
tocchi di deciderci, pro o contro, in ogni caso e ricorrenza.
I partiti politici, che dal tempo della Internazionale in qua si
vennero costituendo in varii paesi su la base del proletariato e
in suo nome esplicito e chiaro, ebbero ed hanno, a misura che
sorgono e poi si sviluppano, vivo bisogno di adattare e di
conformare a varie e multiformi circostanze e contingenze le
esigenze e l'opera loro. Ma nessuno di cotesti partiti ha tale
coscienza di sapersi ora così prossimo alla dittatura del
proletariato, da sentire in sé urgente il bisogno, o sia
pure il desiderio o la tentazione, di rivedere e di valutare le
proposte del Manifesto alla stregua di una verificazione, che paia
probabile, perché ritenuta prossima.
Gli esperimenti storici non sono, in verità, se non quei
soli, che la storia stessa fa imprevedutamente, non a disegno,
né di proposito, né a comando. Così accadde
ai tempi della Comune, che fu, ed è, e rimane fino ad ora
per noi, il solo esperimento approssimativo, sebbene confuso
perché subitaneo e di breve durata, dell'azione del
proletariato, che sia messo alla nuova e dura prova
d'impossessarsi del potere politico. Esperimento quello non voluto
ad arte, né cercato a disegno, imposto anzi dalle
circostanze, ma eroicamente sostenuto; e che ora si converte per
noi in salutare ammaestramento. Là dove il movimento
socialistico è appena allo stato dell'infanzia, può
darsi che questi o quegli, in difetto di esperienza propria e
diretta, si appelli, come accade spesso in Italia,
all'autorità di un testo, come a precetto: - ma ciò
effettivamente non conta proprio nulla.
Né quel nerbo, od essenza, e carattere decisivo sono, a mio
avviso, da cercare nella orientazione su le altre forme di
socialismo, che il Manifesto
reca sotto al nome di Letteratura. Tutto ciò che ivi
è detto, al Capo terzo, serve, senza dubbio, a definire
mirabilmente, per via di antitesi, e nella forma di brevi, succose
e calzanti caratteristiche, le differenze che effettivamente
corrono tra il comunismo, che ora, con espressione da molti
miseramente abusata, si è soliti di chiamare scientifico,
ossia tra il comunismo, che ha per soggetto il proletariato, e per
argomento la rivoluzione proletaria, e le altre forme reazionarie,
borghesi, semi-borghesi, piccolo-borghesi, utopistiche e cosi via.
Tutte coteste forme, meno una, ricorsero e si rinnovarono
più volte, e ricorrono e si rinnovano anche ora nei paesi
nei quali il movimento proletario moderno è appena in sul
nascere. Per tali paesi, e in tali circostanze, il Manifesto ha esercitato ed
esercita tuttora l'ufficio di critica attuale, e di frusta
letteraria. Ma nei paesi nei quali, o quelle forme furon
già teoricamente e praticamente superate, come è in
gran parte il caso della Germania e dell'Austria, o sopravvivono
solo allo stato settario e soggettivo, come accade già in
Francia e in Inghilterra, per non dire delle altre nazioni via via
enumerando, il Manifesto,
per questo rispetto, ha compiuto oramai tutto l'ufficio suo. E non
fa che registrare, come per memoria, ciò cui non occorre
più di pensare, data l'azione politica del proletariato,
che già si svolge nel suo normale e graduale processo.
Or questa fu per l'appunto, e come per anticipazione, la
disposizione d'animo e di mente di quelli che lo scrissero. Di
ciò che avean superato per virtù di pensiero, il
quale sopra pochi ma chiari dati di esperienza anticipi sicuro gli
eventi, essi non esprimevano, oramai, se non la eliminazione e la
condanna.
Il comunismo critico - questo è il vero suo nome, e non ve
n'è altro di più esatto per tale dottrina - non
recitava più coi feudali il rimpianto della vecchia
società, per poi fare a rovescio la critica della
società presente: - anzi non mirava che al futuro. Non si
associava più ai piccolo-borghesi nel desiderio di salvare
il non salvabile: - come ad esempio la piccola proprietà, o
il quieto vivere della piccola gente, cui la vertiginosa azione
dello stato moderno, che della società attuale è
l'organo necessario e naturale, torna grave e pesante solo
perché esso stato, rivoluzionando di continuo, reca in
sé e con sé la necessità di altre nuove e
più profonde rivoluzioni. Né traduceva in arzigogoli
metafisici, o in riflessi di morboso sentimento, o di religiosa
contemplazione, i contrasti reali dei materiali interessi della
vita di tutti i giorni: - anzi questi contrasti rendeva ed
esponeva in tutta la prosa loro. Non costruiva la società
dell'avvenire su le linee di un disegno, in ogni sua parte
armonicamente condotto a finimento. Non levava parole di lode e di
esaltazione, o di evocazione e di rimpianto, alle due dee della
mitologia filosofica, la Giustizia e la Eguaglianza: alle due dee,
cioè, che fanno così trista figura nella misera
pratica della vita cotidiana, quando si riesca ad intendere, come
la storia da tanti secoli si procuri l'indecente passatempo di
fare e di disfare quasi sempre a controsenso degl'infallibili
dettami loro.
Anzi quei comunisti, pur dichiarando, con esibizione di fatti che
hanno forza di argomento e di prova, che i proletarii fossero
oramai destinati a far la parte di sotterratori della borghesia, a
questa rendevano omaggio, come ad autrice di una forma sociale,
che è in estensione ed in intensità uno stadio
notevole del progresso umano, e che sola può far da arena
alle nuove lotte promettenti esito felice al proletariato.
Necrologia di stile così monumentale non fu mai scritta.
Quelle lodi rese alla borghesia assumono una certa originale forma
di umorismo tragico, e son parse ad alcuno come scritte con
intonazione da ditirambo.
Nondimeno quelle definizioni negative ed antitetiche delle altre
forme di socialismo allora correnti, e poi dopo, e fino ad ora,
spesso ricorrenti, per quanto inappuntabili nella sostanza, nella
forma e nello scopo cui mirano, né pretendono di essere,
né sono, la effettiva storia del socialismo, e non recano,
né la traccia, né lo schema di questa, se altri
voglia scriverla.
La storia, in vero, non poggia su la differenza di vero e di
falso, o di giusto e d'ingiusto, e molto meno su la più
astratta antitesi di possibile e di reale; come se le cose
stessero da un canto, e avessero dall'atro canto le proprie ombre
e fantasmi, nelle idee. Essa è sempre tutta d'un pezzo, e
poggia tutta sul processo di formazione e di trasformazione della
società: il che è da intendere in senso obiettivo, e
indipendentemente da ogni nostro soggettivo gradimento o
sgradimento. Essa è una dinamica di genere speciale; se
così piace ai Positivisti, che di tali espressioni tanto si
dilettano, e spesso non vanno più in là della parola
nuova che mettono in giro.
Ora le varie forme di concezione e di azione socialistica, che
apparvero e sparirono nel corso dei secoli, con tante differenze
nei motivi, nella fisionomia e negli effetti, vanno tutte studiate
e spiegate per le condizioni specifiche e complesse della vita
sociale in cui si produssero. Ad esaminarle si vede, che non
costituiscono un solo insieme di processo continuativo;
perché la serie ne è più volte interrotta dal
cambiare del complesso sociale, e dall'oscurarsi e spezzarsi della
tradizione. Solo dal tempo della Grande Rivoluzione il socialismo
assume una certa unità di processo, che si fa poi
più evidente dal 1830 in giù, col definitivo avvento
della borghesia al dominio politico in Francia e in Inghilterra, e
diventa da ultimo intuitiva e direi palpabile dalla Internazionale
in qua.
Su questa via, su questo cammino, sta, come gran colonna miliare,
il Manifesto, con doppia
indicazione, direi così, dalle due parti. Di qua è
l'incunabulo della nuova dottrina, che ha poi fatto il giro del
mondo. Di là è l'orientazione su le forme che esso
esclude, ma di cui non reca l'esposizione e il racconto.
Il nerbo, l'essenza, il carattere decisivo di questo scritto
consistono del tutto nella nuova concezione storica, che gli sta
in fondo, e che esso stesso in parte dichiara e sviluppa, quando
nel resto non vi accenni, e non vi rimandi, o non la supponga
soltanto. Per questa concezione il comunismo, cessando dall'essere
speranza, aspirazione, ricordo, congettura o ripiego, trovava per
la prima volta la sua adeguata espressione nella coscienza della
sua propria necessità; cioè nella coscienza di esser
l'esito e la soluzione delle attuali lotte di classe. Né
queste son quelle di ogni tempo e luogo, su le quali la storia del
passato s'era esercitata e svolta; ma son quelle, invece, che
tutte si assottigliano e si riducono predominantemente nella lotta
tra borghesia capitalistica e lavoratori fatalmente
proletarizzati. Di questa lotta il Manifesto trova la genesi, determina il ritmo di
evoluzione, e presagisce il finale effetto.
In tale concezione storica è tutta la dottrina del
comunismo scientifico. Da questo punto in poi gli avversarii
teorici del socialismo non sono chiamati più a discutere
della astratta possibilità della democratica
socializzazione dei mezzi di produzione2; come se di ciò
s'avesse a far giudizio per illazioni tratte dalle generali e
comunissime attitudini della cosi detta natura umana. Qui si
tratta invece di riconoscere, o di non riconoscere nel corso
presente delle cose umane una necessità, la quale trascende
ogni nostra simpatia ed ogni nostro subiettivo assentimento.
Trovasi o no la società d'essere ora così fatta, nei
paesi più progrediti, da dovere essa riuscire al comunismo
per le leggi immanenti al suo proprio divenire, data la sua
attuale struttura economica, e dati gli attriti che questa da
sé in se stessa necessariamente produce, fino a far
crepaccio e dissolversi?
Ecco il soggetto della disputa, dopo che tale dottrina è
apparsa. Ed ecco insiememente la regola di condotta, che s'impone
all'azione dei partiti socialistici; o che siano essi di soli
proletarii, o che accolgano nelle loro file uomini usciti da altre
classi, i quali facciano la parte di volontarii nell’esercito del
proletariato.
Per ciò noi socialisti, che ci lasciamo ben volentieri
chiamare scientifici, se altri non intende per cotal modo di
confonderci coi Positivisti, ospiti spesso ma da noi non sempre
bene accetti, che a lor grado monopolizzano il nome di scienza,
noi non ci battiamo i fianchi per sostenere una tesi astratta e
generica, come fossimo causidici o sofisti: né ci
affanniamo a dimostrare la razionalità degli intenti
nostri. I nostri intenti non sono se non la espressione teorica e
la pratica esplicazione dei dati che ci offre la interpretazione
del processo che si compie attraverso noi e intorno a noi; e che
è tutto nei rapporti obiettivi della vita sociale, di cui
noi siamo soggetto ed oggetto, causa ed effetto, termine e parte.
I nostri intenti son razionali, non perché fondati sopra
argomenti tratti dalla ragion ragionante, ma perché desunti
dalla obiettiva considerazione delle cose; il che è quanto
dire dalla dilucidazione del processo loro, che non è,
né può essere, un resultato del nostro arbitrio,
anzi il nostro arbitrio vince ed aggioga.
Il Manifesto dei comunisti,
al quale, quanto a specifica efficacia, non può fare da
surrogato nessuno degli scritti anteriori o posteriori degli
autori stessi, che per estensione e portata scientifica son di
tanto maggior peso, ci dà nella sua classica
semplicità l'espressione genuina di questa situazione: il
proletariato moderno è, si pone, cresce e si svolge nella
storia contemporanea come il soggetto concreto, come la forza
positiva, dalla cui azione, inevitabilmente rivoluzionaria, il
comunismo dovrà necessariamente resultare. E per ciò
questo scritto, cioè per tale enunciazione di presagio
teoreticamente fondato ed espresso in detti brevi, rapidi, concisi
e memorabili, costituisce un’accolta, anzi un vivaio inesauribile
di germogli di pensieri, che il lettore può
indefinitivamente fecondare e moltiplicare; serbando esso la forza
originale ed originaria della cosa nata appena appena, e non
ancora divelta e distratta dal campo di sua propria produzione.
Osservazione cotesta, che va principalmente rivolta a quelli,
che, facendo professione di dotta ignoranza, quando non siano a
dirittura fanfaroni, ciarlatani o allegri sportisti, regalano alla
dottrina del comunismo critico precursori, patroni, alleati e
maestri d'ogni genere, in oltraggio al senso comune e alla volgare
cronologia. O sia che inquadrino la nostra dottrina materialistica
della storia nella concezione il più delle volte fantastica
e troppo generica della universale evoluzione, che già da
molti fu ridotta in nuova metafora di novella metafisica; o sia
che cerchino in tale dottrina un derivato del darwinismo, che solo
in un certo modo, ma in senso, assai lato, ne è un caso
analogico; o che ci favoriscano l'alleanza e la padronanza di
quella filosofia positivistica, la quale corre dal Comte,
degeneratore reazionario del geniale Saint-Simon, a questo
Spencer, quintessenza di borghesismo anemicamente anarchico: il
che vuol dire, dare a noi alleati e protettori i dichiarati e
decisi avversarii nostri.
Tale forza germinativa, tale classicità di efficacia, tale
compendiosità di sintesi di molte serie e gruppi di
pensieri in uno scritto di così poche pagine, son dovute al
modo della sua origine.
Due tedeschi ne furono gli autori, ma non vi portaron dentro,
né la sostanza, né la forma delle personali
opinioni, che a quel tempo sapean di solito d'imprecazione, di
pianto e di rancore in bocca ai profughi politici, o a quelli,
che, com'era il caso loro, volontarii abbandonassero la patria,
per godere altrove aere più spirabile. Né
v'introdussero direttamente l'immagine delle condizioni del loro
paese, che erano politicamente misere, e socialmente, ossia
economicamente, solo per alcuni primi inizii, e solo in certi
punti del territorio, confrontabili a quelle che già in
Francia e in Inghilterra erano ed apparivano moderne.
Vi portarono invece il pensiero filosofico, per cui solo la
patria loro s'era messa e mantenuta all'altezza della storia
contemporanea; di quel pensiero filosofico, che, appunto nelle
persone loro, assumeva a quel tempo la notevole trasformazione,
per la quale il materialismo, già rinnovato da Feuerhach,
combinandosi con la dialettica, diveniva capace di abbracciare e
di comprendere il moto della storia nelle sue cause più
intime, e fino allora inesplorate, perché latenti e non
facili a districare.
Comunisti e rivoluzionarii ambedue, ma non per istinto, né
per puro impulso o per passione, essi aveano quasi elaborata tutta
una nuova critica della scienza economica, e avean compreso il
nesso e il significato storico del movimento proletario di qua e
di là della Manica, ossia di Francia e d'Inghilterra,
già prima che fossero chiamati a dettare nel
Manifesto il programma e
la dottrina della Lega dei comunisti.
Questa, risedendo a Londra con notevoli diramazioni sul
continente, avea dietro di sé un buon tratto di vita e di
sviluppo proprio, attraverso a diverse fasi.
Dei due, l'Engels, autore già da qualche tempo di un
saggio critico, che, passando sopra ad ogni correzione subiettiva
ed unilaterale, per la prima volta ritrae obiettivamente la
critica dell'economia politica dalle antitesi inerenti agli
enunciati ed ai concetti dell'economia stessa, era poi venuto in
fama per un libro su la condizione degli operai inglesi, che
è il primo tentativo riuscito di rappresentare i moti della
classe operaia come resultanti dal giuoco stesso delle forze e dei
mezzi di produzione.
L'altro, Marx, avea dietro di sé, in breve corso d'anni,
l'esperienza di pubblicista radicale in Germania, e quella del
pari di pubblicista a Parigi e a Bruxelles, la escogitazione quasi
matura dei primi rudimenti della concezione materialistica della
storia, la critica teoreticamente vittoriosa dei presupposti e
delle illazioni della dottrina di Proudhon, e la prima
dilucidazione precisa della origine del sopravvalore dalla compra
e dall'uso della forza-lavoro, cioè il primo germe delle
concezioni venute più tardi a maturità di
dimostrazioni, di riconnessioni e di particolari nel Capitale.
Ambedue congiunti per molte e varie vie di comunicazione ai
rivoluzionarii dei vani paesi di Europa, e specie di Francia, del
Belgio e dell'Inghilterra, non composero il Manifesto come saggio
di personale opinione, ma anzi come la dottrina di un partito,
che, nel suo non largo ambito, era già nell'animo,
negl'intenti e nell'azione la prima Internazionale dei lavoratori.
Di qui comincia il socialismo strettamente moderno. Qui è
la linea di delimitazione da tutto il resto.
La Lega dei comunisti era divenuta tale, dopo d'essere stata Lega
dei Giusti; e questa alla sua volta s'era gradatamente
specificata, per chiara coscienza d'intenti proletarii, dalla lega
generica dei profughi, ossia degli sbanditi. Come tipo, che rechi
in sé quasi in disegno embrionale la forma d'ogni ulteriore
movimento socialistico e proletario, essa avea attraversato le
varie fasi della cospirazione e del socialismo egalitario. Avea
metafisicato con Grün, e utopizzato con Weitling. Avendo sua
sede principale a Londra, s'era affiatata, rifluendo in piccola
parte sopra di esso, col movimento cartista; il quale
esemplificava nel suo carattere saltuario, perché di primo
esperimento, e punto premeditato, perché non più di
cospirazione o di setta, la dura e faticosa formazione del partito
vero e proprio della politica proletaria. La tendenza al
socialismo non giunse a maturità nel cartismo, se non
quando il moto suo fu prossimo a fallire, e di fatti fallì
(indimenticabili voi, Jones ed Harney!).
La Lega fiutava da per tutto la rivoluzione, e perché la
cosa era nell'aria, e perché il suo istinto e il suo metodo
d'informazioni a ciò la portava: - e, mentre la rivoluzione
effettivamente scoppiava, essa si fornì nella nuova
dottrina del Manifesto
di un istrumento di orientazione, che era in pari tempo un'arma di
combattimento. Già di fatti internazionale, parte per la
qualità e origine varia dei membri suoi, ma assai
più ancora per l'istinto e per la vocazione che erano in
tutti loro, essa venne a prender posto nel movimento generale
della vita politica, qual precorrimento chiaro e preciso di tutto
ciò che ora può ragionevolmente dirsi socialismo
moderno; se cotal parola di moderno non deve esprimere una
semplice data di cronologia estrinseca, ma anzi un indice del
processo interno, ossia morfologico della società.
Una lunga intermissione dal 1852 al 1864, che fu il periodo della
reazione politica, e quello in pari tempo della sparizione, della
dispersione e del riassorbimento delle vecchie scuole
socialistiche, separa la Internazionale appena iniziale
dell'Arbeiterbildungsverein di Londra, dalla Internazionale
propriamente detta, che dal 1864 al 1873 intese a parificare nelle
condizioni di lotta l'azione del proletariato in Europa ed in
America. Altre intermissioni ebbe l'azione del proletariato, meno
che in Germania e specialmente in Francia, dalla dissoluzione
della Internazionale di gloriosa memoria, fino a questa nuova, che
ora vive di altri mezzi e si sviluppa con altri modi, consentanei
quelli e questi alla situazione politica in cui ci troviamo, e ai
suggerimenti di una più larga e maturata esperienza. Ma,
come i sopravvissuti, tra quelli che fra il novembre e il dicembre
del 1847 discussero ed accettarono la nuova dottrina, riapparvero
poi su la scena pubblica nella grande Internazionale, e son
riapparsi da ultimo in questa nuova, così il Manifesto è tornato
via via alla luce della pubblicità, facendo effettivamente
quel giro del mondo in tutte le lingue dei paesi civili, che s'era
ripromesso ma non poté compiere al suo primo apparire.
Quello è il vero precorrimento: quelli furono i veri
precursori nostri. Si mossero prima degli altri, di buon tempo,
con passo affrettato ma sicuro, su quella via che noi appunto
dobbiamo percorrere, e che difatti percorriamo. Mal s'attaglia il
nome dei precursori a quelli i quali corsero vie, che poi sia
convenuto di abbandonare: ossia a quelli i quali, per uscir di
metafora, formularono dottrine e iniziarono movimenti, senza
dubbio spiegabili per i tempi e per le circostanze in cui
nacquero, ma che furon poi tutti superati dalla dottrina del
comunismo critico, che è la teoria della rivoluzione
proletaria. Non è già che quelle dottrine e quei
tentativi fossero apparizioni accidentali, inutili e superflue.
Nulla v'è di assolutamente irrazionale nel corso storico
delle cose, perché nulla v'è in esso d'immotivato, e
perciò di meramente superfluo. Né a noi è
dato di giungere, nemmeno ora, alla coscienza del comunismo
critico, senza ripassare mentalmente per quelle dottrine,
ripercorrendo il processo della loro apparizione e sparizione. Il
fatto è che quelle dottrine non sono soltanto passate nel
tempo, o dalla memoria, ma furono intrinsecamente sorpassate, e
per la mutata condizione della società, e per la progredita
intelligenza delle leggi su le quali poggia la formazione ed il
processo di essa.
Il momento in cui si avvera cotesto passare, che è un
sorpassare intrinsecamente, gli è quello appunto in cui il
Manifesto apparisce. Come
primo indice della genesi del socialismo moderno, questo scritto,
che della nuova dottrina non reca se non i cenni più
generali ossia i più facilmente comunicabili, porta in
sé le tracce del terreno storico in cui nacque, che fu
quello della Francia, dell'Inghilterra e della Germania. Il
terreno di propagazione e di diffusione è diventato poi via
via più largo, ed è oramai tanto vasto quanto
è il mondo civile. In tutti i paesi, nei quali la tendenza
al comunismo si è venuta successivamente sviluppando
attraverso agli antagonismi variamente atteggiati, ma pur ogni
giorno sempre più chiari, fra borghesia e proletariato, in
parte o in tutto s'è andato poi più volte ripetendo
il processo della prima formazione. I partiti proletarii, che via
via si son costituiti, han ripercorso gli stadii di formazione,
che i precursori primi percorsero la prima volta: se non che tale
processo s’è fatto da paese a paese e di anno in anno
sempre più breve, e per la cresciuta evidenza, urgenza ed
energia degli antagonismi, e perché assimilare una dottrina
o un indirizzo è cosa naturalmente più facile, che
non sia il produrre la prima volta e quella e questo. Quei
collaboratori nostri di cinquanta anni fa, furono anche per questo
rispetto internazionali; perché dettero al proletariato
delle varie nazioni, col proprio esempio ed esperimento, la
traccia anticipata e generale del lavoro da compiere.
Ma la coscienza teoretica dei socialismo sta oggi, come prima, e
come starà sempre, nella intelligenza della sua
necessità storica, ossia nella consapevolezza del modo
della sua genesi; e questa si rispecchia, come in breve campo di
osservazione e come in compendioso esempio, nella formazione
appunto del Manifesto.
Esso stesso, per l'intento di battaglia che si propone, non reca
in sé apparenti le tracce della sua origine; perché
si esprime in midollo di enunciati e non in apparato di
dimostrazioni. La dimostrazione è tutta nell'imperativo
della necessità. Ma la formazione si può tutta
rifarla; e rifarla vuoi dire ora per noi intendere per davvero la
dottrina del Manifesto.
C’è sì un'analisi, che, separando astrattamente i
fattori di un organismo, li distrugge in quanto elementi
concorrenti nella unità del complesso: - ma ce n'è
un'altra di analisi, ed essa sola ha valore per la intelligenza
della storia, ed è quella che distingue e separa gli
elementi soltanto per ravvisarvi la necessità obiettiva
della concorrenza loro nel resultato. Oramai è opinione
popolare, che il socialismo moderno sia un normale e perciò
inevitabile portato della storia attuale. La sua azione politica,
che ammette, sì, d'ora innanzi indugi e ritardi, ma non
più riassorbimento totale e annichilimento, cominciò
decisamente con la Internazionale. Più indietro però
di questa sta il Manifesto.
La sua dottrina è innanzi tutto la luce teorica portata sul
movimento proletario; il quale, del resto, s'era generato e
continua a generarsi indipendentemente dall'azione di ogni
dottrina. E poi è più che questa luce.
Il comunismo critico non sorge se non nel momento in cui il moto
proletario, oltre ad essere un resultato delle condizioni sociali,
ha già tanta forza in sé da intendere, che queste
condizioni sono mutabili, e da intravvedere con quali mezzi e in
che senso possano essere mutate. Non bastava che il socialismo
fosse un resultato della storia; ma bisognava inoltre intendere
come fosse intrinsecamente cotale resultato, e a che cosa menasse
l'agitazione sua. L'enunciazione di tale consapevolezza, che
cioè il proletariato, come resultato necessario della
società moderna, ha in sé la missione di succedere
alla borghesia, e di succederle come forza produttrice di un nuovo
ordine di convivenza, in cui le antitesi di classe dovranno
sparire, fa del Manifesto un momento caratteristico del corso
generale della storia.
Esso è una rivelazione, ma non già come apocalissi
o promessa di millennio. È la rivelazione scientifica e
meditata del cammino che percorre la nostra società civile
(che l'ombra di Fourier mi sia benigna); la quale rivelazione, pei
modi come è espressa, assume la parola decisiva e direi
fulminea di chi enuncia nel fatto la necessità del fatto
stesso.
A tale stregua il Manifesto ci ridà la storia interna della
sua origine, che al tempo stesso ne giustifica la dottrina, e ne
spiega il singolare effetto e la maravigliosa efficacia. Senza
perderci in molti particolari, ecco le serie e i gruppi di
elementi, che, raccolti e trasformati in quella rapida e calzante
sintesi, vi rappresentano come il nocciolo d'ogni ulteriore
sviluppo del socialismo scientifico.
La materia prossima, diretta ed intuitiva è data dalla
Francia e dall'Inghilterra, che avean già messo sulla scena
politica di dopo il 1830 un movimento operaio, il quale a volte si
mescola e a volte si distingue dagli altri movimenti
rivoluzionarii, corre per gli estremi dalla rivolta istintiva al
disegno pratico del partito politico (p e. la Carta, e la
democrazia sociale), e genera diverse forme temporanee e caduche
di comunismo, o di semicomunismo, come era quello che allora
chiamavasi socialismo.
Per riconoscere in tali moti, non più la fugace apparizione
di turbamenti meteorici, ma il fatto nuovo della società
occorreva una teoria, che non fosse, né un semplice
complemento della tradizione democratica, né la soggettiva
correzione degl'inconvenienti oramai riconosciuti della economia
della concorrenza: le quali due cose passavano allora, come
è noto, per la testa e per le bocche di molti.
La nuova teoria fu appunto l'opera personale di Marx e di Engels;
i quali trasferirono il concetto del divenire storico per processo
di antitesi, dalla forma astratta, che la dialettica di Hegel avea
per sommi capi e negli aspetti generalissimi già descritta,
alla spiegazione concreta delle lotte di classe; e quel movimento
storico, che era parso passaggio di una in altra forma di idee,
per la prima volta intesero come transizione da una in altra forma
della sottostante anatomia sociale, ossia da una in altra forma
della produzione economica.
Cotesta concezione storica, elevando a teoria quel bisogno della
nuova rivoluzione sociale, che era più o meno esplicito
nella coscienza istintiva del proletariato, e nei suoi moti
passionati e subitanei, nell'atto che riconosceva la intrinseca e
immanente necessità della rivoluzione, di questa stessa
cambiava il concetto. Ciò che era parso possibile alle
sètte dei cospiratori, come cosa che possa volersi a
disegno e predisporsi a volontà, diventava un processo da
favorire, da sorreggere e da secondare. La rivoluzione diventava
l'obietto di una politica, le cui condizioni son date dalla
situazione complessa della società: cioè un
resultato, al quale il proletariato deve giungere, attraverso
lotte varie e mezzi varii di organizzazione, non ancora escogitati
dalla vecchia tattica delle rivolte. E ciò perché il
proletariato non è un accessorio, un amminicolo, una
escrescenza, un male eliminabile di questa società in cui
viviamo; ma è il suo sostrato, la sua condizione
essenziale, il suo effetto inevitabile, e, alla sua volta, la
causa che conserva e mantiene in essere la società stessa:
onde non può emanciparsi, se non emancipando tutto e tutti,
ossia rivoluzionando integralmente la forma della produzione.
Come la Lega dei Giusti era diventata Lega dei comunisti,
spogliandosi delle forme simboliche e cospiratorie, e volgendosi
verso i mezzi della propaganda e dell'azione politica a grado a
grado, e qualche tempo in qua da che l'insurrezione di
Barbès e Blanqui fu fallita (1839), così la dottrina
nuova, che la Lega stessa accettava e faceva sua, superò
definitivamente le idee che guidavano l'azione cospiratoria, e
convertì in termine e resultato obiettivo di un processo
ciò che i cospiratori pensavano stesse alla punta di un
loro disegno, o potesse essere l'emanazione e l'efflusso del loro
eroismo.
E in ciò è un'altra linea ascendente nell'ordine dei
fatti, un'altra connessione di concetti e di dottrine.
Il comunismo cospiratorio, il blanquismo di allora, ci fa risalire
attraverso a Buonarroti, e in parte attraverso a Bazard e alla
Carboneria, fin su su alla cospirazione di Babeuf; il quale fu
vero eroe di tragedia antica, che dà di cozzo nel fato, per
la ignorata incongruenza del proprio disegno con la condizione
economica del tempo, non atta ancora a mettere su la scena
politica un proletariato fornito di esplicita coscienza di classe.
Da Babeuf, attraverso ad alcuni elementi men noti del periodo
giacobino, e poi a Boissel e a Fauchet, si risale all'intuitivo
Morelly e al versatile e geniale Mably, e, se si vuole, sino al
caotico testamento del curato Meslier, ribellione istintiva e
violenta del buon senso contro la selvaggia oppressione del povero
contadino.
Furon tutti egalitarii cotesti precursori del socialismo violento,
protestatario, cospiratorio; come egalitarii furono per la
più parte i cospiratori stessi. Per un singolare, ma
inevitabile abbaglio, essi tutti assunsero ad arma di
combattimento, ma interpretandola e generalizzandola a rovescio,
quella medesima dottrina della eguaglianza, che sviluppatasi come
diritto di natura parallelamente alla formazione della teoria
economica, era stata istrumento in mano della borghesia, che
conquistava via via la sua attuale posizione, per convertire la
società del privilegio in quella del liberalismo, del
liberismo e del codice civile1. Per tale illazione immediata, che
era in fondo una semplice illusione, e cioè, che, essendo
tutti gli uomini eguali in natura, essi abbiano ad esser tutti
eguali anche nei godimenti, si credeva che l'appello alla ragione
racchiudesse in sé ogni elemento e forza di persuasione e
di propaganda, e che la rapida, istantanea e violenta presa di
possesso degli istrumenti esteriori del potere politico fosse il
solo mezzo per rimettere a posto i renitenti.
Ma donde nacquero, e come si reggono coteste disuguaglianze, che
paion tanto irrazionali alla luce di un così semplice e
semplicistico concetto della giustizia? Il Manifesto apparve come la
recisa negazione del principio della eguaglianza, così
ingenuamente e così grossolanamente inteso. Nell'atto che
annuncia come inevitabile l'abolizione delle classi nella futura
forma di produzione collettiva, di queste classi stesse, come esse
sono, come nacquero e come divennero, dà ragione come di un
fatto, che non è l'eccezione o la deroga ad un principio
astratto, ma anzi è lo stesso processo della storia.
Come il proletariato moderno suppone la borghesia, così
questa non vive senza di esso. E l'uno e l'altra sono il resultuto
di un processo di formazione, che tutto poggia sul nuovo modo di
produrre i mezzi necessarii alla vita; cioè tutto poggia
sul modo della produzione economica. La società borghese
è sorta dalla società corporativa e feudale, e ne
è sorta lottando, e rivoluzionando ciò che aveva
dinanzi a sé, per impossessarsi degl'istrumenti e dei mezzi
della produzione, i quali tutti poi culminano nella formazione,
nell'allargamento, e nella riproduzione e moltiplicazione del
capitale.
Descrivere la origine ed il progresso della borghesia, nelle sue
varie fasi, esporre i suoi successi nello sviluppo colossale della
tecnica e nella conquista del mercato mondiale, indicare le
conseguenti trasformazioni politiche, che di tali conquiste sono
l'espressione, le difese e il resultato, vuol dire fare al tempo
stesso la storia del proletariato. Questo, nella sua condizione
attuale, è inerente all'epoca della società
borghese; ed ebbe, ha ed avrà tante e tante fasi, quante ne
ha questa società stessa, fino al suo dissolvimento.
L'antitesi di ricchi e di poveri, di gaudenti e di sofferenti, di
oppressori e di oppressi, non è un qualcosa di accidentale
e di facilmente removibile, come era parso agli entusiastici
amatori della giustizia. Anzi è un fatto di necessaria
correlazione, dato il principio direttivo dell'attuale forma di
produzione; il che apparisce nella necessità del salariato.
Questa necessità è in sé duplice. Il
capitale non può impossessarsi della produzione se non a
patto di proletarizzare, e non può continuare ad esistere,
ad esser fruttifero, ad accumularsi, a moltiplicarsi e a
trasformarsi, se non a patto di salariare i proletarizzati. E
questi, alla lor volta, non possono esistere e rinnovarsi se non a
condizione di darsi a mercede, come forza di lavoro, il cui uso
è abbandonato alla discrezione, cioè alle
convenienze dei possessori del capitale. L'armonia fra capitale e
lavoro sta tutta in ciò, che il lavoro è la forza
viva con la quale i proletarii di continuo mettono in moto e
riproducono, con nuova giunta, il lavoro accumulato nel capitale.
Questo nesso, il quale è un resultato di uno sviluppo, che
è tutta l'intima essenza della storia moderna, se dà
la chiave per intendere la ragion propria della nuova lotta di
classe, di cui la concezione comunistica è divenuta
l'ausilio e l'espressione, è d'altra parte così
fatto, che nessuna protesta del cuore e del sentimento, nessuna
argomentazione di giustizia può risolverlo o disfarlo.
Per tali ragioni, rese qui da me, a quel che spero, con plausibile
popolarità, il comunismo egalitario rimaneva battuto. La
sua impotenza pratica era una e medesima cosa con la sua
incapacità teorica a rendersi conto delle cause delle
ingiustizie, ossia delle disuguaglianze, che voleva, o
coraggiosamente, o spensieratamente atterrare od eliminare d'un
tratto.
Intendere la storia diventava da quel punto in poi la cura
principale dei teorici del comunismo. E come si potrebbe mai
più contrapporre alla dura realtà sua, intendo dire
della storia, un vagheggiato e sia pure perfettissimo ideale?
Né è chi possa affermare, che il comunismo sia lo
stato naturale e necessario della vita umana, di ogni tempo e
luogo, per rispetto al quale tutto il corso delle formazioni
storiche ci debba apparire come una serie di deviazioni e di
aberrazioni. Né ad esso si va, o si torna, per spartana
abnegazione, o per cristiana rassegnazione. Esso può
essere, anzi deve essere e sarà la conseguenza del
dissolversi di questa nostra società capitalistica. Ma in
questa la dissoluzione non può essere inoculata ad arte,
né importata ab extra. Si dissolverà per il proprio
peso, direbbe Machiavelli. Cadrà come forma di produzione,
che genera da sé in se stessa la costante e progressiva
ribellione delle forze produttive contro i rapporti (giuridici e
politici) della produzione; e intanto non continua a vivere,
finché vive e vivrà, se non aumentando con la
concorrenza, che genera le crisi, e con la vertiginosa estensione
della sua sfera di azione, le condizioni intrinseche della sua
morte inevitabile. La morte anche qui nella forma sociale, come
è accaduto in altro ramo di scienza per la morte naturale,
è diventata un caso fisiologico.
Il Manifesto non dette,
né dovea dare il disegno della società futura.
Disse, invece, come la presente si dissolverà per la
dinamica progressiva delle sue forze immanenti. A intender
ciò occorreva principalmente la esposizione dello sviluppo
della borghesia; e questa fu fatta in rapidi cenni, che sono un
capitolo esemplare di filosofia della storia, capace sì di
ritocchi e di complementi, e soprattutto di largo sviluppo, ma che
non ammette correzione nel suo intrinseco1.
Saint-Simon e Fourier, tuttoché non riprodotti nel tenore
delle loro idee, né imitati nell'andamento delle loro
trattazioni, rimanevano, per tale elevazione teoretica, come
giustificati ed inverati. Ideologi ambedue, essi aveano per
anticipazione di singolare genialità superata dentro di
sé l'epoca liberale, che nell'orizzonte loro culminava
nella Grande Rivoluzione. Il primo capovolse la interpretazione
della storia dal diritto all'economia, e dalla politica alla
fisica sociale, e, in mezzo a molte incertezze d'intendimento
idealistico e d'intendimento positivo, trovò quasi la
genesi del terzo stato. L'altro, per ignoranza di particolari, o
in genere non noti ancora, o da lui trascurati, e per esuberanza
d'ingegno non disciplinato, fantasticò una gran sequela di
epoche storiche, vagamente distinte e contrassegnate per certi
indici del principio direttivo delle forme di produzione e di
distribuzione. E si argomentò poi di costruire una
società in cui le presenti antitesi sparissero. Di queste
antitesi scovrì, con acume di genialità, e
studiò con amore una principalmente: il circolo vizioso
della produzione; concorrendo in ciò, senza saperlo, col
Sismondi, che nel medesimo tempo, con altro animo e per altre vie,
per l'esempio delle crisi e pei denunciati inconvenienti della
grande industria e della spietata concorrenza, timido dichiarava
il fiasco della scienza economica, appena e da poco arrivata a
compimento.
Dall'alto della serena meditazione del mondo futuro degli
armoniosi, Fourier guardò con sereno disprezzo la miseria
dei civilizzati, e scrisse tranquillo la satira della storia.
Ignari così l'uno come l'altro, perché ideologi,
dell'aspra lotta che il proletariato è chiamato a
sostenere, prima di metter termine all'epoca dello sfruttamento e
delle antitesi, divennero, per bisogno subiettivo di conchiudere,
l’uno progettista e l'altro utopista. Ma per divinazione
afferrarono alcuni lati notevoli dei principii direttivi della
società senza antitesi. Il primo concepì nettamente
il governo tecnico della società, senza dominio dell'uomo
su l'uomo; e l'altro, cioè Fourier, indovinò,
intravvide e presagì, attraverso a tante e tante
stravaganze della sua lussureggiante e irrefrenata fantasia, non
pochi aspetti notevoli della psicologia e della pedagogica di
quella convivenza futura, nella quale, secondo l'espressione del
Manifesto: il libero sviluppo di ciascuno è la condizione
del libero sviluppo di tutti.
Il saintsimonismo s'era già dileguato quando il Manifesto apparve. Il
foutierismo invece fioriva in Francia, e, per l'indole sua, non
come partito, ma come scuola. Quando la scuola tentò di
giungere all'utopia mediante la legge, i proletarii parigini erano
già stati battuti nelle giornate di Giugno da quella
borghesia, che, battendoli, preparò a se stessa il dominio
di un sommo ed insigne avventuriero, durato poi venti anni.
Non come voce di una scuola, ma come promessa, minaccia e
volontà di un partito, veniva alla luce la nuova dottrina
dei comunisti critici. I suoi autori e seguaci non viveano di
fantasia del futuro, ma con animo tutto intento alla esperienza e
alle necessità del presente. Viveano della coscienza dei
proletarii, cui l'istinto, non sorretto ancora dalla esperienza,
spingeva a rovesciare a Parigi e in Inghilterra il dominio della
borghesia, con rapidità di mosse non dirette da una tattica
studiata. Quei comunisti diffusero in Germania le idee
rivoluzionarie, furono i difensori delle vittime di Giugno, ed
ebbero nella “Neue Rheinische Zeitung” un organo politico, che
ora, alla distanza di tanti anni, per fino nei brani che qua e
là ne vengon riprodotti, fa scuola.
Cessate le contingenze storiche, che nel 1848 spinsero i
proletarii sul davanti della scena politica, la dottrina del Manifesto non trovò
più, né base, né terreno di diffusione. Ha
aspettato degli anni a diffondersi; perché sono occorsi
degli anni avanti che il proletariato potesse riapparire, per
altre vie e con altri modi, su la scena come forza politica, e
fare di quella dottrina il suo organo intellettuale, e trovare in
essa i mezzi di orientazione.
Ma, dal giorno in cui apparve, essa fu la critica anticipata di
quel socialismus vulgaris, che vegetò per l'Europa, e
specialmente in Francia, dal Colpo di Stato all'apparizione della
Internazionale, la quale, del resto, nel breve periodo di sua
vita, non ebbe tempo di vincerlo, di esaurirlo, di eliminarlo del
tutto. Si alimentava cotesto socialismo volgare, quando non
d'altro e di più sconnesso, principalmente delle dottrine e
assai più dei paradossi di Proudhon, il quale, superato
già da lungo tempo teoricamente da Marx, non fu
praticamente battuto se non durante la Comune, quando i seguaci
suoi, per la più salutare lezione delle cose, furon
costretti a fare il contrario delle dottrine proprie e del
maestro.
Fin dal primo momento in cui apparve, questa nuova dottrina del
comunismo fu la critica implicita di ogni forma di socialismo di
stato, da Louis Blanc a Lassalle. Il socialismo di stato, per
quanto commisto allora a tendenze rivoluzionarie, si concentrava
tutto nella favola, nell'Hokus Pokus, del diritto al lavoro.
Questo è termine insidioso, se implica domanda che si
rivolga ad un governo, sia pure di borghesi rivoluzionarii. Questo
è assurdo economico, se si ha in mente di sopprimere la
variabile disoccupazione, che influisce sul variare dei salarii,
ossia su le condizioni della concorrenza. Questo può essere
artificio di politicanti, se è ripiego per sedare le
turbolenze di una massa agitantesi di proletarii non organizzati.
Questa è una superfluità teoretica, per chi
concepisca nettamente il corso di una rivoluzione vittoriosa del
proletariato; la quale non può non avviare alla
socializzazione dei mezzi di produzione, mediante la presa di
possesso di questi: ossia non può non avviare alla forma
economica, in cui non c’è né merce né
salariato, e nella quale il diritto al lavoro e il dovere di
lavorare fanno uno nella necessità comune a tutti che tutti
lavorino.
La favola del diritto al lavoro finì nella tragedia delle
giornate di Giugno. La discussione parlamentare che se ne fece in
seguito fu parodia. Il piagnucoloso e retorico Lamartine, quel
grande uomo di occasione, avea avuto la opportunità di
pronunciare l'ultima o la penultima delle sue celebrate frasi:
“L'esperienza dei popoli sono le catastrofi"; e ciò bastava
per l'ironia della storia.
Ma quello scritto, che era il Manifesto,
di così piccola mole com'è, e di stile così
alieno dalla retorica insinuazione di una fede o di una credenza,
se fu tante e tante cose come sedimento di pensieri varii ridotti
per la prima volta ad unità intuitiva di sistema, e come
raccolta di germi capaci di largo sviluppo, non fu però,
né pretese di essere, né il codice del socialismo,
né il catechismo del comunismo critico, né il
vademecum della rivoluzione proletaria. Le quintessenze possiamo
ben lasciarle all'illustre Schäffle, a cui conto lasciamo
anche ben volentieri la famosa questione sociale che è
questione di ventre. Il ventre dello Schäffle fece per molti
anni bella mostra di sé per il mondo, a delizia di tanti
sportisti del socialismo, ed a sollievo di tanti poliziotti. Il
comunismo critico, in verità, cominciava appena col
Manifesto; doveva svilupparsi, e difatti si è sviluppato.
Il complesso di dottrine, che ora si è soliti di
chiamare marxismo, non è giunto invero a
maturità, se non negli anni dal '60 al '70. Ci corre di
certo molto dall'opuscolo Capitale
e lavoro a mercede, nel quale si tocca per la prima
volta, in termini precisi, del come dalla compra e dall'uso della
merce-lavoro si ottenga un prodotto superiore al costo, il che era
il nocciolo della insoluta questione del plusvalore, fino agli
amplii, complicati e multilaterali sviluppi del libro del Capitale. Questo libro
esaurisce la genesi dell'epoca borghese, in tutta l'intima
struttura sua economica; e quest'epoca stessa supera
intellettualmente, perché la spiega ne’ suoi modi di
procedere, nelle sue leggi particolari, e nelle antitesi che essa
organicamente produce, e che organicamente la dissolvono.
E corre eguale divario dal movimento proletario, che fallì
nel 1848, a questo dei nostri giorni, che per entro a molte
difficoltà, dopo esser riapparso alla superficie della vita
politica, si è venuto sviluppando con tale e tanta costanza
di processo, ma con lentezza di studiati movimenti. Fino a pochi
anni fa, cotesta regolarità di movimento progressivo nel
proletariato non si notava ed ammirava, se non nella Germania
sola, dove la democrazia sociale, come albero da proprio terreno,
dalla conferenza operaia di Norimberga del 1868 in poi, era venuta
normalmente crescendo con costanza di processo. Ma poi il fatto
della Germania si è in varie forme ripetuto in altri paesi.
Ora in questo sviluppo ampio del marxismo, e in questo crescere
del movimento del proletariato nei compassati modi dell'azione
politica, non c'è stata forse, come molti dicono, una
attenuazione del carattere bellicoso della originaria forma del
comunismo critico? O che sia stato forse questo un passaggio dalla
rivoluzione alla così detta evoluzione? o anzi
un’acquiescenza dello spirito rivoluzionario alle esigenze del
riformismo?
Queste riflessioni ed obiezioni sorsero e sorgono di continuo,
così nel seno del socialismo, per bocca dei più
accesi d'animo e di fantasia fra i suoi seguaci, come da parte
degli avversarii, cui giova di generalizzare i casi dei
particolari insuccessi, delle soste e degli indugi, per affermare,
che il comunismo non ha del tutto avvenire.
Chi misuri l'attuale movimento proletario, e il suo corso vario e
complicato, alla impressione che di sé dee lasciare il
Manifesto, quando la lettura di esso non sia accompagnata da altre
conoscenze, può facilmente credere, che qualcosa di troppo
giovanile e prematuro fosse nella sicura baldanza di quei
comunisti di or fa cinquant'anni. Nelle parole loro c'è
come un grido di battaglia, e l'eco della vibrata eloquenza di
alcuni oratori del cartismo, e l'annuncio quasi di un nuovo '93,
ma così fatto, da non dar luogo a un novello Termidoro.
E il Termidoro, invece, è venuto, e s’è ripetuto
più volte nel mondo, in forme varie, e più o meno
esplicite o dissimulate; ne fossero autori, dal 1848 in qua,
ex-radicali alla francese, o ex-patrioti all'italiana, o
burocratici alla tedesca, adoratori in idea del dio stato e in
pratica buoni servi del dio danaro, o parlamentari all'inglese,
scaltriti negli artifici e ripieghi dell'arte di governo, o
perfino poliziotti in maschera di anarchisti di Chicago, e simili.
E di qui le molte proteste contro il socialismo, e di qua e di
là le argomentazioni di pessimisti e di ottimisti contro la
probabilità del suo successo.
A molti pare che la costellazione del Termidoro non debba
più sparire dal cielo della storia; ossia, per parlare in
prosa, che il liberalismo, che è la società degli
eguali in diritto presuntivo, segni l'estremo limite della
evoluzione umana, e che di là da esso non possa darsi che
regresso. A ciò s'accomodano volentieri tutti quelli, che
nella sola successiva estensione della forma borghese a tutto il
mondo ripongono la ragione ed il fine di ogni progresso.
Ottimisti o pessimisti che siano, trovan tutti le colonne
d'Ercole del genere umano. Non rare volte accade che tale
sentimento, nella sua forma pessimistica, operi inconsapevolmente
su molti di quelli che vanno ad ingrossare, con gli altri
déclassés, le file dell'anarchismo.
C'è poi di quelli che si spingono più oltre di
così, e si metton quindi a teorizzare su la obiettiva
inverosimiglianza degli assunti del comunismo critico. L'enunciato
del Manifesto, che,
cioè, la semplificazione di tutte le lotte di classe in una
sola rechi in sé la necessità della rivoluzione
proletaria, sarebbe intrinsecamente fallace per cotesti polemisti
che teorizzano. Questa dottrina nostra sarebbe infondata, come
quella che pretende di trarre una illazione scientifica ed una
regola di condotta pratica dalla argomentata previsione di un
presunto fatto, il quale invece, secondo cotesti buoni e pacifici
oppositori, sarebbe un semplice punto teorico spostabile e
differibile all'infinito. La pretesa inevitabile, e finale, e
risolutiva collisione tra le forze produttive e la forma della
produzione non verrebbe mai a capo, perché si disperde
difatti, secondo loro, in infiniti particolari attriti, si
moltiplica nelle parziali collisioni della concorrenza economica,
trova indugio e impedimento nei ripieghi e nelle violenze
dell'arte di governo. In altri termini, la società
presente, anziché far crepaccio e dissolversi, rinnoverebbe
in perpetuo l'opera di sua riparazione e ritocco. Ogni moto
proletario, che non venga represso con la violenza, come fu nel
giugno del 1848 e nel maggio del 1871, cesserebbe per lenta
esaustione, come accadde del cartismo, che finì nel
Trades-Unionismo, cavallo di battaglia di cotesto modo di
argomentare, onore e vanto dei volgari economisti e dei sociologi
da strapazzo. Ogni moto proletario moderno sarebbe meteorico e non
organico, sarebbe un turbamento e non un processo; e noi, la
mercè di cotali critici, saremmo, malgrado nostro, tuttora
utopisti.
La previsione storica, che sta in fondo alla dottrina del Manifesto, e che il comunismo
critico ha poi in seguito ampliata e specificata con la più
larga e più minuta analisi del mondo presente, ebbe di
certo, per le circostanze del tempo in cui apparve la prima volta,
calore di battaglia, e colore vivissimo di espressione. Ma non
implicava, come non implica tuttora, né una data
cronologica, né la dipintura anticipata di una
configurazione sociale, come fu ed è proprio delle antiche
e nuove profezie e apocalissi.
L'eroico Fra Dolcino non era sorto di nuovo a levar per le terre
il grido di battaglia, per la profezia di Gioacchino di Fiore.
Né si celebrava nuovamente a Münster la risurrezione
del regno di Gerusalemme. Non più Taborriti o Millenarii,
Non più Fourier, che aspettasse chez soi, a ora fissa, per
degli anni, il candidato della umanità. Non era più
il caso che l'iniziatore di una nuova vita cominciasse da
sé a mettere in essere, con mezzi escogitati, e in modo
unilaterale ed artificiale, il primo nocciolo di una
consociazione, che rifacesse, come albero da germoglio, la pianta
uomo: - come accadde da Bellers, attraverso Owen e Cabet, fino
alla impresa dei fourieristi nei Texas, che fu la catastrofe, anzi
la tomba, dell'utopismo, illustrata da un singolare epitaffio, la
calda eloquenza di Considérant che ammutolì. Qui non
è più la setta, che in atto di religiosa astensione
si ritragga pudica e timida dal mondo, per celebrare in chiusa
cerchia la perfetta idea della comunanza; come dai Fraticelli
giù giù alle colonie socialistiche di America.
Qui, invece, nella dottrina del comunismo critico, è la
società tutta intera, che in un momento del suo processo
generale scopre la causa del suo fatale andare, e, in un punto
saliente della sua curva, la luce a se stessa per dichiarare la
legge del suo movimento. La previsione, che il Manifesto per la
prima volta accennava, era, non cronologica, di preannunzio o di
promessa; ma era, per dirla in una parola, che a mio avviso
esprime tutto in breve, morfologica.
Di sotto allo strepito e al luccichio delle passioni, su le quali
di solito si esercita la cotidiana conversazione, più in
qua dai moti visibili delle volontà operanti a disegno, che
è quello che cronisti e storici vedono e raccontano,
più in giù dall'apparato giuridico e politico della
nostra convivenza civile, a molta distanza indietro dalle
significazioni, che la religione e l'arte dànno allo
spettacolo e all'esperienza della vita, sta, e consiste, e si
altera e trasforma la struttura elementare della società,
che tutto il resto sorregge. Lo studio anatomico di tale struttura
sottostante è la Economia. E perché la convivenza
umana ha più volte cambiato, o parzialmente o
integralmente, nel suo apparato esteriore più visibile, e
nelle sue manifestazioni ideologiche, religiose, artistiche e
simili, occorre di trovare innanzi tutto i moventi e le ragioni di
tali cangiamenti, che son quelli che gli storici di solito
raccontano, nelle mutazioni più riposte, e alla prima meno
visibili, dei processi economici della struttura sottostante.
Cioè, bisogna rivolgersi allo studio delle differenze che
corrono tra le varie forme della produzione, quando si tratti di
epoche storiche nettamente distinte, e propriamente dette: - e
dove si tratti di spiegarsi il succedersi di tali forme, ossia il
subentrare dell'una all'altra, occorre di studiare le cause di
erosione e di deperimento della forma che trapassa: - e da ultimo,
quando si voglia intendere il fatto storico concreto e
determinato, bisogna studiare e dichiarare gli attriti e i
contrasti che nascono dai vani concorrenti (ossia le classi, le
loro suddivisioni, e gl'intrecci di quelle e di queste), che
formano una determinata configurazione.
Quando il Manifesto
dichiarava, che tutta la storia fosse finora consistita nelle
lotte di classe, e che in queste fu la ragione di tutte le
rivoluzioni, come anche il motivo dei regressi, esso faceva due
cose ad un tempo. Dava al comunismo gli elementi di una nuova
dottrina, e ai comunisti il filo conduttore per ravvisare nelle
intricate vicende della vita politica, le condizioni del
sottostante movimento economico.
Nei cinquanta anni corsi da allora in qua, la previsione generica
di una nuova èra storica è diventata pei socialisti
l'arte minuta dell'intendere caso per caso quel che si convenga e
sia dovere di fare; perché quell'èra nuova è
per se stessa in continua formazione. Il comunismo è
diventato un’arte, perché i proletarii sono diventati, o
sono avviati a diventare, un partito politico. Lo spirito
rivoluzionario si plasma tuttodì nella organizzazione
proletaria. L'auspicata congiunzione dei comunisti e dei
proletarii1 è oramai un fatto. Questi cinquant'anni furono
la prova sempre crescente della ribellione sempre cresciuta delle
forze produttive contro le forme della produzione.
Fuori di questa lezione intuitiva delle cose, noi non abbiamo da
offrire altra risposta, noi utopisti, a quelli che parlano ancora
di turbamenti meteorici, che, secondo l'opinione loro, torneranno
tutti alla calma di questa insuperata ed insuperabile epoca di
civiltà. E tale lezione basta.
A undici anni dalla pubblicazione del Manifesto, Marx racchiudeva in chiara e
trasparente formula i principii direttivi della interpretazione
materialistica della storia; e ciò nella prefazione ad un
libro, che è il prodromo del Capitale. Ecco riprodotto il
brano:
Il primo lavoro da me
intrapreso, per risolvere i dubbii che mi assediavano, fu quello
di una revisione critica della Filosofia del diritto di Hegel;
del quale lavoro apparve la prefazione nei
“Deutsch-Französische Jahrbücher” pubblicati a Parigi
nel 1844. La mia ricerca mise capo in questo resultato: che i
rapporti giuridici e le forme politiche dello stato non possono
intendersi, né per se stessi, né per mezzo del
così detto sviluppo generale dello spirito umano; ma anzi
hanno radice nei rapporti materiali della vita, il cui complesso
Hegel raccoglieva sotto al nome di società civile,
secondo l'uso dei francesi ed inglesi del secolo decimottavo; e
che inoltre l'anatomia della società civile è da
cercare nell'economia politica. Le ricerche intorno a questa,
dopo cominciatele a Parigi, io le continuai a Bruxelles, dove
ero emigrato per l'ordine di sfratto avuto dal signor Guizot.
Il resultato generale che
n'ebbi, e che, una volta ottenuto, mi valse come di filo
conduttore dei miei studi, può essere formulato come
segue.
Nella produzione sociale della
loro vita gli uomini entran fra loro in rapporti determinati,
necessarii ed indipendenti dal loro arbitrio, cioè in
rapporti di produzione, i quali corrispondono a un determinato
grado di sviluppo delle materiali forze di produzione. L'insieme
di tali rapporti costituisce la struttura economica della
società, ossia la base reale, su la quale si eleva una
soprastruzione politica e giuridica, e alla quale corrispondono
determinate forme sociali della coscienza. La maniera della
produzione della vita materiale determina innanzi e soprattutto
il processo sociale, politico e intellettuale della vita. Non
è la coscienza dell'uomo che determina il suo essere, ma
è all'incontro il suo essere sociale che determina la sua
coscienza. A un determinato punto del loro sviluppo le forze
produttive materiali della società si trovano in
contraddizione coi preesistenti rapporti della produzione
(cioè coi rapporti della proprietà, il che
è l'equivalente giuridico di tale espressione), dentro
dei quali esse forze per l'innanzi s'eran mosse. Questi rapporti
della produzione, da forme di sviluppo delle forze produttive,
si convertono in loro impedimenti. E allora subentra un'epoca di
rivoluzione sociale. Col cangiare del fondamento economico si
rivoluziona e precipita, più o meno rapidamente, la
soprastante colossale soprastruzione.
Nella considerazione di tali
sommovimenti bisogna sempre distinguer bene tra la rivoluzione
materiale, che può essere naturalisticamente constatata
per rispetto alle condizioni economiche della produzione, e le
forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche e
filosofiche, ossia le forme ideologiche, nelle quali gli uomini
acquistano coscienza del conflitto, e in cui nome lo compiono.
Come non può farsi giudizio di quello che un individuo
è da ciò che egli sembra a se stesso, cosi del
pari non può valutarsi una determinata epoca
rivoluzionaria dalla sua coscienza; anzi questa coscienza stessa
deve essere spiegata per mezzo delle contraddizioni della vita
materiale, cioè per mezzo del conflitto che sussiste tra
forze sociali produttive e rapporti sociali della produzione.
Una formazione sociale non
perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze
produttive per le quali essa ha spazio sufficiente; e nuovi
rapporti di produzione non subentrano, se prima le condizioni
materiali di loro esistenza non siano state covate nel seno
della società che è in essere. Per ciò
l'umanità non si propone se non quei problemi che essa
può risolvere; perché, a considerare le cose
dappresso, si vede, che i problemi non sorgono, se non quando le
condizioni materiali per la loro soluzione ci son già, o
si trovano per lo meno in atto di sviluppo. A guardar la cosa a
grandi tratti, le forme di produzione asiatica, antica, feudale,
e moderno-borghese possono considerarsi come epoche progressive
della formazione economica della società. I rapporti
borghesi della produzione sono l'ultima forma antagonistica del
processo sociale della produzione - antagonistica non nel senso
dell'antagonismo individuale, anzi di un antagonismo che sorge
dalle condizioni sociali della vita degli individui; - ma le
forze produttive che si sviluppano nel seno della società
borghese mettono già in essere le condizioni materiali
per la risoluzione di tale antagonismo. Con tale formazione di
società cessa perciò la preistoria del genere
umano.
Quando Marx così scriveva, da parecchi anni già era
egli uscito dall'arena politica, e non vi rientrò se non
più tardi, ai tempi della Internazionale. La reazione avea
battuto in Italia, in Austria, in Ungheria, in Germania la
rivoluzione, o patriottica, o liberale, o democratica. La
borghesia, dal canto suo, avea battuto in pari tempo i proletarii
in Francia e in Inghilterra. Le condizioni indispensabili allo
sviluppo del movimento democratico e proletario vennero d'un
tratto a mancare. La schiera, non certo molto numerosa, dei
comunisti del Manifesto,
che s'era mescolata alla rivoluzione, e poi dopo partecipò
a tutti gli atti di resistenza e di insurrezione popolare contro
la reazione, vide da ultimo troncata la sua attività col
memorabile processo di Colonia. I sopravvissuti del movimento
tentarono di ricominciare a Londra; ma a breve andare Marx ed
Engels ed altri volsero le spalle ai rivoluzionari di professione,
e si ritrassero dall'azione prossima. La crisi era passata. Una
lunga pausa sopraggiungeva. Ne era indizio la lenta sparizione del
movimento cartista, ossia del movimento proletario del paese che
è la colonna vertebrale del sistema capitalistico. La
storia avea per il momento dato torto alla illusione dei
rivoluzionarii.
Prima di dedicarsi quasi esclusivamente alla prolungata
incubazione degli elementi già da lui trovati della critica
dell'economia politica, Marx illustrò in varii scritti la
storia del periodo rivoluzionario del 1848-50, e specie le lotte
di classe in Francia, documentando così, che, se la
rivoluzione, nelle forme che essa avea per il momento assunte, era
fallita, non rimaneva per ciò solo smentita la teoria
rivoluzionaria della storia1. La traccia appena indicata nel Manifesto veniva già
a metter capo nella esposizione piena.
E più in qua lo scritto, che ha per titolo: Il diciotto Brumaio di Luigi
Bonaparte, fu il primo tentativo di plasmare la nuova
concezione storica nel racconto di un ordine di fatti, che sia
chiuso in termini di tempo precisi. Non è, certo, piccola
difficoltà quella di risalire dal moto apparente al moto
reale della storia, per iscovrirne il nesso intimo. Cioè,
ci è grande difficoltà a risalire dagl'indici
passionati oratorii, parlamentari, elettorali e simili, all'intimo
ingranaggio sociale, per iscovrire in questo, dichiarandoli, i
vari interessi dei grandi e dei piccoli borghesi, dei contadini,
degli artigiani e degli operai, dei preti e dei soldati, dei
banchieri, degli usurai e della canaglia; i quali interessi
operano, consapevolmente o inconsciamente che siasi, urtandosi,
elidendosi, combinandosi, o fondendosi nella disarmonica vita dei
civilizzati.
La crisi era passata, ed era passata precisamente nei paesi, che
costituivano il terreno storico dal quale il comunismo critico era
sorto. Intendere la reazione nelle sue riposte cause economiche
era tutto quello che i comunisti critici potessero fare;
perché, per il momento, intendere la reazione era come
continuare l'opera della rivoluzione. Così accadde, in
altre condizioni e forme, venti anni dopo, quando Marx, in nome
della Internazionale, scrisse nell'opuscolo su la Guerra civile in
Francia una apologia della Comune, che fu al tempo stesso la
critica obiettiva di quella.
L'eroica rassegnazione, con la quale Marx uscì di dopo il
1850 dall'arena politica, ha un riscontro nel suo ritiro dalla
Internazionale, dopo il Congresso dell'Aia nel 1872. Ai biografi i
due fatti possono interessare per ritrovarvi dentro il suo
carattere personale; nel quale, in effetti, e le idee e il
temperamento, e la politica e il pensiero facevano tutt'uno. Ma in
questi fatti particolari c'è una significazione più
lata, e di maggior peso per noi. Il comunismo critico non fabbrica
le rivoluzioni, non prepara le insurrezioni, non arma le sommosse.
È, sì, tutt'una cosa col movimento proletario; ma
vede e sorregge questo movimento nella piena intelligenza della
connessione che esso ha, o può e deve avere, con l'insieme
di tutti i rapporti della vita sociale. Non è, in somma, un
seminario in cui si formi lo stato maggiore dei capitani della
rivoluzione proletaria; ma è solo la coscienza di tale
rivoluzione, e soprattutto, in certe contingenze, la coscienza
delle sue difficoltà.
Il movimento proletario è venuto crescendo in modo
colossale in questi ultimi trent'anni. Attraverso a molte
difficoltà, e con molte vicende di passi indietro e di
passi in avanti, esso ha via via assunto forme politiche, con
metodi a grado a grado escogitati e lentamente provati. I
comunisti non hanno evocato tutto ciò con l'azione magica
della dottrina, sparsa e comunicata con la virtù persuasiva
della parola e dello scritto. Fin dal principio seppero di essere
l'estrema ala sinistra di ogni movimento proletario; ma, a misura
che questo si sviluppava e si specificava, era necessità e
dovere ad un tempo per loro, di secondare, nei programmi e
nell'azione pratica dei partiti, le varie contingenze dello
sviluppo economico, e della conseguente situazione politica.
In questi cinquant'anni dalla pubblicazione del Manifesto in qua,
le specificazioni e le complicazioni del movimento proletario son
divenute tali e tante, che non è oramai mente che tutte le
abbracci, e penetri, e intenda, e spieghi nelle loro vere cause e
relazioni. L'internazionale unitaria durata nel periodo di tempo
del 1864-73, assolto che ebbe l'ufficio suo, che fu quello di un
pareggiamento preliminare nelle generali tendenze, e nelle idee
comuni e indispensabili a tutto il proletariato, dovette sparire;
né altri penserà, o potrà mai pensare, di
rifar nulla che le rassomigli.
Due cause, fra le altre, hanno fortemente contribuito a questa
vasta specificazione e complicazione del movimento proletario. La
borghesia ha sentito in molti paesi il bisogno di limitare, a
propria difesa, molti degli abusi che seguirono alla prima e
subitanea introduzione del sistema industriale; e di qui nacque la
legislazione operaia, o, come altri pomposamente dice, sociale. La
stessa borghesia, o a propria difesa, o sotto la pressione delle
circostanze, ha dovuto in molti paesi allargare le generiche
condizioni della libertà, e specie estendere il diritto di
suffragio. Per queste due circostanze, che han tratto il
proletariato entro la cerchia della vita politica di tutti i
giorni, la sua capacità di movimento è grandemente
cresciuta; e l'agilità e pieghevolezza maggiore, di cui
esso ora è fornito, gli permettono di contendere con la
borghesia nell'arena dei comizi e nelle aule parlamentari. E come
dal processo delle cose viene il processo delle idee, così
a questo multiforme sviluppo pratico del proletariato, che
è tanto vario di forme e d'intrecci, che nessuno può
più vederselo innanzi agli occhi e ripensarlo tutto, ha
corrisposto un graduale sviluppo delle dottrine del comunismo
critico nell'intendere la storia e nell'intendere la vita
presente, fino alla minuta descrizione delle più piccole
parti della economia: - esso, in somma, è diventato una
scienza, se tal nome vuoi essere inteso con la debita discrezione.
Ma non c'è forse in tutto ciò, dicono
insistentemente alcuni, come uno sviarsi dalla dottrina semplice e
imperativa del Manifesto?
Quello che si è guadagnato in estensione o
complessità, ripetono altri, non si è forse perduto
in intensità e in precisione?
Coteste domande nascono, a mio avviso, da un erroneo concetto del
presente movimento proletario, e da una illusione ottica circa il
grado di energia e circa il valore rivoluzionario delle
manifestazioni di molti anni fa.
Qualunque concessione la borghesia faccia nell'ordine economico,
fino alla massima riduzione delle ore di lavoro, riman sempre vero
il fatto, che la necessità dello sfruttamento, su cui
poggia tutto l'ordine sociale presente, ha limiti insormontabili,
oltre dei quali il capitale come privato istrumento di produzione
non ha più la sua ragion d'essere. Se una determinata
concessione può oggi sedare una immediata forma di
inquietezza nel proletariato, la concessione stessa non può
a meno di destare il desiderio di altre, e nuove, e sempre
crescenti. Il bisogno della legislazione operaia, nato in
Inghilterra in anticipazione del movimento cartista e sviluppatosi
poi con esso, ottenne i suoi primi successi nel periodo di tempo
immediatamente posteriore alla caduta del cartismo stesso. I
principii e le ragioni di tale movimento furono, nell'intrinseco
delle cause e degli effetti, studiati criticamente da Marx nel Capitale, e poi passarono
attraverso la Internazionale nei programmi dei partiti
socialistici. Ed ecco che da ultimo tutto cotesto processo,
concentratosi nella domanda delle otto ore, è diventato
nella festa del I° maggio una rassegna internazionale del
proletariato, e un modo di raccoglier gl'indici dei progressi di
esso.
D'altra parte, la giostra politica cui il proletariato s'avvezza,
ne democratizza le abitudini, anzi ne fa una vera democrazia; la
quale a lungo andare non potrà più adagiarsi nella
presente forma politica, che, come organo della società
dello sfruttamento, è una gerarchia burocratica, una
burocrazia giudicante, una associazione di mutuo soccorso fra i
capitalisti, ed è il militarismo a difesa dei dazii
protettori, della rendita perpetua del debito pubblico, della
rendita della terra, e così via dell'interesse del capitale
in ogni altra sua forma. I due fatti, adunque, che hanno
apparenza, secondo l'opinione dei furenti e degl'ipercritici, di
sviare in infinito le previsioni del comunismo, si convertono
invece in nuovi mezzi e condizioni che quelle previsioni
confermano. Gli apparenti deviatori della rivoluzione si
convertono, in somma, in suoi moventi.
Nè bisogna inoltre esagerare la portata della aspettazione
rivoluzionaria dei comunisti di cinquanta anni fa. Data la
situazione politica dell'Europa d'allora, se fu fiducia in loro,
fu quella di esser precursori, e furon di fatti: - se aspettazione
fu in loro, era quella che le condizioni politiche d'Italia,
d'Austria, di Ungheria, di Germania e di Polonia s'avvicinassero
alle forme moderne, e ciò è accaduto poi più
tardi, almeno in parte, e per altre vie: - se speranza fu in essi,
era questa, che il movimento proletario di Francia e d'Inghilterra
continuasse e si sviluppasse. La sopraggiunta reazione
spazzò via molte cose, e molti impliciti o avviati sviluppi
deviò e dilazionò. Ma spazzò anche via dal
campo del socialismo la vecchia tattica rivoluzionaria: - e questi
ultimi anni ne hanno creata una nuova. Ecco tutto1.
Né il Manifesto
volle esser altro e di meglio, se non il primo filo conduttore di
una scienza e di una pratica, che la sola esperienza e gli anni
poteano e doveano sviluppare. Ciò che esso reca intorno al
generale andamento del moto proletario concerne, dirò
così, il solo schema e il solo ritmo. In ciò si
riflette, senza dubbio, l'impressione che produceva allora su i
comunisti la esperienza dei due movimenti, che appunto cadevano
sott'occhi; quello di Francia, cioè, e soprattutto il
cartismo, che a breve andare fu colto da paralisi per la non
accaduta manifestazione insurrezionale del 10 aprile 1848. Ma in
tale schema non è nulla di idealizzato, che poi si converta
in una tassativa tattica di guerra; come più volte era
difatti accaduto, che i rivoluzionari riducessero in anticipato
catechismo ciò che non può essere se non un semplice
portato dello sviluppo delle cose.
Quello schema è diventato poi più vasto e più
complesso, grazie all'allargarsi del sistema borghese, che tanta
più parte di mondo ha investito e comprende. Il ritmo del
movimento è diventato più vario e più lento,
appunto perché la massa operaia è entrata su la
scena come vero e proprio partito politico; il che, cambiando i
modi e le scadenze dell'azione, ne cambia le movenze.
Come, innanzi al perfezionamento delle armi e degli altri mezzi di
difesa, la tattica delle sommosse è apparsa inopportuna; -
come la complicazione dello stato moderno fa apparire
insufficiente la improvvisata occupazione di un Hotel de Ville,
per imporre ad un intero popolo il volere e le idee di una
minoranza, sia pur essa coraggiosa e progressiva: - così
dal canto suo la massa proletaria non istà più alla
parola d'ordine di pochi capi, nè regola le sue mosse su le
prescrizioni di capitani, che possano, se mai, su le rovine di un
governo di classe o di consorteria, crearne un altro dello stesso
genere. La massa proletaria, là dove essa si è
svolta politicamente, ha fatto e fa la sua propria educazione
democratica. Cioè, elegge e discute i suoi rappresentanti,
e fa sue, esaminandole, le idee e le proposte, che quelli per
anticipazione di studio o di scienza abbiano intuito e presagito;
e sa già, o comincia almeno ad intendere, secondo i varii
paesi, che la conquista del potere politico non dee nè
può esser fatta da altri in nome suo, sia pure da gruppi di
coraggiosi antesignani, e che soprattutto quella conquista non
può riuscire con un colpo di mano. Essa, la massa
proletaria, in somma, o sa, o s'avvia ad intendere, che la
dittatura del proletariato, la quale dovrà preparare la
socializzazione dei mezzi di produzione, non può procedere
da una sommossa di una turba guidata da alcuni, ma deve essere e
sarà il resultato dei proletarii stessi, che siano,
già in sé, e per lungo esercizio, una organizzazione
politica.
Lo sviluppo e l'estensione del sistema borghese furon rapidi e
colossali in questi cinquanta anni. Oramai esso corrode la vecchia
e santa Russia, e crea, non che nell'America e nell'Australia, e
nell'India, ma per fino nel Giappone, nuovi centri di produzione
moderna, complicando le condizioni della concorrenza, e
gl’intrecci del mercato mondiale. Gli effetti delle mutazioni
politiche, o non mancarono, o non si faranno lungamente aspettare.
Egualmente rapidi e colossali furono i progressi del proletariato.
La sua educazione politica segna ogni giorno un nuovo passo verso
la conquista del potere politico. La ribellione delle forze
produttive contro la forma della produzione, ossia la lotta del
lavoro vivo contro il lavoro accumulato, si fa ogni giorno
più palese. Il sistema borghese è oramai su le
difese, e rivela lo stato e la posizione sua in questa singolare
contraddizione, che, cioè, il pacifico mondo della
industria è diventato un immane accampamento, entro del
quale vegeta il militarismo. L'epoca dell'industria pacifica
è diventata, per l'ironia delle cose, l'epoca del continuo
ritrovamento di nuovi e più potenti mezzi di guerra e di
distruzione.
Il socialismo s’è imposto. Per fino i semisocialisti, per
fino i ciarlatani che ingombrano di sé la stampa e le
assemblee dei nostri partiti, non sempre senza imbarazzo nostro,
sono un omaggio che le vanità e le ambizioni di ogni
maniera rendono a modo loro alla nuova potenza che sorge
all'orizzonte. Malgrado il divieto anticipato del socialismo
scientifico, che non è dato a tutti d'intendere, pullulano
e si moltiplicano ogni istante i farmacisti della questione
sociale, che han tutti qualcosa di particolare da suggerire o da
proporre, per curare od eliminare questo o quel malanno sociale; -
nazionalizzazione del suolo; monopolio dei grani da parte dello
stato; statificazione delle ipoteche; municipalizzazione dei mezzi
di trasporto; finanza democratica; sciopero generale; - e
così via, da non finirla mai! Ma la democrazia sociale
elimina tutte coteste fantasie, perché l'istinto della
propria situazione induce i proletarii, appena si addestrino
nell'arena politica, ad intendere il socialismo in modo
integrale1. A intendere, cioè, che ad una cosa sola essi
devono soprattutto mirare: all'abolizione, cioè, del
salariato: che una sola forma di società è quella
che rende possibile, e anzi necessaria, la eliminazione delle
classi: e cioè l'associazione che non produce merci; e che
tal forma di società non è più lo stato, anzi
è il suo opposto, ossia il reggimento tecnico e pedagogico
della convivenza umana, il selfgovernment del lavoro. Non
più giacobini, né quelli eroicamente giganti del
'93, né quelli in caricatura del 1848!
Democrazia sociale! - Ma non è questa, si ripete da molti,
una evidente attenuazione della dottrina del comunismo, che fu
espressa in termini così vibrati e risoluti nel Manifesto?
Non occorre certo di ricordare, come il nome di democrazia sociale
avesse in Francia significati di molto varii fra loro dal 1837 al
1848, che tutti poi si diluirono in un vago sentimento. Né
giova di spiegarsi, come i tedeschi sian riusciti a esprimere in
tale denominazione, il cui significato nel caso loro è da
cercare solo nel contesto del fatto stesso, tutto il ricco ed
ampio sviluppo del loro socialismo, dall'episodio di Lassalle,
oramai superato ed esaurito, fino ai giorni nostri. Certo è
che democrazia sociale può significare, ha significato e
significa tante cose, che né furono, né sono,
né saranno mai, né il comunismo, né il
consapevole avviamento alla rivoluzione proletaria. Certo è
del pari, che il socialismo contemporaneo, anche nei paesi dove lo
sviluppo suo è più chiaro, preciso e progredito, ha
sopra di sé di molta scoria dalla quale deve via via
liberarsi lungo il suo cammino; e certo è, infine, che a
tanti intrusi e ingrati ospiti fra noi fa da scudo e da coverchio
la troppo lata denominazione di democrazia sociale. Ma qui preme
di dire ben altro, e di fissare l'attenzione sopra un punto di
capitale importanza.
Conviene innanzi tutto di accentuare la prima parola del termine
composto, non già a risolvere ogni questione, ma ad ovviare
ad equivoci ed alterazioni. Democratica fu la costituzione della
Lega dei comunisti; democratico fu il suo modo di procedere, anche
nell'accogliere, discutendola, la nuova dottrina; democratica fu
la sua condotta nel mescolarsi alla rivoluzione del 1848, e nel
partecipare alla resistenza insurrezionale contro l'invadente
reazione; democratico fu, da ultimo, perfino il modo della sua
dissoluzione. In quel primo incunabulo dei nostri attuali partiti,
in quella, dirò così, prima cellula del nostro
complesso, elastico e sviluppatissimo organismo, oltre alla
coscienza della missione da compiere come precorrimento, era
già la forma e il metodo di convivenza, che soli convengono
ai preparatori della rivoluzione proletaria. La setta era superata
di fatto. Il predominio immediato e fantastico dell'individuo era
già eliminato. Predominava la disciplina attinta alla
esperienza della necessità, e alla dottrina, che di quella
necessità deve essere appunto la coscienza riflessa.
Così fu parimenti della Internazionale, il cui procedere
parve autoritario solo a quelli, che non riuscirono ad introdurvi
e a farvi valere l'importuna o fatua autorità propria.
Così è e deve essere nei partiti proletarii, e dove
ciò non è, o non può essere ancora,
l'agitazione proletaria, elementare appena e confusa, genera
soltanto illusioni, o dà pretesto all'intrigo. Ciò
che così non è, sarà la conventicola, nella
quale accanto all'illuso siede il pazzo e la spia. O sarà
la setta dei Fratelli Internazionali, che come parassita si
attaccò alla Internazionale, e la espose al discredito. O
la cooperativa, che degeneri in impresa, o si venda a un potente.
O il partito operaio non politico, che studia fra le altre cose le
contingenze del mercato, per introdurre la tattica degli scioperi
nelle sinuosità della concorrenza. O da ultimo
l'accozzaglia dei malcontenti, per la più parte spostati e
piccoli borghesi, che speculano sul socialismo come su di una fra
le tante altre frasi della moda politica. Tutti questi ed
attrettali impedimenti la democrazia sociale s'è trovato
fra i piedi sul suo cammino, e dovette più volte, come deve
tuttora di quando in quando, sbarazzarsene. Né sempre valse
l'arte della persuasione. Il più delle volte convenne e
conviene rassegnarsi, e aspettare che gli illusi traessero o
traggano dalla dura scuola del disinganno l'ammaestramento, che
non sempre si riceve volentieri per via dei ragionamenti.
Coteste intrinseche difficoltà del movimento proletario,
che la scaltra borghesia può spesso fomentare, e difatti
sfrutta, formano una non piccola parte della storia interna del
socialismo di questi ultimi anni.
Il socialismo non trovò impedimenti al suo sviluppo
soltanto nelle condizioni generali della concorrenza economica, e
nella resistenza dell'apparato politico; ma anche nelle condizioni
stesse della massa proletaria, e nella meccanica non sempre
chiara, per quanto inevitabile, dei suoi movimenti lenti, vani,
complessi, spesso antagonistici e contraddittorii. E ciò
oscura agli occhi di molti la cresciuta ed acuita semplificazione
di tutte le lotte di classe, nell'unica lotta tra capitalisti e
lavoratori proletarizzati1.
Il Manifesto, come non
avea scritto, secondo l'uso degli utopisti, l'etica e la
psicologia della società futura così non
dettò la meccanica di questo processo di formazione e di
sviluppo, in cui noi ci troviamo. Era già molto che alcuni
pionieri dischiudessero la via, su la quale conviene di mettersi
per intenderla e provarla. Del resto, l'uomo è l'animale
esperimentale per eccellenza, e perciò ha una storia, anzi
perciò solo fa la sua propria storia.
In questo cammino del socialismo contemporaneo, che è il
suo sviluppo perché è la sua esperienza, ci siamo
incontrati nella massa dei contadini.
Il socialismo, che si era dapprima praticamente e teoricamente
fissato e svolto nello studio e nella esperienza degli antagonismi
tra capitalisti e proletarii nell'ambito della produzione
industriale propriamente detta, s'è da ultimo appressato
alla massa nella quale vegeta l'idiotismo della campagna.
Conquistare la campagna è la quistione del giorno: malgrado
che il quintessenziale Schäffle avesse da gran tempo
collocato in quella, a difesa dell'ordine, i cranii
anticollettivistici dei contadini. La eliminazione, o
l'accaparramento della industria domestica per opera del capitale;
l'allargamento della industria agraria nella forma capitalistica;
la sparizione della piccola proprietà, o la sua erosione
mediante le ipoteche; il dileguarsi dei demanii comunali; l'usura,
le tasse e il militarismo; - tutte coteste cose insieme cominciano
ad operar miracoli anche in quei cranii, presuntivi custodi della
conservazione.
A tale impresa si è messo innanzi tutti il socialismo
tedesco, che era portato dal fatto stesso della sua colossale
espansione dalla città ai piccoli centri, a toccare
inevitabilmente i confini della campagna. Le prove saranno lunghe
e non facili, anzi dure; il che spiega, e scusa, e scuserà
per un pezzo gli errori che furono e saranno commessi ai primi
passi2. Finché i contadini non saranno conquistati, noi
avremo sempre alle spalle quell' idiotismo della campagna, che fa
o rinnova inconsapevolmente, appunto perché idiotismo, il
18 Brumaio e il 2 dicembre.
Con questa conquista della campagna andrà molto
probabilmente di pari passo lo sviluppo della società
moderna in Russia. Quando quel paese sarà entrato
nell'èra liberale, con tutti i difetti e gl'inconvenienti
che di questa son proprii, ossia con tutte le forme di
sfruttamento e di proletarizzazione schiettamente moderne, ma coi
vantaggi ed i compensi però dello sviluppo politico del
proletariato, la democrazia sociale non avrà più da
temere minaccia di improvvisi pericoli esterni; e quelli interni
essa si troverà di aver vinto in pari tempo con la
conquista dei contadini.
Istruttivo, è senza dubbio, il caso dell'Italia. Questo
paese, data che ebbe già in su la fine del Medioevo
l'avviata all'epoca capitalistica, uscì per secoli dalla
circolazione della storia. Caso tipico di decadenza documentata, e
studiabile precisamente nelle sue fasi! Rientrò in parte
nella storia ai tempi della dominazione napoleonica. Risorta ad
unità e diventata stato moderno, dopo l'epoca della
reazione e delle cospirazioni, e nei modi e per le vicende che
tutti sanno, l'Italia si è trovata di avere di recente
tutti gl'inconvenienti del parlamentarismo, e del militarismo, e
della finanza di novello stile, non avendo però in pari
tempo la forma piena della produzione moderna, e la conseguente
capacità della concorrenza a condizioni eguali. Impedita di
concorrere coi paesi d'industria avanzata, per la mancanza
assoluta del carbon fossile, per la scarsezza del ferro e per la
deficiente preparazione delle operosità e delle attitudini
tecniche, aspetta ora, o si lusinga, che le applicazioni della
elettricità le dian modo di riguadagnare il tempo perduto,
come si vede per gl'indizii dei varii tentativi da Biella a Schio.
Uno stato moderno in una società quasi esclusivamente
agricola, e in gran parte di vecchia agricoltura: - ciò
crea un sentimento di universale disagio, ciò dà la
generale coscienza della incongruenza di tutto e d'ogni cosa!
Di qui la incoerenza e la inconsistenza dei partiti, di qui le
facili oscillazioni dalla demagogia alla dittatura, di qui la
folla, la turba, l'infinita schiera dei parassiti della politica,
e poi dei progettisti, dei fantastici e degl'inventori d'idee.
Rischiara di luce vivissima questo singolare spettacolo dì
uno sviluppo sociale impedito, ritardato, intralciato e
perciò incerto, l'acuto ingegno, che se non è sempre
frutto ed espressione di molta e vera coltura moderna, reca
però in sé, per vecchio abito di millenare
civiltà, l'impronta di un raffinamento cerebrale quasi
insuperabile. L'Italia non fu, per ragioni ovvie, terreno proprio
di una autogenetica formazione di idee e di tendenze
socialistiche. Filippo Buonarroti, italiano, da amico già
del minore dei Robespierre divenne il compagno di Babeuf, e fu
poscia più tardi il rinnovatore del babuvismo nella Francia
di dopo il 1830! Il socialismo fece la sua prima apparizione in
Italia ai tempi della Internazionale, nella confusa e incoerente
forma del bakuninismo; e non come movimento di massa proletaria,
ma anzi come di piccoli borghesi, di déclassés e di
rivoluzionari per impulso e per istinto1. Di recente, in questi
ultimi anni, il socialismo vi si è andato fissando e
concretando in una forma che riproduce, con molta incertezza
però, ossia con poca precisione, il tipo generale della
democrazia sociale2.Ebbene, in Italia, il primo segno di vita, che
il proletariato abbia dato di sé, è consistito nelle
sollevazioni dei contadini di Sicilia, alle quali altre dello
stesso tipo ne tennero dietro sul continente, ed altre assai
probabilmente ne succederanno in seguito. Non è ciò
assai significativo?
Dopo tale scorsa nel campo del socialismo contemporaneo, si torna
volentieri col pensiero e con l'animo al ricordo di quei primi
precursori nostri di cinquanta anni fa, i quali documentarono nel
Manifesto la presa di possesso di un posto avanzato sulla via del
progresso. Né ciò è da intendere segnatamente
ed esclusivamente per rispetto ai soli teorici della schiera;
cioè per Marx ed Engels. L'uno e l'altro avrebbero
esercitato in ogni caso e sempre, o dalla cattedra, o dalla
tribuna, o con gli scritti, una non piccola influenza su la
politica e su la scienza, tale e tanta era in loro la potenza e la
originalità dell'ingegno e la estensione delle conoscenze,
quando anche non si fossero imbattuti mai sul cammino della vita
nella Lega dei comunisti. Ma intendo dire di quegli uomini, che
nel gergo vano ed orgoglioso della letteratura borghese sarebber
detti oscuri: - di quel calzolaio Bauer, di quei sarti Lessner ed
Eccarius, di quel miniaturista Pfänder, di quell'orologiaio
Moll1, di quel Lochner, o come altro si chiamino quei che primi
iniziarono consapevolmente il nostro movimento. Sta come indice
della loro apparizione il motto: Proletarii di tutto il mondo,
unitevi. Sta come resultato dell'opera loro: il passaggio del
socialismo dall'utopia alla scienza. La sopravvivenza dell'istinto
loro e del loro primitivo impulso nell'opera nostra dell'oggi,
è il titolo indimenticabile, che quei precursori si
acquistarono alla gratitudine di tutti i socialisti.
Come italiano ritorno io tanto più volentieri su questo
primo inizio del socialismo moderno, perché, per la mia
parte almeno, non rimanga senza effetto un recente monito
dell'Engels:
E così la scoverta, che, sempre e da per tutto, le
condizioni e gli accadimenti politici trovino la loro spiegazione
nelle rispettive condizioni economiche, non sarebbe stata punto
fatta da Marx nell'anno 1845, ma anzi dal signor Loria nel r886.
Per lo meno egli è riuscito ad imporre tale credenza ai
suoi concittadini, e da che il suo libro fu tradotto in Francia,
anche ad alcuni francesi, e può ora andare attorno per
l'Italia tronfio e pettoruto, come scovritore di una teoria che fa
epoca; finché i socialisti del suo paese non trovino il
tempo di strappare all'illustre Loria le rubate penne di pavone.
Vorrei finire; ma conviene m'indugi ancora.
Da tutte le parti e da tutti i campi si levano proteste, sorgono
lamenti, si affacciano obiezioni contro il materialismo storico. E
al coro mescolano, di qua e ai là, la voce loro i
socialisti immaturi, i socialisti filantropici, o i socialisti
sentimentali e alquanto isterici. E poi ricomparisce, come monito,
la questione del ventre. E son tanti quelli che giuocano di
scherma logica con le categorie astratte dell'egoismo e
dell'altruismo; e per molti vien sempre in buon punto la ormai
inevitabile lotta per l’esistenza!
Morale! Ma non l'abbiamo noi udita da un pezzo già la
lezione di cotesta morale dell'epoca borghese, dalla Favola delle
Api di quel Mandeville, che fu coetaneo della prima formazione
della Economia classica? E la politica di cotesta morale non fu
spiegata, con caratteri di insuperata ed indimenticabile
classicità, dal primo grande scrittore politico dell'epoca
capitalistica, da Machiavelli: non inventore lui, ma anzi fedele
ed accurato segretario ed estensore del machiavellismo? E la
giostra logica dell'egoismo e dell'altruismo non ci sta tutta
sott'occhi, dal reverendo Malthus, a cotesto tenue, vacuo,
prolisso e noioso ragionatore, che è l'oramai
indispensabile Spencer? Lotta per l'esistenza! Ma volete
osservarne, studiarne ed intenderne una, che sia più
intuitiva per noi di questa che è sorta e giganteggia
nell'agitazione proletaria? O è forse che volete voi
ridurre la spiegazione di cotesta lotta, - la quale si svolge e si
esercita nel campo supernaturale della società, che l'uomo
stesso si è creato attraverso la storia, col lavoro, con la
tecnica e con le istituzioni, e che l'uomo stesso può
cambiare con altre forme di lavoro, di tecnica e di istituzioni, -
semplicemente a quella più generale della lotta, che piante
ed animali, e gli uomini stessi in quanto sono puramente animali,
combattono nell'ambito immediato della natura?
Ma stiamo all'argomento nostro.
Il comunismo critico non si è rifiutato mai, né si
rifiuta, di accogliere in sé tutta la molteplice e ricca
suggestione ideologica, etica, psicologica e pedagogica, che
può venirgli dalla conoscenza e dallo studio di quante mai
forme furono di comunismo e di socialismo, da Falea di Calcedonia
a Cabet1. Anzi gli è precisamente con lo studio e per la
conoscenza di tali forme, che si sviluppa e si fissa la coscienza
del distacco del socialismo scientifico da tutto il resto. E chi
in tale studio vorrà rifiutarsi di riconoscere, ad esempio,
che Tommaso Moro fu un animo eroico e uno scrittore insigne del
socialismo? E chi vorrà non rendere nel proprio animo un
tributo di straordinaria ammirazione a Roberto Owen, il quale
primo acquisì all'etica del comunismo questo principio
indiscutibile: che il carattere e la morale degli uomini sono il
necessario resultato delle condizioni in cui essi vivono, e delle
circostanze in cui si trovano e si sviluppano? E inoltre i
comunisti critici si credono in dovere, nel ripensare alla storia,
di pigliar partito per tutti gli oppressi, quale che fosse la
sorte loro; - e fu invero sempre quella di rimanere oppressi, o di
aprir le vie, dopo breve ed efimero successo, a nuovo dominio di
nuovi oppressori!
Ma c'è un punto in cui i comunisti critici si distinguono
nettamente da tutte le altre forme e maniere di comunismo e di
socialismo antico, moderno, o contemporaneo: e questo punto
è di capitale importanza.
Essi non possono ammettere, che le passate ideologie rimanessero
senza effetto, e che i passati tentativi del proletariato fossero
sempre superati e vinti, per un puro accidente della storia, o per
un capriccio, per così dire, delle circostanze. Tutte
quelle ideologie, per quanto riflettessero, infatti, il sentimento
implicito o diretto delle antitesi sociali, ossia delle reali
lotte di classe, con alta coscienza della giustizia e con profonda
devozione a un forte ideale, rivelan tutte però l'ignoranza
delle cause vere e della natura effettiva delle antitesi, contro
le quali si levavano con atto rapido di ribellione spesso eroica.
Di qui il carattere di utopia! E così noi ci rendiamo
parimenti conto del fatto, che le condizioni di oppressione di
altri tempi, per quanto più barbare e crudeli, non dessero
luogo a quella accumulazione di energia, a quella
continuità di resistenza e di opera, che si trovano, si
avverano e si svolgono nel proletariato dei tempi nostri. È
il cambiamento della società nella sua struttura economica,
è la formazione del proletariato nuovo nell'ambito della
grande industria e dello stato moderno, è l'apparire di
questo proletariato su la scena politica: - sono le cose nuove, in
somma, che hanno ingenerato il bisogno di idee nuove. E per
ciò il comunismo critico non moralizza, non predice, non
annunzia, né predica, né utopizza: - ha già
la cosa in mano, e nella cosa stessa ha messo la sua morale e il
suo idealismo.
Per tale nuova orientazione, che ai sentimentali par dura,
perché troppo vera, veristica ed effettuale, noi siamo in
grado di rifarci regressivamente su la storia del proletariato, e
degli altri oppressi da altri metodi di oppressione, che questo
precedettero. E ne vediamo le varie fasi; e ci rendiamo conto
dell’insuccesso del cartismo; e poi più indietro di quello
della cospirazione degli Eguali; e risaliamo ancora più in
là alle varie sommosse e resistenze e guerre, come fu
quella famosa dei contadini di Germania, e poi più in su
alla jacquerie, e ai Ciompi, e a Fra Dolcino. E in tutti questi
fatti e avvenimenti scorgiamo forme e fenomeni correlativi al
divenire della borghesia, a misura che essa dilacera, sconvolge,
vince e sfascia il sistema feudale. Lo stesso possiamo fare per le
lotte di classe del mondo antico; ma solo in parte, e con minor
chiarezza. Questa storia del proletariato e delle altre classi di
oppressi, e delle vicende delle loro rivolte, ci è
già guida sufficiente per intendere come e perché
fossero premature, o immature, le ideologie del comunismo di altri
tempi.
La borghesia, se non è giunta ancora e da per tutto al
termine della sua evoluzione, è giunta di certo in alcuni
paesi quasi all'apice di questa. Subordina, nelle nazioni
più progredite, le varie e multiformi maniere di produzione
di altri tempi, sia per diretto o sia per indiretto, all'azione ed
alla legge del capitale. E così, o semplifica, o tende a
semplificare le varie lotte di classe, che per la loro
molteplicità in altri tempi si elisero, in questa sola tra
il capitale, che ogni prodotto del lavoro umano indispensabile
alla vita converte in merce, e la massa proletarizzata, che offre
a mercede la sua forza di lavoro, diventata anch'essa semplice
merce. Il segreto della storia si è semplificato. Siamo
alla prosa. E come questa presente, ossia la modernissima lotta di
classe è la semplificazione di tutte le altre, così
il comunismo del Manifesto semplificò in rigidi e generali
enunciati teorici la multiforme suggestione ideologica, etica,
psicologica e pedagogica delle altre forme di comunismo, non
negandole, ma elevandole di grado. Siamo alla prosa; ed anche il
comunismo diventa prosa: ossia è scienza. Per ciò il
Manifesto non ha retorica di proteste, né reca piati. Non
lamenta il pauperismo per eliminarlo. Non spande lagrime su
niente. Le lagrime delle cose si sono già rizzate in piedi,
da sé, come forza spontaneamente rivendicatrice. L'etica e
l'idealismo consistono oramai in ciò: mettere il pensiero
scientifico in servizio del proletariato, Se questa etica non pare
morale abbastanza ai sentimentali, che sono il più delle
volte isterici e fatui, vadano a chiedere l'altruismo al gran
pontefice Spencer. Ne darà loro la sciatta, e insipida, e
inconcludente definizione: e di ciò si appaghino.
Ma, dunque, si tratta di estendere alla spiegazione di tutta la
storia il solo fattore economico?
Fattori storici! Ma questa è espressione da empiristi della
ricerca, o da astratti analizzatori, o da ideologi che ripetono
Herder. La società è un complesso, ovvero un
organismo, come dicon quelli che volentieri adoperano così
ambigua immagine, e si perdon poi ad almanaccare sul valore e su
l’uso analogico di tale espressione. Questo complesso si è
formato ed ha cambiato più volte. Quale la spiegazione di
tale mutamento?
Già molto prima che Feuerbach desse il colpo di grazia alla
spiegazione teologica della storia (l'uomo ha fatto la religione,
e non la religione l'uomo!), il vecchio Balzac l'avea volta in
satira, facendo degli uomini le marionette di Dio. E non avea
già Vico ritrovato, che la Provvidenza non opera ab extra
nella storia, ma anzi opera come quella persuasione, che gli
uomini hanno della esistenza sua? E lo stesso Vico, già un
secolo avanti al Morgan, non avea ridotto la storia tutta ad un
processo, che l'uomo compie da sé come per una successiva
esperimentazione, che è ritrovamento della lingua, delle
religioni, dei costumi e del diritto? Non era parso a Lessing, che
la storia fosse una educazione del genere umano? Non avea Gian
Giacomo già visto, che le idee nascono dai bisogni? Non
toccò quasi da vicino Saint-Simon, quando non fantasticava
di epoche organiche ed inorganiche, la genesi reale del terzo
stato: e le sue idee, tradotte in prosa, non dettero in Agostino
Thierry, un vero innovatore delle ricerche critiche sul passato?
Nel primo cinquantennio di questo secolo, e specie nel periodo dal
1830-50, le lotte di classe, che gli storici antichi e quelli
della Italia della Rinascenza avean così vivamente
descritte, per quanto ne desse loro occasione di esperienza
l'angusto ambito delle repubbliche di città, eran cresciute
e s'erano ingrandite di qua e di là dalla Manica in
proporzione e in evidenza sempre maggiori. Nate nell'ambito della
grande industria, illustrate dal ricordo e dallo studio della
Grande Rivoluzione, diventavano esse intuitivamente istruttive,
perché, con maggiore o con minore chiarezza e
consapevolezza, trovavano la loro attuale e suggestiva espressione
nei programmi dei partiti politici: p. e., libero scambio, o dazii
sul grano in Inghilterra, e così via. La concezione della
storia si cambiava in Francia a vista d'occhi, così
nell'ala destra come nell'ala sinistra dei partiti letterarii, da
Guizot a Louis Blanc, e fino al tenue e modesto Cabet. La
sociologia era il bisogno del tempo, e, se cercò invano la
sua espressione teoretica in Comte, scolastico ritardatario,
trovò di certo l'artista in Balzac, che fu il vero
rinvenitore della psicologia delle classi. Riporre nelle classi e
nei loro attriti il subietto reale della storia, e il moto di
questa nel moto di quelle, ecco ciò che si andava cercando
e scovrendo: e di ciò bisognava fissare in termini la
precisa teoria.
L'uomo ha fatto la sua storia, non per metaforica evoluzione,
né per correr su la linea di un presegnato progresso. L'ha
fatta, creandone a se stesso le condizioni; cioè, formando
a se stesso, mediante il lavoro, un ambiente artificiale, e
sviluppando successivamente le attitudini tecniche, e accumulando
e trasformando i prodotti della operosità sua, per entro a
tale ambiente. Noi di storia ne abbiamo una sola: né quella
reale, che è effettivamente accaduta, possiamo noi
confrontare con un'altra meramente possibile. Dove trovare le
leggi di tale formazione e sviluppo? Le antichissime formazioni
non ci son chiare alla prima. Ma questa società borghese,
come nata di recente, e non giunta ancora a pieno sviluppo nemmeno
in ogni parte di Europa, serba in sé le tracce
embriogenetiche della sua origine e del suo processo, e le mette
in piena evidenza nei paesi in cui sorge appena sotto ai nostri
occhi, p. e., nel Giappone.
Come società che trasforma tutti i prodotti del lavoro
umano in merci, mediante il capitale, come società che
suppone il proletariato, o lo crea, e che ha in sé
l'inquietezza, la turbolenza, la instabilità delle continue
innovazioni, essa è nata in tempi certi, con modi
assegnabili e chiari, per quanto varii. Di fatti, nei diversi
paesi ha modi differenti di sviluppo: dove, p. es., comincia prima
che altrove, come in Italia., e poi si arresta; e dove, come in
Inghilterra, procede costantemente per tre secoli di economica
espropriazione delle precedenti forme di produzione, o della
vecchia proprietà, come dicesi nella lingua dei giuristi.
In un paese essa si fa a grado a grado, combinandosi con le forze
preesistenti, e di quelle subisce l'influsso per adattamento, come
fu il caso della Germania, ed ecco che in altro paese rompe
l’involucro e le resistenze in modo violento, come accadde in
Francia, dove la Grande Rivoluzione rappresenta il caso più
intensivo e vertiginoso di azione storica che si conosca, ed
è perciò la più grande scuola di sociologia.
In brevi e magistrali tratti, come ho già notato, cotesta
formazione della società moderna, ossia borghese, fu
tipicamente rifatta nel Manifesto;
dove n'è dato il generale profilo anatomico, negli aspetti
successivi di corporazione, commercio, manifattura e grande
industria, aggiuntavi la indicazione degli organi ed apparati
derivati e complessi, che sono il diritto, le costituzioni
politiche e così via. Ed ecco che gli elementi primi della
teoria per ispiegare la storia col principio delle lotte di classe
ci eran già implicitamente.
Questa medesima società borghese, che rivoluzionò
tutte le precedenti forme di produzione, avea fatto luce a se
stessa e al suo processo, creando la dottrina della sua struttura,
ossia la Economia. Essa difatti non è nata e non si
è svolta nella incoscienza che fu propria delle
società primitive; ma anzi alla luce meridiana del mondo
moderno, dalla Rinascenza in qua.
La Economia, come tutti sanno, nacque frammentaria in origine
nella prima epoca della borghesia, che fu del commercio e delle
grandi scoverte geografiche; ossia nella prima fase del
mercantilismo, e poi nella seconda di esso. E nacque, per
rispondere dapprima a speciali questioni: - è legittimo
l'interesse?; conviene agli stati e alle nazioni di accumular
danaro?; e così di seguito. Crebbe poi, estendendosi a
più complessi aspetti del problema della ricchezza, e si
sviluppò nella transizione dal mercantilismo alla
manifattura, e da ultimo più rapidamente e più
risolutamente nella transizione da questa alla creazione della
grande industria. Fu l'anima intellettuale della borghesia che
conquistava la società. Era già, come disciplina,
quasi condotta a termine nei suoi principali lineamenti alla
vigilia della Grande Rivoluzione; e fu segnacolo alla ribellione
contro le vecchie forme del feudo, della corporazione, del
privilegio, delle limitazioni al lavoro e così via:
cioè fu segnacolo di libertà. Perché, di
fatti, il diritto di natura, che si venne sviluppando dai
precursori di Grozio fino a Rousseau, a Kant e alla costituzione
del '93, non fu se non il duplicato e il complemento ideologico
della Economia; tanto è che, spesso, e cosa e complemento
si confondono in uno nella mente e nei postulati degli scrittori,
come è il caso tipico dei fisiocratici.
Come dottrina sceverò, distinse, analizzò gli
elementi e le forme del processo della produzione, circolazione e
distribuzione, riducendo il tutto in categorie: danaro,
danaro-capitale, interesse, profitto, rendita della terra,
salario, e così di seguito. Corse sicura, con costante
incremento di analisi, e più spiccatamente da Petty a
Ricardo. Padrona essa sola del campo, incontrò rare
obiezioni1. Lavorò su due presupposti, che poco o punto si
dette pensiero di difendere, tanto parevano evidenti: e,
cioè, che l'ordine sociale che illustrava fosse l'ordine
naturale; e che la proprietà privata dei mezzi di
produzione fosse una cosa sola con la libertà umana: il che
faceva del salariato, e della inferiorità dei salariati,
condizioni d'essere indispensabili. In altre parole, non vide la
condizionalità storica delle forme che dichiarava e
spiegava. Le stesse antitesi che incontrò per via, nei
tentativi di una conseguente sistematica più volte provata
e mai riuscita, cercò di eliminarle logicamente; come
è il caso di Ricardo nel tentativo di combattere la non
meritata rendita della terra.
In principio del secolo scoppiano violente le crisi, e quei primi
movimenti operai, che hanno la loro origine immediata e diretta
nell'acuta disoccupazione. L'illusione dell'ordine naturale
è rovesciata! La ricchezza ha generato la miseria! La
grande industria, alterando tutti i rapporti della vita, ha
aumentato i vizii, le malattie, la soggezione: essa, in somma,
è causa di degenerazione! Il progresso ha generato il
regresso! Come fare, perché il progresso non generi altro
che progresso; e cioè prosperità, salute, sicurezza,
educazione e sviluppo intellettuale egualmente per tutti? In
questa domanda è tutto Owen; che ebbe di comune con Fourier
e con Saint-Simon questo carattere: del non richiamarsi oramai
più all'abnegazione o alla religione, e del volere
risolvere e superare le antitesi sociali, senza diminuzione della
energia tecnica ed industriale dell'uomo, anzi con l'incremento di
essa. Owen diventò comunista per cotesta via; ed è
il primo che sia divenuto tale entro all'ambito e per l'esperienza
della grande industria moderna. L'antitesi pare dapprima sia tutta
riposta nella contraddizione tra il modo della distribuzione e il
modo della produzione. Questa antitesi bisogna dunque vincerla in
una società, che produca collettivamente. Owen
diventò utopista. Questa società perfetta bisogna
sperimentalmente avviarla; e lui ci si mise con eroica costanza,
con abnegazione impareggiabile, con matematica precisione di
particolari argomentati ed escogitati.
Posta cotesta immediata antitesi tra produzione e distribuzione,
si seguirono in Inghilterra, da Thompson a Bray, molti scrittori
di un socialismo che non può dirsi strettamente utopistico,
ma deve dirsi unilaterale, perché mirante a correggere i
rivelati e denunciati vizii della società con uno o
più rimedii2. Di fatti, la prima tappa che si faccia da
chiunque si metta per la prima volta su la via del socialismo, gli
è di mettere in contraddizione la produzione con la
distribuzione. E poi nascono spontanee queste ingenue domande:
perché non abolire il pauperismo; non eliminare la
disoccupazione; non toglier di mezzo l'intermedio della moneta;
non favorire lo scambio diretto dei prodotti in ragione del lavoro
che contengono; non dare al lavoratore l'intero prodotto del suo
lavoro?, e simili. Queste domande risolvono le cose dure, tenaci e
resistenti della vita reale in tanti ragionamenti, e mirano a
combattere il sistema capitalistico come fosse un meccanismo, cui
si tolgano o si aggiungano, pezzi, ruote ed ingranaggi.
Con tutte coteste tendenze la ruppero recisamente i comunisti
critici. Essi furono i successori e continuatori della Economia
classica1. Questa è la dottrina della struttura della
presente società. Ora non è dato a nessuno di
combattere cotesta struttura praticamente, e rivoluzionariamente,
senza rendersi innanzi tutto conto esatto degli elementi, e forme
e rapporti suoi, approfondendo appunto la dottrina che la
illustra. Queste forme, e elementi, e rapporti si generarono,
sì, in date condizioni storiche; ma ora sono, e sono
resistenti, e connessi, e correlativi fra loro, e perciò
costituiscono sistema e necessità. Come passar sopra a tale
sistema con un atto di negazione logica, e come eliminarlo coi
ragionamenti? Eliminare il pauperismo? Ma se è condizione
necessaria del capitalismo! - Dare all'operaio l'intero frutto del
suo lavoro? Ma dove se ne andrebbe il profitto del capitale? - E
dove e come il danaro speso in merci potrebbe crescere di un
tanto, se fra tutte le merci che incontra, e con le quali si
scambia, non ce ne fosse appunto una, che produce a chi la compra
più di quel che gli costi; e se questa merce non fosse
appunto la forza-lavoro presa a salario?
Il sistema economico non è una fila o una sequela di
astratti ragionamenti; ma è anzi un connesso ed un
complesso di fatti, in cui si genera una complicata tessitura di
rapporti. Pretendere che questo sistema di fatti, che la classe
dominatrice si è venuto costituendo a gran fatica,
attraverso i secoli, con la violenza, con l'astuzia, con
l'ingegno, con la scienza, ceda le armi, ripieghi, o si attenui,
per far posto ai reclami dei poveri, o ai ragionamenti dei loro
avvocati, gli è cosa folle. Come chiedere l'abolizione
della miseria, senza rovesciare tutto il resto? Chiedere a questa
società, che essa muti anzi rovesci il suo diritto, che
è la sua difesa, gli è chiederle l'assurdo. Chiedere
a questo stato, che esso cessi dall'essere lo scudo e anzi il
baluardo di questa società e di questo diritto, è
volere l'illogico.
Cotesto socialismo unilaterale, che, senza essere strettamente
utopistico, parte dal preconcetto che la storia ammetta la
errata-corrige senza rivoluzione, ossia senza fondamentale
mutazione nella struttura elementare e generale della
società stessa, o è una ingenuità, o è
un imbarazzo. La sua incoerenza con le rigide leggi del processo
delle cose si faceva chiara appunto in Proudhon; che, o
riproduttore inconsapevole, o diretto ricopiatore di alcuni dei
socialisti unilaterali inglesi, voleva intendere, fermare o mutare
la storia su la punta di una definizione, o con l'arma di un
sillogismo.
I comunisti critici riconobbero il diritto della storia di fare il
suo cammino. La fase borghese è superabile, sì, e
sarà superata. Ma, finché dura, ha le sue leggi. La
relatività di queste sta nel fatto, che esse si formarono e
si svilupparono in determinate condizioni; ma relatività
non vuol dire semplice opposto di necessità, ossia
fugacità, mera apparenza, o anzi bolla di sapone. Possono
sparire e spariranno, per il fatto stesso del mutarsi della
società. Ma non cedono all'arbitrio soggettivo, che annunci
una correzione, proclami una riforma, o formuli un progetto. Il
comunismo sta dalla parte del proletariato, perché in
questo solo consiste la forza rivoluzionaria, che rompe, infrange,
sommuove e dissolve la presente forma sociale, e pone dentro di
questa via via nuove condizioni; anzi, per essere più
esatti, col fatto stesso del suo moto dimostra, che le condizioni
nuove vi si creano, e fissano, e svolgono fin da ora di
già.
La teoria della lotta di classe era trovata. Si conosceva da due
capi: nelle origini della borghesia, il cui processo intrinseco
era già reso chiaro dalla scienza dell'economia; e in
questa apparizione del nuovo proletariato, condizione ed effetto
al tempo stesso della nuova forma di produzione. La
relatività delle leggi economiche era scoverta; ma al tempo
stesso era riconfermata la loro relativa necessità. E in
ciò è tutto il metodo e la ragione della nuova
concezione materialistica della storia. Errano quelli che,
chiamandola interpretazione economica della storia, credono di
intendere e di fare intender tutto. Quest'altra designazione qui
si conviene meglio a certi tentativi analitici1, che, pigliando a
parte, di qua i dati delle forme e categorie economiche, e di
là p. e. il diritto, la legislazione, la politica, il
costume, studiano poi i vicendevoli influssi dei varii lati della
vita così astrattamente e così soggettivamente
distinti. Tutt'altro è il fatto nostro.
Qui siamo nella concezione organica della storia. Qui è la
totalità e la unità della vita sociale che si ha
innanzi alla mente. Qui è la economia stessa (intendo dire
dell'ordinamento di fatto e non della scienza intorno ad esso) che
vien risoluta nel flusso di un processo, per apparir poi in tanti
stadii morfologici, in ciascun dei quali fa da relativa
sostruzione del resto, che le è corrispettivo e congruo.
Non si tratta, in somma, di estendere il cosiddetto fattore
economico, astrattamente isolato, a tutto il resto, come
favoleggiano gli obiettatori; ma si tratta invece e innanzi tutto
di concepire storicamente la economia, e di spiegare il resto
delle mutazioni storiche per le mutazioni sue. E in ciò
è la risposta a tutte le critiche, che si levano da tutti i
campi della dotta ignoranza, o della ignoranza male addottrinata,
non escluso quello di quei socialisti, che siano immaturi, o
sentimentali, o isterici. E in tale risposta è anche
chiarito, perché Marx scrivesse, nel Capitale, non il primo
libro del comunismo critico, ma l'ultimo grande libro intorno alla
economia borghese.
Il Manifesto fu scritto
quando la orientazione storica non andava ancora più in
là del mondo classico, delle antichità germaniche
appena dichiarate, e della tradizione biblica da poco tempo
cominciata a ridurre alle condizioni prosaiche di ogni altra
storia profana. Altra è ora la orientazione nostra,
perché si risale alla preistoria ariana, e alle
antichissime formazioni dell'Egitto, e a quella della Mesopotamia,
che precedono ogni ricordo di tradizioni semitiche. E poi si
risale più indietro, nella linea della così detta
preistoria, ossia della storia non scritta.
La geniale esplorazione e combinazione del Morgan ci ha dato
l'intima conoscenza della società antica ossia prepolitica,
e la chiave per intendere come da quella sian poi sorte le
formazioni posteriori, che hanno i loro indici nella
monogamia, nello sviluppo della famiglia paterna, nell'apparire
della proprietà, dapprima gentilizia, poscia familiare e
infine individuale, e nel successivo fissarsi delle alleanze delle
genti, nelle quali poi si origina lo stato. E tutto ciò
è illustrato, così dalla conoscenza del processo
della tecnica nella scoverta e nell'uso dei mezzi ed istrumenti
del lavoro, come dall'intendimento dell'azione che quel processo
esercitò sul complesso sociale, spingendolo su certe vie, e
facendogli percorrere certi stadii. Tali scoverte e combinazioni
sono ancora capaci di molte correzioni, specie per la varia
maniera specifica come può essersi avverato in diverse
parti del mondo il passaggio dalla barbarie alla civiltà.
Sta però ora indiscutibile il fatto: che noi abbiamo
già chiare sott'occhi le generali tracce embriogenetiche
dello sviluppo umano, dal comunismo primitivo a quelle complesse
formazioni, che, come p. e. lo stato di Atene o di Roma con
costituzione di cittadini per classi di censo, rappresentavano
fino a poco fa nella tradizione scritta le colonne d'Ercole della
ricerca.
Le classi, che il
Manifesto presupponeva,
furono oramai risolute nel loro processo di formazione; e
già in questo si riconosce lo schema generale di ragioni e
cause economiche peculiari e proprie, ossia così fatte, che
non ripetono le categorie della scienza economica di questa nostra
epoca borghese. Il sogno di Fourier, d'inquadrare l'epoca dei
civilizzati nella serie di un lungo e vasto processo, s'è
avverato. Fu scientificamente risoluto il problema della origine
della disuguaglianza fra gli uomini, che Gian Giacomo avea tentato
con argomenti di geniale dialettica, e con pochi dati di fatto.
In due punti, per noi estremi, ci è chiaro il processo
umano. Nelle origini della borghesia, tanto recenti e tanto
illustrate dalla scienza dell'economia; e nella antica formazione
della società a classi, nel passaggio dalla barbarie
superiore alla civiltà (ossia all'epoca dello stato),
secondo le denominazioni del Morgan. Ciò che sta di mezzo
è quello che finora trattarono cronisti e storici
propriamente detti, e poi giuristi, teologi e filosofi. Pervadere
ed investire tutto cotesto campo di conoscenze con la nuova
concezione storica, non è cosa facile. Né conviene
darsi fretta, schematizzando. Innanzi tutto conviene di fissare
per quanto possibile la relativa economica di ciascuna epoca1, per
ispiegarsi specificamente le classi che in quella si svilupparono;
non astraendo da dati ipotetici od incerti, e non generalizzando
le nostre condizioni per estenderle a quelle di ogni tempo. A
ciò occorrono falangi di addottrinati. Così, ad
esempio, è unilaterale ciò che nel Manifesto
è detto su la primissima origine della borghesia, come nata
dai servi del Medioevo, via via incorporati nelle città.
Quel modo d'origine fu proprio della Germania, e di altri paesi
che ne riproducono il processo. Non risponde al caso dell'Italia,
della Francia meridionale e della Spagna, che furon poi i paesi
nei quali cominciò appunto la prima storia della borghesia,
ossia della civiltà moderna. In questa prima fase sono le
premesse di tutta la società capitalistica, come Marx
avvertì in una nota al primo volume del Capitale. Questa prima fase,
che raggiunse la sua forma perfetta nei Comuni italiani, è
la preistoria di quella accumulazione capitalistica, che Marx
studiò con tanta evidenza di particolari nella serie chiara
e compiuta della evoluzione dell'Inghilterra. Ma di ciò
basta.
I proletarii non possono mirare che all'avvenire. Ai socialisti
scientifici preme innanzi tutto il presente, come quello in cui
spontaneamente si sviluppano e maturano le condizioni
dell'avvenire. La conoscenza del passato giova ed interessa
praticamente, solo in quanto essa può dar luce e
orientazione critica a spiegarsi il presente. Per ora basta che i
comunisti critici, già cinquant'anni fa, abbiano escogitato
e ritrovato gli elementi primissimi della nuova e definitiva
filosofia della storia. A breve andare tale intendimento
s'imporrà per la provata impossibilità di pensare il
contrario: e la scoverta parrà l'uovo di Colombo. E forse
prima che una schiera di dotti usi ed applichi tale concezione
estesamente, plasmandola, cioè, nel racconto continuativo
di tutta la storia, i successi del proletariato saranno tali, che
l'epoca borghese parrà a tutti superabile, perché
prossima ad essere superata. Intendere è superare (Hegel).
Quando il Manifesto, già cinquanta anni fa, elevava i
proletarii, da compatiti miseri, a predestinati sotterratori della
borghesia, alla immaginazione degli scrittori di esso, che mal
dissimulavano l'idealismo della loro intellettuale passione nella
gravità dello stile, assai angusto doveva apparire il
perimetro del presagito cimitero. Il perimetro probabile, per
figura di fantasia, non abbracciava allora se non la Francia e
l'Inghilterra, e avrebbe appena lambito gli estremi confini di
altri paesi, come ad esempio della Germania. Ora cotesto perimetro
ci appare immenso, per l'estendersi rapido e colossale della forma
della produzione borghese, che allarga, generalizza e moltiplica,
per contraccolpo, il movimento del proletariato, e fa vastissima
la scena su la quale spazia l'aspettativa del comunismo. Il
cimitero s'ingrandisce a perdita di vista. Più forze di
produzione il mago va evocando, e più forze di ribellione
contro di sé esso suscita e prepara.
A quanti furono comunisti ideologici, religiosi ed utopistici, o a
dirittura profetici od apocalittici, parve sempre in passato, che
il regno della giustizia, della eguaglianza e della
felicità dovesse avere per teatro il mondo intero. Per ora
la conquista del mondo la fa l'epoca dei civilizzati; cioè
la società, che si regge su le antitesi delle classi, e su
la dominazione di classe, nella forma della produzione borghese
(il Giappone insegni!). La coesistenza delle due nazioni in uno e
medesimo stato, che fu già precisata dal divino Platone, si
perpetua. L'acquisizione della Terra al comunismo non è
cosa del domani. Ma più larghi si fanno i confini del mondo
borghese, più popoli vi entrano, abbandonando e sorpassando
le forme inferiori di produzione, ed ecco che più precise e
sicure divengono le aspettazioni del comunismo: soprattutto
perché decrescono, nel campo e nella gara della
concorrenza, i deviatori della conquista e della colonizzazione.
La Internazionale dei proletarii, che era appena embrionale nella
Lega dei comunisti di cinquanta anni fa, diventata oramai
interoceanica, dice ed afferma intuitivamente ogni primo di
Maggio, che i proletari di tutto il mondo sono realmente e
operosamente uniti. I prossimi o futuri sotterratori della
borghesia, e i loro nipoti e pronipoti, ricorderanno in perpetuo
la data del Manifesto dei comunisti.