NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA
Pëtr Kropotkin nasce a Mosca il 9 dicembre 1842 da famiglia
principesca di antica tradizione, che nel periodo feudale aveva
avuto una posizione preminente nel principato di Smolénsk. Dopo
aver frequentato la scuola militare più esclusiva della Russia
zarista – il Corpo dei Paggi a San Pietroburgo – nel 1862 sceglie
di recarsi in Siberia come esploratore e geografo. In questi anni
matura lentamente una posizione critica verso il potere
assolutista, avvicinandosi dapprima alle idee liberali, poi a
quelle socialiste. Nella primavera del 1872 decide di andare in
Svizzera dove stabilisce importanti relazioni con gli
internazionalisti del Giura e si avvicina alle idee anarchiche.
Ritornato nel proprio Paese, si dedica completamente all’attività
rivoluzionaria che culmina nel 1874 con il suo arresto e la
prigionia nella fortezza di S. Pietro e Paolo. Riesce a fuggire
due anni più tardi, raggiungendo l’Inghilterra e poi ancora la
Svizzera, dove collabora attivamente alla Fédération Jurassienne,
dando vita tra l’altro allo stesso giornale della Federazione, «Le
Révolté». Espulso nel 1881 da questo Paese in seguito alle misure
controrivoluzionarie prese dopo l’assassinio dello zar Alessandro
II, emigra a Londra, poi a Thonon, nella Savoia. Qui finisce per
essere arrestato e condannato a cinque anni di prigione per
attività sovversiva. Rilasciato nel 1886 a seguito di una vasta
campagna di stampa, promossa tra gli altri da Victor Hugo ed
Ernest Renan, si reca nuovamente in Inghilterra, dove rimarrà fino
al 1917.
Qui pubblica quasi tutte le sue opere principali, è tra i
fondatori (nel 1886) di «Freedom» e collabora prolificamente a
varie pubblicazioni 27anarchiche, in particolare
(ininterrottamente fino al 1917) a «Freedom» e alle parigine «La
Révolte» (1887-1894) e «Les Temps Nouveaux» (1897-1914). In questo
suo lungo periodo londinese, collabora anche a varie pubblicazioni
scientifiche e a varie voci dell’Encyclopaedia Britannica, per cui
scrive tra l’altro la voce «Anarchismo».
Allo scoppio della prima guerra mondiale, Kropotkin, insieme ad
un gruppo di altri anarchici molto conosciuti, prende posizione a
favore dell’intervento militare contro gli Imperi centrali, da lui
considerati il pericolo maggiore del momento. Questo suo appoggio
alle potenze dell’Intesa provoca la rottura con il movimento
anarchico internazionale, schierato nella sua stragrande
maggioranza contro la guerra.
Nell’estate del 1917 Kropotkin ritorna in Russia, ma dopo la
presa del potere da parte dei bolscevichi è progressivamente
emarginato dal nuovo potere comunista. Qui scrive L’Etica che
uscirà postumo e incompiuto.
Muore nel 1921 e il suo funerale costituisce l’ultima grande
manifestazione anarchica in quel Paese.
PRINCIPALI OPERE DI KROPOTKIN
Kropotkin ha scritto numerosissimi articoli, in parte integrati
in volumi successivi o pubblicati anche come opuscoli. Qui ci
limitiamo ad elencare le sue opere più importanti, indicando,
oltre all’anno di pubblicazione originale, anche l’edizione
italiana più recente a noi nota.
VOLUMI
Parole di un ribelle (1885), Casa Editrice Sociale, Milano 1921.
La conquista del pane (1892), Anarchismo, Catania 1978.
Campi, fabbriche, officine (1899), Antistato, Milano 1982 .
Memorie di un rivoluzionario (1899), Loescher, Torino 1980.
La scienza moderna e l’anarchia (1901), Il Risveglio, Ginevra
1913.
Ideali e realtà nella letteratura russa (1905), Ricciardi,
Napoli 1921.
Il mutuo appoggio (1902), Salerno, Roma 1982.
La grande rivoluzione (1909), Anarchismo, Catania 1975.
L’Etica (1922), La Fiaccola, Ragusa 1990.
OPUSCOLI
La legge e l’autorità (1896), La Fiaccola, Ragusa 1961.
La morale anarchica (1890), La Fiaccola, Ragusa 1984.
L’anarchia: la sua filosofia e il suo ideale (1896), Altamurgia,
Ivrea 1973.
Lo Stato e il suo ruolo storico (1896), Anarchismo, Catania 1981.
Vari opuscoli e altri scritti sono raccolti nell’antologia: R.N.
Baldwin (a cura di), Kropotkin’s Revolutionary Pamphlets (1922),
Dover Publication, New York 1970.
[...]
Il problema dello Stato è centrale nel pensiero anarchico.
Kropotkin, tuttavia, a differenza di altri autori non lo pone
come un tema a sé stante perché gli dedica un’attenzione più
storica che teoretica con un saggio pubblicato nel 1897 che
porta il titolo Lo Stato e il suo ruolo storico. In questo
volume è soprattutto storicizzata la genesi, che viene
collocata, «classicamente», all’inizio dell’età moderna. Con
tale interpretazione egli opera un distacco netto dalla
precedente tradizione anarchica, secondo cui l’entità statale è
una forma meta-storica che riassume, par excellence, il
principio informatore del dominio. Sulla scia della sinistra
hegeliana, questa tradizione aveva infatti identificato nello
Stato – come del resto nella religione – l’alienazione suprema
del genere umano. Ora, tale concetto non si ravvisa
nell’anarchico russo che, al contrario, vede nella formazione
statale soltanto un momento politico storicamente ben definito e
particolare del dominio dell’uomo sull’uomo. L’umanità, infatti,
è vissuta per secoli senza conoscere questa forma politica.
Qual è dunque la natura politica, sociale ed economica dello
Stato? Per Kropotkin la risposta è una sola: nell’essere
costitutivamente l’intreccio organico delle funzioni coercitive
operanti contro la società. Ciò è particolarmente evidente se si
analizza il ruolo storico da 33questi assunto nel periodo che va
dal XVI al XIX secolo. Si vedrà allora che la legislazione sulla
proprietà, il meccanismo fiscale, la costituzione dei monopoli,
la difesa del territorio hanno rappresentato l’insieme concreto
dell’organizzazione trasversale di tutti i privilegi costituiti
senza distinzione di sorta. Ad esempio, lo sfruttamento
economico determinato dal modo di produzione capitalistico non
avrebbe potuto sussistere e svilupparsi senza l’aiuto dello
Stato, specialmente per quanto riguarda l’originaria formazione
dei grandi interessi dell’industria, del commercio e
dell’agricoltura.
Mentre le rivoluzioni susseguitesi dal XV al XIX secolo sono
state tutte dirette a liberare la persona dal giogo del lavoro
obbligatorio, la reazione dello Stato è stata sempre volta a
rifondare la struttura gerarchica entro le stesse determinazioni
storiche dell’economia, della società e della politica. Lo
Stato, infatti, non è un’entità separata dalla vita degli
individui, non costituisce la loro forma istituzionalmente
alienata, la coscienza rovesciata della loro autentica
socialità. Al contrario, esso consiste nell’essere parte
integrante di ogni manifestazione individuale e collettiva.
Precisamente, quale espressione funzionante della somma dei
poteri esistenti si manifesta come principio organizzatore di
tutte le espressioni particolari del conflitto, della violenza e
della sopraffazione.
Lo Stato – riassunzione suprema della loro sinergia – acquista
forma, identità e stabilità solo quando inizia l’irreversibile
processo della delega di potere: allora i vincoli umani e
comunitari si traducono in istituzioni con una vita propria, il
costume lascia il posto alla legge, il governo finisce per
assorbire l’amministrazione. Dalla sovrapposizione sinergica di
tutte queste funzioni, dalla loro autonomizzazione prende vita
la forma statale: si passa, appunto, dal sociale al politico.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana di Lo Stato e il suo ruolo storico del 1981, nella
traduzione (rivista) di Alfredo M. Bonanno.
Per prima cosa bisogna intendersi su ciò che indichiamo con la
parola Stato. La scuola tedesca, la quale si compiace di
confondere lo Stato con la Società, ha prodotto notevoli lavori,
elaborati dai migliori pensatori tedeschi ma anche da molti
francesi, in cui gli autori non riescono a concepire la società
senza la concentrazione statale. Da ciò deriva la solita accusa
rivolta agli anarchici di voler «distruggere la società», di
predicare il ritorno a una «guerra permanente di tutti contro
tutti».
Eppure, ragionare così significa ignorare completamente i
progressi compiuti nel campo della storia durante gli ultimi
trent’anni; significa ignorare che l’uomo è vissuto in società per
migliaia di anni prima di aver conosciuto lo Stato; significa
dimenticare che per 35le nazioni europee lo Stato è di origine
recente, datando appena dal XVI secolo; significa infine
disconoscere che i periodi più gloriosi dell’umanità sono stati
quelli in cui le libertà e la vita locale non erano ancora state
distrutte dallo Stato, e in cui grandi masse di uomini vivevano in
Comuni e in libere federazioni.
Lo Stato è solo una delle forme che la società ha assunto nel
corso della storia; e non si possono confondere tra loro queste
due entità.
Altri ancora hanno confuso lo Stato con il governo. Non essendo
possibile avere Stato senza governo, si è detto, bisogna mirare
all’assenza del governo e non all’abolizione dello Stato.
A mio avviso, tuttavia, nello Stato e nel governo si debbono
identificare due nozioni di ordine diverso. L’idea di Stato indica
una cosa ben diversa dall’idea di governo. Essa comprende non solo
l’esistenza di un potere collocato al di sopra della società, ma
anche una concentrazione territoriale e una concentrazione di
molte funzioni della vita sociale nelle mani di pochi; e comporta
altresì l’instaurarsi di nuovi rapporti con i membri della
società. Si tratta, come si vede, di una distinzione che a prima
vista può sfuggire, ma che appare chiara quando si studiano le
origini dello Stato.
Peraltro, se si vuole comprendere lo Stato, non c’è che un mezzo
per farlo: studiarlo nel suo sviluppo storico, cosa che tenteremo
di fare nel presente lavoro.
L’impero romano fu uno Stato nel vero senso della parola, tanto
che fino ai giorni nostri resta un punto di riferimento per l’uomo
di legge.
Le sue istituzioni ricoprivano con una rete fittissima un vasto
dominio. Tutto affluiva verso Roma: la vita economica, la vita
militare, i rapporti giudiziari, le ricchezze, l’educazione e
persino la religione. Da Roma provenivano le leggi, i magistrati,
le legioni per difendere il territorio, i prefetti, gli dei. Tutta
la vita dell’impero risaliva al Senato, e più tardi a Cesare,
l’onnipotente, l’onniscente, il dio dell’impero. Ogni provincia,
ogni distretto, aveva il suo Campidoglio in miniatura, la sua
piccola porzione di sovrano romano che ne dirigeva tutta la vita.
Una sola legge, la legge imposta da Roma, regnava sull’impero; e
questo non era una confederazione di cittadini, ma solo un gregge
di sudditi.
Ancor oggi il legislatore e l’autoritario ammirano l’unità di
questo impero, lo spirito unitario delle sue leggi, la bellezza –
a loro dire – e l’armonia di questa organizzazione.
Ma lo sfacelo interno, assecondato dalle invasioni barbariche, la
morte della vita locale, l’incapacità di resistere agli attacchi
esterni e alla cancrena interna, spezzarono l’impero. Dalle sue
rovine nacque una nuova civiltà, che oggi è la nostra.
Se mettiamo da parte lo studio delle civiltà antiche per
esaminare piuttosto le origini e gli sviluppi della giovane
civiltà barbarica, sino ai periodi in cui essa, a sua volta, dette
origine ai nostri Stati moderni, riusciremo a comprendere meglio
l’essenza dello Stato. Si tratta di porre in atto uno studio molto
più efficace di quello che sarebbe possibile fare immergendoci
nell’esame dell’impero romano o di quello di Alessandro, oppure
nell’esame del dispotismo orientale.
Prenderemo quindi come punto di partenza quei possenti demolitori
barbari dell’impero romano, tentando di rintracciare l’evoluzione
della nostra civiltà dalle sue origini fino alla fase statale.
La maggior parte dei filosofi del XVIII secolo si era fatta
un’idea molto elementare dell’origine delle società. All’inizio,
sostenevano, gli uomini vivevano in piccole famiglie isolate in
guerra perpetua fra di loro. Questa guerra rappresentava la
condizione normale. Un bel giorno, però, si resero conto degli
inconvenienti di queste lotte senza tregua, e quindi decisero di
mettersi in società. Un contratto sociale fu concluso tra le
famiglie sparse, che si sottomisero volentieri ad una autorità la
quale – ho bisogno di sottolinearlo? – divenne il punto di
partenza e l’iniziatrice di ogni progresso. Non occorre nemmeno
aggiungere, poiché l’abbiamo appreso a scuola, che i nostri
governi attuali hanno mantenuto questa loro positiva immagine di
sapienti pacificatori e civilizzatori della specie umana.
uesta idea, concepita in un’epoca in cui non si sapeva
ancora molto sulle origini dell’uomo, dominò per tutto il secolo;
e va riconosciuto che nelle mani degli enciclopedisti e di
Rousseau, l’idea del «contratto sociale» diventò un’arma potente
per combattere la monarchia di diritto divino. Però, malgrado i
servizi resi in passato, questa tesi deve essere riconosciuta come
falsa.
In effetti, salvo alcuni carnivori e alcuni rapaci, nonché alcune
specie che vanno scomparendo, tutti gli animali vivono in società.
Nella lotta per la vita sono le specie sociali che vincono su
quelle che non lo sono. In ogni classe di animali esse occupano il
vertice della scala, e non può esserci alcun dubbio che i primi
umanoidi vivessero già in società.
Non è l’uomo quindi che ha creato la società, ma questa
preesisteva all’uomo.
Al giorno d’oggi la cosa è nota, avendo l’antropologia chiarito
perfettamente che il punto di partenza dell’umanità non fu la
famiglia ma il clan e la tribù. La famiglia patriarcale, quale noi
la conosciamo e quale ci viene dipinta dalla tradizione ebraica,
non fece la sua apparizione che molto più tardi: trascorsero
decine di migliaia di anni durante i quali l’uomo visse nella fase
tribale o clanica; e in questa prima fase – chiamiamola pure, se
così ci piace, di tribalismo primitivo o selvaggio – l’uomo
sviluppò tutta una serie di istituzioni, di usi e di costumi molto
anteriori alle istituzioni della famiglia patriarcale. [...]
Questa fase durò diverse migliaia di anni, e i barbari che
invasero l’impero romano l’avevano attraversata, anzi ne uscivano
appena allora.
Nei primi secoli della nostra era immense migrazioni
interessarono le tribù e le confederazioni tribali che abitavano
l’Asia centrale e boreale. Enormi fiumane di popolazione, sospinte
da popoli più o meno civili discesi dagli altipiani asiatici,
probabilmente scacciati dalla rapida essiccazione di questi
altipiani, si riversarono sull’Europa urtandosi fra loro e
mescolandosi nel tentativo di spingersi verso occidente.
Nel corso di queste migrazioni, durante le quali tante tribù di
origine diversa si trovarono riunite, le tribù primitive che
ancora esistevano nella maggior parte degli insediamenti selvaggi
d’Europa, dovettero necessariamente scomparire. La tribù era
basata sulla comunanza di origine, sul culto di comuni antenati,
ma non poteva più esistere alcuna comunanza di origini in quelle
agglomerazioni che uscirono dal confuso miscuglio delle
migrazioni, delle scorribande, delle guerre inter-tribali, durante
le quali, qua e là, incominciava a scorgersi l’origine della
famiglia patriarcale, il nucleo che andava formandosi intorno al
possesso, che alcuni erano riusciti ad accaparrarsi, delle donne
conquistate o rapite alle tribù vicine.
Gli antichi legami vennero così spezzati e sotto pena di
dispersione (come avvenne, infatti, per molte tribù ormai
scomparse dalla storia) nuovi legami dovevano sorgere. Ed essi
sorsero. Furono trovati nel possesso comune della terra, cioè del
territorio sul quale una certa agglomerazione aveva finito per
insediarsi.
Il possesso comune di un certo territorio – di valli e di colline
– divenne la base di un nuovo accordo. Gli dei degli antenati
avevano ormai perduto il loro significato, gli dei locali, della
vallata, del fiume, della foresta, diedero la consacrazione
religiosa alle nuove agglomerazioni sostituendo le credenze della
tribù primitiva. Più tardi il cristianesimo, sempre pronto ad
adattarsi alle sopravvivenze pagane, ne fece dei santi locali.
La comunità di villaggio, composta in parte o interamente di
famiglie distinte – unite tutte però dal possesso comune della
terra – divenne per i secoli che seguirono il necessario elemento
di congiunzione. [...]
La comunità di villaggio si componeva, come si compone ancora, di
famiglie distinte. Ma le famiglie di uno stesso villaggio
possedevano la terra in comune. Esse la consideravano come loro
patrimonio comune e la ripartivano in base all’estensione delle
famiglie, ai loro bisogni e alle loro forze. Centinaia di milioni
di uomini, nell’Europa orientale, nelle Indie, a Giava ecc.,
vivono ancora oggi sotto questo regime, che è lo stesso stabilito
liberamente dai contadini russi quando, in epoca recente, lo Stato
ha loro permesso di occupare l’immenso territorio della Siberia.
[...]
In tutti i suoi affari la comunità di villaggio era sovrana.
L’usanza locale faceva legge e l’assemblea plenaria di tutti i
capi di famiglia, uomini e donne, era il giudice – il solo giudice
– in materia civile e penale. Quando un abitante ne «querelava» un
altro, piantava il suo coltello nel luogo dove di regola la
comunità si riuniva, e questa doveva «emettere la sentenza»
secondo il costume locale, dopo che il fatto contestato dalle due
parti fosse stato chiarito dai giudici.
Sarebbe veramente lungo indicare tutto ciò che questa fase offre
di interessante. Basterà ricordare che tutte le istituzioni di cui
gli Stati si impadronirono più tardi a vantaggio delle minoranze,
tutte le nozioni di diritto che troviamo (mutilate a vantaggio
delle minoranze) nei nostri codici, nonché tutte le forme di
procedura giudiziaria che offrono garanzie per l’individuo, ebbero
la loro origine nella comunità di villaggio. Così, quando crediamo
di aver fatto un grande progresso introducendo, ad esempio, la
giuria, non abbiamo fatto altro che riportare alla luce
un’istituzione dei barbari, dopo averla modificata a vantaggio
delle classi dominanti. Il diritto romano non fece che sovrapporsi
al diritto consuetudinario.
Nello stesso tempo si andava sviluppando il sentimento di unità
nazionale per mezzo delle grandi federazioni di libere comunità di
villaggio.
Fondata sul possesso e, spessissimo, sulla coltivazione in comune
della terra, sovrana come giudice e come legislatore del diritto
consuetudinario, la comunità di villaggio rispondeva a una buona
parte dei bisogni dell’essere sociale. Ma molti di questi bisogni
restavano ancora da soddisfare. Ora, lo spirito dell’epoca non era
portato a fare appello al governo non appena un nuovo bisogno si
faceva sentire; al contrario, tendeva a prendere autonomamente
l’iniziativa per unirsi, federarsi, creare un’intesa, grande o
piccola, allargata o ristretta, che rispondesse a questo bisogno.
La società di allora si trovava letteralmente ricoperta da una
rete di patti di fratellanza, di cooperazioni per il mutuo
appoggio, di «congiurazioni», sia nel villaggio che fuori, nella
federazione. [...]
L’arbitraggio delle dispute era diventata un’istituzione
profondamente radicata, una pratica giornaliera; malgrado e contro
i vescovi e i reucci nascenti che avrebbero voluto che ogni
disputa venisse portata davanti a loro o davanti ai loro emissari
per approfittare della fred, un’ammenda pagata dal villaggio
d’origine dei violatori della pace pubblica.
Con il tempo, centinaia di villaggi si riunirono in potenti
federazioni – germi delle nazioni europee – che sottoscrissero un
patto per mantenere la pace interna e difendere reciprocamente il
loro territorio considerato come un patrimonio comune. Ancor oggi
è possibile studiare queste federazioni dal vivo in seno alle
tribù mongole, ugro-finniche, malesi. [...]
Lungi dall’essere quella bestia sanguinaria che si è voluto
dipingere allo scopo di convalidare la necessità del potere,
l’uomo ha sempre amato la tranquillità e la pace. Più battagliero
che feroce, egli di norma preferisce il suo bestiame e la sua
terra al mestiere delle armi. È per questo che non appena le
grandi migrazioni barbariche hanno cominciato a stabilizzarsi, non
appena le orde e le tribù hanno cominciato a insediarsi nei loro
rispettivi territori, si è assistito all’attribuzione dei compiti
di difesa territoriale contro nuove possibili invasioni di altri
immigranti a particolari individui, i quali iniziano ad arruolare
piccole bande di avventurieri, di uomini agguerriti o di briganti,
mentre la gran massa degli abitanti continua ad allevare il
bestiame e a coltivare il suolo. Questi difensori cominciano ben
presto ad accumulare ricchezze: prestano cavalli e ferro (allora
costosissimi) al povero, asservendolo; si costituiscono così i
primi embrioni del potere militare.
D’altra parte, la tradizione – che fa legge – viene a poco a poco
dimenticata dalla maggior parte degli individui. Resta appena
qualche vecchio che ha conservato nella memoria le strofe e i
canti che raccontano i «precedenti» di cui si compone la legge
consuetudinaria, e li recita nei giorni delle grandi feste davanti
alla comunità riunita. E così, a poco a poco, in alcune famiglie
si forma una tradizione trasmessa da padre in figlio: quella di
ritenere a memoria quei canti e quei versetti, di conservare
insomma la «legge» nella sua purezza. Presso queste famiglie si
recano gli abitanti del villaggio per giudicare le loro questioni
più difficili, soprattutto quando due villaggi o due
confederazioni si rifiutano di accettare le decisioni degli
arbitri scelti al loro interno.
L’autorità di principi e re è già in germe in queste famiglie, e
più approfondisco lo studio delle istituzioni di quell’epoca, più
mi accorgo che la conoscenza delle leggi consuetudinarie ha
contribuito molto più alla costituzione di questa autorità che non
la forza delle armi. L’uomo si è lasciato sottomettere più dal
desiderio di punire secondo la «legge» che per diretta conquista
militare. Infatti la prima «concentrazione di potere», il primo
accordo reciproco a fini di dominio, è stato quello tra il giudice
e il capo militare, accordo che viene fatto contro la comunità di
villaggio. Un solo uomo riveste queste due funzioni, circondandosi
di uomini armati per fare eseguire le decisioni giudiziarie,
fortificandosi nel suo ridotto, accumulando per sé e per la
propria famiglia le ricchezze dell’epoca – cereali, bestiame,
terra – ed estendendo a poco a poco il suo dominio sugli abitanti
del circondario.
L’intellettuale di quel tempo, cioè lo stregone o il prete, non
tarda a dargli il suo appoggio e a condividerne il dominio;
oppure, unendo la forza della lancia al suo 42temuto potere di
mago, se ne impadronisce per proprio conto.
Bisognerebbe dilungarsi moltissimo su questo argomento,
trattandosi di un soggetto pieno di nuovi insegnamenti che ci fa
comprendere come degli uomini liberi diventino gradatamente dei
servi obbligati a lavorare per il padrone, laico o religioso, del
castello; come l’autorità si costituisca man mano al di sopra dei
villaggi e delle borgate; come i contadini si ribellino lottando
contro questa dominazione crescente, ma come le loro lotte si
infrangano contro le robuste mura del castello, contro gli uomini
ricoperti di ferro che lo difendono.
Sarà sufficiente dire che, verso il X e l’XI secolo, l’Europa
avanzava in pieno verso la costituzione di quei regimi barbarici,
come oggi se ne scoprono nel cuore dell’Africa, o di quelle
teocrazie, come si conoscono studiando la storia dell’Oriente.
Tutto ciò non avvenne ovviamente in un giorno, ma i germi dei
piccoli reami e delle piccole teocrazie già esistevano e si
andavano affermando sempre più.
Fortunatamente lo spirito barbaro – scandinavo, sassone, celtico,
germanico, slavo – che aveva spinto gli uomini durante sette o
otto secoli a cercare la soddisfazione dei loro bisogni
nell’iniziativa individuale e nella libera intesa delle
fratellanze e delle gilde, fortunatamente, dicevamo, questo
spirito sopravviveva nei villaggi e nelle borgate. I barbari si
lasciavano dominare, lavoravano per il padrone, ma il loro spirito
di libera intesa non si era ancora lasciato corrompere. Le loro
fratellanze erano più che mai vive e le crociate non avevano fatto
altro che risvegliarle e svilupparle in tutto l’Occidente.
Fu allora, tra l’XI e il XII secolo, che la rivoluzione dei
Comuni urbani sorti dall’unione tra la comunità di villaggio e le
fratellanze – rivoluzione che lo spirito federativo dell’epoca
preparava da lungo tempo – scoppiò con mirabile accordo.
Questa rivoluzione, che la maggior parte degli storici accademici
preferisce ignorare, salvò l’Europa dalla minaccia che gravava su
di essa: arrestò l’evoluzione dei regimi teocratici e dispotici,
nei quali la nostra civiltà avrebbe probabilmente trovato la
propria fine. Infatti, dopo alcuni secoli di pomposo sviluppo,
essa sarebbe stata affossata come affossate furono le civiltà
mesopotamica, assira e babilonese. Questa rivoluzione schiuse
invece una nuova fase di vita: la fase dei liberi Comuni.
Si capisce facilmente perché gli storici moderni, educati allo
spirito romano e preoccupati di far risalire le origini di tutte
le istituzioni a Roma, stentino tanto a capire lo spirito del
movimento comunalista del XII secolo. Questo movimento fu una
forte affermazione dell’individuo, che giunse a costituire la
società per mezzo della libera federazione di uomini, villaggi e
città. Esso fu anche un’assoluta negazione dello spirito unitario
e accentratore romano, con il quale si cerca ancor oggi di
spiegare la storia nel nostro insegnamento universitario. Questo
movimento non si ricollega ad alcun personaggio storico di
particolare rilievo né ad alcuna istituzione centralizzata. Fu uno
sviluppo naturale, proprio, come la tribù e la comunità di
villaggio, a una certa fase dell’evoluzione umana e non a questa
nazione o a quella regione. [...]
La vittoria dello Stato sui Comuni e sulle istituzioni
federative medievali non fu tuttavia immediata. Vi fu anzi un
momento in cui tale vittoria fu così minacciata da sembrare del
tutto incerta.
Un immenso movimento popolare – religioso quanto a forma ed
espressione, ma sostanzialmente egualitario e comunista quanto ad
aspirazioni – si produsse nelle città e nelle campagne dell’Europa
centrale. [...]
Nato nelle città, questo movimento si estese ben presto nelle
campagne. I contadini si rifiutavano di obbedire a chiunque e
montando una vecchia scarpa su di una picca, a guisa di bandiera,
riprendevano le terre ai signori, spezzavano i legami di servitù,
scacciavano prete e giudice e si costituivano in libero Comune.
Solo ricorrendo al rogo, alla ruota e alla forca, al massacro di
centinaia di migliaia di contadini compiuto in pochi anni, il
potere regale o imperiale, alleato della Chiesa papista o
riformata – giacché Lutero incitava al massacro dei contadini
ancor più violentemente dello stesso papa – mise fine a questo
movimento che aveva per un certo periodo minacciato la formazione
degli Stati nascenti.
Nato dall’anabattismo popolare, il riformismo luterano massacrò
il popolo insieme allo Stato e schiacciò il movimento dal quale
aveva avuto origine. I resti di quell’immensa ondata si
rifugiarono nelle comunità dei «Fratelli Moravi», che a loro volta
furono, circa un secolo dopo, distrutte dalla Chiesa e dallo
Stato. [...]
Lo Stato ormai aveva messo al sicuro la propria esistenza. Il
legislatore, il prete, e il signore-soldato, riunitisi in alleanza
solidale intorno al trono, potevano, d’ora in avanti, compiere la
loro opera di distruzione.
Sono moltissime le menzogne su questo periodo accumulate dagli
storici stipendiati dallo Stato.
Abbiamo tutti appreso a scuola, ad esempio, che lo Stato avrebbe
reso il grande servizio di costruire, sulle rovine della società
feudale, le unioni nazionali, rese precedentemente impossibili
dalle rivalità cittadine. L’abbiamo imparato a scuola e quasi
tutti l’abbiamo continuato a credere anche in età adulta. Oggi
invece arriviamo a capire che, malgrado tutte le loro rivalità, le
città medievali avevano lavorato, durante quattro secoli, a
costruire queste unioni per mezzo della federazione volontaria
liberamente accettata, e in pratica vi erano riuscite.
La Lega lombarda, ad esempio, comprendeva le città dell’Alta
Italia e aveva la sua cassa federale custodita a Genova e a
Venezia. Altre federazioni si ritrovavano per tutta l’Europa, come
la Lega toscana, la Lega renana (che comprendeva sessanta città),
le federazioni della Westfalia, della Boemia, della Serbia, della
Polonia, delle città russe. Nello stesso tempo l’unione
commerciale della Lega Anseatica comprendeva le città scandinave,
tedesche, polacche, russe e di tutto il bacino del Mar Baltico. Vi
erano già in tali unioni tutti gli elementi di larghe
agglomerazioni umane liberamente organizzate.
La prova vivente di tali raggruppamenti la si può vedere in
Svizzera. L’unione, in questo Paese, si affermò dapprima fra le
comunità di villaggio (i vecchi cantoni), non diversamente da come
si costituì, nello stesso periodo, anche in Francia, nel lionese.
E poiché in Svizzera la separazione tra la città e il villaggio
non fu mai così profonda come nelle lontane città commerciali,
accadde che le città diedero man forte all’insurrezione dei
contadini (nel XVI secolo), facendo in modo che l’unione
risultasse più forte e si mantenesse fino ai giorni nostri.
Ma lo Stato, per il suo stesso principio, non può tollerare la
federazione libera, che rappresenta una cosa orrenda per l’uomo di
legge: «uno Stato nello Stato». Lo Stato non può riconoscere
un’unione liberamente accettata che funzioni nel suo seno, esso
non riconosce che sudditi, per cui soltanto lo Stato, insieme alla
Chiesa, può accampare il diritto di servire da unione tra gli
uomini. Di conseguenza, lo Stato doveva per forza distruggere le
città basate sull’unione diretta tra i cittadini: doveva abolire
ogni unione nella città, abolire la città stessa, e sostituire
infine al principio federativo il principio di sottomissione e di
disciplina. È questa la sostanza stessa dello Stato, che senza
tale principio cesserebbe di esistere.
Il XVI secolo – secolo di massacri e di guerre – si riassume
interamente in questa lotta dello Stato nascente contro le città
libere e le loro federazioni. Le città vengono assediate, prese
d’assalto, saccheggiate, e i loro abitanti decimati ed espulsi. Lo
Stato ha riportato la vittoria su tutta la linea, ed eccone le
conseguenze.
Nel XV secolo l’Europa era piena di città prospere, i cui
artefici – muratori, tessitori, cesellatori – producevano
meravigliose opere d’arte, le cui università ponevano le
fondamenta della scienza, le cui carovane percorrevano i
continenti, i cui navigli toccavano tutti i mari e i fiumi.
Due secoli dopo resta ben poco di tutto questo. Città che erano
arrivate fino a cinquanta o centomila abitanti, che avevano
posseduto – come Firenze – più scuole e più letti d’ospedale per
abitante di quelli oggi posseduti da città meglio fornite, sono
diventate borghi in rovina. Dopo averne massacrato ed espulso gli
abitanti, lo Stato si è impadronito delle loro ricchezze.
L’industria, sotto la minuziosa tutela dei funzionari dello Stato,
si spegne. Il commercio muore. Le strade stesse, che una volta
collegavano queste città tra loro, nel XVII secolo diventano
assolutamente impraticabili.
Lo Stato è la guerra, e le guerre devastano l’Europa, finendo di
distruggere le città che lo Stato non ha distrutto direttamente.
II
Al nodo storico cruciale della Rivoluzione francese Kropotkin
dedica anni intensi di studio che alla fine producono un’opera
di notevole rilievo: La Grande Rivoluzione. In questo testo
l’anarchico russo delinea contemporaneamente la sua
interpretazione storica del 1789 e la sua concezione di
rivoluzione. Nella ricostruzione kropotkiniana della Rivoluzione
francese possiamo osservare la preminenza delle masse anonime –
soprattutto contadine – nei confronti delle singole personalità
storiche, la subordinazione di ogni forma di soggettività
politica all’emergenza oggettiva della corale socialità dal
basso e dunque la supremazia della dimensione collettiva
rispetto a quella individuale; inoltre, la concreta e
strutturale tendenza del mutuo appoggio manifestatasi attraverso
la domanda prioritaria dell’uguaglianza sociale, la quale
risulta più profonda e significativa della spinta ideale verso
la libertà politica. In conclusione, la rivoluzione francese
costituisce per Kropotkin la riflessione storica fondamentale da
cui partire per studiare e costruire l’azione rivoluzionaria
futura.
Secondo Kropotkin dal 1789 non sono scaturite molteplici
rivoluzioni (aristocratica, costituzionale, girondina,
giacobina), come è stato affermato dalle varie storio- 49grafie
liberali, socialiste e democratiche, ma una sola rivoluzione,
precisamente la Grande Rivoluzione, che nel suo moto progressivo
ha cercato la propria verità nel fondo spontaneo, popolare,
comunista e anarchico che ha attraversato fin dall’inizio lo
stesso evento rivoluzionario.
Questo giudizio costituisce la chiave di volta
dell’interpretazione kropotkiniana della Rivoluzione francese:
il «fondo» e l’«essenza» di questa rivoluzione non appartengono
veramente alla borghesia, che è stata rivoluzionaria suo
malgrado. La classe borghese è stata trascinata dall’ondata
popolare, alla quale ha cercato di opporre la moderazione del
costituzionalismo monarchico.
La svalutazione della volontà rivoluzionaria della
borghesia attraversa tutta la ricostruzione storica
dell’anarchico russo, che tende pertanto a vedere anche nelle
conquiste del liberalismo politico l’effetto di una spinta più
grande e possente: la lotta popolare per il comunismo, nella
forma ancora rozza della semplice, diretta distribuzione
egualitaria dei beni.
L’opera kropotkiniana ha influenzato largamente il pensiero
rivoluzionario contemporaneo. Lenin, ad esempio, l’apprezzava
molto. Ancora nel 1970 ne è stata tirata in Unione Sovietica
un’edizione di 43.700 copie. Nella storiografia di sinistra del
secondo dopoguerra La Grande Rivoluzione ha avuto ulteriori
echi. Nelle opere di Daniel Guérin (La lutte de classe sous la
Première République 1793-1797 e Bourgeois et bras nus 1793-
1795) si può ad esempio ravvisare la ripresa di molte intuizioni
dell’anarchico russo.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’antologia
La società aperta, a cura di Herbert Read, nella traduzione
(rivista) di Annamaria Savegnago.
Due grandi correnti prepararono e fecero la Rivoluzione francese.
Una, la corrente delle idee, il prorompere di nuove idee sulla
riorganizzazione politica dello Stato, proveniva dalla borghesia.
L’altra, la corrente dell’azione, proveniva dalle masse popolari,
dai contadini e dai proletari delle città, che volevano ottenere
miglioramenti immediati e tangibili della loro condizione
economica. E quando queste due correnti si incontrarono in un
obiettivo inizialmente comune, quando praticarono per un certo
periodo un appoggio mutuo, il risultato fu la rivoluzione.
I filosofi del XVIII secolo avevano già da tempo cominciato a
scalzare le fondamenta delle società civili dell’epoca, dove il
potere politico e una parte immensa delle ricchezze apparteneva
all’aristocrazia e al clero, 51mentre la gran massa del popolo
altro non era se non la bestia da soma delle classi al potere.
Proclamando la sovranità della ragione, predicando la fiducia
nella natura umana e dichiarando che quest’ultima, pur corrotta
dalle istituzioni che nel corso della storia avevano ridotto
l’uomo in servitù, avrebbe ciononostante riacquisito tutte le sue
qualità una volta riconquistata la libertà, questi filosofi
avevano aperto nuovi orizzonti all’umanità. Decretando
l’uguaglianza di tutti gli uomini, senza distinzione di nascita,
chiedendo a ogni cittadino, fosse egli re o contadino, obbedienza
alla legge, che si suppone esprima la volontà della nazione quando
è stata emanata dai rappresentanti del popolo, e infine chiedendo
la libertà di contratto tra uomini liberi, nonché l’abolizione
delle servitù feudali, e formulando tutte queste richieste,
collegate tra loro dal metodo e dallo spirito sistematico
caratteristici del pensiero francese, i filosofi avevano senza
dubbio preparato, almeno nelle menti degli uomini, la caduta del
vecchio regime.
Questo da solo, tuttavia, non sarebbe stato sufficiente a
provocare la rivoluzione. Bisognava ancora passare dalla teoria
all’azione, dal concepire un ideale nella propria immaginazione al
metterlo in pratica nei fatti. E ciò che interessa oggi da un
punto di vista storico sono le circostanze che, in un dato
momento, resero possibile alla nazione francese di fare questo
sforzo: dare inizio alla realizzazione dell’ideale. [...]
La rivoluzione è un cambiamento rapido, nello spazio di pochi
anni, di istituzioni che ci avevano messo dei secoli a mettere
radici nel suolo e che sembravano tanto solide e immutabili che
persino i più accesi riformatori a malapena osavano attaccarle nei
loro scritti. È la caduta, lo sgretolarsi in un breve lasso di
tempo di tutto ciò che fino a quel momento costituiva l’essenza
stessa della vita sociale, religiosa, politica ed economica di una
nazione. È il sovvertimento delle idee acquisite e delle nozioni
condivise sulle complesse relazioni tra le varie componenti
dell’insieme umano.
È infine il fiorire di concezioni nuove, egualitarie, nei
rapporti tra cittadini, concezioni che ben presto diventano realtà
e cominciano così ad espandersi tra le nazioni vicine,
sconvolgendo il mondo e consegnando all’epoca successiva le sue
parole d’ordine, i suoi problemi, la sua scienza, le sue linee di
sviluppo economico, politico e morale.
Per arrivare a un risultato di tale importanza, perché un
movimento assuma le proporzioni di una rivoluzione (come successe
in Inghilterra nel 1648 e nel 1688 e in Francia nel 1789 e nel
1793), non è sufficiente che un movimento di idee, non importa
quanto radicate, si manifesti tra le classi colte; e non è
sufficiente che le rivolte, non importa quanto frequenti o estese,
si producano in seno al popolo. È necessario che l’azione
rivoluzionaria proveniente dal popolo coincida con il movimento di
pensiero rivoluzionario proveniente dalle classi colte. Deve,
cioè, esserci un’unione dei due. [...]
Eppure la storia di questo doppio movimento è ancora da scrivere.
La storia della Grande Rivoluzione francese è stata scritta e
riscritta innumerevoli volte e da molti punti di vista differenti;
ma sino a questo momento gli storici si sono dedicati a raccontare
soprattutto la storia politica, la storia delle conquiste della
borghesia a scapito del partito della Corte e di quanti
difendevano le istituzioni della vecchia monarchia. Così,
conosciamo molto bene il risveglio del pensiero che precede la
rivoluzione. Conosciamo i princìpi che dominarono durante la
rivoluzione e che si tradussero nella sua opera legislativa. Siamo
estasiati davanti alle grandi idee che lanciò in tutto il mondo e
che il XIX secolo ha poi cercato di realizzare nei Paesi civili.
In breve, la storia parlamentare della rivoluzione, le sue guerre,
la sua politica e la sua diplomazia, sono state studiate e
raccontate in tutti i particolari. Ma la storia popolare della
rivoluzione rimane ancora da fare. La parte avuta nella
rivoluzione dal popolo delle campagne e delle città non è mai
stata studiata e narrata nella sua interezza. Delle due correnti
che fecero la rivoluzione, la corrente del pensiero è conosciuta,
ma l’altra, quella dell’azione popolare, 53non è stata ancora
nemmeno abbozzata.
Sta a noi, i discendenti di quelli che i contemporanei chiamavano
gli «anarchici», studiare questa corrente popolare evidenziandone
quantomeno i tratti essenziali. [...]
Nei villaggi, fu la Comune dei contadini a reclamare l’abolizione
dei tributi feudali e a ratificare il rifiuto di continuare a
pagarli; fu la Comune a riprendere ai proprietari terrieri quelle
terre che precedentemente erano comuni, a resistere ai nobili, a
lottare contro i preti, a proteggere i patrioti e più tardi i
sans-culottes, ad arrestare i nobili emigrati che tornavano o il
re che scappava.
Nelle città, fu la Comune municipale a ricostruire ogni aspetto
della vita, ad arrogarsi il diritto di scegliere i giudici, a
modificare di propria iniziativa la ripartizione delle tasse e,
più tardi, seguendo gli sviluppi della rivoluzione, a divenire
l’arma dei sans-culottes nella loro lotta contro la monarchia e i
cospiratori monarchici e contro gli invasori tedeschi. In tempi
ancora successivi, nell’Anno II della Repubblica, furono sempre le
Comuni che si assunsero il compito di redistribuire le ricchezze.
E, come ben sappiamo, fu la Comune di Parigi a detronizzare il re
e a divenire, dopo il 10 agosto, il nucleo reale, la vera forza
della rivoluzione, che manterrà il proprio vigore soltanto fino a
quando la Comune sopravviverà.
L’anima della Grande Rivoluzione fu dunque nelle Comuni, e senza
questi focolai sparsi su tutto il territorio, la rivoluzione non
avrebbe mai avuto la forza di abbattere il vecchio regime, di
respingere l’invasione tedesca e di rigenerare la Francia.
Sarebbe però sbagliato rappresentarsi le Comuni di quel tempo
come i moderni corpi municipali ai quali i cittadini, dopo pochi
giorni di eccitamento dovuto alle elezioni, ingenuamente affidano
l’amministrazione di tutti i propri affari, senza occuparsi più di
niente. La folle fiducia nel governo rappresentativo che
caratterizza la nostra epoca non esisteva durante la Grande
Rivoluzione. La Comune nata dai movimenti popolari non si separerà
mai dal popolo. Attraverso i suoi «distretti», «sezioni» o
«tribù», costituiti come altrettanti organi di amministrazione
popolare, rimarrà del popolo; ed è appunto questo che darà la
forza rivoluzionaria a tali organismi.
Dal momento che è l’organizzazione e la vita dei «distretti» e
delle «sezioni» di Parigi che sono meglio conosciute, sarà appunto
degli organismi di questa città che parleremo, tanto più che
studiando la vita delle «sezioni» parigine impariamo a conoscere
con buona approssimazione anche la vita delle migliaia di Comuni
della provincia.
Fin dall’inizio della rivoluzione, ma già da quando gli eventi
avevano spinto Parigi a prendere l’iniziativa alla vigilia del 14
luglio, il popolo, con la sua meravigliosa attitudine per
l’organizzazione rivoluzionaria, si stava già organizzando in
vista della lotta che avrebbe dovuto sostenere, e della quale
sentì immediatamente l’importanza. [...]
Dopo la presa della Bastiglia, vediamo subito i distretti agire
come organi riconosciuti dell’amministrazione municipale. [...]
Fu per mezzo dei distretti che, d’allora in poi, Danton, Marat e
tanti altri furono messi nella possibilità di ispirare le masse
popolari parigine con il soffio della rivolta; e fu così che le
masse si abituarono a fare a meno dei corpi rappresentativi e
cominciarono a mettere in pratica l’autogoverno.
Immediatamente dopo la presa della Bastiglia, i distretti avevano
ordinato ai loro delegati di preparare, d’accordo con il sindaco
di Parigi, Bailly, un piano di organizzazione municipale che
doveva poi essere nuovamente sottoposto ai distretti. Ma in attesa
di questo schema, i distretti andarono avanti allargando la sfera
delle proprie funzioni a seconda delle necessità.
Quando l’Assemblea nazionale cominciò a discutere l’ordinamento
municipale, lo fece, com’era logico aspettarsi da un corpo così
eterogeneo, con un’esasperante lentezza. «Dopo due mesi», dice
Lacroix, «il primo articolo del nuovo piano municipale doveva
ancora essere scritto» [Actes, t.II, p.XIV]. Si comprende bene
come «questi ritardi sembrassero sospetti ai distretti», e da
questo momento cominciò a manifestarsi verso l’Assemblea dei
rappresentanti della Comune un’ostilità sempre più marcata di una
parte dei suoi rappresentati. Ma quello che è importante notare è
che, mentre cercavano di dare una forma legale al governo
municipale, i distretti cercavano al contempo di mantenere la
propria indipendenza. Essi cercavano l’unità d’azione, ma non
sottomettendosi a un comitato centrale, bensì all’interno di una
confederazione.
«Lo spirito espresso dai distretti [...]», scrive ancora Lacroix
[Actes, t.II, pp.XIV-XV], «è caratterizzato al contempo da un
forte sentimento di unità comunalista e da una tendenza non meno
forte verso l’autogoverno. […] Parigi non vuol essere una
federazione di sessanta repubbliche, ognuna delle quali ritagliata
a caso in un proprio territorio: la Comune è una, è composta
dall’insieme di tutti i suoi distretti [...]. Non si trova un solo
esempio di un distretto che pretenda di vivere appartato dagli
altri [...]. Ma accanto a questo principio assodato, se n’è
manifestato un altro [...], e cioè che la Comune deve legiferare e
amministrare se stessa quanto più direttamente possibile; il
governo rappresentativo deve essere ridotto al minimo; tutto ciò
che nella Comune può essere fatto direttamente deve essere fatto
senza alcun intermediario, senza alcuna delega, o da delegati
ridotti al ruolo di mandatari con delega univoca, che agiscono
sotto il continuo controllo dei mandanti […]. È ai distretti, ai
cittadini riuniti in assemblee generali di distretto, che
appartiene il diritto ultimo di legiferare e di amministrare nella
Comune».
Appare così evidente che i princìpi dell’anarchismo, espressi
qualche anno dopo in Inghilterra da William Godwin, datano già dal
1789, e che essi hanno avuto origine non in speculazioni teoriche
ma nei fatti della Grande Rivoluzione. [...]
Una nuova Francia è nata da questi quattro anni di rivoluzione.
Per la prima volta dopo secoli il contadino mangia a sazietà.
Raddrizza la schiena! Osa parlare! Bisogna leggere i rapporti
particolareggiati sul ritorno di Luigi XVI a Parigi, quando viene
riportato prigioniero da Varennes, nel giugno del 1791, dai
contadini, e chiedersi: «Una cosa simile, un tale interesse per la
cosa pubblica, una tale devozione, e una totale indipendenza di
giudizio e di azione, potevano essere possibili prima del 1789?».
Stava nascendo una nuova nazione, proprio come oggi vediamo
nascere una nuova nazione in Russia e in Turchia.
Ed è grazie a questa rinascita che la Francia sarà in grado di
reggere tutte le guerre della Repubblica e di Napoleone, e di
portare i princìpi della Grande Rivoluzione in Svizzera, Italia,
Spagna, Belgio, Olanda e Germania sino ai confini della Russia. E
quando, dopo tutte quelle guerre, dopo aver visto le armate
francesi arrivare sino in Egitto e a Mosca, ci aspetteremmo di
trovare la Francia del 1815 impoverita, devastata, ridotta alla
miseria, troviamo invece che le campagne – persino quelle dell’Est
e del Giura – sono molto più prospere di quello che erano ai tempi
in cui Pétion, mostrando a Luigi XVI le rive lussureggianti della
Marna, gli chiese se ci fosse in nessun’altra parte del mondo un
regno più bello di quello.
L’energia interiore accumulatasi nei villaggi è tale che in pochi
anni la Francia diventerà un Paese di contadini benestanti, e ben
presto si scoprirà che nonostante tutto il sangue versato e le
perdite subite, la Francia, in termini di produttività, è il Paese
più ricco d’Europa. E la sua ricchezza non la ricava dalle Indie o
dal suo commercio con Paesi lontani, ma viene dal suo suolo, dal
suo amore per la terra, dalla sua abilità e 57industriosità. È il
Paese più ricco grazie alla redistribuzione della sua ricchezza,
ed è ancora più ricco grazie alle possibilità che offre per il
futuro.
È stato questo l’effetto della rivoluzione. E se uno sguardo
distratto non vede nella Francia di Napoleone che l’amore per la
gloria, lo storico si rende conto che persino le guerre condotte
dalla Francia in quel periodo sono state intraprese per assicurare
i frutti della rivoluzione, ovvero le terre riprese ai signori, ai
preti e ai possidenti, e le libertà sottratte al dispotismo e alla
monarchia. Se la Francia è disposta in quegli anni a dissanguarsi
a morte soltanto per impedire a tedeschi, inglesi e russi di
imporre un Luigi XVIII, ciò è avvenuto perché non vuole che il
ritorno dei nobili emigrati possa significare che i ci-devants,
«quelli di prima», si riprendano le terre bagnate dal sudore dei
contadini e le libertà bagnate dal sangue dei patrioti. E la
Francia combatte così bene per ventitré anni che, quando alla fine
è costretta a riammettere i Borboni, riesce a imporgli le proprie
condizioni: che i Borboni regnino pure, ma le terre dovranno
rimanere a coloro che se le sono riprese dai signori feudali. E lo
stesso Terrore bianco dei Borboni non oserà toccarle. Il vecchio
regime non sarà più restaurato.
Questo è ciò che si conquista facendo una rivoluzione. Ma ci sono
altre cose che vanno evidenziate. Nella storia dei popoli arriva
un momento in cui s’impone un mutamento profondo di tutta la vita
nazionale. Nel 1789 il dispotismo monarchico e il feudalesimo
stanno morendo: non è più possibile mantenerli, bisogna
rinunciarvi.
A questo punto si aprono due vie: riforma o rivoluzione. C’è
sempre un momento in cui la riforma è ancora possibile. Ma se non
si è approfittato di quel momento, se si è opposta un’ostinata
resistenza alle esigenze del nuovo modo di vivere, sino al punto
di far scorrere il sangue nelle strade, come il 14 luglio 1789,
allora non può esserci che la rivoluzione. E una volta che la
rivoluzione ha inizio, deve necessariamente svilupparsi sino alle
sue estreme conseguenze, cioè sino al punto più alto che, in
sintonia con lo spirito dei tempi, sarà capace di raggiungere, pur
se solo temporaneamente.
Se si rappresenta il lento progredire di un periodo di evoluzione
con una linea tracciata su un grafico, si constaterà che questa
linea gradualmente, anche se lentamente, si innalza. Ma ecco che
sopraggiunge una rivoluzione e la linea s’impenna facendo un
improvviso balzo verso l’alto. In Inghilterra la linea mostrerebbe
un’impennata al tempo della Repubblica puritana di Cromwell; in
Francia s’impennerebbe al tempo della Repubblica sans-culotte del
1793. Tuttavia, l’andamento non può mantenersi a questo livello;
tutte le forze ostili si coalizzano contro e, dopo aver raggiunto
questi picchi, le repubbliche crollano e le linee scendono. Segue
la reazione e, quantomeno in politica, la linea del progresso
precipita. Ma a poco a poco si alza di nuovo e quando torna la
pace – nel 1815 in Francia e nel 1688 in Inghilterra – entrambi i
Paesi si trovano a un livello molto più alto di quello che avevano
prima delle loro rivoluzioni.
Si torna all’evoluzione, e la nostra linea ricomincia a salire
lentamente. Ma questa ascesa parte da un livello molto più elevato
di quello rilevato prima della turbolenza, e quasi sempre la sua
crescita sarà più rapida. Questa è una legge del progresso umano,
ed anche del progresso individuale. E la storia della Francia
moderna, che passa attraverso la Comune per arrivare alla Terza
Repubblica, conferma proprio questa legge.
L’opera della Rivoluzione francese non si limita solo a ciò che
ha ottenuto e che ha realizzato in Francia, ma la si ritrova anche
nei princìpi che ha tramandato al secolo successivo,
nell’orientamento con cui ha contrassegnato il futuro.
Una riforma è sempre un compromesso con il passato, mentre il
progresso ottenuto tramite una rivoluzione è sempre una promessa
di progresso futuro. Se la Grande Rivoluzione francese riassume in
sé un secolo di evoluzione, sarà poi lei a impostare il programma
d’evoluzione che segnerà il corso del XIX secolo. […]
I popoli si sforzano di realizzare nelle proprie istituzioni
l’eredità ricevuta dalla precedente rivoluzione. Tutto ciò che
essa non ha potuto mettere in pratica, tutte le grandi idee messe
in circolo durante quel periodo turbolento ma che la rivoluzione
non ha potuto o saputo applicare, tutti i tentativi di
ricostruzione sociologica nati durante la rivoluzione, tutto
questo costituirà il contenuto dell’evoluzione che seguirà a tale
rivoluzione. A ciò si aggiungeranno le nuove idee cui questa
evoluzione darà vita quando cercherà di mettere in pratica il
programma ereditato dall’ultimo sommovimento. Poi, una nuova
grande rivoluzione avrà luogo in qualche altra nazione, ed essa
fisserà, a sua volta, i punti di riferimento dell’epoca
successiva.
È stato appunto questo il cammino della storia.
Due grandi conquiste, in effetti, hanno caratterizzato il secolo
seguito agli eventi del 1789-1793. Entrambe hanno avuto la propria
origine nella Rivoluzione francese, che a sua volta portava avanti
l’opera della Rivoluzione inglese, ampliandola e rinvigorendola
con tutto il progresso fatto dopo che la borghesia inglese aveva
tagliato la testa al suo re trasferendone il potere al parlamento.
Queste due grandi conquiste sono l’abolizione della servitù e
l’abolizione dell’assolutismo, conquiste che hanno conferito
all’individuo libertà personali inimmaginabili per il servo della
gleba e per il suddito del sovrano assoluto, ma che allo stesso
tempo hanno portato anche allo sviluppo della borghesia e del
regime capitalistico.
Il testo kropotkiniano più importante relativo alle questioni
metodologiche è La scienza moderna e l’anarchia, uscito per la
prima volta a Parigi nel 1913. L’opera riassume i temi attinenti
al rapporto fra anarchismo e scienza e stabilisce il primato
assoluto della conoscenza e della ragione nel processo di
emancipazione umana. Kropotkin inserisce la tradizione anarchica
nell’alveo dell’Illuminismo, con l’intento di operare una
rottura radicale con la cultura storicistica e, in modo
particolare, con l’hegelismo. Egli vuole portare l’anarchismo
fuori dall’ambito della filosofia idealistica e, in generale,
fuori da ogni ascendenza vitalistica, mistica, irrazionale. La
critica alla dialettica hegeliana e marxista è, a questo
proposito, emblematica.
L’anarchismo, per non imboccare la strada inconcludente della
mistificazione del reale, deve rimanere saldamente agganciato
alla grande cultura razionalistica nata con l’Illuminismo.
Specificamente, l’identificazione è fra il metodo anarchico e
quello induttivo delle scienze naturali. Lo scopo è quello di
evidenziare, nell’accostamento metodologico, la sostanziale
analogia fra natura e anarchia. In questo modo lo
sperimentalismo scientifico per il suo carattere di «apertura»,
di «modificabilità», per il suo costituzionale antidogmatismo
svolge, in un 61certo senso, una funzione analoga a quella
svolta dal pluralismo all’interno del procedimento proprio
dell’anarchismo. L’analogia fra sperimentalismo e pluralismo è
data dalla comune natura di essere entrambi un metodo regolativo
più che costitutivo rispetto al problema di una costruzione
sociale e di un pari sviluppo scientifico.
Kropotkin però non si limita ad una identificazione attinente
all’ambito metodologico, ma amplia tale identificazione al campo
più vasto dell’idea anarchica e del concetto di natura, fondendo
così scienza e anarchia in una Weltanschauung di forte
significato generalizzante. A questo proposito Kropotkin fa
coincidere il metodo scientifico con la metodologia anarchica
fondata sulla coerenza logica ed etica fra mezzi e fini.
L’adeguamento dei mezzi ai fini vuol significare che la scienza
deve essere completamente al servizio di una volontà, di
un’idea. Se si considera come in questa metodologia si evidenzia
la dimensione più rivoluzionaria dell’anarchismo, è possibile a
questo punto vedere il senso di tale coniugazione e dunque il
tentativo di superare la stessa concezione meramente
deterministica dell’identificazione fra scienza e anarchia. Il
rapporto della necessaria coerenza tra metodo e scopo ci dice
infatti che i fini non possono essere raggiunti che attraverso
l’adeguamento dei mezzi alla natura dei fini stessi. Ciò
comporta un intervento volontario e cosciente della mano
rivoluzionaria nella modificazione continua della prassi, un
intervento che non fa altro che rimandare ad una considerazione
fondamentale: e cioè che gli scopi – anche se estrapolati da
tendenze latenti del presente – devono essere collocati
volontariamente a dispetto di ogni contingenza. Sono, in altri
termini, immessi coscientemente nel processo storico come
obiettivi determinati.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti
dall’edizione di Ginevra del 1913 de La scienza moderna e
l’anarchia.
Benché l’anarchia, in ciò simile a tutte le correnti
rivoluzionarie, sia nata in seno al popolo, nel tumulto della
lotta e non nello studio di un pensatore, è però utile capire dove
si colloca fra le diverse correnti del pensiero scientifico e
filosofico contemporaneo. Come si pone di fronte a queste diverse
correnti? A quale fa riferimento di preferenza? Quale metodo di
ricerca adopera per avallare le sue conclusioni? In altre parole,
a quale scuola di filosofia del diritto appartiene l’anarchia? Con
quale corrente della scienza moderna presenta le maggiori
affinità?
Di fronte all’entusiasmo per la metafisica economica che abbiamo
visto recentemente nei circoli socialisti, questa questione è di
qualche interesse. Cercherò, quindi, di rispondervi brevemente e
nel modo più semplice possibile, evitando i termini difficili ogni
volta che si possono evitare.
Il movimento intellettuale del XIX secolo ha le sue origini
nell’opera dei filosofi inglesi e francesi elaborata tra la metà e
la fine del secolo precedente. Il risveglio del pensiero
determinatosi in quell’epoca ispirò a questi pensatori il
desiderio di raccogliere tutte le umane conoscenze in un sistema
generale: il sistema della natura. Rifiutando interamente la
scolastica e la metafisica medievale, ebbero il coraggio di posare
il loro sguardo su tutta la natura – il mondo delle stelle, il
nostro sistema solare, la Terra e lo sviluppo delle piante, degli
animali e delle società umane sulla sua superficie – come su una
serie di fatti che possono essere studiati allo stesso modo in cui
si studiano tutte le scienze naturali.
Avvalendosi ampiamente del vero metodo scientifico – il metodo
induttivo-deduttivo – quei pensatori intrapresero l’esame di tutto
ciò che la natura ci offre, tanto del mondo stellare o animale
quanto di quello delle credenze e delle istituzioni umane, in modo
del tutto eguale a quello che avrebbe adoperato un naturalista per
studiare problemi di fisica.
Essi annotavano dapprima con pazienza i fatti e quando, in
seguito, si mettevano a trarne delle generalizzazioni, lo facevano
per via induttiva. Avanzavano, naturalmente, talune ipotesi, ma a
queste ipotesi non attribuivano maggiore importanza di quella che
Darwin aveva attribuito alla sua ipotesi sull’origine delle nuove
specie nella lotta per l’esistenza, o che Mendeleeff aveva
attribuito alla sua ipotesi sulla tavola periodica degli elementi.
Essi non vi vedevano che delle supposizioni, le quali offrivano
una spiegazione provvisoria facilitando l’aggregazione dei fatti e
il loro esame, ma non dimenticavano affatto che tali supposizioni
dovevano essere confermate dalla compatibilità con una moltitudine
di altri fatti e che andavano spiegate anche per via deduttiva.
Queste non potevano diventare «leggi» (cioè generalizzazioni
provate) se non dopo essere stata sottoposte a tale verifica e
solo dopo che le cause dei 64rapporti costanti da loro espressi
fossero state spiegate.
Quando il centro del movimento filosofico del XVIII secolo passò
dalla Scozia e dall’Inghilterra alla Francia, i filosofi francesi,
con la propensione per la sistematicità che è loro propria, si
misero a ricostruire su un piano generale e secondo gli stessi
princìpi, tutte le conoscenze umane, naturali e storiche. Quello
che tentarono fu di fondare il sapere generale – la filosofia
dell’universo e della sua vita – con un metodo strettamente
scientifico, respingendo quindi tutte le costruzioni metafisiche
dei filosofi precedenti e spiegando tutti i fenomeni con l’azione
di quelle forze fisiche (vale a dire meccaniche) che avevano
ritenuto sufficienti a spiegare l’origine e l’evoluzione del globo
terrestre. […]
Risulta così evidente che i pensatori del XVIII secolo non
cambiavano di metodo quando nei loro studi passavano dal mondo
delle stelle a quello delle reazioni chimiche, o dal mondo fisico
e chimico a quello della vita delle piante e degli animali, o a
quello delle dinamiche economiche e politiche della società, o
delle forme evolutive delle religioni, e così via. Il metodo era
sempre lo stesso. A tutte le branche della scienza essi
applicavano sempre il metodo induttivo. E poiché non trovarono
mai, tanto nello studio delle religioni quanto nell’analisi del
senso morale e del pensiero in generale, anche un solo punto in
cui tale metodo si rivelasse insufficiente e un altro se ne
imponesse; poiché non si videro mai costretti a ricorrere né a
concezioni metafisiche (dio, anima immortale, forza vitale,
imperativo categorico ispirato da un essere superiore, ecc.), né a
qualsivoglia metodo dialettico, essi cercarono di spiegare tutto
l’universo e i suoi fenomeni con il sistema NATURALISTA. [...]
Quale posto occupa dunque l’anarchia nel grande movimento
intellettuale del XIX secolo? La risposta a questa domanda è
venuta delineandosi in base a quanto abbiamo già detto
precedentemente. L’anarchia è una concezione dell’universo basata
su un’interpretazione meccanica dei fenomeni (meglio sarebbe dire
cinetica, ma è parola meno conosciuta) che abbraccia tutta la
natura, ivi compresa la vita delle società. Il suo metodo è quello
delle scienze naturali, e in base a questo metodo ogni conclusione
scientifica dev’essere verificata. La sua tendenza è di fondare
una filosofia di sintesi, che includa tutti i fatti della natura,
compresa la vita delle società umane e i loro problemi economici,
politici e morali; senza però cadere negli errori nei quali
incorsero, per le ragioni già indicate, Comte e Spencer.
È dunque evidente che per ciò stesso l’anarchia, di fronte a
tutte le questioni poste dalla vita moderna, deve necessariamente
dare risposte diverse e assumere atteggiamenti diversi da quelli
di tutti gli altri partiti politici, non eccettuato in buona
misura il Partito socialista, che non si è ancora sbarazzato delle
vecchie finzioni metafisiche.
Indubbiamente, l’elaborazione di una concezione meccanica
complessiva della natura e delle società umane non è che ai suoi
esordi per quanto riguarda gli aspetti sociologici, che trattano
appunto della vita e dell’evoluzione delle società. Tuttavia, il
poco che si è fatto finora presenta già – talvolta addirittura in
modo inconscio – il carattere che abbiamo indicato. Nella
filosofia del diritto, nella teoria della morale, nell’economia
politica e nello studio della storia dei popoli e delle
istituzioni, gli anarchici hanno già dimostrato di non
accontentarsi di soluzioni metafisiche, ma di voler dare alle loro
conclusioni un fondamento naturalista. Essi non si lasciano
suggestionare dalla metafisica di Hegel, di Schelling e di Kant,
dai commentatori del diritto romano e del diritto canonico, dai
dotti professori di diritto dello Stato o dall’economia politica
dei metafisici; piuttosto, cercano di rendersi esattamente conto
dei vari problemi emersi in questi campi, rifacendosi agli studi
con la prospettiva naturalista compiuti negli ultimi
quaranta-cinquanta anni.
Proprio come la filosofia materialista (meccanica, o meglio
cinetica) ha abbandonato le concezioni metafisiche del tipo
«Spirito universale», «Forza creatrice della natura», «Attrazione
simpatica della materia», «Incarnazione dell’Idea», «Finalità
della Natura e sua Ragion d’essere», «Inconoscibile», «Umanità»
intesa nel senso di entità animata dal «Soffio dello Spirito»,
ecc., mentre gli embrioni delle generalizzazioni occultate dietro
queste parole sono stati tradotti nel linguaggio concreto dei
fatti, così noi ci sforziamo di fare altrettanto quando ci
mettiamo ad esaminare i fatti della vita in società.
Quando i metafisici vogliono persuadere il naturalista che la
vita intellettuale e passionale dell’uomo si svolge secondo «le
leggi immanenti dello Spirito», il naturalista scrolla le spalle e
continua la sua indagine paziente dei fenomeni della vita,
dell’intelligenza, delle passioni, al fine di dimostrare che tutti
questi possono essere ridotti a fenomeni fisici e chimici. Egli
cerca di scoprire le loro leggi naturali.
Parimenti, quando si viene a dire ad un anarchico che secondo
Hegel «ogni evoluzione rappresenta una tesi, un’antitesi e una
sintesi», oppure che «il diritto ha per fine l’instaurazione della
giustizia, che rappresenta la sustanziazione materiale dell’Idea
suprema», o ancora quando gli si chiede qual è secondo lui «lo
scopo della vita», anche l’anarchico scrolla le spalle e si
domanda: «Come mai, nonostante lo sviluppo attuale delle scienze
naturali, si possono trovare ancora uomini tanto arretrati da
credere a simili baggianate? Uomini tanto retrogradi che parlano
ancora la lingua del selvaggio primitivo, il quale
‘antropomorfizzava’ la natura, credendola governata da esseri
fatti a somiglianza dell’uomo?».
Gli anarchici non subiscono il fascino delle «parole altisonanti»
poiché sanno che queste parole servono sempre a coprire
l’ignoranza – cioè l’investigazione incompiuta – o, il che è
peggio, la superstizione. Ecco perché, quando si parla loro questo
linguaggio, passano oltre, senza fermarsi, portando avanti il loro
studio delle concezioni sociali e delle istituzioni del passato e
del presente in base al metodo naturalista. E così scoprono che lo
sviluppo della vita sociale è infinitamente più complesso (e ben
più interessante dal punto di vista pratico) di quanto si potrebbe
supporlo attenendosi alle formulazioni precedenti.
Recentemente, si è molto sentito parlare del metodo dialettico,
che i socialdemocratici raccomandano per elaborare l’ideale
socialista. Noi non accettiamo affatto questo metodo, che del
resto non è riconosciuto da nessuna scienza naturale. Al
naturalista moderno questo «metodo dialettico» ricorda qualcosa di
molto vecchio, di già vissuto e che fortunatamente la scienza ha
dimenticato da un pezzo. Non una delle grandi scoperte del XIX
secolo – in meccanica, astronomia, fisica, chimica, biologia,
psicologia o antropologia – si deve al metodo dialettico. Tutte
invece sono frutto del metodo induttivodeduttivo, il solo
veramente scientifico. E poiché l’uomo è parte della natura,
poiché la sua vita personale e sociale è anch’essa un fenomeno
della natura – alla stessa stregua della crescita di un fiore o
dell’evoluzione della vita sociale di formiche e api – non vi è
alcuna ragione perché, passando dal fiore all’uomo, da un gruppo
di castori a una città umana, noi si debba abbandonare il metodo
che ci ha servito così bene fino a questo momento per cercarne un
altro nell’arsenale della metafisica.
Il metodo induttivo-deduttivo che adoperiamo nelle scienze
naturali si è rivelato talmente efficace che, nel corso del XIX
secolo, la scienza ha fatto in cento anni più progressi che nei
due millenni precedenti. E da quando si è cominciato (nella
seconda metà di quel secolo) ad applicare questo metodo anche allo
studio delle società umana, non ci si è mai minimamente trovati
nella necessità di doverlo rigettare per far ritorno alla
scolastica medievale resuscitata da Hegel. [...]
Aggiungiamo ancora una parola. L’indagine scientifica non è
fruttuosa se non a condizione di avere un obiettivo determinato,
d’essere, cioè, intrapresa con l’intenzione di trovare una
risposta a una questione chiara e ben definita. Qualsiasi ricerca
sarà tanto più fruttuosa quanto meglio verranno identificate le
relazioni esistenti fra la questione posta e le linee fondamentali
della nostra concezione generale dell’universo. Quanto più una
data questione rientra in questa concezione generale, tanto più
facile ne sarà la soluzione.
Orbene, la questione che l’anarchia si propone di risolvere
potrebbe esprimersi come segue: «Quali sono le forme sociali che
in una data società, e per estensione a tutta l’umanità, possono
meglio garantire il massimo di benessere e, di conseguenza, il
massimo di vitalità? Quali forme sociali favoriscono meglio
l’accrescimento di questo benessere, il suo sviluppo quantitativo
e qualitativo consentendogli così di divenire quanto più completo
e generale possibile (cosa che, sia detto fra parentesi, ci dà
anche la formula del progresso)?». Il desiderio di aiutare in
questo senso l’evoluzione determina le caratteristiche proprie
all’anarchico nella sua attività sociale, scientifica, artistica,
ecc. […]
Gli anarchici, guidati da diverse considerazioni d’ordine
storico, politico ed economico, come pure dagli insegnamenti della
vita moderna, giungono, come si è detto, a una concezione della
società ben differente da quella cui si rifanno i vari partiti
politici, che mirano tutti ad arrivare al potere.
Noi ci rappresentiamo una società in cui le relazioni tra i suoi
membri non sono più regolate dalle leggi, eredità d’un passato
d’oppressione e barbarie, o da qualsivoglia autorità, eletta o al
potere per diritto ereditario, ma da impegni reciproci liberamente
presi e sempre revocabili, come pure da usi e costumi liberamente
concordati. Questi costumi, però, non devono essere pietrificati e
cristallizzati dalla legge o dalla superstizione, ma è bene che
abbiano uno sviluppo continuo, adattandosi ai nuovi bisogni, ai
progressi del sapere e delle invenzioni, e al crescere d’un ideale
sociale sempre più 69razionale ed elevato.
Quindi, nessuna autorità che imponga agli altri la propria
volontà. Nessun governo dell’uomo sull’uomo. Nessuna immobilità
nella vita, ma un’evoluzione continua, alcune volte più rapida,
altre volte più lenta, proprio come nella vita della natura. Piena
libertà d’azione all’individuo per lo sviluppo di tutte le sue
capacità naturali, della sua individualità, di ciò che può avere
d’originale, di personale. In altre parole, nessuna azione imposta
all’individuo sotto minaccia d’una punizione sociale, qualunque
essa sia, o d’una pena soprannaturale, mistica: la società non
chiede nulla all’individuo che questi non abbia liberamente
consentito di fare nel momento stesso in cui lo fa. E inoltre,
uguaglianza completa di diritti per tutti.
Noi siamo dunque a favore di una società di uguali, senza alcuna
coercizione di sorta, e malgrado quest’assenza di coercizione non
temiamo affatto che gli atti antisociali di alcuni individui
possano assumere in una società di uguali proporzioni pericolose.
Una società di uomini liberi saprà salvaguardarsi meglio delle
nostre società attuali, che demandano la difesa della moralità
sociale alla polizia, alle spie, alle prigioni (università del
crimine), agli aguzzini, ai carnefici e ai loro complici.
Soprattutto, essa saprà prevenire tali atti.
È evidente che, sino ad oggi, non è mai esistita una società che
abbia praticato questi princìpi. Ma in ogni tempo l’umanità ha
manifestato una tendenza ad una loro realizzazione. Ogni volta che
certi settori della società riuscivano, per un certo periodo, a
rovesciare le autorità che li opprimevano, o a cancellare le
ineguaglianze esistenti (schiavitù, servaggio, autocrazia, governo
di certe caste o classi); ogni volta che una nuova luce di libertà
e d’uguaglianza si sprigionava nella società, il popolo, gli
oppressi, cercavano di mettere in pratica, anche solo
parzialmente, i princìpi appena enunciati.
Possiamo dire, quindi, che l’anarchia è uno specifico ideale di
società che differisce in modo essenziale da quanto è stato
preconizzato sino ad oggi dalla maggior parte dei filosofi, degli
intellettuali e degli uomini politici, che hanno tutti avuto la
pretesa di governare gli uomini e di dar loro delle leggi. Non è
mai stata l’ideale dei privilegiati, ma è spesso stata l’ideale
più o meno cosciente delle masse.
Nondimeno, sarebbe falso affermare che questa concezione della
società sia un’utopia dato che nel linguaggio ordinario si
attribuisce a questa parola l’idea di qualche cosa che non si può
realizzare. [...]
Nel nostro caso è ancora più errato parlare d’utopia in quanto le
tendenze da noi identificate hanno già avuto una parte assai
importante nella storia della civiltà, poiché sono esse che hanno
dato origine al diritto consuetudinario, diritto che ha dominato
in Europa dal V al XVI secolo. Ora queste tendenze si vanno
nuovamente affermando in quelle società che per più di tre secoli
hanno sperimentato lo Stato. È su questa osservazione, la cui
importanza non sfuggirà allo storico della civiltà, che ci basiamo
per considerare l’anarchia come un ideale possibile, realizzabile.
[...]
«Utopisti» sono stati coloro che, guidati solamente dai loro
desideri, non hanno voluto tener conto delle tendenze nuove che si
facevano strada; sono stati coloro che hanno attribuito troppa
stabilità alle cose del passato, senza chiedersi se non fossero
semplicemente il risultato di certe condizioni storiche
temporanee. [...]
Se i monopoli costituiti e consolidati dallo Stato cessassero
d’esistere, lo Stato stesso non avrebbe più ragion d’essere. E una
volta che i rapporti tra gli uomini non fossero più quelli tra
sfruttati e sfruttatori, nuove forme di aggregazione sorgerebbero.
La vita si semplificherebbe se il meccanismo che permette ai
ricchi di sfruttare il lavoro dei poveri venisse disattivato.
L’idea di comunità indipendenti per aggregazioni in base al
territorio e di ampie federazioni di mestiere per aggregazioni in
base alla funzione sociale – dove le due s’intersecano e cooperano
al fine di soddisfare i bisogni della società – permette agli
anarchici di concepire in modo concreto, reale, la possibile
organizzazione di una società emancipata. Non ci resta che
aggiungere le aggregazioni in base alle affinità personali –
aggregazioni innumerevoli, che possono variare all’infinito,
essere di lunga durata o effimere, costituirsi in base alle
necessità del momento e per gli scopi più disparati – che già
abbiamo visto sorgere nella società attuale al di fuori dei
raggruppamenti politici e professionali.
Questi tre tipi di aggregazione, che s’intrecciano tra loro in
una grande rete, consentirebbero di soddisfare tutti i bisogni
sociali: il consumo, la salute, l’istruzione, la protezione
reciproca dalle aggressioni, il mutuo appoggio, la difesa del
territorio, e anche la soddisfazione dei bisogni di tipo
scientifico, artistico, letterario, ludico. Un insieme pieno di
vita e sempre pronto a rispondere con nuovi adattamenti ai nuovi
bisogni e alle nuove influenze dell’ambiente sociale e
intellettuale.
Se una società di questo tipo si sviluppasse su un territorio
abbastanza vasto e popolato da permettere una gran varietà di
inclinazioni e bisogni, sarebbe subito evidente che la coercizione
di un’autorità, qualunque essa sia, sarebbe del tutto inutile.
Inutile tanto per mantenere la vita economica della società che
per impedire la maggior parte degli atti antisociali.
In effetti, il più grave impedimento a sviluppare e mantenere
nello stato attuale il senso morale, necessario alla vita in
società, risiede innanzi tutto nell’assenza dell’uguaglianza.
Senza uguaglianza – «senza uguaglianza di fatto», come si diceva
nel 1793 – è assolutamente impossibile che il sentimento di
giustizia si generalizzi. La giustizia non può che essere
egualitaria, mentre i sentimenti egualitari in questa nostra
società stratificata in classi sono smentiti in ogni istante e in
ogni situazione. È necessario praticare l’uguaglianza perché i
sentimenti di giustizia verso tutti entrino nei costumi, nelle
consuetudini. Ed è appunto quello che accadrà in una società di
uguali.
Allora, il bisogno di un’autorità coercitiva, o piuttosto il
desiderio di ricorrere alla coercizione, non si farebbe più
sentire. Si maturerebbe la convinzione che la libertà
dell’individuo non ha bisogno di essere limitata, come lo è oggi,
dal timore di una punizione, legale o mistica, oppure
dall’ubbidienza ad individui ritenuti superiori o ad entità
metafisiche create dalla paura o dall’ignoranza; cosa che porta
nella società attuale alla servitù intellettuale, alla riduzione
dell’iniziativa personale, al decadimento del senso morale,
all’arresto del progresso.
In un contesto egualitario, l’uomo potrebbe lasciarsi guidare con
fiducia dalla propria ragione, che essendosi sviluppata in questo
stesso ambiente avrebbe necessariamente l’impronta delle abitudini
sociali che gli sono proprie. E potrebbe dunque proporsi di
conseguire il pieno sviluppo di tutte le sue facoltà, il pieno
sviluppo, cioè, della sua individualità. All’opposto di
quell’individualismo preconizzato ai nostri giorni dalla borghesia
come un mezzo «adatto alle nature superiori» per arrivare al pieno
sviluppo dell’essere umano, che altro non è se non un inganno.
Questo individualismo è anzi l’ostacolo più sicuro allo sviluppo
di individualità forti. […]
Quando un economista ci viene a dire: «In un mercato
assolutamente aperto, il valore delle merci si misura in base alla
quantità di lavoro socialmente necessaria per produrre queste
merci» (si veda Ricardo, Proudhon, Marx e tanti altri), non
accettiamo quest’asserzione come un articolo di fede solo perché è
stata enunciata da tali autorità, oppure perché appare
«massimamente socialista» affermare che il lavoro è la vera misura
dei valori mercantili. È possibile che sia vero, diciamo. Ma non
vi accorgete che, facendo questa affermazione, ammettete
implicitamente che il valore e la quantità del lavoro necessario
sono proporzionali, proprio come la velocità di un corpo che cade
è proporzionale ai secondi di durata della caduta? Viene così
affermata una certa relazione quantitativa fra queste due
grandezze. E allora, avete forse fatto delle misurazioni, delle
osservazioni quantitativamente misurate, che sole potrebbero
confermare una tale asserzione a proposito delle quantità?
Dire che in generale il valore di scambio aumenta se la quantità
di lavoro necessario è maggiore, è ammissibile. Ed è da parecchio
tempo che Adam Smith si è espresso in questo senso. Ma concludere
che, per conseguenza, le due quantità sono proporzionali, e che
una è la misura dell’altra, significa commettere un errore
grossolano. Grossolano come affermare, ad esempio, che la quantità
di pioggia che cadrà domani sarà proporzionale alla quantità di
millimetri che il barometro segnerà al di sotto della media
stabilita per il tal luogo e per la tal stagione. Chi per primo ha
notato che esiste una certa correlazione tra il basso livello del
barometro e la quantità di pioggia che cade, o chi per primo ha
constatato che una pietra caduta da una grande altezza acquista
una velocità superiore a una pietra caduta da appena un metro, ha
fatto delle scoperte scientifiche (come appunto ha fatto Adam
Smith per il valore). Ma l’uomo che venisse dopo di essi ad
affermare che la quantità di pioggia caduta si misura da quanto il
barometro è sceso al di sotto della media, oppure che lo spazio
percorso da una pietra che cade è proporzionale alla durata della
caduta e si misura secondo questa, ci direbbe delle bestialità. E
proverebbe inoltre che il metodo di ricerca scientifica gli è
assolutamente estraneo e che il suo lavoro non è scientifico, per
quanto zeppo sia di parole riprese dal gergo della scienza.
Notiamo inoltre che se a mo’ di scusa ci si nascondesse dietro la
mancanza di dati precisi per stabilire, grazie a misurazioni
esatte, il valore d’una data merce e la quantità di lavoro
necessaria per produrla, questa scusa non sarebbe affatto unica.
Conosciamo nelle scienze esatte migliaia di casi simili, di
correlazioni nelle quali 74vediamo nettamente che una data
quantità dipende da un’altra, che una s’accresce quando l’altra
pure s’accresce. Come nel caso, ad esempio, della rapidità di
sviluppo d’una pianta che dipende, fra l’altro, dalla quantità di
calore e di luce che la pianta riceve, o come in quello del
rinculo d’un cannone che aumenta quando aumenta la quantità di
polvere bruciata nella carica.
Tuttavia, quale scienziato degno di questo nome avrà la ridicola
pretesa di affermare – prima d’aver misurato in quantità i loro
rapporti – che, di conseguenza, la rapidità di crescita d’una
pianta e la quantità di luce ricevuta, oppure il rinculo del
cannone e la carica di polvere bruciata, sono quantità
proporzionali; che l’una aumenta due, tre, dieci volte se l’altra
aumenta nella stessa proporzione, cioè se, in altre parole, si
commisurano, come viene affermato per il valore e il lavoro da
Ricardo in poi?
E ancora, chi mai, dopo aver fatto l’ipotesi, la supposizione,
che un rapporto di tal genere esista fra le due dette quantità,
oserebbe presentare questa ipotesi come una legge? Non ci sono che
economisti o giuristi – uomini che non hanno alcuna idea di ciò
che viene concepito come «legge» nelle scienze naturali – a fare
simili affermazioni.
Generalmente, il rapporto fra due quantità è estremamente
complesso, come è appunto nel caso del valore e del lavoro; nello
specifico, il valore di scambio e la quantità di lavoro non sono
mai proporzionali l’uno all’altra, l’uno non misura mai l’altra. È
ciò che aveva già fatto notare Adam Smith. Dopo aver detto che il
valore di scambio di ogni oggetto si misura con la quantità di
lavoro necessaria per produrre questo oggetto, si è visto
costretto ad aggiungere (in seguito ad uno studio dei valori
mercantili) che se ciò avveniva nel regime di scambio primitivo,
non era più così nel regime capitalista. Cosa perfettamente vera.
Il regime capitalista del lavoro obbligato e dello scambio
finalizzato al profitto distrugge questi semplici rapporti e
introduce parecchi nuovi fattori che alterano i rapporti tra
lavoro e valore di scambio. Ignorarli vuol dire smettere di fare
economia politica. Vuol dire imbrogliare le idee e impedire lo
sviluppo della scienza economica.
L’osservazione appena fatta per il valore s’applica a quasi tutte
le affermazioni economiche che oggi circolano come verità
stabilite (specialmente tra i socialisti che amano definirsi
scientifici) e che vengono presentate, con impagabile ingenuità,
come leggi naturali. Non solamente la maggior parte di queste
pretese leggi sono del tutto erronee, ma siamo pure convinti che
coloro che ci credono se ne accorgerebbero subito da sé se solo
arrivassero a comprendere la necessità di verificare le loro
affermazioni quantitative con delle ricerche altrettanto
quantitative.
Del resto, tutta l’economia politica si presenta a noi anarchici
sotto un aspetto differente da quello attribuitole dagli
economisti, siano essi borghesi o socialdemocratici. Essendo il
metodo scientifico induttivo assolutamente estraneo a entrambi,
non si rendono affatto conto di cosa sia una «legge naturale»,
malgrado la predilezione che hanno per questa espressione. Essi
non s’accorgono che ogni legge di natura ha un carattere
condizionale, che si esprime sempre così: «Se nella natura si
presentano queste condizioni, il risultato sarà questo o
quest’altro… Se una linea retta interseca un’altra linea retta, in
modo da formare degli angoli uguali dalle due parti del punto
d’intersezione, le conseguenze saranno le seguenti… Se i movimenti
che esistono nello spazio interplanetario agiscono in modo
esclusivo sopra due corpi, e se dunque non si incontrano altri
corpi agenti su questi due a una distanza che non sia infinita,
allora i centri di gravità dei due corpi si avvicinano a quella
data velocità (legge della gravitazione universale)». E così di
seguito, ma sempre con il suo se, sempre con una condizione.
Di conseguenza, tutte le pretese leggi e teorie dell’economia
politica non sono in realtà che affermazioni che rispondono a
quanto segue: «Ammettendo che si trovi sempre in un dato Paese una
quantità considerevole di persone che non possono vivere né un
mese e neppure quindici giorni senza accettare le condizioni di
lavoro che vorrà loro imporre lo Stato (sotto forma di imposte), o
che saranno loro offerte da quelli che lo Stato riconosce come
proprietari del suolo, delle officine, delle ferrovie, ecc., ecco
le conseguenze che ne risulteranno…».
Fino ad oggi, l’economia politica non è stata altro che una
enumerazione di ciò che succede in simili condizioni: senza però
enumerare e analizzare le condizioni stesse, senza esaminare come
queste condizioni agiscano in ogni caso particolare, né ciò che le
mantiene. E se anche capita che queste condizioni vengano
ricordate in un certo frangente, un momento dopo sono già
dimenticate. Ma gli economisti non si limitano solo a simili
dimenticanze, bensì rappresentano i fatti che si producono in
seguito a queste condizioni come leggi fatali e immutabili.
Quanto all’economia politica socialista, è vero che essa critica
alcune di queste conclusioni, oppure ne spiega altre in modo
diverso, ma ugualmente commette la stessa dimenticanza e, ad ogni
modo, non si è ancora tracciata un proprio cammino, rimanendo su
quello vecchio. Il massimo che ha fatto (con Marx) è stato di
riprendere le definizioni dell’economia politica metafisica e
borghese per dire: «Vedete bene che, anche accettando le vostre
definizioni, si arriva a provare che il capitalista sfrutta
l’operaio», cosa che suonerà forse bene in una polemica, ma che
non ha nulla a che vedere con la scienza.
In generale, riteniamo che la scienza dell’economia politica vada
costituita in modo diverso: deve essere trattata come una scienza
naturale e proporsi una nuova meta; deve occupare in rapporto alle
società umane un posto simile a quello che la fisiologia occupa in
rapporto alle piante e agli animali: deve diventare insomma una
fisiologia della società. Il suo scopo deve essere lo studio dei
bisogni sempre crescenti della società e dei diversi mezzi
impiegati per soddisfarli; deve analizzare questi mezzi per vedere
fino a che punto sono stati una volta e sono oggi appropriati allo
scopo; e in ultimo – poiché lo scopo finale di ogni scienza è la
previsione e l’applicazione alla vita pratica (ed è un bel pezzo
che Bacone l’ha affermato) – essa dovrà studiare i mezzi per
meglio soddisfare la somma dei bisogni moderni e ottenere con la
minore spesa d’energia (con economia) i migliori risultati per
l’umanità in generale.
Si capisce, così, perché noi si arrivi a conclusioni tanto
differenti, sotto molti aspetti, da quelle cui giunge la maggior
parte degli economisti borghesi o socialdemocratici; perché non
riconosciamo il titolo di «leggi» a certe correlazioni da loro
indicate; perché la nostra «esposizione» del socialismo differisce
dalla loro; perché deduciamo, dallo studio delle tendenze e delle
direzioni di sviluppo attualmente osservabili nella vita
economica, conclusioni del tutto differenti dalle loro per quanto
concerne il desiderabile e il possibile; o in altri termini,
perché noi arriviamo al comunismo libertario, mentre essi giungono
al capitalismo di Stato e al salariato collettivista.
Siamo forse noi nel torto ed essi nel vero? Può darsi. Ma per
verificare chi di noi ha torto o ragione non serve fare dei
commentari bizantini su ciò che questo o quello scrittore ha detto
o voluto dire, né parlarci della trilogia di Hegel, né soprattutto
continuare a far uso del metodo dialettico.
Per verificarlo non si può che mettersi a studiare i rapporti
economici allo stesso modo in cui si studiano i fatti delle
scienze naturali.
L’opera più importante di Kropotkin, Il mutuo appoggio, è
stata pubblicata per la prima volta a Londra nel 1902 e
costituisce l’approdo di una lunga ricerca iniziata una
quindicina d’anni prima. La ricerca kropotkiniana vuole
dimostrare l’inconsistenza scientifica di quella linea culturale
del bellum omnium contra omnes che va da Hobbes a Huxley,
secondo cui la legge della vita si compendia nella lotta tra le
specie e tra gli individui all’interno della stessa specie;
linea che porta a riconoscere l’ineluttabilità dell’affermarsi
dei più forti. La valenza politica di questa credenza
«universale», che alla fine del XIX secolo è riformulata sotto
il nome di «darwinismo sociale», si rintraccia nella
giustificazione ideologica al capitalismo più sfrenato e dunque
la sua importanza supera di gran lunga la cifra specificamente
scientifica della stessa teoria. È evidente che Kropotkin
considera centrale demistificare questa concezione
conflittualistica del mondo: qualora infatti risultasse che essa
risponde a verità, sarebbe allora impossibile pensare ad una
società anarchica che, al contrario, pone l’armonia,
l’uguaglianza e l’amore tra gli esseri umani quali premesse
indispensabili per il suo stesso costituirsi.
Situandosi all’opposto dell’assunto darwiniano, o meglio della
sua vulgata, Kropotkin nega che il conflitto 79tra gli individui
all’interno della stessa specie costituisca la condizione
generale dell’evoluzione, anche se ammette l’esistenza del
conflitto tra le specie. Kropotkin vede una correlazione
strettissima tra la pratica del mutuo appoggio e la tendenza
associativa, nel senso che queste forme sono aspetti di un’unica
realtà: quella della vita in generale. La vita animale è di per
se stessa eminentemente sociale. L’associazione è la regola, la
legge della natura, perché si riscontra in tutti i gradi
dell’evoluzione.
Il «mutuo appoggio», come potente forza evolutiva, opera
oltretutto anche a livello interspecifico come «simbiosi» (e,
come simbiosi, è stata recentemente ipotizzata addirittura la
formazione di organuli intracellulari, come i mitocondri!).
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana del 1925 de Il mutuo appoggio, nella traduzione
(rivista) di Camillo Berneri.
Il concetto di lotta per l’esistenza come fattore
dell’evoluzione, introdotto nella scienza da Darwin e da Wallace,
ci ha messi in grado di includere un vasto insieme di fenomeni in
un’unica generalizzazione, che è ben presto divenuta la base
stessa delle nostre speculazioni filosofiche, biologiche e
sociologiche. Un’immensa varietà di fatti – adattamento della
funzione e della struttura degli organismi viventi al proprio
ambiente; evoluzione fisiologica e anatomica; progresso
intellettivo e sviluppo morale – che venivano spiegati un tempo
con tante cause diverse, sono stati riuniti da Darwin in un’unica
concezione generale. Egli vi ha identificato uno sforzo continuo,
una lotta contro le circostanze avverse, per lo sviluppo degli
individui, delle razze, delle specie e delle società, teso al
massimo della pienezza, 81della varietà e dell’intensità di vita.
Può anche darsi che, da principio, lo stesso Darwin non si sia
reso perfettamente conto dell’importanza ben più generale del
fattore da lui primariamente individuato solo per spiegare una
serie di fatti relativi all’accumularsi di variazioni individuali
nelle specie nascenti. Ma egli stesso aveva previsto che il
termine che stava introducendo nella scienza avrebbe perso il suo
significato filosofico, e più vero, se fosse stato impiegato
esclusivamente nel senso più ristretto: quello di una lotta fra
singoli individui per i puri mezzi di sopravvivenza. Già nei primi
capitoli della sua memorabile opera insisteva perché il termine
fosse preso nel suo «senso largo e metaforico, che comprende
l’interdipendenza degli esseri viventi e che comprende inoltre
(cosa ancor più importante) non soltanto la vita dell’individuo ma
anche il successo della sua discendenza» (L’origine delle
specie, cap. III). [...]
La teoria di Darwin ha avuto la sorte di tutte le teorie che
trattano dei rapporti umani. Invece di svilupparla secondo gli
indirizzi che le erano propri, i suoi continuatori l’hanno sempre
più ridotta. E mentre Herbert Spencer, partendo da osservazioni
indipendenti ma analoghe, ha tentato di allargare la discussione
ponendo il grande quesito su chi sono i più adatti (in modo
particolare nell’appendice alla terza edizione di Princìpi di
etica), gli innumerevoli seguaci di Darwin hanno ridotto la
nozione di lotta per l’esistenza al suo più angusto significato.
Essi sono arrivati a concepire il mondo animale come un mondo di
lotta perpetua fra individui affamati, assetati di sangue, facendo
risuonare la letteratura contemporanea del grido di guerra «Guai
ai vinti», come se fosse questa l’ultima parola della moderna
biologia. E per interessi personali hanno elevato questa lotta
«spietata» all’altezza di principio biologico, al quale anche
l’uomo deve sottomettersi, sotto pena di soccombere in un mondo
fondato sul reciproco sterminio. Lasciando da parte gli
economisti, che di scienze naturali non sanno che qualche parola
presa a prestito dai divulgatori di seconda mano, bisogna rico-
82noscere che anche i più autorevoli interpreti di Darwin hanno
fatto del loro meglio per consolidare queste false idee. [...]
[Viceversa] quando studiamo gli animali, non soltanto nei
laboratori e nei musei ma anche nelle foreste e nelle praterie,
nelle steppe e sulle montagne, ci accorgiamo subito che, benché in
natura siano fortemente presenti la guerra e lo sterminio fra
specie diverse, e soprattutto fra differenti classi di animali, vi
si ritrova al contempo altrettanto se non più mutuo appoggio,
mutua assistenza e mutua difesa tra gli animali appartenenti alla
stessa specie, o almeno allo stesso gruppo sociale. La socialità è
una legge della natura tanto quanto la lotta reciproca. È senza
dubbio molto difficile valutare, anche approssimativamente,
l’importanza percentuale di queste due serie di fatti. Ma se
ricorriamo a una testimonianza indiretta e domandiamo alla natura:
«Quali sono i più adatti: coloro che sono continuamente in lotta
tra loro, o coloro che si aiutano l’un l’altro?», vediamo che i
più adatti sono, senza dubbio, gli animali che hanno acquisito
abitudini di solidarietà. Essi hanno maggiori probabilità di
sopravvivere e raggiungono, nelle loro rispettive classi, il più
alto sviluppo delle capacità intellettive e fisiche. Se gli
innumerevoli fatti che possono esser citati a sostegno di questa
tesi vengono presi in considerazione, possiamo affermare con
certezza che il mutuo appoggio è una legge della vita animale
tanto quanto la lotta reciproca, ma che, come fattore
dell’evoluzione, il primo ha probabilmente un’importanza
decisamente maggiore in quanto favorisce lo sviluppo delle
abitudini e dei caratteri più adatti ad assicurare la
preservazione e lo sviluppo della specie, oltre a procurare con
una minor perdita di energia una maggior quantità di benessere e
di felicità per ciascun individuo. […]
Quando si comincia a studiare la lotta per l’esistenza sotto i
suoi due aspetti, quello proprio e quello metaforico, ciò che
colpisce subito è l’abbondanza di dati sul mutuo appoggio, e non
soltanto per quanto riguarda l’allevamento della prole, come
riconosce la maggior parte degli evoluzionisti, ma anche la
sicurezza dell’individuo e il procacciamento del cibo necessario.
In molte categorie del regno animale l’aiuto reciproco è la
regola. Si va scoprendo il mutuo appoggio anche fra gli animali
più in basso nella scala evolutiva, ed è lecito aspettarsi che,
prima o poi, i ricercatori che studiano al microscopio la vita
elementare individuino forme di mutuo appoggio incosciente anche
fra i microrganismi. Vero è che la nostra conoscenza degli
invertebrati, a eccezione delle termiti, delle formiche e delle
api, è estremamente limitata; e tuttavia, anche in ciò che
concerne gli animali inferiori possiamo raccogliere alcuni dati,
opportunamente verificati, di cooperazione. Le innumerevoli
società di cavallette, farfalle, cicindelidi, cicale, ecc., sono
in realtà pochissimo conosciute, ma il fatto stesso della loro
esistenza indica che esse devono essere organizzate più o meno
secondo gli stessi princì- pi delle società temporanee di formiche
e api finalizzate alle migrazioni. Quanto ai coleotteri, abbiamo
fenomeni di mutuo appoggio perfettamente osservabili fra i
necrofori. Questi hanno bisogno di materia organica in
decomposizione per deporvi le uova e per assicurare il nutrimento
delle larve. Ma questa materia organica non deve decomporsi troppo
rapidamente, così hanno l’abitudine di sotterrare nel suolo i
cadaveri di piccoli animali di ogni specie che incontrano sul
proprio cammino. Di norma vivono isolati, ma quando uno di loro
scopre il cadavere di un topo o di un uccello che gli riuscirebbe
difficile seppellire da solo, chiama quattro, sei o persino dieci
altri necrofori per portare a termine l’operazione riunendo gli
sforzi; se necessario, trasportano il cadavere in un terreno
morbido e ve lo seppelliscono, dando prova di molto buon senso e
senza poi entrare in conflitto per scegliere colui che avrà il
privi- 84legio di deporre le uova nel corpo sepolto. [...]
Anche da questa breve rassegna possiamo vedere come la vita in
società non costituisca l’eccezione nel mondo animale: essa è
piuttosto la regola, la legge della natura che raggiunge il suo
completo sviluppo nei vertebrati superiori. Le specie che vivono
isolate o in piccole famiglie sono relativamente poche e il numero
dei loro membri limitato. Sembra anzi molto probabile che, tranne
qualche eccezione, gli uccelli ed i mammiferi che attualmente non
sono gregari, vivessero in società prima che l’uomo invadesse il
globo, intraprendendo una guerra permanente contro di essi o
semplicemente distruggendo le loro fonti primarie di nutrimento.
«Non ci si associa per morire», è stata l’acuta osservazione di
Espinas; e Houzeau, che ha studiato la fauna di certe regioni
dell’America quando questo Paese non era ancora stato modificato
dall’uomo, ha scritto nel medesimo senso.
La socialità si riscontra nel mondo animale in tutti i gradi
dell’evoluzione, e secondo la grande idea di Herbert Spencer,
brillantemente sviluppata in Colonie animali di Périer, nel regno
animale essa è all’origine stessa dell’evoluzione. Ma via via che
si sale nella scala evolutiva, possiamo notare come la socialità
divenga sempre più cosciente: essa perde il suo carattere
puramente fisico, cessa di essere semplicemente istintiva, e
diventa razionale. Nei vertebrati superiori è periodica, ovvero
gli animali vi ricorrono per la soddisfazione di un bisogno
particolare: la continuazione della specie, le migrazioni, la
caccia o la reciproca difesa. Si produce anche accidentalmente, ad
esempio quando alcuni uccelli s’associano contro un predatore o
quando alcuni mammiferi, sotto la pressione di circostanze
eccezionali, si aggregano per migrare. In quest’ultimo caso è una
vera e propria deroga volontaria ai costumi abituali.
L’aggregazione appare qualche volta a due o più gradi: la famiglia
dapprima, poi il gruppo, ed infine l’associa- 85zione di gruppi
abitualmente sparpagliati, ma che si riuniscono in caso di
necessità, come abbiamo visto presso i bisonti e presso altri
ruminanti. Questa associazione può prendere anche forme più
sofisticate, assicurando maggiore indipendenza all’individuo senza
privarlo dei vantaggi della vita sociale. Presso quasi tutti i
roditori, l’individuo ha una sua tana particolare nella quale può
ritirarsi quando preferisce restare solo, ma queste tane sono
disposte in villaggi e in città così da assicurare a tutti gli
animali che vi abitano i vantaggi e le gioie della vita sociale.
Infine, presso varie specie come i topi, le marmotte, le lepri,
ecc., la vita sociale è mantenuta nonostante il carattere
litigioso e alcune tendenze egoistiche del singolo individuo.
Tuttavia, questa associazione non è imposta, come nel caso delle
formiche e delle api, dalla struttura fisiologica degli individui,
ma è coltivata per i benefici che derivano dal mutuo appoggio o
per i piaceri che essa procura. Questo, naturalmente, si realizza
in tutti i gradi possibili e con la maggiore varietà di caratteri
individuali e specifici, e la varietà stessa degli aspetti che
assume la vita in società è una conseguenza, e per noi una prova
in più, della sua generalità.
Solo recentemente la socialità, vale a dire il bisogno
dell’animale di associarsi con i suoi simili, l’amore della
società per la sua stessa salvaguardia, combinato alla «gioia di
vivere», hanno cominciato a ricevere dagli zoologi l’attenzione
che meritano. […]
Gli esempi citati ci hanno mostrato come la vita in società sia
l’arma più potente nella lotta per l’esistenza presa nel senso più
ampio del termine, e sarebbe agevole portare ulteriori prove,
ammesso che fosse necessario. La vita in comune rende gli insetti,
gli uccelli e i mammiferi più deboli capaci di lottare e di
proteggersi contro i più temibili carnivori o contro i rapaci;
essa favorisce la longevità; rende le specie in grado di allevare
la loro prole con un minimo dispendio di energia, e di mantenere
altresì un numero sufficiente di membri anche se la loro natalità
è ridottissima; consente agli animali gregari di migrare in cerca
di nuovi habitat. Dunque, pur ammettendo pienamente che la forza,
la rapidità, la colorazione mimetica, l’astuzia, la resistenza
alla fame e alla sete, ricordati da Darwin e Wallace, siano
qualità che rendono l’individuo o la specie più adatti in certe
circostanze, affermiamo che, in ogni circostanza, la socialità
rappresenta un grande vantaggio nella lotta per l’esistenza. Le
specie che, volontariamente o no, abbandonano quest’istinto
associativo, sono condannate a regredire. Viceversa, gli animali
che meglio sanno mettersi insieme hanno le maggiori probabilità di
sopravvivenza e di ulteriore evoluzione, e questo anche se sono
inferiori ad altri animali in ciascuna delle facoltà enumerate da
Darwin e Wallace, con l’eccezione di quella intellettiva. I
vertebrati superiori, e gli uomini in particolare, sono la prova
migliore di quest’asserzione. Quanto alla facoltà intellettiva, se
tutti i darwinisti sono d’accordo con Darwin nel pensare che è
l’arma più possente nella lotta per la vita e il fattore più
potente di ulteriore evoluzione, non potranno non ammettere
altresì che l’intelligenza è una qualità eminentemente sociale. Il
linguaggio, l’imitazione e le esperienze accumulate sono
altrettanti elementi di progresso intellettuale che mancano
all’animale non sociale. Così, troviamo in cima alle differenti
classi di animali le formiche, i pappagalli e le scimmie, che
uniscono tutte un alto grado di socialità con un alto grado di
sviluppo intellettivo. I più adatti alla vita sono dunque gli
animali più socievoli, e la socialità appare come uno dei
principali fattori dell’evoluzione, sia direttamente, assicurando
il benessere della specie e diminuendo nel contempo l’inutile
dispendio di energia, sia indirettamente, favorendone lo sviluppo
intellettivo.
È inoltre evidente che la vita in società sarebbe assolutamente
impossibile senza un corrispondente incremento dei sentimenti
sociali, e particolarmente di un certo senso di giustizia
collettiva che tende a divenire consuetudinario. Se ciascun
individuo commettesse costantemente abusi a suo personale
vantaggio, senza che gli altri intervenissero in favore di chi ne
viene leso, nessuna vita sociale sarebbe possibile. Sentimenti di
giustizia si sviluppano quindi, più o meno, presso tutti gli
animali che vivono in gruppi. [...]
Se la visione sviluppata nelle pagine precedenti è valida, il
quesito che necessariamente ne deriva è fino a che punto questi
fatti sono congruenti con la teoria della lotta per l’esistenza
così come l’hanno esposta Darwin, Wallace e i loro discepoli.
Cercherò ora di dare brevemente una risposta a questo quesito.
Innanzi tutto nessun naturalista può dubitare che l’idea di una
lotta per l’esistenza estesa a tutta la natura organica non sia la
più importante generalizzazione dell’ultimo secolo. La vita è
lotta, e in questa lotta il più adatto sopravvive. Ma davanti a
domande come: «Quali sono le armi più adatte a sostenere questa
lotta?», le risposte differiscono grandemente a seconda
dell’importanza data ai due diversi aspetti di questa lotta, di
cui uno è proprio, la lotta per il nutrimento e la sicurezza dei
singoli individui, mentre l’altro è la lotta che Darwin descriveva
come «metaforica», lotta molto spesso collettiva contro le
circostanze avverse. Nessuno può negare che ci sia, in seno a
ciascuna specie, una certa competizione effettiva per il
nutrimento, quantomeno in certi periodi. Ma la questione è sapere
se la lotta ha le proporzioni sostenute da Darwin o anche da
Wallace, e se questa lotta ha esercitato nell’evoluzione del regno
animale il compito che le si attribuisce.
L’idea che permea l’opera di Darwin è certamente quella di una
reale competizione all’interno di ogni gruppo animale per il cibo,
la sicurezza individuale e la riproduzione. Il grande naturalista
parla spesso di regioni così piene di vita animale che non
potrebbero contenerne di più; da questa sovrappopolazione deriva
la necessità della competizione. Ma quando cerchiamo nella sua
opera prove concrete di questa lotta, dobbiamo confessare che non
le troviamo sufficientemente convincenti. Se facciamo riferimento
al paragrafo intitolato La lotta per la vita è più aspra tra gli
individui e le sottoclassi della stessa specie, non vi
riscontriamo quell’abbondanza di prove e di esempi che solitamente
troviamo negli scritti di Darwin. La lotta tra individui della
stessa specie non è confermata, in questo stesso paragrafo, da
alcun esempio: è data per scontata. E la lotta tra le specie
strettamente imparentate non è provata che da cinque esempi, di
cui uno almeno (concernente due specie di tordi) sembra ora da
porsi in dubbio. Ma quando cerchiamo maggiori particolari per
stabilire fino a che punto il declinare d’una specie sia stato
causato dall’espandersi di un’altra specie, Darwin con la sua
buona fede abituale ci dice: «Possiamo vagamente intravedere
perché la competizione debba essere più accanita tra specie simili
che quasi occupano la stessa collocazione in natura; ma
probabilmente in nessun caso riusciremo a dire con precisione
perché una specie trionfi su un’altra nella grande battaglia della
vita».
Quanto a Wallace, che cita gli stessi fatti sotto un titolo
leggermente modificato, La lotta per la vita tra gli animali e
le piante strettamente imparentati è spesso delle più aspre,
fa la seguente osservazione che dà tutt’altro aspetto ai fatti
sopra citati [i corsivi sono miei]: «In alcuni casi, si ha senza
dubbio una vera guerra tra le due specie, in cui la più forte
uccide la più debole, ma questo non è in alcun modo necessario, e
ci possono essere casi in cui la specie più debole trionferà
fisicamente per le sue capacità di riproduzione più rapida, per la
sua maggiore resistenza ai mutamenti climatici, o per la sua
superiore abilità nello sfuggire ai comuni nemici».
In questi casi ciò che viene chiamata competizione può non essere
affatto una vera competizione. Una specie soccombe non perché sia
sterminata o affamata da un’altra specie, ma perché non s’adatta
bene alle nuove condizioni, mentre l’altra ci si adatta. Di nuovo,
l’espressione «lotta per la vita» è qui impiegata in senso
metaforico, e non può averne altro. Quanto all’effettiva
competizione tra individui della stessa specie, di cui si parla in
un altro passo relativo ad una mandria in Sud America durante un
periodo di siccità, il valore dell’esempio è diminuito dal fatto
che si tratta di animali domestici. In condizioni simili, i
bisonti migrano allo scopo d’evitare la lotta. Per quanto dura sia
la lotta delle piante – cosa abbondantemente provata – non
possiamo che ripetere l’osservazione di Wallace, il quale fa
rilevare che «le piante vivono dove possono», mentre gli animali
hanno in larga misura la possibilità di scegliere il proprio
habitat. E allora ci chiediamo di nuovo: fino a che punto la
competizione esiste realmente in ogni specie animale? Su cosa
viene basata questa opinione?
Occorre fare la stessa osservazione anche a proposito
dell’argomento indiretto a favore di un’implacabile competizione e
di una lotta per la vita in seno ad ogni specie, argomento che si
basa sullo «sterminio delle varietà transitorie» così di frequente
ricordato da Darwin. Si sa che per lungo tempo Darwin si è
arrovellato sulla difficoltà che individuava nell’assenza di una
ininterrotta catena di forme intermedie tra le specie prossime, e
che ha poi identificato la soluzione di questa difficoltà nel
supposto sterminio delle forme intermedie. Tuttavia, un’attenta
lettura dei differenti capitoli nei quali Darwin e Wallace parlano
di tale soggetto, ci porta ben presto alla conclusione che non
bisogna intendere «sterminio» nel senso letterale della parola; la
stessa osservazione fatta da Darwin sull’espressione «lotta per la
vita» s’applica anche alla parola «sterminio»: non deve essere
presa in senso proprio, bensì «in senso metaforico».
Se partiamo dalla supposizione che un dato spazio è popolato da
animali al massimo della sua capacità e che, di conseguenza, si
scatena un’aspra competizione tra tutti i suoi abitanti per
assicurarsi il cibo quotidiano, allora la comparsa di una nuova
varietà vincente significherebbe in molti casi (benché non sempre)
la comparsa di individui capaci di appropriarsi di una quota
superiore alla loro porzione di mezzi di sussistenza. Il risultato
sarebbe che, affamandole, questi individui trionferebbero prima
sulla varietà primitiva che non possiede le nuove modificazioni e
poi sulle varietà intermedie che non le posseggono al medesimo
grado. È possibile che dapprima Darwin si sia rappresentato in
questo modo la comparsa di nuove varietà, o almeno l’impiego
frequente della parola «sterminio» dà questa impressione. Ma
Darwin e Wallace conoscevano troppo bene la natura per non
accorgersi che questo processo di cose non è il solo possibile, e
oltretutto non è affatto necessario.
Se le condizioni fisiche e biologiche d’una data regione,
l’estensione dell’area occupata da una specie e le abitudini dei
membri di questa specie restassero invariate, la comparsa
subitanea d’una nuova varietà in tali condizioni potrebbe
significare l’annientamento per fame e lo sterminio di tutti gli
individui non sufficientemente dotati delle nuove qualità proprie
alla nuova varietà. Ma un tale concorso di circostanze è
precisamente ciò che in natura non si vede. Ogni specie tende
continuamente a estendere il proprio territorio; le migrazioni
verso nuovi spazi sono la regola, tanto presso la lenta lumaca
quanto presso il rapido uccello; le condizioni fisiche si
trasformano incessantemente in ogni regione; e le nuove varietà
animali in un gran numero di casi, se non nella maggioranza, si
formano non grazie allo sviluppo di nuove armi capaci di strappare
il nutrimento ai propri simili – il nutrimento non è che una delle
centinaia di condizioni necessarie alla vita – ma, come lo stesso
Wallace mostra in un interessante paragrafo sulla «divergenza dei
caratteri», grazie all’adozione di nuove abitudini, allo
spostamento verso nuovi habitat e all’assunzione di nuovi
alimenti. In questi casi non ci sarà sterminio e neppure
competizione, poiché il nuovo adattamento porta ad attenuare la
competizione, ammesso che effettivamente ci fosse. Tuttavia ci
sarà, dopo un certo periodo, assenza di forme 91intermedie,
semplicemente per effetto della sopravvivenza dei meglio dotati
rispetto alle nuove condizioni; e ciò sempre nell’ipotesi dello
sterminio delle forme primitive. È appena necessario aggiungere
che se ammettiamo con Spencer, con tutti i lamarckiani e con
Darwin stesso, l’influsso moderatore dell’ambiente sulle specie,
diventa ancor meno necessario ammettere lo sterminio delle forme
intermedie. […]
Fortunatamente la competizione non è la regola né nel mondo
animale né nel genere umano. Negli animali è ristretta a periodi
eccezionali, mentre la selezione naturale trova occasioni
decisamente migliori per operare. Condizioni migliori sono appunto
create dalla eliminazione della competizione per mezzo del
reciproco aiuto e del mutuo appoggio. Nella grande lotta per la
vita – per una vita di massima pienezza e intensità a fronte di un
minimo dispendio di energia – la selezione naturale cerca sempre i
mezzi per evitare la competizione per quanto è possibile. [...]
È questa la tendenza della natura, sempre presente pur se non sempre pienamente realizzata. È questa la parola d’ordine che ci viene dal cespuglio e dalla foresta, dal fiume e dall’oceano: «Unitevi! Praticate il mutuo appoggio! Esso è il mezzo più sicuro per dare a tutti e a ciascuno il massimo di sicurezza, è la migliore garanzia di esistenza e di progresso fisico, intellettuale e morale». Ecco ciò che la natura ci insegna, e che quegli animali che hanno raggiunto la più elevata posizione nelle loro rispettive classi mettono in pratica. Ma è pure ciò che l’uomo, anche l’uomo più primitivo, ha fatto; ed è proprio per questo che l’uomo ha potuto raggiungere la posizione che occupa attualmente, come vedremo nel capitolo seguente, consacrato al mutuo appoggio nelle società umane.
Lo stesso paradigma interpretativo che regge l’idea dell’aiuto
intraspecifico costituisce anche la base teorica del concetto di
solidarietà, le cui linee di fondo sono ricavate, non a caso,
dal Mutuo appoggio, con la differenza però che qui l’attenzione
è rivolta al mondo storico-umano. La filosofia kropotkiniana
della storia è debitrice dell’evoluzionismo in quanto afferma
l’esperienza comune dell’umanità, nel senso che le necessità
della vita sono sostanzialmente le stesse, così che nel corso
del tempo gli uomini finiscono per percorrere canali pressoché
uniformi.
Secondo Kropotkin la storia dell’uomo non ha fondazione
autonoma, non è creatrice di proprie forme e di proprie leggi,
perché è una variabile della più grande storia della natura;
come questa, a sua volta, non è altro che l’espressione dinamica
della vita intesa nel senso universale del termine. Le leggi di
questa si impongono alle vicende degli uomini e perciò, da
questo punto di vista, la lotta tra libertà e autorità, tra
uguaglianza e disuguaglianza si delinea quale momento di una
continua opposizione trasversale tale da determinare tutti i
possibili comportamenti storici. Ne consegue che nel pensiero
kropotkiniano non c’è un concetto di lotta sociale inteso quale
lotta di classe, appunto perché il conflitto 93non è precipuo di
una specifica situazione spazio-temporale, ma scaturisce da una
contrapposizione universale: il mutuo appoggio e la lotta sono
momenti che attraversano tutta la storia dell’uomo essendo
insiti alle leggi della vita; anzi, sono la vita stessa intesa
sul piano storico-umano.
Per mettere in luce la pratica della solidarietà, egli sceglie
l’età medievale e moderna perché, a suo giudizio, questo periodo
mostra con maggior chiarezza lo spirito comunitario. L’età
comunale raffigura, in generale, un modello societario fondato
sull’autonomia e sulla decentralizzazione. Testimonia un’epoca
di libertà e di creatività popolare, di autonoma iniziativa
individuale e di spontanea edificazione collettiva, premesse
fondamentali per una democrazia dal basso e per un esercizio
effettivo del potere da parte del popolo. La linfa vitale della
storia, la sua ricorrente fecondità creativa, si rinviene nelle
masse popolari anonime che con le loro migliaia di atti
quotidiani di concreta e spontanea solidarietà collettiva hanno
contribuito alla costruzione societaria, a stratificare cioè,
nel corso dei secoli, quella civiltà selezionata di pratiche, di
consuetudini e di saperi che globalmente costituiscono il work
in progress della perfettibilità umana.
La sua tesi si riallaccia comunque, senza soluzione di
continuità, con l’idea proudhoniana dell’autonomia del sociale
rispetto all’eteronomia del politico; vuole confermare
l’esistenza di una spontanea autofondazione della società quale
premessa storica decisiva per concepire la possibilità di una
sua edificazione anarchica.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana del 1925 de Il mutuo appoggio, nella traduzione
(rivista) di Camillo Berneri.
Nel precedente capitolo è stata brevemente analizzata l’immensa
parte avuta dal mutuo appoggio nell’evoluzione del mondo animale.
Occorre ora gettare uno sguardo sulla parte avuta da questo stesso
fattore nell’evoluzione del genere umano. Abbiamo visto come siano
rare le specie animali che vivono isolate e come numerose siano
quelle che vivono in società per la difesa reciproca, per la
caccia, per immagazzinare le provviste, per allevare la prole o
semplicemente per godere della vita in comune. Abbiamo anche visto
che sebbene avvengano guerre tra le diverse classi di animali e le
diverse specie, o anche tra i diversi gruppi della stessa specie,
la concordia e il mutuo appoggio sono la regola all’interno dei
gruppi e delle specie; e abbiamo anche visto che le specie che
meglio sanno unirsi ed evitare la 95competizione hanno le maggiori
probabilità di sopravvivere e di svilupparsi ulteriormente. Queste
prosperano, mentre le specie non sociali deperiscono.
Sarebbe dunque del tutto contrario a quello che sappiamo della
natura se gli uomini facessero eccezione a una regola così
generale, e cioè che una creatura disarmata, come fu l’uomo alla
sua origine, avesse trovato sicurezza e progresso non nel mutuo
soccorso, come gli altri animali, ma nella sfrenata competizione
per il vantaggio personale senza riguardo per gli interessi della
specie. Per una mente abituata all’idea di unità in natura, una
tale affermazione sembra assolutamente insostenibile. Tuttavia,
per quanto improbabile e non filosofica sia, non ha mai mancato di
partigiani. Vi sono sempre stati pensatori che hanno giudicato con
pessimismo il genere umano. Essi lo conoscono più o meno
superficialmente nei limiti della loro esperienza; sanno della
storia ciò che ne dicono gli annali, sempre attenti alle guerre,
alle crudeltà, all’oppressione, e a nient’altro. E ne concludono
che il genere umano non è altro che una fluttuante aggregazione di
individui sempre pronti a battersi l’uno contro l’altro e
trattenuti dal farlo solo grazie all’intervento di una qualche
autorità.
È stato appunto questo l’atteggiamento assunto da Hobbes. E se
alcuni dei suoi successori del XVIII secolo si sono sforzati di
provare che in nessuna epoca della sua esistenza, neppure nella
più primitiva, l’uomo ha vissuto in uno stato di guerra
permanente, ma che è stato sociale anche allo «stato di natura», e
che è stata l’ignoranza, piuttosto che le sue cattive tendenze
naturali, a spingere il genere umano agli orrori delle prime
epoche storiche, la scuola di Hobbes ha continuato ad affermare,
al contrario, che il preteso «stato di natura» altro non era se
non una guerra permanente tra individui accidentalmente riuniti
dal semplice capriccio della loro bestiale esistenza.
È senza dubbio vero che la scienza, dopo Hobbes, ha fatto
progressi e che per ragionare su questo soggetto abbiamo ora basi
più sicure di quelle a disposizione di Hobbes e di Rousseau per le
loro speculazioni. Ciononostante, la filosofia di Hobbes ha ancora
numerosi ammiratori, tanto che ultimamente tutta una scuola di
pensatori, applicando la terminologia di Darwin più che le sue
idee fondamentali, ne ha tratto degli argomenti favorevoli alle
opinioni di Hobbes sull’uomo primitivo, riuscendo persino a dar
loro parvenza scientifica. Huxley, come si sa, si è messo a capo
di questa scuola e, in un articolo scritto nel 1888, ha presentato
gli uomini primitivi come delle tigri o dei leoni, privi di
qualsiasi concezione etica, capaci di spingere la lotta per
l’esistenza fino ai più crudeli eccessi, impegnati in una vita di
«sfrenato combattimento continuo». Per citare le sue parole, «al
di fuori dei ristretti e temporanei legami familiari, la guerra
hobbesiana di tutti contro tutti era lo stato normale
dell’esistenza».
Si è fatto notare più d’una volta che l’errore principale di
Hobbes, come dei filosofi del XVIII secolo, è stato di supporre
che il genere umano sia cominciato sotto forma di piccole famiglie
isolate, un po’ simili alle famiglie «limitate e temporanee» dei
grandi carnivori, mentre ora si sa in modo certo che non è
avvenuto così. Beninteso, non abbiamo testimonianze dirette sul
modo di vivere dei primi esseri umani. Non siamo nemmeno certi
dell’epoca della loro prima comparsa, anche se attualmente i
geologi sono inclini a individuarne le prime tracce nel pliocene o
addirittura nel miocene, sedimenti dell’era terziaria. Ma abbiamo
il metodo indiretto che ci permette di gettare qualche luce su
questa remota antichità.
Un’indagine minuziosa delle istituzioni sociali dei popoli
primitivi è stata fatta durante gli ultimi quarant’anni, ed essa
ha individuato nelle istituzioni attuali tracce di istituzioni
molto più antiche, scomparse da lungo tempo, che tuttavia hanno
lasciato indiscutibili segni della loro esistenza anteriore. Tutta
una scienza consacrata alle origini delle istituzioni umane s’è
così sviluppata grazie ai lavori di Bachofen, MacLennan, Morgan,
Edwin Tylor, Maine, Post, Kovalevsky, Lubbock e parecchi altri,
stabilendo con certezza che l’umanità non ha incominciato sotto
forma di piccole famiglie isolate.
Lungi dall’essere una forma primitiva di organizzazione, la
famiglia è un prodotto molto tardivo dell’evoluzione umana. Per
quanto indietro ci si possa spingere con la paleoetnologia,
troviamo uomini che vivono in società, in gruppi simili a quelli
dei mammiferi superiori; ed è poi stata necessaria un’evoluzione
estremamente lenta e lunga per condurre questo tipo di società
all’organizzazione clanica, che è passata a sua volta attraverso
un’altra lunghissima evoluzione prima che i germi della famiglia,
poligama o monogama, potessero apparire. Dunque, sono stati i
gruppi, le bande, le tribù – e non le famiglie – le forme
primitive di organizzazione umana presso gli antenati più remoti.
Cosa cui è arrivata l’etnologia dopo laboriose ricerche, arrivando
a dimostrare semplicemente quello che uno zoologo avrebbe potuto
prevedere. Nessuno dei mammiferi superiori – eccetto qualche
carnivoro e qualche primate, come gli orangutan e i gorilla, la
cui decadenza è indubitabile – vive in piccole famiglie isolate
erranti nella foresta. Tutti vivono in società. E lo stesso
Darwin, peraltro, avendo ben capito che i primati solitari non
avrebbero mai potuto trasformarsi in esseri umani, ne ha indotto
che l’uomo discende da una specie relativamente debole, ma
sociale, quale è quella degli scimpanzé piuttosto che da una
specie più forte, ma non sociale, quale è quella dei gorilla. La
zoologia e la paleoetnologia sono così d’accordo nel ritenere che
il branco, e non la famiglia, è stata la prima forma di vita
sociale. Le prime società umane non sono state altro che uno
sviluppo ulteriore di quelle forme associative che avevano
costituito l’essenza stessa della vita presso gli animali
superiori. [...]
Non si può studiare l’uomo primitivo senza essere profondamente
colpiti dalla socialità della quale dà pro-va fin dai primi passi
della vita. Tracce di società umane sono state trovate nei reperti
dell’età paleolitica e neolitica, e quando studiamo i selvaggi
contemporanei, il cui genere di vita è ancora quello dell’uomo
neolitico, li troviamo strettamente uniti dall’antichissima
organizzazione clanica, che permette loro di mettere insieme le
capacità individuali, altrimenti deboli, di godere della vita in
comune e così di progredire. In natura, l’uomo non è un’eccezione,
ma si conforma anche lui al grande principio del mutuo appoggio,
che dà le migliori probabilità di sopravvivenza a quelli che sanno
meglio aiutarsi nella lotta per l’esistenza. Tali sono le
conclusioni alle quali siamo giunti nel precedente capitolo.
Tuttavia, quando arriviamo a un grado più alto di civiltà e ci
rivolgiamo alla storia, che ha già qualche cosa da dire su questo
periodo, siamo colpiti dalle lotte e dai conflitti che rivela. Gli
antichi legami sembrano essere interamente spezzati: si vedono
clan combattere altri clan, tribù contro tribù, individui contro
individui. Dal caos e dallo scontro di queste forze ostili, il
genere umano esce diviso in caste, asservito a despoti, separato
in Stati sempre pronti a farsi guerra. Basandosi su questa storia
del genere umano, il filosofo pessimista conclude trionfalmente
che la guerra e l’oppressione sono l’essenza stessa della natura
umana, che gli istinti di guerra e di rapina dell’uomo possono
esser contenuti entro certi limiti solo da una forte autorità che
lo costringa alla pace, concedendo a un pugno degli uomini più
nobili l’opportunità di progettare per il genere umano una vita
migliore per il futuro.
Tuttavia, da quando la vita quotidiana degli esseri umani in
periodo storico è stata sottoposta ad una più accurata analisi,
com’è avvenuto recentemente in numerosi e pazienti studi sulle
istituzioni dei tempi remoti, questa vita appare sotto un aspetto
del tutto differente. Se lasciamo da parte le idee preconcette
della maggior parte degli storici e la loro marcata predilezione
per gli aspetti drammatici della storia, ci rendiamo conto che
sono propri i documenti che studiamo ad 99esagerare la parte di
vita umana votata alle lotte trascurandone i lati pacifici. I
giorni sereni e soleggiati sono perduti di vista nelle tormente e
negli uragani. Anche nella nostra epoca i voluminosi documenti che
accumuliamo per i futuri storici con la nostra stampa, i nostri
tribunali, i nostri uffici ministeriali, ma anche con i nostri
romanzi e le nostre opere poetiche, sono gravati della stessa
parzialità. Essi trasmettono alla posterità le più minuziose
descrizioni di ogni guerra, battaglia o scaramuccia, di ogni
contestazione, di ogni atto di violenza, di ogni sorta di
sofferenza individuale, mentre riportano a malapena qualche
traccia degli innumerevoli atti di solidarietà e affetto che
ognuno di noi conosce per esperienza personale. Riportano a
malapena ciò che forma l’essenza stessa della nostra vita
quotidiana: i nostri istinti e i nostri costumi sociali. Non c’è
da stupirsi se le testimonianze del passato sono state così
inesatte. Coloro che hanno compilato gli annali, infatti, non
hanno mai mancato di raccontare le più piccole guerre o calamità
sofferte dai loro contemporanei senza prestare alcuna attenzione
alla vita delle masse; che pure hanno vissuto lavorando
pacificamente, mentre solo un piccolo numero di uomini
guerreggiavano fra di loro. I poemi epici, le iscrizioni
monumentali, i trattati di pace… quasi tutti i documenti storici
hanno il medesimo carattere: trattano della violazione della pace,
non della pace stessa. Cosicché lo storico, per quanto ben
intenzionato, fa inconsciamente un quadro inesatto dell’epoca che
si sforza di illustrare. Per trovare la proporzione reale tra i
conflitti e la consociazione, occorre ricorrere all’analisi
minuziosa di migliaia di piccoli fatti e di indicazioni
accessorie, conservate accidentalmente tra le reliquie del
passato; occorre poi interpretarle con l’aiuto dell’etnologia
comparata e, dopo aver tanto udito parlare di tutto quello che ha
diviso gli uomini, bisogna ricostruire pietra su pietra le
istituzioni che li tenevano uniti.
Ben presto occorrerà riscrivere la storia con una nuova
prospettiva, al fine di tener conto di questi due aspetti della
vita umana e di apprezzare la parte rappresentata da ciascuno dei
due nell’evoluzione. Nell’attesa, possiamo trarre profitto
dall’immenso lavoro preparatorio fatto recentemente con l’intento
di ritrovare le linee principali di quel secondo aspetto fino ad
ora così trascurato. Dai tempi storici meglio conosciuti possiamo
già trarre qualche esempio della vita delle masse, con l’intento
di rilevarvi la parte rappresentata dal mutuo appoggio; e per non
estendere troppo il lavoro, possiamo dispensarci dal risalire fino
agli Egizi o anche fino all’antichità greca e romana. L’evoluzione
del genere umano non ha infatti avuto il carattere di una
successione ininterrotta: parecchie volte si è esaurita in una
data regione, presso un certo popolo, ed è rinata altrove, tra
altri popoli. Però, ad ogni nuovo inizio ricomincia con le stesse
istituzioni claniche che abbiamo già rilevato presso i selvaggi.
Se dunque consideriamo l’ultima rinascita, quella degli inizi
della nostra attuale civiltà, tra quelli che i Romani chiamavano i
«Barbari», avremo tutta la scala dell’evoluzione, cominciando
dalle gentes e terminando con le istituzioni dei nostri tempi.
Cosa alla quale sono appunto dedicate le pagine che seguono. […]
Nessun periodo della storia può meglio mostrare il potere
creatore delle masse popolari quanto il X e l’XI secolo, allorché
i villaggi fortificati e le loro piazze del mercato, «oasi nella
foresta feudale», hanno cominciato a liberarsi dal giogo dei
signorotti, preparando lentamente la futura organizzazione delle
città. Sfortunatamente, è un periodo sul quale le informazioni
storiche sono particolarmente rare: conosciamo i risultati, ma
sappiamo poco circa i mezzi con i quali sono stati ottenuti.
Al riparo delle loro mura, le assemblee popolari delle città –
sia completamente indipendenti, sia rette dalle principali
famiglie nobiliari o mercantili – conquistavano e conservavano il
diritto di eleggere il defensor, il 101difensore militare della
città, e il supremo magistrato, o quantomeno di scegliere tra
quelli che aspiravano a tale carica. In Italia i giovani Comuni
licenziavano continuamente i loro defensores o domini, combattendo
quelli che rifiutavano di andarsene. La stessa cosa accadeva a
Est: in Boemia, i ricchi e i poveri insieme (Bohemicae gentis
magni et parvi, nobiles et ignobiles) prendevano parte
all’elezione; nelle citta russe le assemblee popolari, le vyeches,
eleggevano regolarmente i loro duchi – tutti regolarmente della
famiglia Rurik – e stipulavano insieme le loro convenzioni,
esautorandoli però se ne erano scontenti. Alla stessa epoca, nella
maggior parte delle città dell’Europa occidentale e meridionale la
tendenza era di prendere per defensor un vescovo eletto dalla
città stessa; e molti vescovi si sono messi alla testa della
resistenza per proteggere le «immunità» cittadine e difendere le
loro libertà, tanto che, dopo la morte, molti sono stati
santificati divenendo i patroni delle loro città, come san
Uthelred di Winchester, san Ulrik di Asburgo, san Wolfgang di
Ratisbona, san Heribert di Colonia, san Adalbert di Praga e così
via. Anche molti abati e monaci sono diventati santi patroni delle
città per aver sostenuto i diritti del popolo. Con questi nuovi
defensores – laici o ecclesiastici – i cittadini hanno conquistato
la piena autorità giuridica e amministrativa per le loro assemblee
popolari. [...]
Tuttavia, oltre all’idea di comunità rurale, occorreva un altro
elemento capace di dare a questi centri in cerca di libertà
l’unità di pensiero, azione e iniziativa che ha fatto la loro
forza nel XII e XIII secolo. La diversità crescente di arti e
mestieri, nonché l’estensione del commercio a Paesi lontani, hanno
fatto desiderare una nuova forma di aggregazione, il cui elemento
necessario sono state le corporazioni. Si sono scritte molte opere
su queste associazioni che sotto il nome di corporazioni, gilde,
fratellanze – o druzhestya, minne, artels in Rus- 102sia, esnaifs
in Serbia e in Turchia, amkari in Georgia, ecc. – si sono
sviluppate in modo considerevole nel Medio evo tanto da
rappresentare una parte sostanziale nell’emancipazione delle
città. Ma ci sono voluti più di sessant’anni perché gli storici
riconoscessero l’universalità di questa istituzione e il suo vero
carattere. Solo oggi, dopo che centinaia di statuti corporativi
sono stati pubblicati e studiati e dopo che i loro rapporti
originari con i collegiae romani e le antiche unioni della Grecia
e dell’India sono stati riconosciuti, possiamo parlarne con piena
cognizione di causa e possiamo affermare con certezza che queste
fratellanze rappresentano uno sviluppo degli stessi princìpi che
abbiamo visto in azione tra le gentes e nelle comunità rurali.
[...]
Così, quando un certo numero di artigiani – muratori,
carpentieri, tagliatori di pietre, ecc. – si riunivano per
costruire ad esempio una cattedrale, essi appartenevano tutti a
una città con il suo ordinamento politico, e inoltre ciascuno
apparteneva alla propria arte, ma tutti si consociavano altresì
per l’impresa comune, che conoscevano meglio di chiunque, e
s’organizzavano in un corpo, stringendo forti legami, quantunque
temporanei, e fondando una gilda per l’erezione della cattedrale.
Anche oggi possiamo riscontrare questi stessi fatti nel çof dei
Cabili: essi hanno la loro comunità rurale, ma questa associazione
non basta per tutti i bisogni politici, commerciali e personali
dell’unione ed essi costituiscono quindi una fratellanza più
stretta nel çof.
Quanto ai caratteri sociali delle gilde medievali, qualsiasi
statuto può darne un’idea. Prendiamo ad esempio lo skraa di
qualche primitiva gilda danese: vi leggiamo dapprima
un’esposizione dei sentimenti di fraternità generale che devono
regnare nella gilda, poi vengono le regole relative
all’auto-giurisdizione in caso di litigio tra due fratelli, o tra
un fratello e un esterno; infine vengono enumerati i doveri
sociali dei fratelli. Se la casa di un fratello è distrutta dal
fuoco, o se egli ha perduto il suo bastimento, o ancora se ha
sofferto durante un pellegrinaggio, tutti i fratelli devono venire
in suo aiuto. Se un fratello cade gravemente ammalato, altri due
fratelli devono vegliare presso il suo letto fino a che non sia
fuori pericolo; se muore, devono sotterrarlo – faccenda non da
poco in tempi di pestilenze – accompagnandolo in chiesa e alla
tomba. Dopo la sua morte devono soccorrere i suoi figli se sono
nel bisogno, mentre molto spesso la vedova diventa una «sorella»
della gilda.
Questi due caratteri fondamentali s’incontrano in tutte le
fratellanze formate non importa a quale scopo. Sempre i membri
devono trattarsi in modo fraterno, tanto da chiamarsi appunto
fratelli e sorelle, e sono tutti uguali di fronte alla gilda. Essi
possiedono in comune il cheptel (bestiame, terre, bastimenti,
fondi agricoli). Tutti i fratelli sono tenuti a giurare di
dimenticare gli antichi dissensi e, senza imporsi reciprocamente
di non litigare nuovamente, devono convenire che nessuna lite deve
degenerare in vendetta o condurre a un processo davanti ad altra
corte che non sia il tribunale della fratellanza. Se uno è
implicato in una contesa con qualcuno estraneo alla gilda, questa
lo deve sostenere, sia che abbia torto sia che abbia ragione;
ovvero, tanto nel caso che venga ingiustamente accusato di
aggressione quanto nel caso che sia realmente l’aggressore, i
fratelli lo devono sostenere e condurre le cose a una conclusione
pacifica. A meno che non si tratti di un’aggressione occulta – nel
qual caso verrebbe proscritto – la fratellanza lo difende. Se i
parenti dell’uomo leso vogliono vendicarsi prontamente dell’offesa
con una nuova aggressione, la fratellanza gli procura un cavallo
per fuggire, o una barca e un paio di remi, un coltello e un
acciarino; se rimane in città, dodici fratelli lo accompagnano per
proteggerlo, e nello stesso tempo si occupano di comporre il
conflitto. Inoltre, i fratelli si presentano davanti alla corte di
giustizia per sostenere sotto giuramento la veridicità delle
dichiarazioni del loro fratello, e se viene riconosciuto
colpevole, non lo abbandonano a completa rovina, né lo fanno
diventare schiavo: se egli non può pagare il compenso dovuto, lo
pagano loro, come facevano le gentes nelle epoche precedenti. Ma
se qualcuno viene meno alla sua lealtà verso i fratelli della
gilda, o verso altri, viene escluso dalla fratellanza «con la fama
di uomo da nulla» (tha scal han maeles af brödrescap met nidings
nafn).
Tali sono le idee dominanti in queste fratellanze, e a poco a
poco si estenderanno a tutti gli aspetti della vita medievale.
Infatti, si conoscono gilde in tutte le professioni immaginabili:
gilde di servi, gilde di uomini liberi e gilde miste di servi e
uomini liberi; gilde formate per uno scopo specifico, quale la
caccia, la pesca o un’impresa commerciale, e disciolte quando
questo scopo specifico viene raggiunto; gilde che invece per certe
professioni o certi mestieri durano secoli. Via via che le
attività si diversificano, il numero delle gilde cresce. Così, non
ci sono soltanto mercanti, artigiani, cacciatori o contadini uniti
da questi legami, ma ci sono pure gilde di preti, di pittori, di
maestri di scuola primaria e di docenti universitari, gilde per
rappresentare la «passione», per costruire una chiesa, per
occuparsi dei «misteri» di una data scuola o di particolari arti e
mestieri, e persino gilde di mendicanti, di boia e di «donne
perdute», tutte organizzate sotto il doppio principio
dell’autogiurisdizione e del mutuo appoggio. Per la Russia abbiamo
la prova manifesta che il suo consolidamento è stato tanto opera
dei suoi artels, o associazioni di cacciatori, di pescatori e di
mercanti, quanto del germogliare delle comunità rurali; e ancor
oggi il Paese è pieno di artels. [...]
Un’istituzione così adatta a soddisfare i bisogni consociativi,
senza privare l’individuo della sua iniziativa, non poteva che
estendersi e rafforzarsi. Una difficoltà si era presentata quando
si era cercata una forma che permettesse di federare le unioni
delle gilde senza invadere il campo di quelle delle comunità
rurali e di federare le une e le altre in un tutto armonico.
Quando questa combinazione venne trovata, e un insieme di
circostanze favorevoli permise alle città di affermare la propria
indipendenza, esse lo fecero con un’unità di pensiero che non può
che suscitare la nostra ammirazione, persino nel secolo delle
strade ferrate, dei telegrafi e della stampa. Ci sono pervenute
centinaia di «carte» con le quali le città proclamavano la loro
indipendenza e in tutte – nonostante l’infinita varietà di
particolari correlati ad un’emancipazione più o meno completa – si
ritrova la stessa idea dominante: un’organizzazione cittadina
basata sulla federazione di piccole comunità rurali e di gilde.
[...]
Questa ondata emancipativa si diffuse nel XII secolo per tutto il
continente, toccando sia le città più ricche sia i villaggi più
poveri. E se possiamo dire che, in generale, le città italiane
furono le prime a liberarsi, non possiamo identificare alcun
centro dal quale il movimento si sarebbe propagato. Molto spesso
un piccolo borgo dell’Europa centrale prendeva l’iniziativa per la
sua regione e i grandi agglomerati accettavano la carta della
piccola città come modello per la loro. […]
L’auto-giurisdizione era il punto essenziale, e autogiurisdizione
significava auto-amministrazione. Ma il Comune non era
semplicemente una parte «autonoma» dello Stato (queste parole
ambigue non erano ancora state inventate): era esso stesso uno
Stato. Aveva diritti di guerra e di pace, di federazione e di
alleanza con i vicini; era sovrano nei propri affari e non
interferiva con quelli degli altri. Il potere politico supremo
poteva essere rimesso interamente a un foro democratico, come era
il caso a Pskov, la cui assemblea popolare (vyeche) inviava e
riceveva ambasciatori, stipulava trattati, accettava e rifiutava
principi, o ne faceva a meno per decenni. Oppure il potere veniva
esercitato, o usurpato, da un’aristocrazia a volte nobiliare a
volte mercantile, come avveniva in centinaia di città dell’Italia
e del centro Europa. Il principio, tuttavia, rimaneva immutato: la
città era uno Stato e, cosa ancor più notevole, quando il potere
della città veniva usurpato da un’aristocrazia nobiliare o
mercantile, la vita interna della città ne risentiva marginalmente
e il carattere democratico della vita quotidiana non scompariva:
perché l’uno e l’altro dipendevano molto poco da ciò che si
potrebbe chiamare la forma politica dello Stato.
Il segreto di questa apparente anomalia è che una città medievale
non era uno Stato accentrato. Durante i primi secoli della sua
esistenza, la città poteva a malapena essere chiamata uno Stato
per quanto riguardava la sua organizzazione interna, perché il
Medio evo non conosceva l’attuale accentramento delle funzioni né
tanto meno l’accentramento territoriale del nostro tempo. Ogni
gruppo aveva la sua parte di sovranità. [...]
La città medievale ci appare così come una doppia federazione:
innanzi tutto quella di tutte le unità domestiche all’interno di
territori delimitati – la strada, la parrocchia, il quartiere – e
poi quella degli individui uniti da giuramento in gilde secondo le
loro professioni. Mentre la prima era un prodotto della comunità
rurale, origine della città, la seconda era una creazione
posteriore la cui esistenza derivava dalle mutate condizioni.
Garantire la libertà, l’auto-amministrazione e la pace era lo
scopo principale della città medievale, e il lavoro, come vedremo
tra poco parlando delle gilde di mestiere, ne era la base. Ma la
«produzione» non assorbiva tutta l’attenzione degli economisti del
Medio evo. Con il loro spirito pratico, essi compresero che il
«consumo» doveva essere garantito al fine di ottenere la
produzione; di conseguenza, il principio fondamentale di ogni
città era di provvedere alla sussistenza comune e all’alloggio
tanto dei poveri quanto dei ricchi (gemeine notdurft und gemach
armer und richer). L’acquisto di viveri e di altri beni di prima
necessità (carbone, legna, ecc.) prima che fossero passati per il
mercato o in condizioni particolarmente favorevoli dalle quali
altri fossero esclusi – in una parola la preemptio – era
assolutamente vietata. Tutto doveva passare dal mercato ed essere
offerto in acquisto a tutti fino a quando la campana non avesse
chiuso il mercato. Solo a quel punto il venditore al minuto poteva
comprare ciò che restava, e anche allora il suo profitto doveva
rimanere nei limiti di un «onesto guadagno». Di più, quando il
frumento veniva comprato all’ingrosso da un fornaio dopo la
chiusura del mercato, ogni cittadino aveva comunque il diritto di
reclamare, al prezzo all’ingrosso, una parte di tale frumento
(circa due kg.) per proprio uso, a condizione che lo reclamasse
prima della chiusura delle contrattazioni; a sua volta, ogni
panettiere poteva reclamare lo stesso diritto nel caso fosse un
cittadino a comprare il frumento per rivenderlo. Nel primo caso il
frumento non aveva che da essere portato al mulino della città per
essere macinato a un prezzo convenuto, e il pane poteva poi essere
cotto nel forno comunale. Insomma, se una carestia colpiva la
città tutti, più o meno, ne soffrivano, ma a parte queste
calamità, finché sono esistite le città libere, nessuno vi è morto
di fame, come disgraziatamente oggi avviene anche troppo spesso.
[...]
Insomma, più conosciamo la città del Medio evo, più vediamo che
non era una semplice organizzazione politica per la difesa di
determinate libertà. Era un tentativo, su ben più vasta scala
rispetto alla comunità rurale, di organizzare una stretta unione
di assistenza e appoggio mutuo per il consumo, per la produzione e
per la vita sociale nel suo insieme, senza frapporre gli
impedimenti dello Stato, ma lasciando piena libertà di espressione
al genio creatore di ciascun gruppo nelle arti, nei mestieri,
nelle scienze, in commercio e in politica. Vedremo meglio fino a
che punto questo tentativo ha avuto successo quando analizzeremo,
nel capitolo seguente, l’organizzazione del lavoro nella città
medievale e le relazioni delle città con la popolazione delle
campagna circostanti. […]
I risultati di questo nuovo progresso dell’umanità nella città
medievale furono immensi. All’inizio del secolo XI le città
europee erano piccoli raggruppamenti di capanne miserabili, ornati
solamente di chiese basse e tozze delle quali il costruttore
sapeva appena fare la volta. Le arti – vi erano solo tessitori e
fabbriferrai – erano ad uno stadio primitivo; il sapere non si
trovava che in qualche raro monastero. Trecentocinquant’anni più
tardi il panorama europeo era mutato. Il territorio era
disseminato di città benestanti circondate da spesse mura, munite
di torri e porte, ciascuna delle quali era un’opera d’arte. Le
cattedrali, d’uno stile grandioso e riccamente decorate,
innalzavano verso il cielo i loro campanili di una purezza di
forme e di un ardire di immaginazione che oggi ci sforzeremmo
inutilmente di raggiungere. Le arti e i mestieri avevano raggiunto
in molte attività un grado di perfezione che oggi non possiamo
vantarci di aver superato se diamo maggior valore all’abilità
inventiva dell’operaio e alla perfezione del suo lavoro che non
alla rapidità di esecuzione. Le navi delle città libere solcavano
i mari europei in tutte le direzioni, e sarebbe bastato solo uno
sforzo ulteriore per varcare gli oceani. Su vasti spazi di
territorio il benessere aveva sostituito la miseria, e il sapere
si era sviluppato e diffuso. Si andavano elaborando i metodi
scientifici e ponendo le basi della fisica, si stava preparando il
cammino per tutte le invenzioni meccaniche delle quali il nostro
secolo è così orgoglioso. Tali furono i magici cambiamenti
compiuti in Europa in meno di quattrocento anni. E se ci si vuol
rendere conto delle perdite subite dall’Europa dopo la distruzione
delle città libere, occorre raffrontare il secolo XVII con il XIV
o il XIII: la prosperità che caratterizzava in altri tempi la
Scozia, la Germania, le pianure d’Italia, è scomparsa, le strade
sono cadute nell’abbandono, le città sono spopolate, il lavoro è
asservito, l’arte è in decadenza, e lo stesso commercio è in
declino.
Se anche le città medievali non ci avessero lasciato alcun
documento scritto a testimonianza del loro splendore, ma solo i
monumenti architettonici che vediamo ancor oggi in tutta Europa,
dalla Scozia all’Italia e da Girona in Spagna a Breslavia in
territorio slavo, potremmo comunque affermare che il periodo in
cui le città ebbero una vita indipendente fu quello del più alto
sviluppo dello spirito umano dall’era cristiana fino al XVIII
secolo. Se guardiamo, ad esempio, un quadro del Medio evo
raffigurante Norimberga con le sue torri e i suoi campanili
slanciati, ciascuno dei quali porta l’impronta di un’arte
liberamente creatrice, abbiamo qualche difficoltà a pensare che
trecento anni prima la città non era che un ammasso di misere
capanne. E la nostra ammirazione non fa che crescere quando
entriamo nei particolari dell’architettura e dei fregi di ciascuna
delle innumerevoli chiese, dei campanili, dei palazzi municipali,
delle porte di città ecc., presenti in Europa e che arrivano ad
est fino alla Boemia e alle città, oggi morte, della Galizia
polacca. Non è unicamente l’Italia, questa patria delle arti, ma
tutta l’Europa ad essere ricoperta da tali monumenti. Il fatto
stesso che tra tutte le arti sia proprio l’architettura – arte
sociale per eccellenza – a toccare il suo più alto sviluppo è
significativo. Per arrivare al grado di perfezione che ha
raggiunto, quest’arte non poteva che essere il prodotto d’una vita
eminentemente sociale.
L’architettura medievale ha raggiunto la sua grandezza non
soltanto perché fu il fiorire spontaneo di un mestiere, come è
stato detto recentemente; non soltanto perché ogni costruzione,
ogni decorazione architettonica era l’opera di uomini che
conoscevano con l’esperienza delle proprie mani gli effetti
artistici che si possono ottenere dalla pietra, dal ferro, dal
bronzo, o anche semplicemente da travi e calcina; non soltanto
perché ogni monumento era il risultato dell’esperienza collettiva
accumulata in ciascun «mistero» o mestiere: l’architettura
medievale fu grande perché derivò da una grande idea. Come l’arte
greca, essa scaturì da una concezione di fratellanza e di unità
generata dalla città. Aveva un’audacia che non si può acquistare
se non con lotte audaci e con vittorie; esprimeva vigore perché il
vigore impregnava tutta la vita della città. Una cattedrale, un
palazzo comunale, simboleggiavano la grandezza di un insieme del
quale ciascun muratore e ciascun tagliatore di pietra era un
costruttore. Un monumento del Medio evo non era uno sforzo
temporaneo, dove migliaia di schiavi eseguivano la parte loro
assegnata dall’immaginazione di un solo uomo: tutta la città vi
contribuiva. L’alto campanile svettava su una costruzione che
aveva in sé della grandezza, in cui si sentiva palpitare la vita
della città; non era una costruzione assurda come la torre in
ferro alta 300 metri di Parigi o come quella fabbrica in pietra
fatta per nascondere la bruttezza d’una armatura di ferro, come la
Tower Bridge a Londra. Come l’Acropoli di Atene, la cattedrale di
una città del Medio evo era innalzata con l’intenzione di
glorificare la grandezza della città vittoriosa, di simboleggiare
l’unione delle sue arti e dei suoi mestieri, di esprimere la
fierezza di ogni cittadino per una città che era la sua propria
creazione. Spesso, compiuta la seconda rivoluzione dei nuovi
mestieri, si videro le città innalzare nuove cattedrali proprio
per esprimere la nuova unità, più profonda ed estesa, che veniva
allora alla luce. [...]
Tutte le arti erano progredite in modo analogo nelle città
medievali. Le arti del nostro tempo non sono, per la maggior
parte, che una continuazione di quelle sviluppatesi in
quest’epoca. La prosperità delle città fiamminghe era basata sulla
fabbricazione di bei tessuti di lana. Firenze all’inizio del XIV
secolo, prima della peste nera, fabbricava dai 70.000 ai 100.000
panni di stoffa di lana, valutati intorno a 1.200.000 fiorini
d’oro. La cesellatura dei metalli preziosi, l’arte del fondere, i
bei ferri lavorati furono creazioni dei «misteri» medievali, che
riuscirono a eseguire, ciascuno nel proprio campo, tutto ciò che
era possibile fare a mano, senza l’aiuto di un potente motore.
[...]
È vero, come dice Whewell, che nessuna di queste scoperte era
stata il risultato di qualche nuovo principio. E tuttavia la
scienza del Medio evo aveva fatto qualcosa di più che la scoperta
propriamente detta di nuovi princìpi: aveva preparato la scoperta
di tutti i nuovi princìpi che conosciamo attualmente nelle scienze
meccaniche. Aveva cioè abituato il ricercatore ad osservare i
fatti e a ragionarci sopra. Era la scienza induttiva, quantunque
non avesse ancora pienamente capito l’importanza e il potere del
metodo induttivo; comunque sia, essa poneva già le basi della
meccanica e della fisica. Francesco Bacone, Galileo e Copernico
sono stati i discendenti diretti di un Ruggero Bacone e di un
Michele Scoto, proprio come la macchina a vapore è stato un
prodotto diretto delle continue ricerche nelle università italiane
dell’epoca sul peso dell’atmosfera e degli studi tecnici e
matematici fatti a Norimberga.
Ma è necessario insistere sui progressi delle scienze e delle
arti nella città medievale? Non basta citare le cattedrali nel
campo dell’abilità tecnica o la lingua italiana e i poemi
danteschi nel campo del pensiero per dare immediatamente la misura
di ciò che la città medievale ha creato durante i suoi quattro
secoli di vita?
Le città del Medio evo hanno reso un immenso servizio alla
civiltà europea: le hanno impedito di avviarsi verso le teocrazie
e gli Stati dispotici dell’antichità; le hanno dato la diversità,
la fiducia in se stessa, lo spirito d’iniziativa e le immense
energie intellettuali e materiali che possiede ancor oggi e che
sono la miglior garanzia della sua capacità di resistere ad una
nuova invasione che venga da Oriente. Ma perché dunque questi
centri di civiltà, che avevano tentato di rispondere a bisogni
così profondi della natura umana e che erano così pieni di vita,
non sopravvissero più a lungo? Forse perché furono colpiti da
debolezza senile nel XVI secolo e, dopo aver respinto tanti
assalti esterni e aver reagito inizialmente con vigore alle lotte
interne, alla fine soccombettero sotto questo duplice attacco?
Varie cause hanno contribuito a questo risultato; alcune avevano
le loro radici in un lontano passato, altre rimandavano a colpe
commesse dalle città stesse.
Verso la fine del XV secolo, vennero costituiti alcuni potenti
Stati che si rifacevano al vecchio modello romano. In ogni
regione, qualche signore feudale, più abile, più avido di
ricchezze e spesso meno scrupoloso dei suoi vicini, era riuscito
ad assicurarsi più ricchi possedimenti personali, un più alto
numero di contadini per le sue terre e di cavalieri per il suo
seguito, un più consistente tesoro nei suoi scrigni. Aveva scelto
come sua residenza un gruppo di villaggi ben situati, dove non si
era ancora sviluppata la libera vita municipale – Parigi, Madrid o
Mosca – e con il lavoro dei suoi servi ne aveva fatto delle città
regie fortificate. Là attirava compagni d’arme, cui concedeva
villaggi con liberalità, e mercanti, cui offriva la sua protezione
per il commercio. Si andava così formando il germe d’un futuro
Stato, che gradatamente avrebbe cominciato ad assorbire altri
centri simili. In questi centri vi era inoltre una abbondanza di
giureconsulti, razza di uomini tenaci e ambiziosi usciti dalla
borghesia e versati nello studio del diritto romano, che
detestavano in pari grado l’alterigia dei signori e ciò che
chiamavano lo «spirito ribelle» dei contadini. Trovavano
ripugnante la forma stessa della comunità rurale, che i loro
codici ignoravano, e i princìpi federativi, che consideravano
un’eredità dei «barbari»; viceversa, appoggiavano un cesarismo,
sostenuto dalla menzogna del consenso popolare e dalla forza delle
armi, e lavoravano alacremente per quelli che promettevano di
attuarlo.
La Chiesa cristiana, una volta avversaria della legge romana e ora
sua alleata, lavorò nello stesso senso. Essendo fallito il
tentativo di costituire in Europa l’Impero teocratico, i vescovi
più intelligenti e più ambiziosi diedero il loro appoggio a quelli
sui quali contavano per ricostruire il potere dei re d’Israele o
degli imperatori di Costantinopoli. La Chiesa consacrò questi
primi dominatori, li incoronò come rappresentanti di Dio sulla
Terra, e mise al loro servizio la scienza e lo spirito politico
dei suoi ministri, le sue benedizioni e le sue maledizioni, le sue
ricchezze e l’influenza che aveva conservato tra i poveri. I
contadini che le città non avevano potuto o voluto liberare,
vedendo come queste non riuscissero a metter fine alle
interminabili guerre tra nobili, guerre per le quali pagavano un
alto prezzo, volgevano allora le loro speranze verso re,
imperatori e principi; così, mentre li aiutavano a schiacciare i
potenti signori feudali, li aiutavano anche a costruire lo Stato
centralizzato. Infine, le invasioni dei Mongoli e dei Turchi, le
guerre sante contro i Mori di Spagna, le terribili guerre che ben
presto scoppiarono tra i centri della nascente sovranità – tra Ile
de France e Borgogna, Scozia e Inghilterra, Inghilterra e Francia,
Lituania e Polonia, Mosca e Tver, ecc. – contribuirono tutte allo
stesso risultato: vennero costituiti potenti Stati e alle città
toccò ora resistere non solamente a vaghe alleanze di signori, ma
anche a centri di potere saldamente organizzati che avevano armate
di servi a loro disposizione.
Il peggio fu che queste autocrazie in ascesa trovarono appoggi
grazie anche alle divisioni che si erano formate in seno alle
città stesse. L’idea fondamentale della città medievale era
grande, e tuttavia non era abbastanza vasta. L’aiuto e il sostegno
reciproco non potevano essere limitati ad una piccola
associazione, ma dovevano estendersi al territorio circostante,
senza tuttavia che questo assorbisse l’associazione. Ma sotto
questo aspetto il cittadino del Medio evo aveva commesso fin da
principio un grave errore. Invece di vedere nei contadini e negli
operai che si riunivano sotto la protezione delle sue mura
altrettanti ausiliari che avrebbero contribuito alla prosperità
della città – come fu effettivamente il caso – tracciarono una
profonda divisione tra le famiglie della vecchia borghesia e i
nuovi venuti. Ai primi furono riservati tutti i benefici derivanti
dal commercio e dalle terre comunali; niente fu invece lasciato
agli ultimi, eccetto il diritto di servirsi liberamente
dell’abilità delle loro mani. La città fu così divisa: da una
parte i «borghesi» o «il Comune», e dall’altra «gli abitanti». Il
commercio, che era dapprima comunale, diventò il privilegio di
alcune famiglie di mercanti e di artigiani; non vi era ormai che
un passo da fare perché divenisse un privilegio individuale o di
un gruppo di oppressori, e questo inevitabile passo fu fatto.
Tale divisione si andò consolidando tanto nella città
propriamente detta che nei villaggi circostanti. Il Comune aveva
ben tentato, inizialmente, di emancipare i contadini, ma le sue
guerre contro i signori divennero, come abbiamo già detto, guerre
per liberare la città dai signori anziché per liberare i
contadini. La città lasciò al signore i suoi diritti sui
contadini, a condizione che non la molestasse più e divenisse un
concittadino. Ma i nobili «adottati» dalla città, e ora residenti
nelle sue mura, non fecero che portare la loro tradizionale
bellicosità nella cinta stessa della città. Benché non
tollerassero di sottomettersi a un tribunale di semplici artigiani
e di mercanti, continuarono nelle loro antiche ostilità tra
famiglie, nelle loro guerre private portate nelle vie cittadine.
Ogni città aveva ora i suoi Colonna e i suoi Orsini, i suoi
Overstolze e i suoi Wise. Grazie alle cospicue rendite delle terre
che avevano conservate, si circondarono di numerosi clienti,
feudalizzando i costumi e le abitudini della città stessa. E
quando i dissensi cominciarono a farsi sentire tra gli artigiani,
offrirono le loro spade e le loro compagnie d’armi per risolvere
le liti invece di lasciare che i dissensi trovassero soluzioni più
pacifiche, come tradizionalmente accadeva nei tempi passati. […]
Il più grave e funesto errore fatto dalla maggior parte delle
città fu di prendere per base della loro ricchezza il commercio e
l’industria a detrimento dell’agricoltura. Ripeterono in tal modo
l’errore già commesso dalle città della Grecia antica, e proprio
per questo caddero negli stessi delitti. Estraniatesi dal mondo
agricolo, un gran numero di città si trovarono necessariamente
trascinate in una politica avversa ai contadini. Questo divenne
sempre più evidente al tempo di Eduardo III e delle jacqueries in
Francia, delle guerre ussite e delle guerre contadine in Germania.
D’altra parte, la politica commerciale le impegnava in imprese
lontane, tanto che colonie furono fondate dalle città italiane nel
sud-est, dalle città tedesche nell’est, dalle città slave
nell’estremo nord-est.
Si cominciarono a mantenere milizie mercenarie per le guerre
coloniali e ben presto anche per la difesa della città stessa. Fu
necessario sottoscrivere prestiti in proporzioni talmente
smisurate da demoralizzare completamente i cittadini; e la
conflittualità interna imperò a ogni elezione nella quale la
politica coloniale, di cui beneficiavano solo alcune famiglie, era
in gioco. La divisione tra ricchi e poveri diventò più profonda e,
nel secolo XVI, in ogni città l’autorità regia trovò alleati
solleciti e l’appoggio dei poveri.
Ci fu ancora un’altra causa nella rovina delle istituzioni
comunali, più profonda e insieme di ordine più elevato delle
precedenti. La storia delle città medievali rappresenta uno dei
più grandiosi esempi del potere delle idee e dei princìpi sui
destini del genere umano, e dell’estrema diversità nei possibili
esiti che accompagnano ogni profonda trasformazione delle idee
prevalenti. La fiducia in se stessi e il federalismo, la sovranità
di ogni gruppo e la costituzione del corpo politico dal semplice
al complesso, erano le idee prevalenti nel secolo XI. Ma nelle
epoche successive le opinioni si modificarono profondamente. Gli
studiosi di diritto romano e i prelati della Chiesa, strettamente
alleati dall’epoca di Innocenzo III, riuscirono a neutralizzare
l’idea – l’antica idea greca – che aveva presieduto alla
fondazione delle città. Durante due-trecento anni predicarono
dall’alto del pulpito, insegnarono nelle università, pronunciarono
dal banco del tribunale, che occorreva cercare la salvezza in uno
Stato fortemente centralizzato, posto sotto un’autorità
semi-divina. Questa si sarebbe incarnata in un uomo dotato di
pieni poteri, un dittatore che, solo, avrebbe potuto salvare la
società; in nome della salute pubblica, questi avrebbe potuto
commettere qualunque specie di violenza: bruciare uomini e donne
sul rogo, farli perire a seguito di indescrivibili torture,
sprofondare intere province nella più abbietta miseria. E non
esitarono a mettere in pratica queste teorie con inaudita
crudeltà, ovunque potesse arrivare la spada del re, o il fuoco
della Chiesa, o tutti e due insieme. Con questi insegnamenti e
questi esempi, costantemente ripetuti fino a condizionare
l’opinione pubblica, lo spirito stesso dei cittadini fu modellato
in modo nuovo. Ben presto nessuna autorità fu trovata eccessiva,
nessuna esecuzione a fuoco lento parve troppo crudele se compiuta
«per la sicurezza pubblica». E con questa nuova attitudine di
spirito, e questa nuova fede nella potenza di un uomo, il vecchio
principio federalista svanì e il genio creatore delle masse si
estinse. L’idea romana trionfava e, in queste circostanze, lo
Stato accentrato trovò nelle città una facile preda.
Nel XV secolo Firenze offre il miglior esempio di questo
mutamento. Nelle epoche precedenti, una rivoluzione popolare era
il segnale d’un nuovo slancio. Ora, quando spinto dalla
disperazione il popolo insorge, non ha più idee costruttive,
nessuna nuova idea lo illumina. Un migliaio di rappresentanti
entrano nel consiglio comunale invece di quattrocento; cento
uomini entrano nella signoria invece di ottanta. Ma una
rivoluzione di cifre non vuol dir niente. Lo scontento del popolo
cresce e nuove rivolte scoppiano. Allora si fa appello a un
salvatore, al «tiranno». Questi massacra i ribelli, e tuttavia il
disgregamento del corpo comunale continua, peggio che mai. Quando,
dopo una nuova rivolta, il popolo di Firenze si rivolge all’uomo
più popolare della città, Gerolamo Savonarola, il monaco risponde:
«Popolo mio, sai bene che non posso occuparmi degli affari di
Stato... purifica la tua anima, e se in questa disposizione di
spirito riformerai la tua città, allora, popolo di Firenze, avrai
inaugurato la riforma di tutta l’Italia!». Vengono bruciate le
maschere di carnevale e i cattivi libri, si fa decretare una legge
di carità, un’altra contro l’usura… ma la democrazia di Firenze
resta tal quale. Lo spirito del tempo antico è ormai morto. Per
aver avuto troppa fiducia nel governo, i cittadini hanno cessato
d’aver fiducia in se stessi, sono incapaci di trovare nuove vie.
Allo Stato non resta che farsi avanti e schiacciare le ultime
libertà.
E tuttavia la corrente del mutuo appoggio non si è del tutto
inaridita nelle moltitudini, ma ha continuato a scorrere anche
dopo questa disfatta. Si è ingrossata di nuovo con una forza
formidabile agli appelli comunisti dei primi propagatori della
Riforma, e ha continuato a scorrere anche dopo che le masse, non
essendo riuscite a realizzare quell’esistenza che speravano di
inaugurare sotto l’ispirazione della religione riformata, sono
nuovamente cadute sotto la dominazione di un potere autocratico.
Il flusso scorre ancora oggi alla ricerca di una nuova
manifestazione, che non sarà più lo Stato, né la città del Medio
evo, né la comunità rurale dei barbari, né il clan dei selvaggi,
ma che parteciperà di tutte queste forme, pur superandole grazie a
una concezione più ampia e profondamente umana.
Per Kropotkin l’idea del bene e del male esistnell’umanità,
nel senso che il sentimento morale non si configura come una
semplice irruzione soggettiva dell’anima, ma come la verità
della sua datità biologiconaturale giunta al punto del suo
auto-riconoscimento razionale. Perciò diventa legittima la
fondazione di un’etica basata sulle scienze naturali, o meglio
sulla ricerca «etologica» delle leggi del comportamento umano
derivato dallo studio naturalistico dei costumi; ciò che, in
termini attuali, può essere definita la «scuola adattiva» della
cultura. La dimensione positivistica ed evoluzionistica di tale
concezione si rende evidente quando si afferma che è possibile
colmare la profonda sfasatura esistente tra lo sviluppo delle
scienze naturali e quello delle scienze morali, tra le prime che
hanno fatto immensi progressi e le seconde che sono rimaste
arretrate ad uno stadio di elaborazione metafisica,
compenetrando queste due dimensioni in un’unica Weltanschauung.
A questo proposito ecco che cosa ha recentemente scritto uno
scienziato notissimo a livello mondiale (e che non ha nulla a
che vedere con la scuola socio-biologica), Luca Cavalli Sforza:
«Oggi la moralità non è più considerata una prerogativa della
nostra specie. Gli studi effettuati da trent’anni a questa parte
sulla vita sociale 119di numerose specie di animali – in
particolare mammiferi – e soprattutto su scimmie e primati
indicano che il senso della giustizia [il tondo è mio], di
simpatia e di empatia sono diffusi anche fra parecchi animali.
Non solo: se vogliamo comprendere l’origine di questi fenomeni
nella nostra stessa specie ci conviene guardare al lontano
passato, alla lunghissima evoluzione che i nostri antenati hanno
diviso con gli antenati delle scimmie attuali».
In conclusione viene confermato quanto sostenuto da Kropotkin:
la socialità non è una scelta dei protagonisti, ma una necessità
della specie, non discende dalla volontà dei singoli, ma dalla
loro appartenenza alla collettività. E la società, a sua volta,
è il risultato dell’evoluzione spontanea della natura, perché
deriva da un lento ma irreversibile sviluppo delle potenzialità
libertarie ed egualitarie latenti negli esseri viventi, per cui
soltanto la piena coscienza scientifica di questa tendenza
naturale trasforma la sua datità deterministica in una
possibilità progettuale di liberazione: gli individui si
liberano solo attraverso il pieno riconoscimento della loro
inscindibile appartenenza alla specie e dunque della loro
ineliminabile dimensione collettiva.
Per Kropotkin il punto centrale è rappresentato dall’idea di
giustizia quale pratica immanente alle relazioni sociali. Con il
progredire della società, infatti, si fa largo anche il concetto
di uguaglianza. Così equità e uguaglianza tendono a coincidere
con il sentimento innato di socialità, e in questo senso la
giustizia non è un valore soggettivo, o una mera formulazione
ideale, ma un fatto intrinseco alle leggi della vita sociale, la
quale non può svolgersi se non viene esplicata la reciprocità
fra i suoi membri.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana de L’etica del 1972, nella traduzione (rivista) di
Alfredo M. Bonanno e Vincenzo Di Maria.
Lo scopo principale dell’etica realistica moderna è [...] di dare
una definizione del fine morale cui tendiamo. Ma questo fine, o
questi fini, quale che sia il carattere ideale che essi comportano
e quale che sia la lontananza della loro realizzazione, devono
nonostante tutto appartenere al mondo reale.
La morale non può avere per scopo qualche cosa di «trascendente»,
cioè di superiore a ciò che in realtà esiste, come vogliono certi
idealisti; il suo scopo deve essere reale. È nella vita, e non in
uno stato successivo al decorso naturale della vita, che dobbiamo
trovare la nostra soddisfazione morale.
Quando Darwin ha formulato la sua teoria della «lotta per
l’esistenza» e ha presentato questa lotta come il fattore
principale dell’evoluzione, egli ha sollevato anco- 121ra una
volta il vecchio problema della moralità o della possibile
immoralità della natura. L’origine delle nozioni di bene e male,
che ha occupato il pensiero filosofico dopo lo Zend-Avesta, è
stata nuovamente posta sul tappeto con maggiore energia e
profondità. I darwinisti hanno considerato la natura come un vasto
campo di battaglia dove i più deboli vengono sterminati dai più
forti, dai più abili, dai più astuti. In queste condizioni la
natura non può insegnare all’uomo che la lotta, il corpo a corpo.
Queste idee, come sappiamo, si sono diffuse largamente. Partendo
da esse il filosofo evoluzionista ha dovuto però risolvere una
grave contraddizione da lui stesso introdotta nella sua filosofia.
In base a questa filosofia, infatti, non ci si può dichiarare
assolutamente certi che l’uomo sia in possesso di un’idea
superiore del «bene» e che la credenza nel trionfo graduale del
bene sul male sia profondamente radicata nella natura umana.
Pertanto, questa dottrina è tenuta a spiegare da dove proviene la
nozione di bene, la credenza nel progresso. Essa non può adagiarsi
sul comodo guanciale epicureo che il poeta Tennyson descrive con
le seguenti parole: «In un modo qualsiasi il bene si troverà come
risultato definitivo del male». La dottrina evoluzionistica non
può concepire la natura «tinta di sangue» – red in tooth and clow
(con gli artigli e i denti rossi di sangue), come la descrivono
Tennyson e il darwinista Huxley – sempre in lotta contro il bene,
negazione vivente del bene, e affermare nello stesso tempo che «in
ultima analisi» il principio del bene trionferà. Deve, quantomeno,
spiegare questa contraddizione.
Se uno studioso riconosce che la sola lezione che l’uomo da se
stesso può ricavare dalla natura è la lezione della violenza, egli
dovrà nello stesso tempo riconoscere l’esistenza di qualche altra
influenza, esterna alla natura, soprannaturale, che ispira
all’uomo l’idea di «bene supremo» e conduce verso un fine
superiore lo sviluppo dell’umanità. E così facendo, annullerà il
suo stesso tentativo di spiegare l’evoluzione dell’umanità con il
solo gioco delle forze naturali.
In realtà, le posizioni della teoria evoluzionistica sono lontane
dall’essere così poco solide; esse non conducono affatto alle
contraddizioni in cui è caduto Huxley. Lo studio della natura,
come ha dimostrato Darwin stesso nella sua seconda opera,
L’origine dell’uomo, è lontano dal confermare la prospettiva
pessimista di cui abbiamo appena parlato. La concezione di
Tennyson e di Huxley è incompleta, unilaterale e,
conseguentemente, falsa; la anti-scientificità diventa chiara se
si pensa al fatto che Darwin parla, in un capitolo del suo libro,
di un aspetto assai differente della vita e della natura.
La natura stessa, egli dice, ci mostra, accanto alla lotta,
un’altra categoria di fatti con un significato assolutamente
diverso: il mutuo appoggio all’interno della stessa specie; questi
fatti hanno una importanza superiore a quelli precedenti perché
sono necessari a mantenere la prosperità della specie.
Questa tesi estremamente importante, che la maggior parte dei
darwinisti si rifiuta di tenere in conto e che Alfred Russel
Wallace è arrivato persino a negare, io ho cercato invece di
svilupparla, citando a tal proposito una gran quantità di fatti in
una serie di articoli in cui ho dimostrato l’enorme importanza del
mutuo appoggio per la sopravvivenza delle specie animali e
dell’umanità, e soprattutto per il loro sviluppo progressivo, per
la loro evoluzione.
Senza cercare di attenuare il fatto che numerosi animali si
nutrono di specie appartenenti ad altre classi del mondo animale o
di specie più piccole della stessa famiglia zoologica, ho
dimostrato che in natura la lotta è spesso circoscritta a una
lotta fra specie differenti, ma che all’interno di ciascuna
specie, e spesso all’interno di un raggruppamento formato da
specie diverse ma viventi in comune, il mutuo appoggio è la regola
generale. È per questo che il lato sociale della vita animale
svolge in natura un ruolo molto più importante che il mutuo
sterminio, avendo oltretutto un’estensione più vasta. Il numero
delle specie sociali tra i ruminanti, nella maggior parte dei
roditori, presso numerosi uccelli, nelle api, nelle formiche ecc.,
cioè le specie che non vivono cacciandosi a vicenda, è in effetti
considerevolissimo, e il numero di individui che comprende
ciascuna di queste specie è estremamente alto. Inoltre, presso
tutte le fiere e tutti i rapaci, soprattutto quelli che non sono
in via di estinzione a seguito dello sterminio condotto dall’uomo
o per altre ragioni, viene praticato in certa misura il mutuo
appoggio. Il mutuo appoggio è di fatto dominante in natura. [...]
Essendo necessario alla conservazione, alla prosperità e allo
sviluppo di ciascuna specie, il mutuo appoggio è diventato ciò che
Darwin ebbe a definire un istinto permanente costantemente in
azione presso tutti gli animali sociali, ivi compreso,
naturalmente, l’uomo.
Questo istinto, che si manifesta fin dai primordi dell’evoluzione
del regno animale, è, senza dubbio, profondamente radicato presso
tutti gli animali, inferiori e superiori, come l’istinto materno;
anzi si traduce in un vantaggio nei casi in cui è dubbia
l’esistenza di un istinto materno, come nei molluschi, in certi
insetti e nella maggior parte dei pesci.
Così Darwin aveva pienamente ragione quando affermava che
l’istinto della mutua attrazione si manifesta presso gli animali
sociali in modo più costante dell’istinto egoista alla
conservazione personale. Egli vi vedeva, come sappiamo, il
rudimento di una coscienza morale: fatto che, malauguratamente, i
darwinisti hanno troppo spesso dimenticato.
Ma non è tutto: questo istinto, una volta apparso, sarà l’origine
dei sentimenti di benevolenza e di accettazione parziale del
singolo nel suo gruppo, diventando il punto di partenza di tutti i
sentimenti superiori. È infatti su questa base che si
svilupperanno i sentimenti più elaborati di giustizia, equità,
uguaglianza e, infine, di ciò che abbiamo convenuto chiamare
abnegazione. [...]
Comprendiamo così non soltanto che la natura non ci dà lezioni di
comportamento amorale, ovvero di indifferenza riguardo la morale,
indifferenza che, essendo un principio estraneo alla natura,
dovrebbe combattere per dominarla, ma che al contrario la nozione
di bene e di male, i ragionamenti sul «bene supremo», sono
improntati alla natura stessa. Essi non sono che i riflessi, nei
ragionamenti dell’uomo, di ciò che egli ha visto presso gli
animali; nel corso della vita sociale queste impressioni vanno a
comporre la nozione generale di bene e di male. E non si tratta di
punti di vista personali di qualche individuo, ma dei sentimenti
della maggioranza. Questi giudizi ci confermano gli elementi di
giustizia e di mutua attrazione, quale che sia il soggetto presso
cui si riscontrano; è qualcosa di analogo alle nozioni di
meccanica che, dedotte dalle osservazioni fatte sulla superficie
terrestre, si applicano benissimo ai problemi degli spazi celesti.
Non possiamo non ammettere la stessa cosa quando si parla dello
sviluppo del carattere e delle istituzioni umane. Anche
l’evoluzione dell’uomo si effettua tramite la natura, da cui
riceve un impulso positivo. Le stesse istituzioni di assistenza e
di mutuo appoggio create all’interno della società mostrano
all’uomo, con sempre maggiore evidenza, quale potenza può
generarsi attraverso il loro impiego. Con un simile mezzo di
azione sociale la fisionomia morale dell’uomo si elabora in modo
più pieno. Ricerche storiche recenti permettono di concepire la
storia dell’umanità, per ciò che concerne l’elemento etico, come
un’evoluzione del bisogno, caratteristico dell’uomo, di
organizzare la sua esistenza sulla base del mutuo appoggio. Tanto
nei clan che, più tardi, nelle comunità rurali, nelle repubbliche
e nelle città libere, queste forme sociali diventeranno, malgrado
alcuni periodi di regresso, le fondamenta del nuovo progresso.
S’intende che dobbiamo rinunciare all’idea di studiare la storia
dell’umanità nel senso di una catena ininterrotta, di
un’evoluzione che va dall’età della pietra fino all’epoca attuale.
Lo sviluppo della società non è avvenuto senza interruzioni. Più
volte si è stati costretti a ricominciare: in India, in Egitto, in
Mesopotamia, in Grecia, a Roma, nella penisola scandinava,
nell’Europa occidentale; ogni volta partendo da tribù primitive e
in seguito da comunità rurali. Se consideriamo ciascuna di queste
linee di sviluppo, una dopo l’altra, vedremo soprattutto
nell’Europa occidentale, dopo la caduta dell’Impero romano, un
graduale estendersi delle nozioni di aiuto e di soccorso
reciproco, prima dalla tribù alla città, poi alla nazione e infine
all’unione internazionale delle nazioni. D’altra parte, a dispetto
delle fasi di regresso che a diverse riprese si sono manifestate
presso le stesse nazioni più civili, si può constatare una
tendenza a estendere sempre più i benefici delle idee correnti
sulla giustizia e sul reciproco aiuto tra gli uomini. Questa
tendenza è portata avanti in seno ai popoli civili dagli esponenti
del pensiero più avanzato e da quei movimenti popolari che
vogliono attuare il progresso ponendo in essere alcune di quelle
concezioni che sembra desiderabile attendersi dallo sviluppo
futuro dell’evoluzione.
Il fatto stesso che le fasi di regresso verificatesi
periodicamente presso i diversi popoli siano considerate dalla
parte più colta della società come dei fenomeni passeggeri,
verosimilmente evitabili in avvenire, dimostra come il criterio
etico sia collocato su un livello più elevato. Man mano che
aumentano nella società civile i mezzi per soddisfare i bisogni
dell’insieme della popolazione, aprendo in tal modo la via a una
migliore comprensione della giustizia per tutti, le esigenze
etiche diventano necessariamente sempre più elevate.
Così, ponendosi dal punto di vista di un’etica scientifica e
realistica, l’uomo può non soltanto credere nel progresso morale,
ma fondare questa credenza su delle basi scientifiche, malgrado
tutte le lezioni di pessimismo che riceve. La credenza nel
progresso che all’inizio non era che una semplice ipotesi, si
trova ora pienamente confermata dalla conoscenza; e d’altro canto
non bisogna dimenticare che l’ipotesi precede sempre la scoperta
scientifica.
Se la filosofia dell’empirismo, che si fonda sulle scienze
naturali, non ha potuto, fino a oggi, provare l’esistenza di un
progresso continuo delle regole morali (che si può considerare
come uno degli elementi fondamentali dell’evoluzione), lo si deve,
in gran parte, ai filosofi speculativi, cioè non scientifici. Sono
questi che hanno insistentemente negato l’origine naturale del
senso morale, abbandonandosi a infinite sottili dissertazioni per
attribuirgli un’origine soprannaturale. Il loro lavoro si è
talmente dilatato, fino alla «predestinazione dell’uomo», allo
«scopo della nostra esistenza», ai «fini della natura e della
Creazione», che una reazione doveva necessariamente prodursi
contro tutte queste idee mitologiche e metafisiche.
Contemporaneamente, gli evoluzionisti moderni, dopo aver mostrato
l’esistenza nel regno animale di un’aspra lotta per la vita tra le
diverse specie, si sono visti nell’impossibilità di ammettere che
un fenomeno così brutale, origine di tante sofferenze per gli
esseri viventi, potesse essere un’espressione della volontà
dell’Essere Supremo. Così hanno finito per negare l’esistenza di
un qualsiasi elemento morale. Ciò non significa che ora, quando si
comincia a considerare lo sviluppo graduale delle specie, delle
razze umane, delle istituzioni umane e dei princìpi stessi
dell’etica nel senso di un’evoluzione naturale, non diventi
possibile studiare, senza cadere nella filosofia del
soprannaturale, le diverse forze che presiedono a queste
evoluzioni, ivi compresa la forza naturale della morale che è
costituita dal mutuo appoggio e dalla crescente attrazione
reciproca.
Perseverando in questo senso, si attua una grande conquista per
la filosofia. Siamo così in diritto di concludere che lo studio
della natura e della storia, giustamente inquadrato, denuncia
l’esistenza costante di una doppia tendenza: da un lato la
tendenza alla socialità; dall’altro, come risultato di questa,
l’aspirazione a una maggiore intensità di vita, da cui il bisogno
di una maggiore felicità per l’individuo, e l’aspirazione verso un
progresso rapido dal punto di vista fisico, intellettuale e
morale.
Questa duplice aspirazione è caratteristica della vita in
generale, costituendo una delle proprietà fondamentali e uno degli
attributi necessari a qualsiasi aspetto della vita nel nostro
pianeta o altrove. Non si tratta di un tentativo della metafisica
di inficiare la «universalità della legge morale», né di una
semplice supposizione. Senza un aumento costante della socialità,
cioè dell’intensità della vita e della varietà di sensazioni che
essa apporta, la vita stessa è impossibile. Qui appunto risiede
l’essenza centrale dell’esistenza. Se questa condizione viene
meno, la vita stessa ne viene menomata avviandosi alla propria
distruzione. Siamo davanti ad una vera e propria legge di natura.
Ne risulta che la scienza, lungi dal misconoscere i fondamenti
dell’etica, dà al contrario un contenuto concreto alle nebulose
affermazioni metafisiche dell’etica trascendentale, cioè
soprannaturale. Man mano che la scienza penetra sempre più a fondo
nella natura essa dona all’etica evoluzionistica una certezza
filosofica incontestabile, là dove il pensatore trascendentale non
poteva fondarsi che su ipotesi assai vaghe.
Un altro rimprovero spesso mosso al pensiero fondato sullo studio
della natura, è ancor meno giustificato. Sarebbe un modo di
pensare che non può che condurre alla conoscenza di una fredda
verità matematica. Le conoscenze di questo tipo avrebbero poca
influenza sulle nostre azioni. Lo studio della natura ci può
tutt’al più ispirare l’amore per la verità, ma solo la religione
può ispirare un’emozione superiore, come quella della «infinita
bontà».
Non è difficile provare che tale affermazione è infondata ed è
per conseguenza falsa. L’amore per la verità costituisce già in sé
una buona meta, la «migliore» di tutta la dottrina morale. E i
credenti che siano anche persone intelligenti lo comprendono
benissimo. Quanto alla nozione di bene e all’aspirazione verso
questo bene, la «verità» di cui parliamo – il riconoscimento del
mutuo appoggio come carattere fondamentale dell’esistenza di tutti
gli esseri viventi – è chiaramente una verità ispiratrice
destinata un giorno a esprimere degnamente la poesia della natura,
in quanto aggiunge alla conoscenza di questa un nuovo tratto:
l’umanitarismo. Goethe, con la perspicacia del suo genio
panteista, ne comprese tutta l’importanza filosofica quando lo
zoologo Eckermann gliene fece cenno nel corso di una
conversazione.
Man mano che studiamo più da vicino l’uomo primitivo, constatiamo
sempre più che dalla vita degli animali, con i quali viveva in
stretta comunanza, egli acquisì le prime lezioni sulla coraggiosa
difesa dei propri simili, sull’abnegazione a favore del gruppo,
sull’amore illimitato per la famiglia, sull’utilità generale della
vita in società. Le nozioni di «virtù» e di «vizio» non sono
soltanto umane, ma zoologiche.
Non è necessario insistere sull’influenza che le idee hanno sulle
nozioni morali, come pure sull’influenza inversa che le nozioni
morali hanno sulla fisionomia intellettuale di ciascuna epoca.
L’aspetto e lo sviluppo intellettuale di un’epoca possono qualche
volta prendere una direzione completamente falsa sotto la
pressione di circostanze esterne diverse: sete di ricchezza,
guerre, ecc.; esse possono, durante il corso della storia,
rimbalzare in una nuova direzione e raggiungere, in questo modo,
un livello più elevato. Ma nell’uno o nell’altro caso, la vita
intellettuale di un’epoca esercita sempre una profonda influenza
sull’insieme delle nozioni morali di una società. La stessa cosa è
vera anche quando si tratta di un individuo.
È altrettanto certo che i pensieri, le idee, sono delle forze,
per usare l’espressione di Fouillée; essi diventano forze etiche,
morali, quando sono giusti e sufficientemente diffusi per
esprimere la vita della natura nel suo insieme e non soltanto in
uno dei suoi aspetti. È per questo che quando si tratta di creare
una morale suscettibile di determinare un’influenza duratura sulla
società, bisogna cominciare a stabilirne le basi per mezzo di
verità solidissime. Questo costituisce uno dei principali ostacoli
all’elaborazione di un sistema etico completo, capace di
soddisfare le esigenze del nostro tempo. La causa è data dallo
stato infantile in cui si trova ancora la scienza della società.
La sociologia ha riunito da poco i suoi materiali; essa comincia
soltanto ora a studiarli allo scopo di stabilire la direzione
probabile della futura evoluzione dell’umanità. Essa urta
continuamente contro una gran quantità di pregiudizi inveterati.
L’etica moderna ha per compito principale quello di cercare, con
la riflessione filosofica, ciò che vi è di comune tra le due
categorie di sentimenti contrapposti che esistono nell’uomo; essa
aiuta così a trovare non un semplice compromesso o un accordo tra
i due, ma la loro sintesi, la loro generalizzazione. Alcuni di
questi sentimenti portano gli uomini a dominare i loro simili in
vista di scopi personali; altri, all’inverso, li portano a unirsi
tra di loro per attendere con uno sforzo comune all’attuazione di
ciò che non è possibile realizzare da soli. I primi rispondono a
un bisogno fondamentale dell’uomo: il bisogno della lotta; i
secondi rispondono a un altro bisogno egualmente fondamentale:
quello dell’unione e della reciproca attrazione. Questi due gruppi
di sentimenti non possono non entrare in conflitto, ma è
assolutamente necessario trovare la loro sintesi, sotto una forma
qualsiasi. Ciò è tanto più necessario per l’uomo moderno in
quanto, se non ha delle convinzioni precise che lo mettano in
grado di riconoscere il suo posto in questo conflitto, egli
rischia di perdere la sua potenza attiva. Egli non può ammettere
che la lotta per il predominio, la guerra al coltello tra gli
individui e le nazioni, sia l’ultima parola della scienza; d’altra
parte egli non crede che la questione possa essere risolta
predicando la fratellanza e l’abnegazione, come il cristianesimo
ha fatto per secoli senza mai arrivare però né alla fratellanza
tra i popoli o tra gli uomini, né alla reciproca tolleranza tra le
diverse dottrine cristiane. Quanto alla dottrina comunista, la
maggioranza non vi crede per la stessa ragione su esposta. Così lo
scopo principale dell’etica è attualmente quello di aiutare l’uomo
a trovare una soluzione a questa fondamentale contraddizione. A
tal proposito, rivolgeremo ora l’attenzione ad un’analisi
dettagliata dei mezzi ai quali gli uomini hanno fatto ricorso nei
secoli per arrivare al più alto grado di benessere per tutti senza
paralizzare, al contempo, l’energia personale di ciascuno. Allo
scopo di giungere alla sintesi voluta, dobbiamo studiare
egualmente le tendenze analoghe che si rivelano nella nostra
società, i primi tentativi ancora timidi come le possibilità
latenti. Poiché nessun nuovo movimento si produce senza
risvegliare un certo entusiasmo, necessario a vincere l’inerzia
intellettuale, la nuova etica avrà per compito fondamentale quello
di suggerire all’uomo un ideale capace di risvegliare
l’entusiasmo, donando agli uomini la forza necessaria per
realizzare nella vita reale ciò che può conciliare l’energia
individuale con il lavoro per il bene di tutti.
Questa necessità di un ideale legato alla realtà ci porta a
considerare la principale obiezione opposta a questi sistemi etici
non religiosi. Essi mancherebbero dell’autorità necessaria, si
dice, le loro finalità non risveglierebbero che il semplice
sentimento del dovere, dell’obbligo. È perfettamente vero che
l’etica empirica non ha mai preteso, come suo carattere
vincolante, ciò che fonda, ad esempio, i dieci comandamenti di
Mosé. È altrettanto vero che quando Kant propone l’«imperativo
categorico» come fondamento della legge morale – «agisci in modo
tale che l’aspirazione della volontà possa divenire il principio
di una legge suscettibile di applicazione universale» – egli
intende dimostrare che questa regola non ha bisogno di alcuna
sanzione superiore per essere riconosciuta come universalmente
vincolante. Essa è, continua Kant, una forma necessaria del
pensiero, una categoria della nostra ragione; non è dedotta da
alcuna considerazione utilitaristica.
Ma la critica moderna, dopo Schopenhauer, ha mostrato che Kant
sbaglia. Egli non ha provato per quali ragioni l’uomo si dovrebbe
sottomettere a questo «imperativo», ed è curioso che il
ragionamento conduca lo stesso Kant all’idea che la sola ragione
che permette al suo «imperativo» di aspirare al generale
riconoscimento è la sua utilità sociale. Eppure le pagine in cui
Kant dimostra che in nessun caso le considerazioni di utilità
devono essere date come base per la morale sono le più belle che
abbia scritto. In realtà egli ha composto uno splendido elogio del
sentimento del dovere, ma non è riuscito a trovare a questo
sentimento altra base che la conoscenza intima dell’uomo e il suo
desiderio di conservare un’armonia tra le sue idee e i suoi atti.
La morale empirica non cessa certamente di controbattere
all’ingiunzione religiosa espressa dalle parole «Io sono il
signore Dio tuo»; ma la contraddizione profonda che continua ad
esistere tra le prescrizioni del cristianesimo e la vita reale
delle società che si definiscono cristiane toglie comunque
all’accusa in questione tutta la sua forza. Bisogna dire che la
morale empirica non è completamente priva di un carattere
condizionante. I diversi sentimenti e atti che, dopo August Comte,
si chiamano «altruisti» possono essere facilmente suddivisi in due
categorie. I primi, assolutamente necessari se si vuole vivere in
società, non dovrebbero mai essere definiti altruisti: essi
contengono un carattere di reciprocità e sono compiuti
dall’individuo esclusivamente nel proprio interesse, come avviene
per tutti gli atti dettati dall’istinto di conservazione. Accanto
a questi atti ne esistono altri che non presuppongono alcuna
reciprocità. Chi li compie dà la sua forza, la sua energia, il suo
entusiasmo, senza attendere nulla in cambio, senza presupporre
alcuna ricompensa. Sono proprio questi atti i grandi fattori di
perfezionamento morale che è possibile definire obbligatori.
Queste due categorie di atti sono costantemente confusi da tutti
gli autori che trattano di morale, ed è per questo che si rilevano
così tante contraddizioni nelle questioni relative all’etica.
È facile, tuttavia, uscire da questa confusione. È chiaro fin
dall’inizio che non bisogna confondere il dominio dell’etica con
quello della legislazione. L’etica non dà risposta alcuna a questo
problema: una legislazione è, o meno, necessaria? La morale è al
di sopra di questo problema. Si conoscono numerosi studiosi di
etica che negano la necessità di una qualsiasi legislazione e si
appellano direttamente alla coscienza umana; agli inizi della
Riforma, questi pensatori esercitarono una notevole influenza. Il
compito dell’etica non è quello di insistere sui difetti dell’uomo
e rimproverargli i suoi «peccati»: essa deve fare opera positiva,
indirizzandosi ai suoi migliori istinti. L’etica definisce e
spiega i princìpi fondamentali senza i quali né gli animali né gli
uomini avrebbero potuto vivere in società. Successivamente, fa
appello a qualcosa di superiore: all’amore, al coraggio, alla
fratellanza, al rispetto di se stessi, a una vita conforme
all’ideale. Infine, dice all’uomo che se vuole vivere una vita
nella quale tutte queste forze trovino piena espressione, deve
rinunciare una volta per tutte a credere che sia possibile vivere
senza tener conto dei bisogni e dei desideri dei suoi simili.
L’etica insegna che ci si avvicina a questa vita solo quando si
stabilisce una certa armonia tra l’individuo e coloro che lo
circondano. E aggiunge: «Guardate la natura, studiate il passato
dell’uomo, vi troverete la verità». Quando l’uomo, per una ragione
qualsiasi, esita non sapendo come agire in un caso determinato,
l’etica gli viene in aiuto mostrandogli come lui stesso vorrebbe
che gli altri agissero nei suoi riguardi nelle stesse circostanze.
Anche in questo caso, l’etica non indica alcuna linea di condotta
in modo rigido, perché l’uomo deve misurare da sé il valore dei
diversi argomenti. A chi è incapace di sopportare uno scacco, è
inutile consigliare il rischio. Allo stesso modo è inutile
predicare a un giovane pieno di energia la prudenza dell’età
matura. Egli ribatterà con le parole profondamente giuste con le
quali Egmont si rivolge al vecchio conte Oliver nel dramma di
Goethe, ed avrà ragione: «Come se fossero posseduti da spiriti
invisibili, i corsieri luminosi del tempo trasportano il leggero
veicolo del nostro destino; non ci resta che tenere
coraggiosamente le redini e guidare il carro, a sinistra, per
evitare una pietra, a destra, per evitare una frana. Dove siamo
condotti? Non si sa. Noi sappiamo soltanto da dove veniamo». [...]
Ma lo scopo principale dell’etica non è quello di dare consigli
individuali. Essa tende piuttosto a prospettare all’insieme degli
uomini un fine supremo, un ideale che li guidi e li inciti ad
agire istintivamente nella direzione voluta, meglio di qualsiasi
consiglio. Proprio come lo scopo dell’educazione è di abituare a
effettuare quasi inconsciamente una moltitudine di ragionamenti
appropriati, così lo scopo dell’etica è di creare un’atmosfera
sociale in grado di far comprendere alla maggioranza degli uomini,
in modo assolutamente abitudinario, cioè senza esitazioni, gli
atti che conducono al benessere di tutti e al massimo di felicità
per ciascuno.
È questo lo scopo finale dell’etica. Per raggiungerlo, dobbiamo
sbarazzare le teorie etiche dalle contraddizioni interne.
Così, ad esempio, la morale che predica la «benevolenza» per
misericordia e per pietà, porta in sé una mortale contraddizione.
Essa comincia con il proclamare la necessità della giustizia per
tutti, cioè l’uguaglianza o una fratellanza perfetta, che poi è la
stessa cosa dell’uguaglianza, o almeno un’uguaglianza di diritto.
Successivamente si affretta ad aggiungere che è inutile perseguire
questo scopo: l’uguaglianza è irrealizzabile... Quanto alla
fratellanza, che poi è la base di tutte le religioni, non bisogna
prenderla alla lettera: è solo una parola poetica usata da
predicatori entusiasti. «La disuguaglianza è una legge di natura»,
affermano i predicatori religiosi che, in questo caso, evocano la
natura. Ma noi consigliamo di domandare delle lezioni alla natura
piuttosto che alla religione, la quale ha preteso di sottomettere
la natura. Ma diventando troppo evidente la disuguaglianza tra gli
uomini, continuando le ricchezze a essere accaparrate da una
piccola minoranza delimitata, la maggioranza degli uomini è
ridotta a vivere nella più grave miseria. Essere in favore del
povero è allora un vero e proprio dovere sacro, purché ciò non
intacchi la propria situazione privilegiata. Una morale simile può
certamente mantenersi per qualche tempo, o anche per parecchio
tempo se viene sostenuta dalla religione così come l’interpreta la
Chiesa imperante. Ma dal momento in cui l’uomo applica alla
religione il suo spirito critico e cerca di stabilire dei
convincimenti concreti per mezzo della ragione, e non per mezzo
della fede e dell’obbedienza evangelica, questa contraddizione
interna non può reggere a lungo: egli cercherà di separarsene, e
prima lo fa meglio è; la contraddizione interna è la morte
dell’etica, un verme che rode e distrugge tutta l’energia di un
uomo.
La moderna teoria della morale è basata su una condizione
fondamentale: essa non deve intralciare l’attività spontanea
dell’individuo, neanche per uno scopo elevato quale potrebbe
essere il bene della società o della specie. Wundt, nella sua
eccellente esposizione delle dottrine etiche, fa osservare che
dopo «il secolo dei lumi», alla metà del XVIII secolo, quasi tutti
i sistemi morali sono diventati individualistici. Ma questo punto
di vista è vero solo in parte, in quanto i diritti dell’individuo
sono stati difesi con grande energia solo in campo economico. E
anche qui la libertà individuale è stata, in pratica come in
teoria, più apparente che reale. Quanto agli altri settori –
politico, intellettuale, artistico – si può dire che man mano che
l’individualismo economico si è affermato con maggiore energia,
l’assoggettamento dell’individuo all’organizzazione militare dello
Stato e al suo sistema di istruzione, per non parlare della
disciplina intellettuale necessaria a mantenere le istituzioni
esistenti, è costantemente aumentato. Anche la maggior parte dei
riformatori sociali di tendenze estremiste ammettono ora, come
premessa necessaria delle loro previsioni future, una maggiore
ingerenza dello Stato nel raggio di azione dell’individuo.
Questa tendenza non ha mancato di sollevare proteste, formulate
da Godwin agli inizi del XIX secolo e da Spencer nella seconda
metà dello stesso secolo; essa ha portato Nietzsche ad affermare
che è meglio rifiutare la morale, se non le si può trovare altra
base che il sacrificio dell’individuo a favore del genere umano.
Questa critica delle dottrine morali correnti costituisce una
delle caratteristiche intellettuali della nostra epoca, tanto più
che il suo movente principale non è tanto un’aspirazione
all’indipendenza economica (come è avvenuto nel XVIII secolo per
tutti i difensori dei diritti dell’individuo, Godwin escluso),
quanto invece il desiderio appassionato di indipendenza
individuale in vista della creazione di un nuovo e migliore ordine
sociale, dove il benessere di tutti diventerà la base per il
completo sviluppo dell’individuo.
Uno sviluppo insufficiente dell’individuo conduce invece a una
mentalità gregaria, caratterizzata da mancanza di iniziativa e di
forza creatrice personale. Ciò costituisce uno dei difetti
peculiari del nostro tempo. L’individualismo economico non ha
rispettato le sue promesse: non ha condotto al rigoglioso
sbocciare della personalità... D’altro canto, nel settore sociale
l’opera creatrice si è manifestata con estrema lentezza e
l’imitazione resta il grande sistema di diffusione delle
innovazioni fatte dal progresso. Le nazioni moderne ripetono la
storia delle popolazioni barbare e delle città medievali, che
copiavano le une dalle altre i loro movimenti politici, religiosi
ed economici, e le loro «carte della libertà». Nazioni intere
hanno di recente assimilato con sorprendente rapidità la civiltà
industriale e militare europea, e queste riedizioni – non ancora
riordinate – di antichi modelli mostrano in modo chiarissimo la
superficialità di ciò che chiamiamo cultura e come tutto si basi
su semplici modelli imitativi.
È ora naturale porsi questa domanda: le dottrine morali
attualmente diffuse non hanno contribuito a questa subordinazione
imitativa? Non si sono date troppo da fare a costruire un uomo che
sia «automa di idee», nel senso indicato da Herbart, un essere
immerso nella contemplazione e che cova dentro tutte le tempeste
delle passioni? Non è giunto il momento di difendere i diritti
dell’uomo pieno di energia, capace di amare con forza ciò che è
degno di amore e di odiare ciò che merita l’odio, sempre pronto a
combattere per l’ideale che esalta il suo amore e giustifica le
sue antipatie? I filosofi del mondo antico proposero una
particolare interpretazione della «virtù», diffusa anche oggi, nel
senso di una «saggezza» che incoraggia l’uomo a «sviluppare la
bellezza del suo animo» piuttosto che a lottare contro i mali del
suo tempo a fianco dei suoi «simili». Più tardi si chiamò virtù la
«non resistenza al male», e per lunghi secoli la «salute
dell’anima», unita alla rassegnazione e all’attitudine passiva
verso il male, ha costituito l’essenza dell’etica cristiana. Ne
sono scaturiti una serie di sottili argomenti in favore
dell’«individualismo virtuoso» e l’apologia di una indifferenza
monastica verso i mali della società. Fortunatamente, comincia a
farsi sentire una reazione contro questo tipo di virtù egoista. E
una domanda si fa avanti: l’attitudine passiva a contatto del male
non è una vigliaccheria criminale? Non aveva ragione lo
Zend-Avesta quando affermava che la lotta attiva contro Ahriman è
la condizione prima della virtù? Il progresso morale è necessario,
ma è impossibile senza il coraggio morale.
Nel groviglio dei problemi posti dalla dottrina morale, questi
sono quelli che abbiamo potuto discernere nell’attuale conflitto
di idee. Tutti portano a una conclusione fondamentale: la
richiesta di un nuovo modo di intendere la morale, in particolare
i suoi princìpi essenziali che devono essere assai flessibili per
dare nuova vita alla nostra civiltà; e ancora, la richiesta di
liberarla dalle sopravvivenze extranaturali e trascendentali, come
pure dalle ristrette idee dell’utilitarismo borghese.
Gli elementi per questa nuova visione della morale esistono già.
L’importanza della socialità e del mutuo appoggio nell’evoluzione
animale e nella storia dell’umanità può, mi sembra, essere ammessa
come una verità scientifica stabilita, e non più ipotetica.
Possiamo inoltre considerare come provato il fatto che man mano
che il mutuo appoggio diventa, nella società, un costume
consolidato, realizzato per così dire istintivamente, questa
pratica conduce allo sviluppo del sentimento di giustizia, con il
suo senso di uguaglianza o equità come corollario obbligato, e
all’attitudine a contenere i propri impulsi nel nome di questa
uguaglianza. L’idea che i diritti individuali sono inviolabili,
allo stesso modo dei diritti naturali di tutti gli altri, si
sviluppa man mano che scompaiono le distinzioni di classe. Questa
idea diventa una nozione corrente quando una corrispondente
trasformazione si fa sentire nelle istituzioni sociali.
Un certo grado di identificazione degli interessi propri
dell’individuo con quelli del suo gruppo ha dovuto necessariamente
esistere agli inizi della vita sociale; esso si manifesta anche
presso gli animali inferiori. Ma con il radicarsi dei rapporti di
uguaglianza e di giustizia nelle società umane, si è preparato il
terreno per lo sviluppo e l’estensione ulteriori di questi
rapporti. Grazie a questi l’uomo si è abituato a capire e a
rilevare le ripercussioni dei suoi atti sull’intera società,
incominciando a trattenersi dal danneggiare gli altri, anche nel
caso di dover rinunciare a soddisfare un proprio desiderio; egli
arriva ora a identificare i suoi sentimenti con quelli degli
altri, che si dimostrano pronti a donargli le proprie forze senza
attendere nulla in cambio. Questo genere di sentimenti e di
abitudini non egoiste, che si designano ordinariamente con i nomi
assai inesatti di altruismo e abnegazione, merita a parer mio solo
il nome di morale, benché la maggior parte dei pensatori continui
a confonderlo ancor oggi con il semplice senso di giustizia.
Il mutuo appoggio, la giustizia, la morale, sono i gradi
ascendenti degli stati psichici che si sono resi evidenti grazie
allo studio del mondo animale e dell’uomo. Essi sono una necessità
organica, che ha in sé una propria giustificazione e che conferma
tutta l’evoluzione del mondo animale, dai primi scalini (sotto
forma di colonie di molluschi) su per la successiva scala
evolutiva fino alle più perfezionate società umane. Possiamo dire
che in questo vi è una legge generale e universale dell’evoluzione
organica, che agisce in modo che il mutuo appoggio, la giustizia e
la morale siano profondamente radicati nell’uomo con tutta la
potenza degli istinti innati. Il primo dei tre, l’istinto del
mutuo appoggio, è evidentemente il più forte; il terzo, il più
tardo ad apparire, è un sentimento incostante e considerato quello
meno obbligante. [...]
Questa è la solida base che la scienza può fornirci per
l’elaborazione e la giustificazione di un nuovo sistema etico.
Invece di proclamare il «fallimento della scienza», dobbiamo
quindi esaminare come sia possibile edificare un’etica scientifica
con gli elementi acquisiti a questo scopo dalle ricerche moderne
fondate sulla teoria dell’evoluzione. […]
La nozione di «giustizia», che ha avuto agli inizi lo stesso
significato di vendetta, si riallaccia direttamente
all’osservazione degli animali. È assai probabile però che la
stessa idea di ricompensa e castigo (giusto e ingiusto) nei
confronti degli animali, sia nata nell’uomo primitivo dalla
considerazione che gli animali si vendicano dell’uomo che non li
tratta come occorre. Questo pensiero è così profondamente radicato
nello spirito dei selvaggi del mondo intero che lo si deve
considerare come una delle nozioni fondamentali dell’umanità. A
poco a poco questa nozione si è espansa ed è diventata l’idea del
Gran Tutto, in cui tutte le parti si riuniscono in base a princìpi
di mutuo appoggio. Questo Gran Tutto sorveglia gli atti di tutti
gli esseri viventi e, in ragione di questa reciprocità, ha il
compito di punire le azioni malvagie.
Da questa nozione è nata l’idea delle Erinni e delle Moire presso
i Greci, delle Parche presso i Romani, di Karma presso gli Indù.
La leggenda greca delle gru di Ibycus, che lega il mondo degli
uomini a quello degli uccelli, e le innumerevoli leggende
orientali sono l’espressione poetica di questa stessa idea. Più
tardi esse si sono estese ai fenomeni celesti: nei libri sacri più
antichi dell’India, i «Veda», le nuvole sono, ad esempio, esseri
viventi analoghi agli animali.
Ecco ciò che l’uomo primitivo ha visto nella natura, ecco gli
insegnamenti che ne ha ricevuto. Sotto l’influenza del nostro
insegnamento scolastico, che ignora sistematicamente la natura ed
estrinseca gli atti più normali dell’esistenza facendo ricorso
alla superstizione o alle astrusità metafisiche, noi abbiamo
cominciato a dimenticare queste grandi lezioni. Ma per i nostri
antenati dell’età della pietra, la socialità e il mutuo appoggio
all’interno della tribù dovevano essere fatti del tutto abituali e
generali in quanto non poteva esserci per loro altra
rappresentazione della vita.
L’idea dell’uomo come essere isolato è un frutto della civiltà
più avanzata, un prodotto delle leggende create in Oriente tra
uomini che rifuggivano la società. Lunghi secoli sono stati
sprecati per diffondere nell’umanità questa idea astratta. Agli
occhi degli uomini primitivi l’esistenza di un essere isolato
appariva così estranea, così rara e contraria alla natura degli
esseri viventi, che quando vedevano la tigre, il tasso o il
toporagno condurre una vita isolata, oppure un albero crescere
solo fuori dalla foresta, restavano tanto colpiti da affidare le
loro impressioni alla leggenda per spiegare un fenomeno talmente
strano. Non si sono mai create leggende per spiegare la vita in
società, ma sempre per spiegare un esempio di vita isolata.
Spesso, se l’eremita non era un saggio che si ritirava
temporaneamente dal mondo, per meglio meditare sui suoi destini, e
non era neppure uno stregone, era allora un bandito cacciato dal
suo gruppo per qualche grave violazione dei costumi stabiliti
dalla vita comunitaria. Esso aveva compiuto un atto talmente in
contrasto con il modo di esistenza abituale che la società lo
aveva espulso. Frequentemente si trattava di uno stregone cui si
attribuivano poteri sulle forze del male e in rapporto con i
cadaveri, fonti di infezione. Per questo si aggirava solo nella
notte perseguendo nell’oscurità i suoi disegni malvagi.
Tutti gli altri esseri vivono in società ed è con questo
orientamento che lavora lo spirito dell’uomo: la vita sociale,
cioè noi e non io, ecco il modo di esistenza naturale. Si tratta
della vita stessa in azione. Per questo «noi» deve essere stata la
forma di pensiero comune dell’uomo primitivo, una «categoria» del
suo spirito, come direbbe Kant.
Con questa identificazione, o meglio con questa dissoluzione
dell’«io» nella tribù e nella popolazione, vengono gettati i
rudimenti di tutto il pensiero etico, di tutte le nozioni morali.
L’affermazione dell’individualità è venuta molto più tardi. Ancora
adesso, la personalità, l’«individuo», quasi non esistono nella
mentalità dei selvaggi primitivi. Il primo posto appartiene nel
loro spirito al clan, con i suoi costumi ben definiti, i suoi
pregiudizi, le sue credenze, le sue difese, le sue abitudini, i
suoi interessi.
È in questa identificazione costante dell’umanità con il tutto
che si rinviene l’origine dell’etica; per conseguenza è da essa
che sono nate le idee di giustizia e le idee ancora più elevate di
morale. [...]
La natura è stata quindi la prima ad insegnare all’uomo la
morale. Non quel genere di natura che descrivono i filosofi nel
chiuso dei loro studi, o i naturalisti che non la studiano se non
attraverso gli esemplari senza vita dei musei; ma la natura di cui
si sono occupati i grandi iniziatori della zoologia descrittiva
studiandola sul continente americano (con una popolazione
all’epoca ancora ridotta), in Africa e in Asia, cioè studiosi come
Audubon, Asara, Wied, Brehm e altri. Ci riferiamo, pertanto, a
quella natura cui pensava Darwin quando ha scritto, ne L’origine
dell’uomo, una breve esposizione dell’origine del senso morale
nell’individuo.
È fuor di dubbio che l’istinto di socialità ereditato dall’uomo,
e pertanto profondamente radicato in lui, ha dovuto via via
svilupparsi e fortificarsi a seguito anche dell’aspra lotta per
l’esistenza. […]
I primi elementi di questa morale si trovano, come si è detto,
nel sentimento di socialità. L’istinto gregario, il bisogno di
aiuto reciproco, esistono presso tutti gli animali e si sono
sviluppati in seguito nelle società umane primitive. D’allora in
poi diventa naturale che l’uomo, grazie all’esistenza del
linguaggio che sviluppa la memoria e crea la tradizione,
stabilisca regole di vita molto più complesse di quelle esistenti
presso gli animali. Successivamente, con la nascita della
religione, anche nelle sue forme più grossolane, un nuovo elemento
viene introdotto nell’etica umana, elemento che contribuisce a
darle una certa stabilità e, più tardi, un certo spirito e un
certo idealismo.
Con l’evolversi della vita sociale, la nozione di equità nelle
relazioni reciproche viene a prendere un posto via via più grande.
I primi rudimenti della giustizia, sotto forma di parità di
trattamento, si osservano già presso gli animali, in particolare i
mammiferi. Infatti la madre allatta diversi piccoli senza
discriminazioni, mentre nei giochi si hanno delle regole stabilite
e obbligatorie per tutti indistintamente. Ma il passaggio
dall’istinto di socialità, cioè dalla semplice attrazione, dal
semplice bisogno di vivere in mezzo ai propri simili, alla
concezione della necessità della giustizia nei rapporti reciproci
si effettua nell’uomo, nell’interesse stesso della vita sociale.
In ogni società infatti i desideri e le passioni di un individuo
urtano contro i desideri e le passioni degli altri individui anche
loro membri della società. Questi conflitti condurrebbero
fatalmente a continue discordie e alla disgregazione finale della
società senza la nozione, elaborata al contempo tra gli uomini
(così come era già stata elaborata tra taluni animali), di
uguaglianza tra tutti i membri della società. Questa nozione fa
nascere, a poco a poco, quella di equità, che esprime, come dice
la stessa parola (aequitas), un’idea di uguaglianza. È per questo
che gli antichi rappresentavano la giustizia sotto l’aspetto di
una donna con gli occhi bendati e una bilancia in mano. [...]
È certo che in tutte le società, a qualsiasi grado di evoluzione
si trovino, vi sono sempre stati e sempre vi saranno individui che
vogliono approfittare della loro forza, della loro abilità, del
loro acume o del loro coraggio per sottomettere le volontà altrui;
e alcuni raggiungono lo scopo. Se ne trovano certamente anche
presso i popoli primitivi, come presso tutti i popoli e tutte le
razze, a tutti i livelli di civiltà. Ma, a tutti i livelli,
vediamo anche che, per controbilanciare le loro azioni, compaiono
dei costumi diretti a impedire l’espandersi dell’individuo a spese
della società. Tutte le istituzioni che l’umanità ha elaborato
nelle diverse epoche – il clan, la comunità rurale, la città, le
repubbliche con le loro assemblee popolari, l’autonomia delle
parrocchie e delle province, il governo rappresentativo ecc. –
tutte avevano lo scopo di proteggere la società contro la volontà
individuale di questi uomini e contro la nascita del loro potere.
[…]
Tutta la storia dell’umanità può essere considerata, in
definitiva, come la manifestazione di due tendenze: da una parte,
la tendenza degli individui o dei gruppi a impadronirsi del potere
per sottomettere le grandi masse al loro dominio; dall’altra, la
tendenza a mantenere l’uguaglianza (almeno tra le persone di sesso
maschile) e a resistere a questa conquista del potere, o almeno a
limitarla, cioè a mantenere la giustizia all’interno del clan,
della tribù o della federazione dei clan.
Quest’ultima tendenza si manifesta in maniera nettissima anche in
seno alle città libere del Medio evo, soprattutto durante i secoli
successivi all’emancipazione dai signori feudali. Le città libere
erano in ultima analisi delle unioni difensive di cittadini che si
mettevano insieme per lottare contro i feudatari vicini. Ma ben
presto la popolazione di queste città si divise in strati.
Inizialmente, il commercio era praticato dalla città intera, e
infatti i prodotti delle industrie urbane e le merci acquistate
nelle campagne erano esportate dalla città stessa, tramite alcuni
mandatari, e il profitto restava alla città nel suo complesso. A
poco a poco, però, da sociale il commercio divenne privato,
arricchendo non solo le città ma in particolare i liberi mercanti
(mercatori libri) che, soprattutto dopo le Crociate, intrapresero
un attivo commercio con l’Oriente. Successivamente nacque la
classe dei banchieri alla quale si rivolgevano, in caso di
bisogno, non solo i nobili cavalieri decaduti ma, via via, le
stesse città.
È così che all’interno delle città, un tempo libere, si era
andata costituendo una classe aristocratica di mercanti che le
dominava e che dava il suo sostegno al papa o all’imperatore,
nell’intento di avere dalla loro questa o quella città, oppure a
un re o a un principe che, interessato alla conquista di una
città, si appoggiava ai ricchi mercanti oltre che alla popolazione
più povera. Gli Stati centralizzati moderni si sono formati in
questo modo. […] L’assoggettamento delle piccole unità alle più
forti e la concentrazione del potere vennero poi completati con la
formazione dei grandi Stati politici.
Naturalmente una tale trasformazione, fondamentale per la vita
pubblica come per le rivolte religiose o le guerre, non mancò di
imprimere il suo modello all’insieme delle idee morali di ogni
Paese e di ogni epoca. Un giorno sarà fatto uno studio
dell’evoluzione morale in rapporto alle modificazioni della vita
sociale. Per adesso questo campo viene lasciato dalla scienza
delle idee e delle dottrine morali (l’etica) a un’altra scienza
(la sociologia), che è la scienza della vita e dell’evoluzione
delle società. Per evitare di oscillare tra questi due campi è
bene, per il nostro lavoro, limitarci a quello di stretta
competenza dell’etica.
Presso tutti gli uomini, per quanto rudimentale sia il loro grado
di sviluppo, come presso certi animali sociali, constatiamo – come
abbiamo fatto personalmente – certi tratti che attengono alla
morale. In tutti i gradi dell’evoluzione umana troviamo la
socialità e il sentimento comunitario. Alcuni uomini si mostrano
più pronti ad aiutare gli altri, qualche volta anche a rischio
della loro stessa vita. Queste qualità contribuiscono a mantenere
e sviluppare la vita sociale che, a sua volta, assicura a tutti la
vita stessa e il benessere. Esse vengono man mano considerate,
anche nelle epoche più remote, non solo qualità desiderabili ma
necessarie. I vecchi saggi, gli stregoni dei popoli primitivi e,
più tardi, i preti raffigurano questi tratti della natura umana
come effetti di ordini venuti dall’alto, emanati da forze
misteriose, che siano dei o un creatore unico. Ma fin dai tempi
più remoti, in particolare dopo l’epoca della fioritura delle
scienze in Grecia, cioè da più di 2500 anni, alcuni pensatori si
sono posti il problema dell’origine naturale di quei sentimenti e
di quelle idee morali che impediscono agli uomini di compiere in
generale atti nocivi per i loro simili o per i legami societari.
Essi hanno cercato, in altri termini, una spiegazione naturale a
ciò che si chiama morale dell’uomo e a ciò che in tutte le società
è indiscutibilmente considerato come desiderabile.
Tentativi di questo genere sembra siano stati fatti anche in
epoche molto remote, e infatti se ne trovano tracce anche in Cina
e in India. Ma solo quelli della Grecia antica sono arrivati fino
a noi in forma scientifica. In Grecia, per quasi quattro secoli,
tutta una serie di pensatori – Socrate, Platone, Aristotele,
Epicuro e, più tardi, gli stoici – hanno esaminato seriamente, da
un punto di vista filosofico, le fondamentali questioni che
seguono:
• da dove provengono nell’uomo le regole morali in grado di
contrastare le sue passioni e spesso di frenarle?
• da dove deriva il sentimento obbligante della morale, sentimento
che si manifesta anche presso uomini che negano le regole morali
esistenziali?
• si tratta forse del frutto della nostra educazione, di cui
saremmo incapaci di sbarazzarci, come affermano attualmente alcuni
pensatori e come hanno già affermato in passato alcuni negatori
della morale?
• oppure la coscienza dell’uomo è frutto della natura stessa? E in
questo caso, non si è radicata nel corso della sua vita in società
durante migliaia e migliaia di anni?
• e se è così, bisogna allora sviluppare questa coscienza, oppure
sarebbe meglio distruggerla e incoraggiare il sentimento opposto,
l’egoismo, secondo cui l’ideale dell’uomo di cultura è negare ogni
morale?
Dopo più di duemila anni i pensatori lavorano ancora su questi
problemi, inclinando periodicamente ora verso l’una ora verso
l’altra delle soluzioni prospettate.
Dai loro lavori è nata una scienza: l’etica.
In Campi, fabbriche, officine non è delineato soltanto il
concetto di piccola comunità, ma anche quello di integrazione
fra città e campagna quale risoluzione sintetica del trinomio
uomo-natura-ambiente. Per Kropotkin un piano della libertà e
dell’uguaglianza deve esplicarsi attraverso due aspetti
complementari: l’integrazione in ogni individuo del lavoro
manuale con quello intellettuale, l’integrazione
geografico-sociale della città con la campagna. I due aspetti
sono complementari perché mirano al superamento di due forme
dello stesso fenomeno del dominio, così com’è concepito dal più
classico schema anarchico, vale a dire quale rapporto che va
dall’alto al basso, dal centro alla periferia, dal punto più
alto della piramide alla linea più bassa della base.
In questo senso diventa logico modellare le istituzioni umane
sui ritmi naturali della crescita sociale, immettendo nella
creazione culturale delle forme continuamente adattabili e
funzionali al senso spontaneo dello sviluppo collettivo. La rete
di questa comunità si compone di un’infinita varietà di
associazioni federate di tutte le dimensioni e gradi, locali,
regionali, nazionali e internazionali – temporanee o permanenti
– per tutti gli scopi possibili. Come nella vita organica,
l’armonia risulta dall’assestamento e riassestamento,
dall’equilibrio continuo di forze e di influenze diverse secondo
una radicale insorgenza dal basso, una irreversibile immanenza
del sociale che deve rendere impossibile ogni costruzione
politica imposta dall’alto.
In altri termini, i problemi della convivenza non vanno
risolti attraverso mega-strutture, ma riformulando completamente
le domande di una socialità integrata e controllabile,
interrogando questa rispetto ai bisogni effettivi della comunità
che si trova a vivere in un determinato contesto fisico, sotto
un determinato clima e perciò carica di un determinato passato.
Scrive Lewis Mumford in La città nella storia: «Con quasi mezzo
secolo di anticipo sul pensiero tecnico ed economico
contemporaneo, Kropotkin aveva intuito che la duttilità e
l’adattabilità delle comunicazioni e dell’energia elettrica,
unite alla possibilità di un’agricoltura intensiva e
biodinamica, avevano posto le basi di un’evoluzione urbana più
decentrata da svolgersi attraverso piccole comunità basate sul
contatto umano diretto e provviste dei vantaggi della città
oltre che di quelli della campagna. Kropotkin si rese conto che
i nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione, uniti alla
possibilità di trasmettere l’energia elettrica attraverso una
rete e non mediante una linea unidimensionale, mettevano le
piccole comunità sullo stesso piano della supercongestionata
metropoli per quanto concerneva la possibilità delle
attrezzature tecniche essenziali. [...] Prendendo come base la
piccola comunità, egli colse l’opportunità di una vita locale
più responsabile e più sensibile, che lasciasse maggior campo
d’azione a quegli aspetti umani trascurati e frustrati
dall’organizzazione di massa».
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione italiana di Campi, fabbriche, officine del 19822 , nella traduzione (rivista) di Franco Marano.
Le due attività sorelle dell’agricoltura e dell’industria non
sono sempre state così estranee l’una all’altra come lo sono oggi.
C’è stato un tempo, e quel tempo non è molto lontano, in cui
entrambe erano intimamente legate: i villaggi ospitavano allora
una molteplicità di officine e gli artigiani delle città non
abbandonavano l’agricoltura; molte città non erano altro che
villaggi industriali. Se la città medievale ha costituito la culla
di quelle industrie che confinavano con l’arte e che avevano lo
scopo di soddisfare i bisogni delle classi più agiate, era pur
sempre la produzione rurale a soddisfare i bisogni delle masse,
come avviene attualmente in Russia e in buona parte anche in
Germania e in Francia. Ma più tardi, con l’avvento delle turbine,
del vapore, con lo sviluppo della meccanica, i legami che una
volta vincolavano la fattoria all’officina si sono spezzati. Le
fabbriche sono cresciute e i campi sono stati abbandonati. Ci si è
andati aggregando lì dove la vendita dei prodotti risultava più
facile, o dove le materie prime e il combustibile potevano essere
ottenuti a miglior prezzo. Nuove città sono state costruite e le
vecchie si sono rapidamente estese, mentre i campi venivano
progressivamente disertati. Milioni di contadini, strappati a viva
forza dai campi, si sono raccolti nelle città in cerca di lavoro,
dimenticando ben presto i vincoli che una volta li univano alla
terra. E noi, nella nostra ammirazione per i prodigi compiuti
dalla nuova organizzazione industriale abbiamo trascurato i
vantaggi della vecchia, in cui chi dissodava il suolo era al tempo
stesso un lavoratore industriale. Abbiamo così condannato alla
sparizione tutti quei settori dell’industria che un tempo solevano
prosperare nei villaggi, condannando a sua volta nell’industria
tutto ciò che non somigliava alla grande fabbrica.
È vero, i risultati sono stati straordinari per quanto riguarda
l’aumento delle capacità produttive dell’uomo Ma si sono rivelati
terribili per milioni di esseri umani, precipitati nella miseria,
che nelle nostre città hanno potuto contare su mezzi di
sussistenza precari. Inoltre, nel suo complesso, la nuova
organizzazione ha provocato le stesse condizioni anomale che ho
cercato di tratteggiare nei primi due capitoli. Siamo stati
cacciati, così, in un vicolo cieco, e mentre si va delineando
l’imperiosa necessità di un cambiamento totale degli attuali
rapporti tra lavoro e capitale, si è reso anche inevitabile un
completo rimodellamento di tutta la nostra organizzazione
industriale: i Paesi industriali devono tornare all’agricoltura,
devono trovare i mezzi più opportuni per combinarla con
l’industria, e devono farlo senza perdere tempo.
Interrogarci, in specifico, sulla possibilità di una tale
combinazione è lo scopo delle pagine che seguono. È possibile da
un punto di vista tecnico? È auspicabile? Esistono, nell’attuale
realtà industriale, caratteri tali da garantirci che un
cambiamento nella direzione accennata potrebbe trovare gli
elementi necessari alla sua realizzazione? Sono queste le domande
che ci si pongono. E per rispondere non c’è, ritengo, altro mezzo
che studiare quell’immenso ma trascurato e sottovalutato settore
industriale che va sotto il nome di officine rurali, lavorazioni a
domicilio e artigianato, e studiarlo non nelle opere degli
economisti, troppo inclini a considerarlo come una forma superata
d’industria, ma nella loro stessa esistenza, nelle loro lotte, nei
loro fallimenti e nelle loro conquiste.
Chi non ne ha fatto l’oggetto di uno studio specifico
difficilmente si rende conto della molteplicità di forme
organizzative riscontrabile nelle piccole industrie. Esistono,
innanzi tutto, due grandi categorie: le industrie attive nei
villaggi in connessione con l’agricoltura e quelle attive nelle
città o nei villaggi senza alcuna connessione con la terra, nelle
quali i lavoratori traggono appunto i propri guadagni
esclusivamente dall’attività industriale.
In Russia, in Francia, in Germania, in Austria, ecc., milioni e
milioni di lavoratori rientrano nella prima categoria. Possiedono
e lavorano la terra, allevano una o due vacche, molto spesso dei
cavalli, e coltivano i campi, o i frutteti, o gli orti,
considerando il lavoro industriale come un’occupazione secondaria.
Soprattutto in quelle regioni in cui l’inverno dura a lungo e non
è assolutamente possibile lavorare la terra per parecchi mesi
l’anno, questa forma di piccola industria è largamente diffusa. In
Inghilterra, al contrario, ci imbattiamo nell’estremo opposto.
Sono poche infatti in questo Paese le piccole industrie
sopravvissute in connessione con l’agricoltura; e tuttavia
centinaia di botteghe e piccole officine si rintracciano nei
sobborghi e nei bassifondi delle grandi città come Sheffield e
Birmingham, dove grandi masse di popolazione si procacciano da
vivere con una molteplicità di attività artigianali. Tra questi
due estremi abbiamo evidentemente una gran varietà di forme
intermedie, a seconda dei legami più o meno stretti che continuano
a sussistere con la terra. Vi sono dunque grossi paesi e persino
città popolate da lavoratori occupati in piccole industrie, anche
se la maggior parte di loro coltiva un orticello, un frutteto o un
campo, oppure si avvale semplicemente di un qualche diritto sui
pascoli comuni, a differenza di quelli che vivono esclusivamente
dei propri redditi industriali.
Quanto alla commercializzazione dei prodotti, le piccole
industrie offrono la stessa varietà di organizzazione. E anche qui
abbiamo due grandi settori. Nel primo il lavoratore vende il
proprio prodotto direttamente al grossista; è il caso degli
ebanisti, dei tessitori e dei fabbricanti di giocattoli.
Nell’altra grande categoria il lavoratore produce per un
«padrone», e questi vende il prodotto a un grossista o agisce
semplicemente da intermediario raccogliendo a sua volta le
commissioni da qualche grossa azienda. È questa «l’organizzazione
del sudore» propriamente detta, in cui troviamo una miriade di
piccole industrie. È il caso di parte dei fabbricanti di
giocattoli, dei sarti che lavorano per grandi ditte di confezioni,
molto spesso per quelle di Stato, delle donne che cuciono e
abbelliscono i gambali per i calzaturifici, e che spesso trattano
con la fabbrica come con un intermediario del «sudore», ecc. In
tale organizzazione per la commercializzazione dei prodotti si
riscontrano ovviamente tutte le gradazioni possibili di
feudalizzazione e sottofeudalizzazione del lavoro.
E ancora, quando si considerano gli aspetti industriali o,
piuttosto, tecnici delle piccole industrie, si scopre ben presto
la stessa varietà di caratteri. Anche qui abbiamo due grandi
settori: da una parte le lavorazioni a domicilio – vale a dire
quelle esercitate in casa dal lavoratore, con l’aiuto della
famiglia o di un paio di salariati – e quelle esercitate in
officine distaccate. In entrambi i settori, ci si imbatte in tutte
le varietà appena menzionate per quanto riguarda la connessione
con la terra e con i diversi modi di disporre del prodotto. Tutte
le attività possibili – la tessitura, la lavorazione del legno,
del metallo, dell’osso, della gomma, ecc. – possiamo ritrovarle
sotto la categoria delle lavorazioni a domicilio, con tutte le
possibili gradazioni tra la forma prettamente «domestica» di
produzione, l’officina e la fabbrica.
Così, accanto alle attività industriali esercitate interamente in
casa da uno o più membri della famiglia, vi sono le attività
industriali in cui il proprietario tiene una piccola officina
annessa alla casa e vi lavora con tutta la famiglia o con pochi
«aiutanti», e cioè dei salariati. In alcuni casi l’artigiano
dispone invece di un’officina a parte, dotata di energia
idraulica, come nel caso dei fabbricanti di coltelli di Sheffield.
In altri, diversi lavoratori si mettono insieme in una piccola
fabbrica di loro proprietà, o affittata in associazione, o dove
possono lavorare per un certo affitto settimanale. E in ognuno di
questi casi possono lavorare direttamente per il commerciante, o
per un piccolo padrone, o per un intermediario.
Uno stadio ulteriore di questo sistema è la grande fabbrica,
specialmente di abiti già confezionati, in cui centinaia di donne
pagano un tanto per la macchina da cucire, il gas, i ferri a gas,
ecc., e a loro volta ricevono un tanto per ogni capo di
abbigliamento che cuciono o per ogni parte di esso. Immense
fabbriche del genere esistono in Inghilterra, e si è appreso dalle
testimonianze rese davanti alla «Commissione del sudore», che in
tali laboratori le donne vengono terribilmente sfruttate, al punto
che il prezzo completo di ogni capo di vestiario leggermente
rovinato viene dedotto dai loro bassissimi salari a cottimo.
E, infine, c’è la piccola officina (spesso con presa d’energia
motrice a nolo) in cui il piccolo imprenditore impiega da 3 a 10
lavoranti salariati, vendendo il prodotto a un commerciante o a un
imprenditore più grosso: con tutte le possibili gradazioni tra
un’officina del genere e la fabbrica di piccole dimensioni, in cui
a volte alcuni salariati (tra i 5 e i 20) vengono impiegati da un
produttore indipendente. Nell’industria tessile, la tessitura
viene spesso fatta dal nucleo familiare o da un piccolo
imprenditore che impiega talvolta solo un ragazzo talvolta diversi
tessitori. Questi, dopo avere avuto il filato da un grosso
imprenditore, paga un operaio specializzato per metterlo sul
telaio e crea quanto occorre per tessere un determinato, e a volte
molto sofisticato, disegno; dopo avere tessuto la stoffa o i
nastri con il suo telaio, o con un telaio preso a nolo, viene
pagato per ogni pezzo di stoffa secondo una scala molto complicata
di compensi pattuiti tra padroni e lavoranti. Quest’ultima forma,
come vedremo tra poco, oggi è largamente diffusa, soprattutto
nelle industrie della lana e della seta, e continua a esistere
accanto alle grandi fabbriche in cui 50, 100 o 5.000 salariati, a
seconda dei casi, lavorano con il macchinario dell’imprenditore e
vengono pagati a salari giornalieri o settimanali.
Le piccole industrie sono dunque un mondo che, in modo abbastanza
sorprendente, continua a esistere anche nei Paesi più
industrializzati, fianco a fianco con le grandi fabbriche. E in
questo mondo dobbiamo ora penetrare per gettarvi un’occhiata: solo
un’occhiata perché occorrerebbero pagine e pagine per descriverne
l’infinita varietà non solo di attività e organizzazione ma anche
di interrelazione con l’agricoltura e con le altre industrie.
La maggior parte delle attività artigianali, fatta eccezione per
alcune di quelle connesse con l’agricoltura, si trovano, dobbiamo
riconoscerlo, in posizione decisamente precaria. I guadagni sono
molto bassi e l’impiego è spesso incerto. La giornata lavorativa è
più lunga di due, tre o quattro ore rispetto a quella delle
fabbriche ben organizzate, e in certe stagioni raggiunge una
durata quasi inverosimile. Le crisi sono frequenti e si
protraggono per anni. Inoltre, il lavoratore è molto più alla
mercé del commerciante o dell’imprenditore, e l’imprenditore è
alla mercé del grossista. Entrambi rischiano di divenire schiavi
di quest’ultimo, indebitandosi con lui. In alcune delle attività
artigianali, soprattutto nella fabbricazione di tessuti comuni, i
lavoratori sopravvivono in condizioni spaventosamente misere.
Ma chi pretende che tale miseria costituisca la regola si sbaglia
del tutto. Chiunque abbia vissuto, ad esempio, tra gli orologiai
della Svizzera e ne conosca intimamente il modo di vivere,
ammetterà che le condizioni di questi lavoratori sono di gran
lunga superiori, sotto ogni riguardo, morale e materiale, alle
condizioni di milioni di operai di fabbrica. Persino durante la
crisi dell’orologeria, che ebbe luogo tra il 1876 e il 1880, le
loro condizioni sono rimaste di gran lunga preferibili alle
condizioni degli operai di fabbrica durante una qualsiasi crisi
dell’industria laniera o cotoniera; e gli stessi lavoratori ne
erano ben coscienti.
Ogni volta che scoppia una crisi in qualche settore artigianale,
non manca chi profetizza che quel mestiere si avvia a scomparire.
Durante la crisi di cui, vivendo tra gli orologiai svizzeri, io
stesso fui testimone nel 1877, l’impossibilità di salvaguardare
questa attività di fronte alla concorrenza degli orologi fatti a
macchina era l’argomento principe della stampa. Le stesse cose
furono dette, nel 1882, a proposito dell’industria serica di
Lione, e di fatto ovunque si sia avuta una crisi dell’artigianato.
E tuttavia, nonostante le tetre profezie e le ancor più tetre
prospettive per i lavoratori, quella forma d’industria non è
ancora scomparsa. E anche quando ne scompare qualche settore,
qualcosa comunque rimane: alcuni rami continuano ad esistere come
piccole industrie (orologeria di precisione, sete più raffinate,
velluti di prima qualità, ecc.), o al posto dei vecchi nascono
nuovi settori a essi connessi, o ancora la piccola industria,
avvantaggiandosi di un motore meccanico, assume una nuova forma.
La scopriamo quindi dotata di straordinaria vitalità. Essa passa
attraverso varie modifiche, si adatta a nuove condizioni, lotta
senza abbandonare la speranza in tempi migliori. In ogni caso, le
sue non sono le caratteristiche di un’istituzione in decadenza. In
alcune attività industriali la fabbrica ha senza dubbio la meglio,
ma vi sono altri settori in cui i laboratori artigianali
mantengono le loro posizioni. E nella stessa industria tessile che
tanti vantaggi presenta per il sistema industriale – specialmente
in conseguenza dell’ampio impiego lavorativo di donne e bambini –
il telaio a mano compete ancora con quello meccanico.
Nel complesso, la trasformazione dell’artigianato in grande
industria procede con una lentezza che non può non sorprendere
anche coloro che sono convinti della sua necessità. Oltretutto, a
volte assistiamo anche al processo inverso: di tanto in tanto,
ovviamente, e solo per un certo periodo. Non dimenticherò mai il
mio stupore quando constatai a Verviers, una trentina di anni fa,
come la maggior parte delle fabbriche di stoffe di lana – immensi
edifici affacciati sulla strada con più di cento finestre l’uno –
fosse immersa nel silenzio e il loro costoso macchinario lasciato
ad arrugginire, mentre le stoffe venivano tessute a mano nelle
case dei tessitori per i proprietari di quelle stesse fabbriche.
Abbiamo qui, naturalmente, solo un fatto occasionale, che si
spiega interamente col carattere spasmodico dell’industria e con
le gravi perdite sostenute dai proprietari delle fabbriche
allorché non sono in grado di farle funzionare tutto l’anno. E
tuttavia questo dimostra gli ostacoli con cui la trasformazione
deve fare i conti. Quanto all’industria serica, essa continua a
diffondersi per l’Europa nella sua forma d’industria rurale,
mentre centinaia di nuove attività artigianali compaiono ogni
anno, e non trovando nessuno che le eserciti nei villaggi – come
avviene in questo Paese – trovano rifugio nei sobborghi delle
grandi città, come abbiamo appena appreso dall’inchiesta sull’
«organizzazione del sudore».
Oggi, i vantaggi offerti dalla grande fabbrica in confronto
all’artigianato si presentano da sé per quanto riguarda l’economia
di lavoro e soprattutto – ed è questo il punto principale – le
possibilità sia di vendita sia di rifornimento delle materie prime
a prezzo inferiore. Come possiamo allora spiegarci la persistenza
dell’artigianato? Molte cause, la maggior parte delle quali non è
possibile valutare in scellini, giocano a favore dell’artigianato,
e queste cause le coglieremo meglio dalle dimostrazioni che
seguono. Devo dire, però, che una panoramica anche breve delle
innumerevoli attività industriali esercitate su piccola scala in
questo Paese e sul continente, sconfinerebbe alquanto dallo scopo
di questo capitolo. Quando ho cominciato a studiare l’argomento,
una trentina di anni fa, non immaginavo neppure, dalla scarsa
attenzione prestatagli dagli economisti ortodossi, quale vasta,
complessa, importante e interessante organizzazione sarebbe
apparsa alla fine di un’indagine più accurata. [...]
Gli artigiani rappresentano, dunque, un importante fattore della
vita industriale nella stessa Gran Bretagna, anche se molti di
loro si sono insediati in città. Ma se troviamo in questo Paese
così poche industrie rurali rispetto al continente, non dobbiamo
immaginare che la loro scomparsa sia dovuta a una più intensa
concorrenza delle fabbriche: la causa principale è stata l’esodo
forzato dai villaggi.
Come tutti sanno dall’opera di Thorold Rogers, la crescita della
struttura industriale in Inghilterra è intimamente connessa con
quell’esodo forzato. Interi settori industriali, che fino ad
allora avevano prosperato, sono stati stroncati dallo spopolamento
forzato delle campagne. Le officine, ancor più delle fabbriche, si
moltiplicano dovunque si trovi manodopera a basso costo, e
l’aspetto specifico di questo Paese è che la manodopera più a buon
mercato – vale a dire la gran massa dei poveri – si trova nelle
grandi città. [...]
In realtà, la diffusione delle officine artigiane a fianco delle
grandi fabbriche non ci deve affatto stupire: essa rappresenta una
necessità economica. L’assorbimento delle piccole officine da
parte delle aziende più grandi è un fatto che aveva già colpito
gli economisti negli anni Quaranta dello scorso secolo,
soprattutto nelle industrie tessili. Questo processo va tuttora
avanti in molti altri settori e interessa soprattutto un certo
numero di aziende molto grandi impegnate nella metallurgia e nelle
forniture militari ai vari Stati. Ma c’è un altro processo che va
avanti parallelamente a questo e che consiste nella creazione
continua di nuove industrie, di solito avviate su piccola scala.
Ogni nuova fabbrica chiama in vita una quantità di nuove piccole
officine, in parte per sopperire al proprio fabbisogno e in parte
per sottomettere il suo prodotto a una trasformazione ulteriore.
Così, per citare un solo esempio, i cotonifici hanno creato
un’enorme domanda di rocchetti di legno e di bobine, e migliaia di
uomini del Lake District si sono messi a fabbricarli, prima a mano
e più tardi con l’aiuto di qualche semplice macchinario. Solo di
recente, dopo che sono stati spesi anni a inventare e perfezionare
i macchinari, si è cominciato a produrre i rocchetti su scala
industriale. E ancora oggi, essendo le macchine molto costose, una
gran quantità di rocchetti viene comunque fabbricata in piccole
officine, con un modesto aiuto delle macchine, mentre le fabbriche
stesse sono relativamente piccole e raramente occupano più di 50
operai, in maggioranza bambini. Quanto alle bobine di forma
irregolare, vengono ancora fatte a mano o, in parte, con l’aiuto
di piccole macchine continuamente inventate dagli operai stessi.
Perciò nuove industrie sorgono a soppiantare le vecchie e ognuna
passa per lo stadio preliminare della piccola scala prima di
raggiungere quello della grande fabbrica; e tanto più è attivo lo
spirito creativo di una nazione, tanto più arriviamo a questa
fioritura di industrie. In proposito, abbiamo l’esempio delle
innumerevoli piccole fabbriche di biciclette sorte recentemente in
questo Paese e rifornite di pezzi già pronti dalle fabbriche più
grandi. Un altro esempio comune è la produzione domestica o in
piccole officine di scatole per fiammiferi, stivali, cappelli,
dolciumi, generi di drogheria, ecc.
Inoltre, la grande fabbrica, generando nuovi bisogni, stimola la
nascita di nuove attività artigianali. Il basso prezzo dei cotoni
e delle lane, della carta e dell’ottone, ha creato centinaia di
nuove piccole industrie. Le nostre case sono piene dei loro
prodotti, per la maggior parte oggetti di creazione abbastanza
moderna. E mentre alcuni di questi sono ora prodotti in serie
nelle grandi fabbriche, tutti sono passati per lo stadio della
piccola officina prima che la domanda fosse abbastanza alta da
richiedere l’organizzazione della grande fabbrica. Quante più
nuove invenzioni ci saranno, tante più piccole industrie del
genere si creeranno; e ancora, quanto più se ne creeranno, tanto
più si diffonderà lo spirito creativo, la cui mancanza è così
giustamente avvertita in questo Paese (da W. Armstrong tra i
tanti). Non dobbiamo stupirci, perciò, se vediamo in questo Paese
così tante piccole industrie, dobbiamo piuttosto rimpiangere che
tanta gente abbia abbandonato i villaggi a causa delle cattive
condizioni della terra e che sia migrata in massa nelle città, a
scapito dell’agricoltura.
In Inghilterra, come dappertutto, le piccole industrie
rappresentano un fattore importante della vita industriale; ed è
soprattutto nell’infinita varietà delle piccole industrie, dove si
utilizzano i prodotti semilavorati delle grandi industrie, che si
sviluppa lo spirito creativo e si elaborano i rudimenti delle
future grandi industrie. Le piccole officine di biciclette, con le
centinaia di piccoli perfezionamenti che hanno introdotto, hanno
svolto, sotto i nostri stessi occhi, la funzione di cellule
originarie per la grande industria automobilistica, e più tardi
per quella aeronautica. I piccoli produttori di marmellate dei
villaggi sono stati i precursori e i padri delle grandi fabbriche
di conserve che oggi impiegano centinaia di lavoratori, e così
via.
Di conseguenza, affermare che le piccole industrie sono destinate
a scomparire, mentre ne vediamo apparire di nuove ogni giorno,
significa semplicemente ripetere l’affrettata generalizzazione di
chi, all’inizio del XIX secolo, stava assistendo alla sostituzione
del lavoro manuale con il lavoro meccanizzato nell’industria
cotoniera: una generalizzazione che, come abbiamo visto e come
vedremo ancora meglio nelle pagine che seguono, non trova alcuna
conferma nell’analisi delle industrie, grandi e piccole, e che
viene rovesciata dai censimenti delle fabbriche e delle officine.
Lungi dal manifestare una tendenza a scomparire, le piccole
industrie mostrano al contrario la tendenza verso un ulteriore
sviluppo, dato che la fornitura municipale di energia elettrica –
come quella che c’è, ad esempio, a Manchester – permette al
proprietario di una piccola fabbrica di fruire di energia motrice
a basso costo, esattamente nella quantità richiesta in ogni dato
momento, e di pagare solo quanto è stato effettivamente consumato.
La varietà di piccole industrie che s’incontra in Francia è
infinita e rappresenta un aspetto quanto mai importante
dell’economia nazionale. Si calcola, in effetti, che metà della
popolazione francese viva di agricoltura e un terzo di industria,
e che questo terzo si trovi equamente distribuito tra grande e
piccola industria. A questo andrebbe aggiunto un numero
considerevole di contadini che si dedicano alla piccola industria
senza abbandonare l’agricoltura; e i guadagni supplementari che
questi contadini ne ricavano sono così importanti che in diverse
parti della Francia la proprietà contadina non potrebbe essere
mantenuta senza l’aiuto delle industrie rurali.
I piccoli proprietari rurali sanno che cosa li aspetterebbe il
giorno in cui diventassero manodopera di fabbrica in città, e
finché gli usurai non riusciranno a spodestarli delle loro terre e
case, e il villaggio non perderà i diritti sui pascoli o sui
boschi comunali, si tengono ben stretti a questa combinazione di
industria e agricoltura. Non possedendo, nella maggior parte dei
casi, animali per arare la terra, fanno ricorso a un espediente
largamente diffuso, se non universale, tra i piccoli proprietari
terrieri francesi, anche nei distretti puramente rurali. Chi dei
contadini possiede un aratro e un tiro di cavalli, dissoda a turno
tutti i campi. Nello stesso tempo, grazie al perpetuarsi di uno
spirito comunitario, del quale ho parlato altrove, un ulteriore
sostegno viene trovato nel pascolare e nel torchiare il vino in
comune o in altri svariati modi di mutuo appoggio esistenti tra i
contadini. E dovunque si mantenga lo spirito comunitario di
villaggio, le piccole industrie persistono, mentre non si
risparmiano sforzi per coltivare intensamente i piccoli poderi.
Orticoltura da mercato e frutticoltura spesso vanno di pari passo
con le piccole industrie. E dovunque si ricavi un po’ di benessere
da un suolo relativamente improduttivo, lo si deve quasi sempre a
una combinazione delle due attività sorelle.
Nello stesso tempo, è possibile notare come le piccole industrie
si adattino straordinariamente ai nuovi bisogni e a un sostanziale
progresso tecnico dei metodi di produzione. Nelle regioni boschive
del Perche e del Maine troviamo ogni genere di industrie del
legno, le quali, evidentemente, possono essere mantenute solo
grazie alla proprietà comunale dei boschi. Nei pressi della
foresta di Perseigne c’è un piccolo borgo, Fresnaye, interamente
popolato da lavoratori del legno.
A Thiers, dove si producono le posaterie più a buon mercato, la
divisione del lavoro, il basso affitto delle piccole officine
rifornite di forza motrice dal fiume Durolle o da piccoli motori a
gas, l’apporto di un’infinità di attrezzi meccanici inventati
all’occorrenza, e la combinazione esistente tra lavoro meccanico e
lavoro manuale hanno condotto a una tale perfezione l’apparato
tecnico di questa attività industriale che ci si chiede se
l’organizzazione di fabbrica possa economizzare ulteriormente il
lavoro. Per dodici miglia attorno a Thiers, in ogni direzione,
tutti i ruscelli sono punteggiati di piccole officine che danno
lavoro ai contadini senza che questi smettano di coltivare i
campi.
La canestreria è anch’essa un’importante attività artigianale in
diverse parti della Francia, e precisamente nell’Aisne e nell’Alta
Marna. In quest’ultimo dipartimento, a Villaines, sono tutti
canestrai, «e ogni canestraio fa parte di una società
cooperativa», come osserva Ardouin Dumazet. «Non ci sono
imprenditori; tutto il prodotto viene portato ogni quindici giorni
ai magazzini della cooperativa e lì venduto per conto
dell’associazione. A questa appartengono circa 150 famiglie, e
ciascuna possiede una casa e dei vigneti». A Fays-Billot, sempre
nell’Alta Marna, 1.500 canestrai fanno parte di un’altra
associazione, mentre a Thiérache, dove parecchie migliaia di
uomini esercitano la stessa attività, non è stata formata alcuna
associazione e di conseguenza i guadagni sono nettamente più
bassi.
A Héricourt, un’infinità di piccole industrie è sorta accanto
alle grandi fabbriche di ferramenta. La città si riversa nei
villaggi, dove la popolazione fabbrica macinacaffè, macinapepe,
macchine per tritare il mangime per il bestiame, così come selle,
piccoli articoli di ferramenta, o persino orologi. Altrove, dove
la fabbricazione dei vari pezzi dell’orologio è stata
monopolizzata dalle fabbriche, le officine hanno cominciato a
fabbricare pezzi di bicicletta, e più tardi di automobile. In
breve, troviamo qui tutto un mondo di industrie di tipo moderno e,
con esse, di invenzioni realizzate per semplificare il lavoro
manuale.
Ogni casa contadina, ogni fattoria e ogni métayerie delle zone
collinose del Beaujolais e del Forez era un tempo una piccola
officina, e si potevano vedere, come ha scritto Reybaud nel 1863,
ragazzi di vent’anni intenti a ricamare delicate mussoline dopo
aver finito di pulire le stalle delle fattorie, senza che quel
delicato lavoro risentisse della combinazione di due occupazioni
così disparate. Al contrario, la delicatezza del lavoro e
l’estrema varietà dei disegni erano le caratteristiche tipiche
delle mussoline di Tarare e la ragione del loro successo. Tutte le
testimonianze concordavano nel riconoscere che, quando
l’agricoltura trovava sostegno nell’industria, la popolazione
agricola godeva di un certo benessere.
Ciò che più merita la nostra ammirazione non è tanto lo sviluppo
delle grandi industrie – le quali, dopotutto, qui come altrove,
sono in gran parte di origine internazionale – quanto le doti
creative e inventive e le capacità di adattamento della gran massa
di queste industriose popolazioni. A ogni passo, nei campi, negli
orti, nei frutteti, nei piccoli caseifici, nelle officine, nelle
centinaia di piccole invenzioni fatte per queste attività, è
possibile notare lo spirito creativo del popolo. In queste regioni
si capisce meglio perché la Francia, prendendo la popolazione nel
suo complesso, venga considerata la più ricca nazione d’Europa.
Il centro principale dell’artigianato in Francia è tuttavia
Parigi. Lì troviamo, accanto alle grandi fabbriche,
un’impressionante varietà di officine per la fabbricazione di
merci di ogni genere, destinate sia al mercato interno sia
all’esportazione. Le officine artigianali di Parigi prevalgono a
tal punto sulle fabbriche che la media degli operai occupati nelle
98.000 fabbriche e officine parigine è inferiore alle sei unità,
mentre il numero di persone impiegate nelle officine con meno di
cinque operai è quasi il doppio del numero di persone impiegate
negli stabilimenti più grandi. In effetti, Parigi è un grande
alveare dove centinaia di migliaia di uomini e donne fabbricano in
piccole officine ogni possibile genere di merci che richiedono
abilità, gusto e creatività. Queste piccole officine, di cui tanto
si loda il gusto artistico e la rapidità di lavorazione, stimolano
necessariamente la capacità mentale dei produttori; e possiamo
tranquillamente affermare che se gli operai di Parigi sono
generalmente considerati, e a ragione, intellettualmente più
sviluppati degli operai di qualsiasi altra capitale europea, ciò
lo si deve in gran parte al tipo di lavoro che fanno: un lavoro
che implica gusto artistico, abilità e soprattutto un’inventiva
sempre pronta a creare nuovi tipi di merci e ad accrescere di
continuo e perfezionare le tecniche di produzione. Ed è assai
probabile che se incontriamo una popolazione lavorativa molto
evoluta anche a Vienna o Varsavia, di nuovo ciò dipende in gran
parte dal notevole sviluppo delle piccole industrie dello stesso
genere, le quali stimolano l’inventiva contribuendo grandemente a
sviluppare l’intelligenza del lavoratore.
Le conclusioni da trarne sono state così formulate da Lucien
March: «In definitiva, durante gli ultimi cinquant’anni si è avuta
una notevole concentrazione di fabbriche nei grandi agglomerati»,
ma «questa concentrazione non impedisce la persistenza di una
certa quantità di piccole imprese, le cui dimensioni medie non
crescono che molto lentamente». Quest’ultimo fatto, in realtà, lo
abbiamo già rilevato dal nostro breve schizzo sulla Gran Bretagna,
e possiamo soltanto chiederci se – così stando le cose – la parola
«concentrazione» sia indovinata. Ciò che vediamo in realtà è la
comparsa, in alcuni settori dell’industria, di un certo numero di
grandi stabilimenti, e soprattutto di fabbriche di media
grandezza. Ma questo non impedisce minimamente che continui a
esistere un gran numero di piccole fabbriche, in settori diversi,
o negli stessi settori dove sono comparse le grandi fabbriche
(tessili, metalmeccaniche), o nei settori connessi e derivati da
quelli principali, come l’industria dell’abbigliamento che trae
origine da quella tessile. Quanto alle grandi deduzioni sulla
«concentrazione» effettuate da certi economisti, si tratta di
semplici ipotesi, utili naturalmente a stimolare la ricerca, ma
destinate a rivelarsi alquanto nocive quando vengono presentate
come leggi economiche, mentre in realtà non sono affatto
confermate da un’accurata osservazione dei fatti.
Sfortunatamente, la discussione su questo importante argomento ha
spesso assunto in Germania un carattere appassionato e persino di
polemica personale. Da un lato, gli elementi ultraconservatori
della politica tedesca hanno cercato, riuscendovi in certa misura,
di fare dell’artigianato e delle lavorazioni a domicilio un’arma
per assicurare il ritorno ai «bei tempi andati». Hanno persino
approvato una legge intesa a reintrodurre le superate, chiuse e
patriarcali corporazioni – da assoggettare alla stretta
supervisione e tutela dello Stato – guardando a questa legge come
a un’arma contro la socialdemocrazia. Dall’altro lato, i
socialdemocratici, giustamente contrari a queste misure ma a loro
volta propensi a considerare astrattamente le questioni
economiche, attaccano ferocemente tutti coloro che non si piegano
a ripetere le stereotipate frasi a effetto come «l’artigianato è
in declino» e «prima scompare meglio è» perché così darà spazio
alla concentrazione capitalistica, la quale, secondo il credo
socialdemocratico, «farà ben presto la sua stessa rovina». E in
questa avversione per le piccole industrie naturalmente concordano
con gli economisti della scuola ortodossa, contro i quali si
scagliano su quasi tutti gli altri punti.
Il fondamento di questo credo si trova in uno dei capitoli
conclusivi del Capitale di Marx (il penultimo), in cui l’autore
parlava della concentrazione del capitale scorgendovi la «fatalità
di una legge naturale». In quegli anni Quaranta questa idea della
«concentrazione del capitale», originata da quanto avveniva nelle
industrie tessili, ricorreva di continuo negli scritti di tutti i
socialisti francesi, specialmente in Considérant, e nei loro
seguaci tedeschi, che se ne servivano come di un argomento a
favore della necessità di una rivoluzione sociale. Ma Marx era un
pensatore troppo grande per non accorgersi dei susseguenti
sviluppi della vita industriale, imprevedibili nel 1848; e se
fosse vissuto oggi, sicuramente non avrebbe chiuso gli occhi
davanti alla formidabile fioritura di tanti piccoli imprenditori e
ai patrimoni della classe media realizzati in mille modi all’ombra
dei moderni «milionari». Molto probabilmente avrebbe anche notato
l’estrema lentezza con cui procede la rovina delle piccole
industrie: lentezza non prevedibile cinquanta o quarant’anni fa,
dal momento che nessuno era in grado di immaginare allora le
possibilità future dei trasporti o la crescente varietà della
domanda, né l’attuale economicità della fornitura di piccole
quantità di energia motrice. Essendo un pensatore, avrebbe
studiato questi fatti, e molto probabilmente avrebbe mitigato
l’assolutezza delle sue formulazioni originarie, come in realtà
fece una volta a proposito delle comunità di villaggio in Russia.
Sarebbe quanto mai auspicabile che i suoi seguaci facessero minore
affidamento su formule astratte – buone solo come parole d’ordine
nelle lotte politiche – e cercassero di imitare il loro maestro
nelle analisi dei fenomeni economici concreti.
È evidente che in Germania un certo numero di attività
artigianali sono oggi destinate a scomparire, ma ce ne sono altre,
al contrario, dotate di grande vitalità, e tutte le probabilità
depongono a favore della loro persistenza e del loro ulteriore
sviluppo per molti anni a venire. Nella fabbricazione di certe
stoffe tessute a milioni di metri, e meglio producibili con
l’aiuto di un macchinario complicato, la concorrenza del telaio a
mano contro il telaio meccanico non rappresenta che una semplice
sopravvivenza, mantenibile per qualche tempo in determinate
condizioni locali, ma destinata a scomparire.
Lo stesso si può dire di molti settori delle industrie
siderurgiche, della fabbricazione di ferramenta, terraglie, ecc.
Ma dovunque siano necessari l’intervento diretto del gusto e
dell’inventiva, dovunque debbano essere di continuo introdotti
nuovi generi di merci che richiedono un rinnovamento continuo di
macchine e attrezzi allo scopo di soddisfare la domanda (come nel
caso di tutti i tessuti alla moda, anche se fabbricati per
rifornire le masse), dovunque vi sia una gran varietà di merci e
un’ininterrotta invenzione di nuovi prodotti (come nel caso dei
giocattoli, della fabbricazione di strumenti, orologi, biciclette
e così via), e infine dovunque sia il senso artistico del singolo
lavoratore a realizzare i prodotti migliori (come è il caso in
centinaia di settori di piccoli articoli di lusso), là c’è ampio
spazio per le attività artigianali, le officine rurali, le
lavorazioni a domicilio, e simili. In queste industrie occorrono
evidentemente più aria fresca, più idee, più visioni generali e
più cooperazione. E dove lo spirito d’iniziativa è stato destato
in un modo o nell’altro, vediamo le industrie marginali assumere
nuovo sviluppo, proprio come avviene in Germania o, l’abbiamo
appena visto, in Francia.
In Germania, in quasi tutte le attività marginali la condizione
dei lavoratori è unanimemente descritta come la più miserabile, e
i tanti ammiratori della centralizzazione che troviamo in Germania
insistono sempre su tale miseria per predicare e auspicare la
scomparsa di «queste sopravvivenze medievali» che la
«concentrazione capitalistica» deve soppiantare per il bene del
lavoratore. La verità, tuttavia, è che quando confrontiamo le
miserabili condizioni dei lavoratori delle industrie marginali con
le condizioni dei salariati delle fabbriche, nelle stesse regioni
e nelle stesse attività, notiamo come la stessa identica miseria
domini tra i lavoratori di fabbrica. Essi vivono, nei bassifondi
delle città invece che in campagna, di salari che vanno dai 9 agli
11 scellini la settimana, lavorano undici ore al giorno, e sono
oltretutto soggetti alla miseria straordinaria in cui li
precipitano le crisi ricorrenti. È solo dopo essere passati
attraverso sofferenze di ogni genere nelle lotte contro i
proprietari delle fabbriche che alcuni lavoratori sono riusciti,
più o meno, qua e là, a strappare ai propri datori di lavoro un
«salario che consenta di vivere», e questo solo in certe attività.
Accogliere positivamente tutte queste sofferenze, vedendo in esse
l’azione di una «legge naturale» e il cammino necessario verso la
necessaria concentrazione delle industrie, sarebbe semplicemente
assurdo. Ma sostenere che la pauperizzazione di tutti i lavoratori
e la rovina di tutte le industrie artigianali rappresentino il
cammino necessario verso una più elevata forma di organizzazione
industriale, significa non solo affermare più di quanto si sia
autorizzati ad affermare in base all’imperfetto stato attuale
della conoscenza economica, ma anche dimostrare un’assoluta
mancanza di comprensione del senso delle leggi sia economiche sia
naturali. Al contrario, chiunque abbia studiato la questione della
crescita delle grandi industrie non può non concordare con Thorold
Rogers, che considerava le sofferenze inflitte alle classi
lavoratrici a quello scopo come assolutamente non necessarie, anzi
inflitte per favorire gli interessi temporanei di pochi ma non
certo quelli della nazione.
Un fatto domina in tutte le indagini condotte sulla condizione
delle piccole industrie, e lo riscontriamo tan- to in Germania
quanto in Francia o in Russia. In un enorme numero di attività a
pesare contro la piccola industria e a favore della grande
fabbrica non sono la superiorità dell’organizzazione tecnica o le
economie realizzate sul prezzo dell’energia, ma sono le più
vantaggiose condizioni di vendita del prodotto e di acquisto delle
materie prime di cui le grandi aziende dispongono. Dovunque questa
difficoltà sia stata superata – per mezzo dell’associazione, o
grazie ad un mercato certo per la vendita dei prodotti – si è
sempre scoperto, primo, che le condizioni dei lavoratori o degli
artigiani migliorano immediatamente e, secondo, che si realizza un
rapido progresso nelle caratteristiche tecniche delle rispettive
industrie. Nuovi procedimenti sono stati introdotti per migliorare
il prodotto oppure per accelerarne la fabbricazione; nuovi
strumenti meccanici sono stati inventati; si è fatto ricorso a
nuove energie motrici; l’attività è stata riorganizzata in modo da
diminuire i costi di produzione.
Al contrario, dovunque gli indifesi, isolati operai o artigiani
continuano a rimanere alla mercé dei grossisti – che sempre, sin
dai tempi di Adam Smith, «apertamente o tacitamente» operano di
concerto per abbassare i prezzi a un livello quasi da fame, e tale
è il caso per la stragrande maggioranza delle piccole industrie e
delle attività artigiane – la loro condizione è così penosa che
solo l’aspirazione dei lavoratori a una relativa indipendenza, e
il fatto di sapere che cosa li aspetti in fabbrica, impedisce loro
di unirsi alle file degli operai di fabbrica. Sapendo che nella
maggioranza dei casi l’avvento della fabbrica significherebbe la
perdita completa del lavoro per la maggior parte degli uomini e
l’assunzione in fabbrica di bambini e ragazze, essi fanno
l’impossibile per impedire che facciano la loro comparsa nel
villaggio.
Quanto alle associazioni di villaggio, alla cooperazione, e
simili, non bisogna mai dimenticare quanto gelosamente i governi
tedesco, francese, russo e austriaco abbiano fino a oggi impedito
ai lavoratori, e soprattutto ai lavoratori rurali, di partecipare
a qualsiasi associazione con finalità economiche. In Francia i
sindacati contadini sono stati ammessi solo con la legge del 1884.
Tenere il contadino al livello più basso possibile, per mezzo di
tasse, servitù della gleba e simili, è stata ed è ancora la
politica della maggior parte degli Stati continentali. È stato
solo nel 1876 che la Germania ha permesso una certa estensione dei
diritti di associazione; e ancor oggi, una semplice associazione
cooperativa per la vendita di prodotti artigianali viene subito
considerata una «associazione politica» e assoggettata di
conseguenza alle usuali limitazioni, come l’esclusione delle donne
e così via. Un impressionante resoconto della politica relativa
alle associazioni di villaggio è stato fatto dal professor
Issaieff, il quale ha pure parlato delle severe misure prese dai
grossisti del settore giocattoli per impedire ai lavoratori di
entrare in rapporto diretto con i compratori stranieri.
Quando si prende in attenta considerazione la vita delle piccole
industrie e la loro lotta per la sopravvivenza, ci si accorge che
non è vero che esse periscano perché «si può economizzare
ricorrendo a un centinaio di cavalli-vapore invece che a un
centinaio di piccoli motori». Questo inconveniente non si manca
mai di citarlo, benché sia stato facilmente eliminato a Sheffield,
a Parigi e in molti altri luoghi dove si affittano officine dotate
di volano, alimentato da una macchina centrale o più spesso, come
opportunamente osservato dal professor W. Unwin, dalla
trasmissione elettrica dell’energia. Esse periscono non perché
nella produzione di fabbrica si può realizzare una notevole
economia – in casi molto più frequenti di quanto di solito si
supponga avviene persino il contrario – ma perché il capitalista
che impianta una fabbrica si emancipa dai grossisti e dai
dettaglianti di materie prime; e soprattutto si emancipa dai
compratori del suo prodotto trattando direttamente con chi compra
all’ingrosso e con l’esportatore; o ancora, perché concentra in
una sola azienda le differenti fasi della fabbricazione di un dato
prodotto.
A questo proposito sono quanto mai istruttive le pagine che
Schulze-Gäwernitz ha dedicato all’organizzazione dell’industria
cotoniera in Inghilterra, e alle difficoltà con cui si sono dovuti
confrontare i proprietari di cotonifici tedeschi dal momento che
dipendevano da Liverpool per il cotone greggio. E ciò che
caratterizza l’industria del cotone, domina anche in tutti gli
altri settori.
Se i posatieri di Sheffield che oggi lavorano nelle loro
minuscole officine, dotate del volano di cui si è detto, fossero
incorporati in una sola grande fabbrica, il principale vantaggio
che si realizzerebbe nella fabbrica non sarebbe un’economia nei
costi di produzione a pari qualità di prodotto; anzi, in una
società per azioni i costi potrebbero persino aumentare. E
tuttavia il prodotto netto aziendale (salari inclusi)
probabilmente sarebbe superiore alla somma degli attuali redditi
dei singoli lavoratori grazie ad un minor costo nell’acquisto del
ferro e del carbone, e alle facilitazioni relative alla vendita
del prodotto. La grande azienda troverebbe perciò i suoi vantaggi
non in quei fattori imposti attualmente dalle necessità tecniche
dell’industria, ma negli stessi fattori eliminabili da
un’organizzazione cooperativa. Tutte queste sono nozioni
elementari per gli esperti del settore.
È quasi inutile aggiungere che un vantaggio ulteriore per il
grande imprenditore è che può trovare il modo di vendere anche un
prodotto di qualità assai inferiore, purché ce ne sia da vendere
una quantità considerevole. Tutti quelli che hanno familiarità con
il commercio sanno, in verità, come un’enorme massa degli scambi
mondiali consista di scarti, di robaccia inviata in Paesi lontani.
Intere città, come abbiamo appena visto, non producono altro che
merce scadente.
Al contempo, va considerato come un fatto fondamentale della vita
economica europea che il fallimento di un certo numero di piccole
industrie, di attività artigianali e di lavorazioni a domicilio,
sia stato provocato dalla loro incapacità di organizzare la
vendita dei prodotti e non la loro produzione. Lo stesso fenomeno
ricorre in ogni fase della storia economica. L’incapacità di
organizzare la vendita senza cadere schiavi del mercante fu un
fenomeno determinante nelle città medievali, che a poco a poco
finirono sotto il giogo economico e politico delle corporazioni
commerciali semplicemente perché non furono in grado di mantenere
la vendita dei loro prodotti nelle mani della comunità nel suo
complesso, o di organizzare la vendita di un nuovo prodotto
nell’interesse della comunità. Quando il mercato di tali prodotti
divenne da una parte l’Asia e dall’altra il Nuovo Mondo, il
destino non poteva che essere questo, e dal momento che il
commercio aveva cessato di essere comunale ed era diventato
individuale, le città divennero preda delle rivalità tra le
principali famiglie mercantili.
E ancor oggi, quando vediamo le società cooperative avviate con
successo sulla strada della produzione, mentre cinquant’anni fa
mostravano invariabilmente scarse capacità produttive, possiamo
concludere che la causa dei passati fallimenti risiedeva non nella
loro incapacità di organizzare adeguatamente la produzione, ma
nella loro incapacità di operare come venditori ed esportatori del
prodotto fabbricato. I loro successi attuali, al contrario, sono
pienamente garantiti dalla disponibilità di una rete di
distribuzione. La vendita è stata semplificata e la produzione
resa possibile organizzando prima di tutto il mercato.
Queste sono alcune delle conclusioni ricavabili da uno studio
delle piccole industrie in Germania e altrove. E si può
tranquillamente dire, riguardo alla Germania, che se non verranno
prese misure per sottrarre i contadini alla terra, come purtroppo
è avvenuto in questo Paese, se al contrario il numero dei piccoli
proprietari terrieri si moltiplicherà, inevitabilmente questi si
rivolgeranno alle più svariate piccole industrie in aggiunta
all’agricoltura, come hanno fatto e ancora fanno in Francia.
Qualunque passo si faccia per risvegliare la vita intellettuale
nei villaggi, o per garantire i diritti dei contadini e del
contado sulla terra, porterà necessariamente avanti la crescita
industriale nei villaggi.
Se si vuol estendere questa ricerca ad altri Paesi, la Svizzera
offre un vasto campo per osservazioni quanto mai interessanti. Vi
si nota la stessa vitalità in una molteplicità di piccole
industrie; e va citato quanto è stato fatto nei diversi cantoni
per sostenere le piccole industrie con tre diversi tipi di
provvedimenti: la promozione della cooperazione; un’ampia
diffusione dell’istruzione tecnica nelle scuole; l’introduzione di
nuovi settori di produzione artigianale in diverse parti del
Paese; e la fornitura di forza motrice a buon mercato nelle case
per mezzo di trasmissione idraulica o elettrica dell’energia
ricavata dalle cascate. Un altro libro di grandissimo interesse e
valore si potrebbe scrivere su questo argomento, soprattutto
sull’impulso dato a una quantità di piccole industrie, vecchie e
nuove, per mezzo della fornitura a buon mercato di energia
motrice. Un tale libro sarebbe anche di grande interesse in quanto
mostrerebbe in quale misura la combinazione di agricoltura e
industria, da me descritta nella prima edizione di questo libro
come «la fabbrica tra i campi», sia progredita ultimamente in
Svizzera, cosa che non può mancare di colpire anche il viaggiatore
occasionale.
I fatti che abbiamo brevemente passato in rassegna mostrano, in
certo modo, i benefici che si potrebbero trarre da una
combinazione tra agricoltura e industria se quest’ultima arrivasse
al villaggio non nel suo aspetto attuale di fabbrica
capitalistica, ma in quello di produzione industriale socialmente
organizzata, con il pieno supporto del macchinario e della
preparazione tecnica. In effetti, l’aspetto più evidente delle
piccole industrie è che un relativo benessere si riscontra solo
dove sono combinate con l’agricoltura, dove i lavoratori sono
rimasti proprietari del suolo e continuano a coltivarlo. Anche tra
i tessitori francesi o moscoviti, che pure devono fare i conti con
la concorrenza della fabbrica, domina un relativo benessere grazie
al fatto che non sono stati costretti a separarsi dalla terra. Al
contrario, non appena le forti tasse o l’impoverimento dovuto a
una crisi hanno spinto il lavoratore a domicilio ad abbandonare il
suo ultimo pezzo di terra all’usuraio, la miseria ha fatto il suo
ingresso nella casa. Lo sfruttatore diviene onnipotente, si fa
ricorso a uno sfibrante superlavoro e l’intera industria cade
spesso in rovina.
Fatti del genere, come anche la pronunciata tendenza di alcune
fabbriche a spostarsi nelle aree rurali, che si fa sempre più
palese e che ha trovato ultimamente espressione nel movimento
delle «Città-giardino», sono molto indicativi. Naturalmente,
sarebbe un grosso errore immaginare il ritorno dell’industria al
suo stadio manuale allo scopo di combinarsi con l’agricoltura.
Ogni volta che è possibile risparmiare lavoro umano per mezzo di
una macchina, la macchina è benvenuta e va impiegata; e non c’è
quasi settore dell’industria in cui il lavoro meccanico non possa
essere introdotto con grande vantaggio, almeno in alcune fasi
della produzione. Nell’attuale stato caotico dell’industria,
chiodi e temperini a basso prezzo si possono ancora fare a mano, e
i cotoni comuni si possono ancora tessere col telaio a mano. Ma
una anomalia del genere non durerà: la macchina prenderà il posto
del lavoro manuale nella fabbricazione delle merci comuni. Nello
stesso tempo, però, il lavoro manuale estenderà il proprio dominio
sulla rifinitura artigianale di molte merci che vengono oggi
interamente prodotte in fabbrica, e rimarrà sempre un fattore
importante per la nascita di migliaia di nuove produzioni
industriali.
Ma ecco sorgere alcuni quesiti: perché i cotoni, le stoffe di
lana e le sete, oggi tessuti a mano nei villaggi, non dovrebbero
essere tessuti a macchina negli stessi villaggi senza che per
questo si tralasci il lavoro nei campi? Perché centinaia di
industrie a domicilio, oggi esercitate interamente a mano, non
dovrebbero far ricorso a macchine che risparmino il lavoro, come
già avviene nella fabbricazione delle maglie e in molti altri
campi? Non c’è ragione perché i piccoli motori non debbano avere
un uso molto più generalizzato di oggi, dovunque non ci sia
bisogno di una fabbrica; e non c’è ragione perché il villaggio non
debba avere la sua piccola fabbrica, dovunque il lavoro di
fabbrica sia preferibile, come già si vede di tanto in tanto in
certi villaggi della Francia.
Ma c’è di più. Non c’è ragione per cui la fabbrica, con la sua
energia motrice e il suo macchinario, non debba appartenere alla
comunità, come già avviene per la forza motrice nelle già
menzionate officine e piccole fabbriche della zona collinare
francese del Giura. È evidente che oggi, sotto il sistema
capitalistico, la fabbrica è la maledizione del villaggio dato che
giunge a sottoporre i bambini a un lavoro eccessivo e a impoverire
i suoi abitanti maschi; ed è del tutto naturale che essa incontri
l’ostilità assoluta dei lavoratori quando questi riescono a
mantenere l’organizzazione delle loro antiche attività (come a
Sheffield o a Solingen), o quando non sono stati ridotti in
completa miseria (come nel Giura). Ma con un’organizzazione
sociale più razionale, la fabbrica non troverebbe ostacoli come
questi: sarebbe un bene per il villaggio. E abbiamo già
un’inequivocabile prova che dimostra come passi in questa
direzione siano già stati fatti in alcune comunità rurali.
I vantaggi fisici e morali che l’uomo trarrebbe dividendo il suo
lavoro tra il campo e l’officina si presentano da sé. La
difficoltà starebbe, ci dicono, nella necessaria centralizzazione
delle industrie moderne. Nell’industria, come anche in politica,
la centralizzazione vanta molti ammiratori! Ma in entrambi i campi
l’ideale dei centralizzatori sfortunatamente ha bisogno di essere
riveduto. In effetti, se analizziamo le industrie moderne,
scopriamo ben presto che per alcune di esse la collaborazione di
centinaia, o persino di migliaia, di lavoratori raggruppati nello
stesso posto è realmente necessaria. Le grandi fonderie e le
imprese minerarie appartengono decisamente a questa categoria: i
transatlantici non si possono costruire nelle officine di
villaggio. Ma moltissime grosse fabbriche non sono altro che
agglomerati, sotto un’amministrazione comune, di parecchie
industrie distinte, mentre altre sono semplici agglomerati di
centinaia di esemplari di un’identica macchina; e tali appunto
sono la maggior parte delle nostre gigantesche filande e
tessiture.
Essendo la fabbrica un’impresa strettamente privata, i suoi
proprietari trovano vantaggioso tenere tutti i settori di una
determinata industria sotto la propria amministrazione; in questo
modo cumulano i profitti delle successive trasformazioni della
materia prima. E quando diverse migliaia di telai meccanici si
trovano riuniti in una sola fabbrica, il proprietario realizza un
ulteriore vantaggio nella possibilità di controllare il mercato.
Ma dal punto di vista tecnico i vantaggi di una simile
accumulazione sono insignificanti e spesso incerti. Anche
un’industria così centralizzata come quella cotoniera non ha
risentito affatto dall’aver suddiviso le varie fasi di lavorazione
di una data produzione in fabbriche distinte: lo si è visto a
Manchester e nelle città vicine. Quanto alle piccole industrie,
non si è riscontrato alcun inconveniente nella ulteriore
suddivisione tra le officine della fabbricazione di orologi e di
moltissimi altri prodotti.
Spesso sentiamo dire che un cavallo-vapore costa tanto in un
piccolo motore e nettamente meno in un motore dieci volte più
potente, o che una libbra di filato di cotone costa molto meno
quando la fabbrica raddoppia il numero dei suoi fusi. Ma
nell’opinione dei migliori ingegneri meccanici, come il professor
W. Unwin, la distribuzione idraulica e soprattutto quella
elettrica di energia da parte di una stazione centrale elimina il
primo punto della questione. Quanto al secondo, calcoli del genere
valgono solo per quelle industrie che preparano prodotti
semilavorati per ulteriori trasformazioni. E quanto alle
innumerevoli specie di merci che si avvalgono del lavoro
specializzato, le si può meglio produrre in piccole fabbriche che
impiegano poche centinaia o persino poche decine di operai. Ecco
perché la «concentrazione» di cui tanto si parla spesso non è
altro che un’unione di capitalisti allo scopo di controllare il
mercato, non a quello di ridurre il costo dei processi tecnici.
Anche nelle condizioni attuali le fabbriche gigantesche
presentano grandi inconvenienti dato che non sono in grado di
modificare rapidamente il proprio macchinario in sintonia con le
domande continuamente varianti del consumatore. Quanti fallimenti
di grandi aziende, troppo note in questo Paese perché se ne faccia
il nome, si devono a questo motivo durante la crisi degli anni tra
il 1886 e il 1890! Quanto ai nuovi settori dell’industria che ho
menzionato prima, essi devono sempre avviarsi su piccola scala, e
possono prosperare tanto nelle piccole città come nelle grandi se
gli agglomerati più piccoli dispongono di istituzioni che
stimolino il gusto artistico e lo spirito di inventiva. I
progressi raggiunti di recente nella fabbricazione dei giocattoli,
come anche l’elevato grado di perfezione raggiunto nella
fabbricazione di strumenti scientifici e ottici, di mobili, di
piccoli articoli di lusso, di terraglie, costituiscono esempi
significativi. L’arte e la scienza non sono più il monopolio delle
grandi città, e ulteriori progressi si raggiungeranno
diffondendole ovunque.
In buona parte, la distribuzione geografica delle industrie in un
dato Paese dipende, ovviamente, da un complesso di condizioni
naturali: è ovvio che certe località sono meglio indicate per lo
sviluppo di determinate industrie. Le sponde del Clyde e del Tyne
sono certamente quanto mai indicate come cantieri navali, e i
cantieri navali devono essere circondati da una molteplicità di
officine e di fabbriche. Le industrie trarranno sempre vantaggio
dall’essere raggruppate, e raggruppate in armonia con gli aspetti
naturali delle singole regioni. Ma dobbiamo ammettere che oggi
esse non si trovano affatto raggruppate in base a questi criteri.
Cause storiche – principalmente guerre di religione e rivalità
nazionali – hanno avuto molto peso nella loro crescita e nella
loro distribuzione attuale. Inoltre, i datori di lavoro sono stati
guidati dalla valutazione delle possibilità di vendita e di
esportazione: vale a dire, da considerazioni che vanno perdendo
importanza via via che aumentano le possibilità di trasporto, e
che sempre più ne perderanno quando i produttori produrranno per
se stessi e non per clienti lontani.
Perché, in una società organizzata razionalmente, Londra dovrebbe
rimanere il grande centro dell’industria conserviera e fabbricare
ombrelli per quasi tutta la Gran Bretagna? Perché le innumerevoli
piccole industrie di Whitechapel dovrebbero rimanere dove sono
invece di diffondersi per tutto il Paese? Non c’è ragione alcuna
per cui i mantelli indossati dalle signore inglesi debbano essere
cuciti a Berlino e a Whitechapel invece che nel Devonshire o nel
Derbyshire. Perché Parigi dovrebbe raffinare lo zucchero per quasi
l’intera Francia? Perché metà degli stivali e delle scarpe che si
usano negli Stati Uniti dovrebbe essere fabbricata nei 1.500
laboratori del Massachusetts? Non c’è assolutamente ragione per
cui queste e altre anomalie del genere continuino ad esistere. Le
industrie devono disseminarsi in tutto il mondo; e la
disseminazione delle industrie in tutte le nazioni civili sarà
necessariamente seguita da un’ulteriore disseminazione delle
fabbriche nei territori di ciascuna nazione.
Nel corso di questa evoluzione, i prodotti naturali di ciascuna
regione e le sue condizioni geografiche saranno certamente uno dei
fattori che determineranno il tipo di industria destinata a
svilupparsi in quell’area. Ma quando vediamo che la Svizzera è
divenuta una grande esportatrice di locomotive e di navi a vapore,
benché non abbia miniere di ferro né carbone per ottenere
l’acciaio, e non abbia neppure porti per importarli; quando
vediamo che il Belgio è riuscito a diventare un grande esportatore
di uve, e che Manchester si è data da fare per diventare un porto,
comprendiamo che nella distribuzione geografica delle industrie i
due fattori del prodotto locale e di una vantaggiosa vicinanza col
mare non costituiscono i fattori dominanti. Cominciamo a capire
che, tutto considerato, il fattore intellettuale – lo spirito
creativo, la capacità di adattamento, la libertà politica, ecc. –
è quello che conta più di tutti gli altri.
Che ciascuna attività industriale tragga vantaggio dall’essere
esercitata in stretto contatto con una gran varietà di altre
attività industriali, il lettore lo ha già rilevato da numerosi
esempi. Ogni industria richiede un ambiente tecnologizzato. Ma la
stessa cosa si può dire anche dell’agricoltura.
L’agricoltura non si può sviluppare senza l’aiuto della
meccanica, e l’uso di macchinari avanzati non può divenire
generale senza un’industrializzazione diffusa: senza officine
meccaniche facilmente accessibili al coltivatore del suolo, l’uso
del macchinario agricolo non è possibile. Il fabbro del villaggio
non basterebbe. Se il lavoro di una trebbiatrice dev’essere
sospeso per una settimana o più perché uno dei denti della ruota
si è rotto, e se per avere una nuova ruota bisogna mandare un
corriere particolare nella provincia vicina, allora l’uso di una
trebbiatrice diventa impossibile. Ma questo è proprio quanto vidi
durante la mia infanzia nella Russia centrale; e abbastanza di
recente ho trovato l’identico fatto menzionato in un’autobiografia
inglese della prima metà del XIX secolo. Inoltre, in tutta la
parte settentrionale della zona temperata, chi coltiva il suolo
deve trovare una sorta di impiego industriale durante i lunghi
mesi invernali. Cosa che è stata appunto realizzata con il grande
sviluppo delle industrie rurali, delle quali abbiamo appena visto
esempi così interessanti. Ma questo bisogno viene avvertito anche
nel clima più mite delle isole della Manica, nonostante
l’estensione raggiunta dall’orticoltura in serra. «Abbiamo bisogno
di tali industrie. Potreste suggerircene qualcuna?», mi ha
domandato uno dei miei corrispondenti di Guernsey.
Ma non è tutto. L’agricoltura ha così bisogno dell’aiuto di
coloro che abitano nelle città che ogni estate migliaia di uomini
lasciano i loro bassifondi urbani e vanno in campagna per la
stagione dei raccolti. I poveri di Londra si recano a migliaia nel
Kent e nel Sussex per la raccolta del fieno e del luppolo, giacché
si valuta che il solo Kent abbia bisogno di 80.000 uomini e donne
in più per raccogliere il solo luppolo; in Francia interi
villaggi, e il loro artigianato, vengono abbandonati in estate
perché i contadini si trasferiscono nelle parti più fertili del
Paese; centinaia di migliaia di esseri umani vengono trasportati
ogni estate nelle praterie del Manitoba e del Dakota. E ogni
estate, molte migliaia di polacchi si riversano al tempo del
raccolto nelle pianure del Mecklenburg, della Westfalia e persino
della Francia; in Russia si verifica ogni anno un esodo di
parecchie migliaia di uomini che da nord si spostano verso le
praterie del sud per raccogliere le messi, tanto che molti
industriali di San Pietroburgo riducono in questa stagione la
produzione proprio perché gli operai ritornano ai villaggi natali
per coltivare i loro appezzamenti.
L’agricoltura non può andare avanti in estate senza manodopera
addizionale, ma essa necessita ancor di più di aiuti temporanei
per migliorare il terreno e per decuplicarne la produttività. La
dissodazione meccanica del suolo, il prosciugamento e la
concimazione farebbero delle pesanti argille a nordovest di Londra
un terreno molto più ricco di quello delle praterie americane. Per
divenire fertili, quelle argille hanno bisogno solo del semplice,
comune, lavoro umano, quello necessario per dissodare il suolo,
collocare i tubi di drenaggio, polverizzare le fosforiti, e così
via; e quel lavoro sarebbe di buon grado adempiuto dai lavoratori
di fabbrica, a beneficio dell’intera società, se fossero
adeguatamente organizzati in una libera comunità. Il suolo reclama
un aiuto del genere e lo avrebbe con un’organizzazione adeguata,
anche se per questo fosse necessario fermare in estate molte
fabbriche. Non c’è dubbio che gli attuali proprietari di fabbrica
considererebbero come una rovina dover fermare le fabbriche
parecchi mesi l’anno, poiché il capitale investito in una fabbrica
è destinato a pompare denaro tutti i giorni e tutte le ore, se
possibile. Ma questo è il punto di vista dei capitalisti, non
della comunità.
Quanto ai lavoratori, che in realtà dovrebbero essere coloro che
gestiscono le industrie, sarà per loro salutare non fare lo stesso
monotono lavoro per tutto l’anno, e abbandonarlo in estate, se
davvero non si trovasse il modo di tenere in funzione la fabbrica
organizzando dei turni.
La disseminazione delle industrie per tutto il Paese – in modo da
portare la fabbrica tra i campi e da apportare all’agricoltura
tutti quei benefici che essa trae sempre dalla combinazione con
l’industria (come avviene sulla costa orientale degli Stati Uniti)
– è certamente il primo passo da compiere, non appena si sia resa
possibile una riorganizzazione delle nostre condizioni attuali. E
questo passo – che viene già fatto qua e là, come abbiamo visto
nelle pagine precedenti – lo impone una necessità che è tale per
gli stessi produttori: lo impone la necessità, per ogni uomo e
donna sana, di passare parte della vita nel lavoro manuale
all’aria aperta; e diventerà ancora più necessario quando i grandi
sommovimenti sociali, oggi divenuti inevitabili, verranno a
perturbare l’attuale scambio internazionale spingendo ogni nazione
a fare ricorso alle proprie risorse per mantenersi. L’umanità
intera, come ogni singolo individuo, guadagneranno nel cambio, e
il cambio sarà inevitabile.
Per noi, però, esso implica anche una completa modifica dell’attuale sistema educativo. Implica una società composta da uomini e donne capaci di lavorare con le proprie mani ma anche con il proprio cervello, e di farlo in più attività. È questa «integrazione di capacità», è questa «istruzione integrale», che intendo ora analizzare.
Kropotkin svolge una critica radicale al collettivismo, cioè a
quel sistema che intende mantenere la remunerazione individuale
a fianco di una socializzazione dei mezzi di produzione. Il
collettivismo sia esso libertario o autoritario, non attuando
una trasformazione vera dell’esistente, implica una conseguenza
contraddittoria, perché gli esiti della rivoluzione sociale
risultano limitati da forme più arretrate dell’opera demolitrice
della rivoluzione medesima; esso, in altri termini, dimostra i
suoi limiti rispetto al compito immane dell’emancipazione
integrale.
Si pensi, ad esempio, al superamento della divisione
gerarchica del lavoro sociale, vera base strutturale della
disuguaglianza. Il regime collettivista, infatti, se da un lato
intende socializzare i mezzi di produzione, dall’altro lascia
intatta la diversa remunerazione individuale scaturita dalla
differente qualità di lavoro erogata da ciascun membro della
società. In tal modo, secondo Kropotkin, si costituisce la
sanzione «socialista» della gerarchia sociale, la santificazione
del principale ostacolo dell’obiettivo egualitario.
Come Bakunin, Kropotkin ritiene che il superamento della
divisione gerarchica del lavoro sia la via maestra per
l’abolizione delle classi. Ancora una volta, la norma 181del
dover essere si coniuga con la constatazione dell’oggettività
necessitante della sua utilità pratica. Ne deriva, in questo
caso, l’idea del perseguimento dell’«uomo completo».
L’integrazione del lavoro, infatti, mira a sviluppare un essere
sociale «completo», mentre nello stesso tempo abolisce la
gerarchia sociale che sta alla base di ogni disuguaglianza.
Vi è qui una perfetta analogia con il rapporto città-
campagna. Infatti, come il lavoro intellettuale è dominante
rispetto a quello manuale, così la posizione della città è
dominante rispetto a quella della campagna: non si può, insomma,
integrare l’uno senza integrare l’altro. Perciò l’integrazione
fra lavoro manuale e intellettuale è perfettamente
complementare, in senso anarchico, a quella fra centro e
periferia.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana di Campi, fabbriche officine del 19822 , nella
traduzione (rivista) di Franco Marano.
In passato gli scienziati, soprattutto quelli che maggiormente
hanno contribuito allo sviluppo delle scienze naturali, non
disdegnavano il lavoro e le attività manuali. Galileo si costruiva
i telescopi da sé. Newton apprese da ragazzo l’arte di maneggiare
gli utensili ed esercitava la sua giovane mente ideando le
macchine più ingegnose; e quando intraprese le sue ricerche
ottiche, fu in grado di fabbricarsi da solo le lenti per i suoi
strumenti e di costruire, sempre da solo, il famoso telescopio,
che rappresentò, per quei tempi, un ottimo esempio di abilità
tecnica. Leibniz si dedicava con passione all’invenzione di
macchine: mulini a vento e carri senza cavalli ne impegnavano la
mente tanto quanto le speculazioni matematiche e filosofiche.
Linneo divenne botanico aiutando suo padre, esperto giardiniere,
nei lavori di ogni giorno. In breve, per i grandi geni l’abilità
manuale non costituiva un ostacolo alle ricerche teoriche: al
contrario, le favoriva. D’altra parte, se in passato gli operai
avevano ben poche occasioni di esercitare la scienza, molti di
loro trovavano però uno stimolo intellettuale nelle svariate
occupazioni delle officine non specializzate di allora; e alcuni
ebbero la fortuna di intrattenere rapporti amichevoli con uomini
di scienza. Watt e Rennie furono amici del professor Robinson; lo
stradino Brindley, malgrado il suo salario di 14 scellini
giornalieri, frequentava uomini istruiti ed ebbe così modo di
sviluppare le proprie notevoli doti ingegneristiche; il rampollo
di una famiglia benestante poteva «perder tempo» nella bottega di
un carradore, preparandosi a divenire, più tardi, uno Smeaton o
uno Stephenson.
Tutto questo è cambiato. Col pretesto della divisione del lavoro,
abbiamo nettamente separato il lavoratore intellettuale dal
lavoratore manuale. La massa degli operai non riceve oggi maggiore
istruzione scientifica di quanta ne ricevessero le generazioni
passate; anzi, è stata privata persino dell’istruzione che può
dare la piccola officina, mentre i suoi figli e figlie, dai
tredici anni in poi, vengono avviati in miniera o in fabbrica, e
lì dimenticano ben presto quel poco che hanno potuto imparare a
scuola. Quanto agli uomini di scienza, essi disprezzano il lavoro
manuale. Pochi sarebbero in grado di costruire un telescopio, o
anche uno strumento meno complesso! La maggior parte non sarebbe
neppure capace di disegnare uno strumento scientifico, e una volta
dato allo strumentista un vago suggerimento, lascia a lui il
compito di creare l’apparecchio di cui ha bisogno. Per di più,
hanno elevato il disprezzo per il lavoro manuale a livello di
teoria. «All’uomo di scienza», affermano, «scoprire le leggi della
natura, all’ingegnere applicarle, e all’operaio eseguire in
acciaio o in legno, in ferro o in pietra, i progetti ideati
dall’ingegnere. Egli deve lavorare con le macchine ideate per lui,
ma non da lui. Non importa che non le capisca e non sia in grado
di perfezionarle: lo scienziato e l’ingegnere penseranno al
progresso della scienza e dell’industria».
Si potrebbe obiettare che, ciononostante, esiste una classe di
uomini che non rientra in nessuna delle tre categorie appena
delineate. Da giovani sono stati lavoratori manuali, e alcuni lo
rimangono, ma grazie a fortunate circostanze sono riusciti ad
acquisire una certa preparazione scientifica e hanno perciò
combinato la scienza con il mestiere. Uomini del genere esistono,
e siamo fortunati che sia rimasto un certo numero di individui
sfuggiti alla tanto decantata specializzazione del lavoro perché è
proprio a loro che l’industria deve le sue principali e più
recenti invenzioni. Ma nella vecchia Europa rappresentano
un’eccezione: sono gli irregolari, i «cosacchi» che hanno rotto le
righe e sfondato le barriere tanto laboriosamente erette tra le
classi. E sono così poco numerosi, in confronto alle sempre
crescenti esigenze dell’industria – e della scienza – che tutto il
mondo lamenta proprio la scarsità di uomini del genere.
Come si spiega, in effetti, la pressante richiesta di
insegnamento professionale sorta simultaneamente in Inghilterra,
Francia, Germania, Stati Uniti e Russia, se non come la
conseguenza di un generale malcontento verso l’attuale divisione
tra scienziati, ingegneri e operai? Prestate orecchio a coloro che
conoscono l’industria e sentirete che proprio questo è l’oggetto
delle loro lamentele: «L’operaio, le cui mansioni sono diventate
così specialistiche a causa della divisione permanente del lavoro,
ha perduto ogni interesse intellettuale nel proprio lavoro, e ciò
è avvenuto soprattutto nelle grandi industrie: egli ha perso le
sue capacità creative. Una volta creava in continuazione. È ai
lavoratori manuali – e non agli uomini di scienza o agli esperti
di ingegneria – che si deve l’invenzione o il perfezionamento dei
motori e di tutta quella massa di macchinari che hanno
rivoluzionato l’industria negli ultimi cento anni. Ma da quando è
sorta la grande fabbrica, l’operaio, depresso dalla monotonia del
proprio lavoro, non crea più nulla. Che cosa potrebbe inventare,
infatti, un tessitore impegnato soltanto a sorvegliare quattro
telai, senza sapere nulla dei loro complicati movimenti o del modo
in cui queste macchine sono state concepite? Che cosa potrebbe
creare un uomo condannato per tutta la vita ad annodare alla
massima velocità i capi di due fili e capace soltanto di fare un
nodo?
«All’inizio dell’industria moderna, tre generazioni di operai
sono stati capaci di inventare: oggi non lo fanno più. Quanto alle
invenzioni degli ingegneri particolarmente esperti nella
progettazione di macchine, o non sono affatto geniali, o non sono
abbastanza pratiche. Mancano in tali invenzioni quei ‘nonnulla’ di
cui parlava una volta a Bath sir Frederick Bramwell – quei
nonnulla che si possono apprendere solo in officina e che
permisero a Murdoch e agli operai di Soho di ricavare una macchina
vera dai disegni di Watt. Solo chi conosce la macchina, non
soltanto nei progetti e nei modelli ma nel respiro e nelle
pulsazioni, solo chi inconsciamente la pensa mentre le sta vicino,
può veramente perfezionarla. Smeaton e Newcomen erano certamente
eccellenti ingegneri, ma nei loro motori un ragazzo doveva aprire
la valvola del vapore a ogni colpo di pistone, e fu proprio uno di
questi ragazzi a scoprire un giorno il modo di collegare la
valvola al resto della macchina perché si aprisse automaticamente,
mentre egli si allontanava per giocare con i compagni. Tuttavia,
nei macchinari moderni i perfezionamenti improvvisati come questi
non sono più possibili. E se per ulteriori invenzioni è diventata
necessaria l’istruzione scientifica su larga scala, questa
istruzione viene negata agli operai. E non c’è verso di superare
tale difficoltà, a meno che istruzione scientifica e mestiere non
vengano combinati; a meno che l’integrazione delle conoscenze non
sostituisca le attuali specializzazioni».
Ecco la vera sostanza dell’attuale movimento a favore
dell’insegnamento professionale. Ma invece di chiarire al pubblico
le ragioni, forse incomprese, dell’attuale malcontento, invece di
allargare l’orizzonte degli scontenti e discutere il problema in
tutta la sua estensione, i promotori del movimento non
oltrepassano, in genere, il punto di vista di un bottegaio. Alcuni
si perdono in chiacchiere sulla necessità di annientare la
concorrenza di tutte le industrie straniere; altri vedono
nell’insegnamento professionale solo uno strumento per
perfezionare leggermente la macchina di carne della fabbrica e
promuovere alcuni operai alla classe superiore degli ingegneri.
Un simile ideale può bastare a loro, ma non certo a quanti,
tenendo ben presenti gli interessi comuni della scienza e
dell’industria, considerano entrambe come il mezzo per elevare il
livello dell’umanità. Noi sosteniamo che, nell’interesse della
scienza e dell’industria, come anche della società nel suo
complesso, ogni essere umano, senza distinzione di nascita,
dovrebbe ricevere un’istruzione tale da permettergli di unire una
solida preparazione scientifica a una solida preparazione
professionale. Riconosciamo, certo, la necessità di una
preparazione specialistica, ma sosteniamo anche che la
specializzazione viene dopo l’istruzione generale e che
l’istruzione generale deve comprendere tanto la scienza quanto il
mestiere. Alla divisione della società tra lavoratori
intellettuali e lavoratori manuali contrapponiamo l’unione di
entrambi i tipi di attività; e invece che per l’«insegnamento
professionale», che sottintende il mantenimento dell’attuale
divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, siamo per
l’éducation intégrale, l’istruzione integrale, che comporta la
scomparsa di tale nociva distinzione.
In parole povere, lo scopo della scuola in un simile sistema
dovrebbe essere il seguente: impartire un’istruzione tale che, nel
lasciare la scuola all’età di diciottovent’anni, ragazzi e ragazze
fossero provvisti di una solida preparazione scientifica – una
preparazione che ne facesse dei validi lavoratori scientifici – e
nello stesso tempo avessero in pugno le basi della preparazione
professionale; inoltre, dovrebbero disporre di una particolare
specializzazione in grado di assicurare loro un posto nel grande
mondo della produzione manuale di ricchezza. So che molti
troveranno questo scopo troppo ambizioso, o addirittura
impossibile da raggiungere, ma spero che, se avranno la pazienza
di leggere le pagine che seguono, si accorgano che non chiediamo
nulla di irrealizzabile. In effetti, tale scopo è già stato
raggiunto, e ciò che si è fatto in piccolo lo si potrebbe fare più
in grande se cause economiche e sociali non impedissero
l’attuazione di ogni seria riforma nella nostra società così
infelicemente organizzata.
Lo spreco di tempo è l’aspetto dominante della nostra attuale
istruzione. Non solo si insegnano un mucchio di cose inutili, ma
ciò che inutile non è ci viene comunque insegnato in modo da farci
sprecare su di esso quanto più tempo possibile. I nostri attuali
metodi di insegnamento risalgono a un tempo in cui le doti
richieste a una persona istruita erano estremamente limitate, e
sono rimasti inalterati anche se la mole di nozioni da indirizzare
alla mente dello scolaro, dopo che la scienza ha tanto esteso i
suoi antichi confini, sia immensamente cresciuta. Di qui
l’oppressività delle scuole, e sempre di qui l’urgenza di rivedere
interamente sia gli argomenti sia i metodi di insegnamento in base
alle nuove esigenze e agli esempi già forniti, qui e là, da
singole scuole e da singoli educatori.
È evidente che gli anni dell’infanzia non andrebbero sprecati
come oggi. I pedagoghi tedeschi hanno dimostrato come gli stessi
giochi infantili possano servire a indirizzare alla mente dei
bambini qualche nozione concreta di geometria e di matematica. I
bambini che hanno realizzato i quadrati del teorema di Pitagora
con dei pezzi di cartone colorato non considereranno il teorema,
quando lo ritroveranno in geometria, come un semplice strumento di
tortura inventato dagli insegnanti; e ciò sarà più vero se lo
applicheranno come lo applicano i carpentieri. I complicati
problemi di aritmetica, che hanno tanto tormentato la nostra
infanzia, vengono facilmente risolti da bambini di sette-otto anni
se posti sotto forma di interessanti giochi di pazienza. E se il
Kindergarten – che i pedagoghi tedeschi spesso trasformano in una
specie di caserma, dove ogni movimento del bambino è regolato in
anticipo – è spesso divenuto una prigione per i piccoli, l’idea
dalla quale è nato è ciononostante valida. In effetti, è quasi
impossibile immaginare, senza averlo verificato, quante solide
nozioni naturali, quante abitudini alla classificazione e quanto
gusto per le scienze naturali possano essere indirizzati alle
menti dei bambini. E se l’idea di una serie di corsi concentrici,
adeguati alle diverse fasi di sviluppo dell’essere umano, venisse
generalmente accolta nell’istruzione, il primo corso di ogni
scienza, eccettuata la sociologia, potrebbe essere insegnato prima
dei diecidodici anni, dando così una visione generale
dell’universo, della Terra e dei suoi abitanti, e dei principali
fenomeni fisici, chimici, zoologici e botanici, e lasciando la
scoperta delle leggi di tali fenomeni a corsi successivi più
approfonditi e specializzati.
D’altra parte, sappiamo tutti come i bambini amino costruirsi da
soli i giocattoli e come imitino spontaneamente le occupazioni
degli adulti quando li vedono al lavoro in officina o nel
cantiere. Ma i genitori talvolta bloccano stupidamente questa
passione, talvolta non sanno come utilizzarla. La maggior parte
disprezza il lavoro manuale e preferisce far studiare ai bambini
la storia romana, o i precetti di Franklin sul risparmio, anziché
vederli al lavoro, buono «solo per le classi inferiori». E in
questo modo fanno del loro meglio per rendere più difficile
l’apprendimento successivo.
Poi arrivano gli anni della scuola, e il tempo viene di nuovo
incredibilmente sprecato. Prendiamo, ad esempio, la matematica,
che tutti dovrebbero conoscere in quanto costituisce la base di
ogni successiva istruzione, e che pochi imparano veramente nelle
nostre scuole. In geometria il tempo viene scioccamente sprecato
con l’uso del metodo mnemonico. Nella maggioranza dei casi, il
ragazzo legge e rilegge più volte la dimostrazione di un teorema,
fino a quando non ha imparato a memoria la successione dei
ragionamenti. È per questo che nove ragazzi su dieci, alla
richiesta di dimostrare un semplice teorema due anni dopo aver
lasciato la scuola, saranno incapaci di farlo, a meno che la
matematica non sia la loro specializzazione. Essi avranno
dimenticato le linee ausiliarie da tracciare non avendo mai
imparato a scoprire le prove da soli. Nessuna meraviglia se più
tardi, nell’applicare la geometria alla fisica, incontreranno
tante difficoltà, se il loro progresso sarà disperatamente lento,
e se pochi saranno in grado di padroneggiare la matematica più
complessa.
Esiste, tuttavia, un altro metodo, che consente all’allievo di
progredire, nel complesso, molto più velocemente e con il quale
chi ha imparato la geometria non la dimenticherà più. Con questo
sistema, ogni teorema viene posto come un problema; la soluzione
non viene mai data in anticipo, ma l’allievo è costretto a
trovarla da solo. Così, se si sono fatti degli esercizi
preliminari con il regolo e il compasso, non c’è ragazzo o ragazza
che non riesca a tracciare un angolo uguale a un altro dato angolo
e a dimostrarne l’uguaglianza dietro pochi suggerimenti
dell’insegnante; e se i problemi seguenti vengono dati in
successione sistematica (esistono testi eccellenti in materia) e
l’insegnante non costringe gli allievi ad andare più in fretta di
quanto all’inizio siano in grado, questi passeranno da un problema
all’altro con facilità sorprendente, una volta superata la
difficoltà iniziale di indurre l’allievo a risolvere il primo e
perciò ad acquistare fiducia nel suo stesso ragionamento.
Inoltre, ogni verità geometrica astratta va impressa nella mente
anche nella sua forma concreta. Non appena gli allievi avranno
risolto dei problemi sulla carta, li si spinga a risolverli anche
sul campo da gioco con dei bastoncini e uno spago, e ad applicare
la propria conoscenza in officina. Solo allora le linee
geometriche assumeranno un significato concreto nella mente dei
bambini; solo allora questi si accorgeranno che l’insegnante non
li prende in giro quando chiede loro di risolvere i problemi con
il regolo e il compasso senza ricorrere al goniometro; solo allora
conosceranno la geometria.
«Dagli occhi e dalla mano al cervello»: è questo il vero 190modo
per risparmiare tempo nell’insegnamento. Ricordo, come fosse ieri,
in che modo la geometria acquistasse per me, improvvisamente, un
nuovo significato, e come questo nuovo significato mi facilitasse
ogni studio successivo. Fu mentre a scuola lavoravamo attorno a
una mongolfiera, e io osservai come l’angolo in cima a ognuna
delle venti strisce di carta che costituivano il pallone dovesse
coprire meno d’un quinto di angolo retto. Ricordo poi come seni e
tangenti cessassero di essere semplici segni cabalistici quando ci
permisero di calcolare la lunghezza di un bastoncino nell’eseguire
la sezione di un fortino, e come la geometria dello spazio si
facesse semplice quando cominciammo a costruire un piccolo
bastione con feritoie e barbette: occupazione che naturalmente ci
fu subito proibita per lo stato in cui riducemmo i nostri vestiti.
«Sembrate degli sterratori», ci rimproverarono i nostri sapienti
insegnanti, mentre noi eravamo orgogliosi proprio di questo e di
avere scoperto l’uso della geometria.
Obbligando i nostri figli a studiare cose reali su semplici
rappresentazioni grafiche, invece di fargliele fare direttamente,
li costringiamo a sprecare un tempo prezioso; ne impegniamo
inutilmente le menti; li abituiamo ai peggiori metodi di
apprendimento; uccidiamo sul nascere l’indipendenza del pensiero;
e molto raramente riusciamo a dar loro un’idea concreta di quanto
insegniamo. Superficialità, ripetizioni a pappagallo, schiavitù e
inerzia mentale: ecco i risultati del nostro metodo di
insegnamento. Ai nostri bambini non insegniamo ad apprendere.
Anche l’insegnamento dei princìpi scientifici segue il medesimo
deleterio sistema. Nella maggior parte delle scuole l’aritmetica
viene insegnata in modo astratto, imbottendo le povere testoline
di semplici regole. In questo Paese, negli Stati Uniti e in
Russia, invece di accettare il sistema metrico decimale, si
torturano ancora i bambini insegnando loro un sistema di pesi e
misure superato già da un pezzo.
Il tempo che si spreca per la fisica è semplicemente indecente.
Mentre i giovani comprendono molto facilmente i princìpi della
chimica e le sue formule non appena passano a fare direttamente i
primi esperimenti con ampolle e provette, trovano infinitamente
difficile impadronirsi dell’introduzione meccanica alla fisica, in
parte perché non conoscono la geometria, ma soprattutto perché
vengono loro mostrate solo macchine costose invece di essere
indotti a costruire direttamente i semplici apparecchi che
illustrano i fenomeni studiati.
Invece di apprendere le leggi dell’energia per mezzo di semplici
strumenti che anche un ragazzo di quindici anni sarebbe in grado
di costruire, le imparano dai disegni, in modo completamente
astratto. Invece di costruire direttamente una macchina di Atwood
con un manico di scopa e il bilanciere di un vecchio orologio, o
di verificare le leggi della caduta dei corpi facendo scivolare
una chiave su una cordicella inclinata, si mostra loro un
complicato apparecchio, e nella maggior parte dei casi lo stesso
insegnante non riesce a spiegare il principio perdendosi in
dettagli irrilevanti. In realtà, ogni apparecchio che serva ad
illustrare le leggi fondamentali della fisica andrebbe costruito
dagli stessi ragazzi.
Lo spreco di tempo è la caratteristica non solo dei nostri metodi
di insegnamento scientifico, ma anche dei metodi usati
nell’insegnamento professionale. Sappiamo bene quanti anni sprechi
un ragazzo che fa tirocinio in officina. Ma lo stesso rimprovero
lo si può rivolgere a maggior ragione a quelle scuole
professionali che cercano di insegnare, tutto in una volta, un
qualche mestiere particolare, invece di ricorrere ai metodi più
completi e sicuri dell’insegnamento sistematico.
Ogni macchina, per quanto complicata, la si può ridurre a pochi
elementi (piastre, cilindri, dischi, coni, ecc.) e a pochi
attrezzi (scalpelli, seghe, rulli, martelli ecc.), e per quanto
complicati siano i suoi movimenti, li si può ricondurre a poche
variazioni del moto, come la trasformazione del moto circolare in
rettilineo e simili, con una quantità di fasi intermedie. Allo
stesso modo, ogni mestiere può essere scomposto in un certo numero
di elementi. In ogni mestiere si deve saper fare una piastra a
facce parallele, un cilindro, un disco, un foro quadrato e uno
rotondo; si deve saper maneggiare un numero limitato di attrezzi,
dato che tutti gli attrezzi sono semplici modifiche di una decina
di tipi; e si deve saper trasformare un tipo di moto in un altro.
È questa la base di tutti i mestieri meccanici, sicché la capacità
di eseguire in legno quegli elementi primari e di trasformare i
vari tipi di moto andrebbe considerata la vera base dell’ulteriore
insegnamento di ogni mestiere meccanico. L’allievo fornito di tali
capacità conosce già una buona metà di tutti i mestieri possibili.
Si tratti di un mestiere, di scienza o di arte, lo scopo
principale della scuola non è di trasformare il principiante in
uno specialista, ma di dargli una preparazione e buoni metodi di
lavoro, e soprattutto di infondergli quella generale ispirazione
che lo spingerà più tardi, in qualsiasi cosa faccia, a una sincera
ricerca della verità, ad amare tutto ciò che è bello, sia nella
forma sia nel contenuto, a sentire il bisogno di rendersi utile
insieme a tutti gli altri uomini e portare così il suo cuore
all’unisono con il resto dell’umanità.
Quanto ad evitare all’allievo la monotonia di un lavoro durante
il quale non farebbe che cilindri e dischi, e mai macchine
complete o altri oggetti utili, vi sono migliaia di mezzi per
ovviare alla mancanza di interesse e uno di essi, utilizzato a
Mosca, è degno di menzione. Si tratta di non attribuire un lavoro
come semplice esercizio, ma di utilizzare qualsiasi cosa l’allievo
faccia sin dalle prime lezioni. Ricordate con quale compiacimento,
da bambini, vedevate il vostro lavoro utilizzato, anche solo come
accessorio di qualcosa di utile? E così si faceva alla Scuola
Professionale di Mosca. Ogni asse piallata dagli allievi veniva
adoperata come accessorio di una macchina in una qualche officina.
Quando un allievo, una volta ammesso al laboratorio di ingegneria,
veniva messo a eseguire un blocco quadrangolare di ferro a lati
paralleli e perpendicolari, quel blocco assumeva ai suoi occhi un
certo interesse visto che una volta terminato, dopo aver
verificato angoli e lati e corretto i difetti, non finiva sotto il
banco, ma veniva passato a un altro allievo più esperto che vi
aggiungeva una maniglia, lo verniciava e lo mandava al negozio
della scuola come fermacarte. L’insegnamento sistematico
acquistava così le dovute attrattive. (La vendita dei lavori
eseguiti dagli allievi non era affatto trascurabile, soprattutto
per i corsi avanzati dove si costruivano macchine a vapore.
Proprio per questo la Scuola Professionale di Mosca, al tempo in
cui la conobbi, era una delle più economiche del mondo. Pensione e
insegnamento costavano molto poco. Ma provate a immaginare una
scuola annessa a una fattoria dove si coltivassero e scambiassero
derrate a prezzo di costo: quanto costerebbe in tal caso
l’insegnamento?).
È evidente che la rapidità del lavoro è un fattore
importantissimo per la produzione. E dunque non possiamo non
chiederci se, con il sistema sopra accennato, si raggiunga la
necessaria rapidità. Ma vi sono due generi di rapidità. C’è la
rapidità che ebbi modo di osservare in una fabbrica di merletti di
Nottingham: uomini maturi, mani e teste percorse da un tremito,
annodavano febbrilmente i capi di due fili di cotone rimasti nelle
bobine; a stento si riusciva a seguirne i movimenti. Ma il fatto
stesso che una fabbrica richieda una rapidità di esecuzione come
questa basta da solo a condannarla. Che cosa è rimasto dell’essere
umano in quei corpi tremolanti? Quale sarà il loro futuro? Perché
questo spreco di energie umane quando le stesse potrebbero
produrre dieci volte il valore di quegli scarti? Questo genere di
rapidità dipende esclusivamente dal basso costo degli schiavi di
fabbrica; ci auguriamo dunque che nessuna scuola tenti mai di
esigerla. Ma c’è anche la rapidità dell’operaio preparato che
permette di risparmiare tempo, e ad essa si può arrivare
facilmente con il tipo di istruzione da noi proposta. Per quanto
semplice sia il suo lavoro, l’operaio istruito lo svolge meglio e
più in fretta di quello non istruito.
Osserviamo, ad esempio, i gesti di un bravo operaio quando taglia
qualcosa – diciamo un pezzo di cartone – e confrontiamoli con
quelli di un operaio poco esperto. Quest’ultimo afferra il
cartone, prende l’attrezzo così com’è, traccia una linea a
casaccio e comincia a tagliare; a metà strada è già stanco e,
quando ha finito, il suo lavoro non serve a nulla; il primo,
invece, esaminerà il suo attrezzo e lo perfezionerà se necessario,
traccerà la linea con esattezza, fisserà regolo e cartone, terrà
l’attrezzo nel modo giusto, taglierà molto facilmente e consegnerà
un lavoro ben fatto.
Ecco la vera rapidità, quella che consente di risparmiare tempo e
lavoro; e il miglior modo d’arrivarci è un’istruzione di tipo
veramente superiore. I grandi maestri dipingevano con rapidità
prodigiosa, ma la loro rapidità derivava da un grande sviluppo
dell’intelligenza e dell’immaginazione, da un profondo senso della
bellezza, da una sofisticata percezione dei colori. Ed è proprio
questo il genere di rapidità di lavoro di cui l’umanità ha
bisogno.
Vi sarebbero ancora molte cose da dire sui compiti della scuola,
ma mi limito ad aggiungere qualcosa sull’auspicabilità del tipo di
istruzione brevemente tratteggiato nelle pagine precedenti.
Certamente non mi illudo sulla realizzazione di una riforma
radicale, o anche soltanto parziale, dell’istruzione finché le
nazioni civili rimarranno legate all’attuale sistema, meschino ed
egoistico, di produzione e di consumo. Tutto ciò che possiamo
aspettarci, fino a quando dureranno le condizioni attuali, sono
dei microscopici tentativi di riforma, fatti qua e là e marginali;
tentativi che si fermeranno, ovviamente, molto lontano dai
risultati auspicati, data l’impossibilità di riforme anche
marginali quando sussiste un legame così stretto fra le molteplici
funzioni di una nazione civile. Ma la potenza del genio
costruttore della società dipende principalmente da quanto
profonda è la sua opinione riguardo a ciò che andrebbe fatto e sul
come realizzarlo. La necessità di rimodellare l’istruzione è una
di quelle universalmente riconosciute, la più adatta a ispirare
nella società quegli ideali senza i quali il ristagno, o
addirittura la decadenza, si presentano inevitabili.
Supponiamo perciò che una comunità – una città, o un territorio
di almeno qualche milione di abitanti – fornisca a tutti i suoi
bambini, senza distinzione di nascita (e siamo abbastanza ricchi
da concedercene il lusso), l’istruzione che abbiamo tratteggiato,
senza chiedere loro in cambio null’altro all’infuori di quello che
essi daranno una volta divenuti produttori di ricchezza.
Supponiamo che questa istruzione venga introdotta e analizziamone
le probabili conseguenze.
Non insisterò sull’aumento della ricchezza che risulterebbe dalla
disponibilità di un giovane esercito di istruiti ed esperti
produttori; e neppure mi dilungherò sui benefici sociali che
deriverebbero sia dall’annullamento della distinzione attuale tra
lavoratori intellettuali e lavoratori manuali, sia dalla raggiunta
comunanza di interessi e dall’armonia tanto necessaria in questi
tempi di lotte sociali. Non mi dilungherò neanche sull’esistenza
più completa di cui ogni singolo individuo godrebbe se gli si
consentisse di servirsi appieno delle proprie capacità
intellettuali e fisiche, né sui vantaggi che si ricaverebbero
collocando il lavoro manuale al posto di onore che gli spetta
nella società (mentre oggi rappresenta un marchio di inferiorità).
E non insisterò neppure sulla scomparsa dell’attuale miseria e
degradazione e delle loro conseguenze – immoralità, crimine,
carceri, delazione e simili – che necessariamente seguirebbe. In
breve, non entrerò adesso nella grande questione sociale, sulla
quale tanto è stato scritto e tanto rimane ancora da scrivere.
Voglio soltanto mettere in rilievo, in queste pagine, i benefici
che la scienza stessa trarrebbe dal mutamento.
Alcuni diranno, naturalmente, che ridurre gli uomini di scienza
al ruolo di lavoratori manuali provocherebbe il decadimento della
scienza e del genio. Ma chi terrà conto delle considerazioni che
seguono si renderà conto che è vero l’opposto, cioè che
provocherebbe un tale risveglio della scienza e dell’arte, e un
tale progresso dell’industria, che possiamo farcene solo una
pallidissima idea grazie anche a ciò che sappiamo dell’epoca
rinascimentale. È diventato un luogo comune magnificare i
progressi della società durante il XIX secolo, ed è evidente che
questo secolo, se confrontato ai precedenti, ha molte ragioni di
vanto. Ma se teniamo presente che la maggior parte dei problemi
che ha risolto erano già stati evidenziati, e le loro soluzioni
previste, un centinaio di anni prima, dobbiamo riconoscere che il
progresso non è stato così rapido come si sarebbe voluto e che
qualcosa lo ha ostacolato.
La teoria meccanica del calore era stata perfettamente
prospettata nel secolo precedente da Rumford e da Humphry Davy, e
sostenuta anche in Russia da Lomonosoff. Eppure, ben più di mezzo
secolo è passato prima che la teoria riapparisse nella scienza.
Lamarck, ma anche Linneo, Geoffroy Saint-Hilaire, Erasmo, Darwin e
parecchi altri si rendevano perfettamente conto della mutabilità
della specie e si avviavano ad aprire la strada alla costruzione
della biologia sui princìpi della mutazione; ma anche qui si
dovettero perdere altri cinquant’anni prima che la mutazione
tornasse alla ribalta. Va anche ricordato come le idee di Darwin
fossero soprattutto portate avanti, e imposte all’attenzione del
mondo accademico, da persone che non erano scienziati
professionisti; e presso lo stesso Darwin la teoria
dell’evoluzione ha avuto limiti ristretti per l’importanza
preponderante attribuita a uno solo dei fattori dell’evoluzione.
In breve, non c’è una sola scienza che non risenta, nel suo
sviluppo, della mancanza di uomini e donne dotati di una
concezione filosofica dell’universo, pronti ad applicare il
proprio spirito di ricerca in un dato campo, per quanto limitato,
e sufficientemente provvisti di tempo per votarsi al lavoro
scientifico. In una comunità come quella che noi immaginiamo,
migliaia di lavoratori sarebbero pronti a rispondere a qualsiasi
appello in nome della ricerca. Darwin spese quasi trent’anni della
sua vita a raccogliere e analizzare i fenomeni necessari
all’elaborazione della teoria sull’origine della specie. Se fosse
vissuto in una società come quella da noi ipotizzata, gli sarebbe
bastato fare appello a dei volontari che si dedicassero alla
ricerca dei fenomeni e alla sperimentazione particolare, e
migliaia di esploratori avrebbero risposto al suo appello. Decine
di associazioni sarebbero sorte per dibattere e risolvere ciascuno
dei problemi particolari implicati dalla teoria, così che in dieci
anni se ne sarebbe avuta la verifica; e tutti i fattori
dell’evoluzione, ai quali soltanto oggi si comincia ad accordare
la necessaria attenzione, sarebbero apparsi in piena luce. Il
progresso scientifico sarebbe stato dieci volte più rapido, e se
pure il singolo non avrebbe gli stessi diritti alla gratitudine
dei posteri che ha oggi, la massa sconosciuta avrebbe eseguito il
lavoro più velocemente e dischiuso al progresso futuro prospettive
maggiori di quante può aprirne il singolo in una vita intera.
Ma c’è un altro aspetto della scienza moderna che depone ancora
più imperiosamente a favore del cambiamento che sosteniamo. Mentre
l’industria, soprattutto dalla fine del secolo scorso e durante la
prima parte dell’attuale, è andata moltiplicando le sue creazioni
in misura tale da rivoluzionare la faccia stessa della Terra, la
scienza è andata perdendo le sue capacità creative. Gli uomini di
scienza non creano più nulla, o creano pochissimo. Non è
sorprendente, in effetti, che la macchina a vapore, anche nei suoi
princìpi fondamentali, la locomotiva, il battello a vapore, il
telefono, il fonografo, il telaio meccanico, la macchina per
merletti, il faro, la strada in macadam, la fotografia in bianco e
nero e a colori, e migliaia di altre cose meno importanti, non
siano state inventate da scienziati di professione? Eppure,
nessuno di loro avrebbe rifiutato di associare il proprio nome a
una qualsiasi di dette invenzioni. Uomini che avevano ricevuto, a
scuola un’istruzione rudimentale, che avevano a malapena raccolto
le briciole del sapere dalla tavola dei ricchi, e che effettuavano
i propri esperimenti con i mezzi più primitivi – il commesso
d’avvocato Smeaton, l’attrezzista Watt, il frenatore Stephenson,
l’apprendista-gioielliere Fulton, il costruttore di mulini Rennie,
il muratore Telford, e centinaia di altri di cui persino il nome
rimane sconosciuto – sono stati, come dice giustamente Smiles, «i
veri creatori della civiltà moderna». Al contrario, gli scienziati
di professione, provvisti di ogni mezzo necessario ad acquisire
conoscenze e a sperimentare, hanno avuto ben poca parte
nell’invenzione di quel formidabile complesso di apparecchi,
macchine e motori che ha permesso all’umanità di utilizzare e di
padroneggiare le forze della natura. (La chimica rappresenta, in
genere, un’eccezione alla regola. Non sarà perché il chimico è in
gran parte un lavoratore manuale? Inoltre, negli ultimi dieci anni
si è notato un deciso risveglio della creatività scientifica,
soprattutto in fisica: vale a dire, in un campo dove l’ingegnere e
l’uomo di scienza hanno modo d’incontrarsi spesso). Il fatto è
sorprendente, ma la sua ragione è molto semplice: quegli uomini –
i Watt e gli Stephenson – sapevano qualcosa che i savants non
sanno: sapevano servirsi delle mani; il loro ambiente ne stimolava
le capacità creative; conoscevano le macchine nei loro princìpi
fondamentali e nel loro funzionamento; avevano respirato
l’atmosfera dell’officina e del cantiere.
Ben sappiamo come gli uomini di scienza accoglieranno il
rimprovero. Diranno: «Noi scopriamo le leggi della natura,
lasciate che siano gli altri ad applicarle; si tratta
semplicemente di dividere il lavoro». Ma una tale risposta è
assolutamente falsa. La marcia del progresso segue la direzione
opposta, poiché in novantanove casi su cento l’invenzione
meccanica precede la scoperta della legge scientifica. Non è stata
la teoria dinamica del calore a precedere la macchina a vapore, ma
viceversa.
Quando già migliaia di macchine, da più di mezzo secolo,
trasformavano il calore in moto sotto gli occhi di centinaia di
professori; quando già migliaia di treni, bloccati da freni
potenti, approssimandosi alle stazioni sprigionavano calore e
spandevano sui binari fasci di 199scintille; quando già in tutto
il mondo civile magli e perforatrici andavano rendendo
incandescenti le masse di ferro loro sottoposte, allora e soltanto
allora, Séguin in Francia e Mayer in Germania si arrischiarono a
formulare la teoria meccanica del calore con tutte le sue
conseguenze. Ma in aggiunta, gli uomini di scienza ignorarono il
lavoro di Séguin e quasi spinsero Mayer alla pazzia aggrappandosi
ostinatamente al loro misterioso fluido calorico. Peggio ancora,
definirono «non scientifica» la prima enunciazione di Joule
sull’equivalente meccanico del calore.
Non fu la teoria dell’elettricità a darci il telegrafo. Quando il
telegrafo venne inventato, tutto ciò che sapevamo sull’elettricità
si riduceva a pochi fatti raccolti alla meno peggio nei nostri
libri; ancora oggi la teoria dell’elettricità non è pronta ma
aspetta sempre il suo Newton, nonostante i brillanti tentativi
degli ultimi anni. Anche la conoscenza empirica sulle leggi della
corrente elettrica si trovava al suo stadio primitivo quando pochi
audaci stesero un cavo in fondo all’Atlantico, malgrado lo
scetticismo degli uomini di scienza ufficiali.
Il termine «scienza applicata» è assolutamente scorretto, poiché
nella gran maggioranza dei casi le invenzioni, lungi dall’essere
un’applicazione della scienza, creano al contrario un nuovo ramo
di scienza. I ponti americani non sono affatto stati
un’applicazione della teoria dell’elasticità: l’hanno preceduta, e
tutto ciò che possiamo dire a favore della scienza è che, in
questo particolare settore, teoria e pratica si sono sviluppate in
modo parallelo, aiutandosi reciprocamente. E ancora, non è stata
la teoria degli esplosivi a portare alla scoperta della polvere da
sparo: la polvere da sparo la si è usata per secoli prima che
l’azione dei gas in un fucile fosse sottoposta ad analisi
scientifica. E così via.
Naturalmente esiste un certo numero di casi in cui la scoperta o
l’invenzione ha coinciso con la semplice applicazione di una legge
scientifica (ad esempio con la scoperta del pianeta Nettuno); ma
nell’immensa maggioranza dei casi la scoperta o l’invenzione hanno
degli inizi niente affatto scientifici. Esse rientrano molto più
nel dominio delle arti – in quanto le arti prevalgono sulla
scienza, come Helmholtz ha così bene dimostrato in una delle sue
famose conferenze – e solo dopo che l’invenzione è stata fatta la
scienza interviene a interpretarla. È ovvio che ogni invenzione si
avvale delle cognizioni e delle idee accumulate in precedenza, ma
nella maggioranza dei casi è in anticipo sulla conoscenza e balza
nell’ignoto, aprendo così alla ricerca un insieme del tutto nuovo
di fenomeni. Questo carattere dell’invenzione, che consiste
nell’essere in anticipo sulle cognizioni del proprio tempo e non
nell’applicare semplicemente una legge, la rende identica, nei
processi intellettuali, alla scoperta; ne consegue che chi è lento
nelle invenzioni lo è anche nelle scoperte.
Nella maggior parte dei casi l’inventore, per quanto ispirato
dallo stato generale della scienza in un dato momento, parte con
pochissimi punti fermi a disposizione. I fenomeni scientifici che
sono stati alla base dell’invenzione della macchina a vapore, o
del telegrafo, o del fonografo, erano estremamente elementari.
Sicché possiamo affermare che quanto conosciamo attualmente è già
sufficiente per risolvere tutti i grandi problemi all’ordine del
giorno: motori non a vapore, immagazzinaggio di energia,
trasmissione di potenza, o macchine volanti. Se questi problemi
non sono stati ancora risolti, lo si deve soltanto alla mancanza
di spirito creativo, alla scarsità di uomini istruiti che ne siano
dotati, e all’attuale separazione tra scienza e industria. [Lascio
di proposito queste righe come nella prima edizione: tutte le
invenzioni nominate sono già state realizzate]. Da un lato,
abbiamo uomini dotati di capacità creative, ma privi sia della
necessaria preparazione scientifica sia dei mezzi atti a una
sperimentazione che duri lunghi anni; dall’altro, abbiamo uomini
preparati e in grado di sperimentare, ma privi di spirito creativo
a causa della loro istruzione troppo astratta, troppo scolastica,
troppo libresca, e dell’ambiente in cui vivono (per non parlare
del sistema dei brevetti, che divide e disperde gli sforzi degli
inventori, anziché combinarli).
Lo slancio dell’ingegno, che ha caratterizzato gli operai
all’inizio della moderna era industriale, è mancato ai nostri
scienziati di professione. E continuerà a mancare finché essi
rimarranno estranei al mondo, perduti tra le loro polverose
librerie; finché non si trasformeranno anch’essi in operai tra gli
operai, alla vampa del forno in fonderia, alla macchina in
fabbrica, al tornio nell’officina meccanica, marinai tra i marinai
sul mare e pescatori sui pescherecci, boscaioli nella foresta,
zappatori nei campi.
I nostri critici d’arte – Ruskin e la sua scuola – ci hanno
ripetuto di recente che è inutile aspettarci un risveglio
dell’arte finché il lavoro manuale rimarrà quello che è; e ci
hanno dimostrato come l’arte greca e l’arte medievale fossero
figlie del lavoro manuale, come l’uno alimentasse l’altra.
Altrettanto si può dire dei rapporti tra il lavoro manuale e la
scienza: separarli significa farli decadere entrambi. Quanto alle
grandi ispirazioni, purtroppo tanto trascurate nella maggioranza
delle recenti discussioni sull’arte (e assenti anche nella
scienza), possiamo aspettarcele soltanto da un’umanità che,
spezzate le sue attuali catene, si avvii verso gli alti princìpi
della solidarietà, liberandosi dell’attuale dualismo tra senso
morale e filosofia.
È evidente, comunque, che non tutti gli uomini e le donne
potranno trarre uguale piacere dall’impegno scientifico. La
varietà delle inclinazioni è tale che alcuni troveranno maggiore
soddisfazione nella scienza, altri nell’arte, e altri ancora in
qualcuno degli innumerevoli rami di produzione della ricchezza. Ma
quali che siano le sue occupazioni preferite, ciascuno sarà tanto
più utile nel proprio settore quanto più disporrà di una seria
preparazione scientifica. E di chiunque si tratti – scienziato o
artista, fisico o chirurgo, chimico o sociologo, storico o poeta –
molti benefici trarrebbe dal passare parte della sua vita in
officina o in fattoria (anzi, in officina e in fattoria) a
contatto con la quotidianità del lavoro umano, soddisfatto e
consapevole di adempiere ai propri doveri di produttore non
privilegiato di ricchezza.
Come comprenderebbero meglio l’umanità, lo storico e il
sociologo, se la conoscessero non soltanto dai libri, non soltanto
da un esiguo numero di suoi rappresentanti, ma nel suo complesso,
nella sua vita, nel suo lavoro e nelle sue attività quotidiane!
Come sarebbe più efficace la medicina se, confidando più
sull’igiene che sulle ricette, i giovani dottori fossero gli
infermieri dei malati e gli infermieri ricevessero l’istruzione
dei nostri attuali dottori! E come percepirebbe meglio, il poeta,
le bellezze della natura, come conoscerebbe meglio il cuore umano,
se avesse modo di osservare la levata del sole, contadino tra i
contadini, o di lottare contro la tempesta, marinaio tra i
marinai, a bordo di una nave, se conoscesse la poesia del lavoro e
del riposo, del dolore e della gioia, della lotta e della
conquista!
La cosiddetta «divisione del lavoro» è nata in un sistema che ha
condannato le masse, tutto il giorno e tutta la vita, alla dura
fatica dello stesso gravoso genere di lavoro. Ma se consideriamo
l’esiguità dei veri produttori di ricchezza della nostra attuale
società, e come il loro lavoro vada sprecato, dobbiamo dar ragione
a Franklin allorché diceva che in genere basterebbe lavorare
ognuno cinque ore al giorno per assicurare a tutti i membri di una
nazione civile quegli agi oggi accessibili soltanto ai pochi.
Abbiamo fatto, però, qualche progresso dai tempi di Franklin, e
alcuni di tali progressi, realizzati nel settore finora più
arretrato della produzione – quello agricolo – li abbiamo
segnalati nelle pagine che precedono. Anche in questo settore si
può accrescere immensamente la produttività del lavoro e rendere
facile e piacevole il lavoro stesso. Se ciascuno si accollasse la
sua parte di produzione e la produzione venisse socializzata (come
l’economia politica, se indirizzata al soddisfacimento dei bisogni
sempre crescenti di tutti, ci consiglierebbe di fare), allora
avremmo più di metà della giornata lavorativa da dedicare
all’arte, alla scienza o a qualsiasi altra occupazione preferita;
e il nostro lavoro in quegli stessi settori sarebbe più proficuo
se impiegassimo l’altra metà della giornata in un lavoro
produttivo; questo se l’arte e la scienza fossero coltivate più
per pura inclinazione che non per scopi commerciali. Inoltre, una
società organizzata sul principio che tutti lavorano sarebbe
abbastanza ricca per sollevare uomini e donne – una volta
raggiunta una certa età, diciamo i quarant’anni o poco più –
dall’obbligo morale di partecipare direttamente all’esecuzione del
necessario lavoro manuale, e per consentir loro di votarsi
interamente all’arte, alla scienza o a qualsiasi altra
occupazione. In questo modo sarebbero pienamente garantiti la
libera ricerca in nuovi rami dell’arte e del sapere, la libera
creazione e il libero sviluppo individuale. E una società come
questa non conoscerebbe miseria in seno all’abbondanza,
ignorerebbe la dualità di coscienza che permea la nostra vita e
paralizza ogni nobile sforzo, e volerebbe libera verso le più alte
regioni del progresso compatibile con la natura umana.
Il testo dove Kropotkin espone la sua concezione del comunismo
anarchico è La conquista del pane, opera che vede la luce nel
1892. Kropotkin afferma che l’unico regime privo di
contraddizioni sociali è il comunismo. Diversamente dal
collettivismo e dal mutualismo, esso supera tutte le
disuguaglianze e le sperequazioni e rende giustizia a tutti
perché, esplicandosi integralmente attraverso la semplice norma
«da ognuno secondo le sue forze, ad ognuno secondo i suoi
bisogni», abolisce radicalmente la schiavitù del salario e, con
essa, la dipendenza dal bisogno. Per la stretta e necessaria
correlazione posta da Kropotkin tra lo sviluppo delle forze
produttive e l’abolizione della proprietà privata, la ricchezza
sociale sfuggirebbe alle leggi dell’economia politica per
risultare una creazione collettiva rispondente alle necessità
funzionali della società, intesa, questa, nella sua originaria
esistenza spontanea di solidarismo naturalistico.
Questo comunismo è anarchico, nel senso che l’abolizione del
salariato è contemporanea all’abolizione dello Stato. Il
presupposto scientifico del comunismo non è dato da una verità
economica, sia essa di carattere razionale, storico o culturale,
ma dalla constatazione della sua perfetta rispondenza alle leggi
dell’evoluzione naturale. Il comunismo è l’opposto
dell’individualismo, esattamente come il mutuo appoggio è il
contrario della lotta per l’esistenza. È attraverso il comunismo
che la natura ha la sua logica continuità nella storia, per cui
si deve dire che comunismo e mutuo appoggio sono due definizioni
di una stessa realtà: la logica intrinseca della vita che
preserva se stessa. Il presupposto solidaristico costituisce
dunque la vera premessa del comunismo kropotkiniano, che pone la
priorità etica rispetto a quella economica.
In questo senso sarebbe forse più opportuno parlare di
comunalismo o comunitarismo, in quanto Kropotkin è
particolarmente interessato alla logica profonda della vita
comunitaria. Essa non si regge certo sul rapporto dello scambio
economico, misurabile quantitativamente e razionalmente, ma
sugli impulsi esistenziali che animano gli individui; impulsi
che per la loro natura vanno al di là della prassi mercantile,
che risulta sempre riduttiva rispetto all’insieme dei valori,
delle speranze, delle fedi individuali e sociali.
In conclusione, il comunismo-comunitarismo non è soltanto
desiderabile, ma è pure lo sbocco inevitabile della tendenza
moderna dovuta all’incessante integrazione dell’economia e della
società in un tutto organico e necessitante. Il comunismo quindi
non è «il diritto al lavoro», e nemmeno il diritto della
ripartizione «secondo le opere». È invece il superamento di ogni
diritto, per la diretta soddisfazione dei bisogni. Questo grande
rivolgimento sociale non può quindi essere l’esito di un’opera
legislativa, bensì il frutto dell’azione spontanea delle grandi
masse popolari. Kropotkin è convinto che sia possibile arrivare
all’agiatezza generale perché esiste una ricchezza potenziale
enorme, malamente utilizzata a causa della proprietà privata e
della irrazionalità dell’assetto capitalistico.
I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall’edizione
italiana di La conquista del pane del 1975, nella traduzione
(rivista) di Gabriella Gianfelici e Claudio Neri.
Va riconosciuto e proclamato con forza che ognuno, qualunque sia
stata nel passato la sua funzione, qualunque siano state la sua
forza e la sua debolezza, le sue attitudini o le sue incapacità,
possiede innanzi tutto il diritto alla vita; e la società deve
spartire tra tutti, senza eccezioni, i mezzi di sussistenza di cui
dispone. Si deve riconoscerlo, proclamarlo e agire di conseguenza!
[…]
I servizi resi alla società, tanto il lavoro nelle fabbriche o
nei campi quanto le attività intellettuali, non possono essere
valutati in termini monetari. Non si può determinare in
riferimento alla produzione l’esatta misura di ciò che è stato
impropriamente chiamato valore di scambio, né del valore d’uso. Se
si prendono 207due individui che, anno dopo anno, lavorano
entrambi cinque ore al giorno per la comunità in differenti lavori
di cui sono entrambi soddisfatti, si può dire che, nel complesso,
il loro lavoro è più o meno equivalente. Ma non si può frazionare
il loro lavoro e dire che il prodotto di ogni giornata, di ogni
ora, di ogni minuto del primo vale il prodotto di ogni giornata,
di ogni ora, di ogni minuto del secondo.
Si può dire, in termini generali, che l’uomo che durante la sua
vita si è privato della libertà per dieci ore al giorno ha dato
alla società molto più di quello che se ne è privato per cinque
ore al giorno o che non se ne è privato affatto. Ma non si può
prendere ciò che ha fatto durante due ore e dire che quel prodotto
vale due volte più del prodotto di un’ora di un altro individuo, e
remunerarlo in proporzione. Questo vorrebbe dire misconoscere
tutta la complessità dell’industria, dell’agricoltura, dell’intera
esistenza della società attuale; vorrebbe dire ignorare fino a che
punto il lavoro del singolo è il risultato dei lavori precedenti e
attuali della società nel suo insieme. Vorrebbe dire credersi
nell’età della pietra quando invece viviamo nell’età dell’acciaio.
Se si entra in una miniera di carbone, si vede un uomo addetto a
una grande macchina che sovrintende alla salita e alla discesa
della gabbia. Questi tiene in mano la leva che aziona nei due
sensi la macchina; quando l’abbassa, la gabbia torna indietro in
un batter d’occhio, ed egli la manda su e giù ad una velocità
vertiginosa. Con la massima attenzione segue sul muro un
indicatore che gli mostra, in scala, a quale altezza del pozzo si
trova la gabbia in ogni istante del suo percorso; e quando
l’indicatore ha raggiunto il livello voluto, ferma la corsa della
gabbia né un metro più in alto né uno più in basso del punto
desiderato. Non appena i vagoncini pieni di carbone sono stati
scaricati e quelli vuoti agganciati, inverte la leva e rimanda la
gabbia di nuovo nel pozzo.
Per otto o dieci ore consecutive l’addetto deve mantenere gli
stessi alti livelli di attenzione. Se la sua mente dovesse
distrarsi anche per un solo momento, la gabbia andrebbe ad urtare
contro l’argano fracassando le ruote, strappando la corda,
schiacciando gli uomini e bloccando tutto il lavoro della miniera.
Se perdesse tre secondi ad ogni colpo di leva, l’estrazione nelle
nostre moderne e avanzate miniere verrebbe ridotta tra le venti e
le cinquanta tonnellate al giorno.
È dunque lui quello che fornisce il servizio più importante della
miniera? O è il ragazzo che aziona dal basso il segnale per far
risalire la gabbia? O il minatore, che ad ogni istante rischia la
sua vita in fondo al pozzo e che forse un giorno sarà ucciso dal
grisou? O l’ingegnere, che se non individua la vena di carbone fa
scavare nella roccia per un semplice errore nei calcoli? O ancora
il proprietario, che ha messo tutto il suo patrimonio nella
miniera e che magari, contrariamente a tutte le prospezioni, ha
deciso di scavare proprio in quel luogo per trovare il carbone
migliore?
Tutti coloro che sono impegnati nella miniera contribuiscono,
secondo le loro forze, energie, conoscenze, capacità e abilità, ad
estrarre il carbone. E possiamo affermare che tutti hanno il
diritto alla vita, a soddisfare i loro bisogni e anche le loro
fantasie una volta che il necessario sia assicurato per tutti.
Ma come possiamo valutare la loro opera? E poi, il carbone che
avranno estratto è interamente opera loro? Non è anche opera di
quegli uomini che hanno costruito la ferrovia che conduce alla
miniera e le strade che si dipartono da tutte le stazioni? Non è
anche opera di coloro che hanno arato e seminato i campi, estratto
il ferro, abbattuto gli alberi della foresta, costruito le
macchine che bruciano il carbone, e così via?
Non è possibile distinguere tra i lavori di tutti questi uomini.
Misurarli in base ai risultati porta all’assurdo. Frazionarli e
misurarli in base alle ore impiegate porta all’assurdo. Non resta
che una cosa: mettere i bisogni al di sopra del lavoro e
riconoscere prima di ogni altra cosa il diritto alla vita e poi il
diritto al benessere per 209tutti coloro che prendono parte alla
produzione. […]
Ogni società che intende abolire la proprietà privata sarà
costretta, secondo noi, ad organizzarsi in modo comunista
anarchico. L’anarchia conduce al comunismo e il comunismo
all’anarchia essendo entrambi espressione della tendenza
predominante delle società moderne: la ricerca dell’uguaglianza.
C’è stato un tempo in cui una famiglia di contadini poteva
considerare il grano che faceva crescere e gli abiti di lana che
tesseva nella capanna come prodotti del proprio lavoro. Ma anche
allora questo modo di vedere non era affatto corretto. C’erano
strade e ponti fatti in comune, paludi prosciugate con il lavoro
collettivo e pascoli comuni recintati da siepi che tutti
mantenevano. Un miglioramento nei telai o nei tipi di tintura dei
tessuti giovava a tutti; in quell’epoca una famiglia di contadini
non poteva vivere da sola ma dipendeva in mille modi dal villaggio
o dalla comunità rurale.
Oggi, poi, nell’attuale sistema industriale dove tutto è
interdipendente, dove ogni ramo della produzione si interseca con
tutti gli altri, la pretesa di attribuire un’origine individuale
ai prodotti è assolutamente insostenibile. Se le industrie tessili
o metallurgiche hanno raggiunto una sorprendente perfezione nei
Paesi avanzati, lo devono allo sviluppo simultaneo di mille altre
industrie, grandi e piccole; lo devono all’estensione della rete
ferroviaria, alla navigazione transoceanica, all’abilità di
milioni di lavoratori, ad un certo grado di cultura generale di
tutta la classe operaia; lo devono, in definitiva, al lavoro umano
eseguito da uno capo all’altro del mondo.
Gli italiani colpiti da colera durante gli scavi del canale di
Suez o dall’anchilosi nelle gallerie del Gottardo, gli americani
falciati dalle granate nella guerra per l’abolizione della
schiavitù, hanno tutti contribuito allo sviluppo dell’industria
cotoniera in Francia e in Inghilterra, non meno delle giovani
ragazze che si sono consumate nelle manifatture di Manchester e
Rouen, o dell’inventore che, ascoltando i suggerimenti di qualche
lavoratore, ha apportato miglioramenti al telaio.
Come stimare, allora, la quota di ognuno alla produzione di
quelle ricchezze che tutti contribuiamo ad accumulare?
Considerando la produzione da questo punto di vista generale e
sintetico, a differenza dei collettivisti non riteniamo che una
rimunerazione proporzionata alle ore di lavoro da ciascuno
effettuate per la produzione delle ricchezze possa costituire
l’obiettivo ideale o anche solo un passo avanti nella direzione
giusta.
Senza qui entrare nel merito se il valore di scambio delle merci
nella società attuale è effettivamente commisurato con la quantità
di lavoro necessario per produrle (così come hanno affermato Smith
e Ricardo, sulle cui tracce si è mosso Marx), ci basti dire al
momento, riservandoci di tornarvi più tardi, che l’ideale
collettivista ci sembra irrealizzabile in una società che
considera gli strumenti di produzione come un patrimonio comune.
Se è basata su questo principio, una tale società si vedrebbe
costretta ad abolire subito tutte le forme di salariato.
L’individualismo moderato del sistema collettivista non potrebbe
coesistere con un comunismo parziale, cioè con la socializzazione
del suolo e degli strumenti di produzione. Una nuova forma di
proprietà necessita di una nuova forma di rimunerazione. Una nuova
forma di produzione non può convivere con le vecchie forme di
consumo, non più di quanto possa adattarsi alle vecchie forme di
organizzazione politica.
Il salariato è figlio della proprietà privata del suolo e degli
strumenti di produzione, che è stata la condizione necessaria per
lo sviluppo del modo di produzione capitalista, e che morirà con
essa nonostante i tentativi di travestirlo sotto forma di «buoni
di lavoro». Il possesso comune degli strumenti di produzione
condurrà necessariamente al godimento comune dei frutti di questo
lavoro comune.
Sosteniamo inoltre che il comunismo non solo è desiderabile ma
che le società attuali, fondate sull’individualismo, sono comunque
costrette a procedere verso il comunismo. […]
È questa, in breve, l’organizzazione che i collettivisti
vorrebbero far nascere dalla rivoluzione sociale. Come si vede, i
loro princìpi sono: proprietà collettiva degli strumenti di lavoro
e rimunerazione di ognuno secondo il tempo impiegato a produrre,
tenendo conto della produttività del suo lavoro. Quanto al regime
politico, si tratterebbe di un sistema parlamentare modificato dal
mandato imperativo per i rappresentanti eletti e dall’istituto del
referendum, cioè da una votazione basata sull’opzione sì/no.
Diciamo subito che questo sistema ci sembra assolutamente
irrealizzabile.
I collettivisti cominciano con il proclamare un principio
rivoluzionario – l’abolizione della proprietà privata – ma lo
negano contestualmente in quanto si ripropongono un’organizzazione
della produzione e del consumo che ha le sue origini nella
proprietà privata.
Proclamano un principio rivoluzionario ma ignorano le conseguenze
che questo principio comporta. Dimenticano che il fatto stesso di
abolire la proprietà privata degli strumenti di produzione –
terra, fabbriche, vie di comunicazione, capitali – deve lanciare
la società verso percorsi assolutamente inediti; deve sconvolgere
completamente il sistema di produzione, tanto nei mezzi che nei
fini; deve modificare tutte le relazioni quotidiane tra gli
individui nel momento stesso in cui la terra, le macchine e tutto
il resto vengono assunti come possesso comune.
«Niente proprietà privata» proclamano, e subito si affrettano a
mantenerla nelle sue manifestazioni quotidiane. «Sarete una Comune
per quanto riguarda la produzione: i campi, gli utensili, i
macchinari, tutto ciò che è stato creato fino ad oggi –
manifatture, ferrovie, porti, miniere ecc. – sarà vostro. E non si
farà la minima distinzione sulla partecipazione di ognuno a questa
proprietà collettiva. Ma già da domani comincerete a discutere
puntigliosamente sulla parte che vi spetta nella creazione dei
nuovi macchinari, nell’apertura delle nuove miniere. Comincerete a
soppesare al grammo la quota di vostra spettanza in ogni nuova
produzione. Conterete i vostri minuti di lavoro controllando
attentamente che un minuto del vicino non abbia maggior potere
d’acquisto del vostro. E poiché l’ora non dà la misura di niente,
poiché in quella fabbrica un lavoratore può sorvegliare sei telai
alla volta, mentre nell’altra non ne sorveglia che due,
comincerete a misurare la forza muscolare, l’energia cerebrale e
l’energia nervosa che avete speso. Calcolerete rigorosamente gli
anni di apprendistato per valutare la parte di ognuno nella futura
produzione. E tutto questo dopo aver dichiarato che non va tenuta
in alcun conto la parte avuta nella produzione passata».
Ebbene, per noi è evidente che una società non può organizzarsi
su due princìpi assolutamente opposti, due princìpi che si
contraddicono continuamente. E la nazione, o la Comune, che si
desse una tale organizzazione sarebbe costretta o a ritornare alla
proprietà privata, o a trasformarsi immediatamente in società
comunista.
Abbiamo già rilevato come alcuni pensatori collettivisti
auspichino che venga stabilita una distinzione tra lavoro
qualificato o professionale e lavoro semplice. Essi pretendono che
l’ora di lavoro dell’ingegnere, dell’architetto o del medico venga
contabilizzata come due o tre ore di lavoro del fabbro, del
muratore o dell’infermiere. E la stessa distinzione, affermano,
deve essere fatta tra tutti i tipi di lavoro che esigono un
apprendistato più o meno lungo e il lavoro dei semplici
braccianti.
Ebbene, stabilire questa distinzione equivale a mantenere tutte
le disuguaglianze della società attuale. Vuol dire tracciare sin
dall’inizio una demarcazione tra i lavoratori e coloro che
pretendono di governarli. Significa dividere la società in due
classi ben distinte: l’aristocrazia del sapere al di sopra della
plebe dalle mani callose, dove quest’ultima sarà costretta a
servire la prima e a lavorare con le proprie mani per nutrirla e
vestirla, mentre questa, approfittando della sua libertà, imparerà
a dominare chi la mantiene.
Non solo, vorrebbe dire riprendere un tratto distintivo della
società attuale e rilegittimarlo in nome della rivoluzione
sociale, erigendo così a principio un abuso che oggi si condanna
nella vecchia traballante società.
Conosciamo bene le risposte che ci daranno: ci parleranno di
«socialismo scientifico»; citeranno gli economisti borghesi – e
anche Marx – per dimostrare che la scala salariale ha la sua
ragion d’essere, poiché la «forza lavoro» dell’ingegnere è costata
alla società più della «forza lavoro» dello sterratore. E infatti,
gli economisti non hanno forse cercato di convincerci che se
l’ingegnere viene pagato venti volte più dello sterratore è perché
le spese «necessarie» per preparare un ingegnere sono più
consistenti di quelle necessarie per preparare uno sterratore? E
Marx non ha forse asserito che la stessa distinzione è altrettanto
logica tra i diversi tipi di lavoro manuale? Né poteva arrivare ad
altra conclusione avendo ripreso le teorie di Ricardo sul valore e
avendo sostenuto che i prodotti vengono scambiati in proporzione
alla quantità di lavoro socialmente necessario a produrli.
Ma noi abbiamo idee chiare a tal proposito. Sappiamo che se
l’ingegnere, lo scienziato e il dottore oggi sono pagati dieci o
cento volte più del lavoratore, e se il tessitore guadagna tre
volte più di un contadino e dieci volte più di una operaia di una
fabbrica di fiammiferi, questo non avviene in ragione del loro
«costo di produzione», ma in ragione di un monopolio
dell’educazione, o di un ruolo produttivo. L’ingegnere, lo
scienziato e il dottore sfruttano semplicemente un capitale – il
loro diploma – come l’imprenditore borghese sfrutta la fabbrica o
come il nobile sfruttava i titoli di nascita.
Quanto all’imprenditore che paga l’ingegnere venti volte più del
lavoratore, lo fa in ragione di un calcolo molto semplice: se
l’ingegnere può fargli risparmiare 4.000 sterline all’anno sui
costi di produzione, questi in cambio lo paga 800 sterline. E se
l’imprenditore ha un caporeparto che gli fa risparmiare 400
sterline sul lavoro di un’abile e tartassata manodopera, è ben
contento di dargli tra le 80 e le 120 sterline l’anno. Ed è sempre
disposto a spartire un 40 sterline in più quando si aspetta di
guadagnarne 400 così facendo. È questa l’essenza del sistema
capitalista. E lo stesso accade per le differenze tra i diversi
mestieri manuali.
Che non ci si venga dunque a parlare di un «costo di produzione»
che farebbe aumentare il costo del lavoro specializzato, e a
sostenere di conseguenza che uno studente – il quale ha
allegramente trascorso la sua gioventù all’università – ha diritto
ad un salario dieci volte più elevato dello smunto figlio del
minatore che si consuma in miniera fin dall’età di undici anni; o
che un tessitore ha diritto ad un salario tre o quattro volte più
elevato di quello di un bracciante agricolo. Le spese necessarie
per preparare un tessitore non sono quattro volte più alte di
quelle necessarie per preparare un contadino: semplicemente, il
tessitore beneficia dei vantaggi che il suo ruolo produttivo
matura nel commercio internazionale rispetto ai Paesi non ancora
industrializzati, e come risultato dei privilegi accordati dallo
Stato all’industria a scapito della coltivazione della terra.
Nessuno, poi, ha mai calcolato il costo di produzione di un
produttore. E se un aristocratico nullafacente costa alla società
ben più di un lavoratore, rimane ancora da sapere se – tutto
compreso: mortalità infantile, anemia dilagante e morti premature
– un robusto bracciante non costi alla società più di un esperto
artigiano. Ci si vorrebbe far credere, ad esempio, che il salario
di una sterlina e 3 scellini pagato all’operaia parigina, o i tre
scellini pagati alla ragazza alvergnate che si acceca sui
merletti, o il compenso di una sterlina e 8 scellini dato al
contadino rappresentano i loro «costi di produzione». Sappiamo
perfettamente bene che spesso si lavora per meno di questo, ma
sappiamo anche che lo si fa esclusivamente perché, grazie alla
nostra superba organizzazione, si rischia di morire di fame senza
questi salari irrisori.
A nostro avviso la scala salariale è il complesso risultato delle
imposte, dei sistemi di sovvenzione, del monopolio capitalista: in
breve, dello Stato e del Capitale. È per questo che sosteniamo che
tutte le teorie sulla scala salariale sono state inventate a
posteriori per giustificare le ingiustizie già esistenti, ragion
per cui non bisogna dar loro troppa importanza.
Non si asterranno nemmeno dal dirci che la scala salariale
collettivista sarebbe nondimeno un progresso: «Vedere alcuni
artigiani prendere una somma due o tre volte superiore a quella
percepita dai lavoratori non specializzati», ci diranno, «è
comunque meglio che vedere dei ministri intascare in un sol giorno
quello che il lavoratore non riesce a guadagnare in un anno.
Sarebbe pur sempre un grosso passo verso l’equità».
Viceversa, per noi questo sarebbe un regresso. Reintrodurre in
una nuova società la distinzione tra lavoro semplice e lavoro
specializzato altro non sarebbe che erigere a principio un fatto
brutale, legittimato dalla rivoluzione, che oggi già subiamo e che
troviamo ingiusto. Sarebbe come imitare quei signori
dell’Assemblea costituente francese che il 4 agosto 1789
proclamavano l’abolizione dei diritti feudali, ma che l’8 agosto
li reinstauravano imponendo imposte ai contadini per risarcire gli
aristocratici, mettendo oltretutto queste imposte sotto la
salvaguardia della rivoluzione. Sarebbe come imitare il governo
russo che, al tempo della emancipazione dei servi della gleba,
proclamava che certe terre sarebbero state d’ora in avanti
appannaggio dell’aristocrazia, mentre prima queste stesse terre
venivano considerate appannaggio dei servi della gleba.
O ancora, per citare un esempio più conosciuto, sarebbe come
imitare la Comune del 1871 quando decideva di pagare i membri del
Consiglio l’equivalente di 12 sterline e 6 scellini al giorno,
mentre i Federati che si battevano in prima linea percepivano solo
una sterlina e 3 scellini al giorno: una decisione peraltro
acclamata come un atto di avanzata democrazia egualitaria. In
realtà, la Comune non faceva che ratificare la vecchia
disuguaglianza tra funzionario e soldato, governante e governato.
Se si fosse trattato di una Camera dei deputati opportunista, tale
decisione avrebbe anche potuto sembrare degna di ammirazione, ma
trattandosi della Comune, non mettendoli in pratica essa veniva
meno ai suoi princìpi rivoluzionari.
Nell’attuale sistema sociale, in cui un ministro percepisce 4.000
sterline all’anno, mentre il lavoratore deve accontentarsi di 40
sterline, o meno ancora, in cui il caporeparto è pagato due o tre
volte più dell’operaio e in cui tra gli operai stessi ci sono
tutti i gradi, dalle 8 sterline al giorno giù fino ai 3 scellini
della ragazza di campagna, noi siamo contrari tanto all’elevato
stipendio del ministro quanto alla differenza tra le 8 sterline
dell’operaio e i 3 scellini della povera donna. E affermiamo:
«Abbasso i privilegi dell’educazione, così come quelli della
nascita». Siamo anarchici proprio perché questi privilegi ci
ripugnano. E se già ci ripugnano in questa società autoritaria,
come potremmo sopportarli in una società che nasce proclamando
l’uguaglianza?
Proprio per questo certi collettivisti, comprendendo
l’impossibilità di mantenere la scala salariale in una società
ispirata dal soffio della rivoluzione, si affrettano a proclamare
che i salari saranno uguali. Ma si scontrano con nuove difficoltà
e la loro uguaglianza salariale diventa un’utopia irrealizzabile
quanto le scale salariali degli altri collettivisti.
Una società che avrà preso possesso di tutta la ricchezza sociale
e che avrà proclamato con forza il diritto di tutti a questa
ricchezza – qualunque sia stato il loro contributo – sarà
costretta ad abbandonare ogni sistema salariale, tanto in moneta
che in buoni. […]
Proprio come guardiamo alla società e alla sua organizzazione
politica da una prospettiva diversa da quella di tutte le scuole
autoritarie – in quanto partiamo dal libero individuo per arrivare
ad una libera società invece di partire dallo Stato per arrivare
all’individuo – così ricorriamo allo stesso metodo per i problemi
economici. Ovvero, affrontiamo i bisogni dell’individuo ed i mezzi
ai quali ricorrere per soddisfarli prima di discutere di
produzione, tasso di scambio, imposte, governo, ecc. A prima vista
la differenza può sembrare minima, ma di fatto sconvolge tutti i
canoni dell’economia politica ufficiale.
Se si consulta l’opera di qualunque economista, si può facilmente
verificare come questa inizi con la PRODUZIONE, cioè l’analisi dei
mezzi attualmente impiegati per creare la ricchezza: la divisione
del lavoro, la struttura industriale, i suoi macchinari,
l’accumulazione del capitale. Da Adam Smith a Karl Marx si sono
tutti attenuti a questo percorso. Solo nelle parti successive del
lavoro si affronta il CONSUMO, cioè i mezzi utilizzati
nell’attuale sistema per soddisfare i bisogni dell’individuo; e
anche così, ci si limita a spiegare come le ricchezze vengano
ripartite tra coloro che se ne disputano il possesso.
Si dirà forse che tutto questo è logico, che prima di soddisfare
i bisogni occorre cercare ciò che può soddisfarli. Ma prima di
produrre alcunché, non bisogna sentirne il bisogno? Non è stata la
necessità che all’inizio ha spinto l’uomo a cacciare, ad allevare
il bestiame, a coltivare la terra, a fare utensili e, più tardi, a
inventare le macchine? Non è l’analisi dei bisogni che dovrebbe
indirizzare la produzione? Sarebbe quantomeno logico cominciare
proprio dai bisogni e vedere poi come organizzare la produzione in
modo da sopperire a tali bisogni.
Ed è appunto quello che intendiamo fare.
Ma dal momento in cui la si guarda da questa prospettiva,
l’economia politica cambia totalmente. Cessa di essere una
semplice descrizione dei fatti e diventa una scienza, che potremmo
definire come lo studio dei bisogni dell’umanità e dei mezzi per
soddisfarli con il minimo spreco possibile di forze umane. Ma la
sua esatta denominazione sarebbe fisiologia della società e
dovrebbe costituire una scienza parallela alla fisiologia delle
piante o degli animali, che è anch’essa lo studio dei bisogni del
mondo vegetale e animale e dei mezzi più vantaggiosi per
soddisfarli. Nell’ambito delle scienze sociologiche, l’economia
delle società umane deve occupare il posto che nelle scienze
biologiche è occupato dalla fisiologia degli esseri organici.
Noi diciamo: ecco gli esseri umani riuniti in società. Tutti
sentono il bisogno di abitare in case salubri. La capanna del
selvaggio non li soddisfa più, chiedono un riparo solido e più o
meno confortevole. Si tratta dunque di chiedersi se, tenuto conto
della produttività del lavoro umano, ognuno potrà effettivamente
avere la sua casa o se esiste qualcosa che può impedirlo. Non
appena fatta questa domanda, ci rendiamo subito conto che ogni
famiglia in Europa potrebbe perfettamente avere una casa
confortevole, come se ne costruiscono in Inghilterra e in Belgio o
negli insediamenti Pullman, oppure un appartamento equivalente. Un
certo numero di giornate lavorative sarebbe sufficiente per
ottenere una casetta ben arieggiata, ben disposta e con
l’illuminazione a gas.
Invece, i nove decimi degli europei non hanno mai posseduto una
casa confortevole perché in quasi tutte le epoche la gente comune
ha dovuto lavorare giorno dopo giorno per soddisfare i bisogni dei
suoi governanti, senza mai riuscire ad avere quel tanto in più, in
tempo e in denaro, necessario per costruire o far costruire la
casa sognata. E così non ha casa, e abiterà in catapecchie fino a
che le attuali condizioni non verranno modificate.
Come appare evidente, noi procediamo in senso inverso rispetto
agli economisti, i quali tendono a perpetuare le pretese leggi
della produzione e a dimostrare, statistiche alla mano, che
essendo il numero di abitazioni effettivamente costruite ogni anno
insufficiente a soddisfare tutte le richieste i nove decimi degli
europei devono abitare in catapecchie.
Occupiamoci ora del nutrimento. Dopo aver enumerato i vantaggi
derivanti dalla divisione del lavoro, gli economisti ci spiegano
come questa divisione esiga che gli uni si applichino
all’agricoltura e gli altri all’industria, che l’agricoltura
produca tanto e tanto l’industria, che lo scambio avvenga secondo
queste modalità… e continuano analizzando la vendita, i profitti,
il prodotto netto o plusvalore, i salari, le tasse, il sistema
bancario e così via.
Ma, dopo averli seguiti sin qui, non siamo per questo diventati
più saggi; e se domandiamo loro: «Com’è possibile che così tanti
milioni di esseri umani non hanno abbastanza pane quando ogni
famiglia potrebbe produrre grano a sufficienza per nutrire dieci,
venti e persino cento persone all’anno?», ci rispondono sempre con
la stessa solfa – divisione del lavoro, salario, plusvalore,
capitale, ecc. – e arrivano alla stessa conclusione: che la
produzione è insufficiente per soddisfare tutti i bisogni. Una
conclusione che, anche se fosse vera, non risponde alle domande se
l’uomo che lavora può o no produrre il pane che gli necessita e,
se non può, cos’è che glielo impedisce.
Ci sono 350 milioni di europei, e ogni anno hanno bisogno di quel
tanto di pane, carne, vino, latte, uova e burro, di quel tanto di
abitazioni e indumenti: di quel minimo di loro bisogni. Sono in
grado di produrlo? E se lo sono, resterà loro abbastanza tempo
libero per l’arte, la scienza e il divertimento, in una parola per
tutto ciò che non rientra nella categoria dello stretto
necessario? Se la risposta è affermativa, cos’è che impedisce loro
di realizzarlo? Cosa devono fare per eliminare gli ostacoli? È
forse il tempo che gli manca? Che se lo prendano! Ma non perdiamo
di vista l’obiettivo della produzione: soddisfare tutti i bisogni.
Se i bisogni più impellenti dell’uomo restano insoddisfatti, che
bisogna fare per aumentare la produttività del lavoro? O non sarà
che magari ci sono altre cause? Non sarà, forse, che la
produzione, avendo perso di vista i bisogni dell’uomo, ha preso
una direzione assolutamente sbagliata e la sua intera struttura ne
è stata viziata? Poiché siamo in grado di dimostrare che le cose
stanno esattamente così, vediamo allora come riorganizzare la
produzione in modo da soddisfare realmente tutti i bisogni.
Questo ci sembra il solo modo per affrontare correttamente la
questione, il solo modo che consenta all’economia politica di
diventare una scienza: la scienza della fisiologia sociale.
È evidente che finché questa scienza si occuperà di produzione
così com’è espletata attualmente tanto nei Paesi avanzati che
nelle comunità indù o tra le tribù primitive, difficilmente potrà
esporre i fatti in modo molto diverso da come lo fanno gli odierni
economisti, cioè come un trattato semplicemente descrittivo,
analogo a quelli della zoologia e della botanica. Ma se questo
trattato fosse scritto in modo da gettare luce sull’economia delle
energie necessarie a soddisfare i bisogni umani, esso
guadagnerebbe tanto in lucidità che in precisione. E proverebbe in
modo indiscutibile lo spreco spaventoso di energie umane proprio
al sistema attuale, dimostrando altresì che finché esisterà questo
sistema i bisogni dell’umanità non saranno mai soddisfatti.
La prospettiva, come appare chiaro, cambia del tutto. Dietro il
telaio che tesse tanti metri di tela, dietro la macchina che fora
tante lastre d’acciaio e dietro la cassaforte che ingurgita i
dividendi, dobbiamo vedere l’uomo, l’artigiano cui si deve la
produzione, il più delle volte escluso dal banchetto che ha
preparato per altri. Dobbiamo inoltre aver chiaro che le pretese
«leggi» del valore e dello scambio non sono altro che una falsa
spiegazione degli eventi così come si producono al giorno d’oggi,
ma che le cose avverranno in modo del tutto differente quando la
produzione verrà organizzata in modo tale da provvedere a tutti i
bisogni della società.
Non c’è un solo principio di economia politica che non si
modifichi totalmente se ci si pone nella nostra prospettiva.
Prendiamo, ad esempio, la sovrapproduzione, una parola che
risuona ogni giorno nelle nostre orecchie. Non c’è infatti un solo
economista, accademico o aspirante tale, che non abbia portato
argomenti a favore della tesi che le crisi economiche sono dovute
alla sovrapproduzione, ovvero che in un dato momento si arriva a
produrre più cotone, stoffe e orologi di quanti ne servano. E non
abbiamo forse tuonato tutti contro la rapacità dei capitalisti che
si intestardiscono a produrre più di quello che si può consumare?
Ebbene, non appena si approfondisce il problema tutti questi
ragionamenti appaiono errati. Infatti, è possibile individuare
anche una sola merce tra quelle di uso universale di cui si
produca più di quanto ne serva? Prendete in esame una per una
tutte le merci spedite dai grandi Paesi esportatori e ben presto
vi accorgerete che quasi tutte sono prodotte in quantità
insufficiente per gli abitanti degli stessi Paesi esportatori. Non
è un’eccedenza di cereali quella che il contadino russo invia in
Europa: anche i migliori raccolti di grano e segala della Russia
europea danno appena ciò che serve per la popolazione. E di norma,
il contadino si priva del necessario quando vende il suo grano o
la sua segala per poter pagare le tasse e l’affitto.
Non è un’eccedenza di carbone quella che l’Inghilterra invia ai
quattro angoli del mondo, dato che non le restano per il consumo
domestico interno che 750 kg. all’anno per abitante, tant’è che
milioni di inglesi si privano del fuoco in inverno o lo mantengono
quel tanto necessario a far bollire qualche verdura. In realtà,
tralasciando gli inutili oggetti di lusso, in Inghilterra, ovvero
nel maggior Paese esportatore, c’è solo una merce di uso
universale – il cotone – che ha una produzione abbastanza alta
tanto da eccedere, forse, i bisogni. Ma quando si guardano gli
stracci che costituiscono gli indumenti di un buon terzo degli
abitanti della Gran Bretagna, non si può fare a meno di chiedersi
se il cotone esportato non sarebbe piuttosto utile per coprire i
bisogni reali della popolazione.
Generalmente non è un surplus quello che si esporta, anche se in
origine è verosimilmente stato così. La storia del calzolaio
scalzo è vera per le nazioni come lo era un tempo per il singolo
artigiano. Ciò che si esporta sono i beni necessari, e questo
avviene perché i lavoratori, una volta pagato l’affitto e
l’interesse del capitalista e del banchiere, con il solo salario
non possono comprare quello che hanno prodotto.
Non solo dunque il bisogno sempre crescente di benessere resta
insoddisfatto, ma spesso manca anche lo stretto necessario. Ragion
per cui la sovrapproduzione non esiste, almeno non nel senso che
le viene attribuito dai teorici dell’economia politica.
E passiamo ad un altra questione. Tutti gli economisti ci dicono
che c’è una legge assolutamente assodata: «L’uomo produce più di
quanto consumi». Dopo aver ricavato di che vivere dal prodotto del
suo lavoro, gli resta sempre un’eccedenza, tanto che una famiglia
di coltivatori produce ciò di cui nutrire più famiglie, e così
via.
Per noi, questa frase così frequentemente ripetuta è priva di
senso. Se intendesse dire che ogni generazione lascia qualche cosa
alle generazioni future, la cosa sarebbe vera. Un agricoltore, ad
esempio, pianta un albero che vivrà per trenta-quarant’anni, o
forse un secolo, e i cui frutti verranno ancora raccolti dai
nipoti di questo agricoltore. O magari dissoda qualche acro di
terreno vergine, incrementando così in proporzione l’eredità delle
generazioni a venire. Le strade, i ponti, i canali, le case e il
mobilio sono altrettante ricchezze lasciate alle generazioni
successive.
Ma non è questo che si intende. Quello che ci si dice è che il
coltivatore produce più grano di quanto non gli serva per il
consumo. Mentre bisognerebbe piuttosto dire che essendogli stata
sottratta una buona parte dei suoi prodotti – dallo Stato sotto
forma di tasse, dal prete sotto forma di decime e dal proprietario
terriero sotto forma di affitto – si è andata creando una classe
d’individui che, se un tempo consumava quello che produceva – ad
eccezione della parte lasciata per gli imprevisti o le spese per
rimboschire o costruire strade – oggi è costretta a vivere
miseramente perché tutto il resto le è stato preso dallo Stato,
dal prete, dal proprietario terriero e dall’usuraio.
Ci sembra quindi più corretto dire che il coltivatore consuma
meno di quanto produce, perché è costretto a vendere la maggior
parte del suo lavoro e a soddisfare i suoi bisogni con la scarsa
parte restante.
Ci sia inoltre consentito osservare che se si prendono come punto di partenza per la nostra economia politica i bisogni dell’individuo, si arriva necessariamente al comunismo, cioè a un modo di organizzarsi che permette di soddisfare tutti i bisogni nel modo più completo ed economico. Mentre se partiamo dal modo attuale di produzione e miriamo solo al guadagno e al plusvalore, senza chiedersi se la produzione è in grado di soddisfare i bisogni, si arriva al capitalismo, o tutt’al più al collettivismo, ovvero a due forme diverse di salariato.