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Pëtr Alekseevič Kropotkin
La grande rivoluzione
Indice generale
La Grande Rivoluzione
VOLUME I
PREFAZIONE
I
LE DUE GRANDI CORRENTI DELLA RIVOLUZIONE
II
L'IDEA
III
L'AZIONE
IV
IL POPOLO PRIMA DELLA RIVOLUZIONE
V
LO SPIRITO DI RIVOLTA; LE SOMMOSSE
V I
GLI STATI GENERALI DIVENUTI NECESSARI
VII
LA SOLLEVAZIONE DELLE CAMPAGNE
NEI PRIMI MESI DEL
1789
VIII
SOMMOSSE A PARIGI E NEI DINTORNI
IX
GLI STATI GENERALI
X
PREPARATIVI DEL COLPO DI STATO
XI
PARIGI ALLA VIGILIA DEL 14 LUGLIO
XII
LA PRESA DELLA BASTIGLIA
XIII
LE CONSEGUENZE DEL 14 LUGLIO A VERSAGLIA
XIV
SOLLEVAZIONI POPOLARI
XV
LE CITTÀ
XVI LA SOLLEVAZIONE DEI CONTADINI
XVII
LA NOTTE DEL 4 AGOSTO E LE SUE CONSEGUENZE
XVIII
I DIRITTI FEUDALI RIMANGONO
XIX
DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL'UOMO
XX
GIORNATE DEL 5 E 6 OTTOBRE 1789
XXI
TERRORI DELLA BORGHESIA
NUOVA ORGANIZZAZIONE
MUNICIPALE
XXII
DIFFICOLTÀ FINANZIARIE. – VENDITA DEI BENI DEL
CLERO
XXIII
LA FESTA DELLA FEDERAZIONE
XXIV
I DISTRETTI E LE SEZIONI DI PARIGI
XXV
LE SEZIONI IN PARIGI SOTTO LA NUOVA LEGGE
MUNICIPALE
XXVI
LENTEZZA NELL'ABOLIZIONE DEI DIRITTI FEUDALI
XXVII
LEGISLAZIONE FEUDALE DEL 1790
XXVIII
SOSTA DELLA RIVOLUZIONE NEL 1790
XXIX
LA FUGA DEL RE. – LA REAZIONE. – FINE DELL'ASSEMBLEA
COSTITUENTE
XXX
L'ASSEMBLEA LEGISLATIVA. – LA REAZIONE NEL
1791-1792
XXXI
LA CONTRO RIVOLUZIONE NEL MEZZOGIORNO 341
XXXII
IL 20 GIUGNO 1792
XXXIII
IL 10 AGOSTO; LE SUE CONSEGUENZE IMMEDIATE
VOLUME II
XXXIV
L'INTERREGNO – I TRADIMENTI
XXXV
LE GIORNATE DI SETTEMBRE
XXXVI
LA CONVENZIONE – LA COMUNE – I GIACOBINI
XXXVII
IL GOVERNO. – LOTTE INTESTINE ALLA CONVENZIONE – LA
GUERRA
XXXVIII
IL PROCESSO DEL RE
XXXIX
MONTAGNA E GIRONDA
XL
SPORZI DEI GIRONDINI PER ARRESTARE LA RIVOLUZIONE
XLI
GLI «ANARCHICI»
XLII
CAUSE DEL MOVIMENTO DEL 31 MAGGIO
XLIII
RIVENDICAZIONI SOCIALI. – STATO D'ANIMO A PARIGI. –
LIONE.
XLIV
LA GUERRA. – LA VANDEA. – TRADIMENTO DI DUMOURIEZ
XLV
NUOVA SOLLEVAZIONE RESA INEVITABILE
XLVI
SOMMOSSA DEL 31 MAGGIO E DEL 2 GIUGNO
XLVII
LA RIVOLUZIONE POPOLARE. – IL PRESTITO FORZATO
XLVIII
LE TERRE COMUNALI.
COSA NE FECE L'ASSEMBLEA
LEGISLATIVA
XLIX
LE TERRE SONO RESTITUITE AI COMUNI
L
ABOLIZIONE DEFINITIVA DEI DIRITTI FEUDALI
LI
BENI NAZIONALI
LII
LOTTE CONTRO LA CARESTIA – IL «MASSIMO» – GLI
ASSEGNATI
LIII
LA CONTRO RIVOLUZIONE IN BRETTAGNA. ASSASSINIO DI
MARAT
LIV
LA VANDEA – LIONE – IL MEZZOGIORNO
LV
LA GUERRA – L'INVASIONE RESPINTA
LVI
LA COSTITUZIONE. – IL GOVERNO RIVOLUZIONARIO
LVII
ESAURIMENTO DELLO SPIRITO RIVOLUZIONARIO
LVIII
IL MOVIMENTO COMUNISTA
LIX
IDEE SULLA SOCIALIZZAZIONE DELLA TERRA, DELLE INDUSTRIE, DELLE
SUSSISTENZE E DEL COMMERCIO
LX
FINE DEL MOVIMENTO COMUNISTA
LXI
COSTITUZIONE DEL GOVERNO CENTRALE
LE RAPPRESAGLIE
LXII
I STRUZIONE – SISTEMA METRICO – NUOVO CALENDARIO –
TENTATIVI
ANTIRELIGIOSI
LXIII
LE SEZIONI SCHIACCIATE
LXIV
LOTTA CONTRO GLI HEBERTISTI
LXV
CADUTA DEGLI HEBERTISTI. –
DECAPITAZIONE DI DANTON
LXVI
ROBESPIERRE E IL SUO GRUPPO
LXVII
IL TERRORE
LXVIII
IL 9 TERMIDORO. –
TRIONFO DELLA REAZIONE
CONCLUSIONE
La Grande Rivoluzione
...Da una parte la rivoluzione deve combattere ogni religione
armata; dall'altra deve combattere ogni privilegio: che cos'è,
adunque, la rivoluzione se non la guerra dell'irreligione e
dell'eguaglianza?
...Gli uomini di poca fede si ricordino che non vi fu mai progresso
che non toccasse alla proprietà e alla religione, e che... già
dall'89 al 93,quattro soli anni bastavano per trascorrere
dall'equivoco della libertà al regno della scienza e
dell'eguaglianza.
GIUSEPPE FERRARI.
PIETRO KROPOTKINE
La Grande
Rivoluzione
1789-1793
PRIMA EDIZIONE ITALIANA
VOLUME I
GINEVRA
EDIZIONE DEL GRUPPO DEL RISVEGLIO
Rue des Savoises, 6
1911
PREFAZIONE
Più si studia la Rivoluzione francese e più si constata che della
storia di quella grande epopea, ancora incompiuta, rimangono assai
lacune da colmare e punti da chiarire.
La Grande Rivoluzione, che ha tutto sommosso, tutto rovesciato,
incominciando a ricostruire tutto nel corso di pochi anni, fu un
vero mondo in azione. E se, studiando i primi storici di
quell'epoca, soprattutto il Michelet, si è costretti di ammirare
l'enorme lavoro compiuto da alcuni uomini per districare le serie
infinite dei fatti e dei movimenti paralleli di cui la Rivoluzione è
composta, si constata in pari tempo la grandiosità del lavoro che
rimane da compiere.
Le ricerche eseguite durante questi ultimi trent'anni dalla scuola
storica, di cui Aulard e la Società della Rivoluzione francese sono
i rappresentanti, hanno certamente accumulato preziosi materiali,
che gettano fasci di luce sugli atti della Rivoluzione, sulla sua
storia politica, sulla lotta dei partiti che si contendevano il
potere. Ma tuttavia, lo studio degli aspetti economici della
Rivoluzione e delle sue lotte rimane ancora da fare, e, come ha
detto giustamente Aulard, un'intera vita non basterebbe a compiere
quest'opera, senza la quale, bisogna pur riconoscerlo, la storia
politica della Rivoluzione rimane incompleta e spesso
incomprensibile. Tutta una serie di nuovi problemi, vasti e
complessi, si presentano allo storico non appena egli affronti
l'esame di questo carattere della burrasca rivoluzionaria.
Gli è per districare appunto alcuni di questi problemi che io avevo,
sin dal 1885, incominciato degli studi parziali sugli inizi popolari
della Rivoluzione, sulle sollevazioni dei contadini nel 1789, sulle
lotte pro e contro l'abolizione dei diritti feudali, sulle vere
cause del movimento del 31 maggio, ecc. Disgraziatamente, ho dovuto
limitarmi, per tali studi, alle collezioni stampate – ricchissime,
certo – del British Museum e non ho potuto dedicarmi a ricerche
negli Archivi nazionali di Francia.
Tuttavia, siccome il lettore non potrebbe orientarsi in studi di
questo genere, se non avesse un quadro generale di tutto lo sviluppo
della Rivoluzione, sono stato condotto a fare una narrazione più o
meno ordinata degli avvenimenti. Non ho voluto ripetere la parte
drammatica di grandiosi episodi narrati più volte, e mi sono
adoperato invece e soprattutto a utilizzare le ricerche moderne, per
far risaltare il nesso intimo e le cause dei grandi avvenimenti, il
cui insieme forma la grande epopea che corona il secolo decimottavo.
Il metodo che consiste nello studiare la Rivoluzione, esaminandone
separatamente le diverse parti della sua opera, offre senza dubbio
degli inconvenienti: costringe a parecchie ripetizioni. Ma poco
m'importa che mi sia rimproverato, se posso così imprimere più
profondamente nello spirito del lettore le forti correnti di
pensiero e di azione, che si urtarono durante la Rivoluzione
francese – correnti che si ritroveranno fatalmente negli avvenimenti
storici dell'avvenire, essendo intimamente legate all'essenza stessa
della natura umana.
Chiunque conosca la storia della Rivoluzione sa quanto sia difficile
evitare errori di fatto nei particolari delle ardenti contese, di
cui si vuol tracciare lo sviluppo. Sarò quindi al sommo grado
riconoscente verso coloro che m'indicheranno gli errori da me
eventualmente commessi. E comincio per testimoniare la mia più viva
gratitudine ai miei amici James Guillaume ed Ernest Nys, che hanno
avuto la grande bontà di leggere il mio manoscritto e le mie bozze,
e di aiutarmi in questo lavoro colle loro vaste cognizioni e il loro
spirito critico.
PIETRO KROPOTKINE.
15 marzo 1909.
La Grande Rivoluzione
1789–1793
I
LE DUE GRANDI CORRENTI DELLA RIVOLUZIONE
Due grandi correnti prepararono e fecero la Rivoluzione. Una, la
corrente d'idee – cioè il complesso delle nuove idee sulla
riorganizzazione politica degli Stati – veniva dalla borghesia.
L'altra, quella dell'azione, veniva dalle masse popolari – dai
contadini e dai proletari delle città che volevano ottenere degli
immediati e tangibili miglioramenti alle loro condizioni economiche.
E allorquando queste due correnti s'incontrarono, dirette a uno
scopo, sul principio comune, e s'aiutarono per qualche tempo
reciprocamente, la Rivoluzione scoppiò.
Già da parecchio tempo i filosofi del diciottesimo secolo avevano
scalzato sin dalle fondamenta le basi delle società incivilite
dell'epoca, nelle quali il potere politico, così come una immensa
parte delle ricchezze, appartenevano all'aristocrazia e al clero,
mentre il resto del popolo era curvo sotto il giogo dei signori.
Proclamando la sovranità della ragione, predicando la fiducia nella
natura umana e dichiarando che questa – corrotta dalle istituzioni,
che nel corso dei secoli imposero all'uomo la schiavitù –
ritroverebbe tuttavia le sue qualità migliori non appena avesse
riconquistato la libertà, i filosofi avevano aperto nuovi orizzonti
al genere umano. Proclamando l'eguaglianza di tutti gli uomini e
chiedendo da ogni cittadino – re o bifolco – obbedienza alla legge,
tenuta ad esprimere le volontà della nazione allorquando fosse
promulgata da rappresentanti del popolo; domandando infine la
libertà di contrattazione fra uomini liberi e l'abolizione delle
servitù feudali: formulando tutti questi postulati uniti tra di loro
dallo spirito sistematico e dal metodo che caratterizzano il
pensiero del popolo francese – i filosofi avevano certamente, almeno
nelle coscienze, preparata la caduta del vecchio regime.
Ma ciò non era sufficiente a far scoppiare la Rivoluzione. Occorreva
inoltre passare dalla teoria all'azione, dall'ideale concepito
nell'immaginazione alla sua realizzazione nei fatti; ciò che la
storia deve studiare oggi sono le circostanze che a un dato momento
permisero alla nazione francese di compiere questo sforzo, di
cominciare, cioè, la realizzazione dell'ideale.
D'altra parte, già molto prima dell'89, la Francia era entrata in un
periodo d'insurrezioni. L'avvento al trono di Luigi XVI nel 1774 fu
il segnale di una lunga serie di rivolte, cagionate dalle fame. Esse
durarono fino al 1783. Seguì un periodo di calma relativa. Ma nel
1786, e specialmente nel 1788, le insurrezioni dei contadini si
rinnovarono con maggiori forze. La carestia era stata la causa della
prima serie di rivolte. Ma per le ultime, accanto alla mancanza di
pane, si aggiungeva quale causa il desiderio di non pagare più i
cànoni feudali.
Queste rivolte divennero sempre più numerose sino al 1789, ed in
quest'anno si generalizzarono in tutto l'est, il nord-est ed il
sud-est di Francia.
Così si scioglieva il nesso sociale. Tuttavia, una jacquerie non è
ancora una rivoluzione, anche se assuma forme terribili come quelle
che caratterizzarono la sollevazione dei contadini russi nel 1773,
sotto la bandiera di Pougatchoff. Una rivoluzione è molto di più che
una serie d'insurrezioni nelle campagne e nelle città. Una
rivoluzione è qualche cosa di più che una semplice lotta di
partiti anche sanguinosa – o una battaglia nelle
strade; è molto di più che un semplice cambiamento di governo, come
la Francia ne fece nel 30 e nel 48. Una rivoluzione è il
rovesciamento rapido – in pochi anni – di istituzioni che avevano
messo dei secoli a profondar le radici nel suolo e che sembravano
così solide e immutabili da far esitare nell'attacco demolitore
anche i più ribelli filosofi. È la caduta, lo smembramento in un
breve volger d'anni di tutto quanto formava l'essenza della vita
sociale, religiosa, politica ed economica di una nazione, il
rovesciamento delle idee acquisite e delle nozioni correnti attorno
alle relazioni così complicate fra le unità che formano il genere
umano.
È da ultimo il prorompere di nuove concezioni egualitarie pei
rapporti fra cittadini – concezioni che non tardano a realizzarsi e
allora cominciano a illuminare anche le nazioni vicine, capovolgono
il mondo e danno al secolo che segue la sua parola d'ordine, i suoi
problemi, la sua scienza, le linee del suo sviluppo economico,
politico e morale.
Per arrivare a un risultato di tale importanza, per far sì che un
movimento assuma le forme di una rivoluzione – come avvenne in
Inghilterra nel 1648-1688 e nel 1789-1793 in Francia – non basta che
un movimento d'idee, sia pure profondo, si produca fra le classi
colte – nè bastano sommosse di popolo – siano pur esse vaste e
numerose. Occorre che l'azione rivoluzionaria, prorompente dal
popolo, coincida col pensiero rivoluzionario, rampollante dalle
classi colte. È necessaria la loro unione.
Ecco perchè la Rivoluzione francese, così come la Rivoluzione
inglese del secolo precedente, scoppiò nel momento in cui la
borghesia, dopo aver largamente attinto alle fonti della filosofia
della sua epoca, giunse alla coscienza dei propri diritti, concepì
un nuovo piano di organizzazione politica e forte del proprio
sapere, decisa all'opera, si sentì in grado di afferrare le redini
del governo, strappandole a un'aristocrazia cortigiana che –
incapace, frivola e prodiga – spingeva il regno verso l'estrema
rovina. Ma la borghesia e le classi colte da sole non avrebbero
fatto nulla, se, grazie a diverse circostanze, anche la massa dei
contadini non fosse insorta e non avesse dato, dopo un quadriennale
periodo d'insurrezioni, la possibilità ai malcontenti delle classi
medie di combattere il re e la Corte, di rovesciare le vecchie
istituzioni e di cambiare da cima a fondo il regime politico del
regno.
Tuttavia, la storia di questo duplice movimento rimane ancora da
fare. La storia della grande Rivoluzione francese è stata fatta e
rifatta molte volte, da parecchi diversi punti di vista; ma fino ad
oggi gli storici hanno avuto cura sopratutto di raccontare la storia
politica, la storia, cioè, delle conquiste della borghesia a danno
del partito di Corte e dei difensori delle vecchie istituzioni
monarchiche. Così noi conosciamo molto bene il risveglio delle
coscienze che precedè la Rivoluzione. Conosciamo del pari i
principii che dominarono la Rivoluzione e che si tradussero nella
sua opera legislativa; ci estasiamo dinanzi alle grandi idee ch'essa
lanciò nel mondo e che il diciannovesimo secolo cercò più tardi di
realizzare nei paesi civili.
Insomma, la storia parlamentare della Rivoluzione, le sue guerre, la
sua politica, la sua diplomazia sono state studiate e narrate sin
nei più minuti particolari. Ma la storia popolare della Rivoluzione
non è stata ancor fatta. La parte che in questo movimento ha avuto
il popolo delle città e dei campi non fu ancora nel suo complesso nè
studiata nè raccontata. Delle due correnti che fecero la
Rivoluzione, l'una, quella del pensiero ci è nota, ma per l'altra,
quella dell'azione popolare, siamo ancora all'oscuro.
A noi – discendenti di coloro che i contemporanei chiamarono
anarchici – spetta il còmpito di studiare quest'azione popolare e di
rilevarne, almeno, i caratteri essenziali.
II
L'IDEA
Per ben comprendere l'idea inspiratrice della borghesia nel 1789,
bisogna giudicarla dai suoi risultati: gli Stati moderni.
La formazione degli Stati, che vediamo oggi in Europa, s'inizia solo
alla fine del diciottesimo secolo. L'attuale centralizzazione dei
poteri era ben lungi verso quell'epoca dall'avere quella perfezione
e quella uniformità che le riconosciamo oggi. Questo formidabile
meccanismo che dietro un ordine emanato da una capitale, mette in
moto tutti gli uomini d'una nazione, pronti alla guerra, e li lancia
a portare la desolazione nelle campagne e il lutto nelle famiglie;
questi territori coperti da una rete di amministratori la cui
personalità è annientata dalla loro servitù burocratica, per
obbedire come automi agli ordini emanati da un'autorità centrale;
questa obbedienza passiva dei cittadini alla legge, questo culto
della legge, del Parlamento, del giudice e dei suoi agenti che noi
oggi constatiamo; questo insieme gerarchico di funzionari
disciplinati; questa rete di scuole, mantenute o dirette dallo
Stato, nelle quali s'insegna con la sottomissione il culto del
potere; questa industria di cui gli ingranaggi stritolano il
lavoratore abbandonato dallo Stato alla mercè del capitalismo;
questo commercio che accumula incalcolabili ricchezze nelle mani
degli incettatori del suolo, della miniera, delle vie di
comunicazione e delle ricchezze naturali e che nutre lo Stato;
questa scienza infine che, pur liberando il pensiero, centuplica le
forze produttive dell'umanità, ma vuol nello stesso tempo
sottometterla al diritto del più forte e allo Stato, tutto ciò non
esisteva prima della Rivoluzione.
Tuttavia, molto tempo prima che la Rivoluzione s'annunciasse coi
suoi boati, la borghesia francese, il Terzo Stato, avevano già
intravveduto l'organismo politico che si sarebbe sviluppato sulle
rovine della monarchia feudale. E assai probabile che la Rivoluzione
inglese abbia dimostrato col fatto l'opera che la borghesia sarebbe
stata chiamata a compiere un giorno nel governo delle società
civili. Ed è indubbio che la Rivoluzione americana stimolò le
energie dei rivoluzionari francesi. Ma già fin dagli inizi del
diciottesimo secolo lo studio dello Stato e della costituzione delle
società incivilite, fondate sulla elezione dei rappresentanti, era
divenuto – grazie a Hume, Hobbes, Montesquieu, Rousseau, Voltaire,
Mably, d'Argenson, ecc. – lo studio favorito, al quale Turgot e
Adamo Smith aggiunsero di poi lo studio delle questioni economiche e
della funzione della proprietà nella costituzione politica dello
Stato.
Ecco perchè l'ideale di uno Stato centralizzato e ben ordinato,
governato dalle classi detentrici di proprietà fondiarie o
industriali o da quelle che si dedicano alle cosidette professioni
liberali, era vagheggiato ancor prima che la Rivoluzione scoppiasse
ed era esposto in innumerevoli libri ed opuscoli, dai quali gli
uomini della Rivoluzione attinsero più tardi la loro inspirazione e
la loro equilibrata energia.
Ecco perchè la borghesia francese, al momento d'entrare, nel 1789,
nel periodo rivoluzionario, sapeva bene ciò che voleva. Certo non
era repubblicana – lo è forse oggi? Ma essa rifiutava tuttavia il
potere arbitrario del re, del governo, della Corte; insorgeva contro
ai privilegi dei nobili che accaparravano le migliori cariche dei
governo, ma non facevano che saccheggiare lo Stato, come
saccheggiavano, senza farle produrre, le loro immense proprietà. La
borghesia era repubblicana nei costumi – come nelle nascenti
repubbliche d'America; ma voleva altresì il governo affidato alle
classi abbienti.
Senza essere atea, era piuttosto libera pensatrice, ma non detestava
affatto il culto cattolico. Ciò ch'essa detestava, era la Chiesa
soprattutto, colla sua gerarchia; i suoi vescovi alleati ai
principi; i suoi parroci, docili strumenti nelle mani della nobiltà.
La borghesia dell'89 comprendeva ch'era venuto anche in Francia –
come in Inghilterra centoquarant'anni prima – il momento in cui il
Terzo Stato avrebbe raccolto il potere sfuggito dalle mani della
dinastia; e sapeva bene ciò che ne avrebbe fatto.
Il suo ideale era di dare alla Francia una costituzione modellata su
quella inglese. Ridurre il re alla funzione di semplice scriba
registratore, – potere ponderatore talvolta, ma incaricato
soprattutto di rappresentare simbolicamente l'unità nazionale.
Quanto al potere effettivo, eletto, doveva essere rimesso nelle mani
d'un parlamento, nel quale la borghesia colta – rappresentante la
parte attiva e intelligente della nazione – dominerebbe il resto.
Nello stesso tempo, era suo ideale l'abolizione di tutti i poteri
locali o parziali che costituivano altrettante unità autonome nello
Stato, l'accentramento di tutta la potenza governativa nelle mani di
un potere esecutivo centrale, strettamente sorvegliato dal
parlamento – strettamente obbedito nello Stato e conglobante tutto:
imposte, tribunali, polizia, forze militari, scuole, sorveglianza
poliziesca, direzione generale del commercio e dell'industria–
tutto! Proclamare, d'altra parte, la libertà completa delle
contrattazioni e dare contemporaneamente carta bianca alle imprese
industriali per lo sfruttamento non solo delle ricchezze naturali,
ma anche dei lavoratori, abbandonati ormai senza difesa ai datori di
lavoro.
E tutto doveva essere posto sotto al controllo dello Stato, che
avrebbe agevolato l'arricchirsi dei singoli e l'accumulazione di
grandi fortune – condizioni alle quali la borghesia d'allora
attribuiva necessariamente una grande importanza, dal momento che la
convocazione stessa degli Stati Generali aveva avuto luogo per
evitare la rovina finanziaria dello Stato.
Nè meno chiare erano le idee degli uomini del Terzo Stato, dal punto
di vista economico. La borghesia francese aveva letto e studiato
Turgot e Adamo Smith, i creatori della Economia politica. Sapeva che
in Inghilterra le loro teorie erano già state applicate e la
borghesia di Francia invidiava alla consorella d'oltre Manica la sua
potente organizzazione economica, come il suo potere politico. Essa
sognava l'appropriazione delle terre da parte della piccola e grande
borghesia e lo sfruttamento delle ricchezze del suolo, rimasto fino
allora improduttivo nelle mani del clero e della nobiltà. E in ciò
trovava degli alleati nei piccoli borghesi rurali, già forti nei
villaggi, prima che la Rivoluzione ne moltiplicasse il numero. Essa
intravvedeva già lo sviluppo rapido dell'industria e la produzione
intensiva delle merci, coll'aiuto della macchina, il commercio
lontano e l'esportazione transoceanica dei prodotti dell'industria:
i mercati orientali, le grandi imprese e le fortune colossali.
La borghesia comprendeva che per raggiungere il suo intento,
bisognava anzitutto spezzare i vincoli che tenevano il contadino
legato al villaggio. Occorreva ch'egli diventasse libero di
abbandonare la sua capanna e che fosse anzi obbligato di
abbandonarla, trascinato ad emigrare nelle città in cerca di lavoro,
affinchè cambiando padrone, egli procacciasse dell'oro all'industria
invece dei cànoni che pagava prima al signore – pesantissimi per
lui, ma tuttavia insufficenti per il padrone. Occorreva ancora
riordinare le finanze dello Stato, stabilire delle tasse più
redditive e più facili a pagare.
Occorreva, insomma, ciò che gli economisti hanno chiamato la libertà
dell'industria e del commercio, e cioè, da un lato, la liberazione
dell'industria dalla sorveglianza meticolosa e nociva dello Stato,
dall'altro, la libertà di sfruttare l'operaio privo di libertà.
Quindi nessuna unione di mestieri, nessun'associazione di artigiani,
nè giurande, nè maestranze che potrebbero in qualche modo frenare lo
sfruttamento del lavoratore salariato – e neppure la sorveglianza
dello Stato che danneggerebbe l'industriale – nè dogane interne, nè
leggi proibitive. Libertà intera di contrattazione per i padroni –
proibizione assoluta di «coalizione per i lavoratori. «Lasciar fare»
i primi; impedire agli ultimi di associarsi.
Tale fu il doppio piano concepito dalla borghesia. E non appena si
presentò l'occasione di realizzarlo – la borghesia, forte della sua
coltura, della lucidità delle sue mire, della sua abitudine negli
«affari», lavorò senza esitazioni, nè sul complesso, nè sui
dettagli, a far passare le sue idee nella legislazione. E si pose a
tal opera con un'energia cosciente e tenace, che il popolo non ha
mai avuta, semplicemente perchè non ha concepito ed elaborato un
ideale da opporre a quello dei signori del Terzo Stato.
Certo sarebbe ingiusto affermare che la borghesia dell'89 fu guidata
solo da idee strettamente egoistiche. In questo caso essa non
avrebbe mai raggiunto i suoi scopi. È necessario sempre un po'
d'ideale per compiere profonde trasformazioni sociali. I migliori
rappresentanti del Terzo Stato avevano bevuto alla fonte sublime
della filosofia del diciottesimo secolo, che conteneva in embrione
tutte le grandi idee che fiorirono poi. Lo spirito eminentemente
scientifico di questa filosofia, il suo carattere fondamentalmente
morale anche quando derideva e scherniva la morale convenzionale; la
sua fiducia nell'intelligenza, la forza e la grandezza dell'uomo
libero allorquando vivrà fra eguali, il suo odio per le istituzioni
dispotiche; – tutto ciò si ritrova nei rivoluzionari dell'epoca.
Dove avrebbero adunque attinto la forza delle proprie convinzioni e
l'abnegazione che addimostrarono nel momento della lotta? Bisogna
altresì riconoscere che fra coloro che lavoravano di più a
realizzare il programma d'arricchimento della borghesia, taluni
credevano in buona fede che l'arricchimento dei singoli fosse il
mezzo migliore per arricchir la nazione. I più dotti economisti –
Smith alla testa – non l'avevano predicato con convinzione?
Ma per quanto elevate fossero le idee astratte di libertà, di
eguaglianza, di progresso libero che inspiravano gli uomini sinceri
della borghesia del 1789-93, è dal loro programma pratico, dalle
applicazioni della teoria che noi dobbiamo giudicarle. Con quali
mezzi l'idea astratta si tradurrà nella vita reale? È il fatto che
ci darà la vera misura dell'idea.
Ebbene, se è giusto riconoscere che la borghesia dell'89 era
inspirata da idee di libertà, d'eguaglianza (davanti alla legge) e
di liberazione politica e religiosa – è altresì vero che queste idee
non appena prendevan corpo, si traducevano precisamente nel duplice
programma da noi or ora abbozzato: libertà di utilizzare le
ricchezze d'ogni genere per l'arricchimento personale, libertà di
sfruttare il lavoro umano, senza nessuna garanzia per le vittime
dello sfruttamento. E noi vedremo fra poco quali lotte terribili
scoppiarono nel 93, quando una parte dei rivoluzionari volle
oltrepassare – superandolo – questo programma.
III
L'AZIONE
E il popolo? Quali erano le sue idee?
Anche il popolo aveva in una certa misura subìto l'influenza della
filosofia del secolo. Attraverso mille canali indiretti, i grandi
principii di affrancamento e di libertà erano giunti fino ai
villaggi e ai sobborghi delle grandi città. Scompariva il rispetto
alla dinastia e alla aristocrazia. Le idee egualitarie penetravano
dovunque. Bagliori di rivolta attraversavano le coscienze. La
speranza di un prossimo cambiamento faceva talvolta battere anche i
più umili cuori. – «Non so che cosa accadrà, ma qualcosa deve
accadere e presto», diceva nel 1787 una vecchia ad Arturo Young, che
alla vigilia della Rivoluzione percorreva la Francia. Questo
«qualcosa» doveva alleviare le miserie del popolo.
Si è recentemente discusso per sapere se il movimento che precedè la
Rivoluzione e la Rivoluzione stessa, contengano un elemento di
socialismo. La parola «socialismo» non c'era, poichè fu messa in
voga solo verso la metà del diciannovesimo secolo. La concezione
dello Stato capitalista, alla quale la frazione socialdemocratica
del grande partito socialista cerca oggi di ridurre il socialismo,
non dominava certo come fa attualmente, poichè i fondatori del
«collettivismo» socialdemocratico, Vidal e Pecqueur, non scrissero
che fra il 1840 e il 1849. Tuttavia, rileggendo le opere degli
scrittori precursori della Rivoluzione, si è colpiti dal fatto che i
loro scritti sono compenetrati dalle idee che costituiscono
l'essenza stessa del socialismo moderno.
Due idee fondamentali – quella dell'eguaglianza di tutti i cittadini
nei loro diritti alla terra e l'altra che noi conosciamo oggi sotto
il nome di comunismo, reclutavano partigiani fedeli tra gli
enciclopedisti e tra gli scrittori più popolari dell'epoca, come il
Mably, il d'Argenson e tant'altri di minore importanza. L'industria
era allora in fascie e non dall'officina, bensì dalla terra era
costituito il capitale per eccellenza, lo strumento principale per
sfruttare il lavoro umano. Onde il pensiero dei filosofi e più tardi
quello dei rivoluzionari del XVIII secolo si portava verso il
possesso in comune del suolo. Mably, che, molto più di Rousseau,
inspirò gli uomini della Rivoluzione, non domandava infatti fin dal
1768 (Doutes sur l'ordre naturel et essentiel des sociétés)
l'eguaglianza di tutti nel diritto alla terra e il possesso
comunistico del suolo? E il diritto della nazione su tutte le
proprietà fondiarie, come su tutte le ricchezze naturali – foreste,
fiumi, cascate, ecc. – non era l'idea dominante degli scrittori
precursori della Rivoluzione, e, scoppiata questa, della Sinistra
dei rivoluzionari popolari?
Disgraziatamente, queste aspirazioni comuniste non prendevano, nei
pensatori che volevano il bene del popolo, una forma netta e
concreta. Mentre, nella borghesia istruita, le idee di liberazione
si traducevano in un programma completo di organizzazione politica
ed economica, le stesse idee venivano presentate al popolo sotto
forma di vaghe e lontane aspirazioni. Spesso si trattava di semplici
negazioni. Coloro che parlavano al popolo non cercavano di dare una
forma concreta a questi desiderata, a queste negazioni. Si potrebbe
credere quasi ch'essi evitassero di precisare. Coscientemente o no,
pareva dicessero: «A qual scopo parlare al popolo sulle forme della
sua organizzazione futura! Ciò raffredderebbe la sua energia
rivoluzionaria. Ch'egli abbia intanto la forza dell'attacco per
marciare all'assalto delle vecchie istituzioni. – Al resto,
penseremo poi.»
Quanti socialisti e anarchici seguono ancora lo stesso procedimento!
Impazienti e vogliosi d'affrettare il giorno della rivolta, essi
accusano di addormentatrici tutte le teorie che cercano di gettare
qualche sprazzo di luce sulla futura ricostruzione rivoluzionaria.
Le cause di questa imprecisione di linguaggio van date in parte
anche all'ignoranza degli scrittori, in maggioranza cittadini e
uomini di gabinetto. Così, in quell'assemblea di uomini colti e
rotti agli «affari» che fu l'Assemblea nazionale – avvocati,
giornalisti, commercianti, ecc. – non c'erano che due o tre membri
giuristi che conoscessero i diritti feudali, ed è noto inoltre che i
rappresentanti dei contadini, famigliari – per loro esperienza
personale – coi bisogni del villaggio, erano pochissimi.
Per questo complesso di ragioni diverse, l'idea popolare si
esprimeva soprattutto con semplici negazioni. – «Bruciamo i catasti
ove sono registrati i cànoni feudali! Abbasso le decime! Abbasso
madama Veto! Gli aristocratici alla lanterna!» Ma di chi sarebbe la
terra libera? A chi andrebbe l'eredità degli aristocratici
ghigliottinati? Quali mani afferrerebbero le redini dello Stato che
cadevano dalle mani di Madama Veto per passare in quelle della
borghesia, potenza ben più formidabile dell'antico regime?
La mancanza di chiarezza nelle concezioni del popolo su ciò che
poteva sperare dalla Rivoluzione lasciò la sua impronta su tutto il
movimento. Mentre la borghesia marciava con passo fermo e deciso
alla costituzione del suo potere politico in uno Stato che cercava
di modellare conforme alle sue idee, il popolo esitava. Nelle città
soprattutto esso non sapeva – all'inizio – come avrebbe potuto
utilizzare a suo vantaggio il potere, una volta che lo avesse
conquistato. E allorquando, più tardi, i progetti di legge agraria e
di pareggiamento delle fortune cominciarono a precisarsi, trovarono
le maggiori difficoltà nei pregiudizi sulla proprietà, dei quali
erano imbevuti non meno degli altri anche coloro che avevano
sinceramente sposato la causa del popolo.
Scoppiò lo stesso conflitto nelle concezioni sull'organizzazione
politica dello Stato. Lo si vede nella lotta e nell'antitesi fra i
pregiudizi governativi dei democratici dell'epoca e le idee che
cominciavano a farsi strada tra le masse, sul decentramento politico
e sulle funzioni preponderanti che il popolo voleva affidare ai suoi
municipii, alle sue sezioni nelle grandi città e alle assemblee del
villaggio. Qui è l'origine di tutta quella serie di sanguinosi
conflitti che scoppiarono nella Convenzione. Di qui la povertà di
risultati tangibili per la grande massa del popolo – eccettuate
tuttavia le terre tolte ai signori laici e religiosi e liberate dai
gravami feudali.
Ma se le idee positive del popolo erano confuse, quelle negative
invece, erano, sotto certi rapporti, assai precise.
Anzitutto, l'odio del povero contro l'aristocrazia oziosa,
dissipatrice, perversa che lo dominava, mentre la miseria mieteva
vittime nei villaggi e nei quartieri tenebrosi delle grandi città.
Poi l'odio contro il clero che simpatizzava per l'aristocrazia e non
pel popolo da cui era nutrito. L'odio contro tutte le istituzioni
del vecchio regime che rendevano ancora più pesante la povertà,
poichè non riconoscevano nel povero i diritti umani. L'odio contro
il regime feudale e i suoi cànoni, che tenevano il coltivatore in
uno stato di servitù verso il proprietario fondiario, sebbene non
esistesse più la servitù personale. Da ultimo la disperazione del
contadino, allorquando in quegli anni di carestia, vedeva la terra
rimanere incolta nelle mani del signore o trasformata in luogo di
divertimento pei nobili, mentre la fame batteva a tutte le porte dei
villaggi.
Questo odio, maturato lentamente e tenacemente mano mano che
l'egoismo dei ricchi diveniva nel corso del secolo XVIII più rapace,
e il bisogno della terra, d'onde erompe il grido del contadino
affamato e insorgente contro al padrone che glie la toglieva,
svegliarono sin dall'88 lo spirito di rivolta. Quest'odio e questo
bisogno unitamente alla speranza di successo – sostennero dell'89 al
93 le continue rivolte dei contadini, rivolte che permisero alla
borghesia di rovesciare il vecchio regime e di organizzare il suo
potere sotto un nuovo regime: quello del governo rappresentativo.
Lo sforzo della borghesia sarebbe stato inutile e vano senza queste
insurrezioni, senza questa disorganizzazione completa dei poteri in
provincia che fu l'effetto immediato delle incessanti rivolte; senza
lo slancio del popolo parigino e d'altre città ad armarsi e marciare
contro le fortezze della dinastia, slancio e prontezza che non
mancarono mai ad ogni appello lanciato dai rivoluzionari al popolo.
Ed è appunto al popolo, a questa sempre fresca e viva sorgente della
Rivoluzione – al popolo pronto ad impugnare le armi – che gli
storici della Rivoluzione non hanno ancor reso la giustizia che gli
deve la storia della civiltà.
IV
IL POPOLO PRIMA DELLA RIVOLUZIONE
Sarebbe inutile di fermarsi qui per descrivere a lungo l'esistenza
che i contadini nelle campagne e i poveri delle città, trascinavano
alla vigilia dell'89. Tutti gli storici della grande Rivoluzione vi
hanno consacrato pagine eloquentissime. Il popolo gemeva sotto al
fardello delle imposte esatte dallo Stato, dei cànoni pagati al
signore, delle decime che ingrassavano il clero – e delle corvées
imposte da tutti e tre. Intere popolazioni erano ridotte a mendicare
e percorrevano le strade in numero di cinque, dieci, ventimila
uomini, donne, fanciulli in tutte le provincie: le statistiche
ufficiali del 77 fanno salire a 1,100,000 la cifra dei mendicanti.
Nei villaggi la carestia era passata allo stato cronico; ritornava a
intervalli brevi e decimava intere provincie. Allora i contadini
fuggivano in massa dalla loro provincia nella speranza, subitamente
delusa, di trovare altrove migliori condizioni di vita. Nello stesso
tempo cresceva d'anno in anno la folla dei poveri nelle città. La
mancanza di pane era continua; e poichè i municipi non potevano
rifornire i mercati, le sommosse per fame, accompagnate sempre da
uccisioni, erano all'ordine del giorno in tutto il regno.
D'altra parte, si assisteva allo spettacolo della raffinata
aristocrazia del decimottavo secolo, dilapidatrice, con un lusso
sfrenato e assurdo, di fortune colossali – centinaia di migliaia e
di milioni di franchi di reddito all'anno. Un Taine può oggi
estasiarsi davanti alla vita che i nobili conducevano, sol perchè la
conosce da lontano, a un secolo di distanza, attraverso i libri; ma
in realtà quella vita nascondeva – dietro alle manifestazioni
esteriori regolate dal maestro di ballo e dietro la dissipazione
rumorosa – una cruda sensualità, l'assenza di ogni convincimento, di
ogni pensiero – l'assenza finanche di semplici sentimenti umani. Ne
conseguiva che la noia batteva perennemente alle porte di questi
signori ed essi la combattevano ricorrendo inutilmente a tutti i
mezzi più futili e infantili. Quanto valesse questa nobiltà lo si è
visto allo scoppiar della Rivoluzione, quando, invece di difendere
il loro re, la loro regina, i nobili emigrarono e chiamarono in loro
soccorso l'invasione straniera. Nelle colonie d'emigrati che si
formavano a Coblenza, a Bruxelles, a Mitau si è potuto vedere il
valore e la nobiltà di carattere della nobiltà...
Questi estremi di lusso e di miserie, così frequenti nel
diciottesimo secolo, sono stati mirabilmente descritti da tutti gli
storici della Grande Rivoluzione. Ma occorre aggiungervi un
particolare, di cui si comprende l'importanza quando si voglia
esaminare la condizione presente dei contadini russi, alla vigilia
della grande Rivoluzione russa.
La miseria della grande massa dei contadini francesi era certamente
spaventosa. Dal regno di Luigi XIV – mano a mano che le spese dello
Stato crescevano e che il lusso dei signori, raffinandosi, prendeva
quel carattere d'eccentricità del quale ci danno tante notizie
alcune memorie dell'epoca – la miseria s'era aggravata. Le esazioni
dei signori erano divenute veramente insopportabili pel fatto che
gran parte della nobiltà rovinata, ma dissimulatrice tuttavia della
propria miseria sotto le parvenze del lusso, strappava, con feroce
accanimento, ogni piccola rendita ai contadini, esigeva il pagamento
anche dei più piccoli debiti e cànoni in natura fissati dalla
consuetudine antica, trattava – per mezzo d'intendenti – i contadini
colla esosità feroce dei rigattieri. I nobili ridotti in povertà –
nei loro rapporti cogli ex-servi, si rivelavano borghesi avidi di
denaro, ma impotenti a trovarlo in altre fonti che non fossero lo
sfruttamento degli antichi privilegi, avanzi dell'epoca feudale.
Ecco perchè durante i quindici anni del regno di Luigi XVI, che
precedettero l'89, lo sfruttamento dissanguatore della nobilaglia
ebbe una recrudescenza della quale non mancano le traccie nei
documenti dell'epoca.
Ma se gli storici della Grande Rivoluzione hanno ragione di
dipingere a colori assai foschi la condizione dei contadini, non
minor ragione hanno altri storici, come il Tocqueville ad esempio,
che parlano di miglioramenti nelle campagne proprio nel periodo che
immediatamente precede la Rivoluzione. Sta di fatto che un duplice
fenomeno si compiva allora nei villaggi: l'immiserimento in massa
dei contadini e il miglioramento di qualcuno fra di loro. Lo stesso
fenomeno si ripete oggi in Russia, dopo l'abolizione della servitù.
La massa dei contadini s'impoveriva. La loro esistenza diveniva più
incerta d'anno in anno; la più piccola siccità apportava scarsità di
raccolti e carestia. Ma nello stesso tempo si veniva formando una
nuova classe di contadini più agiati e più ambiziosi – specialmente
là dove la decomposizione delle fortune nobiliari s'era più
rapidamente compiuta. Il borghese del villaggio, il contadino
imborghesito faceva la sua comparsa e fu lui il primo – iniziatasi
la Rivoluzione – a parlare contro i diritti feudali e a domandarne
l'abolizione. Fu lui che durante i quattro o cinque anni dell'azione
rivoluzionaria, volle, tenacemente, l'abolizione dei diritti feudali
senza riscatto, cioè la confisca dei beni e il frazionamento o
parcellamento dei beni confiscati. Fu lui, da ultimo, il più
accanito nemico, nel 1793, dei «ci-devant», degli ex-nobili, degli
ex-signori.
All'avvicinarsi della Rivoluzione, per mezzo del contadino divenuto
notabile nel suo villaggio, la speranza entra nei cuori e matura lo
spirito di rivolta.
Le traccie di questo risveglio sono evidenti, poichè dal 1786, le
rivolte si ripetevano con sempre maggior frequenza. Se la
disperazione della miseria spingeva il popolo alla sommossa, la
speranza di ottenere qualche sollievo lo spingeva alla rivoluzione.
Come tutte le rivoluzioni, anche quella dell'89 fu provocata dalla
speranza di ottenere qualche profonda trasformazione sociale.
V
LO SPIRITO DI RIVOLTA; LE SOMMOSSE
Un nuovo regno comincia quasi sempre colle riforme. Nè quello di
Luigi XVI fa eccezione alla regola. Due mesi dopo il suo avvento al
trono, il re chiamava Turgot al ministero e un mese più tardi, lo
nominava controllore generale delle finanze. Non solo; ma lo
sostenne contro l'opposizione violenta che la Corte faceva per forza
di cose al nuovo ministro, economista, borghese parsimonioso, nemico
dell'aristocrazia fannullona.
La libertà del commercio dei grani, proclamata nel 17741,
l'abolizione delle corvées nel 1776, la soppressione nelle città
delle vecchie giurande e corporazioni, che servivano ormai solamente
a mantenere una certa aristocrazia nell'industria, tutte queste
misure risvegliavano le speranze del popolo. Vedendo cadere le
barriere feudali di cui la Francia era coperta e che impedivano la
libera circolazione dei cereali, del sale e di altri generi di prima
necessità, i poveri si rallegravano nel veder pure intaccati gli
odiosi privilegi dei signori. I contadini più agiati eran lieti di
veder abolito l'obbligo, in solido, di tutti i contribuenti2. Nel
1779, la mano-morta e le servitù personali furono soppresse nei
domini del re e un anno dopo fu decisa l'abolizione della tortura,
che si era continuato ad applicare sin allora nella procedura
penale, sotto le forme più atroci, stabilite coll'ordinanza del
16703.
Si cominciava a parlare anche del governo rappresentativo, simile a
quello che gli inglesi avevano instaurato dopo la loro Rivoluzione e
che gli scrittori filosofi desideravano. Turgot aveva già preparato
a tal fine un progetto di assemblee provinciali, che dovevano
precedere l'istituzione di un governo rappresentativo per tutta la
Francia e la convocazione di un Parlamento eletto dalle classi
abbienti. Luigi XVI retrocesse dinanzi a tal progetto e licenziò
Turgot, ma fin d'allora tutta la Francia colta cominciò a parlare di
Costituzione e di rappresentanza nazionale4.
D'altronde, era ormai impossibile evitare la questione della
rappresentanza nazionale, che ritornò sul tappeto, nel luglio del
1777, quando Necker fu chiamato al ministero. Egli sapeva indovinare
le idee del suo padrone e cercava di conciliarne le mire di
autocrata coi bisogni delle finanze, per cui tergiversò dapprima non
proponendo che delle assemblee provinciali e facendo intravvedere,
solo come possibilità futura, la rappresentanza nazionale. Ma ebbe
pure da parte di Luigi XVI un formale rifiuto: – «Non sarebbe
meglio, scriveva il finanziere astuto, che Vostra Maestà divenuta
intermediaria fra gli Stati e i suoi popoli non spiegasse che
l'autorità necessaria a segnare i limiti fra il rigore e la
giustizia», – al quale invito, Luigi XVI rispondeva: «L'essenza
della mia autorità mi pone in testa, non mi fa intermediario.» Sarà
bene di ricordare queste parole per non cadere nei sentimentalismi
sciocchi che gli storici del campo reazionario hanno ammanito
ultimamente ai loro lettori! Luigi XVI non era il personaggio
indifferente, innocuo, bonario – occupato solamente nella caccia –
che certi cortigiani hanno descritto. No. Luigi XVI seppe resistere
durante quindici anni, fino al 1789, al bisogno sempre più
impellente di nuove forme politiche da sostituirsi al dispotismo
regale e alle abbominazioni dell'antico regime.
L'arma che servì di preferenza Luigi XVI fu l'astuzia, e cedette
solo davanti alla paura; resistè, non solo sino al 1789, ma, sempre
impiegando le stesse armi, – astuzia e ipocrisia, – sino ai suoi
ultimi momenti, sino a pie' del palco di morte. Ad ogni modo, nel
1778, quando ormai gli spiriti più o meno aperti vedevan già chiaro
come l'autocrazia regale avesse compiuto il suo ciclo e che l'ora
era suonata di sostituirla con qualche forma di rappresentanza
nazionale, Luigi XVI non fece che malvolontieri alcune lievi
concessioni. Convocò le assemblee provinciali del Berry e della
Haute-Guyenne (1778-1779). Ma davanti all'opposizione dei
privilegiati, fu abbandonato il progetto di estendere queste
assemblee ad altre provincie e Necker fu licenziato nel 1781.
Frattanto, la rivoluzione d'America contribuì pure a risvegliare gli
spiriti e ad inspirarli col soffio della libertà e della democrazia
repubblicana. Il 4 luglio del 1776, le colonie inglesi, dell'America
del Nord proclamarono la loro indipendenza e i nuovi Stati Uniti
furono riconosciuti nel 1778 dalla Francia, il che provocò una
guerra coll'Inghilterra che durò sino al 1783. Tutti gli storici
parlano dell'impressione prodotta da questa guerra. È certo,
infatti, che la rivolta delle colonie inglesi e la costituzione
degli Stati Uniti esercitarono una profonda influenza in Francia e
contribuirono assai a risvegliare lo spirito rivoluzionario. È noto
del pari che le Dichiarazioni di diritti, fatte nei nuovi Stati
americani, influenzarono profondamente i rivoluzionari francesi. Si
potrebbe aggiungere ancora che la guerra d'America, avendo costretto
la Francia a creare quasi dal nulla una flotta da opporre a quella
inglese, finì di rovinare le finanze dell'antico regime e accelerò
lo sconvolgimento. È inoltre accertato che questa guerra fu l'inizio
delle guerre terribili che l'Inghilterra scatenò di lì a poco contro
la Francia, come pure delle coalizioni che rovesciò più tardi contro
la Repubblica. Non appena l'Inghilterra ebbe riparate le sue
sconfitte e sentì la Francia indebolita dalle discordie intestine,
provocò con ogni mezzo – aperto o segreto – la lunga serie di guerre
che infierirono dal 1793 sino al 1815.
È necessario indicare tutte queste cause della grande Rivoluzione,
poichè essa fu, come ogni avvenimento di grande importanza, il
risultato di un complesso di cause, convergenti in un dato momento e
creatrici degli uomini, che contribuirono da parte loro a estendere
di quelle cause gli effetti. Ma bisogna pur dire che, malgrado tutti
gli avvenimenti precursori della Rivoluzione e malgrado tutta
l'intelligenza e le ambizioni della borghesia, questa, sempre
prudente, avrebbe ancora lungamente pazientato, se il popolo non
avesse precipitato gli avvenimenti. Le rivolte popolari – di
proporzioni inaspettate e sempre più gravi e numerose – furono
l'elemento nuovo che diede alla borghesia quella forza d'attacco che
le mancava.
Il popolo aveva sopportato miseria ed oppressione sotto il regno di
Luigi XV; ma non appena il re fu morto, nel 1774, il popolo, il
quale ben comprende che ad ogni cambiamento di padrone v'è di
necessità un rallentamento dei ceppi dell'autorità, cominciò a
ribellarsi. Una serie di sommosse scoppiarono tra il 1775 e il 1777.
Erano sommosse provocate dalla fame e represse sino allora colla
forza. Il raccolto del 1774 era stato scarso, il pane mancava.
Nell'aprile del 1775, la sommossa scoppiò. A Digione il popolo
s'impossessò delle case degli incettatori; distrusse i loro mobili,
demolì i loro mulini. Fu in quell'occasione che il comandante della
città – uno di quei signori raffinati che fanno venire al Taine
l'acquolina dolce in bocca – pronunciò la funesta frase che fu più
tardi così spesso ripetuta durante la Rivoluzione: L'erba è già
spuntata, andate nei campi a pascervi!
Auxerre, Amiens, Lille seguirono Digione. Alcuni giorni dopo, i
«banditi» – la maggioranza degli storici designano con questo nome i
rivoltosi affamati – riuniti a Pontoise, a Passy, a Saint-Germain,
coll'intenzione di saccheggiare i mulini, si portarono a Versaglia.
Luigi XVI dovette comparire al balcone, parlare agl'insorti,
annunciar loro che avrebbe ridotto di due soldi il prezzo del pane –
misura alla quale naturalmente il Turgot, da buon economista, si
oppose. Il prezzo del pane non fu ribassato. Frattanto i «banditi»
entrarono dentro Parigi, saccheggiarono i fornai e distribuirono
alla folla il loro bottino di pane. La truppa li disperse. Nella
piazza di Grève furono impiccati due rivoltosi che morendo gridarono
di sacrificarsi pel popolo; ma da quel momento la leggenda dei
«briganti», padroni delle strade di Francia, cominciò a diffondersi
e servì magnificamente più tardi qual pretesto alla borghesia delle
città per armarsi. Sui muri di Versaglia comparvero già dei
manifesti che insultavano il re e i suoi ministri e promettevano di
giustiziare il re all'indomani della sua incoronazione o di
sterminare l'intera famiglia reale, se il pane fosse rimasto allo
stesso prezzo. Nello stesso tempo circolavano in provincia decreti
apocrifi del governo. Uno di questi affermava che il Consiglio aveva
tassato il grano a dodici lire per sestiere.
Queste sommosse furono represse, ma nondimeno ebbero conseguenze
profonde. Fu uno scatenarsi di lotte fra partiti diversi; gli
opuscoli piovevano: si accusavano i ministri, si accennava a
complotti dei principi contro il re, si denigrava l'autorità regia.
Insomma, collo stato d'eccitazione in cui si trovavano gli spiriti,
la sommossa popolare fu come la scintilla che incendia le polveri.
Si parlò anche – e nessuno vi aveva mai neppure pensato – di
accordare alcune riforme al popolo: furono concessi lavori pubblici;
vennero abolite le tasse di macinato – la qual cosa fece credere
agli abitanti dei dintorni di Rouen che tutti i diritti nobiliari
fossero stati aboliti e una sollevazione scoppiò – nel luglio – per
non più pagarli. È evidente, insomma, che i malcontenti non
perdevano il loro tempo, ma profittavano di qualunque occasione
propizia per estendere le rivolte popolari.
Mancano documenti per raccontare tutte le sommosse che scoppiarono
durante il regno di Luigi XVI gli storici se ne occupano poco; gli
archivi non sono stati frugati; solo, per caso, ci accade di sapere
che in questa e in quella località avvennero «disordini». Rivolte
abbastanza gravi, ad esempio, scoppiarono a Parigi, dopo
l'abolizione delle giurande (1776) e quasi dovunque in Francia,
durante lo stesso anno, in seguito a false voci diffuse
sull'abolizione di ogni obbligo di corvée e di taglia verso i
signori. Tuttavia, dai documenti stampati da me consultati, pare che
dal 1777 al 1783 – forse a cagione della guerra americana –
diminuisse la frequenza delle rivolte.
Ma nel 1782-83 esse ripresero la loro marcia e continuarono –
aumentando – sino alla Rivoluzione. Poitiers si sollevava nel 1782 –
nel 1786 seguiva Vizille; dall'83 all'87 le sommosse sconvolgono le
Cevenne, il Vivarais e il Gévaudan. I malcontenti, che venivano
chiamati mascarats, volendo punire gli azzeccagarbugli che
seminavano la discordia fra i contadini per provocare dei processi,
irruppero nei tribunali, invasero gli uffici degli avvocati e dei
notai e bruciarono tutti gli atti e i contratti che vi si trovavano.
Tre sobillatori furono impiccati, gli altri vennero condannati ai
lavori forzati, ma i disordini ricominciarono non appena si chiusero
i parlamenti5. Nel 1786, Lione insorge (Chassin, Génie de la
Révolution). I filatori di seta proclamano lo sciopero; vien loro
promesso un aumento di salario – si chiama la truppa; v'è un
conflitto, poi tre dei capi lasciano la vita sulla forca. Da allora,
sino alla Rivoluzione, Lione rimane un focolare di rivolta e nel
1789 son nominati elettori i ribelli del 1786.
Qualche sollevazione riveste carattere religioso, tal altra scoppia
invece per resistere all'arruolamento dei soldati – (ogni leva di
milizie conduceva a disordini, dice in un suo scritto Turgot) –
oppure contro i dazi e le decime. Ma non passa giorno senza
sommosse: sono numerosissime nell'est, nel sud-est e nel nord-est:
focolari futuri della Rivoluzione. Queste sommosse assumono un
carattere di sempre maggiore gravità e finalmente nel 1788, in
seguito all'abolizione delle corti di giustizia chiamate parlamenti,
sostituite però dalle cosidette «corti plenarie», le sommosse si
propagano in ogni angolo della Francia.
Evidentemente, il popolo non trovava grandi differenze fra un
parlamento e una «corte plenaria». Qualche volta, è vero, i
parlamenti si erano rifiutati di registrare gli editti promulgati
dal re o dai ministri, ma d'altra parte, non avevano mostrato
nessuna cura degli interessi del popolo. Dal momento però che i
parlamenti facevano l'opposizione alla Corte, ciò bastava; e
allorquando gli emissari della borghesia e dei parlamenti andavano
tra il popolo a cercarne l'appoggio, il popolo coglieva l'occasione
propizia per tumultuare e manifestare in tal modo la sua avversione
ai ricchi e alla Corte.
Nel giugno 1787, il parlamento di Parigi divenne popolare, perchè
rifiutò i denari alla Corte. La legge esigeva che gli editti del re
fossero registrati dal parlamento e il parlamento di Parigi registrò
volontieri gli editti riguardanti il commercio dei grani, la
convocazione delle assemblee provinciali e la corvée. Ma rifiutò di
registrare l'editto che stabiliva nuove tasse, – una nuova
«sovvenzione territoriale» e un nuovo diritto di bollo. Allora il re
convocò un «letto di giustizia», cioè una sua solenne seduta nel
parlamento e fece registrare questi editti colla forza. Il
parlamento protestò e guadagnò in tal modo le simpatie della
borghesia e del popolo. A ogni seduta la folla s'accalcava nei
dintorni del palazzo: amanuensi, sfaccendati curiosi, popolani si
riunivano per acclamare i parlamentari. Per finirla, il re esiliò il
parlamento a Troyes – ma questa decisione provocò rumorose
dimostrazioni a Parigi. L'odio del popolo era soprattutto diretto –
già fin d'allora – contro i principi (in particolare contro il duca
d'Artois) e contro la regina, soprannominata Signora Deficit.
La Corte dei dazi di Parigi, sostenuta dalla sommossa popolare,
unitamente con tutti i parlamenti di provincia e le corti di
giustizia, protestò contro quest'arbitrio del potere regio, e poichè
l'agitazione aumentava, il re fu costretto, il 9 settembre, a
richiamare il parlamento esiliato, la qual cosa provocò nuove
dimostrazioni a Parigi, durante le quali il ministro di Calonne
venne bruciato in effige.
Questi tumulti scoppiavano il più sovente in seno alla piccola
borghesia. Ma in altri luoghi essi assunsero carattere più popolare.
Nel 1788, la Brettagna insorse. Allorquando il governatore di Rennes
e l'intendente della provincia si recarono al Palazzo per annunciare
al parlamento di Brettagna il decreto col quale lo si aboliva, tutti
i cittadini si rovesciarono nelle strade. La folla insultò e malmenò
i due funzionari. Il popolo odiava l'intendente Bertrand di
Moleville, e i borghesi ne profittavano per diffondere la voce che
l'intendente faceva tutto: «È un mostro da strangolare», diceva uno
dei bigliettini lanciati tra la folla. Quand'egli uscì dal palazzo
fu ricevuto a sassate e parecchie volte gli venne gettata addosso
una corda con nodo scorsoio. Un conflitto era imminente, quando – la
truppa non potendo più contenere la gioventù – un ufficiale gettò la
spada e fraternizzò col popolo.
Tumulti dello stesso genere si verificarono a poco a poco in tutte
le parti della Brettagna, e i contadini a loro volta si sollevarono
per l'imbarco dei grani a Quimper, Saint-Brieuc, Morlaix,
Port-l'Abbé, Lamballe, ecc. È interessante a sapersi che gli
studenti di Rennes parteciparono attivamente ai disordini,
associandosi al popolo6.
Nel Delfinato, particolarmente a Grenoble, la sollevazione ebbe un
carattere ancora più grave. Non appena il comandante
Clermont-Tonnerre ebbe promulgato l'editto che licenziava il
parlamento, il popolo di Grenoble insorse. Le campane suonarono a
stormo anche nei villaggi e i contadini si precipitarono in massa
nella città. Il conflitto fu sanguinoso, con molti morti. La guardia
del comandante non potè resistere e il suo palazzo fu saccheggiato.
Clermont-Tonnerre, minacciato con una scure sospesa sulla sua testa,
dovette revocare l'editto regio.
Era il popolo – soprattutto le donne – che agiva. Quanto ai membri
del parlamento, il popolo durò fatica a trovarli. S'erano nascosti e
scrivevano a Parigi che la sollevazione era scoppiata contrariamente
alla loro volontà. E quando il popolo li ebbe scovati, li tenne
prigionieri, poichè la loro presenza bastava a dare la vernice della
legalità all'insurrezione. Le donne montavano la guardia attorno a
questi parlamentari in arresto. Esse non avevano voluto confidarli
agli uomini, nel timore che li rilasciassero.
La borghesia di Grenoble s'impaurì senza dubbio davanti a questo
movimento popolare e, nel cuor della notte, essa organizzò la sua
milizia, che s'impadronì delle porte della città e dei corpi di
guardia che consegnò subito alle truppe. I cannoni furono puntati
contro la folla e dell'oscurità profittarono i parlamentari per
fuggire. Dal 9 al 14 giugno la reazione trionfò, ma il 14, essendosi
saputo che a Besançon dove il popolo era in rivolta, gli svizzeri
avevano rifiutato di far fuoco – gli animi nuovamente s'eccitarono e
fu ventilata l'idea di convocare gli Stati della provincia. Nuovi
rinforzi di truppe giunti da Parigi ristabilirono però la calma.
Tuttavia il fermento, specie fra le donne, continuò ancora per
qualche tempo. (Vic e Vaissete, t. X, p. 637).
Queste due sollevazioni, menzionate dalla grande maggioranza degli
storici, non furono le sole; altre scoppiarono alla stessa epoca in
Provenza, Linguadoca, Rossiglione, nel Bearnese, nelle Fiandre,
nella Franca Contea e in Borgogna. Anche in quei luoghi dove
movimenti insurrezionali non ci furono, non mancò una certa
agitazione degli animi, nè mancarono dimostrazioni.
A Parigi, all'epoca del licenziamento dell'arcivescovo di Sens, si
ebbero numerose manifestazioni. Il Ponte Nuovo era custodito dalla
truppa e parecchi conflitti scoppiarono tra la truppa e il popolo,
di cui i capi – osserva Bertrand de Moleville (p. 136), «furono gli
stessi che più tardi parteciparono a tutti i movimenti popolari
della Rivoluzione». Bisogna leggere d'altronde la lettera di Maria
Antonietta al conte di Mercy – in data 24 agosto 1788 – nella quale
ella gli parla dei suoi timori e gli annuncia il ritiro
dell'arcivescovo di Sens e le pratiche da lei fatte per il richiamo
di Necker, per comprendere lo stato d'animo della Corte davanti a
questi commovimenti di popolo. La regina prevede che il richiamo di
Necker «indebolirà l'autorità del re»; teme «che si debba nominare
un principal ministro»; ma «il momento urge». Necker è divenuto
necessario7.
Tre settimane più tardi (il 14 settembre 1788), allorchè si ebbe
notizia del ritiro di Lamoignon, le manifestazioni si rinnovarono.
La folla si lanciò per bruciare le case dei ministri Lamoignon,
Brienne e Dubois. Venne chiamata la truppa e nelle vie Mélée e
Grenelle fu «compiuta una orribile carneficina di quegli sciagurati
che non si difendevano neppure». Dubois fuggì da Parigi. – «Il
popolo si sarebbe fatto giustizia da sè», dicono i Deux Amis de la
Liberté.
Più tardi ancora, nell'ottobre del 1788, allorquando il Parlamento,
esiliato a Troyes, fu richiamato, «gli scrivani e la plebaglia»
illuminarono a festa per parecchie sere di seguito la piazza
Dauphine. Domandavano soldi ai passanti per accendere dei fuochi
artificiali. Costringevano i signori a smontare dalle vetture e a
salutare la statua di Enrico IV. Bruciavano dei fantocci
raffiguranti Calonne, Breteuil, la duchessa di Polignac. Poco mancò
non si bruciasse in effige anche la regina. A poco a poco queste
manifestazioni si diffusero in tutti gli altri quartieri di Parigi e
la truppa fu chiamata a disperderle. In piazza di Grève scorse il
sangue e caddero dei morti e dei feriti. Le persone arrestate se la
cavarono con pene leggere, perchè vennero giudicate dai magistrati
del parlamento.
In questo modo, alla vigilia della grande Rivoluzione si svegliava e
si propagava lo spirito rivoluzionario8. L'iniziativa certo partiva
dalla borghesia – specialmente dalla piccola borghesia; ma,
generalmente parlando, i borghesi evitavano di compromettersi e, fra
di essi, non molti furono quelli che prima della convocazione degli
Stati generali seppero resistere più o meno apertamente alla Corte.
Coi loro scarsi atti di resistenza, la Francia avrebbe certamente
atteso per un pezzo il rovesciamento del dispotismo regio.
Fortunatamente, mille circostanze spingevano il popolo a ribellarsi
e sebbene ogni sommossa avesse un seguito lugubre d'impiccagioni, di
arresti in massa e di torture inflitte agli arrestati, pure il
popolo, esasperato dalla miseria e spronato da quelle vaghe speranze
accennate dalla vecchia che parlava a Arturo Young, insorgeva.
Insorgeva contro gli intendenti di provincia, contro gli esattori
delle tasse, contro gli agenti del dazio e contro l'esercito stesso,
disorganizzando in tal modo la macchina governativa.
Già nel 1788, le rivolte dei contadini si generalizzarono tanto che
divenne impossibile provvedere alle finanze dello Stato e Luigi XVI,
dopo aver rifiutato durante quattordici anni la convocazione dei
rappresentanti della nazione, nella tema di diminuire l'autorità del
re, si vide infine costretto a convocare, dapprima, per due volte,
delle Assemblee di notabili e poi gli Stati generali.
VI
GLI STATI GENERALI DIVENUTI NECESSARI
Per chiunque conosceva lo stato della Francia era evidente che non
poteva più oltre durare il regime irresponsabile della Corte. Nelle
campagne, la miseria cresceva, e ogni anno aumentavano le difficoltà
per ottenere il pagamento delle tasse, colpe per forzare i contadini
a pagare i cànoni ai signori e le numerose corvées al governo
provinciale. Le imposte assorbivano più della metà e qualche volta
più dei due terzi del guadagno annuo di un contadino.
L'accattonaggio da una parte e la sommossa dall'altra, diventavano
lo stato normale delle campagne. Non era il solo contadino a
protestare e ribellarsi, ma anche la borghesia esprimeva ad alta
voce il suo malcontento. Essa approfittava, senza dubbio,
dell'immiserimento dei contadini per arruolarli nell'industria e si
serviva della demoralizzazione delle amministrazioni e del disordine
delle finanze per impadronirsi d'ogni specie di monopoli ed
arricchire con prestiti fatti allo Stato.
Ma questo non bastava alla borghesia. Per qualche tempo essa tollerò
bene il dispotismo regio e il governo della Corte; tuttavia giunse
il momento in cui cominciò a temere per i suoi monopolî, per il
denaro prestato allo Stato, per le proprietà fondiarie già
acquistate, per le industrie costituite – e allora aiutò il popolo a
ribellarsi, onde spezzare il governo della Corte e creare il suo
proprio potere politico. È quanto accadde – e lo si vede
perfettamente – durante i primi tredici o quattordici anni del regno
di Luigi XVI, dal 1774 al 1788.
Un cambiamento profondo in tutto il regime politico della Francia
s'imponeva evidentemente, ma Luigi XVI e la Corte resistettero così
a lungo, che quando il re si decise ad accordare alcune piccole
riforme, non bastarono ad accontentare la nazione che già pensava a
ben altri cambiamenti, mentre avrebbero forse potuto contentarla al
principio del regno o anche tra il 1783 e il 1785. Mentre nel 1775,
un regime misto di autocrazia e di rappresentanza nazionale avrebbe
soddisfatto la borghesia dodici o tredici anni più tardi, nel
1787 e 88 il re si trovò in presenza di un'opinione pubblica, che
non voleva più saperne di compromessi ed esigeva il governo
rappresentativo con tutte le conseguenti limitazioni del potere
sovrano.
Abbiamo veduto come Luigi XVI respinse le modeste riforme di Turgot.
Solo l'idea di una qualsiasi limitazione del potere regio gli
ripugnava. Così le riforme di Turgot abolizione delle corvées, delle
giurande e un timido tentativo di far pagare alcune imposte ai due
ordini privilegiati, la nobiltà e il clero – non approdarono a
nulla. Tutti gli ingranaggi dello Stato sono connessi e necessari
gli uni agli altri e tutto, sotto l'antico regime, crollava.
Necker, venuto poco dopo di Turgot, era più finanziere che uomo di
Stato; egli aveva la mente corta dei finanzieri che giudicano
grettamente le cose. Era ben competente in materia di prestiti e
d'operazioni finanziarie; ma basta leggere il suo Pouvoir Exécutif
per capire come il suo spirito, abituato a ragionare sopra le teorie
di governo e non a districarsi nell'urto delle passioni umane e dei
desiderata avanzati a un dato momento in una società, fosse poco
adatto a comprendere l'immenso problema economico, politico,
religioso e sociale che stava dinanzi alla Francia nel 17899.
Per queste ragioni, Necker non osò mai parlare a Luigi XVI il
linguaggio netto, preciso, severo e audace che la situazione
imponeva. Egli non gli parlò che assai timidamente del governo
rappresentativo e si limitò a proporre riforme che non potevano
risolvere le difficoltà del momento, nè soddisfare nessuno, mentre
acuivano in tutti il bisogno di un cambiamento fondamentale.
Il numero delle assemblee provinciali istituito da Turgot, venne
aumentato di diciotto da Necker. Queste assemblee, seguite da quelle
di distretto e da quelle di parrocchia, furono costrette a discutere
i più ardui problemi e a mettere a nudo le piaghe spaventevoli del
potere illimitato della monarchia. E poichè le discussioni su tali
problemi si propagarono fino ai villaggi, esse giovarono senza
dubbio a minare le basi dell'antico regime. In questo modo le
assemblee provinciali che avrebbero potuto evitare le rivolte nel
1776, le aiutavano invece nel 1788. Così il famoso Rendiconto dello
stato delle finanze, pubblicato dal Necker nel 1781, pochi mesi
prima di lasciare il potere, fu un altro colpo mortale per
l'autocrazia. Come accade spesso in simili circostanze storiche,
anche Necker contribuiva a scuotere il regime che già crollava, ma
non potè poi impedire che il crollo diventasse una rivoluzione:
probabilmente non la presentiva nemmeno.
Dopo il primo licenziamento di Necker, assistiamo al crak
finanziario dall'81 all'87. Le finanze erano ridotte a tal punto che
i debiti dello Stato, delle provincie, dei ministeri e anche quelli
della casa reale s'accumulavano con un crescendo inquietante. Da un
momento all'altro poteva prodursi la bancarotta dello Stato –
bancarotta che la borghesia prestatrice voleva a qualunque costo
evitare. Il popolo ridotto agli estremi della miseria non poteva più
pagar tasse: non pagava e si ribellava. Quanto al clero e alla
nobiltà, rifiutavano di sacrificarsi nell'interesse dello Stato. In
tali condizioni l'insurrezione delle campagne faceva avanzare a
grandi passi la Rivoluzione. In mezzo a queste difficoltà, il
ministro Calonne convocò a Versaglia, il 22 febbraio 1787,
un'Assemblea di Notabili.
Fu questo un passo errato: fu proprio la mezza misura che da un lato
rendeva inevitabile la convocazione di un'Assemblea nazionale e,
dall'altro, suscitava sfiducia verso la Corte e odio contro i due
ordini privilegiati, la nobiltà e il clero. Si conobbero allora le
cifre spaventose, per quell'epoca, del disavanzo annuale e del
debito pubblico della Francia: centoquaranta milioni il primo; un
miliardo e seicento quaranta milioni l'ultimo. E questo, in un paese
rovinato come la Francia! Tali cifre non solo impressionarono, ma
furono ovunque discusse, e quando tutto il popolo si fu pronunciato
in merito, i notabili scelti nelle classi elevate e rappresentanti
un'assemblea ministeriale, si separarono senza nulla aver deciso,
senza nulla aver fatto. Durante le loro deliberazioni, Calonne fu
sostituito da Loménie de Brienne, arcivescovo di Sens; ma costui,
coi suoi intrighi e i suoi atti di rigore, non fece che sollevare i
parlamenti, provocare sommosse quando volle scioglierli e aumentare
ancora il malcontento contro la Corte. Il suo licenziamento (25
agosto 1788) fu accolto con gioia da tutta la Francia. Ma poichè
egli aveva così luminosamente dimostrato l'impossibilità del regime
dispotico, alla Corte non restava che sottomettersi. L'8 agosto
1788, Luigi XVI fu obbligato a convocare gli Stati generali e a
fissarne l'apertura per il 1° maggio 1789.
Anche in ciò, la Corte e Necker, richiamato al ministero nel 1788,
non riuscirono che a disgustare la massa. La Francia democratica
pensava che negli Stati generali – dove i tre ordini sarebbero stati
rappresentati separatamente – il Terzo Stato dovesse avere una
doppia rappresentanza e che il voto dovesse farsi per testa. Ma
Luigi XVI e Necker si opposero e convocarono (il 6 novembre 1788)
una seconda assemblea dei Notabili, che avrebbe dovuto rigettare il
raddoppiamento del Terzo Stato e il voto per testa. I Notabili
ubbidirono a Necker e alla Corte, ma ciò malgrado l'opinione
pubblica era talmente preparata, in favore del Terzo Stato, dalle
Assemblee provinciali, che la Corte e Necker dovettero cedere. Il
Terzo Stato ebbe la doppia rappresentanza – cioè su mille deputati,
il Terzo ne avrebbe avuti quanti la nobiltà e il clero riuniti
insieme. Insomma, la Corte e Necker fecero quanto fu in loro potere
per irritare l'opinione pubblica, senza alcun vantaggio.
L'opposizione della Corte alla convocazione di una rappresentanza
nazionale fu assolutamente vana. Il 5 maggio 1789, gli Stati
generali si riunivano a Versaglia.
VII
LA SOLLEVAZIONE DELLE CAMPAGNE
NEI PRIMI MESI DEL 1789
Nulla sarebbe più falso dell'immaginare o rappresentare la Francia
come una nazione di eroi alla vigilia dell'89, e Quinet ebbe ben
ragione di distruggere questa leggenda che qualcuno aveva tentato di
diffondere. Certo che se si riuniscono in poche pagine gli episodi,
del resto assai rari, di resistenza aperta all'antico regime da
parte della borghesia – come, ad esempio, la resistenza di
d'Epresmenil, – si può tracciare un quadro abbastanza
impressionante. Ma ciò che soprattutto colpisce esaminando la
Francia dell'epoca è l'assenza di serie proteste, di affermazioni
individuali, oso dire, il servilismo stesso della borghesia.
«Nessuno si fa conoscere», dice con molta ragione Quinet. Manca
perfino l'occasione di conoscere se stessi (La Révolution, edizione
del 1869, t. I, p. 15). E domanda: Che cosa facevano Barnave,
Thouret, Sieyès, Vergniaud, Guadet, Roland, Danton, Robespierre e
tanti altri che sarebbero stati fra poco gli eroi della Rivoluzione?
Nelle provincie, nelle città dominava il mutismo, il silenzio. Fu
necessario che il potere centrale chiamasse gli uomini a votare e a
dire ad alta quanto mormoravasi a bassa voce, perchè il Terzo Stato
redigesse i suoi famosi cahiers. Ancora! Se in certi «quaderni» noi
troviamo parole audaci di rivolta, quanta sottomissione, quanta
modestia di desiderata, quanta timidità troviamo in tutti gli altri!
I quaderni del Terzo Stato, dopo aver chiesto il diritto di porto
d'arme e alcune garanzie giudiziarie contro l'arbitrio degli
arresti, non domandano soprattutto che un po' più di libertà negli
affari municipali10. Solo più tardi, quando i deputati del Terzo
Stato si videro appoggiati dal popolo di Parigi e dai contadini
minaccianti l'insurrezione, essi presero un'attitudine più
coraggiosa di fronte alla Corte.
Per fortuna, il popolo insorse dovunque e l'onda insurrezionale, dai
moti provocati dai parlamenti durante l'estate e l'autunno del 1788
s'elevò sino alla sollevazione generale dei villaggi nel luglio e
agosto dell'89.
Abbiamo già detto che la situazione dei contadini e del popolo nelle
città era tale che un cattivo raccolto solo avrebbe bastato per
rialzare spaventosamente i prezzi del pane nelle città e per
provocare la carestia nelle campagne. I contadini non erano più
servi, poichè la servitù già da lungo tempo era stata abolita in
Francia, almeno nelle proprietà private. Dopo che Luigi XVI l'ebbe
abolita nei dominii reali (1779), nel 1788 la Francia intera non
contava che un milione e mezzo di gente di mano morta, di cui
ottantamila nel Giura. Forse queste cifre sono ancora superiori al
vero; ad ogni modo questa gente di mano morta non era serva nel
significato letterale della parola. La grande massa dei contadini
francesi da tempo non contava più servi nel suo seno. Ma però
continuavano a pagare una specie di riscatto della loro libertà
personale con denaro, lavori e corvées. Questi cànoni, pesantissimi
e svariati, non erano però arbitrarî, e venivano considerati come un
pagamento per il diritto di possesso della terra, – sia collettivo
sia privato, sia a podere, e ogni terra aveva i suoi cànoni, così
numerosi quanto diversi, consegnati accuratamente nei terriers.
Inoltre, era stato mantenuto il diritto della giustizia baronale. Di
un dato territorio, il signore era giudice o nominava i giudici;
grazie a questa antica prerogativa, egli sfruttava con ogni sorta di
diritti personali i suoi ex-servi11. Allorquando una vecchia
lasciava alla figlia uno o due alberi o alcune vecchie vesti (per
esempio «la mia sottana nera, ovattata» – ho visto di questi
lasciti), «il nobile e generoso signore» o «la nobile e generosa
donna del castello» prelevavano un loro diritto su questi lasciti.
Il contadino pagava pure il diritto di matrimonio, di battesimo, di
sepoltura; pagava un tanto sulle sue vendite, i suoi acquisti e il
suo diritto di vendere i raccolti era limitato; egli non doveva
infatti precedere il padrone. Da ultimo, egli era soggetto a ogni
genere di pedaggi per l'uso del mulino, del torchio, del forno
comune, del lavatoio, della strada, del guado, pedaggi che si erano
conservati dai tempi della servitù, insieme alle obbligazioni in
natura (gravezze): nocciole, funghi, tela, filo, considerate altra
volta come doni pei «fausti eventi».
Le corvées obbligatorie variavano all'infinito: lavori nei campi del
signore, nei suoi parchi, nei suoi giardini, lavori per soddisfare
tutti i suoi capricci... In qualche villaggio v'era perfino
l'obbligo di battere durante la notte l'acqua degli stagni, perchè
le rane crocidando non turbassero i sonni del signore.
Personalmente l'uomo s'era affrancato; ma tutto questo reticolato di
obblighi, di gravezze, di pagamenti, che si era a poco a poco
costituito, grazie all'astuzia dei signori e dei loro agenti, lungo
i secoli del servaggio tutto questo reticolato avvolgeva ancora il
contadino.
Lo Stato, poi, aggiungeva al resto le sue imposte, le sue taglie, i
suoi ventesimi, le sue corvées sempre crescenti, e, non meno
dell'agente del signore, metteva di continuo a duro cimento la sua
fantasia per trovare nuovi pretesti e nuove forme di tasse.
È vero che dopo le riforme di Turgot, i contadini avevano cessato di
pagare certe tasse feudali e qualche governatore di provincia
rifiutava di ricorrere alla forza per costringere a pagare certe
gravezze da lui ritenute ingiuste; ma i grandi cànoni feudali,
annessi alla terra, dovevano essere interamente pagati e diventavano
d'anno in anno sempre più pesanti, perchè ad esse si univano le non
meno gravose imposte dello Stato e delle provincie. Nulla v'è dunque
d'esagerato nelle fosche descrizioni che della vita dei villaggi
danno tutti gli storici della Rivoluzione. Ma non esagerano neppure
quando ci dicono che in ogni villaggio v'erano dei contadini che,
avendo raggiunto un certo grado di prosperità, erano più degli altri
desiderosi di abolire tutti gli obblighi feudali e di conquistare le
libertà individuali. I due tipi descritti da Erckmann-Chatrian
nell'Histoire d'un paysan – quello del borghese del villaggio e
l'altro del contadino schiacciato sotto il peso della miseria – sono
veri. Entrambi esistevano. Il primo diede la forza politica al Terzo
Stato; ma le bande d'insorti, che dall'inverno del 1788-89
cominciarono a forzare i nobili alla rinuncia degli obblighi feudali
registrati nei terriers, si reclutavano tra i miserabili dei
villaggi che dormivano in tuguri costruiti col fango e si cibavano
di castagne e di rimasugli.
La stessa osservazione vale per le città. I diritti feudali si
estendevano tanto sulle città come sulle campagne; le classi povere
delle città erano, come i contadini, schiacciate da gravezze
feudali. Il diritto di giustizia baronale restava in vigore anche in
molte agglomerazioni urbane e le capanne degli artigiani e dei
manovali pagavano gli stessi obblighi dei contadini in caso di
vendita o di eredità. Parecchie città pagavano egualmente un tributo
perpetuo come riscatto della loro passata soggezione feudale.
Inoltre, la maggior parte delle città pagavano al re il dono
gratuito per conservarsi un simulacro d'indipendenza municipale e il
fardello delle imposte pesava quasi tutto sulle classi povere. Se
aggiungiamo le gravi tasse regie, le contribuzioni provinciali, le
corvées, le gabelle, ecc., come pure gli arbitri dei funzionari, le
spese ingentissime per chi voleva adire ai tribunali e
l'impossibilità pei plebei di ottenere giustizia contro un nobile o
semplicemente contro un ricco borghese; se pensiamo a tutti
gl'insulti, le umiliazioni, i soprusi che l'artigiano doveva subire,
ci faremo un'idea dello stato delle classi povere alla vigilia del
1789.
Ebbene, fu la rivolta scoppiata fra le classi povere delle città e
dei villaggi quella che diede ai rappresentanti del Terzo Stato il
coraggio di resistere al re e di dichiararsi Assemblea costituente.
La siccità aveva fatto mancare il raccolto del 1788 e l'inverno era
freddissimo. Certo, negli anni precedenti c'erano pure stati inverni
freddi, raccolti scarsi e anche sommosse di popolo. Ogni anno, non
mancava, qua o là per la Francia, la carestia. Spesso desolava un
terzo o un quarto del regno. Ma questa volta la speranza era stata
acuita dagli avvenimenti precedenti: le assemblee provinciali, le
riunioni dei notabili, le insurrezioni a causa dei parlamenti nelle
città insurrezioni che si diffondevano (noi
l'abbiamo visto, almeno in Brettagna) anche nei villaggi. E le
sollevazioni del 1789 presero subito un'estensione e un indirizzo
minaccioso.
Il professor Karéeff, che ha studiato gli effetti della Grande
Rivoluzione sui contadini francesi, mi assicurava che negli Archivi
nazionali ci sono grandi incartamenti riguardanti le insurrezioni
dei contadini che precedettero la demolizione della Bastiglia12.
Io non ho mai potuto consultare gli archivi di Francia, ma dallo
studio delle numerose storie provinciali dell'epoca13 ero già
arrivato nei miei lavori precedenti14 a concludere che un'infinità
di sommosse erano scoppiate nei villaggi nel gennaio 1789 e sin nel
dicembre del 1788. In alcune provincie la carestia aveva creato una
situazione terribile e lo spirito di rivolta, quasi ignoto sino
allora, s'impadroniva delle popolazioni. Nella primavera le rivolte
divennero sempre più frequenti, nel Poitou, in Brettagna, nella
Touraine, nell'Orleanese, in Normandia, nell'Isola di Francia, in
Piccardia, nella Sciampagna, nell'Alsazia, nella Borgogna, nel
Nivernese, nell'Alvernia, nella Linguadoca, nella Provenza.
Quasi tutte queste sommosse avevano lo stesso carattere. I contadini
armati di coltelli, di falci, di randelli si rovesciavano in città;
costringevano i coloni e i fittaiuoli che avevano portato del grano
al mercato a venderlo a un certo prezzo «onesto» (tre lire lo staio,
ad esempio); oppure, andavano a cercare il grano dai mercanti di
grano e «se lo dividevano a prezzo ridotto», promettendo di pagarlo
al prossimo raccolto; altrove forzavano il signore a rinunciare per
due mesi al suo diritto sulle farine; talvolta costringevano il
municipio a tassare il pane o «ad aumentare di quattro soldi la
giornata di lavoro». Laddove la carestia infieriva di più, gli
operai della città, come a Thiers, andavano a procurarsi il grano
nelle campagne. All'uopo forzavano spesso i granai delle comunità
religiose, degli incettatori o dei privati e si forniva così la
farina ai fornai. Nello stesso tempo si formarono quelle bande di
contadini, di legnaiuoli, qualche volta di contrabbandieri, che
andavano di villaggio in villaggio, a impadronirsi dei grani e che
cominciarono a bruciare i terriers e ad obbligare i signori
all'abdicazione dei loro diritti feudali, – quelle bande che nel
luglio 1789 fornirono alla borghesia il pretesto di armare le sue
milizie.
Sin dal gennaio si gridava nelle sommosse Viva la Libertà! e sin dal
gennaio, ma più decisamente nel mese di marzo, i contadini
cominciarono qua e là a rifiutare il pagamento delle decime, dei
cànoni feudali, delle imposte stesse. Non solo nella Brettagna,
nell'Alsazia, nel Delfinato, citati dal Taine, si trovano traccie di
questi movimenti, ma sibbene in quasi tutta la parte orientale della
Francia.
Nel mezzogiorno, a Agde, nella sollevazione del 19, 20, 21 aprile,
«il popolo si è follemente convinto di essere tutto», dicono il
sindaco e i consoli, e «che poteva tutto, vista la pretesa volontà
del re di abolire le caste». Il popolo minacciava di porre a sacco
la città, se non si fosse ribassato il prezzo dei viveri e soppresso
il diritto della provincia sul vino, il pesce e la carne; inoltre –
e qui si vede già il buon senso comunalista delle masse popolari in
Francia, – «essi vogliono nominare dei consoli, appartenenti alla
loro classe», e queste domande dei ribelli sono accolte. Tre giorni
dopo il popolo esigeva che il prezzo di macinatura fosse ridotto di
metà e anche questo fu concesso15.
L'insurrezione di Agde è l'immagine di tutte le altre. La fame dava
la prima spinta al movimento. Ma subito vi si aggiungevano altri
desiderata nel campo dove le condizioni economiche e
l'organizzazione politica si toccano – campo nel quale il movimento
popolare procede sempre con maggior sicurezza e ottiene risultati
immediati.
In Provenza, sempre nel marzo e aprile del 1789, più di quaranta
borgate e città, fra le quali Aix, Marsiglia e Tolone, abolirono
l'imposta sulle farine e quasi dovunque la folla saccheggiò le case
dei funzionari preposti a levare le tasse sulla farina, le pelli
conciate, le macellerie, ecc. I prezzi dei viveri furono ribassati e
tutti i viveri furono tassati: e quando i signori dell'alta
borghesia protestarono, la folla si pose a lapidarli; oppure si
scavarono sotto ai loro occhi le fosse destinate a seppellirli – o
si portarono le bare in anticipo per meglio impressionare i riottosi
che a tal vista s'affrettavano naturalmente a cedere. Neppure una
goccia di sangue si versò in quel torno di tempo (aprile 1789). È
«una specie di guerra dichiarata ai proprietari e alla proprietà»,
dicono i rapporti degli intendenti e dei municipi; «il popolo
continua a dichiarare che non vuol più pagare nè imposte, nè
diritti, nè debiti16».
È nello stesso periodo di tempo che i contadini cominciarono a
saccheggiare i castelli, forzando i signori all'abdicazione dei loro
diritti. A Peinier obbligavano il signore «a firmare un atto col
quale egli rinunciava ai suoi diritti di qualunque genere» (lettera
degli Archivi); a Riez, volevano che il vescovo bruciasse i suoi
archivi. A Hyères e altrove incendiavano le vecchie scritture
concernenti i diritti feudali e le imposte. Insomma, nella Provenza
– nel mese d'aprile – vediamo già l'inizio di quella grande
insurrezione di contadini, che costringerà nobiltà e clero a fare le
prime concessioni nella notte del 4 agosto 1789.
Si comprende facilmente l'influenza che queste sollevazioni
esercitarono sulle elezioni all'Assemblea nazionale. Chassin (Génie
de la Révolution) dice che in qualche luogo la nobiltà ebbe una
grande influenza sulle elezioni, tanto che gli elettori contadini
non osarono avanzare alcun reclamo. Altrove, specialmente a Rennes,
la nobiltà approfittò delle sedute degli Stati generali di Brettagna
(fine dicembre 1788 e gennaio 1789) per sobillare il popolo affamato
e scagliarlo contro i borghesi. Ma che cosa potevano fare queste
ultime convulsioni della nobiltà contro l'onda popolare che saliva
sempre? Il popolo vedeva che nelle mani della nobiltà e del clero
più della metà delle terre rimanevano incolte e comprendeva – anche
senza l'appoggio delle statistiche – che se il contadino non si
fosse impadronito di queste terre per coltivarle, la carestia
avrebbe eternamente desolato le campagne.
Il bisogno stesso di vivere spingeva il contadino contro gli
incettatori del suolo. Durante l'inverno dell'88-89, dice Chassin,
non trascorreva un sol giorno nel Giura senza che si saccheggiassero
carichi di grano (pag. 162). I militari d'alto grado non domandavano
che di «infierire» sul popolo; ma i tribunali rifiutavano di
condannare e qualche volta anche di giudicare i ribelli affamati.
Gli ufficiali non obbedivano all'ordine di tirare sul popolo. La
nobiltà s'affrettava a spalancare le porte dei suoi granai: si
temeva che l'incendio distruggesse i castelli (ai primi d'aprile del
1789). – Dovunque, dice Chassin (p. 163), scoppiarono rivolte del
genere, nel nord e nel sud, all'est e all'ovest.
Le elezioni portarono un'inconsueta animazione nei villaggi e
risvegliarono molte speranze. Dovunque il signore esercitava una
grande influenza; ma quando nel villaggio si trovava qualche
borghese, medico od avvocato, che aveva letto Voltaire o solo
l'opuscolo di Sieyès; o c'era qualche tessitore o muratore che
sapeva scrivere o leggere, magari solo i caratteri di stampa – tutto
cambiava; i contadini s'affrettavano a riempire i cahiers delle loro
lagnanze. È vero che queste si limitarono quasi sempre a cose
d'ordine secondario; ma dovunque si vede spuntare (come nelle
sollevazioni dei contadini tedeschi del 1525) l'idea che i signori
debbano giustificare i loro diritti alle esazioni feudali17.
Presentati i cahiers, i contadini s'armavano di pazienza. Ma durava
poco, perchè le lungaggini degli Stati generali e dell'Assemblea
nazionale sollevavano di nuovo le ire sopite e non appena l'inverno
terribile del 1788-89 fu terminato, non appena tornò il sole
primaverile e col sole la speranza di un buon raccolto, le sommosse
ricominciarono, specie dopo i primi lavori.
Evidentemente, la borghesia intellettuale approfittò delle elezioni
per diffondere le idee della Rivoluzione. Venne costituito un «Club
Costituzionale», che si ramificò anche nelle città minori. Esisteva
certamente nell'est l'indifferenza che colpì così vivamente Arturo
Young; ma in altre provincie la borghesia sfruttava ai suoi fini
l'agitazione elettorale. Si vede pure come gli avvenimenti che si
svolsero nel mese di giugno a Versaglia, nell'Assemblea Nazionale;
fossero stati preparati già da parecchi mesi nelle provincie. Così
nel Delfinato, l'unione dei tre ordini e il voto per testa furono
accettati sin dal mese d'agosto del 1788 dagli Stati di provincia,
sospinti dalle insurrezioni locali.
Non si deve tuttavia credere che i borghesi partecipanti
all'agitazione elettorale fossero veri rivoluzionari. Nemmen per
sogno. Si trattava di moderati, di «insorti pacifici», come dice
Chassin. Di misure rivoluzionarie solo il popolo parla, poichè si
formano società segrete fra i contadini e degli uomini sconosciuti
invitano il popolo a non pagare più le imposte, lasciandone il
carico intero ai nobili. Oppure annunciano che i nobili hanno già
accettato di pagare tutte le imposte, però non trattarsi che di una
astuta finzione. «Il popolo di Ginevra s'è affrancato in un
giorno... O voi, nobili, tremate!» Circolano opuscoli indirizzati ai
contadini e segretamente diffusi (per esempio, l'Avis aux habitants
des campagnes, diffuso a Chartres.) Insomma l'agitazione nelle
campagne era tale, dice Chassin, – il quale meglio di qualunque
altro ha studiato questo aspetto della rivoluzione, – che se anche
Parigi fosse stata vinta al 14 luglio, non sarebbe stato più
possibile nelle campagne di ritornare alla situazione del gennaio
89. Per farlo, bisognava conquistare, villaggio per villaggio, tutta
la Francia. Col mese di marzo cessano i pagamenti dei cànoni (pag.
167 e seguenti).
L'importanza di quest'agitazione delle campagne è facilmente
comprensibile. Mentre la borghesia colta s'avvantaggia dei conflitti
fra la Corte e i parlamenti per risvegliare l'agitazione politica e
lavora alacremente a seminare il malcontento, la sollevazione dei
contadini, che guadagna anche le città, forma il substrato
necessario della Rivoluzione e inspira ai deputati del Terzo la
deliberazione che prenderanno fra poco a Versaglia riformare, cioè,
tutto il regime governativo della Francia e iniziare una rivoluzione
profonda nella distribuzione delle ricchezze.
Senza l'insurrezione dei contadini, che cominciò nell'inverno e
continuò con alti e bassi sino al 1793, non sarebbe stato possibile
la demolizione completa del dispotismo regio – nè, simultaneamente,
un così profondo rivolgimento politico, economico, sociale. La
Francia avrebbe avuto un parlamento, come la Prussia lo ebbe, per
ridere, nel 1848 ma questa innovazione non avrebbe assunto il
carattere di una rivoluzione sarebbe rimasta superficiale come negli
Stati tedeschi dopo il 1848.
VIII
SOMMOSSE A PARIGI E NEI DINTORNI
In tali condizioni si capisce come Parigi non potesse rimaner calma.
La carestia infieriva nelle campagne limitrofe alla grande città,
come altrove; i viveri mancavano a Parigi come nelle altre città e
aumentava, anche nella previsione dei grandi avvenimenti che ormai
tutti attendevano, l'immigrazione dei miserabili in cerca di lavoro.
Al terminar dell'inverno (marzo e aprile), le sommosse della fame e
il saccheggio delle granaglie sono ricordate nei rapporti
degl'intendenti a Orléans, Cosnes, Rambouillet, Jouy,
Pont-Sainte-Maxence, Bray-sur-Seine, Sens, Nangis, Viroflay,
Montlhéry, ecc. In altri luoghi, nelle foreste dei dintorni di
Parigi, i contadini – in marzo – sterminavano le lepri e i conigli;
sotto agli occhi di tutti, venne perfino tagliata e asportata la
legna dei boschi dell'abbazia di Saint-Denis.
Parigi divorava le pubblicazioni rivoluzionarie che uscivano ogni
giorno in gran numero e passavano rapidamente dalle mani dei ricchi
a quelle dei poveri. L'opuscolo di Sieyès Che cos'è il Terzo Stato?
Andava a ruba, così dicasi delle Considerazioni sugli interessi del
Terzo Stato, di Rabaud de Saint-Etienne, che aveva una leggera tinta
di socialismo; nè con minor interesse si leggevano I diritti degli
Stati generali, di d'Entraigues, e centinaia d'altre pubblicazioni,
meno famose ma talvolta più violente e mordaci. Parigi intera
battagliava contro la Corte e i nobili, ed è appunto nei sobborghi
più poveri, nelle bettole più basse dei dintorni che la borghesia si
recò a reclutare le braccia e le picche di cui aveva bisogno per
colpire la dinastia. Intanto, al 28 aprile, scoppiava l'insurrezione
che fu più tardi chiamata «l'affare Réveillon», e che apparve come
un segno precursore delle grandi imminenti giornate della
Rivoluzione.
Il 27 aprile, si riunivano in Parigi le assemblee elettorali e pare
che durante la redazione dei cahiers accadesse nel sobborgo
Sant'Antonio un conflitto tra borghesi e lavoratori. Gli operai
esponevano le loro lagnanze e i borghesi rispondevano con ingiurie
plateali. Réveillon, un fabbricante di carta e di carta tinta –
altra volta operaio e divenuto quindi, con uno sfruttamento abile,
padrone di 300 lavoratori – si fece notare per la volgarità delle
sue parole... Le stesse che noi abbiamo udito d'allora in poi: «Il
lavoratore può nutrirsi con pane nero e lenticchie; il grano non è
per lui, ecc...»
C'è qualche cosa di vero nel riavvicinamento che più tardi –
all'epoca dell'inchiesta sull'affare Réveillon – fu fatto dai ricchi
tra la sollevazione stessa e l'entrata simultanea in Parigi –
ricordata dagli agenti di campagna – di una «moltitudine immensa» di
miserabili pezzenti, dall'aspetto minaccioso? Non si possono, a tal
proposito, fare congetture, oziose, del resto. La condotta di
Réveillon di fronte agli operai non basta forse a spiegare ciò che
avvenne all'indomani, data l'eccitazione degli animi e l'avanzare
della rivolta che già rumoreggiava alle porte di Parigi?
Il 27 aprile, il popolo, irritato dall'opposizione e dalle parole
del ricco fabbricante, porta l'effige di lui in Piazza di Grève per
giudicarla e giustiziarla. Si diffonde in Piazza Reale la voce che
il Terzo Stato ha condannato a morte Réveillon. Cala la sera e la
folla si disperde, diffondendo il terrore fra i ricchi, colle sue
grida di morte che risuonano alte nella notte. All'indomani, di buon
mattino, la folla si reca all'officina di Réveillon, costringe gli
operai ad abbandonare il lavoro, assedia e quindi saccheggia la
dimora del fabbricante. Giunge la truppa e la folla resiste
lanciando dalle finestre e dai tetti pietre, tegole, mobili. La
truppa spara, ma il popolo non cede e combatte con accanimento
ancora parecchie ore. Risultato: 12 soldati uccisi e 80 feriti. 200
morti e 300 feriti dalla parte del popolo. Gli operai
s'impadroniscono dei cadaveri dei loro compagni e li portano nelle
vie dei sobborghi. Pochi giorni dopo, a Villejuif si forma una banda
di 500 a 600 uomini che vogliono forzare le porte della prigione di
Bicêtre.
Questo conflitto – il primo – fra il popolo di Parigi e i ricchi
produsse una grande impressione. Lo spettacolo del popolo furibondo
esercitò una viva influenza sulle elezioni, poichè i reazionari non
vi parteciparono.
Va da sè che i signori della borghesia vollero spiegare la sommossa
come un piano ordito dai nemici della Francia. Come spiegarsi
altrimenti la rivolta del buon popolo di Parigi contro un
fabbricante? «È il denaro degli Inglesi», dicevano taluni; «è il
denaro dei principi», affermavano i borghesi rivoluzionari e nessuno
voleva ammettere che le cause della rivolta erano le sofferenze del
popolo, stanco ormai di soffrire e di essere insultato18. Prende
corpo allora la leggenda che più tardi cercherà di limitare la
rivoluzione all'opera parlamentare e definirà tutte le sollevazioni
popolari dell'89 al 93 quali accidenti: opera di banditi e di
emissari pagati da Pitt o dalla reazione. E gli storici
riprenderanno questa leggenda: «Poichè la sommossa poteva servir da
pretesto alla Corte per rinviare l'apertura degli Stati generali,
dunque non poteva essere che opera di reazionari.» Quante volte è
stato ripetuto ai giorni nostri lo stesso ragionamento!
Ma le giornate del 24-28 aprile sono i segni precursori delle
giornate di luglio. Nell'aprile, il popolo di Parigi affermò il suo
spirito rivoluzionario, nato tra le masse operaie dei sobborghi. A
lato del Palais-Royal, focolare della rivoluzione borghese,
s'ergevano i sobborghi, centri della rivolta popolare. Parigi
diventa quindi l'appoggio principale della Rivoluzione, e gli Stati
generali che si raduneranno fra poco a Versaglia avranno gli occhi
volti a Parigi per cercarvi la forza e l'incitamento a marciare in
avanti nelle loro rivendicazioni e nella loro lotta contro la Corte!
IX
GLI STATI GENERALI
Il 4 maggio del 1789, i 1200 deputati degli Stati generali, riuniti
a Versaglia, si recavano nella chiesa di San Luigi ad ascoltarvi la
messa d'apertura e all'indomani il re, presenti numerosissimi
spettatori, apriva la seduta. E già in questa prima seduta si
delineava l'inevitabile tragedia della Rivoluzione.
Il re diffidava dei rappresentanti della nazione ch'egli aveva
convocati. Si era finalmente rassegnato a prendere tale misura, ma
si doleva, dinanzi agli stessi rappresentanti, dell'«inquietudine
degli spiriti» e dell'effervescenza generale, come se tutto ciò non
fosse il portato della situazione in Francia, come se la
convocazione degli Stati generali assumesse il carattere di una
inutile e capricciosa violazione dei diritti reali.
La Francia, impedita per molto tempo di darsi delle riforme, sentiva
ormai prepotente il bisogno di una completa revisione delle sue
istituzioni – e il re non parlava che di leggere riforme d'indole
finanziaria per le quali sarebbe bastato un po' d'economia sulle
spese.
Egli domandava «l'accordo degli ordini», mentre le assemblee
provinciali avevano mostrato che l'esistenza di ordini distinti era
già annullata negli spiriti, era un peso morto, una sopravvivenza
del passato. E mentre tutto doveva essere rifatto – come attualmente
in Russia – il re non manifestava che il suo timore delle
«innovazioni». Nel suo discorso s'annunciava l'aspra lotta per la
vita e la morte che fra poco si sarebbe impegnata fra l'autocrazia
regia e il potere rappresentativo.
Anche fra i rappresentanti della nazione – attraverso le loro
divisioni – si profilava la scissione profonda della rivoluzione
imminente: fra quelli, cioè, che si sarebbero attaccati ai loro
privilegi e quelli che avrebbero cercato di demolirli.
La rappresentanza nazionale mostrava già il suo difetto capitale. Il
popolo non era rappresentato, i contadini erano assenti. Per il
popolo in generale s'incaricava la borghesia di parlare; e quanto ai
contadini – in quella grande assemblea di giuristi, di notai, di
casuidici, non ce n'erano forse cinque o sei che conoscessero lo
stato reale o semplicemente lo stato legale dell'immensa massa dei
contadini. Deputati cittadini, avrebbero saputo difendere il
cittadino, ignorando, nei rapporti del contadino, ciò che gli
avrebbe giovato e ciò che gli avrebbe nociuto.
La guerra civile covava già in quella sala, nella quale il re,
circondato da nobili, parlava come un padrone al Terzo Stato e gli
rinfacciava i suoi «benefici». Il guardasigilli, Barentain,
scoprendo quindi la vera intenzione del re, fissava il còmpito al
quale dovevano limitarsi gli Stati generali e cioè: esame delle
tasse che verrebbero proposte all'approvazione; discussione sulla
riforma della legislazione civile e penale; votazione di una legge
per reprimere gli abusi della libertà che la stampa si era presa da
poco, e nient'altro. Nessuna riforma pericolosa. «Le domande giuste
sono state accolte; il re non s'è formalizzato dei mormorii
indiscreti, ma li ha coperti colla sua indulgenza; egli è giunto
sino a perdonare l'espressione di quelle tendenze false ed
esagerate, per mezzo delle quali si vorrebbero sostituire delle
perniciose chimere ai principii inalterabili della monarchia. Voi
rigetterete, o signori, con indignazione, queste pericolose
innovazioni.»
Tutte le battaglie dei quattro anni che seguono sono racchiuse
potenzialmente in queste parole, e il discorso di Necker, che seguì
quello del re e quello del guardasigilli – e durò ben tre ore –
nulla aggiunse per lanciare sul tappeto della discussione, sia la
grande questione del governo rappresentativo che occupava la
borghesia, sia la questione della terra e dei cànoni feudali che
interessava i contadini. L'astuto controllore delle finanze seppe
parlare tre ore senza compromettersi, nè colla Corte, nè col popolo.
Il re, fedele alle idee già da lui espresse a Turgot, non
comprendeva affatto la gravità della situazione e lasciava alla
regina e ai principi la cura d'impedire, coll'intrigo, ogni nuova
concessione.
Ma neppure Necker giunse a capire che si trattava di superare una
profondissima crisi politica e sociale – e non solamente finanziaria
– e che, in tali circostanze, una politica di tentennamento fra la
Corte e il Terzo Stato avrebbe condotto a conseguenze funeste; che
se non era già troppo tardi per prevenire la Rivoluzione, occorreva
almeno tentare una politica franca, aperta di concessioni in materia
di governo; che bisognava porre nelle sue linee capitali il grande
problema fondiario, dalla soluzione del quale dipendeva la miseria o
il benessere di una intera nazione.
Gli stessi deputati, tanto quelli dei due ordini privilegiati, come
quelli del Terzo, non intesero la vastità del problema che si ergeva
dinanzi alla Francia. La nobiltà sognava di riprendere l'ascendente
sulla corona; il clero non pensava che a mantenere i privilegi di
cui godeva; e il Terzo Stato, quantunque sapesse perfettamente quale
via si dovesse percorrere per giungere alla conquista del potere in
favore delle borghesia, non s'accorgeva dell'altro problema
infinitamente più grande da risolvere: dare, cioè, la terra al
contadino, affinchè – colla terra liberata dai pesanti cànoni
feudali – potesse raddoppiarne e triplicarne la fecondità e porre in
tal guisa termine alle carestie croniche che minavano le forze della
nazione.
All'infuori dell'urto e della lotta, quale altra via d'uscita poteva
esserci in tali condizioni? La rivolta del popolo, la sollevazione
dei contadini, la Jacquerie, l'insurrezione degli operai e dei
poveri in generale nelle città. La Rivoluzione insomma, col corteo
delle sue battaglie e dei suoi odi, dei suoi conflitti terribili e
delle sue aspre vendette!
Durante cinque settimane, i deputati del Terzo cercarono di
convincere, per mezzo di abboccamenti, i deputati dei due ordini
privilegiati a riunirsi insieme, mentre i comitati realisti
lavoravano dal canto loro a mantenere intatta la separazione degli
ordini. Le trattative in tal senso fallirono. Ma di giorno in giorno
diventava sempre più minaccioso l'atteggiamento del popolo parigino.
A Parigi, il Palais-Royal, divenuto un club all'aria libera, dove
ognuno trovava posto, s'irritava sempre più. Gli opuscoli piovevano
e andavano a ruba. «Ogni ora produce il suo opuscolo», diceva Arturo
Young; «oggi ne sono usciti tredici, sedici ieri, novantadue la
settimana scorsa. Diciannove su venti sono per la libertà.....
L'eccitazione, il fermento sono indescrivibili.....» Gli oratori che
nella strada, all'aperto, dall'alto di una sedia posta innanzi a un
caffè arringano la folla, parlano di conquistare e impadronirsi dei
palazzi e dei castelli. Già rumoreggiano le minaccie del Terrore,
mentre a Versaglia il popolo si riunisce ogni giorno nelle vicinanze
dell'Assemblea per insultare gli aristocratici.
I deputati del Terzo si sentono validamente appoggiati. A poco a
poco prendono ardire e il 17 giugno, dietro una mozione di Sieyès,
si costituiscono in Assemblea Nazionale. In tal guisa si compiva il
primo passo verso l'abolizione degli ordini privilegiati e il popolo
di Parigi acclamava tale risoluzione. L'Assemblea, divenuta vieppiù
coraggiosa, dichiarava inoltre illegali le tasse stabilite, per cui
non sarebbero esatte che provvisoriamente e fintanto che l'Assemblea
si trovasse riunita. In caso di scioglimento, il popolo non avrebbe
avuto obbligo di pagare alcunchè. Un comitato di sussistenze fu
nominato per combattere la carestia e i capitalisti furono
rassicurati dall'Assemblea che consolidò il debito pubblico. Fu
questo un atto di oculata prudenza in quel momento in cui bisognava
vivere ad ogni costo e disarmare una potenza – il capitalista
creditore – che sarebbe divenuta minacciosa qualora si fosse alleata
alla Corte.
Ma la rivolta contro il potere regio era già dichiarata. Un colpo di
Stato fu allora concertato fra i principi d'Artois, di Condé, di
Conti insieme col guardasigilli. In un giorno prestabilito, il re si
sarebbe recato con grande apparato all'Assemblea. Giuntovi, avrebbe
annullato tutti i decreti dell'Assemblea, ordinata la separazione
degli ordini, fissate le riforme da votarsi dai tre ordini – in
assemblee divise.
E Necker, questo rappresentante genuino della borghesia dell'epoca,
che cosa voleva opporre al colpo di Stato architettato dalla Corte?
Il compromesso. Anche lui ammetteva il colpo dell'autorità regia, la
seduta solenne nella quale il re avrebbe accordato in materia di
tasse il voto per testa senza distinzione di ordini; ma per tutto
quanto concerneva i privilegi della nobiltà e del clero, sarebbero
stati mantenuti gli ordini e in assemblee divise. È chiaro che
questo compromesso era di più difficile attuazione che il piano dei
principi. Non si tenta un colpo di Stato per una mezza misura, che
avrebbe avuto forse una durata di quindici giorni. Come riformare il
sistema d'imposte senza toccare e ledere i privilegi dei due ordini
superiori?
I deputati del Terzo Stato, divenuti ancor più coraggiosi grazie
all'atteggiamento minaccioso del popolo di Parigi e anche di quello
di Versaglia, dichiararono allora, il 20 giugno, di resistere al
progetto di scioglimento dell'Assemblea e decisero di rimanere uniti
con un giuramento solenne. Vedendo chiusa la sala delle loro
riunioni, causa i preparativi che vi si facevano per la seduta
reale, essi si recarono in corteo verso una sala privata qualsiasi:
quella del Giuoco del Pallone. Una moltitudine di gente accompagnava
questo corteo, che marciava – con Bailly alla testa – per le strade
di Versaglia. Dei soldati volontari s'erano offerti per montare la
guardia attorno ai deputati, travolti dall'entusiasmo straripante
della folla. Giunti alla sala del Giuoco del Pallone, commossi e
rapiti da un bel gesto, essi – ad eccezione di un solo – giurarono
solennemente di non più separarsi prima di aver dato una
costituzione alla Francia.
Senza dubbio non si trattava che di parole. Non mancava neppure la
teatralità in quell'atto. Poco importa! In certi momenti occorrono
le parole che facciano vibrare i cuori. E il giuramento del Giuoco
del Pallone fece vibrare i cuori della gioventù rivoluzionaria in
tutta la Francia. Infelici le assemblee che non sapranno trovare
quelle parole, nè compiere quel gesto!
D'altronde, quest'atto coraggioso dell'Assemblea ebbe immediate
conseguenze. Due giorni dopo, i deputati del Terzo, obbligati di
recarsi alla chiesa di San Luigi per tenervi l'assemblea, trovarono
il clero disposto ad associarsi ai loro lavori.
All'indomani, 23 giugno, fu tentato il gran colpo della seduta
reale; ma il suo effetto era già stato diminuito, annientato dal
giuramento del Giuoco del Pallone e dalla seduta alla Chiesa di San
Luigi. Il re si presentò dinanzi ai deputati. Dichiarò nulli tutti i
decreti dell'Assemblea o meglio del Terzo Stato. Ordinò la
conservazione degli ordini, determinò i limiti delle riforme da
compiere, minacciò di sciogliere gli Stati generali se non avessero
obbedito. E per il momento, ordinò ai deputati di separarsi. Dietro
questa ingiunzione, nobiltà e clero abbandonarono la sala. Ma i
deputati del Terzo rimasero ai loro posti. Fu allora che Mirabeau
pronunciò il famoso discorso nel quale disse ai suoi colleghi che il
re era semplicemente il loro mandatario; che la loro autorità
proveniva dal popolo e che, avendolo giurato, non potevano separarsi
senza dare la Costituzione. «Noi siam qui per la volontà del popolo,
e non usciremo se non per forza delle baionette.»
Ma ciò che mancava alla Corte era precisamente la forza. Già, nel
febbraio, Necker aveva detto non esserci più l'obbedienza in nessun
luogo – neppure, forse, tra le truppe.
Quanto al popolo di Parigi, esso aveva dimostrato le sue
disposizioni nella giornata del 27 aprile. Si temeva da un momento
all'altro una sollevazione generale del popolo di Parigi contro i
ricchi e alcuni ardenti rivoluzionari non mancavano certo di
propagandare la popolazione degli oscuri sobborghi per cercarvi
l'appoggio nella lotta contro la Corte. A Versaglia stessa, alla
vigilia della seduta reale, poco mancò che il popolo non uccidesse
un deputato del clero, l'abate Maury e un deputato del Terzo, il
d'Eprémesnil, passato nel campo della nobiltà. Il giorno della
seduta reale, il guardasigilli e l'arcivescovo di Parigi furono
talmente «urlati, esecrati, ingiuriati, scherniti da morirne di
rabbia e di vergogna» che il segretario del re, Passeret,
accompagnante il ministro, «spira il giorno stesso di paura.» Al 24,
una sassata alla testa toglie quasi di vita il vescovo di Beauvais.
Al 25, la folla fischia i deputati della nobiltà e del clero. Cadono
infranti tutti i vetri del palazzo dell'arcivescovo. «Le truppe si
rifiuterebbero di tirare sul popolo», dice francamente Arturo Young.
Le minaccie del re erano quindi vane. L'atteggiamento risoluto del
popolo non permetteva alla Corte di ricorrere alle baionette, ed è
allora che Luigi XVI scoppiò in questa esclamazione: «Dopo tutto, me
ne infischio! Ci restino!»
E come poteva l'assemblea del Terzo non agire e non deliberare dal
momento che si trovava sotto gli occhi e le minaccie del popolo
affollante le gallerie? Il 17 giugno quando il Terzo Stato decise di
costituirsi in Assemblea Nazionale, venne acclamato dalle gallerie e
da due o tremila persone che circondavano la sala delle sedute. La
lista dei trecento deputati del Terzo che vi si erano opposti e si
erano schierati dalla parte dell'ultra realista Malouet, corse
Parigi, e per poco non si bruciarono le loro case. Quando Martin
Dauch s'oppose al giuramento del Giuoco del Pallone, Bailly, il
presidente dell'Assemblea, ebbe la prudenza di farlo scappare per
una porta segreta, onde evitargli l'affronto del popolo riunito alle
uscite della sala. Per alcuni giorni egli dovette tenersi nascosto.
Senza questa pressione del popolo sull'Assemblea, è assai probabile
che i coraggiosi deputati del Terzo – dei quali la storia serba il
ricordo – non sarebbero giunti mai a vincere la resistenza dei
timidi.
Il popolo di Parigi si preparava apertamente all'insurrezione, colla
quale avrebbe risposto al colpo di Stato che la Corte era decisa a
tentare il 16 luglio allo scopo di fiaccare Parigi.
X
PREPARATIVI DEL COLPO DI STATO
La versione corrente del 14 luglio si riduce a questo L'Assemblea
Nazionale continuava le sue sedute. Alla fine di giugno, dopo due
mesi di abboccamenti e di esitazioni, i tre ordini si erano
finalmente riuniti. Il potere sfuggiva dalle mani della Corte. E
questa si accinse a preparare un colpo di Stato. Le truppe furono
chiamate e riunite attorno a Versaglia; esse dovevano disperdere
l'Assemblea e domare Parigi.
L'11 luglio – continua la versione corrente – la Corte si decise
all'azione: Necker vien licenziato dal ministero e esiliato. Parigi
conosce al 12 questa notizia. Un corteo di cittadini attraversa la
città portando la statua del ministro licenziato. Al Palais-Royal,
Camillo Desmoulins lancia l'Allarme! I sobborghi si sollevano e in
trentasei ore fabbricano 50,000 picche; al 14, il popolo marcia
verso la Bastiglia, che non tarda molto ad abbassare i suoi ponti e
a cedere... La Rivoluzione ha vinto la sua prima battaglia.
Questa è la versione abituale che si va ripetendo nelle feste della
Repubblica. Tuttavia, è solo parzialmente esatta. Veritiera nella
cronaca secca degli avvenimenti principali, essa non ci dice però
ciò che bisogna dire sulla parte avuta dal popolo nella
sollevazione, nè sui rapporti fra i due elementi del movimento: il
popolo e la borghesia. Poichè, nella sollevazione di Parigi – al 14
luglio – come in qualunque rivoluzione, ci furono due correnti
divise di origine diversa: il movimento politico della borghesia e
il movimento popolare. Entrambi coincidevano in certi momenti, nelle
grandi giornate della Rivoluzione, per un'alleanza temporanea e
vincevano le decisive battaglie contro l'antico regime. Ma la
borghesia diffidava sempre del suo alleato di un giorno: il popolo.
Diffidenza che si rivela anche nel luglio dell'89. La borghesia
concluse a malincuore la sua alleanza col popolo e si affrettò poi
all'indomani del 14 luglio e anche durante il movimento a
organizzarsi per tenere in freno il popolo insorto.
Dalle giornate dell'affare Réveillon in poi, il popolo di Parigi,
affamato, incerto sempre più del domani, ingannato da vane promesse,
cercava di sollevarsi. Ma non sentendosi, appoggiato, neppure da
quella parte della borghesia partita in lotta contro l'autorità
regia, esso mordeva il freno. Ed ecco che il partito della Corte,
riunito attorno alla regina e ai principi, si decide a tentare un
gran colpo per finirla coll'Assemblea e col fermento popolare di
Parigi. Riuniscono le truppe e ne eccitano la devozione al re e alla
regina; preparano apertamente un colpo di Stato contro l'Assemblea e
contro Parigi. Allora, l'Assemblea sentendosi minacciata, non
trattiene più i suoi membri e i suoi amici di Parigi che volevano
«l'appello al popolo», cioè l'appello all'insurrezione popolare. E
poichè i sobborghi non domandano che d'insorgere, l'appello è
raccolto. Prima ancora del licenziamento di Necker, all'8 luglio,
anzi già al 27 giugno, i sobborghi sono in armi. La borghesia ne
profitta e, spingendo il popolo all'insurrezione aperta, lo lascia
armare, mentre la borghesia stessa si arma per signoreggiare il
movimento e impedirgli di andar «troppo oltre». Il ritmo
dell'insurrezione si accelera e cade, contro la volontà dei
borghesi, la Bastiglia, emblema e sostegno del potere regio; dopo di
che la borghesia, avendo frattanto organizzato la sua milizia,
s'affretta a far tornare «nell'ordine» gli uomini dalle picche.
Ora si tratta di raccontare questo duplice movimento.
Abbiam visto che la seduta reale del 23 giugno aveva lo scopo di
dichiarare agli Stati generali ch'essi non erano la potenza che
volevano essere: il potere assoluto del re rimaneva, gli Stati
generali non avevano alcun cangiamento da apportarvi19 e i due
ordini privilegiati, nobiltà e clero, stabilirebbero le concessioni
che avrebbero ritenuto opportuno di elargire per una ripartizione
più equa delle imposte. Le riforme che sarebbero state concesse al
popolo dovevano partire dal re in persona, e sarebbero: l'abolizione
della corvée (già avvenuta in gran parte), della manomorta e del
libero feudo, la restrizione del diritto di caccia, la sostituzione
di un arruolamento regolare all'estrazione dei soldati; la
soppressione della parola taglia e l'organizzazione dei poteri
provinciali. Tutto ciò allo stato di vane promesse o di semplici
titoli di riforme, poichè tutto il contenuto di queste riforme,
tutta la sostanza di questi cambiamenti dovevano ancora essere
trovati e come potevasi trovarli senza portare la scure sui
privilegi dei due ordini superiori? Ma il punto più importante del
discorso reale – poichè tutta la Rivoluzione si sarebbe imperniata
in questo – era la dichiarazione concernente l'inviolabilità dei
diritti feudali. Il re dichiarava proprietà assolutamente e per
sempre inviolabili, le decime, i censi, le rendite e i diritti
signorili e feudali. Con questa promessa il re conquistava la
nobiltà contro il Terzo. Ma con una promessa simile veniva sin
dall'inizio circoscritta la Rivoluzione e la si rendeva impotente a
riformare qualcosa nelle finanze dello Stato e nell'organizzazione
interna della Francia. Non si faceva che mantenere completamente la
vecchia Francia, l'antico regime. Vedremo più tardi che in tutto il
corso della Rivoluzione saranno associate nello spirito della
nazione la Monarchia e la conservazione dei diritti feudali – la
vecchia forma politica e la vecchia forma economica.
È però necessario dire che la manovra della Corte riuscì sino a un
certo punto. Dopo la seduta reale, la nobiltà fece un'ovazione al re
e in particolare alla regina, al castello, e all'indomani solo 47
nobili andarono a riunirsi agli altri due ordini. Ma il grosso dei
nobili venne a raggiungere il clero e i signori del Terzo solo
alcuni giorni più tardi, quando si diffuse la voce che cento mila
parigini marciavano su Versaglia, quando, cioè, a tale annuncio lo
sgomento generale s'impadronì del castello, e dietro un ordine del
re – confermato dalla regina piangente – (la nobiltà non faceva più
assegnamento sul re), la maggioranza dei nobili si riunì al clero e
ai signori del Terzo. Ciò malgrado, i nobili s'illudevano ancora di
veder tra poco dispersi i ribelli colla forza.
I rivoluzionari venivano a conoscere immediatamente tutte le manovre
della Corte, tutte le sue cospirazioni, persino i discorsi del tale
o tal'altro principe o nobile; tutto veniva riferito a Parigi per
mille canali secreti che si aveva avuto cura di stabilire, e le voci
provenienti da Versaglia servivano ad alimentare l'eccitazione nella
capitale. Ci sono dei momenti in cui i potenti non possono più fare
assegnamento neppure sui loro domestici e questo accadde a
Versaglia. Mentre la nobiltà si rallegrava del piccolo successo
ottenuto alla seduta reale, alcuni rivoluzionari della borghesia
fondavano in Versaglia stessa un club, il club Bretone, che diventò
in breve un grande centro di ritrovo e più tardi si tramutò nel club
dei Giacobini. In questo club i domestici del re e della regina
andavano a riferire ciò che si diceva a porte chiuse alla Corte.
Alcuni deputati della Brettagna, fra gli altri Le Chapelier, Glezen,
Lanjuinais, furono i fondatori del club Bretone; vi appartennero
Mirabeau, il duca d'Aiguillon, Sieyès, Barnave, Pétion, l'abate
Grégoire e Robespierre.
Dal giorno in cui gli Stati generali s'erano riuniti a Versaglia,
una grande animazione regnava a Parigi. Il Palays-Royal, col suo
giardino e i suoi caffè, era diventato un club all'aria aperta, nel
quale diecimila persone di ogni condizione si recavano per
comunicarsi reciprocamente le notizie, discutere le pubblicazioni
del giorno, temprarsi tra la folla per l'azione futura, conoscersi,
intendersi. Tutte le voci, tutte le notizie raccolte a Versaglia dal
club Bretone erano immediatamente comunicate a questo club clamoroso
della folla parigina. Di qui si diffondevano nei sobborghi e se
talvolta la leggenda si aggiungeva per strada alla realtà, essa era,
come avviene spesso nelle leggende popolari, più vera della verità,
poichè precorreva gli eventi, faceva risaltare sotto la forma
leggendaria i motivi segreti delle azioni e – coll'intuito – meglio
dei saggi, essa giudicava uomini, cose, tempi. Chi meglio delle
masse anonime dei sobborghi giudicò Maria Antonietta, Polignac, il
re furbo, i principi? Chi li indovinò meglio del popolo?
Già all'indomani della seduta reale la grande città respirava l'aria
della rivolta. L'Hôtel de Ville (Municipio) indirizzava le sue
congratulazioni all'Assemblea e il Palais-Royal le mandava una
mozione redatta in un linguaggio bellicoso. Per il popolo affamato,
sino allora disprezzato, il trionfo dell'Assemblea dischiudeva
ancora una speranza e l'insurrezione era il solo mezzo per lui onde
procurarsi il pane che gli mancava. Mentre la carestia infieriva
ogni giorno di più; mentre difettavano continuamente anche le
cattive farine – gialle e bruciate – che si distribuivano ai poveri,
il popolo di Parigi sapeva che nei dintorni della grande città c'era
del pane per tutti e i poveri si convincevano che senza
un'insurrezione gl'incettatori non avrebbero cessato di affamare il
popolo.
Tuttavia, mano mano che i poveri urlavano più forte negli oscuri
crocicchi, la borghesia parigina e i rappresentanti del popolo a
Versaglia temevano sempre più la rivolta. Piuttosto il re e la Corte
che il popolo insorto! Il giorno stesso della riunione dei tre
ordini, il 27 giugno, dopo la prima vittoria del Terzo, Mirabeau che
sino a quel momento faceva appello al popolo, se ne distaccò
decisamente e parlò per scinderne i rappresentanti. Li avvertì di
guardarsi dagli «ausiliari sediziosi». Il programma futuro della
Gironda già si profila nell'Assemblea. Mirabeau vuole che questa
contribuisca «al mantenimento dell'ordine, alla tranquillità
pubblica, all'autorità delle leggi e dei loro ministri». Non solo,
ma giunge più lontano. Egli vuole che l'Assemblea si unisca al re,
poichè il re vuole il bene e, se gli accade di far male, gli è
perchè è ingannato e mal consigliato.
E l'Assemblea applaudiva. «La verità è, come dice bene Louis Blanc,
che la borghesia piuttosto che rovesciare il trono cercava già di
porvisi al riparo20. Rinnegato dalla nobiltà, fu nel seno dei
Comuni, per un momento così rudi, che Luigi XVI trovò i suoi
servitori più fedeli e pronti. Cessava di essere il re dei
gentiluomini, per diventare il re dei proprietari.»
Vedremo che questo vizio della Rivoluzione peserà su di essa dal
principio sino alla fine.
Ma nella capitale la miseria aumentava. Necker aveva preso alcune
misure per fronteggiare i pericoli di una carestia. Egli aveva
sospeso, al 7 settembre del 1788, l'esportazione dei grani e ne
favoriva con premi l'importazione; settanta milioni furono spesi per
comperare del grano dall'estero. Diede al tempo istesso una grande
pubblicità all'editto del Consiglio del re, del 23 aprile 1789, che
autorizzava i giudici e gli ufficiali di polizia di visitare i
granai dei privati, di stendere gl'inventari del grano che vi era
accumulato e di mandarlo, in caso di necessità, sui mercati. Ma –
pur troppo! – l'esecuzione di queste misure era stata affidata alle
vecchie autorità. Il governo premiava gli importatori di grano in
Parigi; ma il grano importato veniva nuovamente esportato
clandestinamente, per essere ancora una volta introdotto e ottenere
un secondo premio. La prospettiva di queste speculazioni spingeva
nelle provincie gl'incettatori di grano a fare grandi acquisti; si
compravano anche i raccolti avvenire.
Allora si rivelò il vero carattere dell'Assemblea nazionale. Essa
era stata ammirevole, senza dubbio, alla riunione del Giuoco del
Pallone, ma era rimasta borghese, anzitutto, nei riguardi del
popolo. Il 4 luglio, dietro la presentazione di un rapporto del
Comitato delle sussistenze, l'Assemblea discusse le misure da
prendersi per garantire il pane e il lavoro al popolo. Si parlò per
ore e ore, si fecero proposte su proposte. Pétion propose un
prestito, altri di autorizzare le assemblee provinciali a prendere
le misure necessarie – ma nulla si decise, nulla si fece:
l'Assemblea si limitò a compiangere il popolo. E quando un deputato
sollevò la questione degli incettatori e ne denunciò alcuni, egli
ebbe contro tutta l'Assemblea. Due giorni dopo, al 6 luglio, Bouche
annunciò che i colpevoli erano noti e che una denuncia formale
sarebbe stata fatta all'indomani. «Uno spavento generale s'impadronì
dell'Assemblea», dice Gorsas nel Courrier de Versailles et de Paris,
ch'egli aveva di recente fondato. Ma all'indomani, nessuno parlò. La
questione fu messa in tacere tra due sedute. Perché? Nella tema – e
gli avvenimenti lo proveranno – di compromettenti rivelazioni.
Ad ogni modo, l'Assemblea aveva tale uno spavento della rivolta
popolare che allorquando, in seguito all'arresto di undici guardie
francesi, che si erano rifiutate di caricare i loro fucili a
cartuccia, ci fu il 30 giugno un po' di sommossa a Parigi, essa votò
un indirizzo al re, concepito in termini estremamente servili e nel
quale protestava «la sua profonda devozione all'autorità reale21».
Se il re avesse accettato di far partecipare al governo, per quanto
in debole misura, la borghesia, questa soddisfatta si sarebbe unita
attorno a lui e lo avrebbe aiutato con tutta la sua potenza
d'organizzazione a domare il popolo. Ma – e ciò serva d'avviso per
le rivoluzioni future – c'è nella vita degli uomini, dei partiti e
anche delle istituzioni una logica che nessuna volontà può cambiare.
Il dispotismo regio non poteva scendere a patti colla borghesia che
gli domandava di condividere il potere. Logicamente, fatalmente,
esso la doveva combattere per soccombere poi a battaglia ingaggiata
e cedere il posto al governo rappresentativo – forma che meglio
conviene alla borghesia. Nè poteva, il dispotismo regio, patteggiare
colla democrazia popolare, senza tradire il suo appoggio naturale,
la nobiltà, e fece invero di tutto per difendere i nobili e i loro
privilegi, salvo poi a vedersi tradito da quegli stessi privilegiati
di nascita.
Tuttavia, le informazioni a proposito delle cospirazioni della Corte
giungevano per mille vie ai partigiani del duca d'Orléans, che si
riunivano a Montrouge, e ai rivoluzionari che frequentavano il club
Bretone. Le truppe si concentravano a Versaglia e sulla strada da
Versaglia a Parigi. A Parigi stessa, occupavano i punti più
importanti in direzione di Versaglia. Si parlava di 35,000 uomini
diffusi in quella zona e altri 20,000 vi sarebbero giunti in breve.
I principi e la regina macchinavano di sciogliere l'Assemblea,
schiacciare in caso d'insurrezione Parigi, arrestare ed uccidere non
solo i principali capi e il duca d'Orléans, ma anche quei deputati
che, come Mirabeau, Mounier, Lally-Tolendal, volevano fare di Luigi
XVI un re costituzionale. Dodici deputati – disse poi Lafayette –
dovevano essere immolati. A realizzare questo progetto erano stati
chiamati il barone di Breteuil e il maresciallo di Broglie –
entrambi pronti ad agire. – «Se bisogna incendiare Parigi,
incendieremo Parigi», diceva il primo. Quanto al maresciallo di
Broglie, egli aveva scritto al principe di Condé che una salva di
cannoni avrebbe ben presto «disperso questi disputatori e rimesso,
al posto dello spirito repubblicano che si forma, il potere assoluto
che si spegne22.»
E non si creda che si trattasse di favole, come hanno preteso alcuni
storici reazionari. La lettera della duchessa di Polignac –
rinvenuta più tardi – indirizzata il 12 luglio al prevosto dei
mercanti, Flesselles, e nella quale tutte le persone in vista erano
designate con nomi convenzionali, prova abbastanza il complotto che
la Corte aveva ordito pel 16 luglio. Se ci fossero ancora dei dubbi,
a disperderli bastano le parole che la duchessa di Beuvron
indirizzava a Dumouriez il 10 luglio a Caen, presenti più di
sessanta nobili trionfanti.
— «Ebbene, Dumouriez, diceva la duchessa, ignorate dunque la grande
novità? L'amico vostro Necker è stato cacciato; per questa volta il
re ritorna sul trono, l'Assemblea è dispersa; gli amici vostri, i
quarantasette, sono forse, a quest'ora, alla Bastiglia, con
Mirabeau, Target e un centinaio degli insolenti del Terzo; e certo
il maresciallo di Broglie è dentro a Parigi con 30,000 uomini.»
(Mémoires de Dumouriez, t. II, p. 35). La duchessa s'ingannava:
Necker non fu licenziato che all'11 e Broglie non osò entrare in
Parigi.
Ma che cosa faceva dunque, in tali frangenti, l'Assemblea? Essa
faceva ciò che le assemblee hanno sempre fatto e faranno. Non
prendeva decisioni di sorta.
All'8 luglio, giorno in cui il popolo di Parigi cominciò a
sollevarsi, l'Assemblea non fece altro che incaricare il suo
tribuno, Mirabeau, di redigere un'umile supplica al re; e, pur
pregando Luigi XVI di allontanare i soldati, l'Assemblea riempiva la
sua supplica di adulazioni. Essa parlava di un popolo che adorava il
re e ringraziava il cielo di tanto tesoro! Parole, adulazioni,
saranno ancora più volte, durante il corso della Rivoluzione,
indirizzate al re dai rappresentanti del popolo.
La Rivoluzione non diventa comprensibile che dopo aver notati gli
sforzi reiterati delle classi possidenti allo scopo di conciliarsi
la monarchia per farsene scudo contro il popolo. Tutti i drammi del
1793 nella Convenzione si presentono già in questa supplica
dell'Assemblea nazionale, firmata alcuni giorni prima del 14 luglio.
XI
PARIGI ALLA VIGILIA DEL 14 LUGLIO
Quasi sempre, l'attenzione degli storici è assorbita dall'Assemblea
nazionale. I rappresentanti del popolo riuniti a Versaglia sembrano
personificare la Rivoluzione e con pia devozione si raccolgono i
loro più piccoli gesti e discorsi. Tuttavia, il cuore e il
sentimento della Rivoluzione non erano, durante le giornate di
luglio, a Versaglia, ma sibbene a Parigi.
L'Assemblea valeva zero, senza Parigi e il suo popolo. Se la paura
dell'insurrezione in Parigi non avesse trattenuto la Corte, questa
avrebbe certamente disperso l'Assemblea, come è accaduto molte volte
dopo: al 18 brumaio e al 2 dicembre in Francia e recentemente anche
in Ungheria e in Russia. I deputati avrebbero, senza dubbio,
protestato; avrebbero certo pronunciato qualche bel discorso; forse
qualche audace avrebbe tentato di sollevare le provincie... ma,
senza il popolo pronto a insorgere, senza un lavoro di preparazione
rivoluzionaria compiuto fra le masse, senza un appello al popolo per
la rivolta, fatto singolarmente da uomo a uomo e non semplicemente
con manifesti – senza tutto ciò un'assemblea di rappresentanti val
poco di fronte a un governo già costituito, con tutta la sua
burocrazia e col suo esercito.
Per fortuna, Parigi vegliava. Mentre l'Assemblea nazionale
s'addormentava in una sicurezza ipotetica e, al 10 luglio,
riprendeva tranquillamente la discussione del progetto di
costituzione, il popolo di Parigi – al quale infine si eran rivolti
i rappresentanti più audaci e perspicaci della borghesia – si
preparava all'insurrezione. Nei sobborghi, i dettagli della «retata»
militare che la Corte si preparava a compiere al 16 luglio,
passavano di bocca in bocca; tutto era noto – perfino la minaccia
del re di ritirarsi a Soissons e di abbandonare Parigi all'esercito.
E la grande fornace si organizzava nei suoi distretti per rispondere
alla forza colla forza. Gli «ausiliari sediziosi», coi quali
Mirabeau aveva minacciato la Corte, erano stati infatti chiamati e
nelle oscure bettole dei sobborghi, la Parigi povera, la Parigi dei
pezzenti, discuteva sui mezzi per «salvare la patria». Parigi
s'armava come poteva.
Centinaia di agitatori patriotti – degli «ignoti» ben inteso – si
adopravano ostinatamente per mantenere l'agitazione e trascinare il
popolo nelle strade. I petardi e i fuochi artificiali servivano
all'uopo ed erano assai in voga, dice Arturo Voung; si vendevano a
metà prezzo e quando la folla si riuniva ai quadrivi, nelle piazze,
per assistere allo scoppio delle girandole, non mancava mai
«l'ignoto» che cominciava ad arringare il popolo, narrando le
notizie sui complotti della Corte. Per sciogliere tali assembramenti
«una volta bastava una compagnia di svizzeri; oggi ci vorrebbe un
reggimento; fra quindici giorni ci vorrà un esercito», diceva Arturo
Young alla vigilia del 14 luglio (pag. 219).
Difatti, sin dalla fine di giugno, il popolo parigino era in pieno
fermento e si preparava all'insurrezione. Già ai primi dello stesso
mese, causa l'alto prezzo dei grani, sommosse di affamati erano
attese, dice il libraio inglese Hardy, e se Parigi restò calma sino
al 25 giugno, gli è che sperava – fino alla seduta reale – che
l'Assemblea avesse fatto qualcosa. Ma al 25, Parigi comprese che
null'altro mezzo le restava all'infuori dell'insurrezione.
Una massa di parigini si diresse a Versaglia, pronta a ingaggiare
battaglia colle truppe. A Parigi, assembramenti minacciosi si
formavan dovunque, «disposti a compiere i più orribili eccessi».
Così si legge nelle Note segrete indirizzate al ministro degli
affari esteri, pubblicate da Chassin. (Les Elections et les cahiers
de Paris, Parigi, 1889, t. III, p. 453). «Il popolo è stato in
agitazione tutta la notte, ha acceso dei fuochi di gioia e ha tirato
una quantità enorme di razzi dinnanzi al Palais-Royal e al Controllo
Generale». Si gridava «Viva il duca d'Orléans!»
Il giorno istesso, 25, i soldati delle guardie francesi lasciavano
le loro caserme, per bere e fraternizzare col popolo che li
conduceva attraverso la città al grido di Abbasso la «calotte» (il
clero)!
Contemporaneamente, i «distretti» di Parigi, cioè le assemblee
primarie degli elettori, soprattutto quelle dei quartieri operai, si
costituivano regolarmente e prendevano tutte le misure necessarie
per organizzare la resistenza a Parigi. I «distretti» si tenevano
fra di loro in relazioni continue e i loro rappresentanti facevano
sforzi assidui per costituirsi in corpo municipale indipendente. Al
25, nell'assemblea degli elettori, Bonneville chiamava il popolo
alle armi, proponeva di costituirsi in «Comune» e motivava la sua
proposta basandosi sulla storia. All'indomani, dopo essersi riuniti
al museo di via Dauphine, i rappresentanti dei distretti si recavano
da ultimo al Palazzo di Città. Il 1° luglio, tenevano la loro
seconda seduta, della quale Chassin ci ha dato il verbale (t. III,
p. 439-444, 458, 460). E costituivano il «Comitato permanente», che
siedè durante la giornata del 14 luglio.
Il 30 giugno, un semplice incidente, l'arresto cioè di undici
soldati delle guardie francesi, che erano stati mandati in prigione
all'Abbaye, per aver rifiutato di caricare a palla i fucili, bastava
per provocare una sommossa a Parigi. Allorquando Loustalot,
redattore delle Révolutions de Paris, salì al Palais-Royal sopra una
sedia di fronte al caffè Foy ed arringò in proposito la folla,
quattromila uomini si recarono immediatamente all'Abbaye per
liberare i soldati. I carcerieri, quando videro arrivare la folla,
capirono l'inutilità di qualsiasi resistenza e liberarono gli
arrestati. I dragoni accorsi a briglia sciolta, pronti a caricare il
popolo, esitarono ringuainarono le sciabole e fraternizzarono colla
folla, – incidente che fece fremere l'Assemblea quando all'indomani
seppe che la truppa aveva patteggiato colla rivolta. «Stiamo forse
per diventare i tribuni di un popolo senza freni?» si domandavano
quei signori.
Ma la sommossa rumoreggiava nei dintorni di Parigi. A Nangis, il
popolo aveva rifiutato di pagare le imposte finchè non fossero state
determinate dall'Assemblea, e, siccome il pane scarseggiava (non si
vendevano più di due staia di grano per ogni compratore), il mercato
era circondato da dragoni. Tuttavia, malgrado la presenza delle
truppe, parecchie sommosse scoppiarono a Nangis e in altre piccole
località limitrofe. Contese tra la folla e i fornai sorgevano
facilmente e allora si portava via tutto il pane senza pagare, dice
Young (p. 225). Il 27 giugno, il Mercure de France parla anche di
tentativi fatti in diversi luoghi, specialmente a San Quintino, per
falciare i raccolti in erba, tanto grande era la carestia.
A Parigi, i patriotti andavano già al 30 giugno a inscriversi per
l'insurrezione al caffé del Caveau e all'indomani, quando si seppe
che Broglie aveva assunto il comando dell'esercito – la popolazione,
dicono i rapporti segreti, diceva e dichiarava ad alta voce dovunque
che «se la truppa avesse tirato un sol colpo di fucile, tutto
sarebbe stato posto a ferro e a fuoco. Si sono dette molte altre
cose ancora più violente... Le persone prudenti non si fanno
vedere», aggiunge l'agente.
Al 2 luglio, il furore della popolazione prorompe contro il duca
d'Artois e i Polignac. Si parla di ucciderli, di saccheggiare i loro
palazzi, d'impadronirsi inoltre di tutti i cannoni che sono dentro
Parigi. Gli assembramenti diventano più numerosi e «il furore del
popolo è inconcepibile», dicono sempre i rapporti. Nello stesso
giorno poco è mancato, dice il libraio Hardy nel suo diario, che
partisse «verso le otto di sera una moltitudine di furiosi dal
giardino del Palais-Royal», per liberare i deputati del Terzo,
ritenuti in pericolo di venir assassinati dai nobili. Già in quel
giorno veniva proposto di togliere le armi agli Invalidi.
L'ira contro la Corte aumentava nelle stesse proporzioni del furore
cagionato dalla carestia. Al 4, al 6 luglio si temevano saccheggi
dei forni; pattuglie di guardie francesi ispezionavano le strade,
dice Hardy, e sorvegliavano la distribuzione del pane.
L'8 luglio, un preludio d'insurrezione scoppiava a Parigi stessa,
nell'accampamento dei ventimila operai disoccupati, che il governo
occupava in lavori di sterro a Montmartre. Due giorni dopo, al 10,
il sangue già scorreva e si cominciava a bruciar le barriere. Quella
della Chaussée d'Antin veniva incendiata e il popolo ne approfittava
per far entrare vino e provvigioni senza pagare dazio.
Forse che Camillo Desmoulins avrebbe lanciato, al 12, il suo grido
d'allarme, se non fosse stato sicuro che l'insurrezione era già in
Parigi, se non avesse saputo che dodici giorni prima, dietro
l'esortazione di Loustalot, il popolo era insorto per un
trascurabile incidente e che ormai nei sobborghi, già pronti, si
attendeva un segno solo, un'iniziativa qualsiasi per impugnare le
armi?
La foga dei principi, sicuri del successo, aveva precipitato il
colpo di Stato, preparato per il 16 e il re fu costretto ad agire
prima che i rinforzi di truppe fossero giunti a Versaglia23.
Necker fu licenziato all'11. Il duca d'Artois gli mise il pugno
sotto al naso, nel momento in cui il ministro si recava nella Sala
del Consiglio, e il re, colla sua furberia solita, fingeva di non
saper nulla, mentre il licenziamento era già firmato. Necker, senza
profferir verbo, si sottomise agli ordini del suo padrone. Non solo,
ma ne favorì i piani, partendo per Bruxelles senza sollevare il
minimo rumore a Versaglia.
Parigi lo seppe solo all'indomani, domenica 12, verso mezzogiorno.
Il licenziamento era preveduto; doveva essere l'inizio del colpo di
Stato. La frase del duca di Broglie che, coi suoi trenta mila
soldati accumulati fra Parigi e Versaglia, «rispondeva di Parigi»,
passava di bocca in bocca, e poichè sin dal mattino circolavano voci
sinistre a proposito dei massacri tramati dalla Corte, il «tout
Paris rivoluzionario» si recò in massa al Palais-Royal. Là giunse la
staffetta coll'annuncio dell'esilio di Necker. La Corte s'era dunque
decisa ad aprire le ostilità... E allora Camillo Desmoulins, uscendo
da uno dei caffè del Palais-Royal, il caffè Foy, con una spada in
una mano e una pistola nell'altra, montò su di una sedia e lanciò il
suo appello alle armi. Come è noto, egli ruppe un ramo d'albero, ne
staccò una foglia verde come coccarda e segno di riconoscimento. Il
suo grido: Non c'è un momento da perdere: Armatevi! si diffuse nei
sobborghi.
Nel pomeriggio, una processione immensa, coi busti del duca
d'Orléans e di Necker (si diceva che anche il duca d'Orléans fosse
stato esiliato) velati a gramaglie, traversa il Palais-Royal, infila
la via Richelieu, si dirige verso la piazza Luigi XV (oggi della
Concordia) occupata dalla truppa: svizzeri, fanteria francese,
ussari e dragoni sotto gli ordini del marchese di Besenval. Le
truppe sono in breve circondate dal popolo; provano di respingerlo a
sciabolate, sparano anche; ma davanti all'innumere moltitudine che
le serra, le urta, le cinge e le racchiude rompendo le loro file, le
truppe sono costrette a ritirarsi. D'altra parte si viene a sapere
che le guardie francesi hanno tirato qualche colpo di fucile sul
«Royal-Allemand» – reggimento fedele al re – e che gli svizzeri
rifiutano di sparare sul popolo. Allora Besenval, che fra l'altro
pareva non riponesse gran fiducia nella Corte, si ritira davanti
alla marea montante del popolo e va ad accamparsi al Campo di
Marte24.
La lotta è dunque impegnata. Ma quale ne sarà l'esito definitivo, se
la truppa rimasta fedele al re, riceve l'ordine di marciare su
Parigi? Ecco che i rivoluzionari borghesi si decidono – con
repugnanza a ricorrere al mezzo supremo: l'appello al popolo. Le
campane suonano a stormo in tutta Parigi e nei sobborghi si lavora a
fabbricare le picche25. A poco a poco, gli uomini cominciano a
discendere, armati, nella strada. Durante tutta la notte i popolani
costringono i passanti a sborsar del denaro per comprar della
polvere. Le barriere sono in fiamme. Tutte le barriere della riva
sinistra, dal sobborgo Sant'Antonio fino a quello di Sant'Onorato,
così come quelle di San Marcello e San Giacomo, vengono incendiate:
vino e provvigioni entrano liberamente in Parigi. Le campane suonano
tutta la notte e la borghesia trema per le sue proprietà, poichè
uomini armati di picche e di bastoni si diffondono in tutti i
quartieri, saccheggiano le case di alcuni nemici del popolo, degli
incettatori e battono alle porte dei ricchi chiedendo pane ed armi.
All'indomani, 13, il popolo si reca, prima di tutto, laddove c'è del
pane, specialmente al monastero di San Lazzaro, che vien assaltato
al grido di: Pane! Pane!... Cinquantadue carretti sono caricati di
farina e non saccheggiati sul posto, ma trascinati alle Halles
(mercati), affinchè il pane serva per tutti. Ed è ancora alle Halles
che il popolo di Parigi dirige le provvigioni entrate in città senza
pagar dazio26.
Contemporaneamente, il popolo s'impadroniva della prigione della
Force, dove venivano rinchiusi i debitori insolvibili, e i detenuti,
messi tosto in libertà, traversarono Parigi ringraziando il popolo;
ma un ammutinamento dei carcerati allo Châtelet fu domato
manifestamente dai borghesi, che si armavano in tutta fretta e
lanciavano nelle strade le loro pattuglie. Verso alle sei, le
milizie borghesi, già formate, si recavano infatti al Palazzo di
Città e alle dieci di sera, dice Chassin, esse cominciavano il
servizio.
Taine e consorti, fedeli echi della paura della borghesia, tentano
di far credere che, il 13, Parigi «fosse in mano dei briganti». Ma
questa affermazione è smentita da tutte le testimonianze dell'epoca.
Ci furono, senza dubbio, dei passanti fermati da uomini muniti di
picche, che chiedevano del denaro per armarsi; ci furono pure nella
notte dal 12 al 13 e in quella dal 13 al 14, degli uomini armati che
battevano alle porte dei ricchi e domandavano da mangiare o da bere,
oppure armi e denaro; è vero altresì che si ebbero tentativi di
saccheggio, poichè testimoni degni di fede parlano di persone
giustiziate sommariamente nella notte dal 13 al 1427 per aver
compiuto tentativi dei genere, ma Taine anche qui, come altrove,
esagera.
Non se n'abbiano a male i repubblicani moderni, ma i rivoluzionari
del 1789 fecero appello agli «ausiliari compromettenti» di cui
parlava Mirabeau. Andarono a cercarli nei tuguri dei dintorni di
Parigi. Ed ebbero perfettamente ragione, poichè questi ausiliari,
compresi della gravità della situazione, non impiegarono le loro
armi per soddisfare i loro odii personali e per alleviare le loro
miserie, ma per servire la causa comune.
È del resto accertato che i casi di saccheggio furono rarissimi. Per
contro, lo spirito delle folle armate divenne minaccioso, quando
appresero lo scontro avvenuto tra le truppe e i borghesi. Gli uomini
colle picche si consideravano evidentemente come difensori della
città, sui quali pesava una grave responsabilità. Marmontel, nemico
dichiarato della Rivoluzione, rileva nondimeno questo fatto
interessante: «I briganti stessi, presi dal terrore (?) comune, non
fecero danni. Solo le botteghe degli armaiuoli furono forzate, ma
non vi si presero che delle armi», dice il Marmontel nelle sue
Mémoires. E quando il popolo condusse in piazza di Grève la vettura
del principe di Lambesc per bruciarla, consegnò prima il baule e
tutti gli effetti trovati nella vettura al Palazzo di Città. Nel
convento dei Lazzaristi, il popolo rifiutò il denaro e non prese che
farina, armi e vino, che trasportò in piazza di Grève. Nella sua
relazione, l'ambasciatore inglese nota che nulla fu toccato in quel
giorno, nè al Tesoro, nè alla Cassa di Sconto.
Ma la paura della borghesia, alla vista di questi uomini e donne
stracciati, affamati, armati di randelli e di picche «d'ogni
genere»; il terrore inspiratole da questi spettri della fame discesi
nelle strade fu tale, che non se ne riebbe mai più. Più tardi, nel
91-92, anche i più acerrimi nemici della monarchia preferivano la
reazione, piuttosto che un nuovo appello alla rivoluzione popolare.
Avevano ognora presente il ricordo del popolo affamato e armato
ch'essi avevano intravvisto il 12, 13 e 14 luglio 1789.
«Armi! Armi!» ecco il grido del popolo non appena ebbe trovato un
po' di pane. Armi se ne cercavano ovunque, senza però trovarne,
mentre nei sobborghi, con tutto il ferro disponibile, la costruzione
delle picche, d'ogni disegno e dimensione, procedeva con febbrile
attività.
Intanto la borghesia, senza perder tempo, costituiva la sua
autorità: il suo municipio al Palazzo di Città e la sua milizia.
È noto che le elezioni all'Assemblea nazionale avevano avuto luogo a
due gradi; ma, fatte le elezioni, gli elettori del Terzo, ai quali
s'unirono alcuni elettori della nobiltà e del clero, continuavano a
riunirsi al Palazzo di Città – dal 27 giugno in poi,
coll'autorizzazione dell'Ufficio della Città e del ministro di
Parigi. Ebbene, questi elettori presero l'iniziativa di organizzare
la milizia borghese. Al 1° luglio, li abbiam visti tenere la loro
seconda seduta.
Il 12, costituirono un Comitato Permanente presieduto dal prevosto
dei mercanti, Flesselles, e decisero che ognuno dei sessanta
distretti avrebbe scelto duecento cittadini conosciuti e validi a
portar le armi per formare un corpo di milizie di 12,000 uomini,
coll'incarico di vegliare alla sicurezza pubblica. Questa milizia
doveva, nel termine di quattro giorni, essere portata al numero
totale di 48,000 uomini, mentre lo stesso Comitato cercava di
disarmare il popolo.
Così, dice bene Louis Blanc, la borghesia si regalava una guardia
pretoriana di 12,000 uomini. Non importa, se a rischio di subire la
Corte, ma si voleva disarmare il popolo.
Invece del «verde» dei primi giorni, questa milizia doveva ora
portare la coccarda rosso-bleu, e il Comitato prese delle misure
affinchè il popolo – armandosi – non invadesse i ranghi di questa
milizia. Ordinò che chiunque portasse armi e coccarda rosso e bleu,
senza essere stato registrato in uno dei distretti, venisse
consegnato alla giustizia del Comitato. Il comandante generale di
questa guardia nazionale fu nominato dal Comitato permanente nella
notte dal 13 al 14 luglio un nobile, il duca d'Aumont. Non accettò e
allora, al suo posto, un altro nobile, il marchese de la Salle,
nominato comandante in secondo, assunse il comando.
Insomma, mentre il popolo fabbricava picche e s'armava, mentre
prendeva tutte le misure perchè non si facesse uscire la polvere da
Parigi, mentre s'impadroniva delle farine e le faceva portare alle
Halles o in piazza di Grève, mentre ergeva al 14 le barricate per
impedire l'entrata delle truppe in Parigi, s'impadroniva di armi
agl'Invalidi, si dirigeva in massa verso la Bastiglia per forzarla a
capitolare – la borghesia attentamente vegliava perchè il potere non
le sfuggisse di mano. Essa costituiva la Comune borghese di Parigi,
che cercò di ostacolare il movimento popolare e alla testa di questa
Comune metteva Flesselles, il prevosto dei mercanti, l'uomo che
corrispondeva colla Polignac per impedire la sollevazione di Parigi.
Quando al 13 il popolo andò da lui a chieder armi, egli si fece
portare delle casse che, invece di fucili, contenevano della vecchia
biancheria sudicia e all'indomani impiegò tutta la sua influenza per
impedire al popolo di prendere la Bastiglia.
È in tal modo che gli astuti capeggiatori della borghesia
cominciavano il sistema di tradimenti che noi vedremo prodursi
durante l'intera Rivoluzione.
XII
LA PRESA DELLA BASTIGLIA
Al 14, già dal mattino, l'attenzione dell'insurrezione parigina
s'era diretta sulla Bastiglia – su questa tetra fortezza, dalle
torri altissime, che ergeva la sua larga e formidabile mole in mezzo
alle case di un quartiere popolare, all'entrata del sobborgo
Sant'Antonio. Gli storici si domandano ancora chi indirizzò da
quella parte l'attenzione del popolo e alcuni hanno preteso che
fosse il Comitato permanente del Palazzo di Città, che, volendo dare
un obbiettivo all'insurrezione, la lanciò contro quell'emblema della
dinastia. Nulla però conferma questa supposizione, mentre parecchi
fatti importanti la smentiscono. È piuttosto l'istinto popolare che
comprese, già il 12 o il 13, che la Bastiglia doveva avere una parte
importante nel piano della Corte inteso a schiacciare l'insurrezione
parigina; di qui, la necessità d'impadronirsene.
È noto infatti che all'ovest, la Corte aveva i trentamila uomini di
Besenval accampati al Campo di Marte; e all'est, aveva per appoggio
le torri della Bastiglia, i cannoni della quale erano puntati sul
sobborgo rivoluzionario di Sant'Antonio e sulla sua strada maestra,
come pure in direzione dell'altra grande arteria, la via
Sant'Antonio, che conduce al Palazzo di Città, al Palais-Royal ed
alle Tuileries. L'importanza della Bastiglia era dunque fin troppo
evidente e già dal mattino del 14, dicono i Deux Amis de la Liberté,
il grido Alla Bastiglia! correva di bocca in bocca, da una all'altra
estremità di Parigi28.
È bensì vero che la guarnigione della Bastiglia non contava che 114
uomini, di cui 84 invalidi e 30 svizzeri, e che il governatore nulla
aveva fatto per approvvigionarla; ma questo dimostra che la sola
possibilità di un attacco serio della fortezza era rigettata come
assurda. Tuttavia il popolo sapeva che i cospiratori realisti
contavano sulla fortezza e seppe per mezzo degli abitanti del
quartiere che nella notte dal 12 al 13 carichi di polvere erano
stati trasportati dall'Arsenale alla Bastiglia. Si vide inoltre che
il comandante, marchese di Launey, aveva già dal mattino del 14
messo i suoi cannoni in posizione per tirare sul popolo, qualora si
fosse diretto in massa verso al Palazzo di Città.
Bisogna aggiungere anche che il popolo aveva sempre odiato le
prigioni: Bicêtre, il mastio di Vincennes, la Bastiglia. Durante le
sommosse del 1783, allorquando la nobiltà protestò contro le
incarcerazioni arbitrarie, il ministro Breteuil si decise ad abolire
il mastio di Vincennes; la famosa prigione fu trasformata in un
magazzino di granaglie e, per lusingare l'opinione pubblica,
Breteuil permise di visitare i terribili trabocchetti. Molto si
parlò, dice Droz29, degli orrori che vi si erano veduti e, ben a
ragione, si pensò che la Bastiglia doveva essere ancor peggiore.
In ogni caso, è certo che già dal 13 a sera alcuni colpi di fucile
furono scambiati fra manipoli di parigini armati che passavano
vicino alla fortezza e i difensori della medesima e che al 14, sin
dalle prime ore del mattino, le masse, più o meno armate, che
avevano percorso Parigi la notte precedente, cominciarono a
riversarsi nelle strade conducenti alla Bastiglia. Già durante la
notte era corsa la voce che le truppe del re s'avanzavano dalla
parte della barriera del Trono, nel sobborgo Sant'Antonio, e le
masse si recavano ad est, barricando le vie al nord-est del Palazzo
di Città.
Un assalto fortunato al Palazzo degl'Invalidi permise al popolo di
armarsi e di procurarsi dei cannoni. Infatti, già alla vigilia, dei
borghesi delegati dai loro distretti, s'erano presentati al Palazzo
degli Invalidi per domandare delle armi, dicendo che le loro case
erano minacciate di saccheggio da parte dei briganti, e il barone di
Besenval, comandante le truppe regie a Parigi, che si trovava agli
Invalidi, promise di chiederne l'autorizzazione al maresciallo di
Broglie. L'autorizzazione non era ancor giunta, quando, il 14, verso
le 7 del mattino, mentre gli invalidi, comandati da Sombreuil, erano
accanto ai loro cannoni, colla miccia in mano, pronti a far fuoco –
una folla di sei a sette mila uomini, al passo di corsa, sbucò
improvvisamente dalle tre strade vicine. Traversò, «in men che non
si dice», gli uni facendo passare gli altri, il fossato profondo
otto piedi e largo dodici, che circondava la spianata del Palazzo
degli Invalidi, invase la spianata e s'impadronì di dodici pezzi di
cannone (di 24, di 18, di 10) e di un mortaio. Gli invalidi, già
imbevuti di «spirito sedizioso», non si difesero, e la folla
spargendosi dappertutto penetrò ben presto nei sotterranei e nella
chiesa, dove si trovavano nascosti 32,000 fucili e una certa
quantità di polvere30. Questi fucili e questi cannoni servirono il
giorno stesso nella presa della Bastiglia. Quanto alla polvere, già
alla vigilia, il popolo ne aveva fermato trentasei barili che
stavano per essere spediti a Rouen; e furono invece trasportati al
Palazzo di Città. Durante tutta la notte non si fece che distribuire
la polvere al popolo che si armava.
La distribuzione dei fucili trovati agl'Invalidi andava per le
lunghe; alle due del pomeriggio non era ancora finita. Ci sarebbe
dunque stato il tempo necessario per far venire le truppe e
disperdere il popolo, tanto più che reparti di fanteria, cavalleria
e anche di artiglieria stazionavano poco lungi, alla Scuola militare
e al Campo di Marte. Ma gli ufficiali di queste truppe non avevano
alcuna fiducia nei loro soldati e poi anch'essi dovevano essere un
po' sgomenti, trovandosi di fronte a questa innumerevole moltitudine
di 200,000 individui di ogni età, sesso e condizione, che da due
giorni invadevano le strade. Gli abitanti dei sobborghi, armati di
qualche fucile, di picche, di martelli, di scuri e anche di semplici
randelli, si erano rovesciati nella strada e si affollavano nella
piazza Luigi XV (oggi della Concordia), nei dintorni del Palazzo di
Città e della Bastiglia e nelle strade intermedie. – La stessa
borghesia parigina fu presa dal terrore alla vista di queste masse
armate nelle vie.
Avuta notizia che i dintorni della Bastiglia erano stati invasi
dalla folla, il Comitato permanente del Palazzo di Città, del quale
abbiamo più sopra parlato, mandò, sin dal mattino del 14, degli
inviati al governatore della fortezza de Launey, per pregarlo di
ritirare i cannoni puntati sulle strade e di non commettere ostilità
contro il popolo; di ricambio, il Comitato, usurpando poteri che non
aveva, prometteva che il popolo «non avrebbe compiuto nessun atto
riprovevole contro la piazza forte». I delegati furono ricevuti
assai gentilmente dal governatore e rimasero anzi da lui a pranzo
fin verso mezzogiorno. De Launey cercava probabilmente di guadagnar
tempo nell'attesa di ordini precisi da Versaglia, ordini che non
arrivarono, perchè il popolo li aveva intercettati alla mattina.
Come tutti gli altri capi militari, de Launey prevedeva che sarebbe
stato assai difficile di resistere al popolo di Parigi disceso in
massa nelle strade e temporeggiava. Per il momento fece ritirare
indietro i cannoni di quattro passi, e perchè il popolo non li
vedesse attraverso le fessure, li fece ricoprire con delle assi di
legno.
Verso mezzogiorno il distretto di Saint-Louis-la-Culture mandò in
nome suo due delegati a parlare al governatore: uno di loro,
l'avvocato Thuriot de la Rosière ottenne dal marchese de Launey la
promessa che non avrebbe fatto tirare qualora non fosse stato
attaccato. Due nuove deputazioni furono mandate al governatore da
parte del Comitato permanente verso all'una e alle tre pomeridiane,
ma non vennero ricevute. L'una e l'altra domandavano al governatore
di rimettere la fortezza nelle mani di una milizia borghese, che
l'avrebbe custodita insieme cogli invalidi e cogli svizzeri.
Fortunatamente, tutti questi compromessi furono sventati dal popolo,
che comprese perfettamente essere necessario a qualunque costo
impadronirsi della Bastiglia. Padrone dei fucili e dei cannoni degli
Invalidi, il suo entusiasmo cresceva sempre. La moltitudine invadeva
le vie prossime alla Bastiglia, così come le strade che circondavano
la fortezza. Ben presto la battaglia s'impegnò tra gli assalitori e
gli invalidi che erano sui bastioni. Mentre il Comitato permanente
cercava di frenare l'ardore del popolo e si preparava a far sapere
in piazza di Grève che il signor de Launey non avrebbe tirato senza
essere attaccato, la massa si spingeva verso l'abborrita prigione al
grido di: Vogliamo la Bastiglia! Giù i ponti! Quando il governatore,
salito insieme col Thuriot sui muri della Bastiglia, vide l'immensa
folla brulicante nel sobborgo Sant'Antonio e nelle vie limitrofe,
pocò mancò non cadesse a terra svenuto. Pare anzi ch'egli fosse sul
punto di consegnare su due piedi la fortezza al Comitato della
milizia, ma gli svizzeri si opposero31.
Di lì a poco, grazie a uno di quegli atti d'audacia che non mancano
mai in occasioni simili, caddero abbattuti i primi ponti levatoi di
quella parte esterna della Bastiglia che si chiamava l'Avancée. Otto
o dieci uomini, aiutati da un giovane alto e robusto, il droghiere
Pannetier, profittarono di una casa addossata al muro esterno
dell'Avancée per dargli la scalata; allora altri li seguirono
montandosi sulle spalle sino a un corpo di guardia situato vicino al
piccolo ponte levatoio dell'Avancée e di qui, saltarono nel primo
cortile della Bastiglia, propriamente detto il cortile del Governo,
nel quale sorgeva la casa del governatore. Questo cortile era vuoto,
poichè gli invalidi, dopo la partenza di Thuriot, erano rientrati
col de Launey nella fortezza. A colpi di scure, gli otto o dieci
uomini discesi in questo cortile abbassarono dapprima il piccolo
ponte levatoio dell'Avancée, spezzandone la porta, poi abbassarono
il grande, e allora più di 300 uomini si precipitarono nel cortile
del Governo, correndo verso gli altri due ponti levatoi, il piccolo
e il grande – che servivano a traversare il largo fossato della
fortezza. Questi due ponti erano, ben inteso, levati.
Qui avvenne l'incidente che portò al colmo il furore della
popolazione parigina e costò in seguito la vita a de Launey. Quando
la folla invase il cortile del Governo, i difensori della Bastiglia
spararono e ci fu anche un tentativo di rialzare il grande ponte
levatoio dell'Avancée per impedire alla folla di uscire dal cortile,
ed ivi tenerla prigioniera o massacrarla32. Così, proprio nel
momento in cui Thuriot e Corny annunciavano in Piazza di Grève che
il governatore aveva promesso di non sparare, il cortile del Governo
veniva spazzato dal fuoco di moschetteria dei soldati appostati sui
bastioni, e il cannone della Bastiglia lanciava i suoi obici nelle
strade vicine. Dopo tutti i colloqui del mattino, questo fuoco
aperto sul popolo fu interpretato come un atto di tradimento dalle
parte di de Launey, che fu accusato dal popolo di aver fatto
discendere i due primi ponti levatoi dell'Avancée, allo scopo di
raccogliere la folla sotto al fuoco dei bastioni33.
Poteva essere un'ora. La notizia che i cannoni della Bastiglia
tiravano sul popolo si diffuse a Parigi ed ebbe un duplice effetto.
Il Comitato permanente della milizia parigina si affrettò a mandare
una nuova deputazione al comandante, per domandargli se era disposto
a ricevere un distaccamento della milizia, che, d'accordo colla
truppa, avrebbe provveduto a difendere la Bastiglia. Ma questa
deputazione non giunse dal comandante, poiché un nudrito fuoco di
fucileria continuava incessantemente fra gli invalidi e gli
assalitori, i quali ultimi, rannicchiati dietro alcuni muri,
tiravano soprattutto sui soldati dei cannoni. D'altronde, il popolo
comprendeva che le deputazioni del Comitato non facevano che
impedire l'assalto: «Gli assalitori non vogliono più deputazioni;
essi domandano invece ad alte grida l'assedio della Bastiglia, la
distruzione di quell'orribile prigione, la morte del governatore»,
così dissero, al ritorno, i deputati.
Ciò non impedì al Comitato del Palazzo di Città di mandare una terza
deputazione. Ethis de Corny, procuratore del re e della città, e
parecchi cittadini furono incaricati di raffreddare lo slancio del
popolo, di ostacolare l'assalto e di parlamentare col de Launey,
affine di convincerlo a ricevere nella fortezza una milizia del
Comitato. Era ormai evidente il proposito d'impedire al popolo la
conquista e la demolizione della Bastiglia34.
Quanto al popolo, non appena la notizia delle fucilate si diffuse in
città, agì senza ordini di capi, guidato solo dal suo istinto
rivoluzionario. Condusse al Palazzo di Città i cannoni che aveva
conquistati alla Caserma degli Invalidi e verso alle tre, mentre la
deputazione di Corny ritornava a render conto del suo scacco,
incontrò circa trecento guardie francesi e una folla di borghesi
armati, comandati da un vecchio soldato, Hulin. Marciavano diretti
alla Bastiglia, traendo seco cinque cannoni. La fucilata durava già
ormai da tre ore. Il popolo non si avviliva pel gran numero dei suoi
morti e feriti35 e ricorrendo a diversi strattagemmi continuava
l'assedio; così furono condotti due carri di paglia e di letame per
innalzare una nuvola di fumo che avrebbe facilitato l'assalto delle
due porte d'ingresso (al piccolo e al grande ponte levatoio). Gli
edifici del cortile del Governo erano già stati incendiati.
I cannoni arrivavano proprio in buon punto. Furono trascinati nel
cortile del Governo e furono collocati di fronte ai ponti levatoi e
alle porte, a soli 30 metri di distanza.
È facile immaginare l'effetto che produssero sugli assediati questi
cannoni nelle mani del popolo! I ponti sarebbero in breve caduti e
le porte sfondate. La folla sempre più minacciosa cresceva ad ogni
istante.
Allora i difensori capirono che prolungare la resistenza significava
votarsi a un inevitabile massacro. De Launey si decise a capitolare.
Gli invalidi, vedendo che non avrebbero potuto sopraffare il popolo
di Parigi venuto ad assediarli, consigliavano già da un pezzo la
capitolazione. Verso le quattro o fra le quattro e le cinque del
pomeriggio, il comandante fece issare la bandiera bianca e battere
la ritirata, cioè l'ordine di cessare il fuoco e di discendere dalle
torri.
La guarnigione capitolava e chiedeva il diritto di uscire
conservando le armi. Può darsi che Hulin ed Elie, che si trovavano
in faccia al grande ponte levatoio, abbiano in loro nome accettato
tali condizioni, ma il popolo non voleva saperne. Il grido: Giù i
ponti! rimbombava con furore. Allora, verso le cinque, il comandante
fece passare attraverso una feritoia, vicina al piccolo ponte
levatoio, un biglietto concepito nei termini seguenti: «Abbiamo
venti mila libbre di polvere; faremo saltare il quartiere e la
guarnigione se non accettate la capitolazione.» Dopo questa minaccia
vana, perchè la guarnigione non ne avrebbe mai tollerato
l'effettuazione, il de Launey stesso diede la chiave per far aprire
la porta del piccolo ponte levatoio... Immediatamente, il popolo
invase la fortezza, disarmò gli svizzeri e gli invalidi,
s'impossessò del de Launey che fu trascinato al Palazzo di Città.
Durante il tragitto, la folla, furiosa del tradimento di lui, lo
insultava in ogni modo; poco mancò, per ben venti volte che non
cadesse ucciso, malgrado gli sforzi eroici di Cholat e di un
altro36, che lo proteggevano colle loro persone. Ma a un centinaio
di passi dal Palazzo di Città, fu strappato ai suoi protettori e
decapitato. De Hue, comandante degli svizzeri, salvò la sua pelle
dichiarando ch'egli si arrendeva alla Città, alla Nazione e bevendo
alla loro salute; ma tre ufficiali dello stato maggiore della
Bastiglia e tre invalidi furono uccisi. Quanto a Flesselles, il
prevosto dei mercanti, che era in relazione con Besenval e la
Polignac ed aveva – da quanto si può arguire da un brano di una
delle sue lettere – molti altri segreti da nascondere, assai
compromettenti per la regina, egli era in procinto di essere
giustiziato sommariamente dal popolo, quando un ignoto lo uccise con
un colpo di pistola. Pensò forse questo ignoto che solo i morti non
parlano?
Subito dopo l'abbassamento dei ponti della Bastiglia, la folla,
precipitandosi nei cortili, s'era posta a frugare nella fortezza per
liberare i prigionieri sepolti nelle sue segrete. Essa si commuoveva
e piangeva alla vista di quei fantasmi usciti dalle loro tombe,
spaventati dalla luce diffusa e dal suono di tante voci che li
acclamavano. Quei martiri del dispotismo regio furono portati in
trionfo per le strade di Parigi, e in breve tutta la città delirò
d'entusiasmo e di gioia all'udire che la Bastiglia era caduta nelle
mani del popolo, e raddoppiò d'ardore per conservare la sua
conquista. Il colpo di Stato della Corte era fallito.
Così cominciò la Rivoluzione. Il popolo guadagnava la sua prima
vittoria. Gli occorreva una vittoria materiale del genere. Occorreva
che la Rivoluzione sostenesse una lotta e ne uscisse trionfante. Era
necessario che il popolo provasse la sua forza per imporsi ai suoi
nemici, per risvegliare i cuori della Francia, per spingere dovunque
alla rivolta, alla conquista della libertà.
XIII
LE CONSEGUENZE DEL 14 LUGLIO A VERSAGLIA
Quando una rivoluzione è cominciata, ogni avvenimento non riassume
solamente la tappa percorsa, ma contiene già gli elementi principali
di quanto accadrà; di guisa che se i contemporanei potessero
liberarsi dalle impressioni momentanee e separare in ciò che vedono
l'essenziale dall'accidentale, essi avrebbero potuto, già
all'indomani del 14 luglio, prevedere la strada che la Rivoluzione
avrebbe percorso.
La Corte, il 13 stesso a sera, non si rendeva ancora conto esatto
della portata del movimento parigino.
Quella sera Versaglia era in festa. Si ballava all'Orangerie, si
tracannava senza misura per celebrare l'imminente vittoria
dell'ordine sui rivoltosi della capitale, e la regina, la sua amica
la Polignac e le altre belle della Corte, i principi e le
principesse prodigavano le loro carezze nelle caserme ai soldati
stranieri per eccitarli alla pugna37. Nella loro folle e terribile
leggerezza, in quel mondo d'illusioni e di menzogne convenzionali
che costituisce ogni Corte, non si dubitava neppure che fosse troppo
tardi ormai per attaccare Parigi e che l'occasione era già mancata.
Luigi XVI non era neppur lui meglio informato della regina o dei
principi. Quando l'Assemblea, spaventata dalla sollevazione
popolare, corse da lui, il 14 a sera, per supplicarlo, con un
linguaggio servile, di richiamare i ministri o di far ritirare le
truppe, egli rispose con tono da padrone, ancora sicuro della
vittoria. Credeva nel piano che gli avevano suggerito – quello cioè
di mettere dei capi fedeli alla testa della milizia borghese, con
questa raggiungere lo schiacciamento del popolo e limitarsi poi a
impartire degli ordini equivoci sul ritiro delle truppe. Questo era
il mondo fittizio, di visioni piuttosto che di realtà, nel quale
vivevano il re e la Corte e nel quale continuarono a vivere,
malgrado i brevi momenti di risveglio, sino al giorno in cui
dovettero salire al patibolo...
E come si disegnano già i caratteri! Il re, ipnotizzato dal suo
potere assoluto e sempre pronto per ciò a fare il passo che
provocherà la catastrofe. Poi, quando questa arriva, egli vi oppone
la sua inerzia – null'altro – e finalmente cede, per la forma,
proprio quando lo si ritiene più ostinato che mai a resistere. La
regina viziosa, cattiva sino nelle più profonde latebre del suo
cuore di sovrana assoluta, spinge alla catastrofe, resiste un po'
con petulanza agli avvenimenti; poi si rassegna di colpo a cedere,
per darsi di nuovo alle sue fanciullaggini di cortigiana. E i
principi? Instigatori di tutte le più funeste risoluzioni del re, lo
lasciano al primo insuccesso, emigrano, abbandonano la Francia
immediatamente dopo la presa della Bastiglia, per andare a tramare
le rivincite in Germania e in Italia! Come tutti questi caratteri si
delineano rapidamente in pochi giorni, dall'8 al 15 luglio!
Dall'opposta riva, ecco il popolo, col suo slancio, col suo
entusiasmo, colla sua generosità, pronto sempre a farsi massacrare
per il trionfo della Libertà, ma nello stesso tempo docile a essere
condotto, pronto a lasciarsi governare dai nuovi padroni stabilitisi
al Palazzo di Città. Il popolo, che pur comprende così bene le
insidie della Corte e vede meglio dei più perspicaci dentro il
complotto che si macchinava dalla fine di giugno, si lascia prendere
nel tempo stesso da un nuovo complotto – quello cioè delle classi
abbienti, che faranno, tra poco, rientrare nei loro tuguri gli
affamati, gli uomini dalle picche, ai quali i borghesi erano ricorsi
per qualche ora, quando si trattava di opporre alla forza
dell'esercito la forza dell'insurrezione popolare.
Finalmente, già dai primi giorni, l'esame della condotta della
borghesia ci fa vedere di scorcio i grandi drammi futuri della
Rivoluzione. Il 14, mentre la dinastia perde gradualmente il suo
carattere minaccioso, è il popolo che inspira sempre più paura ai
rappresentanti del Terzo, riuniti a Versaglia, e nonostante le
veementi parole di Mirabeau, pronunciate a proposito della festa
datasi l'antivigilia all'Orangerie, basta che il re si presenti
all'Assemblea, riconosca l'autorità dei deputati, prometta loro
l'inviolabilità, perchè i deputati stessi scoppino in salve
d'applausi, si commuovano, corrano a improvvisargli una guardia
d'onore nelle strade, elevino per le vie di Versaglia il grido di
Viva il Re! Questo, proprio nel momento in cui il popolo di Parigi
veniva, nel nome di quello stesso re, massacrato, e a Versaglia la
folla minacciava la regina e la Polignac, nella convinzione che il
re avesse ancora una volta giocato d'astuzia.
A Parigi, il popolo non si lasciò convincere dalla promessa del
ritiro delle truppe. Non ci credette. Preferì invece organizzarsi in
una grande Comune insorta e questa, come un comune del medioevo,
prese tutte le necessarie misure di difesa contro il re. Le vie
furono ostruite con trincee e barricate, mentre le pattuglie
percorrevano la città, pronte a suonare a stormo al minimo allarme.
La visita del re non tranquillizzò soverchiamente il popolo. Il 17,
Luigi XVI, vedendosi vinto e abbandonato, decise di recarsi a
Parigi, nel Palazzo di Città, per riconciliarsi colla sua capitale,
e la borghesia cercò di farne un atto memorabile di riconciliazione
fra essa e il re. I rivoluzionari borghesi, dei quali un fortissimo
numero appartenevano alla Massoneria, fecero, colle loro spade,
l'onore della volta d'acciaio all'arrivo del re, e Bailly, nominato
sindaco di Parigi, gli attaccò al cappello la coccarda tricolore. I
borghesi parlarono anche d'innalzare sul posto della Bastiglia
demolita una statua a Luigi XVI; ma il popolo conservò sempre un
atteggiamento riservato e diffidente, che non scomparve neppure dopo
la visita del re al Palazzo di Città. Re della borghesia finchè si
vorrà, ma non mai re del popolo.
La Corte, del resto, comprese assai bene che dopo l'insurrezione del
14 luglio non si sarebbe più conclusa la pace fra la monarchia e il
popolo. La Polignac, malgrado le lacrime di Maria Antonietta, venne
fatta partire per la Svizzera, e all'indomani del 14 luglio i
principi cominciarono a emigrare. Coloro che erano stati l'anima del
colpo di Stato fallito – i principi e i ministri – s'affrettarono ad
abbandonare la Francia. Il conte d'Artois fuggì di notte e temeva
tanto per la sua pelle, che, dopo aver traversato di nascosto la
città, si fece accompagnare per la strada da un reggimento e da due
cannoni. Il re prometteva di raggiungere i suoi cari emigrati alla
prima occasione propizia e già da quel momento fu progettato un
piano, che consisteva nel far fuggire il re all'estero, per
richiamarlo poi in Francia alla testa dell'invasione tedesca.
Infatti, il 16 luglio, tutto era pronto per la sua partenza. Il re
doveva recarsi a Metz, porvisi a capo delle truppe e marciare su
Parigi. Le vetture erano già attaccate, pronte a portare Luigi XVI
verso l'esercito concentrato tra la frontiera e Versaglia. Ma
Broglie si rifiutò di condurre il re a Metz; i principi avevano
troppo fretta di scappare e allora Luigi XVI – come disse egli
stesso più tardi – vedendosi abbandonato dai principi e dai nobili,
rinunciò al progetto di resistenza armata, suggeritogli forse dalla
storia di Carlo I°. Andò invece a Parigi a compiervi l'atto di
sottomissione.
Alcuni storici realisti hanno tentato di mettere in dubbio che la
Corte avesse preparato un colpo di Stato contro l'Assemblea e contro
Parigi. Ma abbondano i documenti per provare invece la realtà del
complotto. Mignet, di cui è ben noto lo spirito moderato e che aveva
il vantaggio di scrivere subito dopo gli avvenimenti, non manifesta
a tal proposito dubbi di sorta, e le ricerche successive hanno
confermato il suo modo di vedere. Il 13 luglio, il re doveva
ripetere la sua dichiarazione del 23 giugno e l'Assemblea doveva
essere sciolta. Erano già stampate quarantamila copie di questa
dichiarazione per mandarle in tutta la Francia. Il comandante
dell'esercito concentrato tra Versaglia e Parigi aveva ricevuto
poteri illimitati per massacrare il popolo e disperdere in caso di
resistenza i membri dell'Assemblea.
Senza chiedere un voto all'Assemblea, si erano fabbricati cento
milioni di biglietti di Stato, per fronteggiare le spese della
Corte. Tutto era preparato, e quando al 12 fu nota l'insurrezione di
Parigi, la Corte considerò l'avvenimento come una probabilità
maggiore di successo. Più tardi, venendo a sapere che l'insurrezione
assumeva proporzioni gigantesche, il re fu ancora in procinto di
partire, lasciando ai suoi ministri il compito di far disperdere
l'Assemblea dalle truppe straniere. Ecco spiegato il terrore grande
che agghiacciò la Corte dopo il 14 luglio, quando si diffuse la
notizia della demolizione della Bastiglia e dell'esecuzione di de
Launey. Allora i Polignac, i principi e molti altri nobili, che
erano stati l'anima del complotto e temevano di esser scoperti,
s'affrettarono a varcare le frontiere.
Ma il popolo vigilava. Esso intuiva vagamente quello che gli
emigrati andavano a cercare oltre il Reno e i contadini arrestavano
i fuggiaschi. Questa sorte toccò, fra gli altri, a Foullon e
Bertier.
Abbiamo già parlato della miseria che desolava Parigi e i dintorni e
degli incettatori, a cui l'Assemblea si rifiutava di chieder conto
dei loro delitti. Fra questi speculatori sulla miseria dei poveri,
conosciutissimo era il Foullon, che aveva accumulato una fortuna
immensa, come finanziere e come intendente dell'esercito e della
marina. Anche il suo odio contro il popolo e la Rivoluzione era ben
noto. Broglie aveva tentato di averlo ministro pel colpo di Stato
del 16 luglio. L'astuto finanziere aveva rifiutato la carica, di cui
forse prevedeva i pericoli, ma non aveva lesinato nel dare consigli.
Era di parere che bisognasse liberarsi con un sol colpo di tutti
coloro che avevano dell'influenza nel campo rivoluzionario.
Dopo la presa della Bastiglia, quando il Foullon seppe in qual modo
era stata trascinata per le vie la testa di de Launey, comprese che
non gli restava che seguire i principi ed emigrare; ma poichè la
sorveglianza dei distretti rendeva malagevole la fuga, egli profittò
della morte di uno dei suoi valletti per farsi creder morto e
sepolto, mentre invece vivo, ma tremante, usciva di Parigi e si
rifugiava in casa di un amico a Fontainebleau.
Ma qui fu scoperto ed arrestato dai contadini che vendicarono su lui
le loro lunghe sofferenze, la loro miseria. Con un fascio di fieno
sulle spalle, – allusione al fieno ch'egli aveva promesso di far
mangiare ai parigini, – l'ignobile incettatore fu trascinato a
Parigi da una moltitudine furiosa. Al Palazzo di Città, Lafayette
tentò di salvarlo, ma il popolo esasperato impiccò Foullon a una
lanterna.
Il suo genero Bertier, complice nello stesso colpo di Stato e
intendente dell'esercito di Broglie, fu arrestato a Compiègne,
trascinato a Parigi, dove stava per essere impiccato alla lanterna,
quando, avendo tentato di resistere per salvare la pelle, fu ucciso.
Altri complici, che si erano incamminati verso le frontiere, furono
arrestati nel nord e nord-est e ricondotti a Parigi.
È facile immaginare il terrore che queste esecuzioni popolari e la
vigilanza delle campagne seminarono in seno ai famigliari della
Corte. La loro arroganza, i loro fieri propositi di resistenza alla
Rivoluzione cadevano spezzati. Di una cosa sola si preoccupavano
ormai: farsi dimenticare. Il partito della reazione era disfatto.
XIV
SOLLEVAZIONI POPOLARI
Parigi, sventando i piani della Corte, aveva inferto un colpo
mortale all'autorità del re. D'altra parte l'apparizione del popolo
stracciato nelle vie, come forza attiva della Rivoluzione, dava un
carattere nuovo, una nuova tendenza egualitaria a tutto il
movimento. I ricchi, i potenti compresero perfettamente il
significato mediato e immediato degli avvenimenti svoltisi a Parigi
nelle storiche giornate del luglio e l'emigrazione, prima dei
principi, poi dei favoriti, degl'incettatori, accentuava, sigillava
la vittoria popolare. La Corte cercava già all'estero l'aiuto contro
la Francia rivoluzionaria.
Tuttavia, se la sollevazione non fosse uscita dalle mura della
capitale, la Rivoluzione non avrebbe mai potuto svilupparsi sino al
punto di abolire interamente gli antichi privilegi. L'insurrezione
nel centro, nella capitale era stata necessaria per colpire il
governo centrale, scuoterlo, demoralizzarne i difensori. Ma per
distruggere la forza del governo nelle provincie, per colpire
l'antico regime nelle sue attribuzioni governative e nei suoi
privilegi economici, occorreva una larga sollevazione di popolo –
nelle città, nei borghi, nei villaggi. Ed è quanto avvenne nel mese
di luglio, in quasi tutta la Francia.
Gli storici che tutti, coscientemente o no, hanno seguito assai da
vicino i Deux Amis de la liberté, fanno generalmente derivare dalla
presa della Bastiglia il movimento delle città e delle campagne.
Queste ultime si sarebbero scosse all'annuncio del successo popolare
di Parigi. Fatto si è che i castelli furono dati alle fiamme e la
sollevazione dei contadini sparse così profondo terrore, che, al 4
agosto, nobili e clero abdicarono i loro diritti feudali.
Tuttavia questa versione non è vera che per metà. Per quanto
riguarda le città, è esatto affermare che un gran numero di
sollevazioni urbane scoppiarono sotto l'influenza della caduta della
Bastiglia. Alcune, come a Troyes il 18 luglio, a Strasburgo il 19, a
Cherbourg il 21, a Rouen il 24, a Maubeuge il 27, seguirono
immediatamente le sollevazioni di Parigi, mentre le altre
continuarono nei successivi tre o quattro mesi, fino a quando
l'Assemblea nazionale non ebbe votato la legge municipale del 14
dicembre 1789, che legalizzava la costituzione di un governo
municipale della borghesia, con una grande indipendenza di fronte al
governo centrale.
Ma per quanto concerne i contadini – risulta evidente che con la
lentezza delle comunicazioni in quell'epoca, i venti giorni che
passarono fra il 14 luglio e il 4 agosto sono assolutamente
insufficenti per spiegare l'influenza della caduta della Bastiglia
sulle campagne e il contraccolpo dell'insurrezione dei contadini
sulle decisioni dell'Assemblea nazionale. Interpretare in tal guisa
gli avvenimenti, significa rimpicciolire la profonda portata del
movimento nelle campagne.
Nella sollevazione dei contadini intesa ad ottenere l'abolizione dei
diritti feudali e l'appropriazione delle terre comunali, tolte dai
signori laici ed ecclesiastici ai comuni rustici già fin dal
diciasettesimo secolo, – c'è l'essenza stessa, il fondo della grande
Rivoluzione. A questo bisogna aggiungere la lotta della borghesia
per i suoi diritti politici. Senza di ciò, la Rivoluzione non
avrebbe mai potuto avere la profondità raggiunta in Francia. Questa
grande sollevazione delle campagne, che cominciò dal gennaio 1789 (e
anzi dal 1788) e durò cinque anni, permise alla Rivoluzione di
compiere tutto il suo immenso lavoro di demolizione, di piantare nel
tempo istesso le prime fondamenta di un regime egualitario, di
sviluppare in Francia lo spirito repubblicano persistito tenace, di
proclamare i grandi principii del comunismo agrario, che noi vedremo
sorgere nel 1793. Questa sollevazione dà insomma il suo speciale
sigillo alla Rivoluzione francese e la distingue profondamente dalla
Rivoluzione inglese del 1648-1657.
Anche in Inghilterra la borghesia distrusse nel volgere di nove anni
il potere assoluto del re e i privilegi politici della camarilla. Ma
ciò che accanto alle conquiste d'ordine politico costituisce il
carattere distintivo della Rivoluzione inglese, è la lotta per il
diritto di ogni individuo di professare la religione che vuole,
d'interpretare la Bibbia secondo la sua concezione personale,
d'eleggersi i suoi pastori – insomma il diritto dell'individuo allo
sviluppo e alla libertà intellettuale e religiosa. E ancora il
diritto d'autonomia di ogni parocchia e – conseguentemente –
dell'agglomerazione urbana. Ma i contadini inglesi non si
sollevarono così generalmente e pertinacemente come in Francia, per
abolire i cànoni feudali e le decime o per riprendere le terre
comunali, e se le bande di Cromwell demolirono un certo numero di
castelli, che costituivano delle vere fortezze per la feudalità,
esse non attaccarono però – disgraziatamente – nè le pretese feudali
dei signori sulla terra, nè il diritto di giustizia feudale che i
signori esercitavano sui loro vassalli. Per questo la Rivoluzione
inglese, che pure conquistò diritti preziosi per l'individuo, non
distrusse il potere feudale del signore; non fece che modificarlo,
sempre però conservandogli i suoi diritti sulle terre, diritti in
vigore tuttora.
La Rivoluzione inglese organizzò senza dubbio il potere politico
della borghesia; ma questo potere fu ottenuto dividendolo insieme
coll'aristocrazia fondiaria. E se la Rivoluzione aperse per la
borghesia inglese un'era di prosperità per il commercio e
l'industria, detta prosperità fu ottenuta al patto che la borghesia
non avesse attaccato i privilegi fondiari dei nobili. Anzi, l'aiutò
ad accrescerli, almeno di valore. Essa aiutò i signori a
impadronirsi legalmente delle terre comunali per mezzo del bornage
(gli Enclosure Acts), la qual cosa ridusse le popolazioni agricole
alla miseria, le mise in balìa del signore, ne forzò gran parte a
emigrare verso le città, dove i proletari furono sfruttati a dovere
dai borghesi industriali. La borghesia inglese aiutò la nobiltà a
fare dei suoi immensi possessi fondiari non solo una sorgente di
redditi, spesso favolosi, ma anche un mezzo di dominazione politica
e giuridica locale, ristabilendo sotto nuove forme il diritto di
giustizia signorile. La borghesia inglese aiutò la nobiltà a
decuplare i suoi redditi, lasciandole (per gli effetti di una
ingombrante legislazione sulla vendita delle terre) il monopolio
della terra, di cui il bisogno si faceva sentire sempre più vivo nel
seno di una popolazione che aumentava il suo commercio e la sua
industria.
Oggi è noto che la borghesia francese, specie l'alta borghesia
industriale e commerciale, voleva imitare la borghesia inglese nella
sua rivoluzione. Anch'essa avrebbe volontieri patteggiato colla
dinastia e la nobiltà, pur di arrivare al potere. Ma non ci riuscì
perchè – fortunatamente – la base della Rivoluzione francese era ben
più larga di quella inglese. Il movimento, in Francia, non ebbe solo
di mira la conquista della libertà religiosa, commerciale,
industriale dell'individuo, oppure solo la conquista dell'autonomia
municipale fra le mani dei borghesi. Fu soprattutto una sollevazione
di contadini; un movimento di popolo per ritornare in possesso della
terra e liberarla dalle obbligazioni feudali che la gravavano, e se
in questo movimento c'era un forte elemento individualista – il
desiderio di possedere individualmente la terra – ce n'era pure un
altro comunista: il diritto di tutta la nazione alla terra, –
diritto che noi vedremo altamente proclamato dai poveri nel 1793.
Ecco perchè si rimpicciolirebbe stranamente la portata della
sollevazione agraria dell'estate 1789, volendo interpretarla come un
episodio di breve durata, provocato dall'entusiasmo per la
demolizione della Bastiglia.
XV
LE CITTÀ
Al diciottesimo secolo, dopo tutte le misure che l'autorità
monarchica aveva prese da duecent'anni contro le istituzioni
municipali, queste erano in piena decadenza. Da quando era abolita
l'assemblea plenaria degli abitanti della città, che possedeva un
tempo il controllo della giustizia e dell'amministrazione urbana,
gli affari delle grandi città andavano di male in peggio. Le cariche
di «consiglieri di città», istituite nel diciottesimo secolo,
dovevano essere comperate al Municipio e spesso il mandato
acquistato era vitalizio (Babeau, La ville sous l'ancien régime, p.
153 e seguenti) Le riunioni dei Consigli si facevano di rado – una
volta ogni sei mesi in certe città – e non eran neppure frequentate
regolarmente. Il cancelliere mandava avanti tutta la macchina e non
trascurava generalmente di farsi lautamente pagare dagli
interessati. I procuratori e gli avvocati, e più ancora l'intendente
della provincia, intervenivano continuamente per prevenire qualsiasi
autonomia municipale.
In tali condizioni, gli affari della città si concentravano nelle
mani di cinque o sei famiglie, che facevano alto e basso su tutti i
cespiti d'entrata. Tutto giovava ad arricchirle: i redditi
patrimoniali, che alcune città avevano conservato, l'entrata sul
dazio, il commercio della città, le imposte. Inoltre i sindaci
trafficavano granaglie e carni e diventavano in breve incettatori.
Generalmente, essi erano odiati dalla popolazione operaia. La
servilità dei sindaci, dei consiglieri, degli scabini verso il
«Signor Intendente» era tale, che il minimo capriccio di costui
veniva obbedito. E le sovvenzioni della città per alloggiare
l'intendente, per aumentare i suoi stipendi, per fargli dei regali,
per tenergli i figli al fonte battesimale, ecc., aumentavano sempre
– senza contare i regali che ogni anno bisognava mandare a diversi
personaggi di Parigi.
Nelle città, come nelle campagne, vigevano i diritti feudali. Erano
annessi alle proprietà. Il vescovo rimaneva signore feudale, e i
signori, laici od ecclesiastici – come ad esempio i cinquanta
canonici di Brioude – conservavano non solo dei diritti onorifici, o
il diritto d'intervento nella nomina degli scabini, ma anche, in
certe città, il diritto di giustizia. Ad Angers, c'eran sedici
giustizie signorili. Digione, oltre la giustizia municipale, aveva
conservato sei giustizie ecclesiastiche: «il vescovado, il capitolo,
i religiosi di San Benigno, la Santa Cappella, la Certosa e la
commenda della Maddalena». Tutta questa gente ingrassava in mezzo a
un popolo semi-affamato. Troyes aveva nove di queste giustizie,
oltre a «due municipalità regie». Così la polizia non sempre
apparteneva alla città, ma a coloro che esercitavano «la giustizia».
Insomma, il sistema feudale era sempre in vigore38.
Ma la collera dei cittadini era particolarmente eccitata dal fatto,
che ogni genere di imposte feudali, la capitazione, i ventesimi,
frequentemente la taglia e «i doni gratuiti» (imposti nel 1758 e
aboliti solo nel 1789), come pure i lods et ventes, cioè le tasse
prelevate dai signori in caso di compra o vendita fatta dai loro
vassalli, – pesavano sulle case dei cittadini e soprattutto su
quelle degli artigiani. Forse meno gravi che nelle campagne, esse
pesavano tuttavia assai sensibilmente a lato di tutte le altre
imposte urbane.
Da ultimo, ciò che rendeva ancor più detestabili queste imposte, era
l'esenzione reclamata da centinaia di privilegiati, quando la città
ne faceva la ripartizione. Il clero, i nobili, gli ufficiali
dell'esercito, ne erano esenti per diritto, così come gli «ufficiali
di casa reale», scudieri onorari e altri, che comperavano queste
«cariche» senza servizi, tanto per lusingare il loro orgoglio e
liberarsi dalle imposte. L'indicazione del titolo, messa sulla
porta, bastava per non pagar nulla alla città. Si comprende
facilmente l'odio che questi privilegiati inspiravano al popolo.
Tutto il regime municipale doveva essere riorganizzato. Ma chi sa
quanto tempo ancora avrebbe durato, se la cura di riformarlo fosse
stata lasciata all'Assemblea costituente. Per fortuna il popolo
stesso se ne incaricò, tanto più che nel corso dell'estate del 1789,
una nuova causa di malcontento s'aggiunse a tutte le altre che
abbiamo enumerate, e cioè la carestia, i prezzi esorbitanti del pane
e la mancanza del pane, di cui soffrivano le classi povere in quasi
tutte le città. Anche là dove la municipalità faceva tutto il
possibile per abbassare il prezzo con acquisti di granaglie, o con
una tassa regolatrice dei prezzi, – il pane mancava sempre e il
popolo affamato faceva la coda davanti alle porte dei fornai.
Ma in parecchie città il sindaco e gli scabini imitavano la Corte e
i principi e speculavano, anch'essi, sulla carestia. Per questo, non
appena si diffuse in provincia la notizia della presa della
Bastiglia e dell'esecuzione di Foullon e Bertier, il popolo delle
città cominciò a sollevarsi. Esigeva anzitutto una tassa sul pane e
la carne; demoliva le case dei principali incettatori – spesso degli
ufficiali municipali; s'impadroniva del Palazzo di Città e nominava
– con elezioni a suffragio popolare – una nuova municipalità, senza
badare alle prescrizioni della legge, nè ai diritti legali
dell'antico corpo municipale o alle «cariche» comperate dai
«consiglieri». Si produceva in tal guisa un movimento rivoluzionario
del più gran valore, poichè la città affermava non solo la sua
autonomia, ma anche la sua volontà di prendere una parte attiva al
governo generale della nazione. Come l'ha notato molto bene
Aulard39, era quello un movimento comunalista della più grande
importanza, col quale la provincia imitava Parigi che, come si è
detto, aveva costituita la Comune il 13 luglio. Evidentemente,
questo moto non si generalizzò. Si produsse con qualche fragore in
un certo numero di città e di piccole città – soprattutto nell'est
della Francia. Ma dovunque la vecchia municipalità dell'antico
regime dovette sottomettersi alla volontà del popolo, o, almeno,
alla volontà delle assemblee locali d'elettori. È così che si compiè
dapprima nel fatto – in luglio e in agosto – quella rivoluzione
comunalista che l'Assemblea costituente legalizzò più tardi colle
leggi municipali del 14 dicembre 1789 e del 21 giugno 1790. Questo
movimento diede per certo alla Rivoluzione un possente elemento di
vita e di vigore. Tutta la forza della Rivoluzione si concentrò – e
noi lo vedremo nel 1792 e nel 1793 – nelle municipalità delle città
e dei villaggi, per le quali fu prototipo la Comune rivoluzionaria
di Parigi.
Il segnale di questa ricostruzione partì da Parigi senza aspettare
la legge municipale, che l'Assemblea avrebbe finito col votare.
Parigi diede a sè stessa la Comune. Nominò il suo Consiglio
municipale, il suo sindaco Bailly e il suo comandante della guardia
nazionale, Lafayette. Meglio ancora: Parigi organizzò i suoi
sessanta distretti – «sessanta repubbliche», secondo la felice
espressione di Montjoie ; poichè se questi distretti hanno delegato
l'autorità all'assemblea dei rappresentanti della Comune e al
sindaco, essi l'hanno nello stesso tempo rivendicata per sè:
«L'autorità è dovunque», diceva Bailly, e non ce n'è affatto al
centro. «Ogni distretto è un potere indipendente», constatano con
dispiacere gli amici dell'allineamento, senza capire che solo in
questo modo si fanno le rivoluzioni.
E quando mai l'Assemblea nazionale, che era sempre in procinto di
essere disciolta ed aveva tante cose da fare, quando avrebbe potuto
affrontare la discussione della legge sulla riorganizzazione dei
tribunali? Non vi riuscì che dopo trascorsi ben diciotto mesi. Ma il
distretto dei «Petits-Augustins», già dal 18 luglio, «decreta da
solo», dice Bailly, nelle sue Mémoires, che saranno «istituiti dei
giudici di pace». Senza por tempo in mezzo, procede alla loro
elezione. Altri distretti e altre città (specialmente Strasburgo)
fanno lo stesso, e quando verrà la notte del 4 agosto e i signori
saranno costretti ad abdicare i loro diritti di giustizia signorile,
quest'abolizione sarà già un fatto compiuto in parecchie città: il
popolo avrà già nominato i nuovi giudici e l'Assemblea costituente
non dovrà che inscrivere nella Costituzione del 1791 il fatto
compiuto.
Taine e tutti gli ammiratori dell'ordine amministrativo dei
ministeri sonnolenti sono scandalizzati, non v'è dubbio, dallo
spettacolo di questi distretti che precorrono coi loro voti
l'Assemblea, indicandole, colle loro decisioni, la volontà del
popolo; ma gli è in questo modo che si sviluppano le istituzioni
umane, quando non sono un prodotto della burocrazia. È in tal guisa
che sono state edificate le grandi città, e non diversamente si
costruiscono ancora. Qui, un gruppo di case e alcune botteghe al
fianco: sarà questo un punto importante della futura città; là, una
linea che si profila appena: sarà una delle grandi vie future.
L'evoluzione anarchica sola è quella che si vede nella libera
Natura. Lo stesso accade delle istituzioni quando sono un prodotto
organico della vita, e l'immensa importanza delle rivoluzioni nella
vita delle società sta appunto in ciò ch'esse permettono agli uomini
di applicarsi a questo lavoro organico, costruttivo, senza essere
ostacolati nella loro opera da un'autorità che di necessità
rappresenta sempre i secoli passati.
Gettiamo dunque un colpo d'occhio su qualcuna di queste rivoluzioni
comunali.
Nel 1789, le notizie si diffondevano con una lentezza che ci sembra
inconcepibile oggi. Così, a Château-Thierry il 12 luglio, a Besançon
il 27, Arturo Young non trovava neppure un caffè, neppure un
giornale. Le notizie di cui si parlava erano vecchie di quindici
giorni. Nessuno sapeva niente a Digione, nove giorni dopo la grande
insurrezione di Strasburgo e la presa del Palazzo di Città da parte
degli insorti. Ma le notizie che venivano da Parigi, anche quando
assumevano un carattere leggendario, non potevano che spingere il
popolo all'insurrezione. Tutti i deputati, si diceva, erano stati
incarcerati alla Bastiglia; e quanto alle «atrocità» che Maria
Antonietta avrebbe compiute, tutti ne parlavano colla più grande
certezza.
A Strasburgo, i torbidi cominciarono al 19 luglio, non appena si
diffuse in città la notizia della presa della Bastiglia e
dell'esecuzione di de Launey. Il popolo era già irritato contro il
Magistrato (consiglio municipale) a cagione del ritardo ch'egli
aveva frapposto prima di comunicare ai «rappresentanti del popolo»,
cioè agli elettori, i risultati delle sue deliberazioni sul quaderno
di reclami redatto dai poveri. Allora la folla si rovescia sulla
casa del sindaco, Lemp, e la devasta.
Mediante l'organo della sua «Assemblea della borghesia», il popolo
domandava (cito testualmente) delle misure «per assicurare
l'eguaglianza politica dei cittadini e la loro influenza nelle
elezioni degli amministratori del bene comune e dei suoi giudici
liberamente eleggibili.»40 Esigeva che non si tenesse conto della
legge, e che una nuova municipalità, come pure nuovi giudici,
venissero eletti col suffragio universale. Il Magistrato, ossia il
governo municipale, dal canto suo, non lo voleva affatto e «opponeva
la consuetudine di parecchi secoli al cambiamento proposto». E
allora il popolo assediò il Palazzo di Città e una grandine di
pietre cominciò a piovere sulla sala dove avevano luogo le
trattative fra il Magistrato e i rappresentanti rivoluzionari. Il
Magistrato cedette.
Nel frattempo, vedendo i miserabili discendere nella strada, la
borghesia agiata s'armava contro il popolo e si presentava dal
comandante della provincia, il conte Rochambeau, «per ottenere il
suo beneplacito onde la buona borghesia sia armata e unita colle
truppe per il servizio di polizia», – permesso che lo stato maggiore
della truppa, imbevuto d'idee aristocratiche, s'affrettò di
rifiutare, come aveva fatto de Launey alla Bastiglia.
All'indomani, essendo corsa in città la voce che il Magistrato aveva
revocate le sue concessioni, il popolo ritornò all'assalto del
Palazzo di Città, domandando l'abolizione dei dazi e degli uffici
delle gabelle. Dal momento che lo si era ottenuto a Parigi, lo si
poteva ottenere anche a Strasburgo. Verso le sei, masse «d'operai
armati di scuri e di martelli» s'avanzarono per tre strade verso il
Palazzo di Città. Ne sfondarono le porte colle scuri, apersero i
locali sotterranei e si posero a distruggere con accanimento tutte
le vecchie carte accumulate negli uffici. «Un furore barbaro s'è
sfogato sulle carte sono state gettate tutte dalle finestre» e
distrutte, scrive il nuovo Magistrato. Le porte doppie di tutti gli
archivi furono sfondate per bruciare i vecchi documenti e nell'odio
che nutriva contro al Magistrato, il popolo spezzava perfino i
mobili del Palazzo di Città e li gettava fuori. La camera della
cancelleria, «il deposito delle masse in litigio» ebbero la stessa
sorte. All'ufficio di riscossione delle gabelle, le porte furono
sfondate e saccheggiato l'incasso. La truppa chiamata dinnanzi al
Palazzo di Città non poteva far nulla: il popolo faceva ciò che
voleva.
Il Magistrato, preso dal terrore, s'affrettò a diminuire il prezzo
della carne e del pane: mise a dodici soldi la micca di sei
libbre41. Poi iniziò amichevoli trattative colle venti «tribù», o
ghilde, delle città per elaborare una nuova costituzione municipale.
Bisognava spicciarsi, poichè le sommosse continuavano a Strasburgo e
nelle podesterie vicine, dove il popolo destituiva i prevosti
«stabiliti» dai comuni e ne nominava altri di sua volontà,
formulando al tempo istesso «delle domande sulle foreste e altri
diritti, in opposizione diretta a un possesso legittimamente
acquistato. È un momento in cui ognuno si crede in facoltà di
procurarsi la restituzione di pretesi diritti», dice il Magistrato
nella lettera del 5 agosto.
In tal frangente, l'11 agosto, arriva a Strasburgo la notizia della
notte del 4 agosto, all'Assemblea, e la sommossa prende un carattere
più minaccioso in quanto che l'esercito pure fraternizza cogli
insorti. Allora l'antico Magistrato si decide a rassegnare i suoi
poteri (Reuss, L'Alsace, p. 147). All'indomani, il 12 agosto, i
trecento scabini deponevano alla loro volta le «cariche», o
piuttosto i loro privilegi.
E i nuovi scabini nominavano a loro volta i giudici. Così si
costituiva, il 14 agosto, un nuovo Magistrato, un Senato interinale,
che doveva dirigere gli affari della città, sino a quando
l'Assemblea di Versaglia non avesse stabilito una nuova costituzione
municipale. Senza aspettare questa costituzione, Strasburgo aveva
deciso del Comune e dei giudici a suo piacimento.
L'antico regime crollava dunque a Strasburgo, e il 17 agosto,
Dietrich felicitava i nuovi scabini nei termini seguenti:
«Signori, la rivoluzione testè compiuta nella nostra città segnerà
l'epoca del ritorno della fiducia che deve unire i cittadini di uno
stesso comune... Questa augusta assemblea ha ricevuto il voto libero
dei suoi concittadini per essere il loro rappresentante... Il primo
impiego che avete fatto dei vostri poteri è stato quello di nominare
i vostri giudici... Qual forza scaturirà da questa unione!» E
Dietrich proponeva di stabilire che ogni anno fosse festeggiato
nella città di Strasburgo il 14 agosto, giorno della rivoluzione.
Fatto importante da segnalare in questa rivoluzione. La borghesia di
Strasburgo s'era affrancata dal regime feudale ed aveva eletto un
governo municipale, democratico. Ma essa non intendeva affatto di
rinunciare ai diritti feudali (patrimoniali), che le spettavano su
certe campagne nei dintorni. Allorquando all'Assemblea nazionale,
nella notte del 4 agosto, i due deputati di Strasburgo furono
sollecitati dai loro colleghi di rinunciare ai loro diritti, si
rifiutarono di farlo.
E quando, più tardi, uno di questi deputati (Schwendt) insistè
presso i borghesi di Strasburgo, pregandoli di non opporsi alla
corrente della Rivoluzione, i suoi mandanti continuarono egualmente
a reclamare il mantenimento dei loro diritti feudali. Si vede in tal
guisa formarsi a Strasburgo, sin dall' 89, un partito che si unirà
col re – «il migliore dei re», «il più conciliante dei monarchi» –
nell'intento di conservare ì diritti su «le ricche signorie», che
sotto il diritto feudale appartenevano alla città. La lettera
(pubblicata da Reuss) colla quale l'altro deputato di Strasburgo,
Türckheim, dopo essere scappato da Versaglia il 5 ottobre, rassegnò
le sue dimissioni, è un documento – sotto tale aspetto – della più
alta importanza. Si prevede già come e perchè la Gironda riunirà
sotto la sua bandiera borghese i «difensori della proprietà» e, al
tempo istesso, i realisti.
Gli avvenimenti di Strasburgo offrono un'idea abbastanza chiara di
quanto accadeva in altre grandi città. Così a Troyes, città per la
quale abbiamo pure dei documenti abbastanza completi, il movimento è
composto degli stessi elementi. Il popolo, aiutato dai contadini
vicini, si solleva sin dal 18 luglio – non appena si viene a sapere
che a Parigi sono stati incendiati i dazi. Il 20 luglio, dei
contadini, armati di forche, di falci e di spranghe, entrano in
città, probabilmente per impossessarsi del grano che manca, perchè è
accumulato dagli incettatori nei loro magazzini. Ma la borghesia si
costituisce in guardia nazionale e respinge i contadini – ch'essa
chiama di già «briganti». Durante i dieci o quindici giorni che
seguono, approfittando del panico che si diffonde (si parla di 500
«briganti» usciti da Parigi per devastare tutto), la borghesia
organizza la sua guardia nazionale e tutte le piccole città s'armano
egualmente. Ma allora il popolo è malcontento. L'8 agosto,
probabilmente alla notizia della notte del 4 agosto, il popolo
domanda delle armi per tutti i volontari e una tassa pel pane. La
Municipalità esita. Allora, il 19 agosto, la si destituisce e si
elegge, come a Strasburgo una nuova Municipalità.
Il popolo invade il Palazzo di Città, s'impadronisce delle armi e se
le divide. Forza il granaio della gabella, ma anche qui non lo
saccheggia: «si fa consegnare il sale a sei soldi». Finalmente, il 9
settembre, la sommossa, che non era mai cessata dal 19 agosto,
raggiunge il suo punto culminante. La folla s'impadronisce del
sindaco Huez, che accusa di aver preso la difesa dei commercianti
incettatori e lo uccide. Pone a sacco la sua casa, al pari di quelle
di un notaio, del vecchio comandante Saint-Georges che, quindici
giorni prima, aveva fatto tirare sul popolo, del luogotenente della
gendarmeria che aveva fatto impiccare un uomo durante una precedente
sommossa e minaccia (come lo si era fatto a Parigi dopo il 14
luglio) di saccheggiare ancora moltissime altre case. Dopo questi
avvenimenti, per quindici giorni, il terrore domina l'alta
borghesia. Ma questa nel frattempo riesce ad organizzare la guardia
nazionale, e il 26 settembre finisce col prendere il sopravvento sul
popolo disarmato.
In generale, pare che il furore del popolo si dirigesse tanto contro
i rappresentanti borghesi che incettavano le derrate, quanto contro
i signori che accaparravano le terre. Così, ad Amiens, come a
Troyes, poco mancò che il popolo non uccidesse tre negozianti, per
cui la borghesia s'affrettò ad armare la sua milizia. Si può anzi
affermare che questa creazione di milizie nelle città – che avvenne
dovunque in agosto e settembre – non ci sarebbe forse stata, se la
sollevazione popolare si fosse limitata alle campagne e fosse stata
diretta solo contro i signori. Minacciata dal popolo nella sua
fortuna, la borghesia senza aspettare le decisioni dell'Assemblea,
costituì, a simiglianza dei Trecento di Parigi, le sue municipalità,
nelle quali, per forza, fu costretta ad ammettere dei rappresentanti
del popolo insorto.
A Cherbourg il 21 luglio, a Rouen il 24, e in molte altre città di
minore importanza, accadono le stesse cose. Il popolo affamato si
solleva al grido di: Pane! Morte agli incettatori! Abbasso i dazi!
(il che significa: libera entrata delle provvigioni provenienti
dalla campagna). Costringe la municipalità a ribassare il prezzo del
pane, oppure s'impadronisce dei magazzini degli incettatori e ne
porta via il grano saccheggia le case di coloro che sono conosciuti
per aver speculato sui prezzi delle derrate. La borghesia profitta
di questo movimento per abbattere l'antico governo municipale,
imbevuto di feudalismo, e per nominare una nuova municipalità,
eletta sopra una base democratica. Nello stesso tempo, servendosi
del panico suscitato dalla sollevazione del «basso popolo» nelle
città e dei «briganti» nelle campagne, la borghesia si arma e
organizza la sua guardia municipale. Dopo ciò, essa «ristabilisce
l'ordine», giustizia i sobillatori popolari e assai spesso va a
ristabilir l'ordine nelle campagne, dov'essa dà battaglie ai
contadini e fa impiccare – sempre impiccare – i «sobillatori» dei
contadini insorti.
Dopo la notte del 4 agosto, queste insurrezioni urbane si diffondono
ancor più. Scoppiano un po' dovunque. Tasse, dazi, sussidi, gabelle
non sono più pagati. I ricevitori della taglia sono in una
situazione disperata, dice Necker nel suo rapporto del 7 agosto. È
stato necessario ridurre di metà il prezzo del sale in due
generalità insorte; la riscossione delle gabelle non si fa più e
così via. «Un'infinità di luoghi» sono in rivolta contro il fisco.
Il popolo non vuol più pagare l'imposta indiretta; quanto alle
imposte dirette, esse non sono rifiutate – anzi; ma sotto
condizione. In Alsazia, per esempio, «il popolo si è generalmente
rifiutato di pagare checchessia, prima che non siano inscritti nei
ruoli delle tasse gli esentati e i privilegiati».
È così che il popolo, ben prima dell'Assemblea, fa la rivoluzione
sui luoghi, si dà rivoluzionariamente una nuova amministrazione
comunale, distingue fra le imposte che accetta e quelle che rifiuta
di pagare e detta il modo di ripartizione egualitaria di quelle che
pagherà allo Stato o al Comune.
È soprattutto studiando questo modo d'agire del popolo e non
ingolfandosi nello studio dell'opera legislativa dell'Assemblea, che
si afferra il genio della grande Rivoluzione – il genio, in fondo,
di tutte le rivoluzioni passate e future.
XVI
LA SOLLEVAZIONE DEI CONTADINI
Abbiam già detto che sin dall'inverno 1788 e soprattutto dal marzo
1789 il popolo non pagava più i cànoni ai signori. Che fosse stato
incoraggiato all'uopo da rivoluzionari borghesi, è verissimo: tra la
borghesia del 1789 c'erano molti uomini che comprendevano essere
impossibile la demolizione del potere assoluto senza una
sollevazione popolare. Che le discussioni delle Assemblee dei
Notabili, nelle quali si parlò dell'abolizione dei diritti feudali,
abbiano incoraggiato la sommossa e che la redazione, nelle
parocchie, dei quaderni (che dovevano servire di guida pei
rappresentanti alle prime elezioni) abbia fomentato il movimento –
ciò si comprende. Le rivoluzioni non sono mai un risultato della
disperazione, come pensano spesso i giovani rivoluzionari, i quali
generalmente credono che dall'eccesso del male possa uscire il bene.
Al contrario, il popolo, nel 1789, aveva intravveduto un'alba di
liberazione prossima e per questo insorgeva con maggior entusiasmo e
più coraggio. Ma non basta sperare, occorre agire; bisogna pagare
colla vita le prime rivolte che preparano le rivoluzioni ed è quanto
il popolo fece.
I contadini si ribellano già, sebbene allora la sommossa fosse
punita con la gogna, con la tortura, con la impiccagione. Sin dal
novembre 1788, gli intendenti scrivevano al ministro che non sarebbe
stato più possibile, anche volendolo, di reprimere tutte le rivolte.
Prese ad una ad una, la loro importanza non era grande; ma tutte
insieme minavano nelle sue fondamenta lo Stato.
Nel gennaio 1789, si scrivevano i quaderni delle lagnanze e si
facevano le elezioni – e d'allora i contadini cominciarono a
rifiutare le corvées al signore e allo Stato. Si formarono tra di
loro associazioni segrete e qua e là accadeva che qualche signore
fosse giustiziato dai Jacques. Qui, i ricevitori delle imposte
venivan ricevuti a bastonate; altrove, s'invadevano e si lavoravano
le terre dei signori.
Di mese in mese queste rivolte si moltiplicavano. Nel mese di marzo
tutto l'Est della Francia è già in rivolta. Certo, il movimento non
era nè continuo, nè generale. Una sollevazione agraria non lo è mai.
È inoltre assai probabile – come accade sempre nelle insurrezioni
dei contadini – che ci sia stato un momento di sosta nelle sommosse
all'epoca dei lavori nei campi, in aprile, e poi all'inizio dei
raccolti. Ma non appena furono terminati i primi raccolti, nelle
seconda metà del luglio 1789 e in agosto, le sollevazioni ripresero
nuova forza, specie nell'est, nord-est, sud-est di Francia.
I documenti precisi concernenti queste sollevazioni ci mancano.
Quelli pubblicati sono molto incompleti e la maggior parte di essi
porta le traccie dello spirito di parte. Se ci rivolgiamo al
Moniteur, che, come si sa, iniziò le sue pubblicazioni solo il 24
novembre 1789, per cui i 93 numeri dall'8 maggio al 23 novembre 1789
sono stati fabbricati più tardi nell'anno IV42, troviamo una
tendenza a dimostrare che tutto il movimento fu l'opera dei nemici
della Rivoluzione, gente senza cuore che profittava dell'ignoranza
dei campagnuoli. Altri giungono a dire che sono stati i nobili, i
signori, forse gli stessi inglesi, i sobillatori dei contadini.
Quanto ai documenti, pubblicati nel gennaio 1790 dal Comitato delle
ricerche, tendono soprattutto a rappresentare tutto l'affare come un
malinteso, come una impresa di briganti devastatori delle campagne,
sterminati di poi dalla borghesia che aveva impugnato le armi.
Si capisce oggi quanto sia falsa questa maniera di presentare gli
avvenimenti, ed è certo che se qualcuno si prenderà un giorno la
briga di spogliare gli archivi e di studiare a fondo i documenti che
vi si trovano, potrà fare opera di grande valore: opera tanto più
necessaria in quanto che le sollevazioni dei contadini continuarono
sino all'abolizione dei diritti feudali, decretata dalla Convenzione
nel mese d'agosto del 1793, sino a quando i comuni non ebbero
ottenuto il diritto di riprendere le terre comunali, che erano state
rapite loro nei due secoli precedenti. Per il momento, non essendo
fatto questo lavoro negli archivi, noi dobbiamo contentarci di
spigolare nelle storie locali, in certe Memorie e da qualche autore
– spiegandoci tuttavia la sollevazione dell'89 con la luce che su
quella prima esplosione gettano i movimenti – meglio conosciuti –
degli anni che seguono.
È certo che la carestia fu una delle prime ragioni dei torbidi. Ma
il loro motivo principale era l'abolizione dei cànoni feudali,
consegnati nei catasti, come pure delle decime, e il desiderio di
impadronirsi della terra.
Queste sommosse presentano inoltre un segno caratteristico. Restano
isolate nel centro della Francia, nel Mezzogiorno e nell'Ovest,
salvo la Brettagna. Ma sono generali nell'Est, Nord-Est e Sud-Est, e
soprattutto nel Delfinato, nella Franca Contea, nel Mâconnais. Nella
Franca Contea quasi tutti i castelli vennero bruciati, dice Doniol
(La Révolution française et la féodalité, pag. 48); tre castelli su
cinque furono saccheggiati nel Delfinato. Poi vengono l'Alsazia, il
Nivernese, il Beaujolais, la Borgogna, l'Alvernia. In generale, come
l'ho già fatto notare altrove, se si tracciano sopra una carta le
località dove si produssero le sollevazioni, questa carta offrirà
una rassomiglianza straordinaria colle carte dei
«trecentosessantatrè», pubblicate nel 1877, dopo le elezioni che
affermarono la terza repubblica. Fu la parte orientale delle Francia
che sposò soprattutto la causa della Rivoluzione e questa stessa
parte è pure la più progredita ai giorni nostri.
Doniol ha molto giustamente osservato che l'origine di queste
sollevazioni era già nei quaderni che furono scritti prima delle
elezioni del 1789. Dal momento che i contadini erano stati invitati
a manifestare i loro lagni, essi ritenevano per certo che qualcosa
si sarebbe fatto per loro. La fede che il re, al quale essi avevano
indirizzato le loro suppliche, o l'Assemblea, o qualunque altra
forza verrebbe in loro aiuto, o almeno li lascerebbe fare s'essi si
fossero per proprio conto ingegnati – è quanto spinse i contadini ad
insorgere, non appena furono fatte le elezioni e prima ancora che si
riunisse l'Assemblea. Allorquando si riunirono gli Stati generali, i
rumori che venivano da Parigi, per quanto fossero vaghi, fecero
necessariamente credere ai contadini che il momento era venuto per
esigere l'abolizione dei diritti feudali e riprendere le terre.
Colle notizie inquietanti che venivano da Parigi e dalle città
insorte bastava, per sollevare i contadini, il minimo appoggio
ch'essi trovavano, sia fra i rivoluzionari, sia fra gli orleanisti,
sia fra non importa quali agitatori. Che in tal frangente si
profittasse del nome del re o dell'Assemblea è certo: moltissimi
documenti parlano di falsi decreti del re o dell'Assemblea diffusi
nei villaggi. In tutte le loro sollevazioni in Francia, in Russia,
in Germania, i contadini hanno sempre cercato di decidere gli
indecisi – dirò di più – di persuadere sè stessi che c'era qualche
forza pronta a sostenerli. Questo dava più omogeneità all'azione e
poi, in caso di sconfitte e persecuzioni, rimaneva sempre una certa
scusante. Si era creduto, e la maggioranza lo aveva sinceramente
creduto, di obbedire ai desideri, se non proprio agli ordini, del re
o dell'Assemblea. Così, non appena nell'estate dell'89 furono
condotti a termine i primi raccolti, non appena fu possibile di
levarsi la fame – dietro ai rumori che da Versaglia e da Parigi
venivano a suscitar le speranze, i contadini insorsero. Marciarono
contro i castelli per distruggervi gli archivi, i ruoli, i titoli, e
incendiavano i castelli stessi qualora i padroni non rinunciassero
ai diritti feudali consegnati negli archivi, nei ruoli, e il resto.
Nei dintorni di Vesoul e di Belfort, la guerra ai castelli
incominciò sin dal 16 luglio, data nella quale il castello di Sancy
e poi quelli di Lure, di Bithaine e di Molans furono saccheggiati.
In breve tutta la Lorena si sollevò. «I contadini, persuasi che la
rivoluzione stava per instaurare l'eguaglianza delle fortune e delle
condizioni, si sono soprattutto diretti contro i signori», dice il
Courrier Français (p. 242 e seguenti). A Saarlouis, a Forbach, a
Sarreguemines, a Phalsbourg, a Thionville, gli agenti di campagna
furono cacciati e i loro uffici vennero saccheggiati e incendiati.
Il sale si vendeva tre soldi la libbra. I villaggi dei dintorni
seguivano le città.
In Alsazia, la sollevazione dei contadini fu quasi generale. Si
constatò che in otto giorni, alla fine di luglio, tre abbazie
vennero distrutte, undici castelli saccheggiati, altri devastati, e
che i contadini avevano asportato e distrutto tutti i registri
catastali. Eguale sorte toccò ai registri delle imposte feudali,
delle corvées e dei cànoni d'ogni specie. In certe località si
formarono delle colonne mobili di contadini, forti di parecchie
centinaia e qualche volta di parecchie migliaia d'uomini venuti dai
villaggi limitrofi; si portavano contro i castelli più forti, li
assediavano, s'impadronivano di tutte le cartaccie e ne facevano dei
fuochi di gioia. Le abbazie venivano devastate e saccheggiate alla
stessa stregua delle case dei ricchi negozianti nelle città. Tutto
fu distrutto all'abbazia di Murbach, che probabilmente aveva tentato
di resistere43.
Nella Franca Contea i primi assembramenti si verificarono a
Lons-le-Saunier, già il 19 luglio, allorquando si conobbero i
preparativi del colpo di Stato e il licenziamento di Necker; ma si
ignorava ancora la presa della Bastiglia, dice Sommier.44 Si
produssero ben presto dei tumulti, e la borghesia nello stesso
giorno armò la sua milizia (con la coccarda tricolore), per
resistere «alle incursioni dei briganti che infestano il reame» (p.
24-25). Di lì a poco incominciò la sollevazione nei villaggi. I
contadini si dividevano i prati e i boschi dei signori. In alcuni
luoghi, forzavano i signori a rinunciare ai loro diritti sulle terre
che altra volta avevano appartenuto ai comuni. Altrove, senz'altra
forma di procedimento, rientravano in possesso delle foreste, un
tempo comunali. Tutti i titoli che l'Abbazia dei Bernardini
possedeva nei comuni limitrofi le furono tolti (Edouard Clerc, Essai
sur l'histoire de la Franche-Comté, 2a edizione, Besançon, 1870). A
Castres le rivolte cominciarono dopo il 4 agosto. Un diritto di
coupe era prelevato in natura – un tanto per sestiere – in questa
città su tutti i grani di provenienza straniera alla provincia. Si
trattava di un diritto feudale che il re affidava a dei privati.
Così non appena si seppero a Castres, il 15, le notizie della notte
del 4 agosto, il popolo insorse reclamando l'abolizione di quel
diritto, e immediatamente la borghesia, che sin dal 5 aveva
costituito la sua guardia nazionale forte di 600 uomini, si mise a
ristabilir «l'ordine». Ma nelle campagne l'insurrezione passava da
villaggio a villaggio e i castelli di Gaix, di Montlédier, la
certosa di Faix, l'abbazia di Vielmur, ecc., vennero saccheggiati e
gli archivi distrutti45.
Nell'Alvernia, i contadini presero molte precauzioni per mettere il
diritto dalla loro parte, e allorquando si recavano al castello per
bruciarvi gli archivi, non negligevano di dire al signore ch'essi lo
facevano per ordine del re46. Ma nelle provincie dell'Est non si
trattenevano dal dichiarare apertamente che il tempo era venuto in
cui il Terzo Stato non permetterebbe più ai nobili e ai religiosi di
dominare. Il potere di queste due classi aveva durato troppo tempo
ed era venuto il momento di abdicare. Per un gran numero di signori
decaduti, impoveriti, residenti in campagna e forse amati nei
dintorni, i contadini insorti ebbero molti riguardi personali. Non
fecero loro alcun male; non toccarono la loro piccola proprietà
personale; ma per i catasti e i titoli di proprietà feudale, essi
furono implacabili. Li bruciavano dopo aver costretto il signore a
giurare di abbandonare i suoi diritti.
Come la borghesia delle città, che sapeva perfettamente ciò che
voleva e ciò che aspettava dalla Rivoluzione, i contadini, essi
pure, sapevano benissimo ciò che volevano: le terre tolte ai comuni
dovevano essere loro restituite e dovevano ad un tempo scomparire
tutti i cànoni nati dal feudalismo. L'idea che tutti i ricchi
debbano scomparire spuntava forse già allora; ma per il momento la
Jacquerie si limitava alle cose e se ci furono dei signori
maltrattati, i casi non frequenti erano provocati dalle accuse di
incetta e di speculazione sulla carestia. Se venivano consegnati i
catasti e se la rinuncia era fatta, tutto procedeva all'amichevole:
si bruciavano i catasti; si piantava «un Maggio» nel villaggio, si
appendevano ai suoi rami gli emblemi feudali47 e si ballava in
circolo attorno all'albero. Ma se, caso diverso, c'era stato della
resistenza, se il signore o il suo intendente avevano chiamato la
gendarmeria a cavallo, se c'era stato uno scambio di colpi di fucile
– allora tutto veniva saccheggiato al castello e spesso vi veniva
appiccato il fuoco. Così trenta furono i castelli saccheggiati o
incendiati nel Delfinato; settantadue nel Mâconnais e nel
Beaujolais; nove solamente in Alvernia, e dodici monasteri e cinque
castelli nel Viennese. Notiamo di sfuggita che i contadini non
facevano distinzioni in fatto di opinioni politiche. Essi assalirono
tanto i castelli dei «patriotti» come quelli degli «aristocratici».
Cosa fece la borghesia di fronte a queste sommosse?
Nell'Assemblea c'era forse un certo numero di uomini, i quali
comprendevano che la sollevazione dei contadini rappresentava in
quel momento una forza rivoluzionaria, ma la massa dei borghesi di
provincia non ci vide che un pericolo contro al quale bisognava
armarsi. «La grande paura», come venne allora chiamata, dominò
veramente un buon numero di città nella plaga delle sollevazioni. A
Troyes, per esempio, dei campagnuoli armati di falci e di spranghe
erano penetrati in città e avrebbero probabilmente saccheggiate le
case degli incettatori, quando la borghesia – «tutto ciò che di
onesto c'è nella borghesia» (Moniteur, I, 378) s'armò contro «i
briganti» e li respinse. Lo stesso accadde in molte altre città. Il
panico invadeva i borghesi. Si aspettavano «i briganti». Se n'erano
visti «sei mila», pronti a tutto saccheggiare, e la borghesia
s'impadroniva delle armi ch'essa trovava al Palazzo di Città o dagli
armaiuoli e organizzava la sua guardia nazionale per paura che i
poveri delle città, fraternizzando coi «briganti», non attaccassero
poi i ricchi.
A Péronne, capitale della Piccardia, gli abitanti erano insorti
nella seconda metà di luglio. Incendiarono le barriere, gettarono
nel fiume gli ufficiali della dogana, s'impadronirono degli incassi
negli uffici dello Stato e liberarono tutti i detenuti delle
prigioni. Tutto ciò avvenne prima del 28 luglio. Nelle notte del 28
luglio, scriveva il sindaco di Péronne, all'arrivo delle notizie di
Parigi, lo Hainault, la Fiandra e tutta la Piccardia hanno preso le
armi; le campane suonavano a stormo in tutte le città e villaggi.
Trecentomila uomini di pattuglie borghesi vegliavano in permanenza –
e tutto ciò per ricevere due mila «briganti» che, si diceva,
percorressero i villaggi, bruciando i raccolti. In fondo, come
qualcuno lo ha detto egregiamente ad Arturo Young, tutti questi
«briganti» non erano che contadini onesti, i quali, dopo essersi
infatti sollevati e armati di forche, di bastoni, di falci,
costringevano i signori ad abdicare ai loro diritti feudali e
fermavano i passeggeri domandando loro se fossero «per la nazione?»
Il sindaco di Péronne l'ha giustamente detto: «Noi vogliamo essere
nel terrore. Grazie ai sinistri rumori, noi possiamo tenere in piedi
un esercito di tre milioni di borghesi e di contadini in tutta la
Francia.»
Adrien Duport, membro assai conosciuto dell'Assemblea e del Club
Bretone, si vantava anzi di aver armato in tal guisa i borghesi in
un gran numero di città. Egli aveva due o tre agenti, «uomini
risoluti, ma oscuri», che evitavano le città, ma, giunti in un
villaggio, annunciavano che «i briganti stavano per venire». Ne
venivano, dicevano questi emissari, cinquecento, mille, tremila,
bruciando i raccolti nei dintorni allo scopo di affamare il
popolo... Allora si suonava a stormo. I contadini s'armavano. E il
rumore cresceva a mano a mano che in tutti i villaggi si suonavano a
stormo le campane; i briganti erano già aumentati a sei mila quando
il rumore sinistro giungeva a una grande città. Erano stati visti a
una lega di distanza, in una foresta – e il popolo e soprattutto la
borghesia s'armavano e mandavano le loro pattuglie nella foresta...
per non scoprirvi nulla. Ma si era armati e attenti al re!
Quand'egli nel 1791 tenterà fuggire, troverà a sbarrargli il cammino
le armate dei contadini.
Si comprende il terrore che queste sollevazioni seminavano in tutta
la Francia; si comprende l'impressione che produssero a Versaglia, e
fu sotto l'impero di questo terrore che l'Assemblea nazionale si
riunì, la sera del 4 agosto, per discutere le misure da prendersi
per soffocare la Jacquerie.
XVII
LA NOTTE DEL 4 AGOSTO E LE SUE CONSEGUENZE
La notte del 4 agosto è una delle grandi date della Rivoluzione.
Come il 14 luglio e il 5 ottobre 1789, il 21 giugno 1791, il 10
agosto 1792 e il 31 maggio 1793, essa segna una delle grandi tappe
del movimento rivoluzionario e ne determina il carattere per il
periodo successivo.
La leggenda storica s'è applicata con amore ad abbellire questa
notte, e la maggior parte degli storici, copiando il racconto che di
essa han dato alcuni contemporanei, la rappresentano come una notte
piena d'entusiasmo e di sacra abnegazione.
«Con la presa della Bastiglia – ci dicono questi storici – la
Rivoluzione aveva guadagnato la sua prima vittoria. La notizia si
diffonde in provincia e dovunque suscita analoghi commovimenti.
Penetra nei villaggi e dietro instigazione di gente d'ogni bassa
specie, i contadini attaccano i loro signori, bruciano i castelli.
Allora, il clero e la nobiltà, presi da uno slancio patriottico,
vedendo che nulla avevano ancora fatto per i contadini, abdicano in
quella notte memorabile i loro diritti feudali. I nobili, il clero,
i più poveri parroci e i più ricchi signori feudali, le città, le
provincie, tutti rinunciano sull'altare della patria ai loro
secolari privilegi. L'entusiasmo s'impadronisce dell'Assemblea,
tutti s'affrettano a compiere il loro sacrificio. «La seduta era una
festa sacra, la tribuna un altare, la sala delle decisioni un
tempio», – dice uno degli storici, quasi sempre abbastanza calmo.
«Fu una notte di San Bartolomeo delle proprietà», dicono gli altri.
«E quando le prime luci del giorno spuntarono all'indomani –
l'antico regime feudale non esisteva più. La Francia era un paese
rigenerato, poichè aveva compiuto un auto-da-fè di tutti gli abusi
delle sue classi privilegiate.»
Ebbene! tutto ciò è leggenda. È vero che un profondo entusiasmo
s'impadronì dell'Assemblea quando due nobili, il visconte di
Noailles e il duca d'Aiguillon, sorsero a chiedere l'abolizione dei
diritti feudali, così come dei diversi privilegi dei nobili, e due
vescovi (quelli di Nancy e di Chartres) parlarono per chiedere
l'abolizione delle decime. È vero che l'entusiasmo andò crescendo da
tutte le parti e che si videro i nobili e il clero contendersi la
tribuna – durante quella seduta notturna – per abdicare alle loro
giustizie signorili; si udì chiedere da parte dei privilegiati la
giustizia libera, gratuita, eguale per tutti; si videro signori
laici ed ecclesiastici rinunciare ai loro diritti di caccia...
L'entusiasmo s'impadronì dell'Assemblea... E in mezzo a questo
entusiasmo non si notò neppure la clausola del riscatto dei diritti
feudali e delle decime, che i due nobili e i due vescovi avevano
introdotto nei loro discorsi: clausola terribile – nella sua stessa
imprecisione – poich'essa poteva significare tutto o nulla – e
sospese intanto, come vedremo, l'abolizione dei diritti feudali per
quattro anni, sino all'agosto del 1793. Ma chi di noi, leggendo il
bel racconto che di quella notte ci han tramandato i contemporanei –
chi di noi non si è sentito entusiasmare? E chi non è sorvolato,
senza comprenderne la terribile portata, su quelle traditrici parole
di «riscatto au denier 30», cioè pagando trenta volte il cànone
dovuto in quell'epoca. È quanto accadde pure in Francia nel 1789.
Anzitutto, la seduta della sera del 4 agosto non cominciò
coll'entusiasmo, ma col panico. Noi abbiamo visto che durante gli
ultimi quindici giorni moltissimi castelli erano stati incendiati e
saccheggiati. Cominciata nell'Est, la sollevazione dei contadini si
diffondeva verso il Sud, il Nord, il Centro; minacciava di
generalizzarsi. In certe località, i contadini erano stati feroci
verso i loro padroni e le notizie che giungevano dalla provincia
esageravano gli avvenimenti. I nobili constatavano con terrore, che
non c'era, sul posto, nessuna forza capace di mettere un freno alle
sommosse.
E la seduta s'aperse colla lettura di un progetto di dichiarazione
contro le sollevazioni. L'Assemblea era invitata a pronunciare un
biasimo energico contro i sobillatori e ad ingiungere altamente il
rispetto delle fortune feudali o no – qualunque ne fosse l'origine –
nell'attesa che l'Assemblea legiferasse in merito.
«Sembra che le proprietà di qualunque natura siano la preda del più
colpevole brigantaggio», dice il Comitato dei rapporti. «In ogni
luogo vengono incendiati i castelli, i conventi sono distrutti, i
poderi abbandonati al saccheggio. Le imposte, i cànoni signorili,
tutto è distrutto. Le leggi sono senza forza, i magistrati senza
autorità...» E il rapporto domanda che l'Assemblea biasimi altamente
i torbidi e dichiari «che le leggi antiche (le leggi feudali)
sussistono sino a quando la volontà della nazione non le abbia
modificate o abrogate; che tutti i cànoni e le prestazioni solite
devono pagarsi come per il passato, sino a quando l'Assemblea non
ordini diversamente».
«Non sono i briganti che fanno ciò!» esclama il duca d'Aiguillon;
«in parecchie provincie il popolo intiero forma una lega per
distruggere i castelli, devastare le terre e per impadronirsi
soprattutto degli archivi dove sono depositati i titoli delle
proprietà feudali.» Qui, non è certo l'entusiasmo che parla, ma
piuttosto la paura48.
L'Assemblea stava quindi per pregare il re di prendere delle misure
feroci contro i contadini insorti. Se n'era già parlato alla
vigilia, il 3 agosto. Ma da qualche giorno, un certo numero di
nobili, un po' più spinti nelle loro idee del resto della loro
classe e che vedevano più chiaro negli avvenimenti, – il visconte di
Noailles, il duca de La Rochefoucauld, Alessandro de Lameth e alcuni
altri – si concertavano già segretamente sul contegno da tenere di
fronte alla Jacquerie, Essi avevano compreso che l'unico mezzo per
salvare i diritti feudali era quello di sacrificare i diritti
onorari e le prerogative inutili e di domandare dai contadini il
riscatto dei cànoni feudali annessi alla terra e aventi un valore
reale. Incaricarono il duca d'Aiguillon di sviluppare queste idee.
Ed è quanto venne fatto da lui e dal visconte di Noailles.
Dall'inizio della Rivoluzione, i contadini avevano chiesta
l'abolizione dei diritti feudali49. Adesso, dicevano i due portavoce
della nobiltà liberale, le campagne, malcontente pel fatto che nulla
in tre mesi s'era fatto per loro, s'erano ribellate; non conoscevano
più freni e in questo momento bisognava scegliere «fra la
distruzione della società e certe concessioni». Il visconte di
Noailles così formulava queste concessioni: eguaglianza di tutti gli
individui di fronte all'imposta, pagata in proporzione dei redditi;
tutte le spese pubbliche sopportate da tutti; «tutti i diritti
feudali riscattati dalle comunità» (rurali) secondo la media del
ricavato annuale e, da ultimo, «l'abolizione senza riscatto delle
corvées signorili, delle manomorte e di altre servitù personali50»
Bisogna anche dire che da qualche tempo le servitù personali non
erano più pagate dai contadini. Ci sono in proposito delle
testimonianze assai precise degli intendenti. Dopo la rivolta di
luglio, era evidente che non sarebbero state in nessun modo pagate
più, vi avessero o no rinunciato i signori.
Ebbene! Queste concessioni, proposte dal visconte di Noailles,
furono ancora falcidiate e dai nobili e dai borghesi, fra cui molti
possedevano delle proprietà fondiarie con annessi titoli feudali. Il
duca d'Aiguillon scelto dai nobili predetti per loro portavoce,
seguì il de Noailles alla tribuna e parlò con simpatia dei
contadini, scusando la loro insurrezione, ma perchè? Per dire che
«il residuo barbaro delle leggi feudali che vigono in Francia, sono,
non è possibile dissimularselo, una proprietà, ed ogni proprietà è
sacra. L'equità, diceva, proibisce di esigere l'abbandono di
qualsiasi proprietà senza accordare una giusta indennità al
proprietario.» Per ciò il duca d'Aiguillon mitigava la frase di de
Noailles concernente le imposte, dicendo che tutti i cittadini
dovevano sopportarle «in ragione delle loro facoltà». E quanto ai
diritti feudali, egli domandava che tutti questi diritti – tanto i
personali quanto gli altri – fossero riscattati dai vassalli «s'essi
lo desiderano», col rimborso au denier 30, e cioè di trenta volte il
cànone pagato in quell'epoca. Ciò significava rendere illusorio il
riscatto, poichè, per le rendite fondiarie, è già gravissimo al 25,
e nel commercio una rendita fondiaria si stima sempre al 20 od anche
al 17.
Questi due discorsi vennero accolti con entusiasmo dai signori del
Terzo e sono giunti alla posterità come atti d'abnegazione sublime
da parte della nobiltà, mentre in realtà l'Assemblea nazionale, che
seguì il programma tracciato dal duca d'Aiguillon, creò per ciò
stesso le condizioni delle lotte terribili che insanguinarono più
tardi la Rivoluzione. I pochi contadini che si trovavano
nell'Assemblea non apersero bocca per dimostrare lo scarso valore
delle «rinuncie» dei nobili; e la massa dei deputati del Terzo, in
grande maggioranza cittadini, non aveva che un'idea assai vaga
sull'insieme dei diritti feudali, come pure sulla profondità della
sollevazione rurale. Per loro, rinunciare ai diritti feudali, anche
colla condizione del riscatto, significava fare già un sublime
sacrificio alla Rivoluzione.
Le Guen du Kérangall, deputato bretone, «vestito da contadino»,
pronunciò allora belle e commoventi parole. Queste parole, col loro
accenno alle «infami pergamene» che contenevano le obbligazioni
delle servitù personali, superstiti del servaggio, fecero e fanno
ancora vibrare i cuori. Ma anche lui, al pari di tutti gli altri,
non contestò il riscatto di tutti i diritti feudali, non escluse
quelle stesse servitù «infami» imposte «in tempi d'ignoranza e di
tenebre», del quale egli denunciava con tanta eloquenza
l'ingiustizia.
È certo che lo spettacolo offerto dall'Assemblea in quella notte del
4 agosto, dovette essere bello, poichè si videro dei rappresentanti
della nobiltà e del clero rinunciare ai privilegi di cui avevan
goduto, senza contestazioni, per tanti secoli. Il gesto, le parole
erano magnifiche, quando i nobili si alzarono per rinunciare ai loro
privilegi in materia d'imposte, i preti per rinunciare alle decime,
i più poveri parroci per abbandonare il casuale, i grandi signori le
loro giustizie signorili, rinunciando poi tutti insieme al diritto
di caccia, col chiedere la soppressione dei colombai, di cui tanto
si dolevano i contadini. Era bello altresì vedere provincie intiere
rinunciare ai privilegi, che creavano loro una posizione eccezionale
nel reame. I pays d'Etat (paesi di Stato) furono così soppressi e i
privilegi delle città, fra le quali certune possedevano dei diritti
feudali sulle campagne vicine, furono pure aboliti. I rappresentanti
del Delfinato – dove, come abbiam visto, la sollevazione fu più
diffusa e forte avendo aperta la via per l'abolizione di
queste distinzioni provinciali, gli altri li imitarono.
Tutti i testimoni di questa memorabile seduta ne danno una
descrizione entusiasta. Quando la nobiltà ha accettato in massima il
riscatto dei diritti feudali, è il clero che deve pronunciarsi. E il
clero accetta intieramente il riscatto delle feudalità
ecclesiastiche, a condizione però che il prezzo del riscatto non
crei delle fortune personali in seno al clero, ma che tutto venga
impiegato in opere di pubblica utilità. Un vescovo parla dei danni
fatti nei campi dei contadini dalle mute di cani dei signori e
domanda l'abolizione del diritto di caccia – e immediatamente la
nobiltà dà la sua adesione con un grido possente e appassionato.
L'entusiasmo è al colmo, e quando l'Assemblea si scioglie alle due
del mattino, ognuno sente che le basi di una nuova società son
poste.
Lungi da noi l'idea di diminuire la portata di quella notte.
Occorrono entusiasmi di questo genere per affrettare gli
avvenimenti. Ne occorreranno ancora per la Rivoluzione sociale.
Poichè, in tempo di rivoluzione, è necessario provocare
l'entusiasmo, pronunciare quelle parole che fanno vibrare i cuori.
Il solo fatto che la nobiltà, il clero e ogni specie di privilegiati
venivano a riconoscere, durante quella seduta notturna, i progressi
della Rivoluzione; ch'essi decidevano di sottomettervisi invece
d'armarsi contro – solo questo fatto fu già una conquista dello
spirito umano. Lo fu tanto più in quanto chè la rinuncia ebbe luogo
con entusiasmo. Alla luce, è vero, dei castelli che bruciavano; ma,
quante volte, luci simili non hanno fatto che spingere i
privilegiati alla resistenza ostinata, all'odio, al massacro! Nella
notte del 4 agosto – queste luci lontane inspiravano altre parole –
parole di simpatia per gli insorti – e altri atti: atti di
pacificazione.
Gli è che dal 14 luglio lo spirito della Rivoluzione – risultato di
tutto il fermento che si produceva in Francia – dominava tutto ciò
che viveva e sentiva, e questo spirito, prodotto di milioni di
volontà, dava quell'inspirazione che ci manca nei tempi ordinari.
Ma dopo aver segnalato i begli effetti dell'entusiasmo che una
rivoluzione sola poteva inspirare, lo storico deve inoltre gettare
uno sguardo calmo e dire sin dove giunse l'entusiasmo, e quale
limite non osò oltrepassare, segnalare ciò che diede al popolo e ciò
che rifiutò di accordargli.
Un segno generale basterà per indicare questo limite. L'Assemblea
non fece che sanzionare in principio e generalizzare ciò che il
popolo aveva già da solo compiuto in certe località. Non andò oltre.
Ricordiamo ciò che il popolo aveva già fatto a Strasburgo e in molte
altre città. Egli aveva sottoposto, noi l'abbiamo visto, tutti i
cittadini, nobili e borghesi, all'imposta e proclamato l'imposta sul
reddito: l'Assemblea accettò questo in massima. Esso aveva abolito
tutte le cariche onorifiche – e i nobili vi rinunciarono il 4
agosto: accettavano l'atto rivoluzionario. Il popolo aveva del pari
abolito le giustizie signorili e nominato da sè i suoi giudici
elettivi: l'Assemblea accettò a sua volta. Finalmente, il popolo
aveva abolito i privilegi delle città e le barriere provinciali –
era cosa fatta nell'Est – ed ora l'Assemblea generalizzò in
principio il fatto già compiuto in una parte del reame.
Per le campagne, il clero ammise in massima che la decima fosse
riscattata; ma in quanti luoghi il popolo aveva già completamente
cessato di pagarla! E quando l'Assemblea esigerà fra poco ch'esso la
paghi fino al 1791, bisognerà ricorrere alla minaccia delle pene
capitali per costringere i contadini ad obbedire. Rallegriamoci,
senza dubbio, di vedere che il clero si sia sottomesso – mediante
riscatto – all'abolizione delle decime; ma diciamo altresì che il
clero avrebbe molto meglio fatto non insistendo sul riscatto. Quante
lotte, quanto odio, quanto sangue avrebbe risparmiato se avesse
rinunciato alle decime e si fosse fidato per vivere alla nazione o
meglio ancora ai suoi parrocchiani! E quanto ai diritti feudali –
quante lotte sarebbero state evitate se l'Assemblea, invece
d'accettare la mozione del duca d'Aiguillon, avesse adottato
dall'agosto del 1789, quella di de Noailles, modestissima in fondo:
l'abolizione senza riscatto dei cànoni personali e il riscatto solo
per le rendite annesse alla terra! Quanto sangue fu necessario
spargere durante tre anni per arrivare, nel 1792, a quest'ultima
misura! Senza contare le lotte accanite che fu necessario di
sostenere per arrivare nel 1793 all'abolizione completa dei diritti
feudali.
Ma facciamo anche noi, pel momento, come gli uomini del 1789. Dopo
quella seduta, la gioia fu generale. Tutti si felicitavano di quella
Notte di San Bartolomeo degli abusi feudali. E questo ci prova
quanto sia necessario, durante una rivoluzione, di riconoscere, di
proclamare, almeno, un nuovo principio. Dei corrieri partiti da
Parigi portavano, infatti, in tutti gli angoli della Francia la
grande notizia: «Tutti i diritti feudali sono aboliti!» Poichè fu in
questo senso che le decisioni dell'Assemblea furono comprese dal
popolo e in tal senso venne redatto l'articolo primo del decreto del
5 agosto! Tutti i diritti feudali sono aboliti! Non più decime! Non
più censi! non più laudemi, non più diritti di vendita, di
champart51; non più corvées, non più taglia! Non più diritto di
caccia! Abbasso i colombai! la selvaggina è di tutti. Insomma, non
più nobili, non più privilegiati di nessun genere: tutti eguali
davanti al giudice eletto da tutti.
E in questo senso che fu compresa in provincia la notte del 4
agosto; e ben prima che i decreti del 5 e dell'11 agosto fossero
stati redatti dall'Assemblea e che fosse stata tracciata la linea di
demarcazione fra ciò che occorreva riscattare e ciò che scompariva
subito, ben prima che questi atti e queste rinuncie fossero stati
formulati in articoli di legge, i corrieri apportavano già la buona
notizia al contadino. Ormai, lo si fucili o no, egli non vorrà più
pagar nulla.
L'insurrezione rurale prende allora nuovo vigore. Si diffonde nelle
provincie, come la Brettagna, che sino allora erano rimaste
tranquille. E se i proprietari reclamano il pagamento di non importa
qual cànone, i contadini s'impadroniscono dei loro castelli e
bruciano tutti gli archivi e tutti i catasti. Essi non vogliono più
sottomettersi ai decreti dell'agosto e distinguere fra diritti
riscattabili e diritti aboliti, dice Du Châtellier52. Dovunque, in
tutta la Francia, i colombai e la selvaggina sono distrutti.
Finalmente, i villaggi poterono sfamarsi. Si prese possesso delle
terre, un tempo comunali, accaparrate dai signori.
Fu allora che nell'Est della Francia si produsse quel fenomeno che
dominerà la Rivoluzione durante i due anni seguenti: la borghesia
interviene contro i contadini. Gli storici liberali non ne parlano,
ma si tratta di un fenomeno della maggiore importanza, che bisogna
rilevare.
Noi abbiamo visto che la sollevazione dei contadini aveva raggiunto
la sua più grande forza nel Delfinato e, in generale, nell'Est. I
ricchi, i signori fuggivano e Necker si doleva di aver dovuto
rilasciare in quindici giorni 6000 passaporti agli abitanti più
facoltosi. La Svizzera ne era inondata.
Ma la media borghesia rimase, si armò, organizzò le sue milizie e
l'Assemblea nazionale votò ben presto (il 10 agosto) una misura
draconiana contro i contadini insorti53. Col pretesto che
l'insurrezione era l'opera di briganti, essa autorizzò le
municipalità a impiegare le truppe, a disarmare tutti gli uomini
senza professione e senza domicilio, a disperdere le bande e a far
d'esse giustizia sommaria. La borghesia del Delfinato approfittò
largamente di questi diritti. Quando una banda di contadini insorti
attraversava la Borgogna, bruciandone i castelli, i borghesi delle
città e dei villaggi l'attaccavano. Una di queste bande, dicono i
Deux amis de la Liberté, fu battuta a Cormatin il 27 luglio, ci
furono 20 morti e 60 prigionieri. A Cluny, ci furono 100 morti e 160
prigionieri. La municipalità di Mâcon fece una guerra regolare ai
contadini che rifiutavano di pagare la decima e ne impiccò venti.
Dodici contadini furono impiccati a Douai; a Lione, la borghesia,
combattendo i contadini, ne uccise 80 e fece 60 prigionieri. Il
grande prevosto del Delfinato, poi, percorreva tutto il paese e
impiccava i contadini insorti (Buchez et Roux, II, 244). «In
Rouergue, la città di Milhaud faceva appello alle città vicine
invitandole ad armarsi contro i briganti e coloro che rifiutano di
pagare le tasse.» (Courrier Parisien, seduta del 19 agosto 1789, p.
172954).
Insomma, risulta da questi fatti dei quali potrei aumentare
facilmente la lista, che laddove la sollevazione dei contadini fu
più violenta, la borghesia cercò di schiacciarla e forse avrebbe
contribuito possentemente a farlo, se le notizie venute da Parigi
dopo la notte del 4 agosto non avessero ridato vigore
all'insurrezione.
A quanto pare la sollevazione dei contadini non rallentò che in
settembre e ottobre, forse a cagione dell'aratura; ma nel gennaio
del 1790, noi sappiamo dal rapporto del Comitato feudale, che la
Jacquerie aveva ricominciato di bel nuovo, probabilmente in causa
dei pagamenti reclamati. I contadini non volevano sottomettersi alla
distinzione fatta dall'Assemblea fra diritti annessi alla terra e
servitù personali, e insorgevano per non pagar nulla, assolutamente.
Ritornerò in uno dei prossimi capitoli su questo importantissimo
argomento.
XVIII
I DIRITTI FEUDALI RIMANGONO
Allorquando l'Assemblea si riunì il 5 agosto, per redigere sotto
forma di decreti le abdicazioni che erano state fatte durante la
notte storica del Quattro, si potè vedere sino a qual punto la
dominava lo spirito proprietario e come avrebbe difeso a uno a uno i
vantaggi pecuniari annessi a quegli stessi privilegi feudali, a cui
essa aveva rinunciato poche ore prima.
C'erano ancora in Francia, sotto al nome di manomorte, di banalità,
ecc., dei residui dell'antica servitù. C'erano genti di manomorta
nella Franca Contea, nel Nivernese, nel Borbonese. Erano servi nello
stretto senso della parola; non potevano vendere i loro beni, nè
trasmetterli per successione, salvo a quei figli che vivevano con
loro. Restavano così, essi e i loro discendenti, attaccati alla
gleba. Quanti fossero, non si sa di preciso, ma si crede che la
cifra di trecento mila persone di manomorta data da Boncerf, sia la
più probabile (Sagnac, La législation civile de la Révolution
française, p. 59, 60.)
A lato di questa gente di manomorta, c'era un fortissimo numero di
contadini e anche di cittadini liberi, ancora astretti ad onta di
ciò ad obblighi personali, sia verso gli ex-signori, sia verso i
signori delle terre ch'essi avevano riscattate o tenevano in
enfiteusi55.
Si ritiene che in generale i privilegiati – nobili e clero –
possedessero, in ogni villaggio, la metà delle terre; ed oltre a
queste loro proprietà conservavano ancora diversi diritti feudali
sulle terre possedute dai contadini. I piccoli proprietari sono già
numerosi in Francia, a quest'epoca, ci dicono coloro che hanno
studiato questa questione; ma ce ne sono pochi, aggiunge Sagnac, che
«posseggono beni allodiali, che non debbano almeno un censo o un
altro diritto, segno distintivo della signoria». Quasi tutte le
terre pagano qualche cosa sia in denaro, sia in una frazione di
raccolti a un signore qualsiasi.
Questi obblighi erano diversissimi, ma si dividevano in cinque
categorie: 1° gli obblighi personali, spesso umilianti, – residui
della servitù (in certi luoghi, per esempio, i contadini dovevano
battere lo stagno durante la notte per impedire alle ranocchie di
turbare il sonno del signore); 2° i cànoni in denaro e le
prestazioni in natura o in lavoro, che erano dovute per una
concessione reale o presunta del suolo: erano la manomorta e la
corvée reale56, il censo, la decima, la rendita fondiaria, i lods et
ventes57; 3° diversi pagamenti che risultavano dai monopoli dei
signori, che prelevavano certe dogane, certi dazi o certi diritti su
coloro che si servivano dei mercati o delle misure del signore, del
mulino, del torchio, del forno comune, ecc.; 4° i diritti di
giustizia, prelevati dal signore laddove la giustizia gli
apparteneva, le tasse, le multe, ecc.; e, da ultimo, 5° il signore
possedeva il diritto esclusivo di caccia sulle sue terre e su quelle
dei contadini vicini, come pure il diritto di tenere colombai e
garenne, che costituivano un privilegio onorifico, assai ricercato.
Tutti questi diritti erano vessatori al più alto grado; costavano
molto al contadino, anche quando non davano nulla o poco al signore.
È un fatto incontestabile sul quale Boncerf insiste nella sua
notevole opera Les inconvénients des droits féodaux (p. 52), che dal
1776 i signori, tutti impoveriti, e soprattutto i loro intendenti,
s'erano messi a taglieggiare i coloni, gli affittuari e i contadini
in generale per spremerli più che fosse possibile. Nel 1786, ci fu
anzi una rinnovazione abbastanza vasta dei catasti allo scopo di
aumentare i cànoni feudali.
Ebbene, l'Assemblea, dopo aver approvato in massima l'abolizione di
queste sopravvivenze del regime feudale, retrocesse quando si trattò
di tradurre le rinuncie in leggi concrete: si alleò ai proprietari.
Così, dal momento che i signori avevano sacrificato le manomorte,
sembrava che non se ne dovesse parlar più: bastava redigere questa
rinuncia in forma di decreto. Ma anche su tal questione sorsero
delle controversie. Si cercò di stabilire una distinzione fra
manomorta personale, da abolirsi senza indennità, e la manomorta
reale (annessa alla terra e trasmessa per affitto o acquisto della
terra), da riscattarsi. E mentre l'Assemblea decideva finalmente
d'abolire senza indennità tutti i diritti e doveri, tanto feudali
che censuari, «che appartengono alla manomorta reale o personale, e
alla servitù personale», lasciava però nello stesso tempo sussistere
ancora dei dubbi in merito, – in tutti i casi in cui fosse difficile
separare i diritti di manomorta dai diritti feudali in generale.
Lo stesso dicasi al riguardo delle decime ecclesiastiche. È noto che
le decime montavano di frequente sino a un quinto e talvolta anche
un quarto di tutti i raccolti, e che il clero reclamava inoltre la
sua parte di fieno, di nocciuole, ecc. Queste decime pesavano assai
gravemente sui contadini, soprattutto sui poveri. Così, al 4 agosto,
il clero aveva dichiarato di rinunciare a tutte le decime in natura,
a condizione però che queste decime fossero riscattate da coloro che
le pagavano. Ma poichè non s'indicavano le condizioni del riscatto,
nè le regole procedurali secondo le quali il riscatto stesso doveva
farsi, l'abdicazione si riduceva, in realtà, ad un semplice voto. Il
clero accettava il riscatto; permetteva ai contadini di riscattare
le decime, se lo volevano, e di discuterne i prezzi coi proprietari.
Ma quando, il 6 agosto, si volle stendere il decreto concernente le
decime, si venne a cozzare in una difficoltà.
C'erano delle decime che il clero aveva vendute nel corso dei secoli
a dei particolari, e queste decime si chiamavano laiche o infeudate.
Per queste, il riscatto veniva considerato come necessario, affine
di mantenere il diritto di proprietà dell'ultimo compratore. Peggio
ancora. Le decime che il contadino pagava al clero vennero
rappresentate da taluni oratori all'Assemblea come un'imposta che la
nazione pagava per mantenere il suo clero; e a poco a poco, nella
discussione prevalse l'opinione che per queste decime non si potesse
parlar di riscatto, se la nazione non s'incaricava di stipendiare
regolarmente il suo clero. Questa discussione durò cinque giorni,
sino all'11, e allora parecchi curati, seguiti dagli arcivescovi,
dichiararono ch'essi abbandonavano le decime alla patria e
confidavano nella giustizia e nella generosità della nazione.
Fu dunque decisa l'abolizione delle decime pagate al clero, ma
nell'attesa che si trovassero i mezzi di provvedere in altro modo
alle spese del culto, le decime dovevano essere pagate come prima.
Quanto alle decime infeudate, esse dovevano essere pagate sino a
quando non fossero riscattate!
E facile immaginare che questa mezza misura disilluse le campagne e
provocò dei torbidi. In teoria, si sopprimevano le decime, ma in
realtà dovevano essere pagate come prima. – «Fino a quando?»
domandavano i contadini, e si rispondeva loro: «Sino a quando non si
siano trovati i mezzi per pagare diversamente il clero! E poichè le
finanze del reame andavano di male in peggio, il contadino si
chiedeva con ragione, se e quando mai si abolirebbero le decime! La
sospensione del lavoro e la burrasca rivoluzionaria impedivano il
regolare introito delle imposte, mentre, di necessità, aumentavano
le spese per la nuova giustizia e la nuova amministrazione. Le
riforme democratiche costano, e solo dopo molto tempo una nazione in
rivoluzione arriva a pagare le spese di queste riforme. Intanto, il
contadino doveva pagare le decime, e sino al 1791 si continuò a
esigerle con molta severità. E poichè il contadino non voleva
pagarle, l'Assemblea ammucchiava leggi su leggi, pene su pene contro
i morosi.
La stessa osservazione vale per il diritto di caccia. Nella notte
del 4 agosto, i nobili avevano rinunciato al loro diritto di caccia.
Ma quando si trattò di formulare la portata e il valore di questa
rinuncia, si comprese che ciò significava estendere a tutti il
diritto di caccia. Allora l'Assemblea indietreggiò e non fece che
estendere il diritto di caccia, «sulle loro terre», a tutti i
proprietari, o piuttosto ai possessori di beni immobili. Tuttavia;
anche qui la formula definitiva fu vaga e imprecisa. L'Assemblea
aboliva il diritto esclusivo di caccia e quello delle garenne
aperte, ma aggiungeva che «ogni proprietario ha il diritto di
distruggere e di far distruggere, solamente sulle sue eredità,
qualsiasi specie di selvaggina». Era applicabile
quest'autorizzazione ai coloni ? Rimaneva dubbio. Tuttavia i
contadini non vollero nè aspettare, nè rimettersi ai legulei
cavillatori. Immediatamente dopo il 4 agosto, si misero a
distruggere dovunque la selvaggina dei signori. Dopo aver visto per
parecchi anni i loro raccolti devastati e mangiati dalla selvaggina,
la distrussero senza aspettare autorizzazioni di sorta.
Finalmente, per quanto concerne l'essenziale, e cioè la grande
questione che appassionava più di venti milioni di francesi, i
diritti feudali, l'Assemblea, quando formulò in decreti le rinuncie
della notte del 4 agosto, si limitò semplicemente a enunciare un
principio.
«L'Assemblea nazionale distrugge interamente il regime feudale
diceva l'articolo primo del decreto del 5 agosto. Ma il seguito
degli articoli, nei decreti dal 5 all'11 agosto, spiegava che solo
le servitù personali, avvilenti l'onore, venivano completamente
abolite. Tutti gli altri cànoni, di qualsiasi origine e natura
rimanevano. Potevano, un giorno, riscattarsi, ma nei decreti
dell'agosto niente indicava nè quando, nè come. Nessun termine
veniva imposto. Nessuna indicazione veniva fornita sulla procedura
legale per operare il riscatto. Nulla, null'altro all'infuori del
principio, del desiderata. E, frattanto, il contadino doveva pagar
tutto, come prima.
C'era qualche cosa di peggio in questi decreti dell'agosto 1789.
Aprivano la porta a una misura con la quale si poteva rendere
irrealizzabile il riscatto, ed è quanto fece l'Assemblea sette mesi
più tardi. Nel febbraio 1790, essa rese il riscatto assolutamente
inaccettabile pel contadino, imponendogli, in solido, anche il
riscatto delle rendite fondiarie. Sagnac ha fatto notare (p. 90
della sua eccellente opera) che Demeunier aveva già, sin dal 6 o 7
agosto, proposta una misura del genere. E l'Assemblea, noi lo
vedremo fra poco, votò in febbraio una legge per la quale divenne
impossibile riscattare i cànoni annessi alla terra, senza riscattare
nello stesso tempo, nello stesso blocco, le servitù personali, pur
tuttavia abolite già dal 5 agosto 1789.
Trascinati dall'entusiasmo col quale Parigi e la Francia ricevettero
la notizia della seduta della notte del 4 agosto, gli storici non
hanno fatto risaltare quanto basti la portata delle restrizioni che
l'Assemblea mise al primo paragrafo del suo decreto, nelle sedute
ulteriori, dal 5 all'11 agosto. Louis Blanc, che fornisce tuttavia,
nel suo capitolo, La propriété devant la Révolution (libro II, cap.
I), i dati necessari per apprezzare il tenore dei decreti d'agosto,
sembra esitare a distruggere la bella leggenda e scivola sulle
restrizioni, oppure cerca anche di scusarle, dicendo che «la logica
dei fatti nella storia è ben lungi dall'essere così rapida come
quella delle idee nella testa di un pensatore». Ma il fatto è che
questa imprecisione, questi dubbi, queste esitazioni che l'Assemblea
gettò ai contadini, mentre essi domandavano misure nette e precise,
per abolire i vecchi abusi, fu la causa delle lotte terribili che
scoppiarono nei quattro anni successivi. Non fu che dopo
l'espulsione dei Girondini che la questione dei diritti feudali fu
ripresa intieramente e risolta nel senso dell'articolo 1° del
decreto del 4 agosto58.
Non si tratta di fare oggi, a cento anni di distanza, delle
rimostranze contro l'Assemblea nazionale. In fondo, l'Assemblea ha
fatto tutto ciò che si poteva sperare da un'assemblea di proprietari
e di borghesi agiati; forse fece ancora di più. Lanciò un principio,
e per ciò stesso invitò ad andare più oltre. Ma è però ben
necessario di rendersi conto di queste restrizioni, poichè se si
prende alla lettera l'articolo che annunciava la distruzione
completa del regime feudale, si corre rischio di non comprendere
nulla dei quattro anni che seguirono, e ancor meno delle lotte che
scoppiarono in seno alla Convenzione nel 1793.
Le resistenze contro alle quali cozzarono questi decreti, furono
immense. Se non soddisfacevano in nulla i contadini e divennero il
segnale di una forte recrudescenza della Jacquerie, – i nobili,
l'alto clero e il re videro in questi decreti lo spogliamento del
clero e della nobiltà. Da quel giorno cominciò l'agitazione
sotterranea, che fu fomentata, senza posa e con ardore sempre
crescente, contro la Rivoluzione. L'Assemblea credeva di
salvaguardare i diritti della proprietà fondiaria. In tempi
ordinari, una legge del genere, avrebbe forse anche raggiunto lo
scopo. Ma quelli che si trovavano sui luoghi, capirono che la notte
del 4 agosto aveva portato un colpo decisivo a tutti i diritti
feudali, e che i decreti di agosto ne privavano i signori,
quantunque ne imponessero il riscatto. Tutto l'insieme di questi
decreti, compresovi l'abolizione delle decime, del diritto di caccia
e di altri privilegi, indicava al popolo che gli interessi del
popolo sono superiori ai diritti di proprietà acquisiti nel corso
della storia.
Contenevano, in nome della giustizia, la condanna di tutti i
privilegi ereditati dal feudalismo. E niente potè più riabilitare
quei diritti nello spirito del contadino.
Il contadino capì che quei diritti erano condannati e si guardò bene
dal riscattarli. Cessò semplicemente di pagarli. Ma l'Assemblea non
avendo avuto il coraggio, nè di abolire completamente i diritti
feudali, nè di stabilirne un riscatto accettabile dai contadini –
creò per ciò stesso le condizioni equivoche che avrebbero prodotto
la guerra civile in tutta la Francia. Da una parte, i contadini
compresero che non bisognava nè riscattare, nè pagar nulla: che
occorreva continuare la Rivoluzione per abolire i diritti feudali
senza riscatto. D'altra parte, i ricchi capirono che i decreti
d'agosto non dicevano nulla, che non c'era ancora nulla di fatto,
salvo per le manomorte e i diritti di caccia aboliti; e che unendosi
alla contro rivoluzione, rappresentata dal re, sarebbero forse
riusciti a mantenere i loro diritti feudali e a conservare le terre
estorte da loro e dai loro antenati alle comunità rustiche.
Il re, probabilmente dietro parere dei suoi consiglieri, aveva assai
bene compreso la missione che la contro rivoluzione gli assegnava,
come simbolo d'unione per la difesa dei diritti feudali, e
s'affrettò a scrivere all'arcivescovo d'Arles per dirgli che non
avrebbe mai dato, se non colla forza, la sua sanzione ai decreti
d'agosto. «Il sacrificio [dei due primi ordini dello Stato] è bello,
diceva; ma non posso che ammirarlo; io non consentirò giammai a
spogliare il mio clero, la mia nobiltà. Non darò punto la mia
sanzione a decreti che li spoglierebbero...».
E rifiutò il suo consenso sino a quando, prigioniero, non fu
trascinato a Parigi dal popolo. E anche quando lo diede, fece di
tutto, d'accordo con possidenti e clero, nobili e borghesi, per
impedire che quelle dichiarazioni prendessero forma di legge e per
farle restare lettera morta.
—————
L'amico mio James Guillaume, che ha avuto la bontà squisita di
leggere il mio manoscritto, ha redatto, a proposito della sanzione
dei decreti del 4 agosto, la nota seguente che riproduco per
intiero. Eccola:
L'Assemblea esercitava contemporaneamente il potere costituente e il
potere legislativo: e aveva dichiarato ripetutamente che i suoi atti
come potere costituente erano indipendenti dall'autorità regia; solo
le leggi avevano bisogno della sanzione del re (si chiamavano
decreti prima della sanzione e leggi dopo).
Gli atti del 4 agosto erano di natura costituente: l'Assemblea li
stese in decreti, ma non pensò neppure che fosse necessario ottenere
un permesso del re, perchè i privilegiati rinunciassero ai loro
privilegi. Il carattere di questi decreti, – o di questo decreto,
poichè spesso se ne parla tanto al singolare come al plurale, – è
fissato nell'articolo 19 e ultimo che dice: «L'Assemblea nazionale
si occuperà, immediatamente dopo la costituzione, della redazione
delle leggi necessarie per lo sviluppo dei principii ch'essa ha
fissati col presente decreto, che sarà immediatamente mandato dai
signori deputati in tutte le provincie», ecc. – È l'11 agosto che fu
definitivamente fissata la redazione dei decreti; nello stesso tempo
l'Assemblea conferì al re il titolo di restauratore della libertà
francese, e ordinò di cantare un Te Deum nella cappella del
castello.
Il 12, il presidente (Le Chapelier) va a chiedere al re quando vorrà
ricevere l'Assemblea per il Te Deum; il re risponde che la riceverà
il 13 a mezzogiorno. Il 13 tutta l'Assemblea si reca al castello; il
presidente fa un discorso: non domanda affatto la sanzione; spiega
al re ciò che l'Assemblea ha fatto e gli annuncia il titolo
conferitogli; Luigi XVI risponde che accetta il titolo con
riconoscenza; felicita l'Assemblea e gli esprime la sua fiducia. Poi
si canta, nella cappella, il Te Deum.
Poco monta che di nascosto il re abbia scritto all'arcivescovo
d'Arles per esprimere un sentimento diverso: qui non si tratta che
dei suoi atti pubblici.
Dunque, nessunissima opposizione pubblica del re, durante i primi
tempi, contro i decreti del 4 agosto.
Ma ecco che il sabato 12 settembre, venendo in discussione i torbidi
che agitavano la Francia, il partito patriotta pensò che, per
calmarli, bisognava fare una proclamazione solenne dei decreti del 4
agosto, e a tale scopo la maggioranza decise che questi decreti
sarebbero stati presentati alla sanzione del re, malgrado
l'opposizione dei contro rivoluzionari che avrebbero preferito non
parlarne più.
Sin dal lunedì 14, i patriotti s'accorsero che sulla parola sanzione
poteva sorgere un malinteso. Si discuteva appunto sul veto
sospensivo, e Barnave fece osservare che il veto non poteva
applicarsi ai decreti del 4 agosto. Mirabeau parlò nello stesso
senso: «I decreti del 4 agosto sono redatti dal potere costituente;
per questo non possono essere sottoposti alla sanzione. I decreti
del 4 agosto non sono leggi, ma principii e basi costituzionali.
Quando dunque avete mandato alla sanzione gli atti del 4 agosto, è
per la sola promulgazione che li avete indirizzati.» Le Chapelier
propone infatti, per ciò che riguarda questi decreti, di sostituire
a sanzione la parola promulgazione, e aggiunge: «Sostengo essere
inutile ricevere la sanzione regia per dei decreti ai quali S. M. ha
dato una approvazione autentica, tanto con la lettera che mi ha
rimesso quando ho avuto l'onore di essere l'organo dell'Assemblea
(come presidente), quanto con le azioni solenni di grazia e il Te
Deum cantato nella cappella del re.» Si propone che l'Assemblea
soprassieda al suo ordine del giorno (la questione del veto) sino a
quando non sia stata fatta dal re la promulgazione degli articoli
del 4 agosto. Tumulto. La seduta è tolta senza prendere decisione di
sorta.
Il 15, nuova discussione, senza risultato. Il 16 e il 17 si parla
d'altro, l'Assemblea si occupa della successione al trono.
Finalmente, il 18 arriva la risposta del re. Approva lo spirito
generale degli articoli del 4 agosto, ma ce n'è qualcuno, secondo
lui, ai quali non può dare che un'adesione condizionata; e conclude
in questi termini: «Così io approvo il maggior numero di questi
articoli e li sanzionerò quando saranno redatti in forma di leggi.»
Questa risposta dilatoria produsse un grande malcontento; si ripetè
che l'Assemblea chiedeva al re solo la promulgazione, che non poteva
rifiutare. Venne deciso che il presidente si recherebbe dal re per
supplicarlo di ordinare immediatamente la promulgazione. Dinnanzi al
linguaggio minaccioso degli oratori dell'Assemblea, Luigi XVI capì
che bisognava cedere; ma pur cedendo, egli cavillò sulle parole;
indirizzò al presidente (Clermont Tonnerre) il 20 settembre a sera,
una risposta in questi termini: «Voi mi avete chiesto di dare la mia
sanzione ai decreti del 4 agosto... Vi ho comunicato le osservazioni
di cui mi erano parsi suscettibili... Voi mi domandate adesso di
promulgare questi stessi decreti: la promulgazione appartiene alle
leggi... Ma io vi ho già detto che approvavo lo spirito generale di
questi decreti... Ne ordinerò la pubblicazione in tutto il reame...
Non dubito che potrò dare la mia sanzione a tutte le leggi che voi
decreterete sui diversi oggetti contenuti in questi decreti.»
Se i decreti del 4 agosto contengono solo dei principii, delle
teorie, se vi si cerca invano delle misure concrete, ecc., gli è che
tale infatti doveva essere il carattere di questi decreti, così
chiaramente indicato dall'Assemblea nell'articolo 19. Al 4 agosto si
è proclamato, in principio, la distruzione del regime feudale; si è
aggiunto che l'Assemblea FAREBBE delle leggi per l'applicazione del
principio, e che queste leggi sarebbero fatte quando la costituzione
sarebbe compiuta. Si può, volendo, rimproverare questo metodo
all'Assemblea; ma bisogna riconoscere ch'essa non ingannava nessuno
e non mancava affatto alla sua parola non facendo subito le leggi,
poichè aveva promesso di farle solo dopo la costituzione. Ora,
finita la costituzione, nel settembre del 1791, l'Assemblea dovette
andarsene, lasciando la sua successione alla Legislativa.
Questa nota di James Guillaume getta una luce nuova sulla tattica
dell'Assemblea costituente. Quando la guerra contro i castelli
sollevò la questione dei diritti feudali, l'Assemblea non aveva che
due vie da seguire. O elaborare dei progetti di leggi sui diritti
feudali, progetti di cui la discussione avrebbe chiesto dei mesi o
piuttosto degli anni, dividendo profondamente l'Assemblea, data la
diversità delle opinioni in merito dei rappresentanti. (È l'errore
commesso dalla Duma russa sulla questione fondiaria). Oppure
limitarsi a porre alcuni principii, che dovevano servir di base per
la redazione delle leggi future. È questo ché l'Assemblea ordinò.
Essa si affrettò di redigere, in alcune sedute, dei decreti
costituzionali, che il re fu alla fine obbligato di pubblicare. E,
nelle campagne, queste dichiarazioni dell'Assemblea, ebbero
l'effetto di scuotere il regime feudale, talmente che, quattro anni
dopo, la Convenzione potè votare l'abolizione completa senza
riscatto dei diritti feudali. Voluta o no, questa seconda tattica
risultò preferibile alla prima.
XIX
DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL'UOMO
Pochi giorni dopo la presa della Bastiglia, il Comitato di
costituzione dell'Assemblea nazionale metteva in discussione la
«Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino». L'idea di una
simile dichiarazione, suggerita dalla famosa Dichiarazione
d'indipendenza degli Stati Uniti, era giustissima. Dal momento che
stava per compiersi una rivoluzione e che doveva risultarne una
profonda trasformazione nei rapporti fra le diverse classi sociali,
era giusto stabilirne i principii generali, prima che quelle
trasformazioni fossero espresse nei termini di una costituzione. In
tal modo si sarebbe mostrato al popolo quale concetto della
rivoluzione avevano le minoranze rivoluzionarie, per quali nuovi
principii esse chiamavano il popolo a lottare.
E non si tratterebbe solo di belle frasi; ma di un riassunto
dell'avvenire che ci si proponeva di conquistare, e sotto la forma
solenne di una dichiarazione di diritti, fatta da tutto un popolo,
questa esposizione avrebbe la significazione di un giuramento
nazionale. Enunciati con poche parole, i principii che fra poco si
tenterebbe di realizzare, infiammerebbero i cuori. Sono sempre le
idee che governano il mondo e le grandi idee, presentate sotto una
forma virile, hanno sempre guadagnato gli spiriti. Infatti, le
giovani repubbliche nord-americane, nel momento in cui avevano
scosso il giogo dell'Inghilterra, avevano lanciato simili
dichiarazioni, e d'allora la Dichiarazione d'indipendenza degli
Stati Uniti era divenuta la carta, si direbbe quasi il Decalogo
della giovane nazione dell'America del Nord59.
Così, non appena venne eletto dall'Assemblea il 5 luglio, il
Comitato per il lavoro preparatorio della costituzione pensò a
formulare una Dichiarazione dei diritti dell'uomo e se ne occupò
dopo il 14 luglio. Quale modello fu presa la Dichiarazione
d'indipendenza degli Stati Uniti, già divenuta celebre dal 1776,
come professione di fede democratica60. Disgraziatamente, se ne
copiarono anche i difetti; e cioè l'Assemblea nazionale, come i
costituenti repubblicani riuniti al congresso di Filadelfia, scartò
dalla sua dichiarazione ogni allusione ai rapporti economici fra
cittadini e si limitò ad affermare l'eguaglianza di tutti davanti
alla legge, il diritto della nazione di darsi il governo che crederà
e le libertà costituzionali dell'individuo. Quanto alle proprietà,
la Dichiarazione s'affrettava d'affermarne il carattere «inviolabile
e sacro», e aggiungeva che «nessuno poteva esserne spogliato, a meno
che la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esigesse
evidentemente, e sotto la condizione di una giusta e preventiva
indennità». Ciò significava rifiutare apertamente ai contadini il
diritto alla terra e all'abolizione dei cànoni d'origine feudale.
La borghesia lanciava dunque il suo programma liberale di
eguaglianza giuridica davanti alla legge e di un governo sottomesso
alla nazione, esistente solo per la volontà di quest'ultima. E, come
tutti i programmi minimi, questo implicitamente voleva dire che la
nazione non doveva andare più lungi; non doveva toccare i diritti di
proprietà stabiliti dal feudalismo e dalla monarchia dispotica.
È probabile che idee di carattere sociale e egualitario fossero
enunciate nelle discussioni che sollevò la redazione della
Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Ma furono scartate. Ad ogni
modo non se ne trovano traccie nella Dichiarazione del 178961. Anche
l'idea del progetto di Sieyès che «se gli uomini non sono eguali nei
mezzi, cioè in ricchezze, in spirito, in forza, ecc., non ne deriva
ch'essi non siano eguali in diritti»62, idea così modesta, non si
trova nella Dichiarazione dell'Assemblea, ed invece delle parole
precedenti di Sieyès, l'articolo 1° della Dichiarazione fu concepito
in questi termini: «Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali
in diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che
sull'utilità comune.» La qual cosa lascia presupporre delle
distinzioni sociali stabilite dalla legge nell'interesse comune, e
apre, per mezzo di questa finzione, la porta a tutte le
ineguaglianze.
In generale, quando si rilegge oggi la Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino, fatta nel 1789, si è condotti a chiedersi
se questa dichiarazione abbia seriamente avuto sugli spiriti
quell'influenza che le attribuiscono gli storici. È chiaro che
l'articolo 1° di questa Dichiarazione che affermava l'eguaglianza
dei diritti di tutti gli uomini, l'articolo 6 che diceva essere la
legge «uguale per tutti», e che «tutti i cittadini hanno diritto di
concorrere personalmente, o per mezzo dei loro rappresentanti, a
formarla», l'articolo 10, in virtù del quale «nessuno può essere
molestato per le sue opinioni, anche religiose, purchè la loro
manifestazione non turbi l'ordine pubblico stabilito dalla legge», e
finalmente l'articolo 12 che dichiarava essere la forza pubblica
«istituita per il vantaggio di tutti e non per l'utilità particolare
di coloro ai quali è confidata» – tutte queste affermazioni, fatte
in seno ad una società, dove le servitù feudali esistevano ancora e
dove la famiglia reale si considerava proprietaria della Francia,
compivano tutta una rivoluzione negli spiriti.
Ma è anche certo che la Dichiarazione del 1789 non avrebbe giammai
esercitato l'effetto che esercitò più tardi, nel corso del
diciannovesimo secolo, se la Rivoluzione si fosse fermata ai termini
di questa professione di fede del liberalismo borghese.
Fortunatamente, la Rivoluzione andò ben oltre. E quando, due anni
dopo, nel settembre del 1791, l'Assemblea nazionale redasse la
Costituzione, aggiunse alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo un
preambolo alla Costituzione, che conteneva già queste parole:
«L'Assemblea nazionale... abolisce irrevocabilmente le istituzioni
che ferivano la libertà e l'uguaglianza dei diritti». E più oltre :
« Non ci sono più nobiltà, nè pari, nè distinzioni ereditarie, nè
distinzioni d'ordini, nè regime feudale, nè giustizie patrimoniali,
nè alcun altro dei titoli, denominazioni, e prerogative che ne
derivavano, nè alcun ordine di cavalleria, nè alcuna delle
corporazioni o decorazioni per le quali si esigevano prove di
nobiltà o che supponevano distinzioni di nascita, nè alcun'altra
superiorità all'infuori di quella dei funzionari pubblici
nell'esercizio delle loro funzioni. – Non ci sono più giurande, nè
corporazioni di professioni, arti e mestieri [l'ideale borghese
dello Stato onnipotente traluce in questi due paragrafi]. – La legge
non riconosce più i voti religiosi, nè alcun altro impegno che fosse
contrario ai diritti naturali e alla Costituzione.»
Quando si pensa che questa sfida venne lanciata a un'Europa immersa
ancora nelle tenebre della monarchia onnipossente e delle servitù
feudali, si comprende che la Dichiarazione dei diritti dell'uomo,
spesso confusa col preambolo della Costituzione che la seguiva,
appassionò i popoli durante le guerre della Repubblica e divenne più
tardi la parola d'ordine del progresso per tutte le nazioni
dell'Europa durante il XIX° secolo. Ma ciò che non bisogna tuttavia
dimenticare, è che non era l'Assemblea e neppure la borghesia
dell'89, che espressero i loro desideri in questo Preambolo. È la
rivoluzione popolare che le costrinse a poco a poco a riconoscere i
diritti del popolo e a rompere colla feudalità – noi vedremo fra
poco a prezzo di quali sacrifici.
XX
GIORNATE DEL 5 E 6 OTTOBRE 1789
Per il re e la Corte, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino doveva evidentemente rappresentare un attentato
imperdonabile a tutte le leggi divine e umane. Così, il re rifiutò
nettamente di dare la sua sanzione. È vero che, come i «decreti» del
4 all'11 agosto, la Dichiarazione dei diritti non rappresentava che
un'affermazione di principii; aveva, come si diceva allora, «un
carattere costituente» e, come tale, non abbisognava della sanzione
regia. Il re non doveva che promulgarla.
Ed è quanto rifiutò di fare, sotto diversi pretesti. Il 5 ottobre
egli scriveva ancora all'Assemblea per dirle che voleva vedere,
prima di dare la sua sanzione, in qual modo sarebbero applicate le
massime della Dichiarazione63.
Egli aveva opposto, come si è detto, lo stesso rifiuto ai decreti
del 4-11 agosto sull'abolizione dei diritti feudali, e si comprende
quale arma l'Assemblea trovò in questi due rifiuti. «Come!
l'Assemblea aboliva il regime feudale, le servitù personali e le
prerogative ingiuriose dei signori, proclamava d'altra parte
l'eguaglianza di tutti davanti alla legge – ed ecco che il re, ma
soprattutto i principi, la regina, la Corte, i Polignac, i Lamballe
e il resto vi si opponevano! Si fosse trattato solo di discorsi, per
quanto egualitari fossero, dei quali si sarebbe impedita la
circolazione! Ma no, tutta l'Assemblea – nobili e vescovi compresi –
s'era unita per fare una legge favorevole al popolo e rinunciare a
tutti i privilegi (per il popolo, che non aveva tempo da sofisticare
sui termini giuridici, i decreti equivalevano a leggi), ed ecco
sorgere una forza ad impedire che queste leggi entrassero in vigore!
Il re le avrebbe forse accettate: egli è venuto a Parigi a
fraternizzare col popolo dopo il 14 luglio; ma è la Corte, è la
regina, sono i principi che s'oppongono alla felicità del popolo
voluta dall'Assemblea...
Nel grande duello che s'era impegnato fra la monarchia e la
borghesia, questa, grazie alla sua politica abile e alla sua
capacità legislativa, aveva saputo ottenere l'appoggio del popolo.
Ora, il popolo si appassionava contro i principi, la regina, l'alta
nobiltà – per l'Assemblea, e cominciava a seguirne con interesse i
lavori.
Nello stesso tempo, il popolo stesso li influenzava in un senso
democratico.
Così, l'Assemblea avrebbe forse accettato il sistema delle due
Camere «all'inglese». Ma il popolo non ne volle in alcun modo
sapere. Comprese istintivamente ciò che i dotti giuristi hanno così
bene spiegato poi – che in tempi di rivoluzione era impossibile una
seconda Camera, la quale non può funzionare se non dopo finita la
rivoluzione e incominciata la reazione.
È sempre e ancora il popolo che si accanisce contro il veto regio,
molto di più dei deputati sedenti all'Assemblea. Anche qui egli
comprese molto bene la situazione, poichè, se nel corso normale
degli affari, la questione di sapere se il re potrà o no arrestare
una decisione del Parlamento perde molto della sua importanza, è
precisamente il contrario durante un periodo rivoluzionario. Non
perchè il potere regio divenga con l'andare del tempo meno
offensivo; ma in periodo normale un parlamento, organo dei
privilegiati, non vota generalmente nulla che il re abbia bisogno di
fermare col suo veto nell'interesse dei privilegiati; mentre durante
un'epoca rivoluzionaria le decisioni del parlamento, influenzate
dallo spirito popolare del momento, tenderanno a consacrare la
distruzione di antichi privilegi e quindi, incontreranno
necessariamente l'opposizione del re. Egli userà del suo veto, se ha
il diritto e la forza di farlo. Ed è quanto accadde infatti coi
decreti d'agosto e anche colla Dichiarazione dei diritti.
Ciò malgrado, c'era nell'Assemblea un partito numeroso che voleva il
veto assoluto, intendeva cioè di dare al re la possibilità di
impedire legalmente ogni misura seriamente riformista. Dopo lunghe
discussioni si giunse a un compromesso: l'Assemblea rifiutò il veto
assoluto, ma accettò, contro i voti del popolo, il veto sospensivo,
che permetteva al re di sospendere un decreto per un certo tempo,
senza però annullarlo.
A cento anni di distanza, lo storico è necessariamente portato a
idealizzare l'Assemblea e a rappresentarla come un corpo pronto a
lottare per la Rivoluzione. Bisogna però moderarsi, se si vuol
rimanere nella realtà. Sta di fatto che anche i più spinti
rappresentanti dell'Assemblea non erano all'altezza delle necessità
del momento. Essa doveva sentire la sua impotenza; non era punto
omogenea: aveva più di trecento, secondo altri calcoli, più di
quattrocento deputati pronti a patteggiare interamente col re. E
poi, senza parlare di coloro che erano agli stipendi della Corte – e
ce n'erano parecchi – quanti temevano più dell'arbitrio regio la
rivoluzione popolare! Ma la rivoluzione era in marcia e c'era, oltre
la diretta pressione del popolo e la paura del suo sdegno –
quell'atmosfera intellettuale che domina i timorosi e costringe i
prudenti a seguire i più audaci; ma soprattutto il popolo conservava
sempre la sua attitudine minacciosa ed era ancor fresco il ricordo
di de Launey, di Foullon, di Bertier. Nei sobborghi di Parigi si
parlava financo di massacrare i membri dell'Assemblea sospetti
d'avere relazioni colla Corte.
Frattanto, la carestia desolava sempre e terribilmente Parigi. Era
settembre, coi raccolti finiti, e tuttavia mancava il pane. Si
faceva la coda alle porte dei fornai, e dopo ore e ore d'attesa
spesso i poveri dovevano andarsene senza pane. Le farine mancavano.
Malgrado le compere di grano fatte all'estero dal governo e i premi
rilasciati a coloro che portavano del grano a Parigi, il pane
mancava nella capitale, come in tutte le grandi città e anche nelle
piccole dei dintorni di Parigi. Le misure di vettovagliamento erano
insufficenti, e poi la frode paralizzava il poco che si era fatto.
Tutto l'antico regime, tutto lo Stato centralizzato che s'era
sviluppato dal sedicesimo secolo, appariva nella questione del pane.
Nelle alte sfere, le raffinatezze del lusso avevano raggiunto i loro
limiti estremi; ma la massa del popolo – sfruttata senza pietà – era
giunta al punto di non poter più ricavare il suo nutrimento dal
fertile suolo e nel mite clima di Francia!
Inoltre, circolavano contro la famiglia reale e i personaggi
altolocati della Corte le più terribili accuse. Avevano rifatto, si
diceva, il patto di carestia e speculavano sul rialzo dei grani, –
voci fin troppo vere, come si vide più tardi coll'esame delle carte
di Luigi XVI, trovate alle Tuileries.
Da ultimo, era sospesa sulle teste la minaccia della bancarotta del
reame. I debiti dello Stato esigevano il pagamento immediato degli
interessi, ma le spese aumentavano e le casse del tesoro erano
vuote! In tempo di rivoluzione, non si osa più far ricorso ai mezzi
abbominevoli di cui si serviva l'antico regime per riscuotere le
imposte, sequestrando ogni cosa al contadino, e questi, dal canto
suo, nell'attesa di una più equa ripartizione delle imposte, non
paga più; mentre il ricco, che odia la Rivoluzione, evita bene, con
una gioia secreta, di pagare un solo centesimo. Necker, tornato al
ministero dal 17 luglio 1789, aveva un bel ingegnarsi per trovare i
mezzi di evitare la bancarotta – non ne trovava. Infatti, non è
possibile di veder chiaramente in qual modo egli avrebbe potuto
evitare la catastrofe, senza ricorrere a un prestito forzoso sui
ricchi o a mettere le mani sui beni del clero. E ben presto la
borghesia si rassegnò a queste misure, poichè aveva prestato il suo
denaro allo Stato e non voleva a nessun costo perderlo in una
bancarotta. Ma il re, la Corte, l'alto clero avrebbero accettato
questa presa di possesso delle loro proprietà da parte dello Stato?
Uno strano sentimento dovette impadronirsi degli animi durante i
mesi d'agosto e settembre 1789. Ecco l'Assemblea nazionale che tiene
nelle sue mani il potere legislativo. Un'assemblea che – lo ha già
provato – si lascia penetrare dallo spirito democratico e
riformatore, ed eccola ridotta all'impotenza, al ridicolo
dell'impotenza. Essa farà dei decreti per evitare la bancarotta, ma
il re, la Corte, i principi vi rifiuteranno la sanzione. Sono i
fantasmi di un passato morto, che hanno ancora la forza di
strangolare la rappresentanza del popolo francese, di paralizzare la
sua volontà, di prolungare all'infinito il provvisorio.
Di più ancora. Questi spettri preparano un gran colpo. Fanno, nel
circolo del re, il piano per la di lui evasione. Il re si recherà a
Rambouillet, a Orléans; oppure andrà ad assumere il comando degli
eserciti all'ovest di Versaglia e di là minaccerà e Versaglia e
Parigi. O anche fuggirà verso la frontiera dell'est e aspetterà
laggiù l'arrivo delle armate tedesche e austriache, che gli
promettono gli emigrati. Al castello s'intrecciano influenze d'ogni
specie: quella del duca d'Orléans che sogna d'impadronirsi del trono
dopo la partenza di Luigi, quella di «Monsieur» – il fratello di
Luigi XVI, che sarebbe stato oltremodo lieto quando fossero
scomparsi suo fratello e la regina, colla quale egli aveva speciali
rancori.
Dal mese di settembre, la Corte meditava un'evasione, ma pur
discutendo infiniti piani, non aveva il coraggio di decidersi per
uno. È assai probabile che Luigi XVI e soprattutto sua moglie
sognassero di ripetere la storia di Carlo 1°, e di dare una
battaglia in piena regola al parlamento, ma con successo migliore.
La storia del re inglese era il loro incubo: si afferma anzi che
l'unico libro che Luigi XVI fece venire dalla sua biblioteca di
Versaglia a Parigi, dopo il 6 ottobre, fosse la storia di Carlo 1°.
Questa storia li fascinava; ma essi la leggevano, come i detenuti in
prigione leggono un romanzo poliziesco. Non ne cavavano alcun
insegnamento sulla necessità di saper cedere in tempo; dicevano
solo: «Qui bisognava resistere; là occorreva giocare d'astuzia; qui
infine era necessario agire!... Non è forse così che lo czar russo
legge oggi la storia di Luigi XVI e di Carlo 1°? – E concepivano dei
piani che nè essi stessi, nè i loro intimi avevano il coraggio
d'attuare.
Anche la Rivoluzione li fascinava: essi vedevano il mostro che stava
per inghiottirli e non osavano nè sottomettersi, nè resistere.
Parigi che si preparava già a marciare su Versaglia, inspirava loro
il terrore e paralizzava le loro forze. – E se le truppe si fossero
mostrate refrattarie nel momento supremo della lotta? Se i capi
avessero tradito il re, come tanti altri han già fatto? Che sarebbe
rimasto al re, se non rassegnarsi alla sorte di Carlo 1°?
Ma ciò non ostante cospiravano. Nè il re, nè il suo circolo, nè le
classi privilegiate potevano comprendere che il tempo dei
compromessi era finito, che ormai bisognava apertamente
sottomettersi alla nuova forza e porsi sotto la sua protezione –
poichè l'Assemblea non domandava niente di meglio che accordare la
sua protezione al re. Invece di farlo, essi cospiravano, e in tal
guisa spingevano dei membri moderatissimi, in fondo, dell'Assemblea
alla contro cospirazione, all'azione rivoluzionaria. Per questo,
Mirabeau ed altri che avrebbero lavorato volontieri a stabilire una
monarchia modestamente costituzionale, si schierarono coi gruppi
avanzati. Ecco perchè si videro dei moderati come Duport, costituire
la «confederazione dei clubs», che permise di tenere il popolo di
continuo vigilante, poichè si sentiva che presto si sarebbe avuto
bisogno di lui e dell'opera sua.
La marcia su Versaglia non fu così spontanea, come si è voluto far
credere. Anche in tempo di rivoluzione, ogni movimento popolare vuol
essere preparato da uomini del popolo. Ha i suoi precursori in altri
tentativi abortiti. Così, già al 30 agosto, il marchese de
Saint-Huruge, uno degli oratori popolari del Palais-Royal, voleva
marciare con 1500 uomini su Versaglia, per chiedere il licenziamento
dei deputati «ignoranti, corrotti e sospetti», che difendevano il
veto sospensivo del re. Nell'attesa, venivano atterriti con minaccie
d'incendio ai loro castelli e li si avvertiva che a tale scopo già
due mila lettere erano state spedite in provincia. L'assembramento
fu disperso, ma l'idea continuò ad essere discussa.
Il 31 agosto, il Palais-Royal mandava cinque deputazioni al Palazzo
di Città, delle quali una fu condotta dal repubblicano Loustalot,
per decidere la municipalità di Parigi a esercitare una pressione
sull'Assemblea e impedire l'accettazione del veto regio. Coloro che
facevano parte di queste deputazioni giunsero, gli uni, sino a
minacciare i deputati, gli altri, sino a implorarli. A Versaglia, la
folla piangente supplicava Mirabeau di abbandonare il veto assoluto,
facendo giustamente osservare che se il re aveva questo diritto, non
ci sarebbe stato più bisogno dell'Assemblea (Buchez e Roux, p. 368 e
seguenti; Bailly, II, 326, 341).
In questo momento dev'essere sorta l'idea che sarebbe stata ottima
cosa l'avere Assemblea e re dentro Parigi. Infatti, sin dai primi
giorni di settembre, al Palais-Royal, all'aria aperta, si parlava di
ricondurre il re e il «Signor Delfino» a Parigi, e all'uopo si
esortavano tutti i buoni cittadini a marciare su Versaglia. Le
Mercure de France ne faceva menzione nel suo numero del 5 settembre,
p. 84, e Mirabeau, quindici giorni prima dell'avvenimento, parlò di
donne che avrebbero marciato su Versaglia.
Il pranzo delle guardie al 3 ottobre e i complotti della Corte
precipitarono gli avvenimenti. Tutto faceva presentire il colpo che
la reazione cercava di vibrare. Essa rialzava la testa; il consiglio
municipale di Parigi, essenzialmente borghese, procedeva audacemente
sulla via della reazione. I realisti organizzavano, senza tante
precauzioni, le loro forze. Poichè la strada da Versaglia a Metz era
stata occupata dalle truppe, si parlava pubblicamente di portare via
il re e di dirigerlo su Metz per la Champagne o per Verdun. Il
marchese de Bouillé, che comandava le truppe dell'Est, de Breteuil e
de Mercy partecipavano al complotto, del quale Breteuil aveva
assunto la direzione. A tale scopo si accaparrava tutto il denaro
possibile e si parlava del 5 ottobre, come della data eventuale per
il colpo di Stato. Quel giorno il re sarebbe partito per Metz, ove,
circondato dall'esercito del marchese de Bouillé, avrebbe ancora
chiamato presso di sè la nobiltà e le truppe rimaste fedeli,
dichiarando ribelle l'Assemblea.
In previsione di questo movimento, il numero delle guardie del corpo
(giovanotti dell'aristocrazia) era stato raddoppiato al castello di
Versaglia, chiamandovi pure il reggimento di Fiandra e i dragoni. Al
1° ottobre, le guardie del corpo diedero una grande festa al
reggimento di Fiandra e vi invitarono pure gli ufficiali dei dragoni
e degli svizzeri di guarnigione a Versaglia.
Durante il banchetto, Maria Antonietta e le dame di Corte, come pure
il re, fecero di tutto per esaltare l'entusiasmo realista degli
officiali. Le signore distribuirono delle coccarde bianche e la
coccarda nazionale fu gettata a terra e calpestata. Due giorni dopo,
il 3 ottobre, ebbe luogo un'altra festa del genere.
Queste feste precipitarono gli avvenimenti. Ne giunse il rumore a
Parigi, ingrossato forse per istrada, e il popolo subitamente
comprese che se non marciava su Versaglia, Versaglia marcerebbe su
Parigi.
La Corte preparava evidentemente un grande colpo. Partito il re e
ritirato in qualche luogo in mezzo alle sue truppe, nulla di più
facile che di sciogliere l'Assemblea, oppure di forzarla a ritornare
ai tre ordini, cioè alla situazione prima della seduta reale del 23
giugno. Non c'era forse nella stessa Assemblea un partito forte di
300 o 400 membri, i cui capi avevano già tenuto dei conciliaboli in
casa di Malouet per trasportare l'Assemblea a Tours, lontano dal
popolo rivoluzionario di Parigi? – Ma se il piano della Corte
riusciva, tutto si doveva ricominciare. I frutti del 14 luglio erano
perduti; perduti i risultati della sollevazione dei contadini, del
panico del 4 agosto...
Che cosa occorreva per evitare questo disastro? Sollevare il popolo!
Nient'altro! Ed è questa la gloria dei rivoluzionari posti in quel
momento in vedetta; compresero questa verità che fa quasi sempre
impallidire i rivoluzionari borghesi. Sollevare il popolo – la massa
oscura e miserabile del popolo di Parigi – ecco quanto si diedero
passionatamente a fare i rivoluzionari del 4 ottobre. I più ardenti
all'opera furono Danton, Marat e Loustalot, di cui abbiamo già
ricordato i nomi. Un esercito non si combatte con un pugno di
cospiratori; non si può debellare la reazione con un manipolo di
uomini per quanto risoluti siano. A un esercito bisogna opporre un
esercito; oppure, in mancanza di un esercito, il popolo, tutto il
popolo, le centinaia di migliaia di uomini, di donne e di fanciulli
d'una città. Essi soli possono vincere, essi soli hanno vinto degli
eserciti, demoralizzandoli, paralizzandone la selvaggia forza.
Al 5 ottobre l'insurrezione scoppiava a Parigi al grido: Pane! Pane!
Il suono di un tamburo, battuto da una fanciulla, servì qual segno
d'adunata per le donne. Rapidamente si forma una banda di donne,
marcia sul Palazzo di Città, spalanca le porte della Casa comune
domandando pane ed armi, e poichè già da parecchi giorni se ne
parlava, il grido: A Versaglia! è raccolto da tutti. Maillard,
conosciuto a Parigi sin dal 14 luglio per la parte da lui avuta
nell'assedio della Bastiglia, vien riconosciuto quale capo della
colonna e le donne partono.
Certo, mille idee diverse tumultuavano nei loro cervelli, ma il pane
doveva essere l'idea dominante. E a Versaglia che si cospirava
contro la felicità del popolo, è a Versaglia che si ristabiliva il
patto della carestia e si tentava d'impedire l'abolizione dei
diritti feudali – e le donne marciavano su Versaglia. È assai
probabile che nella massa del popolo il re, come tutti i re, fosse
considerato come un essere bonario, che voleva il bene del popolo.
Il prestigio reale era profondamente radicato negli spiriti. Ma già
nell'89 si odiava la regina. I discorsi che si tenevano a tal
proposito erano terribili: «Dov'è quella sporca sgualdrina? Eccola,
la sconcia puttana! Bisogna impadronirsi di questa bagascia e
tagliarle il collo», dicevano tra loro le donne, e si è colpiti
dalla fretta, dal piacere quasi col quale l'inchiesta dello Châtelet
rilevò questi proponimenti. Qui ancora il popolo aveva mille volte
ragione. Se il re, apprendendo il fiasco della seduta reale del 23
giugno, aveva detto: « Ebbene, f....., ci restino!», Maria
Antonietta ne restò ferita al cuore. Ella ricevè con uno sdegno
supremo il re roturier (plebeo), dalla coccarda tricolore, reduce
dalla sua visita a Parigi il 17 luglio, e d'allora era divenuta
l'inspiratrice di tutti i complotti. Da questo istante trae origine
la corrispondenza che la regina inizierà più tardi col Fersen, allo
scopo di condurre lo straniero a Parigi. Poichè quella notte stessa
del 5 ottobre, quando le donne invasero il Palazzo – la regina, dice
la reazionarissima madama Campan, ricevette Fersen nella di lei
stanza da letto.
Il popolo sapeva tutto ciò grazie, in parte, agli stessi domestici
del castello, e la folla, lo spirito collettivo del popolo di Parigi
comprendeva ciò che i singoli furono così lenti a comprendere: che
cioè Maria Antonietta sarebbe spinta a tutto dai suoi odii, e che
per sventarne i complotti occorreva tenere il re, la sua famiglia e
anche l'Assemblea, a Parigi, sotto l'occhio del popolo.
Al loro primo entrare in Versaglia, le donne, rotte dalla fatica e
affamate, inzuppate d'acqua sotto la pioggia fitta, si limitarono a
domandare del pane. Quando invasero l'Assemblea, caddero estenuate
sui banchi dei deputati; ma solo colla loro presenza queste donne
guadagnarono una prima vittoria. L'Assemblea ne profittò per
ottenere dal re la sanzione alla Dichiarazione dei diritti
dell'uomo.
Dopo le donne, altri uomini si misero in marcia, e allora, alle
sette di sera, per evitare qualche disgrazia al castello, Lafayette
partì per Versaglia alla testa della guardia nazionale.
Lo spavento invase la Corte. È dunque Parigi intera che marcia
contro il castello? La Corte tenne consiglio, ma, come sempre, senza
arrivare a decisioni di sorta. Tuttavia si preparavano le vetture
per far partire il re e la sua famiglia, quando furono viste da un
picchetto della guardia nazionale che le fece riporre nelle
scuderie.
L'arrivo della guardia nazionale borghese, gli sforzi di Lafayette e
soprattutto, forse, una pioggia torrenziale dispersero a poco a poco
la folla che ingombrava le vie di Versaglia, l'Assemblea e le
vicinanze del palazzo. Ma verso le cinque o le sei del mattino,
degli uomini e delle donne del popolo finirono per trovare un
cancello aperto, attraverso al quale penetrarono nel palazzo. In
pochi minuti scopersero la camera da letto della regina, la quale
ebbe appena il tempo di rifugiarsi dal re: caso diverso, l'avrebbero
fatta a pezzi. La stessa sorte minacciava le guardie del corpo,
quando Lafayette, a cavallo, giunse appena in tempo per salvarle.
L'invasione del palazzo da parte del popolo fu uno di quegli
scacchi, del quale la dinastia morente non potè più riaversi.
Lafayette ebbe un bel fare applaudire il re quando comparve al
balcone. Potè anche strappare alla folla applausi per la regina,
facendola comparire sul balcone col figlio e baciando
rispettosamente la mano di quella che il popolo avrebbe di lì a poco
chiamata «la Medici»... Tutto ciò non era che un piccolo effetto
teatrale. Il popolo aveva compreso la sua forza e la impiegò subito
per costringere il re a porsi in cammino per Parigi. Non giovarono
per evitare questo ritorno tutte le commedie recitate dalla
borghesia; il popolo ebbe coscienza di aver fatto e per sempre
prigioniero il re, e Luigi XVI, rientrando alle Tuileries,
abbandonate già sin dal regno di Luigi XIV, non si faceva illusioni.
«Che ognuno s'alloggi come vorrà!» fu la sua risposta – e si fece
portare dalla sua biblioteca... la storia di Carlo 1°.
La grande dinastia di Versaglia era giunta alla sua fine. D'ora in
poi non ci sarebbero stati che dei re borghesi o degli imperatori
giunti al trono per frode... Il regno dei re per grazia di Dio
volgeva per sempre al tramonto.
Ancora una volta, come al 14 luglio, il popolo, colla sua massa e
colla sua azione eroica, aveva inferto un colpo di piccone
all'antico regime. La Rivoluzione aveva fatto un balzo in avanti.
XXI
TERRORI DELLA BORGHESIA
NUOVA ORGANIZZAZIONE MUNICIPALE
A questo punto, si potrebbe credere di nuovo che la Rivoluzione
dovesse svolgersi liberamente. Vinta la reazione regia, sottomessi e
trattenuti in carcere a Parigi il Signor Veto e la Signora Veto,
l'Assemblea nazionale era dunque in procinto di portare la scure
nella foresta degli abusi, stava forse per abbattere il feudalismo,
per applicare i grandi principii che aveva enunciati in quella
Dichiarazione dei diritti dell'uomo, di cui la lettura ha fatto
palpitare i cuori?
Nulla di tutto ciò. Si stenta a crederlo; ma dopo il 5 ottobre è la
reazione che comincia e s'organizza, e si affermerà sempre più, sino
al giugno del 1792.
Il popolo di Parigi ritorna nei suoi tuguri: la borghesia lo
licenzia, lo fa rintanare. Senza l'insurrezione agraria che seguì il
suo corso sino alla completa abolizione di fatto dei diritti feudali
nel luglio del 1793, senza le sollevazioni delle provincie che si
succedettero e impedirono al governo della borghesia di solidamente
costituirsi, – la reazione avrebbe potuto trionfare sin dal 1791,
anzi dal 1790.
«Il re è al Louvre, l'Assemblea nazionale alle Tuileries, i canali
di circolazione riprendono il loro corso, il mercato rigurgita di
sacchi, la cassa nazionale si riempie, i traditori fuggono, la
calotte (il clero) è a terra, l'aristocrazia muore», – diceva
Camillo Desmoulins nel primo numero del suo giornale (28 novembre).
Ma in realtà, la reazione rialzava dovunque la testa. Mentre i
rivoluzionari trionfavano, credendo la rivoluzione quasi finita, –
la reazione comprendeva, invece, che la grande, la vera lotta stava
per incominciare fra il passato e l'avvenire, in ogni casolare, e
che il momento era venuto di mettersi all'opera per domare la
rivoluzione.
La reazione vedeva inoltre che la borghesia, la quale sino allora
aveva cercato l'appoggio del popolo per ottenere i diritti
costituzionali e per fiaccare la nobiltà, era pronta – ora che aveva
sentito e visto la forza del popolo – ad ogni tentativo per domarlo,
disarmarlo, farlo tornare sottomesso.
Questo terrore del popolo si fece sentire nell'Assemblea
immediatamente dopo il 5 ottobre. Più di duecento deputati si
rifiutarono di entrare a Parigi e domandarono, per ritornare alle
loro case, dei passaporti che furono loro rifiutati, mentre i
richiedenti venivano trattati da traditori. Parecchi rassegnarono
allora le proprie dimissioni: non si sapeva più dove si andava a
finire! Come dopo al 14 luglio, così dopo al 5 ottobre si ebbe
l'emigrazione; ma questa volta, non dalla Corte partiva il segnale,
bensì dall'Assemblea.
Tuttavia, l'Assemblea aveva nel suo seno una forte maggioranza di
rappresentanti della borghesia, che seppero approfittare dei primi
momenti per stabilire il potere della loro classe su basi solide.
Così, prima ancora di recarsi a Parigi, il 19 ottobre, l'Assemblea
aveva votato la responsabilità dei ministri, come quella dei
funzionari d'amministrazione, di fronte alla rappresentanza
nazionale, e il voto delle imposte da parte dell'Assemblea – le due
prime condizioni di un governo costituzionale. Il titolo di re di
Francia diventava: re dei francesi.
Mentre l'Assemblea approfittava del movimento del 5 ottobre per
stabilirsi sovrana, la municipalità borghese di Parigi, cioè il
Consiglio dei Trecento, che s'era imposto dopo il 14 luglio,
approfittava dal canto suo degli avvenimenti per consolidare la sua
autorità. Sessanta amministratori, presi in seno ai Trecento e
ripartiti in otto dipartimenti (sussistenze, polizia, lavori
pubblici, ospedali, educazione, dominii e redditi, imposte, e
guardia nazionale) s'arrogavano tutti questi poteri e diventavano
una potenza rispettabile, tanto più ch'essi disponevano di 60,000
uomini della guardia nazionale, scelti solo fra i cittadini agiati.
Bailly, il sindaco di Parigi, e soprattutto Lafayette, comandante
della guardia nazionale, divenivano importanti personaggi. Quanto
alla polizia, la borghesia si mischiò in tutto: riunioni, giornali,
commercio ambulante, annunci, in modo da sopprimere tutto quanto le
era ostile. E da ultimo i Trecento, profittando dell'uccisione di un
fornaio (21 ottobre), andarono a implorare dall'Assemblea una legge
marziale, che l'Assemblea si affrettò naturalmente a votare. Bastava
ormai che un ufficiale municipale facesse spiegare lo stendardo
rosso, perchè venisse proclamata la legge marziale; allora ogni
assembramento diventava delittuoso e la truppa, richiesta
dall'ufficiale municipale, poteva dopo tre ingiunzioni sparare sul
popolo. Se il popolo si ritirava pacificamente, senza violenza,
prima dell'ultima ingiunzione, solo gli instigatori della sedizione
erano processati e mandati per tre anni in prigione – se
l'assembramento era senz'armi; condannati a morte, se armato. Ma nel
caso di violenze commesse dal popolo, tutti i colpevoli erano
passibili della pena di morte. Eguale pena per ogni soldato o
ufficiale della guardia nazionale che eccitasse o fomentasse
assembramenti!
Un delitto commesso nella strada era stato sufficente per la
creazione di questa legge, e in tutta la stampa di Parigi, come lo
ha giustamente notato Louis Blanc, non ci fu che una sola voce –
quella di Marat – per protestare contro questa legge atroce e per
dire che in tempo di rivoluzione, quando una nazione sta rompendo le
sue catene e sta dibattendosi dolorosamente contro i suoi nemici,
una legge marziale non ha ragion d'essere. Nell'Assemblea solo
Robespierre e Buzot protestarono, e anch'essi non per il principio,
ma per la procedura! Non bisognava proclamare, dicevano, la legge
marziale prima di avere istituito un tribunale per giudicare i
colpevoli di lesa-nazione.
Approfittando della calma che fra il popolo seguì necessariamente le
giornate del 5 e 6 ottobre, la borghesia s'accinse, tanto
nell'Assemblea come al Municipio, ad organizzare il nuovo potere
della classe media, non senza urtare qualche volta contro le
ambizioni personali che cercavano d'elidersi e cospiravano le une
contro le altre.
La Corte, dal canto suo, non vedeva nessuna necessità d'abdicare:
essa cospirò, lottò anche, e profittò dei bisognosi e degli
ambiziosi, come Mirabeau, per arruolarli al suo servizio.
Il duca d'Orléans che si era compromesso nel movimento del 6
ottobre, da lui segretamente favorito, cadde in disgrazia e,
allontanato dalla Corte, fu inviato come ambasciatore in
Inghilterra.
Ma allora è Monsieur, il fratello del re, il conte di Provenza, che
si mette a intrigare, per far partire il re – le soliveau
(travicello), come scriveva a un amico una volta il re fuggito, il
fratello avrebbe posto la sua candidatura al trono di Francia.
Mirabeau, che, dal 23 giugno, aveva acquistato una potenza
formidabile in seno all'Assemblea, sempre bisognoso, intrigava dal
canto suo per arrivare al ministero, e quando i suoi piani furono
sventati dall'Assemblea (la quale votò che nessuno dei suoi membri
potesse accettare posti in un ministero), si gettò nelle braccia del
conte di Provenza, nella speranza di arrivare, coll'aiuto di lui, al
ministero. Da ultimo si vendette al re, da cui accettò una pensione
di 50,000 franchi al mese per quattro mesi e la promessa di
un'ambasciata, in cambio di che, il signor de Mirabeau s'impegnava
ad «aiutare il re coi suoi lumi, colle sue forze, colla sua
eloquenza in ciò che Monsieur giudicherà utile al bisogno dello
Stato e all'interesse del re». Tutto questo non lo si conobbe che
più tardi, nel 1792, dopo la presa delle Tuileries, e nel frattempo
Mirabeau conservò sino alla morte (2 aprile 1791) la sua riputazione
di difensore del popolo.
Sarà sempre impossibile dipanare la matassa d'intrighi che si
intrecciavano allora attorno al Louvre e ai palazzi dei principi,
come pure nelle corti di Londra, di Vienna, di Madrid e dei diversi
principati tedeschi. Tutti s'agitavano attorno alla monarchia che
moriva. E nel seno dell'Assemblea stessa – quante ambizioni
d'arrivare alla conquista del potere! Ma questi sono incidenti senza
troppo valore. Aiutano a spiegare certi fatti, ma non cambian di un
filo la marcia degli avvenimenti, determinati dalla logica stessa
della situazione e dalle forze entrate in conflitto.
L'Assemblea rappresentava la borghesia intellettuale in procinto di
conquistare e organizzare il potere che sfuggiva dalle mani della
Corte, dell'alto clero e dell'alta nobiltà. E conteneva nel suo seno
un certo numero di uomini, che marciavano diritti verso questa meta
con intelligenza e con una certa audacia, che cresceva ogni qual
volta il popolo aveva guadagnato una battaglia contro il regime
antico. C'erano, è vero, all'Assemblea Duport, Charles de Lameth e
Barnave, che formavano il cosidetto «triumvirato», e c'erano, a
Parigi, il sindaco Bailly e il comandante della guardia nazionale
Lafayette sui quali convergevano gli sguardi, ma la vera forza della
borghesia risiedeva nelle masse compatte dell'Assemblea, che
elaboravano le leggi per costituire il governo delle classi medie.
È questo il lavoro al quale si accinse con ardore l'Assemblea, non
appena, installata a Parigi, potè riprendere le sue tornate con una
certa tranquillità.
Questo lavoro, noi l'abbiam visto, fu iniziato all'indomani della
presa della Bastiglia. Quando la borghesia ebbe visto il popolo
armarsi in pochi giorni di picche, incendiare i casotti daziari,
impadronirsi delle provvigioni, là dove le trovava, quando lo ebbe
visto ostile tanto ai ricchi borghesi quanto ai talons rouges
(aristocratici) – essa fu colta da terrore. S'affrettò allora ad
armarsi, a organizzare la «sua» guardia nazionale – i «berretti di
pelo» contro i «berretti di lana» e le picche – allo scopo di poter
reprimere le insurrezioni popolari. E dopo il 5 ottobre non pose
tempo in mezzo a votare la legge sugli assembramenti, della quale
abbiamo or ora parlato.
Nello stesso tempo non indugiò a legiferare in modo che il potere
politico, con lo sfuggire dalle mani della Corte, non cadesse nelle
mani del popolo. Così, otto giorni dopo il 14 luglio, Sieyès, il
famoso avvocato del Terzo Stato, proponeva già all'Assemblea di
dividere i francesi in due categorie, di cui l'una – i cittadini
attivi soli – parteciperebbe al governo, mentre l'altra –
comprendente la maggioranza del popolo, sotto il nome di cittadini
passivi, sarebbe privata di tutti i diritti politici. Cinque
settimane più tardi, l'Assemblea accettava questa divisione come
fondamentale per la Costituzione. Appena proclamata, ecco che veniva
violata vergognosamente quella Dichiarazione dei diritti, di cui il
primo articolo affermava l'eguaglianza dei diritti di ogni cittadino
Riprendendo il lavoro d'organizzazione politica della Francia,
l'Assemblea abolì l'antica divisione feudale in provincie, delle
quali ciascuna conservava certi privilegi feudali per la nobiltà e i
parlamenti; divise la Francia in dipartimenti; sospese gli antichi
«parlamenti» – cioè gli antichi tribunali che possedevano anch'essi
privilegi giudiziari, e procedè all'organizzazione di una
amministrazione fondamentalmente nuova e uniforme pur
mantenendo sempre il principio d'esclusione dal governo delle classi
povere.
L'Assemblea nazionale, eletta ancora sotto l'antico regime,
quantunque uscita da elezioni a doppio grado, era tuttavia il
prodotto di un suffragio quasi universale. Infatti, in ogni
circoscrizione elettorale erano state convocate parecchie assemblee
primarie, composte di quasi tutti i cittadini della località. Questi
avevano nominato gli elettori, che composero in ogni circoscrizione
un'assemblea elettorale, la quale scelse a sua volta il suo
rappresentante all'Assemblea nazionale. Fa d'uopo notare che, ad
elezioni finite, le assemblee elettorali continuavano a riunirsi,
ricevevano lettere dai loro deputati e ne sorvegliavano i voti.
Giunta al potere la borghesia fece due cose. Aumentò le attribuzioni
delle assemblee elettorali, confidando loro l'elezione dei
direttorii di ogni dipartimento, dei giudici e di certi altri
funzionari. In tal modo venivano ad avere un gran potere. Ma nello
stesso tempo escluse dalle assemblee primarie la massa del popolo,
ch'essa privava così di tutti i diritti politici. Non vi ammetteva
che i cittadini attivi, cioè coloro che pagavano, in contribuzioni
dirette, almeno tre giornate di lavoro64. Gli altri diventavano dei
cittadini passivi. Non potevano più far parte delle assemblee
primarie, di guisa che essi non avevano il diritto di nominare nè
gli elettori, nè il loro municipio, nè alcun'altra delle autorità
dipartimentali. Essi non potevano neppure far parte della guardia
nazionale65.
Inoltre, per poter essere nominato elettore, bisognava pagare in
imposte dirette il valore di dieci giornate di lavoro, la qual cosa
tramutava quelle assemblee in corpi interamente borghesi. (Più
tardi, quando crebbe la reazione dopo il massacro del Campo di
Marte, l'Assemblea fece anzi una nuova restrizione: occorreva il
possesso di una proprietà per poter essere nominato elettore). E per
poter essere nominato rappresentante del popolo all'Assemblea,
bisognava pagare in contribuzioni dirette il valore di un marco
d'argento, cioè 50 lire.
Meglio ancora: fu interdetta la permanenza delle assemblee
elettorali. Finite le elezioni, queste assemblee non dovevano più
riunirsi. Una volta nominati i governanti borghesi, non bisognava
controllarli troppo severamente. Ben presto, lo stesso diritto di
petizione e di espressione di voti fu tolto: «Votate e tacete!»
Quanto ai villaggi, essi avevano conservato, come si è visto, sotto
l'antico regime, in quasi tutta la Francia, sino alla Rivoluzione,
l'assemblea generale degli abitanti – come il mir in Russia.
Spettava a quest'assemblea generale la gestione degli affari del
comune, come pure la ripartizione e la gestione delle terre comunali
– campi coltivati, praterie e foreste e terre incolte. Ebbene!
Queste assemblee generali della comunità furono proibite colla legge
municipale del 22-24 dicembre 1789. Ormai, solo i contadini agiati –
i cittadini attivi – ebbero il diritto di riunirsi, una volta
all'anno, per nominare il sindaco e la municipalità, composta di tre
o quattro borghesi del villaggio. La stessa organizzazione
municipale fu data alle città, dove i cittadini attivi si riunivano
per nominare il consiglio generale della città e la municipalità –
cioè il potere legislativo in materie municipali e il potere
esecutivo, ai quali era affidata tutta la polizia nel comune e il
comando della guardia nazionale.
Il movimento, da noi segnalato in luglio nelle città, consisteva nel
darsi rivoluzionariamente un'amministrazione municipale, eletta in
un momento in cui le leggi dell'antico regime rimaste in pieno
vigore non autorizzavano nulla del genere. Quel movimento fu
consacrato poi dalla legge municipale e amministrativa del 22
dicembre 1789. E fu, lo si vedrà, una forza immensa data già dal
principio alla Rivoluzione, la creazione di questi 36,000 centri
municipali, indipendenti in mille punti dal governo centrale e
capaci d'agire rivoluzionariamente, quando i rivoluzionari
riuscivano ad impadronirsene. Gli è vero che la borghesia si
circondò di tutte le precauzioni, perchè il potere municipale
rimanesse nelle mani della parte agiata della classe media. La
municipalità fu inoltre sottoposta al Consiglio del dipartimento,
eletto in secondo grado, che rappresentava in tal modo la borghesia
agiata e fu durante tutta la Rivoluzione, l'appoggio e l'arma dei
contro rivoluzionari.
D'altronde, la municipalità stessa, di cui l'elezione si faceva solo
da parte dei cittadini attivi, rappresentava la borghesia piuttosto
che la massa popolare, e nelle città, come Lione e molte altre, essa
divenne un centro della reazione. Ma ciò non di meno, le
municipalità non erano un potere regio, e bisogna riconoscere che
più di qualunque altra legge, la legge municipale del dicembre 1789
contribuì al successo della Rivoluzione. Durante l'insurrezione dei
contadini contro i loro signori feudali, nell'agosto del 1789, noi
abbiam visto le municipalità del Delfinato scendere in campo contro
i contadini e impiccare senz'altro i ribelli. Ma via via che la
Rivoluzione si sviluppava, il popolo arrivava ad imporsi agli
ufficiali municipali. Ecco perchè, man mano che la Rivoluzione
allarga i suoi problemi, anche le municipalità si rivoluzionano, e
nel 1793-94 divengono i veri centri d'azione dei rivoluzionari
popolari.
L'Assemblea compì un altro passo assai importante per la
Rivoluzione, quando abolì la vecchia giustizia dei parlamenti e
introdusse i giudici eletti dal popolo. Nelle campagne, ogni
cantone, composto di cinque a sei parocchie – nominò, per mezzo dei
cittadini attivi, i suoi magistrati, e nelle grandi città questo
diritto fu dato alle assemblee degli elettori. Gli antichi
parlamenti lottarono, naturalmente, per la conservazione delle loro
prerogative. Nel Mezzogiorno, a Tolosa, 80 membri del parlamento,
insieme con 89 gentiluomini, si misero anzi alla testa di un
movimento per restituire al monarca la sua autorità legittima e la
sua «libertà», e alla religione «la sua utile influenza». A Parigi,
a Rouen, a Metz, in Brettagna, i parlamenti non vollero sottoporsi
al potere livellatore dell'Assemblea e si misero alla testa della
cospirazione in favore dell'antico regime.
Ma i parlamenti non furono sostenuti dal popolo e dovettero
sottostare al decreto del 3 novembre 1789, col quale erano stati
congedati sino a nuovo ordine. La resistenza ch'essi tentarono,
condusse ad un nuovo decreto (dell'11 gennaio 1790), col quale fu
dichiarato che la resistenza dei magistrati di Rennes alla legge «li
rendeva inabili all'adempimento di ogni funzione di cittadini
attivi, sino a quando, dietro loro richiesta, presentata al corpo
legislativo, siano stati ammessi a prestare giuramento di fedeltà
alla costituzione decretata dall'Assemblea nazionale e accettata dal
re.»
L'Assemblea, lo si vede, intendeva di far rispettare le sue
decisioni concernenti la nuova organizzazione amministrativa della
Francia. Ma questa nuova organizzazione incontrò un'opposizione
formidabile da parte dell'alto clero, della nobiltà e dell'alta
borghesia, e occorsero molti anni e una rivoluzione ben più profonda
di quella ammessa dalla borghesia per demolire l'antica
organizzazione e introdurre la nuova.
XXII
DIFFICOLTÀ FINANZIARIE. – VENDITA DEI BENI DEL CLERO
Le più grandi difficoltà della Rivoluzione consistevano nel fatto
ch'essa doveva farsi strada fra circostanze economiche terribili. La
bancarotta dello Stato restava una minaccia sospesa sulla testa di
coloro che avevano incominciato a reggere la Francia, e se la
bancarotta veniva, essa provocava una rivolta di tutta la borghesia
agiata contro la Rivoluzione. Se il disavanzo era stato una delle
cause che, forzando la reggia a fare le prime concessioni
costituzionali, diedero poi alla borghesia il coraggio di reclamare
seriamente la sua parte di governo, questo stesso disavanzo pesò
durante tutta la Rivoluzione come un incubo terribile per tutti
coloro che furono portati successivamente al potere.
È vero che a quell'epoca i prestiti di Stato non essendo ancora
internazionali, la Francia non temeva che le nazioni straniere
venissero in qualità di creditori a impossessarsi di comune accordo
delle sue provincie, come avverrebbe oggi se uno Stato europeo in
rivoluzione dichiarasse bancarotta. Ma bisognava pensare ai
prestatori interni, e se la Francia avesse soppresso i suoi
pagamenti, provocando la rovina di tante fortune borghesi, tutta la
borghesia grande e media si sarebbe scagliata contro la Rivoluzione,
alla quale non sarebbero rimasti fedeli che gli operai e i più
miseri contadini. Così l'Assemblea costituente, l'Assemblea
legislativa, la Convenzione, e più tardi, il Direttorio, dovettero
fare degli sforzi inauditi durante una lunga serie d'anni per
evitare la bancarotta.
La soluzione che l'Assemblea adottò alla fine del 1789 fu quella
d'impossessarsi dei beni della Chiesa, di metterli in vendita, e di
pagare in cambio un salario fisso al clero. I redditi della Chiesa
erano nel 1789 valutati a centoventi milioni per le decime, a
ottanta milioni d'altri redditi prodotti da proprietà diverse (case,
beni stabili, di cui il valore era stimato di qualche cosa superiore
ai due miliardi) e a trenta milioni circa di contribuzione, aggiunti
ogni anno dallo Stato: totale 230 milioni all'anno. Questi redditi
erano evidentemente ripartiti nella maniera più ingiusta fra i
diversi membri del clero. I vescovi vivevano in un lusso ricercato e
rivaleggiavano nelle spese coi ricchi signori e coi principi, mentre
i curati della città e dei villaggi, «ridotti alla porzione
congrua», vivevano nella miseria. Fu dunque proposto da Talleyrand,
vescovo di Autun, sin dal 10 ottobre, di prendere possesso in nome
dello Stato di tutti i beni della Chiesa; di venderli, di
stipendiare a sufficenza il clero (1200 lire all'anno per ogni
curato, più l'alloggio), e di coprire col resto una parte del debito
pubblico, che ammontava a 50 milioni di rendite vitalizie e 60
milioni di rendite perpetue. Questa misura avrebbe permesso di
colmare il disavanzo, di abolire il rimanente della gabella e di non
far più assegnamento sulle «cariche» o posti d'ufficiali e di
funzionari, che si comperavano dallo Stato. Mettendo in vendita i
beni della Chiesa, si voleva pure creare una nuova classe di
lavoratori, che sarebbero fedeli alla terra di cui diventavano
proprietari.
Questo piano suscitò naturalmente forti timori da parte di coloro
che erano proprietari fondiari. – Voi ci conducete alla legge
agraria! – si disse all'Assemblea. «Sappiate che tutte le volte che
voi risalirete all'origine delle proprietà, la nazione vi risalirà
con voi!» Ciò significava riconoscere che alla base di ogni
proprietà fondiaria c'era l'ingiustizia, l'accaparramento, la frode
o il furto.
Ma la borghesia non proprietaria fu entusiasmata da quel piano. Si
evitava in tal modo la bancarotta e i borghesi trovavano dei beni da
comperare. E poichè la parola «espropriazione» spaventava le anime
pietose dei proprietari, si trovò il mezzo di evitarla. Si disse che
i beni del clero erano messi a disposizione della nazione, e fu
deciso di metterne subito in vendita per una somma di 400 milioni.
Il 2 novembre 1789 – data memorabile – fu votata questa immensa
espropriazione all'Assemblea con 568 voti contro 346! E questi
oppositori, divenuti da quel momento i nemici acerrimi della
Rivoluzione, si adopreranno con ogni mezzo per creare imbarazzi al
regime costituzionale, poscia alla Repubblica.
Ma la borghesia, istruita da una parte dagli enciclopedisti,
atterrita dall'altra dalla ineluttabilità della bancarotta, non si
lasciò spaventare. Quando l'immensa maggioranza del clero e
soprattutto gli ordini monastici tentarono opporsi con intrighi
all'espropriazione dei beni del clero, l'Assemblea votò – il 12
febbraio 1790 – la soppressione dei voti perpetui e degli ordini
monastici tanto dell'uno come dell'altro sesso. Ebbe la sola
debolezza di non toccare, per il momento, le congregazioni
incaricate dell'istruzione pubblica e dell'assistenza ai malati.
Queste non furono abolite che il 18 agosto 1792, dopo la presa delle
Tuileries.
Questi decreti suscitarono odii profondi nel seno del clero e in
tutti quelli – e il loro numero era immenso in provincia – che
subivano l'influenza del clero. Tuttavia, finchè il clero e gli
ordini sperarono di detenere ancora la gestione delle loro immense
proprietà, da considerarsi solo quali ipoteche pei prestiti dello
Stato, essi non mostrarono tutta la loro ostilità. Ma questa
situazione non poteva durare. Il Tesoro era vuoto, le imposte non
rendevano. Un prestito di 30 milioni, votato il 9 agosto 1789, non
era riuscito; un altro di 80 milioni, votato il 27 dello stesso
mese, diede un meschino risultato. Da ultimo, un contributo
straordinario del quarto del reddito, era stato votato il 26
settembre, dopo un celebre discorso di Mirabeau. Ma questa imposta
fu immediatamente inghiottita nella voragine degli interessi dei
vecchi prestiti, e allora si giunse all'idea degli «assegnati» a
corso forzoso, il cui valore sarebbe stato garantito dai beni
nazionali confiscati al clero e rimborsabili a misura che la vendita
di questi beni avrebbe fornito del denaro alle casse esauste dello
Stato.
Come ben s'immagina le più enormi speculazioni furono provocate
dalla vendita dei beni nazionali su una grande scala e
dall'emissione degli assegnati. S'indovina pure facilmente
l'elemento che queste due misure introdussero nella Rivoluzione.
Eppure, sino a tutt'oggi, economisti e storici si chiedono ancora se
ci fosse un altro mezzo per fronteggiare i bisogni urgenti dello
Stato. I delitti, la stravaganza, i furti, le guerre dell'antico
regime, pesavano sulla Rivoluzione. Iniziata coll'immenso fardello
dei debiti trasmessile dall'antico regime, la Rivoluzione dovette
sopportarne le conseguenze. Minacciata da una guerra civile, più
terribile di quella che già si scatenava, e nella tema d'inimicarsi
la borghesia che, pur mirando ai suoi scopi, lasciava che il popolo
s'affrancasse dai suoi signori, ma avrebbe ostacolato ogni tentativo
di liberazione, se i capitali da lei impegnati nei prestiti fossero
andati perduti, – la Rivoluzione, di fronte a questo doppio
pericolo, adottò il progetto degli assegnati garantiti dai beni
nazionali.
Il 29 dicembre 1789, dietro proposta dei distretti di Parigi (vedi
più avanti, cap. XXIV) veniva trasferita alle municipalità
l'amministrazione dei beni del clero, perchè ne vendessero per 400
milioni. Il gran colpo era inferto. E d'allora, il clero, salvo
pochi parroci di villaggio, amici del popolo, concepì un odio a
morte contro la Rivoluzione, – un odio clericale e le Chiese sono in
ciò maestre insuperate. L'abolizione dei voti monastici esasperò
questi odii. Da quel momento, in tutta la Francia, il clero divenne
l'anima delle cospirazioni per ristabilire l'antico regime e la
feudalità. Il clero fu spirito ed anima di questa reazione, che noi
vedremo sorgere nel 1790 e 1791, minacciando di strozzare le
Rivoluzione ai suoi primi vagiti.
Ma la borghesia lottò e non si lasciò disarmare. Nel giugno e nel
luglio 1790 l'Assemblea affrontò la discussione di una grande
questione – l'organizzazione interna della Chiesa in Francia. Poichè
il clero era divenuto un salariato dello Stato, i legislatori
concepirono l'idea di affrancarlo da Roma e di sottometterlo
interamente alla Costituzione. I vescovadi furono annessi ai nuovi
dipartimenti: il loro numero venne così ridotto, e furono unificate
le due circoscrizioni: diocesana e amministrativa. Questo poteva
ancora passare; ma, colla nuova legge, l'elezione dei vescovi fu
confidata agli elettori, a quelli stessi, cioè, che sceglievano i
deputati, i giudici e gli amministratori.
Ciò significava spogliare il vescovo del suo carattere sacerdotale
per farne un funzionario dello Stato. È vero che nelle antiche
Chiese vescovi e preti venivano nominati dal popolo, ma le assemblee
elettorali indette per l'elezione di rappresentanti politici e di
funzionari, non erano le antiche assemblee del popolo, dei credenti.
Insomma, i credenti ci videro un attacco vibrato contro i vecchi
dogmi della Chiesa, e i preti cercarono di trarre il massimo
profitto da questo malcontento. Il clero si divise in due grandi
partiti; il clero costituzionale, che si sottomise, almeno pro
forma, alle nuove leggi e prestò giuramento alla Costituzione, e il
clero che rifiutò di giurare e si pose apertamente alla testa del
movimento contro rivoluzionario. In tal modo, il problema della
Rivoluzione o della contro rivoluzione s'impose in ogni provincia,
in ogni città, in ogni villaggio, in ogni casolare, agli abitanti di
tutta la Francia. Quindi, le lotte più terribili si produssero in
ogni piccola località per decidere quale dei due partiti avrebbe il
sopravvento. Da Parigi, la Rivoluzione fu portata in ogni villaggio.
Da parlamentare, diventava popolare.
L'opera compiuta dall'Assemblea costituente fu certo borghese. Ma
con l'avere introdotto nelle abitudini della nazione il principio
d'eguaglianza politica, con l'avere abolito le sopravvivenze di
diritti di un uomo sulla persona di un altro, con l'aver risvegliato
il sentimento d'eguaglianza e lo spirito di rivolta contro le
ineguaglianze, l'opera di quest'Assemblea fu immensa. Solo, bisogna
sempre ricordare, come lo aveva già fatto notare Louis Blanc, che
per mantenere e vivificare quel focolare che era rappresentato
dall'Assemblea, era necessario «il vento che allora soffiava dalle
piazze». «Anche la sommossa, aggiunge Blanc, in quei giorni
incomparabili, faceva uscire dal suo tumulto tante saggie
inspirazioni! Ogni sedizione era così gravida di idee!» In altri
termini, fu il popolo, il popolo nella strada che, continuamente,
costrinse l'Assemblea a marciare innanzi nella sua opera di
ricostruzione. Anche un'assemblea rivoluzionaria o che, almeno,
s'imponeva rivoluzionariamente come fece la Costituente, non avrebbe
fatto nulla, se il popolo non l'avesse spinta, colla spada nelle
reni, e se non avesse fiaccato colle sue numerose sollevazioni la
resistenza contro rivoluzionaria.
XXIII
LA FESTA DELLA FEDERAZIONE
Col trasloco del re e dell'Assemblea da Versaglia a Parigi, si
chiude il primo periodo – il periodo eroico, per così dire, della
Grande Rivoluzione. La riunione degli Stati generali, la seduta
reale del 23 giugno, il giuramento del Giuoco del Pallone, la presa
della Bastiglia, la rivolta delle città e dei villaggi in luglio e
in agosto, la notte del 4 agosto, da ultimo la marcia delle donne su
Versaglia e il loro ritorno trionfale col re prigioniero; ecco le
tappe principali di questo periodo.
Col ritorno dell'Assemblea e del re – del «legislativo» e
dell'«esecutivo» – a Parigi, comincia. un periodo di sorda lotta fra
la dinastia morente e il nuovo potere costituzionale, che si
consolida lentamente coi lavori legislativi dell'Assemblea e col
lavoro costruttivo che si compiva dovunque, in ogni città e in ogni
villaggio.
La Francia ha adesso nell'Assemblea nazionale un potere
costituzionale, che il re è stato costretto di riconoscere. Ma se lo
ha riconosciuto officialmente, lo considera però sempre come
un'usurpazione, un insulto alla sua autorità regia, di cui non vuole
ammettere la diminuzione. Perciò egli s'arrovella a trovare tutti i
minimi spedienti per abbassare l'Assemblea e disputarle ogni
parcella d'autorità. E sino all'ultimo momento, egli non abbandonerà
la speranza di ridurre un giorno all'obbedienza questo nuovo potere,
rimproverandosi di averlo lasciato sorgere accanto al suo.
In questa lotta tutti i mezzi gli sembreranno buoni. L'esperienza
gli insegna che è facile comperare gli uomini che lo circondano –
alcuni per poco denaro, gli altri per forti somme – e allora egli si
ingegna a trovare del denaro, molto denaro, chiedendolo in prestito
a Londra, allo scopo di poter comperare i capipartito nell'Assemblea
e altrove. Raggiunge facilmente l'intento con uno di quelli che
stanno maggiormente in vedetta, cioè con Mirabeau, che, mercè forti
sovvenzioni, divenne il consigliere della Corte e il difensore del
re, e passò i suoi ultimi giorni in un lusso assurdo. Ma non è
soltanto all'Assemblea che la dinastia trova i suoi sostegni; è
soprattutto di fuori. Li ha fra coloro che la Rivoluzione spoglia
dei privilegi, delle pazzesche pensioni loro assegnate altra volta,
delle loro colossali fortune; fra i nobili che perdono, coi diritti
feudali, la loro situazione privilegiata; fra i borghesi che temono
per i capitali da essi investiti nell'industria, nel commercio e nei
prestiti allo Stato – fra quegli stessi borghesi che giungeranno ad
arricchirsi durante e colla Rivoluzione.
Sono assai numerosi quelli che considerano come una nemica la
Rivoluzione. Sono tutti coloro che vivevano un tempo attorno
all'alto clero, ai nobili e ai privilegiati dell'alta borghesia: è
più della metà di tutta quella parte attiva e pensante, da cui è
fatta la vita storica d'una nazione. Se nel popolo di Parigi, di
Strasburgo, di Rouen e di molte altre città grandi e piccole, la
Rivoluzione trova i suoi più ardenti difensori, quante città ci
sono, invece, come Lione, dove l'influenza secolare del clero e la
dipendenza economica del lavoratore sono tali, che il popolo stesso
si metterà fra poco, col suo clero, contro la Rivoluzione, – quante
città ancora, come i grandi porti di Nantes, Bordeaux, San Malò,
dove stanno i grandi commercianti e tutti i loro dipendenti sono già
guadagnati in anticipo alla causa della reazione!...
Anche fra i contadini che avrebbero interesse ad essere colla
Rivoluzione, son molti i piccoli borghesi che la temono; senza
parlare delle popolazioni che per gli errori dei rivoluzionari ne
odieranno la grande causa. Troppo teorici, troppo adoratori
dell'uniformità e dell'allineamento e quindi incapaci di comprendere
le forme multiple della proprietà fondiaria, uscita dal diritto
consuetudinario; troppo volterriani, d'altra parte, per essere
tolleranti verso i pregiudizi delle masse votate alla miseria, e
soprattutto troppo politicanti per comprendere l'importanza che il
contadino attribuisce alla questione della terra – i rivoluzionari
stessi suscitano la contro rivoluzione dei contadini nella Vandea,
in Brettagna, nel sud-est.
La contro rivoluzione seppe utilizzare tutti questi elementi. Una
«giornata» come quella del 14 luglio o del 6 ottobre sposta e non di
poco il centro di gravità del governo; ma è nei trentasei mila
comuni di Francia, negli spiriti e negli atti di questi comuni che
la Rivoluzione doveva compiersi e ciò richiedeva del tempo. E ne
dava altresì alla contro rivoluzione, che ne profittò per guadagnare
alla sua causa tutti i malcontenti delle classi agiate, numerosi
assai in provincia. Poichè, se la borghesia radicale diede alla
Rivoluzione una quantità prodigiosa d'intelligenze d'eccezione
(sviluppate dalla Rivoluzione stessa), l'intelligenza e soprattutto
il tatto e l'astuzia non mancavano affatto alla nobiltà provinciale,
ai commercianti, al clero, che tutti insieme prestarono alla
dinastia una forza formidabile di resistenza.
Questa sorda lotta di complotti e di contro complotti, di
sollevazioni parziali nelle provincie e di lotte parlamentari
dell'Assemblea costituente e più tardi legislativa – questa lotta
dissimulata durò quasi tre anni dal mese di ottobre 1789 sino al
mese di giugno 1792, quando la Rivoluzione prese un nuovo slancio. È
un periodo povero di avvenimenti d'importanza storica – poichè i
soli che meritano d'essere segnalati in questo intervallo sono la
recrudescenza della sollevazione dei contadini in gennaio e febbraio
1790, la festa della Federazione, il 14 luglio 1790, il massacro di
Nancy (31 agosto 1790), la fuga del re, il 20 giugno 1791, e il
massacro del popolo di Parigi al Campo di Marte (17 luglio 1791).
Parleremo in uno dei seguenti capitoli delle insurrezioni agrarie.
Ma qui è bene dire qualche cosa della festa della Federazione. Piena
d'entusiasmo e di concordia, essa dimostra ciò che la Rivoluzione
avrebbe potuto essere se le classi privilegiate e la reggia,
comprendendo che un inevitabile cambiamento si compiva, avessero
consentito spontaneamente a quanto non potevano più evitare.
Taine denigra le feste della Rivoluzione, ed è vero che quelle del
1793 e 94 furono spesso troppo teatrali. Furono fatte per il popolo,
non dal popolo. Ma quella del 14 luglio 1790 fu una delle più belle
feste popolari che la storia ricordi.
Prima del 1789, la Francia non era unificata. Era un tutto storico,
ma le sue diverse parti si conoscevano poco e non si amavano
affatto. Ma dopo gli avvenimenti del 1789, dopo il colpo di scure
inferto nella selva delle sopravvivenze feudali, dopo i bei momenti
insieme vissuti dai rappresentanti di tutte le parti della Francia,
s'era creato un sentimento d'unione, di solidarietà fra le provincie
amalgamate dalla storia. L'Europa s'accendeva d'entusiasmo per le
parole e gli atti della Rivoluzione – come avrebbero potuto le
provincie che vi partecipavano resistere a questa unificazione nella
marcia in avanti, verso un avvenire migliore? È questo che fu
simboleggiato dalla festa della Federazione.
Ebbe un altro segno particolare. Poichè era necessario, per questa
festa, compiere certi lavori di sterro, livellare il suolo,
costruire un arco di trionfo, e poichè si vide – otto giorni prima
della festa – che i quindicimila operai occupati non sarebbero
riusciti a completare i preparativi, che cosa fece Parigi? Un ignoto
lanciò l'idea che tutta, tutta Parigi, andrebbe a lavorare al Campo
di Marte, e tutti – poveri e ricchi, artisti e manovali, monaci e
soldati – si misero gaiamente all'opera. La Francia, rappresentata
da mille delegati venuti dalle provincie, trovò la sua unità
nazionale smovendo la terra – simbolo di ciò che un giorno creerà
l'eguaglianza e la fratellanza degli uomini e delle nazioni.
Il giuramento che le migliaia d'intervenuti prestano «alla
Costituzione decretata dall'Assemblea nazionale e accettata dal re»,
il giuramento prestato dal re e confermato spontaneamente dalla
regina per suo figlio – tutto ciò aveva poca importanza. Ognuno
faceva certamente delle «riserve mentali» al suo giuramento, ognuno
vi metteva certe condizioni. Il re prestò il suo giuramento con
queste parole: «Io, re dei francesi, giuro d'impiegare tutto il
potere che mi è attribuito dall'atto costituzionale dello Stato a
mantenere la costituzione decretata dall'Assemblea nazionale e
accettata da me.» La qual formula significava ch'egli avrebbe ben
voluto mantenere la costituzione, che però sarebbe violata, mentre
lui, il re, non avrebbe potuto impedirlo. In realtà, nel momento
stesso nel quale il re prestava il suo giuramento, egli non pensava
che ai mezzi per uscire da Parigi, col pretesto di un viaggio di
riviste agli eserciti. Calcolava i mezzi per comperare i membri
influenti dell'Assemblea e faceva assegnamento sui soccorsi che gli
verrebbero dall'estero per domare la Rivoluzione, da lui stesso
scatenata colla sua opposizione ai cambiamenti necessari e la
furberia dei suoi rapporti coll'Assemblea nazionale.
I giuramenti valevano poco. Ma quel che è necessario di rilevare in
quella festa, oltre l'affermazione di una nuova nazione, avente un
ideale comune – è la sorprendente bonomia della Rivoluzione. Un anno
dopo la presa della Bastiglia, quando Marat aveva tutte le ragioni
di scrivere: «Perchè questa gioia sfrenata? Perchè queste stupide
manifestazioni d'allegria? La Rivoluzione non è stata ancora che un
doloroso sogno per il popolo!» poichè nulla era stato ancor fatto
per soddisfare i bisogni del popolo lavoratore e tutto era stato
fatto invece (noi lo vedremo fra poco) per impedire l'abolizione
reale degli abusi feudali, quantunque il popolo avesse dovuto pagare
dovunque colla vita e una miseria spaventevole i progressi della
Rivoluzione politica. Eppure, malgrado tutto ciò, il popolo
s'accendeva d'entusiasmo allo spettacolo del nuovo regime
democratico affermato in quella festa. Come cinquantotto anni più
tardi, nel febbraio del 1848, il popolo di Parigi metteva tre mesi
di miseria al servizio della Repubblica, così adesso, il popolo si
mostrava pronto a sopportare ogni sacrificio, purchè la costituzione
gli promettesse un sollievo e mostrasse un po' di buona volontà.
Se tre anni più tardi, questo stesso popolo, di così facile
contentatura e tanto disposto ad aspettare, diventò feroce e
cominciò lo sterminio dei contro rivoluzionari, non vi ricorse che
come al mezzo supremo per salvare qualche cosa della Rivoluzione –
vedendola sul punto di naufragare, prima di aver compiuto qualche
cambiamento sostanziale nella vita economica, per il popolo.
Nel luglio 1790, nulla fa presagire questo oscuro e feroce
carattere. «La Rivoluzione non è stata finora che un sogno doloroso
per il popolo.» Non ha mantenuto le sue promesse. Poco importa! È in
marcia! E tanto basta! Dovunque, il popolo s'abbandonerà alla gioia.
Ma la reazione è già pronta, armata, e fra un mese o due si mostrerà
in tutta la sua forza. Al prossimo anniversario del 14 luglio, il 17
luglio 1791, la reazione sarà così forte da fucilare il popolo su
quello stesso Campo di Marte.
XXIV
I DISTRETTI E LE SEZIONI DI PARIGI
Noi abbiamo esaminato le sollevazioni popolari, che nei primi mesi
dell'89 avevano dato inizio alla Rivoluzione. Tuttavia, per compiere
una rivoluzione, non bastano delle sollevazioni popolari più o meno
vittoriose. È necessario che dopo queste sollevazioni resti nelle
istituzioni qualche cosa di nuovo, che permetta alle nuove forme
della vita di elaborarsi e consolidarsi.
Il popolo francese sembra aver compreso a meraviglia questa
necessità, e il qualche cosa di nuovo ch'esso introdusse nella vita
della Francia, sin dalle prime sommosse, fu la Comune popolare.
L'accentramento governativo venne più tardi; ma la Rivoluzione
cominciò col creare la Comune e questa istituzione diede, come
vedremo, una forza immensa alla Rivoluzione stessa.
Infatti, nei villaggi, era la Comune dei contadini che reclamava
l'abolizione dei diritti feudali e legalizzava il rifiuto di
pagamento di questi diritti; era la Comune che riprendeva ai signori
le terre già comunali e resisteva ai nobili, lottava contro i preti,
proteggeva i patriotti e più tardi i sanculotti; era la Comune che
arrestava gli emigrati di ritorno – o il re evaso.
Nelle città, la Comune municipale ricostruiva tutto l'aspetto della
vita, si attribuiva il diritto di nominare i giudici, cambiava di
sua propria iniziativa la ripartizione delle imposte e più tardi,
mano mano che la Rivoluzione seguiva il suo sviluppo, la Comune
diventava l'arma dei sanculotti per lottare contro la Reggia, le
cospirazioni realiste e l'invasione tedesca. Più tardi ancora,
nell'anno II, erano le Comuni che si accingevano a compiere il
livellamento dei beni.
Da ultimo, a Parigi, com'è noto, fu la Comune che rovesciò il re, e
dopo il 10 agosto fu ancor essa il vero focolare e la vera forza
della Rivoluzione; questa conservò il suo vigore sino al giorno in
cui visse la Comune.
Le Comuni furono dunque l'anima della grande Rivoluzione e senza
questi focolari diffusi su tutto il territorio, giammai la
Rivoluzione avrebbe avuto la forza di rovesciare l'antico regime, di
respingere l'invasione tedesca, di rigenerare la Francia.
Sarebbe erroneo, tuttavia, di rappresentarsi le comuni di allora
come dei corpi municipali moderni, ai quali i cittadini, dopo
essersi appassionati alcuni giorni durante le elezioni, confidano
ingenuamente la gestione di tutti i loro affari, senza più
occuparsene. La pazza fiducia nel governo rappresentativo, che
caratterizza la nostra epoca, non esisteva durante la grande
Rivoluzione. La Comune, uscita dai movimenti popolari, non si
separava dal popolo. Mediante i suoi distretti, le sue sezioni, le
sue tribù, costituiti come altrettanti organi d'amministrazione
popolare, la Comune restava popolo e in ciò appunto stava la potenza
rivoluzionaria dei suoi organismi.
Poichè sono la vita e l'organizzazione dei distretti e delle sezioni
di Parigi che si conoscono meglio, così parleremo di questi organi
della città di Parigi, tanto più che studiando la vita di una
«sezione» di Parigi, noi impariamo a conoscere, salvo minime
differenze, la vita di mille Comuni di provincia.
Non appena fu cominciata la Rivoluzione e soprattutto non appena gli
avvenimenti ebbero risvegliata l'iniziativa di Parigi alla vigilia
del 14 luglio, il popolo, col suo meraviglioso spirito di
organizzazione rivoluzionaria, s'organizzava già in modo stabile in
vista della lotta ch'esso avrebbe dovuto sostenere e della quale
sentiva tutta l'importanza.
Per le elezioni, la città di Parigi era stata divisa in sessanta
distretti, che dovevano scegliere gli elettori di secondo grado.
Nominati costoro, i distretti dovevano scomparire. Ma essi rimasero
e s'organizzarono da loro, di loro stessa iniziativa, come organi
permanenti dell'amministrazione municipale, appropriandosi diverse
funzioni e attribuzioni, che appartenevano prima alla polizia o alla
giustizia, o anche ai differenti ministeri dell'antico regime.
Essi s'imposero in tal modo, e nel momento in cui tutta Parigi era
in ebullizione alla vigilia del 14 luglio, cominciarono ad armare il
popolo e ad agire come autorità autonoma, tanto che il Comitato
permanente, formato al Palazzo di Città dalla borghesia influente
(vedi capitolo XII), dovette convocare i distretti per intendersi
con loro. Per armare il popolo, per costituire la guardia nazionale
e soprattutto per mettere Parigi in istato di difesa contro un
attacco armato di Versaglia, i distretti spiegarono un'attività
prodigiosa.
Dopo la presa della Bastiglia, i distretti funzionano già come
organi titolari dell'amministrazione municipale. Ogni distretto
nomina il suo Comitato civile, da 16 a 24 membri, per gestire gli
affari. D'altra parte, come l'ha giustamente notato Sigismond
Lacroix nella sua introduzione al primo volume degli Actes de la
Commune de Paris pendant la Révolution (t. I, Parigi, 1894, p. VII),
ogni distretto s'organizza da sè, «come meglio gli pare». La loro
organizzazione stessa diversifica. Un distretto, «precedendo i voti
dell'Assemblea nazionale sull'organizzazione giudiziaria, nomina i
suoi giudici di pace e di conciliazione». Ma per concertarsi fra di
loro, «essi creano un ufficio centrale di corrispondenza, dove dei
delegati speciali s'incontrano e si scambiano comunicazioni». Si ha
in tal guisa un primo tentativo di Comune – dal basso
all'alto, colla federazione degli organismi di distretto, sorta
rivoluzionariamente dall'iniziativa popolare. La Comune
rivoluzionaria del 10 agosto si delinea già da quest'epoca, e
soprattutto dal dicembre 1789, quando i delegati dei distretti
tentarono di formare un Comitato centrale all'Arcivescovado.
È attraverso questi «distretti» che sin d'allora, Danton, Marat e
tanti altri seppero infondere nelle masse popolari un soffio di
rivolta, e queste masse s'abituarono a fare a meno dei corpi
rappresentativi e a praticare il governo diretto66.
Immediatamente dopo la presa della Bastiglia, i distretti avevano
incaricato i loro deputati di preparare, d'accordo col sindaco di
Parigi, Bailly, un progetto d'organizzazione municipale, da
sottomettersi in seguito all'approvazione dei distretti stessi. Ma
nell'attesa di questo progetto, i distretti procedevano come lo
ritenevano necessario, allargando il cerchio delle loro
attribuzioni.
Quando incominciò a discutere la legge municipale, l'Assemblea
nazionale procedeva, com'era da prevedersi con un corpo così
eterogeneo, con una desolante lentezza. «Dopo due mesi», dice
Lacroix, «il primo articolo del nuovo progetto di Municipalità
doveva ancora essere scritto» (Actes, t. II, p. XIV). Si comprende
che «questa lentezza parve sospetta ai distretti», e d'allora si
manifesta verso l'Assemblea dei rappresentanti della Comune
l'ostilità sempre più accentuata di una parte dei suoi mandanti. Ma
ciò che bisogna soprattutto notare, si è che, pur tentando di dare
una forma legale al governo municipale, i distretti cercano di
conservare la loro indipendenza. Cercano l'unità d'azione – non
nella sottomissione dei distretti a un comitato centrale, ma nella
loro unione federativa.
«Lo stato d'animo dei distretti... si caratterizza con un sentimento
fortissimo dell'unità comunale insieme con una tendezza non meno
forte verso il governo diretto», dice Lacroix (t. II, pp. XIV e XV).
«Parigi non vuol essere una federazione di sessanta repubbliche
tagliate per caso nel suo territorio; la Comune è una, si compone
dell'insieme di tutti i distretti... In nessun luogo c'è un
distretto che pretenda di vivere appartato dagli altri... Ma a lato
di questo incontestato principio, ne scaturisce un altro... questo:
la Comune deve legiferare e amministrare essa stessa, direttamente
per quanto è possibile; il governo rappresentativo deve essere
ridotto al minimo; tutto ciò che la Comune può fare direttamente
deve deciderlo, senza intermediari, senza deleghe o per mezzo di
delegati ridotti alla funzione di mandatari speciali, che agiscono
sotto il controllo continuo dei mandanti..., è finalmente ai
distretti, ai cittadini riuniti in assemblee generali di distretti,
che appartiene il diritto di legiferare e di amministrare per la
Comune.»
Di qui si vede che i principii anarchici espressi qualche anno dopo
da Godwin in Inghilterra, datano già dall'89, e che hanno le loro
origini non nelle speculazioni teoriche, ma nei fatti della Grande
Rivoluzione.
C'è un fatto ancor più eloquente segnalato da Lacroix, che dimostra
sino a qual punto i distretti sanno distinguersi dalla Municipalità
e impediscono ch'essa calpesti i loro diritti. Quando, il 30
novembre 1789, Brissot concepì il progetto di dotare Parigi di una
costituzione municipale concertata fra l'Assemblea nazionale e un
Comitato scelto dall'Assemblea dei rappresentanti (il Comitato
permanente del 12 luglio 1789), i distretti vi si opposero
immediatamente. Nulla doveva esser fatto senza la sanzione diretta
dei distretti stessi, (Actes, t. III, p. IV), e il progetto di
Brissot dovette essere abbandonato. Più tardi, nell'aprile del 1790,
quando l'Assemblea cominciò la discussione della legge municipale,
essa dovette scegliere fra due progetti quello dell'assemblea
(libero ed illegale) dell'Arcivescovado, adottato dalla maggioranza
delle sezioni e firmato da Bailly, e quello dei rappresentanti della
Comune, appoggiato solo da alcuni distretti. Accettò il primo.
Non c'è bisogno di dire che l'attività dei distretti non si esauriva
solo negli affari municipali. Essi prendevano sempre parte alle
grandi questioni politiche che appassionavano la Francia. Il veto
regio, il mandato imperativo, l'assistenza ai poveri, la questione
degli ebrei, quella del «marco d'argento» (vedi cap. XXI) – tutto
ciò veniva discusso dai distretti. Per il «marco d'argento»,
prendevano essi stessi l'iniziativa, si convocavano reciprocamente,
nominavano dei Comitati. «Essi fissano le loro risoluzioni, dice
Lacroix, e lasciando da parte i Rappresentanti ufficiali della
Comune, se ne vanno, all'8 febbraio (1790), a portare direttamente
all'Assemblea nazionale il primo Indirizzo della Comune di Parigi
nelle sue sezioni. È una manifestazione personale dei distretti, al
di fuori di qualsiasi rappresentanza ufficiale, per appoggiare la
mozione di Robespierre all'Assemblea nazionale contro il marco
d'argento.» (T. III, pp. XII e XIII).
Ma più interessante ancora è il fatto che sin d'allora le città di
provincia stringono, per ogni genere di affari, relazioni colla
Comune di Parigi. Sorge la tendenza, che diverrà più tardi così
manifesta, a stabilire un legame diretto fra le città e i villaggi
della Francia, all'infuori del parlamento nazionale. E quest'azione
diretta, spontanea, dà alla Rivoluzione una forza irresistibile.
I distretti fecero sentire soprattutto la loro influenza e la loro
capacità d'organizzazione in un affare d'importanza capitale, la
liquidazione dei beni del clero. È vero che la legge aveva ordinato
sulla carta il sequestro dei beni del clero e la loro vendita a
beneficio della nazione; ma essa non aveva indicato nessun mezzo
pratico per tradurre questa legge in atto. Allora furono i distretti
di Parigi che proposero di servire da intermediari per l'acquisto di
quei beni e invitarono tutte le municipalità della Francia a fare
altrettanto, la qual cosa rappresentava una soluzione pratica per
l'applicazione della legge.
Il modo d'agire dei distretti, per decidere l'Assemblea a confidar
loro questo importante affare, è stato raccontato dall'editore degli
Actes de la Commune. – «Chi ha parlato e agito in nome di questa
grande personalità, la Comune di Parigi?» domanda Lacroix. E
risponde: «L'Ufficio di Città, anzitutto, che ha espresso l'idea;
poi, i distretti che l'hanno approvata e che, avendola approvata, si
sono sostituiti per eseguirla al Consiglio di Città, hanno
negoziato, trattato direttamente collo Stato, cioè coll'Assemblea
nazionale, realizzato, da ultimo, direttamente l'acquisto
progettato, tutto ciò contrariamente a un decreto formale, ma col
consenso dell'Assemblea sovrana.»
Quel ch'è soprattutto interessante a conoscersi è che i distretti,
essendosi impadroniti di quest'affare, per le necessarie trattative
eliminarono anche la vecchia Assemblea dei Rappresentanti della
Comune, troppo vecchia ormai per un'azione energica, e anche, per
due volte, il Consiglio di Città, che voleva intervenire. I
distretti, dice Lacroix, «preferiscono costituire, in vista di
questo scopo speciale, un'assemblea particolare deliberante,
composta di 60 delegati, uno per distretto, e un piccolo consiglio
esecutivo di 12 membri scelti dai primi sessanta» (p, XIX).
Operando in tal modo – e i libertari oggi farebbero lo stesso – i
distretti di Parigi gettavano le basi di una nuova organizzazione
libertaria della società67.
Mentre la reazione guadagnava sempre più terreno nel 1790, i
distretti di Parigi aumentavano la loro influenza sulla marcia della
Rivoluzione. E se l'Assemblea scalza a poco a poco il potere del re,
i distretti e poi le sezioni di Parigi allargano gradatamente il
cerchio delle loro funzioni in seno al popolo; cementano così
l'alleanza fra Parigi e le provincie e preparano il terreno per la
Comune rivoluzionaria del 10 agosto.
«La storia municipale», dice Lacroix, «si compie al di fuori delle
assemblee officiali. È per mezzo dei distretti che si realizzano i
fatti più importanti della vita comunale, politica ed
amministrativa: l'acquisizione dei beni nazionali è continuata, come
hanno voluto i distretti, per mezzo di commissari speciali; la
federazione nazionale è preparata da una riunione di delegati ai
quali i distretti hanno dato un mandato speciale... La federazione
del 14 luglio è del pari l'opera esclusiva e diretta dei distretti»,
il loro organo essendo in tal caso l'Assemblea dei deputati delle
sezioni per il patto federativo (t. I, p. II, IV e 729, nota).
Ci si compiace sempre di dire che l'Assemblea rappresentava l'unità
nazionale. Tuttavia, quando si trattò della festa della Federazione,
i politicanti, come l'aveva già fatto notare Michelet, furono presi
da sgomento vedendo affluire a Parigi per le feste uomini venuti da
tutte le parti della Francia, e fu necessario che la Comune forzasse
la porta dell'Assemblea nazionale, per ottenere da questa il
consenso per la festa. L'Assemblea dovette, bon gré, mal gré,
accordarlo».
Ma ciò che accresce l'importanza di questo movimento è che esso,
nato all'inizio, come hanno osservato Buchez e Roux, dal bisogno di
garantire le sussistenze e di garantirsi contro i timori di una
invasione straniera, cioè, in parte, da un fatto di amministrazione
locale, prese nelle sezioni68 il carattere di una confederazione
generale, in cui sarebbero stati rappresentati tutti i cantoni dei
dipartimenti della Francia e tutti i reggimenti dell'esercito.
L'organo creato per l'individualizzazione dei diversi quartieri di
Parigi, divenne in tal guisa lo strumento dell'unione federativa di
tutta la nazione.
XXV
LE SEZIONI IN PARIGI SOTTO LA NUOVA LEGGE MUNICIPALE
Noi ci siamo talmente abituati alle idee di servitù verso lo Stato
accentrato, che le idee stesse d'indipendenza comunale («autonomia»
sarebbe dir troppo poco), così diffuse nel 1789, ci sembrano
barocche. L. Foubert69 ha perfettamente ragione di dire, parlando
del progetto d'organizzazione municipale decretato dall'Assemblea
nazionale il 21 maggio 1790, che «l'applicazione di questo progetto
parrebbe oggi, coll'effettuatosi cambiamento delle idee, un atto
rivoluzionario, quasi quasi anarchico», e aggiunge che allora questa
legge municipale fu trovata insufficente dai parigini, abituati nei
loro distretti, dal 14 luglio. 1789, a una grande indipendenza.
Così, la determinazione esatta dei poteri, alla quale si annette
oggi tanta importanza, sembrava allora ai parigini e anche ai
legislatori dell'Assemblea una questione inutile e minacciante la
libertà. Come Proudhon che diceva: La Comune sarà tutto o nulla, i
distretti di Parigi ritenevano per fermo che la Comune dovesse esser
tutto. «Una Comune, dicevano essi, è una società di comproprietari e
di coabitanti racchiusi nella cinta di un luogo circoscritto e
limitato, e aventi collettivamente gli stessi diritti di un
cittadino.» E, partendo da questa definizione, essi dicevano che la
Comune di Parigi – come qualunque altro cittadino – «avendo la
libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza
all'oppressione», ha, in conseguenza, tutto il potere di disporre
dei suoi beni, come pure quello di garantire l'amministrazione di
questi beni, la sicurezza degli individui, la polizia, la forza
militare, – tutto. La Comune è infatti sovrana nel suo territorio:
sola condizione di libertà per una Comune.
Meglio ancora. La terza parte del preambolo alla legge municipale
del maggio 1790 stabiliva un principio, oggi mal compreso, ma che
molto veniva apprezzato a quell'epoca. Era quello di esercitare
direttamente i propri poteri, senza intermediari. «La Comune di
Parigi, in ragione della sua libertà, avendo da sè stessa
l'esercizio di tutti i suoi diritti e poteri, li esercita sempre da
sè, il più possibile direttamente, e il meno che sia possibile, per
mezzo di deleghe». Così diceva il preambolo.
In altri termini, la Comune di Parigi non sarà uno Stato governato,
ma un popolo che si governa da sè, direttamente, senza intermediari,
senza padroni.
È l'assemblea generale della sezione – sempre in permanenza – e non
gli eletti di un Consiglio comunale, che sarà l'autorità suprema per
tutto quanto concerne gli abitanti di Parigi. E se le sezioni
decidono di comune accordo di sottomettersi nelle questioni generali
alla maggioranza, non abdicano per ciò il diritto di federarsi per
affinità, di portarsi da una sezione all'altra per influenzare le
decisioni dei vicini e cercare di giungere sempre all'unanimità.
La permanenza delle assemblee generali delle sezioni servirà, dicono
le sezioni, a fare l'educazione politica di ogni cittadino e gli
permetterà, dato il caso, «di eleggere con cognizione di causa
coloro dei quali avrà notato lo zelo ed apprezzato l'intelligenza.»
(Sezione dei Mathurins; citato da Foubert, p. 155).
E la sezione in permanenza – il forum sempre aperto – è il solo
mezzo di assicurare un'amministrazione onesta e intelligente.
Da ultimo, come lo dice benissimo Foubert, è la diffidenza che
inspira le sezioni: la diffidenza verso ogni potere esecutivo.
«Colui che eseguisce, essendo depositario della forza, deve
necessariamente abusarne.» «È l'idea di Montesquieu e di Rousseau»,
aggiunge Foubert; ed è pure la nostra!
Si comprende qual forza doveva dare alla Rivoluzione questo punto di
vista, tanto più ch'esso coincideva con un altro, indicato pure dal
Foubert: «Il movimento rivoluzionario, dice, s'è prodotto tanto
contro l'accentramento quanto contro il dispotismo.» Così, il popolo
francese sembra aver compreso, agli inizii della Rivoluzione, che
s'imponeva a lui un'immensa trasformazione, da non potersi compiere
nè costituzionalmente, nè per mezzo di una forza centrale; ma solo
con l'opera delle forze locali, a cui per agire occorreva avere una
grande libertà.
Forse, il popolo francese avrà anche pensato che l'affrancamento, la
conquista della libertà doveva cominciare dal villaggio, da ogni
città. Più facile si sarebbe così resa la limitazione del potere
regio.
È evidente che l'Assemblea nazionale cercò di far tutto il possibile
per diminuire la forza d'azione dei distretti e per metterli sotto
la tutela di un governo comunale, che la rappresentanza nazionale
avrebbe poscia tenuto sotto il suo controllo. Così, la legge
municipale del 27 maggio-27 giugno 1790 soppresse i distretti. Essa
voleva spegnere questi focolari della Rivoluzione, e all'uopo
dapprima introdusse una nuova suddivisione di Parigi, in 48 sezioni,
e in seguito, permise ai soli cittadini attivi di prendere parte
alle assemblee elettorali ed amministrative delle nuove «sezioni».
Tuttavia, aveva un bel limitare la legge i doveri delle sezioni,
statuendo che nelle loro assemblee esse non s'occuperebbero «di
alcun altro affare all'infuori delle elezioni e delle prestazioni
del giuramento civico» (titolo I, articolo 11), le sezioni non
obbedivano. La piega era già stata presa da un anno e le «sezioni»
continuarono ad agire, come i «distretti avevano agito. D'altronde,
la legge municipale stessa dovette accordare alle sezioni le
attribuzioni amministrative che i distretti s'erano già arrogate.
Così, nella nuova legge si trovano i sedici commissari, eletti,
incaricati non solo delle diverse funzioni di polizia e di
giustizia, ma anche, da parte dell'amministrazione del dipartimento,
«della ripartizione delle imposte nelle loro rispettive sezioni»
(titolo IV, articolo 12). Inoltre, se la Costituente soppresse «la
permanenza», cioè il diritto permanente delle sezioni di riunirsi
senza convocazione speciale, fu costretta non di meno a riconoscere
loro il diritto di tenere delle assemblee generali non appena
fossero chieste da cinquanta cittadini attivi70.
Ciò bastava, e le sezioni non mancarono di profittarne. Appena un
mese dopo l'installazione della nuova municipalità, Danton e Bailly,
venivano, ad esempio, all'Assemblea nazionale da parte di 43 sezioni
(su 48) a domandare l'immediato licenziamento dei ministri e la loro
messa in istato di accusa davanti a un tribunale nazionale.
Le sezioni non abbandonavano dunque la loro sovranità. Quantunque
negata loro dalla legge, le sezioni la conservavano e l'affermavano
altamente. La loro petizione, infatti, non aveva nulla di
municipale, ma esse agivano e tanto bastava. D'altronde, le sezioni
erano così importanti per le diverse funzioni che s'erano
attribuite, che l'Assemblea nazionale le ascoltò e rispose loro con
benevolenza.
La stessa cosa avvenne per la clausola della legge municipale del
1790, che sottoponeva le municipalità interamente «alle
amministrazioni di dipartimento e di distretto per tutto quanto
concerne le funzioni che dovrebbero esercitare per deleghe
dell'amministrazione generale. (Art. 55). Nè le sezioni, nè, per
mezzo loro, la Comune di Parigi, nè le Comuni di provincia si
sottomisero a questa clausola. L'ignoravano e conservavano la loro
sovranità.
In generale, a poco a poco le sezioni ripresero la funzione di
focolari della Rivoluzione; e se la loro attività diminuisce durante
il periodo di reazione traversato nel 1790 e 1791, furono ancora e
sempre, come vedremo in seguito, le sezioni che risvegliarono Parigi
nel 1792 e prepararono la Comune rivoluzionaria del 10 agosto.
Abbiamo detto che ogni sezione nominava, in virtù della legge del 21
maggio 1790, sedici commissari, e questi commissari, costituiti in
Comitati civili, incaricati da principio solo delle funzioni di
polizia, non hanno mai cessato, durante tutta la Rivoluzione, di
allargare le loro funzioni in tutte le direzioni. Così, nel
settembre 1790, l'Assemblea era costretta di riconoscere alle
sezioni ciò che Strasburgo, come abbiam visto, s'era già attribuito
sin dal mese d'agosto 1789: specialmente il diritto di nominare i
giudici di pace e i loro assessori, come pure i probiviri. E le
sezioni conservarono questo diritto fino al 4 dicembre 1793, giorno
in cui il governo rivoluzionario giacobino fu istituito.
D'altra parte, questi stessi comitati civili delle sezioni
riuscivano, verso la fine del 1790, dopo una vivace lotta, ad
appropriarsi la gestione degli affari degli uffici di beneficenza,
come pure il diritto, importantissimo, di sorvegliare e di
organizzare l'assistenza, – ciò che permise loro di sostituire i
laboratori di carità dell'antico regime con «laboratori di
soccorso», amministrati dalle sezioni stesse. Più tardi, le sezioni
svilupparono in tal senso una notevole attività. Via via che la
Rivoluzione progrediva nelle sue idee sociali, anche le sezioni
progredivano. A poco a poco divennero fornitrici d'abiti, di
biancheria, di calzature per l'esercito – organizzarono il macinato,
ecc., cosicchè nel 1793 ogni cittadino o cittadina, domiciliato
nella sezione, potè presentarsi al laboratorio della sua sezione a
ricevervi del lavoro (Meillé, p. 289). Più tardi, da questi abbozzi,
sorse una vasta e possente organizzazione, tale che nell'anno II
(1793-1794) le sezioni tentarono di sostituirsi completamente
all'amministrazione degli abiti per l'esercito, come pure agli
appaltatori.
Il «diritto al lavoro» che il popolo delle grandi città reclamò nel
1848, non era dunque che una reminiscenza di ciò ch'era esistito di
fatto a Parigi durante la Grande Rivoluzione, – ma compiuto dal
basso e non dall'alto, come lo volevano i Louis Blanc, i Vidal e
altri autoritari sedenti al Lussemburgo.
E ci fu ancora qualcosa di meglio. Non solo le sezioni sorvegliavano
durante tutto il tempo della Rivoluzione la compra e la vendita del
pane, i prezzi dei generi di prima necessità e l'applicazione del
massimo dei prezzi, quando fu stabilito dalla legge. Esse presero
altresì l'iniziativa di mettere a coltura i terreni incolti di
Parigi, allo scopo di accrescere la produzione agricola con gli
ortaggi.
Tutto ciò parrà forse meschino a coloro che nella Rivoluzione non
vedono che colpi di fucile e barricate; ma gli è precisamente
occupandosi di tutti i particolari della vita quotidiana dei
lavoratori, che le sezioni di Parigi svilupparono la loro potenza
politica e la loro iniziativa rivoluzionaria.
Ma non precorriamo gli avvenimenti e riprendiamone il racconto.
Parleremo ancora delle sezioni di Parigi quando narreremo la Comune
del 10 agosto.
XXVI
LENTEZZA NELL'ABOLIZIONE DEI DIRITTI FEUDALI
Più la Rivoluzione avanzava e più si delineavano nettamente – specie
negli affari d'ordine economico – le due correnti di cui abbiamo
parlato in principio dell'opera, la corrente del popolo e quella
della borghesia.
Il popolo voleva finirla col regime feudale. Egli si appassionava
per l'eguaglianza, e contemporaneamente per la libertà. Poi, vedendo
le cose andar per le lunghe, nella sua lotta contro il re e i preti,
egli perdeva la pazienza e tentava di condurre a buon porto la
Rivoluzione. Già prevedendo il giorno in cui si esaurirebbe lo
slancio rivoluzionario, il popolo cercava di rendere per sempre
impossibile il ritorno dei signori, del dispotismo regio, del regime
feudale e del regno dei ricchi e dei preti. E per questo, voleva –
almeno in una buona metà della Francia la ripresa del possesso della
terra, delle leggi agrarie per consentire ad ognuno di coltivare il
suolo se lo voleva, e delle leggi per eguagliare poveri e ricchi nei
loro diritti civici.
Insorgeva quando lo si voleva costringere a pagare la decima;
s'impadroniva colla forza delle municipalità per colpire i preti e i
signori. Insomma, esso manteneva una situazione rivoluzionaria in
una buona parte della Francia, mentre a Parigi sorvegliava da vicino
i suoi legislatori, dall'alto delle tribune dell'Assemblea, nei
club, nelle sezioni. Finalmente, quando occorreva colpire
violentemente la dinastia, il popolo s'organizzava per
l'insurrezione e combatteva, colle armi, il 14 luglio 1789 e il 10
agosto 1792.
D'altra parte, la borghesia, così come abbiam visto, lavorava
energicamente a completare «la conquista dei pubblici poteri». La
parola data da quest'epoca. A misura che il potere del re e della
Corte si sfaldava e cadeva nel disprezzo, la borghesia se ne
impadroniva. Essa gli dava un assetto solido nelle provincie e
organizzava nello stesso tempo la sua fortuna presente e futura.
Se, in certe regioni, la grande massa dei beni confiscati agli
emigrati e ai preti era passata – in piccoli fondi – nelle mani dei
poveri (almeno è quanto risulta dalle ricerche di Loutchitzky71), in
altre regioni, una immensa parte di questi beni aveva giovato ad
arricchire i borghesi, mentre ogni genere di speculazioni
finanziarie costituivano le fondamenta d'un gran numero di fortune
del Terzo Stato.
Ma ciò che i borghesi avevano soprattutto bene imparato – la
rivoluzione inglese del 1648 servendo loro d'esempio – è che il
momento era venuto per loro d'impadronirsi del governo della
Francia, giacchè la classe al potere avrebbe avuto per sè la
ricchezza, tanto più che la sfera d'azione dello Stato si sarebbe in
breve immensamente allargata colla formazione di un esercito
permanente numeroso e colla riorganizzazione dell'istruzione
pubblica, della giustizia, delle imposte e via di seguito. Lo si era
già visto dopo la rivoluzione inglese.
Si comprende subito che sin d'allora doveva scavarsi un abisso
profondo, in Francia, fra la borghesia e il popolo: la borghesia che
aveva voluto la Rivoluzione e che vi spinse il popolo fin quando
essa pensò che la «conquista del potere» si compiva a di lei
vantaggio; e il popolo che nella Rivoluzione aveva visto il mezzo di
affrancarsi dal duplice giogo della miseria e della mancanza di
diritti politici.
Da una parte si trovarono coloro che gli uomini «d'ordine» e di
«Stato» chiamarono «anarchici», aiutati da un certo numero di
Cordiglieri e Giacobini. Quanto agli «uomini di Stato» e ai
«difensori delle proprietà», come si diceva allora, trovarono la
loro completa espressione nel partito politico di coloro che furono
chiamati più tardi i Girondini: cioè tra i politicanti che nel 1792
si raccolsero attorno a Brissot e al ministro Roland.
Noi abbiam già narrato, al capitolo XV, a cosa si riduceva la
pretesa abolizione dei diritti feudali durante la notte del 4 agosto
e coi decreti votati dall'Assemblea dal 5 all'11 agosto; vedremo
adesso quale sviluppo ebbe questa legislazione negli anni 1790-91.
Ma poichè questa questione dei diritti feudali domina tutta la
Rivoluzione e non trovò che nel 93 la sua soluzione – e cioè dopo
l'espulsione dei Girondini dalla Convenzione – noi riassumeremo,
magari a costo di ripeterci, ancora una volta la legislazione del
mese di agosto 1789, prima di parlare di ciò che si fece nelle due
annate successive. Ciò è tanto più necessario in quanto che regna a
tal riguardo la più deplorevole confusione; mentre l'abolizione dei
diritti feudali fu l'opera principale della Grande Rivoluzione. Fu
per questa questione che si diedero le più grandi battaglie, tanto
nella Francia rurale come a Parigi, all'Assemblea, e
quest'abolizione fu il meglio che sopravvisse alla Rivoluzione,
malgrado tutte le vicissitudini politiche traversate dalla Francia
nel diciannovesimo secolo.
L'abolizione dei diritti feudali non entrava certamente nel pensiero
degli uomini che affrettavano coi voti la rinnovazione sociale prima
dell'89. Per loro si trattava più che altro di correggerne gli
abusi: qualcuno giungeva a chiedersi se era possibile «diminuire la
prerogativa signorile», come diceva Necker. Il problema fu posto sul
tappeto dalla Rivoluzione.
«Tutte le proprietà, nessuna esclusa, saranno costantemente
rispettate», si faceva dire al re all'apertura degli Stati generali,
e Sua Maestà comprende espressamente sotto il nome di proprietà
decime, censi, rendite, diritti e doveri feudali e signorili, e
generalmente tutti i diritti e le prerogative, utili o onorifici,
annessi alle terre e ai feudi appartenenti alle persone.
Nessuno dei futuri rivoluzionari protestò contro questo modo di
concepire i diritti dei signori e dei proprietari fondiari in
generale.
«Ma, dice Dalloz, – il noto autore del Repertorio di giurisprudenza,
che nessuno vorrà certamente accusare di esagerazione
rivoluzionaria, – le popolazioni agricole non intendevano così le
libertà promesse; le campagne si sollevarono da tutte le parti; i
castelli furono incendiati, gli archivi, i depositi dei ruoli e dei
cànoni, ecc., furono distrutti, e in moltissime località i signori
sottoscrissero atti di rinuncia ai loro diritti.» (Articolo
Feudalismo).
Allora, al bagliore dell'insurrezione agraria, che minacciava di
assumere vaste proporzioni, ebbe luogo la seduta del 4 agosto.
L'Assemblea nazionale, noi l'abbiamo visto, votò questo decreto o
piuttosto questa dichiarazione di principii, di cui l'articolo 1°
diceva:
«L'Assemblea nazionale distrugge interamente il regime feudale».
L'impressione prodotta da queste parole fu immensa. Scossero la
Francia e l'Europa. Si parlò di una Notte di San Bartolomeo delle
proprietà. Ma all'indomani l'Assemblea, come abbiam detto, correva
già ai ripari. Con una serie di decreti o piuttosto di arrêtés, del
5, 6, 8, 10 e 11 agosto, essa ristabiliva e poneva sotto la
protezione della costituzione tutto quanto c'era d'essenziale nei
diritti feudali. Rinunciando, salvo certe eccezioni, alle servitù
personali che erano dovute a loro, i signori conservavano, con
maggior cura, quelli dei loro diritti, talvolta egualmente
mostruosi, che potevano essere rappresentati in un modo o nell'altro
come cànoni dovuti per il possesso o per l'uso della terra, – i
diritti reali, come dicevano i legislatori (sulle cose: res in
latino vuol dir cosa). Tali erano non solo le rendite fondiarie, ma
una quantità di pagamenti e di cànoni, in denaro o in natura,
diversi da paese a paese, stabiliti all'epoca dell'abolizione del
servaggio e annessi allora al possesso della terra. Tutti questi
prelevamenti erano stati consegnati nei terriers72 e d'allora erano
stati spesso venduti o ceduti a terzi.
Champarts, terrages, agriers comptants73, – e le decime pure – tutto
ciò che aveva un valore pecuniario – fu integralmente mantenuto. I
contadini ottenevano solo il diritto di riscattare questi cànoni, se
giungevano un giorno a intendersi col signore sul prezzo del
riscatto. Ma l'Assemblea si guardò bene sia dal fissare un termine
al riscatto, sia di precisare il tasso.
In fondo, salvo l'idea dì proprietà feudale che si trovava scossa
dall'articolo primo dei «decreti» del 5-11 agosto, tutto quanto
concerneva le rendite reputate terriennes (fondiarie) restava tale e
quale e le municipalità erano incaricate di far mettere giudizio ai
contadini, se non pagavano. Abbiamo già visto con quale ferocia
alcune di esse assolsero il loro compito74.
Si è potuto constatare, inoltre, grazie alla nota di James
Guillaume, più sopra riportata (p. 169, 170 e 171) [cap. XVIII], che
l'Assemblea specificando in uno dei suoi atti dell'agosto 1789 che
trattavasi solo di «decreti», veniva a dar loro in tal guisa il
vantaggio di non esigere la sanzione del re. Ma nello stesso tempo e
collo stesso atto toglieva loro il valore di leggi, finchè le loro
disposizioni non fossero messe in forma di decreti costituzionali;
non dava loro alcun carattere obbligatorio. Legalmente erano nulli.
D'altra parte, anche questi «decreti» parvero troppo spinti ai
signori e al re. Questi cercava di guadagnar tempo per non
promulgarli, e il 18 settembre rivolgeva ancora dei rimproveri
all'Assemblea nazionale, per invitarla a riflettere. Egli non si
decise a promulgarli che il 6 ottobre, dopo che le donne l'ebbero
condotto a Parigi e posto sotto la sorveglianza del popolo. Ma
allora fu l'Assemblea che fece a sua volta orecchie da mercante. Non
pensò a promulgarli che il 3 novembre 1789, quando li mandò ai
parlamenti provinciali (corti di giustizia); tanto che i «decreti»
del 5-11 agosto non furono in verità mai promulgati.
Si capisce che la rivolta dei contadini doveva continuare ed è
quanto accadde. Il rapporto del Comitato feudale, redatto dall'abate
Gregoire nel febbraio del 1790, constatava infatti che
l'insurrezione agricola continuava o riprendeva, dal gennaio, nuovo
impulso. Si propagava dall'Est verso l'Ovest.
Ma a Parigi, dopo al 6 ottobre, la reazione aveva già guadagnato
molto terreno; e quando l'Assemblea nazionale intraprese lo studio
dei diritti feudali secondo il rapporto di Gregoire, essa legiferò
con uno spirito reazionario. In realtà, i decreti che emanò dal 28
febbraio al 15 marzo, e il 18 giugno 1790, ebbero per effetto di
ristabilire il regime feudale in ciò che aveva di più essenziale.
Tale fu (e lo si vede dai documenti dell'epoca) l'opinione di coloro
che volevano allora l'abolizione del feudalismo. Si parlò di questi
decreti come di una restaurazione del feudalismo.
Anzitutto, la distinzione fra i diritti onorifici, aboliti senza
riscatto, e i diritti utili, che i contadini dovevano riscattare, fu
mantenuta interamente e confermata; e, cosa peggiore ancora,
parecchi diritti feudali personali essendo già stati classificati
come diritti utili, questi furono «integralmente assimilati alle
semplici rendite e oneri fondiari75». Così, dei diritti che non
erano se non il frutto di una usurpazione, un residuo della servitù
personale, e che a cagione di questa origine avrebbero dovuto essere
condannati, venivano considerati alla stessa stregua delle
obbligazioni che risultavano dalla locazione del suolo.
Per il mancato pagamento di questi diritti, il signore – anche
quando perdeva il diritto di «sequestro feudale» (art. 6), – poteva
esercitare costrizioni d'ogni genere, secondo il diritto comune.
L'articolo successivo s'affrettava a confermarlo in questi termini:
«I diritti feudali e censuali, insieme con tutte le vendite, rendite
e diritti riscattabili per loro natura, saranno sottoposti, sino al
loro riscatto, alle regole che le diverse leggi e costumi del reame
hanno stabilite.»
L'Assemblea andò ancora più oltre. Nella seduta del 27 febbraio,
unendosi all'opinione del relatore Merlin, confermò per un gran
numero di casi il diritto servile di manomorta. Decretò che «i
diritti fondiari il cui possesso in manomorta è stato convertito in
possesso censuario, non essendo rappresentativi della manomorta,
debbono essere conservati».
La borghesia ci teneva tanto a questi avanzi della servitù, che
l'articolo 4 del titolo III della legge recava che «se la manomorta
reale o mista è stata convertita, all'epoca dell'affrancamento, in
cànoni fondiari e in diritti di voltura, – questi cànoni
continueranno ad essere dovuti».
In complesso, quando si legge la discussione della legge feudale
nell'Assemblea, ci si domanda se è proprio nel marzo 1790, dopo la
presa della Bastiglia e la notte del 4 agosto, che si fanno queste
discussioni o se si è ancora all'inizio del regno di Luigi XVI, nel
1775.
Così, il 1° marzo 1790 sono aboliti senza indennità certi diritti
«de feu... chiennage, monéage, droits de guet et de garde76», come
pure certi diritti di compra e vendita. Si sarebbe potuto credere,
tuttavia, che questi diritti fossero stati aboliti nella notte del 4
agosto. Ma niente affatto. Legalmente, nel 1790, il contadino in una
buona parte della Francia, non osava ancora comperare una vacca, e
neppur vendere il suo grano senza pagare dei diritti al signore! Non
poteva perfino vendere il proprio grano prima che il signore avesse
venduto il suo e profittato degli alti prezzi che generalmente si
ottenevano prima che fosse inoltrata la battitura.
Insomma, si dirà, questi diritti furono aboliti il 1° marzo come i
diritti prelevati dal signore sul forno comune, sul mulino, sul
torchio? Andiamo adagio nelle conclusioni. Furono aboliti, salvo
quelli che altra volta erano stati oggetto di una convenzione
scritta fra il signore e la comunità dei contadini, o che furono
riconosciuti pagabili in cambio di una concessione qualunque!
Paga, contadino! Paga sempre! e non cercare di guadagnar tempo,
poichè ci sarebbe contro te l'immediata costrizione e tu non
potresti salvarti se non riuscendo a guadagnar la tua causa davanti
a un tribunale!
Si stenta a crederlo, ma è così.
Ecco, d'altronde, il testo dell'articolo 2 del titolo III della
legge feudale. È un po' lungo, ma merita di essere riprodotto,
affinchè si possa vedere quale servitù lasciava pesare ancora sul
contadino la legge feudale del 24 febbraio-15 marzo 1790.
«ART. 2. – E sono, presunti riscattabili, salvo la prova contraria
(ciò che vuol dire: «saranno pagati dal contadino sino a quando non
li abbia riscattati»):
«1° Tutti i cànoni signorili annuali, in denaro, sementi, volatili,
derrate, in frutti della terra, serviti sotto le denominazioni di
censuali, sopracenso, rendite feudali, signorili o enfiteutiche,
champart, tasque, terrage, agrier, soète77, corvées reali, o sotto
qualsiasi, altra denominazione, che non si pagano e non sono dovute
che dal proprietario o possessore di un fondo, finchè è proprietario
o possessore e in ragione della durata del suo possesso.
«2° Tutti i diritti casuali che sotto il nome di quint, requint78,
tredicesimi, laudemi79 e trezains, laudemi e vendite, semi-laudemi,
riscatti, venterolles, reliefs, relevoisons, plaids80 ed ogni altra
denominazione, sono dovuti in causa delle mutazioni sopravvenute
nella proprietà o nel possesso d'un fondo.
«3° I diritti d'acapts81, arrière-acapts82 e altri simili dovuti
alla mutazione degli ex-signori.
D'altra parte, il 9 marzo, l'Assemblea sopprimeva diversi diritti di
pedaggio sulle strade, i canali, ecc., prelevati dai signori. Ma
immediatamente dopo, s'affrettava di aggiungere:
«L'Assemblea nazionale non intende tuttavia comprendere, per il
momento, nella soppressione pronunciata dall'articolo precedente i
dazi autorizzati... ecc., e i diritti dell'articolo giustamente
menzionato che potrebbero essere acquisiti come indennizzo.»
Spieghiamo la frase. Molti signori avevano venduto o ipotecato
alcuni dei loro diritti; oppure, nelle successioni, il primogenito
avendo ereditato la terra o il castello, gli altri, e soprattutto le
donne, avevano ricevuto come indennizzo, dei diritti di pedaggio
sulle strade, sui canali, sui ponti. Ebbene, in questi casi, tutti
questi diritti permanevano, sebbene riconosciuti ingiusti, perchè,
altrimenti, sarebbe stata una gran perdita per molte famiglie nobili
e borghesi.
E casi simili si moltiplicavano attraverso tutta la legge feudale.
Dopo ogni soppressione, si era inserito un sotterfugio per evitarla.
Si sarebbe avuto così un numero infinito di processi interminabili.
Non c'è che un punto dove si fa sentire il soffio della Rivoluzione.
Ed è quando si tratta delle decime. Così si constata che tutte le
decime ecclesiastiche e infeudate (cioè vendute ai laici),
cesseranno di essere riscosse, per sempre, a partire dal 1° gennaio
1791. Ma anche qui l'Assemblea ordinava che, per l'anno 1790, esse
dovevano venir pagate a chi di diritto e esattamente.
Non basta. Non fu dimenticato di comminar pene contro coloro che non
avrebbero obbedito a questi decreti, e, affrontando la discussione
del titolo III della legge feudale, l'Assemblea decretò:
«Nessuna municipalità, nessuna amministrazione di distretto o di
dipartimento potrà, sotto pena di nullità, di querela e di
risarcimento dei danni, proibire la riscossione di qualsiasi diritto
signorile, di cui venga reclamato il pagamento, col pretesto che i
diritti signorili sono stati implicitamente od esplicitamente
aboliti senza indennità.
Per le amministrazioni del distretto o del dipartimento non c'era
nulla a temere. Esse erano un'anima e un corpo solo coi signori e i
borghesi proprietari. Ma c'erano delle municipalità, soprattutto
nella parte orientale della Francia, delle quali i rivoluzionari
s'erano impadroniti, e queste dicevano ai contadini che i diritti
feudali erano soppressi e che, se il signore li reclamava, si poteva
non pagarli.
Ora, sotto pena di processo e di sequestro, i «municipali» di un
villaggio non oseranno dir nulla e il contadino dovrà pagare (ed
essi dovranno fare il sequestro), salvo a farsi rimborsare più tardi
dal signore, che forse è a Coblenza, se il pagamento non era
obbligatorio.
Come lo ha ben rilevato Sagnac, ciò significava introdurre una
clausola terribile. La prova che il contadino non doveva più pagare
tali diritti feudali: ch'essi erano personali e non annessi al fondo
– questa prova così difficile, doveva essere fatta dal contadino. Se
egli non la faceva, se non poteva farla – ed era questo il caso più
frequente – doveva pagare!
XXVII
LEGISLAZIONE FEUDALE DEL 1790
Abbiamo visto dunque l'Assemblea nazionale, approfittando della
sosta temporanea delle sommosse dei contadini al principio
dell'inverno, votare nel mese di marzo del 1790 delle leggi che
davano, in realtà, una nuova base legale al regime feudale.
Affinchè non si creda che questa è la nostra interpretazione
personale, ci basterebbe rimandare il lettore alle leggi stesse o a
ciò che ne dice il Dalloz. Ma ecco l'opinione in proposito di uno
scrittore moderno, Ph. Sagnac, che certo non sarà accusato di
sanculottismo, poichè considera l'abolizione dei diritti feudali,
compiuta più tardi dalla Convenzione, come una «spogliazione» iniqua
e inutile. Ora, vediamo come Sagnac stima le leggi del marzo 1790.
«Il diritto antico, dice, grava con tutto il suo peso, nell'opera
della Costituente, sul diritto nuovo. Spetta al contadino, – se non
vuol più pagar censo o portare una parte del suo raccolto nel
granaio signorile o abbandonare il suo campo per lavorare quello del
signore, – il provare che l'esigenza del signore è una usurpazione.
Ma se il signore ha posseduto un diritto da quarant'anni – qualunque
ne fosse l'origine sotto l'antico regime – quel diritto è
legittimato dalla legge del 15 marzo. Il possesso basta. Poco
importa che il locatario infirmi precisamente la legittimità di
questo possesso. Dovrà pagare egualmente. E se i contadini insorti,
nell'agosto del 1789, hanno forzato il signore alla rinuncia di
alcuni dei suoi diritti o se gli hanno bruciato i titoli, gli
basterà ora produrre la prova di possesso per trent'anni.
(Trent'anni per disposizione generale del decreto e quarant'anni
secondo il costume proprio di certe provincie, riconosciuto dal
decreto stesso).» (Ph. Sagnac, La Législation civile de la
Révolution française, Parigi 1898, pp. 105-106).
È vero che le nuove leggi permettevano inoltre al coltivatore di
riscattare il fitto della terra. Ma «tutte queste disposizioni,
eminentemente favorevoli al debitore di diritti reali, si
rivolgevano contro di lui, dice Sagnac, poichè l'essenziale per lui
era, anzitutto, di non pagare che dei diritti legittimi – e doveva,
non potendo esibire la prova contraria, pagare e rimborsare anche i
diritti usurpati» (p. 120).
In altri termini, non si poteva riscattar nulla senza riscattar
tutto: i diritti fondiari, conservati dalla legge, e i diritti
personali aboliti.
E più lungi, noi leggiamo ciò che segue, dello stesso autore, pur
tuttavia così moderato nei suoi apprezzamenti.
«Il sistema della Costituente crolla da sè. Quest'assemblea di
signori e di giuristi, poco desiderosa di distruggere interamente,
malgrado la sua promessa, il regime signorile e demaniale, dopo aver
curato di conservare i più importanti diritti» [tutti quelli cioè
che, come abbiamo visto, avevano un valore reale], «spinge la
generosità sino a permetterne il riscatto; ma immediatamente essa
decreta, in realtà, l'impossibilità di questo riscatto... Il
coltivatore aveva implorato, chiesto delle riforme, o piuttosto la
registrazione di una rivoluzione già avvenuta nel suo spirito e
inscritta, egli lo pensava almeno, nei fatti; gli uomini della legge
non gli davano che parole. Allora sentì che i signori avevano ancora
una volta trionfato» (p. 120).
«Giammai legislazione scatenò una più grande indignazione. Pareva
che da entrambi le parti fosse corsa la promessa di non rispettarla»
(p. 121).
I signori, sentendosi appoggiati dall'Assemblea nazionale, si misero
allora a reclamare con accanimento tutti i cànoni feudali, che i
contadini credevano morti e sepolti per sempre. Esigevano tutti gli
arretrati e i processi fioccavano nei villaggi a migliaia.
D'altra parte, vedendo che nulla veniva di buono dall'Assemblea, i
contadini continuavano in talune regioni, la guerra contro i
signori. Un gran numero di castelli furono saccheggiati e
incendiati, mentre altrove solo i titoli furono bruciati e gli
uffici dei procuratori fiscali, dei balivi e dei cancellieri furono
messi a sacco e a fuoco. L'insurrezione guadagnava al tempo istesso
le parti occidentali della Francia, e in Brettagna trentasette
castelli furono bruciati nel corso del febbraio 1790.
Ma quando i decreti di febbraio-marzo 1790 giunsero sino nelle
campagne, la guerra contro ai signori diventò più accanita e si
allargò a regioni che non avevano osato insorgere nella precedente
estate.
Alla seduta del 2 giugno, Target legge un rapporto concernente vaste
insurrezioni nel Borbonese, nel Nivernese, nel Berry. Parecchie
municipalità hanno proclamato la legge marziale: ci sono morti e
feriti. I «briganti» si sono diffusi nella Campine e hanno attaccato
la città di Decize... Grandi «eccessi» vengono segnalati anche nel
Limosino: i contadini domandano che venga fissata la tassa dei
grani. «Il progetto di riavere i beni aggiudicati ai signori da
cento vent'anni è uno degli articoli del loro regolamento», dice il
rapporto. Si tratta, come ognuno vede, della ripresa delle terre
comunali, tolte ai comuni dai signori. E circolano dovunque falsi
decreti dell'Assemblea nazionale. Nel marzo, nell'aprile del 1790,
si pubblicarono nelle campagne decreti che intimavano di pagare il
pane non di più di un soldo alla libbra. La Rivoluzione precorreva
in tal guisa la Convenzione e la legge del maximum.
Alla seduta del 5 giugno, si annunciano le sommosse di Bourbon-Lancy
e del Carolese, dove si diffondono pure decreti apocrifi
dell'Assemblea e si chiede la legge agraria.
Nell'agosto, continuano le insurrezioni popolari. Così, nella città
di Saint-Etienne-en-Forez, il popolo uccide un incettatore e nomina
una nuova municipalità, costringendola a ribassare il prezzo del
pane; ma la borghesia si arma senza indugio e arresta ventidue
rivoltosi. È d'altronde il fenomeno che si ripete un po' dovunque,
senza parlare delle grandi lotte, come quelle di Lione e del
Mezzogiorno.
Allora – che cosa fa l'Assemblea? Accoglie dunque le domande dei
contadini? S'affretta forse di abolire senza riscatto quei diritti
feudali, tanto odiosi ai coltivatori e che vengono pagati solo per
forza?
Mai più. L'Assemblea vota nuove draconiane leggi contro i contadini.
Il 2 giugno 1790, «l'Assemblea, informata e profondamente afflitta
per gli eccessi che sono stati compiuti da truppe di briganti e di
ladri [leggete contadini] nei dipartimenti del Cher, della Nièvre e
dell'Allier, e che si sono estesi sino a quello della Corrèze,
decreta delle misure contro questi «fautori di disordini», e rende
le municipalità collettivamente responsabili delle violenze
avvenute.
«Tutti coloro, dice il primo articolo, che eccitano il popolo delle
città e delle campagne a vie di fatto e violenze contro le
proprietà, possessi e cinte d'eredità, contro la vita e la sicurezza
dei cittadini, la riscossione delle imposte, la libertà di vendita e
la circolazione delle derrate, sono dichiarati nemici della
Costituzione, dei lavori dell'Assemblea nazionale, della Natura e
del Re. La legge marziale verrà proclamata contro di loro. (Moniteur
del 6 giugno).
Quindici giorni dopo, il 18 giugno, l'Assemblea adotta un decreto in
nove articoli ancora più duri. Esso merita di essere citato.
L'articolo primo dispone che tutti i debitori delle decime, tanto
ecclesiastiche come infeudate, sono tenuti «di pagarle solo per
quest'anno, a chi di ragione e come di consueto...» Ma il contadino
si chiedeva certamente se un nuovo decreto non le imporrebbe ancora
per un anno o due – e intanto non pagava.
In virtù dell'articolo 2, «i debitori di champarts, terrages,
agriers comptants e altri cànoni pagabili in natura, che non sono
stati soppressi senza indennità, saranno obbligati di pagarli per
l'anno in corso e pei seguenti, secondo la consuetudine...
conformemente ai decreti emanati il 3 marzo e il 4 maggio scorsi».
L'articolo 3 dichiara che nessuno potrà, con pretesto di lite,
rifiutare il pagamento delle decime, nè dei champarts, ecc.
E soprattutto è proibito «di suscitare torbidi durante le esazioni».
In caso di assembramenti, le municipalità, in virtù del decreto del
20-23 febbraio, devono procedere con severità.
Questo decreto del 20-23 febbraio 1790 è caratteristico. Esso ordina
alle municipalità d'intervenire in ogni caso d'assembramento e di
proclamare la legge marziale. Se trascurano di farlo, gli ufficiali
municipali sono dichiarati responsabili di tutti i danni subiti dai
proprietari. E non solo gli ufficiali, ma «tutti i cittadini in
grado di concorrere al ristabilimento dell'ordine pubblico, tutta la
comunità sarà responsabile dei due terzi del danno». Ogni cittadino
potrà domandare l'applicazione della legge marziale, e allora solo
sarà scevro di responsabilità.
Questo decreto sarebbe stato ancora più cattivo se gli abbienti non
avessero commesso un errore di tattica. Plagiando una legge inglese,
essi vollero introdurre una clausola secondo la quale la truppa o
milizia poteva essere chiamata, e in tal caso doveva essere
proclamata nella località «la dittatura regia». La borghesia prese
ombra di questa clausola e dopo lunghe discussioni si decise di
lasciare alle municipalità borghesi il compito di proclamare la
legge marziale, di prestarsi reciprocamente man forte, senza
dichiarare la dittatura regia. Inoltre, si dichiararono responsabili
le comunità campestri dei danni che poteva subire il signore, se non
avessero fucilati e impiccati a tempo i contadini refrattari al
pagamento dei diritti feudali.
La legge del 18 giugno 1790 confermava tutte queste disposizioni.
Tutto ciò che nei diritti feudali rappresentava un vero valore,
tutto ciò che poteva essere definito – attraverso mille cavilli
legali – come annesso alla possessione della terra, doveva essere
pagato come prima. E c'era obbligo di fucilare e impiccare chiunque
rifiutava di pagare. Parlare contro il pagamento dei diritti feudali
era già un delitto, che conduceva alla morte, quando fosse
proclamata la legge marziale83.
Questa fu l'eredità della tanto lodata Assemblea costituente. E non
si ebbe nessun cambiamento sino al 1792. L'Assemblea non si occupò
più dei diritti feudali, che per precisare certe regole del riscatto
dei cànoni feudali, per deplorare che nessuno dei contadini volesse
riscattare qualcosa (legge del 3-9 maggio 1790), e per ripetere
ancora una volta nel 1791 (legge del 15-19 giugno) le minaccie
contro i contadini che non pagavano.
I decreti del febbraio 1790, ecco quanto ha saputo fare l'Assemblea
costituente per abolire l'odioso regime feudale! È solo nel luglio
1793, dopo l'insurrezione del 31 maggio, che il popolo di Parigi
costringerà la Convenzione «epurata» a pronunciare l'abolizione
reale dei diritti feudali.
Così fissiamo bene queste date:
4 agosto 1789: Abolizione, in massima, del regime feudale;
abolizione della manomorta personale, del diritto di caccia e della
giustizia patrimoniale.
Dal 5 all'11 agosto: Parziale ricostituzione di questo regime con
atti che impongono il riscatto di tutti i cànoni feudali di qualche
valore.
Fine del 1789 e 1790: Spedizioni delle municipalità urbane contro i
contadini insorti, che, presi, sono sovente impiccati.
Febbraio 1790: Rapporto del Comitato feudale, che constata il
diffondersi della jacquerie (insurrezione rurale).
Marzo e giugno 1790: Leggi draconiane contro i contadini che non
pagano i cànoni feudali o predicano la loro abolizione. Nuova e più
forte ripresa della sollevazione.
Giugno 1791: Nuova conferma di questo decreto. Reazione su tutta la
linea. Le insurrezioni dei contadini continuano.
E solo nel giugno 1792, come noi lo vedremo, alla vigilia
dell'invasione delle Tuileries, e nell'agosto del 1792, dopo la
caduta della dinastia, l'Assemblea moverà i primi passi decisivi
contro i diritti feudali.
Finalmente, nel luglio 1793, dopo l'espulsione dei Girondini, sarà
pronunciata l'abolizione definitiva, senza riscatto, dei diritti
feudali.
Ecco il vero quadro della Rivoluzione.
Un'altra questione, di somma importanza pei contadini, era
evidentemente quella delle terre comunali.
Dovunque (nell'Est, Nord-Est, Sud-Est) i contadini si sentivano la
forza di farlo, cercavano di riprendere il possesso delle terre
comunali, di cui una parte immensa era stata tolta loro colla frode
o col pretesto di debiti, per mezzo dello Stato, soprattutto dal
regno di Luigi XIV (decreto del 1669). Signori, clero, monaci,
borghesi del villaggio e della città – tutti avevano avuto la loro
parte.
Tuttavia, restavano ancora moltissime terre in possesso comunale, e
i borghesi dei dintorni le agognavano con avidità. Così l'Assemblea
legislativa s'affrettò di promulgare una legge (1° agosto 1791), che
autorizzò la vendita delle terre comunali ai privati. Ciò
significava dar carta bianca per il saccheggio di queste terre.
Le assemblee dei comuni rurali erano composte allora, in virtù della
nuova legge municipale (votata dall'Assemblea nazionale nel dicembre
del 1789), esclusivamente di alcuni deputati scelti fra i ricchi
borghesi del villaggio ed eletti dai cittadini attivi – cioè dai
contadini ricchi, esclusi naturalmente i poveri che non possedevano
il cavallo per coltivare la terra. E queste assemblee rurali
s'affrettarono evidentemente di porre in vendita le terre comunali,
di cui una gran parte fu acquistata a vil prezzo dai borghesi del
villaggio.
Quanto alla massa dei contadini poveri, si opponeva con tutte le sue
forze a questa distruzione del possesso collettivo del suolo, come
vi si oppone oggigiorno in Russia.
D'altra parte, i contadini, tanto ricchi che poveri, si sforzavano
di far tornare i villaggi in possesso delle terre comunali rubate
loro dai signori, dai monaci, dai borghesi: i ricchi nella speranza
di appropriarsene una parte, i poveri nella speranza di conservarle
per la comunità. Tutto ciò varia, ben inteso, all'infinito, secondo
le situazioni nelle diverse parti della Francia.
Ebbene, la Costituente, la Legislativa e persino la Convenzione
s'opposero sino nel giugno del 1793 a questa ripresa da parte dei
comuni delle terre comunali, tolte durante due secoli ai comuni
stessi dai signori e dai borghesi. E non si giunse a tanto se non
con l'imprigionare e ghigliottinare il re e cacciare i Girondini
dalla Convenzione.
XXVIII
SOSTA DELLA RIVOLUZIONE NEL 1790
Sappiamo ora quali fossero, nel corso del 1790, le condizioni
economiche dei villaggi. Erano tali che, se, non ostante tutto, non
fossero continuate le insurrezioni rurali, i contadini, affrancati
come individui, sarebbero rimasti sempre sotto al giogo economico
del regime feudale – come è avvenuto in Russia, dove la feudalità fu
abolita, nel 1861, da una legge, non da una rivoluzione.
Oltre a questo conflitto che sorgeva tra la borghesia giunta al
potere e il popolo, c'era anche tutta l'opera politica della
Rivoluzione, che non solo era incompiuta nel 1790, ma che bisognava
riprendere ancora da capo.
Quando cessò il primo terrore prodotto nel 1789 dall'improvvisa
sollevazione del popolo, la Corte, i nobili, i ricchi ed i preti
s'affrettarono di unirsi per organizzare la reazione. E in breve, si
sentirono così potenti e così bene appoggiati, ch'essi si misero
alla ricerca dei mezzi per schiacciare la Rivoluzione e ristabilire
nei loro diritti, momentaneamente perduti, la Corte e la nobiltà.
Tutti gli storici parlano, è vero, di questa reazione, ma essi non
ne mostrano però tutta la profondità e la vastità. Infatti, si può
affermare che nel biennio che va dall'estate del 1790 a quella del
1792 tutta l'opera della Rivoluzione restò in sospeso. Era il caso
di chiedersi: trionferà la Rivoluzione o la contro rivoluzione?
L'ago della bilancia oscillava fra questi interrogativi. I «capi
d'opinione» della Rivoluzione credevano ormai la causa perduta,
quando nel giugno del 1792 si decisero finalmente a lanciare ancora
una volta l'appello all'insurrezione popolare.
Bisogna riconoscere che se l'Assemblea costituente, e dopo di essa
la Legislativa, s'opposero all'abolizione rivoluzionaria dei diritti
feudali e alla rivoluzione popolare in genere, seppero tuttavia
compiere un'opera immensa per la distruzione dei poteri dell'antico
regime – del re e della Corte – come per la creazione del potere
politico della borghesia, ormai padrona dello Stato. Bisogna altresì
riconoscere che i legislatori di queste due assemblee procedettero
con energia e sagacità, quando vollero esprimere sotto forma di
leggi la nuova costituzione del Terzo Stato.
Essi seppero scalzare il potere dei nobili e trovare l'espressione
dei diritti del cittadino in una Costituzione borghese. Elaborarono
una costituzione dipartimentale e comunale, capace di opporre una
diga all'accentramento governativo e s'adoprarono, modificando le
leggi sull'eredità, a democratizzare la proprietà, a diffondere le
proprietà fra un più grande numero d'individui.
Distrussero per sempre le distinzioni politiche fra i diversi
«ordini» clero, nobiltà, Terzo Stato, opera enorme, data l'epoca in
cui venne compiuta: basta osservare con quali difficoltà ciò vien
fatto ancora in Germania o in Russia. Abolirono i titoli di nobiltà
e gli innumerevoli privilegi che esistevano allora, e seppero
trovare basi più egualitarie per le imposte. Seppero evitare la
formazione di una Camera alta, che sarebbe divenuta una fortezza
dell'aristocrazia. E colla legge dipartimentale del dicembre del
1789, fecero qualche cosa d'immenso per facilitare la Rivoluzione:
abolirono nelle provincie ogni funzionario del potere centrale.
Tolsero, infine, alla Chiesa le sue ricche fortune e tramutarono i
membri del clero in semplici funzionari dello Stato. L'esercito fu
riorganizzato: egualmente i tribunali. L'elezione dei giudici fu
deferita al popolo. E in tutto ciò, i borghesi legislatori seppero
evitare il soverchio accentramento. Insomma, dal punto di vista
della legislazione, noi li vediamo uomini abili, energici, e
troviamo in loro un elemento di democratismo repubblicano e
d'autonomia, che gli odierni partiti d'avanguardia non sanno
convenientemente stimare.
E tuttavia, malgrado queste leggi, nulla c'era di compiuto. La
realtà non rispondeva alla teoria. Poichè – ed è qui l'errore comune
di coloro che non conoscono da vicino il funzionamento della
macchina governativa – esiste un vero, profondo abisso fra la
promulgazione di una legge e la sua esecuzione pratica nella vita.
È facile dire: «Le proprietà delle congregazioni passeranno nelle
mani dello Stato.» Ma come tradurre la formula nei fatti? Chi, ad
esempio, andrà all'abbazia di San Bernardo a Clairvaux per dire
all'abate e ai monaci di sloggiare? Chi li caccierà, se non se ne
andranno volontariamente? Chi li impedirà di ritornarci domani –
sostenuti da tutti i devoti dei villaggi limitrofi e di cantare la
messa nell'abbazia? Chi organizzerà in modo efficace la vendita
delle loro proprietà? Chi, infine, trasformerà gli splendidi edifici
dell'abbazia in un ospizio per i vecchi, come, infatti, fece più
tardi il governo rivoluzionario? È noto invero che se le sezioni di
Parigi non avessero preso in mano la vendita dei beni del clero, la
legge promulgata non aveva neppure il principio della esecuzione.
Nel 1790, 91, 92, l'antico regime era ancora in piedi, pronto a
ricostituirsi completamente – salvo alcune leggere modificazioni –
proprio come il secondo impero era pronto a rinascere ogni giorno,
al tempo di Thiers e di Mac-Mahon. Il clero, la nobiltà, il vecchio
funzionarismo e soprattutto il vecchio spirito, erano pronti a
rialzare la testa, e ad incarcerare coloro che avevano osato
cingersi colla sciarpa tricolore. Spiavano l'occasione propizia, la
preparavano. Del resto, i nuovi direttorii dei dipartimenti, fondati
dalla Rivoluzione, ma composti di ricchi, erano quadri già pronti
per ristabilire l'antico regime. Erano le cittadelle della contro
rivoluzione.
L'Assemblea costituente e la Legislativa avevano elaborato
moltissime leggi, di cui si ammira pur oggi la lucidità e lo stile –
ma l'immensa maggioranza di tali leggi rimanevano lettera morta.
S'ignora forse che più dei due terzi delle leggi fondamentali fatte
tra il 1789 e il 1793 non hanno mai avuto neppure un semplice
principio di esecuzione?
Gli è che non basta di promulgare una nuova legge. Bisogna ancora,
quasi sempre, creare il meccanismo per applicarla. E se la nuova
legge colpisce – sia pure minimamente – un privilegio inveterato,
occorre l'azione di tutta un'organizzazione rivoluzionaria, affinchè
questa legge sia applicata con tutte le sue conseguenze nella vita.
Osservate la miseria di risultati prodotti da tutte le leggi della
Convenzione sull'istruzione gratuita e obbligatoria: sono rimaste
lettera morta!
Oggi pure, malgrado l'accentramento burocratico e gli eserciti di
funzionari che convergono verso il loro centro, Parigi, vediamo ogni
nuova legge, sia pure di ben poco effetto, richiedere lunghi anni
per passar nella vita. E ancora: quante volte l'applicazione è la
mutilazione di una legge! Ma all'epoca della grande Rivoluzione non
esisteva ancora questo meccanismo della burocrazia; impiegò più di
cinquant'anni per raggiungere il suo sviluppo attuale.
Come potevano, quindi, entrare nella vita le leggi dell'Assemblea,
senza che la Rivoluzione fosse compiuta di fatto in ogni città, in
ogni casolare, in ognuno dei trentasei mila comuni della Francia!
Ebbene! l'acciecamento dei rivoluzionari appartenenti alla borghesia
fu tale che, da una parte presero tutte le misure, affinchè il
popolo, i poveri che si gettavano a capo fitto nella Rivoluzione non
godessero poi di una grande partecipazione alla gestione degli
affari comunali e, dall'altra, si opposero con tutte le forze per
impedire che la rivoluzione scoppiasse e si compisse in ogni città e
in ogni villaggio.
Occorreva il disordine, perchè un'opera vitale uscisse dai decreti
dell'Assemblea. Occorreva che in ogni piccola località ci fossero
degli uomini d'azione, dei patriotti aventi l'odio dell'antico
regime, pronti a impadronirsi della municipalità; capaci di fare una
rivoluzione in ogni casolare per capovolgere l'ordine della vita,
ignorando tutte le autorità; occorreva, perchè si potesse compiere
la rivoluzione politica, che la rivoluzione stessa diventasse
sociale.
Occorreva che il contadino si fosse impadronito della terra e
l'avesse solcata coll'aratro senza aspettare l'ordine dell'autorità,
che certamente non sarebbe mai venuto. Occorreva insomma che una
vita nuova cominciasse nel casolare. Ma questo non poteva accadere
senza disordine, senza molto disordine sociale.
E i legislatori vollero per l'appunto impedire questo disordine!...
Non solo essi avevano eliminato il popolo dall'amministrazione, per
mezzo della legge municipale del dicembre 1789, che consegnava il
potere amministrativo ai cittadini attivi, mentre sotto il nome di
cittadini passivi si escludevano tutti i contadini poveri e quasi
tutti i lavoratori delle città; non solo detta legge rimetteva,
nelle provincie, tutto il potere nelle mani della borghesia – ma
armava anche questa borghesia di poteri sempre più minacciosi per
impedire alla povera gente di continuare a insorgere.
E tuttavia, furono proprio le rivolte della povera gente che
permisero, più tardi, nel 1792-93, di portare il colpo di grazia
all'antico regime84.
Ecco dunque sotto quale aspetto si presentavano gli avvenimenti.
I contadini, che avevano incominciato la rivoluzione, comprendevano
perfettamente che nulla ancora era fatto. L'abolizione delle servitù
personali aveva però risvegliato le loro speranze. Si trattava ora
di abolire di fatto le pesanti servitù economiche – per sempre e
senza riscatto, ben inteso. Inoltre, il contadino voleva ritornare
in possesso delle terre comunali.
Quelle ch'egli aveva già ripreso, nel 1789, ci teneva anzitutto a
conservarle e ad ottenere per ciò stesso la sanzione del fatto
compiuto. Quelle che non era riuscito a riconquistare, voleva
averle, e senza cadere per ciò sotto i colpi della legge marziale.
Ma la borghesia si opponeva con tutte le sue forze a questa duplice
volontà del popolo. Essa aveva profittato dell'insurrezione rurale
dell'89 contro il feudalismo per cominciare i suoi primi attacchi
contro il potere assoluto del re, contro i nobili e il clero, ma non
appena fu votato e accettato dal re un primo abbozzo di costituzione
borghese, – con la facoltà di violarla, – la borghesia si fermò,
atterrita dinnanzi alle rapide conquiste che lo spirito
rivoluzionario faceva tra il popolo.
I borghesi comprendevano inoltre che i beni dei signori stavano per
passare nelle loro mani; ed essi volevano conservare intatti questi
beni, con tutti i redditi addizionali annessi alle antiche servitù,
convertite in pagamenti in denaro. Più tardi si sarebbe esaminato,
se non fosse più vantaggioso abolire i residui di queste servitù, e
allora lo si farebbe legalmente, con «metodo», con «ordine». Poichè,
se si tollerava il disordine, chi sa dove si sarebbe fermato il
popolo? Non si parlava già di «eguaglianza», di «legge agraria», di
«pareggiamento delle fortune», di «poderi non più vasti di
centoventi jugeri»?
E, come nei villaggi, lo stesso fenomeno avveniva nelle città, per
gli artigiani e per tutta la popolazione laboriosa dei centri
urbani. Le maestranze e le giurande, che la monarchia aveva saputo
trasformare in strumenti d'oppressione, erano state abolite. I
residui di servitù feudale, che esistevano ancora in gran numero
nelle città, come nelle campagne, erano stati soppressi al momento
delle insurrezioni popolari nell'estate del 1789. Erano scomparse le
giustizie signorili e i giudici erano eletti dal popolo e scelti fra
la borghesia abbiente.
Ma, in fondo, erano minuzie. Il lavoro mancava nelle industrie e il
pane si vendeva a prezzi di carestia. La massa degli operai era
anche disposta a pazientare, purchè si lavorasse a stabilire il
regno della Libertà, dell'Eguaglianza, della Fratellanza. Ma poichè
questo non si faceva, la massa perdeva la pazienza. E allora il
lavoratore domandava che la Comune di Parigi, che le municipalità di
Rouen, de Nancy, di Lione, ecc., facessero delle provviste per
vendere il grano al prezzo di costo. Egli domandava che si tassasse
il grano incettato dai mercanti, che si facessero delle leggi
sontuarie, che i ricchi venissero tassati con un'imposta forzosa e
progressiva! E perciò la borghesia, che si era armata già sin
dall'89, mentre i cittadini passivi rimanevano senz'armi, scendeva
nella strada, spiegava la bandiera rossa, intimando al popolo di
disperdersi, e fucilava i recalcitranti a bruciapelo. Questo avvenne
a Parigi nel luglio del 1791 e un po' dovunque in tutta la Francia.
E la Rivoluzione si fermava nella sua marcia. La dinastia sentiva
rifluirsi la vita. Gli emigrati si fregavano le mani a Coblenza e
Mitau. I ricchi rialzavano il capo e si lanciavano in sfrenate
speculazioni.
Tanto che dall'estate del 1791 sino al giugno del 1792, la contro
rivoluzione potè credersi trionfante.
È del resto naturale che una rivoluzione così importante come quella
che si compiè tra l'89 e il 93, abbia avuto i suoi momenti di sosta
e anche di regresso. Le forze di cui disponeva l'antico regime erano
immense, e, dopo aver subìto un primo scacco, esse dovevano appunto
ricostituirsi per opporre una diga allo spirito nuovo.
Così, nulla d'imprevisto offre la reazione che si produsse nei primi
mesi del 1790, e anzi già nel dicembre 1789. Ma questa reazione fu
così forte ch'essa potè durare sino al giugno del 1792, e se,
malgrado tutti i delitti della Corte, divenne tanto potente da
rimettere in pericolo nel 1791 tutta la rivoluzione – ciò proviene
dal fatto ch'essa non fu solo l'opera dei nobili e del clero, uniti
sotto lo stendardo della monarchia. La borghesia pure – questa nuova
forza uscita dal seno stesso della Rivoluzione – aggiunse la sua
attività, il suo amore dell'«ordine» e della proprietà, il suo odio
del tumulto popolare, alle forze che cercavano di ostacolare la
rivoluzione. Ed un gran numero di uomini colti, di «intellettuali»
nei quali il popolo aveva riposto la sua fiducia – non appena
intravvidero le prime luci di una sollevazione popolare, le
voltarono le spalle e si affrettarono ad entrare nelle file dei
difensori dell'ordine, per domare il popolo e opporre una diga alle
sue tendenze egualitarie.
Rinforzati in tal guisa, i contro rivoluzionari alleati contro il
popolo giunsero a tanto, che se i contadini non avessero continuato
le loro sollevazioni nelle campagne e se il popolo delle città,
vedendo lo straniero invadere la Francia, non si fosse risollevato
nell'estate del 1792, la Rivoluzione si sarebbe fermata a mezza
strada, senza nulla aver fatto ancora di duraturo.
Tutto sommato, la situazione era molto oscura nel 1790. «Già è
stabilita senza pudore l'aristocrazia pura dei ricchi», scriveva
Loustalot, il 28 novembre dell'89, nelle Révolutions de Paris. «Chi
sa che non sia già un delitto di lesa-nazione osar dire: La nazione
è sovrana?85» Ma d'allora, la reazione aveva guadagnato molto
terreno e ne guadagnava a vista d'occhio.
Nel suo grande lavoro sulla storia politica della Grande
Rivoluzione, Aulard ha cercato di far risaltare l'opposizione che
l'idea di una forma repubblicana di governo incontrava nella
borghesia e fra «gli intellettuali» dell'epoca – anche quando i
tradimenti della Corte e dei monarchici imponevano già la
Repubblica. Infatti, quando nel 1789 i rivoluzionari procedevano
come se volessero sbarazzarsi del tutto della dinastia – un
movimento decisamente monarchico si produsse fra quegli stessi
rivoluzionari, a mano a mano che si affermava il potere
costituzionale dell'Assemblea86. Si può dire ancora di più. Dopo il
5 e 6 ottobre 1789 e la fuga del re nel giugno 1791, ogni volta che
il popolo si mostrava come una forza rivoluzionaria, la borghesia e
i suoi capi d'opinione divenivano sempre più monarchici
È un fatto importantissimo; ma non bisogna però dimenticare che
l'essenziale per la borghesia e gli intellettuali era la
conservazione delle proprietà, come si diceva allora. Si vede,
infatti, che questa questione della conservazione delle proprietà
passa come un filo nero attraverso tutta la Rivoluzione sino alla
caduta dei Girondini87. Ed è pure certo che se la Repubblica faceva
tanta paura ai borghesi e anche ai Giacobini ardenti (mentre i
Cordiglieri l'accettavano volontieri), gli è perchè l'idea di
repubblica si univa nel popolo a quella di uguaglianza, e questa si
traduceva nella domanda di pareggiamento delle fortune e di legge
agraria – formule di egualitari, di comunisti, di espropriatori, di
«anarchici» dell'epoca.
Ed è appunto e soprattutto per impedire che il popolo attentasse al
sacrosanto principio di proprietà, che la borghesia s'affrettò di
stringere i freni alla Rivoluzione. Sin dall'ottobre 1789,
l'Assemblea votava la famosa legge marziale, che permise di fucilare
i contadini insorti, e più tardi, nel luglio 1791, di massacrare il
popolo a Parigi. Essa ostacolò pure l'arrivo a Parigi di popolani
delle provincie per la Festa della Federazione del 14 luglio 1790.
Adottò una serie di misure contro le società rivoluzionarie locali,
che formavano la forza della Rivoluzione popolare, rischiando di
uccidere in tal modo ciò che era stato il germe del suo potere.
Infatti, sin dai primi inizi della Rivoluzione, migliaia di
associazioni politiche erano sorte in tutta la Francia. Non erano
solo le assemblee primarie o elettorali, che continuavano a
riunirsi, oltre alle numerose società giacobine affiliate alla
Società madre di Parigi; ma soprattutto le Sezioni, le Società
popolari e le Società fraterne, che nacquero spontaneamente e senza
alcuna formalità. Erano migliaia di comitati e di poteri locali,
quasi indipendenti, che si sostituivano al potere regio, e che
aiutavano a diffondere tra il popolo l'idea della rivoluzione
egualitaria, sociale.
Ebbene! L'opera della borghesia fu intesa appunto a schiacciare, a
paralizzare, o almeno a demoralizzare questi mille centri locali, e
ci riuscì così bene che la reazione monarchica, clericale e
nobiliare cominciò a prendere il sopravvento nelle città e nelle
borgate di quasi tutta la Francia.
Ben presto si sarebbe ricorso alle persecuzioni giudiziarie e, nel
gennaio del 1790, Necker otteneva un decreto d'arresto per Marat,
che aveva francamente sposata la causa del popolo, degli straccioni.
Nella tema di una sommossa popolare, si mobilizzò la fanteria e la
cavalleria per incarcerare il tribuno; si spezzarono i suoi torchi
da stampa, e Marat fu obbligato, in piena Rivoluzione, a rifugiarsi
in Inghilterra. Tornato quattro mesi dopo, dovette stare
continuamente nascosto e, nel dicembre 1791, gli toccò traversare di
nuovo la Manica.
Insomma, la borghesia e gli intellettuali difensori delle proprietà
tanto fecero per spezzare lo slancio popolare ch'essi fermarono la
stessa Rivoluzione. Man mano che si costituiva l'autorità della
borghesia, l'autorità del re rifaceva la sua verginità.
«La vera Rivoluzione, nemica della licenza, si consolida ogni
giorno», scriveva il monarchico Mallet du Pan nel giugno 1790. E
diceva la verità. Tre mesi dopo, la contro rivoluzione era così
possente che seminava di cadaveri le vie di Nancy.
In principio, lo spirito della Rivoluzione aveva appena sfiorato
l'esercito, composto allora di mercenari, in parte stranieri,
tedeschi e svizzeri. Però vi penetrava a poco a poco. Vi contribuì
in parte la festa della Federazione, alla quale furono invitati dei
delegati di soldati in qualità di cittadini, e nel mese d'agosto si
verificò un po' dovunque e soprattutto nelle guarnigioni dell'Est,
una serie di movimenti tra i soldati. Essi volevano costringere i
loro ufficiali a rendere conto delle somme, che erano passate fra le
loro mani, ed a restituire quelle che avevano sottratte ai soldati.
Queste somme erano enormi: salivano fino a più di 240,000 lire nel
reggimento di Beauce, a 100,000 e persino a due milioni in altre
guarnigioni. L'effervescenza aumentava; ma, come c'era d'aspettarsi
da uomini abbrutiti da un lungo servizio, una parte di loro rimaneva
fedele agli ufficiali e i contro rivoluzionari profittarono di
questa divisione per provocare dei conflitti e delle risse
sanguinose fra soldati e soldati. Così, a Lilla, quattro reggimenti
si battevano fra loro – realisti contro patriotti – e lasciavano sul
campo cinquanta fra morti e feriti.
La raddoppiata attività delle cospirazioni realiste dalla fine
dell'89, soprattutto fra gli ufficiali dell'Est, comandati da
Bouillé, fa supporre che i cospiratori progettassero di profittare
della prima rivolta dei soldati per annegarla nel sangue,
utilizzando all'uopo i reggimenti realisti rimasti fedeli ai loro
capi.
L'occasione si presentò ben presto a Nancy.
L'Assemblea nazionale, venuta a cognizione di questa agitazione fra
i militari, votò, il 6 agosto 1790, una legge che riduceva gli
effettivi dell'esercito, proibiva le «associazioni deliberanti» dei
soldati nei reggimenti, ma nello stesso tempo ordinava pure che i
conti del denaro fossero dati senza ritardo da parte degli ufficiali
ai loro reggimenti.
Non appena questo decreto fu conosciuto a Nancy, il 9, i soldati –
soprattutto gli svizzeri del reggimento di Châteauvieux (in gran
parte vodesi e ginevrini) – domandarono dei conti ai loro ufficiali.
Asportarono la cassa del loro reggimento per porla sotto la
salvaguardia delle loro sentinelle, minacciarono i loro capi e
mandarono otto delegati a Parigi per sostenere la loro causa
all'Assemblea nazionale. I movimenti di truppe austriache alla
frontiera vennero ad accrescere il fermento.
L'Assemblea, frattanto, dietro falsi rapporti giunti da Nancy, e
spinta dal comandante delle guardie nazionali, Lafayette, nel quale
la borghesia riponeva piena fiducia, votò al 16 un decreto che
condannava i soldati per la loro indisciplina e ordinava alle
guarnigioni e alle guardie nazionali della Meurthe di «reprimere gli
autori della ribellione». I loro delegati vennero arrestati, e
Lafayette, dal canto suo, lanciò una circolare che convocava le
guardie nazionali dei borghi vicini a Nancy, per combattere la
guarnigione insorta di questa città.
Tuttavia, pareva che a Nancy tutto dovesse finire tranquillamente.
La maggior parte dei ribelli avevano anzi firmato «un atto di
pentimento.» Ma ciò non serviva bene al gioco dei realisti88.
Il 28 agosto, Bouillé usciva da Metz alla testa di tremila soldati
rimasti fedeli, colla ferma intenzione di fare a Nancy il gran colpo
desiderato contro i ribelli.
La doppiezza del direttorio del dipartimento e della municipalità di
Nancy aiutò a realizzare questo piano, e mentre tutto poteva
appianarsi all'amichevole, Bouillé pose alla guarnigione condizioni
impossibili e impegnò la battaglia. I suoi soldati fecero una strage
orrenda dentro Nancy, uccisero cittadini e soldati, saccheggiarono
le case.
Tremila cadaveri nelle strade, ecco il risultato del combattimento,
dopo il quale vennero le rappresaglie «legali». Trentadue soldati
ribelli furono giustiziati e perirono sulla ruota, quarant'uno
furono mandati ai lavori forzati.
Il re s'affrettò ad approvare con una lettera «la buona condotta del
signor Bouillé»; l'Assemblea nazionale ringraziò gli assassini, e la
municipalità di Parigi celebrò una cerimonia funebre in onore dei
vincitori caduti nella battaglia. Nessuno osò protestare, e anche
Robespierre si tacque come tutti gli altri. È in tal modo che si
chiudeva il 1790. La reazione armata prendeva il sopravvento.
XXIX
LA FUGA DEL RE. – LA REAZIONE. – FINE DELL'ASSEMBLEA
COSTITUENTE
La Grande Rivoluzione è piena di avvenimenti eminentemente tragici.
La presa della Bastiglia, la marcia delle donne su Versaglia,
l'assalto delle Tuileries e la decapitazione del re sono episodi che
il mondo intero conosce. Ne abbiamo apprese le date sin dalla nostra
infanzia. Tuttavia, accanto a queste grandi date, ce ne sono altre,
delle quali si dimentica sovente di parlare, ma che ebbero, secondo
noi, un significato ancor più grande per riassumere lo spirito della
Rivoluzione a un dato momento e per determinare la sua marcia
futura.
Così, per la caduta della dinastia, il momento più significativo
della Rivoluzione – quello che meglio ne riassume la prima parte e
che darà ormai a tutta la sua marcia un certo carattere popolare – è
il 21 giugno 1791: memorabile notte in cui degli sconosciuti, uomini
del popolo, arrestarono il re fuggiasco e la di lui famiglia a
Varennes, nel momento in cui stavano per varcare la frontiera e
gettarsi in braccio allo straniero. Da quella notte data la caduta
della dinastia. Da quel momento, il popolo entra in scena per
ricacciare tra le quinte i politicanti.
L'avventura è nota. Un complotto in piena regola era stato ordito a
Parigi per far fuggire il re e permettergli di recarsi al di là
della frontiera, dove si sarebbe posto alla testa degli emigrati e
degli eserciti tedeschi. La Corte aveva concepito questo piano sin
dal settembre 1789, e pare che Lafayette ne fosse avvertito89.
Che i realisti abbiano veduto in questa evasione il mezzo di porre
il re al sicuro e di domare nello stesso tempo la Rivoluzione,
facilmente si capisce. Ma purtroppo anche molti rivoluzionari della
borghesia favorivano questo piano: quando i Borboni fossero cacciati
di Francia, Filippo d'Orléans li sostituirebbe sul trono e da lui
sarebbe possibile ottenere una costituzione borghese, senza aver
bisogno del concorso, sempre pericoloso, delle rivolte popolari.
Il popolo sventò questo piano.
Uno «sconosciuto», Drouet, ex-mastro di posta, riconosce il re
mentre passa davanti a un casolare. Ma la vettura del re già riparte
a galoppo. Allora Drouet e un suo amico, Guillaume, si slanciano
nella notte a briglia sciolta, all'inseguimento della vettura. Essi
sanno che le foreste costeggianti la strada sono battute dagli
ussari, che erano venuti sulla strada maestra per ricevere la
vettura del re al Pont-de-Somme-Vesle, ma che, non vedendola venire
e temendo l'ostilità del popolo, si sono ritirati in mezzo ai
boschi. Drouet e Guillaume riescono tuttavia ad evitare l'incontro
con queste pattuglie, seguendo i sentieri che ben conoscono, ma non
raggiungono la vettura reale che a Varennes, dove un ritardo
imprevisto l'aveva fermata, – per il fatto che i cavalli di ricambio
e gli ussari non s'erano trovati nel luogo preciso fissato per
l'appuntamento, – e là, Drouet passando innanzi, ha appena il tempo
di correre da un amico, un oste: Sei un buon patriotta? gli chiede.
– Ma certo! – Allora, andiamo ad arrestare il re!
E sbarrano anzitutto – senza rumore – il passo alla pesante berlina
reale, mettendo attraverso il ponte dell'Aire una vettura caricata
di mobili che vi si trovava per caso. Poi, seguiti da quattro o
cinque cittadini, armati di fucili, arrestano i fuggitivi proprio
nel momento in cui la loro vettura, discendendo dall'Alta Città
verso il ponte dell'Aire, entra sotto la volta della chiesa di
Saint-Gençoult90.
Drouet e gli amici suoi fanno discendere i viaggiatori, malgrado le
loro proteste e, nell'attesa che il municipio verifichi i loro
passaporti, li fanno passare nel retrobottega del droghiere Sauce.
Qui, il re, apertamente riconosciuto da un giudice di stanza a
Varennes, si vede costretto ad abbandonare la parte di domestico di
«Madama Korff» e, sempre furbo, per scusare la sua fuga, si mette a
perorare sui pericoli che correva a Parigi la sua famiglia, da parte
degli Orléans.
Ma il popolo non si lascia ingannare. Ha compreso di colpo i piani e
il tradimento del re. Le campane suonano a stormo, e da Varennes,
dalla campagna, di villaggio in villaggio accorrono contadini armati
di forche e di bastoni. Essi fanno la guardia al re aspettando
l'alba, e due contadini, colle forche in mano, stanno di sentinella
alla porta.
I contadini accorsero a migliaia lungo tutta la strada da Varennes a
Parigi e paralizzarono gli ussari e i dragoni di Bouillé, ai quali
Luigi XVI s'era confidato per la fuga. A Sainte-Menehould,
immediatamente dopo la partenza del re, suonava già la campana, e
così pure a Clermont-en-Argonne. A Sainte-Menehould, il popolo
disarmò i dragoni venuti per scortare il re e fraternizzò con loro.
A Varennes, i sessanta ussari tedeschi venuti per scorta al re fino
al suo incontro con Bouillé, e che stavano nella Città Bassa,
dall'altra parte dell'Aire, sotto gli ordini del sottotenente
Rohrig, si mostrarono appena. L'ufficiale scomparve e non si seppe
più nulla di lui, e quanto ai suoi soldati, dopo aver bevuto tutto
il giorno cogli abitanti (che non li insultavano, ma li
guadagnavano, fraternizzando, alla loro causa), non si curarono più
del re. Bevettero gridando: Viva la nazione! mentre tutta la città,
balzata in piedi al suono delle campane a martello, faceva ressa nei
dintorni della bottega di Sauce.
Intanto le vicinanze di Varennes vengono barricate per impedire agli
ulani di entrare in città. E, allo spuntar del giorno, le grida: A
Parigi! A Parigi! echeggiano tra la folla.
Le grida aumentano quando, verso le dieci del mattino, giungono due
commissari che Lafayette da una parte e l'Assemblea dall'altra hanno
inviato al mattino del 21, per arrestare il re e la sua famiglia.
Devono partire! Devono partire! Li cacceremo per forza nella
vettura! gridano i contadini, furiosi nel constatare che Luigi XVI
cerca di guadagnar del tempo, nell'attesa che giungano gli ulani
capitanati da Bouillé. Allora, previa distruzione di alcuni carteggi
compromettenti, che avevano portato via nella vettura, il re e la
sua famiglia si decidono a ritornare indietro.
Il popolo li riconduce prigionieri a Parigi. La monarchia era finita
e cadeva nell'obbrobrio.
Al 14 luglio 1789, la monarchia aveva perduto la sua fortezza, ma le
era rimasto la sua forza morale, il suo prestigio. Tre mesi dopo, al
6 ottobre, il re diventava ostaggio della Rivoluzione, ma il
principio monarchico rimaneva sempre in piedi. Il re, attorno al
quale si stringevano gli abbienti, rimaneva sempre possente. I
Giacobini stessi non osavano attaccarlo.
Ma nella notte che il re – travestito da domestico e sorvegliato dai
contadini – passò nel retro-bottega di un droghiere di villaggio, a
fianco dei «patriotti», alla luce di una candela piantata in una
lanterna, – nella notte in cui le campane suonarono a stormo per
impedire al re di tradir la nazione, mentre migliaia di contadini
accorrevano per ricondurlo prigioniero al popolo di Parigi, in
quella notte la monarchia crollava per sempre. Il re, simbolo altra
volta dell'unità nazionale perdeva ogni ragion d'essere, diventando
il simbolo dell'unione internazionale dei tiranni contro i popoli.
Tutti i troni d'Europa ne risentirono il contraccolpo.
Al tempo stesso, il popolo entrava in lizza per forzare la mano ai
meneurs della politica. Questo Drouet che agisce di sua spontanea
iniziativa e sventa i piani dei politicanti; questo contadino che,
nella notte, di suo spontaneo slancio, spinge il cavallo e gli fa
superare al gran galoppo valli e colline all'inseguimento del
traditore secolare – il re, – quest'uomo è l'immagine del popolo,
che d'allora, ad ogni momento critico della Rivoluzione, prenderà
gli affari in mano e dominerà i politicanti.
L'invasione delle Tuileries da parte del popolo, il 20 giugno 1792,
la marcia dei sobborghi di Parigi contro le Tuileries, il 10 agosto
1792, la decadenza e il resto, tutti questi grandi avvenimenti si
svolgeranno ormai come una necessità storica.
L'idea del re, quando tentò di fuggire, era quella di mettersi alla
testa dell'esercito che comandava Bouillé e, sostenuto da un
esercito tedesco, marciare poi su Parigi. Riconquistata la capitale,
è noto, oggi, quello che i realisti si proponevano di fare.
Arrestare tutti i «patriotti»: le liste di proscrizione erano già
compilate; giustiziare i più pericolosi, incarcerare e deportare gli
altri; abolire quindi tutti i decreti votati dall'Assemblea per
stabilire la costituzione o per combattere il clero. L'antico regime
sarebbe stato ristabilito con tutti i i suoi ordini e le sue classi,
ripristinando poi, a mano armata e colle esecuzioni sommarie, le
decime, i diritti feudali, i diritti di caccia e tutti i cànoni
feudali.
Tale era il piano dei realisti, nè lo nascondevano. «Aspettate,
signori patriotti», dicevano i realisti a chiunque volesse
intenderli, «ben presto pagherete il fio dei vostri delitti.»
Il popolo, come abbiam detto, sventò questo piano. Il re, arrestato
a Varennes, fu ricondotto a Parigi e posto sotto la sorveglianza dei
patriotti dei sobborghi.
Parrebbe lecito credere che la Rivoluzione stesse ormai per
continuare a passi di gigante il suo sviluppo logico. Provato il
tradimento del re, non era forse facile proclamare la decadenza
della monarchia, rovesciando ad un tempo le vecchie istituzioni
feudali, per inaugurare la repubblica democratica?
Nulla di tutto ciò. Al contrario, è la reazione che trionfò
definitivamente un mese dopo la fuga da Varennes e la borghesia
s'affrettò a rilasciare alla reggia un nuovo certificato d'immunità.
Il popolo aveva compreso subito la situazione. Era evidente che non
si poteva più lasciare sul trono il re. Reintegrato nel castello,
avrebbe ripreso la trama delle sue cospirazioni e complottato con
maggiore attività con l'Austria e la Prussia. Condannato a non
abbandonar più la Francia, non potrebbe che cercare con maggior zelo
di evadere. Ciò era ben chiaro, tanto più che gli avvenimenti nulla
gli avevano insegnato. Continuava, infatti, a rifiutare la sua firma
ai decreti che attaccavano la potenza del clero e le prerogative dei
signori. Bisognava dunque detronizzarlo, pronunciare senza indugio
la sua decadenza.
Questa necessità fu assai bene compresa dal popolo di Parigi e d'una
buona parte delle provincie. All'indomani del 21 giugno, a Parigi,
si cominciò col demolire i busti di Luigi XVI e col cancellare le
insegne regie. La folla invase le Tuileries; si parlava in pubblico
contro la reggia, si chiedeva il detronizzamento del re. Quando il
duca d'Orléans compiè la sua passeggiata per le strade di Parigi,
col sorriso sulle labbra, credendo di raccogliervi una corona, tutti
gli voltarono le spalle era finita pei re, nessuno voleva più
saperne. I Cordiglieri domandarono apertamente la repubblica e
firmarono un indirizzo, nel quale si proclamavano tutti contrari ai
re – tutti «tirannicidi». Il Corpo municipale di Parigi fece una
dichiarazione nello stesso senso. Le sezioni di Parigi dichiararono
di sedere in permanenza; i berretti di lana e gli uomini dalle
picche ricomparvero nelle strade; pareva di essere alla vigilia di
un nuovo 14 luglio. Il popolo era, infatti, pronto a mettersi in
movimento per rovesciare definitivamente la monarchia.
L'Assemblea nazionale, sotto l'impulso del movimento popolare, si
fece audace, e procedè come se non ci fosse più il re. Non aveva
egli forse abdicato, fuggendo? L'Assemblea s'impadronì del potere
esecutivo, diede degli ordini ai ministri e prese in mano i rapporti
diplomatici. Durante una quindicina di giorni, la Francia visse
senza re.
Ma ecco che la borghesia muta consiglio, si disdice e si mette in
aperta opposizione al movimento repubblicano. Nello stesso senso
cambia l'atteggiamento dell'Assemblea. Mentre tutte le società
popolari e fraterne si pronunciano per la decadenza, il club dei
Giacobini, composto di borghesi legalitari, ripudia l'idea di
repubblica e si dichiara favorevole al mantenimento della monarchia
costituzionale. – «La parola repubblica spaventa i fieri Giacobini»,
dice Réal alla tribuna del loro club. I più sovversivi del club, fra
gli altri Robespierre, hanno paura di compromettersi; non osano
pronunciarsi per la decadenza della monarchia e dicono d'essere
calunniati se vengono chiamati repubblicani.
L'Assemblea così risoluta al 22 giugno, ritorna bruscamente sulle
sue decisioni e, al 15 luglio, lancia in tutta fretta un decreto,
col quale assolve il re e si pronuncia contro la decadenza della
monarchia, e cioè contro la repubblica. Da quell'istante, domandare
la repubblica diventa un delitto.
Che cosa è dunque accaduto di nuovo in questi venti giorni da
spingere i capi rivoluzionari della borghesia a far voltafaccia ed a
prendere la risoluzione di lasciare Luigi XVI sul trono? Si è forse
pentito il re? Ha dato forse delle prove di sottomissione alla
Costituzione? – No, nulla è accaduto di simile. Ma i capeggiatori
borghesi hanno scorto di nuovo lo spettro che li terrorizzava sin
dal 14 luglio e dal 6 ottobre del 1789: la sollevazione del popolo!
Gli uomini dalle picche erano discesi nella strada e le provincie
sembravano decise a insorgere come nell'agosto del 1789. Il solo
spettacolo di migliaia di contadini accorsi – al suono delle campane
– dai villaggi limitrofi sulla strada di Parigi a ricondurvi il re
prigione – questo solo spettacolo faceva rabbrividire i
rivoluzionari della borghesia. Ed ora, ecco il popolo di Parigi che
si alzava, s'armava e chiedeva la continuazione della rivoluzione, e
cioè: la repubblica, l'abolizione dei diritti feudali,
l'eguaglianza, non a parole. Non stavano dunque per tradursi nei
fatti la legge agraria, la tassa del pane, l'imposta sui ricchi?
No. Alla rivoluzione popolare, la borghesia preferiva il re
traditore e l'invasione straniera.
Ecco perchè l'Assemblea s'affrettò a stroncare qualunque agitazione
repubblicana, improvvisando, al 15, quel decreto che metteva il re
fuori di causa, lo ristabiliva sul trono e dichiarava delinquenti
tutti coloro che avrebbero voluto far riprendere alla rivoluzione la
sua marcia ascensionale.
Quindi i Giacobini, questi pretesi fautori della Rivoluzione, dopo
una giornata d'esitazioni, abbandonarono i repubblicani che si
proponevano di suscitare al 17 luglio, nel Campo di Marte, un vasto
movimento popolare contro la monarchia. E allora, la borghesia
contro rivoluzionaria, sicura del colpo, riunì la sua guardia
nazionale borghese, la scagliò contro il popolo inerme, riunito
attorno all'«altare della patria» per firmare una petizione
repubblicana, fece spiegare la bandiera rossa, proclamò la legge
marziale e massacrò il popolo, cioè i repubblicani.
Cominciò quindi un periodo di schietta reazione che andò
aggravandosi sino alla primavera del 1792.
I repubblicani, autori della petizione del Campo di Marte, che
chiedeva la destituzione del re, furono perseguitati. Danton dovette
riparare in Inghilterra (agosto 1791). Robert (franco repubblicano,
redattore delle Révolutions de Paris), Fréron e specialmente Marat
dovettero nascondersi.
La borghesia, approfittando di un momento di terrore, s'affrettò a
limitare ancora di più i diritti elettorali del popolo. Ormai, per
essere elettore, occorreva, in più delle dieci giornate di lavoro
pagate in contribuzioni dirette, possedere in proprio o in usufrutto
un bene stimato di 150 a 200 giornate di lavoro, o tenere come
colono un podere valutato 400 giornate di lavoro. Come ognun vede, i
contadini venivano, in modo assoluto, privati di qualsiasi diritto
politico.
Dopo il 17 luglio (1791) diventò pericoloso dirsi o sentirsi
chiamare repubblicano, e dei rivoluzionari cominciarono senz'altro a
trattare coloro che domandavano la destituzione del re e l'avvento
della repubblica come «uomini perversi», che non hanno «niente da
perdere e tutto da guadagnare nel disordine e nell'anarchia».
A poco a poco la borghesia prende coraggio, ed è nel periodo di un
risveglio monarchico assai accentuato, in mezzo a entusiastiche
ovazioni tributate al re e alla regina dalla borghesia di Parigi,
che il re accetta e giura all'Assemblea, il 14 settembre 1791, di
rispettare quella costituzione ch'egli in quel giorno stesso
tradiva.
Quindici giorni dopo, l'Assemblea costituente si scioglieva, e ciò
porse nuova occasione ai costituzionali di ripetere le loro
manifestazioni realiste in onore di Luigi XVI. Il governo passava
nelle mani dell'Assemblea legislativa, eletta a suffragio ristretto,
ed evidentemente più borghese ancora dell'Assemblea costituente.
E la reazione aumentava sempre! Verso la fine del 1791, i migliori
rivoluzionari erano giunti a disperare completamente del successo
della Rivoluzione. Marat la credeva perduta. «La rivoluzione,
scriveva nell'Ami du Peuple, è fallita...» Egli chiedeva che si
facesse appello al popolo, ma nessuno voleva ascoltarlo. «Un pugno
di diseredati», diceva nel suo giornale del 21 luglio, «furono i
demolitori della Bastiglia! Utilizzateli ancora, essi si mostreranno
coraggiosi come al primo giorno, non chiedono che di combattere i
tiranni; ma allora erano liberi d'agire, ed oggi sono incatenati.»
Incatenati, ben inteso, dai capi. «I patriotti non osano più farsi
vedere», dice sempre Marat il 15 ottobre 1791, «e i nemici della
libertà riempiono le tribune del Senato e si trovano dovunque».
Ecco cosa diventava la Rivoluzione man mano che i borghesi e i loro
«intellettuali» trionfavano.
Camillo Desmoulins ripeteva le stesse disperate parole, il 24
ottobre 1791, nel club dei Giacobini. I reazionari, diceva, hanno
volto a loro profitto il movimento popolare del luglio e agosto
1789. I favoriti della Corte parlano oggi della sovranità del
popolo, dei diritti dell'uomo, dell'eguaglianza dei cittadini, per
ingannare il popolo e si pavoneggiano nell'abito della guardia
nazionale per afferrare o magari comperare le cariche di capi.
Attorno a loro si riuniscono i puntelli del trono. I demoni
dell'aristocrazia hanno dato prova di un'abilità infernale.»
Prudhomme diceva apertamente che la nazione era tradita dai suoi
rappresentanti e l'esercito dai suoi capi.
Ma Prudhomme e Desmoulins potevano almeno mostrarsi. Mentre invece,
un rivoluzionario popolare come Marat dovette nascondersi durante
parecchi mesi, non sapendo qualche volta dove rifugiarsi di notte.
Ben giustamente si è detto di Marat ch'egli perorava la causa del
popolo colla testa sul ceppo. Danton, in procinto d'essere
arrestato, era partito per Londra.
D'altronde, la regina stessa, nella sua corrispondenza segreta con
Fersen, per mezzo del quale essa dirigeva l'invasione e preparava
l'entrata degli eserciti tedeschi nella capitale, constatava «un
cambiamento visibile a Parigi». Il popolo, diceva la regina, non
legge più i giornali. E il 31 ottobre 1791 scriveva: «Il popolo non
si preoccupa che del rincaro del pane e dei decreti».
Il rincaro del pane e i decreti! Il pane per vivere e continuare la
rivoluzione – poichè il popolo ne era privo sin dall'ottobre! E i
decreti contro i preti e gli emigrati, che il re rifiutava di
sanzionare!
Il tradimento era dovunque, e oggi si sa che verso quell'epoca, alla
fine del 1791, Dumouriez, il generale girondino che comandava gli
eserciti dell'Est, complottava già col re. Gli indirizzava una
memoria segreta sui mezzi di arrestare la Rivoluzione! Questa
memoria fu trovata dopo la presa delle Tuileries, nell'armadio di
ferro di Luigi XVI.
XXX
L'ASSEMBLEA LEGISLATIVA. – LA REAZIONE NEL 1791-1792
La nuova Assemblea nazionale, eletta soltanto dai cittadini attivi,
prese il nome di Assemblea nazionale legislativa e si riunì il 1°
ottobre 1791. Sin dal primo momento, il re, incoraggiato dalle
manifestazioni della borghesia che si stringeva attorno a lui, prese
verso la nuova Assemblea un atteggiamento arrogante. Come agli inizi
degli Stati Generali, anche questa volta si ebbe tutta una serie di
piccole cattive vessazioni da parte della Corte e di deboli
resistenze da parte dei rappresentanti. Malgrado ciò, appena il re
si presentò all'Assemblea, fu ricevuto coi più umilianti segni di
ossequio e col più vivo entusiasmo. Luigi XVI parlò di una costante
armonia e di una fiducia inalterabile fra il corpo legislativo e il
re. «Che l'amore della patria ci unisca e ci renda inseparabili
l'interesse pubblico», diceva il re – e in quel momento stesso egli
preparava l'invasione straniera allo scopo di domare i
costituzionali, di ristabilire la rappresentanza per ordini e i
privilegi della nobiltà e del clero.
In generale – dal mese di ottobre 1791, e in fondo, sin dalla fuga
del re e dal suo arresto a Varennes, in giugno – il timore
dell'invasione straniera invade gli spiriti e diventa oggetto
precipuo di preoccupazioni. L'Assemblea legislativa ha bensì la sua
destra rappresentata dai Foglianti o monarchici costituzionali e la
sua sinistra rappresentata dal partito della Gironda, che serve di
ponte fra la borghesia semi-costituzionale e la borghesia
semi-repubblicana; ma nè gli uni, nè gli altri s'interessano ai
grandi problemi ereditati dalla Costituente. L'Assemblea legislativa
non si appassiona nè per l'instaurazione della repubblica, nè per
l'abolizione dei privilegi feudali. Gli stessi Giacobini, anzi gli
stessi Cordiglieri sembrano d'accordo nel non parlare più di
repubblica, e le passioni dei rivoluzionari e dei contro
rivoluzionari s'incontrano, si urtano su questioni d'ordine
secondario, come, ad esempio, l'elezione del sindaco di Parigi.
La grande preoccupazione del momento è la questione dei preti e
l'altra degli emigrati. Entrambe dominano tutto il resto, tanto a
cagione dei tentativi di insurrezione contro rivoluzionaria
organizzati dai preti e dagli emigrati, quanto perchè sono in intima
connessione colla guerra all'estero, di cui tutti sentono
l'imminenza.
Il più giovane fratello del re, il conte d'Artois, aveva emigrato,
come è noto, sin dal 15 luglio 1789. L'altro, il conte di Provenza,
era fuggito contemporaneamente a Luigi XVI ed era riuscito a
guadagnare Bruxelles. Entrambi avevano protestato contro
l'accettazione della costituzione da parte del re. Costui, dicevano,
non poteva rinunciare ai diritti dell'antica monarchia; per
conseguenza, il suo atto era nullo. La loro protesta fu diffusa
dagli agenti realisti in tutta la Francia e produsse un grande
effetto.
I nobili abbandonavano i loro reggimenti o i loro castelli ed
emigravano in massa, e i realisti minacciavano coloro che
riluttavano ad emigrare di relegarli fra la borghesia, quando la
nobiltà fosse tornata vittoriosa in Francia. Gli emigrati riuniti a
Coblenza, a Worms, a Bruxelles, preparavano apertamente la contro
rivoluzione, che doveva essere appoggiata dall'invasione straniera.
Il doppio gioco del re diventava sempre più scoperto, poichè
certamente egli conosceva e sosteneva la trama degli emigrati.
Finalmente, il 30 ottobre 1791, l'Assemblea legislativa si decise a
procedere contro il fratello cadetto del re, Luigi, Stanislao,
Saverio, che aveva ricevuto da Luigi XVI, al momento della sua
evasione, un decreto col quale gli conferiva la reggenza nel caso
che il re fosse stato arrestato. Ora l'Assemblea intimava al conte
di Provenza di ritornare in Francia entro due mesi; altrimenti
avrebbe perduto i diritti alla reggenza. Alcuni giorni più tardi (9
novembre) l'Assemblea ordinava agli emigrati di ritornare in Francia
prima della fin d'anno; in caso contrario sarebbero stati
considerati e trattati da cospiratori, condannati in contumacia e i
loro beni confiscati a profitto della nazione, «salvi, tuttavia, i
diritti delle mogli, dei figli e dei creditori legittimi».
Il re sanzionò il decreto riguardante suo fratello, ma oppose il suo
veto al secondo decreto, concernente gli emigrati. Del pari rifiutò
la sanzione al decreto che ordinava ai preti di prestar giuramento
alla costituzione, sotto pena di venir arrestati come sospetti, nel
caso di torbidi religiosi, nei comuni di cui avevano la cura
d'anime.
L'atto più importante dell'Assemblea legislativa fu la dichiarazione
di guerra all'Austria. Questa si preparava apertamente a ristabilire
con le armi Luigi XVI nei diritti che aveva prima dell'89. Il re e
Maria Antonietta sollecitavano l'imperatore e le loro istanze
divennero più assidue dopo la mancata fuga. Ma è probabile che
questi preparativi sarebbero andati per le lunghe, forse fino alla
successiva primavera, se i Girondini non avessero spinto alla
guerra. L'incoerenza del ministero, uno dei cui membri, Bertrand de
Moleville, era formalmente avverso al regime costituzionale, mentre
Narbonne ne voleva fare l'appoggio del trono, condusse alla sua
caduta, e nel marzo 1792 Luigi XVI chiamò al potere un ministero
girondino, con Dumouriez agli affari esteri, Roland, cioè madama
Roland, all'Interno, de Grave, ben presto sostituito da Servan, alla
Guerra, Clavière alle Finanze, Duranthon alla Giustizia e Lacoste
alla Marina.
È inutile dire (come Robespierre lo fece presto rilevare) che,
invece di attivare la Rivoluzione, l'arrivo dei Girondini al
ministero fu favorevole alla reazione. La moderazione diventò la
parole d'ordine, non appena il re ebbe accettato «un ministero di
sanculotti», come si diceva alla Corte. Questo ministero agì con
forza solo per suscitare la guerra, contro il parere di Marat e di
Robespierre, e il 20 aprile 1792 i Girondini trionfavano. La guerra
veniva dichiarata all'Austria o, come si diceva allora, «al re di
Boemia e di Ungheria».
Era necessaria la guerra? Jaurès (Histoire Socialiste, La
Législative, p. 815 e seguenti) si è posto questa questione, e per
risolverla ha messo sotto gli occhi del lettore parecchi documenti
dell'epoca. E la conclusione che scaturisce da questi documenti,
conforme a quella che l'autore stesso ne deduce, è identica alla
conclusione cui giungevano Marat e Robespierre. La guerra non era
necessaria. I sovrani stranieri temevano, non v'ha dubbio, lo
sviluppo delle idee repubblicane in Francia; ma tra questo e il
portare senz'altro aiuto a Luigi XVI, correva gran divario; essi
esitavano ad impegnarsi in una guerra di tal genere. Ma i Girondini
la vollero e la precipitarono, perchè ci vedevano un mezzo per
combattere il potere del re.
Marat, senza tante frasi, aveva ben detto in proposito la verità: –
Voi volete la guerra, perchè vi ripugna di chiamare il popolo a dare
il colpo di grazia alla monarchia. – Piuttosto che far appello al
popolo, i Girondini e gran parte dei Giacobini preferivano
l'invasione straniera, che, svegliando il patriottismo e mettendo a
nudo i tradimenti del re e dei realisti, affretterebbe la caduta
della dinastia, senza bisogno di nuove insurrezioni popolari. – «Ci
occorrono dei grandi tradimenti», diceva Brissot – personaggio che
odiava il popolo, le sue disordinate sollevazioni e i suoi attacchi
alla proprietà.
Così i Girondini e la Corte si trovavano d'accordo nel volere e nel
provocare l'invasione della Francia. In tali condizioni la guerra
diventava inevitabile, e si accese furiosa per ventitrè anni, con
tutte le sue conseguenze funeste per la Rivoluzione e per il
progresso europeo. – «Voi non volete far appello al popolo, non
volete la rivoluzione popolare, – ebbene, avrete la guerra, – forse
la disfatta!» Quante volte in seguito è stata confermata questa
verità!
Lo spettro del popolo armato ed insorto, chiedente alla borghesia la
parte che gli spettava della fortuna nazionale, non cessava di
terrorizzare quelli del Terzo Stato che erano giunti al potere, o
che, per mezzo dei clubs e dei giornali, avevano acquistato una
certa influenza sulla marcia degli avvenimenti. Occorre dire pure
che, a poco a poco, il popolo, la cui educazione rivoluzionaria
progrediva con la Rivoluzione stessa, osava reclamare misure
compenetrate di spirito comunista per cancellare più o meno
profondamente le ineguaglianze economiche91.
In mezzo al popolo si parlava di «pareggiamento delle fortune». I
contadini che possedevano appena miseri campicelli e gli operai
delle città, ridotti alla disoccupazione, osavano affermare il loro
diritto alla terra. Si chiedeva, nelle campagne, che una persona non
potesse possedere un fondo maggiore di 120 jugeri, e nelle città si
diceva che chiunque desideri coltivare la terra ha il diritto di
averne quanta basti ai suoi bisogni.
La tassa sulle sussistenze per impedire l'agiotaggio sui generi di
prima necessità, le leggi contro gl'incettatori, la compera
municipale delle sussistenze che sarebbero state rivendute agli
abitanti al prezzo di costo, l'imposta progressiva pei ricchi, il
prestito forzoso, e finalmente gravi tasse sulle successioni – tutto
ciò veniva discusso dal popolo e tali idee penetravano anche nella
stampa. L'unanimità stessa colla quale si manifestavano queste idee
ogni qual volta il popolo riportava una vittoria, tanto a Parigi
come nella provincia, prova che queste idee circolavano
abbondantemente in mezzo ai diseredati, sebbene gli scrittori della
Rivoluzione non osassero troppo manifestamente esporle. «Non vi
accorgete dunque, diceva Robert nelle Révolutions de Paris, nel
maggio 1791, che la Rivoluzione francese per la quale combattete,
dite voi, da cittadini, è una vera legge agraria posta in esecuzione
dal popolo? Esso è rientrato nei suoi diritti. Un passo ancora e
rientrerà nei suoi beni...» (Citato da Aulard, p. 91).
È facile indovinare l'odio che queste idee suscitavano tra i
borghesi che si proponevano di godere a loro agio le fortune
acquistate e la loro nuova situazione privilegiata nello Stato. Si
può averne un'idea dalle collere che si scatenarono a Parigi nel
marzo 1792, quando si seppe che il sindaco di Etampes, Simonneau,
era stato massacrato dai contadini. Come tanti altri sindaci
borghesi, egli faceva fucilare, senz'ombra di processo, i contadini
insorti, e nessuno fiatava. Ma quando i contadini affamati, che
chiedevano una tassa sul pane, uccisero colle loro picche questo
sindaco tiranno, quale coro d'indignazione tra la borghesia
parigina!
«È spuntato il giorno in cui i proprietari di tutte le classi devono
finalmente sentire ch'essi stanno per cadere sotto la falce
dell'anarchia», gemeva Mallet du Pan nel suo Mercure de France, e
chiedeva la «coalizione dei proprietari» contro il popolo, contro i
briganti, contro i predicatori della legge agraria. Tutti si
scagliarono allora contro il popolo, tutti, Robespierre compreso.
Solo un prete, il Dolivier, osò alzare la voce in favore delle masse
ed affermare che «la nazione è realmente proprietaria del suo
suolo». «Non c'è legge, diceva, che possa, con giustizia, forzare il
contadino a non sfamarsi, mentre i servitori e gli stessi animali
dei ricchi hanno ciò che loro abbisogna».
Quanto a Robespierre, egli s'affrettò ad affermare che «la legge
agraria non è che un assurdo spauracchio presentato da uomini
perversi a uomini stupidi». E dichiarò senz'altro di respingere
qualunque tentativo di «pareggiamento delle fortune». Sempre
preoccupato di non mai superare l'opinione di coloro che in un dato
momento rappresentavano la forza dominante, Robespierre si guardò
bene dallo schierarsi fra coloro che marciavano col popolo e
comprendevano che solo le idee egualitarie e comuniste avrebbero
dato alla Rivoluzione la forza necessaria per compiere la
demolizione del regime feudale.
Questa paura dell'insurrezione popolare e delle sue conseguenze
economiche spingeva inoltre la borghesia a stringersi maggiormente
attorno alla monarchia e ad accettare, senza varianti, la
costituzione quale era uscita dalle mani dell'Assemblea costituente,
con tutti i suoi difetti e le sue riverenze al re. Invece di
progredire nella via delle idee repubblicane, la borghesia e gli
«intellettuali» evolvevano in direzione diametralmente opposta. Se
nel 1789, in tutti gli atti del Terzo Stato, è facile scorgere uno
spirito decisamente repubblicano, democratico, ora, via via che il
popolo veniva manifestando le sue tendenze comuniste ed egualitarie,
questi stessi uomini del Terzo Stato si tramutavano in difensori
della proprietà, mentre i franchi repubblicani, come Thomas Paine e
Condorcet, rappresentavano un'infima minoranza fra le persone colte
della borghesia. A misura che il popolo diventava repubblicano, gli
«intellettuali» retrocedevano verso la monarchia costituzionale.
Il 13 giugno 1792, appena otto giorni prima dell'invasione popolare
delle Tuileries, Robespierre tuonava ancora contro la Repubblica.
«Gli è invano, esclamava, che si vogliono sedurre gli animi ardenti
e poco illuminati col miraggio di un governo più libero e col nome
di repubblica: in questo momento il rovesciamento della Costituzione
non può a meno di accendere la guerra civile che condurrà
all'anarchia e al dispotismo.»
Temeva forse l'instaurazione di una repubblica aristocratica, come
lascia supporre Louis Blanc? È possibile, ma ci sembra più probabile
che Robespierre, rimasto sempre difensore deciso della proprietà,
temesse allora, come quasi tutti i Giacobini, i furori del popolo, i
suoi tentativi di «pareggiamento delle fortune (o di
«espropriazione», come diremmo noi oggigiorno). Temeva di veder
naufragare la rivoluzione in tentativi comunisti. Ad ogni modo, alla
vigilia stessa del 10 agosto, mentre tutta la Rivoluzione,
incompiuta, fermata nel suo cammino, aggredita da mille
cospirazioni, era in pericolo e nulla poteva salvarla all'infuori
dell'abolizione della monarchia mediante l'insurrezione popolare, –
Robespierre, come tutti i Giacobini, preferiva mantenere il re e la
sua corte, piuttosto che correre il rischio di un nuovo appello alla
foga rivoluzionaria del popolo. Precisamente come i repubblicani
italiani e spagnuoli dei giorni nostri, che preferiscono la
monarchia ai rischi di una rivoluzione popolare, che sarebbe,
necessariamente, materiata di tendenze comuniste.
La storia si ripete – e quante volte dovrà ancora ripetersi quando
Russia, Germania, Austria cominceranno la loro grande rivoluzione!
Ciò che fa parer più singolare lo stato d'animo dei politicanti
dell'epoca, è che precisamente in quel torno di tempo, luglio 1792,
la Rivoluzione era minacciata da un formidabile colpo di Stato
realista, preparato da lunga data, che doveva essere appoggiato da
vaste insurrezioni nel Mezzogiorno e nell'Ovest e al tempo istesso
dall'invasione tedesca, inglese, sarda e spagnuola.
Così, nel giugno 1792, non appena il re ebbe licenziato i tre
ministri girondini (Roland, Clavière, Servan), Lafayette, capo dei
Foglianti e realista in fondo all'animo, s'affrettò a scrivere la
sua famosa lettera all'Assemblea legislativa (in data del 18
giugno), nella quale le offriva di fare un colpo di Stato contro i
rivoluzionari. Egli chiedeva apertamente che si purificasse la
Francia dai rivoluzionari e aggiungeva che nell'esercito «i
principii di libertà e d'eguaglianza sono amati, le leggi
rispettate, e la proprietà sacra» – non certo, per esempio, a
Parigi, alla Comune e dai Cordiglieri, dove si osava attaccarla.
Egli chiedeva – e ciò dà la misura della reazione – che il potere
del re restasse intatto, indipendente. Voleva un «re riverito» – e
questo proprio dopo la fuga di Varennes! mentre le Tuileries
preparavano un vasto complotto realista, mentre il re manteneva un
attivo carteggio coll'Austria e la Prussia nell'attesa di essere
«liberato», e trattava l'Assemblea con maggiore o minor disprezzo, a
seconda delle notizie che riceveva sui progressi dell'invasione
tedesca.
E dire che l'Assemblea fu in procinto di mandare questa lettera di
Lafayette agli 83 dipartimenti, e solo le astuzie dei Girondini
impedirono di farlo, poichè Guadet contestò l'autenticità della
lettera, affermando che non poteva venire da Lafayette! Tutto ciò
due mesi appena prima del 10 agosto!
Parigi, a quell'epoca, era pieno di cospiratori realisti. Gli
emigrati andavano e venivano liberamente tra Coblenza e le
Tuileries, da dove tornavano all'estero protetti dalla Corte e
forniti di denaro. «Mille bische erano aperte ai cospiratori», dice
Chaumette, allora procuratore della Comune di Parigi92.
L'amministrazione dipartimentale di Parigi, che aveva nel suo seno
Talleyrand e La Rochefoucauld, apparteneva interamente alla Corte.
La municipalità, gran parte dei giudici di pace, «la maggioranza
della guardia nazionale, tutto il suo stato maggiore, appartenevano
alla Corte, le servivano di corteggio e di battistrada nelle
frequenti passeggiate ch'essa faceva (era dunque stato dimenticato
il 21 giugno?) e nei differenti spettacoli», dice Chaumette.
«La casa domestico-militare del re, composta nella sua grande
maggioranza di antiche guardie del corpo, di emigrati rientrati e di
quegli eroi del 28 febbraio 1791, conosciuti sotto il nome di
cavalieri del pugnale, indisponeva il popolo colla sua insolenza,
insultava la rappresentanza nazionale e manifestava apertamente
delle intenzioni liberticide.
I frati, le suore e la stragrande maggioranza dei preti si
schieravano dalla parte della contro rivoluzione93.
Quanto all'Assemblea, ecco come la descriveva Chaumette:
«Un'Assemblea nazionale senza forza, senza prestigio, divisa, che si
umilia agli occhi dell'Europa con discussioni piccole e odiose,
mortificata da una Corte impudente, di cui non sapeva
contraccambiare le offese se non con altrettante bassezze, senza
potenza, senza volontà durevole». Infatti, come non poteva essere
disprezzata dalla stessa Corte, quest'Assemblea che consumava ore
intere a discutere di quanti membri si comporrebbero le deputazioni
da mandarsi al re, e se uno o tutti e due i battenti dovevano
spalancarsi, e che passava proprio il suo tempo, come lo ha
giustamente detto Chaumette, «ad ascoltare dei rapporti declamatori,
che terminavano tutti con dei... messaggi al re».
Frattanto, in tutto l'Ovest e il Sud-Est – sino alle porte stesse
delle città rivoluzionarie, come Marsiglia – un lavorio continuo si
faceva dai comitati segreti realisti, che accumulavano delle armi
nei castelli, arruolavano ufficiali e soldati e si preparavano a
lanciare verso la fine di luglio un esercito potente su Parigi, agli
ordini di capi venuti da Coblenza.
Questi movimenti nel Mezzogiorno sono così caratteristici, che
occorre darne almeno un'idea generale.
XXXI
LA CONTRO RIVOLUZIONE NEL MEZZOGIORNO
Quando si studia la Grande Rivoluzione, si è talmente assorbiti
dalle lotte che si svolgono a Parigi, che si finisce per trascurare
lo stato delle provincie e la forza che vi possedeva la contro
rivoluzione. Ed era immensa questa forza! Trovava appoggio nel
passato secolare e negli interessi del momento; e bisogna studiarla
per comprendere come la potenza di un'assemblea di rappresentanti
sia minima durante una rivoluzione, anche se costoro – per dannata
ipotesi – fossero guidati dalle migliori intenzioni di questo mondo.
Quando si tratta di lottare, in ogni città e in ogni piccolo
villaggio, contro le forze dell'antico regime che, dopo un momento
di sorpresa, si riorganizzano per arrestare la rivoluzione, –
soltanto l'azione dei rivoluzionari in ogni località può riuscire a
vincere questa resistenza.
Occorrerebbero anni e anni di studio negli archivi locali per
tracciare tutte le mene dei realisti durante la grande Rivoluzione.
Alcuni episodi permetteranno tuttavia di darne un'idea.
L'insurrezione della Vandea è, più o meno imperfettamente,
conosciuta. Ma si è troppo inclinati a credere che il focolare più
ardente della contro rivoluzione siano state le popolazioni vandeane
semi-selvaggie e inspirate dal fanatismo religioso. E tuttavia il
Mezzogiorno rappresentava un focolare dello stesso genere, tanto
maggiormente temibile in quanto che le campagne sulle quali
s'appoggiavano i realisti per sfruttare gli odii religiosi dei
cattolici contro i protestanti, erano confinanti con altre campagne
e grandi città che avevano fornito il migliore dei contingenti alla
Rivoluzione.
La direzione di questi diversi movimenti partiva da Coblenza,
piccola città tedesca situata nell'elettorato di Treviri, divenuta
il centro principale dell'emigrazione realista. Dall'estate del
1791, quando il conte d'Artois, seguito dall'ex-ministro Calonne e
più tardi da suo fratello, il conte di Provenza, venne a stabilirsi
in questa città, Coblenza divenne il centro principale dei complotti
realisti. Di là partivano gli emissari che organizzavano in tutta la
Francia le insurrezioni contro rivoluzionarie. Essi arruolavano
dovunque dei soldati per Coblenza, – anche a Parigi, dove il
redattore della Gazette de Paris offriva pubblicamente 60 lire ad
ogni soldato arruolato. Per qualche tempo questi uomini furono quasi
pubblicamente diretti, dapprima su Metz, quindi a Coblenza.
«La società li seguiva», dice Ernesto Daudet nel suo studio Les
conspirations royalistes dans le Midi; «la nobiltà imitava i
principi e molti borghesi, molti appartenenti al medio ceto,
imitavano la nobiltà. Si emigrava per moda, per miseria o per paura.
Una giovane signora, incontrata in una diligenza da un agente
segreto del governo e interrogata, rispondeva: «Io faccio la sarta;
la mia clientela è partita per la Germania; per andare a
raggiungerla, mi faccio anch'io émigrette».
Una corte al completo, con ministri, ciambellani, ricevimenti
ufficiali, ed anche con intrighi e miserie, si formava attorno ai
fratelli del re, e i sovrani d'Europa riconoscevano questa corte e
complottavano con essa. Si attendeva ad ogni momento l'arrivo di
Luigi XVI, per mettersi alla testa delle truppe degli emigrati. Lo
si attendeva nel giugno 1791, all'epoca della sua fuga a Varennes,
e, più tardi, nel novembre del 1791, nel gennaio del 1792.
Finalmente, fu deciso di preparare il gran colpo per il luglio del
1792. Gli eserciti realisti dell'Ovest e del Mezzogiorno, sostenuti
dalle invasioni inglese, tedesca, sarda, spagnuola, avrebbero
marciato su Parigi, sollevando durante il percorso Lione e altre
grandi città – mentre i realisti di Parigi avrebbero fatto il loro
grande colpo, dispersa l'Assemblea, puniti gli Arrabbiati, i
Giacobini...
«Riporre il re sul trono», farne cioè di nuovo un re assoluto;
ristabilire l'antico regime tale e quale come al momento della
convocazione degli Stati generali, ecco i loro voti. E quando il re
di Prussia, più intelligente dei fantasmi di Versaglia, domandava
loro «Non sarebbe più giusto, e ad un tempo più prudente,
sacrificare alla nazione certi abusi del vecchio governo?» – «Sire,
gli si rispondeva, nessun cambiamento, nessuna grazia!» (Documento
agli Archivi degli affari esteri, citato da E. Daudet.)
È forse inutile aggiungere che tutte le cabale, tutti i
pettegolezzi, tutte le gelosie che distinguevan Versa-glia, si
riproducevano a Coblenza. Ognuno dei due fratelli aveva la sua
corte, la sua amante privata, i suoi ricevimenti, il suo circolo,
mentre i nobili fannulloni vivevano di pettegolezzi, resi più
cattivi dalla miseria in cui cadevano rapidamente parecchi degli
emigrati.
Attorno a questo centro si raccoglievano, a vista ed a cognizione di
tutti, i parroci fanatici che preferivano la guerra civile alla
sottomissione costituzionale offerta dai nuovi decreti, come pure
gli avventurieri della nobiltà, che preferivano il rischio di una
cospirazione alla perdita delle loro privilegiate situazioni.
Venivano tutti a Coblenza, ottenevano, per i loro complotti,
l'investitura dai Principi e da Roma, e tornavano quindi nelle
regioni montuose delle Cevenne o sulle spiaggie della Vandea ad
accendere il fanatismo religioso dei contadini, a organizzare le
insurrezioni dei realisti.
Gli storici che simpatizzano colla Rivoluzione scivolano, forse
troppo in fretta, su queste resistenze contro rivoluzionarie; la
qual cosa conduce spesso il moderno lettore a considerarle come
l'opera di alcuni fanatici, ben presto domati dalla Rivoluzione. Ma,
in realtà, i complotti realisti coprivano intere regioni, e poichè,
da una parte, trovavano appoggio tra i più quotati rappresentanti
della borghesia, e dall'altra, negli odii religiosi fra protestanti
e cattolici – come nel Mezzogiorno – i rivoluzionari dovettero
lottare corpo a corpo contro i realisti in ogni città e in ogni
piccolo comune.
Così, mentre a Parigi, il 14 luglio 1790, si celebrava la grande
festa della Federazione, alla quale partecipava tutta la Francia, e
che pareva dovesse porre la Rivoluzione sovra una solida base
comunale, i realisti preparavano nel Sud-Est la federazione dei
contro rivoluzionari. Il 18 agosto dello stesso anno, quasi 20,000
rappresentanti di 185 comuni del Vivarese si riunivano nella pianura
di Jalès. Tutti portavano la croce bianca al cappello. Guidati dai
nobili, essi posero in quel giorno le basi della Federazione
realista del Mezzogiorno, che fu poi solennemente costituita nel
successivo febbraio.
Questa federazione preparò anzitutto una serie d'insurrezioni per
l'estate del 1791, e in seguito la grande insurrezione che doveva
scoppiare nel luglio. 1792, coll'appoggio dell'invasione straniera,
e vibrare il colpo di grazia alla Rivoluzione. La federazione
funzionò durante due anni, mantenendo regolari corrispondenze, e
colle Tuileries e con Coblenza. Essa giurava di «ristabilire il re
nella sua gloria, il clero nei suoi beni, la nobiltà nei suoi
onori». E quando i suoi primi tentativi fallirono, essa organizzò,
coll'aiuto di Claudio Allier, priore-curato di Chambonnaz, una vasta
cospirazione che doveva mobilizzare 50,000 uomini. Questo esercito,
raccolto intorno al vessillo bianco e guidato da un gran numero di
preti, con l'appoggio della Sardegna, della Spagna e dell'Austria,
doveva marciare su Parigi, «liberare» il re, disperdere l'Assemblea,
castigare i patriotti.
Nella Lozère, Charrier, notaio, ex-deputato all'Assemblea nazionale,
ammogliato con una signora della nobiltà e investito del comando
supremo da parte del conte d'Artois, organizzava apertamente le
milizie contro rivoluzionarie e ne formava anzi il corpo degli
artiglieri.
Chambéry, a quell'epoca città del regno di Sardegna, era un altro
centro degli emigrati. Bussy vi aveva anzi formato una legione
realista, ch'egli addestrava in pubblico. In tal modo veniva
organizzata nel Mezzogiorno la contro rivoluzione, mentre nell'Ovest
i parroci e i nobili preparavano, coll'aiuto dell'Inghilterra, la
sollevazione della Vandea.
E non ci si dica che questi cospiratori e questi assembramenti
fossero poco numerosi. I rivoluzionari pure –almeno quelli decisi
all'azione – non erano numerosi. In ogni epoca e in qualsiasi
partito gli uomini d'azione furono e sono sempre un'infima
minoranza. Ma grazie all'inerzia, ai pregiudizi, agli interessi
acquisiti, al denaro, alla religione, la contro rivoluzione occupava
intiere regioni, ed è appunto questa forza terribile della reazione
– e non lo spirito sanguinario dei rivoluzionari – quella che ci
spiega i furori della Rivoluzione tra il 1793 e il 1794, quand'essa
dovette compiere uno sforzo supremo per svincolarsi dalle braccia
che la soffocavano.
È lecito dubitare che gli aderenti di Claudio Allier, pronti a
impugnare le armi, fossero veramente 60,000, com'egli affermava
quando si recò a Coblenza nel gennaio del 1792. Ma certo è che in
ogni città del Mezzogiorno la lotta fra rivoluzionari e contro
rivoluzionari continuava senza tregua, facendo pendere la bilancia
ora dall'una, ora dall'altra parte.
A Perpignan, i militari realisti si preparavano ad aprire la
frontiera agli eserciti spagnuoli. Ad Arles, nella lotta locale fra
i monnetiers e i chiffonistes, cioè tra i patriotti e i contro
rivoluzionari, la vittoria restava, da principio, agli ultimi.
«Avvertiti, dice un autore, che i Marsigliesi organizzavano una
spedizione contro di loro, che avevano anzi saccheggiato l'arsenale
di Marsiglia per mettersi in grado di far la campagna, i contro
rivoluzionari si preparavano alla resistenza, si fortificavano,
muravano le porte della loro città, scavavano delle fosse attorno
alla cinta, assicuravano le loro comunicazioni col mare e
riorganizzavano la guardia nazionale in modo da ridurre
all'impotenza i patriotti».
Queste poche linee, tolte da Enesto Daudet94, sono caratteristiche.
Esse danno l'idea di quanto avveniva più o meno in tutta la Francia.
Occorsero quattro anni di rivoluzione – l'assenza, cioè, per quattro
anni di un governo forte – e lotte ostinate da parte dei
rivoluzionari, per paralizzare più o meno completamente la reazione.
A Montpellier, i patriotti si videro costretti a costituire una lega
per difendere, contro i realisti, i preti che avevano giurato per la
costituzione e i fedeli che si recavano a messa da questi preti.
Spesso scoppiavano risse nelle vie. Nè diversamente avveniva a Lunel
nell'Hérault, a Yssingeaux nell'Alta Loira, a Mende nella Lozère.
Non si disarmava. Tutto sommato, può dirsi che in ogni città di
questa regione lotte accanite erano impegnate fra realisti o
Foglianti e i «patriotti», come più tardi, fra Girondini e
«anarchici». Si potrebbe inoltre aggiungere che nell'immensa
maggioranza delle città del Centro e dell'Ovest, i reazionari
ottenevano il sopravvento, mentre la Rivoluzione non trovò appoggio
che in una trentina di dipartimenti su ottantatrè. Peggio ancora.
Gli stessi rivoluzionari in gran parte non osavano o si decidevano
assai lentamente ad affrontare i realisti, e solo mano a mano che
veniva completandosi, cogli avvenimenti, la loro educazione
rivoluzionaria.
In tutte queste città i contro rivoluzionari serravan le file. I
ricchi avevano mille mezzi, di cui i patriotti generalmente
mancavano, per viaggiare, per corrispondere col tramite di emissari
speciali, per nascondersi nei castelli e accumularvi delle armi.
Anche i patriotti, per vero, carteggiavano colle Società popolari e
le Fraterne di Parigi, colle Società degli Indigenti e colla società
madre dei Giacobini; ma erano così poveri! Mancavano loro le armi e
i mezzi per muoversi.
E poi, tutti i conati anti-rivoluzionari erano sostenuti dal di
fuori. L'Inghilterra ha sempre seguito la politica che fa ai giorni
nostri: indebolire i rivali, comprando dei partigiani col denaro. Il
«denaro di Pitt» non era affatto un fantasma. Anzi! Coll'aiuto di
questo denaro i realisti si recavano da Jersey, loro centro e loro
deposito d'armi, a San Malò e a Nantes; e in tutti i grandi porti
della Francia – soprattutto in quelli di San Malò, Nantes, Bordeaux
– il denaro inglese guadagnava aderenti e sosteneva i
«commerciantisti» che si ponevano contro la Rivoluzione. Caterina II
di Russia faceva come Pitt. Insomma, tutte le Monarchie europee
parteciparono al complotto. Se in Brettagna, nella Vandea, a
Bordeaux e a Tolone i realisti contavano sull'Inghilterra,
nell'Alsazia e Lorena contavano sulla Germania, e nel Mezzogiorno
sui soccorsi armati promessi dalla Sardegna e dall'esercito
spagnuolo, che doveva sbarcare ad Aigues-Mortes. Anche i cavalieri
di Malta dovevano con due fregate concorrere a questa spedizione.
All'inizio del 1792, il dipartimento della Lozère e quello
dell'Ardèche, diventati entrambi il covo dei preti refrattari, erano
coperti da una fitta rete di cospirazioni realiste, delle quali il
centro era Mende, piccola città perduta nelle montagne del Vivarese,
dove la mentalità era assai arretrata e dove i nobili avevano nelle
loro mani la municipalità. I loro emissari percorrevano i villaggi
limitrofi, ingiungendo ai contadini di armarsi di fucili, di falci e
di forche, e di essere pronti ad accorrere al primo appello. Così si
preparava il colpo di mano, mediante il quale si sperava di
sollevare il Gévaudan e il Velay, obbligando poscia il Vivarese a
fare altrettanto.
È vero che tutte le insurrezioni realiste tentate nel 1791 e 1792 a
Perpignano, a Arles, a Mende, a Yssingeaux e nel Vivarese,
fallirono; è vero che il grido «Abbasso i patriotti!» non bastava a
raccogliere un numero sufficente d'insorti, e che i patriotti
seppero rapidamente disperdere le bande realiste, ma intanto la
lotta durò per un biennio, senza tregua. Ci furono epoche in cui
tutto il paese era in preda alla guerra civile e in tutti i villaggi
si suonava continuamente a stormo.
A un dato momento occorse l'azione di bande armate di marsigliesi,
che si misero a dar la caccia ai contro rivoluzionari della regione,
impadronendosi di Arles e di Aigues-Mortes, e inaugurando il regno
del terrore, che più tardi, nel Mezzogiorno, a Lione e nell'Ardèche,
raggiunse così grandi proporzioni. Quanto all'insurrezione
organizzata dal conte di Saillans in luglio 1792 – contemporanea a
quella della Vandea e alla marcia su Parigi degli eserciti tedeschi
– essa avrebbe certamente avuto una influenza funesta sulla marcia
della Rivoluzione, se il popolo non l'avesse sollecitamente
stroncata. Per fortuna fu il popolo stesso che se ne incaricò nel
Mezzogiorno, mentre Parigi, dal canto suo, si organizzava per
impadronirsi, una buona volta, del covo di tutte le cospirazioni
realiste: le Tuileries.
XXXII
IL 20 GIUGNO 1792
Da quanto s'è detto, si vede in che stato deplorevole si trovava la
Rivoluzione nei primi mesi del 1792. Se i rivoluzionari borghesi
potevano essere soddisfatti d'aver conquistato una parte del governo
e posto le basi delle fortune, che avrebbero poi acquistate con
l'aiuto dello Stato, il popolo s'accorgeva che non s'era fatto
niente per lui. Il feudalismo esisteva ancora, e nelle città la
massa dei proletari aveva guadagnato ben poco. I negozianti,
gl'incettatori, si creavano ricchezze immense per mezzo degli
assegnati, sulla vendita dei beni ecclesiastici, sui beni comunali,
come fornitori dello Stato e aggiottatori. Ma il prezzo del pane e
di tutti gli oggetti di prima necessità aumentava sempre, e la
miseria regnava nei sobborghi.
Intanto, l'aristocrazia si faceva ardita. I nobili e i ricchi si
vantavano di poter sottomettere i «sanculotti». Essi aspettavano di
giorno in giorno la notizia d'una invasione tedesca, che, marciando
trionfalmente su Parigi, avrebbe ristabilito l'antico regime in
tutto il suo splendore. Nelle province, già si è detto, il partito
reazionario si organizzava agli occhi di tutti.
Quanto alla Costituzione, i borghesi e anche le persone colte della
borghesia rivoluzionaria dicevano di conservarla ad ogni costo; ma
essa esisteva solo per le misure di poca importanza, mentre le
riforme serie eran messe da parte. L'autorità del re era stata
limitata fino a un certo punto. Coi poteri che la Costituzione gli
lasciava (la lista civile, il comando dell'esercito, la scelta dei
ministri, il veto, ecc.), e soprattutto con l'organizzazione interna
della Francia, che rimetteva tutto nelle mani dei ricchi, il popolo
non aveva nessun potere.
Senza dubbio, nessuno sospetterà l'Assemblea legislativa di
radicalismo, ed è evidente che i suoi decreti riguardanti i cànoni
feudali o i preti, dovevano essere imbevuti d'una moderazione
veramente borghese. Eppure, anche per questi decreti il re rifiutava
la sua firma. Tutti capivano di vivere sotto un sistema che non
offriva nulla di stabile e, che poteva essere facilmente abbattuto
in favore dell'antico regime.
Il complotto che si tramava alle Tuileries si stendeva sempre più
sulla Francia e avvolgeva le corti di Berlino, Vienna, Stoccolma,
Torino, Madrid e Pietroburgo. Era vicina l'ora in cui i contro
rivoluzionari avrebbero fatto il gran colpo che preparavano per
l'estate del 1792. Il re e la regina facevano premura all'esercito
tedesco di muovere su Parigi; essi fissavano già il giorno in cui
quell'esercito avrebbe dovuto entrare nella capitale e in cui i
realisti, armati e organizzati, sarebbero andati ad incontrarlo a
braccia aperte.
Il popolo e quei rivoluzionari che, come Marat e i Cordiglieri,
stavano con lui, quelli che fecero la Comune del 10 agosto, vedevano
benissimo i pericoli che circondavano la Rivoluzione. Il popolo ha
sempre il sentimento vero delle situazioni in cui si trova, anche
quando non sa esprimere correttamente, nè appoggiare i suoi
presentimenti con argomenti da persona colta. Egli indovinava molto
meglio dei politicanti i complotti che si tramavano alle Tuileries e
nei castelli; ma era disarmato di fronte alla borghesia organizzata
invece in battaglioni della guardia nazionale. Il peggio era che le
persone colte, messe in evidenza dalla Rivoluzione, quelle che
s'erano dichiarate suoi interpreti, – compresi gli uomini onesti
come Robespierre, – non avevano la fiducia necessaria nella
Rivoluzione e ancor meno nel popolo. Precisamente come i radicali
parlamentari dei nostri tempi, essi avevano paura di lui, il grande
sconosciuto, che avrebbe potuto, scendendo in piazza, dominare gli
avvenimenti! Non osando confessare a sè stessi questo timore della
rivoluzione egualitaria, spiegavano il loro contegno incerto con la
preoccupazione di conservare, almeno, le poche libertà largite dalla
Costituzione. Alle incerte fortune d'una nuova insurrezione,
preferivano il regno costituzionale.
Alla dichiarazione di guerra (21 aprile 1792) e all'invasione
tedesca, la situazione cambiò. Allora, vedendosi tradito da ogni
parte, anche dai capi, nei quali aveva posto la propria fiducia, il
popolo agì da solo ed esercitò una pressione sui «capi d'opinione».
Parigi preparò un'insurrezione, che doveva permettere al popolo di
detronizzare il re. Le sezioni, le Società popolari e le Fraternali,
vale a dire: gli ignoti, la folla, assecondati dai più ardenti
Cordiglieri, si misero all'opera. I patriotti più ferventi e più
illuminati, dice Chaumette nelle sue Mémoires (p. 13) andavano al
club dei Cordiglieri e là passavano delle notti insieme ad
accordarsi. Vi fu tra gli altri un comitato in cui si fabbricò una
bandiera rossa, che portava quest'iscrizione: LEGGE MARZIALE DEL
POPOLO CONTRO LA RIVOLTA DELLA CORTE. Sotto quest'insegna dovevano
riunirsi gli uomini liberi, i veri repubblicani, che avevano da
vendicare un amico, un figlio, un parente assassinato al Campo di
Marte il 17 luglio 1791.
Gli storici, in omaggio alla loro educazione statale, si sono
compiaciuti di rappresentare il club dei Giacobini come l'iniziatore
e il capo di tutti i movimenti rivoluzionari a Parigi e nelle
provincie, e per due generazioni lo abbiamo tutti creduto. Ma oggi
sappiamo che non fu così. L'iniziativa del 20 giugno e del 10 agosto
non venne dai Giacobini. Anzi, per un anno intero, essi si erano
opposti – anche i più rivoluzionari – a un nuovo appello al popolo.
Solamente quando si videro sopraffatti dal movimento popolare, essi
risolvettero di seguirlo, e in parte soltanto presero questa
risoluzione.
Ma con quale timidezza! Si sarebbe voluto il popolo nelle strade per
combattere i realisti; ma non s'osava volerne le conseguenze. – «E
se il popolo non s'accontentasse di rovesciare il potere reale?
S'egli movesse contro tutti i ricchi, i potenti, gli scaltri, che
avevano visto nella Rivoluzione solo il mezzo d'arricchire? S'egli
spazzasse l'Assemblea legislativa dopo le Tuileries? Se la Comune di
Parigi, gli arrabbiati, gli «anarchici», quelli che lo stesso
Robespierre copriva volentieri d'invettive, – quei repubblicani che
predicavano «l'uguaglianza dei beni», prendessero il sopravvento?»
Ecco perchè in tutte le trattative che ebbero luogo prima del 20
giugno, si vede tanta esitazione nei rivoluzionari più noti. Ecco il
motivo per cui i Giacobini mostrano tanta ripugnanza ad ammettere
una nuova sollevazione popolare, alla quale s'uniscono dopo che è
vittoriosa. Finalmente in luglio, quando il popolo, infrangendo le
leggi costituzionali, proclamerà la permanenza delle sessioni,
ordinerà l'armamento generale e forzerà l'Assemblea a dichiarare «la
patria in pericolo», soltanto allora i Robespierre e i Danton e,
all'ultimo momento, i Girondini si risolveranno di seguire il popolo
e di riconoscersi più o meno solidali dell'insurrezione.
Si capisce che in queste circostanze il movimento del 20 giugno non
poteva avere nè la forza, nè l'unità necessarie per fare un'
insurrezione ben riuscita contro le Tuileries. Il popolo scese nelle
strade, ma, essendo poco sicuro del contegno che avrebbe tenuto la
borghesia, non osò compromettersi troppo. Sembrava che tastasse il
terreno per vedere fin dove avrebbe potuto arrivare al castello –
lasciando poi il resto agli incidenti delle grandi manifestazioni
popolari. Se ne esce qualche cosa, bene; altrimenti avrebbe sempre
potuto vedere le Tuileries da vicino e giudicare le loro forze.
Questo accadde difatti. La dimostrazione fu assolutamente
tranquilla. Una grande moltitudine di popolo s'era messa in
movimento col pretesto di presentare una petizione all'Assemblea, di
festeggiare il giuramento del Giuoco del Pallone e di piantare un
albero della Libertà alla porta dell'Assemblea nazionale. Questa
moltitudine riempì tosto tutte le vie che conducono dalla Bastiglia
all'Assemblea, mentre la Corte faceva occupare dai suoi partigiani
la piazza del Carrousel, il gran cortile delle Tuileries e le
vicinanze del palazzo. Tutte le porte erano chiuse e i cannoni
appuntati sul popolo. Ai soldati erano state distribuite delle
cartucce, e sembrava inevitabile un conflitto tra le due masse.
Però, la vista di quelle masse che ingrossavano sempre più,
paralizzò i difensori della Corte. Le porte esterne furono ben
presto aperte o forzate, il Carrousel e le corti furono innondati di
gente. Molti erano armati di picche, di sciabole o di bastoni alla
cui estremità portavano infisso un coltello o una sega; ma le
sezioni avevano scelto con cura gli uomini che dovevano prender
parte alla dimostrazione.
La folla stava per forzare un'altra porta delle Tuileries a colpi di
scure, quando Luigi XVI stesso ordinò di aprirla. In un attimo,
migliaia e migliaia d'uomini invasero i cortili interni e il
palazzo. La regina, con suo figlio, fu spinta in fretta dai
famigliari in una sala, contro l'uscio della quale fu messa una gran
tavola. La sala nella quale fu trovato il re si riempì in un
istante. Fu chiesto al re di sanzionare i decreti che non aveva
voluto sanzionare, di richiamare i ministri girondini, che aveva
congedati il 13 giugno, di scacciare i preti, di scegliere tra
Coblenza e Parigi. Il re agitava il cappello, si lasciò mettere in
capo un berretto di lana, e bevette un bicchiere di vino, che gli fu
presentato, alla salute della nazione. Ma resistette alla folla per
due ore, ripetendo che s'atterrebbe alla Costituzione.
Come attacco alla monarchia, il movimento non era riuscito. Non se
n'era fatto nulla.
Allora, si videro le ire delle classi agiate contro il popolo!
Siccome esso non aveva osato dare l'attacco, mostrando così la
propria debolezza, gli si piombò addosso con tutto l'odio che la
paura ispira.
Quando fu letta all'Assemblea la lettera nella quale Luigi XVI si
lamentava dell'invasione nel suo palazzo l'Assemblea scoppiò in
applausi, non meno servili di quelli dei cortigiani prima del 1789.
Giacobini e Girondini furono unanimi nel disapprovare il movimento.
Certamente incoraggiata da questo fatto, la Corte riuscì a far
stabilire nel castello delle Tuileries un tribunale per punire «i
colpevoli» del movimento. Si volevano far rivivere così, dice
Chaumette nelle sue Mémoires, le odiose procedure degli avvenimenti
del 5 e 6 ottobre 1789 e del 17 luglio 1791. Questo tribunale era
composto di giudici venduti alla monarchia. La Corte li manteneva, e
il garde-meuble della Corona aveva ricevuto l'ordine di provvedere a
tutti i loro bisogni.95 I più vigorosi scrittori furono
perseguitati, imprigionati; parecchi presidenti e segretari di
sezione, parecchi membri delle Società popolari subirono la stessa
sorte. Diventò cosa pericolosa il dirsi repubblicano.
I direttorii dei dipartimenti e un gran numero di municipalità
s'unirono alla manifestazione servile dell'Assemblea e mandarono
lettere di protesta contro i faziosi». In realtà, trentatrè
direttorii di dipartimento, su ottantatrè – tutto l'Ovest della
Francia – erano apertamente realisti e antirivoluzionari.
Non dimentichiamo che le rivoluzioni son sempre fatte dalla
minoranza. Anche quando la rivoluzione è già scoppiata e che una
parte della nazione ne accetta le conseguenze, solo un piccolo
numero capisce ciò che resta a farsi per assicurare il trionfo di
quello che ha già fatto, ed ha il coraggio delle proprie azioni.
Ecco perchè un'Assemblea, che rappresenta sempre la media del paese,
o meglio: resta al disotto della media, fu e sarà sempre un freno
alla rivoluzione e non diventerà mai suo strumento.
L'Assemblea legislativa ce ne dà un esempio evidente. Ecco ciò che
vi accadeva il 4 luglio 1792, solo un mese prima della caduta del
trono, benchè quattro giorni dopo si dovesse dichiarare «la patria
in pericolo», in causa dell'invasione tedesca. Si discuteva da
parecchi giorni sulle misure di sicurezza generale da prendersi.
Spintovi dalla Corte, Lamourette, vescovo di Lione, propose,
mediante una mozione d'ordine, la riconciliazione generale dei
partiti e indicò un mezzo molto semplice per riuscirvi. «Una parte
dell'Assemblea attribuisce all'altra il progetto sedizioso di voler
distruggere la monarchia. Gli altri attribuiscono ai loro colleghi
il proposito di distruggere l'uguaglianza costituzionale, col volere
il governo aristocratico conosciuto sotto il nome di due Camere.
Ebbene, signori, fulminiamo con l'esecrazione comune e con un
irrevocabile giuramento, fulminiamo e la Repubblica e le due
Camere!» A queste parole l'Assemblea, trasportata da un subitaneo
moto d'entusiasmo, si leva intera per attestare l'odio contro la
Repubblica e le due Camere. I cappelli son lanciati per aria, tutti
s'abbracciano, la destra e la sinistra dell'Assemblea s'uniscono
amichevolmente. Una deputazione è mandata immediatamente al re, che
viene a partecipare alla contentezza generale. Nella storia, questa
scena si chiama: «il bacio Lamourette». Fortunatamente, l'opinione
pubblica non si lasciava abbagliare da simili scene. La sera stessa,
ai Giacobini, Billaud-Varennes protestò contro quest'ipocrito
riavvicinamento, e fu deciso di mandare quel suo discorso alle
società affiliate. Dal canto suo, la Corte non voleva punto
disarmare. Pétion, sindaco di Parigi, era stato sospeso nel giorno
stesso dalle sue funzioni dal direttorio (realista) del dipartimento
della Senna, per negligenza riscontrata il 20 giugno. Ma allora
Parigi prese vivamente le parti del suo sindaco. Ne nacque
un'agitazione così minacciosa che sei giorni dopo, il 13,
l'Assemblea dovette togliere la sospensione.
Nel popolo s'era formata una convinzione. Si capiva che era giunto
il momento di sbarazzarsi della monarchia, e che se il 20 giugno non
fosse stato seguito immediatamente da un'insurrezione popolare, era
finita per la Rivoluzione. Ma i politicanti dell'Assemblea
giudicavano diversamente. Chi sa quale sarà il risultato
d'un'insurrezione popolare? Così quei legislatori, eccettuati tre o
quattro, si serbavano una via di scampo, caso mai trionfasse la
contro rivoluzione.
Il terrore degli uomini di Stato, il loro desiderio di potersi far
perdonare in caso di disfatta, ecco il pericolo di tutte le
rivoluzioni.
Per chiunque cerchi d'istruirsi con la storia, le sette settimane
che scorsero tra la dimostrazione del 20 giugno e la presa delle
Tuileries, il 10 agosto 1792, sono della massima importanza.
La manifestazione del 20 giugno, benchè finita senza risultati
immediati, aveva causato un risveglio in Francia. «La rivolta corre
di città in città,» come dice Louis Blanc. Lo straniero è alle porte
di Parigi, e l'11 luglio si proclama la patria in pericolo. Il 14,
si festeggia la Federazione, e il popolo ne fa una formidabile
dimostrazione contro la monarchia. Da ogni parte, i municipi
rivoluzionari mandano all'Assemblea indirizzi per forzarla ad agire.
Poichè il re tradisce, essi domandano la deposizione o la
sospensione di Luigi XVI. Però, la parola «Repubblica» non è ancora
pronunciata; si pensa piuttosto alla reggenza. Marsiglia sola fa
eccezione, domandando, fino dal 27 giugno, l'abolizione della
monarchia e mandando 500 volontari che arrivano a Parigi cantando
«l'inno marsigliese». Brest ed altre città mandano esse pure i loro
volontari. Le sezioni di Parigi siedono in permanenza, s'armano ed
organizzano i loro battaglioni.
Si sente che la Rivoluzione s'avvicina al momento decisivo.
Che fa l'Assemblea? Che fanno quei repubblicani borghesi: i
Girondini?
Quando si legge all'Assemblea il virile indirizzo di Marsiglia
chiedente che si prendano delle misure degne degli avvenimenti,
l'Assemblea quasi intera protesta! E quando, il 27 luglio, Duhem
domanda che si discuta la deposizione, la sua proposta è accolta con
urli.
Maria Antonietta non s'ingannava certamente quando scriveva, il 7
luglio, ai suoi fidi all'estero, che i patriotti avevano paura e
volevano patteggiare; ciò accadde qualche giorno dopo.
Quelli che stavano col popolo, nelle sezioni, si sentivano
certamente alla vigilia d'un gran colpo. Le sezioni di Parigi
s'erano dichiarate in permanenza e lo stesso avevan fatto parecchie
municipalità. Senza tener conto della legge sui cittadini passivi,
esse li ammettevano alle loro deliberazioni e li armavano di picche.
Evidentemente, si preparava una grande insurrezione.
Ma i Girondini, il partito degli «uomini di Stato», mandavano nel
frattempo, per mezzo del suo cameriere Thierry, una lettera al re,
per annunciargli che si stava preparando un'insurrezione
formidabile, e che, forse, ne sarebbe avvenuta in conseguenza la
deposizione di lui o qualche cosa di più terribile ancora. Gli
dicevano quindi che rimaneva un mezzo solo per scongiurare questa
catastrofe... richiamare al ministero, entro otto giorni al più
tardi, Roland, Servan e Clavière.
Certamente, la Gironda non fu spinta a quel passo dai dodici milioni
promessi a Brissot e neppure, come pensa Louis Blanc, dall'ambizione
di riconquistare il potere. No, la causa ne era più profonda ancora.
Il libello di Brissot, A ses commettants, tradisce chiaramente la
loro idea. Era la paura d'una rivoluzione popolare che toccasse le
proprietà, – la paura e il disprezzo del popolo, della folla, dei
pezzenti. Il timore d'un regime nel quale la proprietà e, più di
questa, l'educazione governativa, «l'abilità negli affari»
perdessero i privilegi che avevano sempre goduti. Il timore d'essere
considerati e messi allo stesso livello della grande massa!
Questa paura paralizzava i Girondini, come essa paralizza oggi
ancora tutti i partiti che occupano più o meno nei parlamenti
attuali la stessa posizione di partito di governo, che occupavano
allora i Girondini nel parlamento realista.
Si comprende facilmente la disperazione dei veri patriotti, espressa
allora da Marat in queste righe:
«Da tre anni, diceva, ci agitiamo per ricuperare la libertà, eppure
ne siamo più lontani che mai.
«La Rivoluzione si è voltata contro il popolo. Per la Corte e i suoi
partigiani è motivo eterno di raggiri e di corruzione; per i
legislatori è occasione di prevaricazioni e di inganni... E già per
i ricchi e gli avari, essa è soltanto occasione di guadagni
illeciti, d'incette, di frodi, di spogliazioni; il popolo è
rovinato, e la classe innumerevole degli indigenti si trova tra il
timore di perire di miseria e la necessità di vendersi... Non
temiamo di ripeterlo, noi siamo lontani della libertà più che mai;
poichè non soltanto siamo schiavi; ma lo siamo legalmente.»
Solo i scenari del gran teatro dello Stato sono cambiati. Gli attori
sono gli stessi, coi medesimi spettacoli e i medesimi mezzi. «Era
fatale, continua Marat, poichè le classi inferiori della nazione
sono sole a lottare contro le classi elevate. Nel momento
dell'insurrezione, il popolo, è vero, schiaccia tutto con la sua
massa; ma per quanto riesca prima a riportare qualche vittoria,
finisce poi col soccombere davanti ai congiurati delle classi
superiori, alle loro sottigliezze, astuzie ed artifici. Gli uomini
istruiti, agiati e intriganti delle classi superiori hanno dapprima
parteggiato contro il despota; ma non l'hanno fatto che per mettersi
contro il popolo, dopo averne ottenuta la fiducia ed essersi valsi
delle sue forze per andare al posto degli ordini privilegiati che
hanno proscritti.
«Così, prosegue Marat, – e le sue son parole d'oro, perchè si
direbbero scritte oggi, nel ventesimo secolo, – la Rivoluzione fu
fatta e sostenuta solamente dalle ultime classi della società, dagli
operai, dagli artigiani, dai piccoli rivenditori, dagli agricoltori,
dalla plebe, dagli infelici che la ricchezza impudente chiama
canaglia e che l'insolenza romana chiamava proletari. Ma ciò che non
si sarebbe potuto imaginare, è che questa Rivoluzione favorì solo i
piccoli proprietari di fondi, i legali e i legulei».
Il domani della presa della Bastiglia, sarebbe stato facile pei
rappresentanti del popolo «di sospendere da tutte le loro funzioni
il despota e i suoi agenti», scrive più oltre Marat. «Ma per questo
era necessario ch'essi avessero vedute larghe e virtù». Il popolo
poi, invece di armarsi completamente, tollerò che lo fosse solo una
parte dei cittadini (nella guardia nazionale composta di cittadini
attivi). E lungi dall'attaccare immediatamente i nemici della
Rivoluzione, rinunciò alla situazione vantaggiosa ottenuta,
tenendosi semplicemente sulla difensiva.
«Oggi, dice Marat, dopo tre anni di discorsi eterni delle società
patriottiche e un diluvio di scritti... il popolo è più lontano dal
sentire ciò che dovrebbe fare per resistere agli oppressori, di quel
che non lo fosse il primo giorno della Rivoluzione. Allora si
abbandonava all'istinto naturale, al semplice buon senso che gli
aveva fatto trovare il vero mezzo di far fare giudizio ai suoi
implacabili nemici... Ora, eccolo incatenato in nome delle leggi,
tiranneggiato in nome della giustizia; eccolo schiavo
costituzionalmente.»
Se queste righe non fossero tolte dal n° 657 dell'Ami du Peuple, si
direbbero scritte ieri.
Un profondo scoraggiamento s'impadronì di Marat davanti a questa
situazione, e non vede che una via di scampo: «qualche accesso di
furore civico» da parte della plebe, come il 13 e 14 luglio, il 5 e
6 ottobre 1789. La disperazione lo rode fino al giorno in cui
l'arrivo dei federati, venuti dai dipartimenti, gli ispira un po' di
fiducia.
Le buone sorti della contro rivoluzione eran tali in quel momento
(sul finire del luglio 1792) che Luigi XVI rifiutò nettamente la
proposta dei Girondini. I prussiani non movevano forse su Parigi?
Lafayette e Luckner non eran forse pronti a volgere l'esercito
contro i Giacobini, contro Parigi? E Lafayette esercitava
un'influenza grande nel Nord della Francia. A Parigi, era l'idolo
delle guardie nazionali borghesi.
Il re non aveva dunque tutte le ragioni di sperare? I Giacobini non
osavano agire; e quando si conobbe il tradimento di Lafayette e
Luckner (essi volevano rapire il re, il 16 luglio, e metterlo nel
centro dei loro eserciti), Marat, il 18 luglio, propose di tenere il
re come ostaggio della nazione contro l'invasione straniera; ma
tutti gli voltarono le spalle, trattandolo da pazzo, e solo i
sanculotti l'applaudirono dalle loro stamberghe. Perchè aveva osato
dire in quel momento ciò che ora sappiamo essere la verità, perchè
non esitò a denunciare il complotto del re con gli stranieri, Marat
si vide abbandonato da tutti; – anche da quei patriotti giacobini
sui quali aveva contato, benchè ci venga presentato come persona
piena di sospetti. Essi si rifiutarono perfino di dargli asilo
quando, minacciato d'arresto, bussò alle loro porte.
Quanto alla Gironda, dopo che la sua proposta fu rifiutata dal re,
patteggiò ancora con lui per mezzo del pittore Boze, e il 25 luglio
gli mandò un nuovo messaggio.
Quindici giorni soli separavano Parigi dal 10 agosto. La Francia
rivoluzionaria rodeva il morso. Capiva ch'era venuto il supremo
momento d'agire. O si dà il colpo di grazia alla monarchia, o la
Rivoluzione resta incompiuta. Guai alla Francia se permette alla
monarchia di circondarsi d'armati, d'organizzare il gran complotto
per dare Parigi nelle mani dei prussiani! Chi sa per quanti anni
ancora, la monarchia trionferà, leggermente modificata, ma sempre
quasi assoluta!
Ebbene, in quel momento supremo, la maggior preoccupazione dei
politicanti è quella di disputarsi, per sapere in mano di chi
cadrebbe il potere, se cadesse dalle mani del re.
La Gironda lo vuole per sè, per la Commissione dei Dodici che
diventerebbe il potere esecutivo. Robespierre, dal canto suo,
domanda nuove elezioni – un'Assemblea rinnovata, una Convenzione,
che darebbe alla Francia una nuova costituzione repubblicana.
Nessuno però pensava ad agire, a preparare il detronizzamento, salvo
il popolo; certo, non i Giacobini. Anche questa volta sono gli
«ignoti», i favoriti del popolo – Santerre, Fournier l'americano, il
polacco Lazowski, Carra, Simon96, Westermann (semplice cancelliere
in quel momento), qualcuno dei quali apparteneva al direttorio
segreto dei «federati» – che si riuniscono al Soleil d'Or per
complottare l'assedio del castello e l'insurrezione generale, con la
bandiera rossa. Sono le sezioni, la maggior parte di Parigi,
qualcuna, qua e là nel Nord, nelle provincie di Maine-et-Loire, a
Marsiglia; sono, infine, i volontari marsigliesi e di Brest
arruolati per la causa rivoluzionaria dal popolo di Parigi che
agiscono. Ma è il popolo, sempre il popolo!
— Là (all'Assemblea), si sarebbero detti dei legisti in dispute
accanite continuamente sotto il nerbo dei padroni...
«Qui (all'Assemblea delle sezioni), si gettavano le basi della
Repubblica», dice Chaumette.
XXXIII
IL 10 AGOSTO; LE SUE CONSEGUENZE IMMEDIATE
Abbiamo visto lo stato della Francia durante l'estate del 1792.
Da tre anni il paese era in piena rivoluzione, e il ritorno
all'antico regime era stato reso assolutamente impossibile. Poichè,
se il sistema feudale, per esempio, esisteva ancora legalmente, i
contadini in pratica non lo riconoscevano più. Non pagavano più i
cànoni, s'impadronivano delle terre del clero e degli emigrati,
riprendevano in molti luoghi le terre che avevano appartenuto un
tempo ai comuni rustici. Nei loro municipii di campagna, essi si
consideravano padroni dei propri destini.
La stessa cosa accadeva delle istituzioni dello Stato. Tutto
l'apparato amministrativo, che sembrava così formidabile sotto
l'antico regime, era crollato sotto il soffio della rivoluzione
popolare. Chi pensava più all'intendente, alla contestabileria, ai
giudici del parlamento! Il municipio sorvegliato dai sanculotti, la
locale Società popolare, l'assemblea primaria, gli uomini armati di
picche, rappresentavano le nuove forze della Francia.
Tutto l'aspetto del paese, tutto lo spirito delle popolazioni, – il
linguaggio, i costumi, le idee, s'eran cambiati con la Rivoluzione.
Una nuova nazione era nata, e, per l'insieme delle concezioni
politiche e sociali, differiva in tutto e per tutto da ciò che era
solo dodici mesi prima!
Eppure, l'antico regime esisteva ancora. La monarchia rappresentava
una forza immensa, intorno alla quale la contro rivoluzione tentava
di riunirsi. Si viveva come sotto un governo provvisorio. Restituire
alla monarchia la potenza antica, evidentemente era un sogno
insensato, al quale potevano credere solo i fanatici della Corte. Ma
restava sempre immensa la forza di cui i monarchici disponevano per
il male. Vittoriosi, pur essendo loro impossibile di ristabilire il
sistema feudale, – quanto male avrebbero potuto fare però col
muovere guerra in ogni villaggio ai contadini affrancati, per le
terre e le libertà ch'essi s'eran prese? Ed è appunto ciò che si
proponevano di fare il re e buona parte dei Foglianti (monarchici
costituzionali), non appena il partito della Corte avesse potuto
sottomettere quelli che chiamavano «i Giacobini».
Sappiamo già che nei due terzi dei dipartimenti ed anche a Parigi,
l'amministrazione dipartimentale e quella dei distretti erano contro
il popolo, contro la Rivoluzione; esse si sarebbero accontentate di
qualsiasi simulacro di costituzione, purchè questa permettesse ai
borghesi di partecipare al potere con la dinastia e la Corte.
L'esercito, comandato da uomini come Lafayette e Luckner, poteva da
un momento all'altro essere trascinato contro il popolo. Difatti,
dopo il 20 giugno, si vide Lafayette lasciare il campo ed accorrere
a Parigi, per offrire al re l'appoggio del «suo» esercito contro il
popolo, per sciogliere le società patriottiche e fare un colpo di
Stato in favore della Corte.
E finalmente, il sistema feudale, come s'è detto, esisteva ancora
nelle leggi. I contadini non pagavano più i cànoni feudali; ma
questo era un abuso agli occhi della legge. Se domani il re avesse
riconquistata la propria autorità, l'antico regime avrebbe obbligato
i contadini, stretti ancora dalle granfie del passato, a pagare
tutto, a restituire tutte le terre prese od anche comprate.
È chiaro che questo sistema provvisorio non poteva essere tollerato
più oltre. Non è possibile sopportare lungamente una tal minaccia
sul capo. E poi, col suo istinto così giusto, il popolo capiva bene
che il re era d'intesa coi tedeschi che movevan su Parigi. Allora,
non si aveva ancora la prova scritta del suo tradimento. Non era
ancora conosciuta la corrispondenza del re e di Maria Antonietta con
gli austriaci; non si sapeva precisamente che quei traditori
facevano premura agli austriaci e ai prussiani di marciare su
Parigi, che li tenevano al corrente di ogni mossa delle truppe
francesi, che trasmettevano ad essi tutti i segreti militari e
gettavano la Francia in preda all'invasione. Tutto questo si seppe,
e piuttosto vagamente, soltanto dopo la presa delle Tuileries,
quando si trovarono le carte del re in un armadio secreto fatto per
lui dal fabbro Gamain. Ma non è facile da nascondere un tradimento,
e con mille indizi che gli uomini e le donne del popolo sanno
afferrare così bene, si capiva che la Corte aveva fatto un patto coi
tedeschi e li aveva chiamati in Francia.
In qualche provincia ed a Parigi nacque dunque l'idea che fosse
necessario menare un gran colpo contro le Tuileries, poichè l'antico
regime resterebbe sempre una minaccia per la Francia, finchè non
fosse pronunciata la destituzione del re.
Ma per far questo, era necessario fare appello al popolo di Parigi,
agli «uomini dalle picche», – come s'era fatto all'avvicinarsi del
14 luglio 1789. E la borghesia non voleva saperne, ne aveva paura.
Difatti, negli scritti di quest'epoca, si trova una specie di
terrore degli uomini dalle picche. Si sarebbero dunque riveduti
quegli uomini così terribili pei ricchi!
Se tale paura si fosse riscontrata solo in quelli che vivevano di
rendita, via! Ma gli uomini politici provavano gli stessi terrori, e
Robespierre, fino dal giugno 1792, s'oppose all'appello al popolo.
«La caduta della Costituzione in questo momento – diceva – non può
che suscitare una guerra civile, la quale ci condurrebbe
all'anarchia e al dispotismo.» Egli non crede alla possibilità d'una
repubblica, se il re è deposto. «Come! – esclama – ora, fra tante
divisioni fatali, volete lasciarci a un tratto senza Costituzione,
senza leggi!» La Repubblica sarebbe, secondo il suo modo di vedere,
«la volontà arbitraria della minoranza» (ossia dei Girondini) «Ecco,
dice, il fine degli intrighi che ci agitano da tanto tempo»; e
perchè vadano a vuoto, preferisce conservare il re e tutti
gl'intrighi della Corte! Egli parlava così in giugno, solo due mesi
prima del 10 agosto! Per tema che un altro partito s'impadronisse
del movimento, preferì tenere il re: s'oppose così all'insurrezione.
Fu necessario che la dimostrazione del 20 giugno non riuscisse e ne
seguisse una reazione; che Lafayette accorresse a Parigi con le sue
truppe e s'offrisse per un colpo di Stato realista; che i tedeschi
risolvessero di muovere su Parigi per «liberare il re e punire i
Giacobini»; che la Corte attivasse i suoi preparativi per dar
battaglia a Parigi. Solo allora, i «capi d'opinione» rivoluzionari
decisero di fare appello al popolo, per tentare un colpo finale
sulle Tuileries.
Presa questa risoluzione, il resto fu fatto dal popolo stesso.
Vi fu certamente prima un'intesa tra Danton, Robespierre, Marat,
Robert ed altri. Robespierre odiava tutto in Marat, la foga
rivoluzionaria che chiamava esagerazione, l'odio pei ricchi, la
mancanza assoluta di fiducia nei politicanti, – tutto, perfino
l'abito povero e sudicio di quell'uomo che, fin dal principio della
rivoluzione, s'era messo a nutrirsi come il popolo, – di pane ed
acqua, – per darsi completamente alla causa popolare. Eppure,
l'elegante e corretto Robespierre, come Danton, andarono verso Marat
e i suoi, verso gli uomini delle sezioni, della Comune, per
accordarsi con essi sui mezzi da impiegarsi per sollevare ancora il
popolo, come il 14 luglio, – e questa volta per dare l'assalto
definitivo alla monarchia. Finirono per capire che se il provvisorio
fosse durato ancora un poco, la Rivoluzione sarebbe caduta senza
aver fatto nulla di definitivo.
O facendo appello al popolo, gli si lasciava piena libertà di
colpire i suoi nemici come voleva, e d'imporre tutto ciò che potesse
ai ricchi colpendoli nelle proprietà; o la monarchia riuscirebbe ad
avere il sopravvento. E sarebbe il trionfo della contro rivoluzione,
la distruzione di quel poco già ottenuto nel senso dell'uguaglianza.
Sarebbe stato, dal 1792, il terrore bianco del 1794.
Così si fece un accordo tra un certo numero di Giacobini avanzati
(si riunirono anzi in un locale separato), e quelli che, nel popolo,
volevano fare un gran colpo contro le Tuileries. Dal momento in cui
quest'accordo fu fatto, e che i «capi d'opinione» – i Robespierre e
i Danton – promisero di non opporsi al movimento popolare, ma di
sostenerlo, il resto fu lasciato al popolo. Esso capisce meglio dei
capi partito la necessità di un accordo, quando la rivoluzione sta
per fare un colpo decisivo.
Allora, visto ch'eran tutti d'un pensare, il popolo, il Grande
Ignoto, si mise a preparare l'insurrezione. Creò spontaneamente, pei
bisogni del momento, quella sorta d'organizzazione in sezioni,
giudicata utile per dare al movimento la coesione necessaria. Quanto
ai dettagli si lasciarono allo spirito organizzatore del popolo dei
sobborghi, e all'alba del 10 agosto, nessuno avrebbe potuto
profetizzare come sarebbe finita quella grande giornata. I due
battaglioni di federati venuti da Marsiglia e da Brest, ben
organizzati e armati, contavano solo un migliaio d'uomini, e nessuno
avrebbe potuto dire se i sobborghi si solleverebbero in massa o no,
eccettuati coloro che avevano lavorato i giorni e le notti
precedenti nella fornace ardente dei sobborghi stessi. – «E i soliti
capi dov'erano? Che facevano?» – domanda Louis Blanc. E risponde
egli stesso: «Non s'ha nessun indizio di quanto abbia fatto
Robespierre in quella notte suprema, e non si sa neppure se abbia
agito.» Pare che nemmeno Danton abbia preso una parte attiva nei
preparativi della sollevazione e nel combattimento del 10 agosto.
È chiaro che, dal momento in cui il moto era stato fissato, il
popolo non aveva più bisogno d'uomini politici. Era necessario
preparare le armi, distribuirle a chi avrebbe saputo servirsene,
organizzare il nucleo di ogni battaglione, formare la colonna in
ogni strada dei sobborghi. Per preparare questo, i capi politici
sarebbero stati d'impaccio – e fu loro detto d'andare a dormire,
mentre il movimento s'organizzava definitivamente nella notte dal 9
al 10 agosto. Danton seguì il consiglio avuto. Dormì
tranquillamente: lo sappiamo dal giornale di Lucile Desmoulins.
Quando un nuovo Consiglio generale, – la Comune rivoluzionaria del
10 agosto, – fu nominato dalle sezioni, sorsero uomini nuovi, degli
«ignoti», precisamente come nel moto del 18 marzo 1871. Ogni sezione
attribuendosene il diritto, nominò tre commissari, «per salvare la
patria», e la scelta del popolo, ci dicono gli storici, cadde solo
su uomini oscuri. L'«arrabbiato» Hébert era di quel numero,
s'intende; ma non vi si trovavano, in principio, nè Marat, nè
Danton97.
Così sorse dal seno del popolo e s'impadronì della direzione del
movimento una nuova «Comune», – la Comune insurrezionale. E noi la
vedremo esercitare un'influenza potente su tutto lo svolgimento
degli avvenimenti, dominare la Convenzione e spingere la Montagna
all'azione rivoluzionaria, per assicurare, almeno le conquiste già
fatte dalla Rivoluzione.
Sarebbe inutile raccontare la giornata del 10 agosto. La parte
drammatica della Rivoluzione è la migliore che si possa trovare
negli storici; si leggono bellissime descrizioni di quanto accadde
in Michelet e Louis Blanc. Ci limiteremo dunque a ricordarne i punti
principali.
Da che Marsiglia s'era pronunciata per la caduta del re, le
petizioni e le dichiarazioni favorevoli a questo progetto arrivavano
numerose all'Assemblea. A Parigi, quarantadue sezioni s'erano
dichiarate di quel parere. Pétion era perfino andato ad esporre
questo voto delle sezioni davanti all'Assemblea, il 4 agosto.
Ma i politicanti dell'Assemblea nazionale non si rendevan conto
della gravità della situazione. Mentre nelle lettere scritte da
Parigi, il 7 e l'8 agosto (da madama Jullien) si legge: «Un
terribile uragano sta per scoppiare sull'orizzonte», «in questo
momento l'orizzonte si carica di vapori che devon produrre
un'esplosione terribile», – l'Assemblea, nella seduta dell'8,
pronuncia l'assoluzione di Lafayette, come se non vi fosse stato
nessun movimento d'odio contro la monarchia.
Intanto, il popolo di Parigi si preparava a una battaglia decisiva.
Però, i comitati insurrezionali avevano il buon senso di non fissare
precedentemente la data della sollevazione. Essi si limitavano a
scrutare lo stato variabile degli spiriti, cercando di rialzarli, e
attendevano il momento di poter lanciare l'appello alle armi. Così
si tentò, pare, di provocare un movimento il 26 giugno, dopo un
banchetto popolare dato sulle rovine della Bastiglia, e al quale
aveva partecipato tutto il sobborgo, portando tavole e provvigioni
(Mortimer Ternaux, Terreur, II, 130). Se ne tentò un altro il 30
luglio, ma anche quello andò a vuoto.
I preparativi dell'insurrezione, mal secondati dai «capi d'opinione»
politici, avrebbero potuto andar per le lunghe; ma i complotti della
Corte fecero precipitare gli avvenimenti. I realisti si tenevano
sicuri della vittoria, con l'aiuto dei cortigiani che giuravano di
morire per il re, con qualche battaglione di guardie nazionali
rimasto fedele alla Corte, e gli svizzeri. Essi avevan fissato il 10
agosto per il colpo di Stato. «Era il giorno fissato per la contro
rivoluzione», si legge nelle lettere dell'epoca, il domani avrebbe
visto tutti i Giacobini del regno annegati nel proprio sangue».
Allora, la notte dal 9 al 10 agosto, la campana a stormo sonò in
Parigi, allo scoccare della mezzanotte. Eppure, dapprima l'appello
«non rendeva», e si trattò perfino di rimandare l'insurrezione. Alle
sette del mattino, certi quartieri erano ancora perfettamente
tranquilli. Sembrava proprio che il popolo di Parigi, nel suo
ammirabile istinto rivoluzionario, rifiutasse d'impegnare
nell'oscurità, contro le truppe reali, un conflitto che sarebbe
probabilmente finito con una disfatta.
Intanto, durante la notte, la Comune insurrezionale s'era
impossessata del Municipio, e la Comune legale si era ecclissata
davanti alla nuova forza rivoluzionaria, che, immediatamente, diede
dello slancio al movimento.
Verso le sette del mattino, uomini armati di picche, guidati da
federati marsigliesi, furono i primi a sbucare sulla piazza del
Carrousel.
Un'ora dopo, si vide la massa del popolo mettersi in moto, e si
corse al palazzo ad avvertire il re che «tutta Parigi» moveva verso
le Tuileries.
Era difatti tutta Parigi, ma soprattutto la Parigi povera, sostenuta
dalle guardie nazionali dei quartieri di operai ed artigiani.
Verso le otto e mezzo, il re, perseguitato dal ricordo recente del
10 giugno e temendo d'essere ucciso dal popolo, abbandonò le
Tuileries. Andò a rifugiarsi in seno all'Assemblea, lasciando che i
suoi fedeli difendessero il castello e massacrassero gli assalitori.
Ma, appena il re fu partito, interi battaglioni della guardia
nazionale borghese dei quartieri ricchi si dispersero, senza por
tempo in mezzo, per non trovarsi in presenza del popolo in rivolta.
Le masse compatte del popolo invasero allora le vicinanze delle
Tuileries, e la loro avanguardia, incoraggiata dagli svizzeri che
gettavan le cartuccie dalle finestre, era penetrata in un cortile
del palazzo. Ma altri svizzeri, comandati da ufficiali della Corte,
posti sullo scalone d'entrata, fecero fuoco sul popolo, ammucchiando
più di quattrocento cadaveri ai piedi della scala.
Questo fissò le sorti della giornata. Alle grida di: Tradimento!
Morte al re! Morte all'austriaca! – il popolo di Parigi accorse da
ogni parte; gli abitanti dei sobborghi Saint-Antoine e Saint-Marceau
arrivarono in massa, e ben presto, furiosamente assaliti dal popolo,
gli svizzeri furono disarmati o massacrati.
Ebbene, non dimentichiamo che l'Assemblea, anche in quel momento
supremo, restò titubante, non sapendo che fare. Essa agì solamente
quando il popolo armato irruppe nella sala delle udienze,
minacciando di massacrarvi il re, la sua famiglia e i deputati che
non osavano pronunciarne la destituzione. Anche dopo prese le
Tuileries, quando già la monarchia non esisteva più di fatto, i
Girondini, a cui piaceva tanto parlar di Repubblica, non osarono far
nulla di decisivo. Vergniaud osò domandare soltanto la sospensione
provvisoria del capo del potere esecutivo, che dimorerebbe da quel
momento al Lussemburgo.
Solo dopo due o tre giorni la Comune rivoluzionaria trasferì Luigi
XVI e la sua famiglia nella torre del Tempio, incaricandosi di
tenerlo là, prigioniero del popolo.
La monarchia era dunque abolita di fatto. Ormai, la Rivoluzione
poteva svolgersi per qualche tempo, senza temere d'essere arrestata
subitamente nel suo cammino da un colpo di Stato monarchico, dal
massacro dei rivoluzionari e dal terrore bianco.
Pei politicanti, l'interesse principale del 10 agosto è nel colpo
che riuscì a dare alla monarchia. Per il popolo, è soprattutto
nell'abolizione di quella forza che s'opponeva all'esecuzione dei
decreti contro i diritti feudali, contro gli emigrati e i preti,
mentre chiamava l'invasione tedesca; è altresì nel trionfo dei
rivoluzionari popolari, nel proprio trionfo, che ora gli permetteva
di spingere la Rivoluzione in avanti, nel senso dell'Uguaglianza,
sogno e fine delle masse. Il domani stesso del 10 agosto,
l'Assemblea legislativa, così pusillanime e reazionaria, lanciò,
sotto la pressione che le veniva dall'esterno, alcuni decreti propri
a far progredire la Rivoluzione.
Quei decreti dicevano:
Ogni prete che non avendo ancora prestato giuramento d'ubbidire alla
Costituzione, non giurerà entro quindici giorni, se verrà quindi
preso su territorio francese, verrà trasportato a Cayenne.
Tutti i beni degli emigrati, in Francia e nelle colonie, sono
sequestrati. Tutti saranno messi in vendita in piccoli appezzamenti.
È abolita ogni distinzione tra i cittadini passivi (poveri) e i
cittadini attivi (quelli che possiedono). Tutti diventano elettori a
21 anni, ed eleggibili a 25.
Quanto ai diritti feudali, abbiamo visto che la Costituente aveva
fatto, il 15 marzo 1790, un decreto odioso, secondo il quale tutti i
cànoni feudali si presumeva rappresentassero il prezzo d'una data
concessione di terreno, fatta un giorno dal proprietario al
tenimentario (e ciò era falso), e come tali, tutti dovevano essere
pagati, finchè non fossero riscattati dal contadino. Questo decreto,
confondendo così i cànoni personali (nati dal servaggio) con quelli
fondiari (provenienti dal contratto d'affitto), annullava
praticamente il decreto del 4 agosto 1789, che aveva dichiarato
aboliti i cànoni personali. Col decreto del 15 marzo 1790, si
ristabilivano grazie alla finzione di considerarli come attinenti
alla terra. Couthon aveva fatto risaltare ciò, nel suo rapporto
letto all'Assemblea il 29 febbraio 1792.
Ora, il 14 giugno 1792, – vale a dire all'avvicinarsi del 20,
quand'era necessario conciliarsi il popolo, – le sinistre,
approfittando dell'assenza casuale d'un certo numero di membri delle
destre, abolirono senza indennità alcuni diritti feudali personali,
specialmente i diritti casuali (prelevati dal signore in caso di
lascito, di matrimonio, sul torchio, sul mulino, ecc.).
Dopo tre anni di rivoluzione, fu dunque necessario uno stratagemma
perchè l'Assemblea abolisse quei diritti odiosi!
In fondo, anche questo decreto non aboliva completamente i cànoni
casuali. In certi casi, bisognava sempre riscattare; ma proseguiamo.
I diritti annuali, come il censo, la ricognizione, il champart, che
i contadini avevano da pagare in più delle rendite fondiarie e che
rappresentavano un resto dell'antica servitù, rimanevano ancora in
vigore!
Ma ecco che il popolo s'è mosso contro le Tuileries; ecco il re
detronizzato e imprigionato dalla Comune rivoluzionaria. E appena
questa notizia si spande nei villaggi, le petizioni dei contadini
per domandare l'abolizione completa dei diritti feudali affluiscono
all'Assemblea.
Si era allora alla vigilia del 2 settembre, e il contegno del popolo
verso i legislatori borghesi non essendo, come si sa, troppo
rassicurante, l'Assemblea risolvette di fare ancora qualche passo
(decreti del 16 e 25 agosto 1792).
È sospeso qualsiasi processo per diritti feudali non pagati – il che
non è male!
I diritti feudali e signorili d'ogni sorta, che non siano il prezzo
d'una concessione fondiaria primitiva, sono soppressi senza
indennità.
Ed è permesso (decreto del 20 agosto) di riscattare separatamente,
sia i diritti casuali, sia quelli annuali che saranno giustificati
dalla presentazione del titolo primitivo della concessione di fondo.
Ma tutto ciò, – solamente in caso di nuova compera, fatta da un
nuove compratore!
La soppressione dei processi era, senza dubbio un gran vantaggio. Ma
i diritti feudali esistevano sempre ed occorreva sempre riscattarli.
La nuova legge non contribuiva che ad accrescere confusione, per cui
ormai si poteva nè pagare nè riscattare più nulla. E i contadini non
mancarono di fare appunto così, aspettando qualche altra vittoria
del popolo o qualche nuova concessione dai governanti.
Nello stesso tempo, tutte le decime e prestazioni (lavoro gratuito)
provenienti dal servaggio – dalla manomorta – erano soppresse senza
indennità. Anche questo era qualche cosa; se l'Assemblea proteggeva
i signori e i compratori borghesi, abbandonava per lo meno i preti,
poichè il re non poteva più proteggerli.
Ma, ad un tratto, la stessa Assemblea prendeva una misura che, se
fosse stata applicata, avrebbe sollevato tutta la campagna francese
contro la Repubblica. La Legislativa aboliva la solidarietà pei
pagamenti, che esisteva nei comuni di contado98, e nello stesso
tempo ordinava la divisione dei beni comunali tra i cittadini
(proposta di Francesco de Neufchâteau). Pare, però, che questo
decreto, redatto in poche righe, con termini vaghi – quasi fosse una
dichiarazione di principio, piuttosto che un decreto – non sia mai
stato preso sul serio. Del resto, la sua applicazione si sarebbe
urtata contro tali difficoltà, ch'esso rimase lettera morta. E
quando la questione fu ripresa, la Legislativa, giunta alla sua
fine, si separò senza deliberare in merito.
Riguardo i beni degli emigrati, fu ordinato che si mettessero in
vendita in piccoli appezzamenti di due, tre, o al massimo quattro
jugeri. Questa vendita doveva essere fatta «per affitto, a rendita
in denaro», sempre riscattabile. Vale a dire che colui che non aveva
denaro, poteva comprare lo stesso, mediante la condizione di pagare
un affitto perpetuo, che avrebbe potuto riscattare in avvenire.
Benchè ciò fosse favorevole ai contadini poveri, si capisce che
nelle campagne si fecero ogni sorta di difficoltà ai piccoli
compratori. I pingui borghesi preferivano comprare quei beni
all'ingrosso, per rivenderli poi al minuto.
Finalmente – fatto assai caratteristico – Mailhe, approfittando
dello stato degli spiriti, propose una misura perfettamente
rivoluzionaria, che sarà ripresa più tardi, dopo la caduta dei
Girondini. Egli domandò che si annullassero gli effetti
dell'ordinanza del 1669, costringendo i signori a restituire le
terre ch'essi avevan tolte ai comuni di contado in seguito a
quell'ordinanza. La sua proposta non fu votata, naturalmente: perchè
lo fosse, era necessaria un'altra rivoluzione.
Ecco i risultati del 10 agosto
La monarchia è rovesciata, e ora sarebbe facile alla Rivoluzione di
scrivere una nuova pagina nel senso egualitario, se l'Assemblea, e i
dirigenti in generale, non vi si opponessero.
Il re e la sua famiglia sono in prigione. È convocata una nuova
Assemblea, la Convenzione. Le elezioni si faranno col suffragio
universale, ma sempre a doppio grado.
Si prendono delle misure contro i preti che ricusano di riconoscere
la Costituzione, e contro gli emigrati.
Si ordina la vendita dei beni degli emigrati, sequestrati in virtù
del decreto del 30 marzo 1792.
La guerra contro gl'invasori sarà condotta vigorosamente dai
volontari sanculotti.
Ma due grandi questioni restano pur sempre sospese. La prima: Che
fare del re traditore? – e l'altra, la questione dei diritti
feudali, per cui si agitano quindici milioni di contadini. Bisogna
sempre riscattare questi diritti per liberarsene. E la nuova legge
riguardante la divisione delle terre comunali getta lo spavento nei
villaggi.
Con questo, la Legislativa si chiude, dopo aver fatto di tutto per
impedire alla Rivoluzione di svolgersi normalmente e di finire con
l'abolizione di queste due eredità del passato: la monarchia e i
diritti feudali.
Ma, accanto all'Assemblea legislativa, è venuto crescendo, dal 10
agosto, un nuovo potere, la Comune di Parigi, che prende tra le mani
l'iniziativa rivoluzionaria e ve la terrà, come vedremo, per circa
due anni.
FINE DEL PRIMO VOLUME
INDICE
PREFAZIONE
I. Le due grandi correnti della Rivoluzione
II. L'idea
III. L'azione
IV. Il popolo prima della Rivoluzione
V. Lo spirito di rivolta; le sommosse
VI. Gli Stati generali divenuti necessari
VII. La sollevazione delle campagne nei primi mesi del 1789
VIII. Sommosse a Parigi e nei dintorni
IX. Gli Stati generali
X. Preparativi del colpo di Stato
XI. Parigi alla vigilia del 14 luglio
XII. La presa della Bastiglia
XIII. Le conseguenze del 14 luglio a Versaglia
XIV. Sollevazioni popolari
XV. Le città
XVI. La sollevazione dei contadini
XVII. Il 4 agosto e le sue conseguenze
XVIII. I diritti feudali rimangono
XIX. Dichiarazione dei diritti dell'uomo
XX. Giornate del 5 e 6 ottobre 1789
XXI. Terrori della borghesia. – Nuova organizzazione
municipale
XXII. Difficoltà finanziarie. – Vendita dei beni del clero
XXIII. La festa della Federazione
XXIV. I distretti e le sezioni di Parigi
XXV. Le sezioni di Parigi sotto la nuova legge municipale
XXVI. Lentezza nell'abolizione dei diritti feudali
XXVII. Legislazione feudale del 1790
XXVIII. Sosta della Rivoluzione nel 1790
XXIX. La fuga del re. – La reazione. – Fine dell'Assemblea
costituente
XXX. L'Assemblea legislativa. – La reazione nel 1791-1792
XXXI. La contro rivoluzione nel Mezzogiorno
XXXII. Il 20 giugno 1792
XXXIII. Il 10 agosto. – Le sue conseguenze immediate
La Grande Rivoluzione
Maledetto sia tu per ogni etade,
O del reo termidor decimo sol!
Tu
sanguigno ti affacci, e fredda cade
La bionda testa di Saint-Just al
suol.
Maledetto sia tu da quante sparte
Famiglie umane ancor piegansi ai
re!
Tu suscitasti in Francia il Bonaparte,
Tu spegnesti ne i cor
virtude e fe'.
Giosuè CARDUCCI.
PIETRO KROPOTKINE
La Grande
Rivoluzione
1789-1793
PRIMA EDIZIONE ITALIANA
VOLUME II
GINEVRA
EDIZIONE DEL GRUPPO DEL RISVEGLIO
Rue des Savoises, 6
1911
XXXIV
L'INTERREGNO – I TRADIMENTI
Il popolo di Parigi piangeva i suoi morti e chiedeva giustizia con
la punizione di quelli che avevano provocato il massacro intorno
alle Tuileries.
Mille e cento uomini, dice Michelet, tre mila, secondo la voce
pubblica, erano stati uccisi dai difensori del castello. Quelli che
vi avevan rimesso di più erano «gli uomini dalle picche», la gente
poverissima dei sobborghi. Essi si precipitavano in massa sulle
Tuileries e cadevano sotto il fuoco degli svizzeri e dei nobili,
ch'erano protetti dalle solide muraglie.
Dei furgoni carichi di cadaveri si dirigevano verso i sobborghi,
dice Michelet, e là, i morti venivano esposti per essere
riconosciuti. La folla li circondava, e i gridi di vendetta degli
uomini s'univano ai singhiozzi delle donne.
Durante la sera del 10 agosto e il giorno seguente, il furore del
popolo si volse specialmente sugli svizzeri. Non avevano essi
gettato le cartucce dalle finestre, invitando così la folla a
entrare nel palazzo? Non aveva forse il popolo cercato di
fraternizzare con gli svizzeri posti sullo scalone d'entrata, quando
questi aprirono a bruciapelo, sulla folla, un fuoco fitto e
micidiale?
Ben presto però, il popolo capì ch'era necessario mirare più alto,
se si volevano colpire gl'istigatori del massacro. Bisognava colpire
il re, la regina, «il comitato austriaco» delle Tuileries.
Ma l'Assemblea copriva con la propria autorità precisamente il re,
la regina e i loro fedeli. È ben vero che il re, la regina, i loro
figli e i famigliari di Maria Antonietta erano chiusi nella torre
del Tempio. La Comune aveva ottenuto dall'Assemblea il loro
trasferimento in quella torre, respingendo ogni responsabilità se
fossero rimasti al Lussemburgo. Ma non s'era fatto niente di
positivo; e non vi fu niente fino al 4 settembre.
Il 10 agosto, l'Assemblea aveva rifiutato di proclamare la caduta di
Luigi XVI e, in seguito all'ispirazione dei Girondini, aveva
proclamato solo la sospensione di lui e s'era affrettata a nominare
un governatore al Delfino. E ora, i tedeschi, entrati in Francia il
19, con 130,000 uomini, marciavano su Parigi per abolire la
costituzione, ristabilire il re nel suo potere assoluto, annullare
ogni decreto delle due assemblee, e mettere a morte «i giacobini»,
cioè tutti i rivoluzionari.
Si capirà di leggeri lo stato d'animo del popolo di Parigi; sotto un
aspetto tranquillo, una cupa agitazione s'impadroniva dei sobborghi.
Essi, dopo la vittoria sulle Tuileries, pagata a così caro prezzo,
si sentivano traditi dall'Assemblea e anche dai «capi d'opinione»
rivoluzionari, che esitavano, essi pure, a pronunciarsi contro il re
e la monarchia.
Ogni giorno, nuove prove del complotto ordito alle Tuileries prima
del 10 agosto e che continuava a Parigi e nelle provincie, erano
portate alla tribuna dell'Assemblea, alle sedute della Comune, nella
stampa. Ma non c'era nulla di fatto per colpire i colpevoli o per
impedir loro di riannodare la trama dei loro complotti. Le notizie
della frontiera arrivavano ogni giorno, sempre più inquietanti. Le
piazze forti eran senza guarnigione, non s'era fatto niente per
arrestare il nemico. È chiaro che il debole contingente francese,
comandato da generali sospetti, non avrebbe potuto arrestare
l'esercito tedesco, due volte più forte, agguerrito, e i cui
generali godevano la fiducia dei soldati. Si fissava già, tra
realisti, il giorno, l'ora in cui l'invasione avrebbe battuto le
porte di Parigi.
La massa della popolazione capiva il pericolo. Tutto quanto vi era
in Parigi di giovane, di forte, d'entusiasta, di repubblicano,
accorreva ad arruolarsi per partire verso la frontiera. L'entusiasmo
toccava l'eroismo. Il denaro, i doni patriottici piovevano negli
uffici d'arruolamento.
Ma a che servono tanti sacrifizî, quando ogni giorno porta la
notizia di qualche nuovo tradimento, quando tutti questi tradimenti
fanno capo al re, alla regina che, dal fondo del Tempio, continuano
a dirigere i complotti? Nonostante la sorveglianza severa della
Comune, Maria Antonietta non riesce forse a sapere tutto quanto
accade fuori? Ella è informata di ogni passo dell'esercito tedesco;
e quando degli operai vanno a mettere delle inferriate alle finestre
del Tempio, essa dice loro: «A che serve! tra otto giorni non saremo
più qui.» Difatti, i realisti aspettavano tra il 5 e il 6 settembre,
l'entrata in Parigi degli ottanta mila prussiani.
Perchè armarsi, accorrere alle frontiere, quando l'Assemblea
legislativa e il partito che è al potere sono nemici dichiarati
della Repubblica? Essi fanno di tutto per conservare la monarchia.
Quindici giorni prima del 10 agosto, il 24 luglio, non aveva forse
Brissot parlato contro i Cordiglieri, che volevan la repubblica? Non
ha egli domandato che fossero colpiti dalla spada della legge?99 E,
dopo il 10 agosto, il club dei Giacobini, che era il ritrovo della
borghesia agiata, non conserva forse – fino al 27 agosto – il
silenzio sulla grande questione che agita il popolo: La monarchia
appoggiata dalle baionette tedesche, sarà o non sarà conservata?
L'impotenza dei governanti, la pusillanimità dei «capi d'opinione»
in quel momento di pericolo riducevano il popolo alla disperazione.
Per poter capire profondamente quella disperazione, leggendo i
giornali di quell'epoca, le memorie e le lettere private, è
necessario immaginare di risentire anche noi quelle emozioni che
agitarono Parigi, dopo la dichiarazione della guerra. Ecco perchè
ricapitoleremo brevemente i fatti principali.
Quando già la guerra era stata dichiarata, si portava ancora
Lafayette ai sette cieli, specialmente nella cerchia borghese. Si
rallegravano di vederlo alla testa d'un esercito. È vero che, dopo
il massacro del Campo di Marte, eran nati dei dubbi sul suo conto, e
Chabot ne aveva fatto menzione all'Assemblea, in principio del
giugno 1792. Ma essa trattò Chabot da disorganizzatore, da
traditore, e lo ridusse al silenzio. Intanto, il 18 giugno,
l'Assemblea riceveva da Lafayette la sua famosa lettera, nella quale
denunciava i Giacobini e domandava la soppressione di tutti i
circoli. Questa lettera arrivò qualche giorno dopo che il re aveva
respinto il ministero girondino (giacobino, come si diceva allora) e
quella coincidenza diede da pensare. Ciò nonostante, l'Assemblea
passò oltre, mettendo in dubbio l'autenticità della lettera; a
questo fatto, il popolo, naturalmente, si domandava se l'Assemblea
non fosse d'accordo con Lafayette.
Pur con tutto questo, l'agitazione aumentava sempre più, e il popolo
si sollevò il 20 giugno. Ammirabilmente organizzato dalle sezioni,
invase le Tuileries. Tutto ciò accadde in modo piuttosto moderato;
ma la borghesia fu terrorizzata e l'Assemblea si gettò in braccio
alla reazione lanciando un decreto contro gli assembramenti. Nel
frattempo giunge Lafayette, il 23; egli va all'Assemblea, dove
riconosce e reclama la sua lettera del 18. Biasima in termini
violenti il 20 giugno. Denuncia i «Giacobini» con astio maggiore.
Luckner, comandante d'un altro reggimento, s'unisce a Lafayette per
biasimare il 20 giugno e attestare la sua fedeltà al re. Dopo
questo, Lafayette gira in Parigi «con 600 o 800 ufficiali
dell'esercito parigino che circondano la sua carrozza100.»
Ora si sa perchè Lafayette era andato a Parigi. Era per persuadere
il re a lasciarsi rapire, e per metterlo sotto la protezione
dell'esercito. Oggi siamo certi della cosa, allora si cominciava
però a diffidare del generale. Fu perfino presentato un rapporto
all'Assemblea chiedendo che fosse giudicato; ma la maggioranza votò
per iscolparlo. Che doveva pensarne il popolo?101
«Mio Dio, come tutto va male!» scriveva la signora Jullien a suo
marito, il 30 giugno 1793. «Osservate che la condotta dell'Assemblea
irrita talmente il popolo, che quando piacerà a Luigi XVI di
prendere la sferza di Luigi XIV per scacciare questo debole
parlamento, si dirà bravo da ogni parte; con sentimenti molto
diversi, è vero, ma che importa ai tiranni, purchè l'accordo
favorisca i loro progetti! L'aristocrazia borghese è in delirio, il
popolo nell'abbattimento della disperazione, e gli uragani covano
sordamente» (p. 164).
Si confrontino queste parole a quelle di Chaumette già citate, e si
capirà che per l'elemento rivoluzionario parigino, l'Assemblea
doveva rappresentare come una palla di ferro legata al piede della
Rivoluzione.102
Intanto s'arriva al 10 agosto. Il popolo di Parigi, nelle sue
sezioni, s'impadronisce del movimento. Nomina rivoluzionariamente il
suo consiglio della Comune per dare unità alla sollevazione. Scaccia
il re dalle Tuileries, s'impadronisce con la forza del castello e la
Comune rinchiude il re nella torre del Tempio. Ma resta l'Assemblea
legislativa, che diventa tosto il centro di rannodamento degli
elementi monarchici.
I proprietari borghesi comprendono subito la nuova piega popolare,
egualitaria, presa dalla sollevazione, e si aggrappano sempre più
alla monarchia. Allora furon messi in circolazione mille piani, per
destinare la corona, sia al Delfino (il che sarebbe stato fatto, se
la reggenza di Maria Antonietta non avesse destato tanto disgusto),
sia a qualsiasi altro pretendente, francese o straniero. Come dopo
la fuga di Varennes, si produsse una recrudescenza di sentimenti
favorevoli alla monarchia; e quando il popolo domanda altamente che
si pronunci chiaramente contro la monarchia, l'Assemblea, come ogni
assemblea parlamentare di politicanti, non potendo prevedere quale
regime sarà vittorioso, si guarda dal compromettersi. Essa tende
piuttosto a favorire la monarchia e cerca di coprire le colpe
passate di Luigi XVI. Non permette che sian messe a nudo da serie
procedure contro i complici.
Bisogna che la Comune minacci di far suonare la campana a stormo e
che le sezioni parlino d'un massacro in massa dei realisti,103
perchè l'Assemblea risolva di cedere. Essa ordinò finalmente, il 17
agosto, la formazione d'un tribunale criminale composto di otto
giudici e di otto giurati, che saranno eletti dai rappresentanti
delle sezioni. E cerca ancora di restringere le attribuzioni di quel
tribunale. Esso non dovrà cercare di approfondire la cospirazione
che si faceva alle Tuileries prima del 10: si limiterà a ricercare
le responsabilità durante la giornata del Dieci.
Le prove del complotto abbondano, e vanno precisandosi di giorno in
giorno. Tra le carte trovate dopo la presa delle Tuileries, nel
forziere di Montmorin, intendente della lista civile, furono
scoperti molti scritti compromettenti. Tra gli altri, v'ha una
lettera dei principi, comprovante ch'essi agivano d'accordo con
Luigi XVI, quando lanciavano sulla Francia gli eserciti austriaci e
prussiani, e organizzavano un corpo di cavalleria d'emigrati, che
moveva con quei soldati su Parigi. V'è una lista d'opuscoli e di
libelli contro l'Assemblea nazionale e i Giacobini, libelli pagati
dalla lista civile, compresi quelli che cercavano di provocare una
rissa nel momento dell'arrivo dei Marsigliesi, e che invitavano la
guardia nazionale a sgozzarli.104 E finalmente c'è la prova che la
minoranza «costituzionale dell'Assemblea aveva promesso di seguire
il re, in caso lasciasse Parigi, senza però oltrepassare la distanza
prescritta dalla Costituzione. V'è altro ancora; ma è tenuto
nascosto nella tema che il furore popolare si volga sul Tempio. E
fors'anche sull'Assemblea! diciamo noi.
Infine, i tradimenti, previsti da lungo tempo, scoppiano
nell'esercito. Il 22 agosto, si viene a conoscere quello di
Lafayette. Egli ha cercato di trascinare con sè i soldati e di farli
marciare su Parigi. Veramente il suo piano era già fatto da due
mesi, quand'egli era andato a Parigi a tastare il terreno, dopo il
20 giugno. Ora, ha gettato la maschera. Ha fatto arrestare i tre
commissari che l'Assemblea gli ha mandato per annunciargli la
rivoluzione del 10 agosto, e Luckner, il vecchio volpone, approvò la
sua condotta. Per fortuna, l'esercito di Lafayette non seguì il
generale e, il 19, accompagnato dallo stato maggiore, egli dovette
passare la frontiera, sperando di arrivare in Olanda. Caduto in mano
degli austriaci, fu da essi mandato in prigione e trattato assai
duramente. Ciò fa prevedere come gli austriaci si propongono di
trattare i rivoluzionari che avranno la sfortuna di cadere in loro
mano. Gli ufficiali municipali patriotti, di cui han potuto
impadronirsi, sono stati uccisi immantinenti come ribelli, e ad
alcuni, gli ulani hanno tagliato gli orecchi per inchiodarli loro
sulla fronte.
Il domani si seppe che Longwy, investito il 20, s'è arreso subito e,
tra le carte del comandante, Lavergne, s'è trovato una lettera
contenente delle offerte di tradimento dalla parte di Luigi XVI e
del duca di Brunswick.
Non si può più contare sull'esercito, a meno d'un miracolo.
Parigi è piena di «neri» (così eran designati coloro che più tardi
si chiamaron «bianchi»). È tornata una folla di emigrati, e spesso,
sotto la veste d'un prete, si riconosce un militare. Intorno al
Tempio, si vanno formando ogni sorta di complotti, dei quali il
popolo che sorveglia con ansia la prigione reale afferra bene
gl'indizi. Si vogliono mettere in libertà il re e la regina, sia con
un'evasione, sia con la forza. I realisti preparano una sommossa
generale per il 5 o 6 settembre, giorno in cui i prussiani saranno
nei dintorni di Parigi. Non lo nascondono neppure. I settecento
svizzeri rimasti a Parigi serviranno di quadro militare alla
sommossa. Muoveranno verso il Tempio, metteranno in libertà il re, e
lo porranno alla testa del movimento stesso. Si apriranno le
prigioni, così i prigionieri, lanciati a saccheggiare la città,
contribuiranno a far disordine, mentre Parigi sarà incendiata.105
Tale era, almeno, la voce pubblica fomentata dai realisti stessi. E
quando, il 28 agosto, Kersaint lesse a l'Assemblea il rapporto sulla
giornata del Dieci Agosto, questo rapporto confermò la voce che
correva. Secondo un contemporaneo, esso «fece rabbrividire», «tanto
erano ben tese le reti» intorno ai rivoluzionari. Eppure, non era
nota l'intera verità.
In mezzo a tutte quelle difficoltà, solo l'attività della Comune e
delle sezioni rispondeva alla gravità del momento. Esse sole,
assecondate dal club dei Cordiglieri, agivano per sollevare il
popolo e ottenere da lui uno sforzo supremo, a fine di salvare la
Rivoluzione e la patria che in quel frangente formavano una cosa
sola.
Il Consiglio generale della Comune, eletto rivoluzionariamente dalle
sezioni il 9 agosto, agiva d'accordo con esse. S'occupava con ardore
entusiasta ad armare ed equipaggiare dapprima 30,000 poi 60,000
volontari che dovevano partire per le frontiere. Appoggiati da
Danton, sapevano elettrizzare la Francia coi loro appelli vigorosi.
Uscita dalle sue funzioni municipali, la Comune di Parigi parlava
ora a tutta la Francia e, mediante i suoi volontari, anche agli
eserciti. Le sezioni organizzavano l'immenso lavoro di fornimento
dei volontari, e la Comune ordinava di fondere le casse di piombo
per farne dei proiettili, e gli oggetti presi nelle chiese, per
averne il bronzo e farne cannoni. Le sezioni diventavano la fornace
ardente in cui si preparavano le armi, con le quali la Rivoluzione
avrebbe vinto i nemici e fatto un nuovo passo avanti – verso
l'Eguaglianza.
Poichè una nuova rivoluzione – una rivoluzione che aveva di mira
l'Eguaglianza, e che il popolo doveva guidare con le sue proprie
mani, si disegnava già agli occhi di tutti. La gloria del popolo
parigino fu di capire che, preparandosi a respingere l'invasione,
egli non agiva soltanto sotto un impulso d'orgoglio nazionale, nè
per la semplice questione d'impedire il ritorno del despotismo
reale. Capì che bisognava consolidare la Rivoluzione, condurla a
qualche conclusione pratica per la massa del popolo, inaugurando una
rivoluzione di carattere sociale e politico ad un tempo; e questo
significava: con un supremo sforzo delle masse popolari, aprire una
nuova pagina della storia della civiltà.
Ma anche la borghesia aveva perfettamente indovinato il nuovo
carattere che s'annunziava nella Rivoluzione e del quale la Comune
si faceva l'organo. Così, l'Assemblea, che rappresentava sopratutto
la borghesia, lavorava con ardore a combattere l'influenza della
Comune.
Fino dall'11 agosto, mentre fumava ancora l'incendio delle Tuileries
e i cadaveri giacevano nelle corti del palazzo, l'Assemblea aveva
ordinato l'elezione d'un nuovo direttorio del dipartimento che
voleva opporre alla Comune. Questa rifiutò, e quella dovette cedere,
ma la lotta continuò – una lotta sorda, nella quale i Girondini
dell'Assemblea cercavano ora di staccare le sezioni dalla Comune,
ora di ottenere lo scioglimento del Consiglio generale eletto
rivoluzionariamente il 9 agosto. Miseri intrighi in faccia al nemico
che s'avvicinava ogni giorno a Parigi, permettendosi spaventosi
saccheggi.
Il 24, arrivò a Parigi la notizia che Longwy s'era resa senza
combattere, e l'insolenza dei realisti andò aumentando. Essi
cantavan vittoria. Certamente, le altre città avrebbero fatto come
Longwy, e i realisti annunciavano già l'arrivo degli alleati
tedeschi entro otto giorni, e preparavan loro gli alloggi. Intorno
al Tempio si formavano assembramenti e la famiglia reale s'univa ad
essi per salutare la vittoria dei tedeschi. Ma, cosa più terribile
ancora, quelli che s'erano incaricati di governare la Francia, non
avevano il coraggio di fare qualche cosa affinchè Parigi non fosse
forzata a capitolare come Longwy. La commissione dei Dodici, che
rappresentava il nucleo d'azione nell'Assemblea, cadde nella
costernazione. E il ministero girondino – Roland, Clavière, Servan e
gli altri – pensava che bisognava fuggire e ritirarsi a Blois, o nel
mezzogiorno della Francia, abbandonando il popolo rivoluzionario di
Parigi al furore degli austriaci, di Brunswick e degli emigrati. «I
deputati fuggivano già a uno a uno», dice Aulard106: la Comune andò
a lagnarsene con l'Assemblea. Sarebbe stato un tradimento e una
viltà; di tutti i ministri, solo Danton si oppose assolutamente.
Solamente le sezioni rivoluzionarie e la Comune capirono che si
doveva riportar vittoria a qualunque costo, e per ottenerla,
bisognava colpire nel tempo stesso i nemici alla frontiera e i
contro rivoluzionari a Parigi.
Ed è precisamente ciò che i governanti non volevano ammettere. Dopo
che il tribunale criminale, incaricato di giudicare i fautori dei
massacri del 10 agosto, era stato solennemente inaugurato, si capì
ch'esso si preoccupava di punire i colpevoli come l'Alta Corte
d'Orléans ch'era diventata, secondo l'espressione di Brissot, «la
salvaguardia dei cospiratori». Dapprima, sacrificò tre o quattro
persone insignificanti, ma ben presto assolse uno dei più seri
cospiratori, l'ex ministro Montmorin, come pure Dossonville,
implicato nella cospirazione di d'Angremont, e esitò a giudicare
Bachmann, generale degli svizzeri. Certamente, non si poteva
aspettar nulla da quel tribunale.
La popolazione di Parigi è stata dipinta come composta di cannibali
avidi di sangue, che diventavan furiosi appena una vittima sfuggiva
loro. Quest'è falso. Gli è che il popolo parigino capì da quelle
assoluzioni, che i governanti non volevano far luce sulle
cospirazioni ordite alle Tuileries, perchè sapevan quanti di loro
sarebbero stati compromessi, e perchè quelle cospirazioni
continuavano ancora. Marat, che era ben informato, aveva ragione di
dire che l'Assemblea aveva paura del popolo, e ch'essa non sarebbe
stata malcontenta se Lafayette fosse venuto colle sue truppe a
ristabilire la monarchia. Difatti, tutto questo fu poi provato dalle
scoperte fatte tre mesi più tardi, quando il fabbro Gamain svelò
l'esistenza dell'armadio di ferro contenente le carte di Luigi XVI.
La forza della monarchia era nell'Assemblea.
Allora il popolo, vedendo che gli era assolutamente impossibile di
stabilire la responsabilità dei cospiratori monarchici, e che
pericolo potevano costituire riguardo l'invasione tedesca, si
risolvette di colpire indistintamente tutti coloro che avevano
occupato posti di fiducia alla Corte e che le sezioni consideravano
come pericolosi, o presso i quali si trovassero armi nascoste. A
questo scopo, le sezioni imposero alla Comune, e questa a Danton che
occupava il posto di ministro della giustizia dopo il 10 agosto, di
fare delle perquisizioni in massa in tutta Parigi, di sequestrare le
armi nascoste presso i realisti e i preti e d'arrestare i traditori
maggiormente sospettati d'accordo col nemico. L'Assemblea dovette
sottomettersi e ordinò le perquisizioni.
Queste furono fatte nella notte dal 29 al 30, la Comune vi mise tale
vigore che i cospiratori ne furono atterriti. Il 29 agosto, nel
pomeriggio, Parigi sembrava morta, in preda a cupo spavento. Si
proibì ai particolari d'uscire dopo le diciotto; sul far della
notte, le strade furono occupate da pattuglie di 60 uomini ciascuna,
armate di sciabole e di picche improvvisate. Verso un'ora di notte
cominciarono le perquisizioni in tutta Parigi. Le pattuglie salivano
in ogni appartamento, cercavano le armi e sequestravano quelle
trovate in casa dei realisti.
Furono arrestati circa tre mila uomini, e sequestrati due mila
fucili. Certe perquisizioni durarono delle ore; ma nessuno ebbe a
lamentare la sparizione d'un minimo oggetto qualsiasi; mentre,
presso gli «Eudistes», preti che avevan rifiutato di prestar
giuramento alla Costituzione, fu rinvenuta tutta l'argenteria
scomparsa dalla Santa Cappella. Era nascosta nelle loro fontane.
Il giorno seguente, la maggior parte delle persone arrestate fu
lasciata libera, per ordine della Comune o a domanda delle sezioni.
Quanto a coloro che furon trattenuti in prigione, è probabile che ne
sarebbe stata fatta una scelta accurata e che sarebbero stati creati
tribunali sommari per giudicarli. Ma gli avvenimenti precipitarono
sul teatro della guerra e a Parigi.
Mentre Parigi intera s'armava rispondendo all'appello vigoroso della
Comune, e che su tutte le piazze s'ergevano altari della patria
presso i quali s'arruolava la gioventù e sui quali tutti i
cittadini, ricchi e poveri, deponevano le loro offerte alla patria;
mentre la Comune e le azioni spiegavano un'energia veramente
formidabile per equipaggiare e armare 60,000 volontari partenti per
la frontiera, e riuscivano, benchè mancasse quasi tutto, a farne
partire due mila al giorno – l'Assemblea scelse proprio quel momento
per colpire la Comune. In seguito a un rapporto del Girondino
Guadet, lanciò, il 30, un decreto che ordinava immediatamente lo
scioglimento del Consiglio generale della Comune per procedere alle
nuove elezioni!
Se la Comune avesse ubbidito, l'unica tavola di salvezza che
rimaneva per respingere l'invasione e vincere la monarchia, sarebbe
stata infranta a un tratto in favore dei realisti e degli austriaci.
L'unica risposta che la Rivoluzione potè dare a quel decreto,
naturalmente, fu di respingerlo e di dichiarare traditori
gl'istigatori di quella misura. Infatti, qualche giorno dopo, la
Comune ordinò delle perquisizioni presso Roland e Brissot. Marat
domandò semplicemente lo sterminio di quei legislatori traditori.
Nello stesso giorno il tribunale criminale mandava assolto
Montmorin; – questo accadeva dopo quanto s'era saputo da qualche
giorno nel processo d'Angremont, ossia, che i cospiratori realisti,
ben assoldati, erano registrati, divisi in brigate, sottomessi a un
comitato centrale e che aspettavan solo un segnale per scendere
nelle strade e attaccare tutti i patriotti, in Parigi e in tutte le
città di provincia.
Il posdomani, 1° settembre, altra rivelazione. Il Moniteur
pubblicava un «Piano delle forze coalizzate contro la Francia»,
ricevuto, diceva, da mano sicura, dalla Germania. In quel piano si
diceva che, mentre il duca di Brunswick terrebbe a bada le armate
patriotte, il re di Prussia andrebbe dritto su Parigi; dopo essersi
impadronito della città, farebbe una scelta degli abitanti; tutti i
rivoluzionari sarebbero giustiziati, o caso mai non fossero
equilibrate le forze, s'incendierebbero le città. «Son da preferirsi
dei deserti a dei popoli in rivolta», aveva detto la lega dei re. E,
come per confermare questo piano, Guadet parlava all'Assemblea della
grande congiura scoperta a Grenoble e dintorni. Era stata
sequestrata, presso Monnier, agente degli emigrati, una lista di più
di cento capi locali della cospirazione, che contavano sull'appoggio
di 25 a 30,000 uomini. Le campagne delle Deux-Sèvres e quelle del
Morbihan s'eran sollevate appena saputa la resa di Longwy, il che
faceva parte del piano dei realisti e di Roma.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, si seppe che Verdun era
assediata e tutti prevedevano che si sarebbe arresa come Longwy; che
non vi sarebbe più nessun ostacolo alla rapida marcia dei prussiani
verso Parigi, e che l'Assemblea o abbandonerebbe la città nelle mani
del nemico, o scenderebbe a patti con lui. Rimetterebbe il re sul
trono, lasciandogli carta bianca per soddisfare la sua vendetta e
sterminare i patriotti.
In quello stesso giorno poi, Roland lanciava ai corpi amministrativi
e faceva affiggere sui muri di Parigi una lettera, nella quale
parlava d'un gran complotto dei realisti per impedire la
circolazione dei viveri. Nevers, Lione, ne soffrivano già.107
La Comune allora chiuse le porte, fece suonare campana a stormo e
sparare il cannone d'allarme. Con un potente proclama, invitò tutti
i volontari pronti a partire, a dormire sul campo di Marte per
mettersi in marcia il domani per tempo.
Nello stesso tempo, un grido di furore risuonò in Parigi: «Corriamo
alle prigioni!» Là son rinchiusi i cospiratori che aspettano
l'avvicinarsi dei tedeschi per metter Parigi a ferro e fuoco.
Qualche sezione (Poissonnière, Postes, Luxembourg) vota che sian
messi a morte. «Oggi bisogna finirla!» e che la Rivoluzione sia
lanciata su una nuova via!
XXXV
LE GIORNATE DI SETTEMBRE
La campana a stormo in tutta Parigi, la generale battuta nelle
strade, il cannone d'allarme i cui tre colpi rimbombavano ogni
quarto d'ora, i canti dei volontari che partivano per la frontiera,
tutto contribuiva quel giorno, domenica 2 settembre, a eccitare
l'ira del popolo fino al furore.
Da mezzogiorno o dalle quattordici, cominciarono a formarsi
assembramenti intorno alle prigioni. Dei federati di Marsiglia o
d'Avignone assalirono per la strada ventiquattro108 preti, che
venivano trasferiti dal municipio alla prigione dell'Abbaye, in
carrozze chiuse. Quattro di essi furono uccisi prima di giungere
alla prigione. Due furono massacrati alla porta. Gli altri poterono
essere introdotti; ma era appena cominciato il loro interrogatorio,
quando una moltitudine armata di picche, di spade, di sciabole,
forzò la porta e uccise i preti, eccettuato l'abate Picard, maestro
dei sordo-muti e il suo assistente.
Così cominciarono i massacri all'Abbaye, prigione che godeva
speciale cattiva reputazione nel quartiere. L'assembramento che
s'era formato intorno alla detta prigione e che si componeva di
piccoli commercianti del quartiere, domandò che si mettessero a
morte i realisti arrestati partendo dal 10 agosto. Si sapeva nel
quartiere che spendevano a piene mani, si trattavan lautamente,
liberi di ricevere la moglie e le amiche. Essi avevan fatto delle
luminarie dopo la sconfitta subìta dai francesi a Mons e cantato
vittoria dopo la presa di Longwy. Insultavano i passanti dietro le
inferriate e annunciavano l'arrivo dei prussiani e lo sgozzamento
dei rivoluzionari. Parigi intera parlava d'un complotto tramato
nelle prigioni, d'armi introdotte, e si sapeva dappertutto che le
prigioni erano diventate vere fabbriche d'assegnati falsi, di falsi
biglietti della Cassa di soccorso, coi quali si cercava di rovinare
il credito pubblico.
Si ripeteva tutto questo negli assembramenti che s'eran formati
intorno all'Abbaye, alla Force ed alla Conciergerie. Ben presto essi
forzarono le porte delle prigioni e cominciarono a uccidervi gli
ufficiali dello stato maggiore degli svizzeri, le guardie del re, i
preti che dovevano essere deportati avendo rifiutato di prestar
giuramento alla Costituzione e i cospiratori realisti arrestati a
partire dal 10 agosto.
La spontaneità di quest'assalto sembra aver colpito tutti di
stupore, tant'era imprevisto. Lungi dall'esser preparati dalla
Comune e da Danton, come si compiacciono d'affermare gli storici
realisti109, i massacri eran così poco previsti che la Comune
dovette in tutta fretta prender delle misure per proteggere il
Tempio e per salvare quelli ch'erano prigionieri per debiti, mesi di
balia, ecc., come pure le dame di compagnia di Maria Antonietta.
Queste ultime poterono essere salvate solo nel buio della notte da
commissari della Comune, i quali trovarono in quel còmpito molte
difficoltà, arrischiando di perire anche loro per mano della folla,
che circondava le prigioni e stazionava nelle vie adiacenti.110
Appena cominciarono i massacri all'Abbaye, e si sa che ebbero
principio verso le due e mezzo (Mon agonie de trente-huit heures, di
Jourgniac de Saint-Méard), la Comune prese immediatamente le misure
necessarie per impedirli. Ne avvertì subito l'Assemblea che nominò
dei commissari per parlare al popolo111 e alla seduta del Consiglio
generale della Comune che s'aprì nel pomeriggio, il procuratore
Manuel rendeva già conto, verso le sei, de' propri sforzi vani per
porre un freno ai massacri. «Egli dice che gli sforzi dei dodici
commissari dell'Assemblea nazionale, i suoi, e quelli de' suoi
colleghi del corpo municipale sono stati infruttuosi per salvare da
morte i colpevoli.» In quella seduta serale, la Comune riceveva i
rapporti de' suoi commissari mandati alla Force e risolveva ch'essi
vi andassero di nuovo per calmare gli spiriti.112
La Comune aveva anche ordinato a Santerre, comandante della guardia
nazionale, di mandare dei distaccamenti per arrestare i massacri. Ma
la guardia nazionale non voleva intervenire. Altrimenti, è chiaro
che i battaglioni delle sezioni moderate si sarebbero mossi.
Evidentemente s'era formata in Parigi l'opinione che il far marciare
l'esercito contro gli assembramenti sarebbe stato come risvegliare
la guerra civile nel momento in cui il nemico era soltanto a qualche
giorno di marcia da Parigi e l'unione era necessaria. «Vi separano,
si semina l'odio, si vuol far nascere una guerra civile diceva
l'Assemblea nel suo proclama del 3 settembre invitando i cittadini a
stare uniti. In quella circostanza, la persuasione era l'unica arma.
Ma, alle persone inviate dalla Comune per impedire i massacri, un
uomo del popolo all'Abbaye rispose molto giustamente, domandando a
Manuel, se quei mascalzoni di prussiani e d'austriaci, arrivati a
Parigi, cercherebbero di scegliere gl'innocenti e i colpevoli, o se
colpirebbero in massa113. E un altro, fors'anche lo stesso,
aggiunse: «Questo è il sangue di Montmorin e de' suoi compagni; noi
siamo al nostro posto, ritornate al vostro; se tutti quelli che
abbiamo incaricati della giustizia avessero fatto il loro dovere non
saremmo qui114.» È quanto compresero benissimo in quel giorno la
popolazione di Parigi e tutti i rivoluzionari.
Ad ogni modo, appena seppe il risultato della missione di Manuel, il
Comitato di sorveglianza della Comune115, nel pomeriggio del 2
settembre, lanciò il seguente appello: «In nome del popolo.
Compagni, vi si ordina di giudicare tutti i prigionieri dell'Abbaye
senza distinzione, eccettuato l'abate Lenfant, che metterete in
luogo sicuro. Al Municipio, 2 settembre. (Firmato: Panis, Sergent,
amministratori.)
Immediatamente, si creò un tribunale provvisorio, composto di dodici
giurati nominati dal popolo, e l'usciere Maillard, così noto a
Parigi dopo il 14 luglio e il 5 ottobre 1789, ne fu il presidente.
Un tribunale simile fu improvvisato alla Force da due o tre membri
della Comune, e questi due tribunali cercarono di salvare più
prigionieri che fosse possibile. Così Maillard riuscì a salvare
Cazotte, gravemente compromesso (Michelet, lib. VII, cap. V), e de
Sombreuil, noto come nemico dichiarato della Rivoluzione. Egli
riuscì ad ottenere la loro assoluzione, approfittando della presenza
delle loro figliole che s'erano fatte rinchiudere in prigione coi
padri, e anche dell'età avanzata di Sombreuil. Più tardi, in un
documento che Granier de Cassagnac116 ha riprodotto in fac-simile,
Maillard potè dire con fierezza che aveva salvato la vita a
quarantatrè persone. Inutile dire che il «bicchiere di sangue» della
signorina de Sombreuil è un'infame invenzione degli scrittori
realisti. (Vedi Louis Blanc, libro VIII, cap. 2; L. Combes, Episodes
et curiosités révolutionnaires, 1872.)
Anche alla Force vi furono molte assoluzioni; secondo Tallien una
donna sola vi perì, la signora de Lamballe. Ogni liberazione era
salutata dalla folla col grido: «Viva la Nazione!» e colui che
veniva assolto era ricondotto a casa sua da uomini della folla,
fatto segno a simpatie, ma la scorta rifiutava assolutamente di
ricevere denaro dal liberato o dalla famiglia. Si mandarono assolti
dei realisti contro i quali non c'eran fatti «avverati», come il
fratello del ministro Bertrand de Molleville e perfino un acerrimo
nemico della Repubblica, l'austriaco Weber, fratello di latte della
regina. Furono ricondotti in trionfo con gran trasporti di gioia,
fino dai loro parenti ed amici.
Al convento dei Carmelitani, s'era incominciato a incarcerare dei
preti dall'11 agosto, e là si trovava il famoso arcivescovo d'Arles,
accusato d'esser stato la causa del massacro dei patriotti in quella
città. Dovevano esser tutti deportati, quand'ecco sopraggiungere il
2 settembre. Un certo numero d'uomini armati di sciabole irruppe
quel giorno nel convento e uccisero l'arcivescovo d'Arles e, dopo un
giudizio sommario, un numero considerevole di preti che si rifiutava
di prestare giuramento civico. Però, parecchi si salvarono dando la
scalata ad un muro, altri furono salvati, come risulta dal racconto
dell'abate Berthelet de Barbot, da alcuni membri della sezione del
Luxembourg e dagli uomini dalle picche di guardia nella prigione.
I massacri continuarono ancora il 3, e la sera, il Comitato di
sorveglianza della Comune spediva nei dipartimenti, in nome del
ministro della giustizia, una circolare fatta da Marat e nella quale
egli attaccava l'Assemblea, raccontava gli avvenimenti e
raccomandava ai dipartimenti d'imitare Parigi.
Intanto, l'agitazione del popolo andava calmandosi, dice
Saint-Méard, e il 3 verso le otto, si sentirono parecchie voci
gridare: «Grazia, grazia per quelli che restano!» Del resto,
restavano pochi prigionieri politici nelle prigioni. Ma allora
accadde ciò che doveva accadere per forza. A coloro che avevano
attaccato le prigioni per convinzione, si mescolarono altri
elementi, elementi equivoci. Si produsse così ciò che Michelet ha
giustamente chiamato il furore dell'epurazione», il desiderio di
purificare Parigi, non solamente dai cospiratori realisti, ma anche
dai falsi-monetari, dai fabbricanti di falsi assegnati, dai ladri,
perfino dalle donne pubbliche, ch'eran tutte credute realiste! Il 3,
eran già stati massacrati dei ladri al Grand-Châtelet e dei forzati
ai Bernardins, e il 4, una quantità d'uomini si recò per massacrare
alla Salpêtrière, a Bicêtre, perfino alla «Correction» di Bicêtre,
che il popolo avrebbe dovuto rispettare come luogo di sofferenza, di
miseri, come lui, soprattutto, dei ragazzi. Finalmente la Comune
riuscì a por fine a quei massacri, il 4 secondo Maton de la
Varenne.117
In tutto, perirono più di mille persone, di cui 202 preti, 26
guardie reali, una trentina di svizzeri dello stato maggiore, più di
300 prigionieri di diritto comune, tra i quali, quelli racchiusi
alla Conciergerie fabbricavano falsi assegnati. Maton de la Varenne,
che ha dato nella sua Histoire particulière (p. 419-460) una lista
alfabetica degli uccisi nelle giornate di settembre, trova un totale
di 1,086, più tre sconosciuti periti accidentalmente. Su questi
fatti, gli storici realisti hanno intessuto i loro romanzi, parlando
di 8,000 e anche di 12,000 uccisi.118
Tutti gli storici della Grande Rivoluzione, cominciando da Buchez e
Roux, hanno rilevata l'opinione di diversi rivoluzionari noti su
quei massacri, e dalle numerose citazioni da essi pubblicate,
risalta un fatto che colpisce. I Girondini, che più tardi si
servirono delle giornate di settembre per attaccare la Montagna, in
quei frangenti non abbandonarono in nessun modo quella loro
attitudine di «lasciar fare», che rimproverarono più tardi a Danton,
Robespierre, ed alla Comune. Quest'ultima, sola, prese, nel suo
Consiglio generale e nel Comitato di sorveglianza, misure più o meno
efficaci per arrestare i massacri o, almeno, circoscriverli e
legalizzarli, quando s'accorse ch'era impossibile impedirli. Gli
altri agirono mollemente, o credettero di non intervenire e la
maggior parte approvò quando tutto fu fatto. Questo prova fino a che
punto, nonostante il grido d'umanità oltraggiata che si sollevava
sui massacri, tutti capirono ch'essi erano la conseguenza
inevitabile del 10 agosto e della politica losca dei governanti
stessi durante i venti giorni che seguirono la presa delle
Tuileries.
Roland, nella sua lettera del 3 settembre, citata così sovente,
parla dei massacri in termini che ne riconoscono la necessità119 e
per lui l'essenziale è di svolgere la tesi, che diverrà la tesi
favorita dei Girondini: s'era necessario un disordine prima del 10
agosto, ora tutto doveva rientrar nell'ordine. In generale, i
Girondini, come l'hanno detto giustamente Buchez e Roux, «sono
soprattutto preoccupati di sè stessi.», «essi vedono con dispiacere
che il potere esce dalle loro mani e passa in quelle degli
avversari... ma non hanno nessuna ragione di biasimare il movimento
che si compie.... Essi non dissimulano che lui solo può salvare
l'indipendenza nazionale e mettere essi stessi al sicuro contro la
vendetta dell'emigrazione armata120» (p. 397).
I principali giornali, quali il Moniteur, le Révolutions de Paris di
Prud'homme, approvano; mentre gli altri, come gli Annales
patriotiques, e la Chronique de Paris e anche Brissot nel Patriote
français, si limitano a qualche parola fredda e indifferente su
quelle giornate. Quanto alla stampa monarchica, è chiaro che si
precipitò su quei fatti per far circolare durante un secolo i
racconti più fantastici. Non ci occuperemo di contraddirli. Ma c'è
un errore d'apprezzamento che si riscontra anche negli storici
repubblicani e che merita d'esser rilevato.
Il numero degli uomini che uccisero i prigionieri, non oltrepassava
i 300, è vero. Per questo si accusano di viltà tutti gli altri
repubblicani che non cercarono di porvi fine. Niente di più erroneo!
La cifra di 300 o 400 è esatta; ma basterebbe che si leggessero i
racconti di Weber, della signorina de Tourzel, di Maton de la
Varenne, ecc., per vedere che se le uccisioni erano l'opera d'un
numero limitato d'uomini, intorno a ogni prigione, nelle vie
adiacenti, v'era una massa di gente che approvava i massacri e che
avrebbe preso le armi contro chiunque fosse accorso per impedirli.
Del resto, i bollettini delle sezioni, l'attitudine della guardia
nazionale, e anche quella dei rivoluzionari in vedetta, tutto questo
prova come tutti avessero capito che un intervento militare sarebbe
stato segnale d'una guerra civile, la quale, da qualunque parte
avesse arriso la vittoria, avrebbe condotto a massacri più estesi e
terribili di quelli delle prigioni.
Michelet ha detto, e questa parola fu poi ripetuta, che quei
massacri eran stati fatti dalla paura, paura senza fondamento, ma
sempre feroce. Qualche centinaio di realisti di più o di meno in
Parigi non poteva costituire, si disse, un pericolo per la
Rivoluzione. Ma per ragionare così, bisogna disconoscere, mi pare,
la forza della reazione. La maggioranza era per quelle poche
centinaia di realisti, la grande maggioranza della borghesia agiata,
tutta l'aristocrazia, l'Assemblea legislativa, il direttorio del
dipartimento, la maggior parte dei giudici di pace, e l'immensa
maggioranza dei funzionari. Precisamente questa massa compatta
d'elementi opposti alla Rivoluzione aspettava l'avvicinarsi dei
tedeschi per riceverli a braccia aperte e inaugurare, col loro
aiuto, il Terrore contro rivoluzionario, il massacro Nero. Non s'ha
che da ricordare il Terrore Bianco sotto i Borboni, rientrati nel
1814 sotto l'alta protezione delle armate straniere.
V'ha un fatto, del resto, che passa inosservato negli storici; ma
che riassume tutta la situazione e dà la vera ragione del movimento
del 2 settembre, ed è questo: Il mattino del 4, quando più si
massacra, l'Assemblea si decide finalmente, sulla proposta di
Chabot, a pronunciare la parola che s'aspettava da tanto tempo. In
un proclama ai Francesi, essa dichiarava che il rispetto per la
futura Convenzione impediva i suoi membri di prevenire con una loro
risoluzione ciò ch'essi aspettavano dalla nazione francese; ma che,
da quel momento, prestavano come individui quel giuramento che non
potevano prestare come rappresentanti del popolo, ossia: «di
combattere con tutte le forze i re e la monarchia!» Niente re! Mai e
poi mai nè capitolazione, nè re straniero! E appena questo proclama
fu votato, non ostante la restrizione di cui s'è detto, i commissari
dell'Assemblea, che si recarono alle sezioni con quella
dichiarazione, furono subito ricevuti con mille riguardi, e le
sezioni s'incaricarono di porre fine ai massacri.
Però, fu necessario che Marat consigliasse il popolo di massacrare
quei furfanti di realisti dell'Assemblea legislativa e che
Robespierre denunciasse Carra e i Girondini in generale, come
disposti ad accettare un re straniero; abbisognò anche che la Comune
ordinasse perquisizioni in casa di Roland e Brissot, perchè
finalmente il girondino Guadet andasse a portare, solamente il
giorno 4, una lettera nella quale i rappresentanti erano invitati a
giurare di combattere con tutte le forze il re e la monarchia. Se
una dichiarazione recisa di questo genere fosse stata votata
immediatamente dopo il 10 agosto e se Luigi XVI fosse stato
sottoposto a giudizio, i massacri di settembre non avrebbero avuto
luogo. Il popolo avrebbe visto l'impotenza della congiura realista
appena essa non avesse avuto l'appoggio dell'Assemblea, del governo.
Non si dica che i sospetti di Robespierre erano pure visioni.
Condorcet, il vecchio repubblicano, l'unico rappresentante della
Legislativa che si pronunciò per la Repubblica fino dal 1791, pur
ripudiando per conto suo – e solamente per conto suo ogni idea di
desiderare il duca di Brunswick sul trono di Francia, non riconosce
forse nella Chronique de Paris, che gliene avevano parlato qualche
volta?121 Gli è che durante quei giorni d'interregno, molte
candidature furono certamente discusse tra gli uomini politici che
non volevan la Repubblica, come i Foglianti, o che non credevano,
come i Girondini, possibile la vittoria della Francia. Tali
candidature erano: quella del duca d'York, del duca d'Orléans, del
duca di Chartres (candidato di Dumouriez) e anche quella del duca di
Brunswick.
La vera causa della disperazione che dominò il popolo parigino il 2
settembre, risiede appunto in tutte quelle esitazioni, in quella
pusillanimità, nella bassa doppiezza degli uomini ch'erano al
potere.
XXXVI
LA CONVENZIONE – LA COMUNE – I GIACOBINI
Il 21 settembre 1792 s'aprì finalmente la Convenzione,
quell'assemblea così spesso citata come il vero tipo ideale
d'assemblea rivoluzionaria. Le elezioni erano state fatte quasi con
suffragio universale da tutti i cittadini, attivi e passivi; ma
sempre a doppio grado, e cioè tutti i cittadini avevano eletto le
assemblee elettorali e queste avevan poi nominato i deputati della
Convenzione. Evidentemente, questo sistema d'elezioni era favorevole
ai ricchi, ma siccome le elezioni si fecero in settembre,
nell'effervescenza generale prodotta dal trionfo del popolo il 10
agosto, e che molti contro rivoluzionari, terrorizzati dagli
avvenimenti del 2 settembre, preferirono non mostrarsi alle
elezioni, queste riuscirono meno cattive di quel che si poteva
temere. A Parigi, la lista di Marat contenente tutti i rivoluzionari
conosciuti del club dei Cordiglieri e dei Giacobini, passò completa.
1525 «elettori», che si riunirono il 2 settembre stesso nel locale
del club dei Giacobini, scelsero Collot-d'Herbois e Robespierre per
presidente e vice-presidente, esclusero tutti quelli che avevano
firmato le petizioni realiste degli 8,000 e 20,000 e votarono per la
lista di Marat. Eppure l'elemento «moderato» dominava lo stesso, e
Marat scriveva, fin dalla prima seduta, che vedendo la tempra della
maggior parte dei delegati, disperava per la salute pubblica.
Prevedeva che la loro opposizione allo spirito rivoluzionario
avrebbe piombato la Francia in lotte interminabili. «Finiranno col
perdere tutto, diceva, se il piccolo numero dei difensori del
popolo, chiamato a combatterli, non avrà il sopravvento e non
riuscirà a schiacciarli». Tra poco vedremo come avesse ragione.
Ma gli avvenimenti stessi spingevan la Francia verso la Repubblica e
l'entusiasmo popolare fu tale che i moderati della Convenzione non
osarono resistere alla corrente che spazzava via la monarchia. Dalla
sua prima seduta, la Convenzione pronunciò all'unanimità che la
monarchia era abolita in Francia. Abbiamo visto che Marsiglia e
qualche altra città di provincia avevano chiesto la repubblica fino
dal 10 agosto; Parigi l'aveva fatto solennemente dopo il primo
giorno delle elezioni. Il club dei Giacobini s'era risolto, infine,
a dichiararsi repubblicano, e l'aveva fatto nella sua seduta del 27
agosto, dopo la pubblicazione delle carte trovate alle Tuileries in
un forziere. La Convenzione seguì Parigi. Abolì la monarchia nelle
sua prima seduta, il 21 settembre 1792. Il domani, con un secondo
decreto ordinò che, partendo da quel giorno, tutti gli atti pubblici
sarebbero datati dall'Anno primo della Repubblica.
Nella Convenzione si trovavano tre partiti distinti la Montagna, la
Gironda e la Pianura o piuttosto il Marais (pantano). I Girondini
dominavano, benchè fossero meno di duecento. Essi avevan già fornito
al re, nella Legislativa, il ministero Roland e aspiravano alla
reputazione di uomini di Stato. Il partito della Gironda, composto
d'uomini istruiti, eleganti, fini politici, rappresentava
gl'interessi della borghesia industriale, commerciale e possidente,
che si costituiva rapidamente sotto il nuovo regime. Con l'appoggio
del Pantano, i Girondini furono dapprima i più forti, e tra essi fu
scelto il nuovo ministero repubblicano. Danton, solo, nel ministero
arrivato al potere il 10 agosto, aveva rappresentato la rivoluzione
popolare: diede le dimissioni il 21 settembre e il potere restò
nelle mani dei Girondini.
La Montagna, composta di Giacobini, come Robespierre, Saint-Juste e
Couthon, di Cordiglieri, come Danton e Marat, e appoggiata dai
rivoluzionari della Comune, come Chaumette e Hébert, non s'era
ancora costituita come partito politico. Questo fu fatto più tardi,
dagli avvenimenti stessi. Per il momento, essa riuniva quelli che
volevano andare in avanti e ottenere dalla Rivoluzione risultati
concreti, cioè, distruggere la monarchia e il realismo, schiacciare
la forza dell'aristocrazia e del clero, abolire la feudalità, dar
forza alla Repubblica.
La Pianura o il Pantano, finalmente, erano gl'indecisi, senza
convinzioni fisse, ma, per istinto, sempre proprietari e
conservatori, coloro che formano la maggioranza in tutte le
assemblee rappresentative. Erano circa cinquecento alla Convenzione.
Sostennero i Girondini in principio, ma li lasciarono nel momento
del pericolo. La paura farà loro sostenere in seguito il terrore
rosso, con Saint-Just e Robespierre, e, più tardi, faranno il
terrore bianco, quando il colpo di Stato di termidoro avrà mandato
Robespierre al patibolo.
Si poteva credere ormai che la Rivoluzione si sarebbe svolta senza
ostacoli e avrebbe seguito la via naturale, dettata dalla logica
degli avvenimenti. Il processo e la condanna del re, una
costituzione repubblicana che avrebbe sostituita quella del 1791, la
guerra all'ultimo sangue contro gl'invasori, e, nello stesso tempo,
l'abolizione di ciò che faceva la forza dell'antico regime: I
diritti feudali, la potenza del clero, l'organizzazione realista
dell'amministrazione provinciale. L'abolizione di tutti questi
avanzi del passato era imposta dalla situazione.
Ebbene, la borghesia, salita al potere e rappresentata dagli «uomini
di Stato» della Gironda, non ne voleva sapere.
Il popolo aveva tolto dal trono Luigi XVI. Quanto a sbarazzarsi del
traditore che aveva condotto i tedeschi alle porte di Parigi, quanto
a mandar a morte, in una parola, Luigi XVI, la Gironda si opponeva
con tutte le forze. La guerra civile piuttosto di quel passo
decisivo! E non per timore delle vendette dello straniero, poichè
eran stati i Girondini stessi che avevan voluto far guerra a tutta
l'Europa; ma per paura della Rivoluzione del popolo francese, e
specialmente di Parigi rivoluzionaria, che nella morte del re
vedrebbe il principio della vera rivoluzione.
Per fortuna, il popolo di Parigi, nelle sezioni e nella Comune, era
riuscito a costituire, a fianco dell'Assemblea nazionale, un potere
reale che diede corpo alle tendenze rivoluzionarie della popolazione
parigina, e riuscì perfino a dominare la Convenzione. Fermiamoci
dunque un momento, prima di studiare le lotte che lacerarono la
rappresentanza nazionale, e gettiamo uno sguardo retrospettivo sul
modo con cui si costituì questo nuovo potere, la Comune di Parigi.
Abbiamo visto nei capitoli XXIV e XXV, come le sezioni di Parigi
avessero acquistato importanza, quali organi della vita municipale,
appropriandosi, oltre le attribuzioni di polizia e l'elezione dei
giudici che dava loro la legge, diverse funzioni economiche di
massima importanza (l'alimentazione, l'assistenza pubblica, la
vendita dei beni nazionali, ecc.), e come queste funzioni stesse
permettessero alle sezioni d'esercitare una seria influenza nella
discussione delle grandi questioni politiche d'ordine generale.
Divenute organi importanti della vita pubblica, le sezioni cercavano
necessariamente di stabilire un legame federale tra loro, e a
diverse riprese, nel 1790 e 1791, nominarono dei commissari
speciali, a fine d'intendersi con altre sezioni per l'azione comune,
fuori dal Consiglio municipale regolare. Però, non s'era stabilito
nulla di fisso.
Nell'aprile del 1792, quando la guerra fu dichiarata, i lavori delle
sezioni furono aumentati ad un tratto da una quantità
d'attribuzioni. Esse dovettero occuparsi degli arruolamenti, della
scelta dei volontari, dei doni patriottici, dell'equipaggiamento e
dell'approvvigionamento dei battaglioni mandati alla frontiera,
della corrispondenza amministrativa e politica coi battaglioni,
delle cure da prestare alle famiglie dei volontari, ecc., senza
parlare della lotta continua che dovevano sostenere giornalmente
contro le cospirazioni realiste, che venivano ad arrestare i loro
lavori. Con queste nuove funzioni, si faceva sentire sempre più la
necessità di un'unione diretta tra le sezioni.
Oggi, sfogliando la corrispondenza delle sezioni e la loro
contabilità, non si può che ammirare lo spirito di organizzazione
spontanea del popolo di Parigi e l'abnegazione degli uomini di buona
volontà che compivano tutto quel lavoro dopo le loro occupazioni
quotidiane. Da questi fatti s'apprezza la profondità dello spirito
di sacrificio, più che religioso, suscitato dalla Rivoluzione nel
popolo francese. Poichè non bisogna dimenticare che se ogni sezione
nominava i propri comitati militare e civile, era però alle
assemblee generali, tenute di sera, che si discutevano generalmente
tutte le questioni importanti.
Si capisce pure come quegli uomini dovessero odiare i fautori
dell'invasione: il re, la regina, la Corte, gli exnobili e i ricchi,
tutti i ricchi, che facevan causa comune con la Corte, poichè essi
vedevano, e non in teoria, ma sul vivo, gli orrori della guerra e
toccavan con mano le sofferenze imposte al popolo dall'invasione. La
capitale s'associava ai contadini dei dipartimenti di confine nel
loro odio ai partigiani del trono, che avevan chiamato in Francia
gli stranieri. Così, appena fu lanciata l'idea della manifestazione
pacifica del 20 giugno, le sezioni si misero a organizzare quella
dimostrazione, e più tardi, esse stesse prepararono l'attacco alle
Tuileries, il 10 agosto. Nello stesso tempo, approfittando di quei
preparativi, cercavano di costituire la tanto desiderata unione
diretta tra le sezioni in vista dell'azione rivoluzionaria.
Quando si capì chiaramente che la manifestazione del 20 giugno non
aveva ottenuto nessun risultato, – che la Corte non aveva imparato e
non voleva imparare nulla, – le sezioni si presero la responsabilità
dell'iniziativa di domandare all'Assemblea la deposizione di Luigi
XVI. Il 23 luglio, la sezione di Mauconseil fece un decreto in quel
senso, lo notificò all'Assemblea e si mise a preparare una
sollevazione per il 5 agosto. Altre sezioni s'affrettarono a
prendere la stessa risoluzione e quando l'Assemblea, nella seduta
del 4 agosto, denunciò come illegale il decreto dei cittadini di
Mauconseil, esso aveva già ricevuto l'approvazione di quattordici
sezioni. Nello stesso giorno, dei membri della sezione dei
Gravillers andarono a dichiarare all'Assemblea ch'essi lasciavano
ancora ai legislatori «l'onore di salvare la patria». «Ma se
rifiutate, aggiungevano, bisognerà che prendiamo il partito di
salvarci da noi.» La sezione dei Quinze-Vingts dal canto suo
designava «la mattina del 10 agosto come termine estremo della
pazienza popolare», e quella di Mauconseil dichiarava che «avrebbe
pazientato in pace e vigile fino al giovedì seguente (9 agosto) alle
undici di sera, per aspettare la risoluzione dell'Assemblea
nazionale; ma che se il corpo legislativo non avesse fatto giustizia
al popolo, un'ora dopo, a mezzanotte, si batterebbe la generale e
tutti si solleverebbero».122
Finalmente, il 7 agosto, la stessa sezione invitò tutte le altre a
nominarsi ciascuna «sei oratori, meno oratori che buoni cittadini, i
quali riunendosi formerebbero un punto centrale al Municipio»; il
che fu fatto il 9123.
Quando ventotto o trenta sezioni, su quarantotto, ebbero aderito al
movimento, i loro commissari si riunirono nella casa del Comune, in
una sala vicina a quella dove teneva le sedute il Consiglio
municipale regolare – poco numeroso in quel momento – e agirono
rivoluzionariamente, come una nuova Comune. Sospesero
provvisoriamente il Consiglio generale, consegnarono il sindaco
Pétion, annullarono lo stato maggiore dei battaglioni della guardia
nazionale e s'impadronirono di tutti i poteri della Comune, e della
direzione generale dell'insurrezione.124
Così si costituì e s'insediò al palazzo del Comune il nuovo potere
di cui s'è parlato.
Le Tuileries furono prese, il re detronizzato. E immediatamente, la
nuova Comune fece sapere ch'essa vedeva nel 10 agosto non il
compimento della Rivoluzione inaugurata il 14 luglio 1789, ma il
principio d'una nuova rivoluzione popolare e egualitaria. Ella
datava i suoi atti con «l'Anno IV° della Libertà, l'anno 1°
dell'Eguaglianza». Un ammasso di nuovi doveri cominciò subito ad
incombere sulla nuova Comune.
Mentre l'Assemblea legislativa esitava tra le diverse correnti
realiste, costituzionali e repubblicane che la laceravano, e si
mostrava assolutamente incapace d'elevarsi all'altezza degli
avvenimenti; le sezioni di Parigi e la Comune, negli ultimi venti
giorni d'agosto, diventarono il vero cuore della nazione francese
per risvegliare la Francia repubblicana, lanciarla contro i re
coalizzati e d'accordo con altri comuni, portare l'organizzazione
necessaria nel gran movimento dei volontari del 1792. E quando le
esitazioni dell'Assemblea, le velleità realiste della maggior parte
de' suoi membri e il loro odio per la Comune insurrezionale
ridussero il popolo parigino ai furori frenetici delle giornate di
settembre, furono le sezioni e la Comune che portarono la calma
nelle masse. Appena l'Assemblea legislativa risolvette di
pronunciarsi contro la monarchia e i diversi pretendenti al trono, e
fece nota (il 4 settembre) questa sua decisione alle sezioni,
queste, come abbiamo visto, s'unirono subito in federazione per
mettere fine ai massacri che minacciavano d'estendersi dalle
prigioni alle strade, e per rispondere della sicurezza di tutti gli
abitanti.
Quando la Convenzione si riunì, la mattina del 21 settembre, per
decretare l'abolizione della monarchia in Francia, non «osava
pronunciare la parola decisiva» di repubblica e sembrava aspettare
un incoraggiamento dall'esterno»125. La spinta partì anche questa
volta dal popolo di Parigi. Esso accolse il decreto, nella strada,
col grido di Viva la Repubblica! e i cittadini della sezione delle
Quatre-Nations si recarono alla Convenzione per far pressione su di
essa, dichiarandosi felici di pagare col loro sangue «la
Repubblica», la quale però non era ancor stata proclamata e fu
riconosciuta ufficialmente dalla Convenzione soltanto il giorno
seguente.
La Comune di Parigi diventava così una forza che s'imponeva come
l'ispiratrice, se non la rivale, della Convenzione, e l'alleata
della Montagna.
Inoltre, la Montagna aveva per sè un'altra potenza che s'era
costituita durante la Rivoluzione, il club dei Giacobini di Parigi,
colle numerose società popolari di provincia che gli si erano
affiliate. È vero però che questo club non aveva la potenza e
l'iniziativa rivoluzionarie di cui parlano tanti scrittori politici
moderni. Lungi dal governare la Rivoluzione, il club dei Giacobini
non l'ha che seguita. Il suo personale stesso, composto soprattutto
di borghesia agiata, gli impediva di dirigere la Rivoluzione.
In ogni epoca, dice Michelet, i Giacobini s'erano illusi d'essere i
saggi e i politici della Rivoluzione, di tenerne le sorti. Essi non
la dirigevano, ma la seguivano. Lo spirito del club cambiava ad ogni
nuova crisi. Ma il club diveniva immediatamente l'espressione della
tendenza che prendeva, a un dato momento, il sopravvento nella
borghesia istruita, moderatamente democratica. Il club l'appoggiava,
cercando di plasmare l'opinione, in quel dato senso, a Parigi e in
provincia, e forniva i funzionari più importanti al nuovo regime.
Robespierre che, secondo l'espressione giustissima di Michelet,
«rappresentava il giusto mezzo della Montagna», voleva che i
Giacobini «potessero servire da intermediari tra l'Assemblea e la
strada, spaventare e rassicurare la Convenzione». Ma capì che
l'iniziativa sarebbe venuta dalla piazza, dal popolo.
Abbiamo già ricordato che negli avvenimenti del 10 agosto
l'influenza dei Giacobini fu nulla. Rimase nulla anche in settembre
1792: il club era stato disertato. Ma a poco a poco, durante
l'autunno, la società madre di Parigi fu aumentata dai Cordiglieri e
da quel momento il club riprese una strada nuova e diventò il punto
di rannodamento di tutta la parte moderata dei repubblicani
democratici. Marat vi diventò popolare; ma non gli enragés
(arrabbiati), ossia i comunisti, come si direbbe oggi. Il club si
oppose loro, e più tardi li combattè.
Nella primavera del 1793, quando la lotta impegnata dai Girondini
contro la Comune di Parigi giunse al punto critico, i Giacobini
appoggiarono la Comune e i Montagnardi della Convenzione. Li
aiutarono a riportar vittoria sui Girondini e a consolidarla. Per
mezzo della loro corrispondenza con le società affiliate in
provincia, sostennero i rivoluzionari avanzati e li aiutarono a
paralizzare, con l'influenza dei Girondini, anche quella dei
realisti, che li seguivano di nascosto. Ma più tardi, nel 1894, si
schierarono contro i rivoluzionari popolari della Comune,
permettendo così alla reazione borghese di fare il colpo di Stato
del 9 termidoro.
XXXVII
IL GOVERNO. – LOTTE INTESTINE ALLA CONVENZIONE – LA GUERRA
Primo pensiero della Convenzione fu di sapere quale partito
approfitterebbe della vittoria riportata dal popolo sulle Tuileries,
chi governerebbe la Rivoluzione, in una parola, invece di pensare
come dovesse agire contro il re detronizzato. Così s'impegnarono
delle lotte che per otto mesi impedirono lo svolgersi regolare della
Rivoluzione, tennero sospese fino al giugno 1793 le grandi
questioni, fondiarie ed altre, ridussero il popolo a sciupare le
proprie energie, all'indifferenza, a quello stato d'abbattimento che
faceva sanguinare il cuore dei contemporanei e che Michelet sentì
così bene.
Il 10 agosto, dopo aver pronunciato la sospensione del re, la
Legislativa aveva rimesso tutte le funzioni del potere esecutivo
centrale a un Consiglio, composto di sei ministri, scelti fuori di
essa: i Girondini Roland, Servan, Clavière, Monge, Le Brun, e con
essi Danton, che la Rivoluzione aveva elevato al posto di ministro
della giustizia. Questo Consiglio non aveva presidente e i suoi
ministri presiedevano una settimana ciascuno.
La Convenzione confermò quest'ordine di cose; ma Danton, divenuto
l'anima della difesa nazionale e della diplomazia, esercitava
un'influenza preponderante nel Consiglio, e allora fu obbligato
dagli attacchi della Gironda a dare le dimissioni. Lasciò il
ministero il 9 ottobre 1792, e il suo posto fu occupato da Garat,
persona insignificante. Dopo questo fatto, Roland diventò l'uomo più
influente del Consiglio esecutivo. Era ministro dell'Interno e tenne
quel posto fino al gennaio 1793, dimettendosi dopo la morte del re.
A questo posto esercitava tutta la propria influenza e permise ai
Girondini, che si riunirono intorno a lui e a sua moglie, di
spiegare tutta la loro energia per impedire che la Rivoluzione si
svolgesse secondo i grandi tratti che le erano stati indicati dal
1789: il trionfo della democrazia popolare, l'abolizione definitiva
del regime feudale e l'avviamento verso l'agguagliamento delle
ricchezze. Però Danton restò l'ispiratore della diplomazia, e quando
si istituì il Comitato di salute pubblica nell'aprile del 1793, egli
diventò il vero ministro degli affari esteri di quel Comitato126.
La Gironda, arrivata al potere e dominando la Convenzione, non
sapeva però far nulla di positivo. Come disse Michelet, «ella
perorava», ma non faceva nulla. Non aveva l'audacia delle misure
rivoluzionarie, ma non aveva neppure quella dell'aperta reazione. Di
conseguenza, il vero potere, l'iniziativa, l'azione restavano nelle
mani di Danton per la guerra e la diplomazia, e nelle mani della
Comune, delle sezioni, delle società popolari e, in parte, del club
dei Giacobini per le misure rivoluzionarie interne. Incapace
d'agire, la Gironda dirigeva gli attacchi più furiosi contro quelli
che agivano, specialmente contro «il triumvirato» di Danton, Marat e
Robespierre, ch'ella accusava violentemente di tendenze dittatorie.
Vi furono giorni in cui tutti si domandavano se quegli attacchi
stessero per concretarsi; se Danton fosse colpito d'ostracismo e
Marat mandato al patibolo.
Però, siccome le forze della Rivoluzione non erano tutte svanite,
quegli attacchi caddero a vuoto. Essi riuscirono anzi a entusiasmare
il popolo per Marat (specialmente nei sobborghi Saint-Antoine e
Saint-Marceau); aumentarono l'influenza di Robespierre agli occhi
dei Giacobini e della borghesia democratica; e innalzarono Danton
agli occhi di tutti quelli che amavano la Francia repubblicana che
combatteva i re, e vedevano in lui l'uomo d'azione, capace di tener
testa all'invasione, di sventare i complotti realisti internamente e
d'affermare la Repubblica, anche a prezzo della testa e della
propria reputazione politica.
Fin dalle prime sedute della Convenzione, la destra, cioè i
Girondini, riprese quella lotta d'odio contro la Comune di Parigi
che aveva cominciato alla Legislativa dall'11 agosto. Essi
l'attaccano con un odio tale che non ebbero mai neppure per i
cospiratori della Corte, eppure debbono il loro potere
all'insurrezione preparata dalla Comune!
Sarebbe troppo raccontare qui distesamente gli attacchi della
Gironda contro la Comune. Basterà ricordarne qualcuno.
Dapprima s'intimò il rendimento dei conti alla Comune, al suo
Comitato di sorveglianza e a Danton. È chiaro che durante i mesi
d'agosto e di settembre 1792, così pieni d'agitazioni, in
circostanze straordinarie create dal moto del 10 agosto e
dall'invasione straniera, il denaro dovette essere speso da Danton,
l'unico uomo attivo del ministero, senza far tanti conti. E fu
impiegato sia per i negoziati diplomatici che produssero la ritirata
dei prussiani, sia per impadronirsi dei fili del complotto del
marchese della Rouërie in Bretagna e dei principi in Inghilterra e
altrove. Ed è pure evidente che non fu facile di tenere una
contabilità esatta al Comitato di sorveglianza della Comune, il
quale equipaggiava e spediva ogni giorno in gran fretta i volontari
alla frontiera. Ebbene, proprio su questo punto debole, i Girondini
diressero i primi colpi e le loro insinuazioni, esigendo (dal 30
settembre) un completo rendimento di conti. Il potere esecutivo
della Comune (il Comitato di sorveglianza) riuscì a rendere
brillantemente i conti e a giustificare i suoi atti politici127. Ma
quanto alla provincia, si riuscì a suscitare qualche dubbio
sull'onestà di Danton e della Comune, e i Girondini, nelle loro
lettere agli amici e committenti ne tirarono il massimo profitto.
Nello stesso tempo, i Girondini cercarono di dare alla Convenzione
una guardia contro rivoluzionaria. Volevano che il direttorio di
ogni dipartimento (i direttori, come si sa, erano reazionari)
mandasse a Parigi quattro uomini di fanteria e due a cavallo, – in
tutto 4,470 uomini, – per salvaguardare la Convenzione contro i
possibili attacchi del popolo di Parigi e della sua Comune. Per
resistere a questo voto ed impedire la formazione di questa guardia
contro rivoluzionaria a Parigi, fu necessaria una forte agitazione
delle sezioni, che nominarono dei commissari speciali e minacciarono
una nuova insurrezione.
I Girondini non cessarono soprattutto di rammentare i massacri di
settembre, per attaccare Danton che in quei giorni s'era mostrato a
fianco della Comune e delle sezioni. Dopo aver «steso un velo» su
quei giorni e averli quasi giustificati per bocca di Roland (cap.
XXXV), come prima avevan giustificato i massacri della Glacière a
Lione per mezzo di Barbaroux128; ora tanto dissero e tanto fecero
alla Convenzione che il 20 gennaio 1793 ottenevano delle procedure
contro gli autori dei massacri di settembre. Essi speravano di
vedervi crollare la reputazione di Danton, Robespierre, Marat e
della Comune.
A poco a poco, approfittando della corrente costituzionalista e
realista che si formava nella borghesia dopo il 10 agosto, i
Girondini riuscirono a creare in provincia un sentimento ostile a
Parigi, alla Comune e a tutto il partito montagnardo.
Parecchi dipartimenti mandarono perfino dei distaccamenti di
federati per difendere la Convenzione contro «gli agitatori avidi di
tribunato e di dittatura», Danton, Marat, Robespierre, e contro il
popolo parigino. All'appello di Barbaroux, Marsiglia – questa volta
la Marsiglia «commerciante» mandò a Parigi nell'ottobre 1792, un
battaglione dì federati, formato da giovani ricchi della città
mercantile, che percorrevano le vie domandando le teste di
Robespierre e Marat. Eran quelli i precursori della reazione di
termidoro; ma per fortuna il popolo parigino sventò quel piano
guadagnando quei federati alla causa della Rivoluzione.
Intanto i Girondini non mancavano d'attaccare direttamente la
rappresentanza federale delle sezioni di Parigi. Volevano annientare
ad ogni costo la Comune insurrezionale del 10 agosto, e ottennero,
verso la fine di novembre, delle nuove elezioni per il Consiglio
generale della municipalità parigina. Pétion, il sindaco girondino,
dava le dimissioni nello stesso momento. Però, anche questa volta le
sezioni riuscirono a rendere vane quelle manovre. Non solamente i
Montagnardi ebbero la maggioranza di voti nelle elezioni, ma si
nominò procuratore della Comune Chaumette, un rivoluzionario dei più
avanzati e popolari, e divenne suo sostituto Hébert, redattore del
Père Duchesne (2 dicembre 1792). Pétion, che non rispondeva più ai
sentimenti rivoluzionari del popolo parigino, non fu rieletto e
Chambon, moderato, prese il suo posto restandovi due mesi soli. Il
14 febbraio 1793 veniva sostituito da Pache.
In tal modo si costituì la Comune rivoluzionaria del 1793, la Comune
di Pache, Chaumette e Hébert, che fu rivale della Convenzione ed
ebbe una parte così potente nell'espulsione dei Girondini il 31
maggio 1793. Essa spinse avanti ardentemente la rivoluzione
popolare, egualitaria, antireligiosa e qualche volta comunista
dell'anno II° della Repubblica.
La questione più importante del momento era la guerra. Lo
svolgimento ulteriore della Rivoluzione dipendeva dalle vittorie
riportate dall'armata.
Abbiamo visto che i rivoluzionari avanzati, come Marat e
Robespierre, non volevano la guerra. Ma la Corte, per salvare il
despotismo reale, invocava l'invasione tedesca; i preti e i nobili
vi brigavano per riconquistare i vecchi privilegi; i governi vicini
vi scorgevano un mezzo per combattere lo spirito rivoluzionario che
già si svegliava nei loro dominii e nello stesso tempo coglievan
l'occasione di strappare alla Francia delle provincie e delle
colonie. D'altra parte, i Girondini desideravano la guerra, vedendo
in essa il solo mezzo di limitare l'autorità del re senza far
appello alla sollevazione popolare. «Voi volete fare la guerra,
perchè non volete far appello al popolo», diceva loro Marat, e aveva
ragione.
I contadini dei dipartimenti di frontiera, vedendo i soldati
tedeschi, condotti dagli emigrati, ammassarsi sul Reno e nei Paesi
Bassi, capivano che bisognava difendere a mano armata i loro diritti
sulle terre che avevano riprese ai nobili e al clero. Così, quando
la guerra fu dichiarata all'Austria, il 20 aprile 1792, un
entusiasmo immenso scoppiò nelle popolazioni dei dipartimenti vicini
alla frontiera dell'Est. Le leve di volontari, per un anno, furono
fatte immediatamente al canto del Ça ira! e i doni patriottici
affluirono da ogni parte. Ma nelle regioni dell'Ovest e del
Sud-Ovest, non fu lo stesso. Là, le popolazioni non volevano la
guerra.
Del resto, non c'era nulla di pronto per la guerra. Le forze della
Francia (non più di 130,000 uomini, dispersi dal mare del Nord alla
Svizzera, male in arnese e comandati da ufficiali e da stati
maggiori realisti) non eran certo bastanti per resistere
all'invasione.
Dumouriez e Lafayette concepirono dapprima il piano ardito
d'invadere il Belgio, che aveva già cercato nel 1790 di staccarsi
dall'Austria; ma era stato dominato con le armi. I liberali belga
chiamavano i francesi. Ma il colpo non riuscì e da quel momento i
generali francesi si tennero sulla difensiva, tanto più che la
Prussia s'era unita all'Austria e ai principi di Germania per
invadere la Francia e che questa coalizione era fortemente sostenuta
dalla Corte di Torino e appoggiata segretamente dalle Corti di
Pietroburgo e di Londra.
Il 26 luglio 1792, il duca di Brunswick che comandava un esercito
d'invasione di 70,000 prussiani e di 68,000 austriaci, assiani ed
emigrati, si metteva in marcia da Coblenza, lanciando un manifesto
che sollevò l'indignazione di tutta la Francia. Prometteva di
mettere a fuoco tutte le città che osassero difendersi e di
sterminare gli abitanti come ribelli. Parigi, se solamente osasse
forzare il palazzo del re, subirebbe un'esecuzione militare, di cui
la memoria e l'esempio sarebbero eterni.
Tre armate tedesche dovevano entrare in Francia e dirigersi verso
Parigi. Il 19 agosto, l'armata prussiana passava la frontiera e
s'impadroniva, senza combattere, di Longwy e Verdun.
Abbiamo visto l'entusiasmo che la Comune seppe provocare a Parigi
quando si seppero queste notizie e come essa rispose facendo fondere
i sarcofaghi di piombo dei ricchi per farne dei proiettili e le
campane e gli oggetti in bronzo per farne dei cannoni, mentre i
templi si trasformavano in vasti cantieri, ove migliaia di persone
cucivano le divise dei volontari, cantando il Ça ira! e l'inno
potente di Rouget de l'Isle.
Gli emigrati avevano fatto credere ai re coalizzati che avrebbero
trovato la Francia pronta a riceverli a braccia aperte. Ma il
contegno francamente ostile dei contadini e le giornate di settembre
a Parigi fecero riflettere gl'invasori. Gli abitanti delle città e
dei dipartimenti dell'Est capivano bene che il nemico era venuto per
spogliarli delle loro conquiste. E fu soprattutto, come s'è visto,
nelle regioni dell'Est che la sollevazione delle città e campagne
riuscì meglio ad abbattere la feudalità.
Ma non bastava l'entusiasmo per vincere. L'armata prussiana
s'avanzava e, unita a quella austriaca, entrava già nella foresta
delle Argonne, che si stende su una lunghezza di undici leghe,
separando la valle della Mosa dalla Sciampagna pouilleuse.129
L'esercito di Dumouriez cercò d'arrestarvi l'invasione con delle
marcie forzate; ma inutilmente. Esso riuscì invece a occupare in
tempo una posizione favorevole, a Valmy, presso l'uscita della
grande foresta. Qui i prussiani subirono, il 20 settembre, la loro
prima sconfitta, cercando d'impadronirsi delle colline occupate dai
soldati di Dumouriez. In queste condizioni, la battaglia di Valmy fu
una vittoria importante – la prima vittoria dei popoli sui re – e fu
salutata come tale da Goethe che accompagnava l'esercito del duca di
Brunswick.
L'esercito prussiano, arrestato in principio nelle foreste delle
Argonne da pioggie torrenziali e mancando di tutto nelle aride
pianure che si stendevano davanti ad esso, era in preda alla
dissenteria che ne faceva strage. Le strade erano impraticabili, i
contadini in agguato – tutto faceva presagire una campagna
disastrosa.
Allora Danton negoziò col duca di Brunswick la ritirata dei
prussiani. Non si sa ancora quali ne fossero le condizioni. Danton
ha forse promesso, com'è stato affermato, di far il possibile per
salvare la vita di Luigi XVI? Può darsi. Ma se questa promessa fu
fatta, vi furono certo delle condizioni, e noi non sappiamo quali
impegni si assunsero gl'invasori in compenso, oltre la ritirata dei
prussiani. Fu forse promessa la ritirata simultanea degli austriaci?
Si parlò d'una rinuncia formale da parte di Luigi XVI al trono di
Francia? Noi possiamo fare soltanto delle congetture.
Il fatto è che il 1° ottobre il duca di Brunswick incominciò a
ritirarsi, per Grand-Pré e Verdun. Verso la fine del mese, ripassava
il Reno a Coblenza, accompagnato dalle maledizioni degli emigrati.
Dumouriez, dopo aver dato a Westermarin l'ordine di «ricondurre
cortesemente» i prussiani, senza incalzarli troppo, andò l'11
ottobre a Parigi, evidentemente per studiare il terreno e
determinare la sua linea di condotta. Egli fece in modo di non
prestar giuramento alla Repubblica, ma questo non gl'impedì d'essere
ben ricevuto dai Giacobini, e da quel momento si mise senza dubbio
ad appoggiare la candidatura del duca di Chartres al trono di
Francia.
Si paralizzò anche l'insurrezione preparata in Bretagna dal marchese
della Rouërie, la quale doveva scoppiare mentre i tedeschi
marciavano su Parigi. Fu denunciata a Danton, che riuscì ad
impadronirsi di tutti i fili di essa, tanto in Bretagna quanto a
Londra. Ma Londra restava il centro delle cospirazioni dei principi
e l'isola di Jersey fu il centro degli armamenti realisti
nell'intenzione di uno sbarco, che si proponevano di fare sulle
coste della Bretagna, per impadronirsi di Saint-Malo e dare agli
inglesi questo porto militare e mercantile di così grande
importanza.
Nello stesso tempo, l'esercito del Sud, comandato da Montesquiou,
entrava in Savoia, proprio il giorno dell'apertura della
Convenzione. S'impadronì di Chambéry quattro giorni dopo, e portò la
rivoluzione dei contadini in quella provincia.
Alla fine del mese di settembre, un esercito della Repubblica,
comandato da Lauzun e Custine, passava il Reno e s'impadroniva di
Spira presa d'assalto (30 settembre). Worms si arrendeva quattro
giorni più tardi, e il 23 ottobre, Magonza e Francoforte sul Meno
erano occupate dalle armate dei sanculotti.
Al Nord, le vittorie si susseguivano. Verso la fine d'ottobre, i
soldati di Dumouriez entravano nel Belgio e il 6 novembre
riportavano una grande vittoria sugli austriaci a Jemmapes, nei
dintorni di Mons. Dumouriez aveva fatto in modo che questa vittoria
rendesse evidente il valore del figlio del duca di Chartres,
sacrificando a questo fine due battaglioni di volontari parigini.
Tale vittoria apriva il Belgio all'invasione francese. Mons era
stata occupata l'8, e il 14, Dumouriez entrava in Bruxelles. Il
popolo ricevette i soldati della Repubblica a braccia aperte.
Esso aspettava da quei soldati l'iniziativa d'una serie di misure
rivoluzionarie, specialmente concernenti la proprietà fondiaria. Era
pure tale l'opinione dei Montagnardi, – di Cambon almeno. Egli aveva
organizzato l'immensa operazione della vendita dei beni del clero
come garanzia degli assegnati, e in quel momento stava organizzando
la vendita dei beni degli emigrati, così non domandava di meglio
d'applicare lo stesso sistema nel Belgio. Ma la Rivoluzione che
avrebbe potuto rendere solidali i belga e i francesi non riuscì; sia
che i Montagnardi avessero mancato d'audacia, assaliti com'erano dai
Girondini per la loro mancanza di rispetto verso la proprietà; sia
perchè le idee della Rivoluzione non trovassero l'appoggio
necessario nel Belgio, dove i proletari soli eran loro favorevoli,
mentre la borghesia agiata e la potenza formidabile dei preti le
avversavano.
Tanti successi e tante vittorie rendevano arditi i fautori della
guerra, e i Girondini trionfavano. Il 15 dicembre, la Convenzione
lanciò un decreto nel quale sfidava tutte le monarchie e dichiarava
che la pace non verrebbe conclusa con nessuna potenza, finchè
l'armata straniera non fosse stata respinta dal territorio della
Repubblica. Però, la situazione internamente si presentava sotto un
aspetto piuttosto oscuro, e esternamente, le vittorie stesse della
Repubblica contribuivano a suggellare l'unione tra le monarchie.
L'invasione del Belgio determinò la linea di condotta
dell'Inghilterra.
Il risveglio delle idee repubblicane e comuniste fra gli inglesi,
che si concretò con la fondazione delle società repubblicane e trovò
nel 1793 la sua espressione letteraria nella notevole opera
comunista-libertaria di Godwin (Della giustizia politica), aveva
ispirato ai repubblicani francesi, specialmente a Danton, la
speranza di trovare appoggio in un movimento rivoluzionario
inglese130. Ma gl'interessi industriali e mercantili furono i più
forti nelle Isole Britanniche. E quando la Francia repubblicana
invase il Belgio e s'accampò nella valle della Schelda e del Reno,
minacciando d'impadronirsi anche dell'Olanda, la politica inglese fu
risolta.
Togliere le sue colonie alla Francia, distruggerne la potenza
marittima, arrestarne lo sviluppo industriale e l'espansione
coloniale, tale fu la politica che unì la maggioranza in
Inghilterra. Il partito di Fox fu schiacciato, e quello di Pitt
trionfò. Da quel momento, l'Inghilterra forte della sua flotta e del
denaro con cui sovvenzionava le potenze continentali, comprese la
Russia, la Prussia e l'Austria, andò a capo della coalizzazione
europea e vi rimase per un quarto di secolo. Era dunque la guerra
tra le due rivali che si dividevano i mari, la guerra fino
all'estremo. Queste guerre forzarono la Francia a ricorrere alla
dittatura militare.
Finalmente, se Parigi, minacciata dall'invasione, fu presa da
sublime slancio e accorse ad unirsi ai volontari dei dipartimenti
orientali, fu però la guerra stessa che diede il primo impulso alla
sollevazione della Vandea. Fornì ai preti l'occasione di sfruttare
la ripugnanza di quella popolazione a lasciare i propri luoghi, per
andare a combattere chi sa dove, alla frontiera. Essa ajutò a
risvegliare il fanatismo dei vandeani e a sollevarli nel momento in
cui i tedeschi entravano in Francia. Si vide più tardi quanto male
fece alla Rivoluzione questa rivolta.
E se si fosse trattato solo della Vandea! Dappertutto la guerra creò
uno stato di cose tanto orribile per la maggior parte dei poveri,
che ci si domanda come mai la Repubblica sia riuscita ad
attraversare una crisi così formidabile.
Il raccolto del 1792 fu buono pei grani e mediocre soltanto, in
causa delle piogge, pei grani piccoli. L'esportazione dei cereali
era proibita, eppure si aveva la carestia! Nelle città non ne avevan
vista una così terribile da molto tempo. Lunghe file di uomini e di
donne assediavano le panetterie e le macellerie, passando tutta la
notte sotto la neve e la pioggia, senz'essere sicuri di rincasare il
domani con una pagnotta pagata a prezzo esorbitante. E questo
accadeva in un momento in cui le industrie eran quasi tutte ferme, e
il lavoro mancava.
Gli è che non si può togliere impunemente a una nazione di
venticinque milioni d'abitanti, quasi un milione d'uomini nel fior
degli anni e, forse, un mezzo milione di bestie da tiro, per i
bisogni della guerra, senza che la produzione agricola ne soffra. E
non si abbandonano le derrate d'una nazione allo spreco inevitabile
delle guerre, senza che le strettezze dei miseri diventino sempre
più dolorose, mentre una quantità di speculatori s'arricchisce a
spese del tesoro pubblico131.
Tutte quelle questioni vitali s'accavallavano tempestosamente in
seno d'ogni società popolare delle provincie, d'ogni sezione delle
grandi città, per salire di là alla Convenzione. E sopra a tutte,
s'elevava la questione capitale, alla quale tante altre venivano a
congiungersi: «Cosa si farebbe del re?»
XXXVIII
IL PROCESSO DEL RE
I due mesi trascorsi dall'apertura della Convenzione fino al
processo del re sono ancora un enigma per la storia.
La prima questione che si doveva imporre alla Convenzione appena
riunita, era certamente quella di sapere come si sarebbe agito verso
il re e la sua famiglia imprigionati al Tempio. Era impossibile
tenerli là per un tempo indefinito, finchè l'invasione fosse
respinta e una costituzione repubblicana votata e accettata dal
popolo. Come la Repubblica avrebbe potuto fissarsi mentre teneva
nelle sue prigioni un re e il suo erede legittimo, senza osare
d'agire contro di loro?
Inoltre, divenuti semplici privati che, tolti dalla reggia,
abitavano in famiglia una prigione, Luigi XVI, Maria Antonietta e i
loro figlioli apparivano come dei martiri interessanti, per i quali
i realisti s'entusiasmavano e sui quali s'impietosivano i borghesi e
perfino i sanculotti che montavano la guardia al Tempio.
Simile situazione non poteva durare. Eppure passarono quasi due
mesi, durante i quali la Convenzione discusse su ogni sorta di cose,
senza affrontare la prima conseguenza del 10 agosto – la sorte del
re. Questo ritardo, a nostro parere, doveva essere voluto, e noi
possiamo spiegarlo solo ammettendo che si era, in quel momento, in
trattative colle corti europee, trattative che non sono ancor state
divulgate, ma che riguardavano certo l'invasione e dalla riuscita
delle quali doveva dipendere la piega che avrebbe presa la guerra.
Si sa già che Danton e Dumouriez avevano avuto dei colloqui col
comandante dell'armata prussiana, per farlo risolvere a separarsi
dagli austriaci ed a operare la propria ritirata. Si sa pure che una
delle condizioni imposte dal duca di Brunswick (probabilmente non
accettata) fu quella di non portare la mano su Luigi XVI. Ma vi
doveva essere qualche cosa di più. Simili negoziati furono
probabilmente impegnati anche con l'Inghilterra. E come spiegarsi il
silenzio della Convenzione e la pazienza delle sezioni, senza
ammettere che la Montagna e la Gironda erano d'intesa?
Eppure, per noi oggi è evidente che non potevano riuscire trattative
di quel genere, e questo per due ragioni. La sorte di Luigi XVI e
della sua famiglia non interessava abbastanza il re di Prussia, nè
quello d'Inghilterra, e neppure il fratello di Maria Antonietta,
l'imperatore d'Austria, per sacrificare gl'interessi politici
nazionali agl'interessi personali dei prigionieri del Tempio. Ciò
riesce evidente dalle trattative che ebbero luogo più tardi riguardo
alla liberazione di Maria Antonietta e della signora Elisabeth. E
d'altra parte, i re coalizzati non trovarono in Francia, nella
classe istruita, l'unità di sentimenti repubblicani che potesse far
svanire la loro folle speranza di ristabilire la monarchia.
Trovarono invece gl'intellettuali della borghesia molto disposti ad
accettare sia il duca d'Orleans (gran maestro della Massoneria, alla
quale appartenevano tutti i rivoluzionari più in vista), sia suo
figlio, il duca di Chartres, il futuro Luigi Filippo, sia lo stesso
Delfino.
Ma il popolo s'impazientiva. Le società popolari in tutta la Francia
domandavano che il processo del re non fosse più differito, e il 19
ottobre, la Comune fece noto questo voto di Parigi davanti alla
Convenzione. Finalmente, il 3 novembre, si ebbe un primo passo. Fu
letto un rapporto per domandare che si mettesse in istato d'accusa
Luigi XVI, e i principali capi d'accusa furono formulati il domani.
Il 13, s'aprì la discussione su questo soggetto. Però, la cosa
sarebbe andata ancora per le lunghe se, il 20 novembre, il fabbro
Gamain, che aveva insegnato a far serrature a Luigi XVI, non fosse
andato a denunciare a Roland l'esistenza alle Tuileries d'un armadio
segreto per racchiudervi delle carte, posto in un muro da Gamain
stesso e dal re.
Il fatto è noto. Un giorno, nell'agosto 1792, il re fece venire
Gamain da Versailles perchè l'aiutasse a porre in un muro dietro un
arazzo, una porta di ferro che lui stesso aveva fatta per chiudere
una specie d'armadio segreto. Quando il lavoro fu finito, Gamain
ripartì durante la notte per Versailles, dopo aver bevuto un
bicchier di vino e mangiato un biscotto offertigli dalla regina.
Egli cadde in cammino, preso di colica violenta, e, da quel momento,
fu sempre malato. Credendosi avvelenato – o forse spintovi dalla
paura – denunciò a Roland l'esistenza dell'armadio. Roland, senza
avvertire nessuno, s'impadronì immediatamente delle carte che vi
trovò, le portò a casa, le esaminò con sua moglie e, dopo avervi
apposto il suo sigillo, le portò alla Convenzione.
Si capisce quale profonda sensazione dovesse produrre quella
scoperta, soprattutto quando si seppe da quelle carte che il re
aveva pagato i servizi di Mirabeau, che i suoi agenti gli avevano
proposto di comprare undici membri influenti della Legislativa (si
sapeva già che Barnave e Lameth erano stati guadagnati alla sua
causa), e che Luigi XVI continuava a pagare alcune sue guardie
licenziate, passate al servizio de' suoi fratelli di Coblenza e che
marciavano ora con gli austriaci contro la Francia.
Soltanto oggi che abbiamo in mano tanti documenti comprovanti il
tradimento di Luigi XVI, e possiamo vedere quali forze s'opponessero
alla sua condanna, comprendiamo come fu difficile per la Rivoluzione
di condannare e uccidere il re. Tutto quanto v'era di pregiudizio,
di servilità aperta e latente nella società, di timore per le
fortune da parte dei ricchi e di diffidenza verso il popolo, tutto
si riunì per arrestare il processo. La Gironda, fedele specchio di
questi timori, fece di tutto per impedire dapprima che il processo
avesse luogo, poi perchè esso finisse con una condanna di morte e,
infine, perchè la pena fosse applicata132. Parigi dovette minacciare
la Convenzione d'un'insurrezione per forzarla a pronunciare il suo
giudizio nel processo cominciato e a non rimandarne l'esecuzione. E
fino ad oggi, quanti paroloni, quante lagrime negli storici quando
parlano del processo!
Eppure, di che si trattava? Se un generale qualunque avesse fatto
ciò che fece Luigi XVI per chiamare l'invasione straniera e
appoggiarla, quale storico moderno (gli storici sono tutti difensori
della «ragione di Stato») avrebbe esitato un sol momento a domandare
la morte di quel generale? Ma allora perchè tanti lamenti quando il
traditore era il comandante di tutti gli eserciti?
Secondo tutte le tradizioni e tutti gli artifici che servono ai
nostri storici e ai nostri giuristi per stabilire i diritti del
«capo dello Stato», la Convenzione era il sovrano in quel momento. A
lei, ed a lei sola apparteneva di giudicare il sovrano che il popolo
aveva detronizzato, come a lei sola apparteneva il diritto di
legislazione sfuggito dalle sue mani. Giudicato dalla Convenzione,
Luigi XVI era – secondo il loro linguaggio – giudicato da' suoi
pari. E questi, avendo acquistato la certezza morale del suo
tradimento, non avevano certo da scegliere. Dovevano pronunciare la
morte. Non si trattava più di clemenza, poichè scorreva sangue alla
frontiera. Anche i re congiurati lo sapevano e lo capivano
benissimo.
Quanto alla teoria svolta da Robespierre e da Saint-Just secondo la
quale la Repubblica aveva il diritto di uccidere in Luigi XVI il
proprio nemico, Marat ebbe perfettamente ragione di protestare.
Questo avrebbe potuto farsi durante la lotta del 10 agosto, o
immediatamente dopo, ma non tre mesi dopo il combattimento. Ora,
restava soltanto da giudicare Luigi XVI, con tutta la pubblicità
possibile, affinchè i popoli e la posterità potessero giudicare da
se stessi tanta impostura e tanto gesuitismo.
Per ciò che riguarda il fatto d'alto tradimento dalla parte di Luigi
XVI e di sua moglie, noi che possediamo la corrispondenza di Maria
Antonietta con Fersen e le lettere di costui a diverse persone,
dobbiamo riconoscere che la Convenzione giudicò bene, anche non
avendo le prove schiaccianti che possediamo oggi. Ma essa aveva
tanti fatti accumulati nello scorcio dei tre ultimi anni, tante
confessioni sfuggite ai realisti e alla regina, tanti atti di Luigi
XVI dopo la fuga a Varennes, i quali, sebbene amnistiati dalla
Costituzione del 1791, servivano però a spiegare i suoi atti
ulteriori, – che tutti ebbero la certezza morale del suo tradimento.
Nessuno contestò il fatto del tradimento, neppure tra quelli che
cercarono di salvare Luigi XVI. E neanche il popolo di Parigi ebbe
qualche dubbio a questo proposito.
In realtà, il tradimento cominciò con la lettera che Luigi XVI
scrisse all'imperatore d'Austria, lo stesso giorno in cui giurò la
Costituzione, nel settembre 1791, fra le acclamazioni entusiastiche
della borghesia parigina. Segue poi la corrispondenza di Maria
Antonietta con Fersen, interamente fatta col consenso del re. Non
v'ha nulla dì più odioso di questa corrispondenza. Dal fondo delle
Tuileries, i due traditori, la regina e il re, chiamavano
l'invasione, la preparavano, le tracciavano il cammino, la
informavano delle forze e dei piani militari. Maria Antonietta, con
la mano delicata e abile, prepara l'entrata trionfale in Parigi
degli alleati tedeschi e il massacro in massa dei rivoluzionari. Il
popolo aveva ben compresa quella ch'egli chiamava «la Medici» e che
gli storici oggi vogliono considerare come una povera stordita133.
Legalmente, non si ha dunque nulla da rimproverare alla Convenzione.
Per sapere poi se la morte del re non ha fatto più male di quel che
avrebbe potuto generare la di lui presenza tra i soldati tedeschi e
inglesi, non v'è che un'osservazione da fare. Fin che il potere
reale fosse considerato dai possidenti e dai preti (e lo è ancora)
come il miglior mezzo di tenere in briglia quelli che vogliono
spodestare i ricchi ed abbassare la potenza dei preti, il re, morto
o vivo, prigioniero o libero, decapitato e canonizzato, oppure
cavaliere errante vicino ad altri re, sarebbe sempre stato l'oggetto
d'una leggenda commovente propagata dal clero e da tutti
gl'interessati.
Invece, mandando Luigi XVI al patibolo, la Rivoluzione finiva di
distruggere un principio che i contadini avevano cominciato a
distruggere a Varennes. Il 21 gennaio 1793, la parte rivoluzionaria
del popolo francese comprese perfettamente che era finalmente
distrutto il perno di tutta la forza che, per dei secoli, aveva
oppresso e sfruttato le masse. La demolizione di quella potente
organizzazione che schiacciava il popolo, cominciava; la sua arca
era infranta, e la rivoluzione popolare prendeva un nuovo slancio.
Da quel momento, la monarchia di diritto divino non ha mai più
potuto ristabilirsi in Francia, neppure con l'appoggio dell'Europa
coalizzata, neppur con l'aiuto dello spaventevole Terrore Bianco
della Restaurazione. E non sono mai riescite nemmeno le monarchie
nate dalle barricate o da un colpo di Stato, come s'è ben visto nel
1848 e nel 1870. Uccidere la superstizione della monarchia, è un non
lieve guadagno pel popolo.
I Girondini però fecero il possibile per impedire la condanna del
re. Essi invocarono tutti gli argomenti giuridici, e ricorsero a
tutte le astuzie parlamentari. Vi furori perfino dei momenti in cui
il processo del re stava per trasformarsi in un processo dei
Montagnardi. Ma nulla valse. La logica della situazione trionfò sui
cavilli della tattica parlamentare.
Si parlò dapprima dell'inviolabilità del re stabilita dalla
Costituzione; ma a questo si rispose vittoriosamente che
l'inviolabilità non esisteva più da quando il re tradiva e la
Costituzione e la patria.
Fu domandato in seguito un tribunale speciale, formato da
rappresentanti degli 83 dipartimenti, e quando fu evidente che la
proposta sarebbe stata respinta, i Girondini vollero che il giudizio
fosse sottomesso alla ratificazione dei 36,000 comuni e delle
assemblee primarie, con appello nominale di ogni cittadino, ma
questo significava rimettere in discussione i risultati del 10
agosto e la Repubblica.
Quando fu evidente l'impossibilità di scaricare il processo sulle
spalle delle assemblee primarie, i Girondini stessi, che avevano
tanto appoggiato e raccomandato la guerra a oltranza contro tutta
l'Europa, sì preoccuparono dell'effetto che avrebbe prodotto su
tutta l'Europa la morte di Luigi XVI. Come se l'Inghilterra, la
Prussia, l'Austria, la Sardegna avessero atteso la morte di Luigi
XVI per coalizzarsi nel 1792! Come se la Repubblica democratica non
fosse loro abbastanza odiosa; se l'attrattiva dei grandi porti
commerciali della Francia, delle sue colonie e delle provincie
dell'Est non bastasse per coalizzare i re contro di essa, affine di
approfittare del momento in cui la creazione d'una nuova società
poteva forse diminuire la sua forza di resistenza esteriore!
Respinti anche su questo punto dalla Montagna, i Girondini fecero
allora una diversione assalendo la Montagna stessa e domandando che
si processassero «i fautori delle giornate di settembre,» intendendo
parlare di Danton, Marat e Robespierre, «i dittatori», il
«triunvirato».
Intanto, tra quei dibattiti, la Convenzione aveva risolto, il 3
dicembre, che giudicherebbe lei stessa il re; ma appena questa
risoluzione fu presa, il Girondino Ducos tentava una diversione, per
ricominciare tutta la discussione. Col domandare la pena di morte
per «chiunque proporrà di ristabilire in Francia i re o la
monarchia, sotto qual si voglia dominazione», la Gironda lanciava
contro i Montagnardi un'insinuazione la quale significava che questi
cercavano d'innalzare al trono il duca d'Orléans. Si cercava di
sostituire così al processo del re quello contro la Montagna.
Finalmente, l'11 dicembre, Luigi XVI comparve davanti alla
Convenzione. Fu sottomesso a un interrogatorio, e le sue risposte
fecero certamente cadere le ultime simpatie che esistevano ancora
per lui. Michelet si domanda se un uomo può mentire come mentiva
Luigi. E non riesce a spiegarsi tanta furfanteria, che pel fatto
d'avere Luigi XVI subìto tutta la tradizione dei re e l'influenza
dei gesuiti, in modo da ispirargli l'idea che la ragione di Stato
permette tutto a un re.
L'impressione prodotta da questo interrogatorio dovette essere così
brutta, che i Girondini, comprendendo che sarebbe stato impossibile
salvare il re, fecero una nuova diversione domandando l'espulsione
del duca d'Orléans. La Convenzione si lasciò ingannare e votò
l'espulsione, ma revocò tale decisione il giorno seguente, dopo la
disapprovazione del club dei Giacobini.
Il processo però seguiva già il suo corso. Il 26 dicembre, Luigi XVI
comparve una seconda volta davanti alla Convenzione coi suoi
avvocati, Malesherbes, Tronchet e Desèze; si ascoltò la sua difesa,
e fu evidente che sarebbe stato condannato. Non c'era più mezzo
d'interpretare i suoi atti come errori di giudizio o come
storditezze. Si trattava di tradimento cosciente e scaltro, come
disse il domani Saint-Just.
Se la Convenzione e il popolo parigino potevano così farsi
un'opinione precisa su Luigi XVI, – come uomo e come re – si capisce
che non poteva essere la stessa cosa per le città e i villaggi in
provincia. S'indovina quale burrasca di passioni si sarebbe
scatenata se il voto della pena fosse stato rinviato alle assemblee
primarie. La maggior parte dei rivoluzionari era alla frontiera,
dunque si sarebbe lasciato la decisione come dice Robespierre (28
dicembre), «ai ricchi, amici naturali della monarchia, agli egoisti,
agli uomini vili e deboli, a tutti i borghesi orgogliosi e
aristocratici, tutti uomini nati per strisciare e per opprimere
sotto un re».
Non si potranno mai chiarire tutti gl'intrighi che si fecero in quel
momento a Parigi tra «gli uomini di Stato». Basti dire che, il 1°
gennaio 1793, Dumouriez era accorso a Parigi e che vi restò fino al
26 occupato in trattative clandestine con le diverse frazioni,
mentre Danton restava fino al 14 gennaio all'armata di Dumouriez134.
Il 14, finalmente, dopo una discussione molto tumultuosa, la
Convenzione decise di votare, per appello nominale, su tre punti: se
Luigi XVI era colpevole di «cospirazione contro la libertà della
nazione e d'attentato contro la sicurezza generale dello Stato»; se
il giudizio sarebbe sottomesso alla sanzione del popolo, e quale
sarebbe la pena.
L'appello nominale cominciò il domani, il 15. Su 749 membri della
Convenzione, 716 dichiararono colpevole il re (12 membri erano
assenti per malattia o in missione, 5 s'astennero dalla votazione).
Nessuno disse no. L'appello al popolo fu respinto con 423 voti su
709 votanti. Parigi intanto, specialmente i sobborghi, era in uno
stato di profonda eccitazione.
L'appello nominale sul terzo punto – la pena – durò venticinque ore
di seguito. E qui ancora una volta, forse per consiglio
dell'ambasciata di Spagna e, fors'anche, per mezzo delle sue
piastre, un deputato, Mailhe, cercò d'intricare le cose votando un
rinvio dell'esecuzione e il suo esempio fu seguito da 26 membri. Per
la pena di morte senza condizioni si ebbero 387 voti su 721 votanti
(12 assenti e 5 astensioni). La condanna fu così pronunciata con una
maggioranza di soli 53 voti – di 26 voti appena non contando i voti
condizionali con rinvio. E questo accadeva in un momento in cui era
evidente che il re aveva tramato dei tradimenti e che il lasciarlo
vivere sarebbe stato come armare la metà della Francia contro
l'altra, dare una buona parte della repubblica agli stranieri e,
infine, arrestare la Rivoluzione quando, dopo tre anni di burrasche,
durante i quali non s'era fatto nulla di durevole, s'offriva
l'occasione di affrontare le grandi questioni che agitavano il
paese!
Ma i timori della borghesia erano così grandi, che il giorno
dell'esecuzione della condanna essa s'aspettava un massacro
generale.
Il 21 gennaio 1793, Luigi XVI moriva sul patibolo. Non esisteva più
uno dei principali ostacoli ad ogni rigenerazione sociale della
Repubblica. Luigi XVI aveva sperato fino all'ultimo momento, a
quanto pare, d'essere liberato da una sollevazione, e, difatti, era
stato preparato un tentativo per rapirlo lungo la strada. La
vigilanza della Comune lo fece andare a vuoto.
XXXIX
MONTAGNA E GIRONDA
Dal 10 agosto, la Comune di Parigi datava i suoi atti con «l'anno
IV° della Libertà e I° dell'Eguaglianza». La Convenzione datava i
suoi con «l'anno IV° della Libertà e l'anno I° della Repubblica
Francese». Da questo piccolo particolare si scorgono già le due
concezioni.
Una nuova rivoluzione s'innesterà sulla precedente? Oppure, si
finirà soltanto di stabilire e legalizzare le libertà politiche
avute fino dal 1789, contentandosi di consolidare il governo della
borghesia, alquanto democratizzato, senza neppure chiamare la massa
del popolo a godere dell'immenso cambiamento delle ricchezze
compiuto dalla Rivoluzione?
Come si vede, sono due concezioni perfettamente diverse e sono
rappresentate alla Convenzione dalla Montagna e dalla Gironda.
Da una parte si trovano coloro i quali capiscono che per distruggere
l'antico regime feudale, non basta di scriverne un principio
d'abolizione nelle leggi; che per finirla col regime assoluto, non
basta detronizzare un re, issare l'emblema della Repubblica sugli
edifici, e metterne il nome in testa agli atti ufficiali. Essi
capiscono che tutto ciò non è che un principio d'esecuzione, la sola
creazione di condizioni che permetteranno, forse, di rifare le
istituzioni. Coloro che capiscono così la Rivoluzione, sono
appoggiati da tutti quelli i quali vogliono che la grande massa
della popolazione esca finalmente dall'orribile miseria, profonda e
degradante, in cui l'antico regime l'aveva immersa. Essi cercano,
procurano di scoprire nelle lezioni date dalla Rivoluzione i mezzi
per rialzare la massa, fisicamente e moralmente. La grande quantità
di poveri a cui la Rivoluzione ha aperto gli occhi è con loro.
Dall'altra parte si trovano i Girondini – partito formidabile per il
numero. I Girondini non sono soltanto i duecento membri raggruppati
intorno a Vergniaud, Brissot e Roland. È un'immensa parte della
Francia: quasi tutta la borghesia agiata; tutti i costituzionali,
resi repubblicani dalla forza degli avvenimenti; ma che temono la
Repubblica, perchè hanno paura della dominazione delle masse. E,
dietro questi, pronti a sostenerli, in attesa del momento di
schiacciarli a profitto della monarchia, si trovano tutti coloro che
tremano per le loro ricchezze e per i loro privilegi, tutti quelli
che la Rivoluzione ha colpiti e che invocano l'antico regime.
Insomma, oggi si vede chiaramente che non solamente la Pianura, ma i
tre quarti dei Girondini erano realisti come i Foglianti. Poichè, se
alcuni dei loro capi sognavano una specie di repubblica antica,
senza re, ma con un popolo docile alle leggi fatte per i ricchi e le
persone istruite, la maggior parte accettava benissimo la monarchia.
Essi l'hanno dimostrato chiaramente, diventando così buoni compari
dei realisti dopo il colpo di Stato di termidoro.
Tutto questo, d'altronde, si spiega facilmente, poichè l'essenziale
per essi era di stabilire il regime borghese, il quale si costituiva
allora, nell'industria e nel commercio, sugli avanzi del feudalismo,
– «il mantenimento delle proprietà», come Brissot si compiaceva di
dire.
Da ciò nasceva il loro odio per il popolo e il loro amore per
«l'ordine».
Ciò che importava ai Girondini era d'impedire lo scatenarsi del
popolo, di costituire un governo forte e far rispettare le
proprietà. Non avendo capito questo carattere fondamentale del
«girondismo», gli storici hanno cercato tante altre circostanze
secondarie per spiegare la lotta che s'impegnò tra la Montagna e la
Gironda.
Quando vediamo i Girondini «ripudiare la legge agraria», rifiutare
di riconoscere l'eguaglianza come principio della legislazione
repubblicana» e «giurare di rispettare le proprietà», possiamo
trovare tutto ciò un po' astratto. Ma anche le nostre formole
attuali, «l'abolizione dello Stato», o «l'espropriazione»,
sembreranno esse pure astratte tra cento anni. Eppure, ai tempi
della Repubblica, quelle formule avevano un senso preciso.
Respingere la legge agraria, significava allora respingere i
tentativi di rimettere il suolo nelle mani di coloro che lo
coltivavano. Era respingere l'idea, molto popolare tra i
rivoluzionari usciti dal popolo, che nessuna proprietà, nessuna
masseria dovesse avere più di 120 jugeri (circa 40 ettari); che ogni
cittadino avendo diritto alla terra, bisognava confiscare le
proprietà degli emigrati e del clero e le grandi proprietà dei
ricchi, per dividerle tra i coltivatori poveri che non possedevano
nulla.
«Giurare il rispetto delle proprietà», era respingere la ripresa, da
parte dei comuni rurali, delle terre che eran loro state tolte per
due secoli, in virtù dell'ordinanza reale del 1669; era opporsi
all'abolizione dei diritti feudali senza riscatto, in favore dei
signori e dei recenti compratori borghesi.
Infine, era come combattere ogni tentativo di prelevare sui ricchi
commercianti un'imposta progressiva; era far cadere i gravi pesi
della guerra e della rivoluzione sui poveri.
La formola astratta aveva un significato ben preciso, come si vede.
Ebbene, a proposito di tutte queste questioni la Montagna ebbe da
sostenere una lotta accanita contro i Girondini, tanto che fu ben
presto costretta a far appello al popolo, all'insurrezione, fu
forzata a espellere i Girondini dalla Convenzione, a fine di poter
fare i primi passi nella via indicata.
Per il momento, questo «rispetto delle proprietà» s'affermava presso
i Girondini fino nelle più piccole cose, al punto di fare iscrivere:
Libertà, Uguaglianza, Proprietà, ai piedi di certe statue che
venivano portate in giro in una festa; fino ad abbracciare Danton,
quand'egli disse nella prima seduta della Convenzione: «Dichiariamo
che tutte le proprietà, territoriali, individuali e industriali,
saranno eternamente rispettate». A queste parole, il Girondino
Kersaint gli saltò al collo, dicendo: «Mi pento d'avervi chiamato
«fazioso» stamane». Ciò significava: «Poichè voi promettete di
rispettare le proprietà borghesi, dimentichiamo la vostra
responsabilità nei massacri di settembre!»
Mentre i Girondini volevano organizzare così la repubblica borghese
e porre le basi dell'arricchimento della borghesia, sul modello dato
dall'Inghilterra dopo la sua rivoluzione del 1648, i Montagnardi o,
almeno, il gruppo dei Montagnardi che trionfò per un momento della
frazione moderata, rappresentata da Robespierre, abbozzava a larghi
tratti le fondamenta d'una società socialista. Questo non spiaccia a
certi nostri contemporanei che reclamano, a torto, il vanto d'averla
inventata. Essi volevano, dapprima, abolire fino alle sue ultime
traccie la feudalità, poi pareggiare le proprietà fondiarie, dare la
terra a tutti, anche ai più poveri coltivatori, organizzare la
distribuzione nazionale dei prodotti di prima necessità, stimati al
loro giusto valore e, per mezzo delle imposte, impiegate come armi
di combattimento, fare guerra a oltranza al «commerciantismo», a
quella razza di ricchi incettatori, banchieri, commercianti, capi
d'industrie, che s'andava già moltiplicando nelle città.
Proclamavano nelle stesso tempo, dal 1793, il diritto «all'agiatezza
universale», l'agiatezza per tutti della quale più tardi i
socialisti hanno fatto «il diritto al lavoro». Questo era stato già
detto nel 1789 (27 agosto), ed era stato messo nella Costituzione
del 1791. Ma anche i più avanzati Girondini erano troppo imbevuti
della loro educazione borghese per capire quel diritto all'agiatezza
universale, che implicava il diritto di tutti alla terra e una
riorganizzazione completa, liberata dall'aggiotaggio, della
distribuzione dei prodotti necessari all'esistenza.
In generale, i Girondini erano descritti dai loro contemporanei come
«un partito d'uomini astuti, sottili, intriganti e soprattutto
ambiziosi»; leggeri, parolai, battaglieri, ma dominati dalle
abitudini del Foro (Michelet). «Essi vogliono la Repubblica», diceva
Couthon, «ma vogliono l'aristocrazia». Mostravano molta sensibilità,
ma una sensibilità, diceva Robespierre, che geme quasi
esclusivamente pei nemici della libertà.»
Sentivan della ripugnanza per il popolo, ne avevan paura.135
Nel momento in cui si riuniva la Convenzione, nessuno si rendeva ben
conto dell'abisso che separava i Girondini dai Montagnardi. Non si
scorgeva che un disaccordo personale tra Brissot e Robespierre. La
signora Jullien, per esempio, una vera Montagnarda di sentimento, fa
appello, nelle sue lettere, ai due rivali per far cessare le lotte
fratricide. Ma era già una lotta tra due principii opposti: il
partito dell'ordine e quello della Rivoluzione.
In un'epoca di lotta, al popolo piace di personificare ogni
conflitto in due rivali, e più tardi gli storici fanno lo stesso.
Questo è più breve, più comodo nella conversazione e sa maggiormente
di «romanzo», di «dramma». Ecco perchè la lotta tra i due partiti fu
spesso rappresentata come il cozzo di due ambizioni, quella di
Brissot e quella di Robespierre. Come sempre, i due eroi nei quali
il popolo ha personificato il conflitto sono ben scelti. Essi sono
tipici. Ma, in realtà, Robespierre non fu così egualitario ne' suoi
principii come lo fu la Montagna al momento della caduta dei
Girondini. Egli apparteneva al gruppo moderato. Nel marzo e nel
maggio del 1793 egli comprese, senza dubbio, che se voleva il
trionfo della Rivoluzione cominciata, non doveva separarsi da quelli
che domandavano delle misure d'espropriazione. Ed è quanto fece,
ghigliottinando però più tardi l'ala sinistra, gli Hebertisti, e
schiacciando gli «Enragés» (arrabbiati). Brissot, dall'altra parte,
non fu sempre un difensore dell'ordine. Ma i due uomini
personificavano benissimo i due partiti, non ostante qualche
sfumatura.
Doveva necessariamente impegnarsi una lotta a morte tra il partito
dell'ordine borghese e quello della rivoluzione popolare.
I Girondini, arrivati al potere, volevano che tutto rientrasse
nell'ordine, che la rivoluzione, col suo modo di procedere
rivoluzionario, cessasse appena ebbero il timone dello Stato. Non
più tumulti nelle vie, tutto sarebbe fatto dietro ordine dei
ministri, nominati da un parlamento docile.
Quanto ai Montagnardi, volevano che la Rivoluzione finisse con dei
cambiamenti che modificassero realmente la situazione della Francia;
quella dei contadini (più di due terzi della popolazione), e quella
dei poveri delle città; dei cambiamenti che renderebbero impossibile
il ritorno verso un passato monarchico feudale.
Un giorno, forse, dopo uno o due anni, la Rivoluzione si calmerebbe;
il popolo, sfinito, rientrerebbe nei suoi tuguri; ritornerebbero gli
emigrati; i preti e i nobili avrebbero il sopravvento. Ebbene,
bisognava che in quel momento essi trovassero tutto cambiato in
Francia. La terra in altre mani, già bagnata dal sudore del nuovo
possessore, onde questi non si sentisse un intruso, ma fosse
convinto del suo diritto di tracciare dei solchi su questa terra e
di mieterla. Tutta la Francia trasformata nei costumi, nelle
abitudini, nel linguaggio, una terra in cui ciascuno si considerasse
pari di chicchessia, poichè maneggia l'aratro, la vanga, uno
strumento da lavoro. Per questo, bisognava che la Rivoluzione
continuasse, dovesse anche passare sul corpo della maggior parte di
coloro che il popolo aveva nominati suoi rappresentanti, mandandoli
alla Convenzione.
Doveva essere necessariamente una lotta a morte. Poichè, non bisogna
dimenticarlo, i Girondini, uomini d'ordine, di governo,
consideravano però il tribunale rivoluzionario e la ghigliottina
come i più efficaci ordigni di governo.
Fino dal 24 ottobre 1792, quando Brissot lanciò il primo libello,
nel quale domandava un colpo di Stato contro «i disorganizzatori»,
«gli anarchici» e «la rupe Tarpea,» per Robespierre136; già dal
giorno (29 ottobre) in cui Louvet pronunciava il suo discorso
d'accusa, nel quale domandava la testa di Robespierre, i Girondini
sospendevano la mannaia sulle teste «dei livellatori, dei fautori di
disordine, degli anarchici», che avevano avuto l'audacia di
schierarsi col popolo di Parigi e la sua Comune rivoluzionaria137.
E da quel giorno, i Girondini non cessarono di far il possibile per
mandare i Montagnardi alla ghigliottina. Il 21 marzo 1793, quando si
apprese la disfatta di Dumouriez a Neerwinden e che Marat accusò di
tradimento quel generale, amico dei Girondini, poco mancò che questi
lo conciassero male alla Convenzione; egli si salvò solo grazie alla
sua fredda audacia. Tre settimane più tardi (12 aprile), essi
ritornano alla carica e finiscono con ottenere dalla Convenzione che
Marat sia mandato davanti al tribunale rivoluzionario. Sei settimane
dopo (24 maggio) fu la volta d'Hébert, il sostituto della Comune, di
Varlet, il predicatore operaio socialista, e d'altri «anarchici». Li
fecero arrestare sperando di poterli mandare alla ghigliottina. In
poche parole: è una campagna in regola per gettare i Montagnardi
fuori della Convenzione, precipitarli dalla «rupe Tarpea».
I Girondini organizzano dappertutto dei comitati contro
rivoluzionari; essi fanno arrivare continuamente alla Convenzione
delle petizioni provenienti da persone che si qualificavano «amici
delle leggi e della libertà». Oggi si sa ciò che significava! Essi
scrivono delle lettere in provincia, piene di fiele, contro la
Montagna e soprattutto contro la popolazione rivoluzionaria di
Parigi. E mentre i «Convenzionali» in missione fanno l'impossibile
per respingere l'invasione e per sollevare il popolo con
l'applicazione di misure egualitarie, i Girondini vi si oppongono
dappertutto con le loro lettere. Essi arrivano al punto d'impedire
che si raccolgano le informazioni necessarie sui beni degli
emigrati.
Molto prima dell'arresto di Hébert, Brissot nel suo Patriote
français fa una campagna a morte contro i rivoluzionari. I Girondini
domandano – insistono – per ottenere la dispersione della Comune
rivoluzionaria di Parigi. Arrivano perfino a domandare lo
scioglimento della Convenzione e l'elezione d'una nuova assemblea,
nella quale nessuno degli antichi membri non possa entrare; e
nominano infine la Commissione dei Dodici che spia il momento per un
colpo di Stato col quale mandare la Montagna al patibolo.
XL
SPORZI DEI GIRONDINI PER ARRESTARE LA RIVOLUZIONE
Fin che si trattò di rovesciare il regime della vecchia monarchia
assoluta, i Girondini furono in prima fila. E come avrebbero potuto
accontentarsi dell'antico regime, essi così focosi, intrepidi,
poeti, imbevuti d'ammirazione per le repubbliche dell'antichità e,
nello stesso tempo, avidi di potere?
Mentre i contadini bruciavano i castelli e i registri dei canoni,
mentre il popolo demoliva i resti della servitù feudale, essi si
preoccupavano soprattutto di fissare le nuove forme politiche del
governo. Si vedevano già saliti al potere, padroni delle sorti della
Francia, per lanciare degli eserciti a portare la Libertà nel mondo
intero.
E del pane per il popolo, si davano forse pensiero? È certo che non
si rendevan conto della forza di resistenza dell'antico regime e che
l'idea di fare appello al popolo per vincerla era ben lungi da loro.
Il popolo doveva pagare le imposte, fare le elezioni, fornire
soldati allo Stato; ma il fare e distruggere le forme politiche di
governo, doveva essere opera dei pensatori, di quelli che governano,
degli uomini di Stato.
Così, quando il re ebbe chiamato in aiuto i tedeschi e che questi
s'avvicinavano a Parigi, i Girondini che avevano voluto la guerra
per sbarazzarsi della Corte, rifiutavano di fare appello al popolo
rivoltato per respingere l'invasione e scacciare i traditori dalle
Tuileries. Anche dopo il 10 agosto, l'idea di respingere lo
straniero con la Rivoluzione sembrava loro così odiosa che Roland
convocò gli uomini in vista – Danton, ecc. – per parlar loro del suo
piano. Questo consisteva nel trasportare l'Assemblea e il re
prigioniero a Blois dapprima, poi nel mezzogiorno, abbandonando così
il nord all'invasione e costituendo una piccola repubblica in
qualche angolo della Gironda.
Il popolo, lo slancio rivoluzionario del popolo che salvò la
Francia, non esisteva per essi. Restavano dei burocratici.
In generale, i Girondini furono i rappresentanti fedeli della
borghesia.
Mano mano che il popolo si faceva più ardito, e, reclamando
l'imposta sui ricchi e l'agguagliamento delle ricchezze, domandava
l'eguaglianza, come condizione necessaria della libertà, – la
borghesia pensava ch'era tempo di separarsi dal popolo, di ridurlo
all'«ordine».
I Girondini seguirono quella corrente.
Arrivati al potere, quei rivoluzionari borghesi, che fino a quel
momento s'erano dati alla Rivoluzione, si separarono dal popolo. Lo
sforzo del popolo, che cercava di costituire i propri organi
politici nelle sezioni di Parigi e le Società popolari in tutta la
Francia, il suo desiderio di spingersi innanzi nella via
dell'Eguaglianza, furono agli occhi loro un pericolo per tutta la
classe proprietaria, un delitto.
E da quel momento, i Girondini risolvettero d'arrestare la
Rivoluzione: di stabilire un governo forte e di sottomettere il
popolo, con qualunque mezzo, anche con la ghigliottina.
Per capire il gran dramma della Rivoluzione che finì con
l'insurrezione di Parigi il 31 maggio e con «l'epurazione» della
Convenzione, bisogna leggere i Girondini stessi; e più specialmente
i libelli di Brissot: J.-P. Brissot à ses commettants (23 maggio
1793), e A tous les Républicains de France (24 ottobre 1792).
«Io credetti, arrivando alla Convenzione – dice Brissot – che poichè
la monarchia era annientata, poichè tutti i poteri erano tra le mani
del popolo o de' suoi rappresentanti, i patriotti dovessero cambiare
di strada a seconda delle modificazioni della loro situazione.
«Io credetti che il movimento insurrezionale dovesse cessare, poichè
quando non c'è più tirannia da abbattere, non vi deve neppur più
essere forza nell'insurrezione». (J.-P. Brissot à ses commettants,
p. 7).
«Credetti, dice più avanti Brissot, che l'ordine solo potesse
procurare la calma; che l'ordine consistesse nel religioso rispetto
per le leggi, per i magistrati, per la sicurezza individuale.....
Credetti per conseguenza che l'ordine fosse una vera misura
rivoluzionaria.... Credetti dunque che i veri nemici del popolo e
della repubblica fossero gli anarchici, i predicatori della legge
agraria, gli eccitatori di sedizioni». (P. 8 e 9 dello stesso
libello).
Venti anarchici, dice Brissot, hanno usurpato nella Convenzione
un'influenza che la ragione sola doveva avere. «Seguite i dibattiti,
vi vedrete, da una parte, uomini costantemente preoccupati per far
rispettare le leggi, le autorità, le proprietà; dall'altra, uomini
continuamente occupati a tenere il popolo in agitazione, a
screditare con delle calunnie le autorità costituite, a proteggere
l'impunità del delitto e a sciogliere tutti i legami della società»
(p. 13).
È vero che quelli chiamati «anarchici» da Brissot comprendevano
elementi svariati. Ma avevano un'idea in comune: non consideravano
finita la Rivoluzione, e agivano in conseguenza.
Sapevano che la Convenzione non farebbe nulla senza esservi forzata
dal popolo e per questa ragione organizzavano la sollevazione
popolare. A Parigi, proclamavano sovrana la Comune, e cercavano di
stabilire l'unità nazionale, non col mezzo d'un governo centrale, ma
coi rapporti diretti stabiliti tra la municipalità e le sezioni di
Parigi e i 36,000 comuni di Francia.
Ed è precisamente ciò che i Girondini non volevano ammettere.
«Ho annunciato, dice Brissot, dal principio della Convenzione, che
v'era in Francia un partito di disorganizzatori, che tendeva a
dissolvere la Repubblica appena creata.... Ora sono a provarvi: 1°
che questo partito d'anarchici ha dominato e domina quasi tutte le
deliberazioni della Convenzione e le operazioni del Consiglio
esecutivo; 2° che questo partito è stato, ed è ancora l'unica causa
di tutti i mali, interni ed esterni, che affliggono la Francia; 3°
che si può salvare la Repubblica solo prendendo un provvedimento
rigoroso per strappare i rappresentanti della nazione al dispotismo
di quella fazione.»
Per chiunque conosce il carattere dell'epoca, questo linguaggio è
abbastanza chiaro. Brissot domandava semplicemente la ghigliottina
per quelli che chiamava anarchici e che, volendo continuare la
Rivoluzione e compiere l'abolizione dell'ordine feudale, impedivano
i borghesi e specialmente i Girondini di fare tranquillamente il
comodaccio loro di borghesi alla Convenzione.
«Bisogna dunque ben definire questa anarchia», dice il
rappresentante girondino, ed ecco la sua definizione:
«Delle leggi senza esecuzione, delle autorità senza forza e
avvilite, il delitto impunito, le proprietà attaccate, la sicurezza
degli individui violata, la morale del popolo corrotta; nè
costituzione, nè governo, nè giustizia; ecco i tratti dell'anarchia!
Ma non è precisamente così che si son fatte tutte le rivoluzioni?
Come se Brissot stesso non lo sapesse e non l'avesse praticato prima
d'arrivare al potere! Per tre anni, dal maggio 1789 fino al 10
agosto 1792, si dovette pur avvilire l'autorità del re e farne una
«autorità senza forza», a fine di poterla rovesciare il 10 agosto.
Solamente, Brissot voleva che la Rivoluzione, arrivata a quel punto,
cessasse nel giorno stesso.
Appena la monarchia fu rovesciata e la Convenzione diventata potere
supremo, «qualsiasi movimento insurrezionale doveva cessare», egli
dice.
Ciò che ripugnava soprattutto ai Girondini era la tendenza della
Rivoluzione verso l'eguaglianza – la tendenza che dominava nella
rivoluzione a quell'epoca, come l'ha ben descritto Faguet138.
Brissot non può perdonare al Club dei Giacobini d'aver preso il nome
– non d'Amici della Repubblica, ma «quello d'Amici della Libertà e
dell'Uguaglianza, dell'uguaglianza soprattutto!» Non perdona agli
«anarchici» d'aver ispirato le petizioni «di quegli operai del campo
militare di Parigi, che si chiamavano la nazione, e che volevano
fissare la loro indennità secondo quella dei deputati!» (p. 29).
«I disorganizzatori», dice altrove, «sono coloro che vogliono
livellare tutto, le proprietà, l'agiatezza, il prezzo delle derrate,
dei diversi servizi resi alla società, ecc.; che vogliono per
l'operaio del campo l'indennità d'un legislatore; che vogliono
uguagliare perfino le intelligenze, il sapere, le virtù, perchè essi
non hanno nulla di tutto ciò.» (Libello del 24 ottobre 1792)
XLI
GLI «ANARCHICI»
Ma chi son dunque questi anarchici di cui Brissot parla tanto e dei
quali domanda lo sterminio con tale accanimento?
Prima di tutto bisogna sapere che gli anarchici non sono un partito.
Alla Convenzione vi sono i Girondini, la Montagna, la Pianura o
meglio il Pantano (Marais), il Ventre, come si diceva allora; ma non
vi sono «anarchici». Danton, Marat e anche Robespierre, o qualsiasi
altro Giacobino, possono qualche volta camminar di pari passo con
gli anarchici; ma questi sono fuori della Convenzione. Sono – è
necessario dirlo – al disopra di essa: la dominano.
Sono rivoluzionari sparsi per tutta la Francia. Si son dati alla
Rivoluzione corpo ed anima; ne capiscono le necessità, l'amano e
combattono per lei.
Molti di essi si raggruppano intorno alla Comune di Parigi, perchè è
ancora rivoluzionaria; un certo numero appartiene al club dei
Cordiglieri, alcuni altri frequentano il club dei Giacobini. Ma il
loro vero posto è la sezione, e specialmente la strada. Alla
Convenzione, si vedono nelle tribune di dove dirigono i dibattiti.
Il loro mezzo d'azione è l'opinione del popolo, non «l'opinione
pubblica» della borghesia. La loro vera arma è l'insurrezione. Con
essa esercitano un'influenza sui deputati e il potere esecutivo.
E quando è necessario uno sforzo, infiammare il popolo e marciare
con lui contro le Tuileries – sono essi che preparano l'attacco e
combattono nelle prime file.
Il giorno in cui lo slancio del popolo sarà spossato, essi
rientreranno nell'oscurità. Solamente i libelli, riboccanti di
fiele, dei loro avversari, ci permetteranno di riconoscere l'immensa
opera rivoluzionaria che compirono.
Le loro idee sono chiare, recise.
La Repubblica? – Certo! – L'eguaglianza davanti alla legge? –
D'accordo! – Ma non basta, anzi...
Servirsi della libertà politica per ottenere la libertà economica,
come lo raccomandano i borghesi? Sanno che ciò non si può fare.
Così essi vogliono la cosa in sè stessa, LA TERRA PER TUTTI – quella
che si chiamò allora la «legge agraria». Vogliono l'eguaglianza
economica, o per esprimerci col linguaggio di quel tempo, «il
livellamento delle ricchezze».
Ma sentiamo che dice Brissot:
«Sono essi che... hanno diviso la società in due classi, quella che
possiede e quella che non ha nulla – quella dei sanculotti e quella
dei proprietari; essi le hanno spinte l'una contro l'altra».
«Sono essi», continua Brissot, «che, sotto il nome di sezioni, non
hanno mai smesso di stancare la Convenzione con petizioni per
fissare il prezzo massimo del grano.
Essi mandano «gli emissari che predicano dappertutto la guerra dei
sanculotti contro i proprietari»; son essi che predicano «la
necessità di livellare le ricchezze».
Hanno provocato anche «la petizione di quei dieci mila uomini che si
dichiaravano in istato d'insurrezione, se non si tassava il grano»,
e che provocavano insurrezioni per tutta la Francia.
Ecco i loro delitti. Dividere la nazione in due classi – quella che
possiede e quella che non ha nulla. Aizzarle l'una contro l'altra.
Reclamare del pane – soprattutto del pane per coloro che lavorano.
Che grande colpa era la loro! Chi dei dotti socialisti del
diciannovesimo secolo ha saputo inventare qualche cosa di meglio
della domanda dei nostri antenati del 1793: «Del pane per tutti?»
Assai più parole oggi; ma minore azione!
Quanto ai loro metodi per mettere ìn esecuzione le loro idee,
eccoli:
«La molteplicità dei delitti», dice Brissot, «è prodotta
dall'impunità; l'impunità, dalla paralisi dei tribunali; e gli
anarchici proteggono quest'impunità, paralizzano tutti i tribunali,
sia col terrore, sia con delle denunce ed accuse d'aristocrazia.».
«Gli attentati contro le proprietà e la sicurezza pubblica si
ripetono dappertutto, – gli anarchici di Parigi ne danno l'esempio
ogni giorno. I loro emissari particolari e i loro emissari decorati
del titolo di commissari della Convenzione predicano in ogni luogo
questa violazione dei diritti dell'uomo.»
Poi Brissot rileva «le eterne declamazioni degli anarchici contro i
proprietari o mercanti, che designano sotto il nome d'incettatori».
Parla di «proprietari designati continuamente al pugnale dei
briganti»; dell'odio che gli anarchici hanno per qualsiasi
funzionario di Stato. Appena un uomo occupa un posto, diventa odioso
all'anarchico, sembra colpevole.» Ed a ragione, diciamo noi.
Ma è soprattutto interessante di vedere Brissot enumerare i vantaggi
dell'«ordine». Bisogna leggere questo passo per capire ciò che la
borghesia girondina avrebbe dato al popolo francese, se gli
«anarchici non avessero spinto avanti la Rivoluzione.
«Osservate», dice Brissot, a i dipartimenti che hanno saputo
incatenare il furore di quegli uomini; osservate, per esempio, il
dipartimento della Gironda. L'ordine vi ha sempre regnato; il popolo
s'è sottomesso alla legge, sebbene pagasse il pane fino a dieci
soldi alla libbra... Ma in quel dipartimento sono stati banditi i
predicatori della legge agraria; i cittadini hanno murato quel club
dove s'insegna... ecc.» (il club dei Giacobini).
E questo veniva scritto due mesi dopo il 10 agosto, quando anche i
più ciechi non potevan mancare di capire che se in tutta la Francia
il popolo si fosse sottomesso alla legge, sebbene pagasse il pane
fino a dieci soldi la libbra», non vi sarebbe stata la Rivoluzione e
la monarchia e il feudalismo, che Brissot si dava l'aria di
combattere, avrebbero regnato forse ancora un secolo, come in
Russia139.
Bisogna leggere Brissot per capire tutto ciò che i borghesi d'allora
preparavano per la Francia, e ciò che i brissotini del ventesimo
secolo preparano ancora dappertutto dove sta per scoppiare una
rivoluzione.
«I torbidi dell'Eure, dell'Orne, ecc.», dice Brissot, «sono stati
causati dalle predicazioni contro i ricchi, contro gl'incettatori,
dai sermoni sediziosi sulla necessità di tassare a mano armata i
grani e tutte le derrate.
E a proposito d'Orléans: «Questa città godeva dal principio della
Rivoluzione d'una tranquillità che non era stata alterata neppure
dai torbidi risvegliati altrove dalla penuria di grani, sebbene in
essa vi fosse il deposito... Tale armonia tra i poveri e i ricchi
non era nei principii dell'anarchia; e uno di quegli uomini che si
disperano dell'ordine e il cui unico scopo è il torbido, s'affretta
a rompere quella buona concordia, eccitando i sanculotti contro i
proprietari.»
L'anarchia creò anche il potere rivoluzionario nell'armata», esclama
Brissot. «Chi può ora dubitare del male spaventoso che ha prodotto
nelle nostre milizie questa dottrina anarchica, la quale, sotto
forma d'uguaglianza dei diritti, vuol stabilire un'uguaglianza
universale, E DI FATTO; flagello della società, come l'altra ne è il
sostegno? Dottrina anarchica che vuol livellare ingegno e ignoranza,
virtù e vizi, posti, compensi, servigi.»
Oh! ecco ciò che i brissotini non perdoneranno mai agli anarchici:
l'eguaglianza di diritto – pazienza! Purchè non sia mai di fatto!
Così, Brissot non trova parole per esprimere la propria collera
contro gli sterratori del campo militare di Parigi, i quali
domandarono un giorno che il loro salario e lo stipendio dei
deputati fossero uguali! Brissot e lo sterratore messi allo stesso
livello! E non di diritto soltanto, ma di fatto! Miserabili!
Come avevano potuto riuscire gli anarchici a esercitare un potere
così grande, in modo da dominare perfino la terribile Convenzione,
da dettarle le proprie risoluzioni?
Brissot ce lo racconta ne' suoi libelli. Sono le tribune, il popolo
di Parigi e la Comune di Parigi che dominano la situazione e che
s'impongono alla Convenzione, ogni volta che le si fa prendere
qualche misura rivoluzionaria.
«In principio», ci dice Brissot, «la Convenzione si mostrò saggia.
Vedrete la maggioranza di essa, pura, sana, amica dei principii,
volgere continuamente lo sguardo verso la legge.» Si accoglievano
«quasi a unanimità» tutte le proposte che tendevano a umiliare, a
schiacciare i «fautori del disordine».
Si capisce quali risultati rivoluzionari erano d'aspettarsi da quei
rappresentanti che volgevan sempre gli sguardi verso la legge –
monarchica e feudale; per fortuna gli anarchici se n'occuparono. Ma
essi capirono che il loro posto non era alla Convenzione, tra i
rappresentanti, – ma nella strada; capirono che ponendo piede alla
Convenzione, non dovrebbe essere per scendere a patti con le Destre
e «i rospi del Pantano»; ma per esigere qualche cosa, sia dall'alto
delle tribune, sia invadendo la Convenzione col popolo.
In tal modo, a poco a poco «i briganti (Brissot parla degli
«anarchici») hanno audacemente levato la testa. Da accusati son
diventati accusatori; da spettatori silenziosi dei nostri dibattiti,
ne sono divenuti gli arbitri.» «Noi siamo in rivoluzione», – ecco la
loro risposta.
Ebbene, coloro che Brissot chiamava «anarchici» vedevan lontano e
davan prova d'una saggezza politica più grande di quelli che
pretendevano governare la Francia. Se la Rivoluzione fosse finita
col trionfo dei brissotini, senza aver abolito il regime feudale, nè
restituita la terra ai comuni, – a che punto ci troveremmo oggi?
Brissot formula forse un programma ed espone ciò che i Girondini
propongono per mettere fine al regime feudale ed alle lotte che
provoca? In quel momento supremo, quando il popolo di Parigi domanda
che si scaccino i Girondini della Convenzione, dirà forse ciò che i
Girondini propongono, per soddisfare, almeno in parte, i bisogni
popolari più imperiosi?
Nulla di tutto questo, assolutamente nulla.
Il partito girondino risolve la questione con queste parole: Toccare
le proprietà, siano esse feudali o borghesi, è far opera di
«livellatore», di «fautore di disordini», d'«anarchico». Tutta
quella gente doveva essere sterminata, semplicemente!
«I disorganizzatori, prima del 10 agosto, erano veri rivoluzionari»,
dice Brissot, «poichè bisognava disorganizzare per essere
repubblicani. Quelli d'oggi sono veri contro rivoluzionari, nemici
del popolo, poichè il popolo ora è padrone.... Che può desiderare
ancora? La tranquillità interna, chè essa sola assicura al
proprietario la sua proprietà, all'operaio il lavoro, al povero il
pane quotidiano, a tutti la libertà.» (Libello del 24 ottobre 1792)
Brissot non capisce neppure che in quell'epoca di carestia, in cui
il prezzo del pane saliva fino a sei e sette soldi la libbra, il
popolo possa domandare una tassa per fissare il prezzo del pane.
Solo degli anarchici lo possono fare (p. 19).
Per lui e per tutta la Gironda, la Rivoluzione è terminata dopo il
Dieci Agosto, che ha portato al potete il loro partito. Ora non
rimane che da accettare la situazione, ed ubbidire alle leggi
politiche che la Convenzione vorrà fare. Egli non capisce neppure
l'uomo del popolo il quale dice che se i diritti feudali restano, se
le terre non sono state rese ai comuni, se in tutte le questioni
fondiarie regna il provvisorio, se il popolo sopporta tutti i
carichi della guerra, la Rivoluzione non è finita. Solo l'azione
rivoluzionaria può finirla, visto l'immensa resistenza che oppone
l'antico regime, in ogni cosa, alle misure definitive.
Il Girondino non comprende nulla di nulla! Ammette una sola
categoria di malcontenti: i cittadini che temono «per la loro
ricchezza, o per i loro piaceri, o per la vita» (p. 127). Ogni altra
categoria di malcontenti non ha ragion d'essere. Pensando
all'incertezza in cui la Legislativa aveva lasciato tutti i problemi
del suolo, ci si domanda come fosse possibile pensare in tal modo,
in che sorta di mondo fittizio, d'intrighi politici vivevano quelle
persone? Non si potrebbero neppur comprendere, se non li
riconoscessimo tra i nostri contemporanei.
Ecco la conclusione di Brissot, d'accordo con tutti i Girondini:
Un colpo di Stato è necessario, una terza rivoluzione che deve
«abbattere l'anarchia». Dissolvere la Comune di Parigi e le sue
sezioni, annientarle! Dissolvere i club che predicano il disordine e
l'eguaglianza. Chiudere quello dei Giacobini, e mettere i suggelli
sul suo carteggio.
La «Rupe Tarpea», vale a dire la ghigliottina, per il «triumvirato»
(Robespierre, Danton e Marat) e per tutti i livellatori, tutti gli
anarchici.
Eleggere una nuova Convenzione, escludendone tutti i membri
attuali, per avere così il trionfo della contro rivoluzione.
Un governo forte, – l'ordine ristabilito!
Tale il programma dei Girondini, da quando la caduta del re li ha
portati al potere, rendendo i disorganizzatori inutili.
Che cosa rimaneva da fare ai rivoluzionari, fuorchè accettare la
lotta disperata?
O la Rivoluzione doveva fermarsi di botto, com'era, incompleta, – e
allora la contro rivoluzione di termidoro sarebbe cominciata
quindici mesi prima, già nella primavera del 93, quando i diritti
feudali non erano ancora aboliti.
O bisognava bandire i Girondini dalla Convenzione, non ostante i
buoni servigi fatti alla Rivoluzione, mentre si combatteva la
monarchia. Sarebbe stato impossibile di disconoscere quei servigi. –
«Ah! senza dubbio», esclamava Robespierre nella famosa seduta del 10
aprile, «essi avevano colpito la Corte, gli emigrati, i preti, e con
mano violenta; ma in che tempo? – Quando avevano il potere da
conquistare... Avuto il potere nelle mani, il loro fervore s'era ben
presto calmato. COME S'ERANO AFFRETTATI A CAMBIAR D'ODII!»
La Rivoluzione non poteva fermarsi incompiuta. Dovette passar oltre,
sui loro corpi.
Così, dal febbraio 1793, Parigi e i dipartimenti rivoluzionari sono
in preda a un'agitazione che condurrà al 31 maggio.
XLII
CAUSE DEL MOVIMENTO DEL 31 MAGGIO
Durante i primi mesi del 1793, la lotta tra la Montagna e la Gironda
s'inaspriva ogni giorno più, mano mano che i tre grandi problemi si
presentavano alla Francia
1° Sarebbero aboliti tutti i diritti feudali senza riscatto? Oppure
questi resti del feudalismo avrebbero continuato ad affamare il
coltivatore ed a paralizzare l'agricoltura? Problema immenso che
passionava circa venti milioni d'agricoltori, compresi coloro che
avevano comprato la massa dei beni nazionali sequestrati al clero e
agli emigrati.
2° Si sarebbero lasciati i comuni rustici in possesso delle terre
comunali che avevano riprese ai signori? Sarebbe riconosciuto il
diritto di riprenderle a quei comuni che non l'avevano ancor fatto?
Si ammetterebbe il diritto alla terra per ogni cittadino?
3° Finalmente, s'introdurrebbe il massimo, vale a dire la tassa sul
pane e le altre derrate di prima necessità?
Ecco le tre grandi questioni che agitavano la Francia e la
dividevano in due campi ostili: da una parte, i possidenti;
dall'altra, quelli che possedevan poco o nulla; i «ricchi» e i
poveri; coloro che s'arricchivano non ostante la miseria, la
carestia e la guerra e quelli che sopportavano tutto il peso della
guerra e dovevan passare delle ore, delle notti intere, qualche
volta, davanti alla porta del fornaio, senza poter rincasare con del
pane.
E i mesi passavano, – cinque mesi, otto mesi, – senza che la
Convenzione agisse in qualche modo per definire la situazione, per
risolvere le grandi questioni sociali che lo svolgersi della
Rivoluzione aveva destate. Alla Convenzione, si discuteva
continuamente; l'odio tra i due partiti, quello che rappresentava i
ricchi, e quello che difendeva la causa dei poveri, s'acuiva ogni
giorno; e non s'intravvedeva alcuna via d'uscita, nessun accordo
possibile tra i difensori «delle proprietà» e quelli che volevano
attaccarle.
Veramente, i Montagnardi stessi non avevano delle opinioni molto
chiare sulle questioni economiche e si dividevano in due gruppi;
quello degli Enragés (Arrabbiati) era molto più spinto dell'altro.
Il gruppo a cui apparteneva Robespierre aveva in merito ai suddetti
problemi delle vedute «proprietarie», quasi come quelle dei
Girondini. Ma, per quanto ci sia poco simpatico Robespierre, bisogna
riconoscere che si sviluppava con la Rivoluzione, e prese sempre a
cuore le miserie del popolo. Dal 1791, egli aveva parlato alla
Costituente in favore del ritorno delle terre comunali nelle mani
dei comuni agricoli. Vedendo poi l'egoismo proprietario e
«negoziantista» della borghesia, si schierò francamente dalla parte
del popolo, della Comune rivoluzionaria di Parigi, – di coloro che
allora eran chiamati «gli anarchici».
«Gli alimenti necessari al popolo, disse alla tribuna, sono sacri
quanto la vita. Tutto ciò ch'è necessario per conservarla è una
proprietà comune alla società intera. Solo il superfluo è proprietà
individuale, e si può lasciare all'industria dei commercianti.»
Peccato che quest'idea francamente comunista non abbia prevalso
presso i socialisti del secolo diciannovesimo, invece del
«collettivismo» statale di Pecqueur e di Vidal, esposto nel 1848 e
tornato alla luce oggi sotto il nome di «socialismo scientifico».
Che promessa sarebbe stato per l'avvenire il movimento comunalista
del 1871, se avesse riconosciuto questo principio: «Tutto ciò ch'è
necessario per la vita è sacro quanto la vita stessa e rappresenta
una proprietà comune alla nazione intera!» Se la sua parola d'ordine
fosse stata: Il Comune organizzerà il consumo, il benessere per
tutti!
Le Rivoluzioni son fatte da minoranze, in ogni luogo e sempre. Anche
tra coloro che hanno ogni interesse alla Rivoluzione, generalmente,
solo un piccolo numero le si dedica interamente. Lo stesso accadde
in Francia, nel 1793.
Appena fu abbattuta la monarchia, un immenso movimento si produsse
dappertutto in provincia contro i rivoluzionari che avevano osato
gettare la testa del re in atto di sfida alla reazione in tutta
l'Europa.
«Ah! che furfanti!» si diceva nei castelli, nei salotti, nei
confessionali. «Hanno fatto una cosa simile! Ma allora non
indietreggeranno davanti a nulla: ci prenderanno le ricchezze, o ci
manderanno alla ghigliottina!»
E le cospirazioni contro rivoluzionarie risorgevan dappertutto con
nuovo vigore.
La Chiesa, tutte le corti d'Europa, la borghesia inglese, tutti si
diedero a un lavoro d'intrighi, di propaganda, di corruzione, per
organizzare la contro rivoluzione.
Le città marittime, specialmente Nantes, Bordeaux e Marsiglia, dove
c'eran molti ricchi commercianti; la città delle industrie di lusso,
Lione; quelle d'industria e di commercio, come Rouen, divennero
centri potenti di reazione. Regioni intere furono volte alla
reazione dai preti, dagli emigrati rimpatriati sotto falsi nomi,
dall'oro degli inglesi e degli orleanisti, e dagli emissari
d'Italia, di Spagna e di Russia.
I Girondini servivano come centro di riunione a tutta la massa
reazionaria. I monarchici capivano benissimo che non ostante il loro
repubblicanismo superficiale, i Girondini erano i loro veri alleati,
ch'essi vi sarebbero spinti dalla logica del partito, sempre più
forte; dell'etichetta del partito. E il popolo, dal canto suo, lo
capì pure chiaramente. Capì che nessuna misura veramente
rivoluzionaria sarebbe possibile, finchè i Girondini rimanevano alla
Convenzione, e che la guerra condotta alla stracca da quei sibariti
della Rivoluzione, stava per diventare interminabile e per spossare
la Francia.
E, man mano che la necessità «di purificare la Convenzione»
eliminandone i Girondini diveniva sempre più evidente, il popolo
cercava d'organizzarsi per la lotta locale, nelle città di provincia
e nei villaggi.
Abbiamo già avuto l'occasione d'osservare che i direttorii dei
dipartimenti erano contro rivoluzionari, in massima parte. Lo erano
anche i direttorii dei distretti. Ma i municipi, creati dalla legge
del dicembre 1789, erano molto popolari. È vero però che nell'estate
1789, quando furono costituiti dalla borghesia armata, essi
colpirono senza pietà i contadini in rivolta. Ma di mano in mano che
la Rivoluzione si svolgeva, i municipi, nominati dal popolo, nei
tumulti insurrezionali e sorvegliati dalle società popolari,
diventavano sempre più rivoluzionari.
A Parigi, il Consiglio della Comune, prima del 10 agosto, era
borghese democratico. Ma nella notte del 10 una nuova Comune
rivoluzionaria era stata nominata dalle quarantotto sezioni. E
sebbene la Convenzione, cedendo alle istanze dei Girondini la
destituisse, la nuova Comune eletta il 2 dicembre 1792, con
Chaumette suo procuratore, Hébert suo sostituto e Pache sindaco
(nominato più tardi), era francamente rivoluzionaria.
Ma un corpo incaricato di funzioni così vaste e diverse come quelle
che incombevano al Consiglio della Comune di Parigi, avrebbe
necessariamente preso a poco a poco una piega di moderantismo. Per
fortuna, l'azione rivoluzionaria del popolo parigino aveva i suoi
centri nelle sezioni. Eppure, a misura che s'arrogavano diverse
cariche di polizia (il diritto di rilasciare le carte civiche, per
attestare che un Tizio non era cospiratore realista; la nomina dei
volontari per combattere nella Vandea, ecc.), le sezioni stesse,
delle quali il Comitato di Salute Pubblica e quello di Sicurezza
generale cercavan di fare i loro organi di polizia, dovevano ben
presto tendere verso il funzionarismo e il moderantismo. Nel 1795
esse diventarono di fatto dei centri di riunione per la borghesia
reazionaria.
Gli è per questo che, parallelamente alla Comune ed alle sezioni,
s'andava formando una vera rete di Società popolari o fraterne, e
dei Comitati rivoluzionari che divennero in breve una vera forza
d'azione (nell'anno II della Repubblica, dopo l'espulsione dei
Girondini). Tutti questi gruppi si federavano tra loro, sia per
cause momentanee, sia per un'azione durevole, e si mettevano in
corrispondenza con i 36,000 comuni di Francia. A tale scopo fu
perfino organizzato un ufficio speciale di corrispondenza. E quando
si studiano quei gruppi, quei «liberi accordi», diremmo noi, ci
troviamo in presenza di ciò che gli anarchici moderni hanno
preconizzato in Francia, senza neppur immaginare che i loro nonni
l'avessero già messo in pratica in quel tragico momento della
Rivoluzione che furono i primi mesi del 1793.140
La maggior parte degli storici che simpatizza per la Rivoluzione,
quando giunge alla lotta tragica che s'impegnò nel 1793 tra la
Montagna e la Gironda, si prolunga troppo, mi pare, su un fatto
secondario di quella lotta. Essi danno troppa importanza, bisogna
dirlo, al sedicente federalismo dei Girondini.
È vero che, dopo il 31 maggio, quando le insurrezioni girondine e
realiste scoppiarono in parecchi dipartimenti, la parola
«federalismo» diventò, nei documenti d'allora, il principale capo
d'accusa dei Montagnardi contro i Girondini. Ma quella parola,
divenuta parola d'ordine, o un segno di riunione, non fu, in
sostanza, che un grido di guerra, buono per accusare il partito che
si voleva combattere. Come tale fece fortuna. Però in realtà, come
l'osservò Louis Blanc, il «federalismo» dei Girondini consisteva
specialmente nell'odio contro Parigi, nel loro desiderio d'opporre
la provincia reazionaria alla capitale rivoluzionaria. «Parigi
faceva loro paura: ecco tutto il loro federalismo.» (libro VIII e
capitolo IV).
Essi detestavano e temevano l'ascendente che la Comune di Parigi, i
comitati rivoluzionari, il popolo parigino, avevano preso sulla
Rivoluzione. Se essi parlarono di trasportare la sede dell'Assemblea
legislativa, e più tardi la Convenzione, in una città di provincia,
non era per amore dell'autonomia provinciale. Era semplicemente per
porre il corpo legislativo e il potere esecutivo tra una popolazione
meno rivoluzionaria della parigina, e più indolente per la causa
pubblica. Così agiva la Monarchia nel medio evo, quando preferiva
una città nascente, una «città reale», alle vecchie città abituate
al forum. Thiers volle fare lo stesso nel 1871141.
I Girondini invece, in tutto quanto hanno fatto, si sono mostrati
centralizzatori e autoritari quanto i Montagnardi. Di più, forse;
poichè questi quando andavano in missione nelle provincie,
s'appoggiavano alle società popolari, e non sui Consigli di
dipartimento o di distretto. Se i Girondini fecero appello alle
provincie contro Parigi, fu per lanciare contro i rivoluzionari di
Parigi, che li avevan cacciati dalla Convenzione, le forze contro
rivoluzionarie della borghesia delle grandi città commercianti e i
contadini in rivolta della Normandia e della Bretagna. Quando la
reazione ebbe vinto e che i Girondini tornarono al potere dopo il 9
termidoro, essi si mostrarono molto più centralizzatori dei
Montagnardi, come conviene appunto a un partito d'ordine.
Aulard, pure parlando a lungo del «federalismo» dei Girondini, fa
però quest'osservazione molto giusta, che prima della creazione
della Repubblica, nessun Girondino aveva espresso tendenze
federaliste. Barbaroux, per esempio, è prettamente centralizzatore e
s'esprime così davanti a un'assemblea delle Bouches-du-Rhône: «Il
governo federale non conviene a un gran popolo, in causa della
lentezza delle operazioni esecutive, dell'aumento e della
complicazione degl'ingranaggi142». Di fatto, non si trova nessun
tentativo serio d'organizzazione federale nel progetto di
costituzione che i Girondini sostennero nel 1793. In esso si
mantennero centralizzatori.
Louis Blanc parla troppo, secondo me, della «foga» dei Girondini,
dell'ambizione di Brissot in cozzo con quella di Robespierre, delle
ferite che «gli storditi Girondini» fecero all'amor proprio di
Robespierre e che questi non volle dimenticare. E Jaurès, almeno
nella prima parte del suo volume sulla Convenzione, esprime la
stessa idea143. – Quando però, più avanti, arriva a narrare le lotte
tra il popolo di Parigi e la borghesia, egli cita altre cause, molto
più serie del conflitto d'amor proprio e dell'«egoismo del potere».
Certo, la «foga» dei Girondini, così ben dipinta da Louis Blanc, la
lotta d'ambizioni, tutto eccitava ed esacerbava il conflitto. Ma la
lotta tra Girondini e Montagnardi ha avuto, come si è già detto, una
causa generale infinitamente più profonda di tutte le ragioni
individuali. Louis Blanc ha perfettamente intravvista quella causa,
quando riprodusse, secondo Garat, il linguaggio che la Gironda
teneva alla Montagna e la risposta di questa alla Gironda:
«Non sta a voi di governare la Francia, a voi coperti di tutto il
sangue di settembre. I legislatori d'un impero ricco e industrioso
devono considerare la proprietà come una delle basi più sacre
dell'ordine sociale; e la missione data ai legislatori della Francia
non può essere adempita da voi che predicate l'anarchia, proteggete
il saccheggio, spaventate i proprietari... Voi chiamate contro di
noi tutti i sicari di Parigi, noi chiamiamo contro di voi tutte le
persone dabbene di Parigi.
Quello che parla è il partito dei proprietari, della «gente
dabbene», di coloro che massacrarono più tardi il popolo di Parigi,
nel giugno 1848 e nel maggio 1871; che appoggiarono il colpo di
Stato nel 1851, pronti a ricominciare ancora.
La Montagna rispondeva:
«Noi vi accusiamo di voler far servire i vostri ingegni al vostro
elevamento e non al trionfo dell'Eguaglianza... Finchè il re vi ha
lasciato governare, con dei ministri da voi proposti, vi sembrò
abbastanza fedele... Il vostro segreto desiderio non fu mai
d'elevare la Francia ai grandiosi destini d'una repubblica; ma di
lasciarle un re del quale sareste stati i prefetti del palazzo».
Si vedrà quanto fosse giusta quest'ultima accusa, quando si saprà
che Barbaroux nel Mezzogiorno e Louvet in Bretagna, agivano col
consenso dei realisti, e che tanti Girondini d'accordo coi «bianchi»
ritornarono al potere dopo la reazione di termidoro. Ma proseguiamo
nella citazione.
«Voi volete la libertà senza l'eguaglianza, dice la Montagna; e noi
vogliamo l'eguaglianza, noi, perchè senza di essa non possiamo
concepire la libertà. Uomini di Stato, voi volete organizzare la
Repubblica per i ricchi; e noi, che non siamo uomini di Stato,
cerchiamo delle leggi che strappino il povero dalla miseria e
facciano di tutti gli uomini, in un'agiatezza universale, cittadini
felici e difensori ardenti d'una repubblica universalmente amata.»
Si vede chiaramente che si tratta di due concetti della società
molto diversi tra loro. In tal modo fu capita la lotta, dai
contemporanei144.
O la Rivoluzione si limiterà a rovesciare il re e, senza neppur
cercare di consolidare l'opera sua con un cambiamento profondo delle
idee della nazione nel senso repubblicano, essa si fermerà dopo
questa prima vittoria; e allora lascerà che la Francia si dibatta
come potrà, fra gl'invasori tedeschi, inglesi, spagnuoli, italiani,
savoiardi, appoggiati dai partigiani della monarchia all'interno.
Oppure la Rivoluzione farà immediatamente, dopo aver vinto il re,
uno sforzo nel senso «dell'eguaglianza», come si diceva allora, «del
comunismo», diremmo oggi. Essa compirà prima di tutto il lavoro
d'abolizione dei diritti feudali, di restituzione delle terre ai
comuni; essa tenterà poi d'iniziare la nazionalizzazione del suolo,
riconoscendo il diritto di tutti alla terra. Consoliderà ciò che il
contadino rivoltato ha condotto a buon punto durante questi quattro
anni, e cercherà, con l'appoggio del popolo, di «trarre il povero
dalla sua miseria». Procurerà di creare, se le sarà possibile, non
l'eguaglianza assoluta delle fortune; ma l'agiatezza per tutti,
«l'agiatezza universale». Ed essa farà questo, strappando il governo
ai ricchi e trasmettendolo nelle mani dei comuni e delle società
popolari.
Questa differenza, sola, basta a spiegare la lotta sanguinosa che
lacerò la Convenzione e, con essa, la Francia dopo la caduta della
monarchia. Tutto il resto è secondario.
XLIII
RIVENDICAZIONI SOCIALI. – STATO D'ANIMO A PARIGI. – LIONE.
Per quanto fosse violenta in certi momenti la lotta parlamentare tra
la Montagna e la Gironda, sarebbe andata per le lunghe, se fosse
rimasta racchiusa alla Convenzione. Ma, dopo la morte di Luigi XVI,
gli avvenimenti incalzarono e la separazione tra rivoluzionari e
contro rivoluzionari divenne così netta, che non v'era più spazio
per un partito misto, diffuso, posto tra essi. I Girondini, contrari
a uno svolgimento naturale della Rivoluzione, si trovarono ben
presto coi Foglianti e i realisti nelle schiere dei contro
rivoluzionari e, come tali, dovettero soccombere.
L'uccisione del re aveva prodotta una profonda impressione in
Francia. Se la borghesia era colpita di terrore per l'audacia della
parte montagnarda, e tremava pe' suoi beni e la vita; la parte
intelligente del popolo vi vedeva invece il principio d'un'era
nuova, l'avviamento verso quel benessere per tutti, che i
rivoluzionari avevano promesso ai diseredati.
Però, la delusione fu grande. Il re era morto, la monarchia caduta;
ma l'insolenza dei ricchi cresceva sempre più. Essa si affermava nei
quartieri ricchi e si mostrava perfino nelle tribune della
Convenzione. E nei quartieri poveri la miseria si faceva sentire,
sempre più nera, man mano che con l'inoltrare del triste inverno del
1793, aumentava la mancanza di pane e di lavoro, il rincaro dei
viveri, il ribasso degli assegnati. E tutto questo, mentre
giungevano tristi notizie da ogni parte: dalla frontiera, dove le
armate scomparivano come neve al sole; dalla Bretagna che si
preparava a una sollevazione generale con l'appoggio degli inglesi;
dalla Vandea dove cento mila contadini in rivolta, benedetti dai
preti, sgozzavano i patriotti; da Lione divenuta cittadella della
contro rivoluzione; dalla Tesoreria che si sosteneva solo facendo
nuove emissioni d'assegnati; dalla Convenzione che non faceva nulla
e s'infiacchiva in lotte intestine.
Tutto ciò, ma specialmente la miseria, paralizzava lo slancio
rivoluzionario. A Parigi, i lavoratori poveri, i sanculotti, non
venivano più in numero bastante alle sezioni, e i contro
rivoluzionari della borghesia ne approfittavano. Nel febbraio 1793,
le culottes dorées145 avevano invaso le sezioni. Vi si recavano in
gran numero, strappavano voti reazionari – anche a bastonate, se
occorreva, – destituivano i funzionari sanculotti e si facevano
nominare in loro vece. I rivoluzionari furono perfino costretti di
riorganizzarsi, in modo di potere dalle sezioni vicine accorrere
alle sezioni minacciate dall'invasione dei borghesi per aiutarle a
difendersi.
A Parigi e in provincia, si trattò perfino di domandare ai municipi
d'indennizzare con quaranta soldi al giorno, quei popolani,
indigenti, che assistevano alle sedute e accettavano delle funzioni
nei comitati. I Girondini s'affrettarono allora, senza alcun dubbio,
ad esigere dalla Convenzione che tutte quelle organizzazioni di
sezioni, di società popolari e di federazioni dei dipartimenti,
fossero disperse. Essi non capivano che forza di resistenza
possedesse ancora il vecchio regime, non vedevano che una simile
misura, presa in quel momento, avrebbe assicurato il trionfo
immediato della contro rivoluzione, e la «rupe Tarpea» anche per
loro.
Con tutto questo, le sezioni popolari non si scoraggivano. Negli
animi s'andavano elaborando nuove idee, nuove correnti si facevan
strada, nuove aspirazioni che non erano ancora ben formulate.
La Comune di Parigi, avendo ottenuto dalla Convenzione forti
sovvenzioni per l'acquisto delle farine, riusciva a mantenere il
pane a tre soldi la libbra. Ma per averlo, si doveva passare parte
della notte in attesa sui marciapiedi, davanti alla porta del
panettiere. E poi, il popolo capiva che quando la Comune comprava il
frumento ai prezzi impostile dagl'incettatori, essa non faceva che
arricchire questi a spese dello Stato. Si restava sempre in quel
giro di cose che riuscivano vantaggiose all'aggiottatore.
L'aggiotaggio aveva preso delle proporzioni enormi. La borghesia
nascente s'arricchiva a vista d'occhio, con quel mezzo. Non solo i
fornitori delle truppe – i riz-pain-sel146 – ammassavano fortune
scandalose, ma siccome si speculava su tutto, su piccola e vasta
scala: frumento, farine, cuoi, olio, sapone, candele, latta, ecc.,
senza parlare delle speculazioni colossali sui beni nazionali, le
ricchezze si formavano dal nulla con rapidità favolosa, agli occhi
di tutti.
La domanda: «Che fare?» si presentava col carattere tragico che
prende in tempi di crisi.
Le persone per le quali il rimedio supremo a tutti i mali della
società è «la punizione dei colpevoli», proposero la pena di morte
per gl'incettatori, la riorganizzazione del macchinismo poliziesco
di «sicurezza generale», il tribunale rivoluzionario. In fondo,
questo era soltanto un ritorno con poca franchezza al tribunale di
Maillard; ma non già una soluzione.
Intanto, si formava anche nei sobborghi una corrente d'opinione più
profonda per cercare delle soluzioni costruttive, corrente che trovò
un'interpretazione nelle predicazioni d'un operaio dei sobborghi,
Varlet, e d'un ex-prete: Jacques Roux. Questi erano sostenuti da
tutti quegli «sconosciuti» che la storia conosce sotto il nome di
Enragés (Arrabbiati). Capivano che le teorie sulla libertà del
commercio, sostenute alla Convenzione dai Condorcet e dai Sieyès,
erano false; che le derrate che non si trovavano in abbondanza nel
commercio erano facilmente incettate dagli speculatori – soprattutto
in un periodo come quello che attraversava la Rivoluzione. E si
misero a propagare delle idee sulla necessità di municipalizzare e
nazionalizzare il commercio e d'organizzare lo scambio dei prodotti
a prezzo di costo – idee a cui s'ispirarono più tardi Fourier,
Godwin, Robert Owen, Proudhon, e i loro continuatori socialisti.
Gli Enragés avevano capito come non bastasse garantire a ciascuno il
diritto al lavoro, o anche il diritto alla terra (e vedremo ben
presto le loro idee avere un principio d'applicazione); ma che non
ci sarebbe mai stato nulla di positivo, finchè durasse lo
sfruttamento commerciale, motivo per cui bisognava municipalizzare
il commercio.
Nello stesso tempo, si produceva un movimento pronunciato contro le
grandi ricchezze, simile a quello che si fa oggi negli Stati Uniti
contro le fortune rapidamente accumulate dai trust o compagnie
d'incettatori. Le migliori intelligenze dell'epoca furono colpite
dall'impossibilità di stabilire una repubblica democratica, se la
società non si fosse armata contro lo squilibrio mostruoso delle
fortune, che s'affermava già e minacciava d'aumentare.147
Quel movimento contro gl'incettatori e gli aggiottatori doveva
necessariamente provocarne un altro contro l'aggiotaggio sui mezzi
di scambio. E il 3 febbraio 1793, dei delegati della Comune, delle
48 sezioni e dei «difensori riuniti degli 84 dipartimenti» andarono
a domandare alla Convenzione che mettesse un termine al ribasso
degli assegnati, dovuto all'aggiotaggio. Essi domandavano
l'abrogazione del decreto della Costituente che aveva dichiarato
mercanzia la moneta, e la pena di morte contro gli aggiottatori.148
Come si vede, era una rivolta delle classi povere contro i ricchi, i
quali, avendo ricavato tutti i benefici dalla Rivoluzione,
s'opponevano a che essa giovasse pure ai poveri. Così, quando i
petenti seppero che i Giacobini, Saint-Just compreso, si opponevano
alla loro petizione, – per tema di spaventare i borghesi, non
esitarono ad inveire contro «coloro che non capiscono i poveri,
perchè cenano bene tutti i giorni».
Anche Marat cercò di calmare l'agitazione; disapprovò la petizione,
difese i Montagnardi e i deputati di Parigi, attaccati dai petenti;
ma egli vedeva la miseria da vicino e quando sentì i lamenti delle
operaie che andarono il 24 febbraio alla Convenzione per domandare
la protezione dei legislatori contro gli speculatori, egli prese
subito le parti degl'indigenti. In un articolo violento del numero
25, «disperando di vedere i legislatori prendere serie misure», egli
predicò «la distruzione totale di quella razza maledetta» – «i
capitalisti, aggiottatori, monopolizzatori» – «che i vili mandatari
della nazione incoraggiavano lasciandoli impuniti». Si sente il
furore del popolo in quest'articolo, nel quale Marat domanda ora che
i principali incettatori siano messi nelle mani del tribunale di
Stato; ora raccomanda degli atti rivoluzionari dicendo che «il
saccheggio di qualche magazzino, sulla cui porta s'impiccasse
qualche incettatore, porrebbe fine a quelle malversazioni che
riducono alla disperazione venticinque milioni d'uomini, e ne fanno
morire di miseria migliaia e migliaia.»
Nello stesso giorno, al mattino, il popolo saccheggiò qualche
bottega, portando via zucchero, sapone, ecc., e nei sobborghi si
parlava di rifare le giornate di settembre contro gl'incettatori,
gli aggiottatori alla Borsa, i ricchi insomma.
Si può immaginare come quel movimento che, del resto, non oltrepassò
i limiti d'una piccola sommossa, abbia servito di motivo ai
Girondini per far credere ai dipartimenti che Parigi era una fornace
ardente, nella quale non eravi più alcuna sicurezza per nessuno.
Felici di trovare nell'articolo di Marat la frase sul saccheggio di
cui abbiamo parlato, ne approfittarono per accusare la Montagna e i
parigini insieme di voler sgozzare tutti i ricchi. La Comune non osò
approvare il movimento, e Marat stesso dovette ritirare ciò che
aveva detto, facendolo credere fomentato dai realisti. Quanto a
Robespierre, non mancò di attribuirne tutta la colpa al denaro
straniero.
Eppure la sommossa ebbe un risultato. La Convenzione portò da
quattro a sette milioni l'anticipo che faceva alla Comune per
mantenere il pane a tre soldi la libbra. Il procuratore della
Comune, Chaumette, andò alla Comune per svolgere l'idea, che più
tardi fu introdotta nella legge del massimo: Non si trattava
solamente d'avere il pane a un prezzo conveniente; bisognava anche
«che le derrate di seconda necessità» fossero alla portata del
popolo. Non esiste più «una giusta proporzione tra il prezzo delle
giornate della mano d'opera e di queste derrate di seconda necessità
«Il povero ha fatto quanto il ricco e più del ricco per la
Rivoluzione. Tutto è cambiato intorno al ricco, solo il povero è
rimasto nella stessa condizione, e con la Rivoluzione egli ha
guadagnato solo il diritto di lagnarsi della propria miseria149».
Quel movimento della fine di febbraio a Parigi contribuì
immensamente alla caduta dei Girondini. Mentre Robespierre sperava
ancora di paralizzare legalmente i Girondini alla Convenzione, gli
Enragés capirono che fino a quando la Gironda avesse dominato
l'Assemblea, nessun progresso economico sarebbe stato fatto. Essi
osarono dire ad alta voce che l'aristocrazia del denaro, dei grossi
mercanti, dei finanzieri s'innalzava sulle rovine dell'aristocrazia
nobiliare, e che la nuova aristocrazia era così forte nella
Convenzione che se i re non avessero contato sul di lei appoggio,
non avrebbero osato assalire la Francia. È molto probabile che da
quel momento, Robespierre e i suoi fedeli Giacobini si siano
proposti d'approfittare degli Enragés per schiacciare la Gironda,
salvo a vedere poi se fosse bene seguirli o combatterli, a seconda
della piega che avessero presa gli avvenimenti.
È certo che delle idee come quelle che furono emesse da Chaumette
dovettero scuotere l'animo del popolo in tutte le grandi città.
Infatti, il povero aveva fatto tutto per la Rivoluzione, e mentre i
borghesi s'arricchivano, esso non ci guadagnava nulla. Anche nei
luoghi in cui non si produssero movimenti popolari come quelli di
Parigi e di Lione, i poveri dovevan fare le stesse riflessioni.
Dappertutto dovevano trovare che i Girondini formavano il centro di
riunione per coloro i quali volevano impedire a tutti i costi che la
Rivoluzione giovasse ai poveri.
A Lione, la lotta si presentava precisamente sotto questa forma. È
chiaro che in quella città industriale, dove i lavoratori vivevano
d'un'industria di lusso, la miseria doveva essere spaventosa. Il
lavoro mancava e il pane era a un prezzo di carestia: sei soldi alla
libbra.
Due partiti si trovavano l'uno di fronte all'altro, a Lione, come in
altri luoghi. Il partito popolare, rappresentato da Laussel e
specialmente da Chalier, e il partito della borghesia
«commerciantista» che si stringeva attorno ai Girondini – aspettando
il momento di unirsi ai Foglianti. Il sindaco, Nivière-Chol,
negoziante girondino, era l'uomo del partito borghese. Molti preti
refrattari si nascondevano in quella città, la cui popolazione ha
sempre avuto una tendenza verso il misticismo, e gli agenti
dell'emigrazione vi si recavano numerosi. Lione era un centro per i
cospiratori venuti da Jalès (vedere cap. XXXI), da Avignone, da
Chambéry, da Torino.
Contro di essi, il popolo non aveva che la Comune, le cui persone
più popolari erano Chalier, ex-prete, comunista mistico, e un altro
ex-prete, Laussel. I poveri adoravano Chalier che non cessava di
fulminare i ricchi.
Non si conoscono chiaramente gli avvenimenti di Lione nei primi
giorni di marzo. Si sa soltanto che la mancanza di lavoro e la
miseria erano orribili, e che vi era un forte sobbuglio tra i
lavoratori. Questi domandavano la tassa sui grani e sulle derrate,
che Chaumette chiamava «di seconda necessità» (vino, legna, olio,
sapone, caffè, zucchero, ecc.). Esigevano che si vietasse il
commercio del denaro, e volevano una tariffa dei salari. Si parlava
anche di massacrare o di ghigliottinare gl'incettatori. La Comune di
Lione (basandosi forse sul decreto della Legislativa del 27 agosto
1792) ordinò delle perquisizioni simili a quelle che ebbero luogo il
29 agosto a Parigi, a fine d'impadronirsi dei numerosi cospiratori
realisti che soggiornavano a Lione. Ma i realisti e i Girondini
riuniti, stringendosi attorno al sindaco, Nivière-Chol, riuscirono a
impadronirsi del municipio e stavano per inferocire contro il
popolo. La Convenzione dovette intervenire per impedire il massacro
dei patriotti da parte dei contro rivoluzionari e mandò a Lione tre
commissari. Allora, appoggiati da essi, i rivoluzionari si resero di
nuovo padroni delle sezioni, invase dai reazionari. Il sindaco
girondino fu costretto a dare le dimissioni, e il 9 marzo, un amico
di Chalier fu eletto al posto di Nivière-Chol.
La lotta non finì, e ne riparleremo ancora per dire come i
Girondini, ripreso il sopravvento, massacrassero il popolo e i
patriotti alla fine di maggio. Per ora, ci basti di constatare che a
Lione, come a Parigi, si riunivano attorno ai Girondini non
solamente coloro che s'opponevano alla rivoluzione popolare, ma
anche tutti quei – realisti e Foglianti – che non volevano la
Repubblica150.
La necessità di finirla col potere politico della Gironda si faceva
sentire sempre più forte, quando il tradimento di Dumouriez offerse
un nuovo punto d'appiglio ai Montagnardi.
XLIV
LA GUERRA. – LA VANDEA. – TRADIMENTO DI DUMOURIEZ
Nel principio del 1793, la guerra s'annunciava sotto ben tristi
auspici. I trionfi dell'autunno precedente non continuarono. Per
riprendere l'offensiva, erano necessari forti arruolamenti e questi
non davano un contingente abbastanza forte151. Nel febbraio 1793, si
calcolava fossero necessari 300,000 uomini per colmare il vuoto
nell'esercito ed avere di nuovo un mezzo milione di combattenti. Ma
non si poteva più contare sui volontari. Certi dipartimenti (il
Varo, la Gironda) mandavano i loro battaglioni – quasi degli
eserciti, ma gli altri non si movevano.
li 24 febbraio, la Convenzione si vide forzata a ordinare una leva
obbligatoria di 300,000 uomini, da suddividersi tra i dipartimenti,
e, in ciascuno di essi, tra i distretti e i comuni. Questi dovevano
prima far appello ai volontari; ma se non si otteneva il numero
d'uomini richiesto, il comune doveva reclutare il resto come gli
pareva conveniente, vale a dire col sorteggio o designando
personalmente i giovani, che però avevano il diritto di farsi
sostituire. Per spingere i giovani al servizio militare, la
Convenzione non solo promise delle pensioni, ma diede anche ai
pensionati la facoltà di comprare dei beni nazionali, pagandoli con
la pensione stessa, in ragione d'un decimo, ogni anno, del prezzo
totale del bene comprato. Furono destinati a questa operazione dei
beni nazionali d'un valore di 400 milioni152.
Però, il denaro mancava, e Cambon, persona onestissima che teneva la
dittatura delle finanze, dovette fare una nuova emissione di 800
milioni d'assegnati. Ma i beni più consistenti dei preti – le terre
– erano già venduti, e i beni degli emigrati non si vendevano
facilmente. Si esitava a comprare, temendo che i beni comprati
fossero un giorno ripresi dagli emigrati di ritorno in Francia. Così
la Tesoreria di Cambon trovava sempre più difficile di sovvenire ai
bisogni crescenti delle truppe153.
Del resto, la più gran difficoltà della guerra non consisteva in
questo. Essa era nei generali che, quasi tutti, appartenevano alla
contro rivoluzione, e il sistema d'elezione degli ufficiali che la
Convenzione aveva introdotto, poteva dare comandanti superiori solo
dopo un po' di tempo. Per il momento, i generali non ispiravano
fiducia e, infatti, il tradimento di Lafayette fu ben presto seguito
da quello di Dumouriez.
Ebbe ragione Michelet quando disse che Dumouriez lasciando Parigi,
qualche giorno dopo la morte di Luigi XVI, per tornare al suo
esercito, aveva già il tradimento nel cuore. Egli aveva visto il
trionfo della Montagna, e dovette capire che la morte del re segnava
il principio d'una nuova fase della Rivoluzione. Non aveva che
dell'odio pei rivoluzionari e certo prevedeva che il suo sogno di
ridare alla Francia la Costituzione del 1791 con un Orléans sul
trono, non avrebbe potuto realizzarsi senza l'aiuto degli austriaci.
Da quel momento, dovette maturare il suo tradimento.
Dumouriez era allora molto unito ai Girondini, intimo anche con
Gensonné, col quale restò in relazione fino all'aprile. Non si
scostò però completamente dai Montagnardi, che diffidavano già di
lui, – Marat lo trattava chiaramente da traditore, – ma non si
sentivano abbastanza forti per attaccarlo. Le vittorie di Valmy e di
Jemmapes venivano così glorificate, le trattative segrete
concernenti la ritirata dei prussiani essendo generalmente ben poco
note, e i soldati – specialmente i reggimenti di linea – adoravano
tanto il loro generale, che con l'attaccarlo si correva il rischio
d'inimicarsi l'esercito intero, che Dumouriez avrebbe potuto
condurre su Parigi, contro la Rivoluzione. Bisognava quindi
aspettare e sorvegliare.
Intanto, l'Inghilterra cominciava la guerra con la Francia. Non
appena si conobbe la morte di Luigi XVI, a Londra, il governo
inglese rimise al rappresentante della Francia i passaporti,
ordinandogli di lasciare il Regno Unito della Gran Brettagna. Ben
inteso, la morte del re fu un pretesto per venire a un conflitto con
la Repubblica. Si sa, infatti, da Mercy che il governo inglese non
aveva nessuna simpatia pei realisti francesi e che non ha mai voluto
renderli forti col suo appoggio. L'Inghilterra capiva semplicemente
ch'era giunto il momento di distruggere la rivalità marittima della
Francia, di toglierle le colonie e fors'anche qualche gran porto: di
fiaccarla, ad ogni modo, sul mare, per lungo tempo; e il suo governo
approfittò dell'impressione prodotta dall'esecuzione del re per
provocare la guerra.
Disgraziatamente, i politicanti francesi non capirono ciò che v'era
d'inevitabile in quella guerra, sotto il punto di vista inglese. Non
solamente i Girondini – specialmente Brissot che si vantava di
conoscere l'Inghilterra, – ma anche Danton, speravano sempre che i
liberali, i Whigs, una parte dei quali s'entusiasmava per le idee di
libertà, avrebbero rovesciato Pitt e impedito la guerra. In realtà,
tutta la nazione inglese si trovò ben presto unita, quando capì i
vantaggi mercantili che avrebbe potuto trarre dalla guerra. Bisogna
però dire che i diplomatici inglesi seppero utilizzare con molta
abilità le ambizioni degli uomini di Stato francesi. A Dumouriez,
essi lasciavan credere che faceva l'affar loro, essendo il solo col
quale potessero trattare: gli promettevano d'appoggiarlo per
ristabilire la monarchia costituzionale. A Danton facevan credere
che i Whigs avrebbero potuto ritornare al potere, e allora essi si
sarebbero riavvicinati alla Francia repubblicana154. In generale,
fecero in modo di mettere la Francia dalla parte del torto, quando
il 1° febbraio la Convenzione dichiarò guerra al Regno Unito della
Gran Brettagna.
Quella dichiarazione cambiava tutta la situazione militare.
Impadronirsi dell'Olanda, per impedire agli inglesi di sbarcarvi era
un fatto di prima necessità. Ecco appunto ciò che Dumouriez non
aveva fatto in autunno, non ostante le insistenze di Danton, sia
ch'egli non si giudicasse abbastanza forte per farlo, sia per
cattiva volontà. Egli aveva stabilito in dicembre i suoi quartieri
d'inverno nel Belgio, ciò che evidentemente rese invisi ai Belga gli
invasori francesi. Liegi fu il suo principale deposito militare.
Non si conoscono ancora i motivi secreti del tradimento di
Dumouriez. Ma è probabile che, come disse Michelet, egli abbia
risolto di tradire fino dal 26 gennaio, ripartendo per l'armata. La
sua marcia di febbraio sull'Olanda, quando s'impadronì di Breda e di
Gertruydenberge, sembra già una manovra concertata con gli
austriaci. Ad ogni modo, quella marcia servì meravigliosamente gli
austriaci. Il 1° marzo, essi entravano nel Belgio e s'impadronivano
di Liegi, i cui abitanti avevano inutilmente domandato delle armi a
Dumouriez. I patriotti di Liegi erano costretti a fuggire, e
l'esercito francese si trovava completamente disfatto, – i generali
non volendo aiutarsi a vicenda e Dumouriez essendo lontano, in
Olanda. Gli austriaci non avrebbero potuto aspettarsi di meglio.
Si capisce quale effetto producesse a Parigi quella notizia, tanto
più ch'era seguita da altre più gravi. Il 3 marzo si seppe che
doveva iniziarsi un moto contro rivoluzionario in Brettagna. Nello
stesso tempo, a Lione, i battaglioni reazionari dei «Figli di
famiglia» facevano, come s'è visto, un movimento contro la Comune
rivoluzionaria – proprio nel momento in cui gli emigrati, riuniti a
Torino, passavano la frontiera e rientravano armati in Francia, con
l'appoggio del re di Sardegna. Infine il 10 marzo, si sollevava la
Vandea. È evidente che quei diversi movimenti facevano parte, come
nel 1792, d'un vasto piano dei contro rivoluzionari; e tutti a
Parigi sospettavano che Dumouriez, guadagnato dalla contro
rivoluzione, lavorava per essa.
Danton, che si trovava nel Belgio, fu richiamato in fretta. Egli
giunse a Parigi, l'8 marzo, pronunciò un potente appello alla
concordia e al patriottismo, che fece vibrare i cuori; la Comune
issò ancora la bandiera nera. La patria fu di nuovo dichiarata in
pericolo.
I volontari s'arruolavano in tutta fretta, e la sera del 9, un
pranzo «civico», al quale prese parte una gran folla, fu dato nelle
vie, all'aria aperta, la vigilia della loro partenza. Ma dov'era
l'entusiasmo giovanile del 1792? Una cupa energia li animava, e il
furore rodeva i cuori dei miseri dei sobborghi alla vista delle
lotte politiche che laceravano la Francia. «È necessaria una
sommossa a Parigi», avrebbe detto Danton, e di fatto, ne abbisognava
una per iscuotere il torpore che dominava il popolo e le sezioni.
Per vincere le difficoltà, veramente terribili, che circondavano la
Rivoluzione, per sopperire alle immense spese imposte alla Francia
dalla coalizzazione dei contro rivoluzionari, internamente ed
esternamente, era necessario che la Rivoluzione mettesse a
contribuzione le ricchezze borghesi che s'andavano formando, grazie
alla Rivoluzione stessa.
Ecco precisamente ciò che i governanti rifiutavano d'ammettere, da
un lato per principio, – l'accumularsi delle grandi ricchezze
private era considerato come un mezzo d'arricchire la nazione;
dall'altro lato, bisogna riconoscerlo, in causa dei timori che
ispirava loro una sollevazione, più o meno generale, dei poveri
contro i ricchi nelle grandi città. Le giornate di settembre, –
specialmente il 4 e il 5, al Chàtelet e alla Salpêtrière – erano
ancora fresche nella memoria di tutti. Che sarebbe avvenuto se una
classe – tutti i poveri – si fosse sollevata contro un'altra –
contro tutti i ricchi, gli agiati? Sarebbe stata la guerra civile in
ogni città. E questo con la Vandea e la Brettagna all'ovest,
sostenute dall'Inghilterra, dagli emigrati di Jersey, dal papa e da
tutti i preti, – e al nord, gli austriaci e l'esercito di Dumouriez,
pronto a seguire il suo generale e a marciare su Parigi, contro il
popolo.
Di fronte a tutto ciò, i «capi d'opinione» della Montagna e della
Comune si sforzarono di calmare dapprima il timor panico, facendo
credere che consideravano Dumouriez come un repubblicano di cui si
potevan fidare. Robespierre, Danton e Marat, formando una specie di
triunvirato d'opinione, e sostenuti dalla Comune, parlarono
sostenendo la cosa. Tutti s'occuparono per risollevare gli animi,
per infiammare i cuori, per mettersi in grado di respingere
l'invasione che s'annunciava molto più seria di quella del 92.
Tutti, eccettuata la Gironda che vedeva una cosa sola: «gli
anarchici» da schiacciare e sterminare!
Il 10 marzo, nel mattino; a Parigi si temettero dei massacri,
qualche cosa come le giornate di settembre. Ma lo sdegno popolare si
volse contro i giornalisti, amici di Dumouriez, e una banda andò
alle principali tipografie girondine, da Gorzas e da Fiévé, dove
infranse i torchi.
In fondo il popolo, ispirato da Varlet, Jacques Roux, Fournier
l'Americano ed altri Enragés, domandava l'epurazione della
Convenzione. Ma a tale domanda era stata sostituita nelle sezioni
quella banale d'un tribunale rivoluzionario. Pache e Chaumette
andarono ad esigerlo il 9, alla Convenzione. Allora Cambacérès, il
futuro «arci-consigliere» dell'Impero, propose che la Convenzione,
abbandonando le idee correnti sulla divisione dei poteri –
legislativo e giudiziario – s'impadronisse di quest'ultimo e
istituisse un tribunale speciale per giudicare i traditori.
Roberto Lindet, avvocato della vecchia scuola monarchica, propose un
tribunale composto di giudici nominati dalla Convenzione e
incaricati di giudicare le persone che la Convenzione avrebbe loro
inviato. Egli non voleva giurati, e solo dopo lunghe discussioni si
risolvette di eleggere, oltre quei cinque giudici, dodici giurati e
sei assistenti presi in Parigi e nei dipartimenti vicini, nominabili
tutti i mesi dalla Convenzione.
Così l'insurrezione del 10 marzo ottenne solo un tribunale
rivoluzionario, invece di misure che mirassero a ridurre
l'aggiotaggio ed a mettere le derrate alla portata del popolo,
invece dell'epurazione della Convenzione, che ne avrebbe eliminato i
membri sempre opposti alle misure rivoluzionarie, invece di prendere
le misure militari, rese necessarie dal tradimento, già quasi
confermato, di Dumouriez. Allo spirito creatore, costruttivo, della
Rivoluzione popolare che cercava la strada da seguire, fu opposto lo
spirito poliziesco che ben presto l'avrebbe soffocato.
Fatto questo, la Convenzione stava per separarsi, allorquando Danton
si slanciò alla tribuna e arrestò i rappresentanti nel momento in
cui stavano per lasciare la sala. Egli rammentò loro che il nemico
era al confine e che non s'era fatto nulla in proposito.
Nello stesso giorno, nella Vandea, i contadini spinti dai preti,
incominciavano l'insurrezione generale e il massacro dei
repubblicani. La sommossa era stata preparata da lungo tempo,
specialmente dai parroci, istigati da Roma. Ce n'era stato un
principio nell'agosto 1792, quando i prussiani erano entrati in
Francia. Da quel momento, Angers era divenuto il centro politico dei
preti refrattari, le suore della Sagesse ed altre servivano
d'emissari ai preti per far circolare i loro appelli alla rivolta e
risvegliare il fanatismo, propagando certe panzane su pretesi
miracoli (Michelet libro X, cap. V). Ora, il reclutamento d'uomini
per la guerra, che fu promulgato il 10 marzo, fu segnale alla
sollevazione generale. Ben presto, in seguito alla domanda di
Cathelineau, contadino, muratore e sagrestano della sua parrocchia,
diventato uno dei capi di banda più audaci, fu nominato un consiglio
superiore, dominato dai preti, ed ebbe come capo il prete Bernier.
Il giorno 10, la campana a stormo suonò in parecchie centinaia di
parrocchie, e circa 100,000 uomini lasciavano i loro lavori, per
cominciare la caccia ai repubbli-. cani e ai parroci costituzionali.
Vera caccia, con un suonatore che suonava la vue e l'hallali155,
dice Michelet; uno sterminio in regola, nel quale si facevan subire
ai suppliziati tormenti atroci. Venivano uccisi a poco a poco, senza
dar loro il colpo di grazia, oppure si lasciavano i torturati alle
forbici delle donne e alle mani deboli dei fanciulli che
prolungavano il loro martirio. Tutto questo accadeva sotto la
direzione dei preti, con dei miracoli per incitare i contadini a
uccidere anche le mogli dei repubblicani. I nobili, con le loro
amazzoni realiste, intervennero più tardi. E quando quelle «persone
per bene» risolvettero di nominare un tribunale per sterminare i
repubblicani, questo in sei settimane, fece uccidere 542
patriotti156.
Per tutta resistenza a quella selvaggia presa d'armi, la Repubblica
non aveva che 2,000 uomini disseminati in tutta la bassa Vandea, da
Nantes a La Rochelle. Solo alla fine di maggio, le prime forze
organizzate dalla Repubblica giunsero in quei luoghi. Fino allora,
la Convenzione non potè opporre che dei decreti: la morte e la
confisca dei beni pei nobili e i preti che non avessero lasciata la
Vandea entro otto giorni! Ma chi aveva la forza necessaria
d'eseguire quei decreti?
Le cose non andavano meglio nella regione dell'est, dove l'armata di
Custine batteva in ritirata; mentre nel Belgio, Dumouriez, dal 12
marzo, s'era messo in aperta ribellione contro la Convenzione. Egli
le mandò una lettera da Louvain (e s'affrettò a renderla pubblica),
nella quale rimproverava alla Francia il delitto d'aver annesso il
Belgio, d'averne voluto la rovina introducendovi la vendita dei beni
nazionali, gli assegnati, ecc. Sei giorni dopo attaccava le forze
superiori degli austriaci a Neerwinde, si faceva battere, e, il 22
marzo, appoggiato dal duca di Chartres e dai generali orleanisti,
entrava in trattative dirette col colonnello austriaco Mack. Quei
traditori s'impegnavano a lasciare il Belgio senza combattere e a
marciare su Parigi per ristabilirvi la monarchia costituzionale. In
caso di bisogno, si sarebbero fatti appoggiare dagli austriaci che
occuparono, come garanzia, una piazza forte della frontiera, Condé.
Danton, giocando la propria testa, aveva cercato d'impedire quel
tradimento. Non avendo potuto risolvere i due Girondini, – Gensonné,
amico di Dumouriez, e Guadet – ad andare con lui per ricondurre
Dumouriez alla Repubblica, partì solo, il 16, per il Belgio,
arrischiando così d'essere accusato di tradimento. Trovò Dumouriez
in piena ritirata dopo Neerwinde e capì che il traditore aveva già
preso una risoluzione. Infatti, egli s'era già impegnato col
colonnello Mack a lasciare l'Olanda, senza battersi.
Quando Danton ritornò, il 29, e si ebbe la certezza del tradimento
di Dumouriez, Parigi fu presa da furore. L'esercito repubblicano
che, solo, avrebbe potuto respingere l'invasione, marciava forse su
Parigi per ristabilirvi la monarchia. Allora, il Comitato
d'insurrezione che da qualche giorno si riuniva all'Évêché sotto la
direzione degli Enragés, trascinò la Comune. Le sezioni s'armarono,
afferrarono l'artiglieria; esse avrebbero forse marciato sulla
Convenzione, se altri consigli non avessero prevalso per impedire il
timor panico. Il 3 aprile, si ebbe la notizia definitiva del
tradimento di Dumouriez. Egli aveva arrestato i commissari che la
Convenzione gli aveva inviati. Per fortuna non fu seguito
dall'esercito. Il decreto della Convenzione che metteva Dumouriez
fuori della legge e ordinava l'arresto del duca di Chartres
perveniva ai reggimenti. Nè il generale, nè il duca riuscirono a
trascinare i soldati, e Dumouriez dovette passare la frontiera come
Lafayette, e rifugiarsi presso gli austriaci.
Il domani, gl'Imperiali e quel generale lanciavano un proclama, nel
quale il duca di Cobourg annunciava ai francesi ch'egli veniva per
dare di nuovo alla Francia il suo re costituzionale.
Nel momento più critico di quella crisi, quando l'incertezza
concernente l'attitudine dell'armata di Dumouriez metteva in
questione la sicurezza stessa della Repubblica, i tre uomini più
influenti della Montagna, Danton, Robespierre e Marat, d'accordo con
la Comune (Pache, Hébert, Chaumette), agirono nell'identico senso
per impedire il panico e le tristi conseguenze ch'esso avrebbe
potuto avere.
Nello stesso tempo la Convenzione risolvette d'impadronirsi di tutto
il potere esecutivo, oltre quello legislativo e giudiziario, sotto
pretesto della «mancanza d'unità», che aveva ostacolato fino allora
l'andamento generale della guerra. Essa creò un Comitato di salute
pubblica, al quale diede pieni poteri, quasi da dittatura. E questa
misura fu di grande importanza per tutto lo svolgimento ulteriore
della Rivoluzione.
Abbiamo detto che dopo il 10 agosto la Legislativa aveva istituito,
sotto il nome di «Consiglio esecutivo provvisorio», un ministero,
che fu incaricato di tutte le funzioni del potere esecutivo.
Inoltre, nel gennaio 1793, la Convenzione aveva creato un «Comitato
di difesa generale», e siccome in quel momento la guerra era
l'essenziale, quel Comitato ebbe un potere di sorveglianza sul
Consiglio esecutivo, per cui divenne l'ingranaggio principale
dell'amministrazione. Per dare maggior coesione al governo, la
Convenzione istituì un «Comitato di salute pubblica», eletto da lei
e rinnovabile ogni tre mesi; esso doveva prendere il posto del
Comitato di difesa e del Consiglio esecutivo. In fondo, la
Convenzione si sostituiva al ministero. Ma, a poco a poco, com'era
da prevedere, il Comitato di salute pubblica dominò la Convenzione e
prese in tutti i rami dell'amministrazione un potere che condivise
solo col «Comitato di sicurezza generale», incaricato delle cose di
polizia.
Durante la crisi che si svolgeva nell'aprile 93, Danton che, fino a
quel momento, aveva preso parte attivissima alla guerra, divenne
l'anima del Comitato di salute pubblica, e conservò tale influenza
fino al 10 luglio 1793, giorno in cui diede le dimissioni.
Finalmente, la Convenzione che, dal mese di settembre 1792, aveva
mandato nei dipartimenti e alle armate parecchi de' suoi membri col
titolo di rappresentanti in missione, armati di poteri estesissimi,
decise di mandarne ottanta di più, per rianimare il morale in
provincia e spingere alla guerra. E siccome i Girondini generalmente
rifiutavano di adempire quella funzione – nessuno di essi andò alle
armate – nominarono volontieri dei Montagnardi per quelle missioni
estremamente difficili, forse con l'idea d'essere più liberi alla
Convenzione dopo la loro partenza.
Non furono queste misure di riorganizzazione del governo che
impedirono al tradimento di Dumouriez d'avere l'effetto disastroso,
che avrebbe potuto produrre, se l'armata avesse seguito il generale.
Per la nazione francese, la Rivoluzione possedeva un'attrattiva, un
vigore, che il distruggerli non poteva dipendere dalla volontà d'un
generale. Anzi, il tradimento diede alla guerra un carattere nuovo,
di guerra popolare e democratica. Ma tutti capirono che Dumouriez,
solo, non avrebbe mai osato di tentare ciò che aveva fatto. Egli
doveva avere dei solidi sostegni a Parigi. Là stava il tradimento.
La Convenzione tradisce, diceva il proclama, del club dei Giacobini,
firmato da Marat che presiedeva quel giorno.
Ormai, la caduta dei Girondini e l'allontanamento dei loro capi
dalla Convenzione diventavano inevitabili. Il tradimento di
Dumouriez apportò l'insurrezione che scoppiò il 31 maggio.
XLV
NUOVA SOLLEVAZIONE RESA INEVITABILE
Il 31 maggio è una delle grandi date della Rivoluzione, piena di
significato quanto il 14 luglio e il 5 ottobre 1789, il 21 giugno
1791 e il 10 agosto 1792. Ma, forse, è la più tragica di tutte. In
quel giorno, il popolo parigino fece la sua terza sollevazione – il
suo ultimo sforzo per dare alla Rivoluzione un carattere veramente
popolare. E per riuscire, egli dovette rizzarsi non contro il re e
la Corte, ma contro la Convenzione nazionale, per eliminarne i
principali rappresentanti del partito girondino.
Il 21 giugno 1791, giorno dell'arresto del re a Varennes, chiude
un'epoca; la caduta dei Girondini, il 31 maggio 1793, ne chiude
un'altra. Essa diventa nello stesso tempo l'immagine di tutte le
rivoluzioni future. Non vi sarà più una rivoluzione seria, se non
finirà col suo 31 maggio. O la rivoluzione avrà la sua giornata in
cui i proletari si separeranno dai rivoluzionari borghesi, per
marciare dove questi non potranno seguirli se non cessando d'essere
borghesi; oppure la separazione non si farà, e allora non sarà una
rivoluzione.
Anche ai giorni nostri s'intuisce tutta la parte tragica della
situazione che si presentava ai repubblicani in quella data. Non si
trattava più d'un re spergiuro e traditore; erano vecchi compagni di
lotta a cui si doveva dichiarare la guerra. Altrimenti, la reazione
sarebbe cominciata dal giugno 1793, quando l'opera principale della
Rivoluzione – la distruzione del regime feudale e dei principii
della monarchia di diritto divino – era appena iniziata. O
proscrivere i repubblicani girondini, che fino allora avevano
coraggiosamente dato l'assalto al dispotismo; ma che ora dicevano al
popolo: «Tu non andrai oltre!» O sollevare il popolo per eliminarli,
passare sui loro corpi, per cercare di finire l'opera incominciata.
Questa situazione tragica si rivela bene nel libello di Brissot, A
ses commettants, datato del 26 maggio, del quale s'è già parlato.
Non si possono leggere quelle pagine, senza capire che è questione
di vita o di morte. Brissot gioca la propria testa lanciando quello
scritto, dove s'accanisce a chiedere la ghigliottina per coloro
ch'egli chiama anarchici. Dopo l'apparizione di questo scritto, non
restavano che due vie d'uscita. O gli «anarchici» si sarebbero
lasciati ghigliottinare, dai Girondini, e questo avrebbe riaperto le
porte ai realisti; o i Girondini sarebbero stati cacciati dalla
Convenzione, e in tal caso, quelli che dovevan perire erano loro.
È chiaro che i Montagnardi non si risolvettero tanto facilmente a
fare appello alla sommossa, per forzare la Convenzione a respingere
dal proprio seno i principali capi della destra. Per sei mesi
avevano cercato di concludere un accordo qualsiasi. Danton,
specialmente, s'applicava a negoziare un compromesso. Robespierre,
dal canto suo, cercò di paralizzare i Girondini «parlamentarmente»,
senza ricorrere alla forza. Marat stesso dominava la propria collera
per evitare una guerra civile. Si riuscì così a ritardare la
separazione. Ma a che prezzo! La Rivoluzione era arrestata. Non si
faceva nulla per consolidare ciò ch'essa aveva acquistato. Si viveva
nell'attesa.
Nelle provincie l'antico regime aveva conservato tutta la sua forza.
Le classi privilegiate aspettavano il momento di riafferrare le
ricchezze e i posti, di ristabilire la monarchia e i diritti feudali
che la legge non aveva ancora annullati. Alla prima sconfitta delle
armate, l'antico regime rientrava vittorioso. Nel Mezzodì, nel
Sud-ovest, nell'Ovest, la massa era sempre pei preti, pel papa, e,
di conseguenza, per la monarchia. È vero che una grande quantità di
terre, tolte al clero e agli ex-nobili, era già passata nelle mani
della borghesia, grande e piccola, e in quelle dei contadini. I
cànoni feudali non eran stati ricomprati, nè pagati. Ma era sempre
il provvisorio. E se il popolo, sfinito dalla miseria e dalla
carestia, stanco della guerra, fosse rientrato a un tratto nelle sue
stamberghe, lasciando fare all'antico regime, questo non avrebbe
forse potuto rientrare, trionfante, dopo qualche mese?
Dopo il tradimento di Dumouriez, la situazione alla Convenzione
diventò insopportabile. La Gironda, sentendosi fortemente colpita
dal tradimento del suo generale favorito, raddoppiava d'accanimento
contro i Montagnardi. Accusata d'essere d'accordo col traditore,
essa non seppe rispondere che domandando il processo di Marat, per
il proclama che i Giacobini avevano lanciato il 3 aprile, alla
notizia del tradimento, e ch'egli aveva firmato come presidente.
In quel momento, un gran numero di membri della Convenzione si
trovava in missione presso l'esercito e nei dipartimenti, ed eran
quasi tutti Montagnardi. I Girondini ne approfittarono per domandare
alla Convenzione che si dichiarasse Marat in istato d'accusa. Questo
avvenne il 12 aprile; poi si chiese che fosse citato davanti al
tribunale rivoluzionario, per aver predicato in favore
dell'assassinio e del saccheggio. Il decreto d'arresto fu dato il 13
aprile, con 220 voti contro 92, su 367 votanti, con 7 voti per il
rinvio e 48 astensioni.
Eppure, il colpo fallì. Il popolo dei sobborghi amava troppo Marat
per lasciarlo condannare. I poveri sentivano ch'egli era col popolo
e che non li avrebbe mai traditi. Più si studia oggi la Rivoluzione,
e si conosce ciò che ha fatto e detto Marat, più ci si persuade
quanto sia immeritata la reputazione di sinistro sterminatore, che
gli han fatta gli storici, ammiratori dei borghesi girondini. Quasi
sempre, fino dalle prime settimane della convocazione degli Stati
generali, e specialmente nei momenti di crisi, Marat aveva visto
meglio degli altri, compreso anche i due altri grandi capi
d'opinione pubblica rivoluzionaria: Danton e Robespierre.
Dal giorno in cui Marat si lanciò nella Rivoluzione, le si diede
interamente, e visse nella povertà, continuamente forzato di
rientrare sotterra, quando gli altri salivano al potere. Fino alla
morte, non ostante la febbre che lo consumava, egli non cambiò
genere di vita. La sua porta restò sempre aperta al popolo. Pensava
che la dittatura avrebbe aiutato la Rivoluzione ad attraversare le
sue crisi; ma non cercò mai la dittatura per sè.
Per quanto fosse sanguinario il suo linguaggio, riguardo le creature
della Corte, – specialmente in principio della Rivoluzione, quando
diceva che se non si fosse abbattuto qualche migliaio di teste, non
vi sarebbe mai stato nulla di ben concreto e che la Corte
schiaccerebbe i rivoluzionari – egli ebbe sempre dei riguardi verso
coloro che s'erano dedicati alla Rivoluzione. Ne ebbe anche quando
diventarono un ostacolo per lo svolgimento del movimento. Capì fino
dai primi giorni che la Convenzione non avrebbe potuto andare
avanti, con un forte partito girondino; ma dapprima cercò d'evitare
l'epurazione violenta, ne diventò partigiano e organizzatore solo
quando vide che bisognava scegliere tra la Gironda e la Rivoluzione.
S'egli avesse vissuto, forse il Terrore non avrebbe preso il
carattere feroce che gli diedero gli uomini del Comitato di
sicurezza generale. Non se ne sarebbero serviti per colpire, da una
parte, il partito avanzato, gli Hebertisti, dall'altra, i
conciliatori, come Danton157.
Tanto il popolo amava Marat, altrettanto lo detestava la borghesia.
Ecco perchè i Girondini decisero di cominciare da lui, volendo
attaccare la Montagna: egli sarebbe stato difeso meno degli altri.
Appena Parigi seppe il decreto d'arresto lanciato contro Marat,
l'agitazione fu immensa. L'insurrezione sarebbe scoppiata il 14
aprile se i Montagnardi, compreso Robespierre e Marat stesso, non
avessero consigliato la calma. Marat, che non s'era lasciato
arrestare subito, comparve davanti al tribunale il 24 aprile e fu
assolto a pieni voti dai giurati. Fu allora portato in trionfo alla
Convenzione e poi nelle vie, sulle spalle dei sanculotti.
Così il colpo dei Girondini non era riuscito, ed essi capirono in
quel giorno che non si sarebbero mai più rialzati. Fu per essi un
«giorno di lutto», come dice un loro giornale. Brissot si mise a
scrivere il suo ultimo libello, A ses commettants, nel quale fece di
tutto per risvegliare le passioni della borghesia agiata e
commerciante contro gli «anarchici».
In queste condizioni, la Convenzione, le sedute della quale
diventavano degli assalti furiosi fra i due partiti, perdeva la
considerazione del popolo; e la Comune di Parigi prendeva
naturalmente l'ascendente per l'iniziativa delle misure
rivoluzionarie.
Con l'innoltrarsi dell'inverno del 1793, la carestia aveva preso
nelle grandi città delle proporzioni lugubri. I municipi trovavano
ogni difficoltà a procurarsi del pane, anche solo una libbra, un
quarto di libbra, quattro once al giorno, per ogni abitante. Per
riuscirvi, i municipi, e specialmente quello di Parigi,
s'indebitavano in proporzioni spaventose.
Allora, la Comune di Parigi ordinò di mettere sui ricchi un'imposta
progressiva di dodici milioni di lire, per le spese della guerra. Un
reddito di 1500 lire per ogni capo di famiglia, e di 1000 per ogni
altro membro della famiglia era considerato come «necessario» e, per
conseguenza, libero d'imposta. Tutto ciò ch'era al disopra di quel
reddito, era considerato «superfluo» e pagava la tassa progressiva:
trenta lire per un superfluo di 2000 lire, cinquanta per un
superfluo di 2000 a 3000 lire; e così via. Ventimila lire per un
superfluo di cinquanta mila lire.
Per un tempo di guerra, in mezzo alla Rivoluzione e alla carestia,
questa imposta non era eccessiva. Solamente le grandi ricchezze ne
risentivano, mentre che una famiglia di sei persone, se aveva dieci
mila lire di reddito, se la cavava con meno di cento lire d'imposta
straordinaria. Ma i ricchi si lagnarono altamente, mentre il
promotore di quell'imposta, Chaumette, l'uomo più odiato dai
Girondini dopo Marat, diceva molto giustamente: «Non vi sarà nulla
che mi farà cambiare principio e, se avessi il collo sotto la
mannaia, griderei ancora: Il povero ha fatto tutto, ora tocca al
ricco. Io griderò che bisogna rendere utili, loro malgrado, gli
egoisti, i giovani oziosi, e procurare del riposo all'operaio utile
e rispettabile.
La Gironda raddoppiò d'odio verso la Comune che aveva lanciato
l'idea di quell'imposta. Si può immaginare l'esplosione generale di
collere che scoppiò nella borghesia, quando Cambon propose alla
Convenzione, e fece votare, il 20 maggio, con l'appoggio delle
tribune, un prestito forzato d'un miliardo, da prelevarsi in tutta
la Francia sui ricchi. Era da ripartirsi presso a poco sugli stessi
principî dell'imposta della Comune e da rimborsarsi sulla vendita
dei beni degli emigrati mano mano che fossero venduti. Nelle
circostanze difficili che attraversava la Repubblica, non v'era
altra via di scampo ma i difensori della proprietà furono sul punto
d'ammazzare i Montagnardi alla Convenzione, allorquando questi
sostennero quel progetto di prestito forzato. Si venne quasi alle
mani.
Se fossero ancora state necessarie nuove prove dell'impossibilità
d'agire per salvare la Rivoluzione, finchè i Girondini rimanendo al
potere, i due grandi partiti avessero continuato a paralizzarsi a
vicenda, in quei dibattiti sul prestito se ne sarebbe avuta la
dimostrazione evidente.
Ma ciò che esasperava il popolo parigino era il fatto che per
arrestare la Rivoluzione, di cui Parigi era stato la fornace più
ardente, i Girondini facevano di tutto per sollevare i dipartimenti
contro la capitale, giungendo fino al punto di camminare a pari
passo coi realisti. La monarchia, piuttosto che un sol passo verso
la Repubblica sociale! Innondare Parigi di sangue, radere al suolo
la città maledetta, piuttosto di permettere che il popolo parigino e
la sua Comune prendessero l'iniziativa d'un movimento che minacciava
le proprietà della borghesia. Thiers e l'Assemblea di Bordeaux
ebbero nel 1793 dei precursori, come si vede.
Il 19 maggio i Girondini, in seguito alla proposta di Barère,
facevano decretare la formazione d'una Commissione dei Dodici, per
esaminare i provvedimenti presi dalla Comune; questa Commissione,
nominata il 21, era diventata il principale perno del governo. Due
giorni dopo, il 23, essa faceva arrestare Hébert, sostituto del
procuratore della Comune, amato dal popolo per il sincero
repubblicanismo del suo Père Duchesne, e Varlet, il favorito dei
poveri a Parigi, un «anarchico», si direbbe ora. Per lui, la
Convenzione era una «bottega di leggi», e predicava nelle vie la
rivoluzione sociale. Ma gli arresti non dovevano limitarsi a questi
due. La Commissione dei Dodici si proponeva anche di processare le
sezioni; essa esigeva che i registri delle sezioni fossero messi
nelle sue mani, e faceva arrestare il presidente e il segretario
della sezione della Cité, che s'erano rifiutati di darle i registri.
Intanto, il Girondino Isnard che presiedeva alla Convenzione in quei
giorni, – un autoritario in cui si ravvisa già Thiers, – aumentò
l'agitazione con delle minaccie. Minacciò, i parigini. Se essi
avessero osato colpire i rappresentanti della nazione, diceva,
Parigi sarebbe stata annientata. «Ben presto si cercherebbe sulle
rive della Senna se Parigi fosse esistita». Queste sciocche
minaccie, che ricordavano un po' troppo quelle dalla Corte nel 1791,
portarono al colino il furore popolare. Il 26, in quasi tutte le
sezioni si venne alle mani. L'insurrezione era inevitabile, e
Robespierre, che fino a quel momento l'aveva sconsigliata, andò a
dire ai Giacobini, nella sera del 26, che se fosse necessario,
sarebbe pronto ad insorgere, solo, contro i cospiratori ed i
traditori che sedevano alla Convenzione.
Già il 14 aprile, 35 sezioni di Parigi, su 38, avevano domandato
alla Convenzione di escludere dal suo seno ventidue rappresentanti
girondini, dei quali esse davano la lista. Ora le sezioni si
sollevavano per costringere la Convenzione ad ubbidire a quel voto
del popolo parigino.
XLVI
SOMMOSSA DEL 31 MAGGIO E DEL 2 GIUGNO
Anche questa volta, come il 10 agosto, nelle sue sezioni, il popolo
preparò da solo l'insurrezione. Danton, Robespierre e Marat, benchè
frequentemente consultati in quei giorni, erano esitanti e l'azione
venne dagli «ignoti», che costituirono un club d'insurrezione
all'Evêché e vi nominarono a questo scopo una Commissione «dei Sei».
Le sezioni presero una parte attiva ai preparativi. Già in marzo, la
sezione delle Quatre Nations si dichiarava in insurrezione e
autorizzava il suo comitato di sorveglianza a lanciare dei mandati
di cattura contro i cittadini sospetti per le loro opinioni contro
rivoluzionarie, mentre le altre sezioni (Mauconseil, Poissonnière)
domandavano apertamente l'arresto dei deputati «brissotini». Il mese
seguente, vale a dire l'8 e il 9 aprile, dopo il tradimento di
Dumouriez, le sezioni di Bonconseil e della Halle-aux-Blés esigevano
dei processi contro i complici del generale, e il 15, trentacinque
sezioni lanciavano una lista di ventidue membri della Gironda,
esigendone l'espulsione dalla Convenzione.
Dal principio d'aprile, le sezioni cercavano anche di federarsi per
l'azione, all'infuori del Consiglio della Comune, e il 2 aprile la
sezione dei Gravilliers, sempre all'avanguardia, prendeva
l'iniziativa della creazione d'un «Comitato Centrale». Questo
comitato non agì che ad intervalli, ma si ricostituì all'avvicinarsi
del pericolo (il 5 maggio) e il 29, prendeva nelle mani la direzione
del movimento. L'influenza del club dei Giacobini fu mediocre. Essi
stessi ammettevano che il centro d'azione era nelle sezioni.
(Vedere, per esempio, Aulard, Jacobins, t. V, p. 209).
Il 26 maggio, degli assembramenti popolari piuttosto numerosi
assediavano la Convenzione. L'invasero in parte e il popolo, entrato
nella sala, appoggiato dalle tribune, domandava la soppressione
della Commissione dei Dodici. Però la Convenzione resisteva, e solo
dopo mezzanotte, affranta dalla stanchezza, essa cedette. La
Commissione fu annullata.
Del resto, questa concessione fu momentanea. Il domani stesso (27),
approfittando dell'assenza d'un gran numero di Montagnardi mandati
in missione, i Girondini, appoggiati dalla Pianura, ristabilirono la
Commissione dei Dodici. Così l'insurrezione non riuscì nel suo
intento.
L'insurrezione era stata paralizzata, perchè era mancato l'accordo
tra i rivoluzionari stessi. Una parte delle sezioni, ispirata da
coloro ch'eran chiamati gli Enragés, voleva una misura che colpisse
i contro rivoluzionari di terrore. Voleva, dopo aver sollevato il
popolo, uccidere i principali Girondini. Si parlava anche di
sgozzare in Parigi gli aristocratici.
Ma quel piano incontrò una forte opposizione. La rappresentanza
nazionale era un deposito confidato al popolo di Parigi: come poteva
tradire la fiducia della Francia? Danton, Robespierre, Marat vi si
opposero energicamente. Il Consiglio della Comune e il sindaco
Pache, come il Consiglio del dipartimento, rifiutarono d'accettare
quel piano. Le società popolari non gli concessero il loro appoggio.
C'eran poi altre ragioni. Bisognava contare con la borghesia ch'era
già, a quell'epoca, numerosa a Parigi, e i cui battaglioni di
guardie nazionali avrebbero schiacciato l'insurrezione per difendere
le loro proprietà. Bisognava garantir loro che sarebbero state
rispettate. Ecco perchè Hassenfratz, che dichiarò ai Giacobini di
non aver nulla, come principio, contro il saccheggio degli
scellerati (così chiamava i ricchi), cercò d'impedire che
l'insurrezione fosse accompagnata da saccheggi. – «Vi sono
centosessanta mila uomini domiciliati, che sono armati e in grado di
respingere i ladri. È chiaro che vi è impossibilità assoluta
d'attentare alle proprietà», diceva Hassenfratz ai Giacobini; ed
egli invitava tutti i membri di questa società a «prendere l'impegno
di perire piuttosto che di lasciar colpire le proprietà».
Lo stesso giuramento fu prestato nella notte del 31 alla Comune, ed
anche all'Evêché, dagli Enragés. Le sezioni fecero altrettanto.
In quell'epoca difatti, si costituiva una nuova classe di
proprietari borghesi, classe che aumentò immensamente durante il
diciannovesimo secolo, – e i rivoluzionari si videro forzati di
tenersela buona, per non averla nemica.
Alla vigilia d'un'insurrezione non si sa mai se la massa del popolo
si leverà, o no. Questa volta poi, c'era il timore che gli elementi
estremi arrivassero fino ad uccidere i Girondini nella Convenzione,
e che Parigi fosse così compromessa agli occhi dei dipartimenti. Si
passarono tre giorni in trattative, finchè fu convenuto che
l'insurrezione sarebbe stata diretta dall'insieme degli elementi
rivoluzionari: il Consiglio della Comune, il Consiglio del
dipartimento e il Consiglio generale rivoluzionario dell'Evêché. Si
stabilì che nessuna violenza non verrebbe commessa su chicchessia, e
che si sarebbero rispettate le proprietà. Bisognava limitarsi ad
un'insurrezione morale, ad una pressione sulla Convenzione, che
sarebbe stata forzata ad abbandonare i deputati colpevoli al
tribunale rivoluzionario.
Marat, uscendo dalla Convenzione, la sera del 30, svolse questo
programma all'Evêché e poi alla Comune. Pare che a mezzanotte sia
stato lui a suonare campana a stormo al Municipio, sfidando così la
legge che puniva con la morte tale atto.
L'insurrezione cominciava. Dei delegati dell'Evêché, centro del
movimento, deposero dapprima dalle loro funzioni il sindaco e il
Consiglio della Comune, com'era stato fatto il 10 agosto. Ma invece
di sequestrare il sindaco e di nominare un altro Consiglio, li
rielessero dopo aver fatto loro prestare giuramento d'unirsi
all'insurrezione. Lo stesso fecero col Consiglio del dipartimento.
In quella stessa notte, i rivoluzionari dell'Evêché, il Dipartimento
e la Comune s'unirono in un solo «Consiglio generale
rivoluzionario», che prese la direzione del movimento.
Quel Consiglio nominò il comandante d'un battaglione (quello della
sezione dei Sanculotti), Hanriot, comandante generale della guardia
nazionale. La campana a stormo suonava, la generale veniva battuta
in Parigi.
Però c'è qualche cosa che colpisce in quest'insurrezione:
l'indecisione. Anche dopo che il cannone d'allarme, posto al
Pont-Neuf, aveva cominciato a rombare verso un'ora del pomeriggio, i
sezionari armati e scesi nelle vie, sembrava non avessero nessun
piano prestabilito. Due battaglioni, fedeli ai Girondini, erano
stati i primi ad accorrere alla Convenzione e a schierarsi davanti
alle Tuileries. Hanriot, coi quarantotto cannoni delle sezioni,
investiva l'assemblea.
Passarono delle ore; ma non si fece nulla. Tutta Parigi era in moto,
ma la massa del popolo non veniva ad esercitare una pressione sulla
Convenzione, e il Girondino Vergniaud, vedendo che l'insurrezione
non progrediva, fece votare che le sezioni erano benemerite della
patria. Egli sperava forse di sviare così la loro ostilità contro la
Gironda. La giornata sembrava perduta; ma ad un tratto nuove masse
di popolo arrivarono nella sera ed invasero la sala della
Convenzione. Allora i Montagnardi si sentirono rinforzati.
Robespierre domandò non solo la soppressione della Commissione dei
Dodici e il processo de' suoi membri, ma che fossero messi in istato
d'accusa i principali capi girondini, ch'erano chiamati i ventidue e
non facevan parte dei Dodici.
Però, questa proposta non fu discussa. La Convenzione risolvette di
annullare di nuovo la Commissione dei Dodici e di consegnarne
l'incarto al Comitato di Salute pubblica, affinchè esso ne facesse
un rapporto nello spazio di tre giorni. Inoltre, approvò un decreto
della Comune, secondo il quale gli operai che fossero rimasti sotto
le armi fino al ritorno della tranquillità pubblica, sarebbero stati
pagati con quaranta soldi al giorno, – e subito la Comune mise
un'imposta sui ricchi per essere in grado di pagar senz'altro tre
giornate d'insurrezione. Si decise che le tribune della Convenzione
sarebbero state aperte al popolo senza biglietti.
Tutto questo contava ben poco. La Gironda restava, continuava ad
avere la maggioranza – il colpo era fallito. Allora il popolo
parigino, comprendendo che non s'era fatto nulla, si mise a
preparare una nuova sommossa per il posdomani, 2 giugno.
Il Comitato rivoluzionario, formato nel seno del Consiglio generale
della Comune, diede l'ordine d'arrestare Roland e sua moglie (Roland
essendo partito, s'arrestò lei sola), e domandò recisamente alla
Convenzione di far arrestare 27 membri girondini. Nella sera, suonò
ancora la campana a stormo, e il cannone d'allarme fece sentire i
suoi colpi misurati.
Il 2 giugno, tutta Parigi fu in moto per finirla una buona volta.
Più di cento mila uomini armati si riunirono intorno alla
Convenzione. Essi avevano 163 pezzi d'artiglieria. Chiedevano che i
Girondini dessero le dimissioni, o, non potendolo ottenere, che
ventidue di essi (più tardi ventisette) fossero espulsi dalla
Convenzione.
Le notizie orribili che giunsero da Lione aumentarono la forza
dell'insurrezione popolare. Si seppe che, il 29 maggio, il popolo
affamato di Lione s'era sollevato, e che i contro rivoluzionari – i
realisti appoggiati dai Girondini – avevano trionfato e ristabilito
l'ordine sgozzando ottocento patriotti!
Disgraziatamente era vero e la parte avuta dai Girondini nella
contro rivoluzione di Lione era troppo evidente! La notizia mise in
furore il popolo, fu la condanna definitiva della Gironda. Il
popolo, assediando la Convenzione, dichiarò che non avrebbe lasciato
uscir nessuno, finchè non fosse stata pronunciata, in un modo o
nell'altro, la condanna dei principali Girondini.
Si sa che la Convenzione – o meglio la Destra, la Pianura ed anche
una parte della Montagna, – dichiarando che quelle deliberazioni non
erano più libere, cercò d'uscire, sperando di ingannare il popolo e
d'aprirsi un passaggio tra la folla. Ma a questo punto Hanriot,
sfoderando la sciabola, diede l'ordine famoso: Cannonieri, ai vostri
pezzi!
Dopo tre giorni di resistenza, la Convenzione fu forzata di prendere
un partito. Votò l'esclusione di trentuno de' suoi membri girondini.
Quando questo fu fatto, una deputazione del popolo. presentò alla
Convenzione la lettera seguente:
«Il popolo intero del dipartimento di Parigi ci fa suoi interpreti
presso di voi, cittadini legislatori, per dirvi che il decreto da
voi emanato è la salvezza della Repubblica. Noi veniamo ad offrirvi
di costituirci come ostaggi in numero uguale a quello del quale
l'Assemblea ha ordinato l'arresto, per rispondere ai rispettivi
dipartimenti della loro sicurezza.»
Marat, il 3 giugno, pronunciava ai Giacobini un'allocuzione, in cui
riassumeva il significato del movimento che s'era fatto, e
proclamava il diritto all'agiatezza per tutti.
«Noi abbiamo dato un grande impulso,» diceva parlando
dell'esclusione dei trentun deputati girondini; «ora sta alla
Convenzione d'assicurare le basi della felicità pubblica. Nulla di
più facile: bisogna fare la vostra professione di fede. Noi vogliamo
che tutti i cittadini chiamati sanculotti godano della felicità e
dell'agiatezza. Vogliamo che questa classe utile sia aiutata dai
ricchi in proporzione di ciò che posseggono. Non vogliamo violare le
proprietà. Ma qual'è la proprietà più sacra? Quella dell'esistenza.
Vogliamo che si rispetti questa proprietà....
«Vogliamo che tutti gli uomini che non posseggono 100,000 lire di
proprietà siano interessati a mantenere la nostra opera. Lasceremo
gridare coloro che hanno più di 100,000 lire di rendita
[evidentemente, di proprietà]... Diremo a questi uomini: «Convenite
che siamo più numerosi, e se voi non ci aiutate a spingere la ruota,
vi cacceremo dalla Repubblica, c'impadroniremo delle vostre
proprietà, e le divideremo tra i sanculotti.
Aggiungeva quest'altra idea che doveva ben presto essere messa in
esecuzione: «Giacobini, diceva, ho una verità da dirvi: voi non
conoscete i vostri più mortali nemici; sono i preti costituzionali,
sono essi che gridano di più nelle campagne contro gli anarchici,
contro i disorganizzatori, contro il dantonismo, il robespierrismo,
il giacobinismo... Non accarezzate più gli errori popolari; tagliate
le radici della superstizione! Dite apertamente che i preti son
vostri nemici.158»
In quel momento, Parigi non voleva affatto la morte dei deputati
girondini. Essa voleva solamente che fosse lasciato il posto ai
Convenzionali rivoluzionari, affinchè potessero continuare la
Rivoluzione. I deputati arrestati non furono inviati all'Abbaye:
furono custoditi in casa loro. Si continuò anche a pagar loro le 18
lire al giorno spettanti ad ogni membro della Convenzione, e
poterono circolare in Parigi, accompagnati da un gendarme, che
dovevano mantenere.
Se quei deputati, obbedienti ai principii del civismo antico, di cui
si compiacevano dichiararsi seguaci, si fossero ritirati a vita
privata, certamente sarebbero stati lasciati tranquilli. Ma invece
essi si fecero premura d'accorrere nei dipartimenti per sollevarli.
Vedendo ch'erano costretti a mettersi d'accordo coi preti e i
realisti contro la Rivoluzione, per riuscire a sollevare i
dipartimenti contro Parigi, preferirono allearsi coi traditori
monarchici piuttosto che abbandonare l'impresa. Essi camminarono di
pari passo con essi.
Allora, ma solamente allora, nel luglio 1792, la Convenzione
dichiarò fuori della legge quegl'insorti.
XLVII
LA RIVOLUZIONE POPOLARE. – IL PRESTITO FORZATO
Se qualcuno dubitasse della necessità nella quale si trovava la
Rivoluzione d'allontanare dalla Convenzione i principali uomini del
partito girondino, non avrebbe che a gettare un'occhiata sull'opera
legislativa che la Convenzione si mise a compiere, appena
schiacciata l'opposizione della destra.
L'imposta forzata sui ricchi per provvedere alle spese immense della
guerra, la fissazione del prezzo massimo delle derrate, il ritorno
ai comuni delle terre che i signori avevan loro prese dal 1669,
l'abolizione definitiva e senza riscatto dei diritti feudali, le
leggi sulle successioni, fatte per disseminare e pareggiare le
fortune, la Costituzione democratica del 1793, – tutte queste misure
si susseguirono rapidamente, appena che le Destre furono indebolite
mediante l'espulsione dei capi girondini.
Questo periodo, che durò dal 31 maggio 1793 al 27 luglio 1794 (9
termidoro, anno II della Repubblica), rappresenta il periodo più
importante di tutta la Rivoluzione. I grandi cambiamenti nei
rapporti tra cittadini, di cui l'Assemblea costituente abbozzò il
programma durante la notte del 4 agosto 1789, venivano effettuati
finalmente, dopo quattro anni di resistenza, dalla Convenzione sotto
la pressione della rivoluzione popolare. Fu il popolo – i
«sanculotti», come si diceva allora – che forzò la Convenzione a far
delle leggi in quel senso, dopo avergliene data l'opportunità con
l'insurrezione del 31 maggio. Non solo, ma fu pure esso che mise
quelle misure in esecuzione, per mezzo delle società popolari, alle
quali si rivolgevano i convenzionali in missione, quando dovevano
creare sui vari luoghi la forza esecutiva.
La carestia continua a regnare durante quel periodo di tempo, e la
guerra, che la Repubblica deve sostenere contro la coalizzazione del
re di Prussia, dell'imperatore di Germania, del re di Sardegna e del
re di Spagna, spinti ed assoldati dall'Inghilterra, prende delle
proporzioni terribili. I bisogni di quella guerra erano immensi; non
è possibile farsene un'idea, se non si tiene conto dei minimi
dettagli che si trovano nei documenti di quell'epoca e che parlano
della penuria, della rovina alla quale la Francia è ridotta
dall'invasione. In tali circostanze, veramente tragiche, quando
tutto manca, – il pane, le scarpe, le bestie da tiro, il ferro, il
piombo, il salnitro, e quando nulla può entrare nè per terra,
attraverso i quattro cento mila uomini lanciati contro la Francia
dagli alleati; nè per mare, attraverso il cerchio di navi inglesi
che fanno il «blocco», – in tali circostanze si dibattono i
sanculotti per salvare la Rivoluzione che sembra stia per crollare.
Nello stesso tempo tutti congiurano contro di lei. Tutti coloro che
parteggiano per l'antico regime, coloro che occupavano una volta dei
posti privilegiati e che sperano di riprenderli o di occuparne altri
sotto il nuovo regime monarchico, appena sarà stabilito – il clero,
i nobili, i borghesi arricchiti dalla Rivoluzione. Quelli che le
restano fedeli devono dibattersi tra il cerchio di baionette e di
cannoni che li circonda e la cospirazione interna che cerca di
colpirli a tradimento.
Vedendo questo, i sanculotti s'affrettarono ad agire in modo che
quando la reazione avesse il sopravvento trovasse una nuova Francia,
rigenerata: il contadino in possesso della terra, il lavoratore
della città abituato all'uguaglianza ed alla democrazia,
l'aristocrazia e il clero spogliati delle ricchezze che ne
costituivano la vera forza, e quelle ricchezze passate in migliaia
di mani, suddivise, interamente cambiate, irriconoscibili, per così
dire, senza restituzione possibile.
La vera storia di quei tredici mesi – giugno 1793, luglio 1794 – non
è ancora stata fatta. I documenti che serviranno un giorno per
iscriverla esistono negli archivi provinciali, nei rapporti e nelle
lettere dei Convenzionali in missione, nelle minute dei municipi,
delle società popolari, ecc. Ma non sono ancora stati esaminati con
la cura che si dedicò agli atti concernenti la legislazione della
Rivoluzione, eppure bisognerà affrettarsi, poichè vanno scomparendo
rapidamente. Ciò esigerà certamente il lavoro d'un'intera vita; ma
senza questo lavoro, la storia della Rivoluzione resterà
incompleta159.
Gli storici hanno specialmente studiato, durante questo periodo, la
guerra ed il Terrore. Eppure, non è l'essenziale. Il più importante
è l'opera immensa di suddivisione delle proprietà fondiarie, l'opera
di democratizzazione e di «scristianizzazione» della Francia,
compiute in quei tredici mesi. Raccontare quel lavoro immenso, con
tutte le lotte che produsse dovunque, in ogni città e casale della
Francia, – sarà l'opera d'uno storico futuro. Tutto ciò che possiamo
fare oggi è di metterne in evidenza qualche tratto principale.
La prima misura veramente rivoluzionaria presa dopo il 31 maggio, fu
il prestito forzato sui ricchi, per sopperire alle spese della
guerra. Abbiamo visto che la situazione della Tesoreria era
deplorevole. La guerra divorava immense somme. Gli assegnati,
lanciati in troppo grande quantità, eran sempre più in ribasso.
Nuove imposte sui poveri non avrebbero prodotto niente. – Che si
poteva dunque fare, se non tassare i ricchi? E l'idea d'un prestito
forzato d'un miliardo, prelevato sui ricchi, si faceva strada nella
nazione; idea ch'era già venuta in principio della Rivoluzione, col
ministero Necker.
Leggendo a' giorni nostri ciò che i contemporanei, rivoluzionari e
reazionari, dicevano dello stato della Francia, non si può far a
meno di pensare che ogni repubblicano, qualunque fossero le sue idee
sulla proprietà, avrebbe dovuto dichiararsi favorevole all'idea del
prestito forzato. Non v'era altra via. Quando questa questione fu
messa in campo, il 20 maggio, l'imposta fu raccomandata dal moderato
Cambon; ma i Girondini piombarono sui promotori del prestito con una
violenza inaudita, provocando alla Convenzione una scena
detestabile.
Ecco perchè tutto ciò che si potè fare il 20 maggio, fu d'accettare
l'idea d'un prestito forzato, come principio. Quanto al modo
d'esecuzione, doveva essere discusso più tardi, – o giammai, se i
Girondini fossero riusciti a mandare i Montagnardi alla «Rupe
Tarpea».
Ebbene, nella notte stessa che seguì l'espulsione dei principali
Girondini, la Comune di Parigi decideva di mettere in esecuzione,
senza ritardo, il massimo dei prezzi delle derrate; di provvedere
immediatamente all'armamento dei cittadini; di prelevare il prestito
forzato e d'organizzare l'esercito rivoluzionario, formandolo con
tutti i cittadini validi, ma escludendo dal comando i ci-devant
(ossia i nobili, gli «aristocratici»).
La Convenzione s'affrettò ad imitarla, e il 22 giugno 1793 discusse
il rapporto di Réal, che proponeva i seguenti principii del prestito
forzato. Il reddito necessario (tre mila lire per un padre di
famiglia, e 1500 lire per un celibe) è libero dal prestito. I
redditi abbondanti vi contribuiranno in modo progressivo, fino al
massimo che è di 10,000 lire per i celibi e di 20,000 per i padri di
famiglia. Se il reddito è superiore a quel massimo, è considerato
come superfluo, e richiesto interamente pel prestito. Questo
principio fu adottato. Solamente, la Convenzione, nel suo decreto
dello stesso giorno, fissò il necessario a 6000 lire pei celibi, ed
a 10,000 pei padri di famiglia160.
Però, s'accorsero, in agosto, che con quelle cifre, il prestito
avrebbe prodotto meno di duecento milioni (Stourm, p. 372, nota), e
il 3 settembre, la Convenzione dovette correggere il decreto del 22
giugno. Fissava il necessario a 1000 lire per i celibi e 1500 per i
capi di famiglia, più 1000 per ogni membro della famiglia. I redditi
abbondanti erano tassati d'un'imposta progressiva, dal 10 al 50 per
cento di reddito. Quanto ai redditi al disopra di 9000 lire, eran
tassati in modo di non lasciare mai più di 4,500 lire di reddito, in
più del necessario di cui s'è parlato, – qualunque fosse il reddito
del ricco. Tutto questo s'applicava non come imposta permanente; ma
come prestito forzato fatto per una sola volta in circostanze
straordinarie.
La cosa stupisce, ma prova in modo evidente l'impotenza dei
parlamenti. Certamente, non vi fu mai un governo che ispirasse più
terrore della Convenzione l'anno II della Repubblica. Eppure la
legge riguardante il prestito forzato non fu ubbidita. I ricchi non
pagarono. Il prestito costò immensamente; ma come prelevarlo sui
ricchi che non volevano pagare? Il sequestro? La vendita? Ma ciò
domandava un meccanismo speciale e poi v'erano già tanti beni
nazionali messi in vendita! Materialmente, il prestito fu un
insuccesso. Ma i Montagnardi avanzati riuscirono però nell'intento
che avevano di preparare così gli spiriti all'idea
dell'agguagliamento delle ricchezze, e di fargli fare un passo in
avanti.
Più tardi, anche dopo la reazione di termidoro, il Direttorio
ricorse a due riprese allo stesso mezzo – 1795 e 1799. L'idea del
superfluo e del necessario s'era fatta strada. E si sa che l'imposta
progressiva diventò il programma della democrazia durante il secolo
che seguì la Rivoluzione. Fu anche applicata in parecchi Stati, in
proporzioni più limitate – così limitate che ne rimase solo il nome.
XLVIII
LE TERRE COMUNALI.
COSA NE FECE L'ASSEMBLEA LEGISLATIVA
Abbiamo visto che due grandi problemi dominavano gli altri nella
Francia rurale: la ripresa, da parte dei comuni, delle terre
comunali, e l'abolizione finale dei diritti feudali. Eran due
problemi che agitavano due terzi della Francia, e la cui soluzione
restava sospesa, finchè i Girondini, difensori delle proprietà,
dominavano la Convenzione.
Dal principio della Rivoluzione, o meglio dal 1788, quando un raggio
di speranza era penetrato nei villaggi, i contadini avevano sperato
e anche cercato di rientrare in possesso delle terre comunali, di
cui i nobili, il clero, e i grossi borghesi s'erano impadroniti con
frode, approfittando dell'editto del 1669. Dove fu possibile, i
contadini ripresero quelle terre, non ostante la repressione
terribile che molto spesso seguiva quegli atti d'espropriazione.
In altri tempi, tutta la terra era proprietà dei comuni rurali: i
prati, i boschi, le terre incolte e quelle coltivate.
Tra i feudatari, che avevan diritto di far giustizia sugli abitanti,
i più si arrogavano anche il diritto di prelevare diverse
prestazioni in lavoro ed in natura sugli abitanti. (Ordinariamente,
tre giornate di lavoro e diversi pagamenti, o doni, in natura). In
cambio di ciò dovevano mantenere delle bande armate per la difesa
del territorio contro le invasioni e scorrerie, sia d'altri signori,
sia di stranieri, o di briganti della regione.
Però, a poco a poco, con l'aiuto del potere militare di cui
disponevano, del clero ch'era loro partigiano, e dei legisti,
versati nel diritto Romano, che mantenevano nelle loro corti, i
signori s'erano impadroniti di molte terre, come proprietà
personali. Quest'appropriazione fu lentissima, fu l'opera di più
secoli, di tutto il medioevo; ma verso la fine del XVI° secolo era
compiuta. Essi possedevano già vasti tratti di terre da lavoro e di
praterie.
Ma tanto non bastava loro ancora.
Man mano che la popolazione dell'Europa occidentale aumentava, e che
le terre acquistavano maggior valore, i signori, divenuti pari del
re e protetti da tutta l'autorità regale e religiosa, incominciarono
a desiderare le terre rimaste ai comuni rurali. Impadronirsi di
esse, con mille mezzi e pretesti, con la forza o la frode legale,
diventò cosa abituale nel XVI° e XVII° secolo, finchè l'ordinanza
del 1669, fatta dal «Re sole», Luigi XIV, diede ai signori una nuova
arma legale per appropriarsi le terre comunali.
Quest'arma era il triage (la scelta), che permetteva ai signori
d'impadronirsi d'un terzo delle terre appartenenti ai comuni,
sottomessi un tempo alla loro autorità. I feudatari s'affrettarono
di approfittare di quell'editto per sequestrare le terre migliori,
specialmente i prati, dei quali i comuni rurali avevano bisogno per
il bestiame.
Più tardi, sotto Luigi XIV e XV, i signori, i conventi, i vescovi,
ecc., continuarono a impadronirsi delle terre comunali sotto mille
pretesti. Si fondava un monastero in mezzo a foreste? I contadini
cedevano volontieri ai monaci larghi tratti della foresta. Oppure,
il signore otteneva con un'inezia il diritto di stabilire una
fattoria propria, sulle terre comunali, in mezzo a pascoli incolti,
e poi reclamava il diritto di possessione. Non si mancò neppure di
fabbricare dei titoli di possesso falsificati. Altrove, si
approfittava del bornage (limite), e in parecchie provincie il
signore, dopo aver circondato d'un recinto una parte di terre
comunali, se ne dichiarava ben presto proprietario e riceveva dalle
autorità reali o dai parlamenti il diritto di proprietà del recinto
stesso. Essendo trattata come ribellione la resistenza opposta dai
comuni a quelle appropriazioni, poichè il signore aveva protettori a
Corte, il saccheggio delle terre comunali si faceva, in grande e in
piccolo, su tutta l'estensione del regno161.
Ma da che i contadini avevano sentito l'avvicinarsi della
Rivoluzione, cominciarono ad esigere che le appropriazioni fatte dal
1669 (sia per la legge del triage, sia per altre ragioni) fossero
riconosciute illegali, per cui tali terre dovevano essere rese ai
comuni rurali, unitamente a quelle che i comuni stessi eran stati
obbligati a cedere ai privati, con mille mezzi fraudolenti. In certi
luoghi, i contadini avevano già ripreso quelle terre durante le
sollevazioni del 1789 e 1792. Ma la reazione avrebbe potuto tornare
da un momento all'altro, e i ci-devant toglierebbero loro le terre
di bel nuovo. Bisognava dunque generalizzare la ripresa,
legalizzarla. A ciò s'erano opposte le due Assemblee Costituente e
Legislativa, ed anche la Convenzione, dominata dai Girondini.
Bisogna notare qui che l'idea di dividere le terre comunali tra gli
abitanti del comune, ch'era spesso sollevata dai borghesi del
villaggio, non era approvata dalla grande massa dei contadini
francesi; come ora non è approvata dai contadini russi, bulgari,
serbi, arabi, kabili, indiani ed altri, che vivono ai nostri giorni
ancora sotto il regime della proprietà comunale. Si sa difatti che
allorquando delle voci si fanno sentire, in un paese di proprietà
comunale, per la divisione delle terre appartenenti ai comuni,
partono sempre da qualche borghese del villaggio, che, arricchito da
un piccolo commercio qualsiasi, spera di appropriarsi i campicelli
dei poveri, qualora le terre fossero distribuite. La massa, invece,
dei contadini è generalmente opposta alla divisione.
Lo stesso avvenne in Francia durante la Rivoluzione. Di fianco alla
massa immersa nella miseria spaventosa, sempre crescente, v'era,
come s'è detto, il contadino-borghese, che s'arricchiva in un modo o
nell'altro. I suoi reclami giungevano specialmente all'orecchio
dell'amministrazione rivoluzionaria, borghese d'origine, di gusti, e
per certi modi di considerare le cose.
Quei borghesi-contadini erano perfettamente d'accordo con la massa
dei contadini poveri per domandare il ritorno ai comuni delle terre
comunali, di cui s'erano impossessati i signori nel 1669; ma erano
contro quella massa, quando domandavano la spartizione definitiva
delle terre comunali.
Erano contro quella massa, tanto più che nei comuni rurali ed
urbani, s'era fissata una distinzione nel corso dei secoli tra due
classi d'abitanti. Vi erano le famiglie più o meno agiate, che
discendevano o pretendevano discendere dai primi fondatori del
comune. Questi si chiamavano «i borghesi», die Bürger in Alsazia, «i
cittadini», o «le famiglie». V'erano quelli venuti più tardi a
stabilirsi nel comune e che si chiamavano «gli abitanti», les
manants (villani), die Ansässigen in Alsazia e in Isvizzera.
Solamente i primi avevan diritto alle terre comunali arabili, e
partecipavano al diritto di pascolo e ad altri diritti del comune
sui boschi, i terreni incolti, le foreste, ecc. Invece agli
abitanti, ai villani, agli Ansässigen, si rifiutava tutto. Era già
molto che si permettesse loro di far pascolare una capra sui terreni
incolti, o di raccattare legna o castagne.
Le cose erano ancor più tese, da che l'Assemblea nazionale aveva
fissata la funesta distinzione tra cittadini attivi e passivi, e
questo non solo pei diritti politici, ma anche per le elezioni del
Consiglio comunale, dei suoi funzionari, dei giudici, ecc. Con la
legge municipale del dicembre 1789, la Costituente aveva abolito
l'assemblea popolare del villaggio, composta di tutti i capi di
famiglia del comune (il mir russo), che fino allora (salvo le
restrizioni imposte da Turgot) continuava a riunirsi sotto l'olmo o
all'ombra del campanile. Essa aveva invece stabilito il municipio
eletto, ed eletto solamente dai cittadini attivi.
Da quel momento, l'incetta delle terre comunali da parte dei
contadini ricchi e dei borghesi, dovette estendersi rapidamente. Era
facile ai cittadini «attivi» d'intendersi tra loro per comprare le
migliori terre comunali, privando nello stesso tempo i poveri del
godimento delle terre comunali, che rappresentavano forse l'unica
garanzia della loro esistenza. Il caso avvenne certo in Brettagna
(forse anche in Vandea), dove i contadini, come lo si vede dalle
leggi stesse del 1793, godevano d'ampii diritti su immensi spazi di
terreni incolti, brughiere, pascoli, ecc. La borghesia dei villaggi
si mise a contestare tali diritti, quando l'antico costume
dell'Assemblea comunale fu abolito dalla legge del dicembre 1789.
Sotto l'impulso delle leggi della Costituente, la piccola borghesia
campagnola, domandando che fossero restituite ai villaggi le terre
perdute con la legge del triage, domandava anche che si decretasse
la divisione delle terre comunali. Era certo sicura che se la
divisione fosse stata decretata dall'Assemblea nazionale, sarebbe
stata a vantaggio dei contadini agiati. I poveri, i passivi ne erano
esclusi. Ma l'Assemblea Costituente, l'Assemblea Legislativa, fino
all'agosto 1792, non fecero nulla. Esse s'opponevano a qualsiasi
soluzione delle questioni fondiarie sfavorevole ai signori e non
intraprendevano nulla162.
Eppure, dopo il 10 agosto, alla vigilia di separarsi, la Legislativa
si sentiva costretta di fare qualche cosa. E ciò che fece, fu a
vantaggio della borghesia campagnola.
I1,14 agosto 1792, su proposta di François (di Neufchâteau),
l'Assemblea ordinava quanto segue: «1° Da quest'anno, subito dopo il
raccolto, tutti i terreni e usi comunali, fuorchè i boschi [cioè,
anche i terreni di pascolo posseduti dai comuni e sui quali il
diritto di pastura apparteneva generalmente a tutti gli abitanti],
saranno divisi tra i cittadini d'ogni comune; 2° questi cittadini
godranno in completa proprietà delle loro porzioni rispettive; 3° i
beni comunali, conosciuti sotto i nomi di sursis e vacanti, saranno
egualmente divisi tra gli abitanti; 4° per fissare il modo di
divisione, il Comitato d'agricoltura presenterà fra tre giorni un
progetto di decreto». Con questo stesso decreto la Legislativa
aboliva la solidarietà nei pagamenti di cànoni e d'imposte dovuti
dai contadini163.
Un colpo perfido e funesto veniva così dato alla proprietà comunale.
Quel decreto, compilato alla meglio e in modo vago, sembra così
stravagante che per qualche tempo io credetti che il testo datone da
Dalloz, fosse un riassunto imperfetto, e ne cercai il testo
completo. Ma è proprio il testo esatto e completo di quella legge
straordinaria, che, con un tratto di penna, aboliva la proprietà
comunale in Francia, privando d'ogni diritto sulle terre comunali
coloro che si chiamavano gli abitanti, gli Ansässigen.
Comprendiamo perfettamente il furore che quel decreto dovette
provocare in Francia, nella classe povera della popolazione rurale.
Fu capito come l'ordine di dividere le terre comunali tra i
cittadini, escludendone gli «abitanti», i poveri. Era la
spogliazione a vantaggio del borghese campagnuolo. Quel decreto, col
suo paragrafo 3, avrebbe potuto bastare per sollevare tutta la
Brettagna agricola.
Già, l'8 settembre 1792, veniva letto un rapporto alla Legislativa
per constatare che l'esecuzione di quel decreto incontrava tali
ostacoli nella popolazione, ch'era impossibile applicarlo. Ma non si
fece nulla. La Legislativa si separò senza averlo abrogato. Ciò fu
fatto solo in ottobre dalla Convenzione.
Visto le difficoltà d'applicazione, la Convenzione risolvette
dapprima (decreto dell'11-13 ottobre 1792) che «i comunali in
coltivazione continueranno fino all'epoca della divisione ad essere
coltivati e seminati come per il passato, secondo gli usi dei
luoghi; e i cittadini che avranno fatto le suddette colture e
seminagioni godranno i raccolti provenienti dai loro lavori.»
(Dalloz, IX, 186).
Finchè i Girondini dominavano la Convenzione, non era possibile far
di più. È molto probabile che i contadini – almeno dove il tenore di
quel contro-decreto fu loro spiegato – capirono che il colpo della
spartizione dei terreni comunali, di cui la Legislativa li aveva
colpiti il 14 agosto, non era riuscito questa volta. Ma chi misurerà
il male fatto alla Rivoluzione da quella minaccia d'espropriazione
dei comuni, rimasta sospesa su di essi? Chi dirà gli odii ch'essa
provocò, nelle regioni agricole, contro i rivoluzionari della città?
Eppure, non è tutto. Il 28 agosto e il 14 settembre 1792, alla
vigilia di separarsi, la Legislativa lanciò un altro decreto sulle
terre comunali, e se esso fosse stato mantenuto, sarebbe riuscito a
tutto vantaggio dei signori. È vero ch'esso dichiarava che le terre
vaines et vagues «sono ritenute come appartenenti ai comuni rustici,
e saranno loro attribuite dai tribunali»; ma se il signore se le
fosse appropriate da quarant'anni e le avesse possedute di poi,
restavano sua proprietà164. Questa legge, come lo dimostrò più tardi
Fabre (dell'Hérault), in un rapporto che fece alla Convenzione, era
d'un grande vantaggio pei signori, poichè «quasi tutti i ci-devant
signori avrebbero potuto invocare la prescrizione dei quarant'anni e
rendere così inutili le disposizioni di quell'articolo favorevole ai
comuni165.» Fabre metteva pure in evidenza l'ingiustizia
dell'articolo III di quel decreto, secondo il quale il comune non
poteva più rientrare in possesso delle sue terre, una volta che il
signore avesse venduto a dei terzi i suoi diritti sulle terre che
aveva tolte ai comuni. Inoltre, Dalloz ha mostrato benissimo (pag.
168 e seguenti) quanto fosse difficile ai comuni di trovare le prove
positive, certe, che domandavan loro i tribunali, per farli
rientrare in possesso delle loro terre.
Così com'era, la legge 28 agosto-14 settembre 1792 volgeva sempre a
vantaggio degl'incettatori di beni comunali. La questione delle
terre comunali non potè essere rimessa in campo in senso favorevole
alla massa dei contadini che alla Convenzione, e ciò solamente dopo
l'insurrezione dal 31 maggio al 2 giugno e l'esclusione dei
Girondini.
XLIX
LE TERRE SONO RESTITUITE AI COMUNI
Finchè i Girondini dominavano, la questione restò così senza
soluzione. La Convenzione non fece nulla per attenuare l'effetto
funesto dei decreti d'agosto 1792, e, meno ancora, per accettare la
proposta di Mailhe, concernente le terre tolte ai comuni dai
signori.
Ma, immediatamente dopo il 2 giugno, la Convenzione riprese in esame
la questione, per votare, già l'11 giugno 1793, la grande legge
sulle terre comunali, che fece epoca nella vita dei villaggi e fu
per le sue conseguenze una delle più feconde della legislazione
francese. Con questa legge, tutte le terre tolte ai comuni da due
secoli, in virtù dell'ordinanza di triage del 1669, dovevano essere
loro rese, come tutte le terre deserte, incolte, di pascolo, lande,
giuncaie, ecc., di cui s'erano impadroniti dei privati in un modo
qualsiasi – senza escluderne quelle per le quali la Legislativa
aveva stabilito la prescrizione di quarant'anni di possesso166.
Eppure, votando quella misura necessaria e giusta che distruggeva
gli effetti delle spogliazioni commesse sotto l'antico regime, la
Convenzione faceva nello stesso tempo un passo falso, concernente la
spartizione delle terre. C'erano in proposito due correnti d'idee
alla Convenzione, come in tutta la Francia. I borghesi-contadini che
desideravano da tanto tempo il possesso delle terre comunali, delle
quali spesso avevano una parte in affitto, volevano la spartizione.
Essi sapevano che, la spartizione fatta, sarebbe stato loro facile
di comprare le terre date ai poveri. E volevano, come s'è detto, che
la divisione fosse fatta tra i «cittadini» solamente, escludendo gli
«abitanti» o anche i cittadini poveri (i cittadini passivi del
1789). Quei borghesi-contadini trovarono nel seno dell'Assemblea
energici avvocati, che parlarono, come sempre, in nome della
proprietà, della giustizia dell'uguaglianza, mostrando che i diversi
comuni avevano delle proprietà disuguali, il che però non impediva
loro di difendere l'ineguaglianza nel seno d'ogni comune. Essi
domandarono la spartizione obbligatoria167. Eran molto rari coloro
che, come Julien Souhait, deputato dei Vosgi, domandavano la
conservazione della proprietà comunale.
Ma non c'erano più i capi Girondini per sostenerli, e la Convenzione
epurata e dominata dai Montagnardi, non ammise che le terre comunali
potessero essere divise tra una sola parte degli abitanti. Credeva,
invece, di far bene e d'agire nell'interesse dell'agricoltura,
autorizzando la divisione delle terre per ogni abitante. L'idea da
cui si lasciò sedurre fu che nessuno in Francia si dovesse veder
rifiutato il possesso d'una parte del suolo della Repubblica.
Dominata da quest'idea, essa favorì, si può dire, più che non
permise, la spartizione delle terre comunali.
La spartizione, dice la legge dell'11 giugno 1793, dovrà essere
fatta tra tutti, per ogni abitante domiciliato, di qualsiasi età e
sesso, assente o presente (sezione II, articolo 1°). Ogni cittadino,
senza escluderne i garzoni coltivatori, i domestici di fattoria,
ecc., domiciliato da un anno nel comune, vi sarà compreso. E per
dieci anni, la porzione di territorio comunale, toccata ad ogni
cittadino, non potrà essere sequestrata per debiti (sezione III,
art. 1°).
Però, la spartizione non sarà che facoltativa. L'assemblea degli
abitanti, composta di qualsiasi individuo dei due sessi, avente
diritto alla divisione e dell'età di 21 anni, sarà convocata una
domenica, e deciderà se vuole dividere tutti i beni comunali, o solo
in parte. Se il terzo dei voti è favorevole alla ripartizione,
questa sarà decisa (sezione III, art.9) e non potrà essere revocata.
Si capisce quale immenso cambiamento dovette produrre questo decreto
nella vita economica dei villaggi. Tutte le terre, tolte da due
secoli ai comuni per mezzo del triage, dei debiti inventati o della
frode, potevano ora essere riprese dai contadini. La prescrizione
dei quarant'anni era abolita: si poteva dunque risalire fino al
1669, per riprendere le terre sequestrate dai potenti e dagli
scaltri. E le terre comunali, aumentate da tutte quelle che la legge
dell'11 giugno restituiva ai contadini, appartenevano ora a tutti, a
tutti quelli che abitavano nei comuni da un anno, in proporzione del
numero dei ragazzi dei due sessi e dei vecchi in ogni famiglia. La
distinzione tra cittadini ed abitanti scompariva. Ciascuno aveva
diritto a quelle terre. Era una vera rivoluzione.
Quanto all'altra parte della legge, concernente la spartizione e le
facilità accordate per compierla (un terzo del comune poteva imporlo
agli altri due), fu applicata in certe parti della Francia, ma non
generalmente. Nel Nord, dov'erano pochi pascoli, si divisero
volentieri i terreni comunali. In Vandea, in Brettagna, i contadini
s'opposero violentemente alla divisione fatta su domanda d'un terzo
degli abitanti. Tutti desideravano di tenere intatti i propri
diritti di pascolo, ecc., sulle terre incolte. In altri luoghi, le
spartizioni furono numerose. Nella Mosella, per esempio, paese di
vigneti, 686 comuni divisero i beni comunali (107 per testa, 579 per
famiglia), e 119 solamente non vollero nessuna divisione. Ma in
altri dipartimenti del Centro e dell'Ovest, la grande maggioranza
dei comuni conservò le terre indivise.
In generale, i contadini, che sapevano benissimo che se le terre
comunali fossero state divise, le famiglie povere sarebbero
diventate presto delle famiglie di proletari, più povere di prima,
non s'affrettavano a votare per la spartizione.
È chiaro che la Convenzione non fece nulla assolutamente per
eguagliare i vantaggi conferiti ai comuni dalla legge dell'11
giugno; eppure i suoi membri, borghesi, amavan tanto di parlare
delle inuguaglianze, che si sarebbero prodotte, se i comuni fossero
rientrati semplicemente in possesso delle terre ch'eran loro state
tolte. Parlare di quei poveri comuni che non avrebbero ricevuto
nulla, era un buon pretesto per non far nulla e lasciar le terre
derubate agli spogliatori. Ma quando si presentò l'occasione di
proporre qualche cosa per impedire quell'«ingiustizia», non fu
proposto nulla168. I comuni che s'affrettarono, senza perdere quel
tempo prezioso, a riprendere le loro antiche terre, di fatto, sul
posto, le ebbero, e quando la reazione trionfò e i signori
ridivennero potenti, non poterono riprendere nulla di ciò che la
legge aveva loro tolto, ossia le terre di cui i contadini avevano
ripreso possesso reale. In quanto ai comuni che esitarono, non
ebbero nulla.
Appena la reazione sottomise i rivoluzionari, e l'insurrezione degli
ultimi Montagnardi fu vinta il 1° pratile anno III (20 maggio 1795),
la prima cura della Convenzione reazionaria fu d'annullare i decreti
rivoluzionari della Convenzione montagnarda. Il 21 pratile anno IV
(9 giugno 1796) si lanciava già un decreto per impedire la
restituzione delle terre ai comuni169.
Un anno dopo, il 21 maggio 1797, una nuova legge proibiva ai comuni
rurali d'alienare o di cambiare i loro beni in virtù delle leggi
dell'11 giugno e del 24 agosto 1793. Bisognò ormai domandare una
legge speciale per ogni atto di vendita. Tutto questo, certamente,
per arrestare il saccheggio troppo scandaloso delle terre comunali,
che si faceva dopo la Rivoluzione.
Finalmente, più tardi ancora, sotto l'Impero, vi furono parecchi
tentativi per abolire la legislazione della Convenzione. Ma, osserva
Sagnac (p. 339), «i tentativi successivi del Direttorio, del
Consolato e dell'Impero, contro la legislazione della Convenzione
fallivano miseramente.» C'eran troppi interessi stabiliti dalla
parte dei contadini, perchè si potessero combattere efficacemente.
Tutto sommato, si può dire che i comuni entrati di fatto in possesso
reale delle terre che eran loro state prese dal 1669, restarono per
la maggior parte in possesso di quelle terre. E quei che non le
avevano avute prima del mese di giugno 1796, non ottennero nulla. In
Rivoluzione contano solo i fatti compiuti.
L
ABOLIZIONE DEFINITIVA DEI DIRITTI FEUDALI
Quando la monarchia fu abolita, la Convenzione dovette, fin dalle
prime sedute, occuparsi dei diritti feudali. Ma, siccome i Girondini
s'opponevano all'abolizione di questi diritti senza riscatto e,
d'altra parte, proponevano nessun sistema di riscatto, obbligatorio
per il signore, il tutto restò in sospeso, mentre era la questione
principale per la metà della Francia. Sarebbe il contadino tornato
sotto il giogo feudale, e avrebbe subìto ancora la carestia, appena
il periodo rivoluzionario volgesse alla fine?
Dopo che i capi girondini furono espulsi dalla Convenzione, questa
s'affrettò dunque a votare il decreto che restituiva ai comuni le
terre comunali. Ma esitò ancora a pronunciarsi sui diritti feudali,
e solo il 17 luglio 1793, risolvette finalmente di menare il gran
colpo che doveva suggellare la Rivoluzione, legalizzandola in uno
dei suoi principali oggetti: l'abolizione definitiva dei diritti
feudali.
La monarchia aveva cessato d'esistere il 21 gennaio 1793. Ora, il 17
luglio 1793, la legge cessava di riconoscere in Francia i diritti
del signore feudale – la servitù d'un uomo verso un altro.
Il decreto del 17 luglio era perfettamente esplicito. Le distinzioni
stabilite dalle Assemblee precedenti tra diversi diritti feudali,
nella speranza di conservarne una parte, furono annullate. Ogni
diritto, nato dal contratto feudale, cessava d'esistere puramente e
semplicemente.
«Tutti i cànoni già signorili, diritti feudali, fissi e casuali,
anche quelli consacrati dal decreto del 25 agosto ultimo scorso,
sono soppressi senza indennità», dice l'articolo 1° del decreto del
17 luglio 1793. Non v'ha che un'eccezione: resteranno le rendite o
prestazioni puramente fondiarie, non feudali (art. 2).
Così l'assimilazione delle rendite feudali alle rendite fondiarie,
ch'era stata stabilita nel 1789 e nel 1790, è completamente abolita.
Se una rendita, o un'obbligazione qualunque, ha un'origine feudale,
qualunque sia la sua denominazione, è abolita irrevocabilmente,
senza indennità. La legge del 1790 diceva che se qualcuno avesse
preso in affitto un terreno, alla condizione di pagare una certa
rendita annua, avrebbe potuto ricomprare quella rendita, pagando una
somma che rappresentasse la rendita annua venti o venticinque volte.
E i contadini accettavano questa condizione. Ma aggiungeva la legge,
se oltre la rendita fondiaria, il proprietario avesse imposto, tempo
prima, un cànone qualunque di carattere feudale: un tributo, per
esempio, da pagare sulle vendite o le eredità, o un'infeudazione
qualsiasi, o un censo che rappresentasse un'obbligazione personale
del colono verso il proprietario (obbligazione d'impiegare il mulino
o il torchio del signore, o un limite del diritto di vendita dei
prodotti, o un tributo su questi); non fosse pure che un tributo da
pagare al momento dell'annullamento dell'affitto, o quando la terra
cambiasse proprietario – il colono doveva riscattare
quest'obbligazione feudale insieme con la rendita fondiaria.
Ora, la Convenzione dà un colpo veramente rivoluzionario. Non vuol
saperne di quelle sottigliezze. Il vostro colono ha la vostra terra
con un'obbligazione di carattere feudale? Allora, qualunque sia il
nome di tale obbligazione, è soppressa senza riscatto. Oppure, il
colono vi paga una rendita fondiaria che non ha nulla di feudale. Ma
oltre tale rendita gli avete imposto un'infeudazione, un censo, un
diritto feudale qualsiasi? Ebbene, egli diventa proprietario di
questa terra, senza dovervi nulla.
Ma, direte, questa obbligazione era insignificante, era puramente
onorifica. Tanto peggio per voi! Volevate fare del colono un
vassallo, – eccolo libero, padrone della terra alla quale si
annetteva l'obbligazione feudale, e senz'alcun obbligo verso di voi.
Dei semplici privati, dice Sagnac (p. 147), «essi pure, sia per
vanità, sia per forza d'uso, hanno impiegato quelle forme
proscritte, hanno stipulato nei loro contratti d'affitto a rendite
modici censi o piccoli laudemi e vendite», – essi hanno
semplicemente «voluto darsi l'aria del signore».
Peggio per loro. La Convenzione montagnarda non domanda loro se
hanno voluto darsi l'aria del signore o cercato di diventarlo. Essa
sa che tutti i cànoni feudali furono deboli e modici in principio,
per diventare, col tempo, molto pesanti. Questo contratto ricorda la
feudalità, come tutti quelli che hanno mantenuto per dei secoli
servi i contadini; essa vi scorge l'impronta feudale, e dà la terra
al contadino, che l'aveva in affitto, senza domandargli alcuna
indennità.
Fa anche di più. Ordina (art. 6) che «tutti i titoli che riconoscono
i diritti soppressi siano bruciati». Signori, notai, commissari à
terrier, tutti dovranno portare alla cancelleria del municipio,
entro tre mesi, tutti quei titoli, tutte quelle carte che
ammettevano il potere d'una classe su un'altra. Tutto sarà
ammucchiato e distrutto. Ciò che veniva fatto dai contadini
sollevati nel 1789, a rischio d'essere impiccati, sarà fatto per
ordine della legge. «Cinque anni di ferri contro ogni depositario,
colpevole d'aver nascosto, sottratto o custodito le minute o copie
di questi atti.» Molti di essi provano il diritto di proprietà dello
Stato su certe terre feudali, poichè lo Stato aveva avuto in altri
tempi i suoi servi e, più tardi, i suoi vassalli. Poco importa! Il
diritto feudale deve scomparire e scomparirà. Ciò che l'Assemblea
costituente aveva fatto per i titoli feudali, – principe, conte,
marchese, – la Convenzione lo fa ora per i diritti pecuniari della
feudalità.
Sei mesi più tardi, l'8 piovoso anno II (27 gennaio 1794), in
presenza di numerosi reclami, soprattutto dalla parte dei notai che
iscrivevano negli stessi libri, spesso sulla stessa pagina, le
obbligazioni puramente fondiarie e i cànoni feudali, – la
Convenzione acconsentì a sospendere l'effetto dell'articolo 6: i
municipi potevano tenere nei loro archivi i titoli misti. Ma la
legge del 17 luglio restava intatta, e ancora una volta, il 29
floreale anno II (18 maggio 1794), la Convenzione confermava che
tutte le rendite, «segnate della più leggera impronta di feudalità»,
erano soppresse senza indennità.
È specialmente da osservare che la reazione fu incapace d'abolire
l'effetto di questa misura rivoluzionaria. Certo, come si disse già,
tra la legge scritta e la sua applicazione in ogni località, corre
un gran passo. Dove i contadini non s'erano ancora sollevati contro
i signori, dove marciavano, come in Vandea, sotto la direzione dei
signori e dei preti contro i sanculotti; dove i municipi rurali
restarono nelle mani dei preti e dei ricchi, in tutti quei luoghi, i
decreti dell'11 giugno e del 17 luglio non furono applicati. I
contadini non tornarono in possesso delle terre comunali; non ebbero
per loro le terre che avevano in affitto dagli ex-signori feudali.
Non abbruciarono i titoli feudali, e nemmeno comprarono i beni
nazionali, temendo d'esser maledetti dalla Chiesa.
Ma in una buona metà della Francia, i contadini comprarono i beni
nazionali. Qua e là se li fecero vendere a piccoli appezzamenti.
Presero possesso delle terre che avevano in affitto dai loro
ex-feudatari, piantarono il Maggio e fecero dei falò con tutte le
cartaccie feudali. Ripresero ai monaci, ai borghesi ed ai signori le
terre comunali. E in quelle regioni, il ritorno della reazione non
ebbe alcuna influenza sulla rivoluzione economica compiuta.
La reazione tornò il 9 termidoro, e con essa il terrore bleu della
borghesia arricchita. Più tardi vennero il Direttorio, il Consolato,
l'Impero, la Restaurazione, che abolirono la maggior parte delle
istituzioni democratiche della Rivoluzione. Ma quella parte
dell'opera compiuta dalla Rivoluzione restò: resistette a tutti gli
assalti. La reazione potè demolire, fino ad un certo punto, l'opera
politica della Rivoluzione; ma sopravvisse l'opera economica. Restò
anche la nuova nazione trasfigurata, che s'era formata durante la
burrasca rivoluzionaria.
Non è tutto. Quando si studiano i risultati economici della Grande
Rivoluzione, come si compì in Francia, si capisce l'immensa
differenza che corre tra l'abolizione del feudalismo compiuta
burocraticamente, dallo Stato feudale stesso (in Prussia, dopo il
1848, o in Russia, nel 1861), e l'abolizione compiuta da una
rivoluzione popolare. In Prussia e in Russia, i contadini furono
liberati dai cànoni e dalle corvées feudali perdendo una parte
considerevole delle terre che possedevano ed accettando un pesante
riscatto che li ha rovinati. Si sono impoveriti per acquistare una
proprietà libera, mentre i signori, che avevano dapprima resistito
alla riforma, ne trassero un profitto insperato (almeno nelle
regioni fertili). Quasi dappertutto, in Europa, la riforma ha
aumentata la potenza dei signori.
Solamente in Francia, dove l'abolizione del regime feudale si fece
rivoluzionariamente, il cambiamento fu a scapito dei signori, come
casta economica e politica, e a vantaggio della grande massa dei
contadini.
LI
BENI NAZIONALI
La Rivoluzione del 31 maggio ebbe lo stesso effetto salutare sulla
vendita dei beni nazionali. Fino a quel momento essa era stata
vantaggiosa specialmente pei ricchi borghesi. Ora i Montagnardi
fecero in modo che le terre messe in vendita potessero essere
acquistate da quei cittadini poveri che volevano coltivarle da sè.
Quando i beni del clero e, più tardi, quelli degli emigrati, furono
confiscati dalla Rivoluzione e messi in vendita, fu divisa dapprima
una parte di essi in piccoli appezzamenti, e si concessero ai
compratori dodici anni per versare il prezzo d'acquisto. Ma questo
cambiò, mano mano che col crescere della reazione del 1790-1791, la
borghesia costituiva il suo potere. Del resto, siccome era a corto
di mezzi, lo Stato preferiva vendere subito agli aggiottatori. Non
si vollero dividere i poderi; si vendettero grandi proprietà intere
ad individui che pagavano a contanti, in vista di speculazioni. È
vero che i contadini costituirono qualche volta dei gruppi, dei
sindacati per comprare, ma la legislazione vedeva di mal'occhio quei
sindacati, e una massa immensa di beni passava agli speculatori. I
piccoli agricoltori, i giornalieri, gli artigiani nei villaggi,
gl'indigenti si lamentavano tutti. Ma la Legislativa non dava peso
alle loro proteste170.
Parecchi quaderni avevano ben domandato che le terre della Corona e
quelle di manomorta intorno a Parigi, fossero divise e affittate in
appezzamenti di quattro o cinque jugeri. Gli Artesiani domandarono
pure che le dimensioni dei poderi fossero ridotte a «trecento misure
di terra» (Sagnac, p. 80). Ma, come ha già detto Avenel, «nè nei
discorsi pronunciati su questo oggetto [all'Assemblea], nè nei
decreti votati, non troviamo una sola parola in favore di chi non ha
terre..... Nessuno all'Assemblea propose l'organizzazione d'un
credito popolare, affinchè quegli affamati potessero acquistare
alcuni appezzamenti Non si diede neppure importanza al voto di
alcuni giornali, come il Moniteur, i quali proponevano che la metà
delle terre da vendere fosse divisa in appezzamenti di 5000 franchi,
per creare una certa quantità di piccoli proprietari171». I
compratori d'appezzamenti furono in maggior parte dei contadini che
avevano già altre proprietà, oppure dei borghesi venuti dalla città,
– e questo fatto non piacque punto in Brettagna ed in Vandea.
Ma il popolo si solleva il 10 agosto. Allora, sotto la minaccia
della rivolta, la Legislativa cerca di calmare le proteste,
ordinando che le terre degli emigrati saranno messe in vendita in
piccoli appezzamenti da 2 a 4 jugeri, per essere vendute «a
perpetuità in affitto con rendita in denaro». Però, coloro che
comprano a contanti hanno sempre la preferenza.
Il 3 giugno 1793, dopo l'espulsione dei Girondini, la Convenzione
fece la promessa di dare un jugero ad ogni capo di famiglia
proletaria nei villaggi, e vi fu un certo numero di rappresentanti
in missione che la realizzò e distribuì piccoli appezzamenti di
terre ai contadini più poveri. Ma solamente il 2 frimaio anno II (22
novembre 1793), la Convenzione ordinò che i beni nazionali, messi in
vendita, fossero suddivisi il più possibile. Per l'acquisto dei beni
degli emigrati, furono create condizioni favorevoli ai poveri, e
furono mantenute fino al 1796, epoca in cui la reazione le abolì.
Bisogna dire però che le finanze della Repubblica erano sempre in
istato deplorevole. Le imposte erano difficili da riscuotere e la
guerra assorbiva miliardi sopra miliardi. Gli assegnati perdevano
del loro valore e, in tali condizioni, l'essenziale era d'avere il
denaro al più presto possibile con la vendita dei beni nazionali,
per distruggere una quantità corrispondente d'assegnati delle
emissioni precedenti. Ecco perchè i governanti, Montagnardi come
Girondini, pensavano meno al piccolo agricoltore che alla necessità
di realizzare subito delle somme molto forti. Colui che pagava a
contanti aveva sempre la preferenza.
Eppure, non ostante tutti gli abusi e tutte le speculazioni, si
facevan delle vendite considerevoli di piccoli appezzamenti. I
grossi borghesi s'arricchirono rapidamente acquistando i beni
nazionali, ma nello stesso tempo, in varie parti della Francia,
specialmente nell'Est, delle quantità considerevoli di terre
passarono nelle mani dei contadini poveri in piccoli appezzamenti,
come l'ha mostrato Loutchitzky. In quei luoghi, si ebbe una vera
rivoluzione compiuta nel regime della proprietà.
Bisogna anche ricordare che l'idea della Rivoluzione era di colpire
la classe degli aristocratici proprietari e di distruggere le grandi
proprietà, abolendo i maggioraschi nelle successioni. A questo fine,
soppresse fino dal 15 marzo 1790 la successione feudale, che
permetteva ai signori di trasmettere le loro proprietà ad un solo
discendente, generalmente al figlio maggiore. Nell'anno seguente
(8-15 aprile 1791) fu abolita ogni inuguaglianza legale nei diritti
d'eredità. «Ogni erede dello stesso grado succede a porzioni eguali
dei beni che la legge gli assegna.» A poco a poco il numero degli
eredi andò estendendosi, con l'aggiunta dei collaterali e dei figli
naturali, e infine, il 7 marzo 1793, la Convenzione aboliva «la
facoltà di disporre dei propri beni, sia in causa di morte, sia tra
vivi, sia per donazione mediante contratto in linea diretta»; «tutti
i discendenti avranno una parte uguale sui beni degli ascendenti».
In tal modo, si rendeva obbligatoria la divisione delle proprietà,
almeno in caso d'eredità.
Quale fu l'effetto di queste tre grandi misure – l'abolizione dei
diritti feudali senza riscatto, la restituzione delle terre ai
comuni e la vendita dei beni sequestrati al clero e agli emigrati?
Che influenza ebbero sulla ripartizione delle proprietà fondiarie?
Questa domanda è stata discussa finora, e le opinioni restano sempre
contradditorie, Si può dire anche ch'esse variano a seconda dello
studio che il tale o il tal'altro esploratore fa su una parte o
l'altra della Francia172.
Però, un fatto domina tutti gli altri, ed è ben accertato. La
proprietà fu suddivisa. Dove la Rivoluzione trascinò le masse con
sè, molte terre passarono ai contadini. E dappertutto, l'orribile,
la cupa miseria dell'antico regime cominciò a scomparire. Non si
ebbe più nel diciannovesimo secolo la carestia allo stato cronico,
che rovinava periodicamente un terzo della Francia.
Prima della Rivoluzione, la carestia colpiva regolarmente, ogni
anno, qualche parte della Francia. Le condizioni erano perfettamente
uguali a quelle della Russia attualmente. Per quanto il contadino
lavorasse, non riusciva mai ad avere il pane da un raccolto
all'altro. Coltivava male, le sementi erano cattive, le sue magre
bestie, sfinite dalla mancanza di nutrizione, non gli davano il
letame necessario per fertilizzare la terra. I raccolti diventavano
cattivi ogni anno. «Come in Russia!» s'è forzati di dirlo ad ogni
pagina, quando si leggono i documenti e le opere che parlano della
Francia agricola sotto l'antico regime.
Ma ecco la Rivoluzione. La tempesta è terribile. Le sofferenze
causate dalla Rivoluzione, e specialmente dalla guerra, sono
inaudite, tragiche. In certi momenti pare di vedere la Francia
precipitare nell'abisso! Vengono quindi la reazione del Direttorio,
le guerre dell'Impero, e infine la reazione dei Borboni, rimessi sul
trono nel 1814 dalla coalizione dei re e degli imperatori. Con essi
si ha il Terrore bianco più terribile del Terrore rosso. E gli
spiriti superficiali dicono: «Vedete che le rivoluzioni non servono
a nulla!»
Eppure, vi son due cose che nessuna reazione ha potuto cambiare. La
Francia fu democratizzata dalla Rivoluzione a tal punto che chiunque
abbia vissuto in Francia non può vivere in altro paese d'Europa
senza dire: «Si vede ad ogni istante che la Grande Rivoluzione non è
ancor passata qui». In Francia, il contadino è diventato un uomo,
non è più «la bestia selvatica», di cui ci parlava La Bruyère. È un
essere pensante. Tutto l'aspetto della Francia rurale è stato
cambiato dalla Rivoluzione, e neppure il Terror bianco ha potuto far
ricadere il contadino francese sotto l'antico regime. Naturalmente,
anche in Francia, si riscontra troppa povertà nei villaggi; ma si
potrebbe chiamare ricchezza in confronto di ciò che fu la Francia
150 anni fa, e di quel che vediamo sempre oggigiorno, dove la
Rivoluzione non è passata ancora con la sua fiaccola.
LII
LOTTE CONTRO LA CARESTIA – IL «MASSIMO» – GLI ASSEGNATI
Una delle principali difficoltà per ogni rivoluzione è il nutrire le
grandi città. Esse ora sono centri d'industrie diverse, che lavorano
specialmente pei ricchi o per il commercio d'esportazione; e questi
due rami s'arrestano appena è dichiarata una crisi qualsiasi. Come
nutrire allora i grandi agglomeramenti urbani?
Questo appunto accadde in Francia. Tutto arrestò le industrie di
lusso e il grande commercio: l'emigrazione, la guerra (specialmente
quella con l'Inghilterra che impediva l'esportazione e il commercio
lontano, ch'erano la vita di Marsiglia, Lione, Nantes, Bordeaux,
ecc.), infine quel sentimento comune a tutti i ricchi per cui
evitavano di mostrare troppo le loro ricchezze, in tempi di
Rivoluzione.
I contadini avevano un lavoro pesante, specialmente quelli che
s'erano impadroniti delle terre. Michelet dice che non vi fu mai
aratura così energica come quella dell'autunno del 1791. E se i
raccolti del 1791, 92 e 93 fossero stati abbondanti, il pane non
sarebbe mancato. Ma dal 1788 l'Europa, e specialmente la Francia,
attraversò una serie di cattive annate: inverni freddissimi, estati
senza sole. Vi fu un solo raccolto buono, quello del 1793 e
solamente in una metà dei dipartimenti. Questi avevano perfino del
frumento in più; ma quando tale superfluo e i mezzi di trasporto
furono sequestrati pei bisogni della guerra, s'ebbe la carestia in
più di mezza Francia. Un sacco di frumento che valeva 50 lire a
Parigi, salì a 60 lire nel febbraio del 1793, e fino a 100 e 150 nel
maggio.
Il pane, che prima costava tre soldi la libbra, salì fino a sei
soldi, ed anche a otto nelle piccole città vicine a Parigi. Nel
Mezzogiorno della Francia, s'ebbero dei veri prezzi di carestia: 10
e 12 soldi alla libbra. A Clermont, nel Puy-de-Dôme, nel giugno
1793, la libbra di pane si pagava da 16 a 18 soldi. «Le nostre
montagne sono nella più squallida miseria. L'amministrazione
distribuisce un ottavo di sestiere per persona, e ciascuno è
obbligato ad aspettare due giorni per avere il proprio turno si
legge nel Moniteur del 15 giugno 1793.
Siccome la Convenzione non faceva ancor nulla, in principio del
1793, vi furono in otto dipartimenti assembramenti e sommosse per
tassare le derrate. I commissari della Convenzione allora dovettero
cedere davanti alla sommossa e imporre le tasse fissate dal popolo.
Il mestiere di bladier (mercante di granaglie) diventava cosa
pericolosa.
A Parigi, il problema di nutrire 800.000 bocche appariva tragico,
poichè se il pane fosse rimasto a sei soldi alla libbra, come a un
dato momento, si avrebbe certo avuto una sollevazione generale, e in
tal caso, la mitraglia sola avrebbe potuto impedire il saccheggio
dei ricchi. Per cui, indebitandosi sempre più verso lo Stato, la
Comune spendeva da 12.000 a 75.000 lire al giorno per dare la farina
ai panettieri e mantenere il pane a dodici soldi ogni quattro
libbre. Il governo, dal canto suo, fissava la quantità di grano che
ogni dipartimento e ogni cantone doveva mandare a Parigi. Ma le
strade erano in cattivo stato e le bestie da tiro erano sequestrate
dalla guerra.
Tutti i prezzi aumentavano in proporzione. Una libbra di carne, che
prima costava cinque o sei soldi, veniva venduta a venti; lo
zucchero era giunto a novanta soldi la libbra, una candela si pagava
sette soldi.
Tutti si scagliavano contro gl'incettatori, ma senza alcun
vantaggio. Dopo l'espulsione dei Girondini, la Comune aveva ottenuto
dalla Convenzione la chiusura della Borsa di Parigi (27 giugno
1793); ma la speculazione continuava, e si vedevano gli speculatori,
vestiti in modo speciale, riunirsi al Palais-Royal e camminare in
frotte, con delle prostitute, oltraggiando la miseria del popolo.
L'8 settembre 1793, la Comune di Parigi, spinta agli estremi, fece
mettere i sigilli presso tutti i banchieri e «mercanti di denaro».
Saint-Just e Lebas, mandati in missione dalla Convenzione nel
Basso-Reno, ordinavano al tribunale criminale di far radere al suolo
la casa di chiunque fosse colpevole d'aggiotaggio. Ma allora la
speculazione trovava altre vie.
A Lione, la situazione era peggiore che a Parigi, poichè il
municipio, girondino in parte, non prendeva nessuna misura energica
per sovvenire ai bisogni della popolazione. «La popolazione attuale
di Lione è di 130.000 abitanti almeno; non vi sono sussistenze per
tre giorni», scriveva Collot d'Herbois, il 7 novembre 1793, alla
Convenzione. «La nostra situazione riguardo alle sussistenze è
disperata... Sta per scoppiare la carestia.» Lo stesso accadeva in
tutte le grandi città.
Durante quella carestia s'ebbero dei commoventi esempi
d'abnegazione. Così si legge in Buchez e Roux (XXXVII, 12), che le
sezioni di Montmartre e dell'«Uomo Armato» avevano fissato una
quaresima civica di sei settimane; e Meillé ha trovato nella
Biblioteca Nazionale l'ordine della sezione dell'Osservatorio,
datato del 1° febbraio 1792, col quale i cittadini agiati di quella
sezione s'erano impegnati a non far uso di zucchero e di caffè, fino
al momento in cui il prezzo più moderato permettesse ai loro
fratelli della classe meno agiata, di procurarsi simile godimento.»
(Meillé, p. 302, nota). Più tardi, nell'anno II (febbraio e marzo
1794), quando la carne salì a prezzi elevatissimi, tutti i patriotti
di Parigi decisero di non mangiarne più.
Ma tutto ciò non aveva che un effetto morale in mezzo alla carestia.
Era necessaria una misura generale. Fin dal 16 aprile 1793,
l'amministrazione del dipartimento di Parigi aveva inviato alla
Convenzione una petizione per domandarle di fissare il prezzo
massimo al quale il frumento avrebbe potuto essere venduto. Dopo una
seria discussione e non ostante una forte opposizione, la
Convenzione votò, il 3 maggio 1793, un decreto che fissava il prezzo
massimo dei grani.
L'idea generale di quel decreto era di mettere, il più possibile, il
produttore e il consumatore in rapporti diretti sui mercati,
affinchè si rendessero inutili gl'intermediari. A tale scopo, ogni
mercante o proprietario di granaglie e di farine fu obbligato di
dichiarare al municipio del luogo in cui era domiciliato la quantità
e la natura dei grani che possedeva. Era proibito di vendere grani o
farine se non nei mercati pubblici prestabiliti; ma il consumatore
poteva fare le sue provviste, per un mese, direttamente dai mercanti
o proprietari del suo cantone, per mezzo d'un certificato del
municipio. I prezzi medi pei quali erano passate parecchie qualità
di grani tra il 1° gennaio e il 1° maggio 1793 diventarono i prezzi
massimi, al disopra dei quali non doveva essere venduta nessuna
sorta di grano. Questi prezzi dovevano diminuire leggermente fino al
1° settembre. Coloro che avessero venduto o comprato al disopra del
massimo fissato dal decreto, sarebbero passibili d'una multa. Quelli
invece che avessero guastato o anche nascosto per cattiveria e
appositamente farine o grani (il che si faceva non ostante la
carestia), sarebbero puniti di morte.
Quattro mesi più tardi, si pensò che sarebbe stato meglio rendere
uguale il prezzo del frumento in tutta la Francia, e il 4 settembre
1793, la Convenzione stabilì per il mese di settembre, il prezzo
d'un quintale di frumento a 14 lire.
Ecco in che consisteva quel maximum tanto calunniato173. Una
necessità del momento della quale i realisti e i Girondini facevano
una colpa ai Montagnardi. E la colpa era imperdonabile tanto più che
i Montagnardi, d'accordo col popolo, domandavano che non solo il
frumento, ma anche il pane cotto e diversi generi di prima e seconda
necessità, fossero tassati. Se la società s'era incaricata di
proteggere la vita del cittadino, non doveva forse, dicevano essi,
proteggerlo contro coloro che attentavano alla di lui vita, facendo
delle leghe per privarlo di ciò che è d'assoluta necessità per la
vita stessa?
Eppure ciò sollevò una viva lotta, essendo i Girondini e molti
Montagnardi assolutamente opposti all'idea di tassare le derrate,
che trovavano «impolitica, impraticabile e pericolosa174». Ma
l'opinione pubblica trionfò, e il 29 settembre 1793, la Convenzione
decise di stabilire un massimo pei prezzi delle cose di prima e di
seconda necessità: la carne, il bestiame, il lardo, il burro, l'olio
dolce, il pesce, l'aceto, l'acquavite, la birra.
Questa soluzione era così naturale che la questione di sapere se non
fosse necessario proibire l'esportazione dei grani, creare dei
granai per il consumo e fissare un massimo dei prezzi per il
frumento e le carni, aveva già preoccupato gli uomini di Stato ed i
rivoluzionari dal 1789. Certe città, per esempio Grenoble,
risolvettero da sole, fin dal settembre 1789, di fare acquisti di
grani e di prendere delle misure severissime contro gl'incettatori.
A tale scopo si pubblicò un gran numero d'opuscoli.175 Quando la
Convenzione si riunì, le domande d'un prezzo massimo si fecero
incalzanti, e il Consiglio del dipartimento di Parigi convocò i
magistrati dei comuni del dipartimento per discutere quella
questione. Il risultato fu di presentare alla Convenzione, in nome
di tutto il popolo del dipartimento di Parigi, una petizione
domandando che si fissasse un prezzo massimo dei grani. I
combustibili, le candele, l'olio da bruciare, il sale, il sapone, lo
zucchero, il miele, la carta bianca, i metalli, la canapa, il lino,
le stoffe, le tele, gli zoccoli, le scarpe, il tabacco e le materie
prime che servono alle fabbriche furono compresi in una stessa
categoria, e i loro prezzi fissati per la durata d'un anno. Il
massimo, al quale era permesso di vendere queste mercanzie, fu il
prezzo che aveva ciascuna di esse nel 1790, quale era constatato
dalle mercuriali, e il terzo in più, deducendone i diritti fiscali
ed altri ai quali erano allora sottomesse (decreto del 29 settembre
1793).
Ma nello stesso tempo la Convenzione faceva anche leggi contro i
salariati e la classe degli indigenti in generale. Decretava che «il
massimo o il più alto prezzo rispettivo di salari, stipendi, mano
d'opera e giornate di lavoro sarà fissato, fino al settembre
prossimo, dai consigli generali dei comuni, alla stessa tassazione
del 1790, con la metà di questo prezzo in più.»
È chiaro che quel sistema non si sarebbe fermato a quel punto. Dal
momento che la Francia non voleva più attenersi al sistema di
libertà del commercio e, quindi, dell'aggiotaggio e della
speculazione che ne sono la conseguenza, – non poteva limitarsi a
quei timidi tentativi. Doveva andar più lontano nella via della
comunalizzazione del commercio, non ostante la resistenza che quelle
idee dovevano necessariamente incontrare.
Infatti, l'11 brumaio anno II (1° novembre 1793), la Convenzione,
dietro rapporto di Barère, trovò che fissare il prezzo al quale
dovevano essere vendute le mercanzie dai negozianti al minuto,
sarebbe stato come «colpire il piccolo commercio a favore del
commercio all'ingrosso, e il fabbricante-operaio a favore
dell'intraprenditore di fabbrica.» Si ebbe allora l'idea, che per
fissare i prezzi di ognuna delle mercanzie comprese nel decreto
precedente, bisognava conoscere «ciò che valeva nel suo luogo di
produzione». Aggiungendovi il cinque per cento di vantaggio per il
grossista, e altrettanto per il mercante al minuto, più un tanto per
lega di trasporto, verrebbe fissato il vero prezzo alla quale ogni
mercanzia dovrebbe essere venduta.
Allora, s'iniziò una gigantesca inchiesta per stabilire uno dei
fattori del valore (le spese di produzione). Disgraziatamente essa
non riuscì, poichè la reazione trionfò il 9 termidoro, e tutto fu
messo da parte. Il 3 nevoso anno III (23 dicembre 1794), dopo una
tempestosa discussione, incominciata dai termidoriani fin dal 18
brumaio (8 novembre), i decreti sul massimo furono abrogati.
Il risultato fu un ribasso spaventoso nel prezzo degli assegnati. Si
davano solo 19 franchi per 100 in carta; sei mesi dopo se ne davano
2, e in novembre 1795, 75 centesimi soltanto. S'arrivò a pagare
cento lire per un paio di scarpe e sino a sei mila una corsa in
carrozza176.
S'è già detto che per procurare allo Stato mezzi d'esistenza, Necker
aveva prima ricorso, il 9 e il 27 agosto 1789, a due prestiti, uno
di trenta e l'altro d'ottanta millioni. Questi prestiti non essendo
riusciti, aveva ottenuto dall'Assemblea Costituente una
contribuzione straordinaria del quarto del reddito di ciascuno,
pagato una volta sola. La bancarotta minacciava lo Stato;
l'Assemblea, trascinata da Mirabeau, votò la contribuzione chiesta
dal Necker. Ma questa produsse pochissimo177, e allora, come abbiamo
visto, sorse l'idea di mettere in vendita i beni del clero, di
creare così un fondo di beni nazionali e di emettere degli assegnati
che sarebbero stati ammortizzati mano mano che la vendita di quei
beni producesse denaro. La quantità d'assegnati emessi fu limitata
al valore dei beni che fossero messi in vendita ogni volta. Tali
assegnati portavano interesse e avevano corso forzoso.
L'aggiotaggio e il commercio di denaro tendevano senza dubbio
continuamente a far cadere il corso degli assegnati; però esso potè
ancora resistere, finchè il prezzo massimo delle principali derrate
e degli oggetti di prima necessità fu stabilito dai municipi. Ma
appena il massimo fu abolito dalla reazione termidoriana, la
diminuzione di valore degli assegnati avvenne con rapidità
spaventosa. Si può immaginare quale causa di miseria diventasse per
coloro che vivevano di dì in dì.
Gli storici reazionari hanno sempre cercato di seminare la
confusione su questo argomento come su tanti altri; ma in realtà il
grande ribasso degli assegnati avvenne solo dopo il decreto del 3
nevoso anno III, che aboliva il massimo.
Nello stesso tempo la Convenzione, sotto i termidoriani, emise tale
quantità d'assegnati, che di 6,420 milioni in circolazione al 13
brumaio anno III (3 novembre 1794), la cifra salì a dodici miliardi,
otto mesi dopo, cioè il 25 messidoro anno III (13 luglio 1795).
Inoltre, i principi, specialmente il conte d'Artois, stabilivano in
Inghilterra, con un'ordinanza del 20 settembre 1794, firmata dal
conte Joseph de Puisaye e dal cavaliere de Tinténiac, «una fabbrica
d'assegnati affatto simili a quelli che sono stati emessi, o lo
saranno dalla sedicente Convenzione nazionale». Ben presto, settanta
operai lavoravano in quella fabbrica, e il conte di Puisaye scriveva
al Comitato dell'insurrezione bretone: «Tra poco avrete un milione
al giorno, poi due, e così via».
Infine, già il 21 marzo 1794, durante una discussione alla Camera
dei Comuni d'Inghilterra, il famoso Sheridan
denunciava la fabbrica di falsi assegnati, che Pitt aveva fondato in
Inghilterra, e Taylor dichiarava aver visto co' suoi propri occhi, i
falsi assegnati fabbricati. Delle quantità considerevoli di quegli
assegnati erano state offerte in tutte le grandi città europee
contro lettere di cambio178.
Se almeno la reazione si fosse limitata a quegl'intrighi infami!
Essa si diede all'incetta sistematica delle derrate, acquistando i
raccolti anticipatamente, e all'aggiotaggio sfrenato sugli
assegnati179.
Così l'abolizione del massimo fu il segnale d'un rialzo tale in
tutti i prezzi – e questo durante un'orribile carestia – che ci si
chiede come la Francia abbia potuto attraversare una crisi tanto
terribile, senza perdersi completamente. Anche gli autori più
reazionari debbono riconoscerlo.
LIII
LA CONTRO RIVOLUZIONE IN BRETTAGNA. ASSASSINIO DI MARAT
La Francia, assalita da tutte le parti dalla coalizione delle
monarchie europee, mentre attendeva all'opera immensa di
ricostruzione da lei intrapresa, attraversava naturalmente una crisi
difficile. Con lo studio particolareggiato di questa crisi e col
seguire di giorno in giorno le sofferenze che il popolo dovette
sopportare, si capisce tutta l'atrocità del delitto dei soddisfatti,
quando non esitavano ad immergere la Francia negli orrori d'una
guerra civile e d'un'invasione straniera, pur di conservare i propri
privilegi.
Ebbene, i Girondini, espulsi dalla Convenzione il 2 giugno 1793, non
esitarono a recarsi nei dipartimenti per fomentarvi la guerra
civile, appoggiati dai realisti ed anche dallo straniero.
Bisogna ricordare che la Convenzione, dopo aver espulso trent'un
rappresentanti girondini, li aveva fatti arrestare a domicilio,
lasciando a ciascuno la libertà di circolare in Parigi, seguiti però
da un gendarme. Vergniaud, Gensonné, Fonfrède restarono infatti a
Parigi; Vergniaud ne approfittò anzi per mandare di tanto in tanto
alla Convenzione delle lettere colme di fiele. Gli altri invece
fuggirono, per tentare di sollevare i dipartimenti. I realisti non
domandavano di meglio. Ben presto scoppiarono quindi in sessanta
dipartimenti delle sollevazioni contro rivoluzionarie, fomentate dai
Girondini e dai realisti più spinti, pienamente d'accordo.
Dal 1791 s'ordiva in Brettagna un complotto realista, allo scopo di
ristabilire gli Stati di quella provincia e la vecchia
amministrazione coi tre ordini. A capo di questa cospirazione era
stato posto dai principi emigrati Tufin, marchese della Rouërie.
Però il complotto fu denunciato a Danton, che lo fece sorvegliare.
Il marchese fu obbligato a nascondersi, e nel gennaio 1793, morì nel
castello d'un amico, dove fu sotterrato di nascosto. Tuttavia,
l'insurrezione scoppiò con l'appoggio degli inglesi. Per mezzo dei
marinai contrabbandieri e degli emigrati che s'erano riuniti a
Jersey e a Londra, il ministero inglese preparava una vasta
insurrezione con la quale si sarebbe impossessato della piazza forte
di San Malò, di Brest, Cherbourg e fors'anco Nantes e Bordeaux.
Quando la Convenzione ebbe decretato l'arresto dei principali
Girondini, Pétion, Guadet, Brissot, Barbaroux, Louvet, Buzot e
Lanjuinais fuggirono per mettersi alla testa dell'insurrezione in
Normandia e in Brettagna. Arrivati a Caen, vi organizzarono
l'Associazione dei dipartimenti riuniti, per marciare contro Parigi,
fecero arrestare i delegati della Convenzione e infocarono gli animi
contro i Montagnardi. Il generale Wimpfen, che comandava le truppe
della Repubblica in Normandia, si schierò con gl'insorti, senza
nascondere loro le proprie opinioni monarchiche e nemmeno
l'intenzione di cercare un appoggio in Inghilterra, eppure i capi
girondini non si separarono da lui.
Per fortuna, in Normandia ed in Brettagna, il popolo non seguì gli
agitatori realisti ed i preti. Le città furono per la Rivoluzione e
l'insurrezione, vinta a Vernon, fallì180.
La marcia dei capi girondini attraverso la Brettagna, per sentieri
ombrosi, senza neppure osare di mostrarsi nelle piccole città, dove
i patriotti li avrebbero arrestati, ci mostra la poca simpatia
ch'essi s'acquistarono anche in quel paese, dove la Convenzione non
era riuscita a conciliarsi l'animo dei contadini, e dove la leva
delle reclute per la guerra sul Reno non poteva essere vista di buon
occhio. Quando Wimpfen volle marciare su Parigi, Caen gli fornì solo
alcune diecine di volontari181. Tra la Normandia e la Brettagna non
fu possibile di riunire più di cinquecento o seicento uomini, che
non si batterono neppure, allorchè si trovarono di fronte a un
piccolo esercito venuto da Parigi.
Però, in certe città, e specialmente nei porti di San Malò e di
Brest, i realisti trovarono un buon appoggio nei negozianti, e fu
necessario uno sforzo supremo dalla parte dei patriotti per impedire
che San Malò non cadesse nelle mani degli inglesi come Tolone.
Bisogna leggere, infatti, le lettere del giovane Jullien,
commissario del Comitato di salute pubblica, o di Jeanbon
Saint-André, convenzionale in missione, per capire come fossero
deboli le forze materiali della Repubblica, e fino a qual punto le
classi opulenti fossero pronte a sostenere gl'invasori stranieri.
Era stato preparato tutto per consegnare alla flotta inglese il
forte di San Malò – che era armato di 123 cannoni e di 25 mortai e
ben fornito di palle, di bombe e di polvere. L'arrivo dei commissari
della Convenzione rianimò lo zelo dei patriotti e impedì il
tradimento.
I rappresentanti in missione non si rivolsero alle amministrazioni:
sapevano che erano imbevute di realismo e di «negoziantismo». Si
recarono alla Società patriottica d'ogni città, grande o piccola che
fosse, proponendole prima di tutto di «epurarsi». Ogni membro doveva
dire ad alta voce, davanti alla Società, chi era prima del 1789 e
cosa aveva fatto in seguito; se aveva firmato le petizioni realiste
degli 8.000 e dei 20.000; quale era il suo stato finanziario prima
dell'89, e quale l'attuale. Chi non poteva rispondere in modo
soddisfacente a quelle domande era escluso dalla Società.
Fatta l'epurazione, la Società patriottica diventava l'organo della
Convenzione. Mediante il suo aiuto, il rappresentante in missione
procedeva a un'epurazione simile nel municipio, facendone escludere
i realisti ed i «profiteurs». Allora, appoggiato dalla Società
popolare, risvegliava l'entusiasmo nella popolazione, specialmente
nei sanculotti. Egli dirigeva l'arruolamento dei volontari e
indugeva i patriotti a fare degli sforzi eroici per l'armamento e la
difesa delle coste. Organizzava le feste patriottiche e inaugurava
il calendario repubblicano. Quando partiva per compiere lo stesso
lavoro altrove, incaricava il nuovo municipio di prendere tutte le
misure per il trasporto delle munizioni, dei viveri, delle truppe, –
sempre sotto la sorveglianza della Società popolare, – con la quale
teneva una corrispondenza attiva.
La guerra domandava spesso enormi sacrifizii. Ma in ogni città, a
Quimper, a San Malò pure, i membri della Convenzione in missione
trovarono uomini devoti alla Rivoluzione; e col loro aiuto
organizzarono la difesa. Gli emigrati e i vascelli inglesi non
osarono nemmeno avvicinarsi a San Malò od a Brest.
Così l'insurrezione non riuscì nè in Brettagna, nè in Normandia. Ma
da Caen venne Carlotta Corday per assassinare Marat. Influenzata
certo da ciò che sentiva dire contro la repubblica dei sanculotti
montagnardi, abbagliata forse dall'aria di «repubblicani per bene»
che si davano i Girondini arrivati a Caen, dove conobbe Barbaroux,
Carlotta Corday si recò a Parigi l'11 luglio per uccidere qualche
rivoluzionario in vista.
Gli storici girondini, che odiavano tutti Marat, autore principale
del 31 maggio, hanno preteso che Carlotta Corday fosse repubblicana.
Ma non è vero. Maria Carlotta Corday d'Armont era di famiglia
arcirealista, e i suoi due fratelli erano emigrati. Allevata nel
convento dell'Abbaye-aux-Dames, di Caen, viveva presso una parente,
la signora de Breteville, «che non si diceva realista unicamente per
paura». Tutto il preteso repubblicanismo di Carlotta Corday
consisteva in questo: un giorno rifiutò di bere alla salute del re,
e spiegò il proprio rifiuto dicendo che sarebbe diventata
repubblicana, «se i francesi fossero stati degni della Repubblica».
Vale a dire che era costituzionale, probabilmente fogliante. Wimpfen
la diceva realista assolutamente.
Tutto induce a pensare che Carlotta Corday d'Armont non fosse una
solitaria. Abbiamo visto che Caen era il centro dell'Associazione
dei dipartimenti riuniti, sollevati contro la Convenzione
montagnarda, ed è probabile che fosse stato preparato un complotto
per il 14 o il 15 luglio per uccidere in quel giorno «Danton,
Robespierre, Marat e compagnia». Forse essa era al corrente della
cosa. La sua visita al Girondino Duperret, al quale aveva consegnato
degli stampati con una lettera direttagli da Barbaroux, a Caen, e il
consiglio che gli diede di ritirarsi immediatamente in questa città,
ci lasciano supporre che la giovane Carlotta fosse lo strumento d'un
complotto tramato a Caen dai Girondini e dai realisti182.
Ci sembra provata l'esistenza d'un complotto a cui partecipavano i
Girondini. Il 10 luglio veniva letta una lettera al Consiglio
generale della Comune di Parigi, ricevuta a Strasburgo e rinviata a
Parigi dal sindaco di quella città, lettera in cui stava scritto
«...La Montagna, la Comune, la Giacobinaia, e tutta la sequela
scellerata sono vicini alla tomba... Non più tardi del 15 luglio,
balleremo! Desidero che non si sparga altro sangue all'infuori di
quello di Danton, Robespierre, Marat e compagnia...» (Cito secondo
Louis Blanc). L'11 e il 12 luglio, la Chronique de Paris, giornale
girondino, alludeva già alla morte di Marat.
Carlotta Corday confessò d'aver fatto il progetto d'uccidere Marat
al Campo di Marte, durante la festa commemorativa della Rivoluzione,
il 14 luglio, oppure se non vi si fosse recato, alla Convenzione. Ma
la festa era stata rinviata, e Marat, ammalato, non andava più alla
Convenzione. Allora, gli scrisse per pregarlo di riceverla, e non
ottenendo risposta, gli scrisse ancora, parlando gesuiticamente
della sua bontà che ben conosceva, o di cui le avevano parlato i
suoi amici. Diceva d'essere infelice e perseguitata, e con simile
raccomandazione era certa d'essere ricevuta.
Si recò dunque da Marat il 13 luglio, alle sette di sera con quel
biglietto e un coltello nascosto sotto lo scialle. La moglie,
Caterina Evrard, esitò un poco, ma finì per lasciare entrare la
giovane nel povero appartamento dell'amico del popolo.
Consumato dalla febbre da due o tre mesi, causa la vita di continue
persecuzioni ch'egli conduceva dal 1789, Marat era seduto in una
vasca coperta, e correggeva le bozze del suo giornale sopra un'asse
posata trasversalmente sul bagno. Carlotta Corday colpì al petto
l'Amico del Popolo, che spirò subito.
Tre giorni dopo, il 16, un altro amico del popolo era ghigliottinato
a Lione dai Girondini: Chalier.
Il popolo perdette in Marat l'amico più devoto. Gli storici
girondini, che hanno odiato Marat, lo rappresentarono come un pazzo
sanguinario che non sapeva neppur ciò che voleva. Ma ora sappiamo
come si fanno certe reputazioni. È vero che nei tempi più tristi
della Rivoluzione, 1790-1791, comprendendo che l'eroismo del popolo
non aveva trionfato sulla monarchia, Marat scrisse essere necessario
d'abbattere qualche migliaio di teste d'aristocratici per far
progredire la Rivoluzione. Ma in fondo all'anima non era affatto
sanguinario. Egli amò il popolo, come lo amò la sua eroica compagna
Caterina Evrard183, di un amore assai più profondo di tutti i suoi
contemporanei messi in evidenza dalla Rivoluzione, e fu fedele a
quell'amore.
Appena cominciò la Rivoluzione, Marat si mise a pane ed acqua, non
metaforicamente, ma realmente. E quando fu assassinato, si trovò che
tutto il suo avere consisteva in un assegnato di venticinque lire.
Marat, più maturo d'anni e più esperto di tutti i suoi compagni
rivoluzionari, seppe capire le diverse fasi della Rivoluzione, e
prevederne le successive, molto meglio di tutti i suoi
contemporanei. Si può dire che fu il solo tra gli uomini in vista
della Rivoluzione, che ebbe realmente la concezione e il colpo
d'occhio d'un uomo che vede le cose in grande nei loro molteplici
rapporti184. Ebbe la sua parte di vanità, e ciò si spiega un po' in
questo: fu sempre perseguitato, anche nel più forte della
Rivoluzione, mentre ogni nuova fase provava quanto fossero giuste le
sue previsioni. Ma sono inezie. Il fondo del suo spirito consisteva
nell'aver capito ciò che necessitava fare, ad ogni momento, per il
trionfo della causa del popolo, il trionfo della Rivoluzione
popolare, non d'una Rivoluzione astratta, teorica.
Però, quando la Rivoluzione, dopo l'abolizione reale dei diritti
feudali, dovette fare ancora un passo avanti per consolidare l'opera
sua; quando si trattò d'agire in modo che essa riuscisse utile ai
più profondi strati sociali, dando a tutti la sicurezza della vita e
del lavoro, Marat non afferrò quanto c'era di vero nelle idee di
Jacques Roux, di Varlet, di Chalier, di L'Ange e molti altri. Non
potendo concepire lui stesso l'idea del profondo cambiamento
comunista, di cui i precursori cercavano le forme possibili e
realizzabili; temendo, altresì, che la Francia perdesse le libertà
già conquistate, non diede a quei comunisti l'appoggio necessario
della sua energia e della sua immensa influenza. Non si fece
l'araldo del comunismo nascente.
«Se mio fratello fosse stato in vita, diceva la sorella di Marat,
Danton, nè Camille Desmoulins non sarebbero mai stati
ghigliottinati». E neppure gli Hébertisti. In generale, se Marat
capiva il furore momentaneo del popolo, e lo considerava necessario
in certi momenti, certo però non sarebbe stato partigiano del
Terrore, come esso fu messo in pratica dopo il settembre 1793.
LIV
LA VANDEA – LIONE – IL MEZZOGIORNO
L'insurrezione non riuscì in Normandia e in Brettagna, ma i contro
rivoluzionari ebbero più fortuna nel Poitou (dipartimenti delle
Deux-Sèvres, Vienna e Vandea), a Bordeaux, a Limoges e, in parte,
anche nell'Est. Vi furono delle sommosse contro la Convenzione
montagnarda a Besançon, a Dijon, a Macon – regioni in cui nel 1789
la borghesia s'era mostrata feroce contro i contadini ribelli, come
abbiamo detto.
Il Mezzogiorno infestato da molto tempo dai realisti, si sollevò in
parecchi luoghi. Marsiglia cadde nelle mani dei contro
rivoluzionari, girondini e realisti, nominò un governo provvisorio e
volle muovere contro Parigi. Toulouse, Nimes e Grenoble si
sollevarono anch'esse contro la Convenzione.
Tolone ricevette una flotta inglese e spagnuola, che s'impadronì di
quella piazza forte in nome di Luigi XVII. Bordeaux, città
commerciale, fu pure pronta a sollevarsi all'appello dei Girondini;
e Lione, dove la borghesia commerciale dominava dal 29 maggio,
insorse apertamente contro la Convenzione e sostenne un lungo
assedio, mentre i Piemontesi entravano in Francia, approfittando del
disordine dell'esercito che doveva avere Lione per base.
Fino ad oggi non sono ben note le vere cause della sollevazione in
Vandea. L'affetto dei contadini pei loro preti, abilmente sfruttato
dal Vaticano, ebbe certo grandissima influenza nei loro odii contro
rivoluzionari. C'era anche nelle campagne della Vandea un certo
quale attaccamento al re, ed era facile pei realisti d'impietosire i
contadini sulla sorte di quel povero re che «volle il bene del
popolo e fu ghigliottinato dai Parigini.» Quante lagrime furono
versate dalle donne sulla sorte di quel povero fanciullo, il
Delfino, racchiuso in una prigione! Gli emissari che arrivavano da
Roma, da Coblenza e dall'Inghilterra, muniti di bolle del papa,
d'ordini reali, e d'oro, trovavano quindi un terreno propizio,
specialmente quand'erano protetti dalla borghesia – gli ex-mercanti
di schiavi di Nantes e i commercianti, ai quali l'Inghilterra
prodigava promesse d'appoggio contro i sanculotti.
C'era poi quest'altra ragione che, da sola, poteva bastare per
sollevare provincie intere: la leva di trecento mila uomini,
ordinata dalla Convenzione per respingere l'invasione. Essa fu
considerata in Vandea come un'infrazione al diritto più sacro
dell'individuo quello di restare nel paese nativo.
Eppure, è lecito credere che vi fossero altre cause per armare i
contadini della Vandea contro la Rivoluzione. Studiando i documenti
dell'epoca, si vedono continuamente delle cause che dovevano
produrre un profondo risentimento nei contadini contro l'Assemblea
Costituente e la Legislativa. Il solo fatto d'aver abolito la
riunione plenaria degli abitanti d'ogni villaggio, ch'era stata la
regola fino al momento in cui la Costituente la soppresse (dicembre
1789), e il fatto d'aver diviso i contadini in due classi – i
cittadini attivi e i cittadini passivi – e consegnata
l'amministrazione degli affari comunali, che interessava tutti, agli
eletti dai contadini arricchiti, – tutto questo sarebbe bastato per
risvegliare nei villaggi il malcontento contro la Rivoluzione, che
appariva semplicemente come l'opera della borghesia cittadina.
È ben vero che, il 4 agosto, la Rivoluzione aveva ammesso come
principio l'abolizione dei diritti feudali e della manomorta; ma
essa non esisteva già più, a quanto pare, nell'Ovest, e l'abolizione
dei diritti feudali dapprima fu solo scritta sulla carta. Siccome la
sollevazione delle campagne fu debole nelle regioni dell'Ovest, i
contadini si vedevano forzati di pagare i cànoni feudali, come
prima.
Inoltre, ciò che ebbe una grande importanza per le campagne, fu la
vendita dei beni nazionali, di cui la maggior parte (tutti i beni
della Chiesa) avrebbe dovuto ritornare nelle mani dei poveri, mentre
invece, le compere essendo fatte dai borghesi della città, si
ravvivarono gli odii. Bisogna anche ricordare il saccheggio delle
terre comunali a profitto dei borghesi, – saccheggio che la
Legislativa appoggiò co' suoi decreti. (Vedere cap. XXVI).
Così, pur imponendo nuovi carichi ai contadini, – imposte, leve,
requisizioni, – la Rivoluzione non aveva ancor dato nulla alle
campagne, fino all'agosto 1793, a meno che queste non si fossero
impadronite direttamente delle terre dei nobili o del clero. Di
conseguenza, nasceva un odio sordo nei villaggi contro le città; e
la sollevazione in Vandea è appunto una guerra dichiarata dalla
campagna alla città, ai borghesi in generale185.
Fomentata da Roma, l'insurrezione scoppiò furiosa, sanguinaria,
sotto la direzione dei preti. E la Convenzione poteva opporle solo
dei contingenti insignificanti, comandati da generali o incapaci, o
che avevano interesse a trascinare la guerra per le lunghe.
Ed è quanto accadde, grazie altresì alle lettere dei deputati
girondini. La rivolta potè estendersi e si fece ben presto così
minacciosa, che i montagnardi dovettero ricorrere a misure odiose,
per porvi fine.
Il piano dei vandeani era d'impadronirsi di tutte le città, di
sterminarvi i «patriotti» repubblicani, d'estendere l'insurrezione
dei dipartimenti vicini, e di muovere poi contro Parigi. Sul
principio di giugno 1793, i capi della Vandea, Cathelineau, Lescure,
Stoflet, La Rochejaquelein, alla testa di 40,000 uomini,
s'impadronirono infatti della città di Saumur, e per conseguenza,
della Loira. Poi, passando il fiume, presero Angers (17 giugno) e,
nascondendo abilmente i loro movimenti, piombarono precipitosamente
su Nantes, porto della Loira. Così si sarebbero messi in contatto
diretto con la flotta inglese. Il 29 e il 30 giugno, il loro
esercito, rapidamente concentrato, attaccò Nantes. Ma furono battuti
dai repubblicani, perdettero Cathelineau, vero capo democratico
della sollevazione, e dovettero abbandonare Saumur, per ritirarsi
sulla riva sinistra della Loira.
Allora fu necessario uno sforzo supremo da parte della Repubblica
per assalire i vandeani nel loro paese, e fu una guerra
sterminatrice, che spinse da venti a trenta mila vandeani, seguiti
dalle loro donne, ad emigrare in Inghilterra, passando per la
Brettagna. Attraversarono dunque la Loira dal sud al nord, e
continuarono a marciare in questa direzione. Ma l'Inghilterra non
voleva saperne di quegli emigrati, e i bretoni li ricevettero
freddamente, tanto più che i patriotti bretoni tornavano ad avere il
sopravvento; così tutta quella massa di pezzenti affamati fu
respinta nuovamente verso la Loira.
Abbiamo visto da qual furore selvaggio fossero animati i vandeani,
aizzati dai preti, in principio della rivolta. Ora la guerra
diventava una guerra d'esterminazione. La signora La Rochejaquelein
dice che, nell'ottobre 1793, la loro parola d'ordine era: Non più
grazia! Il 20 settembre 1793, i vandeani avevano colmato il pozzo di
Montaigu di corpi ancora viventi di soldati repubblicani,
schiacciati a colpi di pietre. Charette, prendendo Noirmoutiers il
15 ottobre, aveva fatto fucilare tutti coloro che s'erano arresi.
Sotterravano fino al collo gli uomini vivi e poi si divertivano a
far loro subire ogni sorta di sofferenze alla testa186.
Quando tutta quella massa d'uomini respinta sulla Loira rifluì verso
Nantes, le prigioni di quella città cominciarono a riempirsi in modo
minaccioso. In quei covi gremiti d'esseri umani, infieriva il tifo e
ogni sorta di malattie contagiose, che si propagavano nella città
sfinita dall'assedio. Come a Parigi, dopo il 10 agosto, i realisti
nelle prigioni minacciavano di sgozzare tutti i repubblicani, appena
si fosse avvicinata l'«armata reale» dei vandeani. E i patriotti
sommavano a poche centinaia in quella città che, arricchitasi con la
tratta dei neri e il loro lavoro a San Domingo, ora s'impoveriva in
causa dell'abolizione della schiavitù. La fatica dei patriotti, per
impedire la presa improvvisa di Nantes con l'aiuto dell'«armata
reale» e l'uccisione dei repubblicani era tale, che le pattuglie dei
patriotti cadevano sfinite.
Allora il grido che si faceva sentire dal 1792: «Tous à l'eau!»
(anneghiamoli tutti) – diventò minaccioso. Una specie di follia, che
Michelet paragona a quella che domina gli abitanti d'una città
durante la peste, s'impadronì della popolazione più povera, e il
membro della Convenzione in missione, Carrier, il cui temperamento
si prestava purtroppo a quel genere di furore, lasciò fare.
Si cominciò dai preti e si finì sterminando più di 2000 uomini e
donne racchiusi nelle prigioni di Nantes.
Quanto alla Vandea in generale, il Comitato di salute pubblica ebbe
la selvaggia idea di sterminare i vandeani e di spopolare la Vandea,
senza neppur approfondire le cause della rivolta di tutta una
regione, accontentandosi della banale spiegazione «di fanatismo di
quei contadini brutali», senza cercar di capire il contadino e
d'interessarlo della Repubblica. Vennero stabiliti sedici campi
trincerati e dodici «colonne infernali» furono lanciate sul paese
per devastarlo, abbruciarne le capanne e sterminare gli abitanti.
I frutti di questo sistema son facili da indovinare. La Vandea
diventò una piaga sanguinosa della Rivoluzione e sanguinò per due
anni. Una regione grandissima fu completamente perduta per la
Repubblica, e la Vandea fu la causa delle lotte più sanguinose tra i
Montagnardi stessi.
Anche le sollevazioni in Provenza e a Lione ebbero un'influenza non
meno funesta sullo svolgimento della Rivoluzione. Lione era città
d'industrie di lusso. Gran numero d'operai-artisti lavoravano a
domicilio a tessere sete finissime e a fare ricami d'oro e
d'argento, industria che s'era arenata durante la Rivoluzione, e la
popolazione si trovava divisa in due campi ostili. Gli
operai-maestri, i piccoli padroni e la borghesia, alta e media,
erano contro la Rivoluzione; invece gli operai, quelli che
lavoravano per i piccoli padroni o che trovavano lavoro nelle
industrie connesse della tessitura, parteggiavano per la
Rivoluzione, e intuivano fino d'allora quel socialismo, che si
doveva poi svolgere nel diciannovesimo secolo. Seguivano volontieri
Chalier, comunista mistico, amico di Marat, che esercitava una
grande influenza sulla municipalità, e le cui aspirazioni popolari
somigliavano a quelle della Comune di Parigi. Inoltre, L'Ange, un
precursore di Fourier, e i suoi amici facevano un'attiva propaganda
comunista.
Intanto, i borghesi ascoltavano volontieri i nobili e specialmente i
preti. Il clero locale aveva a Lione una grande influenza ed era
sostenuto da una massa di preti emigrati, che venivano dalla Savoia.
La maggior parte delle sezioni di Lione era stata abilmente invasa
dalla borghesia girondina, dietro la quale si nascondevano i
realisti.
Il conflitto scoppiò il 29 maggio 1793, come s'è visto. Si lottò
nelle strade e la borghesia trionfò. Chalier fu arrestato e,
debolmente difeso a Parigi da Robespierre e Marat, fu decapitato il
15 luglio, e poscia le rappresaglie dei borghesi e dei realisti
furono terribili. La borghesia lionese, girondina fino a quel
momento, incoraggiata dalle rivolte nell'Ovest, fece apertamente
causa comune cogli emigrati realisti. Armò 20,000 uomini e mise la
città in istato di difesa contro la Convenzione.
Marsiglia, dove i partigiani dei Girondini s'erano sollevati dopo il
31 maggio, stava per prestare aiuto a Lione. Ispirate dal girondino
Rebecqui, che era accorso subito, le sezioni, in maggior parte nelle
mani dei Girondini, avevano riunito un esercito di 10,000 uomini,
che si dirigeva verso Lione, col disegno di muovere poi su Parigi,
contro i Montagnardi. Com'era da prevedere, quest'insurrezione prese
ben presto carattere francamente realista. Altre città del
Mezzogiorno – Tolone, Nîmes, Montauban – s'unirono al movimento.
Però, l'armata marsigliese fu presto battuta dalle truppe della
Convenzione, comandate da Carteaux, che rientrò vittorioso in
Marsiglia, il 25 agosto 1793. Rebecqui s'annegò; ma parte dei
realisti vinti si rifugiarono a Tolone e questo gran porto militare
fu consegnato agl'inglesi. L'ammiraglio inglese prese la città,
proclamò Luigi XVII re di Francia e fece venire per mare un esercito
di 8000 spagnuoli, per difendere Tolone e i suoi forti.
Intanto, 20,000 Piemontesi entravano in Francia per soccorrere i
realisti lionesi e scendevano verso Lione attraverso le valli di
Sallenche, la Tarentaise e la Maurienne. Il convenzionale
Dubois-Crancé tentò, ma inutilmente, di avviare delle trattative con
Lione. Il movimento era nelle mani dei realisti e questi non
volevano saperne di nulla. Il comandante Précy, che aveva combattuto
nelle file degli Svizzeri il 10 agosto, era un fedele di Luigi XVI.
Molti realisti, invece d'emigrare, erano andati a Lione a combattere
contro la Repubblica e i capi del partito realista si concertavano
con un agente dei principi, Imbert-Colomès, sui mezzi per annodare
l'insurrezione lionese con le operazioni dell'armata piemontese.
Inoltre, il Comitato di salute pubblica lionese aveva per segretario
il generale Roubiès, padre dell'Oratorio, mentre il comandante Précy
era in rapporti con l'agente dei principi e domandava loro rinforzi
di truppe piemontesi e austriache.
Non restava più che a tentare un assedio in regola di Lione, e fu
infatti cominciato, l'8 agosto, da vecchie truppe distaccate
all'uopo dall'esercito delle Alpi, e da cannoni venuti da Besançon e
da Grenoble. Gli operai lionesi non volevano saperne d'una guerra
contro rivoluzionaria, ma non si sentivano abbastanza forti per
sollevarsi. Fuggivano dalla città assediata e andavano a raggiungere
l'esercito dei sanculotti, che, pur essendo quasi senza pane, lo
divise coi 20,000 fuggitivi.
Intanto però, Kellermann era riuscito, nel settembre, a respingere i
Piemontesi; Couthon e Maignet, i due convenzionali in missione che
avevano raccolto in Alvergna un esercito di contadini armati di
falci, di picche o di forche, giungevano il 2 ottobre per aiutare
Kellermann. Il 9, gli eserciti della Convenzione prendevano
finalmente possesso di Lione.
La repressione repubblicana fu terribile, è triste il dirlo. Pare
che Couthon tendesse a una politica di pace; ma i terroristi
trionfarono alla Convenzione. Si parlò d'applicare a Lione il piano
che il Girondino Imbert aveva proposto per Parigi: distruggere Lione
in modo che ne restassero solo le rovine, sulle quali si sarebbe poi
messa la seguente iscrizione: Lione fece guerra alla libertà – Lione
non esiste più. Ma quel piano insensato non fu accettato e la
Convenzione decise che fossero distrutte le case dei ricchi,
rispettando però quelle dei poveri. L'esecuzione di questo piano fu
confidata a Collot d'Herbois, ma non lo realizzò, perchè era cosa
impossibile: una città non si demolisce così facilmente. Però con le
fucilazioni in massa e le uccisioni alle quali Collot d'Herbois
ricorse, fece un gran torto alla Rivoluzione.
I Girondini, per la loro sollevazione, avevano contato molto su
Bordeaux. Questa città «negoziantista» infatti si sollevò, ma
l'insurrezione non durò molto. Il popolo non si lasciò trascinare,
non credette alle accuse «di realismo e d'orleanismo» lanciate
contro i Montagnardi. Così, quando i deputati girondini, evasi da
Parigi, giunsero a Bordeaux, dovettero nascondersi in quella stessa
città che, secondo i loro piani, avrebbe dovuto essere il centro
della sollevazione. Bordeaux non tardò a sottomettersi ai commissari
della Convenzione.
Tolone, sobillata da molto tempo dagli agenti inglesi, e dove gli
ufficiali della marina erano tutti realisti, cadde interamente in
potere d'una flotta inglese. I pochi patriotti furono imprigionati,
e siccome gl'inglesi non perdevano tempo, armavano i forti e ne
costruivano dei nuovi, fu necessario un assedio in regola per
impadronirsi della città. Questo avvenne solo nel dicembre 1793.
LV
LA GUERRA – L'INVASIONE RESPINTA
Dopo il tradimento di Dumouriez e l'arresto dei capi girondini, la
Repubblica dovette compiere un nuovo lavoro di riorganizzazione de'
suoi eserciti su una base democratica, e dovette rinnovare tutto
l'alto comando, per sostituire i capi girondini e realisti con
repubblicani montagnardi.
Le condizioni in cui si compiva questo lavoro di riordinamento erano
così difficili, che solo l'energia selvaggia d'una nazione in
rivoluzione fu capace di condurlo a termine, non ostante
l'invasione, le sollevazioni interne e il lavoro nascosto delle
cospirazioni tramate in tutta la Francia dai possidenti, per
affamare i sanculotti e farli cadere nelle mani dei nemici. Le
amministrazioni dei dipartimenti e dei distretti, restate quasi
dappertutto nelle mani di Foglianti e Girondini, facevano di tutto
per impedire che le munizioni e le provvigioni giungessero ai
soldati.
Fu necessario tutto il genio della Rivoluzione e tutta l'audacia
giovanile d'un popolo risvegliato da un lungo letargo, tutta la fede
dei rivoluzionari in un avvenire d'Uguaglianza, per condurre a buon
fine la lotta titanica che i sanculotti dovettero sostenere contro
l'invasione e il tradimento. Ma quante volte fu sul punto di cadere
quel popolo completamente dissanguato!
Se oggi la guerra può desolare e rovinare intere provincie, ci è
facile concepire la rovina che portava con sè centovent'anni fa, tra
una popolazione molto più povera. Nei dipartimenti vicini al teatro
della guerra, il frumento era tagliato ancor verde per servire di
foraggio. La maggior parte dei cavalli e delle bestie da tiro erano
sequestrati nei luoghi dove agiva uno dei quattordici eserciti della
Repubblica. Il pane mancava ai soldati, ai contadini e ai più poveri
nelle città. Ma anche il resto mancava. In Brettagna, in Alsazia, i
rappresentanti in missione erano forzati di domandare agli abitanti
di certe città, come Brest o Strasburgo, di dare le loro scarpe per
i soldati. Si faceva l'incetta di tutti i cuoi e tutti i calzolai
erano obbligati a lavorare per l'esercito, ma le calzature mancavano
sempre e ai soldati si distribuivano degli zoccoli. E non è tutto.
Si dovettero perfino creare dei comitati per raccogliere nelle case
private «gli utensili di cucina, paioli, pentole, casseruole,
vaschette ed altri oggetti di rame e di piombo, come pure tutto il
rame e il piombo non lavorato.» È quanto si fece nel distretto di
Strasburgo.
In questa città, i rappresentanti e la municipalità si videro
costretti di domandare agli abitanti abiti, calze, scarpe, camicie,
lenzuola, coperte e biancheria vecchia – per vestire i volontari in
cenci, nonchè di ottenere dei letti dai privati per curare i feriti.
Ma tutto ciò non bastava, e di tanto in tanto, i convenzionali in
missione dovevano imporre grosse tasse rivoluzionarie, che
prelevavano specialmente sui ricchi. Questo accadde specialmente in
Alsazia, dove i grandi signori non volevano rinunziare ai loro
diritti feudali, in difesa dei quali s'era armata l'Austria. Nel
Mezzogiorno, a Narbonne, un rappresentante della Convenzione dovette
chiamare tutti i cittadini e le cittadine della città per scaricare
le barche e caricare i carri che dovevano trasportare il foraggio
all'esercito187.
A poco a poco, però, l'esercito fu riorganizzato. Si eliminarono i
generali girondini; il loro posto fu preso da giovani. Dappertutto
entravano uomini nuovi, per i quali la guerra non era mai stata un
mestiere, e che giungevano nelle armate con tutto l'entusiasmo d'un
popolo in rivoluzione. Crearono una nuova tattica, che fu poi
attribuita a Napoleone, la tattica degli spostamenti rapidi e delle
grandi masse, che schiacciano il nemico nei suoi corpi separati,
prima che possa avvenire il loro congiungimento. Miseramente
vestiti, in cenci, spesso scalzi, spessissimo senza nutrimento, ma
ispirati dal fuoco sacro della Rivoluzione e dell'uguaglianza, i
volontari del 1793 riportavano vittorie anche quando la disfatta
sembrava inevitabile. Nello stesso tempo, i commissari della
Convenzione spiegavano un'energia selvaggia per nutrire quegli
eserciti, vestirli, trasportarli. Per la maggior parte di essi,
l'uguaglianza era un principio. Senza dubbio, anche tra i
convenzionali vi fu qualcuno che diede cattivo esempio, come
Cambacérès. Vi furono degli sciocchi, che si circondarono del fasto
che fu più tardi la rovina di Bonaparte, e vi furono alcuni
colpevoli d'estorsioni. Ma furono poche eccezioni. Quasi tutti i
duecento membri della Convenzione in missione seppero dividere le
miserie e i pericoli coi soldati.
Quegli sforzi condussero alla vittoria, e dopo aver passato
nell'agosto e nel settembre un cupo periodo di rovesci, gli eserciti
repubblicani riuscirono a trionfare. L'invasione fu respinta nel
principio dell'autunno.
In giugno, dopo il tradimento di Dumouriez, l'esercito del Nord era
in piena disfatta – coi suoi generali pronti a venire alle mani – ed
aveva contro quattro armate, circa 118,000 uomini: inglesi,
austriaci, annoveresi ed olandesi. Costretto ad abbandonare il suo
campo trincerato per rifugiarsi al di qua della Sarpe, lasciava le
fortezze di Valenciennes e di Condé al nemico e gli apriva la via di
Parigi.
I due eserciti che difendevano la Mosella e il Reno contavano appena
60,000 combattenti, ed avevano contro 83,000 prussiani ed austriaci
ed un corpo di cavalleria di 6000 emigrati. Custine, la cui fedeltà
alla Repubblica era alquanto sospetta, abbandonava le posizioni
occupate nel 1792 e lasciava che i tedeschi investissero la fortezza
di Magonza sul Reno.
Verso la Savoia e Nizza, dov'era necessario tener testa a 40,000
piemontesi spalleggiati da 8,000 austriaci, c'era solamente
l'esercito delle Alpi e quello delle Alpi Marittime, entrambi
completamente disorganizzati in seguito alle sollevazioni del Forez,
di Lione e della Provenza.
Verso i Pirenei, 23,000 spagnuoli entravano in Francia e
incontravano solo 10,000 uomini senza cannoni e senza provvigioni.
Con l'aiuto degli emigrati, quell'esercito s'impadronì di parecchi
forti e minacciò tutto il Roussillon.
In quanto all'Inghilterra, inaugurò fino dal 1793 la tattica che
seguì più tardi nelle guerre contro Napoleone. Senza esporre troppo
sè stessa, preferì pagare le potenze della coalizione, approfittando
altresì della debolezza della Francia per toglierle le sue colonie e
rovinare il suo commercio all'estero. Nel giugno 1793, il governo
britannico dichiarò il blocco di tutti i porti francesi, e
contrariamente agli usi del diritto internazionale d'allora, le navi
inglesi si misero a catturare i bastimenti neutri che apportavano
viveri in Francia. Nello stesso tempo, l'Inghilterra favoriva gli
emigrati, importava armi e pacchi di proclami, per sollevare la
Brettagna e la Vandea, preparava la presa dei porti di San Malò,
Brest, Nantes, Bordeaux, Tolone, ecc.
Internamente, v'erano cento mila contadini sollevati in Vandea e
resi fanatici dai preti; la Brettagna in fermento e sobillata
dagl'inglesi; la borghesia delle grandi città commercianti, come
Nantes, Bordeaux, Marsiglia, furiosa per l'arenamento degli «affari»
e quindi complice degl'inglesi; Lione e la Provenza in piena
rivolta; il Forez influenzato dai preti e dagli emigrati. A Parigi
stessa, tutti coloro che s'erano arricchiti dopo il 1789, impazienti
di finirla con la Rivoluzione, si preparavano a darle l'assalto.
In tali condizioni, gli alleati si sentirono sicuri di ristabilire
in breve la monarchia, ponendo Luigi XVII sul trono, e sperarono
anzi di riuscirvi in poche settimane. Fersen, confidente di Maria
Antonietta, discuteva già co' suoi amici come si sarebbe composto il
consiglio di reggenza; mentre si conveniva tra l'Inghilterra, la
Spagna e la Russia il piano di mettere il conte d'Artois alla testa
dei malcontenti in Brettagna188.
Se gli alleati avessero mosso senz'altro contro Parigi, la
Rivoluzione avrebbe certamente corso un grave pericolo. Ma
s'arrestarono nella loro marcia per impadronirsi prima di
Valenciennes e di Magonza, sia che temessero un altro Due Settembre,
sia che preferissero il possesso delle piazze forti tolte alla
Francia al tentare l'assedio di Parigi. Magonza si difese, e
capitolò solo il 22 luglio. Qualche giorno prima, Condé s'arrendeva,
dopo una resistenza di quattro mesi, e, il 26 luglio, dopo un
assalto degli alleati, capitolava anche Valenciennes, con grande
soddisfazione della borghesia, la quale, durante l'assedio, aveva
mantenute delle relazioni col duca di York. L'Austria s'impossessò
di quelle piazze forti.
Al Nord, fino dal 10 agosto, la via di Parigi era aperta agli
alleati, che avevano più di 300,000 uomini tra Ostenda e Basilea.
Da quale altro motivo furono trattenuti ancora gli alleati dal
marciare su Parigi per liberare Maria Antonietta e il Delfino? Forse
dal desiderio sempre d'impadronirsi prima delle fortezze, che
rimarrebbero poi in loro potere, checchè accadesse in Francia? Forse
dalla paura della resistenza selvaggia che avrebbe opposta la
Francia repubblicana? Oppure – e questo ci sembra più probabile – in
seguito a considerazioni diplomatiche?
Siccome i documenti che concernono la diplomazia francese di
quell'epoca non sono ancora stati pubblicati, siamo obbligati a fare
delle congetture. Sappiamo però che, durante l'estate e l'autunno
del 1793, vi furono delle trattative tra il Comitato di salute
pubblica e l'Austria concernenti la liberazione di Maria Antonietta,
del Delfino, di sua sorella e della loro zia, madama Elisabetta.
Sappiamo pure che Danton fu in trattative segrete fino al 1794 coi
«whigs» inglesi, per fermare l'invasione inglese. In Inghilterra
s'aspettava da un giorno all'altro di vedere Fox, capo dei «whigs»,
rovesciare Pitt, capo dei «tories», e giungere al potere. Per due
volte si sperò che il parlamento inglese si sarebbe pronunciato
contro il proseguimento della guerra contro la Francia189 (alla fine
di gennaio 1794, al momento della discussione della risposta al
discorso della Corona, e il 16 marzo 1794).
Comunque sia, gli alleati, dopo le loro prime vittorie, non mossero
su Parigi, e si misero nuovamente ad assediare le fortezze; il duca
di York andò a Dunkerque e ne cominciò l'assedio il 24 agosto, e il
duca di Cobourg assediò il Quesnoy.
Fu un momento di sollievo per la Repubblica, che permise a
Bouchotte, ministro della guerra successo a Pache, di riorganizzare
l'armata, rinforzandola con una leva di 600,000 uomini e dandole dei
comandanti repubblicani, mentre Carnot, al Comitato di salute
pubblica, procurava di metter d'accordo le mosse dei generali, e i
convenzionali in missione apportavano agli eserciti un soffio
rivoluzionario. Così passò il mese d'agosto, durante il quale i
rovesci alla frontiera e in Vandea avevano ravvivate le speranze dei
realisti e seminata la disperazione tra una parte dei repubblicani.
Però, nei primi giorni del settembre 1793, gli eserciti della
Repubblica, incitati dall'opinione, prendevano l'offensiva nel Nord,
sul Reno, nei Pirenei. Ma quantunque questa tattica fosse seguita da
trionfi nel Nord, dove il duca di York, furiosamente attaccato dai
francesi a Hondschoote, fu obbligato di levare l'assedio a
Dunkerque, altrove non diede dapprima che qualche risultato
indeciso.
Il Comitato di salute pubblica ne approfittò per domandare e
ottenere dalla Convenzione dei poteri quasi dittatoriali, «fino alla
pace». Ma ciò che contribuì di più a arrestare il progresso
dell'invasione fu il fatto che i soldati fecero prodigi di valore,
perchè vedevano dappertutto nuovi capi veramente repubblicani,
usciti dalle loro file per giungere fino al comando superiore in
pochi giorni, ed erano stimolati pure dall'esempio dei commissari
della Convenzione, che marciavano con la spada in mano, alla testa
delle colonne d'assalto. Il 15 e il 16 ottobre, non ostante le
perdite estremamente forti, riportarono a Wattignies una prima
grande vittoria sugli austriaci, vittoria ottenuta proprio con la
punta delle baionette, poichè il villaggio di Wattignies cambiò
padrone ben otto volte durante la battaglia. Maubeuge, assediata
dagli austriaci, fu allora sbloccata, e questa vittoria esercitò
sugli avvenimenti la stessa influenza della vittoria di Valmy nel
1792.
Lione, come s'è visto, era stata costretta ad arrendersi il 9
ottobre, e in dicembre Tolone fu ripresa agl'inglesi, dopo un
assalto cominciato l'8 frimaio anno II (28 novembre 1793) e
continuato il 26 (16 dicembre), quando il «fortino inglese» e i
forti dell'Eguillette e di Balagnier furono conquistati a viva
forza. La squadra inglese appiccò il fuoco ai vascelli francesi
ormeggiati nel porto, agli arsenali, ai cantieri e ai magazzini, e
lasciò la rada, abbandonando alla vendetta dei repubblicani i
realisti che le avevano consegnato Tolone.
Purtroppo, questa vendetta fu furiosa e lasciò profonde traccie
d'odio nei cuori. Centocinquanta persone, in gran parte ufficiali di
marina, furono mitragliate in massa, dopo di che si ebbero le
vendette particolari dei tribunali rivoluzionari.
In Alsazia e sul Reno, le armate inviate dalla Repubblica contro i
prussiani e gli austriaci dovettero abbandonare, fino dal principio
della campagna, la linea di difesa intorno a Wissembourg. Ciò
schiudeva la via di Strasburgo, dove la borghesia chiamava gli
austriaci, sollecitandoli ad impadronirsi della città in nome di
Luigi XVII. Per fortuna gli austriaci non si preoccupavano punto di
sostenere la monarchia in Francia, e questo fatto permise a Hoche ed
a Pichegru, aiutati da Saint-Just e da Lebas, rappresentanti della
Convenzione, di riorganizzare l'esercito per muovere essi stessi
all'attacco. Hoche vinse gli austriaci al Genisberg il 5 nevoso (25
dicembre) e sbloccò Landau.
Ma sopraggiunse l'inverno, e la campagna del 1793 finì senz'altre
vittorie per nessuna delle due parti. Gli eserciti dell'Austria,
della Prussia, dell'Assia, degli olandesi, dei piemontesi e degli
spagnuoli restarono ai confini della Francia, ma lo slancio degli
alleati s'era fiaccato. La Prussia voleva perfino ritirarsi
dall'alleanza; fu necessario che l'Inghilterra s'impegnasse all'Aia
(28 aprile 1794) a pagare al re di Prussia 7,500,000 franchi ed a
versare ogni anno un contributo di 1,250,000 franchi, perchè
mantenesse un esercito di 62,400 uomini destinati a combattere
contro la Francia.
Nella primavera seguente, la guerra doveva certamente proseguire;
però la Repubblica potè lottare in condizioni assai più favorevoli
che nel 1792 e nel 1793. Grazie allo slancio che seppe ispirare alle
classi più povere, la Rivoluzione si liberò a poco a poco dai nemici
esterni, che avevano tentato di soffocarla.
Ma a costo di quali sacrifizi, di quali convulsioni interne, di
quale alienazione della libertà, che doveva uccidere la Rivoluzione
stessa e dare la Francia al dispotismo d'un «salvatore» militare!
LVI
LA COSTITUZIONE. – IL GOVERNO RIVOLUZIONARIO
Abbiamo dovuto raccontare piuttosto diffusamente le sollevazioni
contro rivoluzionarie in Francia e le diverse peripezie della guerra
alle frontiere, prima di ritornare all'attività legislativa della
Convenzione e di riprendere il racconto degli avvenimenti a Parigi,
avvenimenti incomprensibili senza la conoscenza degli altri fatti
esposti da noi. La guerra, purtroppo, dominava tutto; assorbiva le
migliori forze della nazione e paralizzava gli sforzi dei
rivoluzionari.
La missione principale per la quale la Convenzione era stata
convocata, era l'elaborazione d'una nuova costituzione repubblicana.
Non poteva certo essere mantenuta quella del 1791, costituzione
monarchica, che divideva il paese in due classi, una delle quali era
privata d'ogni diritto politico. Così, appena riunita (21 settembre
1792), la Convenzione s'occupò della nuova costituzione. L'11
ottobre nominava già un Comitato di costituzione, composto, com'era
da prevedere, quasi tutto di Girondini (Sieyès, l'inglese Thomas
Paine, Brissot, Pétion, Vergniaud, Gensonné, Condorcet, Barère e
Danton). il Girondino Condorcet, celebre matematico e filosofo, che,
fino dal 1774, s'occupava con Turgot di riforme politiche e sociali,
e fu uno dei primi a dichiararsi repubblicano dopo Varennes, divenne
l'autore principale del progetto di costituzione che quel Comitato
depose alla Convenzione, e della Dichiarazione dei diritti dell'uomo
e del cittadino, unita a quel progetto.
Naturalmente, la prima questione che s'agitò alla Convenzione, fu
quella di sapere per quale dei due partiti, che si contendevano il
potere, sarebbe stata vantaggiosa la nuova costituzione. I Girondini
vollero farne un'arma di combattimento, che permettesse loro
d'arrestare la Rivoluzione al 10 agosto. E i Montagnardi, che non
consideravano compiuta l'opera della Rivoluzione, fecero il
possibile per impedire la discussione definitiva della costituzione,
finchè non fossero riusciti a paralizzare i Girondini e i realisti.
Ancor prima della condanna di Luigi XVI, i Girondini avevano spinto
la Convenzione ad accettare la loro costituzione, sperando di
salvare il re. E più tardi, nel marzo e nell'aprile 1793, quando
videro sorgere nel popolo le tendenze comuniste, dirette contro i
ricchi, sollecitarono ancor più la Convenzione perché accettasse il
progetto di Condorcet. Avevano premura di «rientrare nell'ordine»,
per diminuire l'influenza esercitata dai rivoluzionari, in provincia
per mezzo delle municipalità e delle sezioni sanculotte, e a Parigi
per mezzo della Comune.
La legge municipale del dicembre 1789, avendo dato alle municipalità
un potere considerevole, tanto più che gli organi del potere
centrale nelle provincie erano stati aboliti, la Rivoluzione del
1793 trovava il suo migliore appoggio nelle municipalità e nelle
sezioni. Si capisce dunque facilmente come i Montagnardi tenessero a
conservare questo loro strumento potente d'azione190.
Ma appunto per ciò i Girondini col loro progetto di costituzione
(che solo la sollevazione del 31 maggio impedì loro d'imporre alla
Francia) avevano cercato soprattutto di spezzare i comuni, d'abolire
la loro esistenza indipendente e di rinforzare i direttorii di
dipartimento e di distretto – organi dei proprietari e della «gente
onesta». Per riuscirvi, domandavano l'abolizione dei grandi comuni e
delle municipalità comunali, e la creazione d'una nuova, d'una terza
serie d'unità burocratiche, i direttorii di cantone, da essi
chiamati «municipalità cantonali».
Se questo progetto fosse stato accettato, i comuni che
rappresentavano, non già un ingranaggio dell'amministrazione, ma
delle collettività che possedevano in comune terre, fabbricati,
scuole, ecc., sarebbero scomparsi per essere sostituiti da
agglomerazioni puramente amministrative.
Infatti, le municipalità rurali prendevano sovente partito pei
contadini, e le municipalità delle grandi città, come le loro
sezioni, rappresentavano spesso l'interesse dei cittadini poveri.
Era dunque necessario dare ai borghesi agiati un organo che
sostituisse quelle municipalità, e i Girondini speravano
evidentemente di trovarlo in un direttorio cantonale, che fosse
legato, non più al popolo, ma ai direttorii – burocratici e
conservatori per eccellenza, come s'è visto – del dipartimento e del
distretto.
Su questo punto, – che a noi pare essenziale, – i due progetti di
costituzione, quello dei Girondini e quello dei Montagnardi, si
separarono completamente.
I Girondini cercarono d'introdurre un altro cambiamento molto
importante (respinto però dal Comitato di costituzione): le due
Camere, o per lo meno una divisione del Corpo legislativo in due
sezioni, come si fece più tardi nella costituzione dell'anno III
(1795), dopo la reazione di termidoro e il ritorno dei Girondini al
potere.
È ben vero che il progetto di costituzione dei Girondini sembrava
molto democratico, sotto certi rapporti, poichè confidava alle
assemblee primarie degli elettori, oltre la scelta dei loro
rappresentanti, quella dei funzionari della tesoreria, dei tribunali
e dell'Alta Corte, come quella dei ministri191, introducendo pure il
referendum o la legislazione diretta. Ma la nomina dei ministri
fatta dai corpi elettorali (ammettendo che fosse possibile in
pratica) avrebbe creato due autorità rivali, la Camera e il
Ministero, elette entrambe dal suffragio universale, e il referendum
era sottomesso a regole così complicate che lo rendevano
illusorio192.
Quel progetto di costituzione e la Dichiarazione dei diritti che lo
precedeva, stabilivano in modo più concreto della costituzione del
1791, i diritti del cittadino, – la libertà delle opinioni religiose
e dei culti, la libertà di stampa e d'ogni altro mezzo per
pubblicare i propri pensieri. Quanto alle aspirazioni comuniste che
sorgevano nel popolo, la Dichiarazione dei diritti si limitava a
constatare che i soccorsi pubblici sono un debito sacro per la
società la quale deve pure l'istruzione a tutti i suoi membri.
È facile capire quali dubbi sollevò tale progetto, quando fu
presentato alla Convenzione, il 15 febbraio 1793. La Convenzione,
sotto l'influenza dei Montagnardi, cercò di tirar per le lunghe ogni
decisione, e domandò che le fossero sottoposti altri progetti.
Nominò una Commissione, detta dei Sei, per l'analisi dei vari
progetti che potevano esserle presentati, e solamente il 17 aprile
cominciò la discussione sul rapporto della Commissione.
L'accordo fu facile sui principii generali della Dichiarazione dei
diritti, evitando ciò che poteva incoraggiare gli «Arrabbiati». Così
Robespierre pronunciò, il 24 aprile, un lungo discorso, improntato
leggermente di ciò che noi chiamiamo «socialismo», come l'ha fatto
risaltare Aulard193. Bisogna, diceva, dichiarare che «il diritto di
proprietà è limitato, come tutti gli altri, dall'obbligo di
rispettare i diritti altrui; per cui non può portar pregiudizio alla
sicurezza, alla libertà, all'esistenza, nè alla proprietà dei nostri
simili»; e che «qualunque traffico in violazione di questo principio
è essenzialmente illecito e immorale». Domandava anche la
proclamazione del diritto al lavoro, ma in una forma insignificante:
«La società è obbligata a provvedere alla sussistenza di tutti i
suoi membri, sia procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi
d'esistenza a coloro che non sono in grado di lavorare194».
La Convenzione applaudì questo discorso, ma rifiutò d'introdurre
nella Dichiarazione dei diritti i quattro articoli nei quali
Robespierre aveva espresso le proprie idee sulla proprietà. Poscia,
nè il 29 maggio, quando la Convenzione votò all'unanimità la
Dichiarazione dei diritti, alla vigilia della sollevazione del 31;
nè il 23 giugno, quand'essa accettò definitivamente la Dichiarazione
leggermente riveduta, si pensò a introdurvi le idee sui limiti del
diritto di proprietà che Robespierre aveva riassunte nei suoi
quattro articoli.
Ma il punto in cui i Montagnardi si separarono completamente dai
Girondini, fu nella discussione del 22 maggio sull'abolizione delle
municipalità comunali e la creazione dei direttorii cantonali. I
Montagnardi erano assolutamente contro quest'abolizione, tanto più
che i Girondini volevano distruggere l'unità di Parigi e della
Comune, domandando che ogni città di più di 50,000 abitanti fosse
divisa in parecchie municipalità. La Convenzione fu del parere dei
Montagnardi e respinse il progetto girondino di «municipalità
cantonali».
Intanto gli avvenimenti incalzavano. S'era alla vigilia della
sollevazione di Parigi, che avrebbe obbligata la Convenzione a
eliminare i principali Girondini; ed era certo che l'espulsione dei
Girondini sarebbe stata causa di guerra civile in parecchi
dipartimenti. Bisognava dunque che la Convenzione issasse il più
presto possibile una bandiera intorno a cui riunire i repubblicani
di provincia. Il 30 maggio, la Convenzione decise quindi, dietro
consiglio del Comitato di salute pubblica, che la costituzione fosse
ridotta ai soli articoli che importava di rendere irrevocabili. E
poichè una costituzione, ridotta a così pochi articoli, poteva
essere redatta in pochi giorni, la Convenzione nominò il 30 maggio
una Commissione di cinque membri, – Hérault de Séchelles, Ramel,
Saint-Just, Mathieu e Couthon – incaricati di presentare «nel minor
tempo possibile» un piano di costituzione, ridotta agli articoli
fondamentali.
I principali Girondini furono arrestati il 2 giugno, e la
Convenzione «epurata» cominciò dunque l'11 giugno la discussione del
nuovo piano di costituzione, elaborato dalla sua Commissione, senza
urtare contro l'opposizione della Gironda. Questa discussione durò
fino al 18 giugno. Poi, la Dichiarazione dei diritti (adottata, come
s'è visto, il 29 maggio) fu leggermente riveduta, per essere messa
d'accordo con la costituzione, e, presentata il 23, fu adottata lo
stesso giorno. Il domani, 24 giugno, la costituzione veniva adottata
in seconda lettura, e la Convenzione la mandò subito alle assemblee
primarie, per sottometterla al voto del popolo.
La costituzione montagnarda manteneva interamente le municipalità,
ecco ciò che la caratterizza. «Potevamo, dice Hérault de Séchelles,
non conservare le municipalità per quanto fossero numerose? Sarebbe
un'ingratitudine verso la Rivoluzione, e un delitto contro la
libertà. Che dico? Sarebbe proprio come annullare il governo
popolare. – No!», soggiungeva dopo aver lanciato qualche frase
sentimentale, «no, l'idea d'abolire le municipalità è certamente
nata nella testa degli aristocratici, di dove è caduta in quella dei
moderati195».
Per la nomina dei rappresentanti la costituzione del 1793
introduceva il suffragio universale diretto, a scrutinio di
circondario (50,000 abitanti); per la nomina degli amministratori
del dipartimento e di quelli dei distretti, era previsto il
suffragio a doppio grado; e quello a tre gradi per nominare i
ventiquattro membri del Consiglio esecutivo, da rinnovarsi per metà
ogni anno. L'assemblea legislativa doveva essere eletta solo per un
anno, e i suoi atti venivano divisi in due categorie: i decreti, che
dovevano essere esecutorii immediatamente, e le leggi, per le quali
il popolo poteva domandare il referendum.
Ma nella costituzione montagnarda, come nel progetto girondino,
questo diritto di referendum era illusorio. In primo luogo, quasi
tutto poteva farsi con decreti, escludendo così il referendum;
poscia, per applicarlo, bisognava che «nella metà dei dipartimenti
più uno, il decimo delle assemblee primarie di ciascun d'essi,
regolarmente formate», reclamasse contro una nuova legge entro
quaranta giorni, dopo l'invio della legge proposta.
Infine, la costituzione garantiva a tutti i francesi «la libertà, la
sicurezza, la proprietà, il debito pubblico, il libero esercizio dei
culti, un'istruzione comune, dei soccorsi pubblici, la libertà
indefinita della stampa, il diritto di petizione, il diritto di
riunirsi in società popolari, il godimento di tutti i diritti
dell'uomo.» Quanto alle leggi sociali che il popolo attendeva dalla
costituzione, Hérault de Séchelles le promise per più tardi. Prima
l'ordine: si vedrà poi ciò che si potrà fare per il popolo. Su
questo punto, la maggioranza montagnarda e quella girondina erano
perfettamente d'accordo196.
Sottomessa alle assemblee primarie, la costituzione del 24 giugno
1793 fu votata alla quasi unanimità ed anche con entusiasmo. La
Repubblica si componeva allora di 4,944 cantoni, e quando si
conobbero i voti di 4,520 cantoni, si constatò che essa era stata
accettata da 1,801,918 voti contro 11,610.
Il 10 agosto, quella costituzione fu finalmente proclamata a Parigi
con molta pompa, e nei dipartimenti essa aiutò a paralizzare le
insurrezioni girondine. Queste non avevano più nessuna ragione
d'essere, poichè cadeva la calunnia dei Girondini contro i
Montagnardi, di voler ristabilire la monarchia, con un Orléans sul
trono. Del resto, la costituzione del 1793 fu così ben accolta dalla
maggioranza dei democratici, che da quel momento fu, per più d'un
secolo, il credo della democrazia.
Ormai, la Convenzione poteva separarsi, essendo stata convocata allo
scopo di dare una costituzione repubblicana alla Francia. Ma era
chiaro che tale costituzione era inapplicabile per il momento, in
causa dell'invasione, della guerra e delle sommosse della Vandea, di
Lione, della Provenza, ecc. Era impossibile che la Convenzione si
separasse, esponendo così la Francia al rischio di nuove elezioni.
Robespierre svolse quest'idea al club dei Giacobini, il domani
stesso della promulgazione della costituzione; e anche i numerosi
delegati delle assemblee primarie, venuti a Parigi per assistere
appunto alla promulgazione, erano dello stesso parere. Il 28 agosto,
il Comitato di salute pubblica espresse la stessa idea alla
Convenzione, la quale, dopo sei settimane d'esitazione e dopo i
primi successi del governo della Repubblica a Lione, decretò, il 10
ottobre 1793, che il governo della Francia sarebbe rimasto
«rivoluzionario» fino alla pace. Era mantenere di fatto, se non di
diritto, la dittatura dei Comitati di salute pubblica e di sicurezza
generale, che fu rafforzata in settembre dalla legge dei sospetti e
dalla legge sui comitati rivoluzionari.
LVII
ESAURIMENTO DELLO SPIRITO RIVOLUZIONARIO
Il moto del 31 maggio 1793 aveva permesso alla Rivoluzione di finire
la sua opera principale: l'abolizione definitiva, senza riscatto,
dei diritti feudali e l'abolizione del dispotismo regio. Fatto
questo, la Rivoluzione s'arresta. La massa del popolo vuole andare
ancor più lungi; ma quelli che la Rivoluzione ha portati alla testa
del movimento non osano farlo. Non vogliono che la Rivoluzione
s'attacchi alle ricchezze della borghesia, come s'è attaccata a
quelle della nobiltà e del clero; essi usano di tutto il loro
ascendente per ostacolare, arrestare questa tendenza, e finalmente
schiacciarla. I più avanzati e sinceri di essi, mano mano che
s'avvicinano al potere, hanno ogni riguardo per la borghesia, anche
quando la detestano. Mettono un freno alle loro aspirazioni
egualitarie, e si preoccupano perfino di sapere ciò che dirà d'essi
la borghesia inglese. Diventano a loro volta «uomini di Stato», e
attendono a costituire un governo forte, accentrato, i cui organi
obbediscano loro ciecamente. E quando son riusciti a costituire
questo potere, sui cadaveri di quelli che avevano trovato troppo
avanzati, imparano, salendo anche loro alla ghigliottina, che
uccidendo il partito avanzato avevano ucciso la Rivoluzione.
Dopo aver sanzionato con la legge ciò che i contadini avevano
domandato e fatto, qua e là, durante quattro anni, la Convenzione
non sa intraprendere più nulla di concreto. Salvo per gli affari di
difesa nazionale e d'educazione, l'opera sua è ormai colpita da
sterilità. I legislatori sanzioneranno ancora la formazione dei
Comitati rivoluzionari e risolveranno di pagare quei sanculotti
poveri che dedicheranno il loro tempo al servizio delle sezioni e
dei comitati; ma queste misure, democratiche in apparenza, non
saranno misure di demolizione o di creazione rivoluzionaria. Saranno
soltanto mezzi per organizzare il potere.
Fuori della Convenzione e del club dei Giacobini, nella Comune di
Parigi, in certe sezioni della capitale, delle provincie, e nel club
dei Cordiglieri, si trovano uomini che capiscono come per
consolidare le conquiste fatte, bisogna andare avanti, e cercano di
formulare le aspirazioni d'ordine sociale, che cominciano a
manifestarsi nelle masse popolari.
Procurano di costituire la Francia come un'aggregazione di 40,000
comuni, in strette relazioni tra loro, che rappresentino tanti
centri dell'estrema democrazia197, intenti a stabilire
«l'eguaglianza di fatto», come si diceva allora, «l'agguagliamento
delle fortune». Cercano di svolgere i germi di comunismo municipale
che la legge del massimo aveva riconosciuti; spingono a
nazionalizzare il commercio delle principali derrate, scorgendovi il
mezzo di combattere l'incetta e la speculazione. Tentano, infine,
d'arrestare la formazione delle grandi fortune, e di spezzare, di
disperdere quelle che si sono già formate.
Ma, giunta al potere e approfittando della forza che s'era
costituita tra le mani dei due Comitati, di salute pubblica e di
sicurezza generale, l'autorità dei quali ingrandiva coi pericoli
della guerra, la borghesia rivoluzionaria schiacciò coloro che
chiamò gli «Arrabbiati» o gli «anarchici», per poi soccombere a sua
volta in termidoro, sotto l'attacco della borghesia contro
rivoluzionaria198. Allora, essendo arrestato lo slancio
rivoluzionario dall'esecuzione dei rivoluzionari spinti, il
Direttorio potè stabilirsi, e più tardi Bonaparte non ebbe che ad
impadronirsi del potere accentrato, stabilito dai rivoluzionari
giacobini, per diventare console e poi imperatore.
Finchè ebbero da combattere contro i Girondini, i Montagnardi
cercarono l'appoggio dei rivoluzionari popolari. In marzo, in aprile
1793, sembravano pronti a spingersi molto innanzi coi proletari. Ma,
giunti al potere, pensarono solo a costituire un partito medio,
posto tra gli «Arrabbiati» e i contro rivoluzionari. Trattarono da
nemici coloro che rappresentavano le tendenze egualitarie del
popolo. Li schiacciarono, schiacciandone tutti i tentativi
d'organizzazione nelle sezioni e nella Comune.
In realtà la grande massa dei Montagnardi, salvo rare eccezioni, non
aveva la comprensione dei bisogni del popolo, necessaria per
costituire un partito di rivoluzione popolare. L'uomo del popolo,
con le sue miserie, la sua famiglia spesso affamata e le sue
aspirazioni egualitarie ancor vaghe e incerte, non era loro noto.
Ciò che li interessava era l'individuo astratto, l'unità d'una
società democratica.
Quando un convenzionale in missione giungeva in una città di
provincia, ad eccezione di qualche Montagnardo avanzato, le
questioni del lavoro e del benessere nella Repubblica, il godimento
egualitario dei beni disponibili l'interessavano pochissimo. Inviato
per organizzare la resistenza all'invasione e rianimare lo spirito
patriottico, egli agiva da funzionario democratico, per il quale il
popolo era soltanto un elemento che doveva contribuire a realizzare
i progetti del governo.
Si recava alla Società popolare del luogo, ma semplicemente perchè
essendo la municipalità «cancrenata d'aristocrazia», la Società
popolare l'avrebbe aiutato ad «epurare la municipalità», per
organizzare la difesa nazionale e mettere la mano sui traditori.
Colpiva i ricchi con imposte, spesso gravose, ma perchè i ricchi,
«cancrenati di negoziantismo», simpatizzavano coi Foglianti o i
«federalisti», e aiutavano il nemico. Ed anche perchè colpendoli si
trovavano i mezzi di nutrire e di vestire le armate.
Se proclamava l'uguaglianza in una città, se proibiva di fare il
pane bianco e imponeva a tutti il pan nero o quello di fave, era
semplicemente per poter nutrire i soldati. E quando un agente del
Comitato di salute pubblica organizzava una festa popolare e
scriveva a Robespierre che aveva unito tante cittadine a dei giovani
patriotti, era sempre per fare propaganda di patriottismo guerriero.
Si è dunque stupiti, quando si leggono le lettere inviate dai
rappresentanti in missione199, di trovarvi ben poco sui grandi
problemi che appassionavano la massa dei contadini e dei lavoratori
nelle città. Tre o quattro solamente, su duecento, se ne
interessano.
Così, la Convenzione ha abolito finalmente i diritti feudali ed
ordinato di bruciarne i titoli (cosa che si compie con cattiva
volontà), ed ha autorizzato la ripresa da parte dei comuni rurali
delle terre a loro tolte da duecento anni sotto diversi pretesti.
Attivare quelle misure, metterle in esecuzione sul posto, era
certamente il vero mezzo di risvegliare l'entusiasmo della
popolazione per la Rivoluzione. Ma nelle lettere dei convenzionali
in missione non si trova quasi niente su questo soggetto200. Quanto
alle lettere così interessanti del giovane Jullien, mandate al
Comitato di salute pubblica o al suo amico e protettore Robespierre,
riferiscono una volta sola che ha fatto bruciare i titoli
feudali201. Se ne fa pure menzione incidentemente in
Collot-d'Herbois202.
Anche quando i convenzionali parlano di sussistenze – e vi sono
spesso costretti – non vanno a fondo della questione. Non v'è che
una lettera di Jeanbon Saint-André, del 26 marzo 1793, che faccia
eccezione alla regola, ma è anteriore al 31 maggio. Più tardi, si
schierò pure contro i rivoluzionari avanzati203. Scrivendo da
Lot-et-Garonne, uno dei dipartimenti più simpatici alla Rivoluzione,
Jeanbon pregava i colleghi del Comitato di non nascondersi i
pericoli della situazione: «Essa è tale, diceva, che se il nostro
coraggio non fa nascere una di quelle occasioni straordinarie che
rianimano lo spirito pubblico e gli danno nuova forza, non c'è più
da sperare. I torbidi della Vandea e dei dipartimenti vicini sono
inquietanti, certo, ma sono pericolosi solamente perchè il santo
entusiasmo della libertà è soffocato in tutti i cuori. Dovunque si è
stanchi della Rivoluzione. I ricchi la detestano, i poveri mancano
di pane...» e «tutti quelli che si chiamavano moderati, che facevano
in certo qual modo causa comune coi patriotti e che volevano per lo
meno una rivoluzione, oggi non ne vogliono più... Diciamolo
francamente, vogliono la contro rivoluzione...» Le municipalità
stesse sono deboli o corrotte in tutti i luoghi che sono stati
percorsi da quei due rappresentanti.
Jeanbon Saint-André domanda delle misure che siano grandi e
rigorose. Finita la lettera, ritorna a queste misure in un
poscritto: «Il povero non ha pane e i grani non mancano, ma sono
racchiusi... Bisogna assolutamente far vivere il povero, se volete
che aiuti a compiere la Rivoluzione... Ci pare che un decreto in cui
si ordinasse il reclutamento generale di tutti i grani sarebbe
utilissimo, specialmente se vi si aggiungesse una disposizione che
stabilisse dei granai pubblici formati dal superfluo dei privati». E
Jeanbon Saint-André supplica Barère di prendere l'iniziativa di
queste misure204.
Ma come interessare la Convenzione a tali questioni!
Ciò che interessa soprattutto i convenzionali è di consolidare il
regime montagnardo. E, simili a tutti gli uomini di governo che li
hanno preceduti o che successero loro, non cercano il fondamento di
questo regime nel benessere generale e nella felicità dei molti; ma
nell'indebolimento e, all'occorrenza, nello sterminio dei loro
nemici. Ben presto si entusiasmeranno per il Terrore, come mezzo
d'abbattere i nemici della Repubblica democratica; ma non li si
vedranno mai entusiasmarsi per vaste misure economiche, neppure per
quelle votate da essi stessi a un dato momento sotto la pressione
degli avvenimenti.
LVIII
IL MOVIMENTO COMUNISTA
Nei cahiers del 1789 si trovano già delle idee, come ha detto
Chassin, che sarebbero oggi combattute come socialiste. Rousseau,
Helvétius, Mably, Diderot, ecc., avevano già trattato
dell'ineguaglianza delle ricchezze e dell'accumularsi del superfluo
tra le mani di pochi, come di un grande ostacolo alla formazione
della libertà democratica. Tali idee risorsero in principio della
Rivoluzione.
Turgot, Sieyès, Condorcet sorsero per affermare che l'eguaglianza
dei diritti politici non darebbe alcun frutto; senza l'eguaglianza
di fatto. Questa, diceva Condorcet, rappresentava «l'ultimo scopo
dell'arte sociale», poichè «l'ineguaglianza delle ricchezze,
l'ineguaglianza di stato e l'ineguaglianza d'istruzione sono la
causa principale di tutti i mali»205. Le stesse idee trovarono un
eco in parecchi quaderni degli elettori, che chiedevano sia il
diritto di tutti al possesso del suolo, sia «l'agguagliamento delle
fortune».
Si può anzi dire che il proletariato parigino enunciasse già le
proprie rivendicazioni, trovando degli uomini per esprimerle
efficacemente. L'idea delle classi distinte, aventi interessi
opposti, è nettamente espressa da un certo Lambert, «un amico di
coloro che non hanno nulla», nel Cahier des pauvres del distretto di
Saint-Etienne du Mont, cahier in cui si parla già di lavori
produttivi con salario sufficiente (il living wage dei socialisti
inglesi), della lotta contro il lasciar fare degli economisti
borghesi, dell'opposizione della questione sociale alla questione
politica206.
Ma tali idee furono specialmente propagate dopo la presa delle
Tuileries e soprattutto dopo l'uccisione del re, ossia nel febbraio
e nel marzo del 1793. Anzi parrebbe (Baudot l'afferma), che i
Girondini diventassero così accaniti difensori delle proprietà per
timore dell'influenza che prendeva a Parigi la propaganda
egualitaria e comunista207.
Alcuni Girondini, specialmente Rabaut Saint-Etienne e Condorcet,
subirono anzi l'influenza di quel movimento. Condorcet, nel suo
letto di morte, abbozzava un piano di «mutualità», d'assicurazione
fra tutti i cittadini, contro tutto ciò che può gettare il
lavoratore agiato in uno stato in cui è forzato di vendere il
proprio lavoro a un prezzo qualsiasi. Rabaut domandava che si
togliessero ai ricchi le loro grandi ricchezze, sia con un'imposta
progressiva, sia imponendo, con la legge, «il passaggio naturale del
superfluo dei ricchi» in stabilimenti d'utilità pubblica. «Le grandi
ricchezze sono d'inciampo alla libertà», diceva, ripetendo una
formola generalmente divulgata in quel tempo. Perfino Brissot cercò
a un certo punto di trovare il giusto mezzo borghese di fronte a
quella corrente popolare, ma egli l'attaccò poi ferocemente208.
Alcuni Montagnardi si spinsero più innanzi. BillaudVarenne, in un
opuscolo pubblicato nel 1793, parlò apertamente contro la grande
proprietà209. Si ribellava all'idea di Voltaire che l'operaio
dev'essere spronato dalla fame perchè lavori, e domandava (p. 103)
di dichiarare che nessun cittadino non potesse possedere da quel
momento più d'una quantità fissa di jugeri di terra e che nessuno
non potesse ereditare più di 20,000 o 25,000 lire. Capiva che la
causa prima dei mali sociali risiedeva nel fatto, che v'erano uomini
posti «sotto la dipendenza diretta e non reciproca d'un altro
privato. Qui comincia il primo anello della schiavitù.» Rideva delle
piccole proprietà suddivise che si volevano dare ai poveri, «la cui
esistenza sarà sempre precaria e miseranda, non appena è fonte
d'arbitrio.» È stato gettato un grido, diceva più avanti (p. 129):
«Guerra ai castelli, pace alle capanne! Aggiungiamovi la
consacrazione di questa regola fondamentale: Nessun cittadino
dispensato dall'avere una professione; nessun cittadino
nell'impossibilità di procurarsi un mestiere».
L'idea di Billaud-Varenne sull'eredità fu ripresa, com'è noto,
dall'Associazione internazionale dei lavoratori al suo Congresso di
Basilea, nel 1869. Ma bisogna dire che tra i Montagnardi,
Billaud-Varenne era uno dei più spinti.
Altri, come per esempio Le Peletier, si limitavano a domandare ciò
che chiese l'Internazionale sotto il nome d'«istruzione integrale»,
vale a dire, l'insegnamento d'un mestiere manuale ad ogni
adolescente; mentre altri ancora si contentavano di chiedere «la
restituzione delle proprietà» da parte della Rivoluzione (Harmand) e
la limitazione del diritto di proprietà.
Però, bisogna cercare gl'interpreti dei movimenti comunali e
comunisti del 1793 e 1794 soprattutto fuori della Convenzione –
negli ambienti popolari, in alcune sezioni, come quella dei
Gravilliers, e al club dei Cordiglieri, – non tra i Giacobini,
certamente. Vi fu perfino un tentativo di libera organizzazione tra
coloro ch'eran chiamati gli «Arrabbiati», perchè spingevano alla
rivoluzione egualitaria in un senso sociale. Dopo il 10 agosto 1792,
s'era costituita, apparentemente sotto l'impulso dei federati venuti
a Parigi, una sorta d'unione tra i delegati delle 48 sezioni di
Parigi, del Consiglio generale della Comune e dei «difensori riuniti
degli 84 dipartimenti». E quando, nel febbraio 1793, cominciarono a
Parigi i movimenti contro gli aggiottatori, dei quali abbiamo già
parlato (cap. XLIII), alcuni delegati di quest'organizzazione
andarono a chiedere alla Convenzione delle misure energiche contro
l'aggiotaggio (3 febbraio). Nei loro discorsi, si scorge già in
germe l'idea che fu più tardi la base del mutualismo e della Banca
del Popolo di Proudhon: tutti i profitti che risultano dal cambio
nelle banche, se profitto c'è, devono ritornare alla nazione intera,
– non a dei privati, – poichè sono un prodotto della fiducia
pubblica di tutti in tutti.
Non sono ancora abbastanza noti questi movimenti confusi; che si
manifestavano nel popolo di Parigi e delle grandi città nel 1793 e
1794. Si comincia solo ora a studiarli. Ma è certo che il movimento
comunista, rappresentato da Jacques Roux, Varlet, Dolivet, Chalier,
Leclerc, L'Ange (o Lange), Rose Lacombe, Boissel ed altri, era più
profondo di quel che si credette in principio, e Michelet l'aveva
indovinato210.
Naturalmente, il comunismo del 1793 non si presenta con
quell'insieme di dottrina che si riscontra nei continuatori francesi
di Fourier e di Saint-Simon, e specialmente in Considérant o anche
in Vidal. Nel 1793, le idee comuniste non si elaboravano nel
gabinetto di studio, ma nascevano dai bisogni stessi del momento.
Ecco perchè il problema sociale, durante la Grande Rivoluzione, si
presentò specialmente sotto la forma di problema delle sussistenze e
di problema della terra. Ed è appunto ciò che costituisce la
superiorità del comunismo della Grande Rivoluzione sul socialismo
del 1848 e dei suoi discendenti. Mirava direttamente allo scopo
appigliandosi alla ripartizione dei prodotti.
Questo comunismo ci sembra certamente frammentario, soprattutto
perchè i più non insistevano che su uno dei suoi diversi aspetti.
Esso resta ciò che potremmo chiamare un comunismo parziale, poichè
ammette il possesso individuale, unitamente alla proprietà comunale,
e pur proclamando il diritto di tutti su ogni prodotto, riconosce un
diritto individuale sul «superfluo», parallelo al diritto di tutti
sui prodotti «di prima e di seconda necessità». Eppure vi si
riscontrano già i tre aspetti principali del comunismo: il comunismo
della terra, l'industriale, e quello del commercio e del credito. E
in ciò, la concezione del 1793 è più vasta di quella del 1848.
Poichè, se vari agitatori del 93 appoggiano di preferenza in un
aspetto del comunismo piuttosto che in un altro, i vari aspetti non
s'escludono affatto. Anzi, nati dalla stessa concezione
d'eguaglianza, essi si completano. Nello stesso tempo, i comunisti
del 1793 procurano di mettere in pratica le loro idee per mezzo
delle forze locali, sul posto e di fatto, pur cercando d'abbozzare
l'unione diretta dei 40,000 comuni.
In Sylvain Maréchal si riscontra anche una vaga aspirazione verso
ciò che oggi chiamiamo comunismo anarchico, benchè espressa con
molta riserva, poichè s'arrischiava di pagar con la testa un
linguaggio troppo franco.
L'idea di giungere al comunismo per mezzo della cospirazione, con
una società segreta che s'impadronirebbe del potere (idea della
quale si fece apostolo Babeuf), nacque solo più tardi, nel 1795,
quando la reazione termidoriana ebbe troncato il movimento
ascendente della Grande Rivoluzione. È un effetto dello sfinimento,
– non del rigoglio durato dal 1789 al 1793.
Vi fu certo molta declamazione in ciò che dicevano i comunisti
popolari. È un po' la moda dell'epoca, alla quale pagano un tributo
anche i nostri oratori moderni. Ma tutto quanto si conosce dei
comunisti popolari della Grande Rivoluzione tende a rappresentarli
come profondamente devoti alle loro idee.
Jacques Roux era stato prete. Poverissimo, viveva con un cane, quasi
unicamente con duecento lire di rendita, in una casa buia nel centro
di Parigi,211 e predicava il comunismo nei quartieri operai.
Ascoltatissimo nella sezione dei Gravilliers, Jacques Roux esercitò
pure eguale influenza nel club dei Cordiglieri fino alla fine di
giugno del 1793, momento in cui tale influenza fu spezzata
dall'intervento di Robespierre. Quanto a Chalier, abbiamo già visto
l'ascendente che esercitava a Lione, e si sa da Michelet che quel
comunista mistico era una persona di valore, – ancor più «amico del
popolo» di Marat, – ed era adorato da' suoi discepoli. Dopo la sua
morte, il suo amico Leclerc andò a Parigi e continuò la propaganda
comunista, insieme con Roux, Varlet (giovane operaio parigino), e
Rosa Lacombe, il perno delle donne rivoluzionarie. Non si sa quasi
nulla di Varlet, salvo che era popolare tra i poveri di Parigi. Il
suo libello: Dichiarazione solenne dei diritti dell'uomo nello stato
sociale, pubblicato nel 1793, era molto moderato212. Ma non bisogna
dimenticare che col decreto del 10 marzo 1793 sospeso sul loro capo,
i rivoluzionari spinti non osavano pubblicare tutto ciò che
pensavano.
I comunisti ebbero pure i loro teorici, quali Boissel, che pubblicò
il suo Catechismo del genere umano, in principio della Rivoluzione e
una seconda edizione di quest'opera nel 1791; l'autore anonimo d'un
lavoro pubblicato pure nel 1791 e intitolato: Della proprietà,
ovvero la causa del povero difesa al tribunale della Ragione, della
Giustizia e della Verità, e Pierre Dolivier, curato di Mauchamp, la
cui opera notevole, Saggio sulla giustizia primitiva, per servire di
principio generatore al solo ordine sociale che può assicurare
all'uomo tutti i suoi diritti e tutti i suoi mezzi di felicità, fu
pubblicata alla fine di luglio del 1793 dai cittadini del comune
d'Anvers, distretto d'Etampes213. Vi fu anche Lange, o L'Ange, che
fu un vero precursore di Fourier, come l'aveva già fatto osservare
Michelet. Finalmente Babeuf si trovava a Parigi nel 1793. Impiegato
alle sussistenze, sotto la protezione di Sylvain Maréchal, vi faceva
in segreto della propaganda comunista. Costretto di nascondersi,
perchè ingiustamente accusato d'un preteso delitto di falso, come
l'ha dimostrato G. Deville che ha trovato i documenti del
processo214, era allora assai riservato e prudente215.
Si credette poi che vi fosse relazione tra il comunismo e la
cospirazione di Babeuf. Ma questi, giudicandolo da' suoi scritti, fu
solo l'opportunista del comunismo del 1793. Le sue concezioni, come
i mezzi d'azione che preconizzava, ne rimpicciolivano l'idea. Molti
spiriti capivano a quell'epoca, che un movimento verso il comunismo
sarebbe stato il solo mezzo per assicurare le conquiste della
democrazia, ma Babeuf cercava, come ha detto benissimo un suo
apologista moderno, a insinuare il comunismo nella democrazia.
Mentre diveniva evidente che la democrazia avrebbe perduto le sue
conquiste se il popolo non entrava in campo, Babeuf voleva la
democrazia prima, per introdurvi poi a poco a poco il comunismo216.
La sua concezione del comunismo, in generale, era così piccina,
fittizia, ch'egli credeva di giungervi con l'azione di pochi
individui, i quali s'impadronirebbero del governo mediante una
società segreta. Giungeva perfino a porre la propria fede in un
individuo, purchè avesse la forte volontà d'introdurre il comunismo
e di salvare il mondo! Illusione funesta che continuò ad essere
nutrita da certi socialisti per tutto il diciannovesimo secolo, e ci
diede il «cesarismo», – la fede in Napoleone o in Disraeli, in un
salvatore qualsiasi, fede che persiste fino ai giorni nostri.
LIX
IDEE SULLA SOCIALIZZAZIONE DELLA TERRA, DELLE INDUSTRIE, DELLE
SUSSISTENZE E DEL COMMERCIO
Il pensiero dominante del movimento comunista del 1793 fu questo: la
terra dev'essere considerata come un patrimonio comune a tutta la
nazione; ogni abitante ha diritto alla terra, e l'esistenza
dev'essere garantita a ciascuno, in modo che nessuno possa essere
forzato di vendere il proprio lavoro, sotto la minaccia della fame.
L'«eguaglianza di fatto», della quale s'era tanto parlato nel
diciottesimo secolo, si traduceva ora con l'affermazione d'un
diritto uguale per tutti alla terra; e il grandissimo movimento di
terre che si faceva con la vendita dei beni nazionali risvegliava la
speranza di poter mettere in pratica quest'idea.
Non bisogna dimenticare che a quell'epoca, in cui le grandi
industrie cominciavano solamente a formarsi, la terra era lo
strumento principale di sfruttamento. Con la terra, i signori
dominavano i contadini, e l'impossibilità d'avere la sua piccola
parte di terra, forzava il contadino indigente a emigrare in città,
dove, senza difesa, cadeva nelle mani dei fabbricanti industriali e
degli aggiottatori.
In tali condizioni, il pensiero dei comunisti si volgeva
necessariamente verso la cosidetta «legge agraria», destinata a
fissare il limite delle proprietà fondiarie a un certo massimo
d'estensione ed a riconoscere il diritto di ciascuno alla terra.
L'incetta delle terre, che si faceva dagli speculatori durante la
vendita dei beni nazionali, non poteva che rafforzare quest'idea. E
mentre gli uni chiedevano che ogni cittadino deciso a coltivare la
terra, avesse il diritto di ricevere la sua parte dei beni nazionali
o, almeno, di comprarne a condizioni di facile pagamento; altri più
perspicaci ancora, domandavano che la terra fosse resa proprietà
comunale, e che ciascuno venisse investito d'un diritto momentaneo
di possesso del suolo che avrebbe coltivato da solo, e per tutto il
tempo in cui lo coltiverebbe.
Così, Babeuf, evitando forse di compromettersi troppo, domandava la
divisione eguale delle terre comunali. Ma anch'egli voleva
«l'inalienabilità delle terre, cioè che si mantenessero i diritti
della società, del comune, o della nazione, sul suolo – il possesso
fondiario e non la proprietà.
D'altra parte, alla Convenzione, quando si discusse la legge sulla
divisione delle terre comunali, Julien Souhait combattè la divisione
definitiva, proposta dal Comitato d'agricoltura, e i milioni di
contadini poveri furono certo con lui. Domandò che la divisione dei
beni comunali – in parti eguali, a tutti – fosse solamente
temporaria, e che potesse essere rifatta in date epoche. L'usofrutto
solo sarebbe stato concesso in quel caso, come nei comuni russi.
Nello stesso ordine d'idee, Dolivier, curato di Mauchamp, stabiliva
«due principii immutabili nel suo Essai sur la justice primitive:
primo, la terra è di tutti in generale e non è di nessuno in
particolare; secondo, ciascuno ha un diritto esclusivo al prodotto
del suo lavoro». Ma, siccome il problema della terra dominava gli
altri, vi si attaccò di preferenza.
«La terra, diceva, presa in generale, dev'essere considerata come il
grande comunale della natura», – la proprietà comune di tutti; –
«ogni individuo deve avere il suo diritto alla suddivisione del
grande comunale». «Una generazione non ha il diritto di fare la
legge alla generazione seguente e di disporre della sua sovranità; a
maggior ragione, come potrebbe avere il diritto di disporre del suo
patrimonio?» E più avanti: «Le nazioni sole, e per suddivisione, i
comuni sono veramente proprietari dei loro terreni.217»
In fondo, Dolivier non riconosceva come diritto, trasmissibile per
eredità, che quello sulle proprietà mobiliari. Quanto alla terra,
nessuno doveva essere ammesso a possedere, del fondo comune, se non
ciò che poteva coltivare da sè stesso, con la famiglia, – e soltanto
come possesso vitalizio. Ciò non avrebbe però impedito, ben inteso,
la coltivazione comunista del comune, oltre a quella privata delle
fattorie. Ma, conoscendo bene il villaggio, Dolivier detestava i
fattori quanto i proprietari. Domandava «l'intera dissoluzione dei
corpi di fattoria», e «l'estrema divisione della terra tra tutti i
cittadini che non ne hanno, o che non ne posseggono
sufficientemente. Ecco l'unica misura adeguata che rianimerebbe le
nostre campagne e porterebbe l'agiatezza in tutte le famiglie che
gemono nella miseria, per mancanza di mezzi coi quali poter fare
valere la propria industria. La terra, aggiungeva, sarebbe così
coltivata meglio, le risorse domestiche più moltiplicate, i mercati,
quindi, più abbondantemente provvisti, e ci si troverebbe sbarazzati
della più detestabile aristocrazia, quella dei fattori». Egli
prevedeva che si sarebbe giunti in tal modo a una così grande
ricchezza agricola, da non aver più bisogno della legge sulle
sussistenze, la quale benchè «necessaria nelle circostanze attuali,
costituisce però un inconveniente».
La socializzazione delle industrie trovò pure dei difensori,
specialmente nella regione lionese. Vi si domandò, che i salari
fossero regolati dal comune e tali da garantire l'esistenza. È il
living wage dei socialisti moderni inglesi. Inoltre, vi si chiedeva
che certe industrie, come le mine, venissero nazionalizzate. Si
lanciò anche l'idea che i comuni dovessero impadronirsi delle
industrie abbandonate dai contro rivoluzionari e sfruttarle per
conto proprio. L'idea del comune facentesi produttore, fu molto
popolare nel 1793. Altra idea popolarissima e della quale Chaumette
si fece l'apostolo, fu quella di trasformare a Parigi in orti
comunali le vaste terre incolte dei parchi dei ricchi.
Naturalmente, a quell'epoca, l'industria interessò molto meno
dell'agricoltura. Però, il negoziante Cusset, eletto da Lione membro
della Convenzione, parlò della nazionalizzazione delle industrie, e
L'Ange svolse un progetto di falanstero in cui l'industria sarebbe
unita all'agricoltura. Dal 1790, L'Ange aveva fatto a Lione seria
propaganda comunista. Così, in un opuscolo scritto nel 1790,
svolgeva le seguenti idee: «La Rivoluzione stava per essere
salutare; un rovesciamento delle idee l'ha appestata; col più
orribile abuso delle ricchezze, si è trasformato il sovrano» [il
popolo]. «L'oro... è utile e salutare solo tra le nostre mani
laboriose; diventa virulento quando s'accumula nelle casse forti dei
capitalisti..... Sire, dappertutto dove si poserà il suo sguardo,
vedrà la terra occupata da noi; noi lavoriamo, noi siamo i primi
possessori, i primi e gli ultimi occupanti effettivi. I fannulloni
che si dicono proprietari possono raccogliere soltanto l'eccedente
della nostra sussistenza. Questo prova almeno la nostra
comproprietà. Ma se, naturalmente, siamo comproprietari e l'unica
causa d'ogni reddito, il diritto di limitare la nostra sussistenza e
di privarci del resto, è un diritto da brigante.218» E ciò
rappresenta, secondo me, un modo giustissimo di concepire il
«plusvalore». E, ragionando sempre sui fatti reali, – sulla crisi
delle sussistenze, attraversata dalla Francia, – egli giunge a
proporre un sistema d'abbonamento dei consumatori per comprare a
condizioni determinate l'insieme del raccolto, – il tutto, per mezzo
dell'associazione libera, da universalizzare liberamente. Voleva
inoltre il magazzino comune, in cui ogni coltivatore potesse portare
i prodotti da vendere. Era, com'è evidente, un sistema che negava,
nel commercio delle derrate, il monopolio individualista, e il
regime statale della Rivoluzione, precorrendo il sistema moderno
delle cooperative di lattai, associati per vendere insieme i
prodotti di tutta una provincia, come nel Canadà, o di tutta una
nazione, come in Danimarca.
In generale, il problema che appassionò maggiormente i comunisti del
1793 fu quello delle sussistenze, e li spinse a imporre alla
Convenzione il massimo e ad enunciare questo gran principio: la
socializzazione degli scambi, la municipalizzazione del commercio.
Difatti, la questione del commercio dei grani dominò dappertutto.
«La libertà del commercio dei grani è incompatibile con l'esistenza
della nostra repubblica», dicevano gli elettori di Seine-et-Oise,
nel novembre del 1792, alla Convenzione. Questo commercio è fatto da
una minoranza a scopo di lucro, e tale minoranza ha sempre interesse
a produrre dei rialzi artificiali dei prezzi, che fanno sempre
soffrire i consumatori. Ogni mezzo parziale è pericoloso e
impotente, dicevano; i mezzi termini ci rovineranno. Bisogna che il
commercio dei grani, che tutto l'approvvigionamento sia fatto dalla
Repubblica, la quale stabilirà «la giusta proporzione tra il prezzo
del pane e la giornata di lavoro». La vendita dei beni nazionali
aveva dato luogo a vergognose speculazioni da parte delle persone
che affittavano questi beni, per cui gli elettori di Seine-et-Oise
domandavano di limitare i poderi e di nazionalizzare il commercio.
«Ordinate, dicevano, che nessuno possa prendere come podere più di
120 jugeri, misura di 22 piedi alla pertica; che ogni proprietario
non possa far valere per sè che un solo corpo di podere, e sia
obbligato d'affittare gli altri». E aggiungevano: «Affidate quindi
l'incarico d'approvvigionare ogni parte della Repubblica ad
un'amministrazione centrale, scelta dal popolo, e vedrete che
l'abbondanza dei grani e la giusta proporzione del loro prezzo con
quello della giornata di lavoro, restituirà la tranquillità, la
felicità e la vita a tutti i cittadini».
Come si vede, queste idee non erano tolte da Turgot nè da Necker.
Erano ispirate dalla vita stessa.
Bisogna poi notare che queste idee furono accettate dai due
comitati, d'agricoltura e di commercio, e svolte nel loro rapporto
sulle sussistenze presentato alla Convenzione219, e che furono
applicate, in seguito ad insistenza del popolo, in alcuni
dipartimenti del Berry e dell'Orleanese. Nell'Eure-et-Loire, il 3
dicembre 1792 poco mancò che s'ammazzassero i commissari della
Convenzione, dicendo loro che «i borghesi avevano goduto abbastanza,
che ora toccava ai poveri lavoratori».
Più tardi, simili leggi furono violentemente domandate alla
Convenzione da Beffroy (dell'Aisne), e la Convenzione (come s'è
visto parlando del massimo) fece un tentativo, su vasta scala, in
tutta la Francia, di socializzare tutto il commercio degli oggetti
di prima necessità, per mezzo dei magazzini nazionali, e stabilendo
in ogni dipartimento il prezzo «giusto» delle derrate.
Si vede così germogliare durante la Rivoluzione l'idea che il
commercio è una funzione sociale; che dev'essere socializzato, come
la terra e l'industria, idea che sarà svolta più tardi da Fourier,
Robert Owen, Proudhon e dai comunisti degli anni 1840-50.
Ma non è tutto. È evidente per noi che Jacques Roux, Varlet,
Dolivier, L'Ange e migliaia d'abitanti delle città e campagne,
agricoltori e artigiani, capivano il problema delle sussistenze, al
punto di vista pratico, molto meglio dei rappresentanti della
Convenzione. Capivano che il tassare solo le industrie ed il
commercio, senza socializzare il suolo, non darebbe nessun
risultato, anche se si ricorresse a tutto un arsenale di leggi
repressive ed al tribunale rivoluzionario. Il sistema di vendita dei
beni nazionali adottato dalla Costituente, dalla Legislativa e dalla
Convenzione, avendo creato quei grossi fattori che Dolivier chiamò
con ragione la peggiore aristocrazia, la Convenzione finì per
accorgersene nel 1794. Ma allora seppe solamente farli arrestare in
massa, per mandarli alla ghigliottina. Intanto, le leggi draconiane
contro l'incetta (come la legge del 26 luglio 1793, che prescriveva
di perlustrare i granai, le cantine, le tettoie delle fattorie), non
facevano che seminare nei villaggi l'odio contro la città e
specialmente contro Parigi.
Il tribunale rivoluzionario e la ghigliottina non potevano supplire
all'assenza d'un'idea costruttiva comunista.
LX
FINE DEL MOVIMENTO COMUNISTA
Prima del 31 maggio, quando i rivoluzionari montagnardi vedevano la
Rivoluzione arrestata dall'opposizione dei Girondini, cercavano
d'appoggiarsi ai comunisti e, in generale, agli «Arrabbiati».
Robespierre, nel suo progetto di Dichiarazione dei diritti del 21
aprile 1793, in cui si pronunciava per la limitazione del diritto di
proprietà, Jeanbon Saint-André, Collot d'Herbois, Billaud-Varenne,
ecc., si riavvicinavano allora ai comunisti, e se Brissot, nei suoi
attacchi furiosi contro i Montagnardi, li confondeva con gli
«anarchici», distruttori delle proprietà, gli è che a quell'epoca i
Montagnardi non cercavano ancora di separarsi nettamente dagli
«Arrabbiati».
Eppure, immediatamente dopo i moti del febbraio 1793, la Convenzione
prese già un'attitudine minacciosa di fronte ai comunisti. In
seguito a un rapporto in cui Barère rappresentava già l'agitazione
come l'opera dei preti e degli emigrati, votò con entusiasmo (18
marzo 1793), non ostante l'opposizione di Marat, «la pena di morte
contro chiunque proponesse una legge agraria od ogni altra
sovversiva delle proprietà territoriali, comunali o individuali».
Però, furono ancora costretti di non urtare troppo gli «Arrabbiati»,
poichè avevano bisogno del popolo parigino contro i Girondini, e
nelle sezioni più attive gli «Arrabbiati» erano popolari. Ma,
rovesciati i Girondini, i Montagnardi si volsero contro quelli che
volevano «la Rivoluzione nelle cose, poichè era compiuta nelle
idee», e li schiacciarono a loro volta.
Peccato che le idee comuniste non abbiano trovato nessuno, tra gli
uomini istruiti di quel tempo, che sapesse formularle integralmente
e farsi ascoltare. Avrebbe potuto farlo Marat, se avesse vissuto, ma
nel luglio 1793 era già scomparso. Hébert era troppo sibarita per
accingersi a un compito simile; apparteneva troppo alla società dei
gaudenti borghesi della scuola di d'Holbach per farsi difensore
dell'anarchismo comunista, che si faceva strada tra le masse
popolari. Potè adottare il linguaggio dei sanculotti, come i
Girondini ne adottarono il berretto frigio e l'abitudine di dare del
tu; ma, come loro, era troppo lontano dal popolo per capire ed
esprimere le aspirazioni popolari. S'unì ai Montagnardi per
schiacciare Jacques Roux e gli «Arrabbiati» in generale.
Billaud-Varenne sembrava capisse meglio degli altri Montagnardi il
profondo bisogno di cambiamenti nel senso comunista. Aveva
intravvisto un istante che una rivoluzione sociale avrebbe dovuto
camminare di pari passo con la rivoluzione repubblicana; ma neppur
lui non ebbe il coraggio di diventare un lottatore per quest'idea.
Entrò nel governo e finì col fare come gli altri Montagnardi che
dicevano: «Prima la Repubblica, le misure sociali verranno poi.» Ma
per questo fallirono, e la Repubblica pure fallì.
La Rivoluzione, con le sue prime misure, aveva messo in gioco troppi
interessi, perchè questi potessero permettere al comunismo di
svolgersi. Le idee comuniste sulle proprietà fondiarie avevano
contro tutti gl'immensi interessi della borghesia, che s'era
sguinzagliata dovunque per impadronirsi dei beni del clero, messi in
vendita sotto il nome di beni nazionali, e rivenderne poi una parte
ai contadini più o meno agiati. Questi compratori che, in principio
della Rivoluzione, erano stati il sostegno più sicuro del movimento
contro la monarchia, diventati proprietari e arricchiti dalla
speculazione, divennero i nemici più accaniti dei comunisti, che
reclamavano il diritto alla terra pei contadini più poveri e i
proletari delle città.
I legislatori della Costituente e della Legislativa avevano visto in
quelle vendite il mezzo di arricchire la borghesia a spese del clero
e della nobiltà. Al popolo, non pensarono neppure.
Difatti, l'Assemblea Costituente s'era perfino opposta all'unione
dei contadini in piccole compagnie per comprare questo o quel bene.
Siccome c'era estremo bisogno di denaro, «si vendette con furore»,
dice Avenel, dall'agosto 1790 fino al luglio 1791. Si vendette ai
borghesi e ai contadini agiati, ed anche a compagnie inglesi e
olandesi che compravano per speculare. E quando i compratori avevano
versato per cominciare solo il 20 o il 12 per cento del prezzo
d'acquisto, ebbero da pagare il primo termine, fecero di tutto per
non pagare, e spesso vi riuscirono.
Siccome però i reclami dei contadini, che non avevano potuto comprar
nulla, si facevano sempre sentire, la Legislativa (agosto 1792,
vedere cap. XLVIII) e poi la Convenzione (decreto dell'11 giugno
1793) gettarono loro in preda le terre comunali, ossia l'unica
speranza dei contadini più poveri220. La Convenzione promise inoltre
che le terre confiscate degli emigrati, sarebbero state divise in
appezzamenti da uno a quattro jugeri per essere dati ai poveri, in
affitto a rendita in denaro, sempre riscattabile. Verso la fine del
1793, decretò anzi che un miliardo di beni nazionali fosse riservato
ai volontari sanculotti arruolati negli eserciti, per essere venduti
loro a condizioni favorevoli. Ma non si fece nulla. Quei decreti
restarono lettera morta, come centinaia di decreti usciti in
quell'epoca.
E quando Jacques Roux andò alla Convenzione, (25 giugno 1793), meno
di quattro settimane dopo il movimento del 31 maggio, per denunciare
l'aggiotaggio e domandare delle leggi contro gli aggiottatori, il
suo discorso fu accolto dalle interruzioni furiose e dagli urli dei
convenzionali. Roux fu insultato e brutalmente scacciato dalla
Convenzione221. Però, siccome aveva attaccato la costituzione
montagnarda ed esercitava un'influenza grande nella sezione dei
Gravilliers e al club dei Cordiglieri, Robespierre, sebbene non si
recasse mai a questo club, vi andò il 30 giugno (dopo i moti del 26
e 27 contro i mercanti di sapone), accompagnato da Hébert e da
Collot d' Herbois, e ottenne dai Cordiglieri che Roux e Varlet
fossero cancellati dalle liste del club.
Da quel momento, Robespierre non smise di calunniare Jacques Roux.
Siccome al comunista cordigliere era occorso di criticare i
risultati della Rivoluzione nulli per il popolo, e di affermare,
parlando del governo repubblicano (come avviene spesso ai socialisti
attualmente), che il popolo soffriva più sotto la Repubblica che ai
tempi della monarchia, Robespierre non lasciò mai sfuggire
un'occasione di trattare Roux, anche dopo la sua morte, di «prete
ignobile», venduto agli stranieri, di «scellerato» che «volle
eccitare dei torbidi funesti» per nuocere alla Repubblica.
Fino dal giugno 1793, Jacques Roux fu votato alla morte. Lo si
accusò d'essere il fautore delle sommosse a proposito del sapone.
Più tardi, nell'agosto, quando pubblicò con Leclerc un giornale,
L'ombre de Marat, si lanciò contro di lui la vedova di Marat, che
protestò contro quel titolo, e, finalmente, si fece con lui ciò che
i borghesi avevano fatto con Babeuf. Si pretese che aveva rubato un
assegnato ricevuto da lui per il club dei Cordiglieri, mentre invece
«quei fanatici si distinguevano pel loro disinteresse», come scrive
benissimo Michelet, e tutti i rivoluzionari in vedetta, Roux,
Varlet, Leclerc, erano certo modelli di probità. La sua sezione dei
Gravilliers lo reclamò invano alla Comune, rispondendo di lui. Lo
stesso fece il club delle donne rivoluzionarie; ma fu sciolto dalla
Comune.
Esasperati da tale accusa, Roux e gli amici suoi fecero una sera (19
agosto) un colpo di forza nella sezione dei Gravilliers.
Destituirono il comitato e portarono Roux alla presidenza. Allora,
il 21, Hébert lo denunciò ai Giacobini e, essendo stato portato
l'affare davanti alla Comune, Chaumette parlò d'attentato alla
sovranità del popolo e di pena di morte. Roux fu arrestato; ma la
sezione dei Gravilliers ottenne che fosse rilasciato mediante
cauzione. Ciò avvenne il 25 agosto, ma l'istruttoria continuò, si
complicò anzi con un'accusa di furto, e il 23 nevoso (14 gennaio
1794) Roux era tradotto davanti al tribunale di polizia criminale.
Il tribunale si dichiarò incompetente, causa la gravità dei fatti
attribuiti a Roux (violenza usata alla sezione), e lo rinviò davanti
al tribunale rivoluzionario. Allora Roux, sapendo ciò che
l'aspettava, si colpì con tre coltellate davanti al tribunale.
Trasportato all'infermeria di Bicêtre, tentava «d'esaurire le sue
forze», riferiscono gli agenti di Fouquier-Tinville, e finalmente si
colpì ancora, si ferì al polmone e morì. L'atto d'autopsia porta la
data del 1° ventoso anno II (19 febbraio 1794)222.
Il popolo capì allora, specialmente nelle sezioni centrali di
Parigi, che erano finiti i suoi sogni d'«eguaglianza di fatto» e di
benessere per tutti. Gaillard, amico di Chalier, venuto a Parigi
dopo la presa di Lione da parte dei Montagnardi, avendo passato
tutto il tempo dell'assedio in una segreta, si uccise pure quando
seppe dell'arresto di Leclerc, imprigionato con Chaumette e gli
Hebertisti.
A tutte quelle tendenze comuniste, alla vista del popolo pronto a
disertare la Rivoluzione, il Comitato di salute pubblica, sempre
ansioso di non inimicarsi «il Ventre» della Convenzione («il
Pantano»), nè il club dei Giacobini, rispose con una circolare
pomposa del 21 ventoso anno II (11 marzo 1794) ai rappresentanti in
missione. Ma anch'essa, come il famoso discorso di Saint-Just,
pronunciato due giorni dopo (23 ventoso), finiva solo col
preconizzare la beneficenza, la carità, molto magra del resto, dello
Stato.
«Era necessario un gran colpo per atterrare l'aristocrazia», diceva
la circolare del Comitato. «La Conven-, zione l'ha fatto.
L'indigenza virtuosa doveva riavere la proprietà di ciò che i
delitti le avevano usurpato... Bisogna che il terrore e la giustizia
colpiscano su tutti i punti in una volta. La Rivoluzione è opera del
popolo: è tempo che ne goda». E così via.
Però, la Convenzione non fece nulla. Il decreto del 13 ventoso anno
II (3 febbraio 1794), del quale parlò Saint-Just, si riduceva a
questo: Ogni comune doveva compilare la lista dei patriotti
indigenti, e il Comitato di salute pubblica avrebbe fatto poi un
rapporto sui mezzi d'indennizzare tutti gl'infelici coi beni dei
nemici della Rivoluzione. Si sarebbe dato loro un jugero di questi
beni. Pei vecchi e gl'infermi, la Convenzione decretò più tardi (22
floreale, 11 maggio) d'aprire un Libro della beneficenza
nazionale223.
È inutile dire che questo jugero sembrò una canzonatura ai
contadini. Del resto, fatta eccezione di qualche località, il
decreto non ebbe neppure un principio di esecuzione. Quelli che non
s'erano impadroniti da sè di qualche terra non ebbero nulla.
Aggiungiamo che parecchi rappresentanti in missione, come Albitte,
Collot d'Herbois e Fouché a Lione, Jeanbon Saint-André a Brest e a
Tolone, Romme en Charente, ebbero nel 1793 la tendenza a
socializzare i beni. E quando la Convenzione fece la legge del 16
nevoso anno II (5 gennaio 1794), la quale diceva che «nelle città
assediate, bloccate o circondate, le materie, mercanzie e derrate
d'ogni genere sarebbero state messe in comune», si può dire, osserva
Aulard, «che vi fu una tendenza ad applicare questa legge a città
che non erano assediate, nè bloccate, nè circondate224.»
La Convenzione, o meglio i suoi Comitati di salute pubblica e di
sicurezza generale, soppressero nel 1794 le manifestazioni
comuniste. Ma lo spirito del popolo francese in rivoluzione vi era
sempre sospinto, e, sotto la pressione degli avvenimenti, una
grand'opera di agguagliamento e una forte espansione dell'idea
comunista225 si manifestò un po' dappertutto, nell'anno II della
Repubblica.
Così, i tre rappresentanti della Convenzione a Lione, Albitte,
Collot d'Herbois e Fouché, fecero il 24 brumaio anno II (14 novembre
1793) un decreto, che ebbe un principio d'esecuzione, in virtù del
quale tutti i cittadini infermi, vecchi, orfani ed indigenti
dovevano essere «alloggiati, nutriti e vestiti a spese dei ricchi
del cantone rispettivo», e ai cittadini validi si doveva fornire
«del lavoro e gli oggetti necessari all'esercizio del loro mestiere
e della loro industria». Nelle loro circolari, dicevano altresì che
i cittadini devono godere in proporzione del loro lavoro, della loro
industria e dell'ardore col quale si mettono al servizio della
patria. Molti rappresentanti negli eserciti giungono alla stessa
risoluzione, osserva Aulard. Così Fouché metteva gravi imposte sui
ricchi per nutrire i poveri. È pure certo, come dice lo stesso
autore, che vi furono molti comuni che fecero del collettivismo (o
meglio, del comunismo municipale)226.
L'idea che lo Stato dovesse impadronirsi delle fabbriche abbandonate
dai padroni e sfruttarle, fu enunciata parecchie volte. Chaumette la
sosteneva nell'ottobre 1793, quando constatava l'effetto del massimo
su certe industrie, e Jeanbon Saint-André aveva stabilito
l'esercizio di Stato della mina di Carhaix in Brettagna, per
assicurare il pane agli operai. L'idea era già ventilata.
Se un certo numero di convenzionali in missione, nel 1793,
prendevano misure di carattere egualitario, e s'ispiravano all'idea
della limitazione delle fortune, la Convenzione, però, difendeva
prima di tutto gl'interessi della borghesia. Probabilmente v'ha
qualche cosa di vero nell'osservazione di Buonarroti, il quale dice
che il timore di vedere Robespierre lanciarsi, col suo gruppo, in
misure che avrebbero favorito gl'istinti egualitari del popolo,
contribuì alla caduta di questo gruppo il 9 termidoro227.
LXI
COSTITUZIONE DEL GOVERNO CENTRALE
LE RAPPRESAGLIE
Dopo il 31 maggio e l'arresto dei principali Girondini, i
Montagnardi avevano teso durante tutto l'estate 1793, a costituire
un governo forte, concentrato a Parigi, capace di tener testa
all'invasione, alle sommosse in provincia e ai moti popolari che si
fossero prodotti a Parigi stessa, sotto l'influenza degli
«Arrabbiati» e dei comunisti.
Fino dal mese d'aprile, la Convenzione aveva affidato, come
sappiamo, il potere centrale al suo Comitato di salute pubblica, e
aveva continuato a rinforzarlo con nuovi elementi montagnardi, dopo
il 31 maggio228. E quando l'applicazione della nuova costituzione fu
prorogata fino alla fine della guerra, i due Comitati, di salute
pubblica e di sicurezza generale, continuarono a concentrare il
potere nelle loro mani, seguendo una politica media, – quella di
porsi tra i partiti avanzati (gli «Arrabbiati» e la Comune di
Parigi) e i Dantonisti, seguiti dai Girondini.
In questo, i Comitati erano potentemente assecondati dai Giacobini,
che stendevano la loro sfera d'azione in provincia e stringevano le
loro file. Da ottocento, nel 1791, il numero delle società affiliate
al club dei Giacobini di Parigi, salì a otto mila nel 1793. Ciascuna
di esse diventava un centro d'appoggio per la borghesia
repubblicana: un vivaio nel quale si reclutavano i numerosi
funzionari della nuova burocrazia, e un centro poliziesco, di cui il
governo si serviva per scoprire e colpire i suoi nemici.
Inoltre, quaranta mila Comitati rivoluzionari furono formati in
breve nei comuni e nelle sezioni; e tutti quei Comitati, condotti in
gran parte da borghesi istruiti, come l'ha già fatto osservare
Michelet, spesso anche da funzionari dell'antico regime, vennero ben
presto sottomessi dalla Convenzione al Comitato di sicurezza
generale, mentre le sezioni stesse, come pure le società popolari,
diventavano rapidamente degli organi del governo centrale, dei rami
della gerarchia repubblicana.
Però lo stato di Parigi non era punto rassicurato. Gli uomini
energici, i migliori rivoluzionari s'erano arruolati nel 1792 e nel
1793, per muovere alla frontiera o in Vandea, e i realisti
rialzavano la testa. La sorveglianza diventando sempre meno severa,
ritornavano in gran numero. In agosto, il lusso dell'antico regime
riapparve improvvisamente nelle vie. I giardini pubblici e i teatri
erano invasi dai muscadins. Nei teatri si applaudivano
fragorosamente le opere realiste, e si fischiavano quelle
repubblicane. S'arrivò perfino a rappresentare in una produzione la
prigione del Tempio e la liberazione della regina, e poco mancò che
l'evasione di Maria Antonietta non si compisse.
Le sezioni erano invase dai contro rivoluzionari girondini e
realisti. Quando i giornalieri, gli artigiani, stanchi della loro
lunga giornata di lavoro, rincasavano, i giovani borghesi, armati di
randelli, si recavano alle assemblee generali delle sezioni e le
facevano votare come a loro piaceva.
È chiaro che le sezioni sarebbero riuscite a respingere quelle
invasioni, come avevano fatto una volta, aiutandosi tra sezioni
vicine. Ma i Giacobini vedevano di mal occhio il potere rivale delle
sezioni. Approfittarono della prima occasione per paralizzarle, e
l'occasione non si fece aspettare.
Il pane continuava a mancare a Parigi, e il 4 settembre gruppi di
popolani cominciarono a riunirsi al grido di: Pane! Pane! intorno al
Palazzo di Città229. Diventavano minacciosi, e fu necessaria tutta
la popolarità e la bonomia di Chaumette, oratore favorito dei
poveri, per calmarli con delle promesse. Chaumette promise
d'ottenere del pane e di far arrestare gli amministratori delle
sussistenze. Il moto non riuscì dunque, e il domani, il popolo mandò
solo delle deputazioni alla Convenzione.
La Convenzione non seppe e non volle far nulla per rispondere alle
vere cause di quel movimento. Fu solo capace di minacciare i contro
rivoluzionari, di mettere il Terrore all'ordine del giorno e di
rinforzare il governo centrale. Nè la Convenzione, nè il Comitato di
salute pubblica, e nemmeno la Comune (minacciata, del resto, dal
Comitato) furono all'altezza della situazione. Le idee egualitarie
che germogliavano nel popolo non trovarono nessuno che le esprimesse
con quel vigore con quell'audacia e precisione con cui Danton,
Robespierre, Barère ed altri avevano espresso le aspirazioni della
Rivoluzione sul cominciare. Gli uomini di governo, le mediocrità
della borghesia più o meno democratica ebbero il sopravvento.
È un fatto che l'antico regime conservava ancora una grandissima
forza, la quale era stata aumentata dall'appoggio che trovò in
coloro stessi sui quali la Rivoluzione aveva versato i propri
benefici. Per spezzare quella forza, era necessaria una nuova
rivoluzione, popolare, egualitaria, e la massa dei rivoluzionari del
1789-1792 non voleva saperne.
La maggioranza della borghesia, che era stata rivoluzionaria in
quegli anni, credeva ora che la Rivoluzione si fosse spinta «troppo
lontano». Saprebbe impedire agli «anarchici» di «livellare le
fortune»? Non avrebbe dato ai contadini un benessere tale, che si
rifiuterebbero di lavorare per gli acquirenti dei beni nazionali?
Dove trovare, in questo caso, le braccia per far fruttare quei beni?
Se i compratori avevano versato dei milioni al Tesoro per l'acquisto
dei beni nazionali, era semplicemente per farli fruttare; che fare,
dunque, senza proletari disoccupati nei villaggi?
Il partito della Corte e dei nobili aveva come alleata tutta una
classe di compratori dei beni nazionali, di bande nere, di fornitori
militari e d'aggiottatori. Costoro avevano fatto fortuna ed erano
desiderosi di godere, di porre fine alla rivoluzione, a patto che i
beni comprati e le ricchezze accumulate non fossero tolte loro. I
numerosissimi piccoli borghesi, d'origine recente, li sostenevano
nei villaggi. E tutte queste persone si davano poco pensiero della
forma di governo, purchè fosse forte, purchè sapesse contenere i
sanculotti e resistere all'Inghilterra, all'Austria, alla Prussia,
le quali avrebbero potuto far restituire i beni nazionali al clero e
agli emigrati.
Così, quando la Convenzione e il Comitato di salute pubblica si
videro minacciati dalle sezioni e dalla Comune, s'affrettarono,
prima di tutto, ad approfittare della mancanza di coesione nel
movimento per rinforzare il governo centrale.
La Convenzione risolvette, è vero, di mettere fine al commercio
degli assegnati; lo proibì sotto pena di morte; e creò un'«armata
rivoluzionaria» di sei mila uomini sotto gli ordini dell'hebertista
Ronsin, per reprimere i contro rivoluzionari e sequestrare le
sussistenze nelle campagne, a fine di nutrire Parigi. Ma siccome
questa misura non era seguita da nessuna azione organica per
restituire la terra a coloro che volevano coltivarla da sè, e per
dare loro la possibilità di farlo, le requisizioni dell'armata
rivoluzionaria non furono che una causa d'odio delle campagne contro
Parigi; esse aumentarono in breve le difficoltà dell'alimentazione.
Quanto al resto, la Convenzione si limitò a fare minaccie di
terrore, e ad investire il governo di nuovi poteri. Danton parlò di
nazione armata e minacciò i realisti. Bisognava, diceva egli, «che
ogni giorno, un aristocratico, uno scellerato pagasse con la testa
le proprie furfanterie». Il club dei Giacobini domandò che si
mettessero in istato d'accusa i Girondini arrestati. Hébert parlò di
ghigliottina ambulante. Il tribunale rivoluzionario stava per essere
rinforzato, le visite a domicilio durante la notte erano ormai
permesse.
Intanto che si andava così verso il Terrore, si prendevano delle
misure per indebolire la Comune. Siccome i comitati rivoluzionari,
incaricati della polizia giudiziaria e degli arresti, erano accusati
di parecchi abusi, Chaumette ottenne d'epurarli e di porli sotto la
sorveglianza della Comune; ma dodici giorni dopo, il 17 settembre
1793, questo diritto veniva tolto dalla Convenzione alla Comune, e i
comitati rivoluzionari erano messi sotto la sorveglianza del
Comitato di sicurezza generale, – sinistra forza di polizia segreta,
che ingrandiva accanto al Comitato di salute pubblica e minacciava
di sommergerlo.
Quanto alle sezioni, sotto pretesto che si lasciavano invadere dai
contro rivoluzionari, la Convenzione decise, il 9 settembre, che il
numero delle loro assemblee generali fosse ridotto a due per
settimana, e, perchè la pillola sembrasse meno amara, assegnò
quaranta soldi per seduta a quei sanculotti che assistevano alle
assemblee e che vivevano soltanto del lavoro delle loro braccia.
Tale misura fu spesso considerata come molto rivoluzionaria, ma le
sezioni la giudicarono diversamente. Così, per esempio, sotto
l'influenza di Varlet, le sezioni Contratto sociale, Mercato dei
grani, Diritti dell'uomo, rifiutarono l'indennizzo e ne biasimarono
il principio, mentre altre sezioni, come l'ha dimostrato Ernest
Mellié, ne usarono assai moderatamente.
Finalmente, il 19 settembre, la Convenzione aumentò l'arsenale di
repressione con la legge dei sospetti, che permetteva d'arrestare
come tali tutti gli ex-nobili, tutti quelli che si fossero mostrati
«partigiani della tirannia o del federalismo», tutti coloro che «non
assolvevano i loro doveri civici», chiunque, insomma, non avesse
costantemente manifestato la sua devozione alla Rivoluzione! Louis
Blanc e gli statolatri in generale s'estasiano davanti a questa
misura di «formidabile politica», mentre essa provava semplicemente
l'incapacità della Convenzione di marciare nella via aperta dalla
Rivoluzione. Era una preparazione allo spaventoso ingombro delle
prigioni, il quale condusse poi agli annegamenti di Carrier a
Nantes, alle mitragliate di Collot a Lione, alle «infornate» di
giugno e luglio del 1794 a Parigi, affrettando la caduta del regime
montagnardo.
Man mano che si costituiva a Parigi un governo formidabile, era
inevitabile che s'impegnassero delle lotte terribili tra le diverse
frazioni politiche, per risolvere a chi sarebbe appartenuto quel
possente strumento. E lo si vide alla Convenzione il 25 settembre,
giorno in cui s'impegnò una mischia generale tra tutti i partiti,
dopo di che la vittoria spettò, com'era da prevedere, al partito del
giusto mezzo rivoluzionario, cioè ai Giacobini ed a Robespierre,
loro rappresentante fedele. Il tribunale rivoluzionario fu
costituito sotto la loro influenza.
Otto giorni dopo, il 3 ottobre, il nuovo potere ebbe campo
d'affermarsi. Quel giorno, Amar, del Comitato di sicurezza generale,
dopo lunghe esitazioni, fu costretto di fare un rapporto per mandare
davanti al tribunale rivoluzionario i Girondini espulsi dalla
Convenzione il 2 giugno, e, sia per timore, sia per altre
considerazioni, egli domandò che oltre ai trentun accusati, si
processassero altri settantatrè rappresentanti girondini, i quali,
nel giugno, avevano protestato contro la violazione della
Convenzione e continuavano a farne parte. Ma, con grande stupore di
tutti, Robespierre vi si oppose con forza, dicendo che non bisognava
colpire i soldati; bastava colpire i capi. Appoggiato dalla destra e
dai Giacobini, ottenne dalla Convenzione ciò che voleva, e apparve
così con l'aureola d'una forza ponderatrice, capace di dominare la
Convenzione e i Comitati.
Trascorsi pochi giorni ancora, l'amico suo Saint-Just leggeva già
alla Convenzione un rapporto in cui, dopo essersi lagnato della
corruzione, della tirannide, della nuova burocrazia, alludendo alla
Comune di Parigi, a Chaumette e al suo partito, concludeva col
chiedere «il governo rivoluzionario fino alla pace».
La Convenzione accettò le sue conclusioni. Il governo centrale era
costituito.
Mentre queste lotte s'andavano svolgendo a Parigi, la situazione
militare si presentava sotto una luce spaventosamente triste. Nel
mese d'agosto era stata ordinata una leva generale, e Danton,
ritrovando la propria energia e comprensione del genio popolare,
espose la bellissima idea d'affidare l'arruolamento, non alla
burocrazia rivoluzionaria, ma agli ottomila federati, inviati a
Parigi dalle assemblee primarie, per significare l'accettazione
della costituzione. Questo piano fu adottato il 25 agosto.
Però, siccome metà della Francia non voleva saperne della guerra, la
leva si faceva molto lentamente; mancavano armi e munizioni.
In agosto e settembre vi fu dapprima una serie di rovesci. Tolone,
in mano degli inglesi; Marsiglia e la Provenza, in rivolta contro la
Convenzione; l'assedio di Lione non ancora terminato (durò fino
all'8 ottobre); la situazione in Vandea non migliorata in nessun
modo. Solo il 16 ottobre, le armate della Repubblica riportarono la
loro prima vittoria, a Wattignies, e il 18 i Vandeani, battuti a
Chollet, passavano la Loira, muovendo verso il nord. Nondimeno, i
massacri dei patriotti continuavano sempre. A Noirmoutiers, come s'è
visto, il capo vandeano Charette fucilava tutti coloro che s'erano
arresi.
Si capisce che alla vista di tutto quel sangue, degli sforzi
inauditi e delle sofferenze che sopportava la massa del popolo,
sfuggisse dai petti dei rivoluzionari il grido: «Colpite tutti i
nemici della Rivoluzione, tutti, in alto e in basso!» Non si può
spingere agli estremi una nazione, senza ch'essa faccia un gesto di
rivolta.
Il 3 ottobre, fu dato l'ordine al tribunale rivoluzionario di
giudicare Maria Antonietta. Fino dal mese di febbraio si sentiva
continuamente parlare a Parigi di tentativi d'evasione della regina.
Tra questi, oggi si sa che alcuni stavano quasi per riuscire. Gli
ufficiali municipali che la Comune metteva a guardia del Tempio si
lasciavano continuamente comprare dai partigiani della famiglia
reale, come avvenne, fra altri, con Foulon, Brunot, Moelle, Vincent,
Michonis. Lepitre, ardente realista, era al servizio della Comune e
si faceva notare per le sue idee spinte, nelle sezioni. Un altro
realista, Bault, otteneva il posto di portiere alla Conciergerie,
dove si custodiva ora la regina. Un tentativo d'evasione non era
riuscito in febbraio; un altro, tentato da Michonis e dal barone di
Batz, mancò poco che non riuscisse. Dopo di che (11 luglio) Maria
Antonietta fu prima separata da suo figlio, messo sotto la custodia
del calzolaio Simon, e poi trasferita alla Conciergerie (8 agosto).
Ma continuarono i tentativi di rapimento, e un cavaliere di San
Luigi, Rougeville, penetrò anzi fino a lei, mentre Bault, diventato
il suo portinaio, manteneva delle relazioni all'esterno. Ogni volta
ch'era preparato un piano di liberazione della regina, i realisti
s'agitavano e promettevano un colpo di Stato e l'imminente massacro
della Convenzione e dei patriotti in generale.
È probabile che la Convenzione non avrebbe aspettato fino
all'ottobre per processare la regina, se non vi fosse stata la
speranza d'arrestare l'invasione dei re coalizzati, a condizione di
dare la libertà a Maria Antonietta. Si sa anzi che il Comitato di
salute pubblica aveva dato, in luglio, delle istruzioni in questo
senso ai suoi commissari, Semonville e Maret, che furono arrestati
in Italia dal governatore di Milano; ed è pure noto che le
trattative continuarono per la liberazione della figlia del re.
Gli sforzi di Maria Antonietta per chiamare in Francia l'invasione
tedesca, e i suoi tradimenti per facilitare le conquiste del nemico,
sono troppo provati oggi che conosciamo la sua corrispondenza con
Fersen, per soffermarci qui a combattere le invenzioni de' suoi
difensori moderni, che vollero farne quasi una santa. L'opinione
pubblica non s'ingannava nel 1793, accusando la figlia di Maria
Teresa d'essere ancor più colpevole di Luigi XVI. Il 16 ottobre perì
sul patibolo.
I Girondini la seguirono poco dopo. Bisogna ricordare che quando
trentuno di essi vennero dichiarati in arresto, il 2 giugno, furono
però lasciati liberi di circolare in Parigi, scortati da un
gendarme. Si aveva così poco l'idea di colpirli, che parecchi noti
Montagnardi s'erano offerti d'andare nei dipartimenti d'ogni
deputato arrestato, per darsi in ostaggio. Però, la maggior parte
dei Girondini in istato d'arresto s'era evasa da Parigi, e, recatasi
in provincia, predicava la guerra civile. Gli uni sollevavano la
Normandia e la Brettagna, gli altri spingevano alla sommossa
Bordeaux, Marsiglia, la Provenza e diventavano dappertutto alleati
dei realisti.
Dei trentun Girondini dichiarati in arresto il 2 giugno, non ne
restavano più che dodici a Parigi. Se ne aggiunsero altri dieci, e
il processo cominciò il 3 brumaio (22 ottobre). Si difendevano con
coraggio, e siccome i loro discorsi minacciavano d'influenzare anche
i giurati sicuri del tribunale rivoluzionario, il Comitato di salute
pubblica fece votare immediatamente una legge «sull'accelerazione
dei dibattiti». Il 9 brumaio (29 ottobre), Fouquier-Tinville fece
leggere la nuova legge al tribunale. I dibattiti furono chiusi e i
ventidue Girondini condannati. Valazé si pugnalò, gli altri furono
giustiziati il giorno dopo.
Madama Roland fu decapitata il 18 brumaio (8 novembre); l'ex sindaco
di Parigi, Bailly, di cui non era più dubbia la connivenza con
Lafayette al massacro del 17 luglio 1791 al Campo di Marte, Girey
Dupré, il Fogliante Barnave, conquistato dalla regina mentre
l'accompagnava da Varennes a Parigi, li seguirono poco dopo. E nel
dicembre, il Girondino Kersaint e Rabaut Saint-Etienne salirono al
patibolo, come pure la Dubarry di fama regale.
Il terrore era incominciato e avrebbe seguito il suo svolgimento
inevitabile.
LXII
ISTRUZIONE – SISTEMA METRICO – NUOVO CALENDARIO –
TENTATIVI
ANTIRELIGIOSI
Fra tutte quelle lotte, i rivoluzionari non perdevano di vista la
grande questione dell'istruzione pubblica. Cercavano di gettarne le
basi, su principii egualitari. Un immenso lavoro venne fatto in
questo senso, come risulta dai documenti del Comitato d'istruzione
pubblica, recentemente pubblicati230. Si lesse alla Convenzione
l'ammirabile rapporto di Michel Lepeletier sull'istruzione, trovato
dopo la sua morte, e la Convenzione adottò una serie di misure per
l'istruzione a tre gradi: scuole elementari, centrali e speciali.
Ma il più bel monumento intellettuale di quest'epoca della
Rivoluzione fu il sistema metrico, col quale si introdusse nelle
suddivisioni delle misure lineari, di superficie, di volume e di
peso, il sistema decimale, che è la base della nostra numerazione, e
ciò è già molto, poichè semplificò l'insegnamento della matematica e
ne sviluppò lo spirito. Si diede inoltre alla misura fondamentale,
il metro, una lunghezza che potrebbe sempre essere ritrovata con
approssimazione, in base alle dimensioni della terra, aprendo così
nuovi orizzonti al pensiero umano. Col fissare, infine, rapporti
semplici tra le unità di lunghezza, di superficie, di volume e di
peso, il sistema metrico preparava, abituandovi lo spirito degli
uomini, la grande e geniale vittoria delle scienze al diciannovesimo
secolo, – l'affermazione dell'unità delle forze fisiche, dell'unità
della Natura.
Il nuovo calendario repubblicano ne fu la necessaria conseguenza. Fu
adottato dalla Convenzione, in seguito a due rapporti di Romme,
letti il 20 settembre e il 5 ottobre, e un altro rapporto di Fabre
d'Eglantine, letto il 24 novembre 1793231. Esso inaugurava nel
computo degli anni una nuova era, che incominciava con la
proclamazione della Repubblica in Francia, il 22 settembre 1792
(equinozio d'autunno) e abbandonava la settimana cristiana. La
domenica scompariva, – il giorno festivo era il decadi232.
Questa risoluzione della Convenzione, che cancellava dalla nostra
vita il calendario cristiano, rese arditi coloro che vedevano nella
chiesa cristiana e ne' suoi ministri il più solido appoggio della
servitù. L'esperienza fatta col clero, che aveva prestato
giuramento, era la dimostrazione dell'impossibilità di guadagnare il
clero alla causa del progresso. Così, l'idea di sopprimere il
bilancio dei culti e di lasciare ai credenti la cura di mantenere i
ministri della loro chiesa, nacque naturalmente. Cambon la portò
alla Convenzione fin dal novembre 1792. Ma per ben tre volte essa
decise di mantenere la Chiesa nazionale, sottomessa allo Stato,
continuando a procedere contro i preti refrattari.
Si fecero leggi severissime pel clero. I preti che non volevano
prestar giuramento, condannati prima alla deportazione, dopo il 18
marzo 1793, lo furono alla morte, qualora si trovassero compromessi
nei torbidi a proposito del reclutamento, o fossero presi sul
territorio della Repubblica, dovendo già essere deportati. Il 21
ottobre 1793, si votarono leggi ancor più spicciative, e la
deportazione fu applicata anche ai preti costituzionali, che, pur
avendo prestato giuramento, venissero accusati d'«incivismo» da sei
cittadini del proprio cantone. Questo perchè si era sempre più
persuasi che i giuratori erano spesso pericolosi quanto i
non-giuratori o papisti.
I primi tentativi di «scristianizzazione» furono fatti a Abbeville e
a Nevers233. Il convenzionale Fouché, in missione a Nevers, vi
incontrò Chaumette, ed agendo certamente d'accordo con lui o
fors'anche sotto la sua influenza, dichiarava, il 26 settembre 1793,
la guerra «ai culti superstiziosi e ipocriti» per sostituirli con
quello della repubblica e la morale naturale234». Alcuni giorni dopo
l'accettazione del nuovo calendario, egli emanò (il 10 ottobre) un
nuovo decreto, secondo il quale le cerimonie dei culti non possono
aver luogo se non nell'interno dei templi rispettivi; tutte «le
insegne religiose che si trovano sulle vie», ecc. devono essere
tolte; viene proibito ai preti di comparire nel loro costume fuori
dalle chiese, e finalmente s'ordina di fare i funerali senza
cerimonie religiose, in campi piantati d'alberi «all'ombra dei quali
s'innalzerà una statua del Sonno. Tutti gli altri segni saranno
distrutti», e «si leggerà sulla porta di quel campo, consacrato per
un rispetto religioso ai mani dei morti, quest'iscrizione: La morte
è un sonno eterno.» Egli spiegava pure il senso di questi decreti
alla popolazione con dei discorsi materialisti.
Nello stesso tempo, un altro convenzionale in missione, Laignelot,
trasformava a Rochefort la chiesa parrocchiale in Tempio della
Verità, in cui otto preti cattolici e un ministro protestante
andarono a «spretarsi», il 31 ottobre 1793.
Il 14 ottobre, sotto l'influenza di Chaumette, l'esercizio esterno
del culto era proibito a Parigi, e il 16, l'ordine di Fouché sui
funerali era adottato in principio dalla Comune.
È chiaro che quel movimento non fu certo una sorpresa, essendo stato
preparato negli spiriti dalla Rivoluzione stessa e da' suoi
predecessori. Ora, incoraggiata dagli atti della Convenzione, la
provincia si lanciò nella «scristianizzazione». Dietro iniziativa
del borgo di Ris-Orangis, tutta la regione di Corbeil rinunciò al
cristianesimo, e i suoi deputati, recatisi a parteciparlo alla
Convenzione, il 30 ottobre, furono ben accolti.
Sei giorni dopo, dei deputati del comune di Mennecy si presentarono
alla Convenzione, vestiti con piviali. Ricevettero pure
buon'accoglienza, e la Convenzione riconobbe «il diritto a tutti i
cittadini d'adottare il culto che conviene loro e di sopprimere le
cerimonie che a loro spiacciono.» Una deputazione di Seine-et-Oise,
la quale chiedeva che il vescovo di Versaglia, morto recentemente,
non fosse sostituito, fu pure ricevuta con menzione onorevole.
La Convenzione incoraggiava così il movimento contro il
cristianesimo, – non solo con l'accoglienza che faceva alla
«scristianizzazione», ma anche con la destinazione che dava alle
spoglie delle chiese – compresovi il reliquiario di Santa Genoveffa,
del quale ordinava il trasferimento alla Monnaie (zecca)235.
Allora, approfittando probabilmente di questa attitudine del
governo, Anacharsis Cloots e Chaumette fecero un altro passo.
Cloots, barone prussiano, che aveva abbracciato la Rivoluzione con
entusiasmo e predicava con coraggio e gran sentimento
l'Internazionale dei popoli, e con lui il procuratore della Comune,
Chaumette, vero rappresentante dello spirito operaio parigino,
convinsero il vescovo di Parigi, Gobel, di abbandonare le sue
funzioni ecclesiastiche. Con l'approvazione del consiglio
episcopale, e dopo aver annunciato le proprie dimissioni al
Dipartimento e alla Comune, Gobel, accompagnato da undici suoi
vicari e seguito dal sindaco Pache, dal procuratore Chaumette e da
due membri del Dipartimento, Momoro e Lullier, si recò in gran pompa
il 17 brumaio (7 novembre 1793) alla Convenzione per deporre i suoi
attributi e titoli.
Tenne un linguaggio molto dignitoso in tale occasione. Sempre fedele
«ai principii eterni dell'eguaglianza, della morale, basi necessarie
d'ogni costituzione veramente repubblicana», obbediva alla voce del
popolo e rinunciava ad esercitare «le funzioni di ministro del culto
cattolico». E deponendo la croce e l'anello, mise in testa il
berretto frigio tesogli da uno dei membri.
Allora un entusiasmo paragonabile solo a quello della notte del 4
agosto invase l'Assemblea. Due altri vescovi, Thomas Lindet e
Gay-Vernon, ed altri membri ecclesiastici della Convenzione, si
precipitarono alla tribuna per seguire l'esempio di Gobel. L'abate
Grégoire rifiutò d'unirsi a loro. Quanto a Sieyès, sorse a
dichiarare che da molti anni aveva deposto ogni carattere
ecclesiastico, per non avere altro culto all'infuori di quello della
libertà e dell'uguaglianza, e che i suoi voti invocavano da lungo
tempo il trionfo della ragione sulla superstizione e sul fanatismo.
L'effetto di questa scena alla Convenzione fu straordinario. Tutta
la Francia e tutte le nazioni vicine lo seppero. E dappertutto,
nelle classi dirigenti, vi fu un'esplosione di odii contro la
Repubblica.
In Francia, il movimento si sparse rapidamente nelle provincie. In
pochi giorni, parecchi vescovi e molti preti avevano deposto i loro
titoli, e queste abdicazioni davano luogo talvolta a scene
commoventi. Ed è proprio commovente il leggere la descrizione
seguente dell'abdicazione dei preti a Bourges, che trovo in un
opuscolo locale dell'epoca236.
Dopo aver menzionato un curato, J. Baptiste Patin, e Julien-de-Dieu,
benedettino, che vanno a deporre i loro attributi ecclesiastici,
l'autore continua: «Privat, Brisson, Patrou, Rouen e Champion,
ex-vicari metropolitani, non furono gli ultimi a scendere
nell'arena; Eupic e Calende, Dumantier, Veyreton, ex-benedettini,
Ranchon, Collardot scendono dopo di essi; l'ex-canonico Désormaux e
Dubois, suo collega, curvi sotto il peso degli anni, li seguono a
passi lenti, allorquando Lefranc esclama: «Bruciate, bruciate le
nostre lettere di sacerdozio, e che il ricordo del nostro stato
passato scompaia nelle fiamme che devono consumarle. Io depongo
sull'altare della patria questa medaglia d'argento; essa rappresenta
l'ultimo tiranno che l'ambizione interessata del clero chiamava
cristianissimo». S'abbruciano tutti i diplomi dei preti sopra un
rogo, e mille gridi s'innalzano nell'aria: «Perisca per sempre la
memoria dei preti! perisca per sempre la superstizione cristiana!
Viva la religione sublime della natura!» Viene in seguito
l'enumerazione dei doni patriottici. Essa tocca il cuore. I doni in
biancheria e in fibbie d'argento delle scarpe sono numerosissimi. I
patriotti e i «fratelli» sono poveri: danno ciò che hanno.
In generale, il sentimento anticattolico, nel quale una «religione
della natura» si confondeva con l'entusiasmo patriottico, sembra sia
stato molto più profondo di quel che si supporrebbe prima di
consultare i documenti dell'epoca. La Rivoluzione faceva pensare, e
dava audacia al pensiero.
Intanto, a Parigi, il Dipartimento e la Comune risolvettero di
celebrare il decadi seguente, 20 brumaio (10 novembre), a Nostra
Signora stessa, e di organizzarvi una Festa della Libertà e della
Ragione, durante la quale si sarebbero cantati degl'inni patriottici
davanti alla statua della Libertà. Cloots, Momoro, Hébert, Chaumette
fecero una propaganda attiva nelle società popolari, e la festa
riuscì benissimo. Essa fu descritta così sovente che non ci
soffermeremo sui suoi particolari. Bisogna però osservare che si
preferì un essere vivente a una statua per figurare la Libertà,
perchè «una statua, diceva Chaumette, sarebbe stato ancora un passo
verso l'idolatria». Come già l'aveva fatto osservare Michelet (libro
XIV, cap. III), i fondatori del nuovo culto raccomandavano «di
scegliere, per una parte così augusta, delle persone il cui
carattere rende rispettabile la bellezza, e la cui severità di
costumi. e di sguardo respinge la licenza». Piuttosto che una
cerimonia scapigliata, la festa fu una «casta cerimonia triste,
asciutta, noiosa», dice Michelet, che aveva, com'è noto, molta
simpatia per la «scristianizzazione» del 1793. Ma la Rivoluzione,
dice, era già «vecchia. e stanca, troppo vecchia per generare». Il
tentativo del 1793 non usciva dal seno ardente della Rivoluzione,
«ma dalle scuole ragionatrici dei tempi dell'Enciclopedia». Infatti,
esso assomigliava moltissimo al movimento moderno delle Società
etiche (Ethical Societies), che restano estranee alle masse
popolari.
Ciò che oggi ci colpisce maggiormente, è il fatto che la
Convenzione, non ostante le domande che le giungevano da diverse
parti, rifiutava di discutere la grande questione: l'abolizione
dello stipendio dei preti. Invece, la Comune di Parigi e le sezioni
praticarono apertamente la «scristianizzazione». In ogni sezione,
una chiesa almeno fu consacrata al culto della Ragione. Il Consiglio
generale della Comune arrischiò perfino di precipitare gli
avvenimenti. In risposta al discorso religioso di Robespierre del 1°
frimaio (vedere più avanti), prese il 3 frimaio (23 novembre), sotto
l'influenza di Chaumette, un provvedimento che ordinava di chiudere
subito a Parigi tutte le chiese o templi d'ogni religione; rendeva
responsabili i preti individualmente dei torbidi religiosi; invitava
i Comitati rivoluzionari a sorvegliare i preti, e risolveva di
pregare la Convenzione d'escludere i preti da qualsiasi funzione
pubblica. Si stabiliva nello stesso tempo un «corso di morale», per
preparare i predicatori del nuovo culto; si decideva d'abbattere i
campanili, e in diverse sezioni si organizzavano delle feste della
Ragione, durante le quali si scherniva il culto cattolico. Una
sezione abbruciò i messali, e Hébert abbruciò delle reliquie alla
Comune.
In provincia, dice Aulard, quasi tutte le città, specialmente nel
Sud-Ovest, parve si dichiarassero per il nuovo culto razionalista.
Però il governo, ossia il Comitato di salute pubblica, fin dal
principio fece una sorda opposizione a quel movimento. Robespierre
vi si oppose nettamente, e quando Cloots andò a parlargli con
entusiasmo dell'abdicazione di Gobel, manifestò bruscamente la
propria ostilità, domandando ciò che ne direbbero i Belga, dei quali
Cloots voleva l'unione con la Francia.
Tacque però per qualche giorno. Ma il 20 novembre Danton ritornava a
Parigi, dopo un lungo soggiorno a Arcis-sur-Aube, dove s'era
ritirato con la sua giovane donna, che aveva sposata, in chiesa,
subito dopo la morte della prima moglie. Il domani, 1° frimaio (21
novembre), Robespierre pronunciava al club dei Giacobini un primo
discorso, violentissimo, contro il culto della Ragione. La
Convenzione, diceva, non avrebbe mai fatto il passo temerario di
proscrivere il culto cattolico. Avrebbe mantenuta la libertà dei
culti, col non permettere la persecuzione dei pacifici ministri del
culto. Poscia diceva che l'idea d'un «grande Essere che veglia
sull'innocenza oppressa e punisce il delitto», era popolare, e
trattava gli «scristianizzatori» da traditori, da agenti dei nemici
della Francia, i quali volevano respingere quegli stranieri che la
morale e l'interesse comune attiravano verso la Repubblica!
Cinque giorni dopo, Danton parlava quasi nello stesso senso alla
Convenzione, attaccando le mascherate antireligiose. Domandava che
se ne fissasse un limite.
Ch'era dunque accaduto in quei pochi giorni per riavvicinare così
Robespierre e Danton? Quali nuove combinazioni, più o meno
diplomatiche, s'offrivano in quel punto, per richiamare a Parigi e
incitare a mettersi contro il movimento di scristianizzazione
Danton, un vero figlio di Diderot, che non mancò d'affermare il
proprio ateismo materialista fino ai piedi del patibolo? La tattica
di Danton è sorprendente, soprattutto perchè durante la prima metà
di frimaio, la Convenzione non cessò di vedere la scristianizzazione
con occhio favorevole237. Il 14 frimaio (4 dicembre), il
robespierrista Couthon portava ancora delle reliquie alla tribuna
della Convenzione e ne rideva.
Ci si domanda dunque se Robespierre non approfittasse di qualche
nuova piega presa dalle trattative con l'Inghilterra, per
influenzare Danton ed esprimere liberamente le sue idee sulla
religione, la quale era sempre stata cara a quel deista, discepolo
di Rousseau.
Verso la metà del mese, Robespierre, forte dell'appoggio di Danton,
si decise ad agire, e il 16 frimaio (6 dicembre), il Comitato di
salute pubblica andò a chiedere alla Convenzione un decreto sulla
libertà dei culti, il primo articolo del quale proibiva «ogni
violenza e misura contraria alla libertà dei culti». Questa misura
era forse dettata dal timore di veder sollevarsi le campagne, dove
la chiusura delle chiese fu generalmente male accolta238. Ad ogni
modo, da quel giorno il cattolicismo trionfò. Il governo di
Robespierre lo prendeva sotto la propria protezione. Esso ridiventò
religione di Stato239.
Più tardi, in primavera, si fece ancor di più. Si cercò d'opporre al
culto della Ragione un nuovo culto, quello dell'Ente supremo, com'è
concepito dal Vicario savoiardo di Rousseau. Però, non ostante
l'appoggio del governo e la minaccia della ghigliottina pei suoi
avversari, quel culto si confuse con quello della Ragione, pur
essendo detto, dell'Ente supremo, e sotto tale nome, un culto mezzo
deista e mezzo razionalista continuò a estendersi, fino al trionfo
della reazione termidoriana.
La festa dell'Ente supremo fu celebrata a Parigi con gran pompa il
20 pratile (8 giugno 1794), e ad essa Robespierre attribuiva molta
importanza, col darsi l'aria di fondatore d'una religione di Stato,
che avrebbe combattuto l'ateismo. Pare che riuscisse bene, come
rappresentazione teatrale popolare, ma non trovò eco nei sentimenti
del popolo. Del resto, celebrata per volontà del Comitato di salute
pubblica, dopo la morte di Chaumette e Gobel, amati dal popolo e
ghigliottinati per le loro idee irreligiose, quella festa aveva
troppo il carattere d'una constatazione del trionfo sanguinoso del
governo giacobino sugli elementi avanzati del popolo e della Comune,
per essere simpatica alla massa popolare. E per l'attitudine
apertamente ostile di parecchi convenzionali contro Robespierre
durante la festa stessa, essa fu il preludio del 9 termidoro, – il
preludio della fine.
Ma non precorriamo gli avvenimenti.
LXIII
LE SEZIONI SCHIACCIATE
Due potenze rivali si trovavano di fronte alla fine del 1793: i due
Comitati, di salute pubblica e di sicurezza generale, che dominavano
la Convenzione, e la Comune di Parigi. Però, la vera forza della
Comune non era nel sindaco Pache, nel suo procuratore Chaumette o
nel suo sostituto Hébert, e neppure nel suo Consiglio generale; ma
era nelle sezioni. Ecco perchè il governo centrale cercava
costantemente di sottomettere le sezioni alla propria autorità.
Quando la Convenzione ebbe tolto alle sezioni di Parigi «la
permanenza cioè il diritto di convocare le loro assemblee generali
quando e quanto volevano, le sezioni incominciarono a creare delle
«società popolari» o delle «società sezionarie». Ma furono viste di
malocchio dai Giacobini, i quali diventavano a loro volta uomini di
Stato, e alla fine del 1793 e nel gennaio 1794 si parlò molto al
club dei Giacobini contro quelle società, – tanto più che i realisti
facevano uno sforzo concertato per invaderle e impadronirsene. «Dal
cadavere della monarchia, diceva il Giacobino Simond, è uscita
un'infinità d'insetti velenosi, che non sono abbastanza stupidi per
cercarne la risurrezione», ma che cercano di perpetuare le
convulsioni del corpo politico240. In provincia, specialmente,
quegl'«insetti» trovano simpatie. Un'infinità d'emigrati, continua
Simond, «gente di legge, di finanza, agenti dell'antico regime»,
innondano le campagne, invadono le società popolari e ne diventano i
presidenti e i segretari.
È chiaro che le società popolari, le quali a Parigi non erano altro
che delle assemblee di sezioni organizzate sotto un altro nome241 si
sarebbero ben presto «epurate», per escludere i realisti travestiti,
e avrebbero continuato l'opera delle sezioni. Ma tutta la loro
attività spiaceva ai Giacobini, che vedevano con gelosia l'influenza
di quei «nuovi venuti», i quali li superavano in patriottismo». «A
crederli, diceva ancora Simond, i patriotti dell'89... non sono più
che bestie da soma stanche o deperite da ammazzare, poichè non
possono più seguire i neonati sulla via politica della Rivoluzione».
E tradiva i timori della borghesia giacobina, parlando della «quarta
legislatura» che quei nuovi venuti avrebbero cercato di comporre,
per giungere più lontano della Convenzione. «I nostri più grandi
nemici, aggiungeva Jeanbon Saint-André, non sono all'esterno; li
vediamo: sono tra noi; vogliono portare più lontano di noi le misure
rivoluzionarie242».
Dufourny parla pure contro tutte le società di sezioni, e Deschamps
le chiama «piccole Vandee».
Robespierre s'affretta a riprendere il suo argomento favorito –
gl'intrighi degli stranieri. «Le mie inquietudini, dice, pur troppo,
erano fondate. Vedete che la «tartuferia contro rivoluzionaria vi
domina. Gli agenti della Prussia, dell'Inghilterra e dell'Austria
vogliono con questo mezzo annientare l'autorità della Convenzione e
l'ascendente patriottico della Società dei Giacobini243».
L'ostilità dei Giacobini contro le società popolari è evidentemente
un'ostilità contro le sezioni di Parigi e le organizzazioni di
stesso genere in provincia, e quest'ostilità non è che l'espressione
di quella del governo centrale. Così, non appena fu stabilito il
governo rivoluzionario col decreto del 14 frimaio (4 dicembre 1793),
il diritto d'eleggere i giudici di pace e i loro segretari – diritto
che le sezioni avevano conquistato fino dal 1789, fu loro tolto. I
giudici e i loro segretari dovevano ormai essere nominati dal
Consiglio generale del dipartimento (decreti dell'8 nevoso, 28
dicembre 1793, e del 23 floreale, 12 maggio 1794). Anche la nomina
dei Comitati sezionari di beneficenza fu tolta alle sezioni in
dicembre 1793, per essere data ai Comitati di salute pubblica e di
sicurezza generale. L'organismo popolare della Rivoluzione era così
colpito alle basi.
Ma è specialmente nell'accentramento delle funzioni di polizia che
si scorge l'idea del governo giacobino. Abbiamo visto (cap. XXIV)
l'importanza delle sezioni come organi della vita di Parigi,
municipale e rivoluzionaria. Abbiamo indicato ciò che esse facevano
per approvvigionare la capitale, per arruolare i volontari, per
levare, armare e spedire i battaglioni, per fabbricare il salnitro,
organizzare il lavoro, prendere cura degl'indigenti, ecc. Ma con
queste funzioni, le sezioni di Parigi e le società popolari di
provincia esercitavano anche quelle di polizia. A Parigi, già il 14
luglio 1789, quando si formarono dei Comitati di distretto, questi
s'incaricarono della polizia. La legge del 6 settembre 1789 li
confermò in tali funzioni, e nell'ottobre seguente, la municipalità
di Parigi, ancora provvisoria a quell'epoca, costituì una sua
polizia segreta sotto il nome di Comitato delle ricerche. La
municipalità, nata dalla Rivoluzione, riprendeva così una delle
peggiori tradizioni dell'antico regime.
Dopo il 10 agosto, la Legislativa stabilì che tutta la polizia di
«sicurezza generale» veniva trasferita ai Consigli dei dipartimenti,
dei distretti e delle municipalità, e un Comitato di sorveglianza fu
stabilito, con dei Comitati subordinati a lui, in ogni sezione. Ben
presto, mano mano che la lotta tra i rivoluzionari e i loro nemici
si faceva più dura, quei Comitati furono sopraffatti dal lavoro, e
il 21 marzo 1793, dei Comitati rivoluzionari, di dodici membri
ciascuno, furono stabiliti in ogni comune e in ogni sezione dei
comuni delle grandi città, che, come Parigi, erano divise in
sezioni244.
In tal modo, le sezioni, per mezzo dei loro comitati rivoluzionari,
diventavano uffici di polizia. Le funzioni di questi Comitati erano
limitate alla sorveglianza degli stranieri è vero; ma presto ebbero
diritti ampi quanto quelli degli uffici di polizia segreta negli
Stati monarchici. Si può vedere nello stesso tempo, come le sezioni
che in principio erano organi della Rivoluzione popolare, si
lasciassero assorbire dalle funzioni poliziesche dei loro Comitati,
e come questi, diventando sempre meno organi municipali, si
trasformassero in semplici organi subalterni di polizia, sottomessi
al Comitato di sicurezza generale245.
I Comitati di salute pubblica e di sicurezza generale li
allontanavano sempre più dalla Comune, per indebolire così la loro
rivale, mentre, disciplinandoli all'obbedienza, li trasformavano in
congegni dello Stato. Infine, sotto pretesto di reprimere certi
abusi, la Convenzione ne fece dei funzionari pagati; sottomise nello
stesso tempo i 44,000 Comitati rivoluzionari al Comitato di
sicurezza generale, al quale accordò anche il diritto di «epurarli»
e di nominarne i membri.
Lo Stato cercava dunque di accentrare tutto nelle sue mani, come
aveva cercato di fare la monarchia nel diciasettesimo secolo.
Toglieva successivamente agli organi popolari la nomina dei giudici,
l'amministrazione della beneficenza (e certamente anche le altre
funzioni amministrative), e li sottometteva alla sua burocrazia in
materia di polizia. Era la morte delle sezioni e delle municipalità
rivoluzionarie.
Infatti, dopo questo, le sezioni a Parigi e le società popolari in
provincia erano morte. Lo Stato le aveva divorate. E la loro morte
fu la morte della Rivoluzione. Fin dal gennaio 1794, la vita
pubblica a Parigi era annientata, dice Michelet. «Le assemblee
generali delle sezioni erano morte, e tutto il potere era passato ai
loro comitati rivoluzionari, che non essendo nemmeno eletti, ma
composti di semplici funzionari scelti dall'autorità, non avevano
neppur essi una grande vitalità».
Quando il governo trovò opportuno di sfasciare la Comune di Parigi,
potè farlo senza timore d'essere rovesciato.
E questo accadde nel marzo del 1794 (ventoso anno II).
LXIV
LOTTA CONTRO GLI HEBERTISTI
Fino dal mese di dicembre 1793, Robespierre parlava della fine
prossima della Repubblica rivoluzionaria. «Vegliamo, diceva, poichè
la morte della patria non è lontana246». E non era il solo che lo
prevedesse. La stessa idea si manifestava sempre più spesso nei
discorsi dei rivoluzionari.
Una rivoluzione che si ferma a mezza strada, va necessariamente
incontro alla propria rovina. E lo stato di cose in Francia era
tale, alla fine del 1793, che la Rivoluzione, arrestata nel punto in
cui cercava una nuova vita sulla via dei grandi cambiamenti sociali,
ora s'inabissava in lotte intestine e in uno sforzo, tanto
infruttuoso quanto impolitico, per sterminare i suoi nemici, mentre
stava a guardia delle loro proprietà247.
La forza stessa degli avvenimenti orientava la Francia verso un
nuovo rigoglio in un senso comunista. Ma la Rivoluzione aveva
lasciato costituire un «governo forte», il quale aveva schiacciati
gli «Arrabbiati» e imbavagliati coloro che osavano pensare com'essi.
Quanto agli Hebertisti, che dominavano nel club dei Cordiglieri e
nella Comune, e che erano riusciti ad invadere con l'aiuto di
Bouchotte, ministro della Guerra, gli uffici di questo ministero,
erano rigettati lontani da una rivoluzione economica dalle loro
stesse idee di governo. Hébert aveva parlato qualche volta nel suo
giornale in un senso comunista248; ma poter terrorizzare e
impadronirsi a sua volta del governo, gli sembrava molto più
importante della questione del pane, della terra, o del lavoro
organizzato. La Comune del 1871 ha pure dato questo tipo di
rivoluzionario.
In quanto a Chaumette, per le sue simpatie popolari e il genere di
vita da lui condotto, avrebbe dovuto piuttosto congiungersi ai
comunisti. Ne aveva anche subito l'influenza a un certo momento. Ma
il partito degli Hebertisti, nel quale si trovava immischiato, non
s'entusiasmava per quel genere d'idee. Non cercava di provocare nel
popolo una grande manifestazione della sua volontà sociale. Era loro
idea impadronirsi del potere, mediante un'altra «epurazione» della
Convenzione. Disfarsi «degli uomini usati e delle gambe rotte nella
Rivoluzione», come diceva Momoro. Sottomettere la Convenzione alla
Comune di Parigi, con un nuovo 31 maggio, ma appoggiato questa volta
dalla forza militare dell'«armata rivoluzionaria». Dopo, si
vedrebbe.
Ma gli Hebertisti avevan calcolato male. Non si rendevano conto che
avevano a che fare, e con un Comitato di salute pubblica il quale,
da sei mesi, aveva saputo diventare una forza di governo, ben
accetta per il modo intelligente col quale aveva diretto la guerra;
e con un Comitato di sicurezza generale, diventato potentissimo,
poichè aveva concentrato nelle proprie mani una vasta polizia
segreta e aveva così il mezzo di mandare chiunque alla ghigliottina.
Inoltre, gli Hebertisti impegnarono la lotta sopra un terreno,
quello del Terrore, sul quale non potevano ch'essere vinti, avendo
per concorrente tutto il mondo governativo e perfino coloro che
credevano necessario il Terrore per condurre la guerra. Il Terrore è
sempre un'arma di governo, e il governo costituito ne approfittò
contro di essi.
Sarebbe troppo lungo raccontare gli intrighi dei diversi partiti,
che si disputavano il potere durante il mese di dicembre e i primi
mesi del 1794. Basterà dire che quattro gruppi o partiti si potevano
distinguere in quell'epoca: il gruppo robespierrista, composto da
Robespierre e dai suoi amici Saint-Just, Couthon, ecc.; il partito
dei «faticati», che s'aggruppava dietro Danton (Fabre d'Églantine,
Philippeaux, Bourdon, Camille Desmoulins, ecc.); la Comune, che si
confondeva cogli Hebertisti; e finalmente quei membri del Comitato
di salute pubblica (Billaud-Varenne e Collot d' Herbois), chiamati i
terroristi, intorno a cui si riunivano coloro i quali non volevano
che la Rivoluzione deponesse le armi, ma che nello stesso tempo non
volevano saperne dell'ascendente di Robespierre, al quale facevano
sorda guerra, nè dell'ascendente della Comune e degli Hebertisti.
Danton era già completamente «usato» agli occhi dei rivoluzionari, i
quali vedevano in lui un pericolo, poichè i Girondini si avanzavano
dietro di lui. Eppure alla fine di novembre abbiamo visto
Robespierre e Danton camminare di pari passo per combattere il
movimento antireligioso. Al club dei Giacobini, che faceva allora la
propria «epurazione», quando giunse la volta di Danton (già molto
attaccato) di sottomettersi al giudizio d'epurazione della Società,
Robespierre non solo gli tese la mano, ma s'identificò con lui.
D'altra parte, quando Camille Desmoulins lanciò i due primi numeri
del suo Vieux Cordelier (il 15 e il 20 frimaio, 5 e 10 dicembre),
nei quali questo giornalista, abile nel calunniare, attaccava
vilmente Hébert e Chaumette, e incominciava una campagna in favore
d'una sosta nella persecuzione dei nemici della Rivoluzione,
Robespierre lesse quei due numeri prima che fossero pubblicati e li
approvò. Durante l'epurazione ai Giacobini, difese anche Desmoulins.
Ciò significava che in quel momento era pronto a fare delle
concessioni ai Dantonisti, purchè l'aiutassero ad assalire il
partito di sinistra: gli Hebertisti.
Essi lo fecero volentieri, e molto violentemente, con la penna di
Desmoulins, nel suo Vieux Cordelier, e con parola di Philippeaux, al
club dei Giacobini, dove costui s'accanì ad attaccare la condotta
dei generali hebertisti in Vandea. Robespierre lavorò nello stesso
senso contro un Hebertista influente, Anacharsis Cloots (i Giacobini
l'avevano perfino eletto presidente), sul quale piombò con un odio
ben religioso. Quando venne la volta di Cloots di sottomettersi
all'«epurazione» dei Giacobini, Robespierre pronunciò contro di lui
un discorso pieno di fiele, accusando di tradimento quel puro
idealista, adoratore della Rivoluzione e propagandista ispirato
dell'Internazionale dei sanculotti, perchè aveva avuto rapporti
d'affari coi banchieri Vandenyver e s'era occupato di essi quando
furono arrestati come sospetti. Cloots fu escluso dai Giacobini il
22 frimaio (12 dicembre), e diventava così una vittima segnata per
il patibolo.
Intanto, l'insurrezione del Mezzogiorno andava per le lunghe, Tolone
restava in mano degl'inglesi, e il Comitato di salute pubblica fu
così accusato d'incapacità. Si diceva anzi che avesse il pensiero
d'abbandonare il Mezzogiorno alla contro rivoluzione. Pare che vi
fossero dei giorni in cui il Comitato stesse per essere rovesciato e
«mandato alla rupe tarpea», – la qual cosa sarebbe stata vantaggiosa
pei Girondini, pei «moderati», cioè per la contro rivoluzione.
L'anima di tutta la campagna fatta contro il Comitato di salute
pubblica, nel mondo politico, fu Fabre d'Eglantine, un «moderato»,
assecondato da Bourdon (dell'Oise). Dal 22 al 27 frimaio (12-17
dicembre), vi fu perfino un tentativo per sollevare la Convenzione
contro il suo Comitato di salute pubblica.
Ma se i Dantonisti facevano intrighi contro i Robespierristi, i due
partiti erano però d'accordo nell'assalire gli Hebertisti. Il 27
frimaio (17 dicembre) Fabre d'Eglantine fece alla Convenzione un
rapporto per domandare l'arresto di tre Hebertisti: Ronsin, generale
dell'esercito rivoluzionario di Parigi, Vincent, segretario generale
del ministero della guerra, e Maillard, quello stesso che aveva
condotto le donne a Versaglia il 5 ottobre 1789. Era un primo
tentativo del «partito della clemenza» per fare un colpo di Stato in
favore dei Girondini e d'un regime più pacifista. Tutti coloro che
avevano approfittato della Rivoluzione non vedevano l'ora, come s'è
detto, di ritornare nell'«ordine», e per riuscirvi erano pronti, in
caso di necessità, a sacrificare magari la Repubblica, sostituendola
con una monarchia costituzionale. Molti, come Danton, erano stanchi
degli uomini e si dicevano: «Bisogna finirla». Altri, finalmente – e
sono in tutte le rivoluzioni il partito più pericoloso, – perdendo
la fede nella Rivoluzione davanti alle forze che doveva combattere,
cercavano già di non inimicarsi troppo la reazione, di cui sentivano
avvicinarsi il trionfo.
Però, quegli arresti avrebbero ricordato troppo quello d'Hébert nel
1793 (vedere cap. XXXIX), perchè non si capisse che si preparava un
colpo di Stato a favore della frazione girondina, aprendo quindi la
via alla reazione. La pubblicazione del terzo numero del Vieux
Cordelier, nel quale Desmoulins denunciava tutto il governo
rivoluzionario, con espressioni e forme prese nella storia romana,
aiutò a smascherare gl'intrighi. Tutto l'elemento contro
rivoluzionario di Parigi, alla lettura di quel numero, levò il capo,
per annunciare a quanti volevano dargli ascolto la prossima fine
della Rivoluzione.
I Cordiglieri si schierarono subito con gli Hebertisti, ma non
seppero trovare altra ragione per fare appello al popolo, se non la
necessità di procedere più rigorosamente contro i nemici della
Rivoluzione. Anch'essi identificavano la Rivoluzione col Terrore.
Portarono in giro per Parigi la testa di Chalier e si misero a
spingere il popolo verso un nuovo 31 maggio, a fine di provocare una
nuova «epurazione» nella Convenzione, allontanandone «gli uomini
usati e le gambe rotte». Ma non si sapeva ciò che avrebbero fatto
arrivando al potere, quale direzione avrebbero data alla
Rivoluzione.
Una volta impegnata la lotta in quelle condizioni, fu facile al
Comitato di salute pubblica di parare i colpi. Non respingeva il
Terrore. Infatti, il 5 nevoso (25 dicembre) Robespierre fece il suo
rapporto sul governo rivoluzionario, e se la sostanza di questo
rapporto era la necessità di mantenere l'equilibrio tra i partiti
troppo avanzati e quelli troppo moderati, – la sua conclusione era
la morte ai nemici del popolo. Il giorno dopo domandava
l'accelerazione dei giudizi del tribunale rivoluzionario.
Nello stesso tempo, il 4 nevoso (24 dicembre), Parigi seppe che
Tolone era stata ripresa agl'inglesi. li 5 e 6 (25 e 26 dicembre),
la Vandea era schiacciata a Savenay. Il 10, l'esercito del Reno,
avendo preso l'offensiva, riprendeva al nemico le linee di
Wissembourg; Landau era sbloccata il 12 nevoso (1° gennaio 1794), e
i tedeschi ripassavano il Reno.
Una serie di vittorie decisive consolidavano così la Repubblica.
Esse ridavano autorità al Comitato di salute pubblica, e Camille
Desmoulins fece allora, nel suo n°5, onorevole ammenda, – sempre
però attaccando violentemente Hébert, per cui le sedute al club dei
Giacobini, nella seconda decade di nevoso (dal 31 dicembre al 10
gennaio 1794), degenerarono in vere mischie generali d'attacchi
personali. Il 10 gennaio, i Giacobini pronunciavano l'espulsione di
Desmoulins dal loro club, e Robespierre dovette usare tutta la sua
popolarità per costringere la Società a non dar seguito a
quell'espulsione.
Il 24 nevoso (13 gennaio), i Comitati risolvettero però di colpire,
e gettarono il terrore nel campo dei loro detrattori facendo
arrestare Fabre d'Eglantine. Il pretesto era un'accusa di falso, e
si faceva annunciare con fracasso che i Comitati avevano scoperto un
gran complotto a scopo d'avvilire la rappresentanza nazionale.
Ora sappiamo che era falsa l'accusa di cui si servirono per
arrestare Fabre, – la falsificazione, cioè, d'un decreto della
Convenzione a profitto della potente Compagnia delle Indie. Il
decreto concernente la Compagnia delle Indie era proprio stato
falsificato, ma da un altro rappresentante, Delaunay. L'atto esiste
ancora negli archivi, e da che Michelet l'ha scoperto, si sa che il
falso era scritto da Delaunay; ma siccome l'accusatore pubblico del
tribunale rivoluzionario, Fouquier-Tinville (l'uomo del Comitato di
sicurezza generale), non permise che si producesse il documento nè
prima nè durante il processo, Fabre perì come falsario. Il governo
voleva sbarazzarsi d'un uomo pericoloso. Robespierre si guardò bene
d'intervenire249.
Tre mesi più tardi, Fabre d'Eglantine fu decapitato, come pure
Chabot, Delaunay, l'abate d'Espagnac e i due fratelli Frey,
banchieri austriaci.
Così continuava la lotta sanguinosa tra le diverse frazioni del
partito rivoluzionario, e si capisce fino a qual punto l'invasione e
gli orrori della guerra civile dovettero inasprire gli animi. Però
ci si presentano certe domande: Quale motivo impedì alla lotta dei
partiti di prendere un carattere accanito fin dal principio della
Rivoluzione? Che cosa permise d'intendersi per un'azione comune
contro il despotismo regio ad uomini, le cui vedute politiche erano
tanto diverse, come quelle dei Girondini, di Danton, di Robespierre
o di Marat?
È molto probabile che quei rapporti d'intimità e di fratellanza, che
s'erano stabiliti in principio della Rivoluzione a Parigi e in
provincia, tra gli uomini eminenti dell'epoca, nelle logge
massoniche, contribuissero a facilitare quell'intesa. Si sa,
infatti, da Louis Blanc, Henri Martin, e dall'eccellente monografia
del professore Ernest Nys250, che quasi tutti i rivoluzionari in
vista hanno appartenuto alla Massoneria. Mirabeau, Bailly, Danton,
Robespierre, Marat, Condorcet, Brissot, Lalande, ecc., ne furono
membri, e il duca d'Orléans (Filippo Eguaglianza) ne restò il gran
maestro fino al 13 maggio 1793. D'altra parte, si sa pure che
Robespierre, Mirabeau, Lavoisier, e probabilmente molti altri,
appartenevano alle logge d'Illuminati, fondate da Weishaupt, con lo
scopo di «liberare i popoli dalla tirannia dei principi e dei preti,
e, come progresso immediato, di liberare i contadini e gli operai
dal servaggio, dalle corvées e dalle corporazioni di mestiere».
È certo, come dice Nys, che «con le sue tendenze umanitarie, col
sentimento inconcusso della dignità dell'uomo, con i principii di
libertà, d'uguaglianza e di fratellanza» la massoneria ha
potentemente aiutato a preparare l'opinione pubblica alle nuove
idee, tanto più che, per merito suo, «su tutti i punti del
territorio si tenevano delle riunioni nelle quali le idee
progressiste erano esposte e acclamate, e dove, cosa molto più
importante di quel che si crede, si formavano uomini atti a
discutere e a votare.» La riunione dei tre ordini nel giugno 1789, e
la notte del 4 agosto furono probabilmente preparate in quelle logge
(E. Nys, p. 82, 83).
Quel lavoro preliminare dovette necessariamente stabilire dei
rapporti personali e delle abitudini di mutuo rispetto tra gli
uomini d'azione, all'infuori degli interessi, sempre ristretti, dei
partiti, e ciò permise ai rivoluzionari d'agire con un certo
accordo, durante quattro anni, per abbattere il despotismo regio.
Però, sottomessi più tardi a prove troppo rudi, specialmente dopo
che i framassoni stessi si furono divisi sulla questione della
monarchia, e ancor più su quella dei tentativi comunisti, quei
rapporti non poterono durare fino alla fine della Rivoluzione. E
allora la lotta si scatenò con tanto maggior furore.
LXV
CADUTA DEGLI HEBERTISTI. –
DECAPITAZIONE DI DANTON
L'inverno passò così in sorde lotte tra i rivoluzionari e i contro
rivoluzionari, che si facevano sempre più audaci.
Nel principio di febbraio, Robespierre si fece interprete d'un
movimento contro certi convenzionali in missione, che avevano agito,
come Carrier a Nantes e Fouché a Lione, con un furore disperato
contro le città sollevate, senza saper distinguere tra gl'istigatori
di quelle sollevazioni e gli uomini del popolo che vi erano stati
spinti251. Chiese il richiamo di quei convenzionali e minacciò di
farli processare. Però quel tentativo non riuscì. Il 5 ventoso (23
febbraio), la Convenzione votava l'amnistia per Carrier, volendo
così cancellare il ricordo degli atti di tutti i rappresentanti in
missione, per quanto grandi fossero i loro errori. Gli Hebertisti
trionfavano; Robespierre e Couthon, ammalati, non si mostrarono.
Nel frattempo, Saint-Just, ritornato dall'esercito, pronunciava alla
Convenzione, l'8 ventoso (26 febbraio), un gran discorso, che
produsse forte impressione e rovesciò tutti i piani. Invece di
parlare di clemenza, fece suo il programma degli Hebertisti, e
minacciò anzi con ben maggior violenza. Promise d'attaccare appunto
il partito degli «uomini usati», e indicò, come vittime prossime
della ghigliottina, i Dantonisti, la «setta politica» che «cammina a
passi lenti», «inganna tutti i partiti» e prepara il ritorno della
reazione, parlando di clemenza, «perchè quella gente non si sente
abbastanza virtuosa per essere terribile.» Egli ebbe buon giuoco,
poichè parlò in nome della probità repubblicana, mentre gli
Hébertisti (almeno a parole) ne ridevano, dando così ai loro nemici
la possibilità di confonderli con la turba dei profiteurs della
borghesia, i quali vedevano nella Rivoluzione solamente un mezzo
d'arricchire.
Quanto alle questioni economiche, la tattica di SaintJust, nel suo
rapporto dell'8 ventoso, fu di riprendere per conto suo, molto
vagamente, qualcuna delle idee degli «Arrabbiati». Confessò di non
aver mai pensato sino allora a quelle questioni. «La forza delle
cose, disse, ci conduce forse a dei risultati ai quali non avevamo
mai pensato.» Ma oggi pensandovi, non se la prende con l'opulenza
stessa; la combatte solo perchè i nemici della Rivoluzione la
detengono: «Le proprietà dei patriotti sono sacre, ma i beni dei
cospiratori sono là pei miseri.» Svolge nondimeno qualche idea sulla
proprietà del suolo. Vuole che la terra appartenga a colui che la
coltiverà, per sequestrare invece le terre di colui che non le avrà
coltivate durante venti o cinquant'anni. Sogna una democrazia di
piccoli proprietari virtuosi, che godano d'una modesta agiatezza.
Infine domanda che si sequestrino le terre ai cospiratori per darle
«ai miseri». Non vi sarà libertà fin che vi saranno dei miseri,
degli indigenti, e fin che i rapporti civili (economici) conducono a
bisogni contrari alla forma di governo. «Sfido a stabilire la
libertà, dice, fintanto che è possibile sollevare i miseri contro il
nuovo ordine di cose; sfido a non avere più dei miseri, senza far sì
che ciascuno abbia delle terre... Bisogna distruggere la mendicità
col distribuire ai poveri i beni nazionali.» Parla anche d'una
specie d'assicurazione nazionale: d'un «dominio pubblico stabilito
per riparare l'infortunio del corpo sociale». Servirà a ricompensare
la virtù, a riparare le disgrazie individuali, all'educazione. – E
con tutto ciò, molto Terrore. È il terrore hebertista, leggermente
imbevuto di socialismo. Ma è un socialismo scucito, fatto di massime
piuttosto che di progetti di legislazione. Si vede che Saint-Just
mira a una cosa sola: provare, come ha detto, che «la Montagna resta
sempre il culmine rivoluzionario.» Non si lascerà oltrepassare.
Ghigliottinerà gli «Arrabbiati» e gli Hebertisti, ma farà sua
qualcuna delle loro idee.
Con quel rapporto, Saint-Just otteneva dalla Convenzione due
decreti. L'uno rispondeva a quelli che domandavano la clemenza: il
Comitato di sicurezza generale era investito del potere di mettere
in libertà «i patriotti detenuti». L'altro, mentre sembrava dovesse
prevenire gli Hebertisti, tranquillizzava nello stesso tempo i
compratori di beni nazionali. Le proprietà dei patriotti sarebbero
sacre, ma i beni dei nemici della Rivoluzione verrebbero sequestrati
a vantaggio della Repubblica. Questi stessi nemici rimarrebbero
prigionieri fino alla conclusione della pace, per bandirli poi.
Coloro che volevano veder la Rivoluzione progredire erano dunque
delusi; di quel discorso non restavano che delle parole.
Allora i Cordiglieri risolvettero d'agire. Il 14 ventoso (4 marzo)
coprirono con un velo nero il Quadro dei Diritti dell'Uomo. Vincent
parlò della ghigliottina, e Hébert s'elevò contro Amar, del Comitato
di sicurezza generale, che esitava a mandare sessantun Girondini
davanti al tribunale rivoluzionario. In modo alquanto velato, alluse
anche a Robespierre, – non come ostacolo a cambiamenti seri, ma come
difensore di Desmoulins. Era un ritornare sempre al Terrore. Carrier
si lasciò sfuggire la parola insurrezione.
Ma Parigi non si mosse, e la Comune rifiutò d'ascoltare i
Cordiglieri hebertisti. Allora, nella notte del 23 ventoso (13
marzo), i capi hebertisti – Hébert, Momoro, Vincent, Ronsin,
Ducroquet e Laumur – furono arrestati, e il Comitato di salute
pubblica fece correre su di essi, per mezzo di Billaud-Varenne, ogni
sorta di fandonie e di calunnie. Billaud diceva ch'essi volevano
sgozzare nelle prigioni i realisti, saccheggiare la Monnaie (zecca),
dopo aver fatto nascondere delle derrate per affamare Parigi!
Il 28 ventoso (18 marzo) si arrestò Chaumette, destituito il giorno
prima dal Comitato di salute pubblica, e sostituito da Cellier. Il
sindaco Pache veniva destituito dallo stesso Comitato. Anacharsis
Cloots era già stato arrestato l'8 nevoso (28 dicembre) – sotto
l'imputazione d'essersi informato se una signora era sulla lista dei
sospetti. Leclerc, amico di Chalier, venuto da Lione e collaboratore
di Roux, fu implicato nello stesso processo.
Il governo trionfava.
Quali fossero le vere ragioni di quegli arresti nel partito
avanzato, non lo sappiamo ancora. C'era un complotto, preparato da
essi, per impadronirsi del potere, servendosi a tale scopo
dell'«armata rivoluzionaria» di Ronsin? È possibile, ma non sappiamo
nulla di preciso su questo punto.
Gli Hebertisti furono inviati davanti al tribunale rivoluzionario, e
si spinse l'iniquità fino a fare ciò che si chiamava un'«amalgama».
Ed è così che vennero confusi in una sola «infornata» con banchieri
ed agenti tedeschi, Momoro, il quale fino dal 1789 s'era fatto
notare per le sue idee comuniste, e diede assolutamente quanto
possedeva alla Rivoluzione, Leclerc, amico di Chalier, e Anacharsis
Cloots, «l'oratore del genere umano», che aveva intravvisto, fino
dal 1793, la repubblica del genere umano e aveva osato parlarne.
Il 4 germinale (24 marzo), dopo un processo di pura forma durato tre
giorni, furono tutti ghigliottinati.
È facile immaginare la gioia che ebbero in quel giorno i realisti,
di cui era piena Parigi. Le vie rigurgitavano di muscadins, vestiti
nel modo più «impagabile», i quali insultavano i condannati, mentre
erano trascinati fino alla Piazza della Rivoluzione. I ricchi
pagavano prezzi esorbitanti per avere dei posti vicini alla
ghigliottina e godersi così la morte dell'autore del Père Duchesne.
«La piazza diventò un teatro», dice Michelet. E «intorno, una sorta
di fiera, i Campi Elisi popolati, ridenti, coi ciarlatani, i piccoli
venditori.» E il popolo, triste, non si mostrava. Sapeva che si
uccidevano i suoi amici.
Chaumette fu ghigliottinato più tardi, il 24 germinale (13 aprile),
col vescovo dimissionario Gobel, ambedue imputati d'irreligione. La
vedova di Desmoulins e quella d'Hébert facevano parte della stessa
«infornata». Pache fu risparmiato, ma sostituito dall'insignificante
Fleuriot-Lescaut, come sindaco. Il procuratore Chaumette lo fu da
Cellier e poi da Claude Payan, uomo devoto a Robespierre, il quale
s'occupò più dell'Essere supremo che del popolo di Parigi252.
I due Comitati, di sicurezza generale e di salute pubblica,
trionfavano della Comune di Parigi! La lunga lotta sostenuta da
questo focolare di rivoluzione, dal 9 agosto 1792, contro i
rappresentanti ufficiali della Rivoluzione, finiva così. La Comune,
che per diciannove mesi aveva servito di faro alla Francia
rivoluzionaria, stava per diventare un congegno dello Stato. Dopo
questo, era inevitabile lo sfacelo.
Però il trionfo dei realisti dopo quelle esecuzioni fu così grande
che i Comitati si vedevano già sopraffatti dalla contro rivoluzione.
Ora, venivano loro stessi reclamati per la Rupe Tarpea, così cara a
Brissot. Desmoulins, che aveva tenuto un contegno ignobile quando si
trattò dell'esecuzione d'Hébert (lo raccontò lui stesso), lanciò un
settimo numero del suo giornale, interamente diretto contro il
regime rivoluzionario. I realisti si abbandonavano a pazze
manifestazioni di gioia, e spingevano Danton ad attaccare i
Comitati. Tutta la massa dei Girondini, che si nascondeva dietro
Danton, stava per approfittare dell'assenza dei rivoluzionari
hebertisti per fare un colpo di Stato, e mandare quindi alla
ghigliottina Robespierre, Couthon, Saint-Just, Billaud-Varenne,
Collot d'Herbois e tanti altri. Sarebbe stato il trionfo della
contro rivoluzione fino dal principio del 1794. Allora i Comitati
risolvettero di dare un gran colpo a destra, sacrificando Danton.
Nella notte dal 30 al 31 marzo (9 e 10 germinale), Parigi apprendeva
con stupore che Danton, Desmoulins, Philippeaux e Lacroix erano
arrestati. In seguito ad un rapporto di Saint-Just alla Convenzione
(redatto secondo una brutta copia, fornita da Robespierre e
conservata fino ai giorni nostri), l'Assemblea ordinò che si
processassero immediatamente. Il «Pantano», obbediente, votò come
gli fu ordinato. I Comitati fecero di nuovo un'«infornata», e
mandarono, tutti insieme, davanti al tribunale rivoluzionario,
Danton, Desmoulins, Bazire, Fabre, accusato di falso, Lacroix,
accusato di saccheggio, Chabot che riconosceva d'aver ricevuto
(senza però spenderli) cento mila lire dai realisti per un affare
qualunque, il falsario Delaunay e il mezzano Julien (di Tolosa).
Il processo fu soffocato. Nel momento in cui la difesa vigorosa di
Danton minacciava di provocare una sommossa popolare, la parola fu
tolta agli accusati.
Furono tutti decapitati il 16 germinale (5 aprile).
Si capisce quale effetto dovettero produrre sulla popolazione di
Parigi e sui rivoluzionari in generale la caduta della Comune
rivoluzionaria di Parigi e l'esecuzione d'uomini come Leclerc,
Momoro, Hébert, Cloots, seguita da quella di Danton e di Camille
Desmoulins e finalmente di Chaumette. Queste decapitazioni furono
interpretate a Parigi e in provincia come la fine della Rivoluzione.
Nei circoli politici, si sapeva che intorno a Danton si riunivano
tutti i contro rivoluzionari; ma, per la Francia in generale,
restava il rivoluzionario che fu sempre nell'avanguardia dei
movimenti popolari. – «Se quelli sono traditori, di chi fidarci?» si
domandavano gli uomini del popolo. – «Ma sono traditori?» si
domandavano gli altri. «Non è questo un segno certo della fine della
Rivoluzione?»
Lo era veramente. La marcia ascendente della Rivozione s'era
arrestata; era sorta una forza per dirle «Non andrai oltre!» –
proprio nel momento in cui le rivendicazioni eminentemente popolari
cercavano di trovare la loro formola. Poichè questa forza potè
abbattere le teste di coloro che procuravano di formulare quelle
rivendicazioni, i veri rivoluzionari capirono che la morte della
Rivoluzione era giunta. Non si lasciarono convincere dalle parole di
Saint-Just, il quale pretendeva d'incominciare anch'egli a pensare
come coloro che inviava alla ghigliottina; ma capirono che era il
principio della fine.
Difatti, il trionfo dei Comitati sulla Comune di Parigi era il
trionfo dell'ordine, e, in rivoluzione, tale trionfo è la chiusura
del periodo rivoluzionario. Vi sarà ancora qualche convulsione, ma
la Rivoluzione è finita253.
E il popolo, che aveva fatto la Rivoluzione, finiva per non
occuparsene più. Abbandonava le strade ai muscadins.
LXVI
ROBESPIERRE E IL SUO GRUPPO
S'è parlato spesso di Robespierre come d'un dittatore. Alla
Convenzione i suoi nemici lo chiamavano il «tiranno». Difatti, mano
mano che la Rivoluzione volge al suo fine, Robespierre acquista
un'influenza così grande, che si giunge a considerarlo in Francia e
all'estero come il personaggio più importante della Repubblica.
Però, sarebbe assolutamente falso rappresentare Robespierre come un
dittatore. È certo che molti ammiratori ne desiderarono la
dittatura254. Ma si sa pure che Cambon, nel suo dicastero speciale,
al Comitato delle finanze, esercitava un'autorità considerevole, e
che Carnot aveva estesissimi poteri per la guerra, nonostante la
malevolenza di Robespierre e di Saint-Just verso di lui. Quanto al
Comitato di sicurezza generale, teneva troppo ai suoi poteri
polizieschi per non opporsi a una dittatura, e alcuni de' suoi
membri odiavano Robespierre. E finalmente, se alla Convenzione v'era
un certo numero di rappresentanti che non vedevano di malocchio
l'influenza preponderante di Robespierre, non si sarebbero però
sottomessi alla dittatura d'un Montagnardo di principii così severi.
Ad ogni modo, la forza di Robespierre era immensa realmente, senza
contare che quasi tutti sentivano, e i suoi nemici stessi lo
riconoscevano, che la caduta del gruppo robespierrista avrebbe
segnato il trionfo della reazione; e ciò avvenne davvero.
Come spiegarsi dunque la potenza di questo gruppo?
Gli è che Robespierre rimase incorruttibile fra tanti altri che si
lasciarono sedurre dalle attrattive del potere e della ricchezza, –
cosa immensamente importante durante una rivoluzione. Mentre la
maggior parte intorno a lui approfittava meravigliosamente dei beni
nazionali, dell'aggiotaggio, ecc., e migliaia di Giacobini
s'affrettavano ad impadronirsi dei posti del governo, egli restava
davanti ad essi come un giudice severo, richiamandoli ai principii,
e minacciando della ghigliottina coloro che s'erano mostrati più
accaniti nell'assalto alle ricchezze. Ma non basta. In tutto ciò che
aveva detto e fatto durante i cinque anni della bufera
rivoluzionaria, si sente, e meglio di noi dovevano sentirlo i suoi
contemporanei, che era uno di quei pochi uomini politici d'allora,
che non hanno perduto un momento solo la fede nella rivoluzione, nè
il loro amore per la Repubblica democratica. Robespierre
rappresentava così una vera forza, e se i comunisti avessero potuto
opporgli una forza d'intelligenza e di volontà eguale alla sua,
avrebbero saputo certamente dare alla Grande Rivoluzione un'impronta
delle loro idee molto più profonda.
Però queste qualità di Robespierre, che i suoi nemici stessi sono
obbligati di riconoscere, non sarebbero bastate da sole a spiegare
l'immenso potere che possedette verso la fine della Rivoluzione.
Egli seppe altresì, armato del fanatismo datogli dalla purezza delle
sue intenzioni fra tanti profiteurs, lavorare abilmente a costituire
il proprio potere sugli animi, anche passando sul corpo de' suoi
avversari. In questo fu grandemente favorito dalla borghesia
nascente, appena riconobbe in lui l'uomo del giusto mezzo
rivoluzionario, posto a eguale distanza dagli «esaltati» e dai
«moderati», l'uomo che offriva alla borghesia la miglior garanzia
contro gli «eccessi» del popolo.
La borghesia capì ch'egli era l'uomo il quale, per il rispetto che
ispirava al popolo, per il suo spirito moderato e le sue velleità di
potere, sarebbe stato capace di aiutare la costituzione d'un
governo, di porre fine al periodo rivoluzionario, – e lo lasciò
fare, finchè ebbe a temere i partiti avanzati. Ma quando Robespierre
l'ebbe aiutata ad abbattere quei partiti, lo rovesciò a sua volta,
per reintegrare alla Convenzione la borghesia girondina e inaugurare
l'orgia reazionaria di termidoro.
La struttura di spirito di Robespierre s'adattava mirabilmente a
questa parte. Si rilegga, infatti, la minuta che scrisse per l'atto
d'accusa del gruppo di Fabre d'Eglantine e di Chabot, ritrovata
nelle sue carte dopo il 9 termidoro255. Questo scritto caratterizza
l'uomo, meglio d'ogni ragionamento.
«Due coalizioni rivali lottano da qualche tempo con scandalo», così
egli comincia. «L'una tende al moderantismo, l'altra agli eccessi
praticamente contro rivoluzionari. Una dichiara la guerra a tutti i
patriotti energici, predica l'indulgenza pei cospiratori; l'altra
calunnia sordamente i difensori della libertà, vuole atterrare uno
per uno ogni patriotta che abbia sbagliato una sol volta; ma nello
stesso tempo chiude gli occhi sulle trame delittuose dei nostri
nemici più pericolosi... Una cerca d'abusare del suo credito o della
sua presenza alla Convenzione nazionale [i Dantonisti]; l'altra
della sua influenza nelle società popolari [la Comune, gli
«Arrabbiati»]. Una vuol carpire alla Convenzione decreti pericolosi
o misure oppressive contro i propri avversari; l'altra fa sentire
gridi pericolosi nelle assemblee pubbliche... Il trionfo dell'uno o
dell'altro di questi partiti sarebbe egualmente fatale alla libertà
e all'autorità nazionale». – E dice come i due partiti attaccarono
il Comitato di salute pubblica fino dal momento della sua
fondazione.
Dopo aver accusato Fabre di tendere all'indulgenza per nascondere i
propri delitti, aggiunge:
«Il momento era certo favorevole per predicare una dottrina vile e
pusillanime, anche ad uomini di buone intenzioni, quando tutti i
nemici della libertà spingevano ad un eccesso contrario; quando una
filosofia venale e prostituita alla tirannia dimenticava i troni per
gli altari, opponeva la religione al patriottismo256, metteva la
morale in contraddizione con sè stessa, confondeva la causa del
culto con quella del dispotismo, i cattolici coi cospiratori, e
voleva forzare il popolo a vedere nella rivoluzione, non il trionfo
della virtù, ma quello dell'ateismo, non la sorgente della sua
felicità, ma la distruzione delle sue idee morali e religiose.»
Si capisce da questi brani che se Robespierre non aveva la larghezza
di vedute e l'audacia di pensiero necessarie per diventare un «capo
partito» durante una rivoluzione, possedeva però alla perfezione
l'arte di servirsi dei mezzi coi quali si solleva un'assemblea
contro una data persona. Ogni frase di quell'atto d'accusa è una
freccia avvelenata che colpisce a segno.
Ciò che ci stupisce specialmente è il fatto che Robespierre e i suoi
amici non s'accorgono della parte che i «moderati» fanno loro
recitare, finchè non li credono abbastanza maturi per essere
rovesciati. «Esiste un sistema per condurre il popolo a livellare
tutto», gli scrive suo fratello, da Lione; «bisogna guardarsene,
altrimenti tutto si disorganizzerà». E Massimiliano Robespierre non
sorpassò quella concezione di suo fratello. Negli sforzi dei partiti
avanzati, non vede che i loro attacchi contro il governo del quale
fa parte. Come Brissot li accusa d'essere gli strumenti dei
cabinetti di Londra e di Vienna. I tentativi dei comunisti sono per
lui solamente «disorganizzazione». Bisogna «guardarsene»,
schiacciarli – col terrore.
«Quali sono i mezzi di terminare la guerra civile? chiede a sè
stesso in una nota. E risponde:
«Punire i traditori e i cospiratori, specialmente i deputati e gli
amministratori colpevoli;
«mandare le truppe patriotte, dirette da capi patriotti, per
debellare gli aristocratici di Lione, di Marsiglia, di Tolone, della
Vandea, del Giura e di tutte le altre contrade, dove lo stendardo
della rivolta e del realismo è stato issato;
«e dare degli esempi terribili su tutti i scellerati che hanno
oltraggiata la libertà e versato il sangue dei patriotti»257.
Come si vede, è un uomo di governo che tiene il linguaggio di tutti
i governi, ma non è un rivoluzionario che parla. Per cui, tutta la
sua politica, dalla caduta della Comune fino al 9 termidoro, resta
assolutamente infruttuosa. Non impedisce affatto la catastrofe che
si prepara, anzi fa di tutto per accelerarla. Non cerca di far
deviare i pugnali che s'affilano nell'ombra per colpire la
Rivoluzione, ma fa il possibile perchè i colpi ne siano mortali!
LXVII
IL TERRORE
Dopo la caduta dei loro nemici di sinistra e di destra, i Comitati
continuarono ad accentrare sempre più il potere nelle proprie mani.
Fino a quel momento v'erano stati sei ministeri, subordinati solo
indirettamente al Comitato di salute pubblica, mediante il Comitato
esecutivo, composto di sei ministri. Il 12 germinale (1° aprile) i
ministeri furono soppressi e sostituiti con dodici Commissioni
esecutive, ciascuna delle quali era posta sotto la sorveglianza
d'una sezione del Comitato258. Inoltre, il Comitato di salute
pubblica ricevette il diritto di richiamare i convenzionali in
missione. D'altra parte, fu risolto che il tribunale rivoluzionario
supremo avesse sede a Parigi, sotto gli occhi dei Comitati. Gli
imputati di cospirazione, di qualsiasi parte della Francia, dovevano
essere condotti a Parigi e venirvi giudicati. Furono prese nello
stesso tempo delle misure per purgare Parigi dai malevoli. Tutti gli
ex-nobili e gli stranieri appartenenti alle nazioni che fanno la
guerra alla Francia, salvo qualche eccezione indispensabile,
dovevano essere espulsi da Parigi (decreti del 26 e 27 germinale).
L'altra grande preoccupazione era la guerra. Nel gennaio 1793 si
sperava ancora che il partito dell'opposizione al Parlamento
inglese, sostenuto da una parte considerevole della popolazione di
Londra e da parecchi uomini influenti alla Camera dei Lordi, avrebbe
impedito il ministero di Pitt di continuare la guerra. Danton
dovette condividere questa illusione, che gli fu rimproverata poi
come un delitto. Ma Pitt ebbe per sè la maggioranza del Parlamento
contro l'«empia nazione», e fin dal principio della primavera,
l'Inghilterra e la Prussia, da lei assoldata, spinsero alla guerra
con vigore. Ben presto quattro armate, con 315,000 uomini, furono
ammassate alla frontiera della Francia, davanti a quattro armate
della Repubblica che contavano solo 294,000 uomini. Ma erano già
eserciti repubblicani, democratici, che avevano trovato la loro
tattica speciale, e vinsero in breve gli alleati.
Il punto più nero era però lo stato d'animo nelle provincie,
specialmente nel Mezzogiorno. Lo sterminio in massa, alla rinfusa,
dei capi contro rivoluzionari e degli ingenui traviati, commesso
dopo la vittoria dai Giacobini delle varie località e dai
convenzionali in missione, aveva seminato odii così profondi, che
dovunque l'eccitazione era grandissima. Lo stato di cose era
maggiormente aggravato dal fatto che tutti, sul posto o a Parigi,
non sapevano provvedere ad altro che alla repressione. Eccone un
esempio.
La Valchiusa essendo infestata da realisti e da preti, avviene che
nel villaggio di Bédouin, posto ai piedi del monte Ventoux,
villaggio arretrato e sempre ligio apertamente all'antico regime,
«la legge è stata scandalosamente oltraggiata». Il 1° maggio,
l'albero della libertà è stato abbattuto e «i decreti della
Convenzione trascinati nel fango!» Il capo militare del luogo
(Suchet, che diventerà poi un imperialista) vuole «un esempio
terribile». Domanda la distruzione del villaggio. Maignet, il
rappresentante in missione, esita e domanda consiglio a Parigi: gli
viene ordinato di sévir (infierire). Suchet incendia il villaggio, e
433 case sono rese inabitabili. Con questo sistema, non si poteva,
poi, che infierire sempre più.
È quanto avvenne. Alcuni giorni dopo, vista l'impossibilità di
trasferire a Parigi tutti i cittadini arrestati, (sarebbe necessario
un esercito e dei viveri lungo il tragitto, dice Maignet), Couthon
propose ai due Comitati, i quali accettarono, una commissione
speciale di cinque membri, che avesse sede a Orange, per giudicare i
nemici della Rivoluzione nei dipartimenti di Valchiusa e delle
Bocche del Rodano259. Robespierre scrisse di proprio pugno
l'istruzione per quella commissione, istruzione che servì ben presto
di modello alla sua legge di Terrore del 22 pratile260.
Alcuni giorni dopo, Robespierre svolse quegli stessi principii alla
Convenzione, dicendo che fino a quel momento s'erano usati troppi
riguardi ai nemici della libertà, ch'era necessario sorvolare sulle
forme dei giudizi e semplificarli261. Due giorni dopo la festa
dell'Essere supremo, con l'assentimento dei suoi colleghi del
Comitato di salute pubblica, propose la famosa legge del 22 pratile
(10 giugno), concernente la riorganizzazione del tribunale
rivoluzionario. In virtù di essa, il tribunale doveva essere diviso
in sezioni, composte ciascuna di tre giudici e nove giurati. Sette
però dovevano bastare per giudicare. I principii dei giudizi
dovevano essere quelli che abbiamo visto esposti nell'istruzione
alla Commissione d'Orange; e nel numero dei delitti che dovevano
essere puniti di morte si introdusse il fatto di propagare false
notizie per dividere o turbare il popolo, di depravare i costumi, di
corrompere la coscienza pubblica.
Promulgare quella legge, era come firmare la bancarotta del governo
rivoluzionario. Sotto apparenze legali, si faceva ciò che il popolo
di Parigi aveva fatto rivoluzionariamente, francamente, in un
momento di panico e di disperazione, nelle giornate di settembre.
L'effetto di questa legge del 22 pratile fu tale, che in sei
settimane fece maturare la contro rivoluzione.
Robespierre, preparando quella legge, aveva veramente l'intenzione
di colpire solamente quei membri della Convenzione che credeva più
pericolosi per la Rivoluzione, come cercano di provare alcuni
storici? Il suo ritiro dagli affari, dopo che le discussioni alla
Convenzione ebbero provato che l'Assemblea non si sarebbe più
lasciata dissanguare dai Comitati, senza difendere i propri membri,
danno un'apparenza di probabilità a quell'ipotesi. Ma la elimina
invece il fatto, ormai certo, che l'istruzione alla Commissione
d'Orange veniva pure da Robespierre. È più probabile che Robespierre
seguì semplicemente la corrente del momento. Egli, Couthon e
Saint-Just, d'accordo con molti altri, non escluso Cambon, volevano
il Terrore come arma di combattimento in grande, ed anche come
minaccia contro alcuni rappresentanti alla Convenzione. In fondo,
senza parlare d'Hébert, si arrivava a quella legge in seguito ai
decreti del 19 floreale (8 maggio) e del 9 pratile (28 maggio)
sull'accentramento dei poteri.
È pure molto probabile che il tentativo di Ladmiral, di uccidere
Collot d'Herbois e lo strano affare di Cecilia Renault contribuirono
a far votare la legge del 22 pratile.
Verso la fine d'aprile c'era stato a Parigi una serie d'esecuzioni,
che avevano dovuto risvegliare gli odii dei realisti. Dopo
l'«infornata» del 13 aprile (Chaumette, Gobel, Lucile Desmoulins, la
vedova d' Hébert e quindici altri), erano saliti al patibolo anche
d'Eprémesnil, Le Chapelier, Thouret, il vecchio Malesherbes,
difensore di Luigi XVI nel suo processo, Lavoisier, grande chimico e
buon repubblicano, e finalmente la sorella di Luigi XVI, madama
Elisabetta, che avrebbe potuto essere lasciata libera con la sua
nipote, senza nessun pericolo per la Repubblica.
I realisti s'agitavano, e il 7 pratile (25 maggio), un certo
Ladmiral, un impiegato d'una cinquantina d'anni, andò alla
Convenzione con l'intenzione d'uccidere Robespierre. Vi si
addormentò durante un discorso di Barère e fallì il colpo contro il
«tiranno». Allora, sparò contro Collot d'Herbois, mentre questi
saliva le scale per rientrare nel proprio alloggio. S'impegnò una
lotta fra i due, e Collot disarmò Ladmiral.
Nello stesso giorno, una giovane di vent'anni, Cécile Renault,
figlia d'un cartolaio ultra-realista, si presentò nel cortile della
casa dove Robespierre abitava presso i Duplay, e insistette per
vederlo. Non si fidarono di lei, l'arrestarono e le trovarono due
piccoli coltelli in tasca.
Il suo linguaggio incoerente poteva lasciar supporre che meditasse
un attentato contro Robespierre, attentato molto infantile ad ogni
modo.
Probabilmente quei due attentati furono un argomento in favore della
legge terrorista.
I Comitati ne approfittarono per fare una grande «amalgama». Fecero
arrestare il padre e il fratello della ragazza e parecchie persone
colpevoli unicamente d'aver conosciuto Ladmiral. Nella stessa
amalgama venne compresa la signora Saint-Amaranthe, la quale aveva
tenuto una casa da gioco, dove usava recarsi sua figlia, la signora
di Sartine, celebre per la sua bellezza. Siccome quella casa era
stata frequentata da un'infinità di persone, tra le quali: Chabot,
Desfieux, Hérault de Séchelles, e visitata, pare, da Danton, fu
considerata come il ritrovo d'una congiura realista, e si cercò
d'avvilupparvi perfino Robespierre. In questo processo si coinvolse
pure il vecchio Sombreuil (salvato da Maillard dal massacro del 2
settembre), l'attrice Grand'Maison, amica del barone di Batz,
Sartine, un «cavaliere del pugnale», e con essi una povera sartina
di diciassette anni, Nicolle.
Il processo non andò per le lunghe, grazie alla legge del 22
pratile. L'«infornata» fu questa volta di 54 persone, che furono
vestite di camicie rosse, come parricidi, e l'esecuzione durò due
ore. Così esordì la nuova legge, chiamata da tutti la legge di
Robespierre. Rendeva odioso a Parigi d'un sol colpo il regime del
Terrore.
È facile concepire lo stato d'animo delle persone arrestate come
«sospette» e che popolavano le prigioni della capitale, quando
conobbero le disposizioni della legge del 22 pratile e la sua
applicazione alle cinquantaquattro camicie rosse. S'aspettava un
massacro generale «per vuotare le prigioni», come a Nantes o a
Lione, e si preparava la resistenza. Molto probabilmente, vi furono
dei progetti d'insurrezione262.E allora si fecero delle «infornate
di centocinquanta accusati alla volta, giustiziati in tre gruppi,
inviando insieme al patibolo forzati e realisti.
È inutile soffermarsi a lungo su queste esecuzioni. Basti dire che
dal 17 aprile 1793, giorno della fondazione del tribunale
rivoluzionario, fino al 22 pratile anno II (10 giugno 1794), vale a
dire in quattordici mesi, il tribunale aveva già mandato alla
ghigliottina a Parigi 2607 persone. Ma dopo la nuova legge, in
quarantasei giorni, dal 22 pratile al 9 termidoro (27 luglio 1794),
lo stesso tribunale fece perire 1351 persone.
Il popolo di Parigi ebbe ben presto orrore di tutti quei convogli di
carretti che conducevano i condannati ai piedi del patibolo; cinque
carnefici riuscivano a fatica a vuotarli ogni giorno. Non si
trovavano più cimiteri per sotterrare le vittime, poichè violenti
proteste s'innalzavano ogni volta che s'apriva un nuovo cimitero in
qualche sobborgo.
Le simpatie del popolo lavoratore di Parigi erano ora per le
vittime, tanto più che i ricchi emigravano o si nascondevano in
Francia, per cui la ghigliottina colpiva soprattutto i poveri.
Difatti, su 2750 ghigliottinati, di cui Louis Blanc ha trovato i
documenti, ve ne sono solamente 650 che appartengono a classi
agiate. Si susurrava perfino che al Comitato di sicurezza generale
c'era un realista, un agente di Batz, che spingeva alle condanne
capitali a fine di rendere la Repubblica odiosa.
È certo che ogni nuova «infornata» di quel genere affrettava la
caduta del regime giacobino. Ma gli uomini di Stato non capivano che
il Terrore aveva cessato di terrorizzare.
LXVIII
IL 9 TERMIDORO. –
TRIONFO DELLA REAZIONE
Robespierre aveva molti ammiratori che giungevano fino
all'adorazione, ma non mancava però di nemici che l'odiavano a
morte. Essi approfittavano di tutte le occasioni per renderlo
odioso, attribuendogli gli orrori del Terrore, e non mancarono
neppure di renderlo ridicolo implicandolo nei discorsi di una
vecchia pazza mistica, Caterina Théot, che si faceva chiamare «madre
di Dio».
Però, è certo che Robespierre non fu rovesciato dalle inimicizie
personali. La sua caduta era inevitabile, poichè egli rappresentava
un regime che stava per crollare. Dopo aver percorsa la fase
ascendente, fino all'agosto o settembre 1793, la Rivoluzione era
entrata nella fase discendente. Passava ora pel regime giacobino,
del quale Robespierre fu la migliore espressione, ma questo regime
doveva necessariamente cedere il posto ad altri uomini «d'ordine e
di governo», che, avendo gran fretta di finirla davvero con la
procella rivoluzionaria, spiavano il momento di rovesciare i
Montagnardi terroristi, senza provocare una sommossa a Parigi.
Si potè allora capire tutto il male che risultava dall'aver fatto
dell'arricchimento individuale la base economica della Rivoluzione.
Una rivoluzione deve mirare al benessere di tutti, altrimenti sarà
necessariamente soffocata da coloro ch'essa stessa avrà arricchiti a
spese della nazione. Ogni volta che una rivoluzione produce uno
spostamento di ricchezze, non dovrebbe farlo in favore di INDIVIDUI,
ma sempre in favore di COMUNITÀ. E in questo appunto ha peccato la
Grande Rivoluzione. Le terre confiscate al clero e ai nobili,
venivano date ad altri privati, mentre avrebbero dovuto essere
restituite ai villaggi e alle città, poichè esse erano una volta
terre del popolo, delle quali i privati s'erano impadroniti per
mezzo del feudalismo. Originariamente non vi furono mai terre
signorili, nè ecclesiastiche. Se si eccettua qualche comunità di
monaci, mai nessun signore nè prete coltivò un pezzo di terreno. Il
popolo, da essi chiamato villano, plebeo, dissodò ogni metro
quadrato di suolo coltivato; lo rese accessibile, abitabile. Era
stato lui a dare un valore alla terra, doveva dunque essergli
restituita.
Invece, per uno scopo statale e borghese, la Costituente, la
Legislativa e la Convenzione riconobbero appartenenti di diritto al
signore, al convento, alla cattedrale, alla Chiesa, le terre di cui
questi fautori dello Stato nascente s'erano impadroniti un tempo.
Esse presero possesso di quelle terre e le vendettero, specialmente
ai borghesi.
È facile immaginare l'accanimento col quale tutti si precipitarono
sulla preda, quando delle terre d'un valore totale di ben dieci o
quindici miliardi furono messe in vendita, a condizioni già
eccessivamente vantaggiose pei compratori, ma che fu facile rendere
ancor più vantaggiose con la protezione delle nuove autorità locali.
In tal modo si costituirono sui luoghi quelle «bande nere», contro
le quali s'infrangeva l'energia dei rappresentanti in missione.
A poco a poco, l'influenza dannosa di quei saccheggiatori, sostenuti
dagli aggiottatori di Parigi e dai fornitori dell'esercito, risaliva
fino alla Convenzione, dove i Montagnardi onesti si vedevano
sopraffatti e impotenti a frenare i «profiteurs». Che cosa
avrebbero, infatti, potuto opporre? Schiacciati gli «Arrabbiati» e
paralizzate le sezioni di Parigi, – che restava loro, se non il
«Pantano» della Convenzione?
La vittoria di Fleurus, riportata il 26 giugno (8 messidoro) sugli
austriaci e gl'inglesi, – vittoria decisiva che pose fine verso il
Nord alla campagna di quell'anno, – e i trionfi riportati dagli
eserciti della repubblica nei Pirenei, verso le Alpi e il Reno, come
pure l'arrivo d'un carico di frumento dall'America (col sacrifizio
di parecchie navi da guerra) – tutti questi trionfi servivano pure
d'argomento potente ai «moderati», che avevano fretta di rientrare
nell'«ordine». – «A che serve il governo rivoluzionario, dicevano,
poichè la guerra sta per finire? È ormai tempo di rientrare nel
regime legale, e di porre fine al governo dei Comitati rivoluzionari
e delle società patriottiche in provincia. È ora di rientrare
nell'ordine, di chiudere il periodo rivoluzionario».
Ma, invece di moderarsi, il Terrore, attribuito generalmente a
Robespierre, non voleva disarmare. Il 3 messidoro (21 giugno)
Herman, «commissario delle amministrazioni civili, polizia e
tribunali», devotissimo a Robespierre, aveva presentato al Comitato
di salute pubblica un rapporto, chiedendo il permesso di cercare i
complotti nelle prigioni. In questo rapporto diceva minacciosamente
che «bisognerebbe forse in un istante purgare le prigioni». Il
Comitato di salute pubblica accordò tale autorizzazione, e allora
incominciarono quelle orribili «infornate», quelle carrettate
d'uomini e di donne, che i parigini trovarono più odiose dei
massacri di settembre, tanto più odiose perchè non se ne vedeva la
fine, e si seguivano durante i balli, i concerti e le feste di gaia
della classe appena arricchita, e fra le grida e gli scherni della
gioventù dorata realista, che si faceva sempre più ardita.
Tutti dovevano sentire che quello stato di cose non poteva durare, e
i moderati della Convenzione ne approfittavano. Dantonisti,
Girondini, uomini del «Pantano» stringevano le file e concentravano
i loro sforzi per rovesciare – tanto per cominciare – Robespierre.
Lo stato degli animi a Parigi favoriva i loro piani, da che il
Comitato di salute pubblica era riuscito a mutilare i veri focolari
dei movimenti popolari: le sezioni.
Il 5 termidoro (23 luglio), il Consiglio generale della Comune, dove
dominava in quel momento Payan, intimo amico di Robespierre,
compromise grandemente la propria popolarità, con un decreto
assolutamente ingiusto contro i lavoratori. Fece proclamare nelle 48
sezioni il «massimo» al quale dovevano essere limitati i salari
degli operai. Quanto al Comitato di salute pubblica, s'era già reso
impopolare presso le sezioni, distruggendo, come abbiamo narrato, la
loro autonomia e nominando lui stesso i membri dei Comitati di
qualcuna di esse.
Era giunto il momento propizio di tentare un colpo di Stato.
Il 21 messidoro (9 luglio), Robespierre risolveva finalmente di
cominciare l'attacco contro i cospiratori. Otto giorni prima s'era
già lagnato, ai Giacobini, della guerra personale che gli si faceva.
Ora, precisava. Attaccava, ma leggermente, Barère, – quello stesso
che, fino a quel momento, era stato il docile strumento della sua
fazione, quand'era necessario menare un gran colpo alla Convenzione.
Due giorni dopo, risolvette di attaccare di fronte, sempre ai
Giacobini, Fouché, per la terribile condotta tenuta da lui a Lione.
Riuscì ad ottenere che fosse messo in giudizio dal club.
Il 26 messidoro (14 luglio), la guerra era dichiarata, poichè Fouché
aveva rifiutato di comparire. Attaccare Barère, poi, era come
attaccare non solo Collot d'Herbois e Billaud-Varenne, ma due
potenti membri del Comitato di sicurezza generale, Vadier e
Voulland, i quali si trovavano spesso con Barère e s'intendevano con
lui sugli affari dei complotti nelle prigioni.
Allora, tutti quelli della sinistra che si sentivano minacciati
Tallien, Barère, Vadier, Voulland, Billaud-Varenne, Collot
d'Herbois, Fouché – s'unirono contro i «triunviri»: Robespierre,
Saint-Just e Couthon. Quanto ai moderati – Barras, Rovère, Thirion,
Courtois, Bourdon, ecc., che avrebbero voluto rovesciare tutti i
Montagnardi avanzati, compreso Collot, Billaud, Barère, Vadier e gli
altri, dovettero riflettere che per cominciare, sarebbe stato meglio
attaccare solamente il gruppo robespierrista. Rovesciato questo,
avrebbero facilmente dominato gli altri.
La tempesta scoppiò l'8 termidoro (26 luglio 1794) alla Convenzione.
La cosa s'aspettava, poichè la sala era gremita. In un discorso ben
preparato, Robespierre attaccò il Comitato di sicurezza generale, e
denunciò una congiura contro la Convenzione. Egli difendeva dalle
calunnie sè stesso e la Convenzione. Ma se sosteneva di non avere
tendenze dittatorie, non risparmiava però gli avversari, e fra altri
Cambon, Mallarmé e Ramel, dei quali parlava con lo stesso linguaggio
degli «Arrabbiati», trattandoli di Foglianti, d'aristocratici e di
birbanti.
Si aspettava la conclusione di quel discorso, e quand'egli vi
giunse, si capì che in fondo domandava semplicemente maggiore
autorità per sè ed il suo gruppo. Senza un concetto o un programma
nuovo, Robespierre, come un qualsiasi uomo di governo, voleva poteri
più estesi di repressione.
«Qual'è il rimedio per tanto male?» diceva concludendo. – «Punire i
traditori; rinnovare gli uffici del Comitato di sicurezza generale,
epurare questo Comitato, e subordinarlo al Comitato di salute
pubblica; epurare il Comitato stesso di salute pubblica; costituire
l'unità di governo sotto l'autorità della Convenzione nazionale, che
è il centro e il giudice».
Si capì che si limitava a domandare maggiore autorità per il suo
triunvirato, a fine di servirsene contro Collot e Billaud, Tallien e
Barère, Cambon e Carnot, Vadier e Voulland. I cospiratori della
destra dovevano esserne contenti. Non avevano che da lasciar fare a
Tallien, Billaud-Varenne ed altri Montagnardi.
La sera di quello stesso giorno, il club dei Giacobini coperse
d'applausi il discorso di Robespierre e si mostrò irritato contro
Collot d'Herbois e Billaud-Varenne. Si parlò perfino di muovere
contro i due Comitati, ma furono parole. Il club dei Giacobini non
era mai stato un focolare d'azione.
Durante la notte, Bourdon e Tallien ottennero l'appoggio dei
convenzionali di destra. Pare che si fissasse di non lasciar parlare
Robespierre nè Saint-Just.
Il domani, 9 termidoro, appena Saint-Just volle leggere il proprio
rapporto moderatissimo, poichè domandava soltanto una revisione del
modo di procedere del governo – Billaud-Varenne e Tallien non lo
lasciarono leggere. Domandarono che s'arrestasse il «tiranno», ossia
Robespierre, e il grido: Abbasso il tiranno! fu ripetuto da tutto il
«Pantano». Non si lasciò parlare neanche Robespierre, e venne messo
in istato d'accusa con suo fratello, Saint-Just, Couthon e Lebas.
Furono condotti a quattro diverse prigioni.
Intanto Hanriot, capo della guardia nazionale, seguito da due
aiutanti di campo e da gendarmi, galoppava nelle vie dirigendosi
verso la Convenzione, quando due rappresentanti, vedendolo passare
nella via Saint-Honoré, lo fecero arrestare da sei di quei gendarmi
stessi che lo accompagnavano.
Il Consiglio generale della Comune si riunì solo alle sei di sera.
Lanciò un appello al popolo, invitandolo a sollevarsi contro Barère,
Collot, Bourdon, Amar, e mandò Coffinhal per liberare Robespierre e
i suoi amici che credeva arrestati al Comitato di sicurezza
generale. Coffinhal vi trovò solo Hanriot e lo liberò. Quanto a
Robespierre, che era stato condotto al Luxembourg per esservi
incarcerato, non vi fu accolto, e invece d'andare direttamente alla
Comune e di lanciarsi nell'insurrezione, restò inerte
all'amministrazione della polizia, Quai des Orfèvres. Saint-Just e
Lebas, liberati, si recarono alla Comune, ma Coffinhal, mandato
dalla Comune in cerca di Robespierre, dovette costringerlo quasi per
forza a venire al Palazzo di Città (verso lo otto di sera).
Il Consiglio della Comune si metteva in insurrezione, ma era
evidente che le sezioni non intendevano di sollevarsi contro la
Convenzione in favore di coloro che esse accusavano d'aver fatto
ghigliottinare Chaumette e Hébert, ucciso Jacques Roux, destituito
Pache e annientata l'autonomia delle sezioni. Del resto, Parigi
doveva sentire che la Rivoluzione moriva, e che gli uomini pei quali
il Consiglio della Comune chiamava il popolo a insorgere, non
rappresentavano nessun principio di rivoluzione popolare.
A mezzanotte, le sezioni non s'erano ancora mosse. Erano tutte
divise, dice Louis Blanc, e i loro Comitati civili non s'accordavano
coi Comitati rivoluzionari e le assemblee generali. Le quattordici
sezioni che obbedirono subito alla Comune non facevano nulla, e
diciotto sezioni, tra le quali sei vicine al Palazzo di Città, le
erano ostili. Gli uomini della sezione di Jacques Roux, i
Gravilliers, formarono anzi il nucleo principale d'una delle colonne
che mossero contro il Palazzo di Città, secondo l'ordine della
Convenzione263.
La Convenzione intanto metteva gl'insorti e la Comune «fuori della
legge», e quando quel decreto fu letto in piazza di Grève, i
cannonieri di Hanriot, che si trovavano su quella piazza senza far
nulla, se ne andarono alla spicciolata. La piazza restò deserta e il
Palazzo di Città fu tosto invaso dalla colonna dei Gravilliers e
degli Arcis. Allora un giovane gendarme, che penetrò per il primo
nella sala in cui Robespierre e i suoi amici erano riuniti, gli tirò
un colpo di pistola, spezzandogli una mascella. Il centro stesso
della resistenza, il Palazzo di Città, era invaso, senza colpo
ferire. Allora Lebas si uccide; Robespierre juniore tenta
d'uccidersi gettandosi dal terzo piano; Coffinhal inveisce contro
Hanriot ch'egli accusa di viltà e lo butta dalla finestra; SaintJust
e Couthon si lasciano arrestare.
Il domani mattina, dopo una semplice constatazione d'identità,
furono giustiziati in ventuno, dopo aver loro fatto fare un lungo
tragitto fino alla piazza della Rivoluzione, sotto gl'insulti della
folla contro rivoluzionaria. Il «bel mondo» accorso per godersi
quello spettacolo, era in festa più che nel giorno dell'esecuzione
degli Hebertisti. Sulla via del corteggio le finestre erano
affittate a prezzi favolosi. Le dame vi assistevano in gran lusso.
La reazione trionfava. La Rivoluzione era giunta alla fine.
Non staremo a raccontare le orgie del Terrore bianco, le quali
incominciarono dopo termidoro, nè i due tentativi d'insurrezione
contro il nuovo regime: il moto di pratile anno III, e la
cospirazione di Babeuf nell'anno IV.
Gli avversari del Terrore, quelli che parlavano sempre di clemenza,
la chiedevano solo per sè e per i loro partigiani. S'affrettarono,
anzitutto, a far ghigliottinare i partigiani dei Montagnardi che
avevano rovesciati. In tre giorni, 10, 11 e 12 termidoro (28, 29, 30
luglio), vi furono centotrè esecuzioni. Le denuncie, provenienti
dalla classe media, erano numerose, e la ghigliottina funzionava di
nuovo – però a favore della reazione. Dal 9 termidoro al 1° pratile,
in meno di sei mesi, 73 Girondini rientravano alla Convenzione.
Era ormai la volta dei veri «uomini di Stato». Il massimo fu ben
presto abolito, e ciò produsse una crisi violenta, durante la quale
l'aggiotaggio e la speculazione raggiunsero proporzioni gigantesche.
La borghesia faceva festa, come fece più tardi, dopo il giugno 1848
e il maggio 1871. La gioventù dorata, organizzata da Fréron,
dominava Parigi, mentre i lavoratori, vedendo la Rivoluzione vinta,
erano rientrati nelle loro stamberghe, discutendo sulle probabilità
d'un prossimo commovimento.
Tentarono una sollevazione il 12 germinale anno III (1° aprile 1795)
e il 1° pratile (20 maggio), domandando del pane e la Costituzione
del 1793. I sobborghi si sollevarono con ardore questa volta. Ma la
forza borghese aveva avuto il tempo di organizzarsi. Gli «ultimi
Montagnardi», Romme, Bourbotte, Duroy, Soubrany, Goujon e Duquesnoy,
furono condannati a morte da una commissione militare (poichè il
tribunale rivoluzionario era stato abolito), e vennero
ghigliottinati.
La borghesia signoreggiava ormai da sola la Rivoluzione e la fase
discendente continuava. La reazione divenne bentosto nettamente
realista. La truppa dorata non si teneva più nascosta: portava
liberamente l'abito grigio, dal colletto verde o nero, dei
chouans264, e colpiva tutti coloro che chiamava «terroristi», ossia
tutti i repubblicani. Era una lotta grande e minuta nello stesso
tempo. Chiunque avesse contribuito all'esecuzione del re, o al suo
arresto al momento della fuga di Varennes, chiunque avesse preso
parte in qualche modo all'assalto delle Tuileries era denunciato a
tutti i realisti e la sua vita diventava insopportabile.
Nei dipartimenti, specialmente nel Mezzogiorno, le «compagnie di
Gesù», le «compagnie del Sole» ed altre organizzazioni realiste, si
sfogavano con rappresaglie in massa. A Lione, a Aix, a Marsiglia
furono sgozzati nelle prigioni coloro che avevano partecipato al
regime precedente. «Quasi tutto il Mezzogiorno ebbe il suo 2
settembre», dice Miguet – il suo Due Settembre realista, s'intende.
Ma gli uomini delle compagnie di Gesù e del Sole, non contenti degli
eccidii in massa, davano anche la caccia all'uomo isolato. A Lione,
quando incontravano un rivoluzionario, che, designato pel massacro,
era loro sfuggito, l'uccidevano e lo gettavano nel Rodano senz'altra
forma di processo. Lo stesso accadeva a Tarascona.
La reazione saliva sempre più, e finalmente il 4 brumaio anno IV (26
ottobre 1795) la Convenzione si sciolse. Le succedeva il Direttorio,
per preparare prima il Consolato e poi l'Impero. Il Direttorio fu il
baccanale della borghesia, che spendeva in un lusso sfrenato le
ricchezze accumulate durante la Rivoluzione e specialmente dopo la
reazione di termidoro. Poichè, se la Rivoluzione aveva emesso, fino
al 9 termidoro, circa otto miliardi d'assegnati, la reazione
termidoriana nella sua corsa sfrenata aveva emesso, in quindici
mesi, la somma spaventosa di trenta miliardi d'assegnati. E facile
comprendere le fortune acquistate con queste emissioni dai
«profiteurs».
I rivoluzionari comunisti, condotti da Babeuf, tentarono ancora una
volta, nell'anno IV (maggio 1796), un'insurrezione preparata dalla
loro società segreta; ma furono arrestati prima che scoppiasse
l'insurrezione stessa. Anche il tentativo di sollevare il campo di
Grenelle nella notte del 23 fruttidoro anno IV (9 settembre 1796)
non riuscì. Babeuf e Darthé, condannati a morte, si pugnalarono
entrambi (7 pratile anno V). I realisti subirono essi pure la loro
disfatta, il 18 fruttidoro anno V (4 settembre 1797), e il
Direttorio durò ancora fino al 18 brumaio anno VIII (9 novembre
1799).
Quel giorno, Napoleone Bonaparte fece il suo colpo di Stato, e la
rappresentanza nazionale fu definitivamente soppressa senza frasi
dall'ex-sanculotto, che aveva l'esercito per sè. La guerra, che
durava da sette anni, era giunta alla sua logica conclusione. Il 28
floreale anno XII (18 maggio 1804), Napoleone si fece proclamare
imperatore, e la guerra ricominciò per durare, con qualche breve
intervallo, fino al 1815.
————
La mente geniale di Giuseppe Ferrari aveva già dato nella sua
Filosofia della Rivoluzione (2 vol., Londra, 1851) un giudizio
sull'opera di Robespierre, che collima quasi interamente con quello
di Kropotkine, salvo il grave errore di fatto che i termidoriani e i
loro successori risparmiassero il sangue. Siamo certi che il lettore
ci sarà grato di riportare qui le parole dei grande filosofo
italiano:
«La guerra contro l'ineguaglianza fu confidata a Robespierre, e
Robespierre cadde come la Costituente, perchè avviluppò la
Dichiarazione dei diritti dell'uomo in un nuovo equivoco. Uomo di
guerra, egli pensava che il nemico fosse nel governo; combatteva
nell'antico governo il dominio della religione e della proprietà,
non voleva risalire più oltre. Indi la sua impotenza.
Nella religione, Robespierre si ferma a combattere l'influenza degli
arcivescovi, dei cardinali, dell'alto clero: non combatte la
religione, imagina di subordinare gli antichi culti al deismo.
Quindi impone un Dio che non può dimostrare, che non può
manifestarsi, che non può punire, che non può ricompensare, che la
stessa metafisica non ha mai rispettato. Non basta: si agita la
questione dello stipendio del clero: e il Dio di Robespierre
protegge l'evangelio, vi trova una legge d'eguaglianza, la paga; nè
s'accorge che paga l'eguaglianza nel cielo, che paga la dottrina
dell'ineguaglianza sulla terra. V'ha di più. Il deismo di
Robespierre denunzia gli atei quai nemici della pubblica moralità,
li accusa di tradire la patria, di essere mercenari di Pitt e
dell'Austria, li trae al patibolo; Hébert è decapitato, e tutta la
reazione europea applaude al supplizio. Si svenava l'uomo che
credeva alla propria ragione; a Vienna e altrove credevasi già
possibile di aprir negoziati con Robespierre, se l'Essere supremo
continuava a regnare, avrebbe potuto benedire un concordato colla
Chiesa.
Lo stesso equivoco si riproduce a proposito della proprietà:
Robespierre sente che gli incombe di tentare la rivoluzione del
povero. Ecco le sue parole: «La feudalità è distrutta», dice egli;
«ma non per i poveri, che non possedono nulla nelle campagne
emancipate; le imposte sono distribuite con maggiore giustizia, ma
l'alleviamento è quasi insensibile per il povero; l'eguaglianza
civile è ristabilita, ma l'educazione e l'istruzione mancano al
povero. Qui si tratta della rivoluzione del povero; ma dev'essere
rivoluzione dolce, pacifica, che si compia senza spaventare la
proprietà, senza offendere la giustizia». Conveniva adunque compiere
la rivoluzione del povero, e rispettare l'antico riparto della
proprietà. Robespierre lo rispetta, non tocca la divisione delle
terre, nè il diritto di eredità; propone l'imposta progressiva, fa
adottare la legge sulle sussistenze; sono leggi utilissime, ma
esterne, non organiche. Propone l'educazione nazionale di tutti i
figli della patria a spese pubbliche; non proclama un diritto
immediato, urgente, che diriga un'azione politica, nella quale il
povero si trovi sciolto dalle catene dell'antico riparto.
L'eguaglianza svaniva in parole, in vuote predicazioni;
l'ineguaglianza delle fortune sacrificava il povero al ricco,
l'eredità perpetuava la classe degli oziosi, la libertà del plebeo
rimaneva oppressa dal ricco, mentre la sua ragione rimaneva alienata
in Dio.
Da ultimo, il doppio equivoco religioso ed economico si riproduceva
nel governo. Robespierre trovavasi alle prese con una sedizione
invisibile, sempre rinascente, universale; essa lo assaliva negli
eserciti, nelle città, nelle campagne, nel seno stesso della
Convenzione; la causa secondaria della sedizione era nell'antico
regime, la causa prima era nell'eredità: non erano solo i nobili, i
preti e i faccendieri che cospirassero, erano le fortune fondate
nell'antico regime. Robespierre è sublime quando denunzia i nemici
della patria, mai la morale non ispirò più poderoso pensiero, il
delitto impallidiva, la regia cospirazione sentivasi fulminata e
avvilita. Pure la morale, staccata dal disegno di una riforma
economica, cadeva nel vago, non afferrava i nemici della
rivoluzione, ravvisandoli al segno evidentissimo della ricchezza;
Robespierre era ridotto ad accusare le intenzioni, a sospettare le
tendenze. Voleva incatenare i giornalisti, i mendichi; s'irritava
contro la legalità antica che gli sottraeva il nemico, s'irritava
contro la legge equivoca da lui stesso voluta, uccideva le persone,
lasciava vivere il sistema avverso. Robespierre credeva al popolo,
lo aveva armato, gli aveva detto che ogni governo è un commesso, che
deve essere sempre sospetto; e non dubitava punto di esser più che
un governo, di essere dittatore, di essere l'antico censore, il
pontefice antico da lui fulminato. Ma la moltitudine che lo circonda
lo giudica dalle opere; lo vuol dittatore perchè denunzia i nemici
della patria; il popolo venera l'uomo incorruttibile che vuol verace
la guerra allo straniero, l'inquisitore giustissimo che invia al
patibolo i sediziosi della corte e del clero. Il popolo non s'avvede
che Robespierre vuole la rivoluzione del povero, perchè non ne vede
patente il programma; la metafisica di Rousseau vela Robespierre a
tutti, a lui stesso; e quando la patria più non è in pericolo,
Robespierre soccombe, non è difeso, non ha più ragione d'essere.
Dacchè trattavasi solo di combattere l'antico governo, meno la
religione, meno la proprietà, altrettanto valevano i termidoriani e
i loro successori, i quali, in quanto risparmiavano il sangue, erano
migliori del deputato d'Arras».
CONCLUSIONE
Quando si è visto la Convenzione francese, così terribile e potente,
decadere nel 1794-1795, la Repubblica, così fiera e piena di forze,
scomparire, e la Francia finire nel 1799, dopo il regime
demoralizzante del Direttorio, sotto il giogo militare d'un
Bonaparte, si è tentati di chiedere: «A che serve la Rivoluzione, se
la nazione deve ricadere nuovamente sotto il giogo?» E, nel corso
del diciannovesimo secolo, non si è mancato di fare questa domanda,
che i timidi e i soddisfatti hanno sfruttata a gara come un
argomento contro le rivoluzioni in generale.
Le pagine precedenti ci danno la risposta. Solo coloro che non hanno
visto nella Rivoluzione che un cambiamento di governo, coloro che ne
hanno ignorato l'opera economica come l'opera educativa, solo coloro
hanno potuto fare una simile domanda.
La Francia che noi troviamo negli ultimi giorni del diciottesimo
secolo, al momento del colpo di Stato del 18 brumaio, non è più la
Francia d'un tempo, prima del 1789. Forse che questa Francia
orribilmente povera, con un terzo della sua popolazione colpita ogni
anno dalla carestia, avrebbe potuto sopportare le guerre
napoleoniche, venute dopo le guerre terribili che la Repubblica
dovette sostenere dal 1793 al 1799, quando l'Europa intera le era
nemica?
È una nuova Francia che si costituisce dal 1792, 1793. La carestia
regna ancora in molti dipartimenti, e si fa sentire con tutti i suoi
orrori dopo il colpo di Stato di termidoro, quando il massimo del
prezzo dei viveri è abolito. Vi sono sempre i dipartimenti che non
producono abbastanza grano per nutrirsi, e siccome la guerra
continua, impiegando tutti i mezzi di trasporto, sono condannati
alla carestia. Ma tutto contribuisce a provare che la Francia
produce già in derrate d'ogni genere molto di piùol di quanto
produceva nel 1789.
Mai la coltura fu tanto energica, dice Michelet, come nel 1792,
quando il contadino tracciava il solco sulle terre che aveva riprese
ai signori, ai conventi, alle chiese, e spingendo col pungolo i buoi
gridava, Allons, Prusse! allons, Autriche! (Avanti, Prussia! avanti
Austria!) Non si sono mai dissodate tante terre, – e gli stessi
scrittori monarchici lo ammettono, – come durante gli anni di
rivoluzione. La prima buona raccolta, nel 1794, produsse l'agiatezza
in due terzi della Francia. Nei villaggi, ben inteso, perchè le
città erano sempre soggette a mancare di viveri. Non già che ne
mancassero in Francia, o che le municipalità dei sanculotti non
avessero preso tutte le misure necessarie per nutrire coloro che non
trovavano lavoro, ma perchè tutte le bestie da tiro non adibite alla
cultura, servivano a portare ai quattordici eserciti della
Repubblica le provvigioni e le munizioni. Non c'erano ferrovie in
quel tempo, e le strade secondarie si trovavano nello stato in cui
sono oggi in Russia.
Una nuova Francia era nata durante i quattro anni di Rivoluzione.
Per la prima volta, dopo tanti secoli, il contadino non soffriva la
fame. Rialzava il dosso curvo! Osava parlare! Leggete i rapporti
particolareggiati sul ritorno di Luigi XVI, ricondotto da Varennes a
Parigi prigioniero, nel giugno 1791, e dite: Cosa simile, tanto
interesse per la cosa pubblica, tanto zelo per essa, tanta
indipendenza di giudizio, sarebbero stati possibili prima del 1789?
Una nuova nazione era nata, proprio come in questo momento vediamo
nascere una nuova nazione in Russia, in Turchia.
Ed è grazie a questa nuova nascita che la Francia fu capace di
sopportare le guerre della Repubblica e di Napoleone e di portare i
principii della Grande Rivoluzione in Isvizzera, in Italia, nella
Spagna, nel Belgio, nell'Olanda, in Germania – sino ai confini della
Russia. E quando, dopo tutte queste guerre, dopo aver seguito le
armate francesi fino in Egitto, fino a Mosca, si crede di trovare
nel 1815 una Francia impoverita, ridotta a una miseria spaventevole,
devastata, le sue campagne invece – quelle pure dell'Est e del Giura
– sono ben più ridenti che non lo fossero al tempo in cui Pétion,
mostrando a Luigi XVI le più ricche rive della Marna, gli chiedeva
se vi fosse al mondo un impero più bello di quello a cui il re aveva
rinunciato. L'energia propria d'ogni villaggio è tale, che in alcuni
anni la Francia diventa il paese dei contadini agiati, e in breve si
scopre che malgrado tutti i salassi, tutte le perdite, è il paese
più ricco d'Europa per la sua produttività. Le sue ricchezze le
ricava non dalle Indie o dal commercio lontano, ma dal suo suolo,
dal suo amore del suolo, dalla sua abilità e dalla sua industria. È
il paese più ricco per la suddivisione delle sue ricchezze, più
ricco ancora per le possibilità che offre per l'avvenire.
Ecco l'effetto della Rivoluzione. E se un occhio distratto non vede
nella Francia napoleonica che l'amore della gloria, lo storico vi
scopre che le guerre stesse sopportate dalla Francia in questo
periodo, le fa per assicurarsi i frutti della Rivoluzione: le terre
riprese ai signori, ai preti, ai ricchi, le libertà riprese al
dispotismo, alla Corte. Se la Francia è pronta a dar fin l'ultima
goccia di sangue, solamente per impedire che tedeschi, inglesi e
russi le impongano un Luigi XVIII, è perchè vuole impedire che il
ritorno degli emigrati realisti significhi la ripresa da parte dei
ci-devant delle terre, già bagnate dal sudore dei contadini, delle
libertà, già bagnate dal sangue dei patriotti. E lotta così bene,
durante ventitrè anni, che quando è costretta di ricevere i Borboni,
impone loro delle condizioni: I Borboni potranno regnare, ma le
terre resteranno di coloro che le hanno riprese ai signori feudali;
anche il Terrore bianco dei Borboni non oserà toccarle. Il vecchio
regime non sarà ristabilito.
Ecco cosa si guadagna a fare una Rivoluzione.
E non è tutto.
Nella storia dei popoli, giunge un periodo in cui un profondo
cambiamento s'impone in tutta la vita della nazione. La monarchia
dispotica e la feudalità s'avviavano alla morte nel 1789: non era
più possibile mantenerle; bisogna rinunciarvi.
Ma allora due vie s'aprivano: la riforma o la rivoluzione.
Vi è sempre un momento in cui la riforma è ancora possibile. Ma se
non si è approfittato di questo momento, ostinandosi a resistere
alle esigenze della vita nuova, fino all'istante in cui il sangue ha
dovuto scorrere nelle vie, come era scorso il 14 luglio 1789, –
allora si ha la Rivoluzione. E una volta che questa comincia, dovrà
necessariamente svilupparsi sino alle sue ultime conseguenze, –
ossia sino al punto che sarà capace di raggiungere, non fosse che
temporaneamente, dato lo stato degli spiriti in quel momento della
storia.
Se rappresentiamo il lento progresso d'un periodo d'evoluzione con
una linea tracciata sulla carta, vedremo questa linea salire
gradualmente, lentamente. Ma ecco venire una Rivoluzione – la linea
con una scossa sale ad un tratto. Sale, in Inghilterra, fino alla
Repubblica puritana di Cromwell; in Francia, fino alla Repubblica
dei sanculotti del 1793. Ma a tanta altezza il progresso non può
mantenersi; le forze che sono ostili alla Repubblica si uniscono per
abbatterla, ed essa cede; la linea discende. Giunge la reazione. In
politica, almeno, la linea del progresso cade molto in basso. Ma
poco a poco si rialza, e quando ritorna la pace, – nel 1815 in
Francia, nel 1688 in Inghilterra, – l'una e l'altra sono già a un
livello molto più elevato di quello a cui erano prima della
Rivoluzione.
L'evoluzione ricomincia; la nostra linea salirà di nuovo lentamente;
ma questa salita avverrà da un livello molto superiore a quello in
cui avveniva prima del sommovimento; quasi sempre sarà più rapida.
È una legge del progresso umano, del progresso pure d'ogni
individuo. La storia moderna della Francia, che attraverso la Comune
giunge alla Terza Repubblica, conferma ancora questa stessa legge.
L'opera della Rivoluzione francese non si limita soltanto a ciò che
ha ottenuto e a quello che si è mantenuto in Francia; si ritrova
pure nei principii che ha trasmessi al secolo seguente, nel primo
passo verso un più grande avvenire.
Una riforma resta sempre un compromesso col passato; ma un progresso
compiuto per vie rivoluzionarie è sempre una promessa di nuovi
progressi. Se la Grande Rivoluzione francese riassume un secolo
d'evoluzione, è dessa che a sua volta traccia il programma
dell'evoluzione che si compirà in tutto il corso del diciannovesimo
secolo. È una legge della storia, che il periodo di cento o
centotrent'anni circa, più o meno, – che passa tra due grandi
rivoluzioni, riceva l'impronta dalla rivoluzione che l'ha iniziato.
I popoli tenteranno di realizzare nelle loro istituzioni l'eredità
lasciata dall'ultima rivoluzione. Tutto quanto non ha potuto mettere
in pratica, tutte le grandi idee che sono state messe in
circolazione durante il sommovimento, e alle quali la Rivoluzione
non ha potuto o saputo dar vita, tutti i tentativi di ricostruzione
sociologica che hanno visto la luce durante la Rivoluzione, – tutto
ciò sarà il contenuto dell'evoluzione durante l'epoca che seguirà la
rivoluzione. Non vi saranno in più che tutte le idee nuove che
questa evoluzione farà sorgere, quando cercherà di mettere in
pratica il programma ereditato dall'ultimo fermento. Poscia, una
nuova grande rivoluzione si farà in un'altra nazione, che, a sua
volta, formulerà il problema pel secolo a venire.
Tale è stata sino ad oggi la marcia della storia.
Due grandi conquiste caratterizzano infatti il secolo che è scorso
dopo gli anni 1789-1793. L'una e l'altra hanno la loro origine nella
Rivoluzione francese, che riprese per suo conto l'opera della
Rivoluzione inglese, allargandola e vivificandola con tutto il
progresso compiuto, da quando la borghesia inglese, decapitato il
suo re, aveva trasferito il potere nelle mani del Parlamento. Queste
due grandi conquiste sono l'abolizione del servaggio e l'abolizione
del potere assoluto, che conferivano all'individuo delle libertà
personali cui non osavano pensare il servo e il suddito del re, e
producevano, nello stesso tempo, lo sviluppo della borghesia e del
regime capitalista.
Esse rappresentano l'opera principale del diciannovesimo secolo.
Iniziata in Francia nel 1789, si diffuse lentamente in tutta Europa
nel corso del secolo appena tramontato.
L'opera di liberazione, cominciata dai contadini francesi nel 1789,
fu continuata in Ispagna, in Italia, in Isvizzera, in Germania e in
Austria dagli eserciti dei sanculotti. Disgraziatamente penetrò
appena in Polonia e non toccò affatto la Russia.
Il servaggio sarebbe scomparso fin dalla prima metà del
diciannovesimo secolo, se la borghesia francese giungendo al potere
nel 1794 sui cadaveri degli «anarchici» dei Cordiglieri e dei
Giacobini, non avesse arrestato l'impulso rivoluzionario,
ristabilita la monarchia e consegnata la Francia al ciurmatore
imperiale, al primo Napoleone. L'ex-generale dei sanculotti si
affrettò a consolidare l'aristocrazia. Ma lo slancio era stato dato
e l'istituzione del servaggio aveva ricevuto un colpo mortale. Lo si
abolisce in Italia e in Ispagna, malgrado il trionfo temporaneo
della reazione. Gravemente colpito in Germania già nel 1811,
scomparve definitivamente nel 1848. La Russia si vide costretta
d'emancipare i suoi servi nel 1861 e la guerra del 1878 segnò la
fine del servaggio nella penisola dei Balcani.
Il ciclo è ora compiuto. Il diritto del signore sulla persona del
contadino non esiste più in Europa, anche laddove il riscatto dei
diritti feudali non è interamente compiuto.
Gli storici trascurano questo fatto. Assorti nelle questioni
politiche, non s'accorgono dell'importanza dell'abolizione del
servaggio, benchè sia il tratto essenziale del diciannovesimo
secolo. Le rivalità tra nazioni e le guerre che ne furono la
conseguenza, la politica delle grandi nazioni di cui si discorre
tanto, tutto ciò deriva da un gran fatto: l'abolizione della servitù
personale e lo sviluppo del salariato che l'ha sostituita.
Il contadino francese, ribellandosi, più di cent'anni fa, contro il
signore che gl'ingiungeva di battere gli stagni per impedire i
ranocchi di gracidare durante il suo sonno, ha liberato così i
contadini d'Europa. Bruciando le cartaccie in cui era consegnata la
sua sommissione, incendiando i castelli e mettendo a morte durante
quattro anni i signori che rifiutavano di riconoscere i suoi diritti
all'umanità, ha dato una spinta a tutta Europa, oggi liberata
dovunque dall'istituzione umiliante del servaggio.
Inoltre, l'abolizione del potere assoluto ha pure messo cent'anni a
fare il giro d'Europa. Attaccato già nel 1648 in Inghilterra e vinto
in Francia nel 1789, il potere reale di diritto divino oggi non si
esercita più che in Russia; ma anche là, sta agonizzando. Perfino i
piccoli Stati dei Balcani hanno in oggi le loro assemblee di
rappresentanti. L'ultima fu la Turchia, e la Russia entra nello
stesso ciclo.
Così, sotto questo rapporto, la Rivoluzione degli anni 1789-1793 ha
assolto il suo còmpito. L'uguaglianza davanti la legge e il governo
rappresentativo si trovano inscritti in quasi tutti i codici
d'Europa. In teoria, almeno, la legge è uguale per tutti, e tutti
hanno il diritto di partecipare, più o meno, al governo.
Il re assoluto – padrone dei suoi sudditi – e il signore – padrone
del suolo e dei contadini per diritto di nascita – sono scomparsi.
La borghesia regna in Europa.
Ma nello stesso tempo, la Grande Rivoluzione ci ha tramandato altri
principii, d'un valore assai più grande i principii comunisti. Noi
abbiamo visto come, durante tutta la Rivoluzione, l'idea comunista
ha cercato di farsi strada, e come, dopo la caduta dei Girondini,
numerosi tentativi e talvolta vasti tentativi furono fatti in questo
senso. Il fourierismo procede in linea diretta, da un lato, da
L'Ange e, dall'altro, da Chalier. Babeuf è figlio delle idee che
appassionarono le masse popolari nel 1793. Egli, Buonarroti, Sylvain
Maréchal non hanno fatto che sistemarle un poco, oppure
semplicemente esporle in forma letteraria. Ma le società secrete di
Babeuf e di Buonarroti diventano l'origine delle società secrete dei
«comunisti-materialisti», in cui Blanqui e Barbès cospirano sotto la
monarchia borghese di Luigi Filippo. Più tardi per figliazione
diretta ne uscirà l'Internazionale.
Quanto al «socialismo», oggi si sa che questa parola fu messa in
voga per evitare la parola «comunismo», pericolosa ad una certa
epoca, perchè le società secrete comuniste, divenute società
d'azione, erano perseguitate ad oltranza dalla borghesia governante.
Così si constata una figliazione diretta dagli «Arrabbiati» del 1793
e da Babeuf (1795) sino all'Internazionale.
Ma vi è pure figliazione nelle idee. Il socialismo moderno non ha
nulla, assolutamente nulla aggiunto finora alle idee che circolavano
nel popolo francese dal 1789 al 1794, e che il popolo francese tentò
di mettere in pratica durante l'anno II della Repubblica. Il
socialismo moderno ha solamente trasformato in sistemi queste idee e
trovato degli argomenti in loro favore, sia ritorcendo contro gli
economisti certe loro proprie definizioni, sia generalizzando i
fatti dello sviluppo del capitalismo industriale nel corso del
diciannovesimo secolo.
Ma mi permetterò d'affermare che, per quanto fosse vago, per quanto
mancasse d'argomenti cosidetti scientifici e per quanto poco usasse
il frasario pseudoscientifico degli economisti borghesi, il
comunismo popolare dei due primi anni della Repubblica aveva vedute
più chiare e analisi più profonde del socialismo moderno. Era
anzitutto il comunismo nel consumo – la municipalizzazione e la
nazionalizzazione del consumo – cui miravano i fieri repubblicani
del 1792, quando volevano stabilire i loro magazzeni di grani e di
commestibili in ogni comune, quando facevano un'inchiesta per
fissare il «vero valore» degli oggetti di «prima e di seconda
necessità», e quando ispiravano a Robespierre le parole profonde che
il superfluo solo delle derrate poteva essere oggetto di commercio;
ma il necessario apparteneva a tutti.
Nato dalle necessità stesse della vita burrascosa di quegli anni, il
comunismo del 1793, con la sua affermazione del diritto di tutti ai
viveri, ed alla terra per produrli, la sua negazione di diritti
fondiari all'infuori di ciò che una famiglia poteva coltivare essa
stessa (il podere di «120 jugeri, misura di 22 piedi»), e il suo
tentativo – di municipalizzare il commercio, – questo comunismo
andava più in fondo delle cose che tutti i programmi minimi ed anche
i considerandi massimi del nostro tempo.
Ad ogni modo, ciò che si impara oggi studiando la Grande
Rivoluzione, è che fu la fonte di tutte le concezioni comuniste,
anarchiche e socialiste della nostra epoca. Non conosciamo ancor
bene la nostra madre di noi tutti; ma la ravvisiamo oggi in mezzo ai
sanculotti, e comprendiamo quanto ci resta da imparare da lei.
L'umanità cammina di tappa in tappa, e queste tappe sono segnate da
parecchie centinaia d'anni da grandi rivoluzioni. Dopo i Paesi
Bassi, dopo l'Inghilterra che fece la sua Rivoluzione negli anni
1648-1657, fu la volta della Francia.
Ogni grande rivoluzione ha avuto, inoltre, qualche cosa d'originale,
di speciale. L'Inghilterra e la Francia hanno abolito, l'una e
l'altra, l'assolutismo reale. Ma facendolo, l'Inghilterra si è
preoccupata dei diritti personali dell'individuo, – soprattutto in
materia di religione, – come pure dei diritti locali d'ogni
parrocchia e d'ogni comune. La Francia ha avuto soprattutto in vista
la questione fondiaria, e colpendo al cuore il regime feudale, ha
colpito pure la grande proprietà e gettato nel mondo l'idea di
nazionalizzare il suolo e socializzare il commercio e le principali
industrie.
Quale sarà la nazione che assumerà il còmpito terribile e glorioso
della prossima grande rivoluzione? Si è potuto credere un momento
che sarebbe la Russia. Ma, se essa spinge la sua rivoluzione oltre
una semplice limitazione del potere imperiale, – se essa tocca
rivoluzionariamente alla grande questione fondiaria, – fin dove si
avanzerà? Saprà essa evitare l'errore delle assemblee francesi, e
darà il suolo, socializzato, a coloro che vogliono coltivarlo con le
loro braccia? – Non lo sappiamo. Bisognerebbe essere profeti per
rispondere a questa domanda.
Una cosa è ben certa, ed è che qualunque sia la nazione che entrerà
oggi nella via delle rivoluzioni, sarà l'erede di ciò che hanno
fatto i nostri avi in Francia. Il sangue che hanno versato, l'hanno
versato per l'umanità. Le sofferenze che hanno subite, le hanno
subite per l'umanità intera. Le loro lotte, le idee che hanno
lanciate, il cozzo di queste idee, – tutto ciò è il patrimonio
dell'umanità. Tutto ciò ha dato i suoi frutti e ne darà ben altri
ancora, assai più belli, aprendo all'umanità larghi orizzonti, con
queste parole: Libertà, Uguaglianza, Fratellanza, lucenti come un
faro verso cui marciamo.
FINE
INDICE
XXXIV. L'interregno. – I tradimenti
XXXV. Le giornate di settembre
XXXVI. La Convenzione. – La Comune. – I Giacobini.
XXXVII. Il Governo. – Lotte intestine alla Convenzione. – La guerra
XXXVIII. Il processo del re
XXXIX. Montagna e Gironda
XL. Sforzi dei Girondini per arrestare la Rivoluzione
XLI. Gli «Anarchici»
XLII. Cause del movimento del 31 maggio
XLIII. Rivendicazioni sociali. – Stato d'animo a Parigi. – Lione
XLIV. La guerra. – La Vandea. – Tradimento di Dumouriez
XLV. Nuova sollevazione resa inevitabile
XLVI. Sommossa del 31 maggio e del 2 giugno
XLVII. La Rivoluzione popolare. – Il prestito forzato.
XLVIII. Le terre comunali. – Cosa ne fece l'Assemblea Legislativa
XLIX. Le terre sono restituite ai Comuni
L. Abolizione definitiva dei diritti feudali
LI. Beni nazionali
LII. Lotte contro la carestia. – Il «massimo». – Gli assegnati
LIII. La contro rivoluzione in Brettagna. – Assassinio di Marat
LIV. La Vandea. – Lione. – Il Mezzogiorno
LV. La guerra. – L'invasione respinta
LVI. La Costituzione. – Il Governo rivoluzionario
LVII. Esaurimento dello spirito rivoluzionario
LVIII. Il movimento comunista
LIX. Idee sulla socializzazione della terra, delle industrie, delle
sussistenze e del commercio
LX. Fine del movimento comunista
LXI. Costituzione del Governo centrale – Le rappresaglie
LXII. Istruzione. – Sistema metrico. – Nuovo calendario. – Tentativi
antireligiosi.
LXIII. Le sezioni schiacciate
LXIV. Lotta contro gli Hebertisti
LXV. Caduta degli Hebertisti. – DecapitazioneDanton
LXVI. Robespierre e il suo gruppo.
LXVII. Il Terrore
LXVIII. Il 9 termidoro. – Trionfo della reazione
CONCLUSIONE.