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Antonio Labriola
STORIA, FILOSOFIA DELLA STORIA, SOCIOLOGIA E MATERIALISMO
STORICO
I.
La parola storia, per nostra confusione, è adoperata ad
esprimere due ordini di nozioni diverse, e cioè l'insieme
delle cose accadute, e quell'insieme di mezzi letterarii che sono
adoperati per tentarne la esposizione.
Veramente la parola greca corrisponde al secondo ordine di nozioni,
anzi esprime l'atteggiamento subbiettivo del ricercare; e
così comincia col padre della storia il senso letterario
della parola: “Questa è la esposizione della ricerca di
Erodoto”. Quando in sulla metà del secolo XIX cominciò
a sorgere il bisogno di una disciplina organizzata della ricerca
storica, il Gervinus escogitò il nome di Historica(), in
analogia a Grammatica e Logica. Invece la parola tedesca Geschichte,
che viene dal verbo geschehen, accadere, rappresenta il primo ordine
di nozioni, ossia rappresenta la serie degli accadimenti. Questa che
pare una quistione indifferente, nel concetto della filosofia della
storia diventa una questione capitale; e cito per esempio i molti
spropositi che sono stati detti in Italia di recente nelle
discussioni sul materialismo storico: nelle quali discussioni anche
molti uomini di ingegno non hanno capito che codesta dottrina
riguarda la nozione del fatto e dell’accadimento e non la filosofia
della ricerca e l’arte della narrazione.
Quindi la domanda che alcuni si fanno se la storia possa diventare
una scienza, esige una doppia trattazione, secondo che noi pigliamo
la parola nel primo o nel secondo significato. Per ciò che
riguarda il secondo significato, bisogna innanzi tutto ricordare che
prima del secolo XIX non esistevano procedimenti scientifici circa
la ricerca storica, e che anche quando un singolare ingegno, nello
scrivere letterariamente di un determinato periodo, adoperava della
critica implicita, non accadeva mai che cotesta critica assumesse la
forma direttiva di regole e di canoni(). Da che questo bisogno
è cominciato, e cioè di trattare criticamente la
storia, si sono formate e consolidate delle particolari dottrine di
esegesi e di interpretazioni, per cui si può dire che uno
oggi si prepari filologicamente ad essere, poniamo, medioevalista
italiano.
Quindi non è la storia nel senso di narrazione che sia
diventata una scienza, perché la narrazione rientra sempre
nel campo dell'intuitivo, ma è che i nostri mezzi per
arrivare al rifacimento del passato sono diventati corretti ossia
scientifici, poniamo nella linguistica, nella epigrafia etc., etc.
Se i letterati che di queste cose discorrono a caso, volessero porte
bene la questione, dovrebbero porta così: Quanta parte di
coltura scientifica occorre per adire quei documenti che occorre di
vagliare a fondo per poter ristabilire la figura del comune
fiorentino in principio del secolo XIV?
Invece, se poniamo il dilemma “scienza od arte”, per rispetto non al
nostro procedimento, ma all'insieme delle cose accadute, noi ci
avvediamo subito che il dilemma non regge. Probabilmente nessuno
vorrà domandare ad un fisiologo se la digestione sia un'arte
od una scienza, sebbene della fisiologia si possa dire che è
al tempo stesso un'arte, ossia una tecnica dell'esperimento ed una
scienza nelle conclusioni. E quando diciamo che la storia, in quanto
è somma di accadimenti, non si presta al dilemma arte o
scienza, intendiamo di dire qualcosa che va molto a fondo e non
è una semplice osservazione ovvia. Se noi, come abbiamo
notato innanzi, abbiamo bisogno di molti mezzi e metodi scientifici
per ristabilire la verità di quei fatti che vogliamo poi
rendere per arte di racconto o di esposizione, gli è
perché la storia nel senso obbiettivo oramai non ci apparisce
più come un prodotto accidentale di una somma di atti
arbitrarii, né come la emanazione di un disegno superiore, il
che sarebbe la spiegazione teologica, ma come un che di
automaticamente semovente, che rappresenta la somma delle umane
attività nel divenire dell'uomo stesso dallo stato animale
fino alla presente sua condizione. E perché abbiamo
acquistata la nozione di questo multiforme processo che è la
storia nel senso obbiettivo, è assurdo domandarsi se sia arte
o scienza, perché anzi è il fondo di ogni arte e di
ogni scienza. Le arti e le scienze sono momenti, aspetti, ecc. di
questo stesso divenire dell’uomo. Quando noi p. es. fissiamo
nell'estetica i canoni del poema epico, ovvero nelle discipline
pratiche fissiamo i principii del dritto o della economia, noi non
facciamo che estrarre dalla storia certe sue forme prominenti, certi
suoi elementi decisivi e non in quanto siano al di sopra di essa
come la sua regola o il suo modello, ma in quanto sono essa stessa
in atto. E si capisce infine che, dato cotesto modo d'intendere la
storia in quanto obbiettiva somma di accadimenti, da tale nuova
concezione scientifica risulti una modificazione nell'indirizzo
della ricerca per chi coltivi la storia come disciplina che deve
metter capo nella esposizione e nella narrazione.
Queste cose le ho espresse in formule alquanto difficili, appunto
perché la difficoltà dell'espressione mi serve qui a
ricordarvi che siamo in iscienza o filosofia, e non siamo in
letteratura. Perché la più grande difficoltà,
soprattutto per gl'ingegni italiani, naturalmente, come si dice,
artistici, sta nel capire che la storia non è un genere di
letteratura e che non va trattata come si trattava una volta nei
libri di retorica fra i capitoli di eloquenza. Ed anche a rischio di
parere che io faccia opera vana ripetendomi, voglio davvero
ripetermi, formulando di nuovo.
La parola storia esprime due ordini di concetti: a parte obiecti la
somma degli accadimenti; a parte subiecti l'arte di raccontarli.
Quest'arte è nata da principio a caso per scopi secondari di
educazione morale, di apologia politica, di gusto o di talento di
raccontare. Solo nel secolo XIX sono nate delle discipline
più o meno scientifiche circa la ricerca storica. Di qui ora
la dipendenza del racconto storico dalla preparazione scientifica
della ricerca. Se volete avere un'idea chiara di questo processo,
confrontate i primi libri di Tito Livio coi primi capitoli di
Teodoro Mommsen. - Romolo, Remo, Rea Silvia saranno spariti, ma al
loro posto è subentrata la nozione esatta dello stato sociale
degli antichi italici, e noi possiamo ora guardare con un certo
sorriso il nostro padre Dante che davvero credeva che Enea fosse
venuto in Italia per preparare il papato.
Ma il concetto della storia a parte obiecti si è cambiato,
perché si è cambiata in noi la nozione fondamentale
dell'uomo, perché ci siamo aperta la via a ricongiungere la
storia con la preistoria e la preistoria con la teologia,
perché abbiamo sostituito al concetto della inventiva
individuale la chiara nozione delle forze collettive, e in altri
termini abbiamo ritrovato il vero subbietto dell'azione storica nel
formarsi e nel divenire delle società. Ed è questo
appunto il vero e proprio obbietto della filosofia della storia, in
quanto essa mira ad intendere la direttiva degli accadimenti i quali
siano stati già accertati dalla ricerca. La quale ricerca,
quando non si tratti di problemi generali, mette capo a ciò
che tradizionalmente si chiama la storia, cioè nel racconto e
nella esposizione.
Non starò qui a descrivere la enciclopedia delle varie
discipline che occorrono a chi si prepari alla ricerca storica.
Oramai cotesta introduzione metodica non si limita all’opuscoletto
del Gervinus (quello che introdusse la parola historica), ma si
estende per esempio al grosso volume del Bernheim, Manuale del metodo storico. Si
capisce che in cotesta preparazione entrano tutte le discipline
della facoltà filologica, e ciò non basta. Si capisce
che in cotesta preparazione la materia e i mezzi cambiano, secondo
che si tratta di storia antica o di storia moderna. Oggi ci è
una filologia della Rivoluzione Francese, come c'è quella del
Nuovo Testamento; e non reca meraviglia che siano tanti gli
specialisti, tante le pubblicazioni particolari, tante le riviste
storiche e tante le accademie che proteggono cotesti studi.
In questo campo di ricerche siamo di continuo minacciati da quella
esorbitante empiria che, travagliandosi intorno ai particolari,
finisce per fare degli eruditi che non sono dei sapienti.
Né occorre qui nemmeno di notare come per rispetto alla massa
dei particolari sempre cresciuti e sempre crescenti, vada diminuendo
la capacità della esposizione artistica, perché
appunto là dove cresce smisuratamente la massa dei
particolari è più rara la capacità di
coordinarli, di compendiarli e di metterli in rapporti di mutua
dipendenza.
Onde non è mai superfluo di ricordare ciò che dice
Mommsen, che per scrivere la storia occorre sopra tutto la fantasia;
il che è il più grande schiaffo che si possa dare agli
eruditi di mestiere.
Ed è qui il caso di mettere sotto nuova luce i rapporti fra i
due significati della parola storia che abbiamo precedentemente
dichiarati. Chiunque imprende a narrare, quale che sia la somma dei
particolari che abbia raccolta e quale che sia la fatica spesa per
avvicinarsi alla sentita e intuitiva riproduzione del passato,
quando a tale riproduzione mette mano, finisce sempre per lasciarsi
guidare da certi concetti e preconcetti circa la natura umana e
circa l'umano destino e circa il senso o etico o teologico o
filosofico degli accadimenti.
La concezione circa la natura obbiettiva dell'accaduto reagisce
sulla maniera di rappresentare gli accadimenti, e perciò non
c'è storico che possa dirsi realmente imparziale,
perché, per essere tale, bisognerebbe che fosse fuori di
tutti i punti di vista, il che è contro la naturale posizione
dell'intelletto come della naturale posizione dell'occhio.
Così che voglio dire che le persone le quali si preparano
agli studi storici, non si potrà dire che si siano veramente
preparate con metodo scientifico se non quando, oltre
all'impossessarsi dei metodi corretti per l'apprendimento dei fatti,
siano anche giunte a farsi una adeguata idea dei principii direttivi
degli accadimenti, in quanto quei principii sono negli accadimenti
stessi. E voglio dite che lo storico scientificamente preparato deve
anche aver raggiunto quel grado di maturità intellettuale,
che consiste nel poter rispondere a quei quesiti che costituiscono
la somma della filosofia della storia. Come volete che si chiami
scientificamente preparato quello storico, il quale, dopo avere
acquistato il possesso dei mezzi linguistici, paleografici,
epigrafici e così via che occorrono per esempio per studiare
la storia dell'antichissimo Egitto, si trovi poi di fronte ai fatti
più o meno bene appurati, senza che abbia preso partito o per
la teoria delle razze o per quella dell'ambiente naturale, senza per
esempio che sappia se la religione è causa od effetto delle
condizioni sociali, senza che abbia preso partito per la origine
consuetudinaria o autoritativa del dritto, senza che possegga tanta
psicologia quanta ne occorre per determinare il valore delle
individualità, indifferente al caso o alla provvidenza, alla
predestinazione o alla causalità meccanica? Con buona grazia
sua, domanderei al Villari come abbia fatto, dopo di essersi
ostinato in tante polemiche a sostenere che la storia non e una
scienza, a tentare poi proprio lui in varii studi di spiegare la
origine del comune fiorentino.
Si può vedere ora a che si riduca il dilemma arte o scienza
Tenuto fermo il doppio significato della parola storia, noi in prima
abbiamo mostrato che la ricerca del fatto è andata divenendo
e diviene sempre più scientifica. Il che non toglie che fine
ultimo della ricerca sia la narrazione. E, in secondo luogo, abbiamo
visto che la comprensione del fatto appurato dipende da quella
implicita o esplicita filosofia che lo storico mette a fondamento
della sua interpretazione. Ora allo stato attuale delle scienze
sociali, allo stato attuale della filosofia scientifica, sarebbe
incongruo che la massa dei ricercatori storici volessero nella
interpretazione abbandonarsi al loro genio, come tanti novelli
Tucididi, Taciti o Machiavelli. E faran bene invece di acquistare
dalla scienza degli altri quella tal complementare filosofia di cui
possano aver bisogno.
Queste cose sarebbero parse eresie venti o trent'anni fa nel periodo
della decadenza filosofica di tutta Europa. Ora invece il Bernheim
conclude il suo trattato del metodo storico col parlare di filosofia
della storia, ossia di quella comprensiva interpretazione senza
della quale i fatti non hanno senso.
Risulta chiaro per sé che la Filosofia della Storia riguarda
esclusivamente la storia a parte obiecti, cioè l'accaduto, e
non riguarda la storia a parte subiecti e cosi la ricerca
dell'accaduto.
Tutte le volte che si parla di Filosofia della Storia s'intende di
riferirsi a principii che noi supponiamo direttivi per rispetto al
succedersi degli accadimenti, e che, quando ci sian noti, ci aiutino
a capire gli accadimenti stessi.
Poniamo che sia principio direttivo della storia il progresso, nel
senso lato della parola; il quale concetto, è bene notarlo,
fu ignoto agli antichi come fu ignoto in tutto il Medio Evo, ed
è un'idea che si è intensificata e precisata solo nel
secolo XVIII. Quel concetto, appreso che sia, diventa stregua del
criterio per classificare i fatti storici non più in modo
prospettico, ma in linea ascendente. Ed è così che noi
parliamo di condizioni primitive o di condizioni avanzate, di
relativo regresso e di arresto. Il concetto del progresso,
più e più volte applicato alle varie condizioni del
vivere umano, si converte come nella idea di una scala, di una
ascensione, di un venirsi perfezionando dell'uomo nel cammino della
civiltà. Quando questo abito di comparazione s'è
formato, ci pare di poter misurare come ad una stregua tipica le
differenze che corrono tra i Greci del mondo omerico e quelli della
Atene periclea; tra i Romani del primo secolo dell'impero e i
barbari Germani, che stavano loro di fronte. Per via di questa,
direi, qualificazione dei fatti storici, essi acquistano il
carattere di valori; e se questi valori non ci fossero, sarebbe
inutile affannarsi nella ricostruzione del passato: perché,
con buona licenza del mio collega prof. Ceci, il cui articolo
Bibel-Babel non ho ancora letto non sarebbe valsa la pena di
lavorare per un secolo sulla critica dell'Antico Testamento, e non
valeva la pena che tutte le nazioni civili di questo mondo si
affannassero per gli scavi di Ninive e di Babilonia, se in ultima
analisi non arrivassimo a poter sapere che cosa vale cotesta
civiltà babilonese, e cioè che cosa vale per
sé, cosa vale per rispetto all'Egitto, cosa vale per rispetto
agli Indo-Europei civilizzatisi più tardi, cosa vale per gli
elementi non semitici che da prima la composero e poi per gli
elementi semitici che se la assimilarono, e soprattutto che cosa
vale per rispetto al piccolo popolo dell'Antico Testamento, la cui
importanza storico-mondiale, che parve stragrande finché la
storia dell'Asia anteriore ci rimase ignota, s'è ridotta ai
minimi termini, da che noi possiamo considerare quel popolo come un
piccolo o secondario anello della gran catena degli accadimenti
della storia asiatica in genere e semitica in particolare.
II.
E così pian piano siamo venuti a toccare un altro dei temi
indicati in principio, quando dicemmo: Storia e Sociologia.
Difatti, nell'indicare un poco innanzi l'obbietto della Filosofia
della Storia, noi siamo riusciti per indiretto a dire che cotesto
obbietto consiste nella differenza, nei confronti e nel succedersi
delle forme sociali.
Non starò qui a fare la genesi, lo svolgimento e la critica
del concetto della sociologia da Comte in poi; né mi preme di
sottoporre ad esame ciò che i positivisti hanno inteso
specificamente di designare con un tal nome. Quando dico qui
sociologia, intendo di riferirmi a tutto ciò che può
essere obbietto del nostro pensiero in quanto c'è una
società. In questo senso, la sociologia esisteva in frammenti
prima del Comte e molto prima, da che c'è stata poniamo una
giurisprudenza generalizzata ch'ebbe nome di Diritto di Natura, da
che c'è stata una ricerca circa la produzione e la
distribuzione della ricchezza, il che forma la materia della
Economia: e queste due discipline sono proprie del mondo moderno
dopo la Rinascenza. Ma, pur risalendo agli antichi, molti problemi
della così detta sociologia entravano in ciò che per
esempio Aristotele chiamava Politica; e gli stessi storici puramente
narrativi, anche senza proporselo, eran costretti a mettere in varia
evidenza ciò che noi ora chiamiamo condizioni o ambiente
sociale.
Con queste osservazioni non intendo di mettere in dubbio il
carattere più spiccato di scienza indipendente che i
positivisti hanno inteso di dare alla sociologia, in quanto dovrebbe
studiare unitariamente tutti i fenomeni sociali, superando il
particolarismo del diritto, della economia, della storia
propriamente detta e così via. Dato cotesto assunto,
s'intende da sé che la sociologia, ancora veramente da fare e
di là da venire, occuperebbe tutto il campo della Filosofia
della Storia. Questa è stata, per esempio, la opinione di
Paul Barth, professore straordinario all'università di
Lipsia, il quale anni fa scrisse il primo volume di un libro
intitolato La Sociologia in quanto Filosofia della Storia. Il
secondo volume non è mai venuto. Paolo Barth s'è
occupato di molte altre cose; ed io mi auguro che lasci senza
seguito il primo volume.
Dunque, stando al nostro assunto e senza punto affannarmi su queste
questioni di terminologia e di competenza e confini delle varie
discipline, io intendevo ed intendo di dire che, tutte le volte che
noi ci proponiamo di studiare i principii direttivi del movimento
storico, dobbiamo innanzi tutto superare l'esteriorità
narrativa per raffigurarci l'indole e la costituzione di quella
determinata società che chiamiamo, per esempio, il popolo
d'Israele prima della conquista assira, o i Romani come una delle
società italiche. E allora cominciamo a domandarci: - si
tratta di un conglomerato grande o piccolo, si tratta di un
conglomerato consolidato o instabile, è un conglomerato con
sede certa (e quindi agricoltura) o ancora tendente al nomadismo? E
poi ci facciamo altre domande: - si tratta di un conglomerato di
consanguinei, in guisa che razza e società coincidano, o si
tratta di una coalizione di varii gruppi consanguinei? che grado
raggiunge la differenziazione sociale; sono tutti liberi o ci sono
liberi, meno liberi, schiavi, clienti e protetti? E poi pian piano
si vanno determinando le classi e per la condizione economica e per
gli uffici che adempiono; e per poco che ci addentriamo sempre di
più in questa analisi sociale, noi cominciamo a vedere in che
consista veramente la storia, e cioè nel come quella tale
condizione di coesistenza si sia prodotta; e l'obbietto della
ricerca sta nel modo di tale produzione.
Non dirò che noi siamo a tal punto da poter collocare tutti i
fatti storici dentro determinate forme sociologiche, in guisa che
l'arte del racconto adegui la rappresentazione scientifica degli
avvenimenti. Se ciò fosse accaduto, il problema, o meglio i
problemi della filosofia della storia sarebbero già risoluti,
e non vi sarebbe più divario fra Storia e Filosofia di essa.
Anche quelle forme sociologiche, che sono più facilmente
caratterizzabili, si presentano sempre in concreto e nei casi
particolari con molte particolarità e specificazioni,
perché realmente, se noi in astratto possiamo fare della fase
agricola un che di precisamente distinto dalla fase industriale, in
fatto poi non è esistito mai alcun popolo che fosse
esclusivamente o l'una o l'altra cosa; cosicché dal diverso
modo come quella relativa industria, che non è mai mancata
anche nello stato più predominante di vita agricola, stava
rispetto al resto, risulta quella figura particolareggiata che
sarà il carattere di Roma in un certo periodo, rispetto alla
condizione di un altro paese ariano, che a quello stato
approssimativamente si avvicini.
Lo stesso dicasi del commercio, il quale può diventare
sì la nota spiccata e predominante di una intera popolazione,
come fu il caso degli antichi Fenici; ma in una forma più o
meno elementare non manca mai, se non altro come complemento di
quella elementare vita economica che costituirà la nota anche
dei paesi primitivi.
Con queste brevi note ho voluto dire che lo storico deve essere in
guardia contro quelle forzate classificazioni della sociologia
schematica, le quali porterebbero a ritenere che si possa con tratti
assai brevi connotare il modo di vivere di una determinata
conglomerazione umana. E la ragione sta in ciò, che la storia
comincia ad avere ad obbietto la società da quando essa
è già complicata e differenziata. L'orda preistorica
può presentarci sì caratteri omogenei dei puramente
consanguinei i quali, tenendosi separati localmente e per selezione
da altre genti, rappresentano nel semplice costume la forma
indistinta del diritto, della morale e della religione. Ma, quando
noi troviamo che in una determinata consociazione è
già nata per esempio la setta dei preti, e siano puramente
maghi o fattucchieri, ovvero s'è formata la classe dei
guerrieri e dal loro privilegio è sorta la differenza di
dominio colle conseguenze della servitù ecc., il che poi
dà luogo al bisogno del duce e quindi alla origine delle
dinastie, noi siamo lontani dalla primitiva omogeneità e ci
avviamo pian piano a quelle lotte interne ed esterne, che
costituiscono la tessitura principale della storia.
Se vi fermate a considerare attentamente questi pensieri che recano
in sé la novità di ciò che è
rigorosamente critico, voi non solo ci troverete un complemento a
quelle prime lezioni nelle quali si pose il dilemma arte o scienza;
ma ci troverete anche un'adeguata risposta a questo nuovo tema:
Sociologia o Filosofia della Storia.
E in che consista questa risposta vogliamo qui brevemente
riassumere:
a) Quando noi ci mettiamo a considerare storicamente una serie di
accadimenti umani, p. es. le Guerre Puniche, o la Riforma in
Germania, noi dobbiamo sempre ricorrere innanzi tutto alle
caratteristiche sociali, non solo per conoscere il terreno sul quale
i fatti si svolgono, ma per conoscere i motivi di quella tal lotta
di classe, di quella tal guerra, di quella tale innovazione negli
istituti giuridici o della condotta economica. Per questo rispetto i
sociologi hanno ragione nel sostenere che, a misura che la ricerca
storica si avvicina al modo del pensar scientifico, essa trova e il
suo sussidio e la sua guida nell'indirizzo sociologico, quanto a
considerare le conglomerazioni umane come costituenti delle
morfologie.
b) Ma sarebbe grave errore il seguire i professionisti della
sociologia nel loro supposito, che la storia cioè sia
destinata ad essere assorbita dalla sociologia. Questa procede per
tipi, il che vuol dire che procede per relative astrazioni dal
concreto della storia. Quando il sociologo parla del tipo feudale,
astrae da tutti gli altri elementi che oltre al feudo costituisce la
Francia del secolo XII, poniamo; i quali elementi, se non ci fossero
stati parzialmente, non si sarebbero venuti sviluppando in
ciò che più tardi si è chiamato o
autorità del monarca, o potere del giudice, o ceto
commerciante e perciò borghese etc. etc. Ed ecco
perché non si può applicare alla sociologia il
concetto di organismo, perché, prima di tutto, occorrerebbe
supporre che p. es. la società-feudo tipo sia essa stessa
automaticamente diventata borghesia, mentre la lotta di classe non
può nascere che dove le classi già ci sono.
c) Lo storico lavora sempre sull'eterogeneo, un popolo che ne ha
conquistato un altro, una classe che ne ha sopraffatta un'altra, dei
preti che hanno sopraffatto i laici, dei laici che hanno messo a
dovere i preti. Ora tutto ciò è sociologico, ma non
è tipico come nella sociologia schematica, perché
cotesto eterogeneo bisogna empiricamente apprenderlo e cotesto
apprendimento costituisce il proprio ed il difficile della ricerca
storica, perché nessuna astratta sociologia mi farà
capire come mai, dato pure il generale processo della formazione
della borghesia, solo in Francia sia accaduta tal cosa che si chiama
la grande Rivoluzione. Ed io sono lieto che, essendo di professione
filosofo e non storico e insegnando Filosofia della Storia, ho
sempre difesa la peculiarità dei metodi di ricerca, non
perché io mi faccia ammiratore dei semplici particolari, ma
perché ritengo che l'interesse che ci induce a studiare la
storia non riposa su quei soli schemi sociologici che pur servono di
sussidio, ma riposa sulla fiducia che la interpretazione della
storia in quanto è complessità e concatenazione di
fatti, debba condurci ad una più profonda espressione; il che
nel linguaggio degli ideologi si dice “intendere l'umano destino”.
d) Ed appunto su cotesto senso generale complesso poggia la
Filosofia della Storia, in quanto guardiamo non alle forme generiche
sociali (economia a schiavi o a salariati), ma alla
complessità di queste forme in quanto hanno nome di vita
ateniese o vita romana, romani della Repubblica o dell'Impero,
neo-germani o neo-latini, la scoperta d'America e le colonie, il
secolo XIX e il mercato mondiale etc. etc. E soltanto per rispetto a
queste forme concrete e complesse si presenta il concetto di
ciò che si chiama “i valori storici”, i quali valori
rimandano all'idea generale e complessa del progresso.
e) Ridotta a tale significazione la parola progresso, nessuno
vorrà confonderlo con quella sciagurata idea della
evoluzione, che ha fatte le spese di tutte le più o meno
trionfanti bestialità attuali. L'evoluzione è un
termine troppo generico che abbraccia ogni forma di divenire. Ora
chi si sarà esercitato, e anche profondamente, a capire la
originazione delle forme neo-latine da quelle latine in quanto
è glottologo, non per questo capirà la evoluzione dei
funghi o la storia naturale del cancro. L'idea generica della
evoluzione rimane lì come un postulato di quella che
Aristotele chiamava la prima filosofia, e le singole scienze hanno
da fare con evoluzioni singole. L'idea generica del progresso
implica quel concetto di evoluzione per cui noi siamo autorizzati ad
apprezzare le varie forme del vivete umano. Le note astratte del
concetto di evoluzione acquistano, per rispetto alla storia, quel
tanto di concreto, che in concreta valutazione.
Quando noi diciamo che siamo civilmente progrediti sugli uomini
degli altri tempi, non intendiamo di dire che l'ente astratto
umanità abbia messo chi sa quale nuova cute o quale nuova
barba, ma intendiamo per esempio di dire che non vi sono più
schiavi, che tutti gli uomini sono eguali davanti alle leggi, che le
mogli non si comprano, che i figli non si vendono, clic i preti non
hanno dritto di mandarvi in paradiso a loro arbitrio e così
via, sino al fatto che la coscienza del progresso è diventata
fede in esso, e da fede proposito. E, se si toglie via cotesta
concezione, cessa la ragion d'essere dello studio della storia o
esso si rinchiude nella inutile moltiplicazione dei particolari.
III.
L'analisi che abbiamo fatta del concetto di sociologia in
rapporto alla storia, e il quesito che ci siamo proposto: se i
problemi della Filosofia della Storia si possano risolvere nella
semplice sociologia, ci portano naturalmente ad esaminare un
indirizzo di pensiero, che ha nome il materialismo storico.
Prima di tutto noto che in molti opuscoli e articoli di riviste
comparsi in Italia, s'è vista discutere cotesta denominazione
di materialismo storico con uno strano ardore di sofisticheria
verbalistica. C'è perfino chi ha scritto questa peregrina
cosa, ed honoris causa diremo che è il prof. Asturaro, e che
cioè la cosa sarebbe buona se il nome non la guastasse.
Qualche altro si sarebbe perfino innamorato della teoria se per
disgrazia non ne fossero stati divulgatori massimi i due grandi
comunisti Marx ed Engels, che, naturalmente, non avevano né
l'ordine dell'Aquila Rossa, ne la commenda di S. Maurizio e Lazzaro.
A simili critici, che troverebbero buona una teoria sopprimendo il
nome degli autori, nessuno ha l'obbligo di seriamente rispondere.
Capisco che la cosa avrebbe lo stesso valore anche sotto un altro
nome, e che veramente la discussione cade su questo: se si sia o no
trovato questo famoso filo conduttore di quelle condizioni materiali
della vita umana, cambiando le quali, cambierebbe tutto il resto. Ma
non è indifferente la difesa anche della denominazione,
perché essa compendia quasi la origine storico-psicologica
della dottrina. È cosa risaputa che l'idealismo dialettico di
Hegel ebbe come il suo risolvente negativo nel materialismo di
Feuerbach. Ora il materialismo di Feuerbach, mentre negava il dato
ideologico della dottrina hegeliana, mettendo l'uomo individuo di
fronte alla natura, riduceva la religione alla semplice proiezione
fantastica dei bisogni del singolo. Il materialismo di Feuerbach
lasciava fuori del suo campo il mondo storico, come lo aveva
lasciato fuori il materialismo del secolo XVIII, che rappresentava a
capello le esigenze di quella grande Rivoluzione, la quale, in nome
del diritto di natura, negava i diritti storici. Ora, quando Marx ed
Engels cominciarono a criticare e Feuerbach e Stirner e la sinistra
hegeliana, sotto la suggestione del movimento socialistico
contemporaneo, trovarono che il materialismo tradizionale fino al
Feuerbach non spiegava la storia, ed ecco come è nato il
nome. Si può domandare se si è riusciti o no a fare
del materialismo storico, ma non già pretendere che la
dottrina sia vera ma il nome sbagliato.
Chiarirò la cosa con un esempio.
Quella psicologia generale schematica della quale, nell'altro mio
corso, ho fatto il disegno, poggia principalmente sulla presunzione
che i fenomeni psichici comincino e finiscano con la vita
dell'individuo. Ora, data la ipotesi materialistica, si capisce come
i sensisti fossero disposti a ritenere che tutti i fenomeni
complicati psichici si dovessero spiegare coi dati primitivi della
sensazione. Ma la nostra coscienza individuale contiene tanti
elementi che non si spiegano senza la esistenza della società
e della storia. Voi parlate non perché siete individui ma
perché siete subietti sociali. E così dicasi del
Diritto, della Religione e delle Idee morali che esistono in noi
solo a traverso il tramite della storia e della società.
Ora il materialismo biologico non mi spiega come siano nati i dogmi
del cristianesimo, né come siano nate le forme grammaticali
del neolatino, né come esistano in genere le compagini
sociali.
Trovare le condizioni materiali del mondo storico sociale, questo
è stato l'assunto del materialismo storico. Assunto parallelo
e non derivato da ciò che i meri positivisti hanno chiamato
sociologia; e qui voglio notare per incidente che io quando
pronunzio la parola positivismo lo faccio sempre con grande
apprensione, perché il positivismo, come si è
elaborato da Saint Simon a Littré, era essenzialmente
storicismo, cioè tendenza a spiegare la storia, e invece in
Italia tutti quelli che si chiamano positivisti, fatta eccezione di
un solo, ossia dell'Angiulli, che in fondo veniva dalla scuola
hegeliana, sono ricaduti nel materialismo innanzi Feuerbach, partono
sempre dall'individuo e ricadono sempre nell'individuo e non
afferrano perciò la morfologia storica; i nostri positivisti
sono in generale al di sotto di Comte, il quale era tanto storicista
da negare la possibilità di una psicologia individuale.
Ritenuto che il nome non è né accidentale né
indifferente e che anzi rivela la origine della dottrina e la sua
posizione di fronte a quelle o contemporanee o poco posteriori che
si sforzarono di superare i limiti dell'idealismo e della ideologia,
prima di passare a discutere dell'intrinseco della dottrina stessa
in quanto ciò riflette i miei particolari assunti di
filosofia storica, occorre fissare in genere il concetto di fenomeno
sociale.
È fenomeno sociale quello che non s'avvera se non in quanto
esistono i rapporti di fatto e di convivenza e di cooperazione fra
gli uomini. Qui poco importa di guardare all'estensione della forma
di convivenza. Questa può essere di una semplice piccola
tribù topograficamente isolata dal resto del genere umano.
Ora ciò non s'avvera, e cioè dire che ci sia una
piccola tribù, senza che s'avverino fenomeni di correlazione
i quali non trovano una diretta spiegazione nelle condizioni
bio-psichiche immediate di ciascuno degli individui e nascono solo
dal fatto che gl'individui sono in interdipendenza fra di loro.
Perché in tale tribù s'avveri l'abituale convivenza
occorre una particolare parlata, la quale deve esser nata dal
successivo adattamento dei varii individui a determinate e stabili
associazioni fra sensazioni, ricordi ecc., da una parte, e suoni e
forme grammaticali, dall'altra. La origine, la fissazione, lo
svolgimento del linguaggio sono e l'indizio e la rivelazione
più prossima e più generale della psiche sociale.
Difatti, ciò che ha dato origine alla concezione della
psicologia sociale in uno dei derivati della scuola herbartiana, fu
appunto il tentativo di dare alla scienza della lingua dei canoni di
interpretazione solida. Quello che è proprio della lingua, si
ripete nelle forme del costume, in quanto precedono il Diritto o
tengono il suo luogo. E soprattutto poi ciò si ripete nelle
elementari forme dell'acquisizione dei beni materiali, ossia in
ciò che più tardi si differenzia nel nome di economia.
Tutti quelli che si occupano di psicologia, rimanendo al puro schema
della psicologia individuale, non possono a meno di rimanere nel
puramente astratto; p. es. chi si mette a studiare le forme della
volontà secondo l'assunto che io mi proponevo nel mio corso
di Filosofia Teoretica, e non so più quanta parte ne
potrò svolgere, - deve prescindere quasi sempre dal vero e
proprio contenuto delle forme volitive, perché questo
contenuto è sempre sociale.
Quella volontà che si forma non è la volontà
che vuole sé stessa, ma è la volontà per la
quale uno impara a fare le scarpe o a suonare il pianoforte, a
recitare versi come Pastonchi o a leggere male come Formiggini.
Quelle poche generalità che ho qui innanzi addotte circa i
caratteri del fatto sociale non pretendono di essere un quid simile
d'introduzione alla sociologia, e molto meno un capitolo di logica
concreta uso Wundt e compagnia. Parlando agli scolari e non ai
membri di una accademia, ho voluto addurre le elementarissime
condizioni differenziali del fatto sociale in quanto esso è
poi il fondo reale ed il subbietto della storia, come dicemmo a suo
tempo trattando il quesito “Sociologia o Filosofia della Storia?”.
E, nel dare la sommaria indicazione del dove cominci la vera
difficoltà d'intendere il fatto sociale e nel dare tale
indicazione proprio dopo di aver difesa la denominazione di
materialismo storico, io non ho certamente inteso di attribuire agli
autori di tale dottrina la scoperta del fenomeno sociale. Non
appartengo alla illustre compagnia di quei darwinisti, che per poco
non attribuiscono a Darwin di avere scoperta la natura.
Giustificando il titolo di materialismo storico, mi misi dal punto
di vista della crisi interna che ebbe a subire Marx in quanto usciva
dall'idealismo hegeliano. Ma, indipendentemente da ciò,
durante il secolo XIX la discriminazione del fenomeno sociale
s’è fatta attraverso tutti gli studi del Diritto,
dell’Economia, della Mitologia, della Linguistica e così via;
cosicché da ultimo il nome di sociologia venne ad essere
adoperato e si adopera piuttosto come il riassunto enciclopedico di
tutta una nuova veduta della vita umana che non come quello di una
scienza speciale, con speciale metodo.
Per rispetto a tutto questo gran movimento, il materialismo storico
rappresenta un caso particolare; e ora che abbiamo preliminarmente
difesa la denominazione, possiamo passare ad esporre l'intrinseco
della cosa.
Ho detto più volte che non esiste una surrogazione della
scienza alla storia, come se tutte le narrazioni ed esposizioni
storiche potessero venirsi a risolvere in schematismi del
ragionamento. Ma a suo tempo notai che se la storia rimane quello
che è, ossia la rappresentazione dell'accaduto, è
altrettanto vero che l'atteggiamento del nostro spirito s'è
cambiato nella considerazione dei fatti accaduti per effetto del
gran progresso delle scienze sociali. Voi ricorderete che io negai
la surrogazione della sociologia alla storia. E soprattutto mi
opposi a considerare come equivalente della storia quella sociologia
astratta che considera p. es. isolatamente e come per sé
stante, poniamo una società feudale etc., mentre la storia
concreta, da che c'è la differenza di classe e il dominio
dello stato, non conosce alcun periodo di pura omogeneità di
tipo sociale. Per tutte queste considerazioni che risultano dalle
cose innanzi dettate, quando io parlo di materialismo storico, non
intendo di riferirmi ad una sociologia, la quale, isolando, poniamo,
il tipo di società feudale dal concreto storico, si provi poi
a dimostrare analiticamente che, poniamo, le istituzioni politiche e
gli abiti morali siano corrispettivi a quel tipo economico.
Io invece, quando parlo di materialismo storico, intendo dire di una
storia materialisticamente raccontata, come ne ho dato saggio in
dieci o dodici anni di pensate narrazioni sopra determinati punti
storici. Il che ho fatto senza preoccuparmi di questi due quesiti,
per me affatto indifferenti. E cioè se io, così
facendo, fossi proprio l'erede legittimo di Karl Marx, e se io,
così dicendo, giovassi o no ad una determinata causa
politica. Per es. l'ultimo corso che feci quando avevo ancora a mia
disposizione l'organo pedagogico e democratico della voce, fu
dedicato a rappresentate per sommi capi la vita del secolo XIX nel
passaggio al nuovo secolo. E in tale rappresentazione fui tutt'altro
che prodigo di augurii di prossima vittoria per la democrazia e per
il socialismo. Perché, se occorreva appunto al ritrovamento
dei definitivi principii del materialismo storico il genio del
comunista Marx, che appunto perché comunista si trovava posto
ad infinita distanza dalla difesa del presente ordine sociale
(capire è superare, dice Hegel), ciò non vuol dire che
le sorti ulteriori del materialismo storico come dottrina dipendano
dalle “séances pratiques” del socialismo.
Poniamo che l'ordine attuale della società civile d'Europa
col predominio della classe borghese si perpetuasse ancora per
secoli, ciò per nulla contradirebbe al materialismo storico,
perché tale perpetuarsi dimostrerebbe soltanto che la
società della concorrenza può vivere ancora. È
vero che Bebel, alcuni anni fa, prometteva una repubblica sociale in
Germania per l'anno 1910; ma io, oltre che io non so se Bebel
coglionasse il prossimo, è certo che al Bebel non ho mai
offerto una cattedra di Filosofia della Storia.
Dunque non sociologia astratta; non preoccupazione della tesi
pratica: “a quando il socialismo”; ma la vera e propria Filosofia
della Storia, come l'abbiamo definita innanzi, e cioè la
storia esposta in modo che si capisca.
Inserisco qui come una parentesi, la quale rientra anche nell'altro
corso di Filosofia Teoretica.
Più volte esponendo i temi vari fin qui trattati, e nel
definire il complesso sociale come subbietto della storia, mi
sarà capitato di adoperare anche la espressione di “coscienza
sociale". Ma, come di questo termine usano ed abusano i sociologi
d'ogni risma e colore in guisa da destare nella mente dei lettori
una caotica impressione, ed a molti è capitato di adoperare
cotesta espressione come a significare cose recondite, io credo
utile a maggior chiarimento del già esposto di sottoporla ad
un esame critico.
La coscienza sociale trova spesso il suo esponente nella espressione
“noi”. Ora portate la vostra attenzione sulla materia variabile di
questo noi. Una volta potrete dire noi tutti di questa famiglia, che
portiamo il tal nome, che viviamo di una tale sostanza o di una tale
occupazione, e che per queste condizioni di nostra esistenza ci
sentiamo circoscritti per rispetto al rimanente mondo. Un'altra
volta intenderemo di dire noi studenti, e professori, in quanto
formiamo questa università, alla quale partecipiamo pur
rimanendo come individui atti ad entrare e a rimanere, come
rimaniamo, in tante altre sfere di altrettanti noi, che si
esprimeranno col dire noi Romani, noi Italiani, noi Cattolici e
così via. Quel noi non contiene dunque nulla di mistico o di
misterioso, nulla di sorprendente o di miracoloso, e anzi, in tanto
è l'enunciato e l'esponente di qualche cosa, in quanto che in
tanti individui, ciascuno dei quali dice di se stesso io, si svolge
e si fissa la cosciente apprensione di ciò che li lega ad una
famiglia, ad una gente, ad un popolo, ad un partito, e, se volete,
anche ad una mafia o ad una compagnia di briganti, il che per la
psicologia è indifferente. Ad un grado elevato di sviluppo
della civiltà e del pensiero questo noi può essere
tanto comprensivo quanto può essere, per esempio, tutta la
civiltà indo-europea. Se voi togliete al noi il suo fulcro
naturale nei tanti io che si sentono accomunati, il noi diventa un
puro e vano simbolismo. Il noi non esiste che nella coscienza di
ciascuno di noi in quanto siamo individui. Ma non è la somma
degli individui, perché ha la sua materia nei legami che
corrono fra gli individui, i quali legami sono innanzi tutto
materiali, ossia di consanguineità, di convivenza, di
coabitazione, di cooperazione economica.
Nella enunciazione del fatto, come l'abbiamo data qui in poche
parole, è già contenuta la indicazione, direi
così, topica del come il fatto stesso va spiegato. Data la
estensiva significazione che abbiamo data ai fatti di coscienza in
quanto essa rappresenta un aspetto o di una situazione biologica o
di una situazione sociale, dall'intendere l'io all'intendere il noi
non corre divario.
Quando la psicologia non era ancora una scienza, quando gli
spiritualisti d'ogni maniera potevano sbizzarrirsi a fare dell'io
l'attributo extratemporale di uno spirito soprastante ad ogni
genesi, quando gli idealisti che ripetevano Fichte potevano far
dell'io una trascendente autoposizione, o il problema del noi non si
affacciava, o si presentava involuto nella immaginazione di un
preteso spirito collettivo ed extraindividuale. Ma ora che noi
facciamo dell'io l'esponente variabile della appercezione interna
delle nostre variabili condizioni per cui oltre all'io empirico che
si esprime così: ora sto dettando, non ammettiamo un io
puramente possibile o trascendente, non c'è meraviglia che
tale funzione di appercezione in uno e medesimo ambito di coscienza
pigli il doppio esponente di io e di noi; il che non vuol dire che
tutte le persone le quali adoperano questi termini non sbaglino,
perché l'uso corretto di essi si può ottenere soltanto
dalla elaborata scienza psicologica.
Una piccola glossa renderà più chiari questi
enunciati, che avrebbero invero bisogno di lungo sviluppo. Che nello
stato avanzato della nostra civiltà gl'individui possano
errare quando adoperano l'esponente io di fronte all'esponente noi,
è cosa evidente, perché per esempio la maggioranza
degli uomini ignora che ciò che si attribuisce alla
individuale coscienza non è nella maggior parte dei casi che
un semplice sedimento del costume e della tradizione. Ma questo
stesso errore in cui possono cadere tutti quelli che non sono
prettamente scienziati, è una prova del fatto che, col
crescere della civiltà, cresce la tendenza negli individui
all'estendere il campo del loro io, mentre più torniamo
indietro e più troviamo prevalente il senso della
collettività sul senso della individualità. È
cosa oramai certa di certezza empirica, che l'uman genere è
uscito dall'orda, la quale orda era una continuazione dell'orda
animale. In quest'orda il noi era tutto, il noi che era l'esponente
della necessità di vivere in coatte forme, senza delle quali
non sarebbe stata possibile la lotta per l'esistenza. L'apparizione
dell'individualità come coscienza vera e propria è un
prodotto tardivo delle vicende ulteriori della storia. Quel
subbiettivismo della coscienza etica o estetica, che a noi pare cosa
così naturale perché la nostra educazione riflessa non
va più in là della Grecia antica quando ci si presenta
Solone che fa la legge, Erodoto che scrive la storia e Alceo che fa
la sdegnosa poesia personale; a noi pare quasi inconcepibile che
milioni e milioni di uomini di varie razze chi sa quante migliaia di
anni o di secoli siano vissuti con la individualità assorbita
dal costume e con l'io involuto nel noi.
Se per poco ci allontaniamo dalla prosaica trattazione delle pagine
qui innanzi, noi ricadiamo in ciò che il nostro Marucci1 ed
altri simili arrabbiati positivisti, in mancanza di ogni altra
più esatta nomenclatura, chiamano metafisica.
Il guaio è però che questa tale metafisica della
sociologia l'hanno fatta precisamente i positivisti, i quali hanno
ripieno il mondo, o cioè volevo dire la carta stampata, di
una quantità infinita di simboli circa l'organismo sociale,
lo spirito collettivo etc. etc.
Le prosaiche nostre enunciazioni a volerle ripetere e compendiare si
riducono a questo: la natura produce individui maschi e femmine di
una certa razza. Ma questi individui, venendo al mondo, non si
svolgono come isolati subbietti di fronte alla natura e nella natura
soltanto. Si svolgono invece per entro ad una cerchia sociale che
determina in ciascun di essi caratteri omogenei, che sono appunto il
prodotto di tale correlatività sociale. Un certo modo
di parlare, un certo ritmo del sentimento, certe comuni fantasie, e
soprattutto la imitazione delle funzioni operative. Sorgendo
l'apprensione interna del proprio essere cosciente (ciò che
diciamo l'io), tale funzione naturalmente si sdoppia nell'io e nel
noi, salvo che l'individuo può errare nel riferire una certa
determinata materia dell'esperienza piuttosto al subbietto io che al
subbietto noi. Tutti quei più o meno cretini scienziati di
una volta, che deducevano la lingua, la legge, il dritto, lo stato
dalla elezione, dall'inventiva, dall'arbitrio individuale,
ignoravano appunto queste due cose capitali: che gli individui
originariamente nacquero nell'orda, e che la coscienza individuale
che s'impernia nell'io nasce poco per volta in seno al noi.
Ed ora la finisco coi chiarimenti, perché, se non basta
quello che ho detto fin qui, qualunque altra cosa non farebbe che
oscurare.
NB. Come nelle passate lezioni si venne dichiarando il
concetto del materialismo storico, e per incidente si fece qualche
allusione al socialismo, credo utile di notare che molti credono di
rendersi conto oggi delle aspirazioni socialistiche foggiandosi
nella mente una rappresentazione collettivistica della
società nella quale il noi riassorbirebbe novellamente l'io,
ossia un ritorno bello e buono alle condizioni primitive. Non per
quanto concerne la spiegazione del socialismo, ma per quanto importa
alla tesi del mio corso, giova qui di ricordare che tutto porta a
ritenere che quello che la individualità ha acquistato non
andrà mai più perduto, e che anzi ulteriori progressi
del mondo civile rinforzeranno sempre di più la persona.
Quando noi ci rappresentiamo teoricamente una società
comunistica nel senso economico della parola, noi intendiamo
semplicemente di dire che i mezzi e gli strumenti della produzione
non sarebbero più proprietà privata, ma
apparterrebbero alla collettività per l'esercizio del lavoro
occorrente alla produzione dei beni materiali. Il che vuol dire che
un gran numero d'individui, ora soggetti alla superiorità
patronale, acquisterebbero maggiore libertà, perché,
non potendo il lavoro degli uni (che sono i molti) produrre la
ricchezza degli altri (che sono i pochi) sarebbe dato a ciascuno il
massimo delle condizioni favorevoli per lo sviluppo intellettuale e
morale.
Voi tutti che siete qui presenti siete padroni di ritenere che tali
cose siano della mera utopia; ma io, occupandomi qui di coscienza
sociale e di coscienza individuale, ci tengo a farvi capire che
cotesta così detta utopia non vuole essere il ritorno alle
condizioni primitive della umanità, secondo la vieta imagine
egizia del serpente che morde la sua coda, e di altrettali
ferrivecchi della retorica dei decaduti, dei quali tanto si compiace
l'illustre professore Loria. Gli Egiziani antichi non hanno alcun
dritto a vedersi riconoscere le loro imagini o i loro simboli come
significativi per la scienza moderna, perché quegli Egiziani
antichi non hanno veramente creato né la scienza greca,
né la città latina, né il dritto romano,
né altre cose simili sulle quali fondasi la nostra
civiltà.
Dopo l'inciso sulla coscienza sociale ridotta al noi e alla
spiegazione prosaica di esso, e tenendo presente tutte le cose dette
innanzi per ridurre in termini convenienti il concetto della storia,
ora possiamo ridurre in brevi considerazioni l'essenziale di quel
materialismo storico, di cui cercavamo come la definizione.
Che la società tutta poggi sulle condizioni materiali della
sua esistenza, può parere quasi a prima vista ozioso a dirsi,
perché ciò si riduce a tradurre in formula una
osservazione del senso comune.
Togliete di mezzo gli uomini che attendono alle cure liete della
scienza e dell'arte, togliete di mezzo le categorie spesso superflue
dei professori e dei preti, e cioè togliete di mezzo tutte le
persone che vivono dei prodotti di terza e quarta mano del lavoro
altrui; l'articolazione fondamentale della società poggia sui
rapporti che intercedono tra coloro, i quali direttamente producono
col lavoro e coi suoi istrumenti i beni materiali. Ecco ciò
che Marx chiamava la forma della produzione. Che la struttura
fondamentale della società, ossia l'articolazione economica
di essa, abbia variato dalla preistoria ai tempi nostri, è
fuori di ogni dubbio; e che queste variazioni debbano avere il loro
ritmo e devano recare in sé come la indicazione di un
processo, è più che verosimile, se noi ricordiamo
tutto ciò che abbiamo detto innanzi circa l'approssimazione
della storia alla scienza. La storia è innanzi tutto il
variare delle articolazioni elementari. Ora, che cosa costituisce il
carattere specifico del materialismo storico? Cotesto carattere
specifico è rappresentato, in primo luogo, dalla enunciazione
abbastanza semplice: che cioè gli uomini abbiano prodotto il
dritto e abbiano tentato le varie organizzazioni, che mettono da
ultimo capo nella politica, sempre proporzionalmente al relativo
stato della articolazione economica. Il secondo enunciato ha un
carattere più ipotetico; ed è, che le concezioni
mitologiche, e quindi anche religiose, degli uomini, e le loro
disposizioni morali, siano state rispondenti ad una determinata
condizione sociale; cosicché la storia della religione e
dell'etica è psicologia nel lato senso della parola.
Un altro elemento decisivo è implicito in questa concezione,
ed è che l'articolazione sociale in tanto è
articolazione in quanto la società ci si presenta come una
gerarchia, e cioè come una disposizione dei collaboranti,
spartiti in genti e famiglie e in classi con varia dipendenza e
padronanza; il che fa che la società abbia sempre in
sé la tendenza all'instabile, e quindi porti a contrasti e
dissoluzioni, a progressi e regressi. La dottrina del materialismo
storico, dati i due elementi della articolazione economica e degli
attriti di classe, diventa la chiave per intendere le vere e proprie
rivoluzioni; cioè quelle mutazioni dello stato complesso
della società da cui sono derivate le innovazioni del dritto,
i nuovi indirizzi politici e le nuove disposizioni morali.
Voi ricorderete che nel paragrafo destinato al quesito se la storia
sia scienza o arte, noi dicemmo che la narrazione non ammette
surrogati. Quando il materialismo storico abbia ridotto alla
più semplice espressione la somma delle condizioni
costitutive del passaggio, poniamo, dall'epoca feudale all'epoca
borghese, avrà fatto tutto quello che deve per ispiegare le
cause generali della Rivoluzione Francese. Ma quando si tratti di
rappresentare intuitivamente quell'unicum che è la
Rivoluzione stessa, noi non possiamo a meno di procedere secondo i
naturali canoni della esposizione e della narrazione; le quali
riusciranno consone alla dottrina se il narratore o espositore
porterà in ogni particolare il medesimo criterio, e se
lumeggerà la concatenazione degli avvenimenti con la
preoccupazione continua di fare che essi non disarmonizzino con la
veduta generale.