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PIETRO KROPOTKINE

LA CONQUISTA DEL PANE
Prefazione di ELISEO RÉCLUS

Traduzione di GIUSEPPE CIANCABILLA

LIBRERIA INTERNAZIONALE D'AVANGUARDIA
BOLOGNA
AI LETTORI


     Innanzi alle pagine magistrali di Eliseo Réclus, sarebbe pretenzioso ogni altro tentativo di prefazione.
     Più utile ed opportuno parmi sia il tratteggiare in cenni riassuntivi l'interessante biografia di Pietro Kropotkin.
     Egli appartiene a principesca famiglia russa, discendente in linea retta dagli antichi principi feudatari della casa reale di Rurigo. Nella sua qualità di nobile imparentato colla Corte, fu ammesso agli studi nell'imperial collegio, detto dei Paggi, ove terminò il suo corso nel 1861.
     Avrebbe potuto allora entrare alla Corte degli Czar, e percorrere ivi, negli agi e nelle facili sodisfazioni della superba vita cortigiana, una splendida carriera. Ma lo studioso vinse in lui l'aristocratico. Ed eccolo, appena terminati i suoi studi giovanili, partir per la gelida Siberia a compiere nuovi studi di geologia, servendo anche come ufficiale, in un reggimento di cosacchi.
     Trascorse colà vari anni, prendendo parte a diverse spedizioni scientifiche, e acquistando profonde e vaste cognizioni che poi gli furono utili ne' suoi lavori di collaborazione col compagno, l'insigne geografo Eliseo Réclus.
     Tornato a Pietroburgo, Pietro Kropotkin fu subito nominato membro e segretario della Società Geografica Russa, e in tale qualità compì molti lavori scientifici rinomatissimi, e diede principio alla sua opera colossale sui ghiacciai della Finlandia, opera che doveva poi terminare in prigione, nella fortezza dei Santi Pietro e Paolo. Scoppiata l'insurrezione della Polonia, Kropotkin indignato del contegno barbaro del governo russo, diede le dimissioni da ufficiale dell'esercito.
     Nell'anno 1872 Kropotkin viaggiò, nel Belgio e nella Svizzera. Era appunto l'epoca in cui, specialmente in quest'ultimo paese, l'Internazionale faceva parlare di sè. Era avvenuta la celebre scissione fra Marx e Bakounine al Congresso dell'Aia, dopo che al Congresso di Berna gli anarchici avevano tracciate le linee generali del loro programma e della loro tattica, che respingeva ogni partecipazione all'azione politica che consolidasse la forma di Stato, cioè al Parlamentarismo. La Federazione Giurassiana era nel suo pieno vigore.
     Kropotkin, che già professava idee liberali ed avanzate, si trovò facilmente preso in quel movimento grandioso d'uomini e d'idee, e nel suo spirito aperto e scevro di preconcetti non tardò a farsi strada la concezione anarchica ch'egli accettò risolutamente, e alla cui propaganda si consacrò senza riserve.
     Infatti rientrato in Russia, eccolo partecipare a quel movimento rivoluzionario e far parte del gruppo dei «Ciakovzki», il più affine alle sue idee. Fu anzi incaricato di scrivere il programma di questo partito e della sua organizzazione.
     Non potendo resistere alla febbre dell'agitazione e della propaganda rivoluzionaria, eccolo fin da quell'anno istesso, 1872, nascondere il suo vero essere sotto le vesti d'operaio, partecipare alla vita dei lavoratori del distretto di Alessandro Newsky, e tenere una serie di conferenze clandestine in forma popolare, per sviluppare nella massa incosciente l'idea del socialismo libertario. Si faceva chiamare «Boradin» ed era così diventato lo spettro rosso della polizia russa, la quale dappertutto lo andava cercando, senza riuscire a mettergli le mani addosso.
     Finalmente l'anno seguente, 1873, per la delazione di un operaio vendutosi alla polizia, fu arrestato... E quale fu mai la sorpresa amara del governo, della polizia, e principalmente della Corte, quando si seppe che il temuto agitatore rivoluzionario «Boradin» non era che l'illustre scienziato, l'ex ufficiale, il principe Kropotkin, discendente di sangue reale e imparentato colla Corte stessa?
     Si dice che l'imperatore Alessandro II la masticasse molto male, e quasi quasi avrebbe preferito lasciare il temuto «Boradin» alla sua propaganda anzicchè vedersi scoppiare intorno un tale scandalo inaudito!
     In ogni modo, appunto per lo sdegno che nel governo suscitò il contegno di questo principe degenere e ribelle, a Pietro Kropotkin nulla giovarono i vantaggi della sua posizione, ma furono anzi per lui un'aggravante.
     Come ogni altro delinquente, fu rinchiuso nella terribile e tristamente celebre fortezza de' Santi Pietro e Paolo, ove rimase per tre lunghi anni, dal '73 al '76; e forse vi gemerebbe ancora, o vi sarebbe morto ignorato e oscuro, come tanti suoi fratelli e compagni di sventura, se nel luglio del '76, coll'aiuto del suo amico e compagno Dott. Weimar, non fosse riuscito a fuggire da quell'ergastolo effettuando un piano di fuga dei più romanzeschi ed audaci, da lui stesso concepito.
     Non ripeterò qui il racconto di quella fuga, così celebre per la ammirevole descrizione che ce ne ha fatta Stepniak ne' suoi bozzetti della «Russia sotterranea».
     Da quel momento cominciò per Kropotkin la tumultuosa ed incerta vita dell'esiliato. Le prove sofferte in patria, non l'avevano punto fiaccato, ma, come succede delle tempre nobili e generose, l'avevano rafforzato. Ed eccolo darsi all'instancabile propaganda dell'Idea, attraverso l'Europa, in Isvizzera, Francia, Belgio. Eccolo fondare a Ginevra, insieme con Grave e Réclus, il «Révolté», il cui primo numero porta la data del 22 febbraio 1879. Eccolo espulso dall'Austria, dall'Italia, dalla Svizzera stessa!
     Eccolo in Francia, arrestato sulla fine del 1882, e coinvolto, anzi parte principale del celebre processo di Lione contro gli anarchici, insieme con Emilio Gautier, Tressaud, Martin, Fager, Sala ed altri. La splendida dichiarazione di principii che gli accusati fecero dinanzi a quel tribunale meriterebbe di essere qui riprodotta per intero, se non temessi di dilungarmi troppo.
     Le pene che il tribunale di Lione pronunciò contro quegli audaci che avevano osato reclamare «il pane per tutti, la scienza per tutti, il lavoro per tutti, e per tutti anche l'indipendenza e la giustizia» furono severissime. Kropotkin fu condannato a 5 anni di prigione e destinato alla casa di pena di Clairvaux.
     E questa novella prova rafforza, invece di fiaccare, lo spirito gagliardo del nostro compagno. Liberato nel 1886, per l'amnistia accordata da Grévy, dopo la sua rielezione a Presidente della Repubblica, egli corre a Parigi, ove riprende la penna, ove si agita con la parola, aprendo una tribuna popolare alla sala Levis, nel quartiere di Batignolles.
     Corre quindi in Inghilterra, a Newcastle, dove parla innanzi a 4000 persone che acclamano, con lui, all'Anarchia.
     Ed espulso ancora dalla Francia non gli resta che rifugiarsi nella grande pace di Londra nebbiosa.
     Sarebbe lungo enumerare qui lo splendido contributo di opere di genio che Kropotkin ha dato alla scienza e all'Anarchia.
     La «Conquête du pain», di cui pubblichiamo la traduzione, le «Paroles d'un Révolté», omaggio reso a Kropotkin, durante il suo incarceramento di Clairvaux, dall'amicizia solidale di Eliseo Réclus, che raccolse sotto quel titolo una collana di studi sociali dal 1879 al 1882, l'«Anarchie, sa philosophie, son idéal», una delle più chiare ed insieme più concettose esposizioni del contenuto filosofico, scientifico e idealistico dell'Anarchia, la meravigliosa conferenza sulle «Prigioni» pronunziata a Parigi subito dopo la sua liberazione dal carcere, e infine, una serie incessante di articoli storici e sociali, di studi geniali e profondi, come la «Morale anarchiste», «l'Etat et son rôle historique», «le Césarisme» «La Grande Révolution» «Les Temps Nouveaux», ecc., tradotti e diffusi in tutte le lingue, sono le pietre miliari della via prodigiosa che il nostro compagno ha fatto percorrere trionfalmente all'ideale anarchico, nel dominio della scienza, della sociologia, della filosofia, della storia!
     Come scienziato profondo e come letterato geniale e poliglotta, Kropotkin collabora alle principali pubblicazioni e riviste francesi, inglesi, tedesche, russe e americane. La conosciutissima Nineteenth Century di Londra l'ha tra i suoi scrittori più accetti e desiderati.
     Ed egli, il sereno e profondo agitatore dell'anarchismo, se ne vive ora dedito interamente alle sue cure di studioso, di pensatore e di scrittore, insieme con la sua forte compagna e con la gentile figliola, nel quieto romitaggio di Viola, a Bromley, nel Kent, a un'ora circa di distanza da Londra.
     Uscendo a sud-est dalla bolgia fumosa della metropoli inglese, lo spirito s'allarga a poco a poco e si purifica, come il cielo che si fa a mano a mano più aperto, più limpido, più azzurro, finchè si spalanca in una immensa radiosità di splendori sul verde cupo della contea di Kent.
     Involontariamente l'animo si predispone a ricevere un'impressione di serenità e di pace da tutte le cose e da tutti gli esseri. E questa impressione di serenità s'intensifica quando, varcata la soglia di «Viola Cottage», respirate l'incantevole dolcezza di quella pace tranquilla fatta di tante cose, dell'azzurro del cielo, del verde degli alberi, del silenzio del luogo, della gradita conversazione di Pietro, del sorriso buono della sua compagna e dell'amabilità della sua figliuola.
     Al ritorno invece il contrario. A mano a mano che il treno si ingolfa nel dedalo di binari irreticolato sul mare sudicio delle tettoie londinesi, il cuore si stringe, la realtà brusca vi riprende, la lotta vi riafferra colle sue amarezze, i suoi dolori, i suoi disinganni.
     
     G. CIANCABILLA
     

PREFAZIONE



     Pietro Kropotkin m'ha domandato di scrivere qualche parola d'introduzione alla sua opera, ed io cedo al suo desiderio, benchè mi senta un poco imbarazzato nel farlo.
     Nulla potendo aggiungere alla massa d'argomenti ch'egli porta nel suo lavoro, io rischio d'indebolire la forza delle sue stesse parole. Ma l'amicizia mi scusa. Quando pei repubblicani francesi è di uno squisito buon gusto il prosternarsi ai piedi dello czar, io preferisco avvicinarmi a quegli uomini liberi ch'egli farebbe flagellare a vergate, e chiuderebbe in una segreta di fortezza, o farebbe impiccare in un tetro cortile di prigione. Con questi amici io dimentico per un momento l'abbiezione di quei rinnegati che nella loro gioventù si scalmanavano, sino a perdere il fiato, nel gridar: Libertà! Libertà! e che ora s'industriano a mescolare insieme le due arie della «Marsigliese» e di «Boje Tzara Khrani».(1)
     L'ultimo lavoro di Kropotkin, le «Paroles d'un Révolté» era consacrato soprattutto a una critica infiammata della società borghese, così feroce ed insieme così corrotta, e faceva appello alle energie rivoluzionarie contro lo Stato e il regime capitalista. L'opera attuale, facendo seguito alle «Paroles», è intonata a un motivo più calmo. Egli si rivolge agli uomini di buona volontà, i quali desiderano di collaborare onestamente a trasformar la società, e loro espone a grandi linee le fasi della storia imminente che ci permetteranno di far sorgere la famiglia umana sulle rovine delle banche e degli Stati.
     Il titolo del libro; La Conquista del Pane dev'essere inteso nel senso più largo, perchè «l'uomo non vive soltanto di pane». In un'epoca in cui i generosi e i forti tentano di trasformare il loro ideale di giustizia sociale in realtà vivente, la nostra ambizione non si limita a conquistare soltanto il pane, sia pure corroborato di vino e di sale. Bisogna conquistare ancora tutto ciò che è necessario o anche semplicemente utile a renderci la vita confortata e gradevole; bisogna che noi possiamo assicurare a tutti il pieno soddisfacimento dei bisogni e delle gioie della vita. Finchè noi non avremo fatto questa prima «conquista», finchè «vi saranno tra noi dei poveri», il voler dare il nome di «società» a questo insieme di esseri umani che si odiano e si distruggono a vicenda, come bestie feroci, rinchiuse in un'arena, non è che un'irrisione amara.
     Sin dal primo capitola del suo libro, l'autore ci enumera le immense ricchezze che sono già in possesso dell'umanità e i prodigiosi strumenti del macchinario ch'essa ha conquistato per il lavoro collettivo. I prodotti che ogni anno si ricavano basterebbero largamente a fornire il pane a tutti gli esseri, e qualora l'enorme capitale delle città e delle case, dei campi coltivabili, delle officine, dei mezzi di trasporto e delle scuole diventasse proprietà comune, invece di essere conservato in proprietà privata, l'agiatezza sarebbe facilmente raggiunta: le forze che sono a nostra disposizione verrebbero applicate, non in lavori inutili e contradditorii, ma per produrre tutto ciò che all'uomo necessita, in fatto di alimenti, alloggio, vestiti, benessere, studio delle scienze, coltura delle arti.
     Però la riconquista degli umani possessi, l'espropriazione, in una parola, non può effettuarsi che per mezzo del comunismo anarchico: bisogna mettersi all'opera di rinnovamento sociale, seguendo la propria iniziativa ed aggruppandosi, secondo le proprie affinità, i propri interessi, il proprio ideale, e la natura del lavoro che s'intraprende. - Questa questione dell'espropriazione è la più importante del libro, e anche una di quelle che l'autore ha trattato con maggiore abbondanza di particolari, sobriamente e senza violenza di espressioni, ma con la calma e la nitidezza di visione che richiede lo studio d'una prossima trasformazione, ormai inevitabile. Dopo questo rovesciamento dello Stato i gruppi di lavoratori emancipati, non dovendo più logorarsi ai servigi degli sfruttatori e dei parassiti, potranno dedicarsi alle attraenti occupazioni del lavoro liberamente scelto e procedere scientificamente alla coltivazione del suolo e alla produzione industriale, intermezzando il lavoro con ricreazioni consacrate allo studio o al piacere. Le pagine del libro che trattano dei lavori agricoli presentano un interesse capitale, imperocchè vi si espongono fatti che la pratica ha già controllato, e la cui applicazione in grande è facile dappertutto, a vantaggio di tutti, e non solamente per arricchire alcuni.
     Siamo alla soglia di un'epoca, di un'era della storia. Noi vediamo declinare tutta quanta l'antica civiltà; il diritto della forza e il capriccio dell'autorità, la dura tradizione israelitica e la crudele giurisprudenza romana non più gravarci sopra: noi professiamo una novella fede, e dal momento che questa fede, che è nel tempo istesso la scienza, sarà diventata quella di tutti coloro che cercano la verità, essa si svilupperà nel mondo delle realizzazioni, giacchè la prima fra le leggi storiche è quella che la società debba modellarsi sul suo ideale. Come i difensori dell'antiquato ordinamento delle cose, potranno quest'ordine mantenere? Essi non credono più; senza guida nè bandiera, battagliano alla cieca. I novatori han contro leggi e fucili, poliziotti armati di randelli e parchi d'artiglieria; ma tutto ciò non può bilanciare il pensiero, e tutto l'antico regime di compiacimento e di comprensione è destinato a perdersi ben presto in una specie di preistoria.
     Certo l'imminente rivoluzione, per quanto possa essere importante nello sviluppo dell'umanità, non sarà punto diversa dalle rivoluzioni precedenti, e non compirà nessun brusco salto, poichè la natura non può farne. Ma si può dire che, per mille fenomeni, per mille modificazioni profonde, la società anarchica è già da lungo tempo in pieno sviluppo. Essa si mostra dovunque il libero pensiero si sbarazza della lettera del dogma, dovunque il genio dell'indagatore scorda le vecchie formule, dovunque la volontà umana si manifesta in azioni indipendenti, dovunque uomini sinceri, ribelli ad ogni imposizione di disciplina, si uniscono a loro beneplacito per istruirsi mutualmente e riconquistare insieme, senza padroni, la loro parte di vita e di soddisfazione integrale dei loro bisogni. Tutto questo è anarchia, anche quando s'ignora che sia tale, e sempre più essa arriva a farsi conoscere. E come non dovrebb'ella trionfare quando possiede il suo ideale e l'audacia della sua volontà, mentre la folla dei suoi avversari, mancante ormai di fede, s'abbandona al fatale destino?
     L'annunziata rivoluzione si compirà dunque, e il nostro amico Kropotkin è nel suo pieno diritto di storico quando si colloca già al giorno della rivoluzione ventura per esporre le proprie idee sulla presa di possesso dell'avere collettivo dovuto al lavoro di tutti, e fa appello ai timidi, i quali, pur rendendosi conto perfettamente delle ingiustizie esistenti, non osano ribellarsi a viso aperto contro una società che li rende suoi schiavi con mille legami d'interessi e di tradizioni. Costoro sanno che la legge è iniqua e bugiarda, che la vita regolare e l'altiera probità del lavoro non sono sempre ricompensati dalla certezza di avere un pezzo di pane, e che la cinica impudenza degli affaristi e l'aspra durezza degli usurai sono le armi migliori per la «conquista del pane» e del benessere; ma invece di regolare i loro pensieri, i loro voti, le loro imprese, le loro azioni secondo il loro senso rischiarato dalla giustizia, la maggior parte di costoro sgattaiola per qualche via traversa, per sfuggire ai pericoli d'un'attitudine franca e decisa. Tali, per esempio, i neo-religiosi che, non potendo più far professione della «fede assurda» de' loro padri, si applicano a pratiche superstiziose più originali, senza dogmi precisi, perduti in una indefinita confusione di sentimenti, e si fanno spiritisti, rosa-croce(2) buddisti o taumaturgi. Pretendendo a discepoli di Sakyamouni(3), ma senza punto preoccuparsi di studiar la dottrina del loro maestro, i signori melanconici e le dame vaporose fingono di cercar la pace nell'annichilimento del nirvana.
     Ma giacchè queste "belle anime" parlano incessantemente dell'ideale, che si rassicurino! Da quegli esseri materiali che siamo, noi abbiamo, è vero, la debolezza di preoccuparci del nutrimento, poichè, sovente, esso ci fece difetto, e manca ora a milioni di nostri fratelli slavi, sudditi dello czar, e a molti altri milioni ancora; ma al di là del pane, del benessere e di tutte le ricchezze che ci può procurare la fertilizzazione delle nostre campagne, noi vediam sorgere lungi, dinanzi a noi, un mondo nuovo, nel quale potremo pienamente amarci e soddisfare questa nobile passione dell'ideale, che gli amanti eterei del bello, sprezzando la vita materiale, dicono essere la sete inestinguibile delle loro anime! Quando più non vi saranno nè ricchi nè poveri, quando non più l'affamato contemplerà con avido sguardo d'invidia colui che è satollo, l'amicizia naturale potrà rinascere fra gli uomini e la religione della solidarietà, oggi soffocata, prenderà il posto di questa religione vaga, che traccia delle immagini fuggenti sui vapori del cielo.
     La rivoluzione manterrà al di là d'ogni speranza le sue promesse; rinnovellerà le sorgenti della vita, lavandoci dall'impuro contatto di tutte le polizie, e sbarazzandoci alfine da queste vili preoccupazioni del danaro che avvelenano la nostra esistenza. Potrà ciascuno allora seguir liberamente la sua strada; il lavoratore accudirà all'opera che più gli conviene; lo studioso indagherà senza secondi fini; l'artista non prostituirà più il suo ideale di bellezza per tirare innanzi la vita, e tutti amici oramai, noi potremo realizzare d'accordo le grandi cose che i poeti sognano nelle loro visioni.
     E senza dubbio allora sarà rammentato talvolta il nome di coloro, i quali colla propaganda devota, scontata coll'esilio o colla prigionia, avran preparata la nuova società. È ad essi che noi pensiamo, dando alle stampe la Conquista del pane: essi si sentiranno un po' riconfortati e fortificati di ricever questo attestato del comune pensiero attraverso le sbarre delle prigioni o in terre straniere. L'autore mi approverà certamente se io dedico il suo libro a tutti coloro che soffrono per la causa, e soprattutto a un amico dei più cari, la cui vita fu tutta quanta una lunga battaglia per la giustizia. Non è necessario ch'io dica il suo nome: leggendo queste parole d'un fratello, egli si riconoscerà dai palpiti del suo cuore.
     
     ELISEO RÉCLUS
     

***


LA CONQUISTA DEL PANE


INDICE
     Ai lettori
     Prefazione
     Le nostre ricchezze
     L'agiatezza per tutti
     Il comunismo anarchico
     L'espropriazione
     Le derrate
     L'alloggio
     Le vestimenta
     Vie e mezzi
     I bisogni di lusso
     Il lavoro gradevole
     Il libero accordo
     Obbiezioni
     Il salariato collettivista
     Consumo e produzione
     Divisione del lavoro
     Il decentramento delle industrie
     L'agricoltura



LE NOSTRE RICCHEZZE

I.

     L'umanità ha assai progredito da quelle remote età in cui l'uomo, tagliando nella selce rozzi strumenti, viveva degl'incerti prodotti della caccia e non lasciava in eredità a' suoi figliuoli che un ricovero sotto le roccie e dei poveri utensili di pietra, nonchè la Natura immensa, incompresa, terribile, colla quale essi dovevano entrare in lotta per mantenere la loro meschina esistenza.
     In questo lungo periodo di agitazione, che ha durato per migliaia e migliaia d'anni, il genere umano ha nondimeno accumulato inauditi tesori. Ha dissodato il suolo, prosciugato le paludi, è penetrato nelle foreste, ha tracciato strade; ha costrutto, inventato, osservato, ragionato; ha creato degli strumenti complicati, ha strappato alla natura i suoi segreti, ha domato il vapore; tanto che, oggi, al suo nascere, il figlio dell'uomo civilizzato trova a sua disposizione un capitale che gli permette di ottenere, con niente altro che il suo lavoro combinato col lavoro altrui, delle ricchezze sorpassanti i sogni degli Orientali nelle loro novelle delle Mille e una Notte.
     Il suolo è, in parte, dissodato, pronto a ricevere l'intelligente lavorazione e le scelte sementi, ad adornarsi di lussureggianti raccolti - più che non ne occorra per soddisfare a tutti i bisogni dell'umanità. I mezzi di coltivazione son conosciuti.
     Sul vergine suolo delle praterie americane, cento uomini aiutati da macchine potenti producono in pochi mesi il grano necessario per la vita di diecimila persone durante tutto un anno. Là dove l'uomo vuol raddoppiare, triplicare, centuplicare il suo rapporto di produzione, non ha che da «formare» il suolo adatto, dare ad ogni pianta le cure convenienti, ed otterrà dei raccolti prodigiosi. E mentre il cacciatore doveva in altri tempi rendersi padrone di cento chilometri quadrati di terreno per potervi ricavare il nutrimento della sua famiglia, l'uomo civilizzato fa crescere, con difficoltà infinitamente minori e con maggior sicurezza, tutto ciò che gli occorre per far vivere i suoi su di una diecimillesima parte di quello spazio.
     Il clima non è più un ostacolo. Quando manca il sole, l'uomo lo sostituisce col calore artificiale, in attesa di creare anche la luce per sviluppare la vegetazione. Con del vetro e dei tubi di acqua calda, raccoglie su di un dato spazio dieci volte maggiori prodotti che non ne raccogliesse prima.
     I prodigi che si sono compiuti nell'industria sono ancora più sorprendenti. Con quegli esseri intelligenti, che sono le macchine moderne, - frutto di tre o quattro generazioni d'inventori, la maggior parte sconosciuti, - cento uomini fabbricano di che vestire dieci mila uomini durante due anni. Nelle miniere di carbone, bene organizzate, cento uomini estraggono ogni anno tanto combustibile da riscaldare diecimila famiglie sotto un clima rigoroso. E vedemmo ultimamente sorgere in pochi mesi al Campo di Marte(4) un'intera meravigliosa città, senza che per questo i lavori regolari della nazione francese subissero la menoma interruzione.
     E se, nell'industria come nell'agricoltura e come nell'insieme della nostra organizzazione sociale, le fatiche dei nostri antenati non sono di profitto che ad un ristrettissimo numero di noi, - non è per questo meno accertato che l'umanità potrebbe sin d'ora concedersi un'esistenza di ricchezza e di lusso, coi soli servitori di acciaio e di ferro ch'essa possiede, le macchine.
     Sì certo, noi siamo ricchi, infinitamente più ricchi di quel che non si pensi. Ricchi per quel che già possediamo; ancora più ricchi per quel che possiamo produrre cogli attuali meccanismi; infinitamente più ricchi per quel che potremmo ottenere dal nostro suolo, dalle nostre manifatture, dalla nostra scienza e dal nostro sapere tecnico, se tutto ciò fosse applicato a procurare il benessere universale.


II

     Noi siam ricchi nelle società civilizzate. Perchè dunque d'intorno a noi questa miseria? Perchè questo penoso lavoro delle masse, sino all'abbrutimento? Perchè quest'incertezza del domani, anche per i lavoratori meglio retribuiti, in mezzo a tante ricchezze tramandateci in eredità dal passato, e malgrado i grandi e potenti mezzi di produzione che darebbero l'agiatezza a tutti, in compenso di poche ore di lavoro giornaliero?
     I socialisti l'hanno detto e ridetto mille volte. Ogni giorno lo ripetono e lo dimostrano con argomenti dedotti da tutte le scienze. Perchè tutto ciò che è necessario alla produzione - il suolo, le miniere, le macchine, i mezzi di comunicazione, l'alimento, l'alloggio, l'educazione, la scienza tutto, infine, è stato accaparrato da alcuni nel corso di questa lunga storia di saccheggi, di esodi, di guerre, d'ignoranza e di oppressione, che l'umanità ha vissuto prima d'aver imparato a domar le forze della Natura.
     Perchè, prevalendosi dei pretesi diritti acquistati nel passato, essi si appropriano oggi dei due terzi dei prodotti del lavoro umano che disperdono poi nello spreco più insensato, più scandaloso; perchè, avendo ridotto le masse a non aver dinanzi a loro di che vivere un mese o anche otto giorni, essi non permettono all'uomo di lavorare che quando egli consente a lasciarsi togliere da loro la parte del leone; perchè gl'impediscono di produrre ciò di cui ha bisogno, e lo costringono a produrre non già ciò che sarebbe necessario agli altri, ma quel che assicura i maggiori guadagni allo sfruttatore.
     Tutto il socialismo è qui.
     Ecco infatti un paese civilizzato. Le foreste che una volta l'ingombravano sono state allargate, le paludi prosciugate, il clima reso salubre. Il paese è diventato abitabile. Il suolo che non produceva una volta che delle erbe selvagge, fornisce ora delle messi copiose. Le rocce che dominavano le vallate son ripartite ora in recinti dove s'arrampicano le viti dal frutto dorato. Delle piante selvatiche, le quali prima non producevano che un frutto agro, - una radice impossibile a mangiarsi, - sono state trasformate per mezzo di successive coltivazioni, in legumi succulenti, in alberi carichi di frutta squisite.
     Migliaia di vie lastricate e ferrate intersecano la terra, forano le montagne; la locomotiva fischia nelle gole selvaggie delle Alpi, del Caucaso, dell'Imalaia. I fiumi furono resi navigabili; le coste, accuratamente scandagliate e precisate, sono di facile accesso, e dei porti artificiali, faticosamente scavati e riparati dai furori dell'Oceano, servono di rifugio ai bastimenti. Le rocce sono scavate in pozzi profondi; e labirinti di gallerie sotterranee si estendono colà dove vi è carbone da estrarre, minerale da raccogliere. In tutti i punti dove le strade si incrociano, son sorte città, che, diventate sempre più vaste, racchiudono nel loro seno tutti i tesori dell'industria, dell'arte, della scienza.
     Intiere generazioni, nate e morte nella miseria, oppresse e maltrattate dai loro padroni, spossate dal lavoro, hanno trasmesso al secolo decimonono questa immensa eredità.
     Milioni d'uomini, durante migliaia d'anni, hanno lavorato ad abbattere boscaglie, prosciugare paludi, tracciare strade, arginare fiumi. Ogni ettaro di suolo coltivato in Europa è stato inaffiato dai sudori di molteplici razze; ogni strada ha una storia di fatiche, di lavoro sovrumano, di sofferenze di popolo. Ogni miglio di strada ferrata, ogni metro di galleria, hanno ricevuto il loro battesimo di sangue umano.
     I pozzi delle miniere portano ancora le fresche intaccature fatte nella roccia dal braccio dello zappatore. Da un polo all'altro, le gallerie sotterranee potrebbero essere marcate colla tomba d'un minatore ucciso nel fior dell'età o da un'esplosione, o da una frana, o da un'inondazione, e niuno ignora quanti pianti, quante privazioni, quante miserie senza nome, ciascuna di queste tombe sia costata alla famiglia che viveva del magro salario dell'uomo sepolto sotto le ruine.
     Le città, collegate fra di loro da reti di ferrovie e di linee di navigazione, sono organismi che hanno vissuto dei secoli. Scavatene il suolo, e troverete le vestigia sovrapposte di strade, case, teatri, arene, edifici pubblici. Approfonditene la storia, e vedrete come la civilizzazione della città, la sua industria, il suo genio si siano lentamente sviluppati e maturati col concorso di tutti i suoi abitanti, prima di essere diventati ciò che sono oggidì.
     Ed anche ora, il valore di ogni casa, di ogni officina, di ogni fabbrica, di ogni magazzino, non è fatto che col lavoro accumulato dalle migliaia di lavoratori sepolti sotto terra; e non si mantiene che con lo sforzo delle legioni d'uomini che abitano quel punto del globo. Ciascun atomo di ciò che noi chiamiamo la ricchezza delle nazioni, non acquista il suo valore che perchè è una parte di quest'immenso tutto. Che cosa sarebbero gli immensi depositi di Londra o i grandi magazzini di Parigi se non fossero situati in quei grandi centri del commercio internazionale?
     Che diventerebbero le nostre miniere, le nostre fabbriche, i nostri cantieri e le nostre ferrovie, senza i mucchi di merci trasportate ogni giorno per terra e per mare?
     Milioni di esseri umani hanno lavorato per creare questa civiltà, della quale oggi andiamo gloriosi. Altri milioni, sparsi in tutti gli angoli del mondo, lavorano per mantenerla. Senza di essi, fra cinquanta anni non ne rimarrebbero che le rovine.
     Persino il pensiero, persino le invenzioni, son fatti collettivi nati dal passato e dal presente. Sono migliaia d'inventori, conosciuti o sconosciuti, morti nella miseria, i quali hanno preparato le successive invenzioni di ciascuna di queste macchine in cui l'uomo ammira il proprio genio. Sono migliaia di scrittori, di poeti, di dotti, i quali hanno lavorato per perfezionare la dottrina, per dissipare l'errore, per creare infine quest'atmosfera di pensiero scientifico, senza la quale nessuna delle meraviglie del nostro secolo non si sarebbe prodotta. Ma queste migliaia di filosofi, di poeti, di dotti, d'inventori, non erano anche essi il prodotto del lavorìo dei secoli passati prima di loro? E non furono, durante tutta la loro vita, nutriti e aiutati, sì fisicamente che moralmente, da legioni di lavoratori e di artigiani di ogni specie? Non attinsero essi la loro forza d'impulsione da tutto ciò che li circonda?
     Il genio di un Seguin, d'un Mayer, d'un Grove(5) hanno fatto certamente più che tutti i capitalisti del mondo per slanciare l'industria verso nuovi orizzonti, Ma questi genii stessi son figli dell'industria nonchè della scienza. Imperocchè bisognò che migliaia di macchine a vapore trasformassero d'anno in anno, sotto gli occhi di tutti, il calore in forza dinamica, e questa forza a sua volta in suono, luce ed elettricità, prima che queste intelligenze geniali avessero proclamato l'origine meccanica e l'unità delle forze fisiche. E se noi, figli del secolo decimonono, abbiam compreso finalmente quest'idea, se noi abbiamo saputo applicarla, egli è perchè noi vi eravamo stati preparati dall'esperienza di ogni giorno e di ogni ora. Anche i pensatori del secolo scorso l'avevano traveduta ed enunciata: ma essa rimase incompresa, giacchè il secolo decimottavo non si era sviluppato, come il nostro, a fianco delle macchine a vapore.
     Che si pensi soltanto alle diecine d'anni che sarebbero trascorsi ancora nell'ignoranza di questa legge che ci ha permesso di rivoluzionare l'industria moderna, se Watt(6) non avesse trovato a Solis dei lavoratori abili per dar forma reale in metallo ai suoi calcoli teorici, perfezionare le singole parti e render finalmente più docile del cavallo e più maneggevole dell'acqua il vapore imprigionato in un meccanismo completo.
     Ogni macchina ha la medesima storia: lunga storia di veglie e di miserie, di disillusioni e di gioie, di miglioramenti parziali trovati successivamente da più generazioni d'operai sconosciuti che hanno aggiunto all'invenzione primitiva quei piccoli nonnulla, senza dei quali pure l'idea più feconda rimane sterile. Più che tutto ciò, ogni nuova invenzione è una sintesi - risultato di mille invenzioni precedenti effettuatesi nell'immenso campo della meccanica e dell'industria. Poichè la scienza e l'industria, la dottrina e l'applicazione, la scoperta e la realizzazione pratica conducono a nuove scoperte, - tutto così si collega e s'incatena, lavoro cerebrale e lavoro manuale, lavoro del pensiero e lavoro del braccio. Ogni scoperta, ogni progresso, ogni aumento della ricchezza umana ha le sue origini nella somma del lavoro manuale e cerebrale del passato e del presente.
     Per qual diritto allora potrebbe chicchessia appropriarsi la menoma particella di quest'immenso tutto, e dire: Questo è mio, e non è vostro?


III.

     Accadde però, attraverso le varie epoche dell'umanità, che tutto ciò che permette all'uomo di produrre e di accrescere la sua forza di produzione, fosse accaparrato da qualcuno. Racconteremo forse un giorno come questo sia avvenuto. Per il momento ci basta di constatare il fatto e di analizzarne le conseguenze.
     Oggidì, il suolo che acquista il suo valore precisamente dai bisogni di una popolazione sempre crescente, appartiene a una minoranza d'individui, i quali possono impedire, e impediscono, di fatto, che il popolo lo coltivi, oppure non gli permettono di coltivarlo secondo i bisogni moderni. Le miniere, che rappresentano lo sforzo di più generazioni, e non attingono valore che dai bisogni dell'industria e dalla densità della popolazione, son pure la proprietà di qualcuno; e questi qualcuno limitano l'estrazione del carbone, quando non la proibiscono totalmente, se loro si offre un collocamento più vantaggioso pei loro capitali. Anche le macchine sono la proprietà di qualcuno soltanto, e quando anche questa o quella macchina rappresenti indubbiamente i perfezionamenti arrecati al primitivo congegno da tre generazioni di lavoratori, non per questo essa appartiene meno a qualche padrone; e se i nepoti di quello stesso inventore che costrusse, cento anni fa, la prima macchina da merletti si presentassero oggi nelle manifatture di Basilea o di Nottingham reclamando i loro diritti, sarebbe loro risposto sul viso: «Andatevene! questa macchina non vi appartiene!» e verrebbero fucilati se essi volessero a forza entrarne in possesso.
     Le ferrovie, che sarebbero inutili ferramenta senza la popolazione così densa dell'Europa, senza la sua industria, il suo commercio e i suoi scambi, appartengono ad alcuni azionisti, i quali forse ignorano dove si trovano le strade che loro assicurano una rendita superiore a quella di un re del medio evo. E se i figli di coloro che morivano a migliaia scavando i fossati e le gallerie si radunassero un giorno, e venissero, in folla cenciosa ed affamata, a reclamar pane dagli azionisti, essi si scontrerebbero colle baionette e la mitraglia messe in azione per salvaguardare i «diritti acquisiti».
     In virtù di quest'organizzazione mostruosa, il figlio del lavoratore, quando nasce alla vita, non trova un campo da coltivare, nè una macchina da condurre, nè una miniera da scavare, senza ch'ei non debba cedere ad un padrone una buona parte di ciò che produrrà. Egli deve vendere la sua forza di lavoro per un pasto magro ed incerto. Suo padre e suo nonno hanno lavorato per dissodare quel campo, per costruire quell'officina, per perfezionare quelle macchine; hanno lavorato infine secondo la completa misura delle loro forze - e chi può dar dunque più di questo? E pure egli è venuto al mondo più povero dell'ultimo dei selvaggi. Se ottiene il permesso di dedicarsi alla coltivazione di un campo, è solo alla condizione di cedere un quarto del prodotto al suo padrone, e un altro quarto al governo e agl'intermediarii. E questa imposta, che lo Stato, il capitalista, il padrone e il sensale prelevano su di lui, aumenterà sempre, e raramente gli lascierà anche la facoltà di poter migliorare il suo sistema di coltivazione. Se si dedica all'industria, gli si permetterà di lavorare - non sempre del resto - ma alla condizione di non ricevere che un terzo o la metà del guadagno, il rimanente dovendo esser ceduto a colui che la legge riconosce come il proprietario della macchina.
     Noi gridiamo contro il barone feudale che non permetteva al coltivatore di rimuover la terra senza che gli fosse rilasciato almeno il quarto del raccolto. E noi chiamiamo barbara quest'epoca passata. Ma, se la forma è cambiata, la sostanza di queste relazioni è sempre la stessa. Il lavoratore accetta oggi, sotto il nome di contratto libero, degli obblighi ugualmente feudali; giacchè in nessun'altra parte troverebbe condizioni migliori. Siccome tutto è diventato la proprietà di un padrone, egli deve cedere o morir di fame!
     Risulta da questo stato di cose che tutta la nostra produzione si dirige in senso contrario. Ogni intrapresa non si preoccupa punto dei bisogni della società: il suo unico scopo è quello di aumentare i benefici dell'intraprenditore. Da ciò derivano le continue fluttuazioni dell'industria, le cui crisi, allo stato cronico, gettano sul lastrico centinaia di migliaia di lavoratori.
     Non potendo gli operai acquistare coi loro salari le ricchezze da essi prodotte, l'industria ricorre ai mercati esterni, fra gl'incettatori delle altre nazioni. In Oriente, in Africa, non importa dove, in Egitto, nel Tonchino, nel Congo, l'Europeo, in queste condizioni, deve aumentare il numero dei suoi servi. Ma dappertutto ei trova dei concorrenti, poichè tutte le nazioni evolvono nello stesso senso. E le guerre, - le guerre in permanenza, - debbono scoppiare per il diritto di primeggiare sui mercati mondiali. Guerre per i possessi in Oriente; guerre per il dominio dei mari; guerre per imporre dei dazi di entrata alle frontiere e dettar condizioni ai propri vicini; guerre contro coloro che si ribellano! Il rumor del cannone non cessa in Europa; generazioni intere vengono massacrate; gli Stati Europei spendono in armamenti il terzo dei loro bilanci, - ed ognuno sa che cosa siano le tasse e quel ch'esse costino al povero.
     L'educazione rimane privilegio di minoranze infime. Imperocchè, come si può parlare d'educazione, quando il figlio dell'operaio è costretto a tredici anni a scender con lui nella miniera, o aiutarlo alla fattoria? Come si può parlare di studii all'operaio che rincasa alla sera, fiaccato da una giornata di lavoro forzato, che quasi sempre abbrutisce? Le società si dividono in due campi ostili, e in tali condizioni la libertà non è che una vana parola. Mentre il radicale domanda una più larga estensione di libertà politiche, s'accorge ben presto che il soffio della libertà spinge rapidamente i proletarii a sollevarsi; e allora retrocede, cambia di opinione e ritorna alle leggi eccezionali e al governo della sciabola.
     Per mantenere i privilegi è necessario un vasto insieme di tribunali, di giudici e carnefici, di sbirri e di carcerieri, e questo insieme diventa esso stesso l'origine di tutto un sistema di delazioni, d'inganni, di minaccie e di corruzione.
     Inoltre, questo sistema impedisce lo sviluppo dei sentimenti socievoli. Ognuno comprende che senza rettitudine, senza il rispetto di se stesso, senza simpatie e mutuo appoggio la specie umana deperisce, come deperiscono le poche specie animali che vivono di brigantaggio e di asservimento. Ma di ciò le classi dirigenti non amano persuadersi, ed esse inventano tutta una scienza, assolutamente falsa, per provare il contrario.
     Si dicono delle belle cose sulla necessità di dividere ciò che si possiede con coloro che non hanno nulla. Ma chiunque si attenta di mettere in pratica questo principio è subito messo in guardia che tutti questi grandi sentimenti son buoni soltanto per i libri di poesie - non nella vita. «Mentire, significa avvilirsi, abbassarsi», noi diciamo, e tutta l'esistenza civile non è che un'immensa menzogna. E noi ci abituiamo, noi educhiamo i nostri figli a vivere con una moralità a doppia faccia, da ipocriti! E siccome il cervello non vi si adatta di buona voglia, noi lo foggiamo sullo stampo del sofismo. Ipocrisia e sofismo diventano seconda natura dell'uomo civilizzato.
     Ma una società non può vivere così; essa deve ritornare alla verità, o sparire.
     Così il semplice fatto dell'accaparramento involge delle sue conseguenze tutto l'insieme della vita sociale. E le società umane son forzate, sotto pena di perdizione, a ritornare ai principii fondamentali, poichè i mezzi di produzione essendo l'opera collettiva dell'umanità, debbono ritornare alla collettività umana. L'appropriazione personale non è nè giusta nè utile. Tutto è di tutti poichè tutti ne hanno bisogno, poichè tutti hanno lavorato nella misura delle loro forze ed è materialmente impossibile di determinare la parte che spetta a ciascuno nell'attuale produzione delle ricchezze.
     Tutto è di tutti! Ecco degl'immensi meccanismi che il secolo decimonono ha creato; ecco dei milioni di schiavi di ferro che noi chiamiamo macchine, le quali piallano e segano, tessono e filano per noi, compongono e decompongono la materia prima, e producono le meraviglie dell'epoca nostra. Nessuno ha il diritto d'impadronirsi di una sola di queste macchine, e dire: «Essa è mia; per adoperarla voi mi pagherete un tributo su ciascuno dei vostri prodotti»; come nemmeno il signore del medio evo non aveva il diritto di dire al coltivatore: «Questa collina, questo prato mi appartengono, e voi mi pagherete un tributo per ogni covone di grano che mieterete, per ogni fascio di fieno che falcierete».
     Tutto è di tutti! E purchè l'uomo e la donna arrechino la loro quota di lavoro, hanno diritto alla loro quota di ciò che sarà prodotto da tutti. E questa quota loro concederà già l'agiatezza.
     Finiamola con queste formule ambigue quali «il diritto al lavoro» o «a ciascuno il prodotto integrale del suo lavoro». Ciò che noi proclamiamo si è il diritto all'agiatezza - l'agiatezza per tutti.
     
     

L'AGIATEZZA PER TUTTI

I.

     L'agiatezza per tutti non è un sogno. Essa è possibile, realizzabile, dopo ciò che i nostri antenati hanno fatto per rendere produttiva la nostra forza di lavoro.
     Noi sappiamo, infatti, che i produttori i quali formano appena il terzo degli abitanti nei paesi civili, producono già abbastanza, da recare un certo benessere in seno ad ogni famiglia. Noi sappiamo inoltre che se tutti coloro, i quali sciupano oggi i frutti del lavoro altrui, fossero costretti ad impiegare i loro ozii in lavori utili, la nostra ricchezza aumenterebbe in proporzione multipla del numero delle braccia produttrici. E noi sappiamo infine che, contrariamente alla teoria del pontefice della scienza borghese, Malthus, l'uomo accresce la sua forza di produzione molto più rapidamente che non si moltiplichi egli stesso. Più uomini popoleranno un territorio, più sarà rapido il progresso delle forze produttrici.
     Infatti, mentre la popolazione dell'Inghilterra non ha aumentato, dal 1844 ad oggi che del 62 per 100, la sua forza di produzione ha aumentato, a dir poco, in proporzione del doppio, cioè del 130 per 100. In Francia dove la popolazione aumenta di meno, l'accrescimento della produzione è pure rapidissimo. Malgrado la crisi che tormenta l'agricoltura, malgrado l'ingerenza dello Stato, la leva militare, la banca, la finanza e l'industria, la produzione del frumento si è quadruplicata e la produzione industriale si è più che decuplata durante gli ultimi ottant'anni. Agli Stati Uniti il progresso è ancor più sorprendente: malgrado l'immigrazione, o piuttosto precisamente a causa di questo sovrappiù di lavoratori venuti d'Europa, gli Stati Uniti hanno decuplato la loro produzione.
     Ma queste cifre non danno che un'idea assai debole di ciò che la nostra produzione potrebbe essere, date migliori condizioni. Oggidì, a mano a mano che si sviluppa la capacità di produrre, il numero degli oziosi e degl'intermediarii aumenta in proporzioni spaventevoli. Tutto al contrario di ciò che si affermava una volta fra socialisti, cioè che il capitale si andrebbe concentrando rapidamente in così ristretto numero di mani che non vi sarebbe stato altro da fare, per rientrare in possesso delle ricchezze comuni, che da espropriare alcuni milionari, il numero di coloro che vivono alle spese del lavoro altrui è sempre più considerevole.
     In Francia non vi sono dieci produttori diretti su trenta abitanti. Tutta la ricchezza agricola della nazione è opera di men che 7 milioni d'uomini, e nelle due grandi industrie, delle miniere e dei tessuti, si contano meno di 2 milioni e mezzo d'operai. A quanti sommano dunque gli sfruttatori del lavoro? In Inghilterra (non comprese la Scozia e l'Irlanda), 1,030,000 operai, uomini, donne e fanciulle fabbricano tutti i tessuti; un poco più di mezzo milione compiono il lavoro delle miniere; meno di un mezzo milione lavorano la terra, e gli statistici debbono certo esagerare le cifre quando ci danno un massimo di 8 milioni di produttori su 26 milioni di abitanti. In realtà, sono al più 6 o 7 milioni di lavoratori, i quali creano le ricchezze sparpagliate ai quattro angoli del globo. E quanti sono i proprietari e gli intermediarii, i quali aggiungono le rendite prelevate sull'universo intero, a quelle di cui essi profittano, facendo pagare al consumatore da cinque a venti volte più di ciò ch'essi pagano al produttore?
     E questo non è tutto. Coloro che detengono il capitale, riducono la produzione coll'impedir costantemente di produrre. Non parliamo di quelle botti intere di ostriche che vengono gettate a mare, per impedire che l'ostrica diventi un alimento per la plebe e perda la sua specialità di ghiottoneria della gente agiata; non parliamo dei mille e mille oggetti di lusso, stoffe, alimenti, ecc. ecc., che hanno la medesima sorte delle ostriche. Ricordiamo soltanto il modo col quale vien limitata la produzione delle cose necessarie a tutti. Vi sono eserciti di minatori i quali non chiederebbero meglio che di estrarre ogni giorno il carbone e inviarlo a coloro che tremano dal freddo. Ma, molto spesso, un buon terzo o due terzi di questi eserciti di minatori sono impediti di lavorare più di tre giorni per settimana, poichè si deve mantenere elevato il prezzo del combustibile. Migliaia di tessitori non trovano un telaio da far funzionare, mentre che le loro mogli e i loro bambini non han che cenci per ricoprirsi, ed i tre quarti degli Europei non indossano un vestito degno di questo nome.
     Centinala di fonderie, migliaia di manifatture restano costantemente inattive, ed altre non lavorano che la metà del tempo e in ogni nazione civile havvi in permanenza una popolazione di due milioni d'individui che non chiedono che di lavorare ma ai quali questo lavoro è negato.
     Vi son milioni d'uomini che sarebbero felici di trasformare le lande incolte o malcoltivate in campi biondeggianti di ricca messe. Basterebbe loro un anno di lavoro intelligente per quintuplicare il prodotto di terre che non rendono oggi che otto ettolitri di grano per ogni ettaro(7). Ma questi arditi pionieri debbono scioperare, perchè coloro che possiedono la terra, le miniere, le manifatture, preferiscono impiegare i loro capitali - capitali dovuti alla comunità - nei titoli di rendita turca o egiziana, o in azioni delle miniere d'oro della Patagonia, che i «fellah»(8) egiziani, o gl'italiani scacciati dalla terra natìa, o i salariati cinesi faranno produrre per loro.
     Tutto questo è la limitazione cosciente e diretta della produzione: ma vi è anche la limitazione incosciente, la quale consiste nello sciupare il lavoro umano in oggetti assolutamente inutili o destinati unicamente a soddisfare la sciocca vanità dei ricchi.
     Non si può nemmeno calcolare in cifre sino a qual punto la produttività è ridotta indirettamente dallo sciupìo delle forze che potrebbero servire a produrre, e sopratutto a preparare gli strumenti necessarii per questa produzione. Basta citare i miliardi spesi dall'Europa in armamenti, senza avere altro scopo che la conquista dei mercati, per imporre ai vicini la legge economica che più talenta, e facilitare lo sfruttamento all'interno; i milioni pagati ogni anno ai funzionari d'ogni spece la cui missione è quella di mantenere il diritto delle minoranze a governare la vita economica della nazione; i milioni spesi per i giudici, le prigioni, gli sbirri e tutto l'apparecchio di ciò che chiamasi giustizia, mentre si sa che basta alleviare un poco soltanto la miseria nelle grandi città, perchè la criminalità diminuisca in proporzioni considerevoli; milioni infine che si spendono per diffondere, col mezzo della stampa, delle false notizie nell'interesse di questo o di quel partito, di questo o di quel personaggio politico; di questa o di quella compagnia di sfruttatori.
     E questo non è ancor tutto. Imperocchè si sciupa ancora del lavoro senza nessun profitto, con pura perdita: qui, per mantenere la scuderia, il canile e il servitorame del ricco: colà per soddisfare i capricci delle eleganti mondane e il lusso depravato dell'alta furfanteria; altrove, per costringere il consumatore a fare acquisto di ciò di cui non ha bisogno, o imporgli colla sfacciata ciarlatanesca pubblicità un articolo di pessima qualità; altrove ancora, per produrre delle merci assolutamente nocive al pubblico, ma giovevoli allo speculatore. Ciò che viene in tal guisa sprecato basterebbe per raddoppiare la produzione utile, o per corredare di macchine e strumenti tante manifatture ed officine, che presto farebbero rigurgitare i magazzini di tutte le provviste di cui i due terzi della nazione sono mancanti.
     Da ciò risulta che un buon quarto di coloro stessi che in ogni nazione si dedicano ai lavori produttivi, è regolarmente costretto a scioperare per tre o quattro mesi ogni anno, e il lavoro degli altri tre quarti, se non di una buona metà, non può avere altro risultato che il divertimento dei ricchi o lo sfruttamento del pubblico.
     Se si considera dunque, da un lato la rapidità colla quale le nazioni civili aumentano la loro forza di produzione, e dall'altro i limiti assegnati a questa produzione, sia direttamente che indirettamente, dalle condizioni attuali, si deve concluderne che un'organizzazione economica, per quanto poco ragionevole, permetterebbe alle nazioni civili di ammucchiare in pochi anni tale quantità di prodotti utili ch'esse sarebbero costrette a gridare: «Basta! Basta di carbone! basta di pane! basta di abiti! Riposiamoci, raccogliamoci per meglio utilizzare le nostre forze, per meglio occupare i nostri riposi!»
     No, l'agiatezza per tutti non è più un sogno. Poteva esserlo quando l'uomo giungeva, con grandi stenti, a raccogliere otto o dieci ettolitri di grano per ettaro, o a fabbricare di sua mano gli strumenti meccanici necessarii all'agricoltura e all'industria. Dessa non è più un sogno dacchè l'uomo ha inventato il motore che, con un poco di ferro e alcuni chili di carbone, mette a sua disposizione la forza di un cavallo docile, maneggevole, capace di mettere in movimento la macchina più complicata.
     Ma perchè l'agiatezza diventi una realtà occorre che questo immenso capitale - città, case, campi coltivati, officine, mezzi di comunicazione, educazione - cessi di venir considerato come proprietà privata, il cui accaparratore può disporre a suo piacimento.
     Occorre che questi ricchi strumenti di produzione, ottenuti, costruiti, formati e inventati faticosamente dai nostri padri, diventino proprietà comune, affinchè lo spirito collettivo ne ritragga il massimo vantaggio per tutti.
     Occorre l'«Espropriazione». L'agiatezza per tutti come fine, l'espropriazione come mezzo.


II.

     L'espropriazione, tale è dunque il problema che la storia ha proposto di risolvere a noi, uomini del secolo decimonono. L'espropriazione, cioè il ritorno alla comunità di tutto ciò che ad essa occorre per formare il suo benessere.
     Ma questo problema non può essere risolto per mezzo della legislazione. Nessuno vi pensa. Il povero, come il ricco, comprendono che nè i governi attuali, nè quelli che potrebbero sorgere da una rivoluzione politica, non sarebbero capaci di trovarne la soluzione. Si sente la necessità di una rivoluzione sociale, e i ricchi, come i poveri, non si dissimulano che questa rivoluzione è prossima, che essa può addivenire da un giorno all'altro.
     L'evoluzione degli spiriti si è andata compiendo in quest'ultimo mezzo secolo: ma, compressa dalla minoranza, cioè dalle classi che possiedono, e non avendo potuto prendere corpo, bisogna ch'essa rimuova gli ostacoli colla forza e si realizzi colla rivoluzione.
     Donde verrà la Rivoluzione? Come dessa s'annuncierà?... Nessuno può rispondere a tali questioni. Siamo dinanzi all'incognito. Ma coloro che osservano e riflettono non s'ingannano: lavoratori e sfruttatori, rivoluzionarii e conservatori, pensatori e gente pratica, tutti sentono ch'essa batte alle nostre porte. Ebbene che farem noi quando la rivoluzione sarà scoppiata?
     Tutti noi abbiam studiato il lato drammatico delle rivoluzioni, ma così poco la loro opera veramente rivoluzionaria, che molti di noi non vedono in questi grandi movimenti che la figurazione scenica, la lotta dei primi giorni, le barricate. Ma questa lotta, questa prima scaramuccia, è ben presto terminata; e solo dopo la sconfitta degli antichi governi incomincia l'opera reale della rivoluzione.
     Essi, i vecchi governi, incapaci e impotenti, attaccati da ogni parte, son presto spazzati via dal soffio della insurrezione. In pochi giorni la monarchia borghese del 1848 non era più; e quando una vettura da nolo conduceva Luigi Filippo fuori di Francia, Parigi non si curava più dell'ex-re. In poche ore il governo di Thiers spariva, il 18 marzo 1871, lasciando Parigi padrona dei suoi destini. E nondimeno il 1848 e il 1871 non erano che insurrezioni. Dinanzi ad una rivoluzione popolare, i governi si eclissano con sorprendente rapidità. Cominciano col fuggire salvo a cospirare altrove per tentar di prepararsi un possibile ritorno.
     Sparito l'antico governo, l'esercito esitante dinanzi all'onda della sollevazione popolare, non obbedisce più ai suoi capi, i quali del resto si sono prudentemente eclissati. E, colle braccia incrociate, la truppa lascia fare, oppure, volto il calcio del fucile in aria, si unisce con gl'insorti. La polizia colle braccia penzoloni, non sa più se deve picchiare o gridar: «Viva la Comune!» e le guardie di città se ne tornano a casa «aspettando il nuovo governo». I grossi borghesi fanno i loro bagagli e si affrettano a mettersi al sicuro. Il popolo resta. - Ecco come si annunzia una rivoluzione.
     In parecchi grandi città vien proclamata la Comune. Migliaia di persone formicolano nelle strade, e fanno ressa alla sera nei circoli improvvisati, domandandosi: «Che fare?» e discutendo con ardore de' pubblici affari. Tutti vi s'interessano; e gl'indifferenti della vigilia son forse ora i più zelanti. Dappertutto molta buona volontà e un vivo desiderio di assicurar la vittoria. Si verificano grandi atti di sacrificio. Il popolo non chiede di meglio che di andare innanzi.
     Tutto questo è bello, è sublime. Ma non è ancora la rivoluzione. Al contrario, è appunto ora che deve incominciare il compito del rivoluzionario.
     Certamente vi saranno sfoghi di vendette. I Watrin e i Thomas(9) sconteranno la loro impopolarità. Ma questo non sarà che un accidente di lotta, e non già la rivoluzione.
     I socialisti di governo, i radicali, i genii incompresi del giornalismo, gli oratori ad effetto, borghesi ed ex-lavoratori, correranno al municipio, ai ministeri, per prendere possesso dei seggi abbandonati. Gli uni si fregieranno di galloni, beatamente, ammirandosi negli specchi ministeriali e studiandosi di dare ordini con un'aria di gravità, confacentesi con la nuova posizione da essi occupata. Occorre loro una fascia rossa, un berretto filettato di galloni e un gesto magistrale per imporsi agli antichi compagni di redazione o di laboratorio. Gli altri s'immergeranno negli scartafacci colla miglior buona volontà di comprendervi qualcosa. Redigeranno leggi, promulgheranno decreti dalle frasi altisonanti, che nessuno s'incaricherà di mettere in esecuzione, - precisamente perchè si è in rivoluzione.
     Per conferirsi un'autorità che ad essi manca, cercheranno la sanzione delle antiche forme di governo. Assumeranno il nome di Governo Provvisorio, di Comitato di Salute Pubblica, di Sindaco, di Comandante del Municipio, di Capo della Sicurezza, e che so io. Eletti, oppure acclamati, si raduneranno in parlamenti o Consigli del Comune. Ivi s'incontreranno uomini appartenenti a dieci, venti scuole diverse, che non sono chiesuole personali come spesso si dice, ma corrispondono a particolari maniere di concepir l'estensione, la importanza, i doveri della Rivoluzione, possibilisti, collettivisti, radicali, giacobini, blanquisti, riuniti per forza; perdono il loro tempo a discutere. Gli onesti si confonderanno con gli ambiziosi, che sognan solo il dominio e il disprezzo della folla donde pure sono usciti. Arrivati tutti con idee diametralmente opposte, saran costretti a concludere alleanze fittizie, per costituir maggioranze che avran la durata di un giorno: si accapiglieranno, trattandosi l'un l'altro di reazionarii, di autoritarii, di bricconi; incapaci di mettersi di accordo su di alcun serio provvedimento, saran trascinati a pettegoleggiare di sciocchezze; non riuscendo che ad abortire dei proclami rumorosi, si prenderan tutti sul serio, mentre la vera forza del movimento sarà nella strada.
     Tutto ciò può divertire coloro che sono amanti del teatro. Ma anche una volta: questo non è la rivoluzione, e nulla di rivoluzionario è fatto ancora!
     Durante questo tempo il popolo soffre. Le officine scioperano, i laboratori son chiusi, il commercio ristagna. Il lavoratore non riscuote più nemmeno il salario derisorio che prima aveva, e all'incontro il prezzo di tutti i generi aumenta!
     Con quell'abnegazione eroica che sempre distingue il popolo, e che arriva sino al sublime nelle grandi occasioni, esso pazienta. È il popolo che nel 1848 esclamava: «Noi mettiamo tre mesi di miseria a' servigi della Repubblica» mentre i «rappresentanti» e i signori del nuovo governo sino all'ultimo sbirro, riscuotevano regolarmente la loro paga! Il popolo soffre. Nella sua fiducia di fanciullone, colla bonarietà della massa che crede ne' suoi agitatori, egli aspetta che lassù, alla Camera, al Municipio, al Comitato di salute pubblica si occupino di lui.
     Ma lassù a tutto si pensa, fuori che alle sofferenze della folla. Quando la carestia tortura la Francia nel 1793 e compromette la rivoluzione; quando il popolo è ridotto all'estrema miseria, mentre l'elegante passeggiata parigina de' Campi Elisi brulica di cocchi superbi ove le darne sciorinano le loro acconciature fastose, Robespierre insiste all'assemblea dei Giacobini perchè si discuta la sua memoria sulla Costituzione inglese! Quando nel 1848 il lavoratore soffre per la sospensione generale dell'industria, il Governo provvisorio e la Camera si bisticciavano sulle pensioni militari e il lavoro delle prigioni, senza domandarsi di che cosa viva il popolo durante questi periodi di crisi. E se un rimprovero deve muoversi alla Comune di Parigi, nata sotto il cannone dei Prussiani e vissuta appena settanta giorni, si è di non aver compreso che la rivoluzione comunale non poteva trionfare senza combattenti ben nutriti, e che con trenta soldi per giorno non si può nello stesso tempo battersi sui bastioni e mantener la propria famiglia. Il popolo soffre e domanda: Che cosa fare dunque per uscire da questa intricata situazione?


III.

     Ebbene! a noi sembra che a tale domanda non vi sia che una risposta:
     - Riconoscere, e proclamare altamente che ciascuno qualunque siano stati nel passato il suo partito, la sua origine o la sua scuola, qualunque siano stati la sua forza o la sua debolezza, le sue attitudini o la sua incapacità, possiede, prima di tutto «il diritto di vivere»; e che spetta alla Società di ripartire fra tutti, senza eccezione, i mezzi di esistenza, di cui essa dispone. Riconoscer questo, proclamarlo, e agire conseguentemente!
     Fare in maniera che, sin dal primo giorno della Rivoluzione il lavoratore sappia che un'era nuova si schiude dinanzi a lui: che niuno ormai sarà costretto a coricarsi sotto i ponti, presso i palagi dei ricchi; a restar digiuno finchè vi saranno alimenti; a tremar di freddo vicino ai magazzini di pelliccie. Che tutto appartenga a tutti, in realtà come in principio, e che finalmente si produca nella storia una rivoluzione che si occupi dei «bisogni» del popolo, prima di fargli la lezione sui suoi «doveri».
     E questo non si compierà per mezzo di decreti, ma unicamente coll'entrare in possesso, di tutto ciò che è necessario per assicurare la vita di tutti. Tale è la sola maniera di procedere veramente scientifica, la sola che sia compresa e desiderata dal popolo.
     Prender possesso, in nome del popolo ribellatosi, dei depositi di grano, dei magazzini che rigurgitano di abiti, delle case abitabili. Nulla sciupare, organizzarsi subito per rioccupare i vuoti, far fronte a tutte le necessità, soddisfare tutti i bisogni, produrre, non più per dar guadagno a chicchessia, ma per far vivere e sviluppare la società.
     Basta di quelle formule ambigue, quali il «diritto al lavoro», con la quale si è lusingato il popolo nel 1848 e si cerca ancora di lusingarlo! Abbiamo il coraggio di riconoscere che l'agiatezza, ormai possibile, deve realizzarsi ad ogni costo.
     Quando, nel 1848, i lavoratori reclamavano il diritto al lavoro, si organizzavano dei laboratori nazionali o municipali, e si mandavano gli uomini a faticare in questi laboratori a ragione di quaranta soldi al giorno! Quando domandavano l'organizzazione del lavoro, veniva loro risposto: «pazientate, amici miei, il governo pensa ad occuparsene, e per oggi eccovi quaranta soldi. Riposatevi, rudi lavoratori, che avete stentato per tutta la vostra vita!». E nel frattempo si puntavano i cannoni. Si facevano appelli e contro-appelli di truppe; si disorganizzavano i lavoratori stessi con i mille mezzi che i borghesi conoscono a meraviglia. E un bel giorno si diceva loro: «Partite a colonizzar l'Africa, o altrimenti vi faremo mitragliare!».
     Interamente diverso sarà il risultato, se i lavoratori rivendicano «il diritto all'agiatezza». Per questo fatto essi proclamano il loro diritto d'impadronirsi di tutta la ricchezza sociale; di prendere le case e di alloggiarvi, secondo i bisogni di ogni famiglia; di prendere i viveri accumulati e di usarne in modo da conoscer l'agiatezza dopo non aver che troppo conosciuta la fame. Essi proclamano il loro diritto a tutte le ricchezze - frutto del lavoro delle generazioni passate e presenti, e ne usano in modo da gustare gli elevati godimenti dell'arte e della scienza, che per troppo tempo furon monopolio dei borghesi.
     E, in affermare il loro diritto all'agiatezza, proclamano - ciò che è anche più importante - il loro diritto di decidere essi stessi qual debba essere questa agiatezza, ciò che occorre produrre per assicurarla, e ciò che devesi abbandonare, perchè privo ormai di valore.
     Il diritto all'agiatezza è la possibilità di vivere da esseri umani, e di educare i figli per farne dei membri uguali di una società superiore alla nostra, mentre che il «diritto al lavoro» è il diritto di rimaner sempre schiavo salariato, l'uomo di fatica, governato e sfruttato dal borghese di domani. Il diritto all'agiatezza è la uguaglianza sociale; il diritto al lavoro è tutto al più un reclusorio industriale.
     È già lungo tempo che il lavoratore proclama il suo diritto alla comune eredità, ed è ora che egli ne prenda finalmente possesso.
     


IL COMUNISMO ANARCHICO


I.

     Ogni società che vorrà romperla con la proprietà privata, sarà costretta, secondo noi, ad organizzarsi in comunismo anarchico. L'anarchia conduce al comunismo, e il comunismo all'anarchia, non essendo l'uno e l'altro che la espressione della tendenza predominante delle società moderne, la ricerca dell'uguaglianza.
     Vi fu un'epoca, in cui una famiglia di contadini poteva considerare come prodotto del suo proprio lavoro il grano ch'essa faceva maturare e gli abiti di lana tessuti nella capanna. Ma anche allora, questo modo di concepire non era affatto corretto. Poichè vi erano già strade e ponti costruiti in comune, delle paludi prosciugate con un lavoro collettivo, nonchè dei pascoli comunali cinti da siepi che tutti contribuivano a mantenere. Un miglioramento apportato al mestiere della tessitura, o nel modo di tingere i tessuti, era a tutti giovevole; in quell'epoca, una famiglia di contadini non poteva vivere che a condizioni di trovare appoggio, in mille occasioni, nel villaggio, nel comune.
     Ma oggi, in questo stato dell'industrie dove tutto si intreccia e si sorregge reciprocamente, dove ogni ramo della produzione si serve di tutti gli altri, la pretesa di voler attribuire un'origine individualista ai prodotti non regge in alcun modo. Se le industrie tessili e metallurgiche hanno raggiunto nei paesi civili una meravigliosa perfezione, esse lo debbono allo sviluppo simultaneo di mille altre industrie, grandi e piccole; esse lo debbono all'estensione delle reti ferroviarie, della navigazione transatlantica, all'abilità di milioni di lavoratori, a un certo grado di coltura generale di tutta la classe operaia, a dei lavori, infine, eseguiti da un capo all'altro del mondo.
     Gli Italiani che morivano di colèra scavando il canale di Suez, o di anchilosi nella galleria del Gottardo, e gli Americani caduti nella guerra per l'abolizione della schiavitù, hanno contribuito allo sviluppo della industria del cotone in Francia ed in Inghilterra, non meno delle giovanette che avvizziscono nelle manifatture di Manchester o di Rouen e dell'ingegnere che avrà arrecato (dietro il suggerimento di qualche lavoratore) un miglioramento qualunque nel mestiere della tessitura.
     Come stimare la parte che spetta a ciascuno, delle ricchezze che noi tutti contribuiamo ad accumulare?
     Partendo da questo punto di vista generale e sintetico della produzione, noi non possiamo ammettere con i collettivisti che possa essere un ideale, o anche un passo innanzi verso questo ideale, la rimunerazione proporzionale alle ore di lavoro da ciascuno effettuate per la produzione delle ricchezze. Senza discutere qui se realmente il valore di scambio delle merci sia calcolato nella società attuale dalla quantità di lavoro necessario per produrle (come hanno affermato Smith e Ricardo, di cui Marx ha seguito e rimesso a nuovo le tradizioni)(10), ci basterà di dire, salvo a ritornarci sopra più tardi, che l'ideale collettivista ci pare irrealizzabile in una società che consideri gli strumenti di produzione come un patrimonio comune. Basata su tale principio, essa si vedrebbe poi costretta ad abbandonare immediatamente ogni forma di salario(11).
     Noi siamo persuasi che l'individualismo attenuato dal sistema collettivista non potrebbe esistere a lato del comunismo parziale del suolo e degli strumenti di lavoro posseduti da tutti. Una nuova forma di possesso richiede anche una nuova forma di retribuzione. Una nuova forma di produzione non potrebbe conservare l'antica forma di consumo, come non potrebbe adattarsi alle antiche forme d'organizzazione politica.
     Il salariato ha avuto origine dall'appropriazione personale del suolo e degli strumenti di produzione da parte di qualcuno. Ciò era la condizione necessaria per lo sviluppo della produzione capitalista, e morrà con essa, anche quando si cercasse di dissimularlo sotto la forma di «buoni di lavoro». Il possesso comune degli strumenti di lavoro apporterà necessariamente il godimento in comune dei frutti del lavoro comune.
     Noi sosteniamo inoltre che il comunismo è non solamente desiderabile, ma che le società attuali basate sull'individualismo sono anche «costrette a continuamente avanzare verso il comunismo».
     Lo sviluppo dell'individualismo durante i tre ultimi secoli si spiega sovratutto per gli sforzi dell'uomo che voleva premunirsi contro i poteri del capitale e dello Stato. Egli credette per un istante, e coloro che formulavano per lui il suo pensiero lo predicarono, ch'egli poteva emanciparsi interamente dallo Stato e dalla società. «Mediante il danaro, egli diceva, io posso comprare tutto ciò di cui avrò bisogno». Ma l'individuo sbagliò strada, e la storia moderna lo riconduce a riconoscere che, senza il concorso di tutti, ei non può nulla, quand'anche avesse le sue casse forti ricolme d'oro.
     Infatti, a lato di questa corrente individualista, noi vediamo in tutta la storia moderna la tendenza a ritenere da una parte ciò che rimane del parziale comunismo dell'antichità, e dall'altra a ristabilire il principio comunista in mille e mille manifestazioni della vita.
     Da quando i Comuni del decimo, undecimo e dodicesimo secolo, riuscirono a emanciparsi dalla signoria laica o religiosa, diedero immediatamente una grande estensione al lavoro in comune, al consumo in comune.
     La città - e non già i particolari - noleggiava bastimenti e spediva le sue carovane per il commercio lontano, dei cui benefizii godevano tutti, e non alcuni individui soltanto; la città acquistava anche le provviste per i suoi abitanti. Le tracce di queste istituzioni si son conservate sino al diciottesimo secolo, e i popoli ne custodiscono piamente la memoria nelle loro leggende.
     Tutto questo è scomparso. Ma il comune rurale lotta ancora per mantenere le ultime vestigia di questo comunismo, e vi riesce fintantochè lo Stato non intervenga a gettar nella bilancia la sua spada assai pesante.
     Nello stesso tempo nuove organizzazioni basate sullo stesso principio: «a ciascuno secondo i proprii bisogni» sorgono sotto mille aspetti diversi: imperocchè, senza una tal quale dose di comunismo, anche le società attuali non potrebbero vivere. Malgrado il giro strettamente egoista dato agli spiriti dalla produzione mercantile, la tendenza comunistica si rivela ad ogni momento e penetra nelle nostre relazioni sotto tutte le forme.
     Il ponte, sul quale una volta gravava la tassa di pedaggio pei passeggeri, è diventato proprietà pubblica. La strada lastricata, che si pagava un tempo a tanto per lega, non esiste più che in Oriente. I musei, le biblioteche libere, le scuole gratuite, le refezioni in comune dei fanciulli; i parchi e i giardini aperti a tutti; le strade lastricate e illuminate, libere per tutti; l'acqua trasportata nelle abitazioni con tendenza generale a non tener conto della quantità consumata - sono altrettante istituzioni fondate sul principio: «Prendi ciò che ti occorre».
     I «tramways» e le strade ferrate introducono già il biglietto d'abbonamento mensile o annuo, senza tener conto del numero dei viaggi: e recentemente un'intera nazione, l'Ungheria, ha introdotto nella sua rete di ferrovie il biglietto per zone, che permette di percorrere cinquecento o mille chilometri per lo stesso prezzo(12). Non si è lontani dal prezzo uniforme, come per il servizio postale. In tutte queste innovazioni e in mille altre, si riscontra la tendenza di non misurare il consumo. Un tale sente il bisogno di percorrere mille leghe, un altro invece solo cinquecento. Questi sono bisogni personali e non v'è ragione di far pagare all'uno il doppio dell'altro, perchè il suo bisogno è due volte più intenso(13). Tali i fenomeni che si verificano sin nelle nostre società individualiste.
     Per quanto ancora debole, esiste già fin d'adesso la tendenza di collocare i bisogni dell'individuo al disopra della valutazione dei servigi ch'egli ha reso, o che renderà un giorno alla società. Si giunge a considerare la società come un tutto, di cui ogni parte è così intimamente collegata colle altre, che il servigio reso a un individuo, è un servigio reso a tutti.
     Quando vi recate in una biblioteca pubblica - non la biblioteca nazionale di Parigi, per esempio, ma quelle di Londra o Berlino - il bibliotecario non vi domanda quali servigi voi avete resi alla società per darvi il volume od i cinquanta volumi che voi gli richiedete, e vi aiuta anzi all'occorrenza se per caso non vi sapete raccapezzare nel catalogo. Mediante un diritto d'ingresso uniforme, e molto spesso si preferisce una contribuzione in lavoro, la società scientifica apre i suoi musei, i suoi giardini, la sua biblioteca, i suoi laboratori, le sue feste annue a ciascuno dei suoi membri, sia egli un Darwin o un semplice dilettante.
     A Pietroburgo, se voi state studiando un'invenzione, potete recarvi in un laboratorio speciale, dove vi si accorda un posto, un banco da falegname, un tornio da meccanico, tutti gli attrezzi necessarii, tutti gli strumenti di precisione, purchè voi sappiate adoperarli; e vi si lascia lavorare finchè vi piacerà. Eccovi gli attrezzi, interessate degli amici alla vostra idea, associatevi ad altri compagni di diversi mestieri se voi non preferite di lavorar solo, inventate la macchina per volare, o non inventate nulla - è affar vostro. Un'idea vi trascina, ciò basta.
     Ugualmente, i marinai di un battello di salvataggio non domandano i loro titoli ai marinai d'un bastimento che cola a fondo; ma slanciano a mare la imbarcazione, rischiano la vita fra le ondate furibonde, e talvolta periscono per salvare degli uomini che non conoscono nemmeno. E perchè dovrebbero conoscerli? «Si ha bisogno dei nostri servigi; vi son là degli esseri umani ciò basta, il loro diritto è stabilito. - Salviamoli!».
     Ecco la tendenza, eminentemente comunistica, che dappertutto si mostra, sotto tutti gli aspetti possibili, nel seno stesso delle nostre società che predicano l'individualismo.
     Domani una delle nostre grandi città, così egoiste in tempi ordinari, viene colpita da una calamità qualunque - quella d'un assedio ad esempio - questa stessa città deciderà che i primi bisogni da soddisfare sieno quelli dei fanciulli e dei vecchi. Senza informarsi dei servigi che essi hanno reso o renderanno alla società, occorre, prima di tutto, nutrirli; e così prender cura dei combattenti, indipendentemente dalla bravura o dall'intelligenza di cui ognun d'essi avrà dato prova, e fra migliaia di donne e di uomini avverrà una gara generosa di abnegazione per curare i feriti.
     La tendenza dunque esiste. Essa si accentua quando i bisogni più imperiosi di ciascuno sono soddisfatti, e a misura che la forza produttrice dell'umanità si accresce; essa si accentua ancor più ogni volta che una grande idea sorge a prendere il posto delle meschine preoccupazioni della nostra vita quotidiana.
     Come dubitar dunque che, il giorno in cui gli strumenti di produzione venissero consegnati a tutti e si compisse l'opera in comune e il lavoro, riacquistando così nella società il suo posto d'onore, producesse ben più di quel che necessiti a tutti, come dubitare che allora, questa tendenza, già così potente, non allarghi la sua sfera d'azione, sino a diventare il principio stesso della vita sociale?
     Secondo quest'indizii, e riflettendo inoltre al lato pratico dell'espropriazione, di cui parleremo nei seguenti capitoli, noi siamo d'opinione che il nostro primo obbligo, quando la rivoluzione avrà spezzato la forza che mantiene il sistema attuale, sarà di realizzare immediatamente il comunismo.
     Ma il nostro comunismo non è quello dei falansteriani, nè quello dei teorici autoritarii tedeschi. È il comunismo anarchico, il comunismo senza governo, quello degli uomini liberi. È la sintesi dei due scopi ai quali mira l'umanità attraverso i tempi: la libertà economica e la libertà politica.


II.

     Anche nel prendere «l'anarchia» come ideale di organizzazione politica, noi non facciamo che formulare un'altra decisa tendenza dell'umanità. Ogni volta che il progredire dello sviluppo delle società europee l'ha permesso, esse scuotevano il giogo dell'autorità, e abbozzavano un sistema basato sui principii della libertà individuale. E noi osserviamo nella storia che i periodi, durante i quali i governi furono scossi, in seguito a rivolte parziali o generali, sono state epoche di progresso immediato sul terreno economico ed intellettuale.
     È talvolta l'emancipazione dei comuni, i cui monumenti - frutto del lavoro libero di associazioni libere - non sono stati dipoi mai più superati; ora è la sollevazione dei contadini, la quale creò la Riforma e mise in pericolo il Papato; ora è la Società, momentaneamente libera, che sull'altra sponda dell'Atlantico crearono i malcontenti salpati dalla vecchia Europa.
     E se noi osserviamo lo sviluppo presente delle nazioni civili, vi scorgiamo, senza tema d'ingannarci, un movimento sempre più accentuato per limitare la sfera di azione del governo, e lasciar sempre maggior libertà all'individuo. L'odierna evoluzione è intralciata, è vero, dal guazzabuglio di istituzioni e di pregiudizii ereditati dal passato; come tutte le evoluzioni, essa non attende che la rivoluzione per rovesciare le vecchie catapecchie che le ostacolano il cammino, per prendere un libero slancio nella società rigenerata.
     Dopo aver per lungo tempo tentato vanamente di risolver questo problema insolubile, quello di darsi un governo, «il quale possa costringer l'individuo all'obbedienza, senza nondimeno cessar d'obbedire egli stesso alla società», l'umanità si sforza di liberarsi da ogni specie di governo, e a soddisfare i suoi bisogni di organizzazione per mezzo del libero accordo fra individui e gruppi che mirano allo stesso fine. L'indipendenza di ogni minima unità territoriale diventa un bisogno urgente; il comune accordo sostituisce la legge e regola, al disopra delle frontiere, gl'interessi particolari in vista di uno scopo generale.
     Tutto ciò che fu una volta considerato come funzione del governo, gli viene oggi contrastato: ci si aggiusta meglio e più facilmente senza il suo intervento. Studiando i progressi fatti in questo senso, noi siamo indotti a concludere che l'umanità tende a ridurre a zero dei governi, cioè ad abolire lo Stato, questa personificazione dell'ingiustizia, dell'oppressione, del monopolio.
     Noi possiamo già prevedere un mondo in cui l'individuo, cessando di esser vincolato da leggi, non avrà che abitudini socievoli - risultato del bisogno, provato da ognun di noi, di cercare l'appoggio, la cooperazione, la simpatia dei propri vicini.
     Certo, l'idea di una società senza Stato susciterà, per lo meno, altrettante obbiezioni quante l'economia politica di una società senza capitale privato. Tutti, più o meno, crescemmo alimentati da pregiudizii sulle funzioni provvidenziali dello Stato. Tutta la nostra educazione, dall'insegnamento delle tradizioni romane sino al codice bizantino, che si studia sotto il nome di diritto romano, e le stesse scienze diverse professate nelle Università, ci abituano a credere al governo e alle virtù dello Stato-Provvidenza.
     Interi sistemi di filosofia sono stati elaborati e insegnati per mantenere questo pregiudizio. Tutte le teoriche della legge si esprimono nel medesimo senso. E tutta la politica è basata su questo principio; ed ogni politicante, qualunque sia il suo partito e la sua gradazione, non fa che ripetere al popolo «Dammi il potere, perchè io voglio, io posso liberarti dalle miserie che ti opprimono».
     Dalla culla alla tomba, tutte le nostre azioni sono dirette da questo principio. Aprite non importa qual libro di sociologia, di giurisprudenza, e troverete sempre che il governo, la sua organizzazione, i suoi atti vi occupano un posto così grande, che noi ci abituiamo a credere che non vi sia null'altro all'infuori del governo e degli uomini di Stato.
     La stessa lezione è ripetuta su tutti i toni dalla stampa. Colonne intere dei giornali son dedicate alle discussioni parlamentari, agl'intrighi dei politicanti; è molto se la vita quotidiana e immensa d'una nazione vi fa capolino tra qualche linea che tratta di un argomento economico, a proposito d'una legge, o, nella cronaca, a cagion della polizia. E quando voi leggete questi giornali, non pensate punto al numero incalcolabile di esseri - tutta l'umanità, per così dire - che crescono e muoiono, che conoscono tutti i dolori, che lavorano e consumano, pensano e creano, al di là di quei pochi personaggi imbarazzanti che sono stati tanto gonfiati, sino a far loro nascondere, colla loro ombra ingrandita dalla nostra ignoranza, l'intera umanità.
     Eppure, non appena si passa dalla materia stampata alla vita istessa, non appena si getta un colpo d'occhio sulla società, si rimane colpiti della parte infinitamente minuscola che il governo vi rappresenta. Balzac aveva già notato quanti milioni di contadini passano la vita intera senza nulla conoscer dello Stato, salvo le pesanti imposte che sono obbligati a tributargli. Ogni giorno avvengono milioni di transazioni senza che il governo debba intervenire, e le più importanti fra esse - quelle del commercio e della Borsa - sono regolate in tal maniera che il governo non potrebbe nemmeno essere invocato, qualora l'una delle parti contraenti avesse l'intenzione di non mantenere il suo impegno. Parlate a un uomo pratico del commercio, ed ei vi dirà che gli scambii operati ogni giorno fra commercianti sarebbero di un'impossibilità assoluta, se non fossero basati sulla mutua fiducia. L'abitudine di non mancare alla parola data, il desiderio di non perdere il proprio credito, bastano largamente per mantenere questa onestà relativa, - l'onestà commerciale. Colui stesso che non prova il menomo rimorso di avvelenare la sua clientela con droghe infette, ricoperte da etichette pompose, si fa uno scrupolo di mantenere i proprii impegni. Ora, se questa moralità relativa ha potuto svilupparsi persino nelle condizioni attuali, quando l'arricchimento è il solo movente e il solo obbiettivo degli uomini, come possiamo dubitare ch'essa non progredisca rapidamente allorchè l'appropriazione dei frutti del lavoro altrui avrà cessato di essere la base stessa della società?
     Un'altra sorprendente nota caratteristica, la quale distingue specialmente la nostra generazione, parla ancor meglio in favore delle nostre idee. Intendiamo dire dell'accrescimento continuo nel campo delle intraprese dovute all'iniziativa privata, e lo sviluppo prodigioso degli aggruppamenti liberi di ogni specie. Noi ne discorreremo più a lungo nei capitoli dedicati al «Libero Accordo». Ci limiteremo qui a notare come questi fatti siano numerosi e così abituali, da formare l'essenza della seconda metà di questo secolo, anche quando gli scrittori di socialismo e di politica li ignoravano, preferendo intrattenersi sempre sulle funzioni del governo. Queste organizzazioni libere, variate all'infinito, sono un prodotto così naturale, così rapidamente si sviluppano, e con tanta facilità si aggruppano, e sono un risultato così necessario dell'aumento continuo dei bisogni dell'uomo civilizzato, e finalmente esse sostituiscono così vantaggiosamente l'intrusione governativa, che noi dobbiamo riconoscere in loro un fattore sempre più importante nella vita sociale.
     Se esse non si estendono ancora in proporzione d'insieme, colle manifestazioni della vita, egli è perchè si scontrano in ostacoli insormontabili, quali la miseria del lavoratore, la divisione in caste della società attuale, l'appropriazione privata del capitale, lo Stato. Sopprimete questi ostacoli, e voi le vedrete ricoprir tutto l'immenso dominio dell'attività degli uomini civili.
     La storia degli ultimi cinquant'anni ha fornito la prova vivente dell'impotenza del governo rappresentativo ad adempiere alle funzioni delle quali lo si è voluto sopraccaricare. Si citerà un giorno il secolo decimonono come la data della liquidazione del parlamentarismo.
     E quest'impotenza diventa così evidente agli occhi di tutti, e le colpe del parlamentarismo e i vizi fondamentali del principio rappresentativo sono così palpabili, che quei pochi pensatori i quali ne han fatto la critica, quali T. S. Mill e Leverdays, per esempio, non hanno dovuto che riprodurre il malcontento popolare. Infatti, come non concepire l'assurdità di nominare alcuni individui e dir loro: «Fateci delle leggi intorno a tutte le manifestazioni della nostra vita, anche quando ognun di voi le ignora?». Si comincia a capire che governo della maggioranza significa abbandono di tutti gli affari del paese nelle mani di coloro che formano le maggioranze, cioè dei «rospi di palude», sia alla Camera che nei comizi: in una parola a coloro che non hanno alcuna opinione. L'umanità cerca, e trova già nuove uscite.
     L'unione postale internazionale, l'unione delle strade ferrate, le società di dotti ci danno l'esempio di soluzioni trovate per mezzo del libero accordo, senza bisogno di ricorrere a leggi.
     Oggi, quando dei gruppi sparsi ai quattro angoli del mondo vogliono organizzarsi per uno scopo qualunque, non nominano più un parlamento internazionale di deputati «buoni a far tutto, adatti a tutte le bisogne», ai quali si dice: «Votateci delle leggi, e noi obbediremo». Quando è impossibile intendersi direttamente o per corrispondenza, si mandano delegati che conoscono la questione speciale da trattarsi e si dice loro: «Cercate di accordarvi sulla tale questione, e allora ritornate, non già con una legge in tasca, ma con una proposta di accordo che noi accetteremo, o non accetteremo».
     Così appunto agiscono le grandi compagnie industriali, le società scientifiche, le associazioni di ogni specie che coprono già l'Europa e gli Stati Uniti. E così dovrà agire una società che siasi emancipata. Per effettuare l'espropriazione, le sarà assolutamente impossibile di organizzarsi sul principio della rappresentanza parlamentare. Una società fondata sul servaggio poteva adattarsi con una monarchia assoluta: una società basata sul salariato e lo sfruttamento delle masse per opera dei possessori del capitale, si assettava sul parlamentarismo. Ma una società libera la quale rientra in possesso della comune eredità, dovrà cercare, nel libero aggruppamento e nella libera federazione dei gruppi, un'organizzazione nuova, la quale convenga alla nuova fase economica della storia.
     Ad ogni fase economica corrisponde la sua fase politica, e sarà impossibile di colpire la proprietà senza trovar nel medesimo istante una nuova maniera di vita politica.

L'ESPROPRIAZIONE


I.

     Si racconta che nel 1848, Rothschild, vedendosi minacciato dalla Rivoluzione nella sua fortuna, inventasse la seguente storiella: «Io voglio pure ammettere, egli diceva, che la mia fortuna siasi fatta a spese degli altri. Ma divisa fra tanti milioni d'Europei, essa non fornirebbe che uno scudo a persona. Ebbene! io mi impegno a restituire a ciascuno il suo scudo, se egli me lo richiederà».
     Ciò detto, e debitamente pubblicato, il nostro milionario passeggiava tranquillamente per le vie di Francoforte. Tre o quattro passeggeri gli chiesero il loro scudo; egli lo sborsò con un sorriso sardonico, e il tiro fu giocato. La famiglia del milionario è ancora in possesso dei suoi tesori.
     Presso a poco nell'identica maniera ragionano le grandi teste della borghesia, quando ci dicono:
     - «Ah, l'espropriazione? ma io l'accetto. Voi prendete a ciascuno il suo soprabito, lo mettete in mucchio cogli altri, ed ognuno va a prendersene uno, salvo a litigare poi per avere il migliore!».
     È uno scherzo di cattivo gusto. Quel che ci occorre, non è di mettere i soprabiti tutti in un mucchio per ridistribuirli poi in seguito, benchè coloro che muoiono di freddo vi troverebbero pure qualche vantaggio. Non si tratta nemmeno di dividere gli scudi di Rothschild. Ma noi vogliamo organizzarci in maniera che ogni essere umano che venga al mondo, abbia la possibilità assicurata di imparare dapprima un lavoro produttivo, e acquistarne l'abitudine; e in seguito di poter fare questo lavoro senza domandarne il permesso al proprietario e al padrone, e senza pagare agl'incettatori della terra e delle macchine la parte del leone su tutto ciò ch'egli produrrà.
     Quanto alle ricchezze di ogni specie accumulate nelle mani dei Rothschild e dei Vanderbilt, esse ci serviranno per meglio organizzare la nostra produzione in comune.
     Il giorno in cui il contadino potrà lavorar la terra senza rilasciar la metà di ciò che ha prodotto; il giorno in cui le macchine necessarie per preparare il suolo alle grandi raccolte saranno in abbondanza, alla libera disposizione dei coltivatori: il giorno in cui l'operaio dell'officina produrrà per la comunità e non per il monopolio, i lavoratori non saranno più ricoperti di cenci; e non vi saranno più Rothschild, nè altri sfruttatori.
     Nessuno avrà più bisogno di vendere la sua forza di lavoro per un salario che non rappresenta che una parte di ciò ch'egli ha prodotto.
     - «Sia pure, ci vien detto. Ma vi arriveranno dei Rothschild dal di fuori. Come potrete impedire che un individuo, il quale abbia accumulato milioni in Cina venga a stabilirsi fra voi? che si circondi di servitori e di lavoratori salariati, che li sfrutti e si arricchisca a loro spese?».
     - «Voi non potrete far la Rivoluzione su tutta la terra contemporaneamente. Oppure dovrete stabilire alle vostre frontiere dogane e doganieri, che perquisiscano quei che arrivano, e loro sequestrino l'oro che recano con sè. - Sarebbe proprio bello il vedere gendarmi anarchici, che tirano sui passeggeri!».
     Ebbene, in fondo a questo ragionamento risiede un grave errore. Egli è che pochi si domandano da dove provengano le fortune dei ricchi. Un poco di riflessione basterebbe per dimostrare che l'origine di queste fortune è la miseria dei poveri.
     Là, dove non ci saranno miserabili, non ci saranno più ricchi per sfruttarli.
     Osservate un poco il medio evo, quando cominciano a sorgere le grandi fortune.
     Un barone feudale ha fatto man bassa su di una fertile vallata. Ma finchè questa campagna non sia popolata, il nostro barone non è punto ricco. La sua terra non gli rende nulla: tanto varrebbe il possedere dei beni nella luna. Che cosa farà il nostro barone per arricchirsi? Cercherà dei contadini.
     Però, se ogni agricoltore avesse un pezzo di terra libero da ogni canone o imposta; se avesse, inoltre, gli attrezzi ed il bestiame necessario per coltivarlo, chi vorrebbe dunque andare invece a dissodare le terre del barone? Ognuno rimarrebbe in casa sua. Ma vi sono intere popolazioni di miserabili. Molti sono stati rovinati dalle guerre, dalle carestie, dalle epidemie; essi non hanno nè cavallo, nè aratro. (Il ferro era costoso nel medio evo, più costoso ancora del cavallo da fatica).
     Tutti i miserabili aspirano a migliorare le proprie condizioni. Un giorno vedono sulla via, all'estremità delle terre del nostro barone, un palo il quale indica con certi segni comprensibili, che il lavoratore il quale verrà a stabilirsi su quelle terre riceverà, insieme col terreno, gli strumenti e i materiali per costruir la sua capanna, seminare il suo campo, senza alcun canone durante un certo numero d'anni. Questo numero di anni è segnato sul palo-frontiera con altrettante croci, e il contadino comprende che cosa significhino quelle croci.
     E allora i miserabili affluiscono sulla terra del barone, e vi aprono strade, vi prosciugano le paludi, vi creano villaggi. Fra nove anni il barone imporrà loro un contratto di affitto; cinque anni più tardi preleverà le prime imposte, che quindi raddoppierà. Il lavoratore accetterà queste condizioni, perchè non ne troverebbe migliori altrove. E a poco a poco, con l'aiuto della legge fatta dai padroni, la miseria del contadino diventa la fonte di ricchezza del signore, e non di lui soltanto, ma di tutto un nugolo di usurai, i quali, da veri uccelli di rapina, si precipitano sui villaggi, e si moltiplicano, quanto più il contadino maggiormente s'impoverisce.
     Così accadeva nel medio evo. Ed oggi, forse, non si verifica sempre la stessa cosa? Se vi fossero terre libere, che il contadino potesse coltivare a suo piacimento, acconsentirebbe forse a pagare mille lire per ettaro al signor conte o barone, il quale si degna di vendergliene un pezzo? Consentirebbe forse a pagare un affitto gravoso che gli assorbe un terzo dei prodotti che ha ottenuti? Anderebbe forse a coltivare i terreni in mezzadria per dare la metà del raccolto al proprietario dei campi?
     Ma poichè nulla egli possiede, accetterà tutte queste condizioni, purchè possa vivere coltivando il suolo, ed arricchirà il signore.
     In pieno secolo decimonono, precisamente come nel medio evo, la povertà del contadino forma ancora la ricchezza dei proprietari di terre.


II.

     Il proprietario del suolo si arricchisce dunque della miseria del contadino. Lo stesso accade per l'intraprenditore industriale.
     Eccovi un borghese il quale, in un modo o in un altro, si trova possessore di un gruzzolo di cinquecentomila lire. Egli può certamente spendere il suo denaro in ragione di cinquantamila lire all'anno, - ben poco, in fondo, considerando il lusso fantastico e insensato dei nostri giorni. Ma allora, in capo a dieci anni, non avrà più nulla. Cosicchè, da uomo «pratico», egli preferisce di conservare intatta la sua fortuna, e, per di più, di formarsi un discreto reddito annuale.
     Ciò è molto semplice a mettersi in pratica nella nostra società, precisamente perchè le nostre città e i nostri villaggi formicolano di lavoratori, i quali non hanno di che vivere nè per un mese, nè per una quindicina di giorni. Il borghese impianta un'officina: i banchieri si affrettano a prestargli ancora cinquecentomila lire, sovrattutto s'egli gode riputazione di uomo accorto; ed ecco che, con un milione, potrà far lavorare cinquecento operai.
     Se non vi fossero nei dintorni della nuova officina altro che uomini e donne, la cui esistenza fosse garantita, chi anderebbe dunque a lavorare per il nostro borghese? Nessuno, certo, acconsentirebbe a fabbricargli per un salario di tre lire al giorno, merci che valgono cinque ed anche dieci lire.
     Disgraziatamente, - noi lo sappiamo purtroppo, - i quartieri poveri della città e dei villaggi vicini rigurgitano di gente, i cui figliuoli si lamentano per la fame. Di modo che l'officina non è nemmeno terminata, e già i lavoratori fanno ressa per essere occupati. Non ne occorrevano che cento, e se ne offrirono mille. E sin quando l'officina comincerà a funzionare, il padrone - se non è proprio l'ultimo degli imbecilli - incasserà, per ogni paio di braccia che lavorano da lui, un migliaio di lire all'anno di utile netto.
     Si formerà così una rendita magnifica, e, s'egli ha scelto poi un ramo d'industria lucroso, se è abile, ingrandirà a poco a poco la sua officina e aumenterà le sue rendite, raddoppiando il numero degli uomini da sfruttare.
     Diventerà allora un personaggio considerevole nel paese. Potrà pagar dei pranzi agli altri personaggi considerevoli, al sindaco, ai consiglieri, al signor deputato. Potrà, con un matrimonio vantaggioso, congiungere la sua fortuna a un'altra, e, più tardi, collocare a sua volta vantaggiosamente i suoi figli, e finalmente ottenere dallo Stato qualche concessione. Gli verrà accordata una fornitura per l'esercito, o per la prefettura; ed egli arrotonderà sempre più il suo gruzzolo, finchè una guerra, o un semplice rumore di guerra, o una speculazione alla Borsa, gli permetteranno di fare ciò che si dice un bel colpo.
     I nove decimi delle fortune colossali degli Stati Uniti (Henry George l'ha ben raccontato nei suoi «Problemi Sociali»)(14) sono dovute a qualche grande bricconeria, i nove decimi delle fortune nelle nostre monarchie e nelle nostre repubbliche hanno la stessa origine. Non vi sono due maniere per diventare milionari!
     Tutta la scienza delle ricchezze consiste in questo: trovar dei miserabili, pagarli tre lire al giorno e farne loro produrre dieci; ammassare così una grossa fortuna. Accrescerla in seguito con qualche gran colpo, con l'aiuto dello Stato.
     Dovremmo parlare ancora delle piccole fortune che gli economisti attribuiscono al risparmio, mentre che il risparmio, in se stesso, non «rende» nulla, finchè i soldi «risparmiati» non vengono impiegati a sfruttare i morti di fame?
     Eccovi un calzolaio. Ammettiamo che il suo lavoro sia ben rimunerato, che abbia una buona clientela e che, a forza di privazioni, sia riuscito a mettere da parte due lire al giorno, cinquanta lire al mese!
     Ammettiamo che il nostro calzolaio non cada mai malato; che mangi sino a saziare il suo appetito, malgrado la sua avidità per il risparmio; che non si ammogli, o pure non abbia figli; che non muoia di etisia; ammettiamo tutto ciò che vorrete!
     Ebbene, all'età di cinquant'anni egli non sarà riuscito a mettere da parte quindici mila lire; e non avrà abbastanza di che vivere durante la sua vecchiaia, quando sarà incapace di lavorare. Certo, non è così che si ammassano le fortune.
     Ma eccovi un altro calzolaio. Non appena egli avrà messo da parte qualche soldo, lo affiderà gelosamente alla cassa di risparmio, la quale lo presterà al borghese che sta impiantando una speculazione per lo sfruttamento dei senza lavoro. In seguito il bravo calzolaio prenderà un apprendista, - il figlio di un miserabile che si stimerà felice se, in capo a cinque anni, suo figlio imparerà il mestiere e arriverà a guadagnarsi la vita.
     L'apprendista «frutterà» al nostro calzolaio; sicchè, se questi ha buon numero di clienti, si affretterà a prendere un secondo e poi un terzo allievo. Più tardi, progredendo, stipendierà due o tre operai, - miserabili, felici di riscuotere tre lire al giorno per un lavoro che ne vale sei. E se il nostro calzolaio ha un poco di fortuna, cioè se è abbastanza furbo, i suoi operai ed i suoi apprendisti gli frutteranno una ventina di lire al giorno, oltre al suo proprio lavoro. Potrà così ingrandire il suo negozio, e arricchirsi a poco a poco, senza più privarsi dello stretto necessario. Lascierà a suo figlio un piccolo patrimonio.
     Ecco ciò che si chiama comunemente «fare dei risparmi, aver abitudini sobrie e regolate». In fondo non si tratta sempre che di sfruttare i poveri che hanno bisogno di lavorare.
     Il commercio sembra fare eccezione alla regola. «Il tale, ci si dirà, compra del thè in China, l'importa in Francia, realizzando un beneficio del trenta per cento sul suo denaro. Così non sfrutta nessuno».
     E pure, il caso è analogo. Se il nostro tale avesse trasportato il thè sulle sue spalle, meno male! Una volta, e precisamente alle origini del medio evo, il commercio si faceva in tal maniera. Così pure non si arrivava mai alle favolose ricchezze dei giorni nostri; il mercante d'allora metteva appena da parte alcuni scudi dopo un viaggio penoso e pericoloso. E forse era più il piacere delle avventure e dei viaggi che non la sete di guadagno, che lo spingeva a darsi al commercio.
     Oggi il metodo è più semplice, il mercante che possiede un capitale non ha bisogno di muoversi dal suo ufficio per arricchirsi. Telegrafa ad un rappresentante l'ordine di comperare cento tonnellate di thè; noleggia un bastimento; e in alcune settimane, - in tre mesi, se è un veliero - il bastimento gli avrà portato il suo carico. Non corre nemmeno i rischi della traversata perchè il suo thè e il suo bastimento sono assicurati. E se ha speso cento mila lire, ne riscuoterà cento trenta; - a meno ch'egli non abbia voluto speculare su qualche nuovo genere di mercanzia; nel qual caso rischia, sia di raddoppiare il suo denaro, sia di perderlo interamente.
     Ma come ha potuto egli trovare uomini che si siano decisi a fare la traversata, andare in China e ritornare, lavorare duramente, sopportare fatiche, rischiare la loro vita per un magro compenso? Come ha potuto trovare nei porti dei facchini che pagava appena di che non lasciarli morir di fame mentre lavoravano al carico e allo scarico della sua merce? Come? - Perchè essi son miserabili!
     Andate in un porto di mare, visitate i caffè della spiaggia, osservate quegli uomini che vengono a domandar lavoro, disputandosi l'entrata nei magazzini di deposito, che assediano fin dall'alba, per essere ammessi a lavorare sui bastimenti. Guardate quei marinai, felici di essere arruolati per un viaggio lontano, dopo settimane e mesi d'aspettativa. Tutta la loro vita è trascorsa di bastimento in bastimento e su altri ancora serviranno, finchè un giorno periranno nelle onde.
     Entrate nei loro tuguri, esaminate quelle donne e quei fanciulli cenciosi, che vivono non si sa come, aspettando il ritorno del padre, - e voi avrete la risposta alla vostra domanda.
     Moltiplicate gli esempi, sceglieteli dove a voi piacerà meglio; meditate sull'origine di tutte le fortune, grandi o piccole, provengano esse dal commercio, dalla banca, dall'industria o dal suolo. Dappertutto voi constaterete che la ricchezza degli uni è formata colla miseria degli altri. Una società anarchica non può temere che un Rothschild sconosciuto venga ad un tratto a stabilirsi nel suo seno.
     Se ogni membro della comunità si convince che dopo alcune ore di lavoro produttivo, avrà diritto a tutti i piaceri che la civiltà procura, alle gioie profonde che la Scienza e l'Arte concedono a chi le coltiva, non anderà già a vendere la sua forza di lavoro per un magro compenso; nessuno si offrirà per arricchire il Rothschild in questione.
     Rispondendo all'obbiezione precedente, noi abbiamo nello stesso tempo determinato i limiti dell'espropriazione.
     L'espropriazione deve comprendere tutto ciò che permette a chicchesia - banchiere, industriale o coltivatore - di appropriarsi il lavoro altrui. La formula è semplice e comprensibile.
     Noi non vogliamo spogliare ciascuno del suo soprabito; ma vogliamo restituire ai lavoratori «tutto» ciò che permette a chiunque siasi di sfruttarli: e noi faremo tutti i nostri sforzi perchè, pur non essendovi nessuno che manchi di nulla, non esista «un solo individuo» il quale sia costretto a vendere le proprie braccia per vivere insieme coi suoi figliuoli.
     Ecco in qual modo noi intendiamo l'espropriazione!


III.

     L'idea anarchica in generale, e quella dell'espropriazione in particolare, trovano maggiori simpatie che non si creda, fra gli uomini indipendenti di carattere, e fra quelli che non hanno l'ozio per loro ideale supremo. «Però, ci dicono spesso i nostri amici, badate di non spingervi troppo lontano! Giacchè l'umanità non si modifica in un giorno, non andate troppo presto coi vostri progetti di espropriazione e di anarchia! Rischierete di non far nulla di durevole!».
     Ebbene, quel che noi temiamo, riguardo all'espropriazione, non è punto di andar troppo lungi. Noi temiamo, al contrario, che l'espropriazione si faccia su di una scala troppo piccola per essere duratura; che lo slancio rivoluzionario si arresti a mezza strada; che esso si esaurisca in mezze misure le quali non appagherebbero nessuno, e che, pure generando un formidabile scompiglio nella società e una sospensione delle sue funzioni, non avrebbero pur tuttavia abbastanza vita, seminerebbero il malcontento generale e apporterebbero fatalmente il trionfo della reazione.
     Vi sono infatti, nelle nostre società, dei rapporti stabiliti, che sono materialmente impossibili ad essere modificati, se si colpiscono soltanto in parte. I varii ingranaggi della nostra organizzazione economica sono così intimamente collegati fra loro, che non si può modificarne uno solo senza modificarli tutti nel loro insieme. Di questo ci si accorgerà quando si vorrà espropriare chiunque sia.
     Supponiamo, infatti, che in una regione qualunque si compia un'espropriazione limitata, la quale, per esempio, si restringa all'espropriazione dei grandi proprietari di fondi, preservando le officine, come non è molto, chiedeva si facesse Henry George; che nella tale città si espropriino le case, senza mettere in comune le merci e i generi di consumo; oppure che nella tale regione industriale si espropriino le officine, senza ledere le grandi proprietà fondiarie.
     Il risultato sarà sempre lo stesso. Scompiglio immenso della vita economica, senza avere i mezzi di riorganizzare questa vita economica su nuove basi. Sospensioni dell'industria e dello scambio, senza ritornare ai principii di giustizia; impossibilità per la società di ricostruire un tutto armonico.
     Se l'agricoltura si emancipa dal gruppo proprietario fondiario, senza che l'industria si emancipi dal capitalismo, dal commerciante, dal banchiere - non si sarà concluso nulla. L'agricoltura soffre oggi, non soltanto di dover pagare un reddito al proprietario del suolo, ma di tutto l'insieme delle condizioni attuali; soffre delle imposte che l'industriale preleva su di lei, facendo pagare tre lire una vanga che non vale - paragonata col lavoro dell'agricoltore - più di quindici soldi; soffre delle tasse prelevate dallo Stato, il quale non può sussistere senza un'infinita gerarchia di funzionari; soffre delle spese di mantenimento dell'esercito, il quale conserva lo Stato, perchè gl'industriali di tutte le nazioni sono in lotta perpetua per avere il predominio sui mercati internazionali, ed ogni giorno la guerra può scoppiare in seguito ad una contesa sopravvenuta per lo sfruttamento di qualche parte dell'Asia o dell'Africa. L'agricoltura soffre dello spopolamento delle campagne, la cui gioventù è trascinata verso le manifatture delle grandi città, sia per l'allettamento dei salari più alti, pagati provvisoriamente dai produttori di articoli di lusso, sia per la vaghezza di una vita più variata ed attraente; soffre anche della protezione artificiale dell'industria, dello sfruttamento mercantile dei paesi vicini, dell'aggiotaggio (speculazioni di Borsa) delle difficoltà di migliorare il suolo e di perfezionare gli attrezzi.
     Per farla breve, l'agricoltura soffre, non solo della rendita, ma dell'insieme delle condizioni delle nostre società basate sullo sfruttamento; e quand'anche l'espropriazione permettesse a tutti di coltivar la terra e di farla fruttare senza pagare canoni ad alcuno, l'agricoltura, - quand'anche godesse di un momento di benessere, ciò che non è ancora provato, - ricadrebbe ben presto nel disagio in cui si trova oggi. E tutto si dovrebbe rifar da capo, con aumento di maggiori difficoltà. Lo stesso dicasi per l'industria. Date domani le officine nelle mani dei lavoratori, fate per essi ciò che si è fatto per un certo numero di contadini ai quali si è restituita la proprietà del suolo che lavorano. Sopprimete il padrone, ma lasciate la terra al signore, il denaro al banchiere, la Borsa al commerciante; conservate nella società questa massa di oziosi che vivono del lavoro dell'operaio, mantenete i mille intermediarii che oggi trovano la loro ragione di essere, lo Stato coi suoi funzionari innumerevoli, - e l'industria non anderà innanzi. Non trovando compratori nella massa di contadini rimasti poveri; non possedendo la materia prima, e non potendo esportare i proprii prodotti, in parte per cagione della sospensione del commercio e sovratutto per effetto del decentramento delle industrie, essa non potrà che vegetare, mettendo sul lastrico gli operai; talchè questi battaglioni di affamati saranno pronti a sottomettersi al primo intrigante venuto, oppure a ritornare all'antico regime, purchè loro garantisca il lavoro.
     Oppure, finalmente, espropriate i padroni della terra e rendete l'officina ai lavoratori; ma senza colpire quel nugolo d'intermediari i quali speculano oggi sulle farine e sui grani, sulla carne e sulle droghe nei grandi centri, nello stesso tempo che smerciano i prodotti delle nostre manifatture. Ebbene, quando lo scambio si arresterà, ed i prodotti non circoleranno; quando Parigi mancherà di pane e Lione non troverà più compratori per le sue sete, la reazione ritornerà terribile, calpestando i cadaveri, scaricando le mitragliatrici nelle città e nelle campagne, come ha fatto nel 1815, nel 1848 e nel 1871.
     Tutto si sorregge mutualmente nelle nostre società, ed è impossibile riformar la parte senza scuotere l'insieme.
     Il giorno in cui si colpirà la proprietà privata in una qualunque delle sue forme - fondiaria o industriale - si sarà costretti a colpirla in tutte le altre. Lo stesso successo della Rivoluzione l'imporrà.
     Del resto quand'anche lo si volesse, non potremmo limitarci ad una espropriazione parziale. Una volta che il «principio» della Santa Proprietà sia scosso, tutti i teorici del mondo non potranno impedire che esso venga distrutto qui dai servi della gleba, altrove dagli schiavi dell'industria.
     Se una grande città - Parigi, per esempio, - s'impadronisce soltanto delle abitazioni e delle officine, sarà costretta dalla forza stessa delle cose a non più riconoscere ai banchieri il diritto di prelevare sul Comune cinquanta milioni di imposte, sotto forma d'interessi, per prestiti fatti antecedentemente. Così la stessa città sarà obbligata a mettersi in relazione con gli agricoltori, e forzatamente essa dovrà spingerli ad emanciparsi dai possessori del suolo. Così per poter mangiare e produrre, dovrà espropriare le strade ferrate; e finalmente, per evitare lo sciupìo delle derrate, per non rimaner, come la Comune del 1793, in balìa degl'incettatori di grano, conferirà ai cittadini stessi la cura di approvvigionare i rispettivi magazzini di derrate, e di ripartire i prodotti del suolo.
     Tuttavia alcuni socialisti hanno ancora tentato di stabilire una distinzione. - «Che il suolo, il sottosuolo, l'officina, la manifattura vengano espropriati, - noi siamo perfettamente d'accordo, dicono essi. Tutte queste cose sono strumenti di produzione, ed è giusto che diventino proprietà pubblica. Ma, oltre a ciò, vi sono gli oggetti di consumo: alimenti, vestiti, abitazioni, i quali debbono rimaner proprietà privata».
     Il buon senso popolare ha avuto ragione di questa sottile distinzione. Infatti noi non siam più dei selvaggi, a cui piaccia di vivere nei boschi, sotto un riparo di foglie. All'Europeo che lavora necessita una camera, una casa, un letto, una stufa.
     Il letto, la camera, la casa sono luoghi di poltroneria per colui che nulla produce. Ma per il lavoratore, una camera riscaldata ed illuminata è uno strumento di produzione, non meno della macchina e degli attrezzi. È il luogo dove ridà vigore ai muscoli ed ai nervi che domani si sposseranno nel lavoro. Il riposo del produttore significa l'avviamento della macchina.
     Questa nostra affermazione è anche più evidente per ciò che riguarda il nutrimento. Questi pretesi economisti, di cui noi parliamo, non hanno mai pensato di dire che il carbone consumato dalla macchina non debba essere considerato fra gli oggetti necessarii alla produzione non meno della stessa materia prima. Come avviene dunque che il nutrimento, senza del quale la macchina umana non potrebbe compiere il minimo sforzo, possa essere escluso dagli oggetti indispensabili al produttore? Sarebbe ciò per un resto di metafisica religiosa?
     Il pasto abbondante e raffinato del ricco è certamente una consumazione di lusso. Ma il pasto del produttore è uno degli oggetti necessari alla produzione, non meno di quel che lo sia il carbone consumato dalla macchina a vapore.
     Lo stesso si dica per gli abiti. Imperocchè, se gli economisti che fanno distinzione fra gli oggetti di produzione e quelli di consumo, portassero il costume dei selvaggi della Nuova Guinea, - noi capiremmo le loro riserve e i loro scrupoli. Ma della gente, la quale non saprebbe scrivere una riga senza avere indosso una linda camicia, è veramente fuori di posto quando vuol fare una distinzione tra la sua camicia e la sua penna. E se gli abiti sfarzosi delle loro signore sono pure oggetti di lusso, vi è anche una certa quantità di tela, di cotone e di lana, di cui il produttore non può fare a meno per poter produrre. Il camiciotto e le scarpe dell'operaio, senza delle quali egli sarebbe imbarazzato per recarsi al suo lavoro; la giacca che indosserà, quando la sua giornata è finita; il suo berretto gli sono necessari non meno del martello e dell'incudine.
     Che lo si voglia o non lo si voglia, è così che il popolo intende la rivoluzione. Quando si sarà sbarazzato del governo, cercherà prima di tutto di assicurarsi un'abitazione salubre, un nutrimento sufficiente e degli abiti senza pagare imposte.
     Il popolo avrà ragione. La sua maniera di agire sarà molto più conforme alla «scienza» che non il modo di vedere degli economisti, i quali fanno tante distinzioni sottili fra lo strumento di produzione e l'oggetto di consumo. Il popolo comprenderà che la rivoluzione deve cominciare precisamente da questo, e getterà le fondamenta della sola scienza economica che possa veramente meritare il titolo di scienza, e che si potrebbe qualificare: «studio dei bisogni dell'umanità, e dei mezzi economici per soddisfarli».
     

LE DERRATE

I.

     Se la prossima rivoluzione deve essere una rivoluzione sociale, essa si distinguerà dalle precedenti sommosse, non solo per il suo scopo, ma anche per il suo modo di procedere. Uno scopo nuovo richiede anche motivi nuovi.
     I tre grandi movimenti popolari che noi abbiamo visto svolgersi in Francia da un secolo in qua, si distinsero tra loro per molti rapporti. E pure hanno tutti un'impronta comune.
     Il popolo si batte per rovesciare l'antico regime, e versa il suo sangue prezioso. Poi, dopo aver dato una nuova strappata alla sua catena, rientra nell'ombra. Un governo composto di uomini più o meno onesti si forma allora, e si incarica di organizzare: - La Repubblica nel 1793; il Lavoro nel 1848; la Comune libera nel 1871.
     Questo governo imbevuto d'idee giacobine, si preoccupa prima di tutto di questioni politiche: riorganizzazione della macchina del potere, epurazione dell'amministrazione, separazione della Chiesa e dello Stato, libertà civile e via di seguito.
     È vero che i circoli operai sorvegliano i nuovi governanti, e spesso, anche impongono ad essi le loro idee. Ma in questi stessi circoli, che gli oratori siano borghesi o lavoratori, è sempre l'idea borghese che predomina. Si parla molto di questioni politiche - si dimentica la questione del pane.
     In queste epoche memorande furono lanciate molte grandi idee, - idee che hanno agitato il mondo; furono pronunziate parole, che fanno battere ancora i nostri cuori a più d'un secolo di distanza.
     Ma il pane mancava nei sobborghi.
     Non appena la rivoluzione scoppiava, il lavoro cessava inevitabilmente. La circolazione dei prodotti si arrestava, i capitali si rimpiattavano. Il padrone nulla aveva a temere di quelle epoche: viveva delle sue rendite, se anche non speculava sulla miseria; ma il salariato si vedeva ridotto a vivacchiare dall'oggi al domani. La carestia si annunziava spaventosa.
     La miseria appariva - una miseria come mai non s'era vista uguale sotto l'antico regime. - «Sono i Girondini che ci affamano», si diceva nei quartieri popolari, nel 1793. E i Girondini erano ghigliottinati e la Montagna, la Comune di Parigi, otteneva pieni poteri. La Comune, infatti, si preoccupava del pane. Essa spiegava mezzi eroici per alimentare Parigi. A Lione, Fouchè e Collot d'Herbois creavano i granai dell'abbondanza; ma non si disponeva che di somme derisorie per riempirli. I municipii si agitavano per ottener grano; s'impiccavano i fornai che incettavano le farine; - ma il pane mancava sempre.
     Se la prendevano allora contro i cospiratori realisti, e se ne ghigliottinavano dieci, dodici, quindici al giorno, - serve e duchesse insieme ma soprattutto serve, perchè le duchesse si erano rifugiate a Coblenza. La questione era che si sarebbero potuto ghigliottinare cento duchi e visconti tutte le ventiquattro ore, e nulla sarebbe per questo cambiato!
     La miseria cresceva sempre. Poichè per vivere occorreva avere il salario, e il salario non si riscuoteva, - che cosa potevano fare mille cadaveri di più o di meno?
     Allora il popolo cominciava a stancarsi. - «Va bene davvero, la vostra Rivoluzione, insinuava il reazionario alle orecchie del lavoratore; voi non siete mai stati così miserabili come ora!». E a poco a poco il ricco si rassicurava; cominciava ad uscire dal suo nascondiglio, scherniva la plebe cenciosa col suo lusso sfarzoso, si atteggiava a zerbinotto, e diceva ai lavoratori: - «Via, finiamola con le sciocchezze! Che cosa avete guadagnato colla vostra Rivoluzione? È ora di farla finita!».
     E il rivoluzionario, avendo ormai esaurito la sua dose di pazienza, si abituava a ripetersi da se stesso col cuore serrato: «Perduta anche una volta la Rivoluzione!». E rientrava nella sua stamberga, e lasciava fare.
     Allora la reazione si mostrava in tutta la sua alterigia, e compieva il suo colpo di Stato. La Rivoluzione essendo morta, non le rimaneva più che da calpestarne il cadavere.
     E come lo calpestava! Il sangue scorreva a fiotti, il terrore bianco abbatteva le teste, e popolava le prigioni, mentre le orgie della banda aristocratica riprendevano nuovo vigore.
     Ecco la fisionomia di tutte le nostre rivoluzioni. Nel 1848 il lavoratore parigino metteva «tre mesi di miseria» a' servigi della Repubblica, e in capo a tre mesi, non potendone più, faceva il suo ultimo sforzo disperato, - sforzo annegato nei massacri.
     E nel 1871 la Comune moriva per mancanza di combattenti. Essa non aveva dimenticato di decretare la separazione della Chiesa dallo Stato, ma non aveva pensato che troppo tardi ad assicurare il pane a tutti. E si vide a Parigi l'alta società schernire i federati dicendo: «Andate pure, imbecilli, a farvi ammazzare per trenta soldi, mentre noi andiamo a far baldoria nel tale albergo di moda!». Si capì l'errore negli ultimi giorni, si tentò di rimediarvi, istituendo la zuppa comunale. Ma era troppo tardi: i Versagliesi erano già padroni delle barricate!
     - «Del pane, occorre del pane alla Rivoluzione!»
     Che altri si occupino di lanciar programmi dai sonori periodi! Che altri si permettano il lusso di affibbiarsi tanti galloni quanti le loro maniche ne possono contenere! Che altri, finalmente, declamino sulle libertà politiche!...
     Il compito che spetta a noi, sarà di fare in maniera che sin dai primi giorni della Rivoluzione, finchè essa durerà, non vi sia un solo uomo sul territorio insorto che manchi di pane; non una sola donna che sia costretta di attendere dinanzi al forno per ottenere, come un'elemosina, un pane di crusca; non un solo fanciullo che manchi del necessario per la sua debole costituzione.
     L'idea borghese è stata quella di perorare sui grandi principii, o, per meglio dire, sulle grandi menzogne. L'idea popolare sarà quella che tenderà ad assicurare il pane per tutti. E, nel mentre che i borghesi e i lavoratori imborghesiti si atteggeranno a grandi uomini nelle loro conventicole parlamentari, nel mentre che «la gente pratica» discuterà a non più finirla sulle forme di governo, noi, «gli utopisti», dovremo pensare al pane quotidiano.
     Noi abbiamo l'audacia di affermare che ognuno deve e può mangiare sino a satollarsi, e che soltanto coll'assicurare il pane a tutti la Rivoluzione vincerà.


II.

     Noi siamo degli utopisti, - lo si sa. E tanto utopisti, infatti, che spingiamo la nostra utopia sino ad ammettere che la Rivoluzione dovrà e potrà garantire a tutti l'alloggio, il vitto ed i vestiti, - ciò che dispiace moltissimo ai borghesi rossi e turchini, - perchè essi sanno perfettamente che un popolo il quale mangiasse a suo piacimento, molto difficilmente si lascierebbe dominare.
     Ebbene! noi non ci muoviamo da qui: Occorre assicurare il pane al popolo insorto, e bisogna che la questione del pane preceda tutte le altre. Se essa è risoluta nell'interesse del popolo, la rivoluzione sarà sulla buona strada; imperocchè per risolvere la questione delle derrate, necessita accettare un principio di uguaglianza che s'imporrà, escludendo ogni altra soluzione.
     È certo che la prossima rivoluzione, - simile in questo a quella del 1848, - scoppierà in mezzo ad una formidabile crisi industriale. Da una dozzina di anni(15) noi siamo in pieno fermento, e la situazione non può mancare di aggravarsi. Tutto infatti vi contribuisce: la concorrenza delle nazioni giovani, le quali entrano in campo per contendersi il predominio dei vecchi mercati, le guerre, le imposte sempre crescenti, i debiti degli Stati, l'incertezza del domani, le grandi imprese lontane.
     Vi sono in Europa milioni di lavoratori che in questo momento mancano di lavoro. E sarà peggio ancora quando la Rivoluzione sarà scoppiata, e si propagherà come il fuoco messo a una striscia di polvere. Il numero degli operai senza lavoro si raddoppierà non appena in Europa o negli Stati Uniti si inizierà il movimento rivoluzionario. - Che fare dunque, per assicurare il pane a queste moltitudini?
     Noi non sappiamo abbastanza se le persone che si dicono pratiche si sono mai imposte questa questione in tutta la sua crudezza. Ma ciò che noi sappiamo si è ch'esse vogliono mantenere il salariato; aspettiamoci dunque a veder propugnata l'istituzione degli «opifici nazionali» e dei «lavori pubblici» per dare il pane ai disoccupati.
     Giacchè nel 1789 e nel 1793 s'istituirono opifici nazionali; giacchè nel 1848 si ricorse allo stesso mezzo; giacchè Napoleone III riuscì, durante dodici anni, a frenare il proletariato parigino dandogli a compiere lavori - i quali valgono oggi a Parigi il suo debito immenso e la sua imposta municipale di 90 lire a testa; giacchè questo eccellente rimedio per «domar la belva» si applicava a Roma e anche in Egitto quattro mila anni fa; giacchè, infine, despoti, re e imperatori hanno sempre saputo gettare al popolo un pezzo di pane per aver il tempo di raccogliere la frusta che loro era sfuggita di mano, - è naturale che la gente «pratica» propugni questo metodo di perpetuare il salariato. A quale scopo lambiccarsi il cervello quando si può disporre degli stessi metodi impiegati dai Faraoni di Egitto?
     Ebbene! Se la Rivoluzione avesse la sventura di mettersi su questa strada, sarebbe perduta.
     Quando nel 1848 si aprivano gli opifici nazionali, il 27 febbraio, gli operai senza lavoro, a Parigi non erano più di ottomila. Quindici giorni più tardi, erano già 49 mila. E ben presto divennero centomila, senza contare quelli che accorrevano dalle provincie.
     Ma, in quell'epoca, l'industria e il commercio non occupavano in Francia la metà delle braccia che occupano ora. E si sa che in tempo di rivoluzione, sono appunto gli scambi e le industrie che ne soffrono maggiormente.
     Che si pensi soltanto al numero di operai che lavorano, direttamente o indirettamente, per l'esportazione; al numero delle braccia impiegate nelle industrie di lusso, le quali attingono la loro clientela nella minoranza dei ricchi!
     La rivoluzione in Europa significa la sosta immediata delle manifatture, cioè milioni di lavoratori gettati sul lastrico colle loro famiglie.
     E si tenterebbe di rimediare a questa situazione veramente terribile per mezzo di opifici nazionali, cioè con nuove industrie create d'un tratto, espressamente per dar lavoro ai disoccupati!
     Egli è evidente, come già Proudhon aveva detto, che il menomo colpo portato contro la proprietà, trarrà con sè la disorganizzazione completa di tutto il regime basato sulle imprese private e sul salariato. La società stessa sarà costretta di prendere nelle sue mani la produzione nel suo insieme, e di riorganizzarla secondo i «bisogni dell'insieme della popolazione». Ma siccome questa riorganizzazione non è possibile in un giorno, e nemmeno in un mese; siccome essa richiederà un certo periodo di adattamento, durante il quale milioni di uomini saranno privi di mezzi di sussistenza, - che si farà allora?
     In tali condizioni non vi è che una soluzione veramente pratica. Quella di conoscere l'immensità del compito che a noi s'impone, e, invece di tentar di riaccomodare una situazione che noi stessi avremo resa impossibile, - procedere alla riorganizzazione della produzione secondo i principii nuovi.
     Per agir praticamente bisognerà dunque, secondo noi, che il popolo prenda immediato possesso di tutte le derrate che si trovano nelle località insorte; faccia l'inventario, e faccia in modo che, senza nulla sciupare, tutti profittino delle risorse accumulate, per traversare quel periodo di crisi. E durante questo periodo intendersi cogli operai delle fabbriche, offrendo loro la materia prima di cui mancano, e garantendo loro l'esistenza durante alcuni mesi, affinchè possano produrre ciò che occorre all'agricoltore. Non dimentichiamo che se la Francia tesse le sue sete per i banchieri tedeschi e per le imperatrici di Russia e delle isole Sandwich, se Parigi crea meraviglie di ninnoli e gingilli per i ricconi del mondo intero, i due terzi dei contadini francesi non posseggono lampade convenienti per illuminare le loro case, nè gli attrezzi meccanici, necessari oggi all'agricoltura.
     E finalmente dar valore alle terre improduttive che non mancano, e migliorare quelle che non producono ancora nè la quarta parte, nè la decima parte di ciò che esse produrranno, quando saranno sottoposte alla coltura intensiva, e a quella per orto e giardinaggio.

     Questa è la sola soluzione pratica che noi siamo capaci di prevedere, e che, lo si voglia o no, s'imporrà per la forza stessa delle cose.


III.

     La nota predominante, distintiva, del sistema capitalista attuale, è il salariato.
     Un uomo, o un gruppo d'uomini possedenti il capitale necessario, impiantano un'impresa industriale; s'incaricano di fornire all'officina o alla manifattura la materia prima, di organizzare la produzione, di vendere i prodotti fabbricati, di pagare agli operai un salario fisso; e finalmente intascano il plus-valore o il benefizio, sotto il pretesto d'indennizzarsi della loro gestione, del rischio che hanno corso, delle variazioni di prezzo che la mercanzia subisce sul mercato.
     Ecco in poche parole tutto il sistema del salariato.
     Per salvare questo sistema, gli attuali possessori del capitale sarebbero disposti ad accordare alcune concessioni; dividere, per esempio, una parte degli utili con i lavoratori oppure stabilire una scala dei salarii, la quale li obblighi ad aumentarli a mano a mano che il guadagno aumenta; - in breve, essi acconsentirebbero a certi sacrifici, purchè si lasciasse loro sempre il diritto di amministrare l'industria e di prelevarne gli utili.
     Il collettivismo, come si sa, reca a questo regime importanti modificazioni; ma non distrugge per questo il salariato. Solamente si ha questa differenza: che lo Stato, ossia il governo rappresentativo, nazionale o comunale, prende il posto del padrone. Sono i rappresentanti della nazione o del comune, i loro funzionari, che diventano amministratori dell'industria. Sono essi che si riservano il diritto d'impiegare nell'interesse di tutti il plus-valore della produzione.
     In questo sistema, inoltre, si stabilisce una differenza assai sottile, ma gravida di conseguenze, tra il lavoro manuale e quello dell'uomo che ha fatto un tirocinio preliminare; agli occhi del collettivista il lavoro manuale non è che un lavoro «semplice»; mentre l'artefice, l'ingegnere, lo scienziato, ecc. fanno ciò che Marx chiama un lavoro composto ed hanno diritto a un salario più elevato. Ma tanto i manuali che gl'ingegneri, tessitori o scienziati, sono tutti salariati dello Stato, - «tutti funzionari» come ultimamente si diceva per indorar la pillola.
     Ebbene, il più gran servizio che la Rivoluzione potrà rendere all'umanità, sarà quello di creare una situazione nella quale ogni sistema di salariato diventi impossibile, inapplicabile, e dove s'imponga, come sola soluzione da accettarsi, il Comunismo, negazione del salariato.
     Imperocchè, ammettendo che la modificazione collettivista sia possibile, se essa si può fare gradualmente durante un'epoca di prosperità e di tranquillità, (noi ne dubitiamo molto per conto nostro, anche in tali condizioni), - sarà però impossibile in un periodo rivoluzionario, perchè il bisogno di nutrir milioni di esseri si affaccerà imperioso fin dalle prime scaramuccie. Una rivoluzione politica può farsi senza che l'industria abbia a soffrirne e ne sia scossa; ma una rivoluzione sociale condurrà inevitabilmente ad una sosta improvvisa degli scambii e della produzione. I milioni dello Stato non basterebbero a pagare i salari dei milioni di disoccupati.
     Noi non ci stancheremo mai d'insistere su questo punto; la riorganizzazione dell'industria su nuove basi (e noi dimostreremo presto l'immensità di questo problema) non si farà in alcuni giorni, e il proletario non potrà mettere al servigio dei teorici del salariato anni interi di miseria. Per superare il primo periodo d'imbarazzo, reclamerà ciò che ha sempre reclamato in simili contingenze: la messa in comune delle derrate, - e la loro ripartizione in razioni.
     Si avrà un bel predicare la pazienza; ma il popolo non pazienterà più; e se tutte le derrate non verranno messe in comune, egli saccheggerà i forni.
     Se la spinta del popolo non è abbastanza forte, si faranno delle vittime. Perchè il collettivismo possa essere esperimentato gli bisogna prima di tutto l'ordine, la disciplina, l'obbedienza. E siccome i capitalisti si accorgeranno presto che per dare al popolo la nausea della rivoluzione, il mezzo migliore è quello di far fucilare il popolo da quelli stessi che si chiamano rivoluzionarii, così presteranno ben volentieri il loro appoggio ai difensori dell'«ordine», fossero pure collettivisti. Sarà questo un mezzo per schiacciar più tardi anche questi, alla lor volta.
     Se «l'ordine è ristabilito» in tal maniera, le conseguenze sono facili a prevedersi. Non sarà più bastante di fucilare i «saccheggiatori». Ma occorrerà ricercare «gli autori del disordine», ristabilire i tribunali, la ghigliottina, e i rivoluzionari più ardenti saliranno sul patibolo. Sarà la ripetizione del 1793.
     Non dimentichiamo in qual modo la rivoluzione trionfò un secolo fa. Dapprima furono ghigliottinati gli Herberisti, i più arrabbiati, - quei che Mignet, ancora sotto il ricordo fresco delle lotte, chiamava pure gli «anarchici». I Dantoniani non tardarono a seguirli: e quando i partigiani di Robespierre ebbero tagliata la testa a questi rivoluzionari, toccò anche a loro di salir sulla ghigliottina, - dopo di che il popolo nauseato, vedendo che la Rivoluzione era perduta, lasciò mani libere ai reazionari.
     Se «l'ordine è stabilito», noi diciamo, i collettivisti ghigliottineranno gli anarchici, e i possibilisti ghigliottineranno i collettivisti, e finalmente saranno alla lor volta decapitati essi stessi dai reazionari. E si dovrà ricominciar da capo la rivoluzione.
     Ma tutto fa credere che l'impulso rivoluzionario del popolo «sarà» abbastanza forte, e che quando la Rivoluzione si farà, l'idea del Comunismo anarchico avrà guadagnato terreno. Poichè non è un'idea inventata, questa; ma l'ispirazione ce ne viene dal popolo stesso, nel cui seno il numero dei comunisti aumenterà a mano a mano che diventerà impossibile ogni altra soluzione.
     E se l'impulso sarà abbastanza forte, gli affari prenderanno un'altra piega. Invece di saccheggiare qualche forno salvo digiunare poi il domani, il popolo delle città insorte prenderà possesso dei granai, dei macelli, dei magazzini di commestibili, - per farla breve, di tutte le derrate disponibili.
     Numerosi cittadini e cittadine di buona volontà si dedicheranno subito a far l'inventario di ciò che si trova in ogni magazzino, in ogni deposito di grano. In ventiquattr'ore il Comune insorto saprà ciò che Parigi non sa ancora oggi, malgrado i suoi Comitati di statistica, e ciò che non ha mai saputo durante l'assedio, - cioè quante provvigioni la città contiene. In due volte ventiquattr'ore si saranno stampate a milioni d'esemplari le tabelle esatte di tutte le derrate, dei luoghi in cui esse si trovano immagazzinate, dei mezzi di distribuzione. In ogni gruppo di case, in ogni strada, in ogni quartiere si saranno organizzati gruppi di volontari - i volontari delle derrate - che sapranno intendersi e tenersi al corrente dei loro lavori. Che le baionette giacobine non vengano ad interporsi; che i così detti teorici scientifici non vengano a confonder nulla, o piuttosto, che confondano quanto vorranno, purchè non abbiano il diritto di comandare! Con quell'ammirabile spirito di organizzazione spontanea che il popolo, e sovratutto la nazione francese, possiede a un così alto grado in tutti gli strati sociali, e che così raramente gli vien permesso d'esercitare, ecco sorgere, anche in una città tanto vasta come Parigi, anche in pieno fermento rivoluzionario, - un immenso servizio liberamente costituito, per fornire a ciascuno le derrate indispensabili.
     Che il popolo possa soltanto agire senza aver le mani legate, e in otto giorni il servizio delle derrate si farà con una regolarità ammirevole. Bisogna non aver mai veduto all'opera il popolo laborioso; bisogna aver avuto per tutta la vita il naso fra gli scartafacci e non conoscere nulla del popolo, per poterne dubitare. Parlate dello spirito organizzatore di questo grande disconosciuto che è il Popolo a coloro che l'hanno visto a Parigi nei giorni delle barricate, o a Londra, durante l'ultimo grande sciopero,(16) quando doveva sostentare un mezzo milione di affamati, e vi diranno quanto egli sia superiore a tutti i burocratici delle nostre amministrazioni!
     D'altronde, se anche si dovesse subire per quindici giorni o un mese qualche disordine, poco importa! Per la massa sarà sempre meglio di ciò ch'essa ha oggigiorno; e poi, in tempo di Rivoluzione, si mangia ridendo, o piuttosto discutendo, un po' di pan secco e di salame, senza mormorare! E in ogni caso, quel che allora spuntasse fuori, sotto la pressione dei bisogni immediati, sarebbe infinitamente da preferirsi a tutto ciò che si potesse inventare fra quattro mura, in mezzo a filze di volumi, o negli uffici del Municipio.


IV.

     Il popolo delle grandi città sarà così costretto dalla forza stessa delle cose, a impadronirsi di tutte le derrate, procedendo dal semplice al composto, per soddisfare i bisogni di tutti gli abitanti. Più presto ciò sarà fatto, e meglio sarà: si eviteranno così tante miserie e tante lotte intestine.
     Ma su quali basi potrebbe organizzarsi il godimento in comune delle derrate? Ecco la questione che naturalmente si presenta.
     Ebbene, non vi sono due maniere per farlo con equità. Non ve n'è che una sola, la quale risponda ai sentimenti di giustizia, che sia realmente pratica: ed è il sistema adottato già in Europa dai comuni agrari.
     Prendete un comune di contadini, non importa dove - anche in Francia, dove i giacobini hanno fatto di tutto per distruggere le usanze comunali. Se il comune possiede un bosco, per esempio, ebbene, finchè la piccola legna non manca, ciascuno ha diritto di prenderne «quanta ne vuole», senz'altro controllo che l'opinione pubblica dei suoi vicini. In quanto alla legna grossa, di cui non si ha mai abbastanza, si ricorre alla ripartizione per razioni.
     Lo stesso accade per i prati comunali. Finchè ve ne sono abbastanza per il comune, nessuno controlla quel che le vacche di ogni casa hanno mangiato, nè il numero delle vacche che pascolano nei prati. Si ricorrerà invece alla divisione in razioni quando i prati sono insufficienti. Tutta la Svizzera e molti comuni di Francia e Germania, dovunque vi sono prati comunali, praticano questo sistema.
     E se voi andate nei paesi dell'Europa orientale, in cui la legna grossa abbonda e il suolo non fa difetto, voi vedrete i contadini tagliar gli alberi nelle foreste secondo i loro bisogni, coltivare quanto suolo è ad essi necessario, senza pensare a mettere a razioni la legna, nè a frazionare la terra in piccole parti. Però la grossa legna sarà ripartita in razioni, e la terra divisa secondo i bisogni di ogni casa, quando e l'una e l'altra faranno difetto, come già avviene in Russia.
     In una parola: - Presa a volontà di tutto ciò che si possiede in abbondanza! Ripartizione per razioni di ciò che dev'esser misurato, diviso! Sopra 350 milioni d'uomini che abitano l'Europa, duecento milioni seguono ancora queste usanze, suggerite dalla natura.
     E, cosa da notarsi, lo stesso sistema prevale anche nelle grandi città, per una derrata, almeno, che vi si trova in abbondanza, cioè l'acqua distribuita a domicilio.
     Finchè le pompe bastano ad alimentare la casa senza che si abbia da temere la mancanza d'acqua, non passa per la mente a nessuna compagnia di regolamentare l'uso dell'acqua in ogni casa. Prendetene finchè vi piacerà! E se si teme che l'acqua manchi a Parigi durante i grandi calori, le Compagnie sanno benissimo che basta un semplice avviso di quattro righe inserito nei giornali, per indurre i Parigini a ridurre il loro consumo di acqua e a non farne troppo sciupìo.
     Ma se l'acqua venisse proprio a mancare, che cosa si farebbe? Si ricorrerebbe alla ripartizione per razioni! E questo provvedimento è così naturale, così accettato da tutti, così penetrato negli spiriti, che noi vediamo Parigi, nel 1871, richiedere due volte la ripartizione per razioni dei viveri, durante i due assedi che sostenne.
     Occorre entrare nei particolari, e formulare tabelle sul modo in cui questa ripartizione potrebbe funzionare? provare che sarebbe giusto, infinitamente più giusto di tutto ciò che oggi esiste? Con queste tabelle e questi particolari noi non arriveremo mai a persuadere questi borghesi, - e, ahimè! quei lavoratori imborghesiti, - i quali considerano il popolo come un'agglomerazione di selvaggi che si mangiano il naso l'uno coll'altro, dacchè il governo più non funziona. Ma bisogna non aver mai visto il popolo deliberare, per dubitare un solo istante che, s'egli fosse padrone di fare questa ripartizione, non la farebbe secondo i più puri sentimenti di giustizia e di equità.
     Andate a dire in una riunione popolare, che le pernici debbono essere riservate per i fannulloni delicati dell'aristocrazia, e il pan nero per i malati degli ospedali. Sarete fischiato, e vi si urlerà contro con tutta la forza dei polmoni.
     Ma dite invece in questa stessa riunione, o predicate sui crocicchi delle vie, che il nutrimento più delicato deve essere riservato dapprima per i più deboli e per gli ammalati. Dite che, se in tutta Parigi vi fossero solo dieci pernici e una cassa di vino di Malaga dovrebbero essere portate nelle camere dei convalescenti; dite ciò...
     Dite che il fanciullo dev'essere considerato subito dopo l'ammalato. A lui spetta il latte delle vacche e delle capre, se non ce n'è abbastanza per tutti! Al fanciullo e al vecchio l'ultimo boccone di carne, e all'uomo robusto il pan duro, se si fosse ridotti a questa estremità.
     Dite, in una parola, che se la tale derrata non si trova in quantità sufficiente, e se occorre ripartirla, le ultime razioni saranno riserbate a coloro che ne hanno più bisogno; dite questo, e voi vedrete che il consenso unanime del popolo verrà a voi.
     Ciò che le pancie piene non comprendono, lo comprende il popolo, e l'ha sempre compreso. Ma anche l'uomo satollo, se verrà gettato sul lastrico, al contatto della massa, lo comprenderà anch'esso.
     I teorici, - per i quali l'uniforme e la gamella del soldato son l'ultima parola della civiltà, - richiederanno senza dubbio che s'introduca subito la cucina nazionale ed il rancio. Mostreranno i vantaggi che si otterrebbero nell'economia del combustibile e delle derrate, se si stabilissero delle immense cucine, nelle quali ciascuno andasse a prendere la sua razione di brodo, di pane, di legumi.
     Noi non contestiamo questi vantaggi. Noi sappiamo molto bene che l'umanità ha realizzato grandi economie di combustibile e di lavoro, rinunciando dapprima al mulino a mano e quindi al forno domestico, ove ciascuno faceva cuocere un tempo il proprio pane. Noi comprendiamo che sarebbe più economico di cuocere il brodo per cento famiglie insieme, che non di accendere cento fornelli separati. Noi sappiamo anche che vi sono mille maniere di cucinar le patate, ma che, cuocendone in una sola pentola per cento famiglie, non per questo sarebbero meno buone.
     Noi comprendiamo infine che le varietà della cucina consistendo soprattutto nel carattere individuale del condimento per ogni donna di casa, la cottura in comune di un quintale di patate, non impedirebbe alle donne di casa di condirle ciascuna a suo modo. E noi sappiamo che si possono fare con del brodo grasso cento zuppe differenti, per cento gusti differenti.
     Noi sappiamo tutto ciò, e nondimeno affermiamo che nessuno ha il diritto di costringere la massaia ad acquistare al magazzino comunale le sue patate bell'e cotte, se essa preferisce cuocerle da se stessa, nella sua marmitta, sul suo fuoco. E soprattutto noi vogliamo che ciascuno possa consumare il suo alimento come meglio gli piace, in seno alla sua famiglia, o con i propri amici, o anche alla trattoria, se lo preferisce.
     Certamente sorgeranno grandi cucine al posto e invece delle trattorie, dove oggi si avvelena la gente. La donna parigina si è già abituata ad acquistare il brodo dal macellaio per farne una zuppa a suo piacimento; e la massaia di Londra sa ch'ella può fare arrostire la sua carne e anche la sua focaccia dal fornaio, mediante pochi soldi, economizzando così tempo e carbone.
     E quando la cucina comune - il forno comune dell'avvenire - non sarà più un luogo di frode, di falsificazione e di avvelenamento, si acquisterà l'abitudine di rivolgersi a questo forno per avere belle e pronte le parti principali del pasto, - salvo a ritoccarle con un'ultima cottura e col condimento, ciascuno a suo piacere.
     Ma il voler fare di ciò una legge, l'imporsi il dovere di prendere già cotto il proprio alimento, - ripugnerebbe all'uomo del nostro secolo, non meno di quel che gli ripugnino le idee di convento o di caserma, idee malsane nate da cervelli pervertiti dal comando, o deformati da un'educazione religiosa.
     Chi avrà diritto alle derrate del Comune? Questa sarà certamente la prima questione che si dovrà risolvere. Ogni città risponderà da se stessa, e noi siamo persuasi che le risposte saranno dettate tutte dal sentimento di giustizia. Finchè i lavori non siano organizzati, finchè sussista il periodo d'effervescenza, e sia impossibile distinguere fra il fannullone pigro e il disoccupato involontario, le derrate disponibili debbono essere per tutti, senz'alcun'eccezione. Coloro, i quali avranno resistito colle armi in mano alla vittoria popolare, oppure avranno cospirato contro di essa, si affretteranno da se stessi a liberare della loro presenza il territorio insorto. Ma a noi sembra che il popolo, sempre nemico delle rappresaglie e sempre magnanimo, dividerà il suo pane con tutti coloro che saranno rimasti nel suo seno, siano essi espropriatori od espropriati. Nulla perderà la Rivoluzione ad ispirarsi a questa idea, e quando il lavoro verrà ripreso si vedranno i combattenti della vigilia incontrarsi nello stesso laboratorio. In una società, in cui il lavoro sarà libero, non vi saranno da temere i poltroni.
     - «Ma i viveri faranno difetto in capo ad un mese», ci gridano già i critici.
     Tanto meglio! rispondiamo noi; ciò proverà che per la prima volta in vita sua il proletario avrà mangiato sino a soddisfarsi. Quanto ai mezzi per sostituir ciò che sarà stato consumato, - è precisamente la questione che ci accingiamo a trattare.


V.

     Con quali mezzi, infatti, una città, in piena rivoluzione sociale, potrebbe provvedere alla sua alimentazione?
     Risponderemo a questa domanda; ma è evidente che i sistemi, ai quali si ricorrerà, dipenderanno dal carattere della rivoluzione nelle provincie, nonchè nelle nazioni vicine. Se tutta la nazione, o ancor meglio tutta l'Europa, potesse far la rivoluzione sociale d'un sol colpo d'insieme, e slanciarsi in pieno comunismo, il modo d'agire sarebbe conseguente a tale situazione. Ma se alcuni comuni soltanto d'Europa fanno l'esperimento del comunismo, bisognerà scegliere altri metodi. Quale la situazione, tali i mezzi.
     Eccoci dunque condotti, prima di andar più lontano, a gettare un colpo d'occhio sull'Europa e, senza pretender di atteggiarci a profeti, noi dobbiamo esaminare quale sarà il cammino della futura Rivoluzione, almeno nelle sue grandi linee essenziali.
     Senza dubbio sarebbe grandemente da desiderarsi che tutta l'Europa si sollevasse contemporaneamente, che dappertutto si mettesse in pratica l'espropriazione, ispirandosi ai principii comunisti. Una simile sollevazione faciliterebbe in modo singolare il compito del nostro secolo.
     Però tutto induce a credere che le cose non avverranno così. Che la Rivoluzione metta in fiamme l'Europa, - noi non ne dubitiamo. Se una delle quattro grandi capitali del continente - Parigi, Vienna, Bruxelles o Berlino - si solleva e rovescia il suo governo, è quasi certo che le tre altre faranno altrettanto, a poche settimane di distanza. È pure molto probabile che la rivoluzione non si faccia aspettare nelle penisole, ed anche a Londra e a Pietroburgo. Ma sarà dappertutto lo stesso, il carattere che assumerà questa rivoluzione? È lecito il dubitarne.
     È più che probabile che dappertutto si verificheranno atti di espropriazione, compiuti in maggiori o minori proporzioni; e questi atti che si effettueranno in una delle grandi nazioni europee, eserciteranno la loro influenza su tutte le altre. Ma i principii della rivoluzione presenteranno grandi differenze locali, e il suo sviluppo non sarà sempre identico nei diversi paesi.
     Nel 1789-1793, i contadini francesi impiegarono quattro anni per abolire definitivamente il riscatto dai diritti feudali, ed i borghesi a rovesciar la monarchia. Non dimentichiamo questo, e aspettiamoci veder la rivoluzione impiegare un certo tempo a svilupparsi.
     È anche cosa incerta ch'essa possa prendere, presso tutte le nazioni d'Europa, un carattere francamente socialista, specialmente nei suoi inizi. Ricordiamoci che la Germania vive ancora in pieno regime imperiale-unitario, ed i suoi partiti avanzati sognano la repubblica giacobina del 1848 e «l'organizzazione del lavoro» di Luigi Blanc; mentre il popolo francese vuole almeno il Comune libero, se non il Comune comunista.
     Tutto ci fa credere che la Germania anderà, nella prossima rivoluzione, molto più in là della Francia. La Francia, nel far la sua rivoluzione borghese, al diciottesimo secolo, andò molto più lungi che non l'Inghilterra al diciassettesimo; nello stesso tempo che il potere regale, essa abolì la potenza dell'aristocrazia fondiaria, che è ancora una forza poderosa presso gl'Inglesi. Ma, se la Germania va più lungi e procede meglio che non la Francia nel 1848, certamente l'idea che ispirerà i principii della sua rivoluzione sarà quella del 1848, come l'idea che ispirerà la rivoluzione in Russia sarà quella del 1789 modificata sino a un certo punto dal movimento intellettuale del nostro secolo.
     Senza, del resto, voler dare maggiore importanza a queste previsioni, più di quel ch'esse non meritino, noi possiamo giungere a questa conclusione: la Rivoluzione assumerà un carattere differente secondo le diverse nazioni d'Europa; così pure il livello raggiunto in riguardo alla socializzazione dei prodotti, non sarà lo stesso.
     Qual conseguenza ne deriva? Forse che le nazioni più avanzate debbano misurare i loro passi sulle nazioni in ritardo, come abbiamo detto altra volta? Aspettare che la rivoluzione comunista siasi maturata presso tutte le nazioni civili? Evidentemente, no! Quando anche lo si volesse, del resto, ciò sarebbe impossibile: la storia non attende i ritardatari.
     Da un altro lato, noi non crediamo che in un solo e medesimo paese la rivoluzione si faccia con quell'insieme di movimento che sognano alcuni socialisti. È molto probabile che, se una delle cinque o sei grandi città di Francia - Parigi, Lione, Marsiglia, Lilla, Saint-Etienne, Bordeaux - proclama la Comune, le altre seguiranno il suo esempio, e parecchie città meno popolose faranno altrettanto.
     Probabilmente ancora vi saranno parecchi distretti di miniere, nonchè alcuni centri industriali, i quali non tarderanno a licenziare i loro padroni, ed a costituirsi in liberi aggruppamenti.
     Però molte campagne non sono ancora a tal punto, e rimarranno nell'aspettativa accanto ai comuni insorti e continueranno a vivere sotto il regime individualista. Non vedendo più l'usciere, nè l'esattore venire a reclamare il pagamento delle tasse, i contadini non saranno ostili alle popolazioni sollevate; pure approfittando dei benefici della situazione, aspetteranno prima di regolare i loro conti cogli sfruttatori locali. Ma, con quello spirito pratico che distinse sempre i movimenti agrari, (rammentiamoci le fatiche e gli sforzi appassionati del 1792) essi si accaniranno a coltivar quella terra che ameranno tanto maggiormente, quanto più essa sarà sgravata dalle imposte e dalle ipoteche.
     Quanto all'estero, la rivoluzione sarà dappertutto; ma una rivoluzione sotto aspetti differenti. Qui unitaria, colà federalista, dappertutto più o meno socialista. Nessuna uniformità in nessuna nazione.


VI.

     Ma ritorniamo alla nostra città in istato di sommossa, ed esaminiamo in quali condizioni essa dovrà provvedere al suo mantenimento.
     Dove prendere le derrate necessarie, se la nazione intera non ha ancora accettato il comunismo? Tale è la questione da risolvere.
     Prendiamo una grande città francese, la capitale, se si vuole. Parigi consuma ogni anno milioni di quintali di cereali, 350.000 buoi e vacche, 200.000 vitelli, 300.000 suini, e più di due milioni di montoni, senza contare gli animali di corte. Occorrono ancora a Parigi qualche cosa come otto milioni di chilogrammi di burro e 172 milioni di uova, e tutto il resto nelle stesse proporzioni.
     Le farine, i cereali arrivano dagli Stati Uniti, dalla Russia, dall'Ungheria, dall'Italia, dall'Egitto, dalle Indie, il bestiame viene trasportato dalla Germania, dall'Italia, dalla Spagna, e persino dalla Russia e dalla Rumania. Quanto alle droghe, non v'è paese al mondo che non contribuisca a fornirgliene.
     Vediamo dapprima in qual modo si potrebbe organizzare il vettovagliamento di Parigi, o di qualunque altra grande città, coi prodotti che si coltivano nelle campagne francesi, e che gli agricoltori non chiedono di meglio che di designare al consumo.
     Per gli autoritari, la questione non presenta difficoltà di sorta. Comincierebbero coll'introdurre un governo fortemente accentrato, armato di tutti gli organi di coercizione; polizia, esercito, ghigliottina. Questo governo farebbe fare la statistica di tutto ciò che si raccoglie in Francia; dividerebbe il paese in un certo numero di circoscrizioni di alimentazioni, e «ordinerebbe» che la tal derrata, in tale quantità venisse trasportata in un dato luogo, consegnata in quel giorno stabilito, immagazzinata nel tale deposito, e così di seguito.
     Ebbene, noi affermiamo con piena convinzione che simile soluzione sarebbe non solamente non desiderabile, ma non potrebbe inoltre esser mai messa in pratica, essendo pura utopia.
     Si può sognare uno simile stato di cose, colla penna alla mano; ma in pratica, ciò diventa materialmente impossibile; bisognerebbe contare senza lo spirito d'indipendenza dell'umanità. Sarebbe l'insurrezione generale: tre o quattro Vandee invece di una; la guerra dei villaggi contro le città; la Francia intera insorta contro la capitale che osasse imporre questo regime.
     Basta dunque colle utopie giacobine! Vediamo se vi è il modo di organizzarsi diversamente.
     Nel 1793, la campagna affamò le grandi città ed uccise la Rivoluzione. E pure è provato che la produzione dei cereali in Francia non era punto diminuita nel 1792-93; anzi tutto induce a credere ch'essa fosse aumentata. Ma accadde che, dopo essersi impossessati di una buona parte delle terre feudali, dopo aver fatto il raccolto su queste terre, i borghesi campagnuoli non volessero vendere il loro grano contro «assegnati»(17). Essi lo custodivano, aspettando il rialzo dei prezzi e la moneta d'oro. Nè le misure più rigorose dei Convenzionali, per«forzare» gl'incettatori a vendere il loro grano, nè le condanne di morte e le esecuzioni ebbero ragione di questa specie di incetta. Eppure si sa che i commissari della Convenzione non esitavano a ghigliottinare gl'incettatori, nè il popolo aveva riguardo d'impiccarli ai lampioni delle strade. Malgrado ciò, il grano rimaneva nei magazzini, e il popolo delle città soffriva per la carestia.
     Ma che cosa si offriva ai lavoratori delle campagne in cambio dei loro penosi lavori?
     - Si offrivano «assegnati»! Degli stracci di carta gualcita, il cui valore ribassava di giorno in giorno; biglietti che portavano stampato in grossi caratteri «cinquecento lire», e non avevano invece alcun valore reale.
     Con un biglietto da mille lire non si poteva comprare nemmeno un paio di stivali; e il contadino - lo si capisce facilmente - non aveva alcuna voglia di scambiare un anno di fatica per un pezzo di carta, che non gli avrebbe permesso nemmeno di comprarsi un camiciotto.
     E finchè si offrirà all'agricoltore un pezzo di carta senza valore, - lo si chiami «assegnato» o «buono di lavoro» - le cose anderanno sempre ad un modo. Le derrate resteranno alla campagna; e la città ne mancherà, dovesse per questo ricorrere di nuovo alla ghigliottina e agli annegamenti.
     Ciò che si deve offrire al contadino non è la carta, ma le mercanzie di cui ha immediato bisogno. È la macchina, di cui ora si priva, a malincuore; sono i vestiti, che lo garantiscono dalle intemperie. È la lampada e il petrolio che sostituisce il suo famoso lucignolo; è la vanga, il rastrello, l'aratro. È infine tutto ciò di cui il contadino si priva oggi, - non perchè non ne senta il bisogno, - ma perchè nella sua esistenza di privazioni e di lavoro snervante, mille oggetti utili sono per lui inaccessibili a cagion del loro prezzo.
     Che la città si dedichi immediatamente a produrre queste cose che mancano al contadino, invece di fabbricar bazzecole per l'ornamento e il lusso dei borghesi. Che le macchine da cucire di Parigi facciano vestiti da lavoro e da festa per la campagna, invece di rifornir corredi da nozze. Che l'officina fabbrichi macchine agricole, vanghe e rastrelli, invece di aspettar che gl'Inglesi ce le inviino in cambio del nostro vino!
     Che la città non spedisca più ai villaggi commissari, cinti di fascie rosse o multicolori, per intimare ai contadini il decreto di portar le loro derrate nella tale località; ma li faccia visitare da amici, da fratelli che loro dicano: «Recateci i vostri prodotti - e prendete nei nostri magazzini tutti gli oggetti fabbricati che vi piaceranno». E allora le derrate affluiranno da ogni parte. Il contadino serberà per lui quanto gli occorre per vivere, ma invierà il rimanente ai lavoratori delle città, nelle quali - «per la prima volta nel corso della storia» - vedrà dei fratelli e non degli sfruttatori.
     Ci si dirà, forse, che ciò richiede una trasformazione completa dell'industria. Certamente, sì, per alcuni rami. Ma ve ne sono mille altri che potranno modificarsi rapidamente, in maniera da poter fornire ai contadini gli abiti, l'orologio, il mobilio, gli utensili e le macchine semplici che la città gli fa pagare così caro oggidì. I tessitori, i sarti, i calzolai, i fabbricanti di minuterie, gli ebanisti e tanti altri non troveranno alcuna difficoltà ad abbandonare la produzione del lusso per il lavoro di utilità. Occorre soltanto penetrarsi bene della necessità di questa trasformazione, considerandola come un atto di giustizia e di progresso, e non illudersi più con quel sogno così caro ai teorici - che la rivoluzione debba cioè limitarsi a una presa di possesso del plus-valore, e che la produzione e il commercio possano restare quali sono ai nostri giorni.
     È qui, secondo noi, tutta la questione. Offrire all'agricoltore, in cambio dei suoi prodotti, non pezzi di carta qualunque sia il loro valore iscrittovi, ma «gli oggetti stessi» di consumo, dei quali il lavoratore ha bisogno. Se si farà in tal modo, le derrate affluiranno verso la città. Se così non si farà, avremo la carestia nelle città, con tutte le sue conseguenze, la reazione e lo schiacciamento della rivoluzione.


VII.

     Tutte le grandi città, l'abbiam detto, comprano il loro grano, le loro farine, la loro carne, non solo nelle provincie, ma anche all'estero. L'estero invia a Parigi le droghe, il pesce ed i commestibili di lusso, nonchè considerevoli quantità di grano e di carne.
     Ma in tempo di Rivoluzione non si potrà più contare sull'estero, o contarvi per il meno possibile. Se il grano russo, il riso d'Italia o delle Indie e i vini di Spagna e d'Ungheria affluiscono oggi sui mercati dell'Europa occidentale, non è perchè i paesi speditori ne posseggano di troppo, o perchè certi prodotti vi nascono in abbondanza da loro stessi, come l'insalata nei prati. In Russia, per esempio, il contadino lavora fino a sedici ore al giorno, e digiuna da tre a sei mesi ogni anno per esportare il grano col quale paga il padrone e lo Stato. Oggi, non appena il raccolto è terminato, la polizia appare nei villaggi russi e vende l'ultima vacca, l'ultimo cavallo dell'agricoltore, per pagare le imposte arretrate e gli affitti al proprietario, quando il contadino non acconsente di buona volontà, vendendo il suo grano agli esportatori esteri. Cosicchè egli serba soltanto per nove mesi di grano e vende il rimanente, perchè non vuole che la sua vacca sia venduta per quindici lire. Per vivere sino alla prossima raccolta, cioè tre mesi quando l'annata è stata buona, e sei mesi quando è stata cattiva, mescola alla sua farina della scorza di betulla, e del grano di atreplice, mentre che a Londra si assaporano i biscotti fatti col suo frumento.
     Ma non appena la rivoluzione scoppierà, l'agricoltore russo serberà il suo pane per sè e per i suoi figliuoli. I contadini italiani e ungheresi faranno egualmente; speriamo che anche l'indiano approfitterà di questi buoni esempi, di cui trarranno profitto anche i lavoratori delle fattorie americane, a meno che questi possessi non siano già disorganizzati dalla crisi. Non si dovrà dunque contar più sulla quantità di grano e di granturco proveniente dall'estero.
     Tutta la nostra civiltà borghese essendo basata sullo sfruttamento delle razze inferiori e de' paesi arretrati in fatto di industria, il primo beneficio della rivoluzione sarà quello di minacciar subito questa «civiltà» permettendo alle razze così dette inferiori di emanciparsi. Ma quest'immenso beneficio si manifesterà con una diminuzione certa e considerevole della esportazione di derrate affluenti verso le grandi città dell'Occidente.
     Per l'interno è più difficile far previsioni sull'andamento degli affari.
     Da una parte l'agricoltore profitterà certamente della Rivoluzione per sollevare la schiena curvata sul terreno. Invece di quattordici o sedici ore, quante oggi ne lavora, avrà ragione di non lavorarne che la metà, ciò che potrà cagionare come conseguenza l'abbassamento della produzione delle derrate principali, grano e carne.
     Ma d'altra parte vi sarà aumento della produzione, dacchè il coltivatore non sarà più costretto a lavorare per mantenere gli oziosi. Nuovi lembi di terra saranno dissodati e macchine più perfette saranno messe in uso. - «Mai fu un lavoro così vigoroso come quello del 1792, quando il contadino ebbe ripreso al signore la terra che da lungo tempo bramava», - ci dice lo storico Michelet, parlando della Grande Rivoluzione.
     Fra poco la coltura intensiva diventerà accessibile ad ogni coltivatore, quando la macchina perfezionata e i concimi chimici ed altre cose saranno messi a disposizione della comunità. Ma tutto ci fa credere che, in sul principio, vi potrà essere diminuzione nella produzione agricola in Francia, come anche altrove.
     Il partito più saggio, in ogni caso, sarebbe quello di contare su di una diminuzione delle importazioni, tanto all'interno che all'esterno. Come supplire a questo vuoto?
     Per bacco! mettendoci da noi stessi a colmarlo. Inutile di cercar la luna nel pozzo e voler l'impossibile, quando la soluzione del problema è semplice.
     Bisogna che le grandi città coltivino la terra, non meno delle campagne. Bisogna ritornare a ciò che la biologia chiamerebbe «l'integrazione delle funzioni». Dopo aver diviso il lavoro, bisogna «integrare»: è l'andamento seguito in tutta la natura.
     Del resto - filosofia a parte - ci si sarà costretti dalla forza delle cose. Che Parigi si avveda che in capo ad otto mesi si troverà a corto di grano, - e Parigi lo coltiverà.
     La terra?... Ma essa non manca. Sovrattutto intorno alle grandi città, - e a Parigi specialmente, - si aggruppino i parchi e i verdi prati dei signori, quei milioni di ettari che non aspettano che il lavoro intelligente del coltivatore, per circondare Parigi di terreni molto più fertili, molto più produttivi che non le steppe coperte di terra, ma disseccate dal sole, del mezzogiorno della Russia.
     Le braccia?... Ma a che cosa volete voi che si applichino i due milioni di Parigini e di Parigine, quando non avran più da vestire e da divertire i principi russi, i baiardi rumeni e le signore dell'alta finanza di Berlino?
     Potendo disporre di tutto il macchinario del secolo; dell'intelligenza e delle cognizioni tecniche del lavoratore adatto all'uso dello strumento perfezionato; avendo al proprio servizio gl'inventori, i chimici, i botanici, i professori del giardino delle piante, gli ortolani di Gennevilliers, nonchè gli attrezzi necessari per moltiplicare le macchine e tentarne di nuove; avendo infine lo spirito organizzatore del popolo di Parigi, la sua gaiezza di cuore, il suo slancio, - l'agricoltura del Comune anarchico di Parigi sarà ben diversa da quella dei poveri campagnoli delle Ardenne.
     Il vapore, l'elettricità, il calore del sole e la forza del vento sarebbero ben presto chiamate ad essere utilizzate.
     La zappatrice e la dissodatrice a vapore compirebbero in un batter d'occhio il lavoro di preparazione, e la terra, intenerita e fertilizzata, non aspetterebbe che le cure intelligenti dell'uomo, e sovrattutto della donna, per coprirsi di piante bene accurate, rinnovantisi tre o quattro volte ogni anno.
     Imparando l'orticoltura con persone del mestiere; provando su spazi riservati mille maniere diverse di coltura; gareggiando tra loro per ottenere le migliori raccolte; riacquistando nell'esercizio fisico, senza spossamento, nè sopralavoro, le forze che loro mancano così spesso nelle grandi città - uomini donne e fanciulli sarebbero felici di dedicarsi a questo lavoro dei campi che cesserà di essere un lavoro da forzati e diventerà un piacere, una festa, una primavera dell'essere umano. - «Non esistono terre improduttive, la terra vale ciò che vale l'uomo!» ecco l'ultima parola dell'agricoltore moderno. La terra dà ciò che ad essa si domanda: si tratta soltanto di domandarlo con intelligenza.
     Un territorio, fosse anche così piccolo come i due circondari della Senna e di Senna e dell'Oise, e dovesse alimentare una grande città come Parigi, basterebbe praticamente per colmare i vuoti che la Rivoluzione potrebbe fare intorno ad esso.
     Se il Comune anarchico si slancerà francamente sulla via dell'espropriazione, esso ci condurrà necessariamente alla combinazione dell'agricoltura con l'industria, all'uomo agricoltore ed industriale nel tempo istesso.
     Ch'esso rasenti soltanto quest'avvenire: e non sarà di carestia ch'esso perirà! Il pericolo non è in questo: il pericolo è nella viltà di spirito, nei pregiudizii, nelle mezze misure.
     Il pericolo è là dove lo vedeva Danton, quando gridava alla Francia: «Audacia, audacia e ancora audacia!» E soprattutto dell'audacia intellettuale, la quale non mancherà di seguire immediatamente l'audacia della volontà.
     

L'ALLOGGIO


I.

     Coloro, i quali seguono con attenzione il movimento degli spiriti, presso i lavoratori, hanno dovuto notare che l'accordo si stabilisce insensibilmente su di una importante questione, quella dell'alloggio. Esiste un fatto incontestato: nelle grandi città di Francia, e in molte piccole, i lavoratori arrivano a poco a poco alla conclusione che le case abitate non sono affatto la proprietà di coloro che lo Stato riconosce quali proprietari.
     Una evoluzione in tal senso si va compiendo negli spiriti, e non si farà più credere al popolo che il diritto di proprietà sulle case sia giusto.
     La casa infatti non è stata costrutta dal proprietario: ma è stata fabbricata, adornata, tappezzata da centinaia di lavoratori che la fame ha spinto nei cantieri, che il bisogno di vivere ha ridotto ad accettare un misero salario.
     Il denaro speso dal preteso proprietario non era nemmeno un prodotto del suo lavoro. Egli l'aveva accumulato, come si accumulano tutte le ricchezze, pagando ai lavoratori i due terzi, o la metà soltanto di ciò ch'era loro dovuto.
     Finalmente - e qui soprattutto l'enormità si rende evidentissima - la casa deve il suo valore attuale al profitto che il proprietario ne potrà ricavare. Ora, questo profitto sarà dovuto alla circostanza che la casa sia edificata in una città lastricata, rischiarata dal gaz, allacciata da regolari comunicazioni con altre città, che contenga stabilimenti d'industria, di commercio, di scienze, di arti; che questa città inoltre sia adorna di ponti, di scali, di banchine, di monumenti architettonici, ed offra all'abitante mille comodità e mille svaghi sconosciuti nei villaggi; che venti, trenta generazioni abbiano lavorato a renderla abitabile, salubre, sempre più bella.
     Il valore di una casa in alcuni quartieri di Parigi è di un milione, non già perchè essa contenga nelle sue mura per un milione di lavoro: ma perchè essa è situata in Parigi; perchè, da secoli, gli operai, gli artisti, i pensatori, i dotti e i letterati hanno contribuito a far di Parigi ciò che oggigiorno ci riempie di ammirazione per la città grandiosa: un centro industriale, commerciale, artistico, politico, scientifico; perchè questa città ha un passato; perchè le sue strade, grazie alla letteratura, son conosciute in provincia come all'estero; perchè Parigi è un prodotto del lavoro di diciotto secoli, di una cinquantina di generazioni di tutta la nazione francese.

     Chi ha dunque il diritto di appropriarsi la minima parte di questo terreno o l'ultima fra le costruzioni edificatevi sopra, senza commettere la più stridente ingiustizia? Chi dunque ha il diritto di vendere a chicchessia la minima particella del patrimonio comune?
     In quest'ordine d'idee, noi diciamo, l'accordo tra i lavoratori si stabilisce facilmente. L'idea dell'alloggio gratuito ben si manifestò durante l'assedio di Parigi, quando si domandava l'annullamento puro e semplice delle pigioni richieste dai proprietari. E si manifestò ancora durante la Comune del 1871, quando Parigi operaia aspettava dal Consiglio della Comune una decisione virile riguardo all'abolizione degli affitti. E sarà ancora la prima preoccupazione del povero, non appena la Rivoluzione sarà scoppiata.
     In tempo di rivoluzione, o no, occorre al lavoratore un ricovero, un alloggio. Ma per quanto esso sia cattivo ed insalubre; vi è sempre un proprietario che può cacciarvene via. È vero che in tempo di rivoluzione il proprietario non troverà uscieri o aguzzini che si prestino a gettare i vostri cenci sulla strada. Ma chi sa se domani il nuovo governo, per quanto si atteggi a rivoluzionario, non ricostituirà intorno a sè la forza, e non lancerà nuovamente contro di voi la muta poliziesca? Si è ben veduta la Comune proclamar la condonazione degli affitti sino al primo aprile, è vero - ma sino al primo aprile soltanto!(18) Dopo il qual termine si sarebbe dovuto pagare, quando anche Parigi fosse in iscompiglio, e l'industria fosse interrotta, ed il rivoluzionario non avesse per sola risorsa che i suoi trenta soldi!
     Bisogna però che il lavoratore sappia che, non pagando il proprietario, non approfitta solo di una disorganizzazione del potere. Bisogna ch'egli sappia che il diritto dell'alloggio gratuito è riconosciuto in principio e sanzionato, per così dire, dal consenso popolare; che l'alloggio gratuito è un diritto proclamato altamente dal popolo.
     Ebbene, aspetteremo noi, che questo provvedimento, il quale risponde così bene al sentimento di giustizia di ogni uomo onesto, sia messo in vigore dai socialisti che si troverebbero mischiati coi borghesi in un governo provvisorio? Aspetteremmo davvero per lungo tempo - sino al ritorno della reazione!
     Ecco perchè, rifiutando distintivi di fascie e galloni - segni di comando e di servaggio, - restando popolo fra il popolo, i rivoluzionari sinceri lavoreranno col popolo perchè l'espropriazione delle case diventi un fatto compiuto. Lavoreranno a creare una corrente d'idee in questa direzione; lavoreranno a mettere in pratica queste idee, e quand'esse saran mature, il popolo procederà all'espropriazione delle case, senza prestare orecchio alle teorie, che non mancheranno di essere cacciate attraverso le gambe, intorno alle indennità da pagare ai proprietari, ed altre fandonie.
     Il giorno in cui l'espropriazione delle case sarà avvenuta, lo sfruttato, il lavoratore avran compreso che i nuovi tempi son giunti, ch'essi più non rimarranno colla schiena curva dinnanzi ai ricchi ed ai potenti, che l'Eguaglianza si è affermata alla luce del sole, che la Rivoluzione è un fatto compiuto, e non un colpo di scena, come già se ne videro troppi!


II.

     Se l'idea dell'espropriazione diventa popolare, la sua effettuazione non si urterà punto cogli ostacoli insormontabili con cui si ama ora minacciarci.
     Certamente, i signori gallonati, i quali avranno occupato i seggi abbandonati dei ministeri e dei municipi, non mancheranno di suscitare ostacoli sopra ostacoli. Parleranno di concedere indennità ai proprietari, di redigere statistiche, elaborare lunghe relazioni, - così lunghe da poter durare sino al momento in cui il popolo, stremato dalla miseria e dalla disoccupazione, non vedendo prodursi nulla in suo favore e perdendo la sua fede nella Rivoluzione, lascerebbe il campo libero ai reazionari, che finirebbero col rendere a tutti odiosa l'espropriazione burocratica.
     Vi è in ciò, infatti, uno scoglio contro il quale si potrebbe naufragare. Ma se il popolo non si lascierà menar pel naso dai falsi ragionamenti coi quali si cercherà di sedurlo; s'egli comprenderà che una nuova strada comporta nuovi metodi, e se prenderà da sè stesso in mano i suoi affari - allora l'espropriazione potrà effettuarsi senza grandi difficoltà.
     - «Ma in qual modo? Come potrà essa farsi?» ci si domanderà. Lo diremo or ora, ma con una riserva. Ci ripugna il dover tracciare, nei loro menomi particolari, dei piani di espropriazione. Noi sappiamo anticipatamente che tutto ciò che un uomo o un gruppo possono suggerire oggi, sarà domani sorpassato dalla vita umana. Questa, l'abbiamo detto già, farà meglio e più semplicemente di tutto ciò che le si potrebbe suggerire in anticipazione.
     Così, nello schizzare il metodo, secondo il quale l'espropriazione e la ripartizione delle ricchezze «potrebbero» farsi senza l'intervento del governo, noi non vogliamo far altro che rispondere a coloro i quali dichiarano esser la cosa impossibile. Ma teniamo a ricordare che, in nessun modo noi abbiamo la pretesa di preconizzare la tale o la tal'altra maniera di organizzarsi. Quel che ci preme, si è di dimostrare soltanto che l'espropriazione «può» farsi per mezzo dell'iniziativa popolare, e «non può» farsi altrimenti.
     Si può prevedere che sin dai primi atti di espropriazione, si formeranno in ogni strada, in ogni mucchio di case, gruppi di cittadini di buona volontà, i quali verranno ad offrire i loro servigi per informarsi del numero degli appartamenti vuoti, degli appartamenti occupati da famiglie troppo numerose, delle abitazioni malsane e delle case che, troppo spaziose per quei che le occupano, potrebbero dare alloggio a coloro che mancano d'aria nei loro tuguri. In pochi giorni questi volontari compileranno, strada per strada e quartiere per quartiere, le liste complete di tutti gli appartamenti, salubri e insalubri, ristretti e spaziosi, degli alloggi infetti e delle abitazioni sontuose.
     Comunicandosi liberamente le loro liste, in pochi giorni avran formato statistiche complete. La statistica mendace può venir fabbricata negli uffici; la statistica vera, esatta, non può pervenire che dall'individuo, risalendo dal semplice al composto.
     Allora, senza nulla aspettare da nessuno, questi cittadini si recheranno probabilmente a trovare i loro compagni che abitano nelle stamberghe, e diranno loro semplicemente: «Questa volta, compagni, è la rivoluzione sul serio. Venite questa sera al tal sito. Tutto il quartiere sarà presente; ci divideremo gli alloggi. Se voi non tenete alla vostra catapecchia, potrete scegliere un appartamento di cinque stanze che son disponibili. E quando vi ci sarete stabiliti, sarà cosa fatta. Il popolo armato parlerà a coloro che volessero venirvene a sloggiare!»
     - «Ma tutti vorranno avere un appartamento di venti stanze!» - ci si obbietterà.
     Ebbene, non è vero! Mai il popolo ha domandato l'impossibile. Al contrario, ogni volta che noi vediamo proletari occuparsi a riparare un'ingiustizia, rimaniamo colpiti dal buon senso e dal sentimento di giustizia di cui la massa è animata. Si vide mai richieder l'impossibile? Si vide mai il popolo di Parigi battersi quando andava a cercare la sua razione di pane o di legna durante i due assedi? Si attendeva il turno con una rassegnazione che i corrispondenti di giornali stranieri non cessavano dall'ammirare; e pur si sapeva bene che gli ultimi venuti avrebbero passato la loro giornata senza pane e senza fuoco!
     Certo, vi sono abbastanza istinti egoistici negl'individui isolati delle nostre società. Lo sappiamo benissimo. Ma noi sappiamo pure che il miglior mezzo per risvegliare e alimentare questi istinti, sarebbe appunto quello di affidare la questione degli alloggi a un ufficio qualunque. Allora, infatti, tutte le cattive passioni salirebbero a galla. Si avrebbe una gara, per aver più voce in capitolo e maggiore autorità nell'uscio. La minima disuguaglianza di trattamento solleverebbe le proteste più clamorose; il minimo vantaggio accordato a qualcuno farebbe gridare ai favoritismi comprati, alle regalie, e con ragione!
     Ma quando il popolo riunito per vie, per quartieri, per circondari, s'incaricherà egli stesso di accasare gli abitanti dei tuguri negli appartamenti troppo spaziosi dei borghesi, i piccoli inconvenienti, le piccole ineguaglianze saranno appena leggermente considerate. Raramente si è fatto appello ai buoni istinti della massa. Lo si è fatto però talvolta, durante le rivoluzioni, quando si trattava di salvare la barca che colava a fondo, - e mai si rimase delusi. Il lavoratore rispondeva sempre all'appello con la più grande abnegazione.
     Lo stesso avverrà durante la prossima rivoluzione.
     Malgrado tutto, qualche ingiustizia succederà probabilmente. Non si potrebbe evitarla. Vi sono nelle nostre società alcuni individui che nessun grande avvenimento potrà rimuovere dalle loro abitudini egoistiche. Ma la questione non è quella di sapere se si verificheranno ingiustizie, o se non ne accadranno punto. Si tratta di sapere in qual modo potrà limitarsene il numero.
     Ebbene, tutta la storia, tutta l'esperienza dell'umanità, nonchè la psicologia delle società, ci ammaestrano, dicendoci che il mezzo più equo è quello di affidar la cosa agl'interessati stessi. Del resto, potranno da soli prendere in considerazione e regolare i mille particolari che sfuggono necessariamente ad ogni ripartizione burocratica.


III.

     D'altronde non si tratterebbe punto di fare ripartizione assolutamente uguale degli alloggi; ma gli inconvenienti che alcune famiglie dovrebbero ancora subìre, sarebbero agevolmente riparati in una società in via di espropriazione.
     Purchè i muratori, gli scalpellini, - gli operai delle costruzioni, in una parola, - sappiano di aver la loro esistenza assicurata, non domanderanno di meglio che di riprendere, per alcune ore al giorno, il lavoro al quale sono abituati. Essi disporranno in modo più rispondente ai bisogni i grandi appartamenti, pei quali occorreva uno stato maggiore di domestici. E in pochi mesi sorgeranno delle case, molto più salubri che non quelle dei nostri giorni. E a coloro che non saranno abbastanza bene alloggiati, il Comune anarchico potrà dire:
     «Abbiate pazienza, compagni! Sul suolo della città libera si stanno edificando palagi salubri, confortevoli e belli, superiori in tutto a quelli che fabbricavano i capitalisti. Essi saranno di coloro che ne avran più bisogno. Il Comune anarchico non fabbrica colla prospettiva di ottener delle rendite. I monumenti che esso innalza pei suoi cittadini, prodotti dallo spirito collettivo, serviranno di modello all'umanità intera, - e apparterranno a voi!»
     Se il popolo insorto espropria le case e proclama il principio dell'alloggio gratuito, della messa in comune delle abitazioni e del diritto di ogni famiglia di avere un alloggio salubre, la Rivoluzione avrà preso sin dal principio un carattere comunista e si sarà messa su di una via dalla quale non la si potrà fare uscir così presto. Essa avrà portato un colpo mortale alla proprietà individuale.
     L'espropriazione delle case racchiude così in germe tutta la rivoluzione sociale. Dal modo col quale la si metterà in pratica, dipenderà il carattere degli avvenimenti. O noi apriremo una strada larga, spaziosa, al comunismo anarchico, o resteremo ad avvoltolarci ancora nel fango dell'individualismo autoritario.
     Sono facili a prevedersi le mille obbiezioni che ci verranno mosse, le une di ordine teorico, le altre di ordine pratico.
     Poichè si tratterà di mantenere ad ogni costo l'iniquità, si parlerà certamente in nome della giustizia: - «Non è egli infame, si esclamerà, che i Parigini s'impadroniscano per loro delle belle case, e lascino le capanne ai contadini?» Ma non lasciamoci ingannare. Questi fautori arrabbiati della giustizia dimenticano, con un giro di spirito che loro è particolare, la stridente ineguaglianza di cui si fanno i difensori. Dimenticano che nella stessa Parigi il lavoratore soffoca in una soffitta, - egli, sua moglie, i suoi bambini, - mentre che dalla finestra contempla il palazzo del ricco. Dimenticano che intere generazioni periscono nei quartieri miserabili e ostruiti, per mancanza d'aria e di sole, e che il riparare a quest'ingiustizia dovrebbe essere il primo dovere della Rivoluzione.
     Non soffermiamoci più a lungo su questi reclami interessati. Noi sappiamo che la disuguaglianza che realmente esisterà ancora tra Parigi e il villaggio, è di quelle che diminuiranno ogni giorno; il villaggio non mancherà di fornirsi di alloggi più salubri di quelli odierni, quando il contadino avrà cessato di essere la bestia da soma del fittaiuolo, del fabbricante, dell'usuraio, dello Stato. Per evitare un'ingiustizia temporanea e riparabile, si dovrebbe dunque mantenere un'ingiustizia che esiste da secoli?
     Nemmeno le obbiezioni sedicenti pratiche hanno maggior valore.
     «Ecco, ci si dirà, un povero diavolo a forza di privazioni, è arrivato ad acquistare una casa abbastanza grande per alloggiarvi colla sua famiglia. Vi è così felice! Lo gettere voi sulla strada?»
     - Certamente no! Se la sua casa basta appena per alloggiarvi colla sua famiglia, che l'abiti, per bacco! che coltivi il giardino che ha sotto le sue finestre! I nostri ragazzi andranno, a prestargli un po' di aiuto. Ma se nella sua casa egli ha un appartamento che affitta ad un altro, il popolo andrà a trovar quest'altro, e gli dirà: «Sapete, amico, voi non dovete più nulla al vecchio padrone. Rimanete nel vostro appartamento e non ci sono più uscieri da temere, ora; vi è la Sociale!»
     E se il proprietario occupa da solo una ventina di camere, e nel quartiere vi sia una madre con cinque figli alloggiati in una sola stanza, ebbene, il popolo verificherà se nelle venti camere non ve ne siano alcune che dopo qualche riparazione, non possano formare un buon alloggio per la madre e per i suoi cinque figli. Non sarà questo più giusto che il lasciare la mamma coi cinque bambini nella soffitta, ed il signore a ingrassare nel suo castello? Del resto il signore ci si adatterà ben presto; quando non avrà più domestiche che si curino del mantenimento delle sue venti stanze, la sua signora sarà felice di sbarazzarsi della metà del suo appartamento.
     - «Ma questo sarà uno scompiglio completo», grideranno i difensori dell'ordine.
     «Degli sgomberi da non finirla più! Tanto varrebbe mettersi tutti sulla strada ed estrarre a sorte gli appartamenti!» Ebbene, noi siamo persuasi che se nessuna specie di governo se ne immischierà, e tutta la trasformazione rimarrà affidata alle mani dei gruppi sorti spontaneamente per questo scopo, gli sgomberi saranno meno numerosi di quelli che si fanno nello spazio di un solo anno, per la rapacità dei proprietari.
     Vi è in primo luogo, in tutte le città di qualche importanza un tal numero di abitazioni disoccupate, da bastare quasi ad alloggiare la maggior parte degli abitanti delle stamberghe. Quanto ai palazzi e agli appartamenti sontuosi molte famiglie operaie non ne vorrebbero nemmeno sapere! Come servirsene, se non si hanno dei numerosi domestici per averne cura? Cosicchè coloro stessi che ora li occupano si vedrebbero presto costretti a cercare abitazioni meno sontuose, nelle quali le signore dell'aristocrazia farebbero la cucina da loro stesse. E, a poco a poco, senza che vi sia bisogno di accompagnare il banchiere con una scorta armata in una soffitta, e l'abitante della soffitta nel palazzo del banchiere, la popolazione si riparerà con mutuo accordo negli alloggi esistenti, facendo il meno scombussulìo possibile. Non si vedono i Comuni agrari distribuirsi i campi, incomodando così poco i possessori delle piccole parti di terreno, che non resta che da constatare il buon senso e la sagacità dei metodi ai quali il Comune ha ricorso? Il Comune russo - e questo è stabilito da volumi d'inchieste, - compie meno trasferimenti da un campo all'altro, che non la proprietà individuale con i suoi processi dinanzi ai tribunali. E ci si vuol far credere che gli abitanti di una grande città europea, sarebbero molto più imbecilli o meno organizzatori dei contadini russi o, indiani!
     Del resto, ogni rivoluzione implica un certo scompiglio della vita quotidiana, e coloro i quali sperano di traversare una grande crisi senza che la loro signora borghese venga disturbata dalla sua pentola, corrono il rischio di rimaner disillusi. Si può cambiar governo senza che il buon borghese fallisca una sola volta all'ora del pranzo; ma non si riparano così i delitti di una società verso quelli che l'hanno nutrita!
     Vi sarà uno sconvolgimento, è certo. Soltanto bisogna che questo sconvolgimento non avvenga con pura perdita, bisogna che questa sia ridotta al minimo. Ed è appunto - non ci stancheremo mai di ripeterlo - è appunto rivolgendosi agli interessati, e non ad uffici intermediari, che si otterrà la minima quantità di inconvenienti, per tutti.
     Il popolo commette errori sopra errori quando deve scegliere entro le urne tra i fanatici che si disputano l'onore di rappresentarlo, e s'incaricano di far tutto, saper tutto, organizzar tutto. Ma quando egli dovrà organizzare ciò che conosce, ciò che lo tocca direttamente, egli opererà meglio di tutti gli uffici possibili. Non lo si vide all'epoca della Comune, a Parigi? Non lo si è visto nell'ultimo sciopero di Londra? Non lo si vede ogni giorno in ogni comune agrario?
     

LE VESTIMENTA


     Se le case sono considerate come patrimonio comune della città, e se si procede alla ripartizione delle derrate in razioni, si dovrà necessariamente fare un passo di più. Si sarà costretti inevitabilmente a considerar la questione del vestito; e la sola soluzione possibile sarà ancor quella d'impadronirsi, in nome del popolo, di tutti i magazzini di abiti, e di spalancarne le porte a tutti, perchè ognuno si possa prendere ciò che occorre. La messa in comune delle vestimenta, e il diritto per tutti di prendere nei magazzini comunali, o di domandare ai laboratori di confezione ciò di cui si ha bisogno, ecco la soluzione che s'imporrà dacchè il principio comunista sarà stato applicato alle case e alle derrate.
     Evidentemente, noi non avremo bisogno, per questo, di spogliare tutti i cittadini dei loro soprabiti, e di mettere gli abiti in un mucchio per estrarli a sorte come lo pretendono i nostri critici, così spiritosi quanto ingegnosi. Ciascuno conserverà per sè il soprabito - se ne ha uno; ed è anche molto probabile che se ne ha dieci, nessuno pretenderà di spogliarvelo. Si preferirà il vestito nuovo a quello che il borghese avrà già logorato indosso, e vi saranno abbastanza vestiti nuovi per non dover ricorrere alle vecchie guardarobe.
     Se facessimo la statistica degli abiti accumulati nei magazzini delle grandi città, noi constateremmo probabilmente che a Parigi, Lione, Bordeaux e Marsiglia, ve ne sono abbastanza perchè il Comune possa offrire un vestito ad ogni cittadino e ad ogni cittadina. D'altronde, se non tutti ne trovassero a seconda del proprio gusto, i laboratori comunali colmerebbero ben presto le lacune. Si sa con quale rapidità lavorino oggi i nostri laboratori di confezione, provvisti di macchine perfezionate ed organizzati per la produzione su vasta scala.
     - «Ma tutti vorranno avere una pelliccia di zibellino, e ogni donna domanderà un abito di velluto!» obiettano già i nostri avversari.
     Francamente noi non lo crediamo. Non tutti preferiscono il velluto, e non tutti sognano una pelliccia di zibellino. Se oggi stesso si proponesse alle Parigine di scegliere ciascuna il suo abito, vi sarebbero di quelle che preferirebbero un abito semplice a tutte le fantastiche acconciature delle nostre mondane.
     I gusti variano secondo le epoche, e quello che avrà il sopravvento al momento della rivoluzione sarà indubbiamente un gusto di semplicità. La società, come l'individuo, ha le sue ore di viltà; ma anche i suoi minuti di eroismo. Per quanto miserabile sia quando s'infanga, come ora, nella caccia degli interessi meschini e stupidamente personali, essa cambia aspetto nelle grandi epoche, e ritrova i suoi momenti di nobiltà e di slancio. Gli uomini di cuore riacquistano quell'ascendente, di cui oggi godono gl'intriganti e i farabutti. Gli atti di abnegazione si manifestano alla luce, i grandi esempi sono imitati; non vi ha alcuno, nemmeno fra gli egoisti, che non si senta vergognoso di rimaner indietro e, di buona o di cattiva voglia, non si affretti a far coro con i generosi ed i bravi.
     La grande rivoluzione del 1793 abbonda di simili esempi. Durante queste crisi di rinnovamento morale, - così naturali nelle società come negl'individui, - si producono quegli slanci sublimi, che permettono alla umanità di fare un passo innanzi.
     Noi non vogliamo esagerare la parte probabile che queste belle passioni rappresenteranno in un momento di rivoluzione, e non è su di esse che noi basiamo il nostro ideale di società. Ma neppure esageriamo in nulla ammettendo ch'esse ci aiuteranno a traversare i primi e più difficili momenti. Noi non possiamo contare sulla continuità di questi atti di abnegazione nella vita quotidiana; ma possiamo contarci pei primi momenti, - ed è tutto ciò che ci occorre. Precisamente in sull'inizio, quando dovremo sbarazzare degl'ingombri il terreno, e pulirlo del letame accumulatosi in lunghi secoli di oppressione e di schiavitù, la società anarchica avrà bisogno di questi slanci di fraternità. Più tardi essa potrà vivere senza fare appello al sacrificio, giacchè avrà eliminato l'oppressione e creato, per questo fatto istesso, una novella società aperta a tutti i sentimenti di solidarietà.
     Comunque, se la rivoluzione si avrà secondo lo spirito di cui parliamo, la libera iniziativa degl'individui troverà un vasto campo di azione per evitare ogni strappo da parte degli egoisti. In ogni strada, in ogni quartiere potranno costituirsi dei gruppi incaricati di provvedere alle vestimenta. Ed è molto probabile che, per queste, gli abitanti della città adottino lo stesso principio che per le derrate: - «Presa a volontà di ciò che si trova in abbondanza; ripartizione in razioni di ciò che trovasi in quantità limitata.»
     Non potendo offrire ad ogni cittadino una pelliccia di zibellino, e ad ogni cittadina un abito di velluto, la società farà probabilmente distinzione fra il superfluo e il necessario. E - provvisoriamente, almeno - collocherà fra le cose superflue l'abito di velluto e lo zibellino, salvo a veder forse in seguito se ciò che oggi è superfluo, non possa domani diventar cosa comune. Pur garantendo il necessario ad ogni abitante della città anarchica, si potrà lasciare all'attività privata la cura di procurare ai deboli e ai malati ciò che sarà provvisoriamente considerato come oggetto di lusso; di provvedere ai meno robusti ciò che non è compreso nel consumo giornaliero di tutti.
     - «Ma questo è una livellazione! è l'abito grigio e uniforme del monaco!» ci si dirà. «È la sparizione di tutti gli oggetti d'arte, di tutto ciò che abbellisce la vita!»
     - No, certamente! E noi, basandoci sempre su ciò che esiste, dimostreremo tra poco come una società anarchica potrebbe soddisfare ai gusti più fini ed artistici dei suoi cittadini, senza per questo assegnar loro delle fortune da milionari.
     

VIE E MEZZI

I.

     Se una società, città o territorio, vuole assicurare a tutti i suoi abitanti il necessario, (e noi vedremo in seguito come la concezione del necessario possa estendersi sino al lusso), sarà forzatamente indotta a impadronirsi di tutto ciò che è indispensabile per produrre, cioè del suolo, delle macchine, delle officine, dei mezzi di trasporto, ecc. Essa non mancherà di espropriare gli attuali possessori del capitale, per restituirlo alla comunità.
     Infatti, ciò che si rimprovera all'organizzazione borghese, è non solo l'accaparramento da parte del capitalista di una grande parte dei benefici di ogni intrapresa industriale e commerciale, ciò che gli permette di vivere senza lavorare; la principale accusa, come l'abbiamo già notato, è che tutta la produzione ha preso una direzione assolutamente falsa, poichè essa non si compie nella mira di assicurare il benessere a tutti. E in questo consiste la sua condanna.
     E, ciò che più importa, si è ch'egli è impossibile che la produzione mercantile sia fatta a vantaggio di tutti. Pretender ciò sarebbe come chiedere al capitalista di uscir dalle sue attribuzioni, e di compiere una funzione ch'egli «non può» fare senza cessare di essere ciò che è, cioè un intraprenditore privato, che tende al proprio arricchimento. L'organizzazione capitalista, basata sull'interesse personale di ogni intraprenditore, preso separatamente, ha dato alla società tutto ciò che se ne poteva sperare: ha accresciuto la forza produttiva del lavoratore. Profittando della rivoluzione operatasi nell'industria per mezzo del vapore, del pronto sviluppo della chimica e della meccanica, e delle invenzioni del secolo, il capitalista si è dedicato, nel suo stesso interesse, ad accrescere il prodotto del lavoro umano, e vi è riuscito in larghissima misura. Ma sarebbe completamente irragionevole volergli affidare un'altra missione. Voler, per esempio, ch'egli utilizzi questo prodotto superiore del lavoro nell'interesse di tutta la società, sarebbe come domandargli della filantropia, della carità. Una intrapresa capitalista non può essere fondata sulla carità.
     Spetta alla società, ora, di generalizzare questa produttività superiore, limitata oggi ad alcune industrie soltanto, e di applicarla nell'interesse di tutti.
     Però è evidente che, per garantire a tutti il benessere, la società deve riprendere possesso di tutti i mezzi di produzione.
     Gli economisti ci ricorderanno senza dubbio - a loro piace il ricordarlo - il benessere relativo di una certa categoria di operai giovani, robusti, abili in certi rami speciali dell'industria. È sempre questa minoranza che ci s'indica con orgoglio. Ma questo benessere stesso - prerogativa di alcuni - è loro assicurato? Domani l'incuria, l'imprevidenza, o l'avidità dei loro padroni getteranno forse sul lastrico questi privilegiati; ed essi sconteranno allora con mesi ed anni di strettezze o di miseria, il periodo di agiatezza di cui avranno goduto. Quante industrie maggiori, (stoffe, ferro, zucchero, ecc.) senza parlare delle industrie effimere, abbiam visto noi arrestarsi e languire, a volta a volta, sia in seguito a speculazioni, sia per conseguenza degli spostamenti naturali del lavoro, sia infine per effetto della concorrenza, suscitata dagli stessi capitalisti! Tutte le industrie principali della tessitura e della meccanica sono passate recentemente per questa crisi; che dire poi di quelle, il cui carattere distintivo è la periodicità della sosta?
     Che dire anche del prezzo al quale si acquista il benessere relativo di alcune categorie di operai? Imperocchè ben lo si ottiene questo benessere, ma a costo della rovina dell'agricoltura, a costo dello sfruttamento più sfacciato del contadino, a costo della miseria delle masse. Di fronte a questa lieve minoranza di lavoratori che fruiscono di una certa agiatezza, quanti milioni di esseri umani vivono giorno per giorno, senza salario sicuro, pronti a recarsi dove li si richiederà; quanti contadini lavorano quattordici ore al giorno per una magra pietanza! Il capitale spopola le campagne, sfrutta le colonie e i paesi, la cui industria è poco sviluppata; condanna l'immensa maggioranza degli operai a rimaner privi di educazione tecnica, mediocri nel loro stesso mestiere. Lo stato florido di un'industria lo si paga costantemente colla rovina di dieci altre.
     E questo non è un accidente, ma una «necessità» del regime capitalista. Per essere in grado di retribuire alcune categorie di operai, «bisogna» oggidì, che il contadino sia la bestia da soma della società; «bisogna» che la campagna sia disertata per la città; «bisogna» che i piccoli mestieri si agglomerino negl'infetti sobborghi delle grandi città, e fabbrichino quasi per nulla i mille oggetti di poco valore, che mettono i prodotti della grande manifattura alla portata degli acquirenti del salario ridotto: perchè la cattiva stoffa possa essere esitata per vestire i lavoratori miseramente retribuiti, occorre che il sarto si contenti di una mercede miserabile. Bisogna che i lontani paesi dell'Oriente vengano sfruttati da quei dell'Occidente, perchè, in alcune industrie privilegiate, il lavoratore goda, sotto il regime capitalista, di una specie di agiatezza limitata.
     Il male dell'organizzazione attuale non consiste dunque nel fatto che il «plus-valore» della produzione passa nelle mani del capitalista, - come avean detto Rodbertus e Marx, - restringendo così il concetto socialista e le vedute d'insieme sul regime del capitale. Il «plus-valore» stesso non è che una conseguenza di cause più profonde. Il male risiede nel fatto che può esistere un «plus-valore» qualunque, invece di un semplice sovrappiù non consumato da ogni generazione; imperocchè, per esservi «plus-valore», bisogna che uomini, donne e fanciulli siano costretti dalla fame a vendere le loro forze di lavoro per una parte minima di ciò che queste forze producono e, sovrattutto, di ciò ch'esse sono capaci di produrre.
     Ma questo male esisterà finchè ciò che è necessario alla produzione sarà proprietà di alcuni individui soltanto. Finchè l'uomo sarà forzato di pagare un tributo al possessore per aver il diritto di coltivare il suolo o di mettere in movimento una macchina, ed il proprietario sarà libero di produrre ciò che gli frutta i più grandi benefici, piuttosto che la maggior somma degli oggetti necessari all'esistenza, il benessere non potrà essere assicurato che temporalmente a un piccolissimo numero, e verrà pagato ogni volta colla miseria di una parte della società. Non basta, infatti, distribuire in parti eguali gli utili che un'industria giunge a realizzare, se si debbono nello stesso tempo sfruttare altre migliaia di operai. Si tratta di «produrre, con la menoma, perdita possibile di forze umane, la maggior somma possibile dei prodotti più necessari al benessere di tutti».
     Questa veduta d'insieme non potrebbe essere di competenza di un proprietario privato. E per questo la società tutta quanta, prendendola come ideale, sarà costretta di espropriare, tutto ciò che serve a procurar l'agiatezza, producendo le ricchezze. Bisognerà ch'essa s'impadronisca del suolo, delle officine, delle miniere, dei mezzi di comunicazione, ecc., ed inoltre studi ciò che necessita produrre nell'interesse di tutti, nonchè le vie e i mezzi di produzione.


II.

     Quante ore al giorno di lavoro dovrà l'uomo fornire per assicurare alla sua famiglia un abbondante nutrimento, una casa confortevole e gli abiti necessari? Questa questione ha spesso preoccupato i socialisti, i quali ammettono generalmente che basterebbero quattro o cinque ore al giorno, a condizione, s'intende, che tutti lavorassero. Alla fine del secolo scorso, Beniamino Franklin stabiliva il limite di cinque ore; e se da allora i bisogni delle comodità sono aumentati, anche la forza di produzione è aumentata, e molto più rapidamente.
     In un altro capitolo, parlando dell'agricoltura, noi vedremo tutto ciò che la terra può dare all'uomo che la coltiva ragionevolmente, invece di gettar le sementi a caso su di un suolo mal lavorato, come si pratica oggigiorno. Nelle grandi fattorie dell'Ovest americano, le quali occupano diecine di leghe quadrate in estensione, ma il cui terreno è molto più povero del suolo concimato dei paesi civili, non si ottengono che dai 12 ai 18 ettolitri per ogni ettaro, cioè la metà del prodotto delle fattorie d'Europa e degli Stati dell'Est americano. Eppure, grazie alle macchine, le quali permettono a due uomini di lavorare in un giorno due ettari e mezzo, cento uomini producono in un anno tutto ciò che occorre per consegnare a domicilio il pane per diecimila persone, durante un anno intero.
     Basterebbe così ad un uomo di lavorare nelle stesse condizioni durante trenta ore, cioè sei «mezze giornate di cinque ore ciascuna», per ottenere il pane per l'intero anno, - e trenta mezze giornate per assicurarlo a una famiglia di cinque persone.
     E noi proveremo anche, con dati attinti alla pratica attuale, che se si ricorresse alla coltura intensiva, con meno di sessanta mezze giornate di lavoro si potrebbe assicurare a un'intera famiglia il pane, la carne, i cereali ed anche le frutta di lusso.
     D'altra parte, studiando i prezzi che costano oggi le case operaie, costrutte nelle grandi città, ci possiamo accertare che, per ottenere in una grande città inglese una casetta separata, come se ne fabbricano per gli operai, basterebbero dalle 1400 alle 1800 giornate di lavoro di cinque ore. E siccome una casa di questo genere dura almeno cinquant'anni, ne risulta che bastano dalle 28 alle 36 mezze giornate per un anno per assicurare ad una famiglia un alloggio salubre, abbastanza elegante, e provvisto di tutte le comodità necessarie: mentre che, affittando da un padrone lo stesso alloggio, l'operaio lo paga dalle '75 alle 100 giornate di lavoro per anno.
     Facciamo notare che queste cifre rappresentano il massimo di ciò che oggidì si pagano gli alloggi in Inghilterra, data la viziosa organizzazione della nostra società. Nel Belgio si sono costruite città operaie a molto miglior mercato. Tutto considerato, si può affermare che in una società bene organizzata, una trentina o una quarantina di mezze giornate di lavoro per anno bastano per garantire un alloggio dei più confortevoli.
     Rimane la questione del vestito. Qui il calcolo è quasi impossibile, perchè gli utili realizzati sui molteplici e successivi prezzi di vendita da un nugolo di intermediari, sfuggono ad ogni valutazione. Così, prendete la stoffa, per esempio, e addizionate tutti i guadagni prelevatici sopra dal proprietario del prato, dal possessore dei montoni, dal mercante di lana e da tutti i loro intermediari, sino alle compagnie ferroviarie, ai filatori ed ai tessitori, negozianti, venditori e agenti di vendita, e voi vi farete un'idea di ciò che si venga a pagare, per ogni vestito, a un'intera falange di borghesi. Per questo è assolutamente impossibile di precisare quante giornate di lavoro rappresenti un soprabito che voi pagate cento lire in un grande magazzino di Parigi.
     Quello che è certo, si è che con le macchine attuali si arrivano a fabbricare quantità veramente incredibili di stoffe.
     Basteranno alcuni esempi. Così, negli Stati Uniti, in 751 manifatture di cotone (filatura e tessitura) 175.000 operai e operaie producono 1 miliardo, 939 milioni e 400.000 metri di cotonine, più una grandissima quantità di filati. Le sole cotonine darebbero una media sorpassante gli 11.000 metri in 300 giornate di lavoro di nove ore e mezza ciascuna, cioè 40 metri di cotonina in dieci ore. Ammettendo che una famiglia ne consumi 200 metri per anno, il che sarebbe molto, ciò equivarrebbe a cinquanta ore di lavoro, cioè a «dieci mezze giornate di cinque ore ciascuna». E si avrebbero in più i filati - cioè filo da cucire, e filo per ordire il panno, e fabbricare stoffe di lana mescolate col cotone.
     Quanto ai risultati ottenuti colla sola tessitura, la statistica ufficiale degli Stati Uniti insegna che se, nel 1870, un operaio, lavorando dalle 13 alle 14 ore al giorno, faceva 9500 metri di cotonina bianca all'anno, nel 1886, cioè sedici anni più tardi, ne tesseva 27.000 metri, non lavorando che 55 ore per settimana. Anche nelle cotonine stampate si ottenevano, tessitura e stampatura comprese, 29.150 metri per 2669 ore di lavoro all'anno; cioè, presso a poco, 11 metri all'ora. Così, per ottenere i suoi 200 metri di cotoni bianchi e stampati, basterebbe lavorare meno di «venti ore per ogni anno».
     È utile di far notare che la materia prima arriva in queste manifatture presso a poco allo stato in cui proviene dai campi, e la serie delle trasformazioni subìte da essa prima di mutarsi in istoffa si trova compiuta nel periodo di queste venti ore. Ma per «acquistare» in commercio questi 200 metri, un operaio ben retribuito dovrebbe fornire, «a dir poco», dalle 10 alle 15 giornate di lavoro di 10 ore ciascuna, cioè dalle 100 alle 150 ore. E quanto al contadino inglese, dovrebbe stentare un mese, ed anche più, per procurarsi simile lusso.
     Si vede già da questo esempio che con cinquanta mezze giornate di lavoro, ci si potrebbe, in una società bene organizzata, vestir meglio di quel che non vestano oggi i piccoli borghesi.
     Per tutto questo, non ci son bisognate che sessanta mezze giornate di cinque ore di lavoro per procurarci i prodotti della terra, quaranta per l'abitazione e cinquanta per le vestimenta, ciò che fa giusto la metà di un anno, giacchè, dedottevi le feste, l'anno rappresenta trecento giornate di lavoro.
     Rimangono ancora centocinquanta giornate di lavoro, di cui uno potrebbe servirsi per le altre necessità della vita: vino, zucchero, caffè o thè, mobili, trasporti, ecc., ecc.
     Evidentemente questi calcoli sono approssimativi, ma possono venir confermati in un altro modo.
     Quando noi contiamo, nelle nazioni civilizzate, coloro che non producono nulla, coloro che lavorano in industrie nocive, e son condannati a sparire, coloro infine che servono da intermediari inutili, noi constatiamo che in ogni nazione il numero dei produttori propriamente detti potrebb'essere raddoppiato. E se, invece di dieci persone, venti fossero occupate alla produzione del necessario, e se la società si occupasse maggiormente di economizzare le forze umane, queste venti persone non avrebbero che da lavorare soltanto cinque ore al giorno, senza che la produzione diminuisse(19).
     E basterebbe ridurre lo sciupìo delle forze umane al servizio dei ricchi, o quell'amministrazione che conta un funzionario per ogni dieci abitanti, e di utilizzare queste a aumentare la produttività della nazione, per limitare a quattro ed anche a tre le ore di lavoro, alla condizione, s'intende, di contentarsi della produzione attuale.
     Ecco perchè, basandoci sulle considerazioni che abbiamo insieme studiato, noi possiamo dedurre la conclusione seguente:
     Supponete una società la quale comprenda parecchi milioni di abitanti occupati nell'agricoltura e in una grande varietà d'industrie, Parigi, per esempio, con il circondario di Senna e Oise. Supponete che in questa società tutti i fanciulli apprendano a lavorare colle braccia insieme che col cervello. Ammettete finalmente che tutti gli adulti, salvo le donne occupate all'educazione dei bambini, s'impegnino a lavorare «cinque ore al giorno» dall'età di venti o ventidue anni sino a quella di quarantacinque o cinquanta, e che si occupino, secondo la loro libera scelta in qualsiasi ramo dei lavori umani considerati come «necessari». Una simile società potrebbe in compenso garantire il benessere a tutti i suoi membri, - cioè un'agiatezza molto più reale che non quella di cui oggi gode la borghesia. - Ed ogni lavoratore di questa società potrebbe disporre inoltre di almeno cinque ore al giorno da dedicare alla scienza, all'arte e ai bisogni individuali non compresi nella categoria del «necessario», salvo ad introdurre più tardi in questa categoria, quando la produttività dell'uomo aumentasse, tutto ciò che oggi è considerato come oggetto di lusso e di privilegio.
     

I BISOGNI DI LUSSO


I.

     L'uomo non è pertanto un essere che possa vivere esclusivamente per mangiare, bere e procurarsi un ricovero. Dacchè egli avrà soddisfatte tutte le esigenze naturali, si susciteranno in lui, molto più ardenti, dei bisogni, ai quali si potrebbe attribuire un carattere artistico. Tanti individui, altrettanti desideri; e più la società è civile, più l'individualità è sviluppata, più questi desideri sono variati.
     Anche oggi si vedono uomini e donne che si rifiutano il necessario per acquistare qualche gingillo, per soddisfare il tal piacere, il tal godimento intellettuale o materiale. Un cristiano, un asceta possono biasimare questi desideri di lusso; ma in realtà son precisamente queste bazzecole che rompono la monotonia dell'esistenza, che la rendono gradita.
     Varrebbe la pena che si vivesse una vita seminata d'inevitabili dispiaceri, se mai, all'infuori del lavoro quotidiano, l'uomo non potesse procurarsi un solo piacere secondo i suoi gusti individuali?
     Se noi vogliamo la Rivoluzione sociale, è certamente, in primo luogo, per assicurare il pane a tutti; per trasformare quest'odiosa società in cui vediamo ogni giorno lavoratori robusti andar colle braccia penzoloni, per mancanza di un padrone che voglia sfruttarli; donne e fanciulli errar la notte perchè privi di un ricovero; famiglie intiere ridotte a mangiar pane asciutto; fanciulli, uomini e donne morir per mancanza di cure, se non di alimento. E noi ci ribelliamo appunto per mettere un fine a queste iniquità.
     Ma altra cosa noi aspettiamo pure dalla Rivoluzione. Noi vediamo che il lavoratore, costretto a lottar faticosamente per vivere, è ridotto a non poter mai gustare i sublimi godimenti - i più sublimi che siano accessibili all'uomo - della scienza e, soprattutto, della scoperta scientifica; dell'arte, e della creazione artistica. E la Rivoluzione deve garantire a ciascuno il pane quotidiano, appunto per assicurare a tutti queste gioie, riserbate oggi a un piccolo numero di privilegiati; per assicurare a tutti l'agio e la possibilità di sviluppare le proprie capacità intellettuali. Lo svago - dopo il pane - ecco lo scopo supremo.
     Certo, oggi, quando esseri umani, a centinaia di migliaia mancano di pane, di carbone, di abiti e di ricovero, il lusso è un delitto: per soddisfarlo bisogna che il figlio del lavoratore manchi di pane. Ma in una società in cui tutti mangeranno a volontà, saranno più vivaci i bisogni di ciò che noi oggi chiamiamo di lusso. E siccome tutti gli uomini non possono e non debbono rassomigliarsi (la varietà dei gusti e dei bisogni è la principale garanzia del progresso dell'umanità) vi saran sempre, ed è sperabile che sempre vi siano, uomini e donne che proveranno lo stimolo di bisogni superiori alla media comune, verso una direzione qualunque.
     Non tutti possono sentire il bisogno di un telescopio; imperocchè, quand'anche l'istruzione sia generale, vi saranno persone che preferiranno gli studi microscopici a quelli del cielo stellato. Vi son di quelli che amano le statue, ed altri le tele dei grandi maestri; il tale individuo non ha altra ambizione che quella di possedere un piano eccellente, mentre l'altro si contenta di una chitarra. Il contadino adorna la sua stanza con una oleografia, e se il suo gusto si sviluppasse, vorrebbe avere una bella incisione. Oggi, colui che prova dei bisogni artistici non può soddisfarli, meno che non erediti una grande fortuna; ma «lavorando seriamente» e appropriandosi di un capitale intellettuale che gli permetterà seguire una professione liberale, ha sempre la «speranza» di soddisfare un giorno più o meno i suoi gusti.
     Così si rimprovera generalmente alle nostre società comuniste ideali di aver per unico obbiettivo la vita materiale di ogni individuo: «Voi otterrete forse il pane per tutti, ci si dice, ma non avrete nei vostri magazzini comunali nè belle pitture, nè strumenti d'ottica, nè mobili di lusso, nè adornamenti - insomma, quelle mille cose che servono a soddisfare l'infinita varietà dei gusti umani. E così voi sopprimete ogni possibilità di procurarsi ogni altra cosa, all'infuori del pane e della carne che il Comune può offrire a tutti, e della tela grigia colla quale rivestirete tutte le vostre cittadine».
     Ecco l'obbiezione che si muove a tutti i sistemi comunisti - obbiezione che i fondatori delle giovani società che s'impiantavano nei deserti americani non hanno mai saputo comprendere. Essi credevano che se la comunità può procurarsi abbastanza stoffa da vestire tutti i soci, una sala di concerti in cui i «fratelli» possano strimpellare un pezzo di musica, rappresentare di tanto in tanto una commedia, tutto è detto. Essi dimenticavano che il senso artistico esiste tanto nell'agricoltore come nel borghese, e che se le forme del sentimento variano secondo la differenza di coltura, il fondo ne è sempre il medesimo. E la comunità ha un bel garantire la zuppa e il vino; ha un bel sopprimere nell'educazione tutto ciò che può sviluppare l'individualità; ha un bel imporre la Bibbia per unica lettura; i gusti individuali si sprigionano col malcontento generale: le piccole discordie scoppiano sulla questione di acquistare un piano o degli strumenti di fisica; e gli elementi di progresso si inaridiscono: la società non può vivere che alla condizione di soffocare ogni sentimento individuale, ogni tendenza artistica, ogni sviluppo.
     Il Comune anarchico sarà trascinato sulla stessa strada?
     - No, evidentemente! Purchè esso comprenda e procuri di soddisfare tutte le manifestazioni dello spirito umano, nello stesso tempo che assicura la produzione di tutto ciò che è necessario per la vita materiale.


II.

     Noi confessiamo francamente che quando pensiamo agli abissi di miseria e di sofferenze che ci circondano; quando ascoltiamo lo straziante ritornello dell'operaio che percorre le vie chiedendo lavoro, ci ripugna di discutere questa questione: Come si farà in una società, in cui tutti avran mangiato a piacimento, per soddisfare la tal persona desiderosa di possedere una porcellana di Sèvres o un abito di velluto?
     Noi siam quasi tentati di dire, per tutta risposta: Assicuriamo dapprima il pane. Quanto alla porcellana e al velluto, si vedrà più tardi!
     Ma giacchè bisogna pur riconoscere che, all'infuori della nutrizione, l'uomo possiede altri bisogni; e giacchè la forza dell'Anarchia consiste appunto nell'abbracciare «tutte» le facoltà umane e «tutte» le passioni senza ignorarne alcuna, noi esporremo in poche parole come si potrà fare per soddisfare i bisogni intellettuali e artistici dell'individuo.
     Abbiam detto che, lavorando 4 o 5 ore al giorno sino all'età di 40 o 50 anni, l'uomo potrebbe agevolmente produrre «tutto» ciò che è necessario per garantire alla società l'agiatezza per tutti.
     Ma la giornata dell'uomo abituato al lavoro e attaccato a una macchina non è di cinque ore; ma di dieci per trecento giorni all'anno, per tutta la sua vita. Così la salute si logora e l'intelligenza si spegne. Però quando si possono variare le proprie occupazioni, e soprattutto alternare il lavoro manuale coll'occupazione intellettuale si rinunzia volentieri all'ozio, senza stancarsi, per dieci o dodici ore. È una cosa normale. L'uomo che avrà fatto quattro o cinque ore di lavoro necessario per vivere, - avrà ancora dinnanzi a sè cinque o sei ore che cercherà di occupare secondo i suoi gusti. E queste cinque o sei ore gli daranno la piena possibilità di procurarsi, associandosi agli altri, tutto ciò che gli farà piacere, al di fuori del necessario assicurato a tutti.
     Egli si disimpegnerà dapprima, sia nei campi che nelle officine, del lavoro dovuto alla società per la sua parte di contributo alla produzione generale. Impiegherà quindi l'altra metà della sua giornata, della sua settimana, del suo anno, a soddisfare i suoi bisogni artistici e scientifici.
     Mille società sorgeranno rispondenti a tutti i gusti e a tutte le fantasie possibili.
     Gli uni, per esempio, potran consacrare le loro ore di riposo alla letteratura. Si formeranno allora gruppi di scrittori, tipografi, stampatori, incisori, disegnatori, aventi tutti uno scopo comune: la diffusione delle idee ad essi care.
     Oggi lo scrittore sa che vi è una bestia da soma, l'operaio, al quale può affidare, in ragione di tre o quattro lire al giorno, la stampatura dei suoi libri, senza punto curarsi di sapere ciò che sia una tipografia. Se il compositore è avvelenato dalla polvere d'antimonio, se il ragazzo addetto alla macchina muore d'anemia, non vi sono tanti altri miserabili pronti a prendere il loro posto?
     Ma, allorquando non vi saran più morti di fame disposti a vendere le loro braccia per una misera retribuzione: quando lo sfruttato di ieri avrà ricevuto l'istruzione e avrà le «sue» idee da mettere sulla carta e da comunicare agli altri, i letterati ed i dotti saranno costretti ad associarsi tra loro per stampare la loro prosa e i loro versi.
     Finchè lo scrittore sarà abituato a considerare il camiciotto dell'operaio e il lavoro manuale come un indice di inferiorità, gli parrà stupefacente di vedere l'autore stesso comporre il suo libro in caratteri di piombo. Non vi è forse la sala di ginnastica o il giuoco del domino per ricrearsi? Ma quando l'avvilimento che ora si connette col lavoro manuale sarà scomparso; quando tutti saranno costretti ad impiegare le loro braccia, non trovando più altri su cui sgravarsi dei lavori manuali da compiere, oh, allora gli scrittori, nonchè i loro ammiratori ed ammiratrici, impareranno presto l'arte di maneggiare il compositoio o l'apparecchio dei caratteri; conosceranno la gioia di venir tutti insieme - tutti tenendo in pregio l'opera che si stampa - a comporla e a vederla sortire, bella della sua purezza verginale, dalla macchina rotativa. Queste superbe macchine - strumento di tortura per il fanciullo che le serve da mane a sera - diventeranno una fonte di godimenti per coloro che le impiegheranno per dar voce al pensiero del loro autore favorito.
     Vi perderà forse qualcosa la letteratura? Il poeta sarà forse meno poeta dopo aver lavorato nei campi, o collaborato colle sue mani a moltiplicar l'opera sua? Il romanziere perderà forse la cognizione ch'egli possiede del cuore umano, dopo aver rasentato altri uomini nell'officina, nella foresta, tracciando una strada, o nel laboratorio? Enunciar tali questioni, è rispondervi implicitamente.
     Certi libri saran forse meno voluminosi; ma si stamperanno meno pagine per dire di più. Forse si pubblicheranno meno volumi; ma ciò che si stamperà, verrà meglio letto, meglio apprezzato. Il libro si rivolgerà a un cerchio più vasto di lettori più istruiti, più adatti a giudicarlo.
     D'altronde l'arte tipografica, che ha relativamente così poco progredito da Guttemberg in poi, è ancora, si può dire, alla sua infanzia. Bisogna ancora impiegare due ore per comporre in lettere mobili ciò che si scrive in dieci minuti, e si cercano dei sistemi più rapidi per moltiplicare il pensiero. Si troveranno(20).
     Ah, se ogni scrittore dovesse prendere parte alla stampa del suo volume! Quanti progressi non avrebbe fatti di più l'arte tipografica! Non saremmo ancora alle lettere mobili del secolo decimosettimo!
     È forse un sogno questo che noi facciamo? Certamente no, per coloro i quali hanno osservato e riflettuto. In questo momento istesso, la vita ci spinge verso questa direzione.


III.

     È forse sognare, il concepire una società in cui, essendo tutti diventati produttori, e ricevendo tutti un'istruzione che permetta di coltivar le scienze o le arti, e avendo tutti l'agio di farlo, si associno tra loro per pubblicare i loro lavori, apportando ciascuno la propria parte di lavoro manuale?
     In questo stesso momento le società di dotti, di letterati ed altro, si contano a migliaia. Queste società son pure aggruppamenti volontari, tra persone che s'interessano ad un dato ramo dello scibile, e sono associati per pubblicare i lavori. Gli autori che collaborano alle raccolte scientifiche non sono pagati. Le raccolte non sono vendute; ma vengono gratuitamente inviate, in tutte le parti del mondo, ad altre società che coltivano gli stessi rami del sapere. Certi membri della società v'inseriscono una nota di una pagina riassumente una data osservazione; altri vi pubblicano lavori, frutto di lunghi anni di studio; mentre altri si limitano a consultarle come punto di partenza di nuove ricerche. Sono insomma vere associazioni tra autori e lettori, per la produzione di lavori ai quali tutti prendono interesse.
     È vero che la società di dotti - non diversamente dal giornale di un banchiere, - si rivolge all'editore che impiega degli operai per compiere il lavoro di stampa. Vi sono persone, le quali esercitano professioni liberali, che «disprezzano» il lavoro manuale, compiuto infatti in condizioni che veramente abbrutiscono l'individuo. Ma una società la quale dispensa a ciascuno dei suoi membri l'istruzione vasta, filosofica e «scientifica», saprà organizzare il lavoro manuale in guisa da renderlo l'orgoglio dell'umanità; e la società dei dotti diventerà un'associazione d'indagatori, di amatori e di operai, tutti esercitanti un mestiere domestico e tutti interessantisi alla scienza.
     Se la scienza che li occupa è, per esempio, la geologia, contribuiranno tutti ad esplorare gli strati terrestri; tutti arrecheranno la loro parte di ricerche. Diecimila osservatori invece di cento, faranno più in un anno di quel che non si fa in vent'anni ai nostri giorni. E quando si tratterà di pubblicare i diversi lavori, diecimila uomini e donne, abili in vari mestieri, saranno là per tracciar carte, incidere i disegni, comporre il testo, stamparlo. Allegramente tutti insieme, consacreranno i loro ozi, in estate alle esplorazioni, in inverno ai lavori di gabinetto. E quando questi lavori avran visto la luce, non troveranno più cento lettori soltanto; ne troveranno diecimila, tutti interessati all'opera comune.
     Il cammino stesso del progresso c'indica del resto questa via.
     Quando l'Inghilterra ha voluto creare un grande dizionario della sua lingua, non ha aspettato che nascesse un Littré(21) il quale consacrasse tutta la sua vita a quest'opera. Essa ha fatto appello invece ai volonterosi, e mille persone si sono spontaneamente e gratuitamente offerte per rovistar le biblioteche, e terminare in pochi anni un lavoro, pel quale la vita intera di un uomo non sarebbe bastata. In tutti i rami dell'attività intelligente, lo stesso spirito si fa strada; e bisognerebbe conoscer molto poco l'umanità per non indovinare che l'avvenire è riserbato a questi tentativi di lavoro collettivo, in vece e luogo di lavoro individuale.
     Perchè quest'opera fosse veramente collettiva, si sarebbe dovuto organizzarla in maniera che cinquemila volonterosi, autori, tipografi e correttori avessero lavorato in comune; ma questo passo innanzi è stato fatto, grazie all'iniziativa della stampa socialista che ci offre già esempi di lavoro manuale ed intellettuale combinato. Accade spesso di veder l'autore di un articolo comporlo da sè stesso per i giornali di lotta. L'esperimento è ancora minimo, microscopico, se si vuole, ma dimostra la via nella quale l'avvenire s'incammina.
     È la via della libertà. Nell'avvenire, quando un uomo dovrà dire qualche cosa utile, una parola che sorpassi le idee del suo secolo, non cercherà un editore che voglia degnarsi di anticipargli il capitale necessario. Cercherà invece dei collaboratori fra quelli che conosceranno il mestiere, ed avranno compresa la portata dell'opera nuova. Ed insieme pubblicheranno il libro o il giornale.
     La letteratura e il giornalismo cesseranno allora di essere un mezzo di fare fortuna e vivere alle spese degli altri. Vi è alcuno che conosca la letteratura e il giornalismo, e che non invochi con tutte le sue forze l'avvento di una epoca, in cui la letteratura potrà finalmente emanciparsi da coloro che la proteggevano una volta, la sfruttano oggi, e dalla folla che, salvo rare eccezioni, la paga in ragione diretta della sua volgarità e della facilità colla quale si accomoda al cattivo gusto dei più?
     Le lettere e la scienza non prenderanno il loro vero posto nell'opera di sviluppo umano che il giorno in cui, libere da ogni asservimento mercenario, saranno esclusivamente coltivate da coloro che le amano e per quelli che le amano.


IV.

     La letteratura, la scienza e l'arte debbono essere servite da volonterosi. A questa condizione solamente arriveranno ad emanciparsi dal giogo dello Stato, del Capitale e della mediocrità borghese che le soffocano.
     Di quali mezzi dispone oggi lo scienziato per fare le ricerche che l'interessano? Deve domandare il soccorso dello Stato, che non può accordarlo a più di un aspirante su cento, e che nessuno ottiene se non s'impegna manifestamente a batter le vie già percorse e a non uscire dalle vecchie tradizioni! Ricordiamoci dell'Istituto di Francia che condannava Darwin, dell'Accademia di Pietroburgo che respingeva Mendeleeff, della Società Reale di Londra che rifiutava di pubblicare, come «poco scientifica» la memoria di Joule che conteneva la determinazione dell'equivalente meccanico del calore(22).
     Per questo, tutte le grandi ricerche, tutte le scoperte che rivoluzionano la scienza, furono fatte all'infuori delle Accademie e delle Università, sia da persone abbastanza ricche da poter rimanere indipendenti, come Darwin e Lyell, sia da uomini che logorarono la loro salute lavorando tra le difficoltà e troppo spesso nella miseria, per mancanza di laboratorio, sciupando un tempo infinito e senza potersi procurare gli strumenti o i libri necessari per continuare le loro ricerche, ma perseverando contro ogni speranza, e spesso anche morendo sulla breccia. I loro nomi sono legione.
     Del resto, il sistema dell'aiuto accordato dallo Stato è così cattivo, che in ogni epoca la scienza ha tentato di emanciparsene. Per questo appunto in Europa e in America abbondano migliaia di società scientifiche organizzate e mantenute da volonterosi. Alcune di esse hanno preso uno sviluppo così formidabile, che tutte le risorse delle società sussidiate e tutte le ricchezze dei banchieri non basterebbero per l'acquisto dei loro tesori. Nessuna istituzione governativa è così ricca come la Società Zoologica di Londra, la quale è mantenuta da sottoscrizioni volontarie.
     Essa non ha bisogno di comprare gli animali che, a migliaia, popolano i suoi giardini; giacchè le vengono inviati da altre società e dai collezionisti del mondo intero: un giorno è un elefante, dono della Società Zoologica di Bombay; un altro giorno è un ippopotamo e un rinoceronte offerto dai naturalisti egiziani; e questi doni magnifici si rinnovano giornalmente, arrivando incessantemente dai quattro angoli del globo: uccelli, rettili, collezioni di insetti, ecc.
     Questi invii comprendono spesso animali che non si potrebbero acquistare con tutto l'oro del mondo: qualcuno di essi fu catturato, a rischio della propria vita, da un viaggiatore che vi si è affezionato come ad un fanciullo, e che ne fa dono alla Società perchè è sicuro che essa ne avrà tutte le cure. Il prezzo d'entrata pagato dagli innumerevoli visitatori, basta al mantenimento di quell'immenso serraglio.
     Ciò che manca solamente al nostro giardino Zoologico di Londra e ad altre società dello stesso genere, si è che le contribuzioni non si scontino punto col lavoro volontario, si è che i guardiani ed i numerosissimi impiegati di quest'immenso stabilimento non siano riconosciuti come membri della società; si è che alcuni membri non abbiano, nel divenir tali, altro movente che quello di poter scrivere sui loro biglietti da visita le iniziali caratteristiche F. Z. S. (membro della Società Zoologica). Quel che manca, in una parola, è lo spirito di fratellanza e di solidarietà.
     Si può dire in generale per gl'inventori quel che si è detto per i dotti. Chi non sa a prezzo di quali sofferenze quasi tutte le grandi invenzioni hanno potuto aprirsi una via? Notti vegliate, privazioni di pane per la famiglia, mancanza di attrezzi e di materie prime per le esperienze, ecco la storia di quasi tutti coloro che hanno dotato l'industria di ciò che forma l'orgoglio, il solo giusto orgoglio, della nostra civiltà.
     Ma che occorre per uscire da queste condizioni che tutti son d'accordo nel giudicar cattive? Si è tentato di creare il brevetto, e se ne conoscono i risultati. L'inventore affamato lo vende per pochi soldi, e colui il quale non ha fatto che prestare il capitale, intasca i benefici, spesso enormi, dell'invenzione. Inoltre il brevetto isola l'inventore. L'obbliga a tener segrete le sue ricerche, che spesso non concludono che ad un tardo insuccesso; mentre che la più semplice suggestione proveniente da un altro cervello meno assorbito dall'idea fondamentale, basta talvolta per secondare l'invenzione, renderla pratica. Come ogni autorità, la patente non fa che ostacolare il progresso della industria.
     Ingiustizia stridente in teoria, - giacchè il pensiero non può essere brevettato, - il brevetto, come risultato pratico, è uno dei più grandi ostacoli per lo sviluppo rapido dell'invenzione.
     Ciò che occorre per favorire il genio della scoperta, è dapprima il risveglio del pensiero; è l'audacia della concezione che tutta la nostra educazione contribuisce ad affievolire; è il sapere sparso a piene mani, che centuplica il numero dei ricercatori; è finalmente la coscienza che l'umanità farà un passo innanzi, imperocchè il più delle volte è l'entusiasmo, o talvolta l'illusione del bene, che ha ispirato tutti i grandi benefattori.
     Solo la Rivoluzione Sociale può comunicare quest'urto al pensiero, quest'audacia, questo sapere, questa convinzione di lavorare a vantaggio di tutti.
     Allora si vedranno le vaste officine provviste di forza motrice e d'istrumenti di ogni specie, gl'immensi laboratori industriali aperti a tutti gl'indagatori. È là che verranno a lavorare al loro sogno, dopo aver soddisfatto i loro doveri verso la società; è là che passeranno le loro cinque o sei ore di ricreazione; è là che faranno le loro esperienze; è là che troveranno altri compagni, periti in altri rami dell'industria e venuti a studiare anch'essi qualche difficile problema; potranno così aiutarsi l'un l'altro, illuminarsi mutualmente, far sprizzare finalmente dall'urto delle idee e dalla loro esperienza la soluzione desiderata. Ed anche una volta, questo non è un sogno. Solanoi Gorodok di Pietroburgo ne ha già dato una realizzazione, parziale almeno, sotto il rapporto tecnico. Solanoi Gorodok è un'officina mirabilmente provvista di attrezzi ed aperta a tutti; vi si può disporre gratuitamente degl'istrumenti e della forza motrice; soltanto il legno e i metalli son calcolati al loro prezzo di costo. Ma gli operai non vi vengono che a sera, quando son già spossati da dieci ore di lavoro al laboratorio. E nascondono gelosamente le loro invenzioni a tutti gli sguardi, impacciati dalla patente e dal Capitalismo, maledizione della Società attuale, pietra d'inciampo nella via del progresso intellettuale e morale.


V.

     E l'arte? Da ogni parte ci arrivano lamentele sulla decadenza dell'arte. Siamo lontani, infatti, dai grandi maestri del Rinascimento. La tecnica dell'arte ha fatto recentemente immensi progressi; migliaia di persone, dotate di un certo talento, ne coltivano tutti i rami, ma l'arte sembra involarsi dal mondo civile! La tecnica progredisce, ma l'ispirazione appare meno che mai negli studi degli artisti.
     Donde dovrebb'essa, infatti, venire? Una grande idea può solo ispirare l'arte. L'arte è nel nostro ideale sinonimo di creazione, e deve avere gli sguardi sempre fissi innanzi; ma salvo alcune rare, molto rare eccezioni, l'artista di professione rimane troppo ignorante, troppo borghese per intravvedere i nuovi orizzonti.
     Questa ispirazione, d'altronde, non può sprigionarsi dai libri: essa dev'essere attinta dalla vita, e la società attuale non può darla.
     I Raffaello e i Murillo dipingevano in un'epoca in cui la ricerca d'un nuovo ideale si adattava ancora colle vecchie tradizioni religiose, dipingevano per decorare le grandi chiese che, anch'esse, rappresentavano l'opera pia e devota di più generazioni. La basilica col suo aspetto misterioso, la sua grandezza che la collegava alla vita stessa della città, poteva ispirare il pittore. Egli lavorava per un monumento popolare: s'indirizzava ad una folla, e ne riceveva in compenso l'ispirazione. Ed egli le parlava nello stesso senso che ad esso parlavano la navata, i pilastri, le vetrate dipinte, le statue e le porte scolpite.
     Oggi il più grande onore al quale il pittore aspira, è quello di veder la sua tela incorniciata di legno dorato e attaccata alla parete di un museo - una specie di bottega da rigattiere dove si vedrà, come si vede a Madrid, al Prado, l'«Ascensione» del Murillo accanto al «Mendicante» di Velasquez ed ai «Cani» di Filippo II. Povere statue greche le quali «vivevano» nelle acropoli delle loro città, ed ora soffocano sotto le tende di tela rossa al Louvre!
     Quando uno scultore greco scolpiva il suo marmo, cercava di riprodurre lo spirito e il cuore della città. Tutte le sue passioni, tutte le sue tradizioni di gloria dovevano rivivere nell'opera. Ma oggi la città «una» ha cessato di esistere. Non vi è più comunione di idee. La città odierna non è che un'accozzaglia occasionale di persone che non si conoscono, che non hanno alcun interesse generale, salvo quello di arricchirsi a spese gli uni degli altri; la patria non esiste... Qual patria possono avere in comune il banchiere internazionale ed il cenciaiuolo?
     Solamente allorquando una città, un territorio, una nazione o un gruppo di nazioni avran riacquistato la loro unità nella vita sociale, l'arte potrà attingere la sua ispirazione nell'«idea comune» della città o della federazione. Allora l'architetto concepirà il monumento della città, che non sarà più nè un tempio, nè una prigione, nè una fortezza; allora il pittore, lo scultore, il cesellatore, l'ornatista ecc. sapranno dove collocare le loro tele, le loro statue e le decorazioni, tutti attingendo la loro forza d'ispirazione dalla medesima sorgente vitale, e tutti procedendo gloriosamente verso l'avvenire.
     Ma sino ad allora, l'arte non farà che vegetare.
     Le migliori tele dei pittori moderni sono ancora quelle in cui si riproduce la natura, il villaggio, la vallata, il mare coi suoi perigli, la montagna coi suoi splendori. Ma in qual modo potrà il pittore riprodurre la poesia del lavoro campestre, se non l'ha che contemplata, immaginata, non mai gustata egli stesso? S'egli non la conosce che come un uccello di passaggio conosce il paese al di sopra del quale spazia nelle sue emigrazioni? Se in tutto il vigore della sua bella giovinezza, non ha dallo spuntar dell'alba seguito l'aratro, non ha gustato il godimento di abbattere le erbe con un largo colpo di falce accanto ai robusti falciatori, facendo a gara di energia colle ridenti ragazze, che empiono l'aria delle loro canzoni? L'amor della «terra» e di ciò che cresce sulla terra non lo si acquista col farne degli studi col pennello; non lo si acquista che mettendosi ai suoi servigi; e senza amarla come dipingerla? Ecco perchè tutto ciò che i migliori pittori hanno potuto riprodurre, in questo senso, è ancora così imperfetto, e molto spesso falso; quasi sempre del sentimentalismo. Vi manca la «forza».
     Bisogna aver ammirato, ritornando dal lavoro, il tramonto del sole. Bisogna essere stato contadino per conservarne lo splendore nell'occhio.
     Bisogna esser stato in mare col pescatore, ed ogni ora del giorno e della notte; aver pescato, lottato contro i flutti, sfidata la tempesta, e provata, dopo una rude fatica, la gioia di sollevare una rete pesante, o il disinganno di ritornare colle mani vuote, per comprendere la poesia della pesca. Bisogna essere passato per l'officina, aver conosciuto gli stenti, le sofferenze ed anche le gioie del lavoro creatore, aver fucinato il metallo allo splendore sfolgorante degli alti forni; bisogna aver sentito «vivere» la macchina per sapere che cosa è la forza dell'uomo e tradurla in un'opera d'arte. Bisogna, infine, tuffarsi nell'esistenza popolare per osar di rappresentarla.
     Le opere di certi artisti dell'avvenire, che avranno vissuto la vita del popolo, come i grandi artisti del passato non saranno destinate alla vendita. Esse saranno parte integrante di un tutto vivente, che senza di loro non esisterebbe, com'esse non esisterebbero senza di lui. E colà si verrà a contemplarle, e la loro altiera e serena beltà produrrà il suo benefico effetto sui cuori e sugli spiriti.
     L'arte, per svilupparsi, deve essere collegata all'industria da mille graduazioni intermediarie, di maniera che esse siano per così dire confuse, come l'hanno così bene dimostrato Ruskin e il grande poeta socialista Morris: tutto ciò che circonda l'uomo, in sua casa, nella via, all'interno ed all'esterno dei monumenti pubblici dev'essere di una pura forma artistica.
     Ma ciò non potrà realizzarsi che in una società in cui tutti godranno dell'agiatezza e del riposo. Si vedranno sorgere allora associazioni d'arte in cui ciascuno potrà dar prova delle sue capacità; imperocchè l'arte non può fare a meno di un'infinità di lavori supplementari, puramente manuali e tecnici. Queste associazioni artistiche s'incaricheranno di abbellire le dimore dei loro membri, come hanno fatto quegli amabili volontari, i giovani pittori di Edimburgo, decorando i muri e i soffitti del grande ospedale dei poveri della città.
     Il tal pittore o il tal scultore che avrà prodotto una opera di sentimento personale, tutta d'intimità, la offrirà alla donna che ama o ad un amico. La sua opera fatta di amore, sarà forse inferiore a quelle che oggi soddisfano le gloriole dei borghesi e dei banchieri, perchè sono costate molti scudi?
     Lo stesso accadrà per tutti i godimenti che si ricercano all'infuori del necessario. Colui che desidererà un piano a coda entrerà nell'associazione dei fabbricanti di strumenti di musica. E dando ad essa una parte delle sue mezze giornate di ozio, avrà presto il piano de' suoi sogni. Se si appassiona per gli studi astronomici si unirà all'associazione degli astronomi, coi suoi filosofi, i suoi osservatori, i suoi calcolatori, i suoi artisti in istrumenti astronomici, i suoi scienzati e i suoi amatori, ed otterrà il telescopio che desidera, fornendo una parte di lavoro all'opera comune, imperocchè un osservatorio astronomico richiede sovrattutto del grosso lavoro: lavoro da muratore, da falegname, da fonditore, da meccanico, - l'ultima rifinitura venendo data allo strumento di precisione dall'artista.
     In una parola, le cinque o sette ore al giorno di cui ciascuno disporrà, dopo aver consacrato alcune ore alla produzione del necessario, basterebbero ampiamente per soddisfare tutti i bisogni di lusso, infinitamente variati. Migliaia di associazioni s'incaricherebbero di provvedervi. Ciò che è ora il privilegio di un'infima minoranza sarebbe in tal modo accessibile a tutti. Il lusso, cessando di essere la pompa sciocca e chiassosa dei borghesi, diventerebbe una soddisfazione artistica.
     Tutti ne sarebbero più felici. Nel lavoro collettivo compiuto con gaiezza di cuore per raggiungere lo scopo desiderato - libro, opera d'arte od oggetto di lusso, - ognuno troverà lo stimolante, il sollievo necessario per rendere la vita gradevole.
     Lavorando ad abolire la divisione fra padroni e schiavi, noi lavoriamo alla felicità degli uni e degli altri, alla felicità dell'umanità.
     

IL LAVORO GRADEVOLE


I.

     Quando i socialisti affermano che una società affrancata dal Capitale, può rendere il lavoro gradevole, e sopprimere ogni lavoro ingrato, ripugnante e malsano, si ride loro sulla faccia. E pure, anche oggigiorno, si possono constatare i progressi meravigliosi compiuti su questa via: e dovunque i progressi si sono verificati, i padroni si felicitano dell'economia di forza ottenuta in tal guisa.
     È chiaro che l'officina potrebbe essere altrettanto sana e gradevole di quel che lo sia un laboratorio scientifico. Ed è non meno evidente che a far ciò si ricaverebbe vantaggio e non perdita. In un'officina spaziosa e bene aerata, il lavoro riesce migliore, vi si applicano agevolmente i piccoli miglioramenti, ciascuno dei quali rappresenta un'economia di tempo e di mano d'opera. E se la maggior parte delle officine perdurano ad essere i luoghi infetti e malsani che noi conosciamo, ciò avviene perchè il lavoratore non è considerato per nulla nell'organizzazione delle fabbriche, e perchè lo sciupìo più assurdo delle forze umane è il loro tratto caratteristico.
     Nondimeno si trovano già qua e là, allo stato di eccezioni rarissime, alcune officine così ben disposte che sarebbe un vero piacere lavorarvi dentro, - se il lavoro non dovesse durare più di quattro o cinque ore al giorno, si intende, ed ognuno avesse la facilità di variarlo a suo piacimento.
     Ecco una fabbrica, - consacrata disgraziatamente agli ordigni da guerra - la quale nulla lascia a desiderare sotto il rapporto dell'organizzazione sanitaria e intelligente. Essa occupa venti ettari di terreno, di cui quindici sono coperti da invetriate. Il pavimento di mattoni refrattari è nitido quanto quello di una casetta da minatore, e la tettoia di vetro è accuratamente pulita da uno stuolo di operai che non fanno altro. Vi si fondono delle verghe di acciaio che pesano persino venti tonnellate, e quando si è a trenta passi da un immenso fornello, le cui fiamme hanno la temperatura di più di un migliaio di gradi, se ne indovina la presenza solo perchè l'immensa gola di esso lascia sfuggire un mostro di acciaio, e questo mostro è manovrato da tre o quattro operai soltanto, che aprono, ora qui ora là, una valvola che mette in movimento, per la pressione dell'acqua nei tubi, delle grue immense.
     Si entra, preparati a sentire il rumore assordante dei colpi di maglio, e si scopre che non vi sono affatto magli: gl'immensi cannoni da cento tonnellate e le assi dei vapori transatlantici sono foggiate colla pressione idraulica, e l'operaio si limita a fare girare una chiavetta per comprimere l'acciaio che si preme, invece di fucinarlo; ciò che dà un metallo più omogeneo, senza screpulature, e dei pezzi di qualsiasi spessore.
     Ci si attende uno stridore d'inferno, e si vedono invece macchine che tagliano blocchi di acciaio di dieci metri di lunghezza, senza produrre altro rumore di quel che ne bisogni per tagliare del formaggio.
     E quando noi esprimevamo la nostra ammirazione all'ingegnere che ci accompagnava, egli ci rispondeva:
     «Ma è una semplice questione di economia. Questa macchina che pialla l'acciaio ci serve già da quarantadue anni. Essa non ci avrebbe servito dieci anni, se le sue parti, mal connesse o troppo deboli, si urtassero, stridessero ed urlassero ad ogni colpo di pialla.
     «Gli alti forni? Ma sarebbe una spesa inutile quella di lasciar disperdere il calore, invece di utilizzarlo: perchè arrostire i fonditori quando il calore perduto nell'irradiamento rappresenta tonnellate di carbone?
     «I magli che facevano tremar gli edifici a cinque leghe all'ingiro ancora uno sciupìo! Si fucina meglio per mezzo della pressione che per mezzo dell'urto, costa meno e vi è minor perdita. Lo spazio accordato ad ogni banco, la chiarezza dell'officina, la sua nettezza, tutto ciò è una semplice questione d'economia. Si lavora meglio quando si ci vede bene e non si è costretti dal poco spazio a urtarsi l'un l'altro.
     «È vero, egli aggiungeva, che noi eravamo in un sito molto ristretto, prima di venir qui. Il terreno costa assai caro nei dintorni della città, e i proprietari sono così rapaci!».
     La stessa cosa avviene per le miniere. Non fosse che per mezzo di Zola o dei giornali, tutti sanno che cosa sono le miniere odierne. Ora, la miniera dell'avvenire sarà ben ventilata, con una temperatura così perfettamente regolata come quella di una camera di lavoro, senza cavalli condannati a morir sotterra poichè la trazione sotterranea si effettuerà per mezzo di un cavo automatico messo in movimento alla gola del pozzo: i ventilatori saran sempre in moto e non avverranno più esplosioni. E questa miniera non è un sogno; se ne vedono già in Inghilterra, e noi ne abbiamo visitata una. Anche qui, questa più moderna disposizione di cose è una semplice questione di economia. La miniera di cui parliamo, malgrado la sua immensa profondità di 430 metri, fornisce mille tonnellate di carbon fossile al giorno con 200 lavoratori soltanto, cioè cinque tonnellate al giorno per ogni lavoratore, mentre che la media, per i 2000 pozzi dell'Inghilterra, è appena di trecento tonnellate all'anno per ogni minatore.
     Se bisognasse, noi potremmo moltiplicare gli esempi, dimostrando che per ciò che concerne l'organizzazione materiale, il sogno di Fourier, il falansterio, non era una utopia.

     Ma questo argomento è già stato frequenti volte trattato nei giornali socialisti, e l'opinione si è fermata su di esso. La manifattura, l'officina, la miniera, «possono» essere non meno sane; non meno superbe dei migliori laboratori delle università moderne; e meglio esse saranno organizzate, sotto questo rapporto, e più produttivo sarà il lavoro umano.
     Ebbene, può dubitarsi che in una società di uguali, in cui le braccia non saranno costrette a vendersi a qualsiasi condizione, il lavoro non diventi realmente un piacere, un sollievo? Le faccende ripugnanti e malsane dovranno sparire, imperocchè è evidente che in queste condizioni nuocciono alla società intera. Potevano dedicarcisi gli schiavi; l'uomo libero creerà nuove condizioni di un lavoro gradevole ed infinitamente più produttivo. Le eccezioni di oggi saranno la regola di domani.
     Lo stesso accadrà per il lavoro domestico di cui la società si scarica sull'essere da strapazzo, sull'addolorata dell'umanità: - la donna.


II.

     Una società rigenerata dalla rivoluzione saprà far scomparire la schiavitù domestica - quest'ultima forma del servaggio, forse la più tenace, in quanto che è la più antica. Solamente essa non agirà nella guisa che i falansteriani hanno sognato, nè nella maniera che spesso i comunisti autoritari s'immaginano.
     Il falansterio ripugna a milioni di esseri umani. L'uomo meno espansivo sente certamente il bisogno di incontrarsi coi suoi simili per un lavoro comune, diventato tanto più attraente in quanto che uno si sente essere una parte dell'immenso tutto. Ma non si verifica più la stessa cosa nelle ore riserbate al riposo ed all'intimità. Il falansterio ed il familisterio non tengono conto di questo bisogno; oppure cercano di supplirvi per mezzo di aggruppamenti artificiali.
     Il falansterio, che non è altra cosa in realtà che un immenso albergo, può piacere agli uni, od anche a tutti, in alcuni periodi della vita, ma la grande massa preferisce la vita di famiglia (la famiglia dell'avvenire, s'intende). Essa preferisce l'appartamento isolato, e i Normandi e gli Anglo-Sassoni giungono perfino a preferire la casetta di 4, 6 od 8 camere, nella quale la famiglia o l'agglomerazione di amici possono vivere separatamente.
     Il falansterio ha talvolta la sua ragione di essere; ma diverrebbe odioso quando s'imponesse come regola generale. Per questo una delle più grandi torture delle prigioni è la impossibilità d'isolarsi; come ugualmente l'isolamento cellulare diventa a sua volta una tortura, quando non è alternato con le ore di vita sociale.
     Quanto alle considerazioni di economia che talvolta si fanno valere in favore del falansterio, ci sembrano un'economia da speziale. La grande economia, la sola ragionevole, è quella di render la vita gradevole per tutti; perchè l'uomo soddisfatto della sua vita produce infinitamente più di colui che maledice il suo vicinato(23).
     Altri socialisti ripudiano il falansterio. Ma quando si domanda loro in qual modo potrebbe organizzarsi il lavoro domestico, rispondono: «Ciascuno farà il suo proprio lavoro». E se è un borghese socialistoide che parla, egli si rivolge a sua moglie, con un sorriso grazioso: «non è vero, mia cara, che tu farai a meno della serva in una società socialista? Tu farai, non è vero, come la moglie del nostro bravo amico Paolo, o quella di Giovanni, il falegname, che conosci?»
     Alle quali parole la donna risponde, sorridendo in un modo agro-dolce, con un: «Ma sì, caro» pur dicendosi fra sè stessa, che, fortunatamente, ciò non arriverà così presto.
     L'uomo conta ancora e sempre su la donna, sia ella domestica o sposa, per esimersi dalle faccende di casa.
     Ma anche la donna reclama finalmente la sua parte nell'emancipazione dell'umanità. Ella non vuol più prestarsi ad essere la bestia da soma della famiglia. È già abbastanza ch'ella debba consacrar tanti anni di sua vita ad allevare i suoi figli. Ella non vuol più essere la cuoca, la rammendatrice, la scopatrice di casa! E siccome le americane procedono all'avanguardia in quest'opera di rivendicazione, agli Stati Uniti è un lamento generale sulla mancanza di donne che si dilettino di lavori domestici. La signora preferisce l'arte, la politica, la letteratura o la sala da giuoco; l'operaia fa altrettanto, e non si trovano più domestiche. Son molto rare, agli Stati Uniti, le ragazze e le donne che consentano ad accettare la schiavitù del grembiule.
     E la soluzione di questo preteso inconveniente la si trova nella vita stessa, ed è semplicissima. È la macchina che s'incarica per tre quarti delle faccende di casa.
     Voi lucidate le vostre scarpe, e sapete quanto sia ridicolo questo lavoro. Strofinare venti o trenta volte una scarpa con una scopetta, che cosa può esservi di più stupido? Occorre che un decimo della popolazione europea si venda in cambio di un giaciglio o di un nutrimento insufficiente, per fare questo servigio da bruto; bisogna che la donna si consideri da se stessa come una schiava, perchè simile operazione continui a farsi ogni mattina da dozzine di milioni di braccia.
     Eppure i parrucchieri han già macchine per spazzolar i crani lisci e le capigliature folte; doveva dunque essere una cosa semplice di applicare lo stesso principio all'altra estremità. Ed è ciò che si è fatto. Oggi la macchina da lucidar le scarpe diventa di uso generale nei grandi alberghi europei ed americani, e si diffonde anche all'infuori.
     Nelle grandi scuole d'Inghilterra, divise in varie sezioni, le quali hanno in pensione ciascuna dai 50 ai 200 allievi, si è trovato più semplice l'avere un solo stabilimento che, ogni mattina, pulisca a macchina le mille paia di scarpe; ciò risparmia la spesa di mantenere un centinaio di domestici addetti specialmente a questo stupido servigio. Lo stabilimento ritira alla sera le scarpe, e le rende al mattino, a domicilio, lucidate a macchina.
     Lavare i piatti? Dove trovare una donna di casa la quale non abbia in orrore questa faccenda? Lavoro lungo e sudicio nello stesso tempo, il quale si compie ancora il più delle volte a mano, unicamente perchè il lavoro della schiava domestica non vien considerato.
     In America si è trovato di meglio. Vi è già un certo numero di città nelle quali l'acqua calda è trasmessa a domicilio, precisamente come da noi l'acqua fredda. In tali condizioni il problema diventa di una grande semplicità, e una donna, la signora Cockrane, l'ha risolto. La sua macchina lava venti dozzine di piatti, li asciuga e li secca in meno di tre minuti. Un'officina dell'Illinois fabbrica queste macchine, le quali si vendono ad un prezzo accessibile alle medie fortune. Ed anche le piccole famiglie, potranno usufruirne non diversamente che per le loro scarpe. È anche probabile che le due funzioni - lucidatura e lavatura - vengano assunte dalla stessa intrapresa.
     Pulire i coltelli; scorticarsi la pelle e torcersi le mani lavando la biancheria, per spremere l'acqua; lavare i pavimenti o scopettare i tappeti sollevando nuvole di polvere, che bisogna dopo togliere con grande fatica dai luoghi dove va a posarsi, tutto ciò si fa ancora perchè la donna è sempre schiava; ma ciò comincia a sparire, tutte queste funzioni compiendosi meglio a macchina; e le macchine di ogni specie verranno introdotte nella famiglia, quando la distribuzione della forza a domicilio permetterà di metterle tutte in movimento, senza bisogno del menomo sforzo muscolare.
     Le macchine costano pochissimo, e se noi le paghiamo ancora a caro prezzo, egli è perchè desse non vengono usate generalmente, e sovratutto perchè una tassa esorbitante, del 75 per 100, è prelevata già prima dai signori che hanno speculato sul terreno, sulla materia prima, sulla fabbricazione, [sulla vendita, sulla patente, sulla tassa stessa, e via di seguito, e tengono tutti farsi]24 passeggiare in carrozza.
     Ma la piccola macchina a domicilio non è l'ultima parola per l'affrancazione dal lavoro domestico. La famiglia esce dal suo isolamento attuale; si associa ad altre famiglie per fare in comune ciò che oggi si fa separatamente.
     Infatti, l'avvenire non è di avere una macchina per scopettare, un'altra per lavare i piatti, una terza per lavar la biancheria, e via di seguito, per ogni famiglia. L'avvenire è del calorifero comune che distribuisce il calore in ogni camera di tutto un quartiere, ed esime dall'accendere il fuoco. Ciò si fa già in alcune città americane. Un enorme focolare invia acqua calda in tutte le case, in tutte le camere. L'acqua circola in tubi, e, per regolarne la temperatura, non si ha che da girare una chiavetta. E se voi tenete ad avere inoltre il fuoco che risplenda nella tale camera, si può accendere il gaz speciale di riscaldamento trasmesso da un serbatoio centrale. Tutto l'immenso servizio di pulitura dei camini e di mantenimento del fuoco - la donna sa quanto tempo esso assorba - sta per scomparire.
     La candela, la lampada ed anche il gaz han fatto il loro tempo. Vi sono intere città dove basta spremere un bottone perchè la luce si sprigioni, e, alla fine dei conti, è un semplice affare di economia - e di sapere - quello di permettersi il lusso della luce elettrica.
     Finalmente si tratta già, sempre in America, di formare una società per sopprimere quasi completamente il lavoro domestico. Basterebbe creare un servizio di famiglia per ogni gruppo di case. Un carro verrebbe a prendere a domicilio le scarpe da lucidare, le stoviglie da pulire, la biancheria da lavare, delle piccole cose da raccomodare, (se ne vale la pena), i tappeti da scopettare, e il domani mattina vi ricondurebbe a casa bell'e fatto, e ben fatto, il lavoro che gli aveste affidato. Alcune ore più tardi, il vostro caffè caldo e le vostre uova cotte appuntino compariranno sulla mensa.
     Infatti, tra mezzogiorno e le due, vi sono certamente più di 20 milioni di Americani e altrettanti Inglesi, i quali mangiano tutti arrosto di bue o di montone, del maiale bollito, delle patate cotte e gli erbaggi o legumi della stagione. E son così, a dir poco, otto milioni di fuochi accesi durante due o tre ore per arrostire questa carne e cuocere questi legumi: otto milioni di donne passano il loro tempo a preparare questo pasto, il quale non consiste forse in più di dieci piatti differenti.
     «Cinquanta fuochi, scriveva tempo fa un'Americana, laddove ne basterebbe uno solo». Mangiate alla vostra tavola, in famiglia coi vostri figli, se così vi piace; ma, di grazia, perchè queste cinquanta donne che perdono tutta la loro mattinata a fare alcune tazze di caffè e a preparare un pasto così semplice? Perchè cinquanta fuochi, quando due persone e un sol fuoco basterebbero a cuocere tutti questi pezzi di carne e tutti questi legumi?
     Scegliete voi stessi il vostro arrosto di bue o di montone, se siete buongustaio. Condite i vostri legumi a vostro piacimento, se preferite una salsa, piuttosto che un'altra! Ma non abbiate che una cucina così spaziosa e un solo fornello così bene fornito, come meglio crederete.
     Per qual ragione il lavoro della donna non è stato mai calcolato, per qual ragione in ogni famiglia la madre, e spesso tre o quattro serve, sono costrette a impiegare tutto il loro tempo nelle faccende di cucina? Perchè quegli stessi che vogliono l'emancipazione del genere umano non hanno compresa la donna nel loro sogno di liberazione, e considerano come cosa indegna della loro alta dignità mascolina di pensare «a questi affari di cucina», di cui essi si sono scaricati sulle spalle della grande paziente - la donna?
     Emancipar la donna, non vuol dire aprirle la porta dell'università, del foro e del parlamento. È sempre su di un'altra donna che la donna emancipata si sbarazza dei lavori domestici. Emancipar la doma, significa liberarla del lavoro stupido della cucina e del lavatoio; significa organizzarsi in modo, da permetterle di nutrire ed allevare i suoi figliuoli, se a lei così piace, pur fruendo di abbastanza riposo per goder la sua parte di vita sociale.
     Ciò si farà, l'abbiamo detto, ciò comincia già a verificarsi. Impariamo che una rivoluzione, la quale s'inebriasse delle più belle espressioni di Libertà, Uguaglianza e Solidarietà, mantenendo la schiavitù del focolare, non sarebbe la Rivoluzione. La metà dell'umanità, subendo la schiavitù del focolare domestico, dovrebbe ancora ribellarsi contro l'altra metà.
     
     

IL LIBERO ACCORDO

I.

     Abituati, come noi siamo, da pregiudizi ereditari, da un'educazione e istruzione assolutamente false, a non veder dappertutto che governo, legislazione e magistratura noi giungiamo a credere che gli uomini si morderebbero l'un l'altro come bestie feroci, il giorno in cui il poliziotto non ci vigilasse più, e che avverrebbe il caos, qualora l'autorità scomparisse in qualche cataclisma. E noi passiamo senza avvedercene, accanto a migliaia e migliaia di aggruppamenti umani che si formano liberamente, senza nessun intervento della legge, e che arrivano a realizzare cose infinitamente superiori a quelle che compionsi sotto la tutela governativa.
     Aprite un giornale quotidiano. Le sue pagine sono interamente consacrate agli atti dei governi, agl'imbrogli politici. A leggerlo, un Chinese crederebbe che in Europa nulla si compia senza l'ordine di qualche padrone. Cercatevi qualsiasi cosa sulle istituzioni che nascono, crescono e si sviluppano senza prescrizioni ministeriali! Nulla, o quasi nulla! Se vi è una rubrica di «cronaca», egli è perchè si connette colla polizia. Un dramma di famiglia, un atto di rivolta non vi saranno menzionati che perchè gli agenti si sono mostrati.
     Trecentocinquanta milioni di Europei si amano e si odiano, lavorano o vivono delle loro rendite, soffrono o godono. Ma la loro vita, i loro atti, (a parte la letteratura, i teatri, lo sport), tutto rimane ignorato dai giornali se i governi non sono intervenuti in un modo o nell'altro.
     Ugualmente accade per la storia. Noi conosciamo i menomi particolari della vita di un re, o di un parlamento; ci sono tramandati tutti i discorsi, buoni o cattivi, pronunziati nelle aule della ciarlataneria, «i quali non hanno influito sul voto d'un sol membro», come diceva un vecchio parlamentare. Le visite dei re, il buono o cattivo umore dei politicanti, i loro giuochi di parole e i loro intrighi, tutto ciò è accuratamente messo da conto per la posterità. Ma noi abbiamo mille difficoltà per ricostruir la vita di una città del medio evo, per conoscere il meccanismo di quell'immenso commercio di scambio che si faceva fra le città hanseatiche(25), oppure per sapere in qual modo la città di Rouen ha costrutta la sua cattedrale. Se qualche dotto ha passato la vita nel far queste indagini, le sue opere rimangono ignorate, e le «storie parlamentari», cioè false, perchè non parlano che di un solo lato della vita della società, si moltiplicano, si spacciano, si vendono nelle scuole.
     E noi non ci accorgiamo nemmeno del lavoro prodigioso che ogni giorno compie l'aggruppamento spontaneo degli esseri umani, e che costituisce l'opera capitale del secolo nostro.
     Per questo noi ci proponiamo di dar risalto a qualcuna di queste manifestazioni più sorprendenti, e di mostrare come gli uomini, - purchè i loro interessi non siano assolutamente contradditori - s'intendon a meraviglia per l'azione in comune, sopra le questioni più complesse.
     È evidentissimo come nella società odierna, basata sulla proprietà individuale, cioè sullo spogliamento e sull'individualismo più ristretto, e quindi stupido, i fatti di simile specie siano necessariamente limitati; l'accordo non vi è sempre perfettamente libero, e funziona spesso per uno scopo meschino e odioso.
     Ma quel che c'importa, non è di ricevere esempi da imitare ciecamente, e che del resto la società attuale non potrebbe fornirci. Ciò che ci abbisogna si è di mostrare come, malgrado l'individualismo autoritario che ci soffoca vi è sempre, nell'insieme della nostra vita, un campo vastissimo, nel quale non si agisce che per mezzo del libero accordo; e che è molto più facile di quel che non si creda di fare a meno del governo.
     In appoggio della nostra tesi noi abbiamo già citato le strade ferrate, e ci ritorneremo sopra ancora.
     Si sa che l'Europa possiede una rete di strade ferrate di 300.000 chilometri, e che oggi si può circolare su questa rete, dal nord al sud, da levante a ponente, da Madrid a Pietroburgo, da Calais a Costantinopoli, senza subire fermate, senza nemmeno cambiar di carrozza, (quando si viaggia in treni espressi). Meglio ancora: un pacco spedito in una stazione anderà a raggiungere il destinatario non importa dove, in Turchia o nell'Asia Centrale, senza altra formalità per lo speditore, che quella di scrivere il luogo di destinazione sopra un pezzo di carta.
     Questo risultato si poteva ottenere in due modi. O che un Napoleone, un Bismarck, un potentato qualunque avesse conquistato l'Europa, e da Parigi, da Berlino, da Roma, avesse tracciato sopra una carta le direzioni delle linee ferroviarie, e ne avesse regolato l'andamento. L'idiota coronato, Nicola I di Russia, sognò di agire così. Quando gli furono presentati dei progetti di strade ferrate tra Mosca e Pietroburgo, prese una riga e tracciò una linea diretta tra queste due capitali, dicendo: «Ecco il percorso». E la strada ferrata si fece in linea diretta colmando torrenti, innalzando ponti vertiginosi che si dovettero poi abbandonare in capo a qualche anno, e costando dai due ai tre milioni in media per chilometro.
     Questo è uno dei modi; ma altrove si agì diversamente. Le strade ferrate sono state costruite per tronchi; i tronchi sono stati allacciati fra di loro, e quindi le cento compagnie diverse alle quali questi tronchi appartenevano hanno cercato d'intendersi per far coincidere i loro treni all'arrivo e alla partenza, per far circolare sui loro binari vagoni di ogni provenienza, senza scaricar le merci passando da una rete all'altra.
     Tutto ciò si è fatto per mezzo del libero accordo collo scambio di lettere e di proposte, per via di congressi, nei quali i delegati intervenivano per discutere di una data questione speciale - non per legiferare; - e dopo i congressi, i delegati ritornavano alle loro compagnie non con una legge, ma con un progetto di contratto da accettare o da respingere.
     Certamente, vi furono da una parte e dall'altra degli stiracchiamenti. Certamente vi furono degli ostinati che non volevano lasciarsi convincere. Ma l'interesse comune finì per mettere tutti d'accordo senza che vi fosse bisogno d'invocare gli eserciti contro i recalcitranti.
     Quest'immensa rete di strade ferrate collegate tra di loro, e questo prodigioso traffico al quale danno movimento, costituiscono certamente la caratteristica più meravigliosa del nostro secolo; e son dovuti al libero accordo. Se qualcuno l'avesse previsto e predetto, cinquant'anni fa, i nostri nonni l'avrebbero creduto pazzo o imbecille. Essi avrebbero gridato: «Voi non arriverete mai a far capire la ragione a cento compagnie di azionisti. Voi ci raccontate un'utopia, una novella delle fate. Un aggruppamento centrale, con un direttore risoluto, potrebbe solamente imporlo».
     Ebbene, ciò che vi ha di più interessante in quest'organizzazione, si è che non esiste alcun governo centrale europeo delle strade ferrate! Niente! Niente ministri delle strade ferrate, niente dittatori, nemmeno un parlamento continentale, nemmeno un comitato dirigente. Tutto si compie per mezzo di contratti.
     E allo statista che pretende «che mai non si potrà fare a meno del governo centrale, non fosse altro che per regolare il traffico», noi domandiamo:

     «Ma in qual modo le strade ferrate dell'Europa possono farne a meno? Come arrivano esse a far viaggiare milioni di viaggiatori e montagne di merci attraverso tutto un continente? Se le compagnie proprietarie delle strade ferrate hanno potuto intendersi fra di loro, perchè mai i lavoratori che prendessero possesso delle linee ferroviarie non si accorderebbero nella stessa guisa? E se la compagnia di Pietroburgo-Varsavia, e quella di Parigi-Belfort possono agire con accordo senza darsi il lusso di un comandante per l'una e per l'altra, perchè in seno alle nostre società, ciascuna di esse costituita da un gruppo di lavoratori liberi, si avrebbe bisogno di un governo?


II.

     Quando noi tentiamo di dimostrare, per mezzo di esempi, che oggi stesso, malgrado l'iniquità che presiede all'organizzazione della società attuale, gli uomini, purchè i loro interesi non siano diametralmente opposti, sanno benissimo mettersi d'accordo senza intervento dell'autorità, noi non ignoriamo le obbiezioni che ci saranno rivolte.
     Questi esempi hanno il loro lato difettoso, imperocchè è impossibile di citare una sola organizzazione che sia immune dallo sfruttamento del debole per opera del forte, del povero per opera del ricco. Per questo gli statisti non mancheranno di dirci certamente, con la logica che loro si riconosce: «Voi vedete bene che l'intervento dello Stato è necessario per mettere fine a questo sfruttamento!»
     Solamente, dimenticando le lezioni della storia, non ci diranno sino a qual punto lo Stato ha contribuito ad aggravare questo stato di cose, creando il proletariato e dandolo nelle mani degli sfruttatori. E dimenticheranno anche di dirci se sia impossibile di far cessare lo sfruttamento, fintantochè le sue cause prime - il Capitale individuale e la miseria, creata artificialmente per i due terzi dallo Stato, - continuino a sussistere.
     È da prevedersi che, a proposito del completo accordo fra le compagnie ferroviarie, ci si dica: «Non vi accorgete dunque come le compagnie ferroviarie angariano e maltrattano i loro impiegati e i viaggiatori stessi? Bisogna pure che lo Stato intervenga per proteggere il pubblico!»
     Ma non abbiamo noi detto e ripetuto tante volte che fintantochè vi saranno capitalisti, questi abusi di potere si perpetueranno? È precisamente lo Stato, - questo preteso benefattore, - che ha dato alle compagnie questa terribile potenza ch'esse possiedono oggi. Non ha desso creato le concessioni, le garanzie? Non ha desso mandato le sue truppe contro i ferrovieri in isciopero? E, in sul principio, (e ciò si verifica ancora in Russia), non ha esso esteso il privilegio sino a proibire alla stampa di narrare gli accidenti ferroviari, per non deprezzare le azioni che aveva garantite? Non ha desso, infatti, favorito il monopolio che ha consacrato i Vanderbilt come i Polyakoff, i direttori della Parigi Lione Mediterraneo (P. L. M.) e quelli della linea del Gottardo, «i Re dell'epoca»?
     Dunque, se noi portiamo come esempio l'accordo tacitamente stabilito fra le compagnie ferroviarie, non è già per additarlo come un ideale di amministrazione economica, e nemmeno come un ideale di organizzazione tecnica. Ma si è per dimostrare che, se dei capitalisti, senz'altro obbiettivo che quello di aumentare le loro rendite alle spese di tutti, possono arrivare a sfruttare le strade ferrate, senza fondare per questo un ufficio internazionale, perchè non potrebbero farlo ugualmente, e anche meglio, delle società di lavoratori, senza creare un ministero delle strade ferrate europee?
     Un'altra obbiezione si presenta, apparentemente più seria. Ci si potrebbe dire che l'accordo di cui noi parliamo non è interamente «libero»; che le grandi compagnie fanno la legge alle piccole. Si potrebbe citare, per esempio, una data ricca compagnia che obbliga i viaggiatori i quali vanno da Berlino a Basilea, a passare per Colonia e Francoforte, invece di seguir la strada di Lipsia; la tal'altra la quale fa percorrere alle merci dei circuiti di cento e duecento chilometri (sui lunghi percorsi) per favorire potenti azionisti; la tal'altra finalmente manda in rovina linee secondarie. Agli Stati Uniti, viaggiatori e merci sono talvolta costretti a seguire percorsi inverosimili, perchè i dollari affluiscano nella tasca d'un Vandenbilt.
     La nostra risposta sarà la stessa. Finchè il capitale esisterà, il grosso capitale potrà sempre opprimere il piccolo. Ma l'oppressione non risulta soltanto dal capitale. Alcune grandi compagnie schiacciano le più piccole, sovrattutto grazie all'appoggio dello Stato, e al monopolio dello Stato creato in loro favore.
     Marx ha dimostrato benissimo come la legislazione inglese ha fatto di tutto per rovinare la piccola industria, ridurre il contadino alla miseria, e dare in mano ai grossi industriali dei battaglioni di miserabili, costretti a lavorare per qualsiasi salario.
     Lo stesso accade esattamente per la fabbricazione che concerne le strade ferrate. Linee strategiche, linee sovvenzionate, linee usufruenti del monopolio del corriere internazionale, tutto è stato messo in opera nell'interesse dei signorotti della finanza. Quando Rothschild - creditore di tutti gli Stati europei, - impegna il suo capitale in una strada ferrata, i suoi fedeli sudditi, i ministri, si aggiusteranno per procacciargli più lauti guadagni.
     Negli Stati Uniti, - questa democrazia che gli autoritari ci dipingono talvolta come ideale, - la frode più scandalosa s'è infiltrata in tutto ciò che riguarda le strade ferrate. Se la tal compagnia uccide le sue rivali con una tariffa a prezzi bassissimi, egli è perchè si rifà, da un'altra parte sulle terre che lo Stato mediante corruzione, le ha accordate. I documenti recentemente pubblicati sul grano americano, ci hanno mostrato la parte rappresentata dallo Stato in questo sfruttamento del forte sul debole.

     Anche qui lo Stato ha decuplato centuplicato la forza del grosso capitale. E quando noi vediamo i sindacati delle compagnie ferroviarie (anche questi un prodotto del libero accordo) riuscir talvolta a proteggere le piccole compagnie contro le grandi, noi non possiamo fare a meno di stupirci della forza intrinseca del libero accordo, malgrado l'onnipotenza del grande capitale, secondato dallo Stato.
     Infatti le piccole compagnie vivono, malgrado la parzialità dello Stato; e se in Francia, paese di accentramento, noi non contiamo che cinque o sei grandi compagnie, ne contiamo più di 110 nella Grande Brettagna, le quali s'intendono a meraviglia e son certamente meglio organizzate per i trasporti rapidi delle mercanzie e dei viaggiatori, che non le strade ferrate francesi e tedesche.
     Del resto, la questione non consiste in questo. Il grosso capitale, favorito dallo Stato, può sempre, «qualora vi trovi vantaggio» schiacciare il piccolo. Quello che ci occupa, è questo: L'accordo tra le centinaia di compagnie, alle quali appartengono le strade ferrate d'Europa, «si è stabilito direttamente, senza l'intervento di un governo centrale», promulgante la legge alle diverse compagnie; esso si è mantenuto per mezzo di congressi composto di delegati che discutevano tra di loro, e sottoponevano ai loro mandanti dei «progetti», non delle «leggi». È questo un principio nuovo, che differisce e si distacca completamente dal principio governativo, monarchico o repubblicano assoluto o parlamentare. È un'innovazione che s'introduce, timidamente ancora, nei costumi d'Europa, ma che ha l'avvenire per sè.


III.

     Quante volte non abbiamo noi letto negli scritti dei socialisti di Stato delle esclamazioni di questo genere: «E chi s'incaricherà dunque nella società futura di regolare il traffico dei canali? Se passasse per la testa d'uno dei vostri «compagni» anarchici, l'idea di mettere una barca attraverso il canale e di sbarrare la via alle migliaia d'imbarcazioni, - chi potrebbe ridurlo alla ragione?». Confessiamo che la supposizione è un poco fantastica. Ma si potrebbe aggiungere: «E se, per esempio, il tal comune o il tal gruppo volessero far passare le loro barche innanzi alle altre, ingombrando il canale per trasportare, forse, delle pietre mentre che il grano, destinato al tal altro comune rimarrebbe trascurato, chi regolerebbe dunque l'andamento dei battelli, in mancanza del governo?».
     Ebbene, la vita reale ci ha mostrato ancora che si può fare a meno benissimo del governo. La libera intesa, la libera organizzazione, sostituiscono questa macchina costosa e dannosa, e fanno meglio.
     Si sa che cosa siano per l'Olanda i suoi canali: sono le strade. Si conosce ancora quale immenso traffico si effettui su questi canali. Ciò che da noi si trasporta sulle strade ferrate o di terra, in Olanda si trasporta per la via dei canali. È quello il posto dove potrebbero avvenire dispute e contese per la precedenza nel passaggio dei battelli. È là che il governo dovrebbe intervenire per mettere l'ordine nel traffico.
     Ebbene, no. Più pratici, gli Olandesi, da lunghissimo tempo, han saputo aggiustarsi altrimenti, creando specie di corporazioni, o sindacati di battellieri. Erano associazioni libere, sorte dai bisogni stessi della navigazione. Il passaggio dei battelli si faceva seguendo un certo ordine d'iscrizione; tutti si seguivano per turno. Nessuno doveva sorpassare gli altri sotto pena di venire escluso dal sindacato. Nessuno rimaneva più di un certo numero di giorni nei porti d'imbarco, e se, durante questo tempo, non trovava merci da caricare, tanto peggio per lui; se ne partiva vuoto, cedendo il posto ai nuovi arrivati. Ogni ingombro era in tal modo evitato, anche quando la concorrenza degl'intraprenditori, - conseguenza della proprietà individuale - perdurava ancora. Sopprimete questa, e l'accordo sarà anche più cordiale, più equo per tutti.
     S'intende che il proprietario di ogni battello poteva aderire o no, al sindacato. Era affar suo; ma la maggior parte preferivano farvi adesione. Del resto i sindacati offrono così grandi vantaggi che si sono diffusi sul Reno, sul Weser, sull'Oder sino a Berlino. I battellieri non hanno aspettato che Bismarck annettesse l'Olanda alla Germania, e nominasse un «Ober-Haupt-General-Staats-Canal-Navigations-Rath» con un numero di galloni corrispondente alla lunghezza del titolo. Essi invece han preferito d'intendersi internazionalmente. Meglio ancora: molti velieri che fanno il servizio tra i porti tedeschi e quelli della Scandinavia, nonchè della Russia, hanno aderito pure a quei sindacati, per regolare il traffico sul mar Baltico e introdurre una certa armonia in quel va e vieni di battelli. Sorte liberamente, reclutando i loro aderenti volontari, queste associazioni non hanno nulla a che fare con i governi.
     È possibile, ed è probabilissimo in ogni caso, che anche qui il grande capitale opprima il piccolo. È possibile ancora che il sindacato abbia una tendenza a creare un nuovo monopolio, sovrattutto sotto il prezioso patronato dello Stato che non mancherà d'immischiarsene. Soltanto non dimentichiamo che questi sindacati rappresentano una associazione, i cui membri non hanno che interessi personali; ma che qualora ogni armatore fosse costretto, dalla socializzazione della produzione, del consumo e dello scambio, di far parte nello stesso tempo di cento altre associazioni necessarie al soddisfacimento dei suoi bisogni, le cose cambierebbero aspetto. La corporazione dei battellieri pur essendo potente sull'acqua, si sentirebbe debole in terra ferma, e dovrebbe diminuire le sue pretensioni, per intendersi con le strade ferrate, le manifatture e tutti gli altri aggruppamenti.
     In ogni caso, senza parlare dell'avvenire, ecco ancora un'associazione spontanea che ha potuto fare a meno del governo. Passiamo ad altri esempi.
     Poichè siamo in argomento di bastimenti e battelli, ricordiamo una delle più belle organizzazioni che siano sorte nel nostro secolo, - una di quelle di cui ci possiamo, a giusto titolo, vantare. Intendiamo parlare della Associazione inglese per il salvataggio (Lifeboat Association).
     Si sa che ogni anno più di mille bastimenti vengono ad incagliarsi sulle coste dell'Inghilterra. Raramente un buon bastimento teme la tempesta in mare. I pericoli lo attendono vicino alle coste: mare agitato che gli spezza la ruota di poppa, colpi di vento che gli strappano gli alberi e le vele, correnti che lo rendono indomabile, scogli a fior d'acqua e bassifondi sui quali s'incaglia.
     Anche quando una volta gli abitanti delle coste accendevano grandi fuochi per attirare le navi sugli scogli e impadronirsi, secondo il costume, del loro carico, hanno sempre fatto il possibile per salvar l'equipaggio. Scorgendo una nave in pericolo, mettevano in acqua i loro gusci di noce, e si portavano in soccorso dei naufraghi, sovente per trovare anch'essi la morte nei flutti. Ogni villaggio in riva al mare ha le sue leggende di eroismo, - eroismo dimostrato tanto da donne che da uomini, per salvare gli equipaggi in pericolo.
     Lo Stato, gli scienziati hanno fatto pure qualcosa per diminuire il numero degli infortuni. I fari, i segnali, le carte, gli avvertimenti meteorologici hanno certamente ridotto di molto questo numero. Ma rimangono ogni anno un migliaio di bastimenti e parecchie migliaia di vite umane da salvare.
     Così alcuni uomini di buona volontà si misero al lavoro. Marinai esperti essi stessi, immaginarono un battello di salvataggio che potesse sfidar la tempesta senza capovolgersi, nè colare a fondo, e cominciarono una campagna per iniziare il pubblico all'intrapresa, trovare il denaro necessario, costrurre battelli, e collocarne sulle coste, dovunque potessero render servigio.
     Queste persone, non essendo dei giacobini, non si rivolsero al governo. Essi avevano compreso che, per condurre a buona riuscita la loro intrapresa, occorreva loro il concorso, lo slancio dei marinai, la loro conoscenza dei luoghi, e sovrattutto la loro abnegazione. E per trovare uomini che, al primo segnale, si slancino nella notte, nel caos delle onde, non lasciandosi arrestare nè dalle tenebre nè dai frangenti, e lottando cinque, sei, dieci ore contro i flutti prima di raggiungere il bastimento in pericolo, uomini pronti ad arrischiar la loro vita, per salvar quella degli altri, occorre il sentimento di solidarietà, lo spirito di sacrificio, che non si acquistano già con dei galloni.
     Fu dunque questo un movimento interamente spontaneo, - generato dal libero accordo e dall'iniziativa individuale. Centinaia di gruppi locali si formarono lungo le costiere. Gl'iniziatori ebbero il buon senso di non atteggiarsi a padroni: cercarono invece i loro lumi nelle capanne dei pescatori. Se un lord mandava 25.000 lire per l'acquisto di un battello di salvataggio, ad un villaggio della costa, se ne accettava l'offerta; ma si lasciava ai pescatori e ai marinai del luogo la scelta del posto ove collocarlo.
     Non fu all'Ammiragliato che si fecero i piani dei nuovi battelli. «Poichè importa - leggiamo nella relazione dell'Associazione - che i salvatori abbiano piena fiducia nell'imbarcazione che montano, il Comitato s'impone sovrattutto il compito di dare ai battelli la forma e l'allestimento che possono desiderare gli stessi salvatori». Così ogni anno l'Associazione adotta nuovi perfezionamenti.
     Tutto per opera dei volonterosi, organizzati in comitati o gruppi locali! Tutto per mezzo del mutuo aiuto e dell'accordo! - Oh, gli anarchici! - E così nulla essi domandano ai contribuenti, e pure l'anno scorso il loro bilancio segnava un milione e 76 mila lire di quote spontanee.
     Quanto ai risultati, eccoli:
     L'Associazione possedeva nel 1891, 293 battelli di salvataggio. In questo stesso anno essa salvava 601 naufraghi e 33 bastimenti; dalla sua fondazione ha salvato 32.661 esseri umani.
     Nel 1886, essendo periti nei flutti tre battelli di salvataggio con tutti i loro equipaggi, centinaia di nuovi volontari vennero ad iscriversi costituendosi in gruppi locali, e questo fatto ebbe per risultato la costruzione di una ventina di battelli supplementari.
     Notiamo di sfuggita che l'Associazione invia, ogni anno, ai pescatori e ai marinai degli eccellenti barometri a un prezzo tre volte minore del loro valore reale. Essa diffonde le cognizioni meteorologiche e tiene gl'interessati al corrente delle variazioni repentine previste dagli scienziati.
     Ripetiamo che le centinaia di piccoli comitati, o gruppi locali, non sono organizzati gerarchicamente e si compongono unicamente di volontari-salvatori, e di persone che s'interessano di quest'opera. Il Comitato centrale, che è piuttosto un centro di corrispondenza, non interviene in nessun modo.
     È vero che quando si tratta, nel circondario, di votare su di una questione d'educazione o d'imposte locali questi comitati non prendono parte, come tali, alle deliberazioni - modestia che gli eletti di un consiglio municipale disgraziatamente non sanno imitare. Ma d'altra parte, questa brava gente non ammette che chi non ha mai sfidato la tempesta imponga loro delle leggi sul salvataggio. Al primo segnale di pericolo, essi accorrono, si concentrano e vanno innanzi. Niente galloni, ma molta buona volontà.
     Prendiamo un'altra Società dello stesso genere, quella della Croce Rossa. Poco importa il suo nome: vediamo ciò ch'essa è.
     Immaginate che qualcuno fosse venuto a dire venticinque anni fa: «Lo Stato, per quanto capace di far massacrare ventimila uomini in un giorno e di farne ferire cinquantamila, è incapace di portare soccorso alle sue stesse vittime. Bisogna dunque che - finchè la guerra esiste - l'iniziativa privata intervenga e gli uomini di buona volontà si organizzino internazionalmente per quest'opera di carità».
     Qual diluvio di scherni non si sarebbe riversato su colui che avesse osato tenere simile linguaggio! Lo avrebbero trattato dapprima da utopista, e se poi si fossero degnati di fargli qualche obbiezione, gli avrebbero risposto: «volontari mancheranno precisamente là dove il bisogno si farà maggiormente sentire. I nostri ospedali liberi saranno tutti accentrati in luogo sicuro, mentre le ambulanze mancheranno dell'indispensabile. Le rivalità nazionali produrranno come conseguenza che i poveri soldati muoiano senza soccorsi». Tanti parolai, altrettante riflessioni scoraggianti. Chi di noi non ha inteso piagnucolare su questo tono?
     Ebbene, noi sappiamo invece quel che in realtà accade. Dappertutto, in ogni paese, in ogni località si sono organizzate liberamente società e sezioni della Croce Rossa, e quando scoppiò la guerra del 1870-71, i volontari si misero all'opera. Uomini e donne accorsero a prestare i loro servigi. Ospedali ed ambulanze furono organizzati a migliaia; e gran numero di treni fu destinato al trasporto di ambulanze, viveri, biancheria, medicamenti per i feriti. I comitati inglesi mandarono interi convogli di alimenti, di abiti, di attrezzi, di sementi, di animali da tiro, e persino di aratri a vapore con le rispettive guide, per aiutare la coltura dei terreni devastati dalla guerra. Consultate soltanto la «Croce Rossa» di Gustavo Moynier, e rimarrete veramente colpiti dall'immensità del lavoro compiuto.
     Quanto ai profeti sempre pronti a negare agli altri uomini il coraggio, il buon senso, l'intelligenza, credendosi essi soli capaci di guidare il mondo a bacchetta, nessuna delle loro previsioni si è avverata.
     L'abnegazione dei volontari della Croce Rossa è stata al disopra di ogni elogio. Essi non domandavano che di occupare i posti più pericolosi; e mentre i medici salariati dello Stato fuggivano con il loro stato maggiore all'avvicinarsi dei Prussiani, i volontari della Croce Rossa continuavano la loro opera sotto il grandinar delle palle, sopportando le brutalità degli ufficiali bismarchiani e napoleonici, prodigando le stesse cure ai feriti di ogni nazionalità. Olandesi e Italiani, Svedesi e Belgi, persino Giapponesi e Chinesi, s'intendevano a meraviglia. Essi ripartivano i loro ospedali e le loro ambulanze secondo i bisogni del momento; e gareggiavano soprattutto per l'igiene dei loro ospedali. E quanti Francesi non parlano ancora, con profonda gratitudine, delle tenere cure che ricevettero da parte di tali volontari olandesi e tedeschi, nelle ambulanze della Croce Rossa!
     Che importa ciò all'autoritario? Il suo ideale è il maggiore del reggimento, il salariato dello Stato. Al diavolo dunque la Croce Rossa con i suoi ospedali igienici se gli infermieri non debbono essere funzionari!(26)
     Ecco dunque un'organizzazione, nata ieri, la quale possiede ambulanze, ospedali, treni, elabora nuovi sistemi per la cura delle ferite, ed è dovuta all'iniziativa spontanea di alcuni uomini di cuore.
     Ci si obbietterà forse che gli Stati entrano pure per qualche cosa in questa organizzazione. Sì, gli Stati vi hanno messo la mano per impadronirsene. I comitati dirigenti sono presieduti da coloro che dei lacchè chiamano principi del sangue. Imperatori e regine prodigano il loro patronato ai comitati nazionali. Ma non è a questo patrocinio che devesi il successo dell'organizzazione; bensì ai mille comitati locali di ogni nazione, all'attività degli individui, all'abnegazione di tutti coloro che cercano di sollevare le vittime della guerra. E quest'abnegazione sarebbe ancor più grande, se gli Stati non se ne immischiassero punto!
     In ogni caso, non è in seguito agli ordini di un Comitato direttore internazionale che gli Inglesi e Giapponesi, Svedesi e Cinesi si son dati premura d'inviare i loro soccorsi ai feriti del 1871. Non è in seguito agli ordini di un ministero internazionale che gli ospedali sorgevano sul territorio invaso, e le ambulanze si avanzavano fin sul campo di battaglia, bensì per l'iniziativa dei volontari di ogni paese. Una volta sul luogo, essi non si sono accapigliati come pretendevano i giacobini, ma si son messi tutti all'opera senza distinzione di nazionalità.
     Noi possiamo deplorare che così grandi sforzi siano messi al servizio di una così cattiva causa, e domandarci come il fanciullo del poeta: «Perchè li si ferisce, se dopo li si cura?». Cercando di demolire la forza del Capitale e il potere dei borghesi, noi lavoriamo anche a por fine ai massacri, ed ameremo meglio vedere i volontari della Croce Rossa a spiegare la loro attività, per arrivare con noi a sopprimere la guerra.
     Ma noi dobbiamo menzionare quest'immensa organizzazione come una prova di più dei risultati fecondi prodotti dal libero accordo e dalla libera assistenza.
     Se volessimo moltiplicare gli esempi presi dall'arte di sterminare gli uomini, non finiremmo più.
     Che ci basti di citare soltanto le innumerevoli società alle quali l'esercito tedesco deve soprattutto la sua forza la quale non dipende solo dalla sua disciplina, come generalmente si crede. Queste società pullulano in Germania, e il loro obbiettivo è quello di diffondere le cognizioni militari. In uno degli ultimi congressi dell'Alleanza militare tedesca (Kriegerbund) si videro i delegati di 2452 società, comprendenti 151.712 membri e tutte federate tra di loro.
     Società di tiro a segno, società di giuochi militari, di giuochi strategici, di studi topografici, ecco le officine dove si elaborano le cognizioni tecniche dell'esercito tedesco; non nelle scuole di reggimento. E queste società di ogni specie costituiscono una rete formidabile di aggruppamenti militari e civili, di geografi e di ginnasti, di cacciatori e di tecnici, i quali sorgono spontaneamente, si organizzano, si federano, discutono e si recano a fare esplorazioni pratiche in campagna. E sono queste associazioni di volontari e di liberi che formano la vera forza dell'esercito tedesco.
     Il loro scopo è abbominevole: il mantenimento dell'impero. Ma, quello che importa di mettere in rilievo, si è che lo Stato, malgrado la sua grandissima missione - l'organizzazione militare - ha compreso che lo sviluppo di essa sarebbe tanto più sicuro, quanto più fosse lasciato alla intesa dei gruppi, e alla libera iniziativa degli individui.
     Anche in materia di guerra si ricorre oggi al libero accordo; e per confermare la nostra asserzione ci basti menzionare i trecentomila volontari inglesi, l'Associazione nazionale inglese di artiglieria e la Società, in via di organizzazione, per la difesa delle coste dell'Inghilterra, la quale, certamente, se si costituirà, sarà molto più attiva che non il ministero della marina con le sue corazzate che scoppiano e le sue baionette che si piegano come piombo.
     Dappertutto lo Stato abdica e abbandona a privati le sue funzioni sacrosante. Dappertutto la libera organizzazione si ramifica e si estende sul suo dominio. Ma tutti i fatti, che noi abbiamo citato, permettono appena di prevedere ciò che il libero accordo ci riserba nell'avvenire, il giorno in cui lo Stato più non esisterà.
     

OBBIEZIONI

I.

     Esaminiamo ora le principali obbiezioni che si oppongono al comunismo. La maggior parte provengono evidentemente da un semplice malinteso, ma alcune suscitano importanti questioni, e meritano tutta la nostra attenzione.
     Noi non dobbiamo occuparci di combattere le obbiezioni che si muovono al comunismo autoritario: noi stessi le constatiamo. Le nazioni civili hanno troppo sofferto nella lotta che doveva condurre all'emancipazione dell'individuo per poter rinnegare il loro passato e tollerare un governo che verrebbe ad imporsi sin nei menomi particolari della vita del cittadino, quand'anche questo governo non avesse altro scopo che il bene della comunità. Se mai una società comunista autoritaria arrivasse a costituirsi essa non potrebbe durare, e sarebbe presto costretta dal malcontento generale, o a disciogliersi, o a riorganizzarsi sopra principii di libertà.
     Noi ci occuperemo invece di una società comunista-anarchica, di una società che riconosca la libertà piena ed intera dell'individuo, non ammetta alcuna autorità, non impieghi alcun mezzo coercitivo per obbligar l'uomo al lavoro. Limitiamoci in questi studi al lato economico del problema, vediamo se questa società, composta di uomini quali oggi esistono, - nè migliori nè più cattivi, nè più nè meno laboriosi, - avrebbe probabilità di svilupparsi felicemente.
     L'obbiezione è conosciuta. «Se l'esistenza di ciascuno è assicurata, e la necessità di guadagnare un salario non obbliga l'uomo a lavorare, nessuno lavorerà. Ciascuno si sbarazzerà sugli altri dei lavori che non sarà costretto di fare». Rileviamo dapprima la leggerezza incredibile colla quale si mette innanzi questa obbiezione, senza riflettere che la questione, in realtà, si riduce a sapere se, da una parte, si ottiene effettivamente col lavoro salariato i risultati che si pretende di ottenere; e se, da un'altra parte, il lavoro volontario non sia già, oggidì stesso, più produttivo del lavoro stimolato dal salario. Tale questione esigerebbe uno studio profondo. Ma mentre nelle scienze esatte non si usa pronunciarsi sopra soggetti infinitamente meno importanti e meno complicati, che dopo serie ricerche, raccogliendo accuratamente fatti e analizzandone i rapporti, - nel nostro caso gli avversari si contentano di un fatto qualunque, - per esempio l'insuccesso di un'associazione di comunisti in America, - per sentenziare senza appello. Essi fanno come l'avvocato, il quale non vede nell'avvocato della parte avversaria il rappresentante di una causa o di una opinione contraria alla sua, ma un semplice contradditore in una giostra oratoria; e quindi, se è abbastanza felice di trovare una replica, non si preoccupa di ottenere, o no, ragione. Per questo lo studio di questa base fondamentale di tutta l'economia politica, - lo studio delle condizioni più favorevoli per dare alla società la maggior somma di prodotti utili, con la minor perdita di forze umane, - non progredisce affatto. Ci si limita a ripetere dei luoghi comuni, oppure si fa silenzio.
     Ciò che rende questa leggerezza tanto più stupefacente si è che, anche nella stessa economia politica capitalistica, si trovan già alcuni scrittori portati dalla forza delle cose a mettere in dubbio questo assioma dei fondatori della loro scienza, assioma secondo il quale la minaccia della fame sarebbe il miglior stimolo dell'uomo per il lavoro produttivo. Essi cominciano ad avvedersi che nella produzione entra un certo elemento collettivo, troppo trascurato sino ai giorni nostri, il quale potrebbe essere molto più importante della prospettiva di un guadagno personale. La qualità inferiore del lavoro salariato, la perdita spaventosa di forza umana nei lavori dell'agricoltura e della industria moderne, la quantità sempre crescente degli oziosi i quali cercano di sbarazzarsi sempre di ogni lavoro necessario sulle spalle degli altri, la mancanza, sempre più manifesta, di un certo slancio nella produzione, tutto ciò comincia a preoccupare persino gli economisti della scuola «classica». Alcuni di loro domandano se non hanno sbagliato strada, ragionando sopra un essere immaginario, concepito pessimisticamente, che si supponeva guidato esclusivamente dall'allettamento del guadagno o del salario. Questa eresia penetra fin nelle Università: la si arrischia nei libri di ortodossia economista. Ciò che del resto, non impedisce moltissimi riformatori socialisti dal rimaner partigiani della rimunerazione individuale e dal difendere la vecchia cittadella del salariato, anche quando gli stessi suoi difensori di una volta la smantellano pietra per pietra, e la consegnano nelle mani degli assalitori.
     Cosicchè si teme che, senza esservi costretta, la massa non voglia lavorare. Ma non abbiamo noi inteso in vita nostra, esprimere queste apprensioni, in due riprese, dagli schiavisti degli Stati Uniti, prima della liberazione dei negri, e dai proprietari russi prima della liberazione dei servi? - «Senza la frusta, il negro non lavorerà», dicevano gli schiavisti. - «Lontano dalla sorveglianza del padrone, il servo lascierà i campi incolti», dicevano i boiardi russi. Ritornello dei signori francesi del 1789, ritornello del medio evo, ritornello vecchio come il mondo, noi l'ascoltiamo ogni volta che si tratta di riparare un'ingiustizia nella umanità.
     Ed ogni volta la realtà viene a dargli una smentita formale. Il contadino liberato del 1795 lavorava con una energia feroce, sconosciuta ai nostri antenati; il negro liberato lavora più dei suoi padri; e il contadino russo, dopo d'aver onorato la luna di miele della sua emancipazione, festeggiando il santo venerdì, al pari della domenica, ha ripreso il lavoro con tanta maggior vivacità, perchè la sua liberazione è stata più completa, laddove la terra non gli manchi, egli lavora con accanimento, - è la parola esatta.
     Il ritornello schiavista può avere il suo valore per i proprietari di schiavi. Quanto agli schiavi stessi essi san bene quel che vale: ne conoscono i motivi.
     Del resto, chi dunque, se non gli economisti, c'insegnò che, se il salariato si disimpegna nè bene nè male del suo lavoro, non si ottiene un lavoro intenso e produttivo che dall'uomo il quale vede aumentare il suo benessere in ragione de' suoi sforzi? Tutti gli inni intonati in onore della proprietà si riducono precisamente a questo assioma.
     Imperocchè, - cosa notevole, - quando gli economisti, volendo decantare i benefici della proprietà, ci mostrano come un terreno incolto, una palude o un suolo sassoso si coprano di ricche messi quando li inaffia il sudore del contadino-proprietario, essi non provano per nulla la loro tesi in favore della proprietà. Ammettendo che la sola garanzia per non essere spogliati dei frutti del proprio lavoro, sia quella di possedere lo strumento del lavoro - ciò che è vero, - essi provano soltanto, che l'uomo non produce realmente che quando lavora in piena libertà, ha una certa scelta nelle sue occupazioni, non ha sorveglianti per infastidirlo, e, finalmente, vede il suo lavoro giovare a lui, e non già ad un poltrone qualunque. Questo è tutto quello che si può dedurre dalle loro argomentazioni, ed è quello che anche noi affermiamo.
     Quanto alla forma di possesso dello strumento di lavoro ciò non ha che un rapporto indiretto nella loro dimostrazione, per assicurare al coltivatore che nessuno gli toglierà il beneficio dei suoi prodotti, nè dei suoi miglioramenti. Per appoggiare la loro tesi in favore della «proprietà» contro ogni altra forma di «possesso», gli economisti dovrebbero dimostrarci che sotto forma di possesso comunale, la terra non produce mai tanto ricco e abbondante raccolto come quando il possesso è personale. Ora, ciò non si verifica; ed è anzi appunto il contrario che si constata.
     Prendete, infatti, come esempio un comune svizzero del cantone di Vaud, all'epoca in cui tutti gli uomini del villaggio si recano all'inverno a tagliar legna nella foresta che appartiene a tutti. Ebbene, è precisamente durante queste feste del lavoro che si verifica il maggior slancio nel lavoro, il più considerevole impiego di forza umana. Non si potrebbe fare alcun paragone con nessun lavoro salariato, con nessun sforzo di proprietario.
     Oppure, prendete l'esempio d'un villaggio russo, i cui abitanti se ne van tutti a falciare un prato appartenente al comune o da esso affittato. Là voi potrete comprendere ciò che l'uomo «può» produrre, quando lavora in comune per un'opera comune. I compagni gareggiano tra di loro a chi traccierà colla falce un cerchio più vasto; le donne si affrettano a seguirli per non vedersi lasciare indietro dall'erba falciata. È anche questa una festa del lavoro, durante la quale cento persone fanno in poche ore ciò che, compiuto separatamente, non si sarebbe terminato in alcuni giorni. Qual triste contrasto ci fa, al confronto, il lavoro del proletariato isolato!
     Si potrebbero finalmente citare migliaia di esempi, presso i coloni d'America, nei villaggi della Svizzera, della Germania, della Russia, e di certe parti della Francia; i lavori fatti in Russia dalle squadre (artèles) di muratori, di carpentieri, di battellieri, di pescatori, ecc., i quali intraprendono un lavoro per dividersene direttamente i prodotti od anche la rimunerazione, senza passare per le forche caudine dei sotto-intraprenditori. Si potrebbero menzionare anche le caccie comunali delle tribù nomadi, e il numero infinito d'intraprendenze collettive condotte bene a termine. E dapertutto si constaterebbe la superiorità incontrastabile del lavoro comunale, paragonato a quello del salariato o del semplice proprietario.
     Il benessere, cioè la soddisfazione dei bisogni fisici, artistici e morali, e la sicurezza di questa soddisfazione, sono sempre stati lo stimolo più potente al lavoro. E dove il salariato arriva appena a produrre lo stretto necessario, il lavoratore libero, il quale vede crescere il lusso e l'agiatezza per sè e per gli altri in ragione dei suoi sforzi, spiega molto maggiore energia ed intelligenza, ed ottiene prodotti di prim'ordine molto più abbondanti. L'uno si sente inchiodato alla sua miseria; l'altro può sperare nell'avvenire agi e godimenti.
     Tutto il segreto è qui. Per questo una società, la quale mirerà al benessere di tutti e alla possibilità per tutti di goder la vita in tutte le sue manifestazioni, produrrà un lavoro volontario infinitamente superiore o ben più considerevole della produzione ottenuta sino all'epoca attuale, sotto il pungolo della schiavitù, del servaggio e del salariato.


II.

     Chiunque può oggi scaricarsi su altri di un lavoro indispensabile all'esistenza, si affretta di farlo, ed è ammesso che sia sempre così.
     Ora, il lavoro indispensabile all'esistenza, è essenzialmente manuale. Noi abbiamo un bell'essere artisti, scienziati; nessuno di noi può fare a meno dei prodotti ottenuti col lavoro delle braccia: pane, abiti, strade, bastimenti, luce, calore, ecc. Ma vi ha di più ancora: per quanto i nostri godimenti siano altamente artistici o sottilmente metafisici, non ve n'è uno che non si basi sul lavoro manuale. E precisamente di questo lavoro, - fondamentale della vita - ognuno cerca di sbarazzarsi.
     Noi lo comprendiamo perfettamente: oggi deve accadere così.
     Imperocchè, compiere un lavoro manuale oggi significa: rinchiudersi per dieci o dodici ore al giorno in un laboratorio malsano, e rimanervi dieci, trent'anni, tutta la vita, sempre incatenato alla stessa occupazione.
     Significa: condannarsi a una mercede derisoria, essere esposto alle incertezze del domani, alla disoccupazione, molto spesso alla miseria, più spesso ancora alla morte in un ospedale, dopo aver lavorato quarant'anni a nutrire, vestire, divertire od istruire gli altri, piuttosto che se stesso e i propri figli.
     Significa: portar per tutta la vita, agli occhi degli altri, il suggello dell'inferiorità, e avere esso stesso coscienza di questa inferiorità, imperocchè, - per quanto dicano diversamente molti bei signori, - il lavoratore manuale è sempre considerato come l'inferiore del lavoratore del pensiero, e colui che ha faticato per dieci ore all'officina non ha il tempo e ancor meno, il mezzo di procurarsi gli alti godimenti della scienza e dell'arte, nè soprattutto di prepararsi ad apprezzarli; ma deve contentarsi delle briciole che cadono dalla mensa dei privilegiati.
     Noi comprendiamo dunque che in tali condizioni, il lavoro manuale venga considerato come una maledizione del destino.
     Noi comprendiamo, che tutti non abbiano che un sogno, che un'aspirazione: quella di uscire o di far uscire i loro figli da questa condizione inferiore: di crearsi una situazione «indipendente» - cioè, che cosa? - di vivere anche essi, alla lor volta, del lavoro altrui.
     Finchè vi sarà una classe di lavoratori del braccio e un'altra classe di «lavoratori del pensiero» - le mani nere e le mani bianche - accadrà sempre così.
     Quale interesse, infatti, può avere questo lavoro accasciante, da bruti, per l'operaio il quale conosce anticipatamente il suo destino, di essere condannato a vivere, dalla culla alla tomba, nella mediocrità, nella povertà, nell'incertezza del domani? Così, quando si vede l'immensa maggioranza degli uomini riprendere, ad ogni mattino, il loro triste mestiere, si rimane sorpresi del loro attaccamento al lavoro, dell'abitudine presa, la quale permette loro, come una macchina obbediente ciecamente all'impulso datole, di condur questa vita di miseria, senza speranza del domani, senza nemmeno travedere in vaghi bagliori che un giorno essi, o almeno i loro figli, faranno parte di questa umanità, ricca finalmente di tutti i tesori della libera natura, di tutti i godimenti del sapere e della creazione scientifica ed artistica, riservata oggi a pochi privilegiati.
     Noi vogliamo abolire il salariato, precisamente per metter fine a questa separazione tra il lavoro del pensiero e il lavoro manuale. Il lavoro allora non apparirà più come una maledizione del destino, ma diventerà ciò che dev'essere: il libero esercizio di «tutte» le facoltà dell'uomo.
     Sarebbe tempo, d'altronde, di sottomettere ad un'analisi seria questa leggenda della maggior produzione che si pretende di ottenere sotto il pungolo del salario.
     Basta visitare, non già la manifattura e l'officina modello, che si trovano qua e là allo stato di eccezione, ma le officine, quali sono ancora quasi tutte oggigiorno, per concepire l'immenso sciupìo di forza umana che caratterizza l'industria attuale. Per una fabbrica organizzata più o meno razionalmente, ve ne son cento e più le quali rovinano il lavoro dell'uomo, questa forza preziosa, senz'altro motivo più serio che quello di procurare forse due soldi di più a beneficio del padrone.
     Qui, voi scorgete dei giovani dai venti ai venticinque anni, curvi tutta la giornata su di un banco, il petto incavato, scuotere febbrilmente la testa e il corpo per annodare, con una prestezza da prestigiatori, i due capi di cattivi rimasugli di cotone, scarti dei telai da merletti. Quale generazione lascieranno sulla terra questi corpi tremolanti e rachitici? Ma..... «occupano così poco posto nell'officina, e mi rendono ciascuno cinquanta centesimi al giorno» dirà il padrone!
     Colà voi vedete, in un'immensa officina di Londra, ragazze diventate calve a diciassette anni a forza di portar sul capo, da una sala all'altra, dei vassoi di fiammiferi mentre la più semplice macchina potrebbe carreggiare i fiammiferi alle loro tavole! Ma... costa tanto poco il lavoro delle donne, non avendo esse generalmente un mestiere speciale! A quale scopo una macchina? Quando esse non ne potranno più, si surrogheranno facilmente... ve ne son tante nella strada!
     Sulla scalinata di un ricco palazzo, in una notte glaciale, troverete il fanciullo addormentato, coi piedi scalzi, col suo pacco di giornali sotto il braccio... Costa così poco il lavoro infantile, che lo si può bene impiegare, ogni sera a vendere per una lira di giornali, sulla quale al poverino toccheranno appena due o tre soldi. E vedrete finalmente l'uomo robusto passeggiar colle braccia penzoloni; il lavoro gli manca per mesi intieri, mentre la sua figliuola intristisce tra i vapori brucianti della fabbrica d'apparecchio di stoffe, e il suo bambino riempie a mano vasi di lucido da scarpe, o attende per lunghe ore, all'angolo di una strada, che un passeggero gli faccia buscar due soldi.
     E così dappertutto, da San Francisco a Mosca, da Napoli a Stoccolma. Lo sciupìo delle forze umane è la caratteristica predominante, distintiva dell'industria, senza parlare del commercio, ove raggiunge proporzioni anche più colossali.
     Qual triste satira in questo nome di «economia» politica che viene dato alla scienza dello sperpero delle forze sotto il regime del salariato!
     E non è tutto. Se voi parlate col direttore di una officina bene organizzata, egli vi spiegherà ingenuamente che oggi è difficile di trovare un operaio abile, vigoroso, energico, che si dedichi al lavoro con ardore. «Quando se ne presenta uno, egli vi dirà, fra i venti o trenta che ogni lunedì vengono a domandarci lavoro, è sicuro di essere ricevuto, quand'anche noi fossimo sul punto di ridurre il numero delle nostre braccia. Lo si riconosce al primo colpo d'occhio, e lo si accetta sempre, salvo a disfarsi domani di un operaio attempato e meno attivo». E quegli che viene licenziato, coloro che lo saranno domani, vanno ad ingrossare le file di quell'immenso esercito del capitale - gli operai disoccupati - che si chiamano ai telai e ai banchi solo nei momenti di fretta, per vincere la resistenza degli scioperanti. Oppure questo rifiuto delle migliori officine, questo lavoratore medio, va a raggiungere l'esercito non meno formidabile degli operai attempati o mediocri, che circola continuamente per le officine secondarie, quelle che rientrano appena nelle loro spese e tirano innanzi per mezzo di espedienti ed inganni tesi al compratore, e sovratutto al consumatore dei paesi lontani.
     E se voi parlate al lavoratore stesso, apprenderete che la regola dei laboratori è che l'operaio non faccia mai tutto ciò di cui è capace. Guai a colui che, in un'officina inglese, non seguisse questo consiglio, che alla sua entrata riceve dai compagni!
     Imperocchè i lavoratori sanno che se, in un momento di generosità, cedono alle istanze di un padrone ed acconsentono a rendere intensivo il lavoro per ultimare commissioni urgenti, questo lavoro nervoso sarà d'ora innanzi richiesto come regola nella scala dei salari. Così, in nove officine su dieci, preferiscono non produrre mai quanto potrebbero.
     In certe industrie si limita la produzione per mantenere i prezzi elevati, e talvolta si fa circolare la parola d'ordine «Co-canny», che significa: «A cattiva paga, cattivo lavoro».
     Il lavoro salariato è un lavoro da servo: non può e non deve rendere tutto ciò che può rendere. E sarebbe tempo ormai di finirla con questa leggenda che fa del salario il migliore stimolo per il lavoro produttivo. Se l'industria frutta attualmente cento volte più che non al tempo dei nostri nonni, noi lo dobbiamo al risveglio improvviso delle scienze fisiche e chimiche verso la fine del secolo scorso; non all'organizzazione capitalistica, del lavoro salariato, ma «malgrado» quest'organizzazione.


III.

     Coloro i quali hanno seriamente studiato la questione, non negano nessuno dei vantaggi del comunismo - a condizione, bene inteso, ch'esso sia perfettamento libero, cioè anarchico. - Essi riconoscono che il lavoro pagato in denaro, anche mascherato sotto il nome di «buoni di lavoro», in associazioni operaie governate dallo Stato, conserverebbe l'impronta del salariato e ne manterrebbe gl'inconvenienti. Essi constatano che l'intero sistema sociale non tarderebbe a soffrirne, quand'anche la società rientrasse in possesso degli strumenti di produzione. Ed essi ammettono che, grazie all'educazione integrale impartita a tutti i fanciulli, alle abitudini laboriose delle società civilizzate, con la libertà di scegliere e di variare le proprie occupazioni, e l'attrattiva del lavoro compiuto da eguali per il benessere di tutti, una società comunista non mancherebbe di produttori, e presto triplicherebbe e decuplerebbe la fecondità del suolo, e darebbe un nuovo slancio all'industria.
     In questo dunque convengono i nostri contradditori: «ma il pericolo, essi dicono, verrà da questa minoranza di fannulloni che si ostineranno a non voler lavorare, malgrado le eccellenti condizioni che renderanno il lavoro gradevole, o che pure non vi apporteranno regolarità e spirito di ordine. Oggi, la prospettiva della fame costringe i più refrattari ad andar cogli altri. Colui il quale non va al lavoro all'ora stabilita, è licenziato. Ma basta una pecora rognosa per infettare il branco, e tre o quattro operai indolenti o recalcitranti basteranno per sviare tutti gli altri, e introdurre nell'officina lo spirito di disordine e di rivolta che rende impossibile il lavoro; di maniera che, alla fin dei conti, si sarà obbligati a ritornare a un sistema coercitivo che obblighi gli agitatori a rientrar nelle file. Ebbene, il solo sistema che permetta di esercitar questa costrizione, senza urtare i sentimenti dei lavoratori, non è quello della rimunerazione, secondo il lavoro compiuto? Imperocchè ogni altro mezzo implicherebbe l'intervento continuo di un'autorità che ripugnerebbe presto all'uomo libero»!
     Ecco, crediamo noi, l'obbiezione in tutto il suo vigore.
     Essa rientra, lo si vede, nella categoria dei ragionamenti, per mezzo dei quali si cerca di giustificare lo Stato, la legge penale, il giudice e il carceriere.
     «Poichè vi è della gente - una debole minoranza - la quale non si sottomette alle usanze socievoli, dicono gli autoritari, bisogna bene mantenere lo Stato, per quanto costoso esso sia, l'autorità, il tribunale e la prigione, benchè queste istituzioni divengano esse stesse una sorgente di mali nuovi di ogni specie».
     Così noi potremo limitarci a rispondere ciò che abbiamo ripetuto tante volte a proposito dell'autorità in generale: «Per evitare un male possibile, voi siete ricorsi a un mezzo che è, in se stesso, il più gran male, e che diventa la fonte di quegli stessi abusi, ai quali volete rimediare. Imperocchè, non dimenticate che il sistema capitalista attuale, di cui cominciate a riconoscere i vizi, è stato appunto creato dal salariato, il quale significa l'impossibilità di vivere altrimenti che vendendo la propria forza di lavoro».
     Potremmo anche rilevare che questo ragionamento è, dopo tutto, una semplice difesa per giustificare ciò che esiste. Il salariato attuale non è stato istituito per ovviare agl'inconvenienti del comunismo. La sua origine, come quella dello Stato e della proprietà, è tutt'altra. Esso è nato dalla schiavitù e dal servaggio imposti colla forza, di cui non è altra cosa che una modificazione resa moderna. Così quest'argomento non ha maggior valore di quelli, coi quali si tenta di scusare la proprietà e lo Stato.
     Nondimeno noi esamineremo quest'obbiezione, e vedremo ciò ch'essa può contenere di giusto.
     E, in primo luogo, non è egli evidente che, se una società fondata sul principio del lavoro libero fosse realmente minacciata dagl'infingardi, essa potrebbe guardarsene, senza formare alcuna organizzazione autoritaria o ricorrere al salariato?
     Io suppongo un gruppo di un certo numero di volontari, che si uniscono in un'intrapresa qualunque per la riuscita della quale tutti gareggiano di zelo, salvo uno degli associati, il quale manca sovente al suo posto; si dovrà a cagion di lui sciogliere il gruppo, nominare un presidente che imponga delle ammende, oppure, finalmente, distribuire, come all'Accademia, dei gettoni di presenza?
     È chiaro che non si farà nè l'una cosa, nè l'altra; ma un bel giorno si dirà al compagno che minaccia di far pericolare l'impresa: «Caro amico, noi avremmo piacere di lavorare con te; ma siccome tu manchi spesso al tuo posto, o eseguisci con trascuratezza il tuo compito, noi dobbiamo, separarci. Va in cerca di altri compagni, i quali si adattino alla tua indolenza!»
     Questo mezzo è così naturale, che oggi lo si mette in pratica dappertutto, in tutte le industrie, a preferenza di tutti gli altri sistemi possibili di ammende, di riduzioni di salario, di sorveglianza, ecc.; l'operaio può entrare all'officina all'ora stabilita, ma s'egli male eseguisce il suo lavoro, se incomoda i suoi compagni con la indolenza o con altri difetti, s'essi si disgustano, è cosa finita. Egli è costretto ad abbandonare il laboratorio.
     Generalmente si pretende che il padrone che tutto sa, e i suoi sorveglianti mantengano la regolarità e la qualità di lavoro nell'officina. In realtà invece, in uno stabilimento per quanto poco complicato, la cui produzione passa per parecchie mani prima di essere terminata, l'officina stessa e l'insieme dei lavoratori vegliano alle buone condizioni del lavoro. Per questo le migliori officine inglesi dell'industria privata hanno pochi soprintendenti, molto meno, in media degli stabilimenti francesi, e molto meno ancora, senza paragone, delle officine inglesi dello Stato.
     Accade per questa cosa come per il mantenimento di un certo livello morale della società. Si crede che lo si debba alla guardia campestre, al giudice e al poliziotto; mentre in realtà si mantiene «malgrado» il giudice, il poliziotto e la guardia campestre. «Molte leggi causano molti delitti!» fu ben detto prima di noi.
     Non è soltanto negli stabilimenti industriali che le cose succedono in tal modo; ma questo si verifica dappertutto, ogni giorno, con una molteplicità di esempi di cui gli economisti, topi di biblioteca, nemmeno hanno il sospetto.
     Quando una compagnia ferroviaria, federata con altre compagnie, manca ai suoi impegni, quando giunge in ritardo coi suoi treni e lascia le mercanzie in abbandono nelle sue stazioni, le altre compagnie minacciano di rescindere i contratti; e questo basta, per solito.
     Generalmente si crede, o, per lo meno, lo s'insegna, che il commercio non è fedele ai suoi impegni che sotto la minaccia dei tribunali. Non è vero. Nove volte su dieci, il commerciante che avrà mancato alla sua parola, non comparirà dinanzi al giudice. Laddove il traffico è molto attivo, come a Londra, il fatto solo di esser chiamato in giudizio come debitore, basta all'immensa maggioranza dei commercianti, perchè si rifiutino, in seguito, di trattare con colui che li avrà costretti a ricorrere ad un avvocato.
     Perchè dunque allora, ciò che si fa oggi stesso tra compagni di lavoro, tra commercianti e compagnie ferroviarie, non potrebbe farsi in una società basata sul lavoro volontario?
     Un'associazione, per esempio, che stipulasse con ciascuno dei suoi membri il seguente contratto: «Noi siamo disposti a garantirvi il godimento delle nostre case, magazzini, strade, mezzi di trasporto, scuole, musei, ecc. alla condizione che dai venti ai quarantacinque o cinquant'anni, voi consacriate quattro o cinque ore al giorno ad uno dei lavori riconosciuti necessari per vivere. Scegliete voi stesso, quando vi piacerà, i gruppi di cui vorrete far parte, o costituitene uno nuovo, purchè s'incarichi di produrre il necessario. E, per il rimanente del vostro tempo, aggruppatevi con chi vorrete, allo scopo di procurarvi qualsiasi ricreazione, di arte o di scienza, a vostro piacimento.
     «Dalle mille e duecento alle mille e cinquecento ore di lavoro all'anno in uno dei gruppi che producono gli alimenti, i vestiti e l'alloggio, oppure si dedicano all'igiene pubblica, ai trasporti, ecc., è tutto ciò che vi domandiamo per garantirvi tutto ciò che questi gruppi producono o hanno prodotto. Ma se nessuno delle migliaia di gruppi della nostra federazione non vuole accettarvi, - qualunque ne sia il motivo, - se voi siete assolutamente incapace di produrre qualsiasi cosa utile, o se vi ricusate di farlo, ebbene vivete come un isolato o come un ammalato. Se noi siamo abbastanza ricchi da non rifiutarvi il necessario, noi saremo felici di procurarvelo. Voi siete uomo, ed avete il diritto di vivere. Ma, giacchè volete collocarvi in condizioni speciali ed uscir dalle nostre file, è più che probabile che ve ne risentiate nelle vostre relazioni quotidiane con gli altri cittadini. Vi si considererà come uno spettro della società borghese, a meno che degli amici, scoprendo in voi un genio, non vi liberino da ogni obbligazione morale verso la società, compiendo per voi il lavoro necessario alla vita.
     «E se finalmente ciò non vi piace, andate a cercare altrove, attraverso il mondo, altre condizioni. Oppure trovate degli aderenti, e costituite con loro altri guppi che si organizzino su nuovi principi. Noi preferiamo i nostri».
     Ecco ciò che potrebbe farsi in una società comunista, se gl'infingardi vi divenissero così numerosi da doversene guardare.


IV.

     Ma noi dubitiamo molto che vi sia motivo da temere questa eventualità in una società realmente basata sulla libertà intera dell'individuo.
     Infatti, malgrado il premio offerto alla poltroneria dal possesso individuale del capitale, l'uomo veramente pigro è relativamente raro, a meno che non sia un ammalato.
     Si dice spesso, fra lavoratori, che i borghesi son degli oziosi, dei poltroni. Ve ne sono abbastanza, infatti; ma costoro formano l'eccezione. Al contrario in ogni impresa industriale, si è sicuri di trovare uno o più borghesi che lavorano molto. È vero che la maggior parte dei borghesi profittano della loro situazione privilegiata per aggiudicarsi i lavori meno penosi, e lavorano in condizioni igieniche, di nutrimento, aria, ecc. che permettono loro di attendere alla loro occupazione senza troppa fatica. Ora, son queste precisamente le condizioni che noi domandiamo per tutti i lavoratori senza eccezione. Bisogna anche dire che grazie alla loro posizione privilegiata, i ricchi fanno sovente dei lavori assolutamente inutili, ed anche dannosi alla società. Imperatori, ministri, capi d'ufficio, direttori di officine, commercianti, banchieri, ecc., si sottomettono a compiere durante alcune ore del giorno, un lavoro ch'essi trovano più o meno noioso, quali gli obblighi convenzionali dell'alta società: ricevimenti, balli, ecc. E, benchè questo genere di lavoro non sia funesto, essi non lo trovano meno faticoso. Ma i borghesi hanno vinto la nobiltà fondiaria e continuano a dominare la massa del popolo perchè essi impiegano la maggior energia (scientemente o no) nel fare il male, e nel difendere la loro posizione privilegiata. Se fossero infingardi, non esisterebbero più già da lungo tempo e sarebbero scomparsi dalla scena del mondo.
     In una società che richiedesse loro soltanto quattro o cinque ore di lavoro utile, gradevole, igienico, essi compirebbero perfettamente questo lavoro, e non subirebbero certo, senza riformarle, le condizioni orribili nelle quali essi oggi mantengono il lavoro. Se un Pasteur(27) avesse passato soltanto cinque ore nelle fogne parigine, credete pure ch'egli avrebbe trovato presto il mezzo di renderle non meno salubri del suo laboratorio batteriologico.
     Quanto alla poltroneria dell'immensa maggioranza dei lavoratori, non vi sono che economisti e filosofi per poterne parlare.
     Parlatene ad un industriale intelligente, e vi dirà che se i lavoratori si mettessero soltanto in capo di essere poltroni, si dovrebbero chiudere tutte le officine; imperocchè nessun provvedimento di severità, nessun sistema di spionaggio gioverebbe a nulla. Bisognava vedere, qualche inverno fa, il terrore provocato fra gli industriali quando alcuni agitatori si diedero a predicare la teoria del «co-canny», «a cattiva paga, cattivo lavoro; non vi scalmanate a lavorare, e guastate tutto ciò che potete!». «Si demoralizza il lavoratore, si vuole uccidere l'industria!» gridavano coloro stessi che una volta tuonavano contro la immoralità dell'operaio e la cattiva qualità dei suoi prodotti. Ma se il lavoratore fosse quale lo dipingono gli economisti, cioè il pigro che bisogna sempre minacciare di licenziar dallo stabilimento, che significherebbe questa parola «demoralizzazione»?
     Così, quando si parla di possibile poltroneria, bisogna ben comprendere che si tratta di una minoranza, di una infima minoranza nella società. E prima di legiferare contro questa minoranza, non sarebbe più urgente di conoscerne l'origine?
     Chiunque osserva con occhio intelligente, si avvede che il fanciullo ritenuto pigro e infingardo alla scuola, è spesso colui che comprende male ciò che gli s'insegna male. Molto spesso ancora il suo caso proviene da anemia cerebrale, causata da povertà e da una educazione anti-igienica.
     Il tale giovinetto, pigro per il latino e per il greco, lavorerebbe come un negro se lo s'iniziasse alle scienze, sopratutto per il tramite del lavoro manuale. La tale ragazza, giudicata ignorante in fatto di matematiche, diventa la prima matematica della sua classe, se le capita d'incontrarsi per caso in qualcuno che abbia saputo efficacemente spiegarle ciò che ella non comprendeva negli elementi di aritmetica. E il tale operaio, indolente all'officina, zappa il suo giardino alla prim'alba, contemplando il sorgere del sole, e la sera, a notte cadente, quando tutta la natura si prepara a riposarsi.
     Qualcuno ha detto che la polvere è materia che non è a suo posto. La stessa definizione si applica ai nove decimi di coloro che vengono chiamati pigri. Sono invero gente smarrita in una via che non risponde nè al loro temperamento, nè alla loro capacità. Leggendo le biografie dei grandi uomini, si rimane colpiti dal numero dei «pigri» che si riscontra fra loro. Pigri, finchè non avevano trovato la loro vera strada, e oltremodo laboriosi più tardi. Darwin, Stephenson e tanti altri furono di questi pigri.
     Molto spesso il pigro non è che un uomo al quale ripugna di fare per tutta la sua vita la diciottesima parte di un orologio, mentre sente in sè un'esuberanza di energia che vorrebbe spandere altrove. Spesso ancora è un ribelle, il quale non può adattarsi all'idea che, durante tutta la sua vita, debba rimanere inchiodato a quel banco, lavorando per procurare mille soddisfazioni al padrone, mentre ch'egli si sente meno stupido di lui, e non ha altro torto che quello di esser nato in un tugurio, invece di esser venuto al mondo in un castello.
     Finalmente, un numero grande di «pigri» non conoscono il mestiere, col quale sono costretti di guadagnarsi la vita. Contemplando la cosa imperfetta che esce dalle loro mani, sforzandosi vanamente di far meglio, e accorgendosi che mai non vi riusciranno, a cagione delle cattive abitudini di lavoro già contratte, essi prendono in odio il loro mestiere e, non conoscendone altri, il lavoro in generale. Migliaia di operai ed artisti mancati sono in questa situazione.
     Al contrario colui che, fin dalla sua giovinezza, ha appreso a «ben» suonare il piano, a «ben» maneggiare la pialla, il cesello, il pennello, o la lima, in modo da sentire che ciò ch'egli fa è «bello», non abbandonerà mai il pennello, il cesello o la lima. Troverà invece piacere nel suo lavoro che non lo stancherà, finchè non si sarà strapazzato.
     Si sono così raggruppati sotto una sola denominazione, «la pigrizia», un'intiera serie di risultati dovuti a cause diverse, delle quali ognuna potrebbe diventare per la società una fonte di bene, invece che di male. In questo caso, come per la criminalità, come per tutte le questioni concernenti le facoltà umane, si sono raggruppati dei fatti non aventi alcun legame, nulla di comune tra di loro. Si dice pigrizia o delitto, senza nemmeno darsi il fastidio di analizzare le cause. Si affrettano a punirle senza domandarsi se il castigo stesso non contenga un incoraggiamento alla «pigrizia» o al «delitto»(28).
     Ecco perchè una società libera, vedendo aumentar nel suo seno il numero dei poltroni, penserebbe senza dubbio a ricercar le cause della loro pigrizia per tentar di eliminarle, invece di ricorrere a castighi. Quando si tratta, come abbiamo già detto, di un semplice caso di anemia, invece di sopraccaricare di scienza il cervello del fanciullo, dategli prima del sangue; fortificatelo, e, perchè non perda il suo tempo, conducetelo alla campagna o in riva al mare. Là insegnategli, all'aria aperta, e non nei libri, la geometria, misurando con lui le distanze sino alle rocce vicine; insegnategli le scienze naturali cogliendo fiori e pescando in mare; la fisica fabbricando la barca sulla quale egli andrà a diporto su l'acqua. Ma, per carità, non imbottite il suo cervello di frasi e di lingue morte! Non fatene un «pigro»!
     Il tale fanciullo non ha abitudini di ordine e di regolarità. Lasciate che i ragazzi se le imprimano nella mente fra loro stessi. Più tardi, il laboratorio e l'officina, il lavoro in uno spazio ristretto, con molti attrezzi da manovrare, gli suggeriranno il metodo. Non fatene voi stessi degli esseri disordinati, colla vostra scuola, la quale non ha altro ordine che la simmetria dei banchi, ma che - vera immagine del caos dell'insegnamento - non ispirerà mai a nessuno l'amore dell'armonia, dell'ordine, del metodo nel lavoro.
     Non vi avvedete dunque che con i vostri metodi d'insegnamento, elaborati da un ministero per otto milioni di scolari, i quali rappresentano otto milioni di capacità differenti, voi non fate che imporre un sistema buono per le mediocrità, immaginato da una media di mediocrità? La vostra scuola diventa un'università dell'infingardaggine, come la vostra prigione è un'università del delitto! Rendete dunque libera la scuola, abolite i vostri gradi universitari, fate appello ai volontari dell'insegnamento, cominciate da qui, invece di promulgare leggi contro la poltroneria, leggi che non faranno che irrreggimentarla.
     Date all'operaio, il quale non può adattarsi a fabbricare una minuscola particella di un articolo qualunque, che soffoca presso una piccola macchina da forare, ch'egli finisce per odiare, dategli la possibilità di lavorar la terra, di abbattere alberi nella foresta, di sfidare le tempeste in mare, di solcare lo spazio sulla locomotiva. Ma non fatene un poltrone, costringendolo per tutta la sua vita, a sorvegliare una macchinetta da bollare la testa di una vite o a forare la cruna di un ago!
     Sopprimete soltanto le cause che creano i pigri, e persuadetevi che non rimarranno più individui i quali odiino realmente il lavoro, e soprattutto il lavoro volontario, e non vi sarà più bisogno di un arsenale di leggi per provvedere contro di loro.
     
     

IL SALARIATO COLLETTIVISTA

I.

     Nei loro piani di ricostruzione della società, i collettivisti commettono a nostro parere due errori. Pur parlando di abolire il regime capitalista, essi vorrebbero mantenere, nondimeno, due istituzioni le quali costituiscono il fondo di questo regime: il governo rappresentativo e il salariato.
     Per quanto concerne il governo sedicente rappresentativo, noi ne abbiamo spesso parlato. Ci pare assolutamente incomprensibile che uomini intelligenti - e il partito collettivista non ne fa difetto - possano rimaner partigiani dei parlamenti nazionali o municipali, dopo tutte le lezioni che la storia ci ha fornito a questo riguardo, in Francia come in Inghilterra, in Germania, in Svizzera come negli Stati Uniti.
     Mentre da ogni parte noi assistiamo allo sfacelo del parlamento, e da ogni lato sorge la critica ai «principii stessi» del sistema, - non più soltanto delle sue applicazioni, - come può mai accadere che dei socialisti rivoluzionari difendano questo sistema condannato a morire?
     Elaborato dalla borghesia per far fronte alla monarchia, ed insieme per accrescere il suo dominio sui lavoratori, il sistema parlamentare, è, per eccellenza, la forma del regime borghese. I fautori di questo sistema non hanno mai sostenuto seriamente che un parlamento o un consiglio nazionale rappresenti la nazione o la città; i più intelligenti fra essi sanno che ciò è impossibile.
     Per mezzo del regime parlamentare la borghesia ha cercato semplicemente di opporre una diga alla monarchia, senza concedere la libertà al popolo. Ma a mano a mano che il popolo diventa più cosciente dei suoi interessi e che la varietà di questi interessi si moltiplica, il sistema non può funzionare. Così inutilmente i democratici di ogni paese ricorrono ai palliativi per curare il male. Si prova il «referendum» e si constata che non vale nulla; si parla di rappresentanza proporzionale, di rappresentanza delle minoranze, - altre utopie parlamentari. Si sciupano sforzi, in una parola, alla ricerca dell'introvabile, ma si è costretti di riconoscere che si percorre falsa strada, e la fiducia in un governo rappresentativo se ne va sparendo.
     Lo stesso accade per il salariato: imperocchè, dopo aver proclamato l'abolizione della proprietà privata e il possesso in comune degli strumenti di lavoro, come si può reclamare, sotto una forma o sotto un'altra, il mantenimento del salariato? Eppur questo fanno i collettivisti, preconizzando i «buoni di lavoro».
     Si capisce come i socialisti inglesi del principio di questo secolo abbiano inventato i «buoni di lavoro». Essi cercavano semplicemente di mettere d'accordo il Capitale e il Lavoro, respingendo ogni idea di colpir violentemente la proprietà capitalistica.
     Si comprende ancora come, più tardi, Proudhon abbia di nuovo ricorso a quest'invenzione. Nel suo sistema mutualista egli cercava di rendere il Capitale meno offensivo, malgrado il mantenimento della proprietà individuale, che egli detestava dal fondo del cuore, ma che credeva necessaria come garanzia in favore dell'individuo contro lo Stato.
     E nessuno si stupisce nemmeno che sianvi economisti più o meno borghesi, i quali ammettono i buoni di lavoro. Poco loro importa che il lavoratore sia pagato in buoni di lavoro o in moneta con l'effige della Repubblica o dell'Impero. Essi tengono a salvare nel prossimo sfacelo la proprietà individuale delle case abitate, del suolo, delle officine, e, in ogni caso, quella delle case abitate e del Capitale necessario alla produzione manifatturiera. E, per conservare questa proprietà, i buoni di lavoro farebbero benissimo il loro interesse.
     Purchè il buono di lavoro possa essere scambiato con gioielli e vetture, il proprietario della casa l'accetterà volentieri come prezzo d'affitto. E finchè la casa abitata, il campo e l'officina apparterranno a proprietari isolati, si dovrà per forza pagarli in una maniera qualunque, per lavorare nei loro campi, o nelle loro officine, e abitare nelle loro case. Si sarà ugualmente costretti a pagare il lavoratore in oro, in carta-moneta o in buoni di lavoro scambiabili contro ogni specie di mercanzia.
     Ma come si può difendere questa nuova forma del salariato - il buono di lavoro - se si ammette che la casa, il campo e l'officina non sono proprietà privata, ma appartengono invece al comune o alla nazione?


II.

     Esaminiamo più da vicino questo sistema di retribuzione del lavoro, vantato dai collettivisti francesi, tedeschi, inglesi e italiani(29).
     Esso si riduce presso a poco a questo: Tutti lavorano nei campi, nelle officine, nelle scuole, negli ospedali, ecc. La giornata di lavoro è regolata dallo Stato, al quale appartengono la terra, le officine, le vie di comunicazione, ecc. Ogni giornata di lavoro è scambiata contro un «buono di lavoro» che porti scritto, facciamo conto: «otto ore di lavoro». Con questo «buono» l'operaio può procurarsi, nei magazzini dello Stato e delle diverse corporazioni, ogni specie di merce. Il buono è divisibile in maniera che si può acquistare per un'ora di lavoro di carne per dieci minuti di fiammiferi, oppure per una mezz'ora di tabacco. Invece di dire quattro soldi di sapone, si direbbe dopo la Rivoluzione collettivista: cinque minuti di sapone.
     La maggior parte dei collettivisti, fedeli alla situazione stabilita dagli economisti borghesi (e da Marx) il lavoro «distinto», o professionale, dovrà essere pagato un certo numero di volte più del lavoro «semplice». Così un'ora di lavoro del medico dovrà essere considerata come equivalente a due o tre ore di lavoro dell'infermiera, oppure a tre ore dello sterratore. «Il lavoro professionale o distinto, sarà un multiplo del lavoro semplice» ci dice il collettivista Groenlund, perchè questo genere di lavoro richiede un tirocinio più o meno lungo.
     Altri collettivisti, come i marxisti francesi, non fanno distinzione e proclamano «l'uguaglianza dei salari». Il dottore, il maestro di scuola, e il professore pagati (in buoni di lavoro) allo stesso saggio dello scavafosse. Otto ore impiegate a fare il giro dell'ospedale varranno quanto otto ore in lavori di sterramento, oppure nella miniera o nella fabbrica.
     Alcuni fanno anzi una concessione di più: ammettono cioè che il lavoro sgradevole o malsano - come quello delle fogne - possa venir ricompensato a un saggio più elevato del lavoro gradevole.
     Un'ora di servizio nelle fogne conterà, essi dicono, come due ore di lavoro del professore.
     Aggiungiamo che certi collettivisti ammettono la retribuzione in blocco, per corporazioni. Cosicchè una corporazione direbbe: «Ecco cento tonnellate di acciaio. Per produrlo noi eravamo cento lavoratori, e vi abbiamo impiegato dieci giorni. La nostra giornata essendo stata di otto ore, ciò fa otto mila ore di lavoro per cento tonnellate di acciaio; cioè, ottanta ore per tonnellata». In seguito a che lo Stato pagherebbe loro ottomila buoni di lavoro di un'ora ciascuno, e questi ottomila buoni verrebbero ripartiti fra i membri dell'officina come meglio piacerebbe.
     Altrove, cento minatori avendo impiegato venti giorni per estrarre ottomila tonnellate di carbone, il carbone varrebbe due ore per tonnellata, e i sedicimila buoni di un'ora ciascuno, ricevuti dalla corporazione dei minatori, sarebbero divisi fra loro secondo il loro criterio.
     Se i minatori protestassero e dicessero che la tonnellata d'acciaio non deve essere apprezzata per più di sei ore di lavoro, invece di otto; se il professore volesse far pagare la sua giornata due volte più della infermiera, - allora lo Stato interverrebbe e regolerebbe le loro contestazioni.
     Tale è, in poche parole, l'organizzazione che i collettivisti vogliono far sorgere dalla Rivoluzione sociale. Come lo si vede, i loro principii sono: proprietà collettiva degli strumenti di lavoro, e rimunerazione di ciascuno secondo il tempo impiegato a produrre, tenendo conto della produttività del suo lavoro. Quanto al regime politico, sarebbe il parlamento, modificato dal mandato imperativo e dal «referendum» cioè, dal plebiscito per «sì» o per «no».
     Diciamo prima d'ogni altra cosa, che questo sistema ci sembra assolutamente irrealizzabile.
     I collettivisti proclamano un principio rivoluzionario - l'abolizione della proprietà privata - e, non appena proclamatolo, lo negano, mantenendo un'organizzazione della produzione e del consumo che è nata dalla proprietà privata.
     Essi proclamano un principio rivoluzionario ed ignorano le conseguenze a cui questo principio deve inevitabilmente condurre. Dimenticano che il fatto stesso di abolir la proprietà privata individuale degli strumenti di lavoro (suolo, officine, vie di comunicazione, capitali) deve sospingere la società per vie assolutamente nuove; che questo fatto deve sconvolgere da cima a fondo, la produzione, sia nel suo fine che nei suoi mezzi; che tutte le relazioni quotidiane fra individui debbono essere modificate, dacchè la terra, la macchina e il resto sono considerati come possesso comune.
     «Non più proprietà privata», essi dicono, e subito invece si affrettano a mantener la proprietà privata nelle sue manifestazioni quotidiane. «Voi sarete un Comune, quanto alla produzione; i campi, gli utensili, le macchine, tutto ciò che fino ad oggi è stato fatto, manifatture, strade ferrate, porti, miniere, ecc., tutto ciò vi appartiene. Non vi sarà la menoma distinzione per quanto concerne la parte di ciascuno in questa proprietà collettiva.
     «Ma sin dal domani, voi vi contenderete minuziosamente la parte che prenderete nella creazione di nuove macchine, per scavar nuove miniere. Voi conterete i vostri minuti di lavoro e veglierete affinchè un minuto del vostro vicino non possa acquistare maggiori prodotti del vostro.
     «E giacchè l'ora non misura nulla, giacchè in tale manifattura un lavoratore può accudire a sei telai in una volta, mentre che nel tal altro stabilimento non accudisce che a due, voi calcolerete la forza muscolare, l'energia cerebrale e l'energia nervosa che avrete consumato. Voi calcolerete rigorosamente gli anni di tirocinio, per valutare la parte di ciascuno nella produzione futura. Tutto questo dopo aver dichiarato che voi non tenete alcun conto della parte che egli può aver presa nella produzione passata».
     Ebbene, per noi è evidente che una società non può organizzarsi su due principii assolutamente opposti, due principii, i quali sono in continua contraddizione fra loro. E la nazione o il comune il quale stabilisce per sè una tale organizzazione, sarebbe costretto, o a ritornare alla proprietà privata o a trasformarsi immediatamente in società comunista.
 
 
 III.
 
     Abbiam detto che alcuni scrittori collettivisti richiedono che si stabilisca una differenza tra il lavoro «distinto» o professionale, ed il lavoro «semplice». Essi pretendono che l'ora di lavoro dell'ingegnere, dell'architetto o del dottore, debba essere considerata come equivalente a due o tre ore di lavoro del fabbro, del muratore o dell'infermiera. E la stessa distinzione, dicono, deve esser fatta fra ogni specie di mestiere che esige un tirocinio più o meno lungo, e i mestieri dei semplici giornalieri.
     Ebbene, stabilire questa distinzione, equivale a mantenere tutte le ineguaglianze della società attuale. Significa tracciare una linea divisoria fra i lavoratori e coloro che pretendono di governarli. Significa dividere la società in due classi ben distinte; l'aristocrazia del sapere, al disopra delle mani callose; l'una, consacrata al servigio dell'altra; l'una che lavora colle sue braccia per nutrire e vestire coloro, che dei loro agi approfittano per imparare e dominare coloro che li mantengono.
     Ma, quel che più importa, si è il ricorrere di nuovo ad una delle note caratteristiche della società attuale, e darle la sanzione della Rivoluzione Sociale. È la stessa cosa che voler erigere in principio un abuso che si condanna oggi, nella vecchia società che si sgretola.
     Sappiamo ciò che ci si risponderà. Ci si parlerà di «socialismo scientifico». Si citeranno gli economisti borghesi - ed anche Marx - per dimostrarci che la scala dei salari ha la sua ragione di essere, poichè «la forza di lavoro» dell'ingegnere sarà più costata alla società che «la forza di lavoro» dello sterratore. Non hanno infatti gli economisti cercato di provarci che, se l'ingegnere è pagato venti volte di più dello sterratore, si è perchè le spese «necessarie» per formare un ingegnere sono più considerevoli di quelle che sono necessarie per fare uno sterratore? E Marx non ha egli preteso che la stessa distinzione è ugualmente logica nei rami del lavoro manuale? E questa conclusione è per lui logica, giacchè egli aveva ripresa per suo conto la teoria di Ricardo sul valore, e sostenuto che i prodotti si scambiano in proporzione della quantità di lavoro socialmente necessario alla loro produzione.
     Ma noi sappiamo anche che cosa pensare di questo argomento. Noi sappiamo che se l'ingegnere, lo scienziato e il dottore sono pagati oggi dieci o cento volte di più del lavoratore, e se il tessitore guadagna tre volte di più dell'agricoltore e dieci volte più dell'operaia di una fabbrica di fiammiferi, non è già in ragione delle loro «spese di produzione», bensì in ragione di un monopolio di educazione o del monopolio dell'industria. L'ingegnere, lo scienziato, il dottore non fanno altro che sfruttare un capitale - il loro diploma - come il borghese sfrutta l'officina, o come il nobile sfruttava i suoi titoli di nascita.
     Quanto al padrone che paga l'ingegnere venti volte più del lavoratore, ciò avviene in ragione di questo calcolo molto semplice: se l'ingegnere può economizzargli centomila lire all'anno sulla produzione, egli gliene paga ventimila. E s'egli scorge un soprintendente - abile nello sfruttare gli operai, - il quale gli economizza diecimila lire sulla mano d'opera, si affretta a rilasciargliene due o tre mila all'anno. Abbandona un migliaio di lire in più dove conta di guadagnarne dieci: ed in ciò risiede l'essenza del regime capitalista. Così accade delle differenze fra i vari mestieri manuali.
     Che non ci si venga dunque a parlare di «spese di produzione» che costa la forza di lavoro, e a dirci che uno studente, il quale ha passato allegramente la sua gioventù all'università, abbia «diritto» a un salario dieci volte più elevato del figlio del minatore che avvizzisce nella miniera dall'età di undici anni, o che un tessitore ha «diritto» a un salario tre o quattro volle più elevato di quello dell'agricoltore.
     Le spese necessarie per produrre un tessitore non sono quattro volte più considerevoli delle spese necessarie per produrre un contadino. Il tessitore cava profitto semplicemente dai vantaggi nei quali l'industria è collocata in Europa, relativamente ai paesi che non hanno ancora industria.
     Nessuno ha mai calcolato queste «spese di produzione». E se un poltrone costa alla società molto più di un lavoratore, rimane ancora da sapere se tutto calcolato, - mortalità dei fanciulli operai, anemia che li consuma e morti premature - un robusto giornaliero non costa più alla società che non un artigiano.
     Ci si vorrà far credere, per esempio, che il salario di trenta soldi pagato all'operaia parigina, i sei soldi della contadina di Alvergna, che perde la vista sui merletti, o i quaranta soldi al giorno del contadino, rappresentino le loro «spese di produzione»? Noi sappiamo bene che si lavora spesso per meno di ciò, ma sappiamo anche che lo si fa esclusivamente perchè, grazie alla nostra superba organizzazione, bisogna morir di fame se si rinuncia a questi salari derisori.
     Per noi la scala dei salari è un prodotto complesso delle imposte, della tutela governativa, dell'accaparramento capitalista, del monopolio, - in una parola, dello Stato e del Capitale. Cosicchè noi diciamo che tutte le teorie sulla scala dei salari sono state inventate soltanto per giustificare le ingiustizie attualmente esistenti, e noi non dobbiamo tenerne conto.
     Non si mancherà nemmeno di dirci che la scala collettivistica dei salari sarebbe nondimeno un progresso. «Varrà meglio, ci si dirà, che un operaio riscuota una somma due o tre volte superiore a quella riscossa ordinariamente dai più, o che dei ministri intaschino in un giorno ciò che un operaio non arriva a guadagnare in un anno? Sarebbe sempre un passo verso l'eguaglianza».
     Per noi questo passo sarebbe un progresso a rovescio. L'introdurre in una società nuova la distinzione tra lavoro semplice e lavoro professionale condurrebbe, l'abbiamo detto, a far sanzionare dalla Rivoluzione ed erigere a principio un fatto brutale che oggi noi subiamo, ma che tuttavia ci sembra ingiusto. Sarebbe lo stesso che imitare quei signori del 4 agosto 1789, i quali proclamavano l'abolizione dei diritti feudali con frasi ad effetto, ma l'8 agosto sanzionavano questi diritti, imponendo ai contadini nuovi canoni per riscattarli dalle mani dei signori, ch'essi collocavano sotto la protezione della Rivoluzione. - Sarebbe lo stesso che imitare il governo russo, il quale, durante l'emancipazione dei servi, proclamava che la terra avrebbe appartenuto d'ora innanzi ai signori, mentre che prima era un abuso il disporre delle terre appartenenti ai servi.
     Oppure, per citare un esempio più conosciuto: quando la Comune del 1871 decise di pagare i membri del Consiglio della Comune con quindici lire al giorno, mentre che ai federati, che erano a battersi alle trincee, non spettavano che trenta soldi, questa decisione fu acclamata come un atto di alta democrazia, ispirato al principio di uguaglianza! Ma in realtà la Comune non faceva che sanzionare la vecchia ineguaglianza tra il funzionario, e il soldato, il governo e il governato. Simile decisione sarebbe potuta sembrare ammirevole da parte di una Camera opportunista: ma la Comune mancava in tal guisa al suo principio rivoluzionario, e per questo fatto stesso lo condannava.
     Quando, nella società odierna, noi vediamo un ministro stipendiarsi a cento mila lire per anno, mentre che il lavoratore deve contentarsene di mille o anche di meno, quando vediamo il soprintendente esser pagato due o tre volte più dell'operaio, e tra operai stessi sussistere ogni specie di graduazione, dalle dieci lire al giorno sino ai sei soldi della contadina, noi disapproviamo lo stipendio elevato del ministro, ma puranco la differenza fra le dieci lire dell'operaio e i sei soldi della povera donna. E diciamo: «Abbasso i privilegi dell'educazione, e quelli della nascita»! Noi siamo anarchici appunto perchè questi privilegi ci esasperano.
     Essi ci esasperano già in questa società autoritaria. Come potremmo dunque tollerarli in una società che s'iniziasse proclamando l'Eguaglianza?
     Ecco perchè certi collettivisti, comprendendo l'impossibilità di mantener la scala dei salari in una società inspirata dal soffio della Rivoluzione, si affrettano a proclamare l'eguaglianza dei salari. Ma essi si urtano contro nuove difficoltà e la loro eguaglianza dei salari diventa un'utopia non meno irrealizzabile della scala degli altri collettivisti.
     Una società che si sia impadronita di tutta la ricchezza sociale e che proclamati come «tutti» abbiano diritto a questa ricchezza, - non importa qual parte essi abbiano avuta antecedentemente nel crearla, - sarà costretta ad abbandonare ogni idea di salariato, tanto in moneta che in buoni di lavoro, sotto qualunque forma lo presenti.


IV.

     «A ciascuno secondo la sua opera» dicono i collettivisti, o, in altri termini, secondo la sua parte di servigi resi alla società. E si raccomanda questo principio, come quello che dovrà essere messo in pratica non appena la Rivoluzione avrà messo in comune gli strumenti di lavoro e tutto ciò che necessita alla produzione!
     Ebbene, se la Rivoluzione Sociale avesse la disgrazia di proclamar questo principio, significherebbe arrestar lo sviluppo dell'umanità; significherebbe abbandonare, senza risolverlo, l'immenso problema sociale che i secoli passati ci hanno proposto.
     Infatti, in una società quale la nostra, in cui noi vediamo che più l'uomo lavora e meno è retribuito, questo principio può sembrare, di primo acchito, come un'aspirazione verso la giustizia. Ma, in sostanza, esso non è che la consacrazione delle ingiustizie del passato. Con simile principio il salariato fece le prime prove, per giungere alle ineguaglianze stridenti, a tutti gli orrori della società attuale, perchè, dal giorno in cui si cominciarono a valutare, in moneta o in qualunque altra specie di salario, i servigi resi - dal giorno in cui si disse che ciascuno non avrebbe altro che ciò che riuscirebbe a farsi pagare per l'opera propria, tutta la storia della società capitalistica (coadiuvata dallo Stato) era scritta anticipatamente. Essa era rinchiusa in germe in questo principio.
     Dobbiam dunque ritornare al punto di partenza e rifar nuovamente la stessa evoluzione? I nostri teorici lo vorrebbero; ma ciò è fortunatamente impossibile: la Rivoluzione, l'abbiam detto, sarà comunista; altrimenti annegata nel sangue, bisognerà ch'essa ricominci da capo.
     I servigi resi alla società - siano essi lavoro compiuto in un'officina o nei campi, oppure servigi morali, «non possono» essere valutati in unità monetarie. Non vi può essere una misura esatta del valore, di ciò che impropriamente fu chiamato valore di cambio, nè del valore di utilità, in rapporto colla produzione. Se noi vediamo due individui lavorare entrambi, durante parecchi anni, cinque ore, per la comunità, a differenti lavori, che loro piacciono egualmente, possiamo dire che, al tirar della somma, i loro lavori son presso a poco equivalenti. Ma non si può frazionare il loro lavoro, e dire che il prodotto di ogni giornata, di ogni minuto dell'uno valga quanto il prodotto di ogni minuto e di ogni ora dell'altro.
     Si può affermare all'incirca che l'uomo il quale durante tutta la sua vita, si è privato di riposo per dieci ore al giorno, ha dato alla società molto più di colui che solo per cinque ore, o per nulla, abbia lavorato. Ma non si può prendere ciò ch'egli compie in due ore e dire che quel prodotto vale due volte più del prodotto di una ora di lavoro di un altro individuo, e ricompensarlo proporzionatamente. Sarebbe disconoscere tutto ciò che di complesso vi è nell'industria, nell'agricoltura, nella vita intera della società attuale. Sarebbe ignorare sino a qual punto ogni lavoro dell'individuo è il risultato dei lavori anteriori e presenti della società intera. Sarebbe il volersi credere nell'età della pietra, mentre viviamo invece all'età dell'acciaio.
     Entrate in una miniera di carbone e guardate quell'uomo, collocato vicino all'immensa macchina che fa discendere la gabbia. Egli tiene in mano la leva che arresta e capovolge l'andamento della macchina; egli abbassa, e la gabbia retrocede in un sbatter d'occhio; la slancia in alto e in basso con una velocità vertiginosa. Con grandissima attenzione, ei segue cogli occhi fissi sul muro un indicatore che gli mostra, in piccola scala, a qual punto del pozzo trovasi la gabbia ad ogni istante del suo cammino; e non appena l'indicatore ha raggiunto un certo livello, l'uomo frena subitamente lo slancio della gabbia, non un metro più su o più giù della linea richiesta, e non appena sono stati scaricati i secchi ripieni di carbone e respinti quelli vuoti, egli rovescia la leva e slancia di nuovo la gabbia nello spazio.
     Durante otto, dieci ore di seguito, quell'uomo compie un tale sforzo prodigioso di attenzione. Che il suo cervello si stanchi un momento solo, e la gabbia anderà ad urtarsi, a spezzar le ruote, rompere il cavo, schiacciar gli uomini, arrestare il lavoro della miniera. Ch'egli perda tre minuti secondi ad ogni colpo di leva, e, - nelle miniere perfezionate moderne, - l'estrazione del minerale vien diminuita da venti a cinquanta tonnellate al giorno.
     È dunque egli che rende il maggior servizio nella miniera? O, forse, è quel giovane che gli suona da basso il segnale di far risalire la gabbia? Oppure il minatore che, ad ogni istante, rischia la vita in fondo al pozzo e che un giorno sarà ucciso dal gas esplodente? O anche l'ingegnere che perderebbe lo strato di carbone, e farebbe scavare inutilmente nella pietra, per un semplice errore di addizione nei suoi calcoli? O, finalmente, il proprietario che ha impegnato tutto il suo patrimonio e che ha detto, forse contrariamente a tutte le previsioni: «Scavate qui e troverete un eccellente carbone»?
     Tutti i lavoratori addetti alla miniera contribuiscono, nella misura delle loro forze, della loro energia, del loro sapere, e della loro abilità, ad estrarre il carbone. E noi possiam dire che tutti hanno il diritto di «vivere», di soddisfare ai loro bisogni, ed anche alle loro fantasie, dopo che il necessario per tutti sia assicurato. Ma in qual modo potrem noi valutare la loro «opera»?
     E poi, il carbone ch'essi hanno estratto è proprio «loro» opera? O non piuttosto è anche l'opera di quegli uomini che hanno costruita la via ferrata che conduce alla miniera e le strade che diramansi da tutte le sue stazioni? O non è anche l'opera di coloro che hanno lavorato e seminato i campi, estratto il ferro, tagliata la legna nella foresta, fabbricate le macchine che bruceranno il carbone, e così di seguito?
     Nessuna distinzione può essere fatta fra le opere di alcuno. Il volerle misurare dai loro risultati ci condurrebbe all'assurdo. Così pure il volerle frazionare ed apprezzare secondo le ore di lavoro. Non rimane che una cosa: collocare i «bisogni» al disopra delle «opere», e riconoscere dapprima il diritto alla vita - poi all'agiatezza - per tutti coloro che prenderanno una certa parte nella produzione.
     Ma prendete ogni altro ramo dell'attività umana, prendete l'insieme delle manifestazioni dell'esistenza; chi di noi può reclamare un compenso maggiore per l'opera sua? Forse il medico che ha indovinato la malattia, o l'infermiera che ha assicurata la guarigione colle sue cure igieniche?
     Forse l'inventore della prima macchina a vapore o il ragazzo che stanco un giorno di tirar la corda che serviva un tempo ad aprire la valvola per far entrare il vapore sotto lo stantuffo, attaccò questa corda al perno della macchina e andò a giuocare coi suoi compagni, senza dubitare ch'egli aveva inventato così il meccanismo essenziale di ogni macchina moderna - la valvola automatica?
     Forse l'inventore della locomotiva, o quell'operaio di Newcastle, che suggerì di sostituire con traverse di legno le pietre che si collocavan prima sotto i binari e facevano uscir dalle rotaie i treni, per mancanza di elasticità? È forse il macchinista sulla locomotiva? o l'uomo che, coi suoi segnali, ferma i treni? o l'addetto agli scambi che loro schiude o preclude la via?
     A chi dobbiamo noi il cavo transatlantico? Forse all'ingegnere che si ostina a sostenere che il cavo trasmetterebbe i dispacci, mentre i dotti elettricisti dichiaravan la cosa impossibile? A Maury che consigliò di abbandonare i cavi enormi e di sostituirli con altri non più grossi di una canna? Oppure a quei volontari venuti non si sa da dove, i quali passavano notte e giorno sul ponte ad esaminare minuziosamente ogni metro di canapo per togliere i chiodi che gli azionisti delle compagnie marittime facevano conficcare stupidamente nello strato isolatore del cavo per renderlo inservibile?
     E, in campo ancor più vasto, il vero campo della vita umana, colle sue gioie, i suoi dolori e i suoi accidenti, - ognuno di noi non può forse nominare qualcuno che gli abbia reso in sua vita un servizio così importante, che si ingrandirebbe se si parlasse di apprezzarlo in moneta? Questo servigio poteva essere una parola, null'altro che una parola pronunziata a tempo opportuno; oppure furono mesi ed anni di abnegazione. Calcolerete voi questi servigi «incalcolabili» in buoni di lavoro?
     «L'opera di ciascuno!» - Ma le società umane non vivrebbero due generazioni di seguito; esse sparirebbero in cinquant'anni, se ognuno non desse infinitamente più di ciò che sarà retribuito in moneta, in «buoni», o in ricompense civiche. Sarebbe l'estinzione della razza, se la madre non logorasse la sua vita per conservar quella dei suoi figli, se ogni uomo non desse qualcosa, senza contar su di nulla, se l'uomo sovrattutto non desse, quando specialmente non attende nessuna ricompensa.
     E se la società borghese deperisce; se noi ci troviamo oggi in una via senza uscita dalla quale non potremo sortire senza colpir di fiaccola e di scure le istituzioni del passato, ciò avviene precisamente per la colpa di aver troppo calcolato. È una colpa quella di esserci lasciati trascinare a non «dare» che per «ricevere», quella di aver voluto fare della società una compagnia commerciale basata sul «dare» e l'«avere».
     I collettivisti non l'ignorano, del resto. Essi intuiscono vagamente che una società non potrebbe esistere, se spingesse all'estremo il principio: «A ciascuno secondo la sua opera»! Essi dubitano che i «bisogni» - non parliamo delle fantasie - i bisogni dell'individuo non corrispondano sempre all'opera sua. Così De Paepe scrive: «Questo principio - eminentemente individualista - sarebbe, del resto, «temperato» dall'intervento sociale per l'educazione dei fanciulli e dei giovani (compresovi il mantenimento ed il vitto), e dall'organizzazione sociale dell'assistenza dei malati e delle pensioni per i lavoratori attempati, ecc.».

     Essi dubitano che l'uomo di quarant'anni, padre di tre figli, ha altri bisogni che non il giovane di venti. Dubitano che la donna, la quale allatta il suo piccino e passa intere notti vegliando al suo capezzale, non può fare altrettanta «opera» che l'uomo il quale abbia tranquillamente dormito. Sembrano comprendere che l'uomo e la donna logoratisi a forza di aver forse troppo lavorato per la società, possono trovarsi incapaci di fornire altrettanta «opera» che coloro i quali avran passato le loro ore godendosi la vita e intascando i loro «buoni» in situazioni privilegiate di statistici dello Stato.
     E si affrettano a «mitigare» il loro principio. «Ma certamente, essi dicono, la società nutrirà ed alleverà i suoi figli! Ma sì, essa assisterà i vecchi e gl'infermi! Ma senza dubbio, i «bisogni» saran la misura delle spese che la società s'imporrà per temperare il principio dell'opera richiesta a ciascuno».
     Ma che cosa? La carità, dunque! - La carità, sempre la carità cristiana, organizzata questa volta dallo Stato.
     Migliorare l'ospizio dei trovatelli, organizzare l'assicurazione contro la vecchiaia e le malattie, - e il principio sarà mitigato! - «Ferire per guarire poi». Non escono mai da questa teoria.
     Così dunque, dopo aver negato il comunismo, dopo aver riso allegramente della formula «a ciascuno secondo i propri bisogni», i grandi economisti debbono accorgersi di aver dimenticato qualche cosa - i bisogni dei produttori. E si affrettano a riconoscerli. Soltanto, è lo stato che deve apprezzarli; appartiene allo stato il verificare se i bisogni non siano sproporzionati alle opere.
     Lo stato farà l'elemosina. Da ciò alla legge dei poveri e alla casa di lavoro (workhouse) inglese, non corre che un passo.
     Non corre che un sol passo, perchè anche questa società matrigna, contro la quale ci ribelliamo, si è pur vista costretta a «mitigare» il suo principio d'individualismo; anch'essa ha dovuto far concessioni in senso comunista e sotto la medesima forma di carità.
     Anch'essa distribuisce pranzi ad un soldo per prevenire il saccheggio delle sue botteghe. Anch'essa edifica ospedali - spesso pessimi, ma talvolta splendidi - per prevenire le stragi delle malattie contagiose. Anch'essa, dopo di non aver pagato che le ore di lavoro, raccoglie i figli di coloro che ha ridotto all'ultima miseria. Anch'essa tien conto dei bisogni - per mezzo della carità.
     La miseria, dicemmo altrove, fu la prima ragione delle ricchezze. Essa creò il primo capitalista. Imperocchè, prima di accumulare il «plus-valore» di cui piace tanto parlare, bisognava pure che vi fossero dei miserabili, i quali acconsentissero a vendere la loro forza di lavoro per non morir di fame. La miseria ha creato i ricchi. E se i progressi ne furono rapidi nel corso del medio evo, egli è perchè le invasioni e le guerre che seguirono la formazione degli Stati, e l'arricchimento in Oriente dovuto allo sfruttamento, spezzarono i legami che univano una volta le comunità agrarie ed urbane e le condussero a proclamare, in vece e luogo della solidarietà da esse altre volte praticata, questo principio del salariato, così caro agli sfruttatori.
     E sarebbe questo principio che dovrebbe sortir dalla Rivoluzione, e che si osa chiamare col nome di «Rivoluzione Sociale», questo nome così caro agli affamati, ai sofferenti, agli oppressi?
     No, questo non accadrà. Perchè il giorno in cui le vecchie istituzioni crolleranno sotto la scure dei proletari, si sentiranno delle voci gridare: «Pane, casa e agiatezza per tutti»
     E queste voci saranno ascoltate, e il popolo si dirà: «Cominciamo col soddisfare la sete di vivere, di godere, di esser liberi che noi non abbiamo mai potuto calmare. E quando avran tutti gustato di questa felicità, ci metteremo all'opera: demolizione delle ultime vestigia del regime borghese, della sua morale attinta nei libri di contabilità, della sua filosofia del «dare» e dell'«avere» delle sue istituzioni del mio e del tuo. «Demolendo edificheremo», come diceva Proudhon; edificheremo in nome del Comunismo e dell'Anarchia.
     

CONSUMO E PRODUZIONE

I.

     Nel considerar la società e la sua organizzazione politica da un punto di vista completamente diverso dalle scuole autoritarie, giacchè noi partiamo dall'individuo libero per arrivare a una società libera, invece di cominciar dallo Stato per discendere sino all'individuo, seguiamo lo stesso metodo trattando le questioni economiche. Noi studiamo i bisogni dell'individuo e i mezzi ai quali egli ricorre per soddisfarli, prima di discutere della produzione, dello scambio, delle imposte, del governo, ecc.
     A prima vista, la differenza può sembrare minima. Ma in realtà essa sconvolge tutti i dettami dell'economia politica ufficiale.
     Aprite non importa quale opera di un economista.
     Egli esordisce colla PRODUZIONE, l'analisi dei mezzi impiegati oggi per creare la ricchezza, la divisione del lavoro, la manifattura, l'opera della macchina, l'accumulamento del capitale. Da Adam Smith insino a Marx, hanno tutti proceduto in tal maniera. Soltanto nella seconda o terza parte della sua opera, l'economista tratterà del CONSUMO, cioè della soddisfazione dei bisogni dell'individuo; e si limiterà ancora a spiegare in qual modo le ricchezze verranno ripartite fra coloro che se ne disputano il possesso.
     Si dirà forse che è logico: che prima di soddisfare i bisogni è necessario creare ciò che può soddisfarli; che occorre «produrre» per «consumare». Ma prima di produrre qualsiasi cosa, non se ne deve provare il «bisogno»? Non è la necessità che spinge dapprima l'uomo a cacciare, ad allevare il bestiame, a coltivare il suolo, a fabbricare utensili e, più tardi ancora, ad inventare e a costruir macchine? Non è anche lo studio dei bisogni che dovrebbe governar la produzione? - Sarebbe dunque, per lo meno, altrettanto logico di cominciare da questo studio e vedere in seguito in qual modo occorra agire per soddisfare questi bisogni per mezzo della produzione.
     Ed è appunto ciò che noi facciamo.
     Ma dacchè la esaminiamo da questo punto di vista, l'economia politica cambia totalmente di aspetto. Essa cessa di essere una semplice descrizione dei fatti e diventa una scienza, allo stesso titolo della psicologia: si può definirla, «lo studio dei bisogni dell'umanità e dei mezzi di soddisfarli con la minor perdita possibile delle forze umane». Il suo vero nome sarebbe «fisiologia della società». Essa costituisce una scienza parallela alla fisiologia delle piante o degli animali, la quale, anch'essa, è lo studio dei bisogni della pianta o dell'animale, e dei mezzi più vantaggiosi per soddisfarli. Nella serie delle scienze sociologiche, l'economia delle società umane viene a prendere il posto occupato nella serie delle scienze biologiche dalla fisiologia degli esseri organizzati.
     Noi diciamo: «Ecco degli esseri umani, organizzati in società. Tutti sentono il bisogno di abitare in dimore salubri. La capanna del selvaggio più non li soddisfa. Essi richiedono un riparo solido, più o meno confortevole. - Si tratta di sapere se, data la produttività del lavoro umano, essi potranno aver ciascuno la propria casa o ciò che impedirebbe loro di averla».
     E noi ci avvediamo subito che ogni famiglia in Europa potrebbe aver perfettamente una casa confortevole, come se ne edificano in Inghilterra e nel Belgio, o alla città Pullman, oppure un appartamento corrispondente. Un certo numero di giornate di lavoro basterebbe per procurare a una famiglia di sette o otto persone una graziosa casetta ariosa, ben disposta e illuminata a luce elettrica.
     Ma i nove decimi degli europei non hanno mai posseduto una dimora salubre, perchè in ogni tempo l'uomo del popolo dovette lavorare alla giornata, quasi continuamente, per soddisfare i bisogni dei suoi governanti, e non ha mai avuto il sopravvanzo necessario, in tempo e in denaro, per costruire o far costruire la casa dei suoi sogni. Ed egli non avrà casa e abiterà in un tugurio, finchè le condizioni attuali non siano cambiate.
     Noi procediamo, come si vede, in senso contrario agli economisti i quali perpetuano le pretese «leggi» della produzione e facendo il conto delle case che «si edificano» ogni anno, dimostrando, colla statistica alla mano, che le case nuove edificate, non essendo sufficienti per soddisfare tutte le richieste, i nove decimi degli europei «debbono» abitare in tuguri.
     Passiamo all'alimentazione. Dopo di aver enumerato i benefici della divisione del lavoro, gli economisti pretendono che questa divisione esige che gli uni si applichino all'agricoltura e gli altri all'industria manifatturiera. Tanto essendo prodotto dagli agricoltori e tanto dagli operai, lo scambio effettuandosi in una data maniera, essi analizzano la vendita, il profitto, il prodotto netto o il plus-valore, il salario, le imposte, la banca e via di seguito.
     Ma, dopo di averli seguiti sino a questo punto, noi non siamo per questo più progrediti, e se noi domandiamo loro: «Come avviene che tanti milioni di esseri umani manchino di pane, mentre ogni famiglia potrebbe nondimeno produrre tanto grano per dieci, venti ed anche cento persone all'anno»? ci rispondono intonandoci di nuovo la medesima antifona: divisione del lavoro, salario, plus-valore, capitale, ecc. ed arrivando a concludere che la produzione è insufficiente per soddisfare tutti i bisogni; la qual conclusione, anche se fosse vera, non risponde punto alla questione: «Può l'uomo, o non può egli produrre, lavorando, il pane che gli necessita? E se non può - qual cosa glielo impedisce»?
     Ecco qui 350 milioni d'Europei. Ogni anno occorre loro una data quantità di pane, carne, vino, latte, uova e burro. Occorrono loro tante case, tanti vestiti. È il minimo dei loro bisogni. Possono essi produrre tutto ciò? Se lo possono, rimarrà loro tanto tempo libero per procurarsi il lusso, gli oggetti di arte, di scienza e di divertimento - in una parola, tutto ciò che è al di fuori della categoria dello stretto necessario? - Se la risposta è affermativa, qual cosa impedisce loro di metterlo in pratica? Che devesi fare per sbarazzare dalla via gli ostacoli? Occorre del tempo? Ma se lo prendano! Non perdiamo più di vista l'obbiettivo di ogni Produzione cioè la soddisfazione dei bisogni.
     Se i bisogni più imperiosi dell'uomo rimangono insoddisfatti, che occorre fare per aumentare la produttività del lavoro? Ma non vi sono altre cause? Non vi sarebbe, fra le altre, quella che la produzione, avendo perduto di vista i «bisogni» dell'uomo, ha preso una direzione assolutamente falsa, e l'organizzazione ne è viziosa?
     E poichè noi, infatti, lo constatiamo, cerchiamo il mezzo di riorganizzare la produzione, in maniera che essa risponda realmente a tutti i bisogni.
     Ecco la sola maniera di considerare le cose, la quale ci sembri giusta: la sola che permetterebbe all'economia politica di diventare una scienza, - la scienza della fisiologia sociale.
     È chiaro che, allorquando questa scienza tratterà della produzione attualmente in opera presso le nazioni civili, nel comune asiatico o presso le tribù selvaggie, essa non potrà guari esporre i fatti diversamente da quel che facciano gli economisti odierni, cioè come un semplice capitolo «descrittivo», analogo ai capitoli descrittivi della zoologia o della botanica. Notiamo però che se questo capitolo fosse fatto dal punto di vista dell'economia delle forze nella soddisfazione dei bisogni, vi guadagnerebbe in precisione, nonchè in valore scientifico. Esso proverebbe nel modo più evidente lo sciupìo spaventoso delle forze umane dovuto al sistema attuale, e ammetterebbe con noi che, finchè questo durerà, i bisogni dell'umanità non saranno giammai soddisfatti.
     Il punto di vista, lo si vede, sarebbe interamente mutato. Dietro il telaio che tesse tanti metri di tela, dietro la macchina che fora tante lastre d'acciaio e dietro la cassa forte che inghiottisce i dividendi delle azioni e dei titoli di rendita, si vedrebbe l'uomo, l'artefice della produzione, escluso il più delle volte dal banchetto ch'egli ha preparato per gli altri. Si comprenderebbe pure che le pretese leggi del valore, dello scambio, ecc. non sono che l'espressione, sovente molto falsa, - essendone falso il punto di partenza, - di fatti quali accadono ora, ma che potrebbero accadere, e accadranno in modo assolutamente diverso, quando la produzione sarà organizzata in maniera da sopperire a tutti i bisogni della società.


II.

     Non avvi un solo principio dell'economia politica, il quale non cambi totalmente di aspetto se lo si consideri dal nostro punto di vista.
     Occupiamoci, per esempio, della sopraproduzione. Ecco una parola che risuona ogni giorno alle nostre orecchie. Non vi è infatti un solo economista, accademico o aspirante, il quale non abbia sostenuto molte tesi per provare che le crisi economiche risultano dalla sovraproduzione: che a un dato momento si producono più cotonine, stoffe ed orologi che non ne bisognino. Quante volte non si sono accusati di rapacità i capitalisti che si ostinano a produrre al dilà del consumo possibile! Ebbene, simile ragionamento appare falso non appena si approfondisca la questione. Nominateci, infatti, una merce qualunque, fra quelle che sono di uso universale, di cui si produca più che non ne occorra. Esaminate uno ad uno gli articoli spediti dai paesi di grande esportazione, e vedrete che quasi tutti sono prodotti in quantità «insufficenti» anche per gli stessi abitanti del paese che li esportano.
     Non è un sovrappiù del suo grano che il contadino russo invia in Europa. Le più abbondanti raccolte di grano e di segala nella Russia d'Europa danno «appena» ciò che basta per la popolazione. E generalmente il contadino si priva egli stesso del necessario, quando vende il suo grano e la sua segala per pagare le tasse e l'affitto.
     Non è un sovrappiù di carbone che l'Inghilterra manda ai quattro angoli del mondo, giacchè non ne rimane ad essa per il consumo domestico interno che 750 chili per anno e per abitante, e vi sono milioni di inglesi che si privano del fuoco nell'inverno, oppure ne mantengono quanto appena basta per cuocere un po' di legumi. In realtà (non parliamo degli oggetti e gingilli di lusso) nel paese della maggiore esportazione, l'Inghilterra, non vi è che una sola merce di uso generale, le cotonine, la cui produzione sia così considerevole, da superare «forse» i bisogni. E quando si pensa ai cenci che surrogano la biancheria e i vestiti presso un buon terzo degli abitanti del Regno Unito, si è portati a domandarsi se le cotonine esportate non farebbero, o quasi, il conto dei bisogni «reali» della popolazione.
     Generalmente non è un sovrappiù della produzione che viene esportato, se anche le prime esportazioni ebbero questa origine. La favola del calzolaio che camminava scalzo è vera per le nazioni, come lo era un tempo per l'artigiano. Ciò che si esporta è il necessario; e questo accade, perchè col loro salario soltanto i lavoratori non possono acquistare ciò che hanno prodotto, pagando le rendite, i benefici, gl'interessi del capitalista e del banchiere.
     Non solamente il bisogno sempre crescente del benessere rimane insoddisfatto, ma molto spesso manca pure lo stretto necessario. La sovraproduzione non esiste dunque, almeno in questo significato, e non è che una parola inventata dai teorici dell'economia politica.
     Tutti gli economisti ci dicono che se vi è una «legge» economica bene stabilita, è la seguente: «L'uomo produce più di quel che non consumi». Dopo di aver vissuto dei prodotti del suo lavoro gli rimane sempre un'eccedenza. Una famiglia di agricoltori produce di che nutrire parecchie famiglie, e così di seguito.
     Per noi, questa frase, così sovente ripetuta, è vuota di senso. Se dessa volesse significare che ogni generazione lascia qualche cosa alle generazioni future, sarebbe esatta. Infatti, un coltivatore pianta un albero che vivrà trenta o quarant'anni, o magari un secolo, di cui i suoi nepoti coglieranno i frutti. S'egli ha dissodato un ettaro di terreno vergine, l'eredità delle generazioni venture si è accresciuta di altrettanto. La strada, il ponte, il canale, la casa con i suoi mobili, sono altrettante ricchezze trasmesse alle generazioni seguenti.
     Ma non è di questo che si tratta. Si dice che il coltivatore produce più grano di quel che non consumi. Si potrebbe dire piuttosto che lo Stato avendogli sempre tolto una buona parte dei suoi prodotti sotto forma di tassa, il prete sotto forma di decima, e il proprietario sotto forma di affitto, egli si è creato un'intera classe d'individui i quali, una volta, consumavano ciò che producevano, salvo la parte rilasciata per l'imprevisto o le spese fatte sotto forma di alberi, strade, ecc., - ma che oggi sono costretti a nutrirsi di castagne, o di gran turco, a bere del vinello, perchè il resto vien loro preso dallo Stato, dal prete, dall'usuraio.
     Noi preferiamo dire: «Il coltivatore consuma meno di quel che produce», imperocchè lo si obbliga a coricarsi sulla paglia e a vendere le piume; a contentarsi di vinello e a vendere il vino; a mangiare la segala e a vendere il frumento.
     Notiamo anche che, prendendo come punto di partenza «i bisogni» dell'individuo, si arriva necessariamente al comunismo, come quell'organizzazione che permette il soddisfacimento di tutti questi bisogni nel modo più completo e più economico insieme. Mentre che, partendo dalla produzione attuale e mirando solamente al guadagno o al plus-valore, senza però domandarsi se la produzione risponde al soddisfacimento dei bisogni, si arriva necessariamente al capitalismo, o, tutto al più, al collettivismo - l'uno e l'altro non essendo che due forme diverse di salariato.
     Infatti, quando si considerano i bisogni dell'individuo e della società e i mezzi ai quali l'uomo ebbe ricorso per soddisfarli, durante le sue varie fasi di sviluppo, si rimane convinti della necessità di unire solidariamente gli sforzi, invece di abbandonarli al caso della produzione attuale. Si comprende che l'appropriazione, per opera di alcuni, di tutte le ricchezze non consumate e trasmettentesi da una generazione all'altra, non è fatta nell'interesse generale. Si constata che in tal modo i bisogni dei tre quarti della società rischiano di non essere soddisfatti, e la spesa eccessiva di forza umana non è che uno spreco inutile e criminoso.
     Si comprende finalmente che l'impiego più vantaggioso di tutti i prodotti è quello che soddisfa i bisogni più urgenti, ed il valore di utilità non dipende da un semplice capriccio, come si è spesso affermato, ma dal soddisfacimento ch'esso arreca a bisogni reali.
     Il Comunismo, - cioè una veduta sintetica del consumo, della produzione e dello scambio, ed un'organizzazione che risponda a questa veduta sintetica, - diventa così la conseguenza logica di questa comprensione di cose, la sola, a parer nostro, che sia realmente scientifica.
     Una società che soddisferà ai bisogni di tutti, e che saprà organizzare la produzione, dovrà inoltre distruggere certi pregiudizi concernenti l'industria e, in primo luogo, dovrà abolire la teoria tanto vantata dagli economisti sotto il nome di «divisione del lavoro», di cui noi tratteremo nel prossimo capitolo.
     
     

DIVISIONE DEL LAVORO

I.

     L'economia politica si è sempre limitata a constatare i fatti ch'essa vedeva prodursi nella società e a giustificarli nell'interesse della classe dominante. Ugualmente essa agisce per la divisione del lavoro che l'industria ha creato; avendola trovata vantaggiosa per i capitalisti, l'ha elevata a principio.
     «Mirate quel fabbro del villaggio,» diceva Adamo Smith, il padre dell'economia politica moderna. «S'egli non è mai stato abituato a fabbricar chiodi, giungerà a farne con stento non più di due o trecento al giorno. Ma se questo medesimo fabbro ha sempre fatto chiodi, ne consegnerà facilmente sino a duemila e trecento nel corso di una giornata». E Smith si affrettava a concludere: «Dividiamo il lavoro; specializziamo, specializziamo sempre; con dei fabbri che facciano solo teste o punte di chiodi, noi produrremo di più. Noi ci arricchiremo».
     Quanto poi a sapere se il fabbro, condannato a far teste di chiodi per tutta la sua vita, perderà o non il suo interesse al lavoro; se non sarà interamente in balìa del padrone con questo mestiere limitato; se non sciopererà quattro mesi su dodici; se il suo salario non ribasserà quando lo si potrà facilmente sostituire con un apprendista, Smith non vi pensava punto quando gridava: «Viva la divisione del lavoro! Ecco la vera miniera d'oro per arricchire la nazione»! E tutti a far coro con lui.
     E quand'anche un Sismondi, o un G. B. Say si accorgevano più tardi che la divisione del lavoro, invece di arricchire le nazioni non arricchiva che i ricchi, e che il lavoratore, ridotto a fare, durante tutta la sua vita, la diciottesima parte di una spilla, si abbruttiva e cadeva nella miseria, - che cosa proponevano gli economisti ufficiali? - Nulla! - Essi non dicevano che, applicandosi così per tutta la vita a un solo lavoro meccanico, l'operaio perderebbe la sua intelligenza e il suo spirito inventivo, e che, invece, la varietà delle occupazioni darebbe per risultato di aumentare considerevolmente la produttività della nazione. È precisamente tale questione che vien posta oggidì sul terreno.
     D'altronde, se non vi fossero che gli economisti a predicare la divisione del lavoro permanente e spesso ereditario si lascierebbero gracchiare a loro bell'agio. Ma le idee professate dai dottori della scienza s'infiltrano negli spiriti pervertendoli, così che, a forza di sentir parlare della divisione del lavoro, dell'interesse, della rendita e del credito, ecc., come di problemi già da lungo tempo risoluti, tutti (ed il lavoratore stesso) finiscono per ragionare come gli economisti, cioè col venerare gli stessi feticci.
     Così noi vediamo molti socialisti, quegli stessi che non hanno temuto di far propri gli errori della scienza, rispettare il principio della divisione del lavoro. Parlate loro dell'organizzazione della società durante la Rivoluzione, e vi risponderanno che la divisione del lavoro dev'essere mantenuta; che se voi fabbricavate punte di spillo prima della Rivoluzione, dovrete farne ancora dopo di essa. Voi lavorerete cinque ore soltanto a far punte di spilli - sia pure! Ma voi non farete che punte di spilli durante tutta la vostra vita, miliardi di spilli, mentre altri ancora si specializzeranno nelle altre funzioni del lavoro letterario, scientifico, artistico, ecc. Voi siete nato fabbricatore di punte di spilli, Pasteur è nato vaccinatore nella cura della rabbia, e la Rivoluzione lascierà entrambi alle rispettive occupazioni.
     Ebbene, noi ci proponiamo di discutere ora, nelle sue varie manifestazioni quest'orribile principio, nocivo alla società, cagione di abbrutimento per l'individuo, e fonte di una serie infinita di mali.
     Si conoscono le conseguenze della divisione del lavoro. Noi siamo evidentemente divisi in due classi: da una parte produttori, che consumano pochissimo, e lavorano male perchè il loro cervello rimane inattivo; e dall'altra parte i consumatori che producono poco o quasi nulla, hanno il privilegio di pensare per gli altri, e pensano male perchè un mondo intiero, quello dei lavoratori del braccio è ad essi sconosciuto. Gli operai della terra non sanno nulla della macchina, quelli che sono addetti alle macchine ignorano tutto dei lavori campestri. L'ideale dell'industria moderna è il fanciullo che serve una macchina di cui egli non può e non deve comprendere il funzionamento, e dei sorveglianti che lo multano, se la sua attenzione si rallenta un istante. Si cerca pure di sopprimere completamente il lavoro agricolo. L'ideale dell'agricoltura industriale è un meccanico qualunque stipendiato per tre mesi a fine di guidare un aratro a vapore o una trebbiatrice. La divisione del lavoro è l'uomo classificato, bollato, contrassegnato per tutta la sua vita, a far dei nodi in una manifattura o come sorvegliante in qualche industria, o come conduttore di una carriola nel tal sito della miniera, ma senza avere alcun'idea d'insieme di macchina, d'industria, di miniera, e perdendo per ciò stesso il gusto del lavoro e le capacità d'invenzione che ai principi dell'industria moderna, avevano creato i meccanismi di cui a noi piace tanto vantarci con orgoglio.
     Ciò che si è fatto per gli uomini, lo si voleva fare anche per le nazioni. L'umanità doveva essere divisa in officine nazionali, aventi ciascuna la propria specialità. La Russia - ci s'insegnava - è destinata dalla natura a coltivare il grano; l'Inghilterra a fabbricar le cotonine; il Belgio a fabbricar stoffe, mentre che la Svizzera ci fornisce d'istitutrici e di nutrici. In ogni nazione si specializzerebbe ancora: Lione, fabbrica sete; Anversa, merletti; e Parigi, articoli di fantasia. Gli economisti pretendevano che ciò fosse un campo illimitato offerto alla produzione nello stesso tempo che al consumo; un'éra di lavoro e di immensa fortuna dischiusasi per il mondo.
     Ma queste vaste speranze svaniscono a mano a mano che il sapere tecnico si spande nell'universo. Finchè l'Inghilterra era sola a fabbricar cotonine e a lavorare i metalli su vasta scala, finchè Parigi soltanto produceva gingilli artistici, ecc., tutto andava bene; potevasi predicare ciò che chiamasi la divisione del lavoro senza tema di essere smentiti.
     Ora, ecco che una nuova corrente trascina le nazioni civili a tentare in casa loro ogni genere d'industrie, trovando vantaggioso a fabbricare esse stesse ciò che ricevevano una volta da altri paesi, e le stesse colonie tendono a emanciparsi dalla metropoli. Le scoperte della scienza rendendo universali i metodi, è inutile d'ora innanzi di pagare all'estero a un prezzo esorbitante ciò che è così facile di produrre all'interno.
     Ma questa rivoluzione nell'industria non infligge un colpo fatale alla teoria della divisione del lavoro che si credeva così solidamente stabilita?
     

IL DECENTRAMENTO DELLE INDUSTRIE

I.

     In seguito alle guerre napoleoniche, l'Inghilterra era quasi riuscita a rovinare la grande industria allora nascente in Francia, in sulla fine del secolo passato. Senza seri concorrenti essa rimaneva padrona dei mari. Di questo approfittò per costituirsi un monopolio industriale, e, coll'imporre alle nazioni vicine i suoi prezzi per le mercanzie ch'essa sola poteva fabbricare, ammucchiò ricchezze su ricchezze, e seppe ricavare grandissima utilità da questa situazione privilegiata e tutti i vantaggi da essa derivanti.
     Ma quando la Rivoluzione borghese del secolo scorso ebbe abolito il servaggio, e creato in Francia un proletariato, la grande industria, il cui progresso era stato per un momento arrestato, riprese un nuovo slancio, e dalla seconda metà del nostro secolo, la Francia cessò di essere tributaria dell'Inghilterra per i prodotti delle manifatture. Oggi essa è diventata un paese di esportazione, vende all'estero per più di un miliardo e mezzo di prodotti delle sue manifatture, e i due terzi di quelle mercanzie sono stoffe. Si calcola che quasi tre milioni di francesi lavorino per l'esportazione, o vivano del commercio esterno.
     In tal modo la Francia non è più tributaria dell'Inghilterra. A sua volta, essa ha cercato di monopolizzare alcuni rami del commercio esterno, quali le seterie e le confezioni, ritraendone benefici immensi; però essa sta per perdere per sempre questo monopolio, come l'Inghilterra sta per perdere per sempre quello delle cotonine e anche dei filati di cotone.
     Avanzandosi verso l'Oriente l'industria ha fatto sosta in Germania. Trent'anni fa, la Germania era tributaria dell'Inghilterra e della Francia per la maggior parte dei prodotti della grande industria: ma così più non è ai nostri giorni. Durante gli ultimi venticinque anni, e sovrattutto dopo la guerra del 1871, la Germania ha completamente riformata tutta la sua industria. Le nuove officine sono corredate delle migliori macchine, e in esse si realizzano le più recenti creazioni dell'arte industriale, quali ne produce Manchester per le cotonine, o Lione per le seterie, ecc. Se a Lione o a Manchester sono occorse tre generazioni di lavoratori per trovare la macchina moderna, la Germania ha potuto adottarla ad un tratto con tutti i suoi perfezionamenti. Le scuole tecniche, atte ai bisogni dell'industria, forniscono alle manifatture un esercito di operai intelligenti, d'ingegneri pratici i quali sanno lavorare col cervello e col braccio. L'industria tedesca incomincia allo stesso punto preciso a cui Manchester e Lione son giunte dopo cinquant'anni di sforzi, di tentativi, d'incertezze.
     Da ciò risulta che la Germania, potendo produrre in casa quanto si produce altrove, diminuisce d'anno in anno le sue importazioni dalla Francia e dall'Inghilterra, e già rivaleggia con esse per le esportazioni in Asia ed in Africa; non solo, ma fa loro la concorrenza sugli stessi mercati di Londra e di Parigi. Le persone che non vedono molto in là possono certamente gridare contro il trattato di Francoforte; possono spiegar la concorrenza tedesca attribuendola a piccole differenze di tariffe nelle strade ferrate. Possono dire che il tedesco lavora per «niente», e insistere sui piccoli lati di ogni questione, trascurando i fatti storici. Ma non è per questo meno sicuro che la grande industria, - una volta privilegio dell'Inghilterra e della Francia, - ha fatto un passo verso l'Oriente. Essa ha trovato nella Germania un paese giovane, ricco di forze, ed una borghesia intelligente, avida di arricchirsi a sua volta col commercio esterno.
     Mentre la Germania si emancipava dalla tutela inglese e francese e si fabbricava le sue cotonine, le sue stoffe, le sue macchine, - in una parola, tutti i prodotti manifatturati, - la grande industria stabilivasi anche in Russia, dove lo sviluppo delle manifatture è tanto più sorprendente, in quanto che esse datano appena da ieri.
     All'epoca dell'abolizione del servaggio, nel 1861, la Russia non possedeva quasi alcuna industria. Tutto ciò che occorrevale di macchine, rotaie, locomotive, stoffe di lusso, le era fornito dall'Occidente. Vent'anni dopo la Russia contava già più di 85,000 manifatture indigene, e le mercanzie uscite da queste manifatture avevano quadruplicato il loro valore.
     I vecchi meccanismi sono stati completamente sostituiti da altri nuovi, perfezionati. Quasi tutto l'acciaio usato oggi, i due terzi del carbone, tutte le locomotive, tutte le carrozze dei treni, tutte le rotaie, quasi tutti i battelli a vapore, sono fabbricati in Russia.
     Da un paese, destinato, secondo gli economisti, a rimanere agricolo, la Russia è diventata un paese manifatturiero. Nulla essa domanda all'Inghilterra, e pochissimo alla Germania.
     Gli economisti rendono responsabili di questi fatti le dogane; ma il fatto è che i prodotti manifatturati in Russia vendonsi allo stesso prezzo che a Londra. Come il capitale non ha patria, i capitalisti tedeschi e inglesi, seguiti da ingegneri e soprintendenti delle loro nazioni, hanno impiantato in Russia e in Polonia manifatture che possono competere, per l'eccellenza dei prodotti, con le migliori manifatture inglesi. Che domani si aboliscano le dogane, e le manifatture, anzichè perdervi, vi guadagneranno. In questo momento istesso gli ingegneri inglesi stanno assestando il colpo di grazia alle importazioni di stoffe e di lane dell'Occidente: nel mezzogiorno della Russia essi impiantano immense manifatture di lana, corredate di macchine fra le più perfette di Brahford, e tra sei anni la Russia non importerà più che poche pezze di stoffe inglesi e di lane francesi - come campione.
     La grande industria non si avanza soltanto in direzione dell'Oriente; essa estendesi anche alle penisole del Sud. L'Esposizione di Torino del 1884 ha già mostrato i progressi dell'industria italiana, e - non prendiamo abbaglio: - l'odio tra le due borghesie, francese e italiana, non ha altra origine, che la loro rivalità industriale. L'Italia si emancipa dalla tutela francese; e fa concorrenza ai negozianti francesi nel bacino del Mediterraneo e in Oriente. Per questo, e non per altro il sangue sarà un giorno versato sulla frontiera italiana; - a meno che la Rivoluzione non risparmi questo sangue prezioso.
     Potremmo anche menzionare i rapidi progressi della Spagna sulla via della grande industria. Ma consideriamo piuttosto il Brasile. Non l'avevano gli economisti condannato a coltivare eternamene il cotone, ad esportarlo allo stato grezzo, e a riceverne in compenso cotonine importate dall'Europa? E veramente, venti anni fa, il Brasile non contava che nove miserabili piccole manifatture di cotone, con 385 fusi. Oggi ne conta invece quarantasei, di cui cinque soltanto possiedono 40.000 fusi, e riversano ogni anno sul mercato trenta milioni di metri di cotonina.
     Perfino il Messico si è dato alla fabbricazione delle cotonine, invece d'importarle dall'Europa. Gli Stati Uniti poi si sono completamente emancipati dalla tutela europea: la grande industria si è in essi trionfalmente sviluppata.
     Spettava però alle Indie d'infliggere la più clamorosa smentita ai partigiani della specializzazione delle industrie nazionali.
     La teoria che proclama la necessità per le grandi nazioni europee di posseder colonie è conosciutissima. Queste colonie debbono inviare alla metropoli i loro prodotti grezzi: fibra cotonifera, lana appena tosata, droghe, ecc. E la madre patria rimanderà loro questi prodotti dopo averli «manifatturati», cioè stoffe bruciate, ferri vecchi sotto forma di macchine disusate - in breve, tutto ciò di cui essa non ha bisogno, che le costa poco o nulla, ma che non venderà meno per questo ad un prezzo eccessivo.
     Questa era la teoria; e tale fu per lungo tempo la pratica che ad essa si uniformò. Mentre si rovinavano le Indie, a Londra e a Manchester si accumulavano patrimoni alle loro spese. Solo che vi rechiate al museo indiano, a Londra, e vi scorgerete ricchezze folli, inaudite, ammucchiate a Calcutta ed a Bombay dai negozianti inglesi. Ma altri negozianti ed altri capitalisti, egualmente inglesi, concepirono l'idea naturalissima che sarebbe molto più abile lo sfruttare gli abitanti delle Indie in modo diretto, e di fabbricare quelle cotonine alle Indie stesse, invece d'importarne in Inghilterra annualmente per cinque o seicento milioni di lire.
     In sul principio non fu che una serie d'insuccessi. I tessitori indiani - artisti del loro telaio - non potevano adattarsi al regime dell'officina. Le macchine inviate da Liverpool erano cattive; bisognava inoltre tener conto del clima, abituarsi a nuove condizioni, che oggi sono tutte eliminate; di modo che l'India inglese diventa una rivale sempre più minacciosa delle manifatture della metropoli.
     Oggi essa possiede 80 manifatture di cotone, le quali impiegano già quasi 60.000 lavoratori, e nei 1835 avevano fabbricato più di 1.450.000 tonnellate metriche di cotonine. Ed ogni anno essa esporta in China, alle Indie Olandesi e in Africa, - per quasi 100 milioni di lire, - di quei medesimi cotoni bianchi, che dicevasi essere la specialità dell'Inghilterra. E nel mentre che i lavoratori inglesi rimangono disoccupati e cadono nella più dura miseria, le donne indiane pagate a 60 centesimi al giorno, fabbricano a macchina le cotonine che si vendono nei porti dell'estremo Oriente.
     In breve, non è lontano il giorno - e gl'industriali intelligenti non se lo dissimulano, - in cui non si saprà più che fare delle braccia che prima in Inghilterra erano impiegate nella fabbricazione delle cotonine da esportare. E questo non è tutto: risulta da rapporti serissimi che fra dieci anni l'India non avrà più bisogno di comprare dall'Inghilterra una sola tonnellata di ferro. Si sono superate le prime difficoltà per poter far uso del carbon fossile e del ferro delle Indie; ed ora grandi officine, rivali delle fabbriche inglesi, sorgono già sulle coste dell'Oceano Indiano.
     Ecco dunque il fenomeno determinante dell'economia del secolo decimonono: la colonia che fa concorrenza alla madre patria «per mezzo dei suoi prodotti manifatturati».
     E perchè non dovrebbe farlo? Che cosa le mancherebbe? - Il capitale, forse? - Ma il capitale si ramifica dovunque sianvi miserabili da sfruttare. - La scienza? Ma dessa non conosce le barriere nazionali. - Le cognizioni tecniche dell'operaio? Ma sarebbe forse l'operaio indiano inferiore a quei 92.000 ragazzi e fanciulli di men che quindici anni, che in questo momento lavorano nelle manifatture tessili dell'Inghilterra?


II.

     Dopo di aver gettato un colpo d'occhio sulle industrie nazionali, sarebbe interessantissimo di ripetere lo stesso esame per le industrie speciali. Prendiamo, per es., la seta, prodotto eminentemente francese nella prima metà di questo secolo. Niuno ignora come Lione sia divenuto il centro dell'industria delle sete, da prima fornite dal mezzogiorno della Francia, ed importate quindi dall'Italia, dalla Spagna, dall'Austria, dal Caucaso, dal Giappone, per farne seterie. Su cinque milioni di chilogrammi di sete grezze trasformate in istoffe nella regione lionese, nel 1875, non ve ne erano che 400.000 chili di seta francese.
     Ma giacchè Lione lavora in massima parte con queste sete importate, perchè la Svizzera, la Germania, la Russia non faranno altrettanto? La tessitura della seta si sviluppò a poco a poco nei villaggi del Canton di Zurigo. Basilea diventò quindi un vasto centro dell'industria serica. L'Amministrazione del Caucaso invitò donne di Marsiglia ed operaie di Lione a recarsi ad insegnare alle Georgiane l'allevamento perfezionato del baco da seta e ai contadini del Caucaso l'arte di trasformare la seta in istoffa. L'Austria fece altrettanto. La Germania eresse, col concorso di operai lionesi, immensi laboratori di seterie. Gli Stati Uniti fecero il medesimo a Paterson.....
     Ed in tal modo, oggidì, l'industria serica non è più il monopolio e la specialità della Francia. Si fabbricano seterie in Germania, in Austria, agli Stati Uniti, in Inghilterra. I contadini del Caucaso tessono durante l'inverno dei fazzoletti a un prezzo che toglierebbe il pane ai setaiuoli di Lione. L'Italia manda anche essa seterie in Francia, e Lione che ne esportava nel 1870-74 per 460 milioni, non ne spedisce più che per 233 milioni. Presto non manderà all'Estero che le stoffe superiori, o alcune novità - da servire per modello ai Tedeschi, ai Russi, ai Giapponesi.
     La stessa cosa accade per tutte le industrie. Il Belgio non ha più il monopolio delle drapperie, che vengono anche fabbricate in Germania, Russia, Austria, Stati Uniti. La Svizzera e il Giura francese non han più il monopolio dell'orologeria: si fanno orologi dappertuto. La Scozia non raffina più gli zuccheri per la Russia, che invece ne esporta ora in Inghilterra; l'Italia, benchè non possieda nè ferro, nè carbon fossile in grande quantità, fabbrica da se stessa le sue corazzate e costruisce le macchine dei suoi bastimenti; l'industria chimica non è più monopolio dell'Inghilterra: dapertutto si fabbrica soda e acido solforico. Macchine d'ogni specie fabbricate nei dintorni di Zurigo, erano oggetto di ammirazione all'ultima esposizione universale; la Svizzera, che non ha ferro, nè carbone, - null'altro che delle eccellenti scuole tecniche, - fabbrica macchine migliori e a più buon mercato che non l'Inghilterra. Ecco quel che rimane della teoria degli scambi!
     Così, per l'industria, come per tutto il resto, la tendenza, che s'impone è per il decentramento.
     Ogni nazione trova utile di combinare in casa sua l'agricoltura con la maggior varietà possibile di officine e di manifatture. La specializzazione di cui gli economisti ci hanno parlato era buona per arricchire alcuni capitalisti: ma essa non ha alcuna ragione di essere, e si ritrae invece ogni vantaggio dacchè ogni paese, ogni bacino geografico, possa coltivare il suo grano e i suoi legumi, e fabbricare in casa sua tutti i prodotti manifatturati ch'esso consuma. Questa diversità è la migliore garanzia dello sviluppo completo della produzione per mezzo del mutuo concorso di ciascuno degli elementi di progresso: mentre che la specializzazione è la sosta del progresso stesso.
     L'agricoltura non può prosperare che a lato dell'industria. E dacchè una sola officina fa la sua apparizione, una varietà infinita di altre officine d'ogni specie, «debbono» elevarsi intorno ad essa, affinchè mutualmente sostenendosi, stimolandosi l'un l'altra con le loro invenzioni, insieme crescano e si sviluppino.
     È una follia, infatti, esportar grano ed importare farine, esportar lana ed importare stoffa, esportar ferro ed importare macchine; non solamente perchè questi trasporti cagionano spese inutili, ma sovratutto perchè un paese, il quale non abbia un'industria sviluppata, rimane forzatamente indietro in fatto di agricoltura; perchè un paese che non possieda grandi officine per la lavorazione dell'acciaio, è nello stesso tempo in ritardo con tutte le altre industrie; perchè finalmente, un grande numero d'intelligenze industriali e tecniche non hanno modo d'impiegarsi.
     Tutto si sorregge oggi vicendevolmente nel mondo della produzione. La coltivazione della terra non è più possibile senza macchine, senza potenti irrigazioni, senza strade ferrate, senza manifatture di concimi. E per aver queste macchine adatte alle condizioni locali, queste strade ferrate, questi apparecchi d'irrigazione, ecc., ecc., occorre che si sviluppi un certo spirito d'invenzione ed una certa abilità tecnica, che non possono nemmeno mostrarsi alla luce finchè la vanga o il vomero rimangono i soli strumenti di coltura.
     Perchè il campo sia ben coltivato, perchè esso renda le prodigiose raccolte che l'uomo ha il diritto di domandargli, occorre che l'officina e la manifattura - molte officine e molte manifatture - fumino ai suoi lati.
     La varietà delle occupazioni, la varietà delle capacità che se ne sviluppano, integrate in vista d'uno scopo comune, - ecco la vera forza del progresso.
     Ed ora, immaginiamo un territorio, vasto o ristretto, poco importa, che muova i suoi primi passi sulla via della Rivoluzione Sociale.
     «Nulla sarà cambiato» - ci si dice talvolta. - «Si esproprieranno i laboratori e le officine, che si proclameranno proprietà nazionale o comunale; ed ognuno ritornerà al suo lavoro abituale. E la Rivoluzione sarà fatta».
     Ebbene, no; la Rivoluzione Sociale non si farà così semplicemente.
     L'abbiamo già detto: Che domani la Rivoluzione scoppi a Parigi, a Lione o in qualunque altra città; che domani a Parigi, o non importa dove, i rivoluzionari rendansi padroni delle officine, delle case o delle banche - e per questo semplice fatto tutta la produzione attuale dovrà mutar d'aspetto.
     Il commercio internazionale, nonchè le importazioni di grano estero, cesseranno d'un tratto; la circolazione delle merci e dei viveri rimarrà paralizzata. E la città o il territorio insorto dovranno, per bastare a sè stessi, riorganizzare da cima a fondo, tutta la produzione. Se falliscono, è la morte. Se riescono, è la rivoluzione «nell'insieme» della vita economica del paese. Come faranno per mangiare, durante mezz'anno, gli abitanti di un paese, quando il funzionamento dei viveri sarà rallentato e il consumo invece aumentato; quando tre milioni di francesi che lavorano per l'esportazione, saran costretti a scioperare; quando mille cose che oggi si ricevono dai paesi lontani o dai paesi vicini non arriveranno più, e l'industria degli articoli di lusso sarà temporaneamente sospesa?
     Egli è evidente che la grande massa domanderà al suolo la sua alimentazione, quando i magazzini saranno esausti. Bisognerà coltivar la terra: combinare in Parigi stessa e nei dintorni la produzione agricola con la produzione industriale, abbandonare i mille piccoli mestieri di lusso, per provvedere alla cosa più urgente - il pane.
     I cittadini dovranno farsi agricoltori. Non alla maniera del contadino che sgobba sull'aratro per raccogliere appena di che nutrirsi nell'annata, ma seguendo i principi della coltura intensiva, ad orto, applicati in vaste proporzioni per mezzo delle migliori macchine che l'uomo abbia potuto inventare. Si coltiverà, ma non come le bestie da soma del Cantal, - e, del resto, l'artefice parigino vi si rifiuterebbe, - si riorganizzerà la coltivazione, non già in dieci anni, ma immediatamente, in mezzo alle lotte rivoluzionarie, pena il rischio di soccombere innanzi al nemico.
     Bisognerà far questo da esseri intelligenti, i quali si aiutano col loro sapere, e si organizzano in allegre squadre per un lavoro gradevole, come quelle che, cento anni fa, sterravano il Campo di Marte, a Parigi, per le feste della Federazione: - lavoro pieno di godimenti, quando non si prolunga oltremisura, quando esso è scientificamente organizzato, quando l'uomo migliora e inventa i suoi attrezzi, ed ha coscienza di essere un membro utile della comunità.
     Si coltiverà. Ma si dovranno anche produrre mille cose che abbiamo l'abitudine di domandare all'estero. E non dimentichiamo che, per gli abitanti del territorio insorto, l'estero sarà tutto il resto di mondo che non lo avrà seguito nella sua rivoluzione. Nel 1793, nel 1871, per Parigi in sommossa, l'estero cominciava alle porte stesse della capitale, della provincia. L'incettatore di Troyes affamava i «sanculotti» di Parigi, non meno e forse peggio delle orde tedesche, condotte su terra francese dai cospiratori di Versailles.
     Bisogna dunque saper fare a meno dell'estero. E se ne farà a meno. La Francia inventò lo zucchero di barbabietola, quando la canna da zucchero fece difetto, in seguito al blocco continentale. Parigi trovò il salnitro nelle cantine, quando il salnitro non giungeva più d'altre parti. Saremmo noi inferiori ai nostri avi, i quali balbettavano appena le prime parole della scienza?
     Egli è che una rivoluzione è qualcosa di più della semplice demolizione di un regime. Ma è il risveglio dell'intelligenza umana, lo spirito inventivo decuplicato, centuplicato; è l'aurora di una scienza novella, la scienza dei Laplace, dei Lamarck, dei Lavoisier! È una rivoluzione negli spiriti, più ancora che nelle istituzioni.
     E ci si parla di ritornare al laboratorio, come se si trattasse di rientrare in casa, dopo una passeggiata al bosco!
     Il solo fatto di aver colpito la proprietà borghese, implica già la necessità di riorganizzare, da cima a fondo, tutta la vita economica, nel laboratorio, nel cantiere, nell'officina.
     E la Rivoluzione lo farà. Che Parigi in Rivoluzione Sociale rimanga sola, isolata dal mondo intero, durante un anno o due, dai sostegni dell'ordine borghese, e questi milioni di intelligenze, che la grande officina non ha ancora abbrutito, - questa città dei piccoli mestieri, i quali eccitano lo spirito inventivo, - dimostrerà al mondo quel che possa il cervello dell'uomo, senza domandare all'universo null'altro all'infuori della forza motrice del sole che lo rischiara, del vento che spazza le sue impurità, e delle forze latenti e agitantesi nel suolo che noi calpestiamo.
     Si vedrà ciò che l'ammucchiamento di questa immensa varietà di mestieri, che si completano a vicenda su di un punto qualunque del globo, e lo spirito vivificatore di una rivoluzione possano fare per alimentare, vestire, alloggiare e colmare di tutto il lusso possibile due milioni di esseri intelligenti.
     Non c'è bisogno di sbrigliare per questo una fantasia romantica. Ciò che già si conosce; ciò che è stato già esperimentato e riconosciuto come pratico, basterebbe per compierlo, a condizione che il soffio audace della Rivoluzione e dello slancio spontaneo delle masse lo fecondi e lo vivifichi.
     

L'AGRICOLTURA


I.

     Si è di frequente rimproverato all'economia politica di estrarre tutte le sue deduzioni dal principio, indubbiamente falso, che l'unico movente atto a spingere l'uomo ad aumentar la sua forza di produzione è l'interesse personale, inteso in senso meschino e ristretto.
     Il rimprovero è giustissimo: tanto giusto che le epoche delle maggiori scoperte industriali e dei veri progressi nell'industria, sono per l'appunto quelle in cui, sognandosi la felicità per tutti, si era meno preoccupati dell'arricchimento personale. I grandi indagatori e i grandi inventori miravano sovratutto all'emancipazione dell'umanità; ed ove i Watt, gli Stevenson, i Jaguard, ecc., avessero solamente potuto prevedere a quale miseria le loro veglie e le loro meditazioni trarrebbero il lavoratore, avrebbero probabilmente bruciato i loro piani, distrutto i loro modelli.
     Un altro principio, non meno falso, inquina pure la economia politica, ed è l'accettazione tacita da parte di quasi tutti gli economisti, del concetto che, se in alcune materie v'ha spesso sovraproduzione, tuttavia una società non sarà mai fornita di prodotti sufficienti ai bisogni di tutti i suoi membri; e quindi non si arriverà mai a fare che taluno non abbia da vendere l'opera sua per un salario. Questa ammissione tacita è la base di tutte le teorie, di tutte le pretese «leggi» insegnate dagli economisti.
     Eppure è certo che non appena un'agglomerazione civilizzata qualunque si domandasse quali sono i bisogni universali ed i mezzi di soddisfarli, si accorgerebbe che essa possiede già, sia nell'industria che nell'agricoltura, di che provvedere largamente a tutti i suoi bisogni a condizione di saper applicare questi mezzi alla soddisfazione di bisogni reali.
     Che ciò sia vero per l'industria, è un fatto incontestabile. Basta infatti studiare nei grandi stabilimenti industriali i processi già in uso per estrarre il carbone ed i minerali, ottener l'acciaio e foggiarlo, fabbricare ciò che occorre per i vestiti, ecc., e si constaterà che in ciò che concerne i prodotti delle nostre manifatture, delle nostre officine, delle nostre miniere, non è possibile il menomo dubbio in proposito. Si potrebbe fin d'ora quadruplicare la nostra produzione, ed economizzare anche sul nostro lavoro.
     Ma noi andiamo più in là. Ciò che diciamo per l'industria lo affermiamo anche per l'agricoltura: il coltivatore, al pari del manifatturiere, «possiede già» i mezzi per quadruplicare, se non per elevare al decuplo, la sua produzione; ed egli potrà farlo appena ne sentirà il bisogno, e procederà all'organizzazione sociale del lavoro in luogo e vece dell'organizzazione capitalista.
     Ogni volta che si parla d'agricoltura, si rappresenta il contadino curvo sull'aratro, spargendo a caso nel terreno un seme male scelto ed aspettando con angoscia ciò che la stagione, propizia o sfavorevole, gli frutterà. S'immagina una famiglia che lavora da mane a sera, senza avere altra ricompensa che un giaciglio, del pane secco ed una acidula bevanda. Si scorge, in una parola, la «bestia selvaggia» di La Bruyère.
     E per quest'uomo, avvinto alla miseria, si parla, tutt'al più di alleviare l'imposta o la rendita. Ma nessuno osa farsi il concetto d'un agricoltore risollevato, infine, alla dignità di un uomo, avente i suoi agi, e che pure produca, in poche ore al giorno, di che nutrire, non solamente sè ed i suoi, ma cento uomini ancora, a dir poco. Nel bel meglio dei loro sogni d'avvenire, i socialisti non osano spingersi al di là della grande coltivazione americana la quale, in fondo, è appena all'infanzia dell'arte.
     L'agricoltore odierno ha idee più vaste, concezioni più grandiose. Non domanda che una frazione di ettaro per produrre il nutrimento vegetale d'una famiglia; al mantenimento di venticinque capi di bestiame basta oggi il medesimo spazio che occorreva per l'addietro al mantenimento di uno solo. L'agricoltore vuole ridurre egli, a suo talento, il terreno; e sfidar le stagioni e il clima; e riscaldare l'aria e la terra intorno alle giovani piante; e produrre, in una parola, su di un ettaro quanto non si riusciva una volta a raccogliere su cinquanta, e ciò senza eccessiva fatica e con molto minor lavoro di prima. Egli pretende che si possa largamente produrre di che nutrire tutti gli esseri, col dare alla coltivazione campestre quell'opera sola cui ciascuno si adatta con piacere, con gioia.
     Tale la tendenza «attuale» dell'agricoltura.
     Mentre i dotti, sotto la guida di Liebig, il creatore della teoria chimica dell'agricoltura, sbagliavano spesso di strada nella loro prosopopea di teorici, alcuni agricoltori illetterati hanno dischiuso al mondo una nuova via di prosperità. Certi ortolani di Parigi, di Troyes, di Rouen, certi giardinieri inglesi, alcuni fittaiuoli fiamminghi, alcuni agricoltori di Jersey, di Guernesey e delle isole Scilly ci hanno dischiuso così vasti orizzonti che l'occhio esita ad abbracciarli.
     Mentre una famiglia di contadini, per poter vivere dei prodotti del suolo, doveva occupare almeno sette od otto ettari di terra - e si sa in qual modo vivano i contadini - ora è persino impossibile di stabilire quale minimo di terreno sia necessario ad una famiglia per procurarle tutto ciò che si può ricavare dalla terra, - il necessario ed il lusso - purchè si adottino i sistemi di coltivazione intensiva. - Questo minimo decresce ogni giorno, e se ci si domandasse qual numero di persone potrebbero vivere abbondantemente sullo spazio di una lega quadrata, senza nessun aiuto d'importazione estera, ci sarebbe difficile di rispondere. È incontestato che questo numero cresce rapidamente in proporzione dei progressi dell'agricoltura.
     Dieci anni fa si poteva già asserire che una popolazione di cento milioni di individui avrebbe vissuto comodamente coi soli prodotti del suolo francese, senza nulla importare. Ma oggi, dopo i progressi recentemente compiutisi, tanto in Francia che in Inghilterra, tenendo conto dei nuovi orizzonti che si sono aperti innanzi a noi, noi diremo che coltivando la terra «come già la si coltiva in parecchie località, anche su terreni magri», cento milioni di abitanti sui cinquanta milioni di ettari del suolo francese, sarebbero ancora un numero ristrettissimo in paragone dei prodotti del suolo. La popolazione aumenterà quanto più l'uomo saprà chiedere alla terra.
     In ogni modo - lo vedremo in breve - si può considerare come «assolutamente dimostrato» che se Parigi e i due circondari di Senna e di Senna e Oise si organizzassero domani in comune anarchico, in cui tutti lavorerebbero, e se l'universo intero si rifiutasse d'inviar loro dal di fuori un solo staio di frumento, un solo capo di bestiame, un solo canestro di frutta, non lasciando loro che il territorio dei due circondarii, - nondimeno da soli essi produrrebbero, non solamente il grano, la carne e i legumi occorrenti, ma anche tutti i frutti di lusso in tale quantità da bastare a tutta la popolazione cittadina e rurale.
     Noi affermiamo, inoltre, che il dispendio totale di lavoro umano sarebbe assai «minore» di quello che attualmente richiedesi per nutrir questa popolazione col grano proveniente dall'Alvergna e dalla Russia, coi legumi prodotti qua e là dalla grande coltivazione, e coi frutti maturati nel mezzogiorno.
     Egli è d'altronde evidente che noi non pretendiamo punto che occorra sopprimere «tutti» gli scambi e che ogni regione debba applicarsi a produrre precisamente ciò che sotto il suo clima si ottiene solo con una coltivazione più o meno artificiale. Ma ci preme rilevare che la teoria degli scambi, quale oggi si professa, è singolarmente esagerata, talvolta inutile, spesso nocevole. Confermiamo inoltre che non fu mai tenuto conto del lavoro dei viticultori del mezzogiorno, nè di quello dei contadini russi od ungheresi per la produzione del grano, per quanto fertili siano i loro prati ed i loro campi. Coi sistemi attuali di coltivazione estensiva, essi faticano assai maggiormente di quanto sarebbe necessario per ottenere gli stessi raccolti colla coltivazione intensiva, anche sotto climi infinitamente meno clementi e su terreni per natura meno ricchi.


II.

     Ci sarebbe impossibile di citare qui tutti i fatti sui quali si basano le nostre asserzioni. Siamo dunque costretti a rimandare i nostri lettori per più ampie informazioni agli articoli che abbiamo pubblicato in lingua inglese(30). Ma sopra ogni cosa, noi invitiamo caldamente quanti s'interessano alla questione a leggere alcune delle eccellenti opere pubblicate in Francia e altrove, di cui diamo qui sotto l'elenco(31).
     In quanto agli abitanti delle grandi città, i quali non hanno ancora alcuna idea di ciò che può fruttare realmente l'agricoltura, noi li consigliamo di percorrere a piedi le circostanti campagne, e di studiarne la coltivazione.
     Osservino, ragionino cogli ortolani, e un mondo nuovo si dischiuderà al loro sguardo. Potranno così indovinare quel che sarà la coltivazione europea del ventesimo secolo, e comprenderanno di quale possanza sarà armata la Rivoluzione Sociale quando si conoscerà il segreto di prendere alla terra tutto ciò che le sia richiesto.
     Basteranno alcuni fatti a mostrare come le nostre affermazioni non siano punto esagerate. Ci preme solo di farle precedere da qualche osservazione generale.
     Sono note le misere condizioni dell'agricoltura in Europa. L'agricoltore se non è spogliato dal proprietario del fondo, lo è dallo Stato; lo Stato non modera le sue taglie, l'usuraio coi biglietti all'ordine lo riduce senz'altro ad essere il titolare di una proprietà sostanzialmente già passata nelle mani di una compagnia finanziaria.
     Il proprietario, lo Stato e il banchiere adunque, a mezzo della rendita, dell'imposta e dell'interesse svaligiano l'agricoltore. La somma della presa varia secondo i paesi; ma non è mai meno del quarto del prodotto lordo. In Francia, l'agricoltura versa allo Stato il 44 per cento di questo prodotto.
     V'ha di più. Appena che, con prodigi di lavorazione, d'invenzione o d'iniziativa, il coltivatore ha ottenuto raccolti più abbondanti, aumenterà in proporzione il tributo da pagarsi al proprietario, allo Stato e al banchiere. S'egli raddoppia il numero degli ettolitri raccolti sull'ettaro, l'affitto raddoppierà e «per conseguenza» l'imposta che lo Stato si affretterà ad aumentare ancora, ove i prezzi siano in aumento. E così di seguito. In poche parole l'agricoltore lavora dodici o sedici ore al giorno, e dappertutto i suoi tre avoltoi gli rapiscono quanto potrebbe mettere in serbo; dappertutto lo spogliano di ciò che gli darebbe agio a migliorare la sua coltivazione. Ecco perchè l'agricoltura rimane stazionaria.
     Sarà solo in forza di condizioni eccezionali, in seguito a contrasto fra i tre vampiri, dietro uno sforzo di intelligenza, o per un accrescimento di lavoro, che l'agricoltura riuscirà a progredire. E nemmeno abbiamo detto nulla dei tributi che ogni agricoltore paga all'industria. Ogni macchina, ogni vanga, ogni botte di concime chimico gli costano tre o quattro volte più del loro prezzo reale. Nè dobbiamo scordare l'intermediario, che preleva sui prodotti del suolo una parte da leone.
     Ecco perchè di tutto questo secolo d'invenzioni e di progresso, l'agricoltura non si è perfezionata che su zone ristrettissime, occasionalmente ed a sbalzi.
     Fortunatamente vi sono stati sempre piccoli lembi di terreno negletti per qualche tempo dagli avoltoi; e là s'impara ciò che l'agricoltura intensiva può dare all'umanità.
     Eccone alcuni esempi.
     Nelle praterie dell'America (le quali d'altronde danno miseri risaltati, da 7 a 12 ettolitri per ettaro e spesso periodiche siccità le guastano) cinquecento uomini, col solo lavoro di otto mesi, producono il nutrimento annuo di cinquantamila persone. Tale risultato si ottiene mediante una rilevante economia di mano d'opera. Su quelle vaste pianure dove l'occhio si perde, aratura, raccolto e battitura sono organizzati quasi militarmente; nessun inutile andirivieni, niuna perdita di tempo; tutto si compie coll'esattezza di una parata.
     Questo forma la grande coltivazione, la coltivazione estensiva, quella che occupa il suolo quale esce dalle mani della natura, senza curarsi di migliorarlo. Quando sarà esaurito, lo si abbandonerà e si cercherà altrove un'altra plaga vergine per sfruttarla alla sua volta.
     V'ha pure però la coltivazione intensiva, cui le macchine vengono e verranno sempre più in aiuto; essa mira sovratutto a ben coltivare uno spazio limitato, a concimarlo, ad emendarlo, a concentrare il lavoro ed ottenere la maggior rendita possibile. Questo modo di coltivazione s'allarga ogni anno, e mentre nel mezzodì della Francia, e sui fertili terreni dell'Ovest-Americano, si va lieti d'un raccolto medio di 10 a 12 ettolitri nella grande coltivazione, si raccolgono regolarmente 36 anche 50 e talvolta 56 ettolitri nel Nord della Francia. Così è che il consumo annuo di un uomo si ottiene sulla superficie di un dodicesimo di ettaro.
     E più si dà intensità alla coltivazione, «meno» si spende lavoro per ottenere l'ettolitro di frumento.
     La macchina sostituisce l'uomo nei lavori preparatori, e si fa, una volta per sempre, tale miglioria del suolo, quale in lavori di prosciugamento o di adattamento di terreni sassosi, che ogni raccolto successivo sarà raddoppiato. Talvolta, basta un'aratura profonda per ricavare da un terreno mediocre raccolti eccellenti d'anno in anno, senza mai concimarlo. L'esperienza ne è stata eseguita, durante venti anni, a Rothamstead, vicino a Londra.
     Non facciamo del romanzo agricolo. Sostiamo a questa raccolta di 40 ettolitri, la quale non richiede un terreno eccezionale, ma una semplice coltura razionale, e vediamo ciò ch'essa c'insegna.
     I 3.600.000 individui, dimoranti nei due circondari di Senna e di Senna e Oise, consumano ogni anno per il loro nutrimento un poco meno di 8 milioni di ettolitri di cereali, specialmente di grano. Nella nostra ipotesi, occorrerebbe dunque coltivare, per ottenere questo raccolto, 200.000 ettari sui 610.000 ch'essi possiedono.
     È cosa evidente ch'essi non li coltiverebbero alla vanga; ciò richiederebbe troppo tempo (240 giornate di 5 ore per ettaro). Migliorerebbero piuttosto il terreno una volta per sempre; prosciugherebbero i punti acquosi; spianerebbero le ondulazioni del suolo, ne spazzerebbero via le pietre - si dovessero pur consacrare a questo lavoro preparatorio cinque milioni di giornate di 5 ore, - cioè una media di venticinque giornate per ettaro.
     Quindi si dissoderebbe coll'aratro a vapore, ciò che importerebbe quattro giornate per ettaro, ed altre quattro giornate sarebbero dedicate all'aratura coll'aratro doppio. Non si farebbe uso di sementi prese a caso, ma si vaglierebbero con l'aiuto di stacci a vapore, e non si getterebbero ai quattro venti, ma si ripartirebbero in filari. E, con tutto ciò, non si sarebbero ancora impiegate venticinque giornate, di cinque ore, per ettaro, se il lavoro viene eseguito in favorevoli condizioni. Ma che per tre o quattro anni consecutivi, si impieghino quattro milioni di giornate ad una buona coltivazione, e si potranno aver poscia raccolti di 40 e di 50 ettolitri coll'impiego di metà appena del tempo di prima. La spesa si ridurrebbe quindi a quindici milioni di giornate per provvedere il pane a questa popolazione di 3.600.000 abitanti. E tutti i lavori sarebbero così facili che ognuno li compirebbe ancorchè non fosse munito di membra di acciaio, nè vi si fosse per l'addietro esercitato. L'iniziativa e la distribuzione generale dei lavori sarebbero date dai conoscitori del suolo. Quanto al lavoro stesso, non un parigino, non una parigina sono così fiacchi da non giungere, dopo qualche ora di esercizio, a sorvegliare le macchine, a contribuire ognuno per la sua parte, all'opera agraria.
     Ebbene, quando si pensa che nel caos attuale, vi sono, all'infuori dei disoccupati dell'alta finanza, pressochè centomila uomini respinti dal lavoro nei loro mestieri, chiaro s'appalesa come la forza d'azione «sciupata» nella nostra organizzazione attuale basterebbe da sola a dare una coltivazione razionale, il pane occorrente ai 3 o 4 milioni d'abitanti dei due circondari.
     Lo si ripete, questo non è un romanzo. E non si accennò neppure alla vera coltivazione intensiva, la quale ci porge risultati ben più sorprendenti. Non abbiamo parlato di quel grano (ottenuto in tre anni dal signor Hallet), di cui un chicco solo trapiantato, produsse una spica portante più di 1.000 grani, il che permetterebbe, al bisogno, che una famiglia di cinque persone ricavasse abbondante alimento sullo spazio di cento metri quadrati. Noi invece abbiamo appena citato ciò che si pratica già da molti affittaiuoli in Francia, in Inghilterra, nel Belgio, nelle Fiandre, ecc., - e che fin da domani potrebbe eseguirsi generalmente, appoggiandosi all'esperienza e al sapere già acquisiti per la pratica.
     Ma senza la rivoluzione ciò non avverrà nè domani, nè poi, perchè i detentori del suolo e del capitale non vi hanno alcun tornaconto, e i contadini, che ve l'avrebbero, non hanno nè istruzione, nè denaro, nè tempo per provvedere alla riuscita.
     La società attuale non è ancora a quest'altezza. Ma proclamino i parigini la Comune anarchica, e vi giungeranno senza fallo, imperocchè essi non commetteranno la sciocchezza di continuare a fabbricar gingilli di lusso (che a Vienna, a Varsavia e a Berlino si fabbricano con arte pari alla loro) e non si esporranno così a rimaner senza pane.
     D'altronde, il lavoro agricolo, coll'aiuto delle macchine, sarà in breve la più attraente e la più dilettevole di tutte le occupazioni.
     Bando ai gioielli! Bando alle vesti da bambola! Si vada a ritemprarsi nel lavoro dei campi, a cercarvi il vigore, le impressioni della natura, «la gioia di vivere», che si erano offuscate e perdute nei tetri laboratori della città!
     Nel medio evo i pascoli alpini, meglio degli archibugi avevan permesso agli Svizzeri di emanciparsi dai signori e dai re. L'agricoltura moderna permetterà alla città insorta di affrancarsi dalle borghesie coalizzate.


III.

     Abbiam visto in che modo i tre milioni e mezzo di abitanti dei due circondarii, (Senna e Senna e Oise) troverebbero largamente il pane necessario, col coltivare appena il terzo del loro territorio. Passiamo ora al bestiame.
     Gl'inglesi, forti mangiatori di carne, ne consumano in media un po' meno di cento chilogrammi per ogni individuo adulto e per anno; supposto che tutte le carni impiegate siano di bue, ciò importa un po' meno di un terzo di bue. Un bue per anno per cinque persone (i bimbi compresi), forma già una razione sufficiente. Una popolazione di tre milioni e mezzo d'individui consumerebbe adunque annualmente 700.000 capi di bestiame.
     Ebbene, al dì d'oggi, col sistema del pascolo è d'uopo a poco dire, di riservare due milioni di ettari al mantenimento di 660.000 capi di bestiame.
     Eppure, con prati mediocremente irrigati da acqua di sorgente (quali si fecero recentemente su parecchie migliaia di ettari nel Sud-Ovest della Francia) bastano già 500.000 ettari. Ma colla coltivazione intensa seminando la barbabietola e servendosene come alimento, non occorre più che un quarto di tale spazio, cioè 125.000 ettari. Ma se si ricorre al grano turco e, come fanno gli arabi, si adotta la sua custodia nel silo, ossia nel suolo scavato, si ottiene tutto il foraggio necessario sovra una superficie di 88.000 ettari.
     Nei pressi di Milano, ove le acque delle fogne sono utilizzate all'irrigazione dei prati, sovra una superficie di 9.000 ettari si mantengono da 4 a 6 bestie a corna per ogni ettaro; e sovra alcuni appezzamenti fecondissimi, si giunge a raccogliere fino a 45 tonnellate di fieno sovra un ettaro, sufficienti al mantenimento annuo di nove vacche da latte. Tre ettari per ogni capo di bestiame in pastura, e nove buoi e vacche sopra un ettaro, tali gli estremi dell'agricoltura moderna.
     Nell'isola di Guernesey, sovra un totale di 4.000 ettari utilizzati, la metà quasi (1.900 ettari) è coperta di cereali e ortaglie; restano appena 2.100 ettari per le praterie e su questi 2.100 ettari si mantengono 1.480 cavalli, 7.260 capi di bestiame, 9.000 montoni e 4.200 maiali, il che corrisponde a più di tre capi di bestiame per ettaro, senza tener conto dei cavalli, dei montoni e dei porci. Inutile aggiungere che la fertilità del suolo è «fatta» mediante ingrasso di feci e di concimi chimici.
     Ritornando ai nostri tre milioni e mezzo di abitanti agglomerati in Parigi, si vede che la superficie necessaria all'allevamento del bestiame diminuisce da 2.000.000 di ettari ad 80.000. Ebbene, non soffermiamoci alle cifre minori; prendiamo quelle della coltivazione intensiva ordinaria; aggiungiamo largamente il terreno necessario al piccolo bestiame, 200.000, se si vuole, sui 410.000 ettari che ci rimangono, dopo aver provveduto al pane necessario agli abitanti.
     Siamo generosi, ed accordiamo cinque milioni di giornate per mettere tale spazio di terreno in produzione.
     Dunque, dopo aver impiegato, durante l'anno, venti milioni di giornate di lavoro, delle quali la metà per miglioramenti permanenti, noi avremo assicurato il pane e la carne, non compresa tutta la carne supplementare che si può ottenere sotto forma di pollame, maiali da macello, conigli, ecc., senza contare che una popolazione provvista di eccellenti legumi e di frutta, consumerà molto meno carne che l'Inglese, il quale supplisce col nutrimento animale alla scarsità del suo regime vegetale. Però a che si riducono per ogni abitante questi venti milioni di giornate di 5 ore? - A ben poco davvero. - Una popolazione di tre milioni e mezzo ha, per lo meno 1.200.000 uomini adulti capaci di lavorare ed altrettante donne. Ebbene, per assicurare a tutti pane e carne, non occorreranno più di 17 giornate di lavoro per anno, per gli uomini soli. Aggiungetevi tre milioni di giornate di lavoro per avere il latte. Raddoppiatele, se vi piace. In tutto non si raggiungono le 25 giornate di 5 ore, - un vero trastullo nei campi - per provvedersi dei tre prodotti principali: pane, carne e latte; questi tre prodotti i quali, dopo l'alloggio, formano la principale preoccupazione quotidiana dei nove decimi dell'umanità.
     E pure, - non ci stanchiamo dal ripeterlo, - questo non è un romanzo, Abbiamo raccontato ciò che è, ciò che si fa già in grandi proporzioni, ciò che fu sanzionato dalle esperienze eseguite su vasta scala. L'agricoltura potrebbe «fin da domani» essere riorganizzata su questi dati ove non vi si opponessero le leggi della proprietà e la generale ignoranza.
     Il giorno in cui Parigi avrà compreso che sapere ciò che si mangia e come lo si produce è questione d'interesse pubblico; il giorno in cui ogni individuo avrà capito che questa questione è di gran lunga più importante delle discussioni del parlamento o dei consigli municipali, in tal giorno la Rivoluzione sarà fatta, Parigi prenderà le terre dei due dipartimenti e le coltiverà. Ed allora, dopo aver dato, durante tutta la sua esistenza per «acquistare» un nutrimento scarso e cattivo, il Parigino lo produrrà da sè sotto le sue mura, nel recinto delle fortezze (se esisteranno ancora) in poche ore di lavoro piacevole e salubre.
     E adesso passiamo ai frutti ed ai legumi. Usciamo da Parigi e andiamo a visitare uno di quegli stabilimenti di coltivazione orticola che fanno, a pochi chilometri dalle accademie, prodigi ignorati dai dotti in economia. Fermiamoci ad esempio dal signor Ponce, l'autore di un lavoro sull'orticoltura, che non nasconde quanto la terra gli frutta ed anzi si compiace nel raccontarlo diffusamente.
     Il signor Ponce, e massimamente i suoi operai, lavorano indefessamente, come negri. Sono in otto a coltivare un po' più di un ettaro (undici decimi). Lavorano di certo 12 e 15 ore per giorno, cioè tre volte più di quanto abbisogna. Fossero in ventiquattro non sarebbero in troppi, al che il signor Ponce ci risponderà probabilmente che, poichè paga la somma spaventosa di 2.500 franchi per anno di rendita e d'imposte per i suoi 11.000 metri quadrati di terra, e 2.500 lire pel concime acquistato nelle caserme, egli è costretto a sfruttare altri. «Sfruttato, io sfrutto a mia volta», sarebbe probabilmente la sua risposta. Per stabilirsi gli sono occorse 30.000 lire, delle quali certo più della metà per contribuzioni ai baroni fannulloni dell'industria. Insomma il suo stabilimento rappresenta al più 3.000 giornate di lavoro, probabilmente molto meno.
     Ma osserviamo i suoi raccolti: 10.000 chili di carote, 10.000 chili di cipolle, di radici ed altri piccoli legumi, 6.000 teste di cavoli, 3.000 cavolfiori, 3.000 canestri di pomidori, 3.000 dozzine di frutti scelti, 154.000 teste d'insalata, in breve, un totale di 125.000 chilogrammi di legumi e di frutti sullo spazio di un ettaro ed un decimo; 110 metri in lungo e 100 in largo, il che importa oltre «110 tonnellate di legumi per ettaro».
     Ma un uomo non consuma più di 300 chili di legumi e di frutti in un anno, e l'ettaro dell'ortolano dà legumi e frutti bastanti per servire riccamente la tavola di 350 adulti pel corso di un anno. Così 24 persone impiegate un anno intero alla coltivazione di un ettaro di terreno, ma coll'opera di cinque ore per giorno appena, bastano alla produzione dei legumi e frutti per 350 adulti, il che corrisponde almeno a 500 individui.
     In altre parole, coltivando come fa il signor Ponce - e v'ha chi lo ha sorpassato - 350 adulti avrebbero solo da impiegare poco più di 100 ore nell'anno (103) per provvedere i legumi e frutti necessari a 500 individui. Osservisi che siffatta produzione non è punto eccezionale. La si ottiene sotto le mura di Parigi sovra una superficie di 900 ettari da 5.000 ortolani. Il guaio è che questi ortolani sono ridotti allo stato di bestie da soma per pagare «una rendita media di duemila franchi per ogni ettaro».
     Ma questi fatti, facili ad appurarsi da chicchesia, non provano dessi che 7.000 ettari (sui 210.000 che ci rimangono) basterebbero per fornire tutti i legumi possibili, nonchè una copiosissima provvista di frutta, ai tre milioni e mezzo di abitanti dei nostri due circondari?
     In quanto alla quantità di lavoro necessario per produrre questi frutti e questi legumi, essa raggiungerebbe la cifra di 50 milioni di giornate di 5 ore (50 giornate per adulto maschio) se noi pigliassimo per termine di misura il lavoro dell'ortolano. Ma vedremo tra poco questa quantità ridursi ancora coi sistemi adottati a Jersey e a Guernesey. Ricorderemo solo che l'operaio è forzato a lavorare tanto, a cagione del dover produrre specialmente delle primizie, il cui prezzo è favolosamente elevato, e i cui metodi di coltivazione richiedono più lavoro di quanto realmente non ne occorra. Privo di mezzi per spendere largamente al suo installarsi, obbligato a pagare a caro prezzo i vetri, il legname, il ferro ed il carbon fossile, egli chiede al concime il calore artificiale che si ottiene a minor dispendio col carbon fossile e la serra calda.


IV.

     Gli ortolani, dicevamo, sono costretti a ridursi allo stato di macchine e a rinunciare a tutte le gioie della vita per raggiungere i loro sorprendenti raccolti. Ma questi infaticabili zappatori, resero all'umanità un immenso servizio coll'insegnarci a «fare» il terreno.
     Lo fanno essi cogli strati di concime già utilizzati per dare alle giovani piante il calore necessario. Fanno il suolo in tanta abbondanza che sono costretti di venderne qualche poco, altrimenti i loro giardini si alzerebbero ogni anno di due o tre centimetri. Lo fanno sì bene (ce lo insegna Barral, nel suo «Dizionario di Agricoltura», all'articolo «Ortolani») che nei contratti recenti, l'operaio stipula, «ch'egli porterà seco il suo suolo», allo scader della sua locazione. Il suolo trasportato sovra carri, coi mobili e le impannate - ecco la risposta data dai coltivatori pratici alle elucubrazioni di un Ricardo, il quale rappresentava la rendita come un mezzo di pareggiare le naturali risorse del suolo. «Il suolo vale ciò che l'uomo vale», tale è la divisa dei giardinieri.
     E pure gli ortolani di Parigi e di Rouen faticano tre volte più dei loro fratelli di Guernesey e d'Inghilterra per ottenere gli stessi risultati. Coll'applicazione dell'industria all'agricoltura, questi ultimi, oltre a «fare» il suolo, «fanno» anche il clima.
     Infatti tutta la coltura orticola è basata su questi due principi:
     1° - Seminare, sotto impannate, allevare le giovani piante in un terreno ubertoso, in uno spazio limitato, ove sia facile di curarle e quindi di trapiantarle, quando abbiano ben sviluppato le filamenta delle loro radici. Fare, infine, ciò che si pratica per gli animali: curarli mentre sono in tenera età.
     2° - Per ottenere primizie, scaldare la terra e l'aria, coprendo le piante con impannate e campane di vetro, e producendo nel suolo un forte calore colla fermentazione del concime.
     Trapiantamento e temperatura più alta di quella dell'aria, ecco l'essenza della coltivazione orticola, appena il suolo è «fatto» artificialmente.
     Come l'abbiam visto, la prima di queste due condizioni fu già praticata e richiede solo qualche perfezionamento nei particolari. Per realizzare la seconda trattasi di riscaldar l'aria e la terra sostituendo il concime coll'acqua calda circolante in tubi di ferro fuso, sia nel suolo sotto le impannate, sia nell'interno delle serre calde.
     Ciò che già fu messo in pratica. L'ortolano parigino chiede già al «termosifone» il calore che prima chiedeva al concime. E il giardiniere inglese costruisce la serra calda.
     Una volta la serra calda era il lusso del ricco; era riservata alle piante esotiche o d'ornamento. Oggi essa si volgarizza. Ettari intieri sono coperti di vetro nelle isole di Jersey e Guernesey, senza contare le migliaia di piccole serre che si vedono a Guernesey in ogni piccola masseria, in ogni giardino. Nei dintorni di Londra si cominciano a coprire di vetro campi intieri, e migliaia di piccole serre calde si installano ogni anno nei sobborghi.
     Se ne costruiscono in ogni guisa, dalla più superba coi muri di pietra, fino alla più modesta con assi di pino e tetto di vetro, la quale, a dispetto di tutte le sanguisughe capitaliste, non costa più di 4 o 5 lire il metro quadrato. Si riscaldano o no (basta il riparo, se non si mira a produrre primizie), e vi raccolgono, se non uva e fiori tropicali, patate, carote, piselli e fagiuoli freschi.
     Questo è un emanciparsi dal clima. Il lavoro faticoso degli strati non occorre più; si economizza l'acquisto del concime che rincarisce in proporzione delle maggiori domande, e si sopprime in parte il lavoro umano: sette od otto uomini bastano a coltivare l'ettaro sotto vetro e raccolgono quanto il signor Ponce. A Jersey, sette uomini, con un lavoro minore di 60 ore per settimana, ottengono su spazi minuscoli, raccolti che prima richiedevano ettari di terreno.
     Si potrebbero dare, a questo proposito, particolari sorprendenti. Limitiamoci ad un esempio. A Jersey, 34 uomini di fatica ed un giardiniere, coltivando poco più di 4 ettari sotto vetri (mettiamo 70 uomini col lavoro di 5 ore al giorno) ottengono anno per anno i raccolti seguenti: 25.000 chili di uva vendemmiata fina dal 1° maggio, 80.000 chili di pomodori, 30.000 chili di patate in aprile, 6.000 chili di piselli e 2.000 chili di fagiuoli freschi raccolti in maggio, cioè 143.000 chili di frutti e di legumi, senza contare un secondo raccolto in certe serre, nè un'immensa serra per prodotti di diletto, nè molte altre piccole coltivazioni in piena terra fra le serre calde.
     Tonnellate 143 di frutti primaticci! Tanto da soddisfare ampiamente più di 1.500 persone per un anno intiero; e ciò coll'impiego di 21.000 mezze giornate di lavoro; cioè «210 ore per anno» date dalla metà degli adulti.
     Aggiungetevi l'estrazione di 1.000 tonnellate circa di carbone (è quanto si consuma annualmente in quelle serre onde riscaldare 4 ettari); e, l'estrazione media essendo in Inghilterra di tre tonnellate per giorno di dieci ore e per operaio, ciò importa un lavoro supplementare di sei o sette ore per anno per ognuno dei cinquecento adulti.
     Tutto sommato, ove la metà sola degli adulti desse cinquanta mezze giornate per anno alla coltivazione dei frutti e dei legumi «fuori stagione,» tutti potrebbero mangiare a sazietà frutti e legumi di lusso, quand'anche non si ottenessero se non in serra calda. E tutti avrebbero, in pari tempo, quale secondo raccolto nelle stesse serre, la maggior parte dei legumi soliti, i quali negli stabilimenti pari a quello del signor Ponce, richiedono, l'abbiamo visto, cinquanta giornate di lavoro.
     Abbiamo rivolto la nostra attenzione alla coltivazione di lusso. Ma abbiamo già avvertito che ormai si tende a fare della serra calda una pura ortaglia sotto vetro. E quando la si applica a questo uso, si ottengono coi ripari di vetro semplicissimo, riscaldati leggermente durante tre mesi, dei raccolti favolosi in legumi; per esempio 450 ettolitri di patate su un ettaro, come primo raccolto alla fine di aprile. Dopo, ripulito il suolo, si fanno crescere nuovi raccolti, dal maggio alla fine di ottobre, in una temperatura pressochè tropicale, dovuta al riparo di vetro.
     Oggi per ottenere 450 ettolitri di patate è d'uopo lavorare ogni anno una superficie di 20 ettari o più, piantare e più tardi rincalzare le piante, strappare le cattive erbe colla zappa, e così di seguito. Si sa quanta fatica ciò costi. Per il riparo di vetro s'impiegherà forse, in principio, una mezza giornata di lavoro per metro quadrato; ma, tale opera compiuta, si economizza la metà, se non i tre quarti del lavoro successivo.
     Ecco dei «fatti», ecco i risultati ottenuti, verificati, ormai noti, di cui ciascuno può convincersi visitando quelle coltivazioni. E questi fatti, non bastano essi per dar la misura di ciò che l'uomo può ottenere dal suolo se lo coltiva e lo cura con intelligenza?


V.

     In tutti i nostri ragionamenti noi abbiamo calcolato sulla scorta di precedenti già accettati ed in parte messi in pratica. La coltivazione intensiva dei campi, le pianure irrigate dagli scoli delle fogne, l'orticoltura, l'ortaglia infine sotto vetro, sono realtà esistenti. Come Leonzio di Lavergne l'aveva preveduto trent'anni fa, la tendenza dell'agricoltura moderna consiste nel ridurre quanto è possibile lo spazio coltivato, nel creare suolo e clima, nel concentrare il lavoro e nel riunire tutte le condizioni necessarie alla vita delle piante.
     Questa tendenza è sorta dal desiderio di realizzare larghi compensi sulla vendita delle primizie. Ma dacchè i processi di coltivazione intensiva si sono trovati, si generalizzano e si estendono ai legumi più comuni, perchè permettono di procurarsi «maggior copia» di prodotti con «minor» lavoro e maggior sicurezza.
     Infatti, dopo avere studiato i più semplici ripari di vetro di Guernesey, noi affermiamo che, tutto sommato, si spende «molto minor» lavoro per ottenere sotto vetro, in aprile, delle patate, di quanto se ne spende per averne il raccolto tre mesi dopo, all'aria aperta, vangando uno spazio cinque volte più grande, irrigandolo, liberandolo dalle cattive erbe, ecc. E la stessa cosa si verifica per gli utensili e per le macchine. Si economizza sul lavoro, facendo uso di un utensile o di una macchina, benchè occorra una spesa preventiva per farne l'acquisto.
     Ci mancano ancora cifre complete sulla coltivazione sotto vetro dei legumi comuni. Essa è da poco in uso, e non la si esperimenta che su piccola scala; però possediamo delle cifre riguardanti la coltivazione, già da trent'anni in esercizio, di un frutto di lusso, l'uva: e queste cifre sono concludenti.
     Nel nord dell'Inghilterra, sulla frontiera scozzese, dove il carbone non costa che 4 lire per tonnellata alla buca del pozzo, si coltiva da un pezzo l'uva in serra calda. Trent'anni fa, queste uve, mature in gennaio, si vendevano dall'agricoltore, al prezzo di 25 lire la libbra e si rivendevano sui mercati a 50 lire, per la tavola di Napoleone III. Oggi il medesimo produttore non le vende più di 3 lire la libbra. Egli stesso ce lo apprende in un recente articolo di un giornale d'agricoltura. Ciò proviene dal fatto che adesso si spediscono tonnellate su tonnellate di uva a Londra e a Parigi. Mercè il tenue prezzo del carbone, ed una coltivazione intelligente, l'uva cresce in inverno al Nord e passa al Mezzogiorno, con un movimento inverso a quello degli altri frutti ordinari. In maggio le uve inglesi e quelle di Jersey sono vendute dai giardinieri al prezzo di due lire per libbra; e anche questo prezzo come quello di 50 lire di trent'anni fa, non si mantiene che per la debolezza della concorrenza. In ottobre le uve coltivate in quantità immensa nei dintorni di Londra, - sempre sotto vetro, ma con un poco di riscaldamento artificiale - si vendono allo stesso prezzo delle uve comprate a libbre nei vigneti della Svizzera o del Reno, cioè per pochi soldi. Prezzo di due terzi troppo elevato in confronto dell'eccessiva rendita del suolo, delle spese d'installazione e di riscaldamento, per le quali il giardiniere paga all'industriale ed all'intermediario un canone eccessivo. Ciò spiegato si può dire che non costa «quasi nulla» aver in autunno delle uve sotto la latitudine e nel clima nebbioso di Londra. In uno dei suoi sobborghi, ad esempio, un povero riparo di vetro e di gesso, appoggiato ad una casetta, lungo tre metri su due di larghezza, dà in ottobre, ogni anno, da tre anni, quasi 50 libbre d'uva squisitissima. Il raccolto si fa sovra un ceppo di vite di 10 anni(32), ed il riparo è così meschino che vi piove sopra. Nella notte la temperatura uguaglia la temperatura esterna. Evidente è che non lo si riscalda; tanto varrebbe scaldare la via! E le cure da prodigare si risolvono nel potare la vite, mezz'ora di lavoro all'anno; nel portare una carrettata di concime al piede del ceppo piantato nell'argilla fuori del riparo.
     Se si computa, d'altra parte, le attente cure riservate alla vigna sulle sponde del Reno o del Lemano, le terrazze costruite in macigno sui declivi dei poggi, il trasporto del concime e spesso della terra ad un'altezza di due o trecento piedi, si giunge alla conclusione che, tutto sommato, la spesa del lavoro necessario alla coltivazione della vigna è maggiore in Svizzera e sulle rive del Reno che non sia sotto vetro nei sobborghi di Londra.
     Ciò parrebbe paradossale di primo acchito, perchè si pensa generalmente che la vigna cresce da sè nel mezzodì d'Europa e che l'opera del viticultore nulla costa. Ma giardinieri e orticultori, lungi dallo smentire, confermano le nostre affermazioni. «La coltivazione più profittevole in Inghilterra è quella della vigna», dice un giardiniere pratico, il redattore del giornale di orticoltura. I prezzi d'altronde lo si sa, hanno la loro eloquenza.
     Traducendo questi fatti in linguaggio comunista, noi possiamo affermare che l'uomo o la donna, che toglieranno ai loro agi una «ventina d'ore per anno» per dare alcune cure - in fondo dilettevolissime - a due o tre ceppi di vite ricoperti di un semplice vetro, in qualsiasi clima d'Europa, raccoglieranno tanta uva quanta se ne mangerà in famiglia e fra amici. E ciò si applica non solo ai prodotti della vite, ma a quelli di tutte le piante fruttifere acclimate.
     Qualunque Comune praticherà in grande i processi della piccola coltivazione e otterrà tutti i legumi possibili, indigeni ed esotici, e tutti i frutti desiderabili, senza impiegare più di alcune diecine di ore per anno e per individuo.
     Sono fatti facili a verificarsi in qualunque momento. Basterebbe che un gruppo di lavoratori sospendesse per qualche mese la produzione di alcuni oggetti di lusso, e desse il suo tempo alla trasformazione di cento ettari della pianura di Gennevilliers(33) in una serie di giardini ad ortaggio, ognuno colla sua dipendenza di ripari di vetro scaldati, per vivai e le giovani piante; ch'egli coprisse inoltre cinquanta ettari di serre calde economiche, per ottener frutta, lasciando ben inteso la cura dei particolari di organizzazione ai giardinieri ed agli ortolani già innanzi nelle loro esperienze.
     Pigliando a base la media di Jersey, in cui necessita un lavoro di 7 od 8 uomini per ettaro sotto vetro - il che importa meno di 24.000 ore di lavoro all'anno - le opere da farsi in questi 100 ettari piglierebbero in circa ogni anno 3.600.000 ore di lavoro. Cento giardinieri abili darebbero per questo lavoro cinque ore per giorno, ed il rimanente sarebbe eseguito dagli altri, i quali senza essere giardinieri di mestiere, saprebbero servirsi della vanga, del rastello, della inaffiatrice, ovvero sorveglierebbero i fornelli.
     Questo lavoro frutterebbe, a poco dire, - come abbiam visto nel precedente capitolo - quanto è di necessità e di lusso in fatto di frutti e di legumi per 75.000 od anche 100.000 persone almeno. Ammetterete facilmente che s'incontrino, fra questi, 36.000 adulti inclini al lavoro dell'ortaglia. Ognuno avrebbe dunque da dedicare cento ore per anno da ripartirsi su tutta l'annata. Queste ore di lavoro sarebbero ore di ricreazione trascorse fra amici, coi ragazzi, in stupendi giardini, più ameni probabilmente di quelli della leggendaria Semiramide(34).
     Ecco il bilancio delle fatiche da compiere per mangiare a sazietà dei frutti di cui oggi ci priviamo, e per avere in abbondanza tutti i legumi che la madre di famiglia ripartisce con tanta parsimonia, quando le è d'uopo misurare il soldo col quale si arricchisce colui che vive di rendita ed il proprietario vampiro.
     Ah! se l'umanità avesse solo la coscienza di ciò che essa «può», e se tale coscienza le desse forza «a volere»!
     S'essa sapesse che la «codardia dello spirito» è lo scoglio contro il quale tutte le rivoluzioni fino ad oggi si sono infrante!


VI.

     È facile percepire i nuovi orizzonti che la prossima Rivoluzione Sociale dischiuderà.
     Ogni volta che noi parliamo della Rivoluzione, il lavoratore serio che ha visto tanti bambini privi di nutrimento, aggrotta le ciglia e ci ripete ostinatamente: - «E il pane? Non ne mancherà forse, se tutti vorranno mangiarne sino a saziarsi? E se la campagna ignorante, eccitata dalla reazione, affama la città, come fecero nel 1793 le bande nere della Vandea e delle altre provincie francesi - che cosa accadrà?».
     Che la campagna si provi a farlo! Le grandi città non avranno alcun bisogno d'essa. Infatti, in che cosa s'impiegheranno quelle centinaia di migliaia di lavoratori che oggi soffocano d'asfissia nei piccoli laboratori e nelle manifatture, il giorno in cui saranno rivendicati a libertà? Continueranno dessi, anche dopo la rivoluzione, a rimanere rinchiusi nelle officine? Continueranno a fabbricare ninnoli di lusso per l'esportazione, quando vedran forse il grano esaurirsi, la carne farsi sempre più rara, i legumi sparire senza essere riforniti?
     Certamente no! Usciranno dalla città e anderanno nei campi! Aiutati dalla macchina che anche ai più deboli fra noi permetterà di arrecare il nostro contributo all'opera sociale, essi porteranno la rivoluzione nella coltivazione di un passato avvinto alla schiavitù, come l'avran già portato e nelle istituzioni e nelle idee.
     Così, qua centinaia di ettari si copriranno di ripari di vetro, e l'uomo e la donna dalle dita delicate dedicheranno le loro cure intorno alle giovani piante. Altrove, altre centinaia di ettari saranno lavorati dall'aratro a vapore, ingrassati con concimi o arricchiti di uno strato artificiale ottenuto per mezzo di roccie polverizzate. Le allegre legioni di questi coltivatori di occasione faran sorgere su questi campi una messe ricchissima; e nelle loro esperienze avran per guida precipua, oltre a coloro che nell'agricoltura sono versati, sovrattutto lo spirito grande e pratico di un popolo destatosi da un lungo sonno, e illuminato e diretto da quel faro luminoso che è la felicità universale.
     Ed in due o tre mesi i raccolti affrettati corrisponderanno ai bisogni più urgenti col provvedere la nutrizione ad un popolo che, dopo tanti secoli d'aspettativa, sarà finalmente in istato di satollarsi.
     Di tanto in tanto il genio popolare, genio di popolo che si ribella e conosce i suoi bisogni, s'addentrerà nell'esperimento dei nuovi mezzi di coltivazione già previsti e non richiedenti che il battesimo dell'esperienza per generalizzarsi. Si esperimenterà la luce - questo agente disconosciuto della coltivazione, che fa maturare l'orzo in 45 giorni sotto la latitudine di Yakoutsk; - concentrata od artificiale, la luce sarà la rivale del calore per affrettare la crescenza delle piante. Un Mouchot futuro inventerà la macchina guidatrice dei raggi solari e li farà lavorare, senza che s'abbia da ricercare nella profondità della terra il calore solare immagazzinato nel carbon fossile. Si esperimenterà la irrigazione del suolo con coltivazioni di micro-organismi, idea tanto razionale, nata da ieri, per mezzo della quale si daranno al suolo le piccole cellule viventi necessarie alle piante, sia per alimentare le piccole radici, sia per decomporre e render assimilabili le parti costitutive del suolo.
     Si esperimenterà... ma non spingiamoci troppo oltre; si giungerebbe alle regioni romanzesche. Atteniamoci alla realtà dei fatti acquisiti. Coi processi di coltivazione già in uso, applicati su vasta scala, usciti fin d'ora vittoriosi nella lotta contro la concorrenza mercantile, noi possiamo darci comodi e lusso, in compenso d'un lavoro gradito. Un prossimo avvenire c'insegnerà quanto vi ha di attuabile nelle future conquiste che le recenti scoperte scientifiche ci fanno prevedere.
     Limitiamoci per ora ad inaugurare la nuova via consistente nello studio dei bisogni e nei mezzi di conseguirli. Una sola cosa manca alla rivoluzione: l'arditezza dell'iniziativa.
     Abbrutiti dalle nostre istituzioni fin dall'infanzia, asserviti al passato nell'età virile, fino alla tomba, non osiamo quasi pensare. Un'idea novella si fa strada? Prima di formarcene un'opinione, andiamo a consultare la vecchia scienza di cent'anni fa per sapere ciò che i maestri d'allora ne pensassero.
     Se l'arditezza del pensiero e l'iniziativa non faranno difetto, i viveri non verranno meno.
     Fra tutte le più grandi giornate della grande Rivoluzione, la più bella, la più grande, che rimarrà per sempre impressa nelle menti, fu quella in cui i federati, accorsi da ogni dove, lavorarono la terra del Campo di Marte per preparare la festa.
     In quel giorno la Francia fu «una»; invasa dallo spirito nuovo, essa previde l'avvenire nel lavoro in comune della terra.
     E sarà ancora dal lavoro in comune della terra che le società affrancate ritroveranno la loro unità e cancelleranno gli odii, le oppressioni, dalle quali furono divise.
     Atta ormai a capire la solidarietà, questa forza immensa che centuplica l'energia e le forze creatrici dell'uomo camminerà alla conquista dell'avvenire con tutto il vigore della giovinezza.
     Non producendo più per compratori sconosciuti, e ricercando nel suo seno stesso bisogni e piaceri da soddisfare la società assicurerà largamente la vita e l'agiatezza a ciascuno dei suoi membri, nello stesso tempo che infonderà ad essi la soddisfazione morale che procura il lavoro liberamente scelto e liberamente compiuto, e la gioia di poter vivere senza dover la vita agli stenti degli altri. E tutti, ispirati da un'audacia novella che il sentimento della solidarietà susciterà in essi, procederanno alla conquista degli squisiti godimenti del sapere e della creazione artistica.
     Una società così fatta non dovrà temere nè discordie all'interno, nè nemici all'esterno. Essa opporrà alle coalizioni del passato il suo amore per l'ordine nuovo, l'iniziativa audace di ciascuno e di tutti, e la forza che il risveglio del genio renderà in essa gigantesca.
     Dinanzi a questa forza irresistibile, i «re congiurati» nulla potranno. Essi dovranno curvare il capo, e aggiogarsi al carro dell'Umanità, sospinto verso i nuovi orizzonti, che la Rivoluzione Sociale dischiude.
     
    Note
    

         (1) L'inno imperiale russo: «Viva lo czar signore». Una volta per tutte, ricordiamo al lettore di riportarsi col pensiero al tempo in cui prefazioni e testo furono scritti. (N. dell'E.)
         (2) I rosa-croce (rose-croix) formavano in Francia una conventicola di mattoidi, oscillanti tra il misticismo e la mistificazione, i quali hanno costituito un ordine, o specie di nuova religione, sotto la direzione del loro fondatore, lo scrittore Sar Peladan, uno strano tipo di squilibrato, di pensatore e di scrittore, dotato però d'ingegno vivace e brillante.
         (3) Sakyamouni, uno degli antichissimi sacerdoti del dio indiano Budda, del quale si hanno libri e documenti sulla dottrina buddistica. N. d. T.
         (4) Una vasta località di Parigi dove s'innalzarono gli edifici della Esposizione Universale del 1889, alla quale l'Autore allude. N. d. T.
         (5) Seguin, francese, nato nel 1820, morto a New York, celebre medico chirurgo, il quale si distinse specialmente per la cura di alcune malattie mentali, e dell'idiotismo dei fanciulli in particolare; Mayer Edoardo, tedesco del Württemberg, nato nel 1814, ingegnere e scienziato, resosi celebre per la scoperta dell'equivalente meccanico del calore; Grove Guglielmo, inglese, elettricista, professore di fisica, che ha scoperto una potente batteria elettrica la quale porta il suo nome. N. d. T.
         (6) Watt, celebre fisico scozzese del XVIII secolo, nato nel 1736, che fece molte invenzioni tutte in rapporto colla forza motrice. N. d. T.
         (7) Naturalmente, come in tutto ciò che è barbarie, inciviltà, regresso e reazione, il felice regno d'Italia occupava il primo posto anche nella deficienza di produzione frumentaria. Infatti, secondo le statistiche del Prof. Virgili (Statistica, ed. Hoepli, 1898, Milano) ecco la media di raccolto del frumento per ogni ettaro, nei singoli Stati d'Europa: Italia, 10 ettolitri; Austria, 15; Francia, 16; Ungheria, 17; Germania, 18; Svezia, 19; Inghilterra, 26; Danimarca, 26; Olanda, 27.
         (8) I «fellah» la classe più povera, più abbietta ed inferiore dell'Egitto. Prototipo del proletariato, dello sfruttato. N. d. T.
         (9) Watrin, direttore di una miniera di carbone, a Decazeville nel sud della Francia, il quale opprimeva gli operai da lui dipendenti in modo crudele. Nel 1886 in occasione di uno sciopero, gli operai ribellatisi lo inseguirono fin entro alla sua casa, e afferratolo di peso, lo gettarono dalla finestra. D'allora in Francia è venuto in uso il verbo «watriner» sinonimo del verbo «lynch» inglese, quando si allude ad atti di vendetta popolare.
      Clement Thomas, generale dell'impero, che fu fucilato a Parigi dai Comunardi, insieme con l'altro generale Lecomte, il 18 marzo 1871. Il popolo, che non dimentica, volle vendicarsi della repressione feroce del 1848, nella quale i due eroi gallonati gavazzarono nel sangue popolare. N. d. T.
         (10) Marx distingue due valori, quello di uso e quello di scambio. Il primo è basato sulle qualità proprie della merce stessa, la quale è per quelle sue qualità destinata a soddisfare il tale e non il tal'altro bisogno nostro. Il valore di scambio, che per Marx è il vero valore propriamente detto, è quello che ci permette di scambiare merci diverse fra di loro in date proporzioni. La base del valore di scambio è per Marx la quantità di lavoro umano richiesto per la produzione. Se la quantità di lavoro che è stata necessaria per fabbricare un paio di scarpe (scuoiamento dell'animale, conciatura della pelle, lavoro del calzolaio, del fabbricante di filo, chiodi, ecc.) è uguale, per esempio, a quella che è stata necessaria per la fattura di un paio di pantaloni (tosatura di lana, tessitura, lavoro del sarto, ecc.) le due merci hanno uguale valore e sono teoricamente adatte allo scambio. N. d. T.
         (11) Ed è logico. Poichè, quando gli strumenti di lavoro fossero di proprietà comune, sarebbero i lavoratori che retribuirebbero se stessi! Ciò che sarebbe assurdo. N. d. T.
         (12) La Svizzera è il paese più progredito sotto questo rapporto. Essa distribuisce biglietti di abbonamento per 15 giorni, un mese, tre, sei e un anno a un prezzo relativo secondo la classe e la durata, i quali permettono di viaggiare per tutto il tempo dell'abbonamento, su tutte le linee ferroviarie svizzere, anche per tutte le 24 ore del giorno, se si vuole. Il prezzo di questi abbonamenti è mitissimo.
         (13) Nel suo opuscolo, «L'Individualismo nell'Anarchismo», Merlino fa un'obbiezione di fatto, che a me pare non regga, a questo concetto di Kropotkine. Infatti egli dice ironicamente che non vi è alcuna ragione di far pagare il doppio, «tranne quella che per far correre un treno mille leghe occorre un doppio impiego di carbone, di lavoro, ecc., che non per le sole cinquecento. Ma havvi forse qualche ragione per imporre ai minatori, ai macchinisti un doppio lavoro?»
      Io mi permetto di osservare che ogni viaggiatore non ha e non potrà avere un treno speciale a sua disposizione, e quindi ciascuno si servirà di quel treno o di quei treni che percorreranno in permanenza un dato tragitto, con un dato orario, indipendentemente dal numero dei viaggiatori che portano. Quindi il macchinista non fa e non farà alcun lavoro in più del suo lavoro normale. Per la stessa ragione non vi sarà maggior sciupìo di carbone della quantità solita; senza contare poi che la non lontana applicazione dei motori elettrici risolverà in modo molto semplice tale questione. N. d. T.
         (14) Henry George, illustre sociologo americano, morto nel 1897, di tendenze democratiche socialiste. Fu candidato alla carica di Sindaco di New York, presentandosi con programma indipendente. Ottenne 66.000 voti. Le sue opere principali Progresso e Povertà e Problemi Sociali sono importantissime per la volgarizzazione delle più ardue questioni sociali che in esse si contiene. Il suo programma politico aveva come caposaldo l'adozione del tipo d'imposta unica (single tax) che gravasse segnatamente sulle proprietà fondiarie, di cui H. G. vagheggiava la nazionalizzazione. N. d. T.
         (15) È da notarsi che l'Autore ha pubblicato la «Conquista del Pane» nel 1892. N. d. T. ... ed una volta di più, si vede che le rivoluzioni maturano con un ritmo molto più lento del desiderato! (l'E.)
         (16) Il grande sciopero dei «docks» avvenuto nel 1887. N. d. T.
         (17) Moneta di carta messa in circolazione dalla Convenzione. Non aveva però quasi alcun valore di fronte all'oro. N. d. T.
         (18) Decreto del 30 Marzo; con questo decreto si condonavano le pigioni scadenti nell'Ottobre 1870, nel Gennaio e nell'Aprile 1871. N. d. A.
         (19) Réclus calcola che nei soli prodotti alimentari, oggigiorno stesso, con tutta l'enorme falange degli oziosi e dei disoccupati, si ottengono 206 miliardi in più di sostanze alimentari, di quelle che non occorrano per il consumo razionale ed anche abbondante dell'umanità. Così per i prodotti industriali si ha un'eccedenza, tra la produzione odierna e i bisogni razionali, di 291 miliardi e 87 milioni di lire. Eppure c'è chi muore di fame, di freddo, stenti, perchè la borghesia sciupa, accumula, disperde, per capriccio malvagio ed inutile, quanto renderebbe la vita comoda e agiata a tutta l'umanità, anche nello stato attuale di cose. N. d. T.
         (20) Si possono dire già trovati. Le macchine compositrici automatiche, ad elettricità, sono abbastanza comuni oramai in ogni luogo, e compiono prodigi di celerità tipografica. N. d. T.
         (21) L'autore del più rinomato dizionario della lingua francese. N. d. T.
         (22) Lo sappiamo per mezzo dell'illustre dotto Playfair, che l'ha raccontato in occasione della morte di Joule. N. d. A.
         (23) Sembra che i comunisti della Giovane Icaria abbiano compresa l'importanza della libera scelta nei rapporti quotidiani, all'infuori del lavoro. L'ideale dei comunisti religiosi è sempre stato il pasto in comune; si è per mezzo appunto del pasto in comune che i primi cristiani manifestavano la loro adesione al cristianesimo. La comunione ne è ancora l'ultimo vestigio. I giovani Icariani hanno voluto finirla con questa tradizione religiosa. Essi pranzano in una sala comune, ma in piccole tavole separate, alle quali si dispongono secondo le attrattive del momento. I comunisti di Anama hanno ciascuno il loro alloggio, e mangiano in casa loro, pur prendendo le loro provviste a volontà nei magazzini del Comune. N. d. A.
      Più recenti sono gli esempi delle comunità agricole ebraiche in Palestina, vere società pratiche del vivere anarchico. (l'Editore)
         24 La frase tra parentesi quadre manca dall'edizione di riferimento; è stata ripresa dalla seguente edizione: PIETRO KROPOTKINE, La conquista del pane, Terza edizione, Edizioni della rivista Università Popolare, Via Carlo Poerio, 38, Milano, 1910 (?), Collana: Biblioteca "Germinal" vol. 3°. [nota per l'edizione elettronica Manuzio]
         (25) Si chiamavano città hanseatiche, nel secolo XII, i comuni liberi della Hansa scandinavo-germanica, i quali erano federati tra loro liberamente per la protezione del commercio: (es. Amburgo, Brema, Lubecca, ecc., chiamate anche città libere). Per avere un'idea lucida ed esatta del funzionamento economico, politico, sociale dei comuni liberi nel medioevo, i lettori farebbero bene a leggere il magnifico studio dello stesso Kropotkin: «L'Etat et son role historique», apparso nei numeri 34, 38, 39, 40, 42, 45, 47 (secondo anno) e 1, 9 e 10 (anno terzo) dei «Temps Nouveaux» di Parigi. N. d. T.
         (26) Una conferma della superiorità indiscussa delle Croci Rosse private, e create dal libero accordo, sulle burocratiche ambulanze militari, la si ebbe nell'ultima guerra greco-turca (1897), alla quale lo scrivente prese parte.
      Tutte le ambulanze ed ospedali militari greci furono assolutamente insufficienti; in tutti gli scontri e battaglie non vi era modo d'imbattersi in un medico, in una barella, in un infermiere militare. Il servizio di ambulanza, prescritto burocraticamente sui quadri dell'esercito, non trovò, nella sua obbligatorietà di servizio, il modo di funzionare, sia pure insufficientemente. Fu assolutamente negativo.
      Viceversa, tutte le sezioni internazionali della Croce Rossa, ed alcune prettamente private, furono ammirevoli per zelo, abnegazione, coraggio, abilità. Senza questo libero e spontaneo concorso della solidarietà umana, i due terzi dei feriti greci sarebbero rimasti sul campo. Quasi tutti i feriti delle legioni italiane furono ricoverati nelle ambulanze private, lo stesso Cipriani compreso.
      A Velestino e a Domokos le ambulanze private furono le sole che organizzarono il servizio di soccorso sul campo stesso di battaglia, di fronte al nemico.
      Nonchè non esservi rivalità fra le varie sezioni internazionali, vi fu invece gara di abnegazione e di sacrificio, con grande vantaggio dei poveri feriti. N. d. T.
         (27) Il celebre scopritore della cura antirabica. N. d. T.
         (28) Veggasi: «Les Prisons» di Kropotkin.
         (29) Gli anarchici spagnuoli, i quali si lasciano chiamare ancora collettivisti, intendono con questa parola il possesso in comune degli strumenti di lavoro, e «la libertà,» per ogni gruppo, di ripartirne i prodotti a piacimento, - secondo i principii comunisti, e di ogni altra specie. N. d. A.
         (30) Notisi che quando le nostre osservazioni furono pubblicate in Inghilterra, non furono punto contraddette. Anzi furono confermate, e persino oltrepassate dal direttore del «Giornale d'orticoltura», che è un orticoltore pratico. Noi siamo persuasi che anche gli orticoltori francesi ci daranno ragione. N. d. A.
         (31) Si consulti la «Rivoluzione metrica delle imposte», di A. Toubeau, due volumi, pubblicata da Guillaumin, nel 1880. (Non siamo punto d'accordo colle conclusioni del Toubeau, ma il suo libro è una vera enciclopedia coll'indicazione delle fonti atte a chiarire ciò che si riesce ad ottenere dal suolo). - «La coltivazione orticola», di M. Ponce, Parigi, 1869. - «L'ortaglia Gressent», Parigi, 1885, opera eccellente allo studio pratico. - «Fisiologia e coltivazione del grano», di Risler, Parigi, 1886. - «Il grano, la sua coltivazione intensiva ed estensiva», di Lecouteux, Parigi, 1883. - «La città chinese», di Eugenio Simon. - «Il dizionario di agricoltura», di Barral, Hachette editore. - «The Rothamstead experiments», di Wm. Fream, Londra, 1888. Coltivazione senza concime, ecc., The Field Office editore. - «Nineteenth Century», giugno 1888, e «Forum», agosto 1890. N. d. A.
         (32) La vite stessa rappresenta le ricerche pazienti di due o tre generazioni di giardinieri. Essa è una varietà di Amburgo, ammirabilmente adattata agli inverni freddi. Ha bisogno del gelo in inverno acciocchè il legno giunga a maturazione. N. d. A.
         (33) Borgata eminentemente agricola nei dintorni di Parigi. N. d. T.
         (34) Riassumendo le cifre date sull'agricoltura, cifre provanti che gli abitanti dei due circondari di Senna e Senna e Oise possono perfettamente vivere sul loro territorio, non impiegando annualmente che pochissimo tempo per ottenere il nutrimento, noi abbiamo:
Circondari di Senna e Senna e Oise:
Numero degli abitanti nel 1886...... 3.600.000
Superficie in ettari.................. 610.000
Numero medio degli abitanti per ettaro... 5,90
Superficie coltivata per nutrire gli abitanti (in ettari):
Frumenti e cereali....................................... 200.000
Praterie naturali e artificiali.......................... 200.000
Legumi e frutti, 7.000 a.................................. 10.000
Rimane per case, vie di comunicazioni, parchi, foreste... 200.000
Quantità di lavoro annuo necessaria per migliorare e coltivare le superfici su-designate (in giornate di lavoro di 5 ore):
Grano (coltivazione e raccolto)............... 15.000.000
Praterie, latte, allevamento del bestiame..... 10.000.000
Coltivazione ortolana, frutti di lusso, ecc... 33.000.000
Imprevisto.................................... 12.000.000

      Totale
     ............................. 70.000.000
      Se si suppone che la metà sola degli adulti validi (uomini e donne) voglia occuparsi di agricoltura, si vede che i 70 milioni di giornate sono da ripartirsi fra 1.200.000, il che dà «per anno cinquantotto giornate di lavoro di cinque ore per ognuno dei lavoratori.» N. d. A.