Innanzi alle pagine magistrali di Eliseo
Réclus, sarebbe pretenzioso ogni altro tentativo di
prefazione.
Più utile ed opportuno parmi sia
il tratteggiare in cenni riassuntivi l'interessante biografia di
Pietro Kropotkin.
Egli appartiene a principesca famiglia
russa, discendente in linea retta dagli antichi principi feudatari
della casa reale di Rurigo. Nella sua qualità di nobile
imparentato colla Corte, fu ammesso agli studi nell'imperial
collegio, detto dei Paggi, ove terminò il suo corso nel
1861.
Avrebbe potuto allora entrare alla Corte
degli Czar, e percorrere ivi, negli agi e nelle facili
sodisfazioni della superba vita cortigiana, una splendida
carriera. Ma lo studioso vinse in lui l'aristocratico. Ed eccolo,
appena terminati i suoi studi giovanili, partir per la gelida
Siberia a compiere nuovi studi di geologia, servendo anche come
ufficiale, in un reggimento di cosacchi.
Trascorse colà vari anni,
prendendo parte a diverse spedizioni scientifiche, e acquistando
profonde e vaste cognizioni che poi gli furono utili ne' suoi
lavori di collaborazione col compagno, l'insigne geografo Eliseo
Réclus.
Tornato a Pietroburgo, Pietro Kropotkin
fu subito nominato membro e segretario della Società
Geografica Russa, e in tale qualità compì molti
lavori scientifici rinomatissimi, e diede principio alla sua opera
colossale sui ghiacciai della Finlandia, opera che doveva poi
terminare in prigione, nella fortezza dei Santi Pietro e Paolo.
Scoppiata l'insurrezione della Polonia, Kropotkin indignato del
contegno barbaro del governo russo, diede le dimissioni da
ufficiale dell'esercito.
Nell'anno 1872 Kropotkin viaggiò,
nel Belgio e nella Svizzera. Era appunto l'epoca in cui,
specialmente in quest'ultimo paese, l'Internazionale faceva
parlare di sè. Era avvenuta la celebre scissione fra Marx e
Bakounine al Congresso dell'Aia, dopo che al Congresso di Berna
gli anarchici avevano tracciate le linee generali del loro
programma e della loro tattica, che respingeva ogni partecipazione
all'azione politica che consolidasse la forma di Stato,
cioè al Parlamentarismo. La Federazione Giurassiana era nel
suo pieno vigore.
Kropotkin, che già professava idee
liberali ed avanzate, si trovò facilmente preso in quel
movimento grandioso d'uomini e d'idee, e nel suo spirito aperto e
scevro di preconcetti non tardò a farsi strada la
concezione anarchica ch'egli accettò risolutamente, e alla
cui propaganda si consacrò senza riserve.
Infatti rientrato in Russia, eccolo
partecipare a quel movimento rivoluzionario e far parte del gruppo
dei «Ciakovzki», il più affine alle sue idee.
Fu anzi incaricato di scrivere il programma di questo partito e
della sua organizzazione.
Non potendo resistere alla febbre
dell'agitazione e della propaganda rivoluzionaria, eccolo fin da
quell'anno istesso, 1872, nascondere il suo vero essere sotto le
vesti d'operaio, partecipare alla vita dei lavoratori del
distretto di Alessandro Newsky, e tenere una serie di conferenze
clandestine in forma popolare, per sviluppare nella massa
incosciente l'idea del socialismo libertario. Si faceva chiamare
«Boradin» ed era così diventato lo spettro
rosso della polizia russa, la quale dappertutto lo andava
cercando, senza riuscire a mettergli le mani addosso.
Finalmente l'anno seguente, 1873, per la
delazione di un operaio vendutosi alla polizia, fu arrestato... E
quale fu mai la sorpresa amara del governo, della polizia, e
principalmente della Corte, quando si seppe che il temuto
agitatore rivoluzionario «Boradin» non era che
l'illustre scienziato, l'ex ufficiale, il principe Kropotkin,
discendente di sangue reale e imparentato colla Corte stessa?
Si dice che l'imperatore Alessandro II la
masticasse molto male, e quasi quasi avrebbe preferito lasciare il
temuto «Boradin» alla sua propaganda anzicchè
vedersi scoppiare intorno un tale scandalo inaudito!
In ogni modo, appunto per lo sdegno che
nel governo suscitò il contegno di questo principe degenere
e ribelle, a Pietro Kropotkin nulla giovarono i vantaggi della sua
posizione, ma furono anzi per lui un'aggravante.
Come ogni altro delinquente, fu rinchiuso
nella terribile e tristamente celebre fortezza de' Santi Pietro e
Paolo, ove rimase per tre lunghi anni, dal '73 al '76; e forse vi
gemerebbe ancora, o vi sarebbe morto ignorato e oscuro, come tanti
suoi fratelli e compagni di sventura, se nel luglio del '76,
coll'aiuto del suo amico e compagno Dott. Weimar, non fosse
riuscito a fuggire da quell'ergastolo effettuando un piano di fuga
dei più romanzeschi ed audaci, da lui stesso concepito.
Non ripeterò qui il racconto di
quella fuga, così celebre per la ammirevole descrizione che
ce ne ha fatta Stepniak ne' suoi bozzetti della «Russia
sotterranea».
Da quel momento cominciò per
Kropotkin la tumultuosa ed incerta vita dell'esiliato. Le prove
sofferte in patria, non l'avevano punto fiaccato, ma, come succede
delle tempre nobili e generose, l'avevano rafforzato. Ed eccolo
darsi all'instancabile propaganda dell'Idea, attraverso l'Europa,
in Isvizzera, Francia, Belgio. Eccolo fondare a Ginevra, insieme
con Grave e Réclus, il «Révolté»,
il cui primo numero porta la data del 22 febbraio 1879. Eccolo
espulso dall'Austria, dall'Italia, dalla Svizzera stessa!
Eccolo in Francia, arrestato sulla fine
del 1882, e coinvolto, anzi parte principale del celebre processo
di Lione contro gli anarchici, insieme con Emilio Gautier,
Tressaud, Martin, Fager, Sala ed altri. La splendida dichiarazione
di principii che gli accusati fecero dinanzi a quel tribunale
meriterebbe di essere qui riprodotta per intero, se non temessi di
dilungarmi troppo.
Le pene che il tribunale di Lione
pronunciò contro quegli audaci che avevano osato reclamare
«il pane per tutti, la scienza per tutti, il lavoro per
tutti, e per tutti anche l'indipendenza e la giustizia»
furono severissime. Kropotkin fu condannato a 5 anni di prigione e
destinato alla casa di pena di Clairvaux.
E questa novella prova rafforza, invece
di fiaccare, lo spirito gagliardo del nostro compagno. Liberato
nel 1886, per l'amnistia accordata da Grévy, dopo la sua
rielezione a Presidente della Repubblica, egli corre a Parigi, ove
riprende la penna, ove si agita con la parola, aprendo una tribuna
popolare alla sala Levis, nel quartiere di Batignolles.
Corre quindi in Inghilterra, a Newcastle,
dove parla innanzi a 4000 persone che acclamano, con lui,
all'Anarchia.
Ed espulso ancora dalla Francia non gli
resta che rifugiarsi nella grande pace di Londra nebbiosa.
Sarebbe lungo enumerare qui lo splendido
contributo di opere di genio che Kropotkin ha dato alla scienza e
all'Anarchia.
La «Conquête du pain»,
di cui pubblichiamo la traduzione, le «Paroles d'un
Révolté», omaggio reso a Kropotkin, durante il
suo incarceramento di Clairvaux, dall'amicizia solidale di Eliseo
Réclus, che raccolse sotto quel titolo una collana di studi
sociali dal 1879 al 1882, l'«Anarchie, sa philosophie, son
idéal», una delle più chiare ed insieme
più concettose esposizioni del contenuto filosofico,
scientifico e idealistico dell'Anarchia, la meravigliosa
conferenza sulle «Prigioni» pronunziata a Parigi
subito dopo la sua liberazione dal carcere, e infine, una serie
incessante di articoli storici e sociali, di studi geniali e
profondi, come la «Morale anarchiste», «l'Etat
et son rôle historique», «le
Césarisme» «La Grande Révolution»
«Les Temps Nouveaux», ecc., tradotti e diffusi in
tutte le lingue, sono le pietre miliari della via prodigiosa che
il nostro compagno ha fatto percorrere trionfalmente all'ideale
anarchico, nel dominio della scienza, della sociologia, della
filosofia, della storia!
Come scienziato profondo e come letterato
geniale e poliglotta, Kropotkin collabora alle principali
pubblicazioni e riviste francesi, inglesi, tedesche, russe e
americane. La conosciutissima Nineteenth Century di Londra l'ha
tra i suoi scrittori più accetti e desiderati.
Ed egli, il sereno e profondo agitatore
dell'anarchismo, se ne vive ora dedito interamente alle sue cure
di studioso, di pensatore e di scrittore, insieme con la sua forte
compagna e con la gentile figliola, nel quieto romitaggio di
Viola, a Bromley, nel Kent, a un'ora circa di distanza da Londra.
Uscendo a sud-est dalla bolgia fumosa
della metropoli inglese, lo spirito s'allarga a poco a poco e si
purifica, come il cielo che si fa a mano a mano più aperto,
più limpido, più azzurro, finchè si spalanca
in una immensa radiosità di splendori sul verde cupo della
contea di Kent.
Involontariamente l'animo si predispone a
ricevere un'impressione di serenità e di pace da tutte le
cose e da tutti gli esseri. E questa impressione di
serenità s'intensifica quando, varcata la soglia di
«Viola Cottage», respirate l'incantevole dolcezza di
quella pace tranquilla fatta di tante cose, dell'azzurro del
cielo, del verde degli alberi, del silenzio del luogo, della
gradita conversazione di Pietro, del sorriso buono della sua
compagna e dell'amabilità della sua figliuola.
Al ritorno invece il contrario. A mano a
mano che il treno si ingolfa nel dedalo di binari irreticolato sul
mare sudicio delle tettoie londinesi, il cuore si stringe, la
realtà brusca vi riprende, la lotta vi riafferra colle sue
amarezze, i suoi dolori, i suoi disinganni.
G. CIANCABILLA
Pietro Kropotkin m'ha domandato di
scrivere qualche parola d'introduzione alla sua opera, ed io cedo
al suo desiderio, benchè mi senta un poco imbarazzato nel
farlo.
Nulla potendo aggiungere alla massa
d'argomenti ch'egli porta nel suo lavoro, io rischio d'indebolire
la forza delle sue stesse parole. Ma l'amicizia mi scusa. Quando
pei repubblicani francesi è di uno squisito buon gusto il
prosternarsi ai piedi dello czar, io preferisco avvicinarmi a
quegli uomini liberi ch'egli farebbe flagellare a vergate, e
chiuderebbe in una segreta di fortezza, o farebbe impiccare in un
tetro cortile di prigione. Con questi amici io dimentico per un
momento l'abbiezione di quei rinnegati che nella loro
gioventù si scalmanavano, sino a perdere il fiato, nel
gridar: Libertà! Libertà! e che ora s'industriano a
mescolare insieme le due arie della «Marsigliese» e di
«Boje Tzara Khrani».(1)
L'ultimo lavoro di Kropotkin, le
«Paroles d'un Révolté» era consacrato
soprattutto a una critica infiammata della società
borghese, così feroce ed insieme così corrotta, e
faceva appello alle energie rivoluzionarie contro lo Stato e il
regime capitalista. L'opera attuale, facendo seguito alle
«Paroles», è intonata a un motivo più
calmo. Egli si rivolge agli uomini di buona volontà, i
quali desiderano di collaborare onestamente a trasformar la
società, e loro espone a grandi linee le fasi della storia
imminente che ci permetteranno di far sorgere la famiglia umana
sulle rovine delle banche e degli Stati.
Il titolo del libro; La Conquista del
Pane dev'essere inteso nel senso più largo, perchè
«l'uomo non vive soltanto di pane». In un'epoca in cui
i generosi e i forti tentano di trasformare il loro ideale di
giustizia sociale in realtà vivente, la nostra ambizione
non si limita a conquistare soltanto il pane, sia pure corroborato
di vino e di sale. Bisogna conquistare ancora tutto ciò che
è necessario o anche semplicemente utile a renderci la vita
confortata e gradevole; bisogna che noi possiamo assicurare a
tutti il pieno soddisfacimento dei bisogni e delle gioie della
vita. Finchè noi non avremo fatto questa prima
«conquista», finchè «vi saranno tra noi
dei poveri», il voler dare il nome di
«società» a questo insieme di esseri umani che
si odiano e si distruggono a vicenda, come bestie feroci,
rinchiuse in un'arena, non è che un'irrisione amara.
Sin dal primo capitola del suo libro,
l'autore ci enumera le immense ricchezze che sono già in
possesso dell'umanità e i prodigiosi strumenti del
macchinario ch'essa ha conquistato per il lavoro collettivo. I
prodotti che ogni anno si ricavano basterebbero largamente a
fornire il pane a tutti gli esseri, e qualora l'enorme capitale
delle città e delle case, dei campi coltivabili, delle
officine, dei mezzi di trasporto e delle scuole diventasse
proprietà comune, invece di essere conservato in
proprietà privata, l'agiatezza sarebbe facilmente
raggiunta: le forze che sono a nostra disposizione verrebbero
applicate, non in lavori inutili e contradditorii, ma per produrre
tutto ciò che all'uomo necessita, in fatto di alimenti,
alloggio, vestiti, benessere, studio delle scienze, coltura delle
arti.
Però la riconquista degli umani
possessi, l'espropriazione, in una parola, non può
effettuarsi che per mezzo del comunismo anarchico: bisogna
mettersi all'opera di rinnovamento sociale, seguendo la propria
iniziativa ed aggruppandosi, secondo le proprie affinità, i
propri interessi, il proprio ideale, e la natura del lavoro che
s'intraprende. - Questa questione dell'espropriazione è la
più importante del libro, e anche una di quelle che
l'autore ha trattato con maggiore abbondanza di particolari,
sobriamente e senza violenza di espressioni, ma con la calma e la
nitidezza di visione che richiede lo studio d'una prossima
trasformazione, ormai inevitabile. Dopo questo rovesciamento dello
Stato i gruppi di lavoratori emancipati, non dovendo più
logorarsi ai servigi degli sfruttatori e dei parassiti, potranno
dedicarsi alle attraenti occupazioni del lavoro liberamente scelto
e procedere scientificamente alla coltivazione del suolo e alla
produzione industriale, intermezzando il lavoro con ricreazioni
consacrate allo studio o al piacere. Le pagine del libro che
trattano dei lavori agricoli presentano un interesse capitale,
imperocchè vi si espongono fatti che la pratica ha
già controllato, e la cui applicazione in grande è
facile dappertutto, a vantaggio di tutti, e non solamente per
arricchire alcuni.
Siamo alla soglia di un'epoca, di un'era
della storia. Noi vediamo declinare tutta quanta l'antica
civiltà; il diritto della forza e il capriccio
dell'autorità, la dura tradizione israelitica e la crudele
giurisprudenza romana non più gravarci sopra: noi
professiamo una novella fede, e dal momento che questa fede, che
è nel tempo istesso la scienza, sarà diventata
quella di tutti coloro che cercano la verità, essa si
svilupperà nel mondo delle realizzazioni, giacchè la
prima fra le leggi storiche è quella che la società
debba modellarsi sul suo ideale. Come i difensori dell'antiquato
ordinamento delle cose, potranno quest'ordine mantenere? Essi non
credono più; senza guida nè bandiera, battagliano
alla cieca. I novatori han contro leggi e fucili, poliziotti
armati di randelli e parchi d'artiglieria; ma tutto ciò non
può bilanciare il pensiero, e tutto l'antico regime di
compiacimento e di comprensione è destinato a perdersi ben
presto in una specie di preistoria.
Certo l'imminente rivoluzione, per quanto
possa essere importante nello sviluppo dell'umanità, non
sarà punto diversa dalle rivoluzioni precedenti, e non
compirà nessun brusco salto, poichè la natura non
può farne. Ma si può dire che, per mille fenomeni,
per mille modificazioni profonde, la società anarchica
è già da lungo tempo in pieno sviluppo. Essa si
mostra dovunque il libero pensiero si sbarazza della lettera del
dogma, dovunque il genio dell'indagatore scorda le vecchie
formule, dovunque la volontà umana si manifesta in azioni
indipendenti, dovunque uomini sinceri, ribelli ad ogni imposizione
di disciplina, si uniscono a loro beneplacito per istruirsi
mutualmente e riconquistare insieme, senza padroni, la loro parte
di vita e di soddisfazione integrale dei loro bisogni. Tutto
questo è anarchia, anche quando s'ignora che sia tale, e
sempre più essa arriva a farsi conoscere. E come non
dovrebb'ella trionfare quando possiede il suo ideale e l'audacia
della sua volontà, mentre la folla dei suoi avversari,
mancante ormai di fede, s'abbandona al fatale destino?
L'annunziata rivoluzione si
compirà dunque, e il nostro amico Kropotkin è nel
suo pieno diritto di storico quando si colloca già al
giorno della rivoluzione ventura per esporre le proprie idee sulla
presa di possesso dell'avere collettivo dovuto al lavoro di tutti,
e fa appello ai timidi, i quali, pur rendendosi conto
perfettamente delle ingiustizie esistenti, non osano ribellarsi a
viso aperto contro una società che li rende suoi schiavi
con mille legami d'interessi e di tradizioni. Costoro sanno che la
legge è iniqua e bugiarda, che la vita regolare e l'altiera
probità del lavoro non sono sempre ricompensati dalla
certezza di avere un pezzo di pane, e che la cinica impudenza
degli affaristi e l'aspra durezza degli usurai sono le armi
migliori per la «conquista del pane» e del benessere;
ma invece di regolare i loro pensieri, i loro voti, le loro
imprese, le loro azioni secondo il loro senso rischiarato dalla
giustizia, la maggior parte di costoro sgattaiola per qualche via
traversa, per sfuggire ai pericoli d'un'attitudine franca e
decisa. Tali, per esempio, i neo-religiosi che, non potendo
più far professione della «fede assurda» de'
loro padri, si applicano a pratiche superstiziose più
originali, senza dogmi precisi, perduti in una indefinita
confusione di sentimenti, e si fanno spiritisti, rosa-croce(2)
buddisti o taumaturgi. Pretendendo a discepoli di Sakyamouni(3),
ma senza punto preoccuparsi di studiar la dottrina del loro
maestro, i signori melanconici e le dame vaporose fingono di
cercar la pace nell'annichilimento del nirvana.
Ma giacchè queste "belle anime"
parlano incessantemente dell'ideale, che si rassicurino! Da quegli
esseri materiali che siamo, noi abbiamo, è vero, la
debolezza di preoccuparci del nutrimento, poichè, sovente,
esso ci fece difetto, e manca ora a milioni di nostri fratelli
slavi, sudditi dello czar, e a molti altri milioni ancora; ma al
di là del pane, del benessere e di tutte le ricchezze che
ci può procurare la fertilizzazione delle nostre campagne,
noi vediam sorgere lungi, dinanzi a noi, un mondo nuovo, nel quale
potremo pienamente amarci e soddisfare questa nobile passione
dell'ideale, che gli amanti eterei del bello, sprezzando la vita
materiale, dicono essere la sete inestinguibile delle loro anime!
Quando più non vi saranno nè ricchi nè
poveri, quando non più l'affamato contemplerà con
avido sguardo d'invidia colui che è satollo, l'amicizia
naturale potrà rinascere fra gli uomini e la religione
della solidarietà, oggi soffocata, prenderà il posto
di questa religione vaga, che traccia delle immagini fuggenti sui
vapori del cielo.
La rivoluzione manterrà al di
là d'ogni speranza le sue promesse; rinnovellerà le
sorgenti della vita, lavandoci dall'impuro contatto di tutte le
polizie, e sbarazzandoci alfine da queste vili preoccupazioni del
danaro che avvelenano la nostra esistenza. Potrà ciascuno
allora seguir liberamente la sua strada; il lavoratore
accudirà all'opera che più gli conviene; lo studioso
indagherà senza secondi fini; l'artista non
prostituirà più il suo ideale di bellezza per tirare
innanzi la vita, e tutti amici oramai, noi potremo realizzare
d'accordo le grandi cose che i poeti sognano nelle loro visioni.
E senza dubbio allora sarà
rammentato talvolta il nome di coloro, i quali colla propaganda
devota, scontata coll'esilio o colla prigionia, avran preparata la
nuova società. È ad essi che noi pensiamo, dando
alle stampe la Conquista del pane: essi si sentiranno un po'
riconfortati e fortificati di ricever questo attestato del comune
pensiero attraverso le sbarre delle prigioni o in terre straniere.
L'autore mi approverà certamente se io dedico il suo libro
a tutti coloro che soffrono per la causa, e soprattutto a un amico
dei più cari, la cui vita fu tutta quanta una lunga
battaglia per la giustizia. Non è necessario ch'io dica il
suo nome: leggendo queste parole d'un fratello, egli si
riconoscerà dai palpiti del suo cuore.
ELISEO RÉCLUS
LE NOSTRE RICCHEZZE
I.
L'umanità ha assai progredito da
quelle remote età in cui l'uomo, tagliando nella selce
rozzi strumenti, viveva degl'incerti prodotti della caccia e non
lasciava in eredità a' suoi figliuoli che un ricovero sotto
le roccie e dei poveri utensili di pietra, nonchè la Natura
immensa, incompresa, terribile, colla quale essi dovevano entrare
in lotta per mantenere la loro meschina esistenza.
In questo lungo periodo di agitazione,
che ha durato per migliaia e migliaia d'anni, il genere umano ha
nondimeno accumulato inauditi tesori. Ha dissodato il suolo,
prosciugato le paludi, è penetrato nelle foreste, ha
tracciato strade; ha costrutto, inventato, osservato, ragionato;
ha creato degli strumenti complicati, ha strappato alla natura i
suoi segreti, ha domato il vapore; tanto che, oggi, al suo
nascere, il figlio dell'uomo civilizzato trova a sua disposizione
un capitale che gli permette di ottenere, con niente altro che il
suo lavoro combinato col lavoro altrui, delle ricchezze
sorpassanti i sogni degli Orientali nelle loro novelle delle Mille
e una Notte.
Il suolo è, in parte, dissodato,
pronto a ricevere l'intelligente lavorazione e le scelte sementi,
ad adornarsi di lussureggianti raccolti - più che non ne
occorra per soddisfare a tutti i bisogni dell'umanità. I
mezzi di coltivazione son conosciuti.
Sul vergine suolo delle praterie
americane, cento uomini aiutati da macchine potenti producono in
pochi mesi il grano necessario per la vita di diecimila persone
durante tutto un anno. Là dove l'uomo vuol raddoppiare,
triplicare, centuplicare il suo rapporto di produzione, non ha che
da «formare» il suolo adatto, dare ad ogni pianta le
cure convenienti, ed otterrà dei raccolti prodigiosi. E
mentre il cacciatore doveva in altri tempi rendersi padrone di
cento chilometri quadrati di terreno per potervi ricavare il
nutrimento della sua famiglia, l'uomo civilizzato fa crescere, con
difficoltà infinitamente minori e con maggior sicurezza,
tutto ciò che gli occorre per far vivere i suoi su di una
diecimillesima parte di quello spazio.
Il clima non è più un
ostacolo. Quando manca il sole, l'uomo lo sostituisce col calore
artificiale, in attesa di creare anche la luce per sviluppare la
vegetazione. Con del vetro e dei tubi di acqua calda, raccoglie su
di un dato spazio dieci volte maggiori prodotti che non ne
raccogliesse prima.
I prodigi che si sono compiuti
nell'industria sono ancora più sorprendenti. Con quegli
esseri intelligenti, che sono le macchine moderne, - frutto di tre
o quattro generazioni d'inventori, la maggior parte sconosciuti, -
cento uomini fabbricano di che vestire dieci mila uomini durante
due anni. Nelle miniere di carbone, bene organizzate, cento uomini
estraggono ogni anno tanto combustibile da riscaldare diecimila
famiglie sotto un clima rigoroso. E vedemmo ultimamente sorgere in
pochi mesi al Campo di Marte(4) un'intera meravigliosa
città, senza che per questo i lavori regolari della nazione
francese subissero la menoma interruzione.
E se, nell'industria come
nell'agricoltura e come nell'insieme della nostra organizzazione
sociale, le fatiche dei nostri antenati non sono di profitto che
ad un ristrettissimo numero di noi, - non è per questo meno
accertato che l'umanità potrebbe sin d'ora concedersi
un'esistenza di ricchezza e di lusso, coi soli servitori di
acciaio e di ferro ch'essa possiede, le macchine.
Sì certo, noi siamo ricchi,
infinitamente più ricchi di quel che non si pensi. Ricchi
per quel che già possediamo; ancora più ricchi per
quel che possiamo produrre cogli attuali meccanismi; infinitamente
più ricchi per quel che potremmo ottenere dal nostro suolo,
dalle nostre manifatture, dalla nostra scienza e dal nostro sapere
tecnico, se tutto ciò fosse applicato a procurare il
benessere universale.
II
Noi siam ricchi nelle società
civilizzate. Perchè dunque d'intorno a noi questa miseria?
Perchè questo penoso lavoro delle masse, sino
all'abbrutimento? Perchè quest'incertezza del domani, anche
per i lavoratori meglio retribuiti, in mezzo a tante ricchezze
tramandateci in eredità dal passato, e malgrado i grandi e
potenti mezzi di produzione che darebbero l'agiatezza a tutti, in
compenso di poche ore di lavoro giornaliero?
I socialisti l'hanno detto e ridetto
mille volte. Ogni giorno lo ripetono e lo dimostrano con argomenti
dedotti da tutte le scienze. Perchè tutto ciò che
è necessario alla produzione - il suolo, le miniere, le
macchine, i mezzi di comunicazione, l'alimento, l'alloggio,
l'educazione, la scienza tutto, infine, è stato accaparrato
da alcuni nel corso di questa lunga storia di saccheggi, di esodi,
di guerre, d'ignoranza e di oppressione, che l'umanità ha
vissuto prima d'aver imparato a domar le forze della Natura.
Perchè, prevalendosi dei pretesi
diritti acquistati nel passato, essi si appropriano oggi dei due
terzi dei prodotti del lavoro umano che disperdono poi nello
spreco più insensato, più scandaloso; perchè,
avendo ridotto le masse a non aver dinanzi a loro di che vivere un
mese o anche otto giorni, essi non permettono all'uomo di lavorare
che quando egli consente a lasciarsi togliere da loro la parte del
leone; perchè gl'impediscono di produrre ciò di cui
ha bisogno, e lo costringono a produrre non già ciò
che sarebbe necessario agli altri, ma quel che assicura i maggiori
guadagni allo sfruttatore.
Tutto il socialismo è qui.
Ecco infatti un paese civilizzato. Le
foreste che una volta l'ingombravano sono state allargate, le
paludi prosciugate, il clima reso salubre. Il paese è
diventato abitabile. Il suolo che non produceva una volta che
delle erbe selvagge, fornisce ora delle messi copiose. Le rocce
che dominavano le vallate son ripartite ora in recinti dove
s'arrampicano le viti dal frutto dorato. Delle piante selvatiche,
le quali prima non producevano che un frutto agro, - una radice
impossibile a mangiarsi, - sono state trasformate per mezzo di
successive coltivazioni, in legumi succulenti, in alberi carichi
di frutta squisite.
Migliaia di vie lastricate e ferrate
intersecano la terra, forano le montagne; la locomotiva fischia
nelle gole selvaggie delle Alpi, del Caucaso, dell'Imalaia. I
fiumi furono resi navigabili; le coste, accuratamente scandagliate
e precisate, sono di facile accesso, e dei porti artificiali,
faticosamente scavati e riparati dai furori dell'Oceano, servono
di rifugio ai bastimenti. Le rocce sono scavate in pozzi profondi;
e labirinti di gallerie sotterranee si estendono colà dove
vi è carbone da estrarre, minerale da raccogliere. In tutti
i punti dove le strade si incrociano, son sorte città, che,
diventate sempre più vaste, racchiudono nel loro seno tutti
i tesori dell'industria, dell'arte, della scienza.
Intiere generazioni, nate e morte nella
miseria, oppresse e maltrattate dai loro padroni, spossate dal
lavoro, hanno trasmesso al secolo decimonono questa immensa
eredità.
Milioni d'uomini, durante migliaia
d'anni, hanno lavorato ad abbattere boscaglie, prosciugare paludi,
tracciare strade, arginare fiumi. Ogni ettaro di suolo coltivato
in Europa è stato inaffiato dai sudori di molteplici razze;
ogni strada ha una storia di fatiche, di lavoro sovrumano, di
sofferenze di popolo. Ogni miglio di strada ferrata, ogni metro di
galleria, hanno ricevuto il loro battesimo di sangue umano.
I pozzi delle miniere portano ancora le
fresche intaccature fatte nella roccia dal braccio dello
zappatore. Da un polo all'altro, le gallerie sotterranee
potrebbero essere marcate colla tomba d'un minatore ucciso nel
fior dell'età o da un'esplosione, o da una frana, o da
un'inondazione, e niuno ignora quanti pianti, quante privazioni,
quante miserie senza nome, ciascuna di queste tombe sia costata
alla famiglia che viveva del magro salario dell'uomo sepolto sotto
le ruine.
Le città, collegate fra di loro da
reti di ferrovie e di linee di navigazione, sono organismi che
hanno vissuto dei secoli. Scavatene il suolo, e troverete le
vestigia sovrapposte di strade, case, teatri, arene, edifici
pubblici. Approfonditene la storia, e vedrete come la
civilizzazione della città, la sua industria, il suo genio
si siano lentamente sviluppati e maturati col concorso di tutti i
suoi abitanti, prima di essere diventati ciò che sono
oggidì.
Ed anche ora, il valore di ogni casa, di
ogni officina, di ogni fabbrica, di ogni magazzino, non è
fatto che col lavoro accumulato dalle migliaia di lavoratori
sepolti sotto terra; e non si mantiene che con lo sforzo delle
legioni d'uomini che abitano quel punto del globo. Ciascun atomo
di ciò che noi chiamiamo la ricchezza delle nazioni, non
acquista il suo valore che perchè è una parte di
quest'immenso tutto. Che cosa sarebbero gli immensi depositi di
Londra o i grandi magazzini di Parigi se non fossero situati in
quei grandi centri del commercio internazionale?
Che diventerebbero le nostre miniere, le
nostre fabbriche, i nostri cantieri e le nostre ferrovie, senza i
mucchi di merci trasportate ogni giorno per terra e per mare?
Milioni di esseri umani hanno lavorato
per creare questa civiltà, della quale oggi andiamo
gloriosi. Altri milioni, sparsi in tutti gli angoli del mondo,
lavorano per mantenerla. Senza di essi, fra cinquanta anni non ne
rimarrebbero che le rovine.
Persino il pensiero, persino le
invenzioni, son fatti collettivi nati dal passato e dal presente.
Sono migliaia d'inventori, conosciuti o sconosciuti, morti nella
miseria, i quali hanno preparato le successive invenzioni di
ciascuna di queste macchine in cui l'uomo ammira il proprio genio.
Sono migliaia di scrittori, di poeti, di dotti, i quali hanno
lavorato per perfezionare la dottrina, per dissipare l'errore, per
creare infine quest'atmosfera di pensiero scientifico, senza la
quale nessuna delle meraviglie del nostro secolo non si sarebbe
prodotta. Ma queste migliaia di filosofi, di poeti, di dotti,
d'inventori, non erano anche essi il prodotto del lavorìo
dei secoli passati prima di loro? E non furono, durante tutta la
loro vita, nutriti e aiutati, sì fisicamente che
moralmente, da legioni di lavoratori e di artigiani di ogni
specie? Non attinsero essi la loro forza d'impulsione da tutto
ciò che li circonda?
Il genio di un Seguin, d'un Mayer, d'un
Grove(5) hanno fatto certamente più che tutti i capitalisti
del mondo per slanciare l'industria verso nuovi orizzonti, Ma
questi genii stessi son figli dell'industria nonchè della
scienza. Imperocchè bisognò che migliaia di macchine
a vapore trasformassero d'anno in anno, sotto gli occhi di tutti,
il calore in forza dinamica, e questa forza a sua volta in suono,
luce ed elettricità, prima che queste intelligenze geniali
avessero proclamato l'origine meccanica e l'unità delle
forze fisiche. E se noi, figli del secolo decimonono, abbiam
compreso finalmente quest'idea, se noi abbiamo saputo applicarla,
egli è perchè noi vi eravamo stati preparati
dall'esperienza di ogni giorno e di ogni ora. Anche i pensatori
del secolo scorso l'avevano traveduta ed enunciata: ma essa rimase
incompresa, giacchè il secolo decimottavo non si era
sviluppato, come il nostro, a fianco delle macchine a vapore.
Che si pensi soltanto alle diecine d'anni
che sarebbero trascorsi ancora nell'ignoranza di questa legge che
ci ha permesso di rivoluzionare l'industria moderna, se Watt(6)
non avesse trovato a Solis dei lavoratori abili per dar forma
reale in metallo ai suoi calcoli teorici, perfezionare le singole
parti e render finalmente più docile del cavallo e
più maneggevole dell'acqua il vapore imprigionato in un
meccanismo completo.
Ogni macchina ha la medesima storia:
lunga storia di veglie e di miserie, di disillusioni e di gioie,
di miglioramenti parziali trovati successivamente da più
generazioni d'operai sconosciuti che hanno aggiunto all'invenzione
primitiva quei piccoli nonnulla, senza dei quali pure l'idea
più feconda rimane sterile. Più che tutto
ciò, ogni nuova invenzione è una sintesi - risultato
di mille invenzioni precedenti effettuatesi nell'immenso campo
della meccanica e dell'industria. Poichè la scienza e
l'industria, la dottrina e l'applicazione, la scoperta e la
realizzazione pratica conducono a nuove scoperte, - tutto
così si collega e s'incatena, lavoro cerebrale e lavoro
manuale, lavoro del pensiero e lavoro del braccio. Ogni scoperta,
ogni progresso, ogni aumento della ricchezza umana ha le sue
origini nella somma del lavoro manuale e cerebrale del passato e
del presente.
Per qual diritto allora potrebbe
chicchessia appropriarsi la menoma particella di quest'immenso
tutto, e dire: Questo è mio, e non è vostro?
III.
Accadde però, attraverso le varie
epoche dell'umanità, che tutto ciò che permette
all'uomo di produrre e di accrescere la sua forza di produzione,
fosse accaparrato da qualcuno. Racconteremo forse un giorno come
questo sia avvenuto. Per il momento ci basta di constatare il
fatto e di analizzarne le conseguenze.
Oggidì, il suolo che acquista il
suo valore precisamente dai bisogni di una popolazione sempre
crescente, appartiene a una minoranza d'individui, i quali possono
impedire, e impediscono, di fatto, che il popolo lo coltivi,
oppure non gli permettono di coltivarlo secondo i bisogni moderni.
Le miniere, che rappresentano lo sforzo di più generazioni,
e non attingono valore che dai bisogni dell'industria e dalla
densità della popolazione, son pure la proprietà di
qualcuno; e questi qualcuno limitano l'estrazione del carbone,
quando non la proibiscono totalmente, se loro si offre un
collocamento più vantaggioso pei loro capitali. Anche le
macchine sono la proprietà di qualcuno soltanto, e quando
anche questa o quella macchina rappresenti indubbiamente i
perfezionamenti arrecati al primitivo congegno da tre generazioni
di lavoratori, non per questo essa appartiene meno a qualche
padrone; e se i nepoti di quello stesso inventore che costrusse,
cento anni fa, la prima macchina da merletti si presentassero oggi
nelle manifatture di Basilea o di Nottingham reclamando i loro
diritti, sarebbe loro risposto sul viso: «Andatevene! questa
macchina non vi appartiene!» e verrebbero fucilati se essi
volessero a forza entrarne in possesso.
Le ferrovie, che sarebbero inutili
ferramenta senza la popolazione così densa dell'Europa,
senza la sua industria, il suo commercio e i suoi scambi,
appartengono ad alcuni azionisti, i quali forse ignorano dove si
trovano le strade che loro assicurano una rendita superiore a
quella di un re del medio evo. E se i figli di coloro che morivano
a migliaia scavando i fossati e le gallerie si radunassero un
giorno, e venissero, in folla cenciosa ed affamata, a reclamar
pane dagli azionisti, essi si scontrerebbero colle baionette e la
mitraglia messe in azione per salvaguardare i «diritti
acquisiti».
In virtù di quest'organizzazione
mostruosa, il figlio del lavoratore, quando nasce alla vita, non
trova un campo da coltivare, nè una macchina da condurre,
nè una miniera da scavare, senza ch'ei non debba cedere ad
un padrone una buona parte di ciò che produrrà. Egli
deve vendere la sua forza di lavoro per un pasto magro ed incerto.
Suo padre e suo nonno hanno lavorato per dissodare quel campo, per
costruire quell'officina, per perfezionare quelle macchine; hanno
lavorato infine secondo la completa misura delle loro forze - e
chi può dar dunque più di questo? E pure egli
è venuto al mondo più povero dell'ultimo dei
selvaggi. Se ottiene il permesso di dedicarsi alla coltivazione di
un campo, è solo alla condizione di cedere un quarto del
prodotto al suo padrone, e un altro quarto al governo e
agl'intermediarii. E questa imposta, che lo Stato, il capitalista,
il padrone e il sensale prelevano su di lui, aumenterà
sempre, e raramente gli lascierà anche la facoltà di
poter migliorare il suo sistema di coltivazione. Se si dedica
all'industria, gli si permetterà di lavorare - non sempre
del resto - ma alla condizione di non ricevere che un terzo o la
metà del guadagno, il rimanente dovendo esser ceduto a
colui che la legge riconosce come il proprietario della macchina.
Noi gridiamo contro il barone feudale che
non permetteva al coltivatore di rimuover la terra senza che gli
fosse rilasciato almeno il quarto del raccolto. E noi chiamiamo
barbara quest'epoca passata. Ma, se la forma è cambiata, la
sostanza di queste relazioni è sempre la stessa. Il
lavoratore accetta oggi, sotto il nome di contratto libero, degli
obblighi ugualmente feudali; giacchè in nessun'altra parte
troverebbe condizioni migliori. Siccome tutto è diventato
la proprietà di un padrone, egli deve cedere o morir di
fame!
Risulta da questo stato di cose che tutta
la nostra produzione si dirige in senso contrario. Ogni intrapresa
non si preoccupa punto dei bisogni della società: il suo
unico scopo è quello di aumentare i benefici
dell'intraprenditore. Da ciò derivano le continue
fluttuazioni dell'industria, le cui crisi, allo stato cronico,
gettano sul lastrico centinaia di migliaia di lavoratori.
Non potendo gli operai acquistare coi
loro salari le ricchezze da essi prodotte, l'industria ricorre ai
mercati esterni, fra gl'incettatori delle altre nazioni. In
Oriente, in Africa, non importa dove, in Egitto, nel Tonchino, nel
Congo, l'Europeo, in queste condizioni, deve aumentare il numero
dei suoi servi. Ma dappertutto ei trova dei concorrenti,
poichè tutte le nazioni evolvono nello stesso senso. E le
guerre, - le guerre in permanenza, - debbono scoppiare per il
diritto di primeggiare sui mercati mondiali. Guerre per i possessi
in Oriente; guerre per il dominio dei mari; guerre per imporre dei
dazi di entrata alle frontiere e dettar condizioni ai propri
vicini; guerre contro coloro che si ribellano! Il rumor del
cannone non cessa in Europa; generazioni intere vengono
massacrate; gli Stati Europei spendono in armamenti il terzo dei
loro bilanci, - ed ognuno sa che cosa siano le tasse e quel
ch'esse costino al povero.
L'educazione rimane privilegio di
minoranze infime. Imperocchè, come si può parlare
d'educazione, quando il figlio dell'operaio è costretto a
tredici anni a scender con lui nella miniera, o aiutarlo alla
fattoria? Come si può parlare di studii all'operaio che
rincasa alla sera, fiaccato da una giornata di lavoro forzato, che
quasi sempre abbrutisce? Le società si dividono in due
campi ostili, e in tali condizioni la libertà non è
che una vana parola. Mentre il radicale domanda una più
larga estensione di libertà politiche, s'accorge ben presto
che il soffio della libertà spinge rapidamente i proletarii
a sollevarsi; e allora retrocede, cambia di opinione e ritorna
alle leggi eccezionali e al governo della sciabola.
Per mantenere i privilegi è
necessario un vasto insieme di tribunali, di giudici e carnefici,
di sbirri e di carcerieri, e questo insieme diventa esso stesso
l'origine di tutto un sistema di delazioni, d'inganni, di minaccie
e di corruzione.
Inoltre, questo sistema impedisce lo
sviluppo dei sentimenti socievoli. Ognuno comprende che senza
rettitudine, senza il rispetto di se stesso, senza simpatie e
mutuo appoggio la specie umana deperisce, come deperiscono le
poche specie animali che vivono di brigantaggio e di asservimento.
Ma di ciò le classi dirigenti non amano persuadersi, ed
esse inventano tutta una scienza, assolutamente falsa, per provare
il contrario.
Si dicono delle belle cose sulla
necessità di dividere ciò che si possiede con coloro
che non hanno nulla. Ma chiunque si attenta di mettere in pratica
questo principio è subito messo in guardia che tutti questi
grandi sentimenti son buoni soltanto per i libri di poesie - non
nella vita. «Mentire, significa avvilirsi,
abbassarsi», noi diciamo, e tutta l'esistenza civile non
è che un'immensa menzogna. E noi ci abituiamo, noi
educhiamo i nostri figli a vivere con una moralità a doppia
faccia, da ipocriti! E siccome il cervello non vi si adatta di
buona voglia, noi lo foggiamo sullo stampo del sofismo. Ipocrisia
e sofismo diventano seconda natura dell'uomo civilizzato.
Ma una società non può
vivere così; essa deve ritornare alla verità, o
sparire.
Così il semplice fatto
dell'accaparramento involge delle sue conseguenze tutto l'insieme
della vita sociale. E le società umane son forzate, sotto
pena di perdizione, a ritornare ai principii fondamentali,
poichè i mezzi di produzione essendo l'opera collettiva
dell'umanità, debbono ritornare alla collettività
umana. L'appropriazione personale non è nè giusta
nè utile. Tutto è di tutti poichè tutti ne
hanno bisogno, poichè tutti hanno lavorato nella misura
delle loro forze ed è materialmente impossibile di
determinare la parte che spetta a ciascuno nell'attuale produzione
delle ricchezze.
Tutto è di tutti! Ecco
degl'immensi meccanismi che il secolo decimonono ha creato; ecco
dei milioni di schiavi di ferro che noi chiamiamo macchine, le
quali piallano e segano, tessono e filano per noi, compongono e
decompongono la materia prima, e producono le meraviglie
dell'epoca nostra. Nessuno ha il diritto d'impadronirsi di una
sola di queste macchine, e dire: «Essa è mia; per
adoperarla voi mi pagherete un tributo su ciascuno dei vostri
prodotti»; come nemmeno il signore del medio evo non aveva
il diritto di dire al coltivatore: «Questa collina, questo
prato mi appartengono, e voi mi pagherete un tributo per ogni
covone di grano che mieterete, per ogni fascio di fieno che
falcierete».
Tutto è di tutti! E purchè
l'uomo e la donna arrechino la loro quota di lavoro, hanno diritto
alla loro quota di ciò che sarà prodotto da tutti. E
questa quota loro concederà già l'agiatezza.
Finiamola con queste formule ambigue
quali «il diritto al lavoro» o «a ciascuno il
prodotto integrale del suo lavoro». Ciò che noi
proclamiamo si è il diritto all'agiatezza - l'agiatezza per
tutti.
L'AGIATEZZA PER TUTTI
I.
L'agiatezza per tutti non è un
sogno. Essa è possibile, realizzabile, dopo ciò che
i nostri antenati hanno fatto per rendere produttiva la nostra
forza di lavoro.
Noi sappiamo, infatti, che i produttori i
quali formano appena il terzo degli abitanti nei paesi civili,
producono già abbastanza, da recare un certo benessere in
seno ad ogni famiglia. Noi sappiamo inoltre che se tutti coloro, i
quali sciupano oggi i frutti del lavoro altrui, fossero costretti
ad impiegare i loro ozii in lavori utili, la nostra ricchezza
aumenterebbe in proporzione multipla del numero delle braccia
produttrici. E noi sappiamo infine che, contrariamente alla teoria
del pontefice della scienza borghese, Malthus, l'uomo accresce la
sua forza di produzione molto più rapidamente che non si
moltiplichi egli stesso. Più uomini popoleranno un
territorio, più sarà rapido il progresso delle forze
produttrici.
Infatti, mentre la popolazione
dell'Inghilterra non ha aumentato, dal 1844 ad oggi che del 62 per
100, la sua forza di produzione ha aumentato, a dir poco, in
proporzione del doppio, cioè del 130 per 100. In Francia
dove la popolazione aumenta di meno, l'accrescimento della
produzione è pure rapidissimo. Malgrado la crisi che
tormenta l'agricoltura, malgrado l'ingerenza dello Stato, la leva
militare, la banca, la finanza e l'industria, la produzione del
frumento si è quadruplicata e la produzione industriale si
è più che decuplata durante gli ultimi ottant'anni.
Agli Stati Uniti il progresso è ancor più
sorprendente: malgrado l'immigrazione, o piuttosto precisamente a
causa di questo sovrappiù di lavoratori venuti d'Europa,
gli Stati Uniti hanno decuplato la loro produzione.
Ma queste cifre non danno che un'idea
assai debole di ciò che la nostra produzione potrebbe
essere, date migliori condizioni. Oggidì, a mano a mano che
si sviluppa la capacità di produrre, il numero degli oziosi
e degl'intermediarii aumenta in proporzioni spaventevoli. Tutto al
contrario di ciò che si affermava una volta fra socialisti,
cioè che il capitale si andrebbe concentrando rapidamente
in così ristretto numero di mani che non vi sarebbe stato
altro da fare, per rientrare in possesso delle ricchezze comuni,
che da espropriare alcuni milionari, il numero di coloro che
vivono alle spese del lavoro altrui è sempre più
considerevole.
In Francia non vi sono dieci produttori
diretti su trenta abitanti. Tutta la ricchezza agricola della
nazione è opera di men che 7 milioni d'uomini, e nelle due
grandi industrie, delle miniere e dei tessuti, si contano meno di
2 milioni e mezzo d'operai. A quanti sommano dunque gli
sfruttatori del lavoro? In Inghilterra (non comprese la Scozia e
l'Irlanda), 1,030,000 operai, uomini, donne e fanciulle fabbricano
tutti i tessuti; un poco più di mezzo milione compiono il
lavoro delle miniere; meno di un mezzo milione lavorano la terra,
e gli statistici debbono certo esagerare le cifre quando ci danno
un massimo di 8 milioni di produttori su 26 milioni di abitanti.
In realtà, sono al più 6 o 7 milioni di lavoratori,
i quali creano le ricchezze sparpagliate ai quattro angoli del
globo. E quanti sono i proprietari e gli intermediarii, i quali
aggiungono le rendite prelevate sull'universo intero, a quelle di
cui essi profittano, facendo pagare al consumatore da cinque a
venti volte più di ciò ch'essi pagano al produttore?
E questo non è tutto. Coloro che
detengono il capitale, riducono la produzione coll'impedir
costantemente di produrre. Non parliamo di quelle botti intere di
ostriche che vengono gettate a mare, per impedire che l'ostrica
diventi un alimento per la plebe e perda la sua specialità
di ghiottoneria della gente agiata; non parliamo dei mille e mille
oggetti di lusso, stoffe, alimenti, ecc. ecc., che hanno la
medesima sorte delle ostriche. Ricordiamo soltanto il modo col
quale vien limitata la produzione delle cose necessarie a tutti.
Vi sono eserciti di minatori i quali non chiederebbero meglio che
di estrarre ogni giorno il carbone e inviarlo a coloro che tremano
dal freddo. Ma, molto spesso, un buon terzo o due terzi di questi
eserciti di minatori sono impediti di lavorare più di tre
giorni per settimana, poichè si deve mantenere elevato il
prezzo del combustibile. Migliaia di tessitori non trovano un
telaio da far funzionare, mentre che le loro mogli e i loro
bambini non han che cenci per ricoprirsi, ed i tre quarti degli
Europei non indossano un vestito degno di questo nome.
Centinala di fonderie, migliaia di
manifatture restano costantemente inattive, ed altre non lavorano
che la metà del tempo e in ogni nazione civile havvi in
permanenza una popolazione di due milioni d'individui che non
chiedono che di lavorare ma ai quali questo lavoro è
negato.
Vi son milioni d'uomini che sarebbero
felici di trasformare le lande incolte o malcoltivate in campi
biondeggianti di ricca messe. Basterebbe loro un anno di lavoro
intelligente per quintuplicare il prodotto di terre che non
rendono oggi che otto ettolitri di grano per ogni ettaro(7). Ma
questi arditi pionieri debbono scioperare, perchè coloro
che possiedono la terra, le miniere, le manifatture, preferiscono
impiegare i loro capitali - capitali dovuti alla comunità -
nei titoli di rendita turca o egiziana, o in azioni delle miniere
d'oro della Patagonia, che i «fellah»(8) egiziani, o
gl'italiani scacciati dalla terra natìa, o i salariati
cinesi faranno produrre per loro.
Tutto questo è la limitazione
cosciente e diretta della produzione: ma vi è anche la
limitazione incosciente, la quale consiste nello sciupare il
lavoro umano in oggetti assolutamente inutili o destinati
unicamente a soddisfare la sciocca vanità dei ricchi.
Non si può nemmeno calcolare in
cifre sino a qual punto la produttività è ridotta
indirettamente dallo sciupìo delle forze che potrebbero
servire a produrre, e sopratutto a preparare gli strumenti
necessarii per questa produzione. Basta citare i miliardi spesi
dall'Europa in armamenti, senza avere altro scopo che la conquista
dei mercati, per imporre ai vicini la legge economica che
più talenta, e facilitare lo sfruttamento all'interno; i
milioni pagati ogni anno ai funzionari d'ogni spece la cui
missione è quella di mantenere il diritto delle minoranze a
governare la vita economica della nazione; i milioni spesi per i
giudici, le prigioni, gli sbirri e tutto l'apparecchio di
ciò che chiamasi giustizia, mentre si sa che basta
alleviare un poco soltanto la miseria nelle grandi città,
perchè la criminalità diminuisca in proporzioni
considerevoli; milioni infine che si spendono per diffondere, col
mezzo della stampa, delle false notizie nell'interesse di questo o
di quel partito, di questo o di quel personaggio politico; di
questa o di quella compagnia di sfruttatori.
E questo non è ancor tutto.
Imperocchè si sciupa ancora del lavoro senza nessun
profitto, con pura perdita: qui, per mantenere la scuderia, il
canile e il servitorame del ricco: colà per soddisfare i
capricci delle eleganti mondane e il lusso depravato dell'alta
furfanteria; altrove, per costringere il consumatore a fare
acquisto di ciò di cui non ha bisogno, o imporgli colla
sfacciata ciarlatanesca pubblicità un articolo di pessima
qualità; altrove ancora, per produrre delle merci
assolutamente nocive al pubblico, ma giovevoli allo speculatore.
Ciò che viene in tal guisa sprecato basterebbe per
raddoppiare la produzione utile, o per corredare di macchine e
strumenti tante manifatture ed officine, che presto farebbero
rigurgitare i magazzini di tutte le provviste di cui i due terzi
della nazione sono mancanti.
Da ciò risulta che un buon quarto
di coloro stessi che in ogni nazione si dedicano ai lavori
produttivi, è regolarmente costretto a scioperare per tre o
quattro mesi ogni anno, e il lavoro degli altri tre quarti, se non
di una buona metà, non può avere altro risultato che
il divertimento dei ricchi o lo sfruttamento del pubblico.
Se si considera dunque, da un lato la
rapidità colla quale le nazioni civili aumentano la loro
forza di produzione, e dall'altro i limiti assegnati a questa
produzione, sia direttamente che indirettamente, dalle condizioni
attuali, si deve concluderne che un'organizzazione economica, per
quanto poco ragionevole, permetterebbe alle nazioni civili di
ammucchiare in pochi anni tale quantità di prodotti utili
ch'esse sarebbero costrette a gridare: «Basta! Basta di
carbone! basta di pane! basta di abiti! Riposiamoci, raccogliamoci
per meglio utilizzare le nostre forze, per meglio occupare i
nostri riposi!»
No, l'agiatezza per tutti non è
più un sogno. Poteva esserlo quando l'uomo giungeva, con
grandi stenti, a raccogliere otto o dieci ettolitri di grano per
ettaro, o a fabbricare di sua mano gli strumenti meccanici
necessarii all'agricoltura e all'industria. Dessa non è
più un sogno dacchè l'uomo ha inventato il motore
che, con un poco di ferro e alcuni chili di carbone, mette a sua
disposizione la forza di un cavallo docile, maneggevole, capace di
mettere in movimento la macchina più complicata.
Ma perchè l'agiatezza diventi una
realtà occorre che questo immenso capitale - città,
case, campi coltivati, officine, mezzi di comunicazione,
educazione - cessi di venir considerato come proprietà
privata, il cui accaparratore può disporre a suo
piacimento.
Occorre che questi ricchi strumenti di
produzione, ottenuti, costruiti, formati e inventati faticosamente
dai nostri padri, diventino proprietà comune,
affinchè lo spirito collettivo ne ritragga il massimo
vantaggio per tutti.
Occorre l'«Espropriazione».
L'agiatezza per tutti come fine, l'espropriazione come mezzo.
II.
L'espropriazione, tale è dunque il
problema che la storia ha proposto di risolvere a noi, uomini del
secolo decimonono. L'espropriazione, cioè il ritorno alla
comunità di tutto ciò che ad essa occorre per
formare il suo benessere.
Ma questo problema non può essere
risolto per mezzo della legislazione. Nessuno vi pensa. Il povero,
come il ricco, comprendono che nè i governi attuali,
nè quelli che potrebbero sorgere da una rivoluzione
politica, non sarebbero capaci di trovarne la soluzione. Si sente
la necessità di una rivoluzione sociale, e i ricchi, come i
poveri, non si dissimulano che questa rivoluzione è
prossima, che essa può addivenire da un giorno all'altro.
L'evoluzione degli spiriti si è
andata compiendo in quest'ultimo mezzo secolo: ma, compressa dalla
minoranza, cioè dalle classi che possiedono, e non avendo
potuto prendere corpo, bisogna ch'essa rimuova gli ostacoli colla
forza e si realizzi colla rivoluzione.
Donde verrà la Rivoluzione? Come
dessa s'annuncierà?... Nessuno può rispondere a tali
questioni. Siamo dinanzi all'incognito. Ma coloro che osservano e
riflettono non s'ingannano: lavoratori e sfruttatori,
rivoluzionarii e conservatori, pensatori e gente pratica, tutti
sentono ch'essa batte alle nostre porte. Ebbene che farem noi
quando la rivoluzione sarà scoppiata?
Tutti noi abbiam studiato il lato
drammatico delle rivoluzioni, ma così poco la loro opera
veramente rivoluzionaria, che molti di noi non vedono in questi
grandi movimenti che la figurazione scenica, la lotta dei primi
giorni, le barricate. Ma questa lotta, questa prima scaramuccia,
è ben presto terminata; e solo dopo la sconfitta degli
antichi governi incomincia l'opera reale della rivoluzione.
Essi, i vecchi governi, incapaci e
impotenti, attaccati da ogni parte, son presto spazzati via dal
soffio della insurrezione. In pochi giorni la monarchia borghese
del 1848 non era più; e quando una vettura da nolo
conduceva Luigi Filippo fuori di Francia, Parigi non si curava
più dell'ex-re. In poche ore il governo di Thiers spariva,
il 18 marzo 1871, lasciando Parigi padrona dei suoi destini. E
nondimeno il 1848 e il 1871 non erano che insurrezioni. Dinanzi ad
una rivoluzione popolare, i governi si eclissano con sorprendente
rapidità. Cominciano col fuggire salvo a cospirare altrove
per tentar di prepararsi un possibile ritorno.
Sparito l'antico governo, l'esercito
esitante dinanzi all'onda della sollevazione popolare, non
obbedisce più ai suoi capi, i quali del resto si sono
prudentemente eclissati. E, colle braccia incrociate, la truppa
lascia fare, oppure, volto il calcio del fucile in aria, si unisce
con gl'insorti. La polizia colle braccia penzoloni, non sa
più se deve picchiare o gridar: «Viva la
Comune!» e le guardie di città se ne tornano a casa
«aspettando il nuovo governo». I grossi borghesi fanno
i loro bagagli e si affrettano a mettersi al sicuro. Il popolo
resta. - Ecco come si annunzia una rivoluzione.
In parecchi grandi città vien
proclamata la Comune. Migliaia di persone formicolano nelle
strade, e fanno ressa alla sera nei circoli improvvisati,
domandandosi: «Che fare?» e discutendo con ardore de'
pubblici affari. Tutti vi s'interessano; e gl'indifferenti della
vigilia son forse ora i più zelanti. Dappertutto molta
buona volontà e un vivo desiderio di assicurar la vittoria.
Si verificano grandi atti di sacrificio. Il popolo non chiede di
meglio che di andare innanzi.
Tutto questo è bello, è
sublime. Ma non è ancora la rivoluzione. Al contrario,
è appunto ora che deve incominciare il compito del
rivoluzionario.
Certamente vi saranno sfoghi di vendette.
I Watrin e i Thomas(9) sconteranno la loro impopolarità. Ma
questo non sarà che un accidente di lotta, e non già
la rivoluzione.
I socialisti di governo, i radicali, i
genii incompresi del giornalismo, gli oratori ad effetto, borghesi
ed ex-lavoratori, correranno al municipio, ai ministeri, per
prendere possesso dei seggi abbandonati. Gli uni si fregieranno di
galloni, beatamente, ammirandosi negli specchi ministeriali e
studiandosi di dare ordini con un'aria di gravità,
confacentesi con la nuova posizione da essi occupata. Occorre loro
una fascia rossa, un berretto filettato di galloni e un gesto
magistrale per imporsi agli antichi compagni di redazione o di
laboratorio. Gli altri s'immergeranno negli scartafacci colla
miglior buona volontà di comprendervi qualcosa. Redigeranno
leggi, promulgheranno decreti dalle frasi altisonanti, che nessuno
s'incaricherà di mettere in esecuzione, - precisamente
perchè si è in rivoluzione.
Per conferirsi un'autorità che ad
essi manca, cercheranno la sanzione delle antiche forme di
governo. Assumeranno il nome di Governo Provvisorio, di Comitato
di Salute Pubblica, di Sindaco, di Comandante del Municipio, di
Capo della Sicurezza, e che so io. Eletti, oppure acclamati, si
raduneranno in parlamenti o Consigli del Comune. Ivi
s'incontreranno uomini appartenenti a dieci, venti scuole diverse,
che non sono chiesuole personali come spesso si dice, ma
corrispondono a particolari maniere di concepir l'estensione, la
importanza, i doveri della Rivoluzione, possibilisti,
collettivisti, radicali, giacobini, blanquisti, riuniti per forza;
perdono il loro tempo a discutere. Gli onesti si confonderanno con
gli ambiziosi, che sognan solo il dominio e il disprezzo della
folla donde pure sono usciti. Arrivati tutti con idee
diametralmente opposte, saran costretti a concludere alleanze
fittizie, per costituir maggioranze che avran la durata di un
giorno: si accapiglieranno, trattandosi l'un l'altro di
reazionarii, di autoritarii, di bricconi; incapaci di mettersi di
accordo su di alcun serio provvedimento, saran trascinati a
pettegoleggiare di sciocchezze; non riuscendo che ad abortire dei
proclami rumorosi, si prenderan tutti sul serio, mentre la vera
forza del movimento sarà nella strada.
Tutto ciò può divertire
coloro che sono amanti del teatro. Ma anche una volta: questo non
è la rivoluzione, e nulla di rivoluzionario è fatto
ancora!
Durante questo tempo il popolo soffre. Le
officine scioperano, i laboratori son chiusi, il commercio
ristagna. Il lavoratore non riscuote più nemmeno il salario
derisorio che prima aveva, e all'incontro il prezzo di tutti i
generi aumenta!
Con quell'abnegazione eroica che sempre
distingue il popolo, e che arriva sino al sublime nelle grandi
occasioni, esso pazienta. È il popolo che nel 1848
esclamava: «Noi mettiamo tre mesi di miseria a' servigi
della Repubblica» mentre i «rappresentanti» e i
signori del nuovo governo sino all'ultimo sbirro, riscuotevano
regolarmente la loro paga! Il popolo soffre. Nella sua fiducia di
fanciullone, colla bonarietà della massa che crede ne' suoi
agitatori, egli aspetta che lassù, alla Camera, al
Municipio, al Comitato di salute pubblica si occupino di lui.
Ma lassù a tutto si pensa, fuori
che alle sofferenze della folla. Quando la carestia tortura la
Francia nel 1793 e compromette la rivoluzione; quando il popolo
è ridotto all'estrema miseria, mentre l'elegante
passeggiata parigina de' Campi Elisi brulica di cocchi superbi ove
le darne sciorinano le loro acconciature fastose, Robespierre
insiste all'assemblea dei Giacobini perchè si discuta la
sua memoria sulla Costituzione inglese! Quando nel 1848 il
lavoratore soffre per la sospensione generale dell'industria, il
Governo provvisorio e la Camera si bisticciavano sulle pensioni
militari e il lavoro delle prigioni, senza domandarsi di che cosa
viva il popolo durante questi periodi di crisi. E se un rimprovero
deve muoversi alla Comune di Parigi, nata sotto il cannone dei
Prussiani e vissuta appena settanta giorni, si è di non
aver compreso che la rivoluzione comunale non poteva trionfare
senza combattenti ben nutriti, e che con trenta soldi per giorno
non si può nello stesso tempo battersi sui bastioni e
mantener la propria famiglia. Il popolo soffre e domanda: Che cosa
fare dunque per uscire da questa intricata situazione?
III.
Ebbene! a noi sembra che a tale domanda
non vi sia che una risposta:
- Riconoscere, e proclamare altamente che
ciascuno qualunque siano stati nel passato il suo partito, la sua
origine o la sua scuola, qualunque siano stati la sua forza o la
sua debolezza, le sue attitudini o la sua incapacità,
possiede, prima di tutto «il diritto di vivere»; e che
spetta alla Società di ripartire fra tutti, senza
eccezione, i mezzi di esistenza, di cui essa dispone. Riconoscer
questo, proclamarlo, e agire conseguentemente!
Fare in maniera che, sin dal primo giorno
della Rivoluzione il lavoratore sappia che un'era nuova si schiude
dinanzi a lui: che niuno ormai sarà costretto a coricarsi
sotto i ponti, presso i palagi dei ricchi; a restar digiuno
finchè vi saranno alimenti; a tremar di freddo vicino ai
magazzini di pelliccie. Che tutto appartenga a tutti, in
realtà come in principio, e che finalmente si produca nella
storia una rivoluzione che si occupi dei «bisogni» del
popolo, prima di fargli la lezione sui suoi «doveri».
E questo non si compierà per mezzo
di decreti, ma unicamente coll'entrare in possesso, di tutto
ciò che è necessario per assicurare la vita di
tutti. Tale è la sola maniera di procedere veramente
scientifica, la sola che sia compresa e desiderata dal popolo.
Prender possesso, in nome del popolo
ribellatosi, dei depositi di grano, dei magazzini che rigurgitano
di abiti, delle case abitabili. Nulla sciupare, organizzarsi
subito per rioccupare i vuoti, far fronte a tutte le
necessità, soddisfare tutti i bisogni, produrre, non
più per dar guadagno a chicchessia, ma per far vivere e
sviluppare la società.
Basta di quelle formule ambigue, quali il
«diritto al lavoro», con la quale si è
lusingato il popolo nel 1848 e si cerca ancora di lusingarlo!
Abbiamo il coraggio di riconoscere che l'agiatezza, ormai
possibile, deve realizzarsi ad ogni costo.
Quando, nel 1848, i lavoratori
reclamavano il diritto al lavoro, si organizzavano dei laboratori
nazionali o municipali, e si mandavano gli uomini a faticare in
questi laboratori a ragione di quaranta soldi al giorno! Quando
domandavano l'organizzazione del lavoro, veniva loro risposto:
«pazientate, amici miei, il governo pensa ad occuparsene, e
per oggi eccovi quaranta soldi. Riposatevi, rudi lavoratori, che
avete stentato per tutta la vostra vita!». E nel frattempo
si puntavano i cannoni. Si facevano appelli e contro-appelli di
truppe; si disorganizzavano i lavoratori stessi con i mille mezzi
che i borghesi conoscono a meraviglia. E un bel giorno si diceva
loro: «Partite a colonizzar l'Africa, o altrimenti vi faremo
mitragliare!».
Interamente diverso sarà il
risultato, se i lavoratori rivendicano «il diritto
all'agiatezza». Per questo fatto essi proclamano il loro
diritto d'impadronirsi di tutta la ricchezza sociale; di prendere
le case e di alloggiarvi, secondo i bisogni di ogni famiglia; di
prendere i viveri accumulati e di usarne in modo da conoscer
l'agiatezza dopo non aver che troppo conosciuta la fame. Essi
proclamano il loro diritto a tutte le ricchezze - frutto del
lavoro delle generazioni passate e presenti, e ne usano in modo da
gustare gli elevati godimenti dell'arte e della scienza, che per
troppo tempo furon monopolio dei borghesi.
E, in affermare il loro diritto
all'agiatezza, proclamano - ciò che è anche
più importante - il loro diritto di decidere essi stessi
qual debba essere questa agiatezza, ciò che occorre
produrre per assicurarla, e ciò che devesi abbandonare,
perchè privo ormai di valore.
Il diritto all'agiatezza è la
possibilità di vivere da esseri umani, e di educare i figli
per farne dei membri uguali di una società superiore alla
nostra, mentre che il «diritto al lavoro» è il
diritto di rimaner sempre schiavo salariato, l'uomo di fatica,
governato e sfruttato dal borghese di domani. Il diritto
all'agiatezza è la uguaglianza sociale; il diritto al
lavoro è tutto al più un reclusorio industriale.
È già lungo tempo che il
lavoratore proclama il suo diritto alla comune eredità, ed
è ora che egli ne prenda finalmente possesso.
IL COMUNISMO ANARCHICO
I.
Ogni società che vorrà
romperla con la proprietà privata, sarà costretta,
secondo noi, ad organizzarsi in comunismo anarchico. L'anarchia
conduce al comunismo, e il comunismo all'anarchia, non essendo
l'uno e l'altro che la espressione della tendenza predominante
delle società moderne, la ricerca dell'uguaglianza.
Vi fu un'epoca, in cui una famiglia di
contadini poteva considerare come prodotto del suo proprio lavoro
il grano ch'essa faceva maturare e gli abiti di lana tessuti nella
capanna. Ma anche allora, questo modo di concepire non era affatto
corretto. Poichè vi erano già strade e ponti
costruiti in comune, delle paludi prosciugate con un lavoro
collettivo, nonchè dei pascoli comunali cinti da siepi che
tutti contribuivano a mantenere. Un miglioramento apportato al
mestiere della tessitura, o nel modo di tingere i tessuti, era a
tutti giovevole; in quell'epoca, una famiglia di contadini non
poteva vivere che a condizioni di trovare appoggio, in mille
occasioni, nel villaggio, nel comune.
Ma oggi, in questo stato dell'industrie
dove tutto si intreccia e si sorregge reciprocamente, dove ogni
ramo della produzione si serve di tutti gli altri, la pretesa di
voler attribuire un'origine individualista ai prodotti non regge
in alcun modo. Se le industrie tessili e metallurgiche hanno
raggiunto nei paesi civili una meravigliosa perfezione, esse lo
debbono allo sviluppo simultaneo di mille altre industrie, grandi
e piccole; esse lo debbono all'estensione delle reti ferroviarie,
della navigazione transatlantica, all'abilità di milioni di
lavoratori, a un certo grado di coltura generale di tutta la
classe operaia, a dei lavori, infine, eseguiti da un capo
all'altro del mondo.
Gli Italiani che morivano di
colèra scavando il canale di Suez, o di anchilosi nella
galleria del Gottardo, e gli Americani caduti nella guerra per
l'abolizione della schiavitù, hanno contribuito allo
sviluppo della industria del cotone in Francia ed in Inghilterra,
non meno delle giovanette che avvizziscono nelle manifatture di
Manchester o di Rouen e dell'ingegnere che avrà arrecato
(dietro il suggerimento di qualche lavoratore) un miglioramento
qualunque nel mestiere della tessitura.
Come stimare la parte che spetta a
ciascuno, delle ricchezze che noi tutti contribuiamo ad
accumulare?
Partendo da questo punto di vista
generale e sintetico della produzione, noi non possiamo ammettere
con i collettivisti che possa essere un ideale, o anche un passo
innanzi verso questo ideale, la rimunerazione proporzionale alle
ore di lavoro da ciascuno effettuate per la produzione delle
ricchezze. Senza discutere qui se realmente il valore di scambio
delle merci sia calcolato nella società attuale dalla
quantità di lavoro necessario per produrle (come hanno
affermato Smith e Ricardo, di cui Marx ha seguito e rimesso a
nuovo le tradizioni)(10), ci basterà di dire, salvo a
ritornarci sopra più tardi, che l'ideale collettivista ci
pare irrealizzabile in una società che consideri gli
strumenti di produzione come un patrimonio comune. Basata su tale
principio, essa si vedrebbe poi costretta ad abbandonare
immediatamente ogni forma di salario(11).
Noi siamo persuasi che l'individualismo
attenuato dal sistema collettivista non potrebbe esistere a lato
del comunismo parziale del suolo e degli strumenti di lavoro
posseduti da tutti. Una nuova forma di possesso richiede anche una
nuova forma di retribuzione. Una nuova forma di produzione non
potrebbe conservare l'antica forma di consumo, come non potrebbe
adattarsi alle antiche forme d'organizzazione politica.
Il salariato ha avuto origine
dall'appropriazione personale del suolo e degli strumenti di
produzione da parte di qualcuno. Ciò era la condizione
necessaria per lo sviluppo della produzione capitalista, e
morrà con essa, anche quando si cercasse di dissimularlo
sotto la forma di «buoni di lavoro». Il possesso
comune degli strumenti di lavoro apporterà necessariamente
il godimento in comune dei frutti del lavoro comune.
Noi sosteniamo inoltre che il comunismo
è non solamente desiderabile, ma che le società
attuali basate sull'individualismo sono anche «costrette a
continuamente avanzare verso il comunismo».
Lo sviluppo dell'individualismo durante i
tre ultimi secoli si spiega sovratutto per gli sforzi dell'uomo
che voleva premunirsi contro i poteri del capitale e dello Stato.
Egli credette per un istante, e coloro che formulavano per lui il
suo pensiero lo predicarono, ch'egli poteva emanciparsi
interamente dallo Stato e dalla società. «Mediante il
danaro, egli diceva, io posso comprare tutto ciò di cui
avrò bisogno». Ma l'individuo sbagliò strada,
e la storia moderna lo riconduce a riconoscere che, senza il
concorso di tutti, ei non può nulla, quand'anche avesse le
sue casse forti ricolme d'oro.
Infatti, a lato di questa corrente
individualista, noi vediamo in tutta la storia moderna la tendenza
a ritenere da una parte ciò che rimane del parziale
comunismo dell'antichità, e dall'altra a ristabilire il
principio comunista in mille e mille manifestazioni della vita.
Da quando i Comuni del decimo, undecimo e
dodicesimo secolo, riuscirono a emanciparsi dalla signoria laica o
religiosa, diedero immediatamente una grande estensione al lavoro
in comune, al consumo in comune.
La città - e non già i
particolari - noleggiava bastimenti e spediva le sue carovane per
il commercio lontano, dei cui benefizii godevano tutti, e non
alcuni individui soltanto; la città acquistava anche le
provviste per i suoi abitanti. Le tracce di queste istituzioni si
son conservate sino al diciottesimo secolo, e i popoli ne
custodiscono piamente la memoria nelle loro leggende.
Tutto questo è scomparso. Ma il
comune rurale lotta ancora per mantenere le ultime vestigia di
questo comunismo, e vi riesce fintantochè lo Stato non
intervenga a gettar nella bilancia la sua spada assai pesante.
Nello stesso tempo nuove organizzazioni
basate sullo stesso principio: «a ciascuno secondo i proprii
bisogni» sorgono sotto mille aspetti diversi:
imperocchè, senza una tal quale dose di comunismo, anche le
società attuali non potrebbero vivere. Malgrado il giro
strettamente egoista dato agli spiriti dalla produzione
mercantile, la tendenza comunistica si rivela ad ogni momento e
penetra nelle nostre relazioni sotto tutte le forme.
Il ponte, sul quale una volta gravava la
tassa di pedaggio pei passeggeri, è diventato
proprietà pubblica. La strada lastricata, che si pagava un
tempo a tanto per lega, non esiste più che in Oriente. I
musei, le biblioteche libere, le scuole gratuite, le refezioni in
comune dei fanciulli; i parchi e i giardini aperti a tutti; le
strade lastricate e illuminate, libere per tutti; l'acqua
trasportata nelle abitazioni con tendenza generale a non tener
conto della quantità consumata - sono altrettante
istituzioni fondate sul principio: «Prendi ciò che ti
occorre».
I «tramways» e le strade
ferrate introducono già il biglietto d'abbonamento mensile
o annuo, senza tener conto del numero dei viaggi: e recentemente
un'intera nazione, l'Ungheria, ha introdotto nella sua rete di
ferrovie il biglietto per zone, che permette di percorrere
cinquecento o mille chilometri per lo stesso prezzo(12). Non si
è lontani dal prezzo uniforme, come per il servizio
postale. In tutte queste innovazioni e in mille altre, si
riscontra la tendenza di non misurare il consumo. Un tale sente il
bisogno di percorrere mille leghe, un altro invece solo
cinquecento. Questi sono bisogni personali e non v'è
ragione di far pagare all'uno il doppio dell'altro, perchè
il suo bisogno è due volte più intenso(13). Tali i
fenomeni che si verificano sin nelle nostre società
individualiste.
Per quanto ancora debole, esiste
già fin d'adesso la tendenza di collocare i bisogni
dell'individuo al disopra della valutazione dei servigi ch'egli ha
reso, o che renderà un giorno alla società. Si
giunge a considerare la società come un tutto, di cui ogni
parte è così intimamente collegata colle altre, che
il servigio reso a un individuo, è un servigio reso a
tutti.
Quando vi recate in una biblioteca
pubblica - non la biblioteca nazionale di Parigi, per esempio, ma
quelle di Londra o Berlino - il bibliotecario non vi domanda quali
servigi voi avete resi alla società per darvi il volume od
i cinquanta volumi che voi gli richiedete, e vi aiuta anzi
all'occorrenza se per caso non vi sapete raccapezzare nel
catalogo. Mediante un diritto d'ingresso uniforme, e molto spesso
si preferisce una contribuzione in lavoro, la società
scientifica apre i suoi musei, i suoi giardini, la sua biblioteca,
i suoi laboratori, le sue feste annue a ciascuno dei suoi membri,
sia egli un Darwin o un semplice dilettante.
A Pietroburgo, se voi state studiando
un'invenzione, potete recarvi in un laboratorio speciale, dove vi
si accorda un posto, un banco da falegname, un tornio da
meccanico, tutti gli attrezzi necessarii, tutti gli strumenti di
precisione, purchè voi sappiate adoperarli; e vi si lascia
lavorare finchè vi piacerà. Eccovi gli attrezzi,
interessate degli amici alla vostra idea, associatevi ad altri
compagni di diversi mestieri se voi non preferite di lavorar solo,
inventate la macchina per volare, o non inventate nulla - è
affar vostro. Un'idea vi trascina, ciò basta.
Ugualmente, i marinai di un battello di
salvataggio non domandano i loro titoli ai marinai d'un bastimento
che cola a fondo; ma slanciano a mare la imbarcazione, rischiano
la vita fra le ondate furibonde, e talvolta periscono per salvare
degli uomini che non conoscono nemmeno. E perchè dovrebbero
conoscerli? «Si ha bisogno dei nostri servigi; vi son
là degli esseri umani ciò basta, il loro diritto
è stabilito. - Salviamoli!».
Ecco la tendenza, eminentemente
comunistica, che dappertutto si mostra, sotto tutti gli aspetti
possibili, nel seno stesso delle nostre società che
predicano l'individualismo.
Domani una delle nostre grandi
città, così egoiste in tempi ordinari, viene colpita
da una calamità qualunque - quella d'un assedio ad esempio
- questa stessa città deciderà che i primi bisogni
da soddisfare sieno quelli dei fanciulli e dei vecchi. Senza
informarsi dei servigi che essi hanno reso o renderanno alla
società, occorre, prima di tutto, nutrirli; e così
prender cura dei combattenti, indipendentemente dalla bravura o
dall'intelligenza di cui ognun d'essi avrà dato prova, e
fra migliaia di donne e di uomini avverrà una gara generosa
di abnegazione per curare i feriti.
La tendenza dunque esiste. Essa si
accentua quando i bisogni più imperiosi di ciascuno sono
soddisfatti, e a misura che la forza produttrice
dell'umanità si accresce; essa si accentua ancor più
ogni volta che una grande idea sorge a prendere il posto delle
meschine preoccupazioni della nostra vita quotidiana.
Come dubitar dunque che, il giorno in cui
gli strumenti di produzione venissero consegnati a tutti e si
compisse l'opera in comune e il lavoro, riacquistando così
nella società il suo posto d'onore, producesse ben
più di quel che necessiti a tutti, come dubitare che
allora, questa tendenza, già così potente, non
allarghi la sua sfera d'azione, sino a diventare il principio
stesso della vita sociale?
Secondo quest'indizii, e riflettendo
inoltre al lato pratico dell'espropriazione, di cui parleremo nei
seguenti capitoli, noi siamo d'opinione che il nostro primo
obbligo, quando la rivoluzione avrà spezzato la forza che
mantiene il sistema attuale, sarà di realizzare
immediatamente il comunismo.
Ma il nostro comunismo non è
quello dei falansteriani, nè quello dei teorici autoritarii
tedeschi. È il comunismo anarchico, il comunismo senza
governo, quello degli uomini liberi. È la sintesi dei due
scopi ai quali mira l'umanità attraverso i tempi: la
libertà economica e la libertà politica.
II.
Anche nel prendere
«l'anarchia» come ideale di organizzazione politica,
noi non facciamo che formulare un'altra decisa tendenza
dell'umanità. Ogni volta che il progredire dello sviluppo
delle società europee l'ha permesso, esse scuotevano il
giogo dell'autorità, e abbozzavano un sistema basato sui
principii della libertà individuale. E noi osserviamo nella
storia che i periodi, durante i quali i governi furono scossi, in
seguito a rivolte parziali o generali, sono state epoche di
progresso immediato sul terreno economico ed intellettuale.
È talvolta l'emancipazione dei
comuni, i cui monumenti - frutto del lavoro libero di associazioni
libere - non sono stati dipoi mai più superati; ora
è la sollevazione dei contadini, la quale creò la
Riforma e mise in pericolo il Papato; ora è la
Società, momentaneamente libera, che sull'altra sponda
dell'Atlantico crearono i malcontenti salpati dalla vecchia
Europa.
E se noi osserviamo lo sviluppo presente
delle nazioni civili, vi scorgiamo, senza tema d'ingannarci, un
movimento sempre più accentuato per limitare la sfera di
azione del governo, e lasciar sempre maggior libertà
all'individuo. L'odierna evoluzione è intralciata, è
vero, dal guazzabuglio di istituzioni e di pregiudizii ereditati
dal passato; come tutte le evoluzioni, essa non attende che la
rivoluzione per rovesciare le vecchie catapecchie che le
ostacolano il cammino, per prendere un libero slancio nella
società rigenerata.
Dopo aver per lungo tempo tentato
vanamente di risolver questo problema insolubile, quello di darsi
un governo, «il quale possa costringer l'individuo
all'obbedienza, senza nondimeno cessar d'obbedire egli stesso alla
società», l'umanità si sforza di liberarsi da
ogni specie di governo, e a soddisfare i suoi bisogni di
organizzazione per mezzo del libero accordo fra individui e gruppi
che mirano allo stesso fine. L'indipendenza di ogni minima
unità territoriale diventa un bisogno urgente; il comune
accordo sostituisce la legge e regola, al disopra delle frontiere,
gl'interessi particolari in vista di uno scopo generale.
Tutto ciò che fu una volta
considerato come funzione del governo, gli viene oggi contrastato:
ci si aggiusta meglio e più facilmente senza il suo
intervento. Studiando i progressi fatti in questo senso, noi siamo
indotti a concludere che l'umanità tende a ridurre a zero
dei governi, cioè ad abolire lo Stato, questa
personificazione dell'ingiustizia, dell'oppressione, del
monopolio.
Noi possiamo già prevedere un
mondo in cui l'individuo, cessando di esser vincolato da leggi,
non avrà che abitudini socievoli - risultato del bisogno,
provato da ognun di noi, di cercare l'appoggio, la cooperazione,
la simpatia dei propri vicini.
Certo, l'idea di una società senza
Stato susciterà, per lo meno, altrettante obbiezioni quante
l'economia politica di una società senza capitale privato.
Tutti, più o meno, crescemmo alimentati da pregiudizii
sulle funzioni provvidenziali dello Stato. Tutta la nostra
educazione, dall'insegnamento delle tradizioni romane sino al
codice bizantino, che si studia sotto il nome di diritto romano, e
le stesse scienze diverse professate nelle Università, ci
abituano a credere al governo e alle virtù dello
Stato-Provvidenza.
Interi sistemi di filosofia sono stati
elaborati e insegnati per mantenere questo pregiudizio. Tutte le
teoriche della legge si esprimono nel medesimo senso. E tutta la
politica è basata su questo principio; ed ogni politicante,
qualunque sia il suo partito e la sua gradazione, non fa che
ripetere al popolo «Dammi il potere, perchè io
voglio, io posso liberarti dalle miserie che ti opprimono».
Dalla culla alla tomba, tutte le nostre
azioni sono dirette da questo principio. Aprite non importa qual
libro di sociologia, di giurisprudenza, e troverete sempre che il
governo, la sua organizzazione, i suoi atti vi occupano un posto
così grande, che noi ci abituiamo a credere che non vi sia
null'altro all'infuori del governo e degli uomini di Stato.
La stessa lezione è ripetuta su
tutti i toni dalla stampa. Colonne intere dei giornali son
dedicate alle discussioni parlamentari, agl'intrighi dei
politicanti; è molto se la vita quotidiana e immensa d'una
nazione vi fa capolino tra qualche linea che tratta di un
argomento economico, a proposito d'una legge, o, nella cronaca, a
cagion della polizia. E quando voi leggete questi giornali, non
pensate punto al numero incalcolabile di esseri - tutta
l'umanità, per così dire - che crescono e muoiono,
che conoscono tutti i dolori, che lavorano e consumano, pensano e
creano, al di là di quei pochi personaggi imbarazzanti che
sono stati tanto gonfiati, sino a far loro nascondere, colla loro
ombra ingrandita dalla nostra ignoranza, l'intera umanità.
Eppure, non appena si passa dalla materia
stampata alla vita istessa, non appena si getta un colpo d'occhio
sulla società, si rimane colpiti della parte infinitamente
minuscola che il governo vi rappresenta. Balzac aveva già
notato quanti milioni di contadini passano la vita intera senza
nulla conoscer dello Stato, salvo le pesanti imposte che sono
obbligati a tributargli. Ogni giorno avvengono milioni di
transazioni senza che il governo debba intervenire, e le
più importanti fra esse - quelle del commercio e della
Borsa - sono regolate in tal maniera che il governo non potrebbe
nemmeno essere invocato, qualora l'una delle parti contraenti
avesse l'intenzione di non mantenere il suo impegno. Parlate a un
uomo pratico del commercio, ed ei vi dirà che gli scambii
operati ogni giorno fra commercianti sarebbero di
un'impossibilità assoluta, se non fossero basati sulla
mutua fiducia. L'abitudine di non mancare alla parola data, il
desiderio di non perdere il proprio credito, bastano largamente
per mantenere questa onestà relativa, - l'onestà
commerciale. Colui stesso che non prova il menomo rimorso di
avvelenare la sua clientela con droghe infette, ricoperte da
etichette pompose, si fa uno scrupolo di mantenere i proprii
impegni. Ora, se questa moralità relativa ha potuto
svilupparsi persino nelle condizioni attuali, quando
l'arricchimento è il solo movente e il solo obbiettivo
degli uomini, come possiamo dubitare ch'essa non progredisca
rapidamente allorchè l'appropriazione dei frutti del lavoro
altrui avrà cessato di essere la base stessa della
società?
Un'altra sorprendente nota
caratteristica, la quale distingue specialmente la nostra
generazione, parla ancor meglio in favore delle nostre idee.
Intendiamo dire dell'accrescimento continuo nel campo delle
intraprese dovute all'iniziativa privata, e lo sviluppo prodigioso
degli aggruppamenti liberi di ogni specie. Noi ne discorreremo
più a lungo nei capitoli dedicati al «Libero
Accordo». Ci limiteremo qui a notare come questi fatti siano
numerosi e così abituali, da formare l'essenza della
seconda metà di questo secolo, anche quando gli scrittori
di socialismo e di politica li ignoravano, preferendo
intrattenersi sempre sulle funzioni del governo. Queste
organizzazioni libere, variate all'infinito, sono un prodotto
così naturale, così rapidamente si sviluppano, e con
tanta facilità si aggruppano, e sono un risultato
così necessario dell'aumento continuo dei bisogni dell'uomo
civilizzato, e finalmente esse sostituiscono così
vantaggiosamente l'intrusione governativa, che noi dobbiamo
riconoscere in loro un fattore sempre più importante nella
vita sociale.
Se esse non si estendono ancora in
proporzione d'insieme, colle manifestazioni della vita, egli
è perchè si scontrano in ostacoli insormontabili,
quali la miseria del lavoratore, la divisione in caste della
società attuale, l'appropriazione privata del capitale, lo
Stato. Sopprimete questi ostacoli, e voi le vedrete ricoprir tutto
l'immenso dominio dell'attività degli uomini civili.
La storia degli ultimi cinquant'anni ha
fornito la prova vivente dell'impotenza del governo
rappresentativo ad adempiere alle funzioni delle quali lo si
è voluto sopraccaricare. Si citerà un giorno il
secolo decimonono come la data della liquidazione del
parlamentarismo.
E quest'impotenza diventa così
evidente agli occhi di tutti, e le colpe del parlamentarismo e i
vizi fondamentali del principio rappresentativo sono così
palpabili, che quei pochi pensatori i quali ne han fatto la
critica, quali T. S. Mill e Leverdays, per esempio, non hanno
dovuto che riprodurre il malcontento popolare. Infatti, come non
concepire l'assurdità di nominare alcuni individui e dir
loro: «Fateci delle leggi intorno a tutte le manifestazioni
della nostra vita, anche quando ognun di voi le ignora?». Si
comincia a capire che governo della maggioranza significa
abbandono di tutti gli affari del paese nelle mani di coloro che
formano le maggioranze, cioè dei «rospi di
palude», sia alla Camera che nei comizi: in una parola a
coloro che non hanno alcuna opinione. L'umanità cerca, e
trova già nuove uscite.
L'unione postale internazionale, l'unione
delle strade ferrate, le società di dotti ci danno
l'esempio di soluzioni trovate per mezzo del libero accordo, senza
bisogno di ricorrere a leggi.
Oggi, quando dei gruppi sparsi ai quattro
angoli del mondo vogliono organizzarsi per uno scopo qualunque,
non nominano più un parlamento internazionale di deputati
«buoni a far tutto, adatti a tutte le bisogne», ai
quali si dice: «Votateci delle leggi, e noi
obbediremo». Quando è impossibile intendersi
direttamente o per corrispondenza, si mandano delegati che
conoscono la questione speciale da trattarsi e si dice loro:
«Cercate di accordarvi sulla tale questione, e allora
ritornate, non già con una legge in tasca, ma con una
proposta di accordo che noi accetteremo, o non accetteremo».
Così appunto agiscono le grandi
compagnie industriali, le società scientifiche, le
associazioni di ogni specie che coprono già l'Europa e gli
Stati Uniti. E così dovrà agire una società
che siasi emancipata. Per effettuare l'espropriazione, le
sarà assolutamente impossibile di organizzarsi sul
principio della rappresentanza parlamentare. Una società
fondata sul servaggio poteva adattarsi con una monarchia assoluta:
una società basata sul salariato e lo sfruttamento delle
masse per opera dei possessori del capitale, si assettava sul
parlamentarismo. Ma una società libera la quale rientra in
possesso della comune eredità, dovrà cercare, nel
libero aggruppamento e nella libera federazione dei gruppi,
un'organizzazione nuova, la quale convenga alla nuova fase
economica della storia.
Ad ogni fase economica corrisponde la sua
fase politica, e sarà impossibile di colpire la
proprietà senza trovar nel medesimo istante una nuova
maniera di vita politica.
L'ESPROPRIAZIONE
I.
Si racconta che nel 1848, Rothschild,
vedendosi minacciato dalla Rivoluzione nella sua fortuna,
inventasse la seguente storiella: «Io voglio pure ammettere,
egli diceva, che la mia fortuna siasi fatta a spese degli altri.
Ma divisa fra tanti milioni d'Europei, essa non fornirebbe che uno
scudo a persona. Ebbene! io mi impegno a restituire a ciascuno il
suo scudo, se egli me lo richiederà».
Ciò detto, e debitamente
pubblicato, il nostro milionario passeggiava tranquillamente per
le vie di Francoforte. Tre o quattro passeggeri gli chiesero il
loro scudo; egli lo sborsò con un sorriso sardonico, e il
tiro fu giocato. La famiglia del milionario è ancora in
possesso dei suoi tesori.
Presso a poco nell'identica maniera
ragionano le grandi teste della borghesia, quando ci dicono:
- «Ah, l'espropriazione? ma io
l'accetto. Voi prendete a ciascuno il suo soprabito, lo mettete in
mucchio cogli altri, ed ognuno va a prendersene uno, salvo a
litigare poi per avere il migliore!».
È uno scherzo di cattivo gusto.
Quel che ci occorre, non è di mettere i soprabiti tutti in
un mucchio per ridistribuirli poi in seguito, benchè coloro
che muoiono di freddo vi troverebbero pure qualche vantaggio. Non
si tratta nemmeno di dividere gli scudi di Rothschild. Ma noi
vogliamo organizzarci in maniera che ogni essere umano che venga
al mondo, abbia la possibilità assicurata di imparare
dapprima un lavoro produttivo, e acquistarne l'abitudine; e in
seguito di poter fare questo lavoro senza domandarne il permesso
al proprietario e al padrone, e senza pagare agl'incettatori della
terra e delle macchine la parte del leone su tutto ciò
ch'egli produrrà.
Quanto alle ricchezze di ogni specie
accumulate nelle mani dei Rothschild e dei Vanderbilt, esse ci
serviranno per meglio organizzare la nostra produzione in comune.
Il giorno in cui il contadino
potrà lavorar la terra senza rilasciar la metà di
ciò che ha prodotto; il giorno in cui le macchine
necessarie per preparare il suolo alle grandi raccolte saranno in
abbondanza, alla libera disposizione dei coltivatori: il giorno in
cui l'operaio dell'officina produrrà per la comunità
e non per il monopolio, i lavoratori non saranno più
ricoperti di cenci; e non vi saranno più Rothschild,
nè altri sfruttatori.
Nessuno avrà più bisogno di
vendere la sua forza di lavoro per un salario che non rappresenta
che una parte di ciò ch'egli ha prodotto.
- «Sia pure, ci vien detto. Ma vi
arriveranno dei Rothschild dal di fuori. Come potrete impedire che
un individuo, il quale abbia accumulato milioni in Cina venga a
stabilirsi fra voi? che si circondi di servitori e di lavoratori
salariati, che li sfrutti e si arricchisca a loro spese?».
- «Voi non potrete far la
Rivoluzione su tutta la terra contemporaneamente. Oppure dovrete
stabilire alle vostre frontiere dogane e doganieri, che
perquisiscano quei che arrivano, e loro sequestrino l'oro che
recano con sè. - Sarebbe proprio bello il vedere gendarmi
anarchici, che tirano sui passeggeri!».
Ebbene, in fondo a questo ragionamento
risiede un grave errore. Egli è che pochi si domandano da
dove provengano le fortune dei ricchi. Un poco di riflessione
basterebbe per dimostrare che l'origine di queste fortune è
la miseria dei poveri.
Là, dove non ci saranno
miserabili, non ci saranno più ricchi per sfruttarli.
Osservate un poco il medio evo, quando
cominciano a sorgere le grandi fortune.
Un barone feudale ha fatto man bassa su
di una fertile vallata. Ma finchè questa campagna non sia
popolata, il nostro barone non è punto ricco. La sua terra
non gli rende nulla: tanto varrebbe il possedere dei beni nella
luna. Che cosa farà il nostro barone per arricchirsi?
Cercherà dei contadini.
Però, se ogni agricoltore avesse
un pezzo di terra libero da ogni canone o imposta; se avesse,
inoltre, gli attrezzi ed il bestiame necessario per coltivarlo,
chi vorrebbe dunque andare invece a dissodare le terre del barone?
Ognuno rimarrebbe in casa sua. Ma vi sono intere popolazioni di
miserabili. Molti sono stati rovinati dalle guerre, dalle
carestie, dalle epidemie; essi non hanno nè cavallo,
nè aratro. (Il ferro era costoso nel medio evo, più
costoso ancora del cavallo da fatica).
Tutti i miserabili aspirano a migliorare
le proprie condizioni. Un giorno vedono sulla via,
all'estremità delle terre del nostro barone, un palo il
quale indica con certi segni comprensibili, che il lavoratore il
quale verrà a stabilirsi su quelle terre riceverà,
insieme col terreno, gli strumenti e i materiali per costruir la
sua capanna, seminare il suo campo, senza alcun canone durante un
certo numero d'anni. Questo numero di anni è segnato sul
palo-frontiera con altrettante croci, e il contadino comprende che
cosa significhino quelle croci.
E allora i miserabili affluiscono sulla
terra del barone, e vi aprono strade, vi prosciugano le paludi, vi
creano villaggi. Fra nove anni il barone imporrà loro un
contratto di affitto; cinque anni più tardi
preleverà le prime imposte, che quindi raddoppierà.
Il lavoratore accetterà queste condizioni, perchè
non ne troverebbe migliori altrove. E a poco a poco, con l'aiuto
della legge fatta dai padroni, la miseria del contadino diventa la
fonte di ricchezza del signore, e non di lui soltanto, ma di tutto
un nugolo di usurai, i quali, da veri uccelli di rapina, si
precipitano sui villaggi, e si moltiplicano, quanto più il
contadino maggiormente s'impoverisce.
Così accadeva nel medio evo. Ed
oggi, forse, non si verifica sempre la stessa cosa? Se vi fossero
terre libere, che il contadino potesse coltivare a suo piacimento,
acconsentirebbe forse a pagare mille lire per ettaro al signor
conte o barone, il quale si degna di vendergliene un pezzo?
Consentirebbe forse a pagare un affitto gravoso che gli assorbe un
terzo dei prodotti che ha ottenuti? Anderebbe forse a coltivare i
terreni in mezzadria per dare la metà del raccolto al
proprietario dei campi?
Ma poichè nulla egli possiede,
accetterà tutte queste condizioni, purchè possa
vivere coltivando il suolo, ed arricchirà il signore.
In pieno secolo decimonono, precisamente
come nel medio evo, la povertà del contadino forma ancora
la ricchezza dei proprietari di terre.
II.
Il proprietario del suolo si arricchisce
dunque della miseria del contadino. Lo stesso accade per
l'intraprenditore industriale.
Eccovi un borghese il quale, in un modo o
in un altro, si trova possessore di un gruzzolo di cinquecentomila
lire. Egli può certamente spendere il suo denaro in ragione
di cinquantamila lire all'anno, - ben poco, in fondo, considerando
il lusso fantastico e insensato dei nostri giorni. Ma allora, in
capo a dieci anni, non avrà più nulla.
Cosicchè, da uomo «pratico», egli preferisce di
conservare intatta la sua fortuna, e, per di più, di
formarsi un discreto reddito annuale.
Ciò è molto semplice a
mettersi in pratica nella nostra società, precisamente
perchè le nostre città e i nostri villaggi
formicolano di lavoratori, i quali non hanno di che vivere
nè per un mese, nè per una quindicina di giorni. Il
borghese impianta un'officina: i banchieri si affrettano a
prestargli ancora cinquecentomila lire, sovrattutto s'egli gode
riputazione di uomo accorto; ed ecco che, con un milione,
potrà far lavorare cinquecento operai.
Se non vi fossero nei dintorni della
nuova officina altro che uomini e donne, la cui esistenza fosse
garantita, chi anderebbe dunque a lavorare per il nostro borghese?
Nessuno, certo, acconsentirebbe a fabbricargli per un salario di
tre lire al giorno, merci che valgono cinque ed anche dieci lire.
Disgraziatamente, - noi lo sappiamo
purtroppo, - i quartieri poveri della città e dei villaggi
vicini rigurgitano di gente, i cui figliuoli si lamentano per la
fame. Di modo che l'officina non è nemmeno terminata, e
già i lavoratori fanno ressa per essere occupati. Non ne
occorrevano che cento, e se ne offrirono mille. E sin quando
l'officina comincerà a funzionare, il padrone - se non
è proprio l'ultimo degli imbecilli - incasserà, per
ogni paio di braccia che lavorano da lui, un migliaio di lire
all'anno di utile netto.
Si formerà così una rendita
magnifica, e, s'egli ha scelto poi un ramo d'industria lucroso, se
è abile, ingrandirà a poco a poco la sua officina e
aumenterà le sue rendite, raddoppiando il numero degli
uomini da sfruttare.
Diventerà allora un personaggio
considerevole nel paese. Potrà pagar dei pranzi agli altri
personaggi considerevoli, al sindaco, ai consiglieri, al signor
deputato. Potrà, con un matrimonio vantaggioso, congiungere
la sua fortuna a un'altra, e, più tardi, collocare a sua
volta vantaggiosamente i suoi figli, e finalmente ottenere dallo
Stato qualche concessione. Gli verrà accordata una
fornitura per l'esercito, o per la prefettura; ed egli
arrotonderà sempre più il suo gruzzolo,
finchè una guerra, o un semplice rumore di guerra, o una
speculazione alla Borsa, gli permetteranno di fare ciò che
si dice un bel colpo.
I nove decimi delle fortune colossali
degli Stati Uniti (Henry George l'ha ben raccontato nei suoi
«Problemi Sociali»)(14) sono dovute a qualche grande
bricconeria, i nove decimi delle fortune nelle nostre monarchie e
nelle nostre repubbliche hanno la stessa origine. Non vi sono due
maniere per diventare milionari!
Tutta la scienza delle ricchezze consiste
in questo: trovar dei miserabili, pagarli tre lire al giorno e
farne loro produrre dieci; ammassare così una grossa
fortuna. Accrescerla in seguito con qualche gran colpo, con
l'aiuto dello Stato.
Dovremmo parlare ancora delle piccole
fortune che gli economisti attribuiscono al risparmio, mentre che
il risparmio, in se stesso, non «rende» nulla,
finchè i soldi «risparmiati» non vengono
impiegati a sfruttare i morti di fame?
Eccovi un calzolaio. Ammettiamo che il
suo lavoro sia ben rimunerato, che abbia una buona clientela e
che, a forza di privazioni, sia riuscito a mettere da parte due
lire al giorno, cinquanta lire al mese!
Ammettiamo che il nostro calzolaio non
cada mai malato; che mangi sino a saziare il suo appetito,
malgrado la sua avidità per il risparmio; che non si
ammogli, o pure non abbia figli; che non muoia di etisia;
ammettiamo tutto ciò che vorrete!
Ebbene, all'età di cinquant'anni
egli non sarà riuscito a mettere da parte quindici mila
lire; e non avrà abbastanza di che vivere durante la sua
vecchiaia, quando sarà incapace di lavorare. Certo, non
è così che si ammassano le fortune.
Ma eccovi un altro calzolaio. Non appena
egli avrà messo da parte qualche soldo, lo affiderà
gelosamente alla cassa di risparmio, la quale lo presterà
al borghese che sta impiantando una speculazione per lo
sfruttamento dei senza lavoro. In seguito il bravo calzolaio
prenderà un apprendista, - il figlio di un miserabile che
si stimerà felice se, in capo a cinque anni, suo figlio
imparerà il mestiere e arriverà a guadagnarsi la
vita.
L'apprendista
«frutterà» al nostro calzolaio; sicchè,
se questi ha buon numero di clienti, si affretterà a
prendere un secondo e poi un terzo allievo. Più tardi,
progredendo, stipendierà due o tre operai, - miserabili,
felici di riscuotere tre lire al giorno per un lavoro che ne vale
sei. E se il nostro calzolaio ha un poco di fortuna, cioè
se è abbastanza furbo, i suoi operai ed i suoi apprendisti
gli frutteranno una ventina di lire al giorno, oltre al suo
proprio lavoro. Potrà così ingrandire il suo
negozio, e arricchirsi a poco a poco, senza più privarsi
dello stretto necessario. Lascierà a suo figlio un piccolo
patrimonio.
Ecco ciò che si chiama comunemente
«fare dei risparmi, aver abitudini sobrie e regolate».
In fondo non si tratta sempre che di sfruttare i poveri che hanno
bisogno di lavorare.
Il commercio sembra fare eccezione alla
regola. «Il tale, ci si dirà, compra del thè
in China, l'importa in Francia, realizzando un beneficio del
trenta per cento sul suo denaro. Così non sfrutta
nessuno».
E pure, il caso è analogo. Se il
nostro tale avesse trasportato il thè sulle sue spalle,
meno male! Una volta, e precisamente alle origini del medio evo,
il commercio si faceva in tal maniera. Così pure non si
arrivava mai alle favolose ricchezze dei giorni nostri; il
mercante d'allora metteva appena da parte alcuni scudi dopo un
viaggio penoso e pericoloso. E forse era più il piacere
delle avventure e dei viaggi che non la sete di guadagno, che lo
spingeva a darsi al commercio.
Oggi il metodo è più
semplice, il mercante che possiede un capitale non ha bisogno di
muoversi dal suo ufficio per arricchirsi. Telegrafa ad un
rappresentante l'ordine di comperare cento tonnellate di
thè; noleggia un bastimento; e in alcune settimane, - in
tre mesi, se è un veliero - il bastimento gli avrà
portato il suo carico. Non corre nemmeno i rischi della traversata
perchè il suo thè e il suo bastimento sono
assicurati. E se ha speso cento mila lire, ne riscuoterà
cento trenta; - a meno ch'egli non abbia voluto speculare su
qualche nuovo genere di mercanzia; nel qual caso rischia, sia di
raddoppiare il suo denaro, sia di perderlo interamente.
Ma come ha potuto egli trovare uomini che
si siano decisi a fare la traversata, andare in China e ritornare,
lavorare duramente, sopportare fatiche, rischiare la loro vita per
un magro compenso? Come ha potuto trovare nei porti dei facchini
che pagava appena di che non lasciarli morir di fame mentre
lavoravano al carico e allo scarico della sua merce? Come? -
Perchè essi son miserabili!
Andate in un porto di mare, visitate i
caffè della spiaggia, osservate quegli uomini che vengono a
domandar lavoro, disputandosi l'entrata nei magazzini di deposito,
che assediano fin dall'alba, per essere ammessi a lavorare sui
bastimenti. Guardate quei marinai, felici di essere arruolati per
un viaggio lontano, dopo settimane e mesi d'aspettativa. Tutta la
loro vita è trascorsa di bastimento in bastimento e su
altri ancora serviranno, finchè un giorno periranno nelle
onde.
Entrate nei loro tuguri, esaminate quelle
donne e quei fanciulli cenciosi, che vivono non si sa come,
aspettando il ritorno del padre, - e voi avrete la risposta alla
vostra domanda.
Moltiplicate gli esempi, sceglieteli dove
a voi piacerà meglio; meditate sull'origine di tutte le
fortune, grandi o piccole, provengano esse dal commercio, dalla
banca, dall'industria o dal suolo. Dappertutto voi constaterete
che la ricchezza degli uni è formata colla miseria degli
altri. Una società anarchica non può temere che un
Rothschild sconosciuto venga ad un tratto a stabilirsi nel suo
seno.
Se ogni membro della comunità si
convince che dopo alcune ore di lavoro produttivo, avrà
diritto a tutti i piaceri che la civiltà procura, alle
gioie profonde che la Scienza e l'Arte concedono a chi le coltiva,
non anderà già a vendere la sua forza di lavoro per
un magro compenso; nessuno si offrirà per arricchire il
Rothschild in questione.
Rispondendo all'obbiezione precedente,
noi abbiamo nello stesso tempo determinato i limiti
dell'espropriazione.
L'espropriazione deve comprendere tutto
ciò che permette a chicchesia - banchiere, industriale o
coltivatore - di appropriarsi il lavoro altrui. La formula
è semplice e comprensibile.
Noi non vogliamo spogliare ciascuno del
suo soprabito; ma vogliamo restituire ai lavoratori
«tutto» ciò che permette a chiunque siasi di
sfruttarli: e noi faremo tutti i nostri sforzi perchè, pur
non essendovi nessuno che manchi di nulla, non esista «un
solo individuo» il quale sia costretto a vendere le proprie
braccia per vivere insieme coi suoi figliuoli.
Ecco in qual modo noi intendiamo
l'espropriazione!
III.
L'idea anarchica in generale, e quella
dell'espropriazione in particolare, trovano maggiori simpatie che
non si creda, fra gli uomini indipendenti di carattere, e fra
quelli che non hanno l'ozio per loro ideale supremo.
«Però, ci dicono spesso i nostri amici, badate di non
spingervi troppo lontano! Giacchè l'umanità non si
modifica in un giorno, non andate troppo presto coi vostri
progetti di espropriazione e di anarchia! Rischierete di non far
nulla di durevole!».
Ebbene, quel che noi temiamo, riguardo
all'espropriazione, non è punto di andar troppo lungi. Noi
temiamo, al contrario, che l'espropriazione si faccia su di una
scala troppo piccola per essere duratura; che lo slancio
rivoluzionario si arresti a mezza strada; che esso si esaurisca in
mezze misure le quali non appagherebbero nessuno, e che, pure
generando un formidabile scompiglio nella società e una
sospensione delle sue funzioni, non avrebbero pur tuttavia
abbastanza vita, seminerebbero il malcontento generale e
apporterebbero fatalmente il trionfo della reazione.
Vi sono infatti, nelle nostre
società, dei rapporti stabiliti, che sono materialmente
impossibili ad essere modificati, se si colpiscono soltanto in
parte. I varii ingranaggi della nostra organizzazione economica
sono così intimamente collegati fra loro, che non si
può modificarne uno solo senza modificarli tutti nel loro
insieme. Di questo ci si accorgerà quando si vorrà
espropriare chiunque sia.
Supponiamo, infatti, che in una regione
qualunque si compia un'espropriazione limitata, la quale, per
esempio, si restringa all'espropriazione dei grandi proprietari di
fondi, preservando le officine, come non è molto, chiedeva
si facesse Henry George; che nella tale città si
espropriino le case, senza mettere in comune le merci e i generi
di consumo; oppure che nella tale regione industriale si
espropriino le officine, senza ledere le grandi proprietà
fondiarie.
Il risultato sarà sempre lo
stesso. Scompiglio immenso della vita economica, senza avere i
mezzi di riorganizzare questa vita economica su nuove basi.
Sospensioni dell'industria e dello scambio, senza ritornare ai
principii di giustizia; impossibilità per la società
di ricostruire un tutto armonico.
Se l'agricoltura si emancipa dal gruppo
proprietario fondiario, senza che l'industria si emancipi dal
capitalismo, dal commerciante, dal banchiere - non si sarà
concluso nulla. L'agricoltura soffre oggi, non soltanto di dover
pagare un reddito al proprietario del suolo, ma di tutto l'insieme
delle condizioni attuali; soffre delle imposte che l'industriale
preleva su di lei, facendo pagare tre lire una vanga che non vale
- paragonata col lavoro dell'agricoltore - più di quindici
soldi; soffre delle tasse prelevate dallo Stato, il quale non
può sussistere senza un'infinita gerarchia di funzionari;
soffre delle spese di mantenimento dell'esercito, il quale
conserva lo Stato, perchè gl'industriali di tutte le
nazioni sono in lotta perpetua per avere il predominio sui mercati
internazionali, ed ogni giorno la guerra può scoppiare in
seguito ad una contesa sopravvenuta per lo sfruttamento di qualche
parte dell'Asia o dell'Africa. L'agricoltura soffre dello
spopolamento delle campagne, la cui gioventù è
trascinata verso le manifatture delle grandi città, sia per
l'allettamento dei salari più alti, pagati provvisoriamente
dai produttori di articoli di lusso, sia per la vaghezza di una
vita più variata ed attraente; soffre anche della
protezione artificiale dell'industria, dello sfruttamento
mercantile dei paesi vicini, dell'aggiotaggio (speculazioni di
Borsa) delle difficoltà di migliorare il suolo e di
perfezionare gli attrezzi.
Per farla breve, l'agricoltura soffre,
non solo della rendita, ma dell'insieme delle condizioni delle
nostre società basate sullo sfruttamento; e quand'anche
l'espropriazione permettesse a tutti di coltivar la terra e di
farla fruttare senza pagare canoni ad alcuno, l'agricoltura, -
quand'anche godesse di un momento di benessere, ciò che non
è ancora provato, - ricadrebbe ben presto nel disagio in
cui si trova oggi. E tutto si dovrebbe rifar da capo, con aumento
di maggiori difficoltà. Lo stesso dicasi per l'industria.
Date domani le officine nelle mani dei lavoratori, fate per essi
ciò che si è fatto per un certo numero di contadini
ai quali si è restituita la proprietà del suolo che
lavorano. Sopprimete il padrone, ma lasciate la terra al signore,
il denaro al banchiere, la Borsa al commerciante; conservate nella
società questa massa di oziosi che vivono del lavoro
dell'operaio, mantenete i mille intermediarii che oggi trovano la
loro ragione di essere, lo Stato coi suoi funzionari innumerevoli,
- e l'industria non anderà innanzi. Non trovando compratori
nella massa di contadini rimasti poveri; non possedendo la materia
prima, e non potendo esportare i proprii prodotti, in parte per
cagione della sospensione del commercio e sovratutto per effetto
del decentramento delle industrie, essa non potrà che
vegetare, mettendo sul lastrico gli operai; talchè questi
battaglioni di affamati saranno pronti a sottomettersi al primo
intrigante venuto, oppure a ritornare all'antico regime,
purchè loro garantisca il lavoro.
Oppure, finalmente, espropriate i padroni
della terra e rendete l'officina ai lavoratori; ma senza colpire
quel nugolo d'intermediari i quali speculano oggi sulle farine e
sui grani, sulla carne e sulle droghe nei grandi centri, nello
stesso tempo che smerciano i prodotti delle nostre manifatture.
Ebbene, quando lo scambio si arresterà, ed i prodotti non
circoleranno; quando Parigi mancherà di pane e Lione non
troverà più compratori per le sue sete, la reazione
ritornerà terribile, calpestando i cadaveri, scaricando le
mitragliatrici nelle città e nelle campagne, come ha fatto
nel 1815, nel 1848 e nel 1871.
Tutto si sorregge mutualmente nelle
nostre società, ed è impossibile riformar la parte
senza scuotere l'insieme.
Il giorno in cui si colpirà la
proprietà privata in una qualunque delle sue forme -
fondiaria o industriale - si sarà costretti a colpirla in
tutte le altre. Lo stesso successo della Rivoluzione
l'imporrà.
Del resto quand'anche lo si volesse, non
potremmo limitarci ad una espropriazione parziale. Una volta che
il «principio» della Santa Proprietà sia
scosso, tutti i teorici del mondo non potranno impedire che esso
venga distrutto qui dai servi della gleba, altrove dagli schiavi
dell'industria.
Se una grande città - Parigi, per
esempio, - s'impadronisce soltanto delle abitazioni e delle
officine, sarà costretta dalla forza stessa delle cose a
non più riconoscere ai banchieri il diritto di prelevare
sul Comune cinquanta milioni di imposte, sotto forma d'interessi,
per prestiti fatti antecedentemente. Così la stessa
città sarà obbligata a mettersi in relazione con gli
agricoltori, e forzatamente essa dovrà spingerli ad
emanciparsi dai possessori del suolo. Così per poter
mangiare e produrre, dovrà espropriare le strade ferrate; e
finalmente, per evitare lo sciupìo delle derrate, per non
rimaner, come la Comune del 1793, in balìa degl'incettatori
di grano, conferirà ai cittadini stessi la cura di
approvvigionare i rispettivi magazzini di derrate, e di ripartire
i prodotti del suolo.
Tuttavia alcuni socialisti hanno ancora
tentato di stabilire una distinzione. - «Che il suolo, il
sottosuolo, l'officina, la manifattura vengano espropriati, - noi
siamo perfettamente d'accordo, dicono essi. Tutte queste cose sono
strumenti di produzione, ed è giusto che diventino
proprietà pubblica. Ma, oltre a ciò, vi sono gli
oggetti di consumo: alimenti, vestiti, abitazioni, i quali debbono
rimaner proprietà privata».
Il buon senso popolare ha avuto ragione
di questa sottile distinzione. Infatti noi non siam più dei
selvaggi, a cui piaccia di vivere nei boschi, sotto un riparo di
foglie. All'Europeo che lavora necessita una camera, una casa, un
letto, una stufa.
Il letto, la camera, la casa sono luoghi
di poltroneria per colui che nulla produce. Ma per il lavoratore,
una camera riscaldata ed illuminata è uno strumento di
produzione, non meno della macchina e degli attrezzi. È il
luogo dove ridà vigore ai muscoli ed ai nervi che domani si
sposseranno nel lavoro. Il riposo del produttore significa
l'avviamento della macchina.
Questa nostra affermazione è anche
più evidente per ciò che riguarda il nutrimento.
Questi pretesi economisti, di cui noi parliamo, non hanno mai
pensato di dire che il carbone consumato dalla macchina non debba
essere considerato fra gli oggetti necessarii alla produzione non
meno della stessa materia prima. Come avviene dunque che il
nutrimento, senza del quale la macchina umana non potrebbe
compiere il minimo sforzo, possa essere escluso dagli oggetti
indispensabili al produttore? Sarebbe ciò per un resto di
metafisica religiosa?
Il pasto abbondante e raffinato del ricco
è certamente una consumazione di lusso. Ma il pasto del
produttore è uno degli oggetti necessari alla produzione,
non meno di quel che lo sia il carbone consumato dalla macchina a
vapore.
Lo stesso si dica per gli abiti.
Imperocchè, se gli economisti che fanno distinzione fra gli
oggetti di produzione e quelli di consumo, portassero il costume
dei selvaggi della Nuova Guinea, - noi capiremmo le loro riserve e
i loro scrupoli. Ma della gente, la quale non saprebbe scrivere
una riga senza avere indosso una linda camicia, è veramente
fuori di posto quando vuol fare una distinzione tra la sua camicia
e la sua penna. E se gli abiti sfarzosi delle loro signore sono
pure oggetti di lusso, vi è anche una certa quantità
di tela, di cotone e di lana, di cui il produttore non può
fare a meno per poter produrre. Il camiciotto e le scarpe
dell'operaio, senza delle quali egli sarebbe imbarazzato per
recarsi al suo lavoro; la giacca che indosserà, quando la
sua giornata è finita; il suo berretto gli sono necessari
non meno del martello e dell'incudine.
Che lo si voglia o non lo si voglia,
è così che il popolo intende la rivoluzione. Quando
si sarà sbarazzato del governo, cercherà prima di
tutto di assicurarsi un'abitazione salubre, un nutrimento
sufficiente e degli abiti senza pagare imposte.
Il popolo avrà ragione. La sua
maniera di agire sarà molto più conforme alla
«scienza» che non il modo di vedere degli economisti,
i quali fanno tante distinzioni sottili fra lo strumento di
produzione e l'oggetto di consumo. Il popolo comprenderà
che la rivoluzione deve cominciare precisamente da questo, e
getterà le fondamenta della sola scienza economica che
possa veramente meritare il titolo di scienza, e che si potrebbe
qualificare: «studio dei bisogni dell'umanità, e dei
mezzi economici per soddisfarli».
LE DERRATE
I.
Se la prossima rivoluzione deve essere
una rivoluzione sociale, essa si distinguerà dalle
precedenti sommosse, non solo per il suo scopo, ma anche per il
suo modo di procedere. Uno scopo nuovo richiede anche motivi
nuovi.
I tre grandi movimenti popolari che noi
abbiamo visto svolgersi in Francia da un secolo in qua, si
distinsero tra loro per molti rapporti. E pure hanno tutti
un'impronta comune.
Il popolo si batte per rovesciare
l'antico regime, e versa il suo sangue prezioso. Poi, dopo aver
dato una nuova strappata alla sua catena, rientra nell'ombra. Un
governo composto di uomini più o meno onesti si forma
allora, e si incarica di organizzare: - La Repubblica nel 1793; il
Lavoro nel 1848; la Comune libera nel 1871.
Questo governo imbevuto d'idee giacobine,
si preoccupa prima di tutto di questioni politiche:
riorganizzazione della macchina del potere, epurazione
dell'amministrazione, separazione della Chiesa e dello Stato,
libertà civile e via di seguito.
È vero che i circoli operai
sorvegliano i nuovi governanti, e spesso, anche impongono ad essi
le loro idee. Ma in questi stessi circoli, che gli oratori siano
borghesi o lavoratori, è sempre l'idea borghese che
predomina. Si parla molto di questioni politiche - si dimentica la
questione del pane.
In queste epoche memorande furono
lanciate molte grandi idee, - idee che hanno agitato il mondo;
furono pronunziate parole, che fanno battere ancora i nostri cuori
a più d'un secolo di distanza.
Ma il pane mancava nei sobborghi.
Non appena la rivoluzione scoppiava, il
lavoro cessava inevitabilmente. La circolazione dei prodotti si
arrestava, i capitali si rimpiattavano. Il padrone nulla aveva a
temere di quelle epoche: viveva delle sue rendite, se anche non
speculava sulla miseria; ma il salariato si vedeva ridotto a
vivacchiare dall'oggi al domani. La carestia si annunziava
spaventosa.
La miseria appariva - una miseria come
mai non s'era vista uguale sotto l'antico regime. - «Sono i
Girondini che ci affamano», si diceva nei quartieri
popolari, nel 1793. E i Girondini erano ghigliottinati e la
Montagna, la Comune di Parigi, otteneva pieni poteri. La Comune,
infatti, si preoccupava del pane. Essa spiegava mezzi eroici per
alimentare Parigi. A Lione, Fouchè e Collot d'Herbois
creavano i granai dell'abbondanza; ma non si disponeva che di
somme derisorie per riempirli. I municipii si agitavano per
ottener grano; s'impiccavano i fornai che incettavano le farine; -
ma il pane mancava sempre.
Se la prendevano allora contro i
cospiratori realisti, e se ne ghigliottinavano dieci, dodici,
quindici al giorno, - serve e duchesse insieme ma soprattutto
serve, perchè le duchesse si erano rifugiate a Coblenza. La
questione era che si sarebbero potuto ghigliottinare cento duchi e
visconti tutte le ventiquattro ore, e nulla sarebbe per questo
cambiato!
La miseria cresceva sempre. Poichè
per vivere occorreva avere il salario, e il salario non si
riscuoteva, - che cosa potevano fare mille cadaveri di più
o di meno?
Allora il popolo cominciava a stancarsi.
- «Va bene davvero, la vostra Rivoluzione, insinuava il
reazionario alle orecchie del lavoratore; voi non siete mai stati
così miserabili come ora!». E a poco a poco il ricco
si rassicurava; cominciava ad uscire dal suo nascondiglio,
scherniva la plebe cenciosa col suo lusso sfarzoso, si atteggiava
a zerbinotto, e diceva ai lavoratori: - «Via, finiamola con
le sciocchezze! Che cosa avete guadagnato colla vostra
Rivoluzione? È ora di farla finita!».
E il rivoluzionario, avendo ormai
esaurito la sua dose di pazienza, si abituava a ripetersi da se
stesso col cuore serrato: «Perduta anche una volta la
Rivoluzione!». E rientrava nella sua stamberga, e lasciava
fare.
Allora la reazione si mostrava in tutta
la sua alterigia, e compieva il suo colpo di Stato. La Rivoluzione
essendo morta, non le rimaneva più che da calpestarne il
cadavere.
E come lo calpestava! Il sangue scorreva
a fiotti, il terrore bianco abbatteva le teste, e popolava le
prigioni, mentre le orgie della banda aristocratica riprendevano
nuovo vigore.
Ecco la fisionomia di tutte le nostre
rivoluzioni. Nel 1848 il lavoratore parigino metteva «tre
mesi di miseria» a' servigi della Repubblica, e in capo a
tre mesi, non potendone più, faceva il suo ultimo sforzo
disperato, - sforzo annegato nei massacri.
E nel 1871 la Comune moriva per mancanza
di combattenti. Essa non aveva dimenticato di decretare la
separazione della Chiesa dallo Stato, ma non aveva pensato che
troppo tardi ad assicurare il pane a tutti. E si vide a Parigi
l'alta società schernire i federati dicendo: «Andate
pure, imbecilli, a farvi ammazzare per trenta soldi, mentre noi
andiamo a far baldoria nel tale albergo di moda!». Si
capì l'errore negli ultimi giorni, si tentò di
rimediarvi, istituendo la zuppa comunale. Ma era troppo tardi: i
Versagliesi erano già padroni delle barricate!
- «Del pane, occorre del pane alla
Rivoluzione!»
Che altri si occupino di lanciar
programmi dai sonori periodi! Che altri si permettano il lusso di
affibbiarsi tanti galloni quanti le loro maniche ne possono
contenere! Che altri, finalmente, declamino sulle libertà
politiche!...
Il compito che spetta a noi, sarà
di fare in maniera che sin dai primi giorni della Rivoluzione,
finchè essa durerà, non vi sia un solo uomo sul
territorio insorto che manchi di pane; non una sola donna che sia
costretta di attendere dinanzi al forno per ottenere, come
un'elemosina, un pane di crusca; non un solo fanciullo che manchi
del necessario per la sua debole costituzione.
L'idea borghese è stata quella di
perorare sui grandi principii, o, per meglio dire, sulle grandi
menzogne. L'idea popolare sarà quella che tenderà ad
assicurare il pane per tutti. E, nel mentre che i borghesi e i
lavoratori imborghesiti si atteggeranno a grandi uomini nelle loro
conventicole parlamentari, nel mentre che «la gente
pratica» discuterà a non più finirla sulle
forme di governo, noi, «gli utopisti», dovremo pensare
al pane quotidiano.
Noi abbiamo l'audacia di affermare che
ognuno deve e può mangiare sino a satollarsi, e che
soltanto coll'assicurare il pane a tutti la Rivoluzione
vincerà.
II.
Noi siamo degli utopisti, - lo si sa. E
tanto utopisti, infatti, che spingiamo la nostra utopia sino ad
ammettere che la Rivoluzione dovrà e potrà garantire
a tutti l'alloggio, il vitto ed i vestiti, - ciò che
dispiace moltissimo ai borghesi rossi e turchini, - perchè
essi sanno perfettamente che un popolo il quale mangiasse a suo
piacimento, molto difficilmente si lascierebbe dominare.
Ebbene! noi non ci muoviamo da qui:
Occorre assicurare il pane al popolo insorto, e bisogna che la
questione del pane preceda tutte le altre. Se essa è
risoluta nell'interesse del popolo, la rivoluzione sarà
sulla buona strada; imperocchè per risolvere la questione
delle derrate, necessita accettare un principio di uguaglianza che
s'imporrà, escludendo ogni altra soluzione.
È certo che la prossima
rivoluzione, - simile in questo a quella del 1848, -
scoppierà in mezzo ad una formidabile crisi industriale. Da
una dozzina di anni(15) noi siamo in pieno fermento, e la
situazione non può mancare di aggravarsi. Tutto infatti vi
contribuisce: la concorrenza delle nazioni giovani, le quali
entrano in campo per contendersi il predominio dei vecchi mercati,
le guerre, le imposte sempre crescenti, i debiti degli Stati,
l'incertezza del domani, le grandi imprese lontane.
Vi sono in Europa milioni di lavoratori
che in questo momento mancano di lavoro. E sarà peggio
ancora quando la Rivoluzione sarà scoppiata, e si
propagherà come il fuoco messo a una striscia di polvere.
Il numero degli operai senza lavoro si raddoppierà non
appena in Europa o negli Stati Uniti si inizierà il
movimento rivoluzionario. - Che fare dunque, per assicurare il
pane a queste moltitudini?
Noi non sappiamo abbastanza se le persone
che si dicono pratiche si sono mai imposte questa questione in
tutta la sua crudezza. Ma ciò che noi sappiamo si è
ch'esse vogliono mantenere il salariato; aspettiamoci dunque a
veder propugnata l'istituzione degli «opifici
nazionali» e dei «lavori pubblici» per dare il
pane ai disoccupati.
Giacchè nel 1789 e nel 1793
s'istituirono opifici nazionali; giacchè nel 1848 si
ricorse allo stesso mezzo; giacchè Napoleone III
riuscì, durante dodici anni, a frenare il proletariato
parigino dandogli a compiere lavori - i quali valgono oggi a
Parigi il suo debito immenso e la sua imposta municipale di 90
lire a testa; giacchè questo eccellente rimedio per
«domar la belva» si applicava a Roma e anche in Egitto
quattro mila anni fa; giacchè, infine, despoti, re e
imperatori hanno sempre saputo gettare al popolo un pezzo di pane
per aver il tempo di raccogliere la frusta che loro era sfuggita
di mano, - è naturale che la gente «pratica»
propugni questo metodo di perpetuare il salariato. A quale scopo
lambiccarsi il cervello quando si può disporre degli stessi
metodi impiegati dai Faraoni di Egitto?
Ebbene! Se la Rivoluzione avesse la
sventura di mettersi su questa strada, sarebbe perduta.
Quando nel 1848 si aprivano gli opifici
nazionali, il 27 febbraio, gli operai senza lavoro, a Parigi non
erano più di ottomila. Quindici giorni più tardi,
erano già 49 mila. E ben presto divennero centomila, senza
contare quelli che accorrevano dalle provincie.
Ma, in quell'epoca, l'industria e il
commercio non occupavano in Francia la metà delle braccia
che occupano ora. E si sa che in tempo di rivoluzione, sono
appunto gli scambi e le industrie che ne soffrono maggiormente.
Che si pensi soltanto al numero di operai
che lavorano, direttamente o indirettamente, per l'esportazione;
al numero delle braccia impiegate nelle industrie di lusso, le
quali attingono la loro clientela nella minoranza dei ricchi!
La rivoluzione in Europa significa la
sosta immediata delle manifatture, cioè milioni di
lavoratori gettati sul lastrico colle loro famiglie.
E si tenterebbe di rimediare a questa
situazione veramente terribile per mezzo di opifici nazionali,
cioè con nuove industrie create d'un tratto, espressamente
per dar lavoro ai disoccupati!
Egli è evidente, come già
Proudhon aveva detto, che il menomo colpo portato contro la
proprietà, trarrà con sè la disorganizzazione
completa di tutto il regime basato sulle imprese private e sul
salariato. La società stessa sarà costretta di
prendere nelle sue mani la produzione nel suo insieme, e di
riorganizzarla secondo i «bisogni dell'insieme della
popolazione». Ma siccome questa riorganizzazione non
è possibile in un giorno, e nemmeno in un mese; siccome
essa richiederà un certo periodo di adattamento, durante il
quale milioni di uomini saranno privi di mezzi di sussistenza, -
che si farà allora?
In tali condizioni non vi è che
una soluzione veramente pratica. Quella di conoscere
l'immensità del compito che a noi s'impone, e, invece di
tentar di riaccomodare una situazione che noi stessi avremo resa
impossibile, - procedere alla riorganizzazione della produzione
secondo i principii nuovi.
Per agir praticamente bisognerà
dunque, secondo noi, che il popolo prenda immediato possesso di
tutte le derrate che si trovano nelle località insorte;
faccia l'inventario, e faccia in modo che, senza nulla sciupare,
tutti profittino delle risorse accumulate, per traversare quel
periodo di crisi. E durante questo periodo intendersi cogli operai
delle fabbriche, offrendo loro la materia prima di cui mancano, e
garantendo loro l'esistenza durante alcuni mesi, affinchè
possano produrre ciò che occorre all'agricoltore. Non
dimentichiamo che se la Francia tesse le sue sete per i banchieri
tedeschi e per le imperatrici di Russia e delle isole Sandwich, se
Parigi crea meraviglie di ninnoli e gingilli per i ricconi del
mondo intero, i due terzi dei contadini francesi non posseggono
lampade convenienti per illuminare le loro case, nè gli
attrezzi meccanici, necessari oggi all'agricoltura.
E finalmente dar valore alle terre
improduttive che non mancano, e migliorare quelle che non
producono ancora nè la quarta parte, nè la decima
parte di ciò che esse produrranno, quando saranno
sottoposte alla coltura intensiva, e a quella per orto e
giardinaggio.
Questa è la sola soluzione pratica
che noi siamo capaci di prevedere, e che, lo si voglia o no,
s'imporrà per la forza stessa delle cose.
III.
La nota predominante, distintiva, del
sistema capitalista attuale, è il salariato.
Un uomo, o un gruppo d'uomini possedenti
il capitale necessario, impiantano un'impresa industriale;
s'incaricano di fornire all'officina o alla manifattura la materia
prima, di organizzare la produzione, di vendere i prodotti
fabbricati, di pagare agli operai un salario fisso; e finalmente
intascano il plus-valore o il benefizio, sotto il pretesto
d'indennizzarsi della loro gestione, del rischio che hanno corso,
delle variazioni di prezzo che la mercanzia subisce sul mercato.
Ecco in poche parole tutto il sistema del
salariato.
Per salvare questo sistema, gli attuali
possessori del capitale sarebbero disposti ad accordare alcune
concessioni; dividere, per esempio, una parte degli utili con i
lavoratori oppure stabilire una scala dei salarii, la quale li
obblighi ad aumentarli a mano a mano che il guadagno aumenta; - in
breve, essi acconsentirebbero a certi sacrifici, purchè si
lasciasse loro sempre il diritto di amministrare l'industria e di
prelevarne gli utili.
Il collettivismo, come si sa, reca a
questo regime importanti modificazioni; ma non distrugge per
questo il salariato. Solamente si ha questa differenza: che lo
Stato, ossia il governo rappresentativo, nazionale o comunale,
prende il posto del padrone. Sono i rappresentanti della nazione o
del comune, i loro funzionari, che diventano amministratori
dell'industria. Sono essi che si riservano il diritto d'impiegare
nell'interesse di tutti il plus-valore della produzione.
In questo sistema, inoltre, si stabilisce
una differenza assai sottile, ma gravida di conseguenze, tra il
lavoro manuale e quello dell'uomo che ha fatto un tirocinio
preliminare; agli occhi del collettivista il lavoro manuale non
è che un lavoro «semplice»; mentre l'artefice,
l'ingegnere, lo scienziato, ecc. fanno ciò che Marx chiama
un lavoro composto ed hanno diritto a un salario più
elevato. Ma tanto i manuali che gl'ingegneri, tessitori o
scienziati, sono tutti salariati dello Stato, - «tutti
funzionari» come ultimamente si diceva per indorar la
pillola.
Ebbene, il più gran servizio che
la Rivoluzione potrà rendere all'umanità,
sarà quello di creare una situazione nella quale ogni
sistema di salariato diventi impossibile, inapplicabile, e dove
s'imponga, come sola soluzione da accettarsi, il Comunismo,
negazione del salariato.
Imperocchè, ammettendo che la
modificazione collettivista sia possibile, se essa si può
fare gradualmente durante un'epoca di prosperità e di
tranquillità, (noi ne dubitiamo molto per conto nostro,
anche in tali condizioni), - sarà però impossibile
in un periodo rivoluzionario, perchè il bisogno di nutrir
milioni di esseri si affaccerà imperioso fin dalle prime
scaramuccie. Una rivoluzione politica può farsi senza che
l'industria abbia a soffrirne e ne sia scossa; ma una rivoluzione
sociale condurrà inevitabilmente ad una sosta improvvisa
degli scambii e della produzione. I milioni dello Stato non
basterebbero a pagare i salari dei milioni di disoccupati.
Noi non ci stancheremo mai d'insistere su
questo punto; la riorganizzazione dell'industria su nuove basi (e
noi dimostreremo presto l'immensità di questo problema) non
si farà in alcuni giorni, e il proletario non potrà
mettere al servigio dei teorici del salariato anni interi di
miseria. Per superare il primo periodo d'imbarazzo,
reclamerà ciò che ha sempre reclamato in simili
contingenze: la messa in comune delle derrate, - e la loro
ripartizione in razioni.
Si avrà un bel predicare la
pazienza; ma il popolo non pazienterà più; e se
tutte le derrate non verranno messe in comune, egli
saccheggerà i forni.
Se la spinta del popolo non è
abbastanza forte, si faranno delle vittime. Perchè il
collettivismo possa essere esperimentato gli bisogna prima di
tutto l'ordine, la disciplina, l'obbedienza. E siccome i
capitalisti si accorgeranno presto che per dare al popolo la
nausea della rivoluzione, il mezzo migliore è quello di far
fucilare il popolo da quelli stessi che si chiamano
rivoluzionarii, così presteranno ben volentieri il loro
appoggio ai difensori dell'«ordine», fossero pure
collettivisti. Sarà questo un mezzo per schiacciar
più tardi anche questi, alla lor volta.
Se «l'ordine è
ristabilito» in tal maniera, le conseguenze sono facili a
prevedersi. Non sarà più bastante di fucilare i
«saccheggiatori». Ma occorrerà ricercare
«gli autori del disordine», ristabilire i tribunali,
la ghigliottina, e i rivoluzionari più ardenti saliranno
sul patibolo. Sarà la ripetizione del 1793.
Non dimentichiamo in qual modo la
rivoluzione trionfò un secolo fa. Dapprima furono
ghigliottinati gli Herberisti, i più arrabbiati, - quei che
Mignet, ancora sotto il ricordo fresco delle lotte, chiamava pure
gli «anarchici». I Dantoniani non tardarono a
seguirli: e quando i partigiani di Robespierre ebbero tagliata la
testa a questi rivoluzionari, toccò anche a loro di salir
sulla ghigliottina, - dopo di che il popolo nauseato, vedendo che
la Rivoluzione era perduta, lasciò mani libere ai
reazionari.
Se «l'ordine è
stabilito», noi diciamo, i collettivisti ghigliottineranno
gli anarchici, e i possibilisti ghigliottineranno i collettivisti,
e finalmente saranno alla lor volta decapitati essi stessi dai
reazionari. E si dovrà ricominciar da capo la rivoluzione.
Ma tutto fa credere che l'impulso
rivoluzionario del popolo «sarà» abbastanza
forte, e che quando la Rivoluzione si farà, l'idea del
Comunismo anarchico avrà guadagnato terreno. Poichè
non è un'idea inventata, questa; ma l'ispirazione ce ne
viene dal popolo stesso, nel cui seno il numero dei comunisti
aumenterà a mano a mano che diventerà impossibile
ogni altra soluzione.
E se l'impulso sarà abbastanza
forte, gli affari prenderanno un'altra piega. Invece di
saccheggiare qualche forno salvo digiunare poi il domani, il
popolo delle città insorte prenderà possesso dei
granai, dei macelli, dei magazzini di commestibili, - per farla
breve, di tutte le derrate disponibili.
Numerosi cittadini e cittadine di buona
volontà si dedicheranno subito a far l'inventario di
ciò che si trova in ogni magazzino, in ogni deposito di
grano. In ventiquattr'ore il Comune insorto saprà
ciò che Parigi non sa ancora oggi, malgrado i suoi Comitati
di statistica, e ciò che non ha mai saputo durante
l'assedio, - cioè quante provvigioni la città
contiene. In due volte ventiquattr'ore si saranno stampate a
milioni d'esemplari le tabelle esatte di tutte le derrate, dei
luoghi in cui esse si trovano immagazzinate, dei mezzi di
distribuzione. In ogni gruppo di case, in ogni strada, in ogni
quartiere si saranno organizzati gruppi di volontari - i volontari
delle derrate - che sapranno intendersi e tenersi al corrente dei
loro lavori. Che le baionette giacobine non vengano ad interporsi;
che i così detti teorici scientifici non vengano a
confonder nulla, o piuttosto, che confondano quanto vorranno,
purchè non abbiano il diritto di comandare! Con
quell'ammirabile spirito di organizzazione spontanea che il
popolo, e sovratutto la nazione francese, possiede a un
così alto grado in tutti gli strati sociali, e che
così raramente gli vien permesso d'esercitare, ecco
sorgere, anche in una città tanto vasta come Parigi, anche
in pieno fermento rivoluzionario, - un immenso servizio
liberamente costituito, per fornire a ciascuno le derrate
indispensabili.
Che il popolo possa soltanto agire senza
aver le mani legate, e in otto giorni il servizio delle derrate si
farà con una regolarità ammirevole. Bisogna non aver
mai veduto all'opera il popolo laborioso; bisogna aver avuto per
tutta la vita il naso fra gli scartafacci e non conoscere nulla
del popolo, per poterne dubitare. Parlate dello spirito
organizzatore di questo grande disconosciuto che è il
Popolo a coloro che l'hanno visto a Parigi nei giorni delle
barricate, o a Londra, durante l'ultimo grande sciopero,(16)
quando doveva sostentare un mezzo milione di affamati, e vi
diranno quanto egli sia superiore a tutti i burocratici delle
nostre amministrazioni!
D'altronde, se anche si dovesse subire
per quindici giorni o un mese qualche disordine, poco importa! Per
la massa sarà sempre meglio di ciò ch'essa ha
oggigiorno; e poi, in tempo di Rivoluzione, si mangia ridendo, o
piuttosto discutendo, un po' di pan secco e di salame, senza
mormorare! E in ogni caso, quel che allora spuntasse fuori, sotto
la pressione dei bisogni immediati, sarebbe infinitamente da
preferirsi a tutto ciò che si potesse inventare fra quattro
mura, in mezzo a filze di volumi, o negli uffici del Municipio.
IV.
Il popolo delle grandi città
sarà così costretto dalla forza stessa delle cose, a
impadronirsi di tutte le derrate, procedendo dal semplice al
composto, per soddisfare i bisogni di tutti gli abitanti.
Più presto ciò sarà fatto, e meglio
sarà: si eviteranno così tante miserie e tante lotte
intestine.
Ma su quali basi potrebbe organizzarsi il
godimento in comune delle derrate? Ecco la questione che
naturalmente si presenta.
Ebbene, non vi sono due maniere per farlo
con equità. Non ve n'è che una sola, la quale
risponda ai sentimenti di giustizia, che sia realmente pratica: ed
è il sistema adottato già in Europa dai comuni
agrari.
Prendete un comune di contadini, non
importa dove - anche in Francia, dove i giacobini hanno fatto di
tutto per distruggere le usanze comunali. Se il comune possiede un
bosco, per esempio, ebbene, finchè la piccola legna non
manca, ciascuno ha diritto di prenderne «quanta ne
vuole», senz'altro controllo che l'opinione pubblica dei
suoi vicini. In quanto alla legna grossa, di cui non si ha mai
abbastanza, si ricorre alla ripartizione per razioni.
Lo stesso accade per i prati comunali.
Finchè ve ne sono abbastanza per il comune, nessuno
controlla quel che le vacche di ogni casa hanno mangiato,
nè il numero delle vacche che pascolano nei prati. Si
ricorrerà invece alla divisione in razioni quando i prati
sono insufficienti. Tutta la Svizzera e molti comuni di Francia e
Germania, dovunque vi sono prati comunali, praticano questo
sistema.
E se voi andate nei paesi dell'Europa
orientale, in cui la legna grossa abbonda e il suolo non fa
difetto, voi vedrete i contadini tagliar gli alberi nelle foreste
secondo i loro bisogni, coltivare quanto suolo è ad essi
necessario, senza pensare a mettere a razioni la legna, nè
a frazionare la terra in piccole parti. Però la grossa
legna sarà ripartita in razioni, e la terra divisa secondo
i bisogni di ogni casa, quando e l'una e l'altra faranno difetto,
come già avviene in Russia.
In una parola: - Presa a volontà
di tutto ciò che si possiede in abbondanza! Ripartizione
per razioni di ciò che dev'esser misurato, diviso! Sopra
350 milioni d'uomini che abitano l'Europa, duecento milioni
seguono ancora queste usanze, suggerite dalla natura.
E, cosa da notarsi, lo stesso sistema
prevale anche nelle grandi città, per una derrata, almeno,
che vi si trova in abbondanza, cioè l'acqua distribuita a
domicilio.
Finchè le pompe bastano ad
alimentare la casa senza che si abbia da temere la mancanza
d'acqua, non passa per la mente a nessuna compagnia di
regolamentare l'uso dell'acqua in ogni casa. Prendetene
finchè vi piacerà! E se si teme che l'acqua manchi a
Parigi durante i grandi calori, le Compagnie sanno benissimo che
basta un semplice avviso di quattro righe inserito nei giornali,
per indurre i Parigini a ridurre il loro consumo di acqua e a non
farne troppo sciupìo.
Ma se l'acqua venisse proprio a mancare,
che cosa si farebbe? Si ricorrerebbe alla ripartizione per
razioni! E questo provvedimento è così naturale,
così accettato da tutti, così penetrato negli
spiriti, che noi vediamo Parigi, nel 1871, richiedere due volte la
ripartizione per razioni dei viveri, durante i due assedi che
sostenne.
Occorre entrare nei particolari, e
formulare tabelle sul modo in cui questa ripartizione potrebbe
funzionare? provare che sarebbe giusto, infinitamente più
giusto di tutto ciò che oggi esiste? Con queste tabelle e
questi particolari noi non arriveremo mai a persuadere questi
borghesi, - e, ahimè! quei lavoratori imborghesiti, - i
quali considerano il popolo come un'agglomerazione di selvaggi che
si mangiano il naso l'uno coll'altro, dacchè il governo
più non funziona. Ma bisogna non aver mai visto il popolo
deliberare, per dubitare un solo istante che, s'egli fosse padrone
di fare questa ripartizione, non la farebbe secondo i più
puri sentimenti di giustizia e di equità.
Andate a dire in una riunione popolare,
che le pernici debbono essere riservate per i fannulloni delicati
dell'aristocrazia, e il pan nero per i malati degli ospedali.
Sarete fischiato, e vi si urlerà contro con tutta la forza
dei polmoni.
Ma dite invece in questa stessa riunione,
o predicate sui crocicchi delle vie, che il nutrimento più
delicato deve essere riservato dapprima per i più deboli e
per gli ammalati. Dite che, se in tutta Parigi vi fossero solo
dieci pernici e una cassa di vino di Malaga dovrebbero essere
portate nelle camere dei convalescenti; dite ciò...
Dite che il fanciullo dev'essere
considerato subito dopo l'ammalato. A lui spetta il latte delle
vacche e delle capre, se non ce n'è abbastanza per tutti!
Al fanciullo e al vecchio l'ultimo boccone di carne, e all'uomo
robusto il pan duro, se si fosse ridotti a questa
estremità.
Dite, in una parola, che se la tale
derrata non si trova in quantità sufficiente, e se occorre
ripartirla, le ultime razioni saranno riserbate a coloro che ne
hanno più bisogno; dite questo, e voi vedrete che il
consenso unanime del popolo verrà a voi.
Ciò che le pancie piene non
comprendono, lo comprende il popolo, e l'ha sempre compreso. Ma
anche l'uomo satollo, se verrà gettato sul lastrico, al
contatto della massa, lo comprenderà anch'esso.
I teorici, - per i quali l'uniforme e la
gamella del soldato son l'ultima parola della civiltà, -
richiederanno senza dubbio che s'introduca subito la cucina
nazionale ed il rancio. Mostreranno i vantaggi che si otterrebbero
nell'economia del combustibile e delle derrate, se si stabilissero
delle immense cucine, nelle quali ciascuno andasse a prendere la
sua razione di brodo, di pane, di legumi.
Noi non contestiamo questi vantaggi. Noi
sappiamo molto bene che l'umanità ha realizzato grandi
economie di combustibile e di lavoro, rinunciando dapprima al
mulino a mano e quindi al forno domestico, ove ciascuno faceva
cuocere un tempo il proprio pane. Noi comprendiamo che sarebbe
più economico di cuocere il brodo per cento famiglie
insieme, che non di accendere cento fornelli separati. Noi
sappiamo anche che vi sono mille maniere di cucinar le patate, ma
che, cuocendone in una sola pentola per cento famiglie, non per
questo sarebbero meno buone.
Noi comprendiamo infine che le
varietà della cucina consistendo soprattutto nel carattere
individuale del condimento per ogni donna di casa, la cottura in
comune di un quintale di patate, non impedirebbe alle donne di
casa di condirle ciascuna a suo modo. E noi sappiamo che si
possono fare con del brodo grasso cento zuppe differenti, per
cento gusti differenti.
Noi sappiamo tutto ciò, e
nondimeno affermiamo che nessuno ha il diritto di costringere la
massaia ad acquistare al magazzino comunale le sue patate bell'e
cotte, se essa preferisce cuocerle da se stessa, nella sua
marmitta, sul suo fuoco. E soprattutto noi vogliamo che ciascuno
possa consumare il suo alimento come meglio gli piace, in seno
alla sua famiglia, o con i propri amici, o anche alla trattoria,
se lo preferisce.
Certamente sorgeranno grandi cucine al
posto e invece delle trattorie, dove oggi si avvelena la gente. La
donna parigina si è già abituata ad acquistare il
brodo dal macellaio per farne una zuppa a suo piacimento; e la
massaia di Londra sa ch'ella può fare arrostire la sua
carne e anche la sua focaccia dal fornaio, mediante pochi soldi,
economizzando così tempo e carbone.
E quando la cucina comune - il forno
comune dell'avvenire - non sarà più un luogo di
frode, di falsificazione e di avvelenamento, si acquisterà
l'abitudine di rivolgersi a questo forno per avere belle e pronte
le parti principali del pasto, - salvo a ritoccarle con un'ultima
cottura e col condimento, ciascuno a suo piacere.
Ma il voler fare di ciò una legge,
l'imporsi il dovere di prendere già cotto il proprio
alimento, - ripugnerebbe all'uomo del nostro secolo, non meno di
quel che gli ripugnino le idee di convento o di caserma, idee
malsane nate da cervelli pervertiti dal comando, o deformati da
un'educazione religiosa.
Chi avrà diritto alle derrate del
Comune? Questa sarà certamente la prima questione che si
dovrà risolvere. Ogni città risponderà da se
stessa, e noi siamo persuasi che le risposte saranno dettate tutte
dal sentimento di giustizia. Finchè i lavori non siano
organizzati, finchè sussista il periodo d'effervescenza, e
sia impossibile distinguere fra il fannullone pigro e il
disoccupato involontario, le derrate disponibili debbono essere
per tutti, senz'alcun'eccezione. Coloro, i quali avranno resistito
colle armi in mano alla vittoria popolare, oppure avranno
cospirato contro di essa, si affretteranno da se stessi a liberare
della loro presenza il territorio insorto. Ma a noi sembra che il
popolo, sempre nemico delle rappresaglie e sempre magnanimo,
dividerà il suo pane con tutti coloro che saranno rimasti
nel suo seno, siano essi espropriatori od espropriati. Nulla
perderà la Rivoluzione ad ispirarsi a questa idea, e quando
il lavoro verrà ripreso si vedranno i combattenti della
vigilia incontrarsi nello stesso laboratorio. In una
società, in cui il lavoro sarà libero, non vi
saranno da temere i poltroni.
- «Ma i viveri faranno difetto in
capo ad un mese», ci gridano già i critici.
Tanto meglio! rispondiamo noi; ciò
proverà che per la prima volta in vita sua il proletario
avrà mangiato sino a soddisfarsi. Quanto ai mezzi per
sostituir ciò che sarà stato consumato, - è
precisamente la questione che ci accingiamo a trattare.
V.
Con quali mezzi, infatti, una
città, in piena rivoluzione sociale, potrebbe provvedere
alla sua alimentazione?
Risponderemo a questa domanda; ma
è evidente che i sistemi, ai quali si ricorrerà,
dipenderanno dal carattere della rivoluzione nelle provincie,
nonchè nelle nazioni vicine. Se tutta la nazione, o ancor
meglio tutta l'Europa, potesse far la rivoluzione sociale d'un sol
colpo d'insieme, e slanciarsi in pieno comunismo, il modo d'agire
sarebbe conseguente a tale situazione. Ma se alcuni comuni
soltanto d'Europa fanno l'esperimento del comunismo,
bisognerà scegliere altri metodi. Quale la situazione, tali
i mezzi.
Eccoci dunque condotti, prima di andar
più lontano, a gettare un colpo d'occhio sull'Europa e,
senza pretender di atteggiarci a profeti, noi dobbiamo esaminare
quale sarà il cammino della futura Rivoluzione, almeno
nelle sue grandi linee essenziali.
Senza dubbio sarebbe grandemente da
desiderarsi che tutta l'Europa si sollevasse contemporaneamente,
che dappertutto si mettesse in pratica l'espropriazione,
ispirandosi ai principii comunisti. Una simile sollevazione
faciliterebbe in modo singolare il compito del nostro secolo.
Però tutto induce a credere che le
cose non avverranno così. Che la Rivoluzione metta in
fiamme l'Europa, - noi non ne dubitiamo. Se una delle quattro
grandi capitali del continente - Parigi, Vienna, Bruxelles o
Berlino - si solleva e rovescia il suo governo, è quasi
certo che le tre altre faranno altrettanto, a poche settimane di
distanza. È pure molto probabile che la rivoluzione non si
faccia aspettare nelle penisole, ed anche a Londra e a
Pietroburgo. Ma sarà dappertutto lo stesso, il carattere
che assumerà questa rivoluzione? È lecito il
dubitarne.
È più che probabile che
dappertutto si verificheranno atti di espropriazione, compiuti in
maggiori o minori proporzioni; e questi atti che si effettueranno
in una delle grandi nazioni europee, eserciteranno la loro
influenza su tutte le altre. Ma i principii della rivoluzione
presenteranno grandi differenze locali, e il suo sviluppo non
sarà sempre identico nei diversi paesi.
Nel 1789-1793, i contadini francesi
impiegarono quattro anni per abolire definitivamente il riscatto
dai diritti feudali, ed i borghesi a rovesciar la monarchia. Non
dimentichiamo questo, e aspettiamoci veder la rivoluzione
impiegare un certo tempo a svilupparsi.
È anche cosa incerta ch'essa possa
prendere, presso tutte le nazioni d'Europa, un carattere
francamente socialista, specialmente nei suoi inizi. Ricordiamoci
che la Germania vive ancora in pieno regime imperiale-unitario, ed
i suoi partiti avanzati sognano la repubblica giacobina del 1848 e
«l'organizzazione del lavoro» di Luigi Blanc; mentre
il popolo francese vuole almeno il Comune libero, se non il Comune
comunista.
Tutto ci fa credere che la Germania
anderà, nella prossima rivoluzione, molto più in
là della Francia. La Francia, nel far la sua rivoluzione
borghese, al diciottesimo secolo, andò molto più
lungi che non l'Inghilterra al diciassettesimo; nello stesso tempo
che il potere regale, essa abolì la potenza
dell'aristocrazia fondiaria, che è ancora una forza
poderosa presso gl'Inglesi. Ma, se la Germania va più lungi
e procede meglio che non la Francia nel 1848, certamente l'idea
che ispirerà i principii della sua rivoluzione sarà
quella del 1848, come l'idea che ispirerà la rivoluzione in
Russia sarà quella del 1789 modificata sino a un certo
punto dal movimento intellettuale del nostro secolo.
Senza, del resto, voler dare maggiore
importanza a queste previsioni, più di quel ch'esse non
meritino, noi possiamo giungere a questa conclusione: la
Rivoluzione assumerà un carattere differente secondo le
diverse nazioni d'Europa; così pure il livello raggiunto in
riguardo alla socializzazione dei prodotti, non sarà lo
stesso.
Qual conseguenza ne deriva? Forse che le
nazioni più avanzate debbano misurare i loro passi sulle
nazioni in ritardo, come abbiamo detto altra volta? Aspettare che
la rivoluzione comunista siasi maturata presso tutte le nazioni
civili? Evidentemente, no! Quando anche lo si volesse, del resto,
ciò sarebbe impossibile: la storia non attende i
ritardatari.
Da un altro lato, noi non crediamo che in
un solo e medesimo paese la rivoluzione si faccia con
quell'insieme di movimento che sognano alcuni socialisti. È
molto probabile che, se una delle cinque o sei grandi città
di Francia - Parigi, Lione, Marsiglia, Lilla, Saint-Etienne,
Bordeaux - proclama la Comune, le altre seguiranno il suo esempio,
e parecchie città meno popolose faranno altrettanto.
Probabilmente ancora vi saranno parecchi
distretti di miniere, nonchè alcuni centri industriali, i
quali non tarderanno a licenziare i loro padroni, ed a costituirsi
in liberi aggruppamenti.
Però molte campagne non sono
ancora a tal punto, e rimarranno nell'aspettativa accanto ai
comuni insorti e continueranno a vivere sotto il regime
individualista. Non vedendo più l'usciere, nè
l'esattore venire a reclamare il pagamento delle tasse, i
contadini non saranno ostili alle popolazioni sollevate; pure
approfittando dei benefici della situazione, aspetteranno prima di
regolare i loro conti cogli sfruttatori locali. Ma, con quello
spirito pratico che distinse sempre i movimenti agrari,
(rammentiamoci le fatiche e gli sforzi appassionati del 1792) essi
si accaniranno a coltivar quella terra che ameranno tanto
maggiormente, quanto più essa sarà sgravata dalle
imposte e dalle ipoteche.
Quanto all'estero, la rivoluzione
sarà dappertutto; ma una rivoluzione sotto aspetti
differenti. Qui unitaria, colà federalista, dappertutto
più o meno socialista. Nessuna uniformità in nessuna
nazione.
VI.
Ma ritorniamo alla nostra città in
istato di sommossa, ed esaminiamo in quali condizioni essa
dovrà provvedere al suo mantenimento.
Dove prendere le derrate necessarie, se
la nazione intera non ha ancora accettato il comunismo? Tale
è la questione da risolvere.
Prendiamo una grande città
francese, la capitale, se si vuole. Parigi consuma ogni anno
milioni di quintali di cereali, 350.000 buoi e vacche, 200.000
vitelli, 300.000 suini, e più di due milioni di montoni,
senza contare gli animali di corte. Occorrono ancora a Parigi
qualche cosa come otto milioni di chilogrammi di burro e 172
milioni di uova, e tutto il resto nelle stesse proporzioni.
Le farine, i cereali arrivano dagli Stati
Uniti, dalla Russia, dall'Ungheria, dall'Italia, dall'Egitto,
dalle Indie, il bestiame viene trasportato dalla Germania,
dall'Italia, dalla Spagna, e persino dalla Russia e dalla Rumania.
Quanto alle droghe, non v'è paese al mondo che non
contribuisca a fornirgliene.
Vediamo dapprima in qual modo si potrebbe
organizzare il vettovagliamento di Parigi, o di qualunque altra
grande città, coi prodotti che si coltivano nelle campagne
francesi, e che gli agricoltori non chiedono di meglio che di
designare al consumo.
Per gli autoritari, la questione non
presenta difficoltà di sorta. Comincierebbero
coll'introdurre un governo fortemente accentrato, armato di tutti
gli organi di coercizione; polizia, esercito, ghigliottina. Questo
governo farebbe fare la statistica di tutto ciò che si
raccoglie in Francia; dividerebbe il paese in un certo numero di
circoscrizioni di alimentazioni, e «ordinerebbe» che
la tal derrata, in tale quantità venisse trasportata in un
dato luogo, consegnata in quel giorno stabilito, immagazzinata nel
tale deposito, e così di seguito.
Ebbene, noi affermiamo con piena
convinzione che simile soluzione sarebbe non solamente non
desiderabile, ma non potrebbe inoltre esser mai messa in pratica,
essendo pura utopia.
Si può sognare uno simile stato di
cose, colla penna alla mano; ma in pratica, ciò diventa
materialmente impossibile; bisognerebbe contare senza lo spirito
d'indipendenza dell'umanità. Sarebbe l'insurrezione
generale: tre o quattro Vandee invece di una; la guerra dei
villaggi contro le città; la Francia intera insorta contro
la capitale che osasse imporre questo regime.
Basta dunque colle utopie giacobine!
Vediamo se vi è il modo di organizzarsi diversamente.
Nel 1793, la campagna affamò le
grandi città ed uccise la Rivoluzione. E pure è
provato che la produzione dei cereali in Francia non era punto
diminuita nel 1792-93; anzi tutto induce a credere ch'essa fosse
aumentata. Ma accadde che, dopo essersi impossessati di una buona
parte delle terre feudali, dopo aver fatto il raccolto su queste
terre, i borghesi campagnuoli non volessero vendere il loro grano
contro «assegnati»(17). Essi lo custodivano,
aspettando il rialzo dei prezzi e la moneta d'oro. Nè le
misure più rigorose dei Convenzionali,
per«forzare» gl'incettatori a vendere il loro grano,
nè le condanne di morte e le esecuzioni ebbero ragione di
questa specie di incetta. Eppure si sa che i commissari della
Convenzione non esitavano a ghigliottinare gl'incettatori,
nè il popolo aveva riguardo d'impiccarli ai lampioni delle
strade. Malgrado ciò, il grano rimaneva nei magazzini, e il
popolo delle città soffriva per la carestia.
Ma che cosa si offriva ai lavoratori
delle campagne in cambio dei loro penosi lavori?
- Si offrivano «assegnati»!
Degli stracci di carta gualcita, il cui valore ribassava di giorno
in giorno; biglietti che portavano stampato in grossi caratteri
«cinquecento lire», e non avevano invece alcun valore
reale.
Con un biglietto da mille lire non si
poteva comprare nemmeno un paio di stivali; e il contadino - lo si
capisce facilmente - non aveva alcuna voglia di scambiare un anno
di fatica per un pezzo di carta, che non gli avrebbe permesso
nemmeno di comprarsi un camiciotto.
E finchè si offrirà
all'agricoltore un pezzo di carta senza valore, - lo si chiami
«assegnato» o «buono di lavoro» - le cose
anderanno sempre ad un modo. Le derrate resteranno alla campagna;
e la città ne mancherà, dovesse per questo ricorrere
di nuovo alla ghigliottina e agli annegamenti.
Ciò che si deve offrire al
contadino non è la carta, ma le mercanzie di cui ha
immediato bisogno. È la macchina, di cui ora si priva, a
malincuore; sono i vestiti, che lo garantiscono dalle intemperie.
È la lampada e il petrolio che sostituisce il suo famoso
lucignolo; è la vanga, il rastrello, l'aratro. È
infine tutto ciò di cui il contadino si priva oggi, - non
perchè non ne senta il bisogno, - ma perchè nella
sua esistenza di privazioni e di lavoro snervante, mille oggetti
utili sono per lui inaccessibili a cagion del loro prezzo.
Che la città si dedichi
immediatamente a produrre queste cose che mancano al contadino,
invece di fabbricar bazzecole per l'ornamento e il lusso dei
borghesi. Che le macchine da cucire di Parigi facciano vestiti da
lavoro e da festa per la campagna, invece di rifornir corredi da
nozze. Che l'officina fabbrichi macchine agricole, vanghe e
rastrelli, invece di aspettar che gl'Inglesi ce le inviino in
cambio del nostro vino!
Che la città non spedisca
più ai villaggi commissari, cinti di fascie rosse o
multicolori, per intimare ai contadini il decreto di portar le
loro derrate nella tale località; ma li faccia visitare da
amici, da fratelli che loro dicano: «Recateci i vostri
prodotti - e prendete nei nostri magazzini tutti gli oggetti
fabbricati che vi piaceranno». E allora le derrate
affluiranno da ogni parte. Il contadino serberà per lui
quanto gli occorre per vivere, ma invierà il rimanente ai
lavoratori delle città, nelle quali - «per la prima
volta nel corso della storia» - vedrà dei fratelli e
non degli sfruttatori.
Ci si dirà, forse, che ciò
richiede una trasformazione completa dell'industria. Certamente,
sì, per alcuni rami. Ma ve ne sono mille altri che potranno
modificarsi rapidamente, in maniera da poter fornire ai contadini
gli abiti, l'orologio, il mobilio, gli utensili e le macchine
semplici che la città gli fa pagare così caro
oggidì. I tessitori, i sarti, i calzolai, i fabbricanti di
minuterie, gli ebanisti e tanti altri non troveranno alcuna
difficoltà ad abbandonare la produzione del lusso per il
lavoro di utilità. Occorre soltanto penetrarsi bene della
necessità di questa trasformazione, considerandola come un
atto di giustizia e di progresso, e non illudersi più con
quel sogno così caro ai teorici - che la rivoluzione debba
cioè limitarsi a una presa di possesso del plus-valore, e
che la produzione e il commercio possano restare quali sono ai
nostri giorni.
È qui, secondo noi, tutta la
questione. Offrire all'agricoltore, in cambio dei suoi prodotti,
non pezzi di carta qualunque sia il loro valore iscrittovi, ma
«gli oggetti stessi» di consumo, dei quali il
lavoratore ha bisogno. Se si farà in tal modo, le derrate
affluiranno verso la città. Se così non si
farà, avremo la carestia nelle città, con tutte le
sue conseguenze, la reazione e lo schiacciamento della
rivoluzione.
VII.
Tutte le grandi città, l'abbiam
detto, comprano il loro grano, le loro farine, la loro carne, non
solo nelle provincie, ma anche all'estero. L'estero invia a Parigi
le droghe, il pesce ed i commestibili di lusso, nonchè
considerevoli quantità di grano e di carne.
Ma in tempo di Rivoluzione non si
potrà più contare sull'estero, o contarvi per il
meno possibile. Se il grano russo, il riso d'Italia o delle Indie
e i vini di Spagna e d'Ungheria affluiscono oggi sui mercati
dell'Europa occidentale, non è perchè i paesi
speditori ne posseggano di troppo, o perchè certi prodotti
vi nascono in abbondanza da loro stessi, come l'insalata nei
prati. In Russia, per esempio, il contadino lavora fino a sedici
ore al giorno, e digiuna da tre a sei mesi ogni anno per esportare
il grano col quale paga il padrone e lo Stato. Oggi, non appena il
raccolto è terminato, la polizia appare nei villaggi russi
e vende l'ultima vacca, l'ultimo cavallo dell'agricoltore, per
pagare le imposte arretrate e gli affitti al proprietario, quando
il contadino non acconsente di buona volontà, vendendo il
suo grano agli esportatori esteri. Cosicchè egli serba
soltanto per nove mesi di grano e vende il rimanente,
perchè non vuole che la sua vacca sia venduta per quindici
lire. Per vivere sino alla prossima raccolta, cioè tre mesi
quando l'annata è stata buona, e sei mesi quando è
stata cattiva, mescola alla sua farina della scorza di betulla, e
del grano di atreplice, mentre che a Londra si assaporano i
biscotti fatti col suo frumento.
Ma non appena la rivoluzione
scoppierà, l'agricoltore russo serberà il suo pane
per sè e per i suoi figliuoli. I contadini italiani e
ungheresi faranno egualmente; speriamo che anche l'indiano
approfitterà di questi buoni esempi, di cui trarranno
profitto anche i lavoratori delle fattorie americane, a meno che
questi possessi non siano già disorganizzati dalla crisi.
Non si dovrà dunque contar più sulla quantità
di grano e di granturco proveniente dall'estero.
Tutta la nostra civiltà borghese
essendo basata sullo sfruttamento delle razze inferiori e de'
paesi arretrati in fatto di industria, il primo beneficio della
rivoluzione sarà quello di minacciar subito questa
«civiltà» permettendo alle razze così
dette inferiori di emanciparsi. Ma quest'immenso beneficio si
manifesterà con una diminuzione certa e considerevole della
esportazione di derrate affluenti verso le grandi città
dell'Occidente.
Per l'interno è più
difficile far previsioni sull'andamento degli affari.
Da una parte l'agricoltore
profitterà certamente della Rivoluzione per sollevare la
schiena curvata sul terreno. Invece di quattordici o sedici ore,
quante oggi ne lavora, avrà ragione di non lavorarne che la
metà, ciò che potrà cagionare come
conseguenza l'abbassamento della produzione delle derrate
principali, grano e carne.
Ma d'altra parte vi sarà aumento
della produzione, dacchè il coltivatore non sarà
più costretto a lavorare per mantenere gli oziosi. Nuovi
lembi di terra saranno dissodati e macchine più perfette
saranno messe in uso. - «Mai fu un lavoro così
vigoroso come quello del 1792, quando il contadino ebbe ripreso al
signore la terra che da lungo tempo bramava», - ci dice lo
storico Michelet, parlando della Grande Rivoluzione.
Fra poco la coltura intensiva
diventerà accessibile ad ogni coltivatore, quando la
macchina perfezionata e i concimi chimici ed altre cose saranno
messi a disposizione della comunità. Ma tutto ci fa credere
che, in sul principio, vi potrà essere diminuzione nella
produzione agricola in Francia, come anche altrove.
Il partito più saggio, in ogni
caso, sarebbe quello di contare su di una diminuzione delle
importazioni, tanto all'interno che all'esterno. Come supplire a
questo vuoto?
Per bacco! mettendoci da noi stessi a
colmarlo. Inutile di cercar la luna nel pozzo e voler
l'impossibile, quando la soluzione del problema è semplice.
Bisogna che le grandi città
coltivino la terra, non meno delle campagne. Bisogna ritornare a
ciò che la biologia chiamerebbe «l'integrazione delle
funzioni». Dopo aver diviso il lavoro, bisogna
«integrare»: è l'andamento seguito in tutta la
natura.
Del resto - filosofia a parte - ci si
sarà costretti dalla forza delle cose. Che Parigi si avveda
che in capo ad otto mesi si troverà a corto di grano, - e
Parigi lo coltiverà.
La terra?... Ma essa non manca.
Sovrattutto intorno alle grandi città, - e a Parigi
specialmente, - si aggruppino i parchi e i verdi prati dei
signori, quei milioni di ettari che non aspettano che il lavoro
intelligente del coltivatore, per circondare Parigi di terreni
molto più fertili, molto più produttivi che non le
steppe coperte di terra, ma disseccate dal sole, del mezzogiorno
della Russia.
Le braccia?... Ma a che cosa volete voi
che si applichino i due milioni di Parigini e di Parigine, quando
non avran più da vestire e da divertire i principi russi, i
baiardi rumeni e le signore dell'alta finanza di Berlino?
Potendo disporre di tutto il macchinario
del secolo; dell'intelligenza e delle cognizioni tecniche del
lavoratore adatto all'uso dello strumento perfezionato; avendo al
proprio servizio gl'inventori, i chimici, i botanici, i professori
del giardino delle piante, gli ortolani di Gennevilliers,
nonchè gli attrezzi necessari per moltiplicare le macchine
e tentarne di nuove; avendo infine lo spirito organizzatore del
popolo di Parigi, la sua gaiezza di cuore, il suo slancio, -
l'agricoltura del Comune anarchico di Parigi sarà ben
diversa da quella dei poveri campagnoli delle Ardenne.
Il vapore, l'elettricità, il
calore del sole e la forza del vento sarebbero ben presto chiamate
ad essere utilizzate.
La zappatrice e la dissodatrice a vapore
compirebbero in un batter d'occhio il lavoro di preparazione, e la
terra, intenerita e fertilizzata, non aspetterebbe che le cure
intelligenti dell'uomo, e sovrattutto della donna, per coprirsi di
piante bene accurate, rinnovantisi tre o quattro volte ogni anno.
Imparando l'orticoltura con persone del
mestiere; provando su spazi riservati mille maniere diverse di
coltura; gareggiando tra loro per ottenere le migliori raccolte;
riacquistando nell'esercizio fisico, senza spossamento, nè
sopralavoro, le forze che loro mancano così spesso nelle
grandi città - uomini donne e fanciulli sarebbero felici di
dedicarsi a questo lavoro dei campi che cesserà di essere
un lavoro da forzati e diventerà un piacere, una festa, una
primavera dell'essere umano. - «Non esistono terre
improduttive, la terra vale ciò che vale l'uomo!»
ecco l'ultima parola dell'agricoltore moderno. La terra dà
ciò che ad essa si domanda: si tratta soltanto di
domandarlo con intelligenza.
Un territorio, fosse anche così
piccolo come i due circondari della Senna e di Senna e dell'Oise,
e dovesse alimentare una grande città come Parigi,
basterebbe praticamente per colmare i vuoti che la Rivoluzione
potrebbe fare intorno ad esso.
Se il Comune anarchico si slancerà
francamente sulla via dell'espropriazione, esso ci condurrà
necessariamente alla combinazione dell'agricoltura con
l'industria, all'uomo agricoltore ed industriale nel tempo
istesso.
Ch'esso rasenti soltanto quest'avvenire:
e non sarà di carestia ch'esso perirà! Il pericolo
non è in questo: il pericolo è nella viltà di
spirito, nei pregiudizii, nelle mezze misure.
Il pericolo è là dove lo
vedeva Danton, quando gridava alla Francia: «Audacia,
audacia e ancora audacia!» E soprattutto dell'audacia
intellettuale, la quale non mancherà di seguire
immediatamente l'audacia della volontà.
L'ALLOGGIO
I.
Coloro, i quali seguono con attenzione il
movimento degli spiriti, presso i lavoratori, hanno dovuto notare
che l'accordo si stabilisce insensibilmente su di una importante
questione, quella dell'alloggio. Esiste un fatto incontestato:
nelle grandi città di Francia, e in molte piccole, i
lavoratori arrivano a poco a poco alla conclusione che le case
abitate non sono affatto la proprietà di coloro che lo
Stato riconosce quali proprietari.
Una evoluzione in tal senso si va
compiendo negli spiriti, e non si farà più credere
al popolo che il diritto di proprietà sulle case sia
giusto.
La casa infatti non è stata
costrutta dal proprietario: ma è stata fabbricata,
adornata, tappezzata da centinaia di lavoratori che la fame ha
spinto nei cantieri, che il bisogno di vivere ha ridotto ad
accettare un misero salario.
Il denaro speso dal preteso proprietario
non era nemmeno un prodotto del suo lavoro. Egli l'aveva
accumulato, come si accumulano tutte le ricchezze, pagando ai
lavoratori i due terzi, o la metà soltanto di ciò
ch'era loro dovuto.
Finalmente - e qui soprattutto
l'enormità si rende evidentissima - la casa deve il suo
valore attuale al profitto che il proprietario ne potrà
ricavare. Ora, questo profitto sarà dovuto alla circostanza
che la casa sia edificata in una città lastricata,
rischiarata dal gaz, allacciata da regolari comunicazioni con
altre città, che contenga stabilimenti d'industria, di
commercio, di scienze, di arti; che questa città inoltre
sia adorna di ponti, di scali, di banchine, di monumenti
architettonici, ed offra all'abitante mille comodità e
mille svaghi sconosciuti nei villaggi; che venti, trenta
generazioni abbiano lavorato a renderla abitabile, salubre, sempre
più bella.
Il valore di una casa in alcuni quartieri
di Parigi è di un milione, non già perchè
essa contenga nelle sue mura per un milione di lavoro: ma
perchè essa è situata in Parigi; perchè, da
secoli, gli operai, gli artisti, i pensatori, i dotti e i
letterati hanno contribuito a far di Parigi ciò che
oggigiorno ci riempie di ammirazione per la città
grandiosa: un centro industriale, commerciale, artistico,
politico, scientifico; perchè questa città ha un
passato; perchè le sue strade, grazie alla letteratura, son
conosciute in provincia come all'estero; perchè Parigi
è un prodotto del lavoro di diciotto secoli, di una
cinquantina di generazioni di tutta la nazione francese.
Chi ha dunque il diritto di appropriarsi
la minima parte di questo terreno o l'ultima fra le costruzioni
edificatevi sopra, senza commettere la più stridente
ingiustizia? Chi dunque ha il diritto di vendere a chicchessia la
minima particella del patrimonio comune?
In quest'ordine d'idee, noi diciamo,
l'accordo tra i lavoratori si stabilisce facilmente. L'idea
dell'alloggio gratuito ben si manifestò durante l'assedio
di Parigi, quando si domandava l'annullamento puro e semplice
delle pigioni richieste dai proprietari. E si manifestò
ancora durante la Comune del 1871, quando Parigi operaia aspettava
dal Consiglio della Comune una decisione virile riguardo
all'abolizione degli affitti. E sarà ancora la prima
preoccupazione del povero, non appena la Rivoluzione sarà
scoppiata.
In tempo di rivoluzione, o no, occorre al
lavoratore un ricovero, un alloggio. Ma per quanto esso sia
cattivo ed insalubre; vi è sempre un proprietario che
può cacciarvene via. È vero che in tempo di
rivoluzione il proprietario non troverà uscieri o aguzzini
che si prestino a gettare i vostri cenci sulla strada. Ma chi sa
se domani il nuovo governo, per quanto si atteggi a
rivoluzionario, non ricostituirà intorno a sè la
forza, e non lancerà nuovamente contro di voi la muta
poliziesca? Si è ben veduta la Comune proclamar la
condonazione degli affitti sino al primo aprile, è vero -
ma sino al primo aprile soltanto!(18) Dopo il qual termine si
sarebbe dovuto pagare, quando anche Parigi fosse in iscompiglio, e
l'industria fosse interrotta, ed il rivoluzionario non avesse per
sola risorsa che i suoi trenta soldi!
Bisogna però che il lavoratore
sappia che, non pagando il proprietario, non approfitta solo di
una disorganizzazione del potere. Bisogna ch'egli sappia che il
diritto dell'alloggio gratuito è riconosciuto in principio
e sanzionato, per così dire, dal consenso popolare; che
l'alloggio gratuito è un diritto proclamato altamente dal
popolo.
Ebbene, aspetteremo noi, che questo
provvedimento, il quale risponde così bene al sentimento di
giustizia di ogni uomo onesto, sia messo in vigore dai socialisti
che si troverebbero mischiati coi borghesi in un governo
provvisorio? Aspetteremmo davvero per lungo tempo - sino al
ritorno della reazione!
Ecco perchè, rifiutando distintivi
di fascie e galloni - segni di comando e di servaggio, - restando
popolo fra il popolo, i rivoluzionari sinceri lavoreranno col
popolo perchè l'espropriazione delle case diventi un fatto
compiuto. Lavoreranno a creare una corrente d'idee in questa
direzione; lavoreranno a mettere in pratica queste idee, e
quand'esse saran mature, il popolo procederà
all'espropriazione delle case, senza prestare orecchio alle
teorie, che non mancheranno di essere cacciate attraverso le
gambe, intorno alle indennità da pagare ai proprietari, ed
altre fandonie.
Il giorno in cui l'espropriazione delle
case sarà avvenuta, lo sfruttato, il lavoratore avran
compreso che i nuovi tempi son giunti, ch'essi più non
rimarranno colla schiena curva dinnanzi ai ricchi ed ai potenti,
che l'Eguaglianza si è affermata alla luce del sole, che la
Rivoluzione è un fatto compiuto, e non un colpo di scena,
come già se ne videro troppi!
II.
Se l'idea dell'espropriazione diventa
popolare, la sua effettuazione non si urterà punto cogli
ostacoli insormontabili con cui si ama ora minacciarci.
Certamente, i signori gallonati, i quali
avranno occupato i seggi abbandonati dei ministeri e dei municipi,
non mancheranno di suscitare ostacoli sopra ostacoli. Parleranno
di concedere indennità ai proprietari, di redigere
statistiche, elaborare lunghe relazioni, - così lunghe da
poter durare sino al momento in cui il popolo, stremato dalla
miseria e dalla disoccupazione, non vedendo prodursi nulla in suo
favore e perdendo la sua fede nella Rivoluzione, lascerebbe il
campo libero ai reazionari, che finirebbero col rendere a tutti
odiosa l'espropriazione burocratica.
Vi è in ciò, infatti, uno
scoglio contro il quale si potrebbe naufragare. Ma se il popolo
non si lascierà menar pel naso dai falsi ragionamenti coi
quali si cercherà di sedurlo; s'egli comprenderà che
una nuova strada comporta nuovi metodi, e se prenderà da
sè stesso in mano i suoi affari - allora l'espropriazione
potrà effettuarsi senza grandi difficoltà.
- «Ma in qual modo? Come
potrà essa farsi?» ci si domanderà. Lo diremo
or ora, ma con una riserva. Ci ripugna il dover tracciare, nei
loro menomi particolari, dei piani di espropriazione. Noi sappiamo
anticipatamente che tutto ciò che un uomo o un gruppo
possono suggerire oggi, sarà domani sorpassato dalla vita
umana. Questa, l'abbiamo detto già, farà meglio e
più semplicemente di tutto ciò che le si potrebbe
suggerire in anticipazione.
Così, nello schizzare il metodo,
secondo il quale l'espropriazione e la ripartizione delle
ricchezze «potrebbero» farsi senza l'intervento del
governo, noi non vogliamo far altro che rispondere a coloro i
quali dichiarano esser la cosa impossibile. Ma teniamo a ricordare
che, in nessun modo noi abbiamo la pretesa di preconizzare la tale
o la tal'altra maniera di organizzarsi. Quel che ci preme, si
è di dimostrare soltanto che l'espropriazione
«può» farsi per mezzo dell'iniziativa popolare,
e «non può» farsi altrimenti.
Si può prevedere che sin dai primi
atti di espropriazione, si formeranno in ogni strada, in ogni
mucchio di case, gruppi di cittadini di buona volontà, i
quali verranno ad offrire i loro servigi per informarsi del numero
degli appartamenti vuoti, degli appartamenti occupati da famiglie
troppo numerose, delle abitazioni malsane e delle case che, troppo
spaziose per quei che le occupano, potrebbero dare alloggio a
coloro che mancano d'aria nei loro tuguri. In pochi giorni questi
volontari compileranno, strada per strada e quartiere per
quartiere, le liste complete di tutti gli appartamenti, salubri e
insalubri, ristretti e spaziosi, degli alloggi infetti e delle
abitazioni sontuose.
Comunicandosi liberamente le loro liste,
in pochi giorni avran formato statistiche complete. La statistica
mendace può venir fabbricata negli uffici; la statistica
vera, esatta, non può pervenire che dall'individuo,
risalendo dal semplice al composto.
Allora, senza nulla aspettare da nessuno,
questi cittadini si recheranno probabilmente a trovare i loro
compagni che abitano nelle stamberghe, e diranno loro
semplicemente: «Questa volta, compagni, è la
rivoluzione sul serio. Venite questa sera al tal sito. Tutto il
quartiere sarà presente; ci divideremo gli alloggi. Se voi
non tenete alla vostra catapecchia, potrete scegliere un
appartamento di cinque stanze che son disponibili. E quando vi ci
sarete stabiliti, sarà cosa fatta. Il popolo armato
parlerà a coloro che volessero venirvene a
sloggiare!»
- «Ma tutti vorranno avere un
appartamento di venti stanze!» - ci si obbietterà.
Ebbene, non è vero! Mai il popolo
ha domandato l'impossibile. Al contrario, ogni volta che noi
vediamo proletari occuparsi a riparare un'ingiustizia, rimaniamo
colpiti dal buon senso e dal sentimento di giustizia di cui la
massa è animata. Si vide mai richieder l'impossibile? Si
vide mai il popolo di Parigi battersi quando andava a cercare la
sua razione di pane o di legna durante i due assedi? Si attendeva
il turno con una rassegnazione che i corrispondenti di giornali
stranieri non cessavano dall'ammirare; e pur si sapeva bene che
gli ultimi venuti avrebbero passato la loro giornata senza pane e
senza fuoco!
Certo, vi sono abbastanza istinti
egoistici negl'individui isolati delle nostre società. Lo
sappiamo benissimo. Ma noi sappiamo pure che il miglior mezzo per
risvegliare e alimentare questi istinti, sarebbe appunto quello di
affidare la questione degli alloggi a un ufficio qualunque.
Allora, infatti, tutte le cattive passioni salirebbero a galla. Si
avrebbe una gara, per aver più voce in capitolo e maggiore
autorità nell'uscio. La minima disuguaglianza di
trattamento solleverebbe le proteste più clamorose; il
minimo vantaggio accordato a qualcuno farebbe gridare ai
favoritismi comprati, alle regalie, e con ragione!
Ma quando il popolo riunito per vie, per
quartieri, per circondari, s'incaricherà egli stesso di
accasare gli abitanti dei tuguri negli appartamenti troppo
spaziosi dei borghesi, i piccoli inconvenienti, le piccole
ineguaglianze saranno appena leggermente considerate. Raramente si
è fatto appello ai buoni istinti della massa. Lo si
è fatto però talvolta, durante le rivoluzioni,
quando si trattava di salvare la barca che colava a fondo, - e mai
si rimase delusi. Il lavoratore rispondeva sempre all'appello con
la più grande abnegazione.
Lo stesso avverrà durante la
prossima rivoluzione.
Malgrado tutto, qualche ingiustizia
succederà probabilmente. Non si potrebbe evitarla. Vi sono
nelle nostre società alcuni individui che nessun grande
avvenimento potrà rimuovere dalle loro abitudini
egoistiche. Ma la questione non è quella di sapere se si
verificheranno ingiustizie, o se non ne accadranno punto. Si
tratta di sapere in qual modo potrà limitarsene il numero.
Ebbene, tutta la storia, tutta
l'esperienza dell'umanità, nonchè la psicologia
delle società, ci ammaestrano, dicendoci che il mezzo
più equo è quello di affidar la cosa agl'interessati
stessi. Del resto, potranno da soli prendere in considerazione e
regolare i mille particolari che sfuggono necessariamente ad ogni
ripartizione burocratica.
III.
D'altronde non si tratterebbe punto di
fare ripartizione assolutamente uguale degli alloggi; ma gli
inconvenienti che alcune famiglie dovrebbero ancora subìre,
sarebbero agevolmente riparati in una società in via di
espropriazione.
Purchè i muratori, gli
scalpellini, - gli operai delle costruzioni, in una parola, -
sappiano di aver la loro esistenza assicurata, non domanderanno di
meglio che di riprendere, per alcune ore al giorno, il lavoro al
quale sono abituati. Essi disporranno in modo più
rispondente ai bisogni i grandi appartamenti, pei quali occorreva
uno stato maggiore di domestici. E in pochi mesi sorgeranno delle
case, molto più salubri che non quelle dei nostri giorni. E
a coloro che non saranno abbastanza bene alloggiati, il Comune
anarchico potrà dire:
«Abbiate pazienza, compagni! Sul
suolo della città libera si stanno edificando palagi
salubri, confortevoli e belli, superiori in tutto a quelli che
fabbricavano i capitalisti. Essi saranno di coloro che ne avran
più bisogno. Il Comune anarchico non fabbrica colla
prospettiva di ottener delle rendite. I monumenti che esso innalza
pei suoi cittadini, prodotti dallo spirito collettivo, serviranno
di modello all'umanità intera, - e apparterranno a
voi!»
Se il popolo insorto espropria le case e
proclama il principio dell'alloggio gratuito, della messa in
comune delle abitazioni e del diritto di ogni famiglia di avere un
alloggio salubre, la Rivoluzione avrà preso sin dal
principio un carattere comunista e si sarà messa su di una
via dalla quale non la si potrà fare uscir così
presto. Essa avrà portato un colpo mortale alla
proprietà individuale.
L'espropriazione delle case racchiude
così in germe tutta la rivoluzione sociale. Dal modo col
quale la si metterà in pratica, dipenderà il
carattere degli avvenimenti. O noi apriremo una strada larga,
spaziosa, al comunismo anarchico, o resteremo ad avvoltolarci
ancora nel fango dell'individualismo autoritario.
Sono facili a prevedersi le mille
obbiezioni che ci verranno mosse, le une di ordine teorico, le
altre di ordine pratico.
Poichè si tratterà di
mantenere ad ogni costo l'iniquità, si parlerà
certamente in nome della giustizia: - «Non è egli
infame, si esclamerà, che i Parigini s'impadroniscano per
loro delle belle case, e lascino le capanne ai contadini?»
Ma non lasciamoci ingannare. Questi fautori arrabbiati della
giustizia dimenticano, con un giro di spirito che loro è
particolare, la stridente ineguaglianza di cui si fanno i
difensori. Dimenticano che nella stessa Parigi il lavoratore
soffoca in una soffitta, - egli, sua moglie, i suoi bambini, -
mentre che dalla finestra contempla il palazzo del ricco.
Dimenticano che intere generazioni periscono nei quartieri
miserabili e ostruiti, per mancanza d'aria e di sole, e che il
riparare a quest'ingiustizia dovrebbe essere il primo dovere della
Rivoluzione.
Non soffermiamoci più a lungo su
questi reclami interessati. Noi sappiamo che la disuguaglianza che
realmente esisterà ancora tra Parigi e il villaggio,
è di quelle che diminuiranno ogni giorno; il villaggio non
mancherà di fornirsi di alloggi più salubri di
quelli odierni, quando il contadino avrà cessato di essere
la bestia da soma del fittaiuolo, del fabbricante, dell'usuraio,
dello Stato. Per evitare un'ingiustizia temporanea e riparabile,
si dovrebbe dunque mantenere un'ingiustizia che esiste da secoli?
Nemmeno le obbiezioni sedicenti pratiche
hanno maggior valore.
«Ecco, ci si dirà, un povero
diavolo a forza di privazioni, è arrivato ad acquistare una
casa abbastanza grande per alloggiarvi colla sua famiglia. Vi
è così felice! Lo gettere voi sulla strada?»
- Certamente no! Se la sua casa basta
appena per alloggiarvi colla sua famiglia, che l'abiti, per bacco!
che coltivi il giardino che ha sotto le sue finestre! I nostri
ragazzi andranno, a prestargli un po' di aiuto. Ma se nella sua
casa egli ha un appartamento che affitta ad un altro, il popolo
andrà a trovar quest'altro, e gli dirà:
«Sapete, amico, voi non dovete più nulla al vecchio
padrone. Rimanete nel vostro appartamento e non ci sono più
uscieri da temere, ora; vi è la Sociale!»
E se il proprietario occupa da solo una
ventina di camere, e nel quartiere vi sia una madre con cinque
figli alloggiati in una sola stanza, ebbene, il popolo
verificherà se nelle venti camere non ve ne siano alcune
che dopo qualche riparazione, non possano formare un buon alloggio
per la madre e per i suoi cinque figli. Non sarà questo
più giusto che il lasciare la mamma coi cinque bambini
nella soffitta, ed il signore a ingrassare nel suo castello? Del
resto il signore ci si adatterà ben presto; quando non
avrà più domestiche che si curino del mantenimento
delle sue venti stanze, la sua signora sarà felice di
sbarazzarsi della metà del suo appartamento.
- «Ma questo sarà uno
scompiglio completo», grideranno i difensori dell'ordine.
«Degli sgomberi da non finirla
più! Tanto varrebbe mettersi tutti sulla strada ed estrarre
a sorte gli appartamenti!» Ebbene, noi siamo persuasi che se
nessuna specie di governo se ne immischierà, e tutta la
trasformazione rimarrà affidata alle mani dei gruppi sorti
spontaneamente per questo scopo, gli sgomberi saranno meno
numerosi di quelli che si fanno nello spazio di un solo anno, per
la rapacità dei proprietari.
Vi è in primo luogo, in tutte le
città di qualche importanza un tal numero di abitazioni
disoccupate, da bastare quasi ad alloggiare la maggior parte degli
abitanti delle stamberghe. Quanto ai palazzi e agli appartamenti
sontuosi molte famiglie operaie non ne vorrebbero nemmeno sapere!
Come servirsene, se non si hanno dei numerosi domestici per averne
cura? Cosicchè coloro stessi che ora li occupano si
vedrebbero presto costretti a cercare abitazioni meno sontuose,
nelle quali le signore dell'aristocrazia farebbero la cucina da
loro stesse. E, a poco a poco, senza che vi sia bisogno di
accompagnare il banchiere con una scorta armata in una soffitta, e
l'abitante della soffitta nel palazzo del banchiere, la
popolazione si riparerà con mutuo accordo negli alloggi
esistenti, facendo il meno scombussulìo possibile. Non si
vedono i Comuni agrari distribuirsi i campi, incomodando
così poco i possessori delle piccole parti di terreno, che
non resta che da constatare il buon senso e la sagacità dei
metodi ai quali il Comune ha ricorso? Il Comune russo - e questo
è stabilito da volumi d'inchieste, - compie meno
trasferimenti da un campo all'altro, che non la proprietà
individuale con i suoi processi dinanzi ai tribunali. E ci si vuol
far credere che gli abitanti di una grande città europea,
sarebbero molto più imbecilli o meno organizzatori dei
contadini russi o, indiani!
Del resto, ogni rivoluzione implica un
certo scompiglio della vita quotidiana, e coloro i quali sperano
di traversare una grande crisi senza che la loro signora borghese
venga disturbata dalla sua pentola, corrono il rischio di rimaner
disillusi. Si può cambiar governo senza che il buon
borghese fallisca una sola volta all'ora del pranzo; ma non si
riparano così i delitti di una società verso quelli
che l'hanno nutrita!
Vi sarà uno sconvolgimento,
è certo. Soltanto bisogna che questo sconvolgimento non
avvenga con pura perdita, bisogna che questa sia ridotta al
minimo. Ed è appunto - non ci stancheremo mai di ripeterlo
- è appunto rivolgendosi agli interessati, e non ad uffici
intermediari, che si otterrà la minima quantità di
inconvenienti, per tutti.
Il popolo commette errori sopra errori
quando deve scegliere entro le urne tra i fanatici che si
disputano l'onore di rappresentarlo, e s'incaricano di far tutto,
saper tutto, organizzar tutto. Ma quando egli dovrà
organizzare ciò che conosce, ciò che lo tocca
direttamente, egli opererà meglio di tutti gli uffici
possibili. Non lo si vide all'epoca della Comune, a Parigi? Non lo
si è visto nell'ultimo sciopero di Londra? Non lo si vede
ogni giorno in ogni comune agrario?
LE VESTIMENTA
Se le case sono considerate come
patrimonio comune della città, e se si procede alla
ripartizione delle derrate in razioni, si dovrà
necessariamente fare un passo di più. Si sarà
costretti inevitabilmente a considerar la questione del vestito; e
la sola soluzione possibile sarà ancor quella
d'impadronirsi, in nome del popolo, di tutti i magazzini di abiti,
e di spalancarne le porte a tutti, perchè ognuno si possa
prendere ciò che occorre. La messa in comune delle
vestimenta, e il diritto per tutti di prendere nei magazzini
comunali, o di domandare ai laboratori di confezione ciò di
cui si ha bisogno, ecco la soluzione che s'imporrà
dacchè il principio comunista sarà stato applicato
alle case e alle derrate.
Evidentemente, noi non avremo bisogno,
per questo, di spogliare tutti i cittadini dei loro soprabiti, e
di mettere gli abiti in un mucchio per estrarli a sorte come lo
pretendono i nostri critici, così spiritosi quanto
ingegnosi. Ciascuno conserverà per sè il soprabito -
se ne ha uno; ed è anche molto probabile che se ne ha
dieci, nessuno pretenderà di spogliarvelo. Si
preferirà il vestito nuovo a quello che il borghese
avrà già logorato indosso, e vi saranno abbastanza
vestiti nuovi per non dover ricorrere alle vecchie guardarobe.
Se facessimo la statistica degli abiti
accumulati nei magazzini delle grandi città, noi
constateremmo probabilmente che a Parigi, Lione, Bordeaux e
Marsiglia, ve ne sono abbastanza perchè il Comune possa
offrire un vestito ad ogni cittadino e ad ogni cittadina.
D'altronde, se non tutti ne trovassero a seconda del proprio
gusto, i laboratori comunali colmerebbero ben presto le lacune. Si
sa con quale rapidità lavorino oggi i nostri laboratori di
confezione, provvisti di macchine perfezionate ed organizzati per
la produzione su vasta scala.
- «Ma tutti vorranno avere una
pelliccia di zibellino, e ogni donna domanderà un abito di
velluto!» obiettano già i nostri avversari.
Francamente noi non lo crediamo. Non
tutti preferiscono il velluto, e non tutti sognano una pelliccia
di zibellino. Se oggi stesso si proponesse alle Parigine di
scegliere ciascuna il suo abito, vi sarebbero di quelle che
preferirebbero un abito semplice a tutte le fantastiche
acconciature delle nostre mondane.
I gusti variano secondo le epoche, e
quello che avrà il sopravvento al momento della rivoluzione
sarà indubbiamente un gusto di semplicità. La
società, come l'individuo, ha le sue ore di viltà;
ma anche i suoi minuti di eroismo. Per quanto miserabile sia
quando s'infanga, come ora, nella caccia degli interessi meschini
e stupidamente personali, essa cambia aspetto nelle grandi epoche,
e ritrova i suoi momenti di nobiltà e di slancio. Gli
uomini di cuore riacquistano quell'ascendente, di cui oggi godono
gl'intriganti e i farabutti. Gli atti di abnegazione si
manifestano alla luce, i grandi esempi sono imitati; non vi ha
alcuno, nemmeno fra gli egoisti, che non si senta vergognoso di
rimaner indietro e, di buona o di cattiva voglia, non si affretti
a far coro con i generosi ed i bravi.
La grande rivoluzione del 1793 abbonda di
simili esempi. Durante queste crisi di rinnovamento morale, -
così naturali nelle società come negl'individui, -
si producono quegli slanci sublimi, che permettono alla
umanità di fare un passo innanzi.
Noi non vogliamo esagerare la parte
probabile che queste belle passioni rappresenteranno in un momento
di rivoluzione, e non è su di esse che noi basiamo il
nostro ideale di società. Ma neppure esageriamo in nulla
ammettendo ch'esse ci aiuteranno a traversare i primi e più
difficili momenti. Noi non possiamo contare sulla
continuità di questi atti di abnegazione nella vita
quotidiana; ma possiamo contarci pei primi momenti, - ed è
tutto ciò che ci occorre. Precisamente in sull'inizio,
quando dovremo sbarazzare degl'ingombri il terreno, e pulirlo del
letame accumulatosi in lunghi secoli di oppressione e di
schiavitù, la società anarchica avrà bisogno
di questi slanci di fraternità. Più tardi essa
potrà vivere senza fare appello al sacrificio,
giacchè avrà eliminato l'oppressione e creato, per
questo fatto istesso, una novella società aperta a tutti i
sentimenti di solidarietà.
Comunque, se la rivoluzione si
avrà secondo lo spirito di cui parliamo, la libera
iniziativa degl'individui troverà un vasto campo di azione
per evitare ogni strappo da parte degli egoisti. In ogni strada,
in ogni quartiere potranno costituirsi dei gruppi incaricati di
provvedere alle vestimenta. Ed è molto probabile che, per
queste, gli abitanti della città adottino lo stesso
principio che per le derrate: - «Presa a volontà di
ciò che si trova in abbondanza; ripartizione in razioni di
ciò che trovasi in quantità limitata.»
Non potendo offrire ad ogni cittadino una
pelliccia di zibellino, e ad ogni cittadina un abito di velluto,
la società farà probabilmente distinzione fra il
superfluo e il necessario. E - provvisoriamente, almeno -
collocherà fra le cose superflue l'abito di velluto e lo
zibellino, salvo a veder forse in seguito se ciò che oggi
è superfluo, non possa domani diventar cosa comune. Pur
garantendo il necessario ad ogni abitante della città
anarchica, si potrà lasciare all'attività privata la
cura di procurare ai deboli e ai malati ciò che sarà
provvisoriamente considerato come oggetto di lusso; di provvedere
ai meno robusti ciò che non è compreso nel consumo
giornaliero di tutti.
- «Ma questo è una
livellazione! è l'abito grigio e uniforme del
monaco!» ci si dirà. «È la sparizione di
tutti gli oggetti d'arte, di tutto ciò che abbellisce la
vita!»
- No, certamente! E noi, basandoci sempre
su ciò che esiste, dimostreremo tra poco come una
società anarchica potrebbe soddisfare ai gusti più
fini ed artistici dei suoi cittadini, senza per questo assegnar
loro delle fortune da milionari.
VIE E MEZZI
I.
Se una società, città o
territorio, vuole assicurare a tutti i suoi abitanti il
necessario, (e noi vedremo in seguito come la concezione del
necessario possa estendersi sino al lusso), sarà
forzatamente indotta a impadronirsi di tutto ciò che
è indispensabile per produrre, cioè del suolo, delle
macchine, delle officine, dei mezzi di trasporto, ecc. Essa non
mancherà di espropriare gli attuali possessori del
capitale, per restituirlo alla comunità.
Infatti, ciò che si rimprovera
all'organizzazione borghese, è non solo l'accaparramento da
parte del capitalista di una grande parte dei benefici di ogni
intrapresa industriale e commerciale, ciò che gli permette
di vivere senza lavorare; la principale accusa, come l'abbiamo
già notato, è che tutta la produzione ha preso una
direzione assolutamente falsa, poichè essa non si compie
nella mira di assicurare il benessere a tutti. E in questo
consiste la sua condanna.
E, ciò che più importa, si
è ch'egli è impossibile che la produzione mercantile
sia fatta a vantaggio di tutti. Pretender ciò sarebbe come
chiedere al capitalista di uscir dalle sue attribuzioni, e di
compiere una funzione ch'egli «non può» fare
senza cessare di essere ciò che è, cioè un
intraprenditore privato, che tende al proprio arricchimento.
L'organizzazione capitalista, basata sull'interesse personale di
ogni intraprenditore, preso separatamente, ha dato alla
società tutto ciò che se ne poteva sperare: ha
accresciuto la forza produttiva del lavoratore. Profittando della
rivoluzione operatasi nell'industria per mezzo del vapore, del
pronto sviluppo della chimica e della meccanica, e delle
invenzioni del secolo, il capitalista si è dedicato, nel
suo stesso interesse, ad accrescere il prodotto del lavoro umano,
e vi è riuscito in larghissima misura. Ma sarebbe
completamente irragionevole volergli affidare un'altra missione.
Voler, per esempio, ch'egli utilizzi questo prodotto superiore del
lavoro nell'interesse di tutta la società, sarebbe come
domandargli della filantropia, della carità. Una intrapresa
capitalista non può essere fondata sulla carità.
Spetta alla società, ora, di
generalizzare questa produttività superiore, limitata oggi
ad alcune industrie soltanto, e di applicarla nell'interesse di
tutti.
Però è evidente che, per
garantire a tutti il benessere, la società deve riprendere
possesso di tutti i mezzi di produzione.
Gli economisti ci ricorderanno senza
dubbio - a loro piace il ricordarlo - il benessere relativo di una
certa categoria di operai giovani, robusti, abili in certi rami
speciali dell'industria. È sempre questa minoranza che ci
s'indica con orgoglio. Ma questo benessere stesso - prerogativa di
alcuni - è loro assicurato? Domani l'incuria,
l'imprevidenza, o l'avidità dei loro padroni getteranno
forse sul lastrico questi privilegiati; ed essi sconteranno allora
con mesi ed anni di strettezze o di miseria, il periodo di
agiatezza di cui avranno goduto. Quante industrie maggiori,
(stoffe, ferro, zucchero, ecc.) senza parlare delle industrie
effimere, abbiam visto noi arrestarsi e languire, a volta a volta,
sia in seguito a speculazioni, sia per conseguenza degli
spostamenti naturali del lavoro, sia infine per effetto della
concorrenza, suscitata dagli stessi capitalisti! Tutte le
industrie principali della tessitura e della meccanica sono
passate recentemente per questa crisi; che dire poi di quelle, il
cui carattere distintivo è la periodicità della
sosta?
Che dire anche del prezzo al quale si
acquista il benessere relativo di alcune categorie di operai?
Imperocchè ben lo si ottiene questo benessere, ma a costo
della rovina dell'agricoltura, a costo dello sfruttamento
più sfacciato del contadino, a costo della miseria delle
masse. Di fronte a questa lieve minoranza di lavoratori che
fruiscono di una certa agiatezza, quanti milioni di esseri umani
vivono giorno per giorno, senza salario sicuro, pronti a recarsi
dove li si richiederà; quanti contadini lavorano
quattordici ore al giorno per una magra pietanza! Il capitale
spopola le campagne, sfrutta le colonie e i paesi, la cui
industria è poco sviluppata; condanna l'immensa maggioranza
degli operai a rimaner privi di educazione tecnica, mediocri nel
loro stesso mestiere. Lo stato florido di un'industria lo si paga
costantemente colla rovina di dieci altre.
E questo non è un accidente, ma
una «necessità» del regime capitalista. Per
essere in grado di retribuire alcune categorie di operai,
«bisogna» oggidì, che il contadino sia la
bestia da soma della società; «bisogna» che la
campagna sia disertata per la città; «bisogna»
che i piccoli mestieri si agglomerino negl'infetti sobborghi delle
grandi città, e fabbrichino quasi per nulla i mille oggetti
di poco valore, che mettono i prodotti della grande manifattura
alla portata degli acquirenti del salario ridotto: perchè
la cattiva stoffa possa essere esitata per vestire i lavoratori
miseramente retribuiti, occorre che il sarto si contenti di una
mercede miserabile. Bisogna che i lontani paesi dell'Oriente
vengano sfruttati da quei dell'Occidente, perchè, in alcune
industrie privilegiate, il lavoratore goda, sotto il regime
capitalista, di una specie di agiatezza limitata.
Il male dell'organizzazione attuale non
consiste dunque nel fatto che il «plus-valore» della
produzione passa nelle mani del capitalista, - come avean detto
Rodbertus e Marx, - restringendo così il concetto
socialista e le vedute d'insieme sul regime del capitale. Il
«plus-valore» stesso non è che una conseguenza
di cause più profonde. Il male risiede nel fatto che
può esistere un «plus-valore» qualunque, invece
di un semplice sovrappiù non consumato da ogni generazione;
imperocchè, per esservi «plus-valore», bisogna
che uomini, donne e fanciulli siano costretti dalla fame a vendere
le loro forze di lavoro per una parte minima di ciò che
queste forze producono e, sovrattutto, di ciò ch'esse sono
capaci di produrre.
Ma questo male esisterà
finchè ciò che è necessario alla produzione
sarà proprietà di alcuni individui soltanto.
Finchè l'uomo sarà forzato di pagare un tributo al
possessore per aver il diritto di coltivare il suolo o di mettere
in movimento una macchina, ed il proprietario sarà libero
di produrre ciò che gli frutta i più grandi
benefici, piuttosto che la maggior somma degli oggetti necessari
all'esistenza, il benessere non potrà essere assicurato che
temporalmente a un piccolissimo numero, e verrà pagato ogni
volta colla miseria di una parte della società. Non basta,
infatti, distribuire in parti eguali gli utili che un'industria
giunge a realizzare, se si debbono nello stesso tempo sfruttare
altre migliaia di operai. Si tratta di «produrre, con la
menoma, perdita possibile di forze umane, la maggior somma
possibile dei prodotti più necessari al benessere di
tutti».
Questa veduta d'insieme non potrebbe
essere di competenza di un proprietario privato. E per questo la
società tutta quanta, prendendola come ideale, sarà
costretta di espropriare, tutto ciò che serve a procurar
l'agiatezza, producendo le ricchezze. Bisognerà ch'essa
s'impadronisca del suolo, delle officine, delle miniere, dei mezzi
di comunicazione, ecc., ed inoltre studi ciò che necessita
produrre nell'interesse di tutti, nonchè le vie e i mezzi
di produzione.
II.
Quante ore al giorno di lavoro
dovrà l'uomo fornire per assicurare alla sua famiglia un
abbondante nutrimento, una casa confortevole e gli abiti
necessari? Questa questione ha spesso preoccupato i socialisti, i
quali ammettono generalmente che basterebbero quattro o cinque ore
al giorno, a condizione, s'intende, che tutti lavorassero. Alla
fine del secolo scorso, Beniamino Franklin stabiliva il limite di
cinque ore; e se da allora i bisogni delle comodità sono
aumentati, anche la forza di produzione è aumentata, e
molto più rapidamente.
In un altro capitolo, parlando
dell'agricoltura, noi vedremo tutto ciò che la terra
può dare all'uomo che la coltiva ragionevolmente, invece di
gettar le sementi a caso su di un suolo mal lavorato, come si
pratica oggigiorno. Nelle grandi fattorie dell'Ovest americano, le
quali occupano diecine di leghe quadrate in estensione, ma il cui
terreno è molto più povero del suolo concimato dei
paesi civili, non si ottengono che dai 12 ai 18 ettolitri per ogni
ettaro, cioè la metà del prodotto delle fattorie
d'Europa e degli Stati dell'Est americano. Eppure, grazie alle
macchine, le quali permettono a due uomini di lavorare in un
giorno due ettari e mezzo, cento uomini producono in un anno tutto
ciò che occorre per consegnare a domicilio il pane per
diecimila persone, durante un anno intero.
Basterebbe così ad un uomo di
lavorare nelle stesse condizioni durante trenta ore, cioè
sei «mezze giornate di cinque ore ciascuna», per
ottenere il pane per l'intero anno, - e trenta mezze giornate per
assicurarlo a una famiglia di cinque persone.
E noi proveremo anche, con dati attinti
alla pratica attuale, che se si ricorresse alla coltura intensiva,
con meno di sessanta mezze giornate di lavoro si potrebbe
assicurare a un'intera famiglia il pane, la carne, i cereali ed
anche le frutta di lusso.
D'altra parte, studiando i prezzi che
costano oggi le case operaie, costrutte nelle grandi città,
ci possiamo accertare che, per ottenere in una grande città
inglese una casetta separata, come se ne fabbricano per gli
operai, basterebbero dalle 1400 alle 1800 giornate di lavoro di
cinque ore. E siccome una casa di questo genere dura almeno
cinquant'anni, ne risulta che bastano dalle 28 alle 36 mezze
giornate per un anno per assicurare ad una famiglia un alloggio
salubre, abbastanza elegante, e provvisto di tutte le
comodità necessarie: mentre che, affittando da un padrone
lo stesso alloggio, l'operaio lo paga dalle '75 alle 100 giornate
di lavoro per anno.
Facciamo notare che queste cifre
rappresentano il massimo di ciò che oggidì si pagano
gli alloggi in Inghilterra, data la viziosa organizzazione della
nostra società. Nel Belgio si sono costruite città
operaie a molto miglior mercato. Tutto considerato, si può
affermare che in una società bene organizzata, una trentina
o una quarantina di mezze giornate di lavoro per anno bastano per
garantire un alloggio dei più confortevoli.
Rimane la questione del vestito. Qui il
calcolo è quasi impossibile, perchè gli utili
realizzati sui molteplici e successivi prezzi di vendita da un
nugolo di intermediari, sfuggono ad ogni valutazione. Così,
prendete la stoffa, per esempio, e addizionate tutti i guadagni
prelevatici sopra dal proprietario del prato, dal possessore dei
montoni, dal mercante di lana e da tutti i loro intermediari, sino
alle compagnie ferroviarie, ai filatori ed ai tessitori,
negozianti, venditori e agenti di vendita, e voi vi farete un'idea
di ciò che si venga a pagare, per ogni vestito, a un'intera
falange di borghesi. Per questo è assolutamente impossibile
di precisare quante giornate di lavoro rappresenti un soprabito
che voi pagate cento lire in un grande magazzino di Parigi.
Quello che è certo, si è
che con le macchine attuali si arrivano a fabbricare
quantità veramente incredibili di stoffe.
Basteranno alcuni esempi. Così,
negli Stati Uniti, in 751 manifatture di cotone (filatura e
tessitura) 175.000 operai e operaie producono 1 miliardo, 939
milioni e 400.000 metri di cotonine, più una grandissima
quantità di filati. Le sole cotonine darebbero una media
sorpassante gli 11.000 metri in 300 giornate di lavoro di nove ore
e mezza ciascuna, cioè 40 metri di cotonina in dieci ore.
Ammettendo che una famiglia ne consumi 200 metri per anno, il che
sarebbe molto, ciò equivarrebbe a cinquanta ore di lavoro,
cioè a «dieci mezze giornate di cinque ore
ciascuna». E si avrebbero in più i filati -
cioè filo da cucire, e filo per ordire il panno, e
fabbricare stoffe di lana mescolate col cotone.
Quanto ai risultati ottenuti colla sola
tessitura, la statistica ufficiale degli Stati Uniti insegna che
se, nel 1870, un operaio, lavorando dalle 13 alle 14 ore al
giorno, faceva 9500 metri di cotonina bianca all'anno, nel 1886,
cioè sedici anni più tardi, ne tesseva 27.000 metri,
non lavorando che 55 ore per settimana. Anche nelle cotonine
stampate si ottenevano, tessitura e stampatura comprese, 29.150
metri per 2669 ore di lavoro all'anno; cioè, presso a poco,
11 metri all'ora. Così, per ottenere i suoi 200 metri di
cotoni bianchi e stampati, basterebbe lavorare meno di
«venti ore per ogni anno».
È utile di far notare che la
materia prima arriva in queste manifatture presso a poco allo
stato in cui proviene dai campi, e la serie delle trasformazioni
subìte da essa prima di mutarsi in istoffa si trova
compiuta nel periodo di queste venti ore. Ma per
«acquistare» in commercio questi 200 metri, un operaio
ben retribuito dovrebbe fornire, «a dir poco», dalle
10 alle 15 giornate di lavoro di 10 ore ciascuna, cioè
dalle 100 alle 150 ore. E quanto al contadino inglese, dovrebbe
stentare un mese, ed anche più, per procurarsi simile
lusso.
Si vede già da questo esempio che
con cinquanta mezze giornate di lavoro, ci si potrebbe, in una
società bene organizzata, vestir meglio di quel che non
vestano oggi i piccoli borghesi.
Per tutto questo, non ci son bisognate
che sessanta mezze giornate di cinque ore di lavoro per procurarci
i prodotti della terra, quaranta per l'abitazione e cinquanta per
le vestimenta, ciò che fa giusto la metà di un anno,
giacchè, dedottevi le feste, l'anno rappresenta trecento
giornate di lavoro.
Rimangono ancora centocinquanta giornate
di lavoro, di cui uno potrebbe servirsi per le altre
necessità della vita: vino, zucchero, caffè o
thè, mobili, trasporti, ecc., ecc.
Evidentemente questi calcoli sono
approssimativi, ma possono venir confermati in un altro modo.
Quando noi contiamo, nelle nazioni
civilizzate, coloro che non producono nulla, coloro che lavorano
in industrie nocive, e son condannati a sparire, coloro infine che
servono da intermediari inutili, noi constatiamo che in ogni
nazione il numero dei produttori propriamente detti potrebb'essere
raddoppiato. E se, invece di dieci persone, venti fossero occupate
alla produzione del necessario, e se la società si
occupasse maggiormente di economizzare le forze umane, queste
venti persone non avrebbero che da lavorare soltanto cinque ore al
giorno, senza che la produzione diminuisse(19).
E basterebbe ridurre lo sciupìo
delle forze umane al servizio dei ricchi, o quell'amministrazione
che conta un funzionario per ogni dieci abitanti, e di utilizzare
queste a aumentare la produttività della nazione, per
limitare a quattro ed anche a tre le ore di lavoro, alla
condizione, s'intende, di contentarsi della produzione attuale.
Ecco perchè, basandoci sulle
considerazioni che abbiamo insieme studiato, noi possiamo dedurre
la conclusione seguente:
Supponete una società la quale
comprenda parecchi milioni di abitanti occupati nell'agricoltura e
in una grande varietà d'industrie, Parigi, per esempio, con
il circondario di Senna e Oise. Supponete che in questa
società tutti i fanciulli apprendano a lavorare colle
braccia insieme che col cervello. Ammettete finalmente che tutti
gli adulti, salvo le donne occupate all'educazione dei bambini,
s'impegnino a lavorare «cinque ore al giorno»
dall'età di venti o ventidue anni sino a quella di
quarantacinque o cinquanta, e che si occupino, secondo la loro
libera scelta in qualsiasi ramo dei lavori umani considerati come
«necessari». Una simile società potrebbe in
compenso garantire il benessere a tutti i suoi membri, -
cioè un'agiatezza molto più reale che non quella di
cui oggi gode la borghesia. - Ed ogni lavoratore di questa
società potrebbe disporre inoltre di almeno cinque ore al
giorno da dedicare alla scienza, all'arte e ai bisogni individuali
non compresi nella categoria del «necessario», salvo
ad introdurre più tardi in questa categoria, quando la
produttività dell'uomo aumentasse, tutto ciò che
oggi è considerato come oggetto di lusso e di privilegio.
I BISOGNI DI LUSSO
I.
L'uomo non è pertanto un essere
che possa vivere esclusivamente per mangiare, bere e procurarsi un
ricovero. Dacchè egli avrà soddisfatte tutte le
esigenze naturali, si susciteranno in lui, molto più
ardenti, dei bisogni, ai quali si potrebbe attribuire un carattere
artistico. Tanti individui, altrettanti desideri; e più la
società è civile, più l'individualità
è sviluppata, più questi desideri sono variati.
Anche oggi si vedono uomini e donne che
si rifiutano il necessario per acquistare qualche gingillo, per
soddisfare il tal piacere, il tal godimento intellettuale o
materiale. Un cristiano, un asceta possono biasimare questi
desideri di lusso; ma in realtà son precisamente queste
bazzecole che rompono la monotonia dell'esistenza, che la rendono
gradita.
Varrebbe la pena che si vivesse una vita
seminata d'inevitabili dispiaceri, se mai, all'infuori del lavoro
quotidiano, l'uomo non potesse procurarsi un solo piacere secondo
i suoi gusti individuali?
Se noi vogliamo la Rivoluzione sociale,
è certamente, in primo luogo, per assicurare il pane a
tutti; per trasformare quest'odiosa società in cui vediamo
ogni giorno lavoratori robusti andar colle braccia penzoloni, per
mancanza di un padrone che voglia sfruttarli; donne e fanciulli
errar la notte perchè privi di un ricovero; famiglie
intiere ridotte a mangiar pane asciutto; fanciulli, uomini e donne
morir per mancanza di cure, se non di alimento. E noi ci
ribelliamo appunto per mettere un fine a queste iniquità.
Ma altra cosa noi aspettiamo pure dalla
Rivoluzione. Noi vediamo che il lavoratore, costretto a lottar
faticosamente per vivere, è ridotto a non poter mai gustare
i sublimi godimenti - i più sublimi che siano accessibili
all'uomo - della scienza e, soprattutto, della scoperta
scientifica; dell'arte, e della creazione artistica. E la
Rivoluzione deve garantire a ciascuno il pane quotidiano, appunto
per assicurare a tutti queste gioie, riserbate oggi a un piccolo
numero di privilegiati; per assicurare a tutti l'agio e la
possibilità di sviluppare le proprie capacità
intellettuali. Lo svago - dopo il pane - ecco lo scopo supremo.
Certo, oggi, quando esseri umani, a
centinaia di migliaia mancano di pane, di carbone, di abiti e di
ricovero, il lusso è un delitto: per soddisfarlo bisogna
che il figlio del lavoratore manchi di pane. Ma in una
società in cui tutti mangeranno a volontà, saranno
più vivaci i bisogni di ciò che noi oggi chiamiamo
di lusso. E siccome tutti gli uomini non possono e non debbono
rassomigliarsi (la varietà dei gusti e dei bisogni è
la principale garanzia del progresso dell'umanità) vi saran
sempre, ed è sperabile che sempre vi siano, uomini e donne
che proveranno lo stimolo di bisogni superiori alla media comune,
verso una direzione qualunque.
Non tutti possono sentire il bisogno di
un telescopio; imperocchè, quand'anche l'istruzione sia
generale, vi saranno persone che preferiranno gli studi
microscopici a quelli del cielo stellato. Vi son di quelli che
amano le statue, ed altri le tele dei grandi maestri; il tale
individuo non ha altra ambizione che quella di possedere un piano
eccellente, mentre l'altro si contenta di una chitarra. Il
contadino adorna la sua stanza con una oleografia, e se il suo
gusto si sviluppasse, vorrebbe avere una bella incisione. Oggi,
colui che prova dei bisogni artistici non può soddisfarli,
meno che non erediti una grande fortuna; ma «lavorando
seriamente» e appropriandosi di un capitale intellettuale
che gli permetterà seguire una professione liberale, ha
sempre la «speranza» di soddisfare un giorno
più o meno i suoi gusti.
Così si rimprovera generalmente
alle nostre società comuniste ideali di aver per unico
obbiettivo la vita materiale di ogni individuo: «Voi
otterrete forse il pane per tutti, ci si dice, ma non avrete nei
vostri magazzini comunali nè belle pitture, nè
strumenti d'ottica, nè mobili di lusso, nè
adornamenti - insomma, quelle mille cose che servono a soddisfare
l'infinita varietà dei gusti umani. E così voi
sopprimete ogni possibilità di procurarsi ogni altra cosa,
all'infuori del pane e della carne che il Comune può
offrire a tutti, e della tela grigia colla quale rivestirete tutte
le vostre cittadine».
Ecco l'obbiezione che si muove a tutti i
sistemi comunisti - obbiezione che i fondatori delle giovani
società che s'impiantavano nei deserti americani non hanno
mai saputo comprendere. Essi credevano che se la comunità
può procurarsi abbastanza stoffa da vestire tutti i soci,
una sala di concerti in cui i «fratelli» possano
strimpellare un pezzo di musica, rappresentare di tanto in tanto
una commedia, tutto è detto. Essi dimenticavano che il
senso artistico esiste tanto nell'agricoltore come nel borghese, e
che se le forme del sentimento variano secondo la differenza di
coltura, il fondo ne è sempre il medesimo. E la
comunità ha un bel garantire la zuppa e il vino; ha un bel
sopprimere nell'educazione tutto ciò che può
sviluppare l'individualità; ha un bel imporre la Bibbia per
unica lettura; i gusti individuali si sprigionano col malcontento
generale: le piccole discordie scoppiano sulla questione di
acquistare un piano o degli strumenti di fisica; e gli elementi di
progresso si inaridiscono: la società non può vivere
che alla condizione di soffocare ogni sentimento individuale, ogni
tendenza artistica, ogni sviluppo.
Il Comune anarchico sarà
trascinato sulla stessa strada?
- No, evidentemente! Purchè esso
comprenda e procuri di soddisfare tutte le manifestazioni dello
spirito umano, nello stesso tempo che assicura la produzione di
tutto ciò che è necessario per la vita materiale.
II.
Noi confessiamo francamente che quando
pensiamo agli abissi di miseria e di sofferenze che ci circondano;
quando ascoltiamo lo straziante ritornello dell'operaio che
percorre le vie chiedendo lavoro, ci ripugna di discutere questa
questione: Come si farà in una società, in cui tutti
avran mangiato a piacimento, per soddisfare la tal persona
desiderosa di possedere una porcellana di Sèvres o un abito
di velluto?
Noi siam quasi tentati di dire, per tutta
risposta: Assicuriamo dapprima il pane. Quanto alla porcellana e
al velluto, si vedrà più tardi!
Ma giacchè bisogna pur riconoscere
che, all'infuori della nutrizione, l'uomo possiede altri bisogni;
e giacchè la forza dell'Anarchia consiste appunto
nell'abbracciare «tutte» le facoltà umane e
«tutte» le passioni senza ignorarne alcuna, noi
esporremo in poche parole come si potrà fare per soddisfare
i bisogni intellettuali e artistici dell'individuo.
Abbiam detto che, lavorando 4 o 5 ore al
giorno sino all'età di 40 o 50 anni, l'uomo potrebbe
agevolmente produrre «tutto» ciò che è
necessario per garantire alla società l'agiatezza per
tutti.
Ma la giornata dell'uomo abituato al
lavoro e attaccato a una macchina non è di cinque ore; ma
di dieci per trecento giorni all'anno, per tutta la sua vita.
Così la salute si logora e l'intelligenza si spegne.
Però quando si possono variare le proprie occupazioni, e
soprattutto alternare il lavoro manuale coll'occupazione
intellettuale si rinunzia volentieri all'ozio, senza stancarsi,
per dieci o dodici ore. È una cosa normale. L'uomo che
avrà fatto quattro o cinque ore di lavoro necessario per
vivere, - avrà ancora dinnanzi a sè cinque o sei ore
che cercherà di occupare secondo i suoi gusti. E queste
cinque o sei ore gli daranno la piena possibilità di
procurarsi, associandosi agli altri, tutto ciò che gli
farà piacere, al di fuori del necessario assicurato a
tutti.
Egli si disimpegnerà dapprima, sia
nei campi che nelle officine, del lavoro dovuto alla
società per la sua parte di contributo alla produzione
generale. Impiegherà quindi l'altra metà della sua
giornata, della sua settimana, del suo anno, a soddisfare i suoi
bisogni artistici e scientifici.
Mille società sorgeranno
rispondenti a tutti i gusti e a tutte le fantasie possibili.
Gli uni, per esempio, potran consacrare
le loro ore di riposo alla letteratura. Si formeranno allora
gruppi di scrittori, tipografi, stampatori, incisori, disegnatori,
aventi tutti uno scopo comune: la diffusione delle idee ad essi
care.
Oggi lo scrittore sa che vi è una
bestia da soma, l'operaio, al quale può affidare, in
ragione di tre o quattro lire al giorno, la stampatura dei suoi
libri, senza punto curarsi di sapere ciò che sia una
tipografia. Se il compositore è avvelenato dalla polvere
d'antimonio, se il ragazzo addetto alla macchina muore d'anemia,
non vi sono tanti altri miserabili pronti a prendere il loro
posto?
Ma, allorquando non vi saran più
morti di fame disposti a vendere le loro braccia per una misera
retribuzione: quando lo sfruttato di ieri avrà ricevuto
l'istruzione e avrà le «sue» idee da mettere
sulla carta e da comunicare agli altri, i letterati ed i dotti
saranno costretti ad associarsi tra loro per stampare la loro
prosa e i loro versi.
Finchè lo scrittore sarà
abituato a considerare il camiciotto dell'operaio e il lavoro
manuale come un indice di inferiorità, gli parrà
stupefacente di vedere l'autore stesso comporre il suo libro in
caratteri di piombo. Non vi è forse la sala di ginnastica o
il giuoco del domino per ricrearsi? Ma quando l'avvilimento che
ora si connette col lavoro manuale sarà scomparso; quando
tutti saranno costretti ad impiegare le loro braccia, non trovando
più altri su cui sgravarsi dei lavori manuali da compiere,
oh, allora gli scrittori, nonchè i loro ammiratori ed
ammiratrici, impareranno presto l'arte di maneggiare il
compositoio o l'apparecchio dei caratteri; conosceranno la gioia
di venir tutti insieme - tutti tenendo in pregio l'opera che si
stampa - a comporla e a vederla sortire, bella della sua purezza
verginale, dalla macchina rotativa. Queste superbe macchine -
strumento di tortura per il fanciullo che le serve da mane a sera
- diventeranno una fonte di godimenti per coloro che le
impiegheranno per dar voce al pensiero del loro autore favorito.
Vi perderà forse qualcosa la
letteratura? Il poeta sarà forse meno poeta dopo aver
lavorato nei campi, o collaborato colle sue mani a moltiplicar
l'opera sua? Il romanziere perderà forse la cognizione
ch'egli possiede del cuore umano, dopo aver rasentato altri uomini
nell'officina, nella foresta, tracciando una strada, o nel
laboratorio? Enunciar tali questioni, è rispondervi
implicitamente.
Certi libri saran forse meno voluminosi;
ma si stamperanno meno pagine per dire di più. Forse si
pubblicheranno meno volumi; ma ciò che si stamperà,
verrà meglio letto, meglio apprezzato. Il libro si
rivolgerà a un cerchio più vasto di lettori
più istruiti, più adatti a giudicarlo.
D'altronde l'arte tipografica, che ha
relativamente così poco progredito da Guttemberg in poi,
è ancora, si può dire, alla sua infanzia. Bisogna
ancora impiegare due ore per comporre in lettere mobili ciò
che si scrive in dieci minuti, e si cercano dei sistemi più
rapidi per moltiplicare il pensiero. Si troveranno(20).
Ah, se ogni scrittore dovesse prendere
parte alla stampa del suo volume! Quanti progressi non avrebbe
fatti di più l'arte tipografica! Non saremmo ancora alle
lettere mobili del secolo decimosettimo!
È forse un sogno questo che noi
facciamo? Certamente no, per coloro i quali hanno osservato e
riflettuto. In questo momento istesso, la vita ci spinge verso
questa direzione.
III.
È forse sognare, il concepire una
società in cui, essendo tutti diventati produttori, e
ricevendo tutti un'istruzione che permetta di coltivar le scienze
o le arti, e avendo tutti l'agio di farlo, si associno tra loro
per pubblicare i loro lavori, apportando ciascuno la propria parte
di lavoro manuale?
In questo stesso momento le
società di dotti, di letterati ed altro, si contano a
migliaia. Queste società son pure aggruppamenti volontari,
tra persone che s'interessano ad un dato ramo dello scibile, e
sono associati per pubblicare i lavori. Gli autori che collaborano
alle raccolte scientifiche non sono pagati. Le raccolte non sono
vendute; ma vengono gratuitamente inviate, in tutte le parti del
mondo, ad altre società che coltivano gli stessi rami del
sapere. Certi membri della società v'inseriscono una nota
di una pagina riassumente una data osservazione; altri vi
pubblicano lavori, frutto di lunghi anni di studio; mentre altri
si limitano a consultarle come punto di partenza di nuove
ricerche. Sono insomma vere associazioni tra autori e lettori, per
la produzione di lavori ai quali tutti prendono interesse.
È vero che la società di
dotti - non diversamente dal giornale di un banchiere, - si
rivolge all'editore che impiega degli operai per compiere il
lavoro di stampa. Vi sono persone, le quali esercitano professioni
liberali, che «disprezzano» il lavoro manuale,
compiuto infatti in condizioni che veramente abbrutiscono
l'individuo. Ma una società la quale dispensa a ciascuno
dei suoi membri l'istruzione vasta, filosofica e
«scientifica», saprà organizzare il lavoro
manuale in guisa da renderlo l'orgoglio dell'umanità; e la
società dei dotti diventerà un'associazione
d'indagatori, di amatori e di operai, tutti esercitanti un
mestiere domestico e tutti interessantisi alla scienza.
Se la scienza che li occupa è, per
esempio, la geologia, contribuiranno tutti ad esplorare gli strati
terrestri; tutti arrecheranno la loro parte di ricerche. Diecimila
osservatori invece di cento, faranno più in un anno di quel
che non si fa in vent'anni ai nostri giorni. E quando si
tratterà di pubblicare i diversi lavori, diecimila uomini e
donne, abili in vari mestieri, saranno là per tracciar
carte, incidere i disegni, comporre il testo, stamparlo.
Allegramente tutti insieme, consacreranno i loro ozi, in estate
alle esplorazioni, in inverno ai lavori di gabinetto. E quando
questi lavori avran visto la luce, non troveranno più cento
lettori soltanto; ne troveranno diecimila, tutti interessati
all'opera comune.
Il cammino stesso del progresso c'indica
del resto questa via.
Quando l'Inghilterra ha voluto creare un
grande dizionario della sua lingua, non ha aspettato che nascesse
un Littré(21) il quale consacrasse tutta la sua vita a
quest'opera. Essa ha fatto appello invece ai volonterosi, e mille
persone si sono spontaneamente e gratuitamente offerte per
rovistar le biblioteche, e terminare in pochi anni un lavoro, pel
quale la vita intera di un uomo non sarebbe bastata. In tutti i
rami dell'attività intelligente, lo stesso spirito si fa
strada; e bisognerebbe conoscer molto poco l'umanità per
non indovinare che l'avvenire è riserbato a questi
tentativi di lavoro collettivo, in vece e luogo di lavoro
individuale.
Perchè quest'opera fosse veramente
collettiva, si sarebbe dovuto organizzarla in maniera che
cinquemila volonterosi, autori, tipografi e correttori avessero
lavorato in comune; ma questo passo innanzi è stato fatto,
grazie all'iniziativa della stampa socialista che ci offre
già esempi di lavoro manuale ed intellettuale combinato.
Accade spesso di veder l'autore di un articolo comporlo da
sè stesso per i giornali di lotta. L'esperimento è
ancora minimo, microscopico, se si vuole, ma dimostra la via nella
quale l'avvenire s'incammina.
È la via della libertà.
Nell'avvenire, quando un uomo dovrà dire qualche cosa
utile, una parola che sorpassi le idee del suo secolo, non
cercherà un editore che voglia degnarsi di anticipargli il
capitale necessario. Cercherà invece dei collaboratori fra
quelli che conosceranno il mestiere, ed avranno compresa la
portata dell'opera nuova. Ed insieme pubblicheranno il libro o il
giornale.
La letteratura e il giornalismo
cesseranno allora di essere un mezzo di fare fortuna e vivere alle
spese degli altri. Vi è alcuno che conosca la letteratura e
il giornalismo, e che non invochi con tutte le sue forze l'avvento
di una epoca, in cui la letteratura potrà finalmente
emanciparsi da coloro che la proteggevano una volta, la sfruttano
oggi, e dalla folla che, salvo rare eccezioni, la paga in ragione
diretta della sua volgarità e della facilità colla
quale si accomoda al cattivo gusto dei più?
Le lettere e la scienza non prenderanno
il loro vero posto nell'opera di sviluppo umano che il giorno in
cui, libere da ogni asservimento mercenario, saranno
esclusivamente coltivate da coloro che le amano e per quelli che
le amano.
IV.
La letteratura, la scienza e l'arte
debbono essere servite da volonterosi. A questa condizione
solamente arriveranno ad emanciparsi dal giogo dello Stato, del
Capitale e della mediocrità borghese che le soffocano.
Di quali mezzi dispone oggi lo scienziato
per fare le ricerche che l'interessano? Deve domandare il soccorso
dello Stato, che non può accordarlo a più di un
aspirante su cento, e che nessuno ottiene se non s'impegna
manifestamente a batter le vie già percorse e a non uscire
dalle vecchie tradizioni! Ricordiamoci dell'Istituto di Francia
che condannava Darwin, dell'Accademia di Pietroburgo che
respingeva Mendeleeff, della Società Reale di Londra che
rifiutava di pubblicare, come «poco scientifica» la
memoria di Joule che conteneva la determinazione dell'equivalente
meccanico del calore(22).
Per questo, tutte le grandi ricerche,
tutte le scoperte che rivoluzionano la scienza, furono fatte
all'infuori delle Accademie e delle Università, sia da
persone abbastanza ricche da poter rimanere indipendenti, come
Darwin e Lyell, sia da uomini che logorarono la loro salute
lavorando tra le difficoltà e troppo spesso nella miseria,
per mancanza di laboratorio, sciupando un tempo infinito e senza
potersi procurare gli strumenti o i libri necessari per continuare
le loro ricerche, ma perseverando contro ogni speranza, e spesso
anche morendo sulla breccia. I loro nomi sono legione.
Del resto, il sistema dell'aiuto
accordato dallo Stato è così cattivo, che in ogni
epoca la scienza ha tentato di emanciparsene. Per questo appunto
in Europa e in America abbondano migliaia di società
scientifiche organizzate e mantenute da volonterosi. Alcune di
esse hanno preso uno sviluppo così formidabile, che tutte
le risorse delle società sussidiate e tutte le ricchezze
dei banchieri non basterebbero per l'acquisto dei loro tesori.
Nessuna istituzione governativa è così ricca come la
Società Zoologica di Londra, la quale è mantenuta da
sottoscrizioni volontarie.
Essa non ha bisogno di comprare gli
animali che, a migliaia, popolano i suoi giardini; giacchè
le vengono inviati da altre società e dai collezionisti del
mondo intero: un giorno è un elefante, dono della
Società Zoologica di Bombay; un altro giorno è un
ippopotamo e un rinoceronte offerto dai naturalisti egiziani; e
questi doni magnifici si rinnovano giornalmente, arrivando
incessantemente dai quattro angoli del globo: uccelli, rettili,
collezioni di insetti, ecc.
Questi invii comprendono spesso animali
che non si potrebbero acquistare con tutto l'oro del mondo:
qualcuno di essi fu catturato, a rischio della propria vita, da un
viaggiatore che vi si è affezionato come ad un fanciullo, e
che ne fa dono alla Società perchè è sicuro
che essa ne avrà tutte le cure. Il prezzo d'entrata pagato
dagli innumerevoli visitatori, basta al mantenimento di
quell'immenso serraglio.
Ciò che manca solamente al nostro
giardino Zoologico di Londra e ad altre società dello
stesso genere, si è che le contribuzioni non si scontino
punto col lavoro volontario, si è che i guardiani ed i
numerosissimi impiegati di quest'immenso stabilimento non siano
riconosciuti come membri della società; si è che
alcuni membri non abbiano, nel divenir tali, altro movente che
quello di poter scrivere sui loro biglietti da visita le iniziali
caratteristiche F. Z. S. (membro della Società Zoologica).
Quel che manca, in una parola, è lo spirito di fratellanza
e di solidarietà.
Si può dire in generale per
gl'inventori quel che si è detto per i dotti. Chi non sa a
prezzo di quali sofferenze quasi tutte le grandi invenzioni hanno
potuto aprirsi una via? Notti vegliate, privazioni di pane per la
famiglia, mancanza di attrezzi e di materie prime per le
esperienze, ecco la storia di quasi tutti coloro che hanno dotato
l'industria di ciò che forma l'orgoglio, il solo giusto
orgoglio, della nostra civiltà.
Ma che occorre per uscire da queste
condizioni che tutti son d'accordo nel giudicar cattive? Si
è tentato di creare il brevetto, e se ne conoscono i
risultati. L'inventore affamato lo vende per pochi soldi, e colui
il quale non ha fatto che prestare il capitale, intasca i
benefici, spesso enormi, dell'invenzione. Inoltre il brevetto
isola l'inventore. L'obbliga a tener segrete le sue ricerche, che
spesso non concludono che ad un tardo insuccesso; mentre che la
più semplice suggestione proveniente da un altro cervello
meno assorbito dall'idea fondamentale, basta talvolta per
secondare l'invenzione, renderla pratica. Come ogni
autorità, la patente non fa che ostacolare il progresso
della industria.
Ingiustizia stridente in teoria, -
giacchè il pensiero non può essere brevettato, - il
brevetto, come risultato pratico, è uno dei più
grandi ostacoli per lo sviluppo rapido dell'invenzione.
Ciò che occorre per favorire il
genio della scoperta, è dapprima il risveglio del pensiero;
è l'audacia della concezione che tutta la nostra educazione
contribuisce ad affievolire; è il sapere sparso a piene
mani, che centuplica il numero dei ricercatori; è
finalmente la coscienza che l'umanità farà un passo
innanzi, imperocchè il più delle volte è
l'entusiasmo, o talvolta l'illusione del bene, che ha ispirato
tutti i grandi benefattori.
Solo la Rivoluzione Sociale può
comunicare quest'urto al pensiero, quest'audacia, questo sapere,
questa convinzione di lavorare a vantaggio di tutti.
Allora si vedranno le vaste officine
provviste di forza motrice e d'istrumenti di ogni specie,
gl'immensi laboratori industriali aperti a tutti gl'indagatori.
È là che verranno a lavorare al loro sogno, dopo
aver soddisfatto i loro doveri verso la società; è
là che passeranno le loro cinque o sei ore di ricreazione;
è là che faranno le loro esperienze; è
là che troveranno altri compagni, periti in altri rami
dell'industria e venuti a studiare anch'essi qualche difficile
problema; potranno così aiutarsi l'un l'altro, illuminarsi
mutualmente, far sprizzare finalmente dall'urto delle idee e dalla
loro esperienza la soluzione desiderata. Ed anche una volta,
questo non è un sogno. Solanoi Gorodok di Pietroburgo ne ha
già dato una realizzazione, parziale almeno, sotto il
rapporto tecnico. Solanoi Gorodok è un'officina
mirabilmente provvista di attrezzi ed aperta a tutti; vi si
può disporre gratuitamente degl'istrumenti e della forza
motrice; soltanto il legno e i metalli son calcolati al loro
prezzo di costo. Ma gli operai non vi vengono che a sera, quando
son già spossati da dieci ore di lavoro al laboratorio. E
nascondono gelosamente le loro invenzioni a tutti gli sguardi,
impacciati dalla patente e dal Capitalismo, maledizione della
Società attuale, pietra d'inciampo nella via del progresso
intellettuale e morale.
V.
E l'arte? Da ogni parte ci arrivano
lamentele sulla decadenza dell'arte. Siamo lontani, infatti, dai
grandi maestri del Rinascimento. La tecnica dell'arte ha fatto
recentemente immensi progressi; migliaia di persone, dotate di un
certo talento, ne coltivano tutti i rami, ma l'arte sembra
involarsi dal mondo civile! La tecnica progredisce, ma
l'ispirazione appare meno che mai negli studi degli artisti.
Donde dovrebb'essa, infatti, venire? Una
grande idea può solo ispirare l'arte. L'arte è nel
nostro ideale sinonimo di creazione, e deve avere gli sguardi
sempre fissi innanzi; ma salvo alcune rare, molto rare eccezioni,
l'artista di professione rimane troppo ignorante, troppo borghese
per intravvedere i nuovi orizzonti.
Questa ispirazione, d'altronde, non
può sprigionarsi dai libri: essa dev'essere attinta dalla
vita, e la società attuale non può darla.
I Raffaello e i Murillo dipingevano in
un'epoca in cui la ricerca d'un nuovo ideale si adattava ancora
colle vecchie tradizioni religiose, dipingevano per decorare le
grandi chiese che, anch'esse, rappresentavano l'opera pia e devota
di più generazioni. La basilica col suo aspetto misterioso,
la sua grandezza che la collegava alla vita stessa della
città, poteva ispirare il pittore. Egli lavorava per un
monumento popolare: s'indirizzava ad una folla, e ne riceveva in
compenso l'ispirazione. Ed egli le parlava nello stesso senso che
ad esso parlavano la navata, i pilastri, le vetrate dipinte, le
statue e le porte scolpite.
Oggi il più grande onore al quale
il pittore aspira, è quello di veder la sua tela
incorniciata di legno dorato e attaccata alla parete di un museo -
una specie di bottega da rigattiere dove si vedrà, come si
vede a Madrid, al Prado, l'«Ascensione» del Murillo
accanto al «Mendicante» di Velasquez ed ai
«Cani» di Filippo II. Povere statue greche le quali
«vivevano» nelle acropoli delle loro città, ed
ora soffocano sotto le tende di tela rossa al Louvre!
Quando uno scultore greco scolpiva il suo
marmo, cercava di riprodurre lo spirito e il cuore della
città. Tutte le sue passioni, tutte le sue tradizioni di
gloria dovevano rivivere nell'opera. Ma oggi la città
«una» ha cessato di esistere. Non vi è
più comunione di idee. La città odierna non è
che un'accozzaglia occasionale di persone che non si conoscono,
che non hanno alcun interesse generale, salvo quello di
arricchirsi a spese gli uni degli altri; la patria non esiste...
Qual patria possono avere in comune il banchiere internazionale ed
il cenciaiuolo?
Solamente allorquando una città,
un territorio, una nazione o un gruppo di nazioni avran
riacquistato la loro unità nella vita sociale, l'arte
potrà attingere la sua ispirazione nell'«idea
comune» della città o della federazione. Allora
l'architetto concepirà il monumento della città, che
non sarà più nè un tempio, nè una
prigione, nè una fortezza; allora il pittore, lo scultore,
il cesellatore, l'ornatista ecc. sapranno dove collocare le loro
tele, le loro statue e le decorazioni, tutti attingendo la loro
forza d'ispirazione dalla medesima sorgente vitale, e tutti
procedendo gloriosamente verso l'avvenire.
Ma sino ad allora, l'arte non farà
che vegetare.
Le migliori tele dei pittori moderni sono
ancora quelle in cui si riproduce la natura, il villaggio, la
vallata, il mare coi suoi perigli, la montagna coi suoi splendori.
Ma in qual modo potrà il pittore riprodurre la poesia del
lavoro campestre, se non l'ha che contemplata, immaginata, non mai
gustata egli stesso? S'egli non la conosce che come un uccello di
passaggio conosce il paese al di sopra del quale spazia nelle sue
emigrazioni? Se in tutto il vigore della sua bella giovinezza, non
ha dallo spuntar dell'alba seguito l'aratro, non ha gustato il
godimento di abbattere le erbe con un largo colpo di falce accanto
ai robusti falciatori, facendo a gara di energia colle ridenti
ragazze, che empiono l'aria delle loro canzoni? L'amor della
«terra» e di ciò che cresce sulla terra non lo
si acquista col farne degli studi col pennello; non lo si acquista
che mettendosi ai suoi servigi; e senza amarla come dipingerla?
Ecco perchè tutto ciò che i migliori pittori hanno
potuto riprodurre, in questo senso, è ancora così
imperfetto, e molto spesso falso; quasi sempre del
sentimentalismo. Vi manca la «forza».
Bisogna aver ammirato, ritornando dal
lavoro, il tramonto del sole. Bisogna essere stato contadino per
conservarne lo splendore nell'occhio.
Bisogna esser stato in mare col
pescatore, ed ogni ora del giorno e della notte; aver pescato,
lottato contro i flutti, sfidata la tempesta, e provata, dopo una
rude fatica, la gioia di sollevare una rete pesante, o il
disinganno di ritornare colle mani vuote, per comprendere la
poesia della pesca. Bisogna essere passato per l'officina, aver
conosciuto gli stenti, le sofferenze ed anche le gioie del lavoro
creatore, aver fucinato il metallo allo splendore sfolgorante
degli alti forni; bisogna aver sentito «vivere» la
macchina per sapere che cosa è la forza dell'uomo e
tradurla in un'opera d'arte. Bisogna, infine, tuffarsi
nell'esistenza popolare per osar di rappresentarla.
Le opere di certi artisti dell'avvenire,
che avranno vissuto la vita del popolo, come i grandi artisti del
passato non saranno destinate alla vendita. Esse saranno parte
integrante di un tutto vivente, che senza di loro non esisterebbe,
com'esse non esisterebbero senza di lui. E colà si
verrà a contemplarle, e la loro altiera e serena
beltà produrrà il suo benefico effetto sui cuori e
sugli spiriti.
L'arte, per svilupparsi, deve essere
collegata all'industria da mille graduazioni intermediarie, di
maniera che esse siano per così dire confuse, come l'hanno
così bene dimostrato Ruskin e il grande poeta socialista
Morris: tutto ciò che circonda l'uomo, in sua casa, nella
via, all'interno ed all'esterno dei monumenti pubblici dev'essere
di una pura forma artistica.
Ma ciò non potrà
realizzarsi che in una società in cui tutti godranno
dell'agiatezza e del riposo. Si vedranno sorgere allora
associazioni d'arte in cui ciascuno potrà dar prova delle
sue capacità; imperocchè l'arte non può fare
a meno di un'infinità di lavori supplementari, puramente
manuali e tecnici. Queste associazioni artistiche s'incaricheranno
di abbellire le dimore dei loro membri, come hanno fatto quegli
amabili volontari, i giovani pittori di Edimburgo, decorando i
muri e i soffitti del grande ospedale dei poveri della
città.
Il tal pittore o il tal scultore che
avrà prodotto una opera di sentimento personale, tutta
d'intimità, la offrirà alla donna che ama o ad un
amico. La sua opera fatta di amore, sarà forse inferiore a
quelle che oggi soddisfano le gloriole dei borghesi e dei
banchieri, perchè sono costate molti scudi?
Lo stesso accadrà per tutti i
godimenti che si ricercano all'infuori del necessario. Colui che
desidererà un piano a coda entrerà nell'associazione
dei fabbricanti di strumenti di musica. E dando ad essa una parte
delle sue mezze giornate di ozio, avrà presto il piano de'
suoi sogni. Se si appassiona per gli studi astronomici si
unirà all'associazione degli astronomi, coi suoi filosofi,
i suoi osservatori, i suoi calcolatori, i suoi artisti in
istrumenti astronomici, i suoi scienzati e i suoi amatori, ed
otterrà il telescopio che desidera, fornendo una parte di
lavoro all'opera comune, imperocchè un osservatorio
astronomico richiede sovrattutto del grosso lavoro: lavoro da
muratore, da falegname, da fonditore, da meccanico, - l'ultima
rifinitura venendo data allo strumento di precisione dall'artista.
In una parola, le cinque o sette ore al
giorno di cui ciascuno disporrà, dopo aver consacrato
alcune ore alla produzione del necessario, basterebbero ampiamente
per soddisfare tutti i bisogni di lusso, infinitamente variati.
Migliaia di associazioni s'incaricherebbero di provvedervi.
Ciò che è ora il privilegio di un'infima minoranza
sarebbe in tal modo accessibile a tutti. Il lusso, cessando di
essere la pompa sciocca e chiassosa dei borghesi, diventerebbe una
soddisfazione artistica.
Tutti ne sarebbero più felici. Nel
lavoro collettivo compiuto con gaiezza di cuore per raggiungere lo
scopo desiderato - libro, opera d'arte od oggetto di lusso, -
ognuno troverà lo stimolante, il sollievo necessario per
rendere la vita gradevole.
Lavorando ad abolire la divisione fra
padroni e schiavi, noi lavoriamo alla felicità degli uni e
degli altri, alla felicità dell'umanità.
IL LAVORO GRADEVOLE
I.
Quando i socialisti affermano che una
società affrancata dal Capitale, può rendere il
lavoro gradevole, e sopprimere ogni lavoro ingrato, ripugnante e
malsano, si ride loro sulla faccia. E pure, anche oggigiorno, si
possono constatare i progressi meravigliosi compiuti su questa
via: e dovunque i progressi si sono verificati, i padroni si
felicitano dell'economia di forza ottenuta in tal guisa.
È chiaro che l'officina potrebbe
essere altrettanto sana e gradevole di quel che lo sia un
laboratorio scientifico. Ed è non meno evidente che a far
ciò si ricaverebbe vantaggio e non perdita. In un'officina
spaziosa e bene aerata, il lavoro riesce migliore, vi si applicano
agevolmente i piccoli miglioramenti, ciascuno dei quali
rappresenta un'economia di tempo e di mano d'opera. E se la
maggior parte delle officine perdurano ad essere i luoghi infetti
e malsani che noi conosciamo, ciò avviene perchè il
lavoratore non è considerato per nulla nell'organizzazione
delle fabbriche, e perchè lo sciupìo più
assurdo delle forze umane è il loro tratto caratteristico.
Nondimeno si trovano già qua e
là, allo stato di eccezioni rarissime, alcune officine
così ben disposte che sarebbe un vero piacere lavorarvi
dentro, - se il lavoro non dovesse durare più di quattro o
cinque ore al giorno, si intende, ed ognuno avesse la
facilità di variarlo a suo piacimento.
Ecco una fabbrica, - consacrata
disgraziatamente agli ordigni da guerra - la quale nulla lascia a
desiderare sotto il rapporto dell'organizzazione sanitaria e
intelligente. Essa occupa venti ettari di terreno, di cui quindici
sono coperti da invetriate. Il pavimento di mattoni refrattari
è nitido quanto quello di una casetta da minatore, e la
tettoia di vetro è accuratamente pulita da uno stuolo di
operai che non fanno altro. Vi si fondono delle verghe di acciaio
che pesano persino venti tonnellate, e quando si è a trenta
passi da un immenso fornello, le cui fiamme hanno la temperatura
di più di un migliaio di gradi, se ne indovina la presenza
solo perchè l'immensa gola di esso lascia sfuggire un
mostro di acciaio, e questo mostro è manovrato da tre o
quattro operai soltanto, che aprono, ora qui ora là, una
valvola che mette in movimento, per la pressione dell'acqua nei
tubi, delle grue immense.
Si entra, preparati a sentire il rumore
assordante dei colpi di maglio, e si scopre che non vi sono
affatto magli: gl'immensi cannoni da cento tonnellate e le assi
dei vapori transatlantici sono foggiate colla pressione idraulica,
e l'operaio si limita a fare girare una chiavetta per comprimere
l'acciaio che si preme, invece di fucinarlo; ciò che
dà un metallo più omogeneo, senza screpulature, e
dei pezzi di qualsiasi spessore.
Ci si attende uno stridore d'inferno, e
si vedono invece macchine che tagliano blocchi di acciaio di dieci
metri di lunghezza, senza produrre altro rumore di quel che ne
bisogni per tagliare del formaggio.
E quando noi esprimevamo la nostra
ammirazione all'ingegnere che ci accompagnava, egli ci rispondeva:
«Ma è una semplice questione
di economia. Questa macchina che pialla l'acciaio ci serve
già da quarantadue anni. Essa non ci avrebbe servito dieci
anni, se le sue parti, mal connesse o troppo deboli, si urtassero,
stridessero ed urlassero ad ogni colpo di pialla.
«Gli alti forni? Ma sarebbe una
spesa inutile quella di lasciar disperdere il calore, invece di
utilizzarlo: perchè arrostire i fonditori quando il calore
perduto nell'irradiamento rappresenta tonnellate di carbone?
«I magli che facevano tremar gli
edifici a cinque leghe all'ingiro ancora uno sciupìo! Si
fucina meglio per mezzo della pressione che per mezzo dell'urto,
costa meno e vi è minor perdita. Lo spazio accordato ad
ogni banco, la chiarezza dell'officina, la sua nettezza, tutto
ciò è una semplice questione d'economia. Si lavora
meglio quando si ci vede bene e non si è costretti dal poco
spazio a urtarsi l'un l'altro.
«È vero, egli aggiungeva,
che noi eravamo in un sito molto ristretto, prima di venir qui. Il
terreno costa assai caro nei dintorni della città, e i
proprietari sono così rapaci!».
La stessa cosa avviene per le miniere.
Non fosse che per mezzo di Zola o dei giornali, tutti sanno che
cosa sono le miniere odierne. Ora, la miniera dell'avvenire
sarà ben ventilata, con una temperatura così
perfettamente regolata come quella di una camera di lavoro, senza
cavalli condannati a morir sotterra poichè la trazione
sotterranea si effettuerà per mezzo di un cavo automatico
messo in movimento alla gola del pozzo: i ventilatori saran sempre
in moto e non avverranno più esplosioni. E questa miniera
non è un sogno; se ne vedono già in Inghilterra, e
noi ne abbiamo visitata una. Anche qui, questa più moderna
disposizione di cose è una semplice questione di economia.
La miniera di cui parliamo, malgrado la sua immensa
profondità di 430 metri, fornisce mille tonnellate di
carbon fossile al giorno con 200 lavoratori soltanto, cioè
cinque tonnellate al giorno per ogni lavoratore, mentre che la
media, per i 2000 pozzi dell'Inghilterra, è appena di
trecento tonnellate all'anno per ogni minatore.
Se bisognasse, noi potremmo moltiplicare
gli esempi, dimostrando che per ciò che concerne
l'organizzazione materiale, il sogno di Fourier, il falansterio,
non era una utopia.
Ma questo argomento è già
stato frequenti volte trattato nei giornali socialisti, e
l'opinione si è fermata su di esso. La manifattura,
l'officina, la miniera, «possono» essere non meno
sane; non meno superbe dei migliori laboratori delle
università moderne; e meglio esse saranno organizzate,
sotto questo rapporto, e più produttivo sarà il
lavoro umano.
Ebbene, può dubitarsi che in una
società di uguali, in cui le braccia non saranno costrette
a vendersi a qualsiasi condizione, il lavoro non diventi realmente
un piacere, un sollievo? Le faccende ripugnanti e malsane dovranno
sparire, imperocchè è evidente che in queste
condizioni nuocciono alla società intera. Potevano
dedicarcisi gli schiavi; l'uomo libero creerà nuove
condizioni di un lavoro gradevole ed infinitamente più
produttivo. Le eccezioni di oggi saranno la regola di domani.
Lo stesso accadrà per il lavoro
domestico di cui la società si scarica sull'essere da
strapazzo, sull'addolorata dell'umanità: - la donna.
II.
Una società rigenerata dalla
rivoluzione saprà far scomparire la schiavitù
domestica - quest'ultima forma del servaggio, forse la più
tenace, in quanto che è la più antica. Solamente
essa non agirà nella guisa che i falansteriani hanno
sognato, nè nella maniera che spesso i comunisti autoritari
s'immaginano.
Il falansterio ripugna a milioni di
esseri umani. L'uomo meno espansivo sente certamente il bisogno di
incontrarsi coi suoi simili per un lavoro comune, diventato tanto
più attraente in quanto che uno si sente essere una parte
dell'immenso tutto. Ma non si verifica più la stessa cosa
nelle ore riserbate al riposo ed all'intimità. Il
falansterio ed il familisterio non tengono conto di questo
bisogno; oppure cercano di supplirvi per mezzo di aggruppamenti
artificiali.
Il falansterio, che non è altra
cosa in realtà che un immenso albergo, può piacere
agli uni, od anche a tutti, in alcuni periodi della vita, ma la
grande massa preferisce la vita di famiglia (la famiglia
dell'avvenire, s'intende). Essa preferisce l'appartamento isolato,
e i Normandi e gli Anglo-Sassoni giungono perfino a preferire la
casetta di 4, 6 od 8 camere, nella quale la famiglia o
l'agglomerazione di amici possono vivere separatamente.
Il falansterio ha talvolta la sua ragione
di essere; ma diverrebbe odioso quando s'imponesse come regola
generale. Per questo una delle più grandi torture delle
prigioni è la impossibilità d'isolarsi; come
ugualmente l'isolamento cellulare diventa a sua volta una tortura,
quando non è alternato con le ore di vita sociale.
Quanto alle considerazioni di economia
che talvolta si fanno valere in favore del falansterio, ci
sembrano un'economia da speziale. La grande economia, la sola
ragionevole, è quella di render la vita gradevole per
tutti; perchè l'uomo soddisfatto della sua vita produce
infinitamente più di colui che maledice il suo
vicinato(23).
Altri socialisti ripudiano il
falansterio. Ma quando si domanda loro in qual modo potrebbe
organizzarsi il lavoro domestico, rispondono: «Ciascuno
farà il suo proprio lavoro». E se è un
borghese socialistoide che parla, egli si rivolge a sua moglie,
con un sorriso grazioso: «non è vero, mia cara, che
tu farai a meno della serva in una società socialista? Tu
farai, non è vero, come la moglie del nostro bravo amico
Paolo, o quella di Giovanni, il falegname, che conosci?»
Alle quali parole la donna risponde,
sorridendo in un modo agro-dolce, con un: «Ma sì,
caro» pur dicendosi fra sè stessa, che,
fortunatamente, ciò non arriverà così presto.
L'uomo conta ancora e sempre su la donna,
sia ella domestica o sposa, per esimersi dalle faccende di casa.
Ma anche la donna reclama finalmente la
sua parte nell'emancipazione dell'umanità. Ella non vuol
più prestarsi ad essere la bestia da soma della famiglia.
È già abbastanza ch'ella debba consacrar tanti anni
di sua vita ad allevare i suoi figli. Ella non vuol più
essere la cuoca, la rammendatrice, la scopatrice di casa! E
siccome le americane procedono all'avanguardia in quest'opera di
rivendicazione, agli Stati Uniti è un lamento generale
sulla mancanza di donne che si dilettino di lavori domestici. La
signora preferisce l'arte, la politica, la letteratura o la sala
da giuoco; l'operaia fa altrettanto, e non si trovano più
domestiche. Son molto rare, agli Stati Uniti, le ragazze e le
donne che consentano ad accettare la schiavitù del
grembiule.
E la soluzione di questo preteso
inconveniente la si trova nella vita stessa, ed è
semplicissima. È la macchina che s'incarica per tre quarti
delle faccende di casa.
Voi lucidate le vostre scarpe, e sapete
quanto sia ridicolo questo lavoro. Strofinare venti o trenta volte
una scarpa con una scopetta, che cosa può esservi di
più stupido? Occorre che un decimo della popolazione
europea si venda in cambio di un giaciglio o di un nutrimento
insufficiente, per fare questo servigio da bruto; bisogna che la
donna si consideri da se stessa come una schiava, perchè
simile operazione continui a farsi ogni mattina da dozzine di
milioni di braccia.
Eppure i parrucchieri han già
macchine per spazzolar i crani lisci e le capigliature folte;
doveva dunque essere una cosa semplice di applicare lo stesso
principio all'altra estremità. Ed è ciò che
si è fatto. Oggi la macchina da lucidar le scarpe diventa
di uso generale nei grandi alberghi europei ed americani, e si
diffonde anche all'infuori.
Nelle grandi scuole d'Inghilterra, divise
in varie sezioni, le quali hanno in pensione ciascuna dai 50 ai
200 allievi, si è trovato più semplice l'avere un
solo stabilimento che, ogni mattina, pulisca a macchina le mille
paia di scarpe; ciò risparmia la spesa di mantenere un
centinaio di domestici addetti specialmente a questo stupido
servigio. Lo stabilimento ritira alla sera le scarpe, e le rende
al mattino, a domicilio, lucidate a macchina.
Lavare i piatti? Dove trovare una donna
di casa la quale non abbia in orrore questa faccenda? Lavoro lungo
e sudicio nello stesso tempo, il quale si compie ancora il
più delle volte a mano, unicamente perchè il lavoro
della schiava domestica non vien considerato.
In America si è trovato di meglio.
Vi è già un certo numero di città nelle quali
l'acqua calda è trasmessa a domicilio, precisamente come da
noi l'acqua fredda. In tali condizioni il problema diventa di una
grande semplicità, e una donna, la signora Cockrane, l'ha
risolto. La sua macchina lava venti dozzine di piatti, li asciuga
e li secca in meno di tre minuti. Un'officina dell'Illinois
fabbrica queste macchine, le quali si vendono ad un prezzo
accessibile alle medie fortune. Ed anche le piccole famiglie,
potranno usufruirne non diversamente che per le loro scarpe.
È anche probabile che le due funzioni - lucidatura e
lavatura - vengano assunte dalla stessa intrapresa.
Pulire i coltelli; scorticarsi la pelle e
torcersi le mani lavando la biancheria, per spremere l'acqua;
lavare i pavimenti o scopettare i tappeti sollevando nuvole di
polvere, che bisogna dopo togliere con grande fatica dai luoghi
dove va a posarsi, tutto ciò si fa ancora perchè la
donna è sempre schiava; ma ciò comincia a sparire,
tutte queste funzioni compiendosi meglio a macchina; e le macchine
di ogni specie verranno introdotte nella famiglia, quando la
distribuzione della forza a domicilio permetterà di
metterle tutte in movimento, senza bisogno del menomo sforzo
muscolare.
Le macchine costano pochissimo, e se noi
le paghiamo ancora a caro prezzo, egli è perchè
desse non vengono usate generalmente, e sovratutto perchè
una tassa esorbitante, del 75 per 100, è prelevata
già prima dai signori che hanno speculato sul terreno,
sulla materia prima, sulla fabbricazione, [sulla vendita, sulla
patente, sulla tassa stessa, e via di seguito, e tengono tutti
farsi]24 passeggiare in carrozza.
Ma la piccola macchina a domicilio non
è l'ultima parola per l'affrancazione dal lavoro domestico.
La famiglia esce dal suo isolamento attuale; si associa ad altre
famiglie per fare in comune ciò che oggi si fa
separatamente.
Infatti, l'avvenire non è di avere
una macchina per scopettare, un'altra per lavare i piatti, una
terza per lavar la biancheria, e via di seguito, per ogni
famiglia. L'avvenire è del calorifero comune che
distribuisce il calore in ogni camera di tutto un quartiere, ed
esime dall'accendere il fuoco. Ciò si fa già in
alcune città americane. Un enorme focolare invia acqua
calda in tutte le case, in tutte le camere. L'acqua circola in
tubi, e, per regolarne la temperatura, non si ha che da girare una
chiavetta. E se voi tenete ad avere inoltre il fuoco che risplenda
nella tale camera, si può accendere il gaz speciale di
riscaldamento trasmesso da un serbatoio centrale. Tutto l'immenso
servizio di pulitura dei camini e di mantenimento del fuoco - la
donna sa quanto tempo esso assorba - sta per scomparire.
La candela, la lampada ed anche il gaz
han fatto il loro tempo. Vi sono intere città dove basta
spremere un bottone perchè la luce si sprigioni, e, alla
fine dei conti, è un semplice affare di economia - e di
sapere - quello di permettersi il lusso della luce elettrica.
Finalmente si tratta già, sempre
in America, di formare una società per sopprimere quasi
completamente il lavoro domestico. Basterebbe creare un servizio
di famiglia per ogni gruppo di case. Un carro verrebbe a prendere
a domicilio le scarpe da lucidare, le stoviglie da pulire, la
biancheria da lavare, delle piccole cose da raccomodare, (se ne
vale la pena), i tappeti da scopettare, e il domani mattina vi
ricondurebbe a casa bell'e fatto, e ben fatto, il lavoro che gli
aveste affidato. Alcune ore più tardi, il vostro
caffè caldo e le vostre uova cotte appuntino compariranno
sulla mensa.
Infatti, tra mezzogiorno e le due, vi
sono certamente più di 20 milioni di Americani e
altrettanti Inglesi, i quali mangiano tutti arrosto di bue o di
montone, del maiale bollito, delle patate cotte e gli erbaggi o
legumi della stagione. E son così, a dir poco, otto milioni
di fuochi accesi durante due o tre ore per arrostire questa carne
e cuocere questi legumi: otto milioni di donne passano il loro
tempo a preparare questo pasto, il quale non consiste forse in
più di dieci piatti differenti.
«Cinquanta fuochi, scriveva tempo
fa un'Americana, laddove ne basterebbe uno solo». Mangiate
alla vostra tavola, in famiglia coi vostri figli, se così
vi piace; ma, di grazia, perchè queste cinquanta donne che
perdono tutta la loro mattinata a fare alcune tazze di
caffè e a preparare un pasto così semplice?
Perchè cinquanta fuochi, quando due persone e un sol fuoco
basterebbero a cuocere tutti questi pezzi di carne e tutti questi
legumi?
Scegliete voi stessi il vostro arrosto di
bue o di montone, se siete buongustaio. Condite i vostri legumi a
vostro piacimento, se preferite una salsa, piuttosto che un'altra!
Ma non abbiate che una cucina così spaziosa e un solo
fornello così bene fornito, come meglio crederete.
Per qual ragione il lavoro della donna
non è stato mai calcolato, per qual ragione in ogni
famiglia la madre, e spesso tre o quattro serve, sono costrette a
impiegare tutto il loro tempo nelle faccende di cucina?
Perchè quegli stessi che vogliono l'emancipazione del
genere umano non hanno compresa la donna nel loro sogno di
liberazione, e considerano come cosa indegna della loro alta
dignità mascolina di pensare «a questi affari di
cucina», di cui essi si sono scaricati sulle spalle della
grande paziente - la donna?
Emancipar la donna, non vuol dire aprirle
la porta dell'università, del foro e del parlamento.
È sempre su di un'altra donna che la donna emancipata si
sbarazza dei lavori domestici. Emancipar la doma, significa
liberarla del lavoro stupido della cucina e del lavatoio;
significa organizzarsi in modo, da permetterle di nutrire ed
allevare i suoi figliuoli, se a lei così piace, pur fruendo
di abbastanza riposo per goder la sua parte di vita sociale.
Ciò si farà, l'abbiamo
detto, ciò comincia già a verificarsi. Impariamo che
una rivoluzione, la quale s'inebriasse delle più belle
espressioni di Libertà, Uguaglianza e Solidarietà,
mantenendo la schiavitù del focolare, non sarebbe la
Rivoluzione. La metà dell'umanità, subendo la
schiavitù del focolare domestico, dovrebbe ancora
ribellarsi contro l'altra metà.
IL LIBERO ACCORDO
I.
Abituati, come noi siamo, da pregiudizi
ereditari, da un'educazione e istruzione assolutamente false, a
non veder dappertutto che governo, legislazione e magistratura noi
giungiamo a credere che gli uomini si morderebbero l'un l'altro
come bestie feroci, il giorno in cui il poliziotto non ci
vigilasse più, e che avverrebbe il caos, qualora
l'autorità scomparisse in qualche cataclisma. E noi
passiamo senza avvedercene, accanto a migliaia e migliaia di
aggruppamenti umani che si formano liberamente, senza nessun
intervento della legge, e che arrivano a realizzare cose
infinitamente superiori a quelle che compionsi sotto la tutela
governativa.
Aprite un giornale quotidiano. Le sue
pagine sono interamente consacrate agli atti dei governi,
agl'imbrogli politici. A leggerlo, un Chinese crederebbe che in
Europa nulla si compia senza l'ordine di qualche padrone.
Cercatevi qualsiasi cosa sulle istituzioni che nascono, crescono e
si sviluppano senza prescrizioni ministeriali! Nulla, o quasi
nulla! Se vi è una rubrica di «cronaca», egli
è perchè si connette colla polizia. Un dramma di
famiglia, un atto di rivolta non vi saranno menzionati che
perchè gli agenti si sono mostrati.
Trecentocinquanta milioni di Europei si
amano e si odiano, lavorano o vivono delle loro rendite, soffrono
o godono. Ma la loro vita, i loro atti, (a parte la letteratura, i
teatri, lo sport), tutto rimane ignorato dai giornali se i governi
non sono intervenuti in un modo o nell'altro.
Ugualmente accade per la storia. Noi
conosciamo i menomi particolari della vita di un re, o di un
parlamento; ci sono tramandati tutti i discorsi, buoni o cattivi,
pronunziati nelle aule della ciarlataneria, «i quali non
hanno influito sul voto d'un sol membro», come diceva un
vecchio parlamentare. Le visite dei re, il buono o cattivo umore
dei politicanti, i loro giuochi di parole e i loro intrighi, tutto
ciò è accuratamente messo da conto per la
posterità. Ma noi abbiamo mille difficoltà per
ricostruir la vita di una città del medio evo, per
conoscere il meccanismo di quell'immenso commercio di scambio che
si faceva fra le città hanseatiche(25), oppure per sapere
in qual modo la città di Rouen ha costrutta la sua
cattedrale. Se qualche dotto ha passato la vita nel far queste
indagini, le sue opere rimangono ignorate, e le «storie
parlamentari», cioè false, perchè non parlano
che di un solo lato della vita della società, si
moltiplicano, si spacciano, si vendono nelle scuole.
E noi non ci accorgiamo nemmeno del
lavoro prodigioso che ogni giorno compie l'aggruppamento spontaneo
degli esseri umani, e che costituisce l'opera capitale del secolo
nostro.
Per questo noi ci proponiamo di dar
risalto a qualcuna di queste manifestazioni più
sorprendenti, e di mostrare come gli uomini, - purchè i
loro interessi non siano assolutamente contradditori - s'intendon
a meraviglia per l'azione in comune, sopra le questioni più
complesse.
È evidentissimo come nella
società odierna, basata sulla proprietà individuale,
cioè sullo spogliamento e sull'individualismo più
ristretto, e quindi stupido, i fatti di simile specie siano
necessariamente limitati; l'accordo non vi è sempre
perfettamente libero, e funziona spesso per uno scopo meschino e
odioso.
Ma quel che c'importa, non è di
ricevere esempi da imitare ciecamente, e che del resto la
società attuale non potrebbe fornirci. Ciò che ci
abbisogna si è di mostrare come, malgrado l'individualismo
autoritario che ci soffoca vi è sempre, nell'insieme della
nostra vita, un campo vastissimo, nel quale non si agisce che per
mezzo del libero accordo; e che è molto più facile
di quel che non si creda di fare a meno del governo.
In appoggio della nostra tesi noi abbiamo
già citato le strade ferrate, e ci ritorneremo sopra
ancora.
Si sa che l'Europa possiede una rete di
strade ferrate di 300.000 chilometri, e che oggi si può
circolare su questa rete, dal nord al sud, da levante a ponente,
da Madrid a Pietroburgo, da Calais a Costantinopoli, senza subire
fermate, senza nemmeno cambiar di carrozza, (quando si viaggia in
treni espressi). Meglio ancora: un pacco spedito in una stazione
anderà a raggiungere il destinatario non importa dove, in
Turchia o nell'Asia Centrale, senza altra formalità per lo
speditore, che quella di scrivere il luogo di destinazione sopra
un pezzo di carta.
Questo risultato si poteva ottenere in
due modi. O che un Napoleone, un Bismarck, un potentato qualunque
avesse conquistato l'Europa, e da Parigi, da Berlino, da Roma,
avesse tracciato sopra una carta le direzioni delle linee
ferroviarie, e ne avesse regolato l'andamento. L'idiota coronato,
Nicola I di Russia, sognò di agire così. Quando gli
furono presentati dei progetti di strade ferrate tra Mosca e
Pietroburgo, prese una riga e tracciò una linea diretta tra
queste due capitali, dicendo: «Ecco il percorso». E la
strada ferrata si fece in linea diretta colmando torrenti,
innalzando ponti vertiginosi che si dovettero poi abbandonare in
capo a qualche anno, e costando dai due ai tre milioni in media
per chilometro.
Questo è uno dei modi; ma altrove
si agì diversamente. Le strade ferrate sono state costruite
per tronchi; i tronchi sono stati allacciati fra di loro, e quindi
le cento compagnie diverse alle quali questi tronchi appartenevano
hanno cercato d'intendersi per far coincidere i loro treni
all'arrivo e alla partenza, per far circolare sui loro binari
vagoni di ogni provenienza, senza scaricar le merci passando da
una rete all'altra.
Tutto ciò si è fatto per
mezzo del libero accordo collo scambio di lettere e di proposte,
per via di congressi, nei quali i delegati intervenivano per
discutere di una data questione speciale - non per legiferare; - e
dopo i congressi, i delegati ritornavano alle loro compagnie non
con una legge, ma con un progetto di contratto da accettare o da
respingere.
Certamente, vi furono da una parte e
dall'altra degli stiracchiamenti. Certamente vi furono degli
ostinati che non volevano lasciarsi convincere. Ma l'interesse
comune finì per mettere tutti d'accordo senza che vi fosse
bisogno d'invocare gli eserciti contro i recalcitranti.
Quest'immensa rete di strade ferrate
collegate tra di loro, e questo prodigioso traffico al quale danno
movimento, costituiscono certamente la caratteristica più
meravigliosa del nostro secolo; e son dovuti al libero accordo. Se
qualcuno l'avesse previsto e predetto, cinquant'anni fa, i nostri
nonni l'avrebbero creduto pazzo o imbecille. Essi avrebbero
gridato: «Voi non arriverete mai a far capire la ragione a
cento compagnie di azionisti. Voi ci raccontate un'utopia, una
novella delle fate. Un aggruppamento centrale, con un direttore
risoluto, potrebbe solamente imporlo».
Ebbene, ciò che vi ha di
più interessante in quest'organizzazione, si è che
non esiste alcun governo centrale europeo delle strade ferrate!
Niente! Niente ministri delle strade ferrate, niente dittatori,
nemmeno un parlamento continentale, nemmeno un comitato dirigente.
Tutto si compie per mezzo di contratti.
E allo statista che pretende «che
mai non si potrà fare a meno del governo centrale, non
fosse altro che per regolare il traffico», noi domandiamo:
«Ma in qual modo le strade ferrate
dell'Europa possono farne a meno? Come arrivano esse a far
viaggiare milioni di viaggiatori e montagne di merci attraverso
tutto un continente? Se le compagnie proprietarie delle strade
ferrate hanno potuto intendersi fra di loro, perchè mai i
lavoratori che prendessero possesso delle linee ferroviarie non si
accorderebbero nella stessa guisa? E se la compagnia di
Pietroburgo-Varsavia, e quella di Parigi-Belfort possono agire con
accordo senza darsi il lusso di un comandante per l'una e per
l'altra, perchè in seno alle nostre società,
ciascuna di esse costituita da un gruppo di lavoratori liberi, si
avrebbe bisogno di un governo?
II.
Quando noi tentiamo di dimostrare, per
mezzo di esempi, che oggi stesso, malgrado l'iniquità che
presiede all'organizzazione della società attuale, gli
uomini, purchè i loro interesi non siano diametralmente
opposti, sanno benissimo mettersi d'accordo senza intervento
dell'autorità, noi non ignoriamo le obbiezioni che ci
saranno rivolte.
Questi esempi hanno il loro lato
difettoso, imperocchè è impossibile di citare una
sola organizzazione che sia immune dallo sfruttamento del debole
per opera del forte, del povero per opera del ricco. Per questo
gli statisti non mancheranno di dirci certamente, con la logica
che loro si riconosce: «Voi vedete bene che l'intervento
dello Stato è necessario per mettere fine a questo
sfruttamento!»
Solamente, dimenticando le lezioni della
storia, non ci diranno sino a qual punto lo Stato ha contribuito
ad aggravare questo stato di cose, creando il proletariato e
dandolo nelle mani degli sfruttatori. E dimenticheranno anche di
dirci se sia impossibile di far cessare lo sfruttamento,
fintantochè le sue cause prime - il Capitale individuale e
la miseria, creata artificialmente per i due terzi dallo Stato, -
continuino a sussistere.
È da prevedersi che, a proposito
del completo accordo fra le compagnie ferroviarie, ci si dica:
«Non vi accorgete dunque come le compagnie ferroviarie
angariano e maltrattano i loro impiegati e i viaggiatori stessi?
Bisogna pure che lo Stato intervenga per proteggere il
pubblico!»
Ma non abbiamo noi detto e ripetuto tante
volte che fintantochè vi saranno capitalisti, questi abusi
di potere si perpetueranno? È precisamente lo Stato, -
questo preteso benefattore, - che ha dato alle compagnie questa
terribile potenza ch'esse possiedono oggi. Non ha desso creato le
concessioni, le garanzie? Non ha desso mandato le sue truppe
contro i ferrovieri in isciopero? E, in sul principio, (e
ciò si verifica ancora in Russia), non ha esso esteso il
privilegio sino a proibire alla stampa di narrare gli accidenti
ferroviari, per non deprezzare le azioni che aveva garantite? Non
ha desso, infatti, favorito il monopolio che ha consacrato i
Vanderbilt come i Polyakoff, i direttori della Parigi Lione
Mediterraneo (P. L. M.) e quelli della linea del Gottardo,
«i Re dell'epoca»?
Dunque, se noi portiamo come esempio
l'accordo tacitamente stabilito fra le compagnie ferroviarie, non
è già per additarlo come un ideale di
amministrazione economica, e nemmeno come un ideale di
organizzazione tecnica. Ma si è per dimostrare che, se dei
capitalisti, senz'altro obbiettivo che quello di aumentare le loro
rendite alle spese di tutti, possono arrivare a sfruttare le
strade ferrate, senza fondare per questo un ufficio
internazionale, perchè non potrebbero farlo ugualmente, e
anche meglio, delle società di lavoratori, senza creare un
ministero delle strade ferrate europee?
Un'altra obbiezione si presenta,
apparentemente più seria. Ci si potrebbe dire che l'accordo
di cui noi parliamo non è interamente «libero»;
che le grandi compagnie fanno la legge alle piccole. Si potrebbe
citare, per esempio, una data ricca compagnia che obbliga i
viaggiatori i quali vanno da Berlino a Basilea, a passare per
Colonia e Francoforte, invece di seguir la strada di Lipsia; la
tal'altra la quale fa percorrere alle merci dei circuiti di cento
e duecento chilometri (sui lunghi percorsi) per favorire potenti
azionisti; la tal'altra finalmente manda in rovina linee
secondarie. Agli Stati Uniti, viaggiatori e merci sono talvolta
costretti a seguire percorsi inverosimili, perchè i dollari
affluiscano nella tasca d'un Vandenbilt.
La nostra risposta sarà la stessa.
Finchè il capitale esisterà, il grosso capitale
potrà sempre opprimere il piccolo. Ma l'oppressione non
risulta soltanto dal capitale. Alcune grandi compagnie schiacciano
le più piccole, sovrattutto grazie all'appoggio dello
Stato, e al monopolio dello Stato creato in loro favore.
Marx ha dimostrato benissimo come la
legislazione inglese ha fatto di tutto per rovinare la piccola
industria, ridurre il contadino alla miseria, e dare in mano ai
grossi industriali dei battaglioni di miserabili, costretti a
lavorare per qualsiasi salario.
Lo stesso accade esattamente per la
fabbricazione che concerne le strade ferrate. Linee strategiche,
linee sovvenzionate, linee usufruenti del monopolio del corriere
internazionale, tutto è stato messo in opera nell'interesse
dei signorotti della finanza. Quando Rothschild - creditore di
tutti gli Stati europei, - impegna il suo capitale in una strada
ferrata, i suoi fedeli sudditi, i ministri, si aggiusteranno per
procacciargli più lauti guadagni.
Negli Stati Uniti, - questa democrazia
che gli autoritari ci dipingono talvolta come ideale, - la frode
più scandalosa s'è infiltrata in tutto ciò
che riguarda le strade ferrate. Se la tal compagnia uccide le sue
rivali con una tariffa a prezzi bassissimi, egli è
perchè si rifà, da un'altra parte sulle terre che lo
Stato mediante corruzione, le ha accordate. I documenti
recentemente pubblicati sul grano americano, ci hanno mostrato la
parte rappresentata dallo Stato in questo sfruttamento del forte
sul debole.
Anche qui lo Stato ha decuplato
centuplicato la forza del grosso capitale. E quando noi vediamo i
sindacati delle compagnie ferroviarie (anche questi un prodotto
del libero accordo) riuscir talvolta a proteggere le piccole
compagnie contro le grandi, noi non possiamo fare a meno di
stupirci della forza intrinseca del libero accordo, malgrado
l'onnipotenza del grande capitale, secondato dallo Stato.
Infatti le piccole compagnie vivono,
malgrado la parzialità dello Stato; e se in Francia, paese
di accentramento, noi non contiamo che cinque o sei grandi
compagnie, ne contiamo più di 110 nella Grande Brettagna,
le quali s'intendono a meraviglia e son certamente meglio
organizzate per i trasporti rapidi delle mercanzie e dei
viaggiatori, che non le strade ferrate francesi e tedesche.
Del resto, la questione non consiste in
questo. Il grosso capitale, favorito dallo Stato, può
sempre, «qualora vi trovi vantaggio» schiacciare il
piccolo. Quello che ci occupa, è questo: L'accordo tra le
centinaia di compagnie, alle quali appartengono le strade ferrate
d'Europa, «si è stabilito direttamente, senza
l'intervento di un governo centrale», promulgante la legge
alle diverse compagnie; esso si è mantenuto per mezzo di
congressi composto di delegati che discutevano tra di loro, e
sottoponevano ai loro mandanti dei «progetti», non
delle «leggi». È questo un principio nuovo, che
differisce e si distacca completamente dal principio governativo,
monarchico o repubblicano assoluto o parlamentare. È
un'innovazione che s'introduce, timidamente ancora, nei costumi
d'Europa, ma che ha l'avvenire per sè.
III.
Quante volte non abbiamo noi letto negli
scritti dei socialisti di Stato delle esclamazioni di questo
genere: «E chi s'incaricherà dunque nella
società futura di regolare il traffico dei canali? Se
passasse per la testa d'uno dei vostri «compagni»
anarchici, l'idea di mettere una barca attraverso il canale e di
sbarrare la via alle migliaia d'imbarcazioni, - chi potrebbe
ridurlo alla ragione?». Confessiamo che la supposizione
è un poco fantastica. Ma si potrebbe aggiungere: «E
se, per esempio, il tal comune o il tal gruppo volessero far
passare le loro barche innanzi alle altre, ingombrando il canale
per trasportare, forse, delle pietre mentre che il grano,
destinato al tal altro comune rimarrebbe trascurato, chi
regolerebbe dunque l'andamento dei battelli, in mancanza del
governo?».
Ebbene, la vita reale ci ha mostrato
ancora che si può fare a meno benissimo del governo. La
libera intesa, la libera organizzazione, sostituiscono questa
macchina costosa e dannosa, e fanno meglio.
Si sa che cosa siano per l'Olanda i suoi
canali: sono le strade. Si conosce ancora quale immenso traffico
si effettui su questi canali. Ciò che da noi si trasporta
sulle strade ferrate o di terra, in Olanda si trasporta per la via
dei canali. È quello il posto dove potrebbero avvenire
dispute e contese per la precedenza nel passaggio dei battelli.
È là che il governo dovrebbe intervenire per mettere
l'ordine nel traffico.
Ebbene, no. Più pratici, gli
Olandesi, da lunghissimo tempo, han saputo aggiustarsi altrimenti,
creando specie di corporazioni, o sindacati di battellieri. Erano
associazioni libere, sorte dai bisogni stessi della navigazione.
Il passaggio dei battelli si faceva seguendo un certo ordine
d'iscrizione; tutti si seguivano per turno. Nessuno doveva
sorpassare gli altri sotto pena di venire escluso dal sindacato.
Nessuno rimaneva più di un certo numero di giorni nei porti
d'imbarco, e se, durante questo tempo, non trovava merci da
caricare, tanto peggio per lui; se ne partiva vuoto, cedendo il
posto ai nuovi arrivati. Ogni ingombro era in tal modo evitato,
anche quando la concorrenza degl'intraprenditori, - conseguenza
della proprietà individuale - perdurava ancora. Sopprimete
questa, e l'accordo sarà anche più cordiale,
più equo per tutti.
S'intende che il proprietario di ogni
battello poteva aderire o no, al sindacato. Era affar suo; ma la
maggior parte preferivano farvi adesione. Del resto i sindacati
offrono così grandi vantaggi che si sono diffusi sul Reno,
sul Weser, sull'Oder sino a Berlino. I battellieri non hanno
aspettato che Bismarck annettesse l'Olanda alla Germania, e
nominasse un
«Ober-Haupt-General-Staats-Canal-Navigations-Rath» con
un numero di galloni corrispondente alla lunghezza del titolo.
Essi invece han preferito d'intendersi internazionalmente. Meglio
ancora: molti velieri che fanno il servizio tra i porti tedeschi e
quelli della Scandinavia, nonchè della Russia, hanno
aderito pure a quei sindacati, per regolare il traffico sul mar
Baltico e introdurre una certa armonia in quel va e vieni di
battelli. Sorte liberamente, reclutando i loro aderenti volontari,
queste associazioni non hanno nulla a che fare con i governi.
È possibile, ed è
probabilissimo in ogni caso, che anche qui il grande capitale
opprima il piccolo. È possibile ancora che il sindacato
abbia una tendenza a creare un nuovo monopolio, sovrattutto sotto
il prezioso patronato dello Stato che non mancherà
d'immischiarsene. Soltanto non dimentichiamo che questi sindacati
rappresentano una associazione, i cui membri non hanno che
interessi personali; ma che qualora ogni armatore fosse costretto,
dalla socializzazione della produzione, del consumo e dello
scambio, di far parte nello stesso tempo di cento altre
associazioni necessarie al soddisfacimento dei suoi bisogni, le
cose cambierebbero aspetto. La corporazione dei battellieri pur
essendo potente sull'acqua, si sentirebbe debole in terra ferma, e
dovrebbe diminuire le sue pretensioni, per intendersi con le
strade ferrate, le manifatture e tutti gli altri aggruppamenti.
In ogni caso, senza parlare
dell'avvenire, ecco ancora un'associazione spontanea che ha potuto
fare a meno del governo. Passiamo ad altri esempi.
Poichè siamo in argomento di
bastimenti e battelli, ricordiamo una delle più belle
organizzazioni che siano sorte nel nostro secolo, - una di quelle
di cui ci possiamo, a giusto titolo, vantare. Intendiamo parlare
della Associazione inglese per il salvataggio (Lifeboat
Association).
Si sa che ogni anno più di mille
bastimenti vengono ad incagliarsi sulle coste dell'Inghilterra.
Raramente un buon bastimento teme la tempesta in mare. I pericoli
lo attendono vicino alle coste: mare agitato che gli spezza la
ruota di poppa, colpi di vento che gli strappano gli alberi e le
vele, correnti che lo rendono indomabile, scogli a fior d'acqua e
bassifondi sui quali s'incaglia.
Anche quando una volta gli abitanti delle
coste accendevano grandi fuochi per attirare le navi sugli scogli
e impadronirsi, secondo il costume, del loro carico, hanno sempre
fatto il possibile per salvar l'equipaggio. Scorgendo una nave in
pericolo, mettevano in acqua i loro gusci di noce, e si portavano
in soccorso dei naufraghi, sovente per trovare anch'essi la morte
nei flutti. Ogni villaggio in riva al mare ha le sue leggende di
eroismo, - eroismo dimostrato tanto da donne che da uomini, per
salvare gli equipaggi in pericolo.
Lo Stato, gli scienziati hanno fatto pure
qualcosa per diminuire il numero degli infortuni. I fari, i
segnali, le carte, gli avvertimenti meteorologici hanno certamente
ridotto di molto questo numero. Ma rimangono ogni anno un migliaio
di bastimenti e parecchie migliaia di vite umane da salvare.
Così alcuni uomini di buona
volontà si misero al lavoro. Marinai esperti essi stessi,
immaginarono un battello di salvataggio che potesse sfidar la
tempesta senza capovolgersi, nè colare a fondo, e
cominciarono una campagna per iniziare il pubblico all'intrapresa,
trovare il denaro necessario, costrurre battelli, e collocarne
sulle coste, dovunque potessero render servigio.
Queste persone, non essendo dei
giacobini, non si rivolsero al governo. Essi avevano compreso che,
per condurre a buona riuscita la loro intrapresa, occorreva loro
il concorso, lo slancio dei marinai, la loro conoscenza dei
luoghi, e sovrattutto la loro abnegazione. E per trovare uomini
che, al primo segnale, si slancino nella notte, nel caos delle
onde, non lasciandosi arrestare nè dalle tenebre nè
dai frangenti, e lottando cinque, sei, dieci ore contro i flutti
prima di raggiungere il bastimento in pericolo, uomini pronti ad
arrischiar la loro vita, per salvar quella degli altri, occorre il
sentimento di solidarietà, lo spirito di sacrificio, che
non si acquistano già con dei galloni.
Fu dunque questo un movimento interamente
spontaneo, - generato dal libero accordo e dall'iniziativa
individuale. Centinaia di gruppi locali si formarono lungo le
costiere. Gl'iniziatori ebbero il buon senso di non atteggiarsi a
padroni: cercarono invece i loro lumi nelle capanne dei pescatori.
Se un lord mandava 25.000 lire per l'acquisto di un battello di
salvataggio, ad un villaggio della costa, se ne accettava
l'offerta; ma si lasciava ai pescatori e ai marinai del luogo la
scelta del posto ove collocarlo.
Non fu all'Ammiragliato che si fecero i
piani dei nuovi battelli. «Poichè importa - leggiamo
nella relazione dell'Associazione - che i salvatori abbiano piena
fiducia nell'imbarcazione che montano, il Comitato s'impone
sovrattutto il compito di dare ai battelli la forma e
l'allestimento che possono desiderare gli stessi salvatori».
Così ogni anno l'Associazione adotta nuovi perfezionamenti.
Tutto per opera dei volonterosi,
organizzati in comitati o gruppi locali! Tutto per mezzo del mutuo
aiuto e dell'accordo! - Oh, gli anarchici! - E così nulla
essi domandano ai contribuenti, e pure l'anno scorso il loro
bilancio segnava un milione e 76 mila lire di quote spontanee.
Quanto ai risultati, eccoli:
L'Associazione possedeva nel 1891, 293
battelli di salvataggio. In questo stesso anno essa salvava 601
naufraghi e 33 bastimenti; dalla sua fondazione ha salvato 32.661
esseri umani.
Nel 1886, essendo periti nei flutti tre
battelli di salvataggio con tutti i loro equipaggi, centinaia di
nuovi volontari vennero ad iscriversi costituendosi in gruppi
locali, e questo fatto ebbe per risultato la costruzione di una
ventina di battelli supplementari.
Notiamo di sfuggita che l'Associazione
invia, ogni anno, ai pescatori e ai marinai degli eccellenti
barometri a un prezzo tre volte minore del loro valore reale. Essa
diffonde le cognizioni meteorologiche e tiene gl'interessati al
corrente delle variazioni repentine previste dagli scienziati.
Ripetiamo che le centinaia di piccoli
comitati, o gruppi locali, non sono organizzati gerarchicamente e
si compongono unicamente di volontari-salvatori, e di persone che
s'interessano di quest'opera. Il Comitato centrale, che è
piuttosto un centro di corrispondenza, non interviene in nessun
modo.
È vero che quando si tratta, nel
circondario, di votare su di una questione d'educazione o
d'imposte locali questi comitati non prendono parte, come tali,
alle deliberazioni - modestia che gli eletti di un consiglio
municipale disgraziatamente non sanno imitare. Ma d'altra parte,
questa brava gente non ammette che chi non ha mai sfidato la
tempesta imponga loro delle leggi sul salvataggio. Al primo
segnale di pericolo, essi accorrono, si concentrano e vanno
innanzi. Niente galloni, ma molta buona volontà.
Prendiamo un'altra Società dello
stesso genere, quella della Croce Rossa. Poco importa il suo nome:
vediamo ciò ch'essa è.
Immaginate che qualcuno fosse venuto a
dire venticinque anni fa: «Lo Stato, per quanto capace di
far massacrare ventimila uomini in un giorno e di farne ferire
cinquantamila, è incapace di portare soccorso alle sue
stesse vittime. Bisogna dunque che - finchè la guerra
esiste - l'iniziativa privata intervenga e gli uomini di buona
volontà si organizzino internazionalmente per quest'opera
di carità».
Qual diluvio di scherni non si sarebbe
riversato su colui che avesse osato tenere simile linguaggio! Lo
avrebbero trattato dapprima da utopista, e se poi si fossero
degnati di fargli qualche obbiezione, gli avrebbero risposto:
«volontari mancheranno precisamente là dove il
bisogno si farà maggiormente sentire. I nostri ospedali
liberi saranno tutti accentrati in luogo sicuro, mentre le
ambulanze mancheranno dell'indispensabile. Le rivalità
nazionali produrranno come conseguenza che i poveri soldati
muoiano senza soccorsi». Tanti parolai, altrettante
riflessioni scoraggianti. Chi di noi non ha inteso piagnucolare su
questo tono?
Ebbene, noi sappiamo invece quel che in
realtà accade. Dappertutto, in ogni paese, in ogni
località si sono organizzate liberamente società e
sezioni della Croce Rossa, e quando scoppiò la guerra del
1870-71, i volontari si misero all'opera. Uomini e donne accorsero
a prestare i loro servigi. Ospedali ed ambulanze furono
organizzati a migliaia; e gran numero di treni fu destinato al
trasporto di ambulanze, viveri, biancheria, medicamenti per i
feriti. I comitati inglesi mandarono interi convogli di alimenti,
di abiti, di attrezzi, di sementi, di animali da tiro, e persino
di aratri a vapore con le rispettive guide, per aiutare la coltura
dei terreni devastati dalla guerra. Consultate soltanto la
«Croce Rossa» di Gustavo Moynier, e rimarrete
veramente colpiti dall'immensità del lavoro compiuto.
Quanto ai profeti sempre pronti a negare
agli altri uomini il coraggio, il buon senso, l'intelligenza,
credendosi essi soli capaci di guidare il mondo a bacchetta,
nessuna delle loro previsioni si è avverata.
L'abnegazione dei volontari della Croce
Rossa è stata al disopra di ogni elogio. Essi non
domandavano che di occupare i posti più pericolosi; e
mentre i medici salariati dello Stato fuggivano con il loro stato
maggiore all'avvicinarsi dei Prussiani, i volontari della Croce
Rossa continuavano la loro opera sotto il grandinar delle palle,
sopportando le brutalità degli ufficiali bismarchiani e
napoleonici, prodigando le stesse cure ai feriti di ogni
nazionalità. Olandesi e Italiani, Svedesi e Belgi, persino
Giapponesi e Chinesi, s'intendevano a meraviglia. Essi ripartivano
i loro ospedali e le loro ambulanze secondo i bisogni del momento;
e gareggiavano soprattutto per l'igiene dei loro ospedali. E
quanti Francesi non parlano ancora, con profonda gratitudine,
delle tenere cure che ricevettero da parte di tali volontari
olandesi e tedeschi, nelle ambulanze della Croce Rossa!
Che importa ciò all'autoritario?
Il suo ideale è il maggiore del reggimento, il salariato
dello Stato. Al diavolo dunque la Croce Rossa con i suoi ospedali
igienici se gli infermieri non debbono essere funzionari!(26)
Ecco dunque un'organizzazione, nata ieri,
la quale possiede ambulanze, ospedali, treni, elabora nuovi
sistemi per la cura delle ferite, ed è dovuta
all'iniziativa spontanea di alcuni uomini di cuore.
Ci si obbietterà forse che gli
Stati entrano pure per qualche cosa in questa organizzazione.
Sì, gli Stati vi hanno messo la mano per impadronirsene. I
comitati dirigenti sono presieduti da coloro che dei lacchè
chiamano principi del sangue. Imperatori e regine prodigano il
loro patronato ai comitati nazionali. Ma non è a questo
patrocinio che devesi il successo dell'organizzazione;
bensì ai mille comitati locali di ogni nazione,
all'attività degli individui, all'abnegazione di tutti
coloro che cercano di sollevare le vittime della guerra. E
quest'abnegazione sarebbe ancor più grande, se gli Stati
non se ne immischiassero punto!
In ogni caso, non è in seguito
agli ordini di un Comitato direttore internazionale che gli
Inglesi e Giapponesi, Svedesi e Cinesi si son dati premura
d'inviare i loro soccorsi ai feriti del 1871. Non è in
seguito agli ordini di un ministero internazionale che gli
ospedali sorgevano sul territorio invaso, e le ambulanze si
avanzavano fin sul campo di battaglia, bensì per
l'iniziativa dei volontari di ogni paese. Una volta sul luogo,
essi non si sono accapigliati come pretendevano i giacobini, ma si
son messi tutti all'opera senza distinzione di nazionalità.
Noi possiamo deplorare che così
grandi sforzi siano messi al servizio di una così cattiva
causa, e domandarci come il fanciullo del poeta:
«Perchè li si ferisce, se dopo li si cura?».
Cercando di demolire la forza del Capitale e il potere dei
borghesi, noi lavoriamo anche a por fine ai massacri, ed ameremo
meglio vedere i volontari della Croce Rossa a spiegare la loro
attività, per arrivare con noi a sopprimere la guerra.
Ma noi dobbiamo menzionare quest'immensa
organizzazione come una prova di più dei risultati fecondi
prodotti dal libero accordo e dalla libera assistenza.
Se volessimo moltiplicare gli esempi
presi dall'arte di sterminare gli uomini, non finiremmo
più.
Che ci basti di citare soltanto le
innumerevoli società alle quali l'esercito tedesco deve
soprattutto la sua forza la quale non dipende solo dalla sua
disciplina, come generalmente si crede. Queste società
pullulano in Germania, e il loro obbiettivo è quello di
diffondere le cognizioni militari. In uno degli ultimi congressi
dell'Alleanza militare tedesca (Kriegerbund) si videro i delegati
di 2452 società, comprendenti 151.712 membri e tutte
federate tra di loro.
Società di tiro a segno,
società di giuochi militari, di giuochi strategici, di
studi topografici, ecco le officine dove si elaborano le
cognizioni tecniche dell'esercito tedesco; non nelle scuole di
reggimento. E queste società di ogni specie costituiscono
una rete formidabile di aggruppamenti militari e civili, di
geografi e di ginnasti, di cacciatori e di tecnici, i quali
sorgono spontaneamente, si organizzano, si federano, discutono e
si recano a fare esplorazioni pratiche in campagna. E sono queste
associazioni di volontari e di liberi che formano la vera forza
dell'esercito tedesco.
Il loro scopo è abbominevole: il
mantenimento dell'impero. Ma, quello che importa di mettere in
rilievo, si è che lo Stato, malgrado la sua grandissima
missione - l'organizzazione militare - ha compreso che lo sviluppo
di essa sarebbe tanto più sicuro, quanto più fosse
lasciato alla intesa dei gruppi, e alla libera iniziativa degli
individui.
Anche in materia di guerra si ricorre
oggi al libero accordo; e per confermare la nostra asserzione ci
basti menzionare i trecentomila volontari inglesi, l'Associazione
nazionale inglese di artiglieria e la Società, in via di
organizzazione, per la difesa delle coste dell'Inghilterra, la
quale, certamente, se si costituirà, sarà molto
più attiva che non il ministero della marina con le sue
corazzate che scoppiano e le sue baionette che si piegano come
piombo.
Dappertutto lo Stato abdica e abbandona a
privati le sue funzioni sacrosante. Dappertutto la libera
organizzazione si ramifica e si estende sul suo dominio. Ma tutti
i fatti, che noi abbiamo citato, permettono appena di prevedere
ciò che il libero accordo ci riserba nell'avvenire, il
giorno in cui lo Stato più non esisterà.
OBBIEZIONI
I.
Esaminiamo ora le principali obbiezioni
che si oppongono al comunismo. La maggior parte provengono
evidentemente da un semplice malinteso, ma alcune suscitano
importanti questioni, e meritano tutta la nostra attenzione.
Noi non dobbiamo occuparci di combattere
le obbiezioni che si muovono al comunismo autoritario: noi stessi
le constatiamo. Le nazioni civili hanno troppo sofferto nella
lotta che doveva condurre all'emancipazione dell'individuo per
poter rinnegare il loro passato e tollerare un governo che
verrebbe ad imporsi sin nei menomi particolari della vita del
cittadino, quand'anche questo governo non avesse altro scopo che
il bene della comunità. Se mai una società comunista
autoritaria arrivasse a costituirsi essa non potrebbe durare, e
sarebbe presto costretta dal malcontento generale, o a
disciogliersi, o a riorganizzarsi sopra principii di
libertà.
Noi ci occuperemo invece di una
società comunista-anarchica, di una società che
riconosca la libertà piena ed intera dell'individuo, non
ammetta alcuna autorità, non impieghi alcun mezzo
coercitivo per obbligar l'uomo al lavoro. Limitiamoci in questi
studi al lato economico del problema, vediamo se questa
società, composta di uomini quali oggi esistono, -
nè migliori nè più cattivi, nè
più nè meno laboriosi, - avrebbe probabilità
di svilupparsi felicemente.
L'obbiezione è conosciuta.
«Se l'esistenza di ciascuno è assicurata, e la
necessità di guadagnare un salario non obbliga l'uomo a
lavorare, nessuno lavorerà. Ciascuno si sbarazzerà
sugli altri dei lavori che non sarà costretto di
fare». Rileviamo dapprima la leggerezza incredibile colla
quale si mette innanzi questa obbiezione, senza riflettere che la
questione, in realtà, si riduce a sapere se, da una parte,
si ottiene effettivamente col lavoro salariato i risultati che si
pretende di ottenere; e se, da un'altra parte, il lavoro
volontario non sia già, oggidì stesso, più
produttivo del lavoro stimolato dal salario. Tale questione
esigerebbe uno studio profondo. Ma mentre nelle scienze esatte non
si usa pronunciarsi sopra soggetti infinitamente meno importanti e
meno complicati, che dopo serie ricerche, raccogliendo
accuratamente fatti e analizzandone i rapporti, - nel nostro caso
gli avversari si contentano di un fatto qualunque, - per esempio
l'insuccesso di un'associazione di comunisti in America, - per
sentenziare senza appello. Essi fanno come l'avvocato, il quale
non vede nell'avvocato della parte avversaria il rappresentante di
una causa o di una opinione contraria alla sua, ma un semplice
contradditore in una giostra oratoria; e quindi, se è
abbastanza felice di trovare una replica, non si preoccupa di
ottenere, o no, ragione. Per questo lo studio di questa base
fondamentale di tutta l'economia politica, - lo studio delle
condizioni più favorevoli per dare alla società la
maggior somma di prodotti utili, con la minor perdita di forze
umane, - non progredisce affatto. Ci si limita a ripetere dei
luoghi comuni, oppure si fa silenzio.
Ciò che rende questa leggerezza
tanto più stupefacente si è che, anche nella stessa
economia politica capitalistica, si trovan già alcuni
scrittori portati dalla forza delle cose a mettere in dubbio
questo assioma dei fondatori della loro scienza, assioma secondo
il quale la minaccia della fame sarebbe il miglior stimolo
dell'uomo per il lavoro produttivo. Essi cominciano ad avvedersi
che nella produzione entra un certo elemento collettivo, troppo
trascurato sino ai giorni nostri, il quale potrebbe essere molto
più importante della prospettiva di un guadagno personale.
La qualità inferiore del lavoro salariato, la perdita
spaventosa di forza umana nei lavori dell'agricoltura e della
industria moderne, la quantità sempre crescente degli
oziosi i quali cercano di sbarazzarsi sempre di ogni lavoro
necessario sulle spalle degli altri, la mancanza, sempre
più manifesta, di un certo slancio nella produzione, tutto
ciò comincia a preoccupare persino gli economisti della
scuola «classica». Alcuni di loro domandano se non
hanno sbagliato strada, ragionando sopra un essere immaginario,
concepito pessimisticamente, che si supponeva guidato
esclusivamente dall'allettamento del guadagno o del salario.
Questa eresia penetra fin nelle Università: la si arrischia
nei libri di ortodossia economista. Ciò che del resto, non
impedisce moltissimi riformatori socialisti dal rimaner partigiani
della rimunerazione individuale e dal difendere la vecchia
cittadella del salariato, anche quando gli stessi suoi difensori
di una volta la smantellano pietra per pietra, e la consegnano
nelle mani degli assalitori.
Cosicchè si teme che, senza
esservi costretta, la massa non voglia lavorare. Ma non abbiamo
noi inteso in vita nostra, esprimere queste apprensioni, in due
riprese, dagli schiavisti degli Stati Uniti, prima della
liberazione dei negri, e dai proprietari russi prima della
liberazione dei servi? - «Senza la frusta, il negro non
lavorerà», dicevano gli schiavisti. - «Lontano
dalla sorveglianza del padrone, il servo lascierà i campi
incolti», dicevano i boiardi russi. Ritornello dei signori
francesi del 1789, ritornello del medio evo, ritornello vecchio
come il mondo, noi l'ascoltiamo ogni volta che si tratta di
riparare un'ingiustizia nella umanità.
Ed ogni volta la realtà viene a
dargli una smentita formale. Il contadino liberato del 1795
lavorava con una energia feroce, sconosciuta ai nostri antenati;
il negro liberato lavora più dei suoi padri; e il contadino
russo, dopo d'aver onorato la luna di miele della sua
emancipazione, festeggiando il santo venerdì, al pari della
domenica, ha ripreso il lavoro con tanta maggior vivacità,
perchè la sua liberazione è stata più
completa, laddove la terra non gli manchi, egli lavora con
accanimento, - è la parola esatta.
Il ritornello schiavista può avere
il suo valore per i proprietari di schiavi. Quanto agli schiavi
stessi essi san bene quel che vale: ne conoscono i motivi.
Del resto, chi dunque, se non gli
economisti, c'insegnò che, se il salariato si disimpegna
nè bene nè male del suo lavoro, non si ottiene un
lavoro intenso e produttivo che dall'uomo il quale vede aumentare
il suo benessere in ragione de' suoi sforzi? Tutti gli inni
intonati in onore della proprietà si riducono precisamente
a questo assioma.
Imperocchè, - cosa notevole, -
quando gli economisti, volendo decantare i benefici della
proprietà, ci mostrano come un terreno incolto, una palude
o un suolo sassoso si coprano di ricche messi quando li inaffia il
sudore del contadino-proprietario, essi non provano per nulla la
loro tesi in favore della proprietà. Ammettendo che la sola
garanzia per non essere spogliati dei frutti del proprio lavoro,
sia quella di possedere lo strumento del lavoro - ciò che
è vero, - essi provano soltanto, che l'uomo non produce
realmente che quando lavora in piena libertà, ha una certa
scelta nelle sue occupazioni, non ha sorveglianti per
infastidirlo, e, finalmente, vede il suo lavoro giovare a lui, e
non già ad un poltrone qualunque. Questo è tutto
quello che si può dedurre dalle loro argomentazioni, ed
è quello che anche noi affermiamo.
Quanto alla forma di possesso dello
strumento di lavoro ciò non ha che un rapporto indiretto
nella loro dimostrazione, per assicurare al coltivatore che
nessuno gli toglierà il beneficio dei suoi prodotti,
nè dei suoi miglioramenti. Per appoggiare la loro tesi in
favore della «proprietà» contro ogni altra
forma di «possesso», gli economisti dovrebbero
dimostrarci che sotto forma di possesso comunale, la terra non
produce mai tanto ricco e abbondante raccolto come quando il
possesso è personale. Ora, ciò non si verifica; ed
è anzi appunto il contrario che si constata.
Prendete, infatti, come esempio un comune
svizzero del cantone di Vaud, all'epoca in cui tutti gli uomini
del villaggio si recano all'inverno a tagliar legna nella foresta
che appartiene a tutti. Ebbene, è precisamente durante
queste feste del lavoro che si verifica il maggior slancio nel
lavoro, il più considerevole impiego di forza umana. Non si
potrebbe fare alcun paragone con nessun lavoro salariato, con
nessun sforzo di proprietario.
Oppure, prendete l'esempio d'un villaggio
russo, i cui abitanti se ne van tutti a falciare un prato
appartenente al comune o da esso affittato. Là voi potrete
comprendere ciò che l'uomo «può»
produrre, quando lavora in comune per un'opera comune. I compagni
gareggiano tra di loro a chi traccierà colla falce un
cerchio più vasto; le donne si affrettano a seguirli per
non vedersi lasciare indietro dall'erba falciata. È anche
questa una festa del lavoro, durante la quale cento persone fanno
in poche ore ciò che, compiuto separatamente, non si
sarebbe terminato in alcuni giorni. Qual triste contrasto ci fa,
al confronto, il lavoro del proletariato isolato!
Si potrebbero finalmente citare migliaia
di esempi, presso i coloni d'America, nei villaggi della Svizzera,
della Germania, della Russia, e di certe parti della Francia; i
lavori fatti in Russia dalle squadre (artèles) di muratori,
di carpentieri, di battellieri, di pescatori, ecc., i quali
intraprendono un lavoro per dividersene direttamente i prodotti od
anche la rimunerazione, senza passare per le forche caudine dei
sotto-intraprenditori. Si potrebbero menzionare anche le caccie
comunali delle tribù nomadi, e il numero infinito
d'intraprendenze collettive condotte bene a termine. E dapertutto
si constaterebbe la superiorità incontrastabile del lavoro
comunale, paragonato a quello del salariato o del semplice
proprietario.
Il benessere, cioè la
soddisfazione dei bisogni fisici, artistici e morali, e la
sicurezza di questa soddisfazione, sono sempre stati lo stimolo
più potente al lavoro. E dove il salariato arriva appena a
produrre lo stretto necessario, il lavoratore libero, il quale
vede crescere il lusso e l'agiatezza per sè e per gli altri
in ragione dei suoi sforzi, spiega molto maggiore energia ed
intelligenza, ed ottiene prodotti di prim'ordine molto più
abbondanti. L'uno si sente inchiodato alla sua miseria; l'altro
può sperare nell'avvenire agi e godimenti.
Tutto il segreto è qui. Per questo
una società, la quale mirerà al benessere di tutti e
alla possibilità per tutti di goder la vita in tutte le sue
manifestazioni, produrrà un lavoro volontario infinitamente
superiore o ben più considerevole della produzione ottenuta
sino all'epoca attuale, sotto il pungolo della schiavitù,
del servaggio e del salariato.
II.
Chiunque può oggi scaricarsi su
altri di un lavoro indispensabile all'esistenza, si affretta di
farlo, ed è ammesso che sia sempre così.
Ora, il lavoro indispensabile
all'esistenza, è essenzialmente manuale. Noi abbiamo un
bell'essere artisti, scienziati; nessuno di noi può fare a
meno dei prodotti ottenuti col lavoro delle braccia: pane, abiti,
strade, bastimenti, luce, calore, ecc. Ma vi ha di più
ancora: per quanto i nostri godimenti siano altamente artistici o
sottilmente metafisici, non ve n'è uno che non si basi sul
lavoro manuale. E precisamente di questo lavoro, - fondamentale
della vita - ognuno cerca di sbarazzarsi.
Noi lo comprendiamo perfettamente: oggi
deve accadere così.
Imperocchè, compiere un lavoro
manuale oggi significa: rinchiudersi per dieci o dodici ore al
giorno in un laboratorio malsano, e rimanervi dieci, trent'anni,
tutta la vita, sempre incatenato alla stessa occupazione.
Significa: condannarsi a una mercede
derisoria, essere esposto alle incertezze del domani, alla
disoccupazione, molto spesso alla miseria, più spesso
ancora alla morte in un ospedale, dopo aver lavorato quarant'anni
a nutrire, vestire, divertire od istruire gli altri, piuttosto che
se stesso e i propri figli.
Significa: portar per tutta la vita, agli
occhi degli altri, il suggello dell'inferiorità, e avere
esso stesso coscienza di questa inferiorità,
imperocchè, - per quanto dicano diversamente molti bei
signori, - il lavoratore manuale è sempre considerato come
l'inferiore del lavoratore del pensiero, e colui che ha faticato
per dieci ore all'officina non ha il tempo e ancor meno, il mezzo
di procurarsi gli alti godimenti della scienza e dell'arte,
nè soprattutto di prepararsi ad apprezzarli; ma deve
contentarsi delle briciole che cadono dalla mensa dei
privilegiati.
Noi comprendiamo dunque che in tali
condizioni, il lavoro manuale venga considerato come una
maledizione del destino.
Noi comprendiamo, che tutti non abbiano
che un sogno, che un'aspirazione: quella di uscire o di far uscire
i loro figli da questa condizione inferiore: di crearsi una
situazione «indipendente» - cioè, che cosa? -
di vivere anche essi, alla lor volta, del lavoro altrui.
Finchè vi sarà una classe
di lavoratori del braccio e un'altra classe di «lavoratori
del pensiero» - le mani nere e le mani bianche -
accadrà sempre così.
Quale interesse, infatti, può
avere questo lavoro accasciante, da bruti, per l'operaio il quale
conosce anticipatamente il suo destino, di essere condannato a
vivere, dalla culla alla tomba, nella mediocrità, nella
povertà, nell'incertezza del domani? Così, quando si
vede l'immensa maggioranza degli uomini riprendere, ad ogni
mattino, il loro triste mestiere, si rimane sorpresi del loro
attaccamento al lavoro, dell'abitudine presa, la quale permette
loro, come una macchina obbediente ciecamente all'impulso datole,
di condur questa vita di miseria, senza speranza del domani, senza
nemmeno travedere in vaghi bagliori che un giorno essi, o almeno i
loro figli, faranno parte di questa umanità, ricca
finalmente di tutti i tesori della libera natura, di tutti i
godimenti del sapere e della creazione scientifica ed artistica,
riservata oggi a pochi privilegiati.
Noi vogliamo abolire il salariato,
precisamente per metter fine a questa separazione tra il lavoro
del pensiero e il lavoro manuale. Il lavoro allora non
apparirà più come una maledizione del destino, ma
diventerà ciò che dev'essere: il libero esercizio di
«tutte» le facoltà dell'uomo.
Sarebbe tempo, d'altronde, di
sottomettere ad un'analisi seria questa leggenda della maggior
produzione che si pretende di ottenere sotto il pungolo del
salario.
Basta visitare, non già la
manifattura e l'officina modello, che si trovano qua e là
allo stato di eccezione, ma le officine, quali sono ancora quasi
tutte oggigiorno, per concepire l'immenso sciupìo di forza
umana che caratterizza l'industria attuale. Per una fabbrica
organizzata più o meno razionalmente, ve ne son cento e
più le quali rovinano il lavoro dell'uomo, questa forza
preziosa, senz'altro motivo più serio che quello di
procurare forse due soldi di più a beneficio del padrone.
Qui, voi scorgete dei giovani dai venti
ai venticinque anni, curvi tutta la giornata su di un banco, il
petto incavato, scuotere febbrilmente la testa e il corpo per
annodare, con una prestezza da prestigiatori, i due capi di
cattivi rimasugli di cotone, scarti dei telai da merletti. Quale
generazione lascieranno sulla terra questi corpi tremolanti e
rachitici? Ma..... «occupano così poco posto
nell'officina, e mi rendono ciascuno cinquanta centesimi al
giorno» dirà il padrone!
Colà voi vedete, in un'immensa
officina di Londra, ragazze diventate calve a diciassette anni a
forza di portar sul capo, da una sala all'altra, dei vassoi di
fiammiferi mentre la più semplice macchina potrebbe
carreggiare i fiammiferi alle loro tavole! Ma... costa tanto poco
il lavoro delle donne, non avendo esse generalmente un mestiere
speciale! A quale scopo una macchina? Quando esse non ne potranno
più, si surrogheranno facilmente... ve ne son tante nella
strada!
Sulla scalinata di un ricco palazzo, in
una notte glaciale, troverete il fanciullo addormentato, coi piedi
scalzi, col suo pacco di giornali sotto il braccio... Costa
così poco il lavoro infantile, che lo si può bene
impiegare, ogni sera a vendere per una lira di giornali, sulla
quale al poverino toccheranno appena due o tre soldi. E vedrete
finalmente l'uomo robusto passeggiar colle braccia penzoloni; il
lavoro gli manca per mesi intieri, mentre la sua figliuola
intristisce tra i vapori brucianti della fabbrica d'apparecchio di
stoffe, e il suo bambino riempie a mano vasi di lucido da scarpe,
o attende per lunghe ore, all'angolo di una strada, che un
passeggero gli faccia buscar due soldi.
E così dappertutto, da San
Francisco a Mosca, da Napoli a Stoccolma. Lo sciupìo delle
forze umane è la caratteristica predominante, distintiva
dell'industria, senza parlare del commercio, ove raggiunge
proporzioni anche più colossali.
Qual triste satira in questo nome di
«economia» politica che viene dato alla scienza dello
sperpero delle forze sotto il regime del salariato!
E non è tutto. Se voi parlate col
direttore di una officina bene organizzata, egli vi
spiegherà ingenuamente che oggi è difficile di
trovare un operaio abile, vigoroso, energico, che si dedichi al
lavoro con ardore. «Quando se ne presenta uno, egli vi
dirà, fra i venti o trenta che ogni lunedì vengono a
domandarci lavoro, è sicuro di essere ricevuto, quand'anche
noi fossimo sul punto di ridurre il numero delle nostre braccia.
Lo si riconosce al primo colpo d'occhio, e lo si accetta sempre,
salvo a disfarsi domani di un operaio attempato e meno
attivo». E quegli che viene licenziato, coloro che lo
saranno domani, vanno ad ingrossare le file di quell'immenso
esercito del capitale - gli operai disoccupati - che si chiamano
ai telai e ai banchi solo nei momenti di fretta, per vincere la
resistenza degli scioperanti. Oppure questo rifiuto delle migliori
officine, questo lavoratore medio, va a raggiungere l'esercito non
meno formidabile degli operai attempati o mediocri, che circola
continuamente per le officine secondarie, quelle che rientrano
appena nelle loro spese e tirano innanzi per mezzo di espedienti
ed inganni tesi al compratore, e sovratutto al consumatore dei
paesi lontani.
E se voi parlate al lavoratore stesso,
apprenderete che la regola dei laboratori è che l'operaio
non faccia mai tutto ciò di cui è capace. Guai a
colui che, in un'officina inglese, non seguisse questo consiglio,
che alla sua entrata riceve dai compagni!
Imperocchè i lavoratori sanno che
se, in un momento di generosità, cedono alle istanze di un
padrone ed acconsentono a rendere intensivo il lavoro per ultimare
commissioni urgenti, questo lavoro nervoso sarà d'ora
innanzi richiesto come regola nella scala dei salari. Così,
in nove officine su dieci, preferiscono non produrre mai quanto
potrebbero.
In certe industrie si limita la
produzione per mantenere i prezzi elevati, e talvolta si fa
circolare la parola d'ordine «Co-canny», che
significa: «A cattiva paga, cattivo lavoro».
Il lavoro salariato è un lavoro da
servo: non può e non deve rendere tutto ciò che
può rendere. E sarebbe tempo ormai di finirla con questa
leggenda che fa del salario il migliore stimolo per il lavoro
produttivo. Se l'industria frutta attualmente cento volte
più che non al tempo dei nostri nonni, noi lo dobbiamo al
risveglio improvviso delle scienze fisiche e chimiche verso la
fine del secolo scorso; non all'organizzazione capitalistica, del
lavoro salariato, ma «malgrado» quest'organizzazione.
III.
Coloro i quali hanno seriamente studiato
la questione, non negano nessuno dei vantaggi del comunismo - a
condizione, bene inteso, ch'esso sia perfettamento libero,
cioè anarchico. - Essi riconoscono che il lavoro pagato in
denaro, anche mascherato sotto il nome di «buoni di
lavoro», in associazioni operaie governate dallo Stato,
conserverebbe l'impronta del salariato e ne manterrebbe
gl'inconvenienti. Essi constatano che l'intero sistema sociale non
tarderebbe a soffrirne, quand'anche la società rientrasse
in possesso degli strumenti di produzione. Ed essi ammettono che,
grazie all'educazione integrale impartita a tutti i fanciulli,
alle abitudini laboriose delle società civilizzate, con la
libertà di scegliere e di variare le proprie occupazioni, e
l'attrattiva del lavoro compiuto da eguali per il benessere di
tutti, una società comunista non mancherebbe di produttori,
e presto triplicherebbe e decuplerebbe la fecondità del
suolo, e darebbe un nuovo slancio all'industria.
In questo dunque convengono i nostri
contradditori: «ma il pericolo, essi dicono, verrà da
questa minoranza di fannulloni che si ostineranno a non voler
lavorare, malgrado le eccellenti condizioni che renderanno il
lavoro gradevole, o che pure non vi apporteranno regolarità
e spirito di ordine. Oggi, la prospettiva della fame costringe i
più refrattari ad andar cogli altri. Colui il quale non va
al lavoro all'ora stabilita, è licenziato. Ma basta una
pecora rognosa per infettare il branco, e tre o quattro operai
indolenti o recalcitranti basteranno per sviare tutti gli altri, e
introdurre nell'officina lo spirito di disordine e di rivolta che
rende impossibile il lavoro; di maniera che, alla fin dei conti,
si sarà obbligati a ritornare a un sistema coercitivo che
obblighi gli agitatori a rientrar nelle file. Ebbene, il solo
sistema che permetta di esercitar questa costrizione, senza urtare
i sentimenti dei lavoratori, non è quello della
rimunerazione, secondo il lavoro compiuto? Imperocchè ogni
altro mezzo implicherebbe l'intervento continuo di
un'autorità che ripugnerebbe presto all'uomo libero»!
Ecco, crediamo noi, l'obbiezione in tutto
il suo vigore.
Essa rientra, lo si vede, nella categoria
dei ragionamenti, per mezzo dei quali si cerca di giustificare lo
Stato, la legge penale, il giudice e il carceriere.
«Poichè vi è della
gente - una debole minoranza - la quale non si sottomette alle
usanze socievoli, dicono gli autoritari, bisogna bene mantenere lo
Stato, per quanto costoso esso sia, l'autorità, il
tribunale e la prigione, benchè queste istituzioni
divengano esse stesse una sorgente di mali nuovi di ogni
specie».
Così noi potremo limitarci a
rispondere ciò che abbiamo ripetuto tante volte a proposito
dell'autorità in generale: «Per evitare un male
possibile, voi siete ricorsi a un mezzo che è, in se
stesso, il più gran male, e che diventa la fonte di quegli
stessi abusi, ai quali volete rimediare. Imperocchè, non
dimenticate che il sistema capitalista attuale, di cui cominciate
a riconoscere i vizi, è stato appunto creato dal salariato,
il quale significa l'impossibilità di vivere altrimenti che
vendendo la propria forza di lavoro».
Potremmo anche rilevare che questo
ragionamento è, dopo tutto, una semplice difesa per
giustificare ciò che esiste. Il salariato attuale non
è stato istituito per ovviare agl'inconvenienti del
comunismo. La sua origine, come quella dello Stato e della
proprietà, è tutt'altra. Esso è nato dalla
schiavitù e dal servaggio imposti colla forza, di cui non
è altra cosa che una modificazione resa moderna.
Così quest'argomento non ha maggior valore di quelli, coi
quali si tenta di scusare la proprietà e lo Stato.
Nondimeno noi esamineremo
quest'obbiezione, e vedremo ciò ch'essa può
contenere di giusto.
E, in primo luogo, non è egli
evidente che, se una società fondata sul principio del
lavoro libero fosse realmente minacciata dagl'infingardi, essa
potrebbe guardarsene, senza formare alcuna organizzazione
autoritaria o ricorrere al salariato?
Io suppongo un gruppo di un certo numero
di volontari, che si uniscono in un'intrapresa qualunque per la
riuscita della quale tutti gareggiano di zelo, salvo uno degli
associati, il quale manca sovente al suo posto; si dovrà a
cagion di lui sciogliere il gruppo, nominare un presidente che
imponga delle ammende, oppure, finalmente, distribuire, come
all'Accademia, dei gettoni di presenza?
È chiaro che non si farà
nè l'una cosa, nè l'altra; ma un bel giorno si
dirà al compagno che minaccia di far pericolare l'impresa:
«Caro amico, noi avremmo piacere di lavorare con te; ma
siccome tu manchi spesso al tuo posto, o eseguisci con
trascuratezza il tuo compito, noi dobbiamo, separarci. Va in cerca
di altri compagni, i quali si adattino alla tua indolenza!»
Questo mezzo è così
naturale, che oggi lo si mette in pratica dappertutto, in tutte le
industrie, a preferenza di tutti gli altri sistemi possibili di
ammende, di riduzioni di salario, di sorveglianza, ecc.; l'operaio
può entrare all'officina all'ora stabilita, ma s'egli male
eseguisce il suo lavoro, se incomoda i suoi compagni con la
indolenza o con altri difetti, s'essi si disgustano, è cosa
finita. Egli è costretto ad abbandonare il laboratorio.
Generalmente si pretende che il padrone
che tutto sa, e i suoi sorveglianti mantengano la
regolarità e la qualità di lavoro nell'officina. In
realtà invece, in uno stabilimento per quanto poco
complicato, la cui produzione passa per parecchie mani prima di
essere terminata, l'officina stessa e l'insieme dei lavoratori
vegliano alle buone condizioni del lavoro. Per questo le migliori
officine inglesi dell'industria privata hanno pochi
soprintendenti, molto meno, in media degli stabilimenti francesi,
e molto meno ancora, senza paragone, delle officine inglesi dello
Stato.
Accade per questa cosa come per il
mantenimento di un certo livello morale della società. Si
crede che lo si debba alla guardia campestre, al giudice e al
poliziotto; mentre in realtà si mantiene
«malgrado» il giudice, il poliziotto e la guardia
campestre. «Molte leggi causano molti delitti!» fu ben
detto prima di noi.
Non è soltanto negli stabilimenti
industriali che le cose succedono in tal modo; ma questo si
verifica dappertutto, ogni giorno, con una molteplicità di
esempi di cui gli economisti, topi di biblioteca, nemmeno hanno il
sospetto.
Quando una compagnia ferroviaria,
federata con altre compagnie, manca ai suoi impegni, quando giunge
in ritardo coi suoi treni e lascia le mercanzie in abbandono nelle
sue stazioni, le altre compagnie minacciano di rescindere i
contratti; e questo basta, per solito.
Generalmente si crede, o, per lo meno, lo
s'insegna, che il commercio non è fedele ai suoi impegni
che sotto la minaccia dei tribunali. Non è vero. Nove volte
su dieci, il commerciante che avrà mancato alla sua parola,
non comparirà dinanzi al giudice. Laddove il traffico
è molto attivo, come a Londra, il fatto solo di esser
chiamato in giudizio come debitore, basta all'immensa maggioranza
dei commercianti, perchè si rifiutino, in seguito, di
trattare con colui che li avrà costretti a ricorrere ad un
avvocato.
Perchè dunque allora, ciò
che si fa oggi stesso tra compagni di lavoro, tra commercianti e
compagnie ferroviarie, non potrebbe farsi in una società
basata sul lavoro volontario?
Un'associazione, per esempio, che
stipulasse con ciascuno dei suoi membri il seguente contratto:
«Noi siamo disposti a garantirvi il godimento delle nostre
case, magazzini, strade, mezzi di trasporto, scuole, musei, ecc.
alla condizione che dai venti ai quarantacinque o cinquant'anni,
voi consacriate quattro o cinque ore al giorno ad uno dei lavori
riconosciuti necessari per vivere. Scegliete voi stesso, quando vi
piacerà, i gruppi di cui vorrete far parte, o costituitene
uno nuovo, purchè s'incarichi di produrre il necessario. E,
per il rimanente del vostro tempo, aggruppatevi con chi vorrete,
allo scopo di procurarvi qualsiasi ricreazione, di arte o di
scienza, a vostro piacimento.
«Dalle mille e duecento alle mille
e cinquecento ore di lavoro all'anno in uno dei gruppi che
producono gli alimenti, i vestiti e l'alloggio, oppure si dedicano
all'igiene pubblica, ai trasporti, ecc., è tutto ciò
che vi domandiamo per garantirvi tutto ciò che questi
gruppi producono o hanno prodotto. Ma se nessuno delle migliaia di
gruppi della nostra federazione non vuole accettarvi, - qualunque
ne sia il motivo, - se voi siete assolutamente incapace di
produrre qualsiasi cosa utile, o se vi ricusate di farlo, ebbene
vivete come un isolato o come un ammalato. Se noi siamo abbastanza
ricchi da non rifiutarvi il necessario, noi saremo felici di
procurarvelo. Voi siete uomo, ed avete il diritto di vivere. Ma,
giacchè volete collocarvi in condizioni speciali ed uscir
dalle nostre file, è più che probabile che ve ne
risentiate nelle vostre relazioni quotidiane con gli altri
cittadini. Vi si considererà come uno spettro della
società borghese, a meno che degli amici, scoprendo in voi
un genio, non vi liberino da ogni obbligazione morale verso la
società, compiendo per voi il lavoro necessario alla vita.
«E se finalmente ciò non vi
piace, andate a cercare altrove, attraverso il mondo, altre
condizioni. Oppure trovate degli aderenti, e costituite con loro
altri guppi che si organizzino su nuovi principi. Noi preferiamo i
nostri».
Ecco ciò che potrebbe farsi in una
società comunista, se gl'infingardi vi divenissero
così numerosi da doversene guardare.
IV.
Ma noi dubitiamo molto che vi sia motivo
da temere questa eventualità in una società
realmente basata sulla libertà intera dell'individuo.
Infatti, malgrado il premio offerto alla
poltroneria dal possesso individuale del capitale, l'uomo
veramente pigro è relativamente raro, a meno che non sia un
ammalato.
Si dice spesso, fra lavoratori, che i
borghesi son degli oziosi, dei poltroni. Ve ne sono abbastanza,
infatti; ma costoro formano l'eccezione. Al contrario in ogni
impresa industriale, si è sicuri di trovare uno o
più borghesi che lavorano molto. È vero che la
maggior parte dei borghesi profittano della loro situazione
privilegiata per aggiudicarsi i lavori meno penosi, e lavorano in
condizioni igieniche, di nutrimento, aria, ecc. che permettono
loro di attendere alla loro occupazione senza troppa fatica. Ora,
son queste precisamente le condizioni che noi domandiamo per tutti
i lavoratori senza eccezione. Bisogna anche dire che grazie alla
loro posizione privilegiata, i ricchi fanno sovente dei lavori
assolutamente inutili, ed anche dannosi alla società.
Imperatori, ministri, capi d'ufficio, direttori di officine,
commercianti, banchieri, ecc., si sottomettono a compiere durante
alcune ore del giorno, un lavoro ch'essi trovano più o meno
noioso, quali gli obblighi convenzionali dell'alta società:
ricevimenti, balli, ecc. E, benchè questo genere di lavoro
non sia funesto, essi non lo trovano meno faticoso. Ma i borghesi
hanno vinto la nobiltà fondiaria e continuano a dominare la
massa del popolo perchè essi impiegano la maggior energia
(scientemente o no) nel fare il male, e nel difendere la loro
posizione privilegiata. Se fossero infingardi, non esisterebbero
più già da lungo tempo e sarebbero scomparsi dalla
scena del mondo.
In una società che richiedesse
loro soltanto quattro o cinque ore di lavoro utile, gradevole,
igienico, essi compirebbero perfettamente questo lavoro, e non
subirebbero certo, senza riformarle, le condizioni orribili nelle
quali essi oggi mantengono il lavoro. Se un Pasteur(27) avesse
passato soltanto cinque ore nelle fogne parigine, credete pure
ch'egli avrebbe trovato presto il mezzo di renderle non meno
salubri del suo laboratorio batteriologico.
Quanto alla poltroneria dell'immensa
maggioranza dei lavoratori, non vi sono che economisti e filosofi
per poterne parlare.
Parlatene ad un industriale intelligente,
e vi dirà che se i lavoratori si mettessero soltanto in
capo di essere poltroni, si dovrebbero chiudere tutte le officine;
imperocchè nessun provvedimento di severità, nessun
sistema di spionaggio gioverebbe a nulla. Bisognava vedere,
qualche inverno fa, il terrore provocato fra gli industriali
quando alcuni agitatori si diedero a predicare la teoria del
«co-canny», «a cattiva paga, cattivo lavoro; non
vi scalmanate a lavorare, e guastate tutto ciò che
potete!». «Si demoralizza il lavoratore, si vuole
uccidere l'industria!» gridavano coloro stessi che una volta
tuonavano contro la immoralità dell'operaio e la cattiva
qualità dei suoi prodotti. Ma se il lavoratore fosse quale
lo dipingono gli economisti, cioè il pigro che bisogna
sempre minacciare di licenziar dallo stabilimento, che
significherebbe questa parola «demoralizzazione»?
Così, quando si parla di possibile
poltroneria, bisogna ben comprendere che si tratta di una
minoranza, di una infima minoranza nella società. E prima
di legiferare contro questa minoranza, non sarebbe più
urgente di conoscerne l'origine?
Chiunque osserva con occhio intelligente,
si avvede che il fanciullo ritenuto pigro e infingardo alla
scuola, è spesso colui che comprende male ciò che
gli s'insegna male. Molto spesso ancora il suo caso proviene da
anemia cerebrale, causata da povertà e da una educazione
anti-igienica.
Il tale giovinetto, pigro per il latino e
per il greco, lavorerebbe come un negro se lo s'iniziasse alle
scienze, sopratutto per il tramite del lavoro manuale. La tale
ragazza, giudicata ignorante in fatto di matematiche, diventa la
prima matematica della sua classe, se le capita d'incontrarsi per
caso in qualcuno che abbia saputo efficacemente spiegarle
ciò che ella non comprendeva negli elementi di aritmetica.
E il tale operaio, indolente all'officina, zappa il suo giardino
alla prim'alba, contemplando il sorgere del sole, e la sera, a
notte cadente, quando tutta la natura si prepara a riposarsi.
Qualcuno ha detto che la polvere è
materia che non è a suo posto. La stessa definizione si
applica ai nove decimi di coloro che vengono chiamati pigri. Sono
invero gente smarrita in una via che non risponde nè al
loro temperamento, nè alla loro capacità. Leggendo
le biografie dei grandi uomini, si rimane colpiti dal numero dei
«pigri» che si riscontra fra loro. Pigri,
finchè non avevano trovato la loro vera strada, e oltremodo
laboriosi più tardi. Darwin, Stephenson e tanti altri
furono di questi pigri.
Molto spesso il pigro non è che un
uomo al quale ripugna di fare per tutta la sua vita la
diciottesima parte di un orologio, mentre sente in sè
un'esuberanza di energia che vorrebbe spandere altrove. Spesso
ancora è un ribelle, il quale non può adattarsi
all'idea che, durante tutta la sua vita, debba rimanere inchiodato
a quel banco, lavorando per procurare mille soddisfazioni al
padrone, mentre ch'egli si sente meno stupido di lui, e non ha
altro torto che quello di esser nato in un tugurio, invece di
esser venuto al mondo in un castello.
Finalmente, un numero grande di
«pigri» non conoscono il mestiere, col quale sono
costretti di guadagnarsi la vita. Contemplando la cosa imperfetta
che esce dalle loro mani, sforzandosi vanamente di far meglio, e
accorgendosi che mai non vi riusciranno, a cagione delle cattive
abitudini di lavoro già contratte, essi prendono in odio il
loro mestiere e, non conoscendone altri, il lavoro in generale.
Migliaia di operai ed artisti mancati sono in questa situazione.
Al contrario colui che, fin dalla sua
giovinezza, ha appreso a «ben» suonare il piano, a
«ben» maneggiare la pialla, il cesello, il pennello, o
la lima, in modo da sentire che ciò ch'egli fa è
«bello», non abbandonerà mai il pennello, il
cesello o la lima. Troverà invece piacere nel suo lavoro
che non lo stancherà, finchè non si sarà
strapazzato.
Si sono così raggruppati sotto una
sola denominazione, «la pigrizia», un'intiera serie di
risultati dovuti a cause diverse, delle quali ognuna potrebbe
diventare per la società una fonte di bene, invece che di
male. In questo caso, come per la criminalità, come per
tutte le questioni concernenti le facoltà umane, si sono
raggruppati dei fatti non aventi alcun legame, nulla di comune tra
di loro. Si dice pigrizia o delitto, senza nemmeno darsi il
fastidio di analizzare le cause. Si affrettano a punirle senza
domandarsi se il castigo stesso non contenga un incoraggiamento
alla «pigrizia» o al «delitto»(28).
Ecco perchè una società
libera, vedendo aumentar nel suo seno il numero dei poltroni,
penserebbe senza dubbio a ricercar le cause della loro pigrizia
per tentar di eliminarle, invece di ricorrere a castighi. Quando
si tratta, come abbiamo già detto, di un semplice caso di
anemia, invece di sopraccaricare di scienza il cervello del
fanciullo, dategli prima del sangue; fortificatelo, e,
perchè non perda il suo tempo, conducetelo alla campagna o
in riva al mare. Là insegnategli, all'aria aperta, e non
nei libri, la geometria, misurando con lui le distanze sino alle
rocce vicine; insegnategli le scienze naturali cogliendo fiori e
pescando in mare; la fisica fabbricando la barca sulla quale egli
andrà a diporto su l'acqua. Ma, per carità, non
imbottite il suo cervello di frasi e di lingue morte! Non fatene
un «pigro»!
Il tale fanciullo non ha abitudini di
ordine e di regolarità. Lasciate che i ragazzi se le
imprimano nella mente fra loro stessi. Più tardi, il
laboratorio e l'officina, il lavoro in uno spazio ristretto, con
molti attrezzi da manovrare, gli suggeriranno il metodo. Non
fatene voi stessi degli esseri disordinati, colla vostra scuola,
la quale non ha altro ordine che la simmetria dei banchi, ma che -
vera immagine del caos dell'insegnamento - non ispirerà mai
a nessuno l'amore dell'armonia, dell'ordine, del metodo nel
lavoro.
Non vi avvedete dunque che con i vostri
metodi d'insegnamento, elaborati da un ministero per otto milioni
di scolari, i quali rappresentano otto milioni di capacità
differenti, voi non fate che imporre un sistema buono per le
mediocrità, immaginato da una media di mediocrità?
La vostra scuola diventa un'università
dell'infingardaggine, come la vostra prigione è
un'università del delitto! Rendete dunque libera la scuola,
abolite i vostri gradi universitari, fate appello ai volontari
dell'insegnamento, cominciate da qui, invece di promulgare leggi
contro la poltroneria, leggi che non faranno che irrreggimentarla.
Date all'operaio, il quale non può
adattarsi a fabbricare una minuscola particella di un articolo
qualunque, che soffoca presso una piccola macchina da forare,
ch'egli finisce per odiare, dategli la possibilità di
lavorar la terra, di abbattere alberi nella foresta, di sfidare le
tempeste in mare, di solcare lo spazio sulla locomotiva. Ma non
fatene un poltrone, costringendolo per tutta la sua vita, a
sorvegliare una macchinetta da bollare la testa di una vite o a
forare la cruna di un ago!
Sopprimete soltanto le cause che creano i
pigri, e persuadetevi che non rimarranno più individui i
quali odiino realmente il lavoro, e soprattutto il lavoro
volontario, e non vi sarà più bisogno di un arsenale
di leggi per provvedere contro di loro.
IL SALARIATO COLLETTIVISTA
I.
Nei loro piani di ricostruzione della
società, i collettivisti commettono a nostro parere due
errori. Pur parlando di abolire il regime capitalista, essi
vorrebbero mantenere, nondimeno, due istituzioni le quali
costituiscono il fondo di questo regime: il governo
rappresentativo e il salariato.
Per quanto concerne il governo sedicente
rappresentativo, noi ne abbiamo spesso parlato. Ci pare
assolutamente incomprensibile che uomini intelligenti - e il
partito collettivista non ne fa difetto - possano rimaner
partigiani dei parlamenti nazionali o municipali, dopo tutte le
lezioni che la storia ci ha fornito a questo riguardo, in Francia
come in Inghilterra, in Germania, in Svizzera come negli Stati
Uniti.
Mentre da ogni parte noi assistiamo allo
sfacelo del parlamento, e da ogni lato sorge la critica ai
«principii stessi» del sistema, - non più
soltanto delle sue applicazioni, - come può mai accadere
che dei socialisti rivoluzionari difendano questo sistema
condannato a morire?
Elaborato dalla borghesia per far fronte
alla monarchia, ed insieme per accrescere il suo dominio sui
lavoratori, il sistema parlamentare, è, per eccellenza, la
forma del regime borghese. I fautori di questo sistema non hanno
mai sostenuto seriamente che un parlamento o un consiglio
nazionale rappresenti la nazione o la città; i più
intelligenti fra essi sanno che ciò è impossibile.
Per mezzo del regime parlamentare la
borghesia ha cercato semplicemente di opporre una diga alla
monarchia, senza concedere la libertà al popolo. Ma a mano
a mano che il popolo diventa più cosciente dei suoi
interessi e che la varietà di questi interessi si
moltiplica, il sistema non può funzionare. Così
inutilmente i democratici di ogni paese ricorrono ai palliativi
per curare il male. Si prova il «referendum» e si
constata che non vale nulla; si parla di rappresentanza
proporzionale, di rappresentanza delle minoranze, - altre utopie
parlamentari. Si sciupano sforzi, in una parola, alla ricerca
dell'introvabile, ma si è costretti di riconoscere che si
percorre falsa strada, e la fiducia in un governo rappresentativo
se ne va sparendo.
Lo stesso accade per il salariato:
imperocchè, dopo aver proclamato l'abolizione della
proprietà privata e il possesso in comune degli strumenti
di lavoro, come si può reclamare, sotto una forma o sotto
un'altra, il mantenimento del salariato? Eppur questo fanno i
collettivisti, preconizzando i «buoni di lavoro».
Si capisce come i socialisti inglesi del
principio di questo secolo abbiano inventato i «buoni di
lavoro». Essi cercavano semplicemente di mettere d'accordo
il Capitale e il Lavoro, respingendo ogni idea di colpir
violentemente la proprietà capitalistica.
Si comprende ancora come, più
tardi, Proudhon abbia di nuovo ricorso a quest'invenzione. Nel suo
sistema mutualista egli cercava di rendere il Capitale meno
offensivo, malgrado il mantenimento della proprietà
individuale, che egli detestava dal fondo del cuore, ma che
credeva necessaria come garanzia in favore dell'individuo contro
lo Stato.
E nessuno si stupisce nemmeno che sianvi
economisti più o meno borghesi, i quali ammettono i buoni
di lavoro. Poco loro importa che il lavoratore sia pagato in buoni
di lavoro o in moneta con l'effige della Repubblica o dell'Impero.
Essi tengono a salvare nel prossimo sfacelo la proprietà
individuale delle case abitate, del suolo, delle officine, e, in
ogni caso, quella delle case abitate e del Capitale necessario
alla produzione manifatturiera. E, per conservare questa
proprietà, i buoni di lavoro farebbero benissimo il loro
interesse.
Purchè il buono di lavoro possa
essere scambiato con gioielli e vetture, il proprietario della
casa l'accetterà volentieri come prezzo d'affitto. E
finchè la casa abitata, il campo e l'officina apparterranno
a proprietari isolati, si dovrà per forza pagarli in una
maniera qualunque, per lavorare nei loro campi, o nelle loro
officine, e abitare nelle loro case. Si sarà ugualmente
costretti a pagare il lavoratore in oro, in carta-moneta o in
buoni di lavoro scambiabili contro ogni specie di mercanzia.
Ma come si può difendere questa
nuova forma del salariato - il buono di lavoro - se si ammette che
la casa, il campo e l'officina non sono proprietà privata,
ma appartengono invece al comune o alla nazione?
II.
Esaminiamo più da vicino questo
sistema di retribuzione del lavoro, vantato dai collettivisti
francesi, tedeschi, inglesi e italiani(29).
Esso si riduce presso a poco a questo:
Tutti lavorano nei campi, nelle officine, nelle scuole, negli
ospedali, ecc. La giornata di lavoro è regolata dallo
Stato, al quale appartengono la terra, le officine, le vie di
comunicazione, ecc. Ogni giornata di lavoro è scambiata
contro un «buono di lavoro» che porti scritto,
facciamo conto: «otto ore di lavoro». Con questo
«buono» l'operaio può procurarsi, nei magazzini
dello Stato e delle diverse corporazioni, ogni specie di merce. Il
buono è divisibile in maniera che si può acquistare
per un'ora di lavoro di carne per dieci minuti di fiammiferi,
oppure per una mezz'ora di tabacco. Invece di dire quattro soldi
di sapone, si direbbe dopo la Rivoluzione collettivista: cinque
minuti di sapone.
La maggior parte dei collettivisti,
fedeli alla situazione stabilita dagli economisti borghesi (e da
Marx) il lavoro «distinto», o professionale,
dovrà essere pagato un certo numero di volte più del
lavoro «semplice». Così un'ora di lavoro del
medico dovrà essere considerata come equivalente a due o
tre ore di lavoro dell'infermiera, oppure a tre ore dello
sterratore. «Il lavoro professionale o distinto, sarà
un multiplo del lavoro semplice» ci dice il collettivista
Groenlund, perchè questo genere di lavoro richiede un
tirocinio più o meno lungo.
Altri collettivisti, come i marxisti
francesi, non fanno distinzione e proclamano «l'uguaglianza
dei salari». Il dottore, il maestro di scuola, e il
professore pagati (in buoni di lavoro) allo stesso saggio dello
scavafosse. Otto ore impiegate a fare il giro dell'ospedale
varranno quanto otto ore in lavori di sterramento, oppure nella
miniera o nella fabbrica.
Alcuni fanno anzi una concessione di
più: ammettono cioè che il lavoro sgradevole o
malsano - come quello delle fogne - possa venir ricompensato a un
saggio più elevato del lavoro gradevole.
Un'ora di servizio nelle fogne
conterà, essi dicono, come due ore di lavoro del
professore.
Aggiungiamo che certi collettivisti
ammettono la retribuzione in blocco, per corporazioni.
Cosicchè una corporazione direbbe: «Ecco cento
tonnellate di acciaio. Per produrlo noi eravamo cento lavoratori,
e vi abbiamo impiegato dieci giorni. La nostra giornata essendo
stata di otto ore, ciò fa otto mila ore di lavoro per cento
tonnellate di acciaio; cioè, ottanta ore per
tonnellata». In seguito a che lo Stato pagherebbe loro
ottomila buoni di lavoro di un'ora ciascuno, e questi ottomila
buoni verrebbero ripartiti fra i membri dell'officina come meglio
piacerebbe.
Altrove, cento minatori avendo impiegato
venti giorni per estrarre ottomila tonnellate di carbone, il
carbone varrebbe due ore per tonnellata, e i sedicimila buoni di
un'ora ciascuno, ricevuti dalla corporazione dei minatori,
sarebbero divisi fra loro secondo il loro criterio.
Se i minatori protestassero e dicessero
che la tonnellata d'acciaio non deve essere apprezzata per
più di sei ore di lavoro, invece di otto; se il professore
volesse far pagare la sua giornata due volte più della
infermiera, - allora lo Stato interverrebbe e regolerebbe le loro
contestazioni.
Tale è, in poche parole,
l'organizzazione che i collettivisti vogliono far sorgere dalla
Rivoluzione sociale. Come lo si vede, i loro principii sono:
proprietà collettiva degli strumenti di lavoro, e
rimunerazione di ciascuno secondo il tempo impiegato a produrre,
tenendo conto della produttività del suo lavoro. Quanto al
regime politico, sarebbe il parlamento, modificato dal mandato
imperativo e dal «referendum» cioè, dal
plebiscito per «sì» o per «no».
Diciamo prima d'ogni altra cosa, che
questo sistema ci sembra assolutamente irrealizzabile.
I collettivisti proclamano un principio
rivoluzionario - l'abolizione della proprietà privata - e,
non appena proclamatolo, lo negano, mantenendo un'organizzazione
della produzione e del consumo che è nata dalla
proprietà privata.
Essi proclamano un principio
rivoluzionario ed ignorano le conseguenze a cui questo principio
deve inevitabilmente condurre. Dimenticano che il fatto stesso di
abolir la proprietà privata individuale degli strumenti di
lavoro (suolo, officine, vie di comunicazione, capitali) deve
sospingere la società per vie assolutamente nuove; che
questo fatto deve sconvolgere da cima a fondo, la produzione, sia
nel suo fine che nei suoi mezzi; che tutte le relazioni quotidiane
fra individui debbono essere modificate, dacchè la terra,
la macchina e il resto sono considerati come possesso comune.
«Non più proprietà
privata», essi dicono, e subito invece si affrettano a
mantener la proprietà privata nelle sue manifestazioni
quotidiane. «Voi sarete un Comune, quanto alla produzione; i
campi, gli utensili, le macchine, tutto ciò che fino ad
oggi è stato fatto, manifatture, strade ferrate, porti,
miniere, ecc., tutto ciò vi appartiene. Non vi sarà
la menoma distinzione per quanto concerne la parte di ciascuno in
questa proprietà collettiva.
«Ma sin dal domani, voi vi
contenderete minuziosamente la parte che prenderete nella
creazione di nuove macchine, per scavar nuove miniere. Voi
conterete i vostri minuti di lavoro e veglierete affinchè
un minuto del vostro vicino non possa acquistare maggiori prodotti
del vostro.
«E giacchè l'ora non misura
nulla, giacchè in tale manifattura un lavoratore può
accudire a sei telai in una volta, mentre che nel tal altro
stabilimento non accudisce che a due, voi calcolerete la forza
muscolare, l'energia cerebrale e l'energia nervosa che avrete
consumato. Voi calcolerete rigorosamente gli anni di tirocinio,
per valutare la parte di ciascuno nella produzione futura. Tutto
questo dopo aver dichiarato che voi non tenete alcun conto della
parte che egli può aver presa nella produzione
passata».
Ebbene, per noi è evidente che una
società non può organizzarsi su due principii
assolutamente opposti, due principii, i quali sono in continua
contraddizione fra loro. E la nazione o il comune il quale
stabilisce per sè una tale organizzazione, sarebbe
costretto, o a ritornare alla proprietà privata o a
trasformarsi immediatamente in società comunista.
III.
Abbiam detto che alcuni scrittori
collettivisti richiedono che si stabilisca una differenza tra il
lavoro «distinto» o professionale, ed il lavoro
«semplice». Essi pretendono che l'ora di lavoro
dell'ingegnere, dell'architetto o del dottore, debba essere
considerata come equivalente a due o tre ore di lavoro del fabbro,
del muratore o dell'infermiera. E la stessa distinzione, dicono,
deve esser fatta fra ogni specie di mestiere che esige un
tirocinio più o meno lungo, e i mestieri dei semplici
giornalieri.
Ebbene, stabilire questa distinzione,
equivale a mantenere tutte le ineguaglianze della società
attuale. Significa tracciare una linea divisoria fra i lavoratori
e coloro che pretendono di governarli. Significa dividere la
società in due classi ben distinte; l'aristocrazia del
sapere, al disopra delle mani callose; l'una, consacrata al
servigio dell'altra; l'una che lavora colle sue braccia per
nutrire e vestire coloro, che dei loro agi approfittano per
imparare e dominare coloro che li mantengono.
Ma, quel che più importa, si
è il ricorrere di nuovo ad una delle note caratteristiche
della società attuale, e darle la sanzione della
Rivoluzione Sociale. È la stessa cosa che voler erigere in
principio un abuso che si condanna oggi, nella vecchia
società che si sgretola.
Sappiamo ciò che ci si
risponderà. Ci si parlerà di «socialismo
scientifico». Si citeranno gli economisti borghesi - ed
anche Marx - per dimostrarci che la scala dei salari ha la sua
ragione di essere, poichè «la forza di lavoro»
dell'ingegnere sarà più costata alla società
che «la forza di lavoro» dello sterratore. Non hanno
infatti gli economisti cercato di provarci che, se l'ingegnere
è pagato venti volte di più dello sterratore, si
è perchè le spese «necessarie» per
formare un ingegnere sono più considerevoli di quelle che
sono necessarie per fare uno sterratore? E Marx non ha egli
preteso che la stessa distinzione è ugualmente logica nei
rami del lavoro manuale? E questa conclusione è per lui
logica, giacchè egli aveva ripresa per suo conto la teoria
di Ricardo sul valore, e sostenuto che i prodotti si scambiano in
proporzione della quantità di lavoro socialmente necessario
alla loro produzione.
Ma noi sappiamo anche che cosa pensare di
questo argomento. Noi sappiamo che se l'ingegnere, lo scienziato e
il dottore sono pagati oggi dieci o cento volte di più del
lavoratore, e se il tessitore guadagna tre volte di più
dell'agricoltore e dieci volte più dell'operaia di una
fabbrica di fiammiferi, non è già in ragione delle
loro «spese di produzione», bensì in ragione di
un monopolio di educazione o del monopolio dell'industria.
L'ingegnere, lo scienziato, il dottore non fanno altro che
sfruttare un capitale - il loro diploma - come il borghese sfrutta
l'officina, o come il nobile sfruttava i suoi titoli di nascita.
Quanto al padrone che paga l'ingegnere
venti volte più del lavoratore, ciò avviene in
ragione di questo calcolo molto semplice: se l'ingegnere
può economizzargli centomila lire all'anno sulla
produzione, egli gliene paga ventimila. E s'egli scorge un
soprintendente - abile nello sfruttare gli operai, - il quale gli
economizza diecimila lire sulla mano d'opera, si affretta a
rilasciargliene due o tre mila all'anno. Abbandona un migliaio di
lire in più dove conta di guadagnarne dieci: ed in
ciò risiede l'essenza del regime capitalista. Così
accade delle differenze fra i vari mestieri manuali.
Che non ci si venga dunque a parlare di
«spese di produzione» che costa la forza di lavoro, e
a dirci che uno studente, il quale ha passato allegramente la sua
gioventù all'università, abbia «diritto»
a un salario dieci volte più elevato del figlio del
minatore che avvizzisce nella miniera dall'età di undici
anni, o che un tessitore ha «diritto» a un salario tre
o quattro volle più elevato di quello dell'agricoltore.
Le spese necessarie per produrre un
tessitore non sono quattro volte più considerevoli delle
spese necessarie per produrre un contadino. Il tessitore cava
profitto semplicemente dai vantaggi nei quali l'industria è
collocata in Europa, relativamente ai paesi che non hanno ancora
industria.
Nessuno ha mai calcolato queste
«spese di produzione». E se un poltrone costa alla
società molto più di un lavoratore, rimane ancora da
sapere se tutto calcolato, - mortalità dei fanciulli
operai, anemia che li consuma e morti premature - un robusto
giornaliero non costa più alla società che non un
artigiano.
Ci si vorrà far credere, per
esempio, che il salario di trenta soldi pagato all'operaia
parigina, i sei soldi della contadina di Alvergna, che perde la
vista sui merletti, o i quaranta soldi al giorno del contadino,
rappresentino le loro «spese di produzione»? Noi
sappiamo bene che si lavora spesso per meno di ciò, ma
sappiamo anche che lo si fa esclusivamente perchè, grazie
alla nostra superba organizzazione, bisogna morir di fame se si
rinuncia a questi salari derisori.
Per noi la scala dei salari è un
prodotto complesso delle imposte, della tutela governativa,
dell'accaparramento capitalista, del monopolio, - in una parola,
dello Stato e del Capitale. Cosicchè noi diciamo che tutte
le teorie sulla scala dei salari sono state inventate soltanto per
giustificare le ingiustizie attualmente esistenti, e noi non
dobbiamo tenerne conto.
Non si mancherà nemmeno di dirci
che la scala collettivistica dei salari sarebbe nondimeno un
progresso. «Varrà meglio, ci si dirà, che un
operaio riscuota una somma due o tre volte superiore a quella
riscossa ordinariamente dai più, o che dei ministri
intaschino in un giorno ciò che un operaio non arriva a
guadagnare in un anno? Sarebbe sempre un passo verso
l'eguaglianza».
Per noi questo passo sarebbe un progresso
a rovescio. L'introdurre in una società nuova la
distinzione tra lavoro semplice e lavoro professionale
condurrebbe, l'abbiamo detto, a far sanzionare dalla Rivoluzione
ed erigere a principio un fatto brutale che oggi noi subiamo, ma
che tuttavia ci sembra ingiusto. Sarebbe lo stesso che imitare
quei signori del 4 agosto 1789, i quali proclamavano l'abolizione
dei diritti feudali con frasi ad effetto, ma l'8 agosto
sanzionavano questi diritti, imponendo ai contadini nuovi canoni
per riscattarli dalle mani dei signori, ch'essi collocavano sotto
la protezione della Rivoluzione. - Sarebbe lo stesso che imitare
il governo russo, il quale, durante l'emancipazione dei servi,
proclamava che la terra avrebbe appartenuto d'ora innanzi ai
signori, mentre che prima era un abuso il disporre delle terre
appartenenti ai servi.
Oppure, per citare un esempio più
conosciuto: quando la Comune del 1871 decise di pagare i membri
del Consiglio della Comune con quindici lire al giorno, mentre che
ai federati, che erano a battersi alle trincee, non spettavano che
trenta soldi, questa decisione fu acclamata come un atto di alta
democrazia, ispirato al principio di uguaglianza! Ma in
realtà la Comune non faceva che sanzionare la vecchia
ineguaglianza tra il funzionario, e il soldato, il governo e il
governato. Simile decisione sarebbe potuta sembrare ammirevole da
parte di una Camera opportunista: ma la Comune mancava in tal
guisa al suo principio rivoluzionario, e per questo fatto stesso
lo condannava.
Quando, nella società odierna, noi
vediamo un ministro stipendiarsi a cento mila lire per anno,
mentre che il lavoratore deve contentarsene di mille o anche di
meno, quando vediamo il soprintendente esser pagato due o tre
volte più dell'operaio, e tra operai stessi sussistere ogni
specie di graduazione, dalle dieci lire al giorno sino ai sei
soldi della contadina, noi disapproviamo lo stipendio elevato del
ministro, ma puranco la differenza fra le dieci lire dell'operaio
e i sei soldi della povera donna. E diciamo: «Abbasso i
privilegi dell'educazione, e quelli della nascita»! Noi
siamo anarchici appunto perchè questi privilegi ci
esasperano.
Essi ci esasperano già in questa
società autoritaria. Come potremmo dunque tollerarli in una
società che s'iniziasse proclamando l'Eguaglianza?
Ecco perchè certi collettivisti,
comprendendo l'impossibilità di mantener la scala dei
salari in una società inspirata dal soffio della
Rivoluzione, si affrettano a proclamare l'eguaglianza dei salari.
Ma essi si urtano contro nuove difficoltà e la loro
eguaglianza dei salari diventa un'utopia non meno irrealizzabile
della scala degli altri collettivisti.
Una società che si sia impadronita
di tutta la ricchezza sociale e che proclamati come
«tutti» abbiano diritto a questa ricchezza, - non
importa qual parte essi abbiano avuta antecedentemente nel
crearla, - sarà costretta ad abbandonare ogni idea di
salariato, tanto in moneta che in buoni di lavoro, sotto qualunque
forma lo presenti.
IV.
«A ciascuno secondo la sua
opera» dicono i collettivisti, o, in altri termini, secondo
la sua parte di servigi resi alla società. E si raccomanda
questo principio, come quello che dovrà essere messo in
pratica non appena la Rivoluzione avrà messo in comune gli
strumenti di lavoro e tutto ciò che necessita alla
produzione!
Ebbene, se la Rivoluzione Sociale avesse
la disgrazia di proclamar questo principio, significherebbe
arrestar lo sviluppo dell'umanità; significherebbe
abbandonare, senza risolverlo, l'immenso problema sociale che i
secoli passati ci hanno proposto.
Infatti, in una società quale la
nostra, in cui noi vediamo che più l'uomo lavora e meno
è retribuito, questo principio può sembrare, di
primo acchito, come un'aspirazione verso la giustizia. Ma, in
sostanza, esso non è che la consacrazione delle ingiustizie
del passato. Con simile principio il salariato fece le prime
prove, per giungere alle ineguaglianze stridenti, a tutti gli
orrori della società attuale, perchè, dal giorno in
cui si cominciarono a valutare, in moneta o in qualunque altra
specie di salario, i servigi resi - dal giorno in cui si disse che
ciascuno non avrebbe altro che ciò che riuscirebbe a farsi
pagare per l'opera propria, tutta la storia della società
capitalistica (coadiuvata dallo Stato) era scritta
anticipatamente. Essa era rinchiusa in germe in questo principio.
Dobbiam dunque ritornare al punto di
partenza e rifar nuovamente la stessa evoluzione? I nostri teorici
lo vorrebbero; ma ciò è fortunatamente impossibile:
la Rivoluzione, l'abbiam detto, sarà comunista; altrimenti
annegata nel sangue, bisognerà ch'essa ricominci da capo.
I servigi resi alla società -
siano essi lavoro compiuto in un'officina o nei campi, oppure
servigi morali, «non possono» essere valutati in
unità monetarie. Non vi può essere una misura esatta
del valore, di ciò che impropriamente fu chiamato valore di
cambio, nè del valore di utilità, in rapporto colla
produzione. Se noi vediamo due individui lavorare entrambi,
durante parecchi anni, cinque ore, per la comunità, a
differenti lavori, che loro piacciono egualmente, possiamo dire
che, al tirar della somma, i loro lavori son presso a poco
equivalenti. Ma non si può frazionare il loro lavoro, e
dire che il prodotto di ogni giornata, di ogni minuto dell'uno
valga quanto il prodotto di ogni minuto e di ogni ora dell'altro.
Si può affermare all'incirca che
l'uomo il quale durante tutta la sua vita, si è privato di
riposo per dieci ore al giorno, ha dato alla società molto
più di colui che solo per cinque ore, o per nulla, abbia
lavorato. Ma non si può prendere ciò ch'egli compie
in due ore e dire che quel prodotto vale due volte più del
prodotto di una ora di lavoro di un altro individuo, e
ricompensarlo proporzionatamente. Sarebbe disconoscere tutto
ciò che di complesso vi è nell'industria,
nell'agricoltura, nella vita intera della società attuale.
Sarebbe ignorare sino a qual punto ogni lavoro dell'individuo
è il risultato dei lavori anteriori e presenti della
società intera. Sarebbe il volersi credere nell'età
della pietra, mentre viviamo invece all'età dell'acciaio.
Entrate in una miniera di carbone e
guardate quell'uomo, collocato vicino all'immensa macchina che fa
discendere la gabbia. Egli tiene in mano la leva che arresta e
capovolge l'andamento della macchina; egli abbassa, e la gabbia
retrocede in un sbatter d'occhio; la slancia in alto e in basso
con una velocità vertiginosa. Con grandissima attenzione,
ei segue cogli occhi fissi sul muro un indicatore che gli mostra,
in piccola scala, a qual punto del pozzo trovasi la gabbia ad ogni
istante del suo cammino; e non appena l'indicatore ha raggiunto un
certo livello, l'uomo frena subitamente lo slancio della gabbia,
non un metro più su o più giù della linea
richiesta, e non appena sono stati scaricati i secchi ripieni di
carbone e respinti quelli vuoti, egli rovescia la leva e slancia
di nuovo la gabbia nello spazio.
Durante otto, dieci ore di seguito,
quell'uomo compie un tale sforzo prodigioso di attenzione. Che il
suo cervello si stanchi un momento solo, e la gabbia anderà
ad urtarsi, a spezzar le ruote, rompere il cavo, schiacciar gli
uomini, arrestare il lavoro della miniera. Ch'egli perda tre
minuti secondi ad ogni colpo di leva, e, - nelle miniere
perfezionate moderne, - l'estrazione del minerale vien diminuita
da venti a cinquanta tonnellate al giorno.
È dunque egli che rende il maggior
servizio nella miniera? O, forse, è quel giovane che gli
suona da basso il segnale di far risalire la gabbia? Oppure il
minatore che, ad ogni istante, rischia la vita in fondo al pozzo e
che un giorno sarà ucciso dal gas esplodente? O anche
l'ingegnere che perderebbe lo strato di carbone, e farebbe scavare
inutilmente nella pietra, per un semplice errore di addizione nei
suoi calcoli? O, finalmente, il proprietario che ha impegnato
tutto il suo patrimonio e che ha detto, forse contrariamente a
tutte le previsioni: «Scavate qui e troverete un eccellente
carbone»?
Tutti i lavoratori addetti alla miniera
contribuiscono, nella misura delle loro forze, della loro energia,
del loro sapere, e della loro abilità, ad estrarre il
carbone. E noi possiam dire che tutti hanno il diritto di
«vivere», di soddisfare ai loro bisogni, ed anche alle
loro fantasie, dopo che il necessario per tutti sia assicurato. Ma
in qual modo potrem noi valutare la loro «opera»?
E poi, il carbone ch'essi hanno estratto
è proprio «loro» opera? O non piuttosto
è anche l'opera di quegli uomini che hanno costruita la via
ferrata che conduce alla miniera e le strade che diramansi da
tutte le sue stazioni? O non è anche l'opera di coloro che
hanno lavorato e seminato i campi, estratto il ferro, tagliata la
legna nella foresta, fabbricate le macchine che bruceranno il
carbone, e così di seguito?
Nessuna distinzione può essere
fatta fra le opere di alcuno. Il volerle misurare dai loro
risultati ci condurrebbe all'assurdo. Così pure il volerle
frazionare ed apprezzare secondo le ore di lavoro. Non rimane che
una cosa: collocare i «bisogni» al disopra delle
«opere», e riconoscere dapprima il diritto alla vita -
poi all'agiatezza - per tutti coloro che prenderanno una certa
parte nella produzione.
Ma prendete ogni altro ramo
dell'attività umana, prendete l'insieme delle
manifestazioni dell'esistenza; chi di noi può reclamare un
compenso maggiore per l'opera sua? Forse il medico che ha
indovinato la malattia, o l'infermiera che ha assicurata la
guarigione colle sue cure igieniche?
Forse l'inventore della prima macchina a
vapore o il ragazzo che stanco un giorno di tirar la corda che
serviva un tempo ad aprire la valvola per far entrare il vapore
sotto lo stantuffo, attaccò questa corda al perno della
macchina e andò a giuocare coi suoi compagni, senza
dubitare ch'egli aveva inventato così il meccanismo
essenziale di ogni macchina moderna - la valvola automatica?
Forse l'inventore della locomotiva, o
quell'operaio di Newcastle, che suggerì di sostituire con
traverse di legno le pietre che si collocavan prima sotto i binari
e facevano uscir dalle rotaie i treni, per mancanza di
elasticità? È forse il macchinista sulla locomotiva?
o l'uomo che, coi suoi segnali, ferma i treni? o l'addetto agli
scambi che loro schiude o preclude la via?
A chi dobbiamo noi il cavo
transatlantico? Forse all'ingegnere che si ostina a sostenere che
il cavo trasmetterebbe i dispacci, mentre i dotti elettricisti
dichiaravan la cosa impossibile? A Maury che consigliò di
abbandonare i cavi enormi e di sostituirli con altri non
più grossi di una canna? Oppure a quei volontari venuti non
si sa da dove, i quali passavano notte e giorno sul ponte ad
esaminare minuziosamente ogni metro di canapo per togliere i
chiodi che gli azionisti delle compagnie marittime facevano
conficcare stupidamente nello strato isolatore del cavo per
renderlo inservibile?
E, in campo ancor più vasto, il
vero campo della vita umana, colle sue gioie, i suoi dolori e i
suoi accidenti, - ognuno di noi non può forse nominare
qualcuno che gli abbia reso in sua vita un servizio così
importante, che si ingrandirebbe se si parlasse di apprezzarlo in
moneta? Questo servigio poteva essere una parola, null'altro che
una parola pronunziata a tempo opportuno; oppure furono mesi ed
anni di abnegazione. Calcolerete voi questi servigi
«incalcolabili» in buoni di lavoro?
«L'opera di ciascuno!» - Ma
le società umane non vivrebbero due generazioni di seguito;
esse sparirebbero in cinquant'anni, se ognuno non desse
infinitamente più di ciò che sarà retribuito
in moneta, in «buoni», o in ricompense civiche.
Sarebbe l'estinzione della razza, se la madre non logorasse la sua
vita per conservar quella dei suoi figli, se ogni uomo non desse
qualcosa, senza contar su di nulla, se l'uomo sovrattutto non
desse, quando specialmente non attende nessuna ricompensa.
E se la società borghese
deperisce; se noi ci troviamo oggi in una via senza uscita dalla
quale non potremo sortire senza colpir di fiaccola e di scure le
istituzioni del passato, ciò avviene precisamente per la
colpa di aver troppo calcolato. È una colpa quella di
esserci lasciati trascinare a non «dare» che per
«ricevere», quella di aver voluto fare della
società una compagnia commerciale basata sul
«dare» e l'«avere».
I collettivisti non l'ignorano, del
resto. Essi intuiscono vagamente che una società non
potrebbe esistere, se spingesse all'estremo il principio: «A
ciascuno secondo la sua opera»! Essi dubitano che i
«bisogni» - non parliamo delle fantasie - i bisogni
dell'individuo non corrispondano sempre all'opera sua. Così
De Paepe scrive: «Questo principio - eminentemente
individualista - sarebbe, del resto, «temperato»
dall'intervento sociale per l'educazione dei fanciulli e dei
giovani (compresovi il mantenimento ed il vitto), e
dall'organizzazione sociale dell'assistenza dei malati e delle
pensioni per i lavoratori attempati, ecc.».
Essi dubitano che l'uomo di quarant'anni,
padre di tre figli, ha altri bisogni che non il giovane di venti.
Dubitano che la donna, la quale allatta il suo piccino e passa
intere notti vegliando al suo capezzale, non può fare
altrettanta «opera» che l'uomo il quale abbia
tranquillamente dormito. Sembrano comprendere che l'uomo e la
donna logoratisi a forza di aver forse troppo lavorato per la
società, possono trovarsi incapaci di fornire altrettanta
«opera» che coloro i quali avran passato le loro ore
godendosi la vita e intascando i loro «buoni» in
situazioni privilegiate di statistici dello Stato.
E si affrettano a «mitigare»
il loro principio. «Ma certamente, essi dicono, la
società nutrirà ed alleverà i suoi figli! Ma
sì, essa assisterà i vecchi e gl'infermi! Ma senza
dubbio, i «bisogni» saran la misura delle spese che la
società s'imporrà per temperare il principio
dell'opera richiesta a ciascuno».
Ma che cosa? La carità, dunque! -
La carità, sempre la carità cristiana, organizzata
questa volta dallo Stato.
Migliorare l'ospizio dei trovatelli,
organizzare l'assicurazione contro la vecchiaia e le malattie, - e
il principio sarà mitigato! - «Ferire per guarire
poi». Non escono mai da questa teoria.
Così dunque, dopo aver negato il
comunismo, dopo aver riso allegramente della formula «a
ciascuno secondo i propri bisogni», i grandi economisti
debbono accorgersi di aver dimenticato qualche cosa - i bisogni
dei produttori. E si affrettano a riconoscerli. Soltanto, è
lo stato che deve apprezzarli; appartiene allo stato il verificare
se i bisogni non siano sproporzionati alle opere.
Lo stato farà l'elemosina. Da
ciò alla legge dei poveri e alla casa di lavoro (workhouse)
inglese, non corre che un passo.
Non corre che un sol passo, perchè
anche questa società matrigna, contro la quale ci
ribelliamo, si è pur vista costretta a
«mitigare» il suo principio d'individualismo;
anch'essa ha dovuto far concessioni in senso comunista e sotto la
medesima forma di carità.
Anch'essa distribuisce pranzi ad un soldo
per prevenire il saccheggio delle sue botteghe. Anch'essa edifica
ospedali - spesso pessimi, ma talvolta splendidi - per prevenire
le stragi delle malattie contagiose. Anch'essa, dopo di non aver
pagato che le ore di lavoro, raccoglie i figli di coloro che ha
ridotto all'ultima miseria. Anch'essa tien conto dei bisogni - per
mezzo della carità.
La miseria, dicemmo altrove, fu la prima
ragione delle ricchezze. Essa creò il primo capitalista.
Imperocchè, prima di accumulare il
«plus-valore» di cui piace tanto parlare, bisognava
pure che vi fossero dei miserabili, i quali acconsentissero a
vendere la loro forza di lavoro per non morir di fame. La miseria
ha creato i ricchi. E se i progressi ne furono rapidi nel corso
del medio evo, egli è perchè le invasioni e le
guerre che seguirono la formazione degli Stati, e l'arricchimento
in Oriente dovuto allo sfruttamento, spezzarono i legami che
univano una volta le comunità agrarie ed urbane e le
condussero a proclamare, in vece e luogo della solidarietà
da esse altre volte praticata, questo principio del salariato,
così caro agli sfruttatori.
E sarebbe questo principio che dovrebbe
sortir dalla Rivoluzione, e che si osa chiamare col nome di
«Rivoluzione Sociale», questo nome così caro
agli affamati, ai sofferenti, agli oppressi?
No, questo non accadrà.
Perchè il giorno in cui le vecchie istituzioni crolleranno
sotto la scure dei proletari, si sentiranno delle voci gridare:
«Pane, casa e agiatezza per tutti»
E queste voci saranno ascoltate, e il
popolo si dirà: «Cominciamo col soddisfare la sete di
vivere, di godere, di esser liberi che noi non abbiamo mai potuto
calmare. E quando avran tutti gustato di questa felicità,
ci metteremo all'opera: demolizione delle ultime vestigia del
regime borghese, della sua morale attinta nei libri di
contabilità, della sua filosofia del «dare» e
dell'«avere» delle sue istituzioni del mio e del tuo.
«Demolendo edificheremo», come diceva Proudhon;
edificheremo in nome del Comunismo e dell'Anarchia.
CONSUMO E PRODUZIONE
I.
Nel considerar la società e la sua
organizzazione politica da un punto di vista completamente diverso
dalle scuole autoritarie, giacchè noi partiamo
dall'individuo libero per arrivare a una società libera,
invece di cominciar dallo Stato per discendere sino all'individuo,
seguiamo lo stesso metodo trattando le questioni economiche. Noi
studiamo i bisogni dell'individuo e i mezzi ai quali egli ricorre
per soddisfarli, prima di discutere della produzione, dello
scambio, delle imposte, del governo, ecc.
A prima vista, la differenza può
sembrare minima. Ma in realtà essa sconvolge tutti i
dettami dell'economia politica ufficiale.
Aprite non importa quale opera di un
economista.
Egli esordisce colla PRODUZIONE,
l'analisi dei mezzi impiegati oggi per creare la ricchezza, la
divisione del lavoro, la manifattura, l'opera della macchina,
l'accumulamento del capitale. Da Adam Smith insino a Marx, hanno
tutti proceduto in tal maniera. Soltanto nella seconda o terza
parte della sua opera, l'economista tratterà del CONSUMO,
cioè della soddisfazione dei bisogni dell'individuo; e si
limiterà ancora a spiegare in qual modo le ricchezze
verranno ripartite fra coloro che se ne disputano il possesso.
Si dirà forse che è logico:
che prima di soddisfare i bisogni è necessario creare
ciò che può soddisfarli; che occorre
«produrre» per «consumare». Ma prima di
produrre qualsiasi cosa, non se ne deve provare il
«bisogno»? Non è la necessità che spinge
dapprima l'uomo a cacciare, ad allevare il bestiame, a coltivare
il suolo, a fabbricare utensili e, più tardi ancora, ad
inventare e a costruir macchine? Non è anche lo studio dei
bisogni che dovrebbe governar la produzione? - Sarebbe dunque, per
lo meno, altrettanto logico di cominciare da questo studio e
vedere in seguito in qual modo occorra agire per soddisfare questi
bisogni per mezzo della produzione.
Ed è appunto ciò che noi
facciamo.
Ma dacchè la esaminiamo da questo
punto di vista, l'economia politica cambia totalmente di aspetto.
Essa cessa di essere una semplice descrizione dei fatti e diventa
una scienza, allo stesso titolo della psicologia: si può
definirla, «lo studio dei bisogni dell'umanità e dei
mezzi di soddisfarli con la minor perdita possibile delle forze
umane». Il suo vero nome sarebbe «fisiologia della
società». Essa costituisce una scienza parallela alla
fisiologia delle piante o degli animali, la quale, anch'essa,
è lo studio dei bisogni della pianta o dell'animale, e dei
mezzi più vantaggiosi per soddisfarli. Nella serie delle
scienze sociologiche, l'economia delle società umane viene
a prendere il posto occupato nella serie delle scienze biologiche
dalla fisiologia degli esseri organizzati.
Noi diciamo: «Ecco degli esseri
umani, organizzati in società. Tutti sentono il bisogno di
abitare in dimore salubri. La capanna del selvaggio più non
li soddisfa. Essi richiedono un riparo solido, più o meno
confortevole. - Si tratta di sapere se, data la
produttività del lavoro umano, essi potranno aver ciascuno
la propria casa o ciò che impedirebbe loro di
averla».
E noi ci avvediamo subito che ogni
famiglia in Europa potrebbe aver perfettamente una casa
confortevole, come se ne edificano in Inghilterra e nel Belgio, o
alla città Pullman, oppure un appartamento corrispondente.
Un certo numero di giornate di lavoro basterebbe per procurare a
una famiglia di sette o otto persone una graziosa casetta ariosa,
ben disposta e illuminata a luce elettrica.
Ma i nove decimi degli europei non hanno
mai posseduto una dimora salubre, perchè in ogni tempo
l'uomo del popolo dovette lavorare alla giornata, quasi
continuamente, per soddisfare i bisogni dei suoi governanti, e non
ha mai avuto il sopravvanzo necessario, in tempo e in denaro, per
costruire o far costruire la casa dei suoi sogni. Ed egli non
avrà casa e abiterà in un tugurio, finchè le
condizioni attuali non siano cambiate.
Noi procediamo, come si vede, in senso
contrario agli economisti i quali perpetuano le pretese
«leggi» della produzione e facendo il conto delle case
che «si edificano» ogni anno, dimostrando, colla
statistica alla mano, che le case nuove edificate, non essendo
sufficienti per soddisfare tutte le richieste, i nove decimi degli
europei «debbono» abitare in tuguri.
Passiamo all'alimentazione. Dopo di aver
enumerato i benefici della divisione del lavoro, gli economisti
pretendono che questa divisione esige che gli uni si applichino
all'agricoltura e gli altri all'industria manifatturiera. Tanto
essendo prodotto dagli agricoltori e tanto dagli operai, lo
scambio effettuandosi in una data maniera, essi analizzano la
vendita, il profitto, il prodotto netto o il plus-valore, il
salario, le imposte, la banca e via di seguito.
Ma, dopo di averli seguiti sino a questo
punto, noi non siamo per questo più progrediti, e se noi
domandiamo loro: «Come avviene che tanti milioni di esseri
umani manchino di pane, mentre ogni famiglia potrebbe nondimeno
produrre tanto grano per dieci, venti ed anche cento persone
all'anno»? ci rispondono intonandoci di nuovo la medesima
antifona: divisione del lavoro, salario, plus-valore, capitale,
ecc. ed arrivando a concludere che la produzione è
insufficiente per soddisfare tutti i bisogni; la qual conclusione,
anche se fosse vera, non risponde punto alla questione:
«Può l'uomo, o non può egli produrre,
lavorando, il pane che gli necessita? E se non può - qual
cosa glielo impedisce»?
Ecco qui 350 milioni d'Europei. Ogni anno
occorre loro una data quantità di pane, carne, vino, latte,
uova e burro. Occorrono loro tante case, tanti vestiti. È
il minimo dei loro bisogni. Possono essi produrre tutto
ciò? Se lo possono, rimarrà loro tanto tempo libero
per procurarsi il lusso, gli oggetti di arte, di scienza e di
divertimento - in una parola, tutto ciò che è al di
fuori della categoria dello stretto necessario? - Se la risposta
è affermativa, qual cosa impedisce loro di metterlo in
pratica? Che devesi fare per sbarazzare dalla via gli ostacoli?
Occorre del tempo? Ma se lo prendano! Non perdiamo più di
vista l'obbiettivo di ogni Produzione cioè la soddisfazione
dei bisogni.
Se i bisogni più imperiosi
dell'uomo rimangono insoddisfatti, che occorre fare per aumentare
la produttività del lavoro? Ma non vi sono altre cause? Non
vi sarebbe, fra le altre, quella che la produzione, avendo perduto
di vista i «bisogni» dell'uomo, ha preso una direzione
assolutamente falsa, e l'organizzazione ne è viziosa?
E poichè noi, infatti, lo
constatiamo, cerchiamo il mezzo di riorganizzare la produzione, in
maniera che essa risponda realmente a tutti i bisogni.
Ecco la sola maniera di considerare le
cose, la quale ci sembri giusta: la sola che permetterebbe
all'economia politica di diventare una scienza, - la scienza della
fisiologia sociale.
È chiaro che, allorquando questa
scienza tratterà della produzione attualmente in opera
presso le nazioni civili, nel comune asiatico o presso le
tribù selvaggie, essa non potrà guari esporre i
fatti diversamente da quel che facciano gli economisti odierni,
cioè come un semplice capitolo «descrittivo»,
analogo ai capitoli descrittivi della zoologia o della botanica.
Notiamo però che se questo capitolo fosse fatto dal punto
di vista dell'economia delle forze nella soddisfazione dei
bisogni, vi guadagnerebbe in precisione, nonchè in valore
scientifico. Esso proverebbe nel modo più evidente lo
sciupìo spaventoso delle forze umane dovuto al sistema
attuale, e ammetterebbe con noi che, finchè questo
durerà, i bisogni dell'umanità non saranno giammai
soddisfatti.
Il punto di vista, lo si vede, sarebbe
interamente mutato. Dietro il telaio che tesse tanti metri di
tela, dietro la macchina che fora tante lastre d'acciaio e dietro
la cassa forte che inghiottisce i dividendi delle azioni e dei
titoli di rendita, si vedrebbe l'uomo, l'artefice della
produzione, escluso il più delle volte dal banchetto
ch'egli ha preparato per gli altri. Si comprenderebbe pure che le
pretese leggi del valore, dello scambio, ecc. non sono che
l'espressione, sovente molto falsa, - essendone falso il punto di
partenza, - di fatti quali accadono ora, ma che potrebbero
accadere, e accadranno in modo assolutamente diverso, quando la
produzione sarà organizzata in maniera da sopperire a tutti
i bisogni della società.
II.
Non avvi un solo principio dell'economia
politica, il quale non cambi totalmente di aspetto se lo si
consideri dal nostro punto di vista.
Occupiamoci, per esempio, della
sopraproduzione. Ecco una parola che risuona ogni giorno alle
nostre orecchie. Non vi è infatti un solo economista,
accademico o aspirante, il quale non abbia sostenuto molte tesi
per provare che le crisi economiche risultano dalla
sovraproduzione: che a un dato momento si producono più
cotonine, stoffe ed orologi che non ne bisognino. Quante volte non
si sono accusati di rapacità i capitalisti che si ostinano
a produrre al dilà del consumo possibile! Ebbene, simile
ragionamento appare falso non appena si approfondisca la
questione. Nominateci, infatti, una merce qualunque, fra quelle
che sono di uso universale, di cui si produca più che non
ne occorra. Esaminate uno ad uno gli articoli spediti dai paesi di
grande esportazione, e vedrete che quasi tutti sono prodotti in
quantità «insufficenti» anche per gli stessi
abitanti del paese che li esportano.
Non è un sovrappiù del suo
grano che il contadino russo invia in Europa. Le più
abbondanti raccolte di grano e di segala nella Russia d'Europa
danno «appena» ciò che basta per la
popolazione. E generalmente il contadino si priva egli stesso del
necessario, quando vende il suo grano e la sua segala per pagare
le tasse e l'affitto.
Non è un sovrappiù di
carbone che l'Inghilterra manda ai quattro angoli del mondo,
giacchè non ne rimane ad essa per il consumo domestico
interno che 750 chili per anno e per abitante, e vi sono milioni
di inglesi che si privano del fuoco nell'inverno, oppure ne
mantengono quanto appena basta per cuocere un po' di legumi. In
realtà (non parliamo degli oggetti e gingilli di lusso) nel
paese della maggiore esportazione, l'Inghilterra, non vi è
che una sola merce di uso generale, le cotonine, la cui produzione
sia così considerevole, da superare «forse» i
bisogni. E quando si pensa ai cenci che surrogano la biancheria e
i vestiti presso un buon terzo degli abitanti del Regno Unito, si
è portati a domandarsi se le cotonine esportate non
farebbero, o quasi, il conto dei bisogni «reali» della
popolazione.
Generalmente non è un
sovrappiù della produzione che viene esportato, se anche le
prime esportazioni ebbero questa origine. La favola del calzolaio
che camminava scalzo è vera per le nazioni, come lo era un
tempo per l'artigiano. Ciò che si esporta è il
necessario; e questo accade, perchè col loro salario
soltanto i lavoratori non possono acquistare ciò che hanno
prodotto, pagando le rendite, i benefici, gl'interessi del
capitalista e del banchiere.
Non solamente il bisogno sempre crescente
del benessere rimane insoddisfatto, ma molto spesso manca pure lo
stretto necessario. La sovraproduzione non esiste dunque, almeno
in questo significato, e non è che una parola inventata dai
teorici dell'economia politica.
Tutti gli economisti ci dicono che se vi
è una «legge» economica bene stabilita,
è la seguente: «L'uomo produce più di quel che
non consumi». Dopo di aver vissuto dei prodotti del suo
lavoro gli rimane sempre un'eccedenza. Una famiglia di agricoltori
produce di che nutrire parecchie famiglie, e così di
seguito.
Per noi, questa frase, così
sovente ripetuta, è vuota di senso. Se dessa volesse
significare che ogni generazione lascia qualche cosa alle
generazioni future, sarebbe esatta. Infatti, un coltivatore pianta
un albero che vivrà trenta o quarant'anni, o magari un
secolo, di cui i suoi nepoti coglieranno i frutti. S'egli ha
dissodato un ettaro di terreno vergine, l'eredità delle
generazioni venture si è accresciuta di altrettanto. La
strada, il ponte, il canale, la casa con i suoi mobili, sono
altrettante ricchezze trasmesse alle generazioni seguenti.
Ma non è di questo che si tratta.
Si dice che il coltivatore produce più grano di quel che
non consumi. Si potrebbe dire piuttosto che lo Stato avendogli
sempre tolto una buona parte dei suoi prodotti sotto forma di
tassa, il prete sotto forma di decima, e il proprietario sotto
forma di affitto, egli si è creato un'intera classe
d'individui i quali, una volta, consumavano ciò che
producevano, salvo la parte rilasciata per l'imprevisto o le spese
fatte sotto forma di alberi, strade, ecc., - ma che oggi sono
costretti a nutrirsi di castagne, o di gran turco, a bere del
vinello, perchè il resto vien loro preso dallo Stato, dal
prete, dall'usuraio.
Noi preferiamo dire: «Il
coltivatore consuma meno di quel che produce»,
imperocchè lo si obbliga a coricarsi sulla paglia e a
vendere le piume; a contentarsi di vinello e a vendere il vino; a
mangiare la segala e a vendere il frumento.
Notiamo anche che, prendendo come punto
di partenza «i bisogni» dell'individuo, si arriva
necessariamente al comunismo, come quell'organizzazione che
permette il soddisfacimento di tutti questi bisogni nel modo
più completo e più economico insieme. Mentre che,
partendo dalla produzione attuale e mirando solamente al guadagno
o al plus-valore, senza però domandarsi se la produzione
risponde al soddisfacimento dei bisogni, si arriva necessariamente
al capitalismo, o, tutto al più, al collettivismo - l'uno e
l'altro non essendo che due forme diverse di salariato.
Infatti, quando si considerano i bisogni
dell'individuo e della società e i mezzi ai quali l'uomo
ebbe ricorso per soddisfarli, durante le sue varie fasi di
sviluppo, si rimane convinti della necessità di unire
solidariamente gli sforzi, invece di abbandonarli al caso della
produzione attuale. Si comprende che l'appropriazione, per opera
di alcuni, di tutte le ricchezze non consumate e trasmettentesi da
una generazione all'altra, non è fatta nell'interesse
generale. Si constata che in tal modo i bisogni dei tre quarti
della società rischiano di non essere soddisfatti, e la
spesa eccessiva di forza umana non è che uno spreco inutile
e criminoso.
Si comprende finalmente che l'impiego
più vantaggioso di tutti i prodotti è quello che
soddisfa i bisogni più urgenti, ed il valore di
utilità non dipende da un semplice capriccio, come si
è spesso affermato, ma dal soddisfacimento ch'esso arreca a
bisogni reali.
Il Comunismo, - cioè una veduta
sintetica del consumo, della produzione e dello scambio, ed
un'organizzazione che risponda a questa veduta sintetica, -
diventa così la conseguenza logica di questa comprensione
di cose, la sola, a parer nostro, che sia realmente scientifica.
Una società che soddisferà
ai bisogni di tutti, e che saprà organizzare la produzione,
dovrà inoltre distruggere certi pregiudizi concernenti
l'industria e, in primo luogo, dovrà abolire la teoria
tanto vantata dagli economisti sotto il nome di «divisione
del lavoro», di cui noi tratteremo nel prossimo capitolo.
DIVISIONE DEL LAVORO
I.
L'economia politica si è sempre
limitata a constatare i fatti ch'essa vedeva prodursi nella
società e a giustificarli nell'interesse della classe
dominante. Ugualmente essa agisce per la divisione del lavoro che
l'industria ha creato; avendola trovata vantaggiosa per i
capitalisti, l'ha elevata a principio.
«Mirate quel fabbro del
villaggio,» diceva Adamo Smith, il padre dell'economia
politica moderna. «S'egli non è mai stato abituato a
fabbricar chiodi, giungerà a farne con stento non
più di due o trecento al giorno. Ma se questo medesimo
fabbro ha sempre fatto chiodi, ne consegnerà facilmente
sino a duemila e trecento nel corso di una giornata». E
Smith si affrettava a concludere: «Dividiamo il lavoro;
specializziamo, specializziamo sempre; con dei fabbri che facciano
solo teste o punte di chiodi, noi produrremo di più. Noi ci
arricchiremo».
Quanto poi a sapere se il fabbro,
condannato a far teste di chiodi per tutta la sua vita,
perderà o non il suo interesse al lavoro; se non
sarà interamente in balìa del padrone con questo
mestiere limitato; se non sciopererà quattro mesi su
dodici; se il suo salario non ribasserà quando lo si
potrà facilmente sostituire con un apprendista, Smith non
vi pensava punto quando gridava: «Viva la divisione del
lavoro! Ecco la vera miniera d'oro per arricchire la
nazione»! E tutti a far coro con lui.
E quand'anche un Sismondi, o un G. B. Say
si accorgevano più tardi che la divisione del lavoro,
invece di arricchire le nazioni non arricchiva che i ricchi, e che
il lavoratore, ridotto a fare, durante tutta la sua vita, la
diciottesima parte di una spilla, si abbruttiva e cadeva nella
miseria, - che cosa proponevano gli economisti ufficiali? - Nulla!
- Essi non dicevano che, applicandosi così per tutta la
vita a un solo lavoro meccanico, l'operaio perderebbe la sua
intelligenza e il suo spirito inventivo, e che, invece, la
varietà delle occupazioni darebbe per risultato di
aumentare considerevolmente la produttività della nazione.
È precisamente tale questione che vien posta oggidì
sul terreno.
D'altronde, se non vi fossero che gli
economisti a predicare la divisione del lavoro permanente e spesso
ereditario si lascierebbero gracchiare a loro bell'agio. Ma le
idee professate dai dottori della scienza s'infiltrano negli
spiriti pervertendoli, così che, a forza di sentir parlare
della divisione del lavoro, dell'interesse, della rendita e del
credito, ecc., come di problemi già da lungo tempo
risoluti, tutti (ed il lavoratore stesso) finiscono per ragionare
come gli economisti, cioè col venerare gli stessi feticci.
Così noi vediamo molti socialisti,
quegli stessi che non hanno temuto di far propri gli errori della
scienza, rispettare il principio della divisione del lavoro.
Parlate loro dell'organizzazione della società durante la
Rivoluzione, e vi risponderanno che la divisione del lavoro
dev'essere mantenuta; che se voi fabbricavate punte di spillo
prima della Rivoluzione, dovrete farne ancora dopo di essa. Voi
lavorerete cinque ore soltanto a far punte di spilli - sia pure!
Ma voi non farete che punte di spilli durante tutta la vostra
vita, miliardi di spilli, mentre altri ancora si specializzeranno
nelle altre funzioni del lavoro letterario, scientifico,
artistico, ecc. Voi siete nato fabbricatore di punte di spilli,
Pasteur è nato vaccinatore nella cura della rabbia, e la
Rivoluzione lascierà entrambi alle rispettive occupazioni.
Ebbene, noi ci proponiamo di discutere
ora, nelle sue varie manifestazioni quest'orribile principio,
nocivo alla società, cagione di abbrutimento per
l'individuo, e fonte di una serie infinita di mali.
Si conoscono le conseguenze della
divisione del lavoro. Noi siamo evidentemente divisi in due
classi: da una parte produttori, che consumano pochissimo, e
lavorano male perchè il loro cervello rimane inattivo; e
dall'altra parte i consumatori che producono poco o quasi nulla,
hanno il privilegio di pensare per gli altri, e pensano male
perchè un mondo intiero, quello dei lavoratori del braccio
è ad essi sconosciuto. Gli operai della terra non sanno
nulla della macchina, quelli che sono addetti alle macchine
ignorano tutto dei lavori campestri. L'ideale dell'industria
moderna è il fanciullo che serve una macchina di cui egli
non può e non deve comprendere il funzionamento, e dei
sorveglianti che lo multano, se la sua attenzione si rallenta un
istante. Si cerca pure di sopprimere completamente il lavoro
agricolo. L'ideale dell'agricoltura industriale è un
meccanico qualunque stipendiato per tre mesi a fine di guidare un
aratro a vapore o una trebbiatrice. La divisione del lavoro
è l'uomo classificato, bollato, contrassegnato per tutta la
sua vita, a far dei nodi in una manifattura o come sorvegliante in
qualche industria, o come conduttore di una carriola nel tal sito
della miniera, ma senza avere alcun'idea d'insieme di macchina,
d'industria, di miniera, e perdendo per ciò stesso il gusto
del lavoro e le capacità d'invenzione che ai principi
dell'industria moderna, avevano creato i meccanismi di cui a noi
piace tanto vantarci con orgoglio.
Ciò che si è fatto per gli
uomini, lo si voleva fare anche per le nazioni. L'umanità
doveva essere divisa in officine nazionali, aventi ciascuna la
propria specialità. La Russia - ci s'insegnava - è
destinata dalla natura a coltivare il grano; l'Inghilterra a
fabbricar le cotonine; il Belgio a fabbricar stoffe, mentre che la
Svizzera ci fornisce d'istitutrici e di nutrici. In ogni nazione
si specializzerebbe ancora: Lione, fabbrica sete; Anversa,
merletti; e Parigi, articoli di fantasia. Gli economisti
pretendevano che ciò fosse un campo illimitato offerto alla
produzione nello stesso tempo che al consumo; un'éra di
lavoro e di immensa fortuna dischiusasi per il mondo.
Ma queste vaste speranze svaniscono a
mano a mano che il sapere tecnico si spande nell'universo.
Finchè l'Inghilterra era sola a fabbricar cotonine e a
lavorare i metalli su vasta scala, finchè Parigi soltanto
produceva gingilli artistici, ecc., tutto andava bene; potevasi
predicare ciò che chiamasi la divisione del lavoro senza
tema di essere smentiti.
Ora, ecco che una nuova corrente trascina
le nazioni civili a tentare in casa loro ogni genere d'industrie,
trovando vantaggioso a fabbricare esse stesse ciò che
ricevevano una volta da altri paesi, e le stesse colonie tendono a
emanciparsi dalla metropoli. Le scoperte della scienza rendendo
universali i metodi, è inutile d'ora innanzi di pagare
all'estero a un prezzo esorbitante ciò che è
così facile di produrre all'interno.
Ma questa rivoluzione nell'industria non
infligge un colpo fatale alla teoria della divisione del lavoro
che si credeva così solidamente stabilita?
IL DECENTRAMENTO DELLE INDUSTRIE
I.
In seguito alle guerre napoleoniche,
l'Inghilterra era quasi riuscita a rovinare la grande industria
allora nascente in Francia, in sulla fine del secolo passato.
Senza seri concorrenti essa rimaneva padrona dei mari. Di questo
approfittò per costituirsi un monopolio industriale, e,
coll'imporre alle nazioni vicine i suoi prezzi per le mercanzie
ch'essa sola poteva fabbricare, ammucchiò ricchezze su
ricchezze, e seppe ricavare grandissima utilità da questa
situazione privilegiata e tutti i vantaggi da essa derivanti.
Ma quando la Rivoluzione borghese del
secolo scorso ebbe abolito il servaggio, e creato in Francia un
proletariato, la grande industria, il cui progresso era stato per
un momento arrestato, riprese un nuovo slancio, e dalla seconda
metà del nostro secolo, la Francia cessò di essere
tributaria dell'Inghilterra per i prodotti delle manifatture. Oggi
essa è diventata un paese di esportazione, vende all'estero
per più di un miliardo e mezzo di prodotti delle sue
manifatture, e i due terzi di quelle mercanzie sono stoffe. Si
calcola che quasi tre milioni di francesi lavorino per
l'esportazione, o vivano del commercio esterno.
In tal modo la Francia non è
più tributaria dell'Inghilterra. A sua volta, essa ha
cercato di monopolizzare alcuni rami del commercio esterno, quali
le seterie e le confezioni, ritraendone benefici immensi;
però essa sta per perdere per sempre questo monopolio, come
l'Inghilterra sta per perdere per sempre quello delle cotonine e
anche dei filati di cotone.
Avanzandosi verso l'Oriente l'industria
ha fatto sosta in Germania. Trent'anni fa, la Germania era
tributaria dell'Inghilterra e della Francia per la maggior parte
dei prodotti della grande industria: ma così più non
è ai nostri giorni. Durante gli ultimi venticinque anni, e
sovrattutto dopo la guerra del 1871, la Germania ha completamente
riformata tutta la sua industria. Le nuove officine sono corredate
delle migliori macchine, e in esse si realizzano le più
recenti creazioni dell'arte industriale, quali ne produce
Manchester per le cotonine, o Lione per le seterie, ecc. Se a
Lione o a Manchester sono occorse tre generazioni di lavoratori
per trovare la macchina moderna, la Germania ha potuto adottarla
ad un tratto con tutti i suoi perfezionamenti. Le scuole tecniche,
atte ai bisogni dell'industria, forniscono alle manifatture un
esercito di operai intelligenti, d'ingegneri pratici i quali sanno
lavorare col cervello e col braccio. L'industria tedesca
incomincia allo stesso punto preciso a cui Manchester e Lione son
giunte dopo cinquant'anni di sforzi, di tentativi, d'incertezze.
Da ciò risulta che la Germania,
potendo produrre in casa quanto si produce altrove, diminuisce
d'anno in anno le sue importazioni dalla Francia e
dall'Inghilterra, e già rivaleggia con esse per le
esportazioni in Asia ed in Africa; non solo, ma fa loro la
concorrenza sugli stessi mercati di Londra e di Parigi. Le persone
che non vedono molto in là possono certamente gridare
contro il trattato di Francoforte; possono spiegar la concorrenza
tedesca attribuendola a piccole differenze di tariffe nelle strade
ferrate. Possono dire che il tedesco lavora per
«niente», e insistere sui piccoli lati di ogni
questione, trascurando i fatti storici. Ma non è per questo
meno sicuro che la grande industria, - una volta privilegio
dell'Inghilterra e della Francia, - ha fatto un passo verso
l'Oriente. Essa ha trovato nella Germania un paese giovane, ricco
di forze, ed una borghesia intelligente, avida di arricchirsi a
sua volta col commercio esterno.
Mentre la Germania si emancipava dalla
tutela inglese e francese e si fabbricava le sue cotonine, le sue
stoffe, le sue macchine, - in una parola, tutti i prodotti
manifatturati, - la grande industria stabilivasi anche in Russia,
dove lo sviluppo delle manifatture è tanto più
sorprendente, in quanto che esse datano appena da ieri.
All'epoca dell'abolizione del servaggio,
nel 1861, la Russia non possedeva quasi alcuna industria. Tutto
ciò che occorrevale di macchine, rotaie, locomotive, stoffe
di lusso, le era fornito dall'Occidente. Vent'anni dopo la Russia
contava già più di 85,000 manifatture indigene, e le
mercanzie uscite da queste manifatture avevano quadruplicato il
loro valore.
I vecchi meccanismi sono stati
completamente sostituiti da altri nuovi, perfezionati. Quasi tutto
l'acciaio usato oggi, i due terzi del carbone, tutte le
locomotive, tutte le carrozze dei treni, tutte le rotaie, quasi
tutti i battelli a vapore, sono fabbricati in Russia.
Da un paese, destinato, secondo gli
economisti, a rimanere agricolo, la Russia è diventata un
paese manifatturiero. Nulla essa domanda all'Inghilterra, e
pochissimo alla Germania.
Gli economisti rendono responsabili di
questi fatti le dogane; ma il fatto è che i prodotti
manifatturati in Russia vendonsi allo stesso prezzo che a Londra.
Come il capitale non ha patria, i capitalisti tedeschi e inglesi,
seguiti da ingegneri e soprintendenti delle loro nazioni, hanno
impiantato in Russia e in Polonia manifatture che possono
competere, per l'eccellenza dei prodotti, con le migliori
manifatture inglesi. Che domani si aboliscano le dogane, e le
manifatture, anzichè perdervi, vi guadagneranno. In questo
momento istesso gli ingegneri inglesi stanno assestando il colpo
di grazia alle importazioni di stoffe e di lane dell'Occidente:
nel mezzogiorno della Russia essi impiantano immense manifatture
di lana, corredate di macchine fra le più perfette di
Brahford, e tra sei anni la Russia non importerà più
che poche pezze di stoffe inglesi e di lane francesi - come
campione.
La grande industria non si avanza
soltanto in direzione dell'Oriente; essa estendesi anche alle
penisole del Sud. L'Esposizione di Torino del 1884 ha già
mostrato i progressi dell'industria italiana, e - non prendiamo
abbaglio: - l'odio tra le due borghesie, francese e italiana, non
ha altra origine, che la loro rivalità industriale.
L'Italia si emancipa dalla tutela francese; e fa concorrenza ai
negozianti francesi nel bacino del Mediterraneo e in Oriente. Per
questo, e non per altro il sangue sarà un giorno versato
sulla frontiera italiana; - a meno che la Rivoluzione non risparmi
questo sangue prezioso.
Potremmo anche menzionare i rapidi
progressi della Spagna sulla via della grande industria. Ma
consideriamo piuttosto il Brasile. Non l'avevano gli economisti
condannato a coltivare eternamene il cotone, ad esportarlo allo
stato grezzo, e a riceverne in compenso cotonine importate
dall'Europa? E veramente, venti anni fa, il Brasile non contava
che nove miserabili piccole manifatture di cotone, con 385 fusi.
Oggi ne conta invece quarantasei, di cui cinque soltanto
possiedono 40.000 fusi, e riversano ogni anno sul mercato trenta
milioni di metri di cotonina.
Perfino il Messico si è dato alla
fabbricazione delle cotonine, invece d'importarle dall'Europa. Gli
Stati Uniti poi si sono completamente emancipati dalla tutela
europea: la grande industria si è in essi trionfalmente
sviluppata.
Spettava però alle Indie
d'infliggere la più clamorosa smentita ai partigiani della
specializzazione delle industrie nazionali.
La teoria che proclama la
necessità per le grandi nazioni europee di posseder colonie
è conosciutissima. Queste colonie debbono inviare alla
metropoli i loro prodotti grezzi: fibra cotonifera, lana appena
tosata, droghe, ecc. E la madre patria rimanderà loro
questi prodotti dopo averli «manifatturati»,
cioè stoffe bruciate, ferri vecchi sotto forma di macchine
disusate - in breve, tutto ciò di cui essa non ha bisogno,
che le costa poco o nulla, ma che non venderà meno per
questo ad un prezzo eccessivo.
Questa era la teoria; e tale fu per lungo
tempo la pratica che ad essa si uniformò. Mentre si
rovinavano le Indie, a Londra e a Manchester si accumulavano
patrimoni alle loro spese. Solo che vi rechiate al museo indiano,
a Londra, e vi scorgerete ricchezze folli, inaudite, ammucchiate a
Calcutta ed a Bombay dai negozianti inglesi. Ma altri negozianti
ed altri capitalisti, egualmente inglesi, concepirono l'idea
naturalissima che sarebbe molto più abile lo sfruttare gli
abitanti delle Indie in modo diretto, e di fabbricare quelle
cotonine alle Indie stesse, invece d'importarne in Inghilterra
annualmente per cinque o seicento milioni di lire.
In sul principio non fu che una serie
d'insuccessi. I tessitori indiani - artisti del loro telaio - non
potevano adattarsi al regime dell'officina. Le macchine inviate da
Liverpool erano cattive; bisognava inoltre tener conto del clima,
abituarsi a nuove condizioni, che oggi sono tutte eliminate; di
modo che l'India inglese diventa una rivale sempre più
minacciosa delle manifatture della metropoli.
Oggi essa possiede 80 manifatture di
cotone, le quali impiegano già quasi 60.000 lavoratori, e
nei 1835 avevano fabbricato più di 1.450.000 tonnellate
metriche di cotonine. Ed ogni anno essa esporta in China, alle
Indie Olandesi e in Africa, - per quasi 100 milioni di lire, - di
quei medesimi cotoni bianchi, che dicevasi essere la
specialità dell'Inghilterra. E nel mentre che i lavoratori
inglesi rimangono disoccupati e cadono nella più dura
miseria, le donne indiane pagate a 60 centesimi al giorno,
fabbricano a macchina le cotonine che si vendono nei porti
dell'estremo Oriente.
In breve, non è lontano il giorno
- e gl'industriali intelligenti non se lo dissimulano, - in cui
non si saprà più che fare delle braccia che prima in
Inghilterra erano impiegate nella fabbricazione delle cotonine da
esportare. E questo non è tutto: risulta da rapporti
serissimi che fra dieci anni l'India non avrà più
bisogno di comprare dall'Inghilterra una sola tonnellata di ferro.
Si sono superate le prime difficoltà per poter far uso del
carbon fossile e del ferro delle Indie; ed ora grandi officine,
rivali delle fabbriche inglesi, sorgono già sulle coste
dell'Oceano Indiano.
Ecco dunque il fenomeno determinante
dell'economia del secolo decimonono: la colonia che fa concorrenza
alla madre patria «per mezzo dei suoi prodotti
manifatturati».
E perchè non dovrebbe farlo? Che
cosa le mancherebbe? - Il capitale, forse? - Ma il capitale si
ramifica dovunque sianvi miserabili da sfruttare. - La scienza? Ma
dessa non conosce le barriere nazionali. - Le cognizioni tecniche
dell'operaio? Ma sarebbe forse l'operaio indiano inferiore a quei
92.000 ragazzi e fanciulli di men che quindici anni, che in questo
momento lavorano nelle manifatture tessili dell'Inghilterra?
II.
Dopo di aver gettato un colpo d'occhio
sulle industrie nazionali, sarebbe interessantissimo di ripetere
lo stesso esame per le industrie speciali. Prendiamo, per es., la
seta, prodotto eminentemente francese nella prima metà di
questo secolo. Niuno ignora come Lione sia divenuto il centro
dell'industria delle sete, da prima fornite dal mezzogiorno della
Francia, ed importate quindi dall'Italia, dalla Spagna,
dall'Austria, dal Caucaso, dal Giappone, per farne seterie. Su
cinque milioni di chilogrammi di sete grezze trasformate in
istoffe nella regione lionese, nel 1875, non ve ne erano che
400.000 chili di seta francese.
Ma giacchè Lione lavora in massima
parte con queste sete importate, perchè la Svizzera, la
Germania, la Russia non faranno altrettanto? La tessitura della
seta si sviluppò a poco a poco nei villaggi del Canton di
Zurigo. Basilea diventò quindi un vasto centro
dell'industria serica. L'Amministrazione del Caucaso invitò
donne di Marsiglia ed operaie di Lione a recarsi ad insegnare alle
Georgiane l'allevamento perfezionato del baco da seta e ai
contadini del Caucaso l'arte di trasformare la seta in istoffa.
L'Austria fece altrettanto. La Germania eresse, col concorso di
operai lionesi, immensi laboratori di seterie. Gli Stati Uniti
fecero il medesimo a Paterson.....
Ed in tal modo, oggidì,
l'industria serica non è più il monopolio e la
specialità della Francia. Si fabbricano seterie in
Germania, in Austria, agli Stati Uniti, in Inghilterra. I
contadini del Caucaso tessono durante l'inverno dei fazzoletti a
un prezzo che toglierebbe il pane ai setaiuoli di Lione. L'Italia
manda anche essa seterie in Francia, e Lione che ne esportava nel
1870-74 per 460 milioni, non ne spedisce più che per 233
milioni. Presto non manderà all'Estero che le stoffe
superiori, o alcune novità - da servire per modello ai
Tedeschi, ai Russi, ai Giapponesi.
La stessa cosa accade per tutte le
industrie. Il Belgio non ha più il monopolio delle
drapperie, che vengono anche fabbricate in Germania, Russia,
Austria, Stati Uniti. La Svizzera e il Giura francese non han
più il monopolio dell'orologeria: si fanno orologi
dappertuto. La Scozia non raffina più gli zuccheri per la
Russia, che invece ne esporta ora in Inghilterra; l'Italia,
benchè non possieda nè ferro, nè carbon
fossile in grande quantità, fabbrica da se stessa le sue
corazzate e costruisce le macchine dei suoi bastimenti;
l'industria chimica non è più monopolio
dell'Inghilterra: dapertutto si fabbrica soda e acido solforico.
Macchine d'ogni specie fabbricate nei dintorni di Zurigo, erano
oggetto di ammirazione all'ultima esposizione universale; la
Svizzera, che non ha ferro, nè carbone, - null'altro che
delle eccellenti scuole tecniche, - fabbrica macchine migliori e a
più buon mercato che non l'Inghilterra. Ecco quel che
rimane della teoria degli scambi!
Così, per l'industria, come per
tutto il resto, la tendenza, che s'impone è per il
decentramento.
Ogni nazione trova utile di combinare in
casa sua l'agricoltura con la maggior varietà possibile di
officine e di manifatture. La specializzazione di cui gli
economisti ci hanno parlato era buona per arricchire alcuni
capitalisti: ma essa non ha alcuna ragione di essere, e si ritrae
invece ogni vantaggio dacchè ogni paese, ogni bacino
geografico, possa coltivare il suo grano e i suoi legumi, e
fabbricare in casa sua tutti i prodotti manifatturati ch'esso
consuma. Questa diversità è la migliore garanzia
dello sviluppo completo della produzione per mezzo del mutuo
concorso di ciascuno degli elementi di progresso: mentre che la
specializzazione è la sosta del progresso stesso.
L'agricoltura non può prosperare
che a lato dell'industria. E dacchè una sola officina fa la
sua apparizione, una varietà infinita di altre officine
d'ogni specie, «debbono» elevarsi intorno ad essa,
affinchè mutualmente sostenendosi, stimolandosi l'un
l'altra con le loro invenzioni, insieme crescano e si sviluppino.
È una follia, infatti, esportar
grano ed importare farine, esportar lana ed importare stoffa,
esportar ferro ed importare macchine; non solamente perchè
questi trasporti cagionano spese inutili, ma sovratutto
perchè un paese, il quale non abbia un'industria
sviluppata, rimane forzatamente indietro in fatto di agricoltura;
perchè un paese che non possieda grandi officine per la
lavorazione dell'acciaio, è nello stesso tempo in ritardo
con tutte le altre industrie; perchè finalmente, un grande
numero d'intelligenze industriali e tecniche non hanno modo
d'impiegarsi.
Tutto si sorregge oggi vicendevolmente
nel mondo della produzione. La coltivazione della terra non
è più possibile senza macchine, senza potenti
irrigazioni, senza strade ferrate, senza manifatture di concimi. E
per aver queste macchine adatte alle condizioni locali, queste
strade ferrate, questi apparecchi d'irrigazione, ecc., ecc.,
occorre che si sviluppi un certo spirito d'invenzione ed una certa
abilità tecnica, che non possono nemmeno mostrarsi alla
luce finchè la vanga o il vomero rimangono i soli strumenti
di coltura.
Perchè il campo sia ben coltivato,
perchè esso renda le prodigiose raccolte che l'uomo ha il
diritto di domandargli, occorre che l'officina e la manifattura -
molte officine e molte manifatture - fumino ai suoi lati.
La varietà delle occupazioni, la
varietà delle capacità che se ne sviluppano,
integrate in vista d'uno scopo comune, - ecco la vera forza del
progresso.
Ed ora, immaginiamo un territorio, vasto
o ristretto, poco importa, che muova i suoi primi passi sulla via
della Rivoluzione Sociale.
«Nulla sarà cambiato»
- ci si dice talvolta. - «Si esproprieranno i laboratori e
le officine, che si proclameranno proprietà nazionale o
comunale; ed ognuno ritornerà al suo lavoro abituale. E la
Rivoluzione sarà fatta».
Ebbene, no; la Rivoluzione Sociale non si
farà così semplicemente.
L'abbiamo già detto: Che domani la
Rivoluzione scoppi a Parigi, a Lione o in qualunque altra
città; che domani a Parigi, o non importa dove, i
rivoluzionari rendansi padroni delle officine, delle case o delle
banche - e per questo semplice fatto tutta la produzione attuale
dovrà mutar d'aspetto.
Il commercio internazionale,
nonchè le importazioni di grano estero, cesseranno d'un
tratto; la circolazione delle merci e dei viveri rimarrà
paralizzata. E la città o il territorio insorto dovranno,
per bastare a sè stessi, riorganizzare da cima a fondo,
tutta la produzione. Se falliscono, è la morte. Se
riescono, è la rivoluzione «nell'insieme» della
vita economica del paese. Come faranno per mangiare, durante
mezz'anno, gli abitanti di un paese, quando il funzionamento dei
viveri sarà rallentato e il consumo invece aumentato;
quando tre milioni di francesi che lavorano per l'esportazione,
saran costretti a scioperare; quando mille cose che oggi si
ricevono dai paesi lontani o dai paesi vicini non arriveranno
più, e l'industria degli articoli di lusso sarà
temporaneamente sospesa?
Egli è evidente che la grande
massa domanderà al suolo la sua alimentazione, quando i
magazzini saranno esausti. Bisognerà coltivar la terra:
combinare in Parigi stessa e nei dintorni la produzione agricola
con la produzione industriale, abbandonare i mille piccoli
mestieri di lusso, per provvedere alla cosa più urgente -
il pane.
I cittadini dovranno farsi agricoltori.
Non alla maniera del contadino che sgobba sull'aratro per
raccogliere appena di che nutrirsi nell'annata, ma seguendo i
principi della coltura intensiva, ad orto, applicati in vaste
proporzioni per mezzo delle migliori macchine che l'uomo abbia
potuto inventare. Si coltiverà, ma non come le bestie da
soma del Cantal, - e, del resto, l'artefice parigino vi si
rifiuterebbe, - si riorganizzerà la coltivazione, non
già in dieci anni, ma immediatamente, in mezzo alle lotte
rivoluzionarie, pena il rischio di soccombere innanzi al nemico.
Bisognerà far questo da esseri
intelligenti, i quali si aiutano col loro sapere, e si organizzano
in allegre squadre per un lavoro gradevole, come quelle che, cento
anni fa, sterravano il Campo di Marte, a Parigi, per le feste
della Federazione: - lavoro pieno di godimenti, quando non si
prolunga oltremisura, quando esso è scientificamente
organizzato, quando l'uomo migliora e inventa i suoi attrezzi, ed
ha coscienza di essere un membro utile della comunità.
Si coltiverà. Ma si dovranno anche
produrre mille cose che abbiamo l'abitudine di domandare
all'estero. E non dimentichiamo che, per gli abitanti del
territorio insorto, l'estero sarà tutto il resto di mondo
che non lo avrà seguito nella sua rivoluzione. Nel 1793,
nel 1871, per Parigi in sommossa, l'estero cominciava alle porte
stesse della capitale, della provincia. L'incettatore di Troyes
affamava i «sanculotti» di Parigi, non meno e forse
peggio delle orde tedesche, condotte su terra francese dai
cospiratori di Versailles.
Bisogna dunque saper fare a meno
dell'estero. E se ne farà a meno. La Francia inventò
lo zucchero di barbabietola, quando la canna da zucchero fece
difetto, in seguito al blocco continentale. Parigi trovò il
salnitro nelle cantine, quando il salnitro non giungeva più
d'altre parti. Saremmo noi inferiori ai nostri avi, i quali
balbettavano appena le prime parole della scienza?
Egli è che una rivoluzione
è qualcosa di più della semplice demolizione di un
regime. Ma è il risveglio dell'intelligenza umana, lo
spirito inventivo decuplicato, centuplicato; è l'aurora di
una scienza novella, la scienza dei Laplace, dei Lamarck, dei
Lavoisier! È una rivoluzione negli spiriti, più
ancora che nelle istituzioni.
E ci si parla di ritornare al
laboratorio, come se si trattasse di rientrare in casa, dopo una
passeggiata al bosco!
Il solo fatto di aver colpito la
proprietà borghese, implica già la necessità
di riorganizzare, da cima a fondo, tutta la vita economica, nel
laboratorio, nel cantiere, nell'officina.
E la Rivoluzione lo farà. Che
Parigi in Rivoluzione Sociale rimanga sola, isolata dal mondo
intero, durante un anno o due, dai sostegni dell'ordine borghese,
e questi milioni di intelligenze, che la grande officina non ha
ancora abbrutito, - questa città dei piccoli mestieri, i
quali eccitano lo spirito inventivo, - dimostrerà al mondo
quel che possa il cervello dell'uomo, senza domandare all'universo
null'altro all'infuori della forza motrice del sole che lo
rischiara, del vento che spazza le sue impurità, e delle
forze latenti e agitantesi nel suolo che noi calpestiamo.
Si vedrà ciò che
l'ammucchiamento di questa immensa varietà di mestieri, che
si completano a vicenda su di un punto qualunque del globo, e lo
spirito vivificatore di una rivoluzione possano fare per
alimentare, vestire, alloggiare e colmare di tutto il lusso
possibile due milioni di esseri intelligenti.
Non c'è bisogno di sbrigliare per
questo una fantasia romantica. Ciò che già si
conosce; ciò che è stato già esperimentato e
riconosciuto come pratico, basterebbe per compierlo, a condizione
che il soffio audace della Rivoluzione e dello slancio spontaneo
delle masse lo fecondi e lo vivifichi.
L'AGRICOLTURA
I.
Si è di frequente rimproverato
all'economia politica di estrarre tutte le sue deduzioni dal
principio, indubbiamente falso, che l'unico movente atto a
spingere l'uomo ad aumentar la sua forza di produzione è
l'interesse personale, inteso in senso meschino e ristretto.
Il rimprovero è giustissimo: tanto
giusto che le epoche delle maggiori scoperte industriali e dei
veri progressi nell'industria, sono per l'appunto quelle in cui,
sognandosi la felicità per tutti, si era meno preoccupati
dell'arricchimento personale. I grandi indagatori e i grandi
inventori miravano sovratutto all'emancipazione
dell'umanità; ed ove i Watt, gli Stevenson, i Jaguard,
ecc., avessero solamente potuto prevedere a quale miseria le loro
veglie e le loro meditazioni trarrebbero il lavoratore, avrebbero
probabilmente bruciato i loro piani, distrutto i loro modelli.
Un altro principio, non meno falso,
inquina pure la economia politica, ed è l'accettazione
tacita da parte di quasi tutti gli economisti, del concetto che,
se in alcune materie v'ha spesso sovraproduzione, tuttavia una
società non sarà mai fornita di prodotti sufficienti
ai bisogni di tutti i suoi membri; e quindi non si arriverà
mai a fare che taluno non abbia da vendere l'opera sua per un
salario. Questa ammissione tacita è la base di tutte le
teorie, di tutte le pretese «leggi» insegnate dagli
economisti.
Eppure è certo che non appena
un'agglomerazione civilizzata qualunque si domandasse quali sono i
bisogni universali ed i mezzi di soddisfarli, si accorgerebbe che
essa possiede già, sia nell'industria che nell'agricoltura,
di che provvedere largamente a tutti i suoi bisogni a condizione
di saper applicare questi mezzi alla soddisfazione di bisogni
reali.
Che ciò sia vero per l'industria,
è un fatto incontestabile. Basta infatti studiare nei
grandi stabilimenti industriali i processi già in uso per
estrarre il carbone ed i minerali, ottener l'acciaio e foggiarlo,
fabbricare ciò che occorre per i vestiti, ecc., e si
constaterà che in ciò che concerne i prodotti delle
nostre manifatture, delle nostre officine, delle nostre miniere,
non è possibile il menomo dubbio in proposito. Si potrebbe
fin d'ora quadruplicare la nostra produzione, ed economizzare
anche sul nostro lavoro.
Ma noi andiamo più in là.
Ciò che diciamo per l'industria lo affermiamo anche per
l'agricoltura: il coltivatore, al pari del manifatturiere,
«possiede già» i mezzi per quadruplicare, se
non per elevare al decuplo, la sua produzione; ed egli
potrà farlo appena ne sentirà il bisogno, e
procederà all'organizzazione sociale del lavoro in luogo e
vece dell'organizzazione capitalista.
Ogni volta che si parla d'agricoltura, si
rappresenta il contadino curvo sull'aratro, spargendo a caso nel
terreno un seme male scelto ed aspettando con angoscia ciò
che la stagione, propizia o sfavorevole, gli frutterà.
S'immagina una famiglia che lavora da mane a sera, senza avere
altra ricompensa che un giaciglio, del pane secco ed una acidula
bevanda. Si scorge, in una parola, la «bestia
selvaggia» di La Bruyère.
E per quest'uomo, avvinto alla miseria,
si parla, tutt'al più di alleviare l'imposta o la rendita.
Ma nessuno osa farsi il concetto d'un agricoltore risollevato,
infine, alla dignità di un uomo, avente i suoi agi, e che
pure produca, in poche ore al giorno, di che nutrire, non
solamente sè ed i suoi, ma cento uomini ancora, a dir poco.
Nel bel meglio dei loro sogni d'avvenire, i socialisti non osano
spingersi al di là della grande coltivazione americana la
quale, in fondo, è appena all'infanzia dell'arte.
L'agricoltore odierno ha idee più
vaste, concezioni più grandiose. Non domanda che una
frazione di ettaro per produrre il nutrimento vegetale d'una
famiglia; al mantenimento di venticinque capi di bestiame basta
oggi il medesimo spazio che occorreva per l'addietro al
mantenimento di uno solo. L'agricoltore vuole ridurre egli, a suo
talento, il terreno; e sfidar le stagioni e il clima; e riscaldare
l'aria e la terra intorno alle giovani piante; e produrre, in una
parola, su di un ettaro quanto non si riusciva una volta a
raccogliere su cinquanta, e ciò senza eccessiva fatica e
con molto minor lavoro di prima. Egli pretende che si possa
largamente produrre di che nutrire tutti gli esseri, col dare alla
coltivazione campestre quell'opera sola cui ciascuno si adatta con
piacere, con gioia.
Tale la tendenza «attuale»
dell'agricoltura.
Mentre i dotti, sotto la guida di Liebig,
il creatore della teoria chimica dell'agricoltura, sbagliavano
spesso di strada nella loro prosopopea di teorici, alcuni
agricoltori illetterati hanno dischiuso al mondo una nuova via di
prosperità. Certi ortolani di Parigi, di Troyes, di Rouen,
certi giardinieri inglesi, alcuni fittaiuoli fiamminghi, alcuni
agricoltori di Jersey, di Guernesey e delle isole Scilly ci hanno
dischiuso così vasti orizzonti che l'occhio esita ad
abbracciarli.
Mentre una famiglia di contadini, per
poter vivere dei prodotti del suolo, doveva occupare almeno sette
od otto ettari di terra - e si sa in qual modo vivano i contadini
- ora è persino impossibile di stabilire quale minimo di
terreno sia necessario ad una famiglia per procurarle tutto
ciò che si può ricavare dalla terra, - il necessario
ed il lusso - purchè si adottino i sistemi di coltivazione
intensiva. - Questo minimo decresce ogni giorno, e se ci si
domandasse qual numero di persone potrebbero vivere
abbondantemente sullo spazio di una lega quadrata, senza nessun
aiuto d'importazione estera, ci sarebbe difficile di rispondere.
È incontestato che questo numero cresce rapidamente in
proporzione dei progressi dell'agricoltura.
Dieci anni fa si poteva già
asserire che una popolazione di cento milioni di individui avrebbe
vissuto comodamente coi soli prodotti del suolo francese, senza
nulla importare. Ma oggi, dopo i progressi recentemente
compiutisi, tanto in Francia che in Inghilterra, tenendo conto dei
nuovi orizzonti che si sono aperti innanzi a noi, noi diremo che
coltivando la terra «come già la si coltiva in
parecchie località, anche su terreni magri», cento
milioni di abitanti sui cinquanta milioni di ettari del suolo
francese, sarebbero ancora un numero ristrettissimo in paragone
dei prodotti del suolo. La popolazione aumenterà quanto
più l'uomo saprà chiedere alla terra.
In ogni modo - lo vedremo in breve - si
può considerare come «assolutamente dimostrato»
che se Parigi e i due circondari di Senna e di Senna e Oise si
organizzassero domani in comune anarchico, in cui tutti
lavorerebbero, e se l'universo intero si rifiutasse d'inviar loro
dal di fuori un solo staio di frumento, un solo capo di bestiame,
un solo canestro di frutta, non lasciando loro che il territorio
dei due circondarii, - nondimeno da soli essi produrrebbero, non
solamente il grano, la carne e i legumi occorrenti, ma anche tutti
i frutti di lusso in tale quantità da bastare a tutta la
popolazione cittadina e rurale.
Noi affermiamo, inoltre, che il dispendio
totale di lavoro umano sarebbe assai «minore» di
quello che attualmente richiedesi per nutrir questa popolazione
col grano proveniente dall'Alvergna e dalla Russia, coi legumi
prodotti qua e là dalla grande coltivazione, e coi frutti
maturati nel mezzogiorno.
Egli è d'altronde evidente che noi
non pretendiamo punto che occorra sopprimere «tutti»
gli scambi e che ogni regione debba applicarsi a produrre
precisamente ciò che sotto il suo clima si ottiene solo con
una coltivazione più o meno artificiale. Ma ci preme
rilevare che la teoria degli scambi, quale oggi si professa,
è singolarmente esagerata, talvolta inutile, spesso
nocevole. Confermiamo inoltre che non fu mai tenuto conto del
lavoro dei viticultori del mezzogiorno, nè di quello dei
contadini russi od ungheresi per la produzione del grano, per
quanto fertili siano i loro prati ed i loro campi. Coi sistemi
attuali di coltivazione estensiva, essi faticano assai
maggiormente di quanto sarebbe necessario per ottenere gli stessi
raccolti colla coltivazione intensiva, anche sotto climi
infinitamente meno clementi e su terreni per natura meno ricchi.
II.
Ci sarebbe impossibile di citare qui
tutti i fatti sui quali si basano le nostre asserzioni. Siamo
dunque costretti a rimandare i nostri lettori per più ampie
informazioni agli articoli che abbiamo pubblicato in lingua
inglese(30). Ma sopra ogni cosa, noi invitiamo caldamente quanti
s'interessano alla questione a leggere alcune delle eccellenti
opere pubblicate in Francia e altrove, di cui diamo qui sotto
l'elenco(31).
In quanto agli abitanti delle grandi
città, i quali non hanno ancora alcuna idea di ciò
che può fruttare realmente l'agricoltura, noi li
consigliamo di percorrere a piedi le circostanti campagne, e di
studiarne la coltivazione.
Osservino, ragionino cogli ortolani, e un
mondo nuovo si dischiuderà al loro sguardo. Potranno
così indovinare quel che sarà la coltivazione
europea del ventesimo secolo, e comprenderanno di quale possanza
sarà armata la Rivoluzione Sociale quando si
conoscerà il segreto di prendere alla terra tutto
ciò che le sia richiesto.
Basteranno alcuni fatti a mostrare come
le nostre affermazioni non siano punto esagerate. Ci preme solo di
farle precedere da qualche osservazione generale.
Sono note le misere condizioni
dell'agricoltura in Europa. L'agricoltore se non è
spogliato dal proprietario del fondo, lo è dallo Stato; lo
Stato non modera le sue taglie, l'usuraio coi biglietti all'ordine
lo riduce senz'altro ad essere il titolare di una proprietà
sostanzialmente già passata nelle mani di una compagnia
finanziaria.
Il proprietario, lo Stato e il banchiere
adunque, a mezzo della rendita, dell'imposta e dell'interesse
svaligiano l'agricoltore. La somma della presa varia secondo i
paesi; ma non è mai meno del quarto del prodotto lordo. In
Francia, l'agricoltura versa allo Stato il 44 per cento di questo
prodotto.
V'ha di più. Appena che, con
prodigi di lavorazione, d'invenzione o d'iniziativa, il
coltivatore ha ottenuto raccolti più abbondanti,
aumenterà in proporzione il tributo da pagarsi al
proprietario, allo Stato e al banchiere. S'egli raddoppia il
numero degli ettolitri raccolti sull'ettaro, l'affitto
raddoppierà e «per conseguenza» l'imposta che
lo Stato si affretterà ad aumentare ancora, ove i prezzi
siano in aumento. E così di seguito. In poche parole
l'agricoltore lavora dodici o sedici ore al giorno, e dappertutto
i suoi tre avoltoi gli rapiscono quanto potrebbe mettere in serbo;
dappertutto lo spogliano di ciò che gli darebbe agio a
migliorare la sua coltivazione. Ecco perchè l'agricoltura
rimane stazionaria.
Sarà solo in forza di condizioni
eccezionali, in seguito a contrasto fra i tre vampiri, dietro uno
sforzo di intelligenza, o per un accrescimento di lavoro, che
l'agricoltura riuscirà a progredire. E nemmeno abbiamo
detto nulla dei tributi che ogni agricoltore paga all'industria.
Ogni macchina, ogni vanga, ogni botte di concime chimico gli
costano tre o quattro volte più del loro prezzo reale.
Nè dobbiamo scordare l'intermediario, che preleva sui
prodotti del suolo una parte da leone.
Ecco perchè di tutto questo secolo
d'invenzioni e di progresso, l'agricoltura non si è
perfezionata che su zone ristrettissime, occasionalmente ed a
sbalzi.
Fortunatamente vi sono stati sempre
piccoli lembi di terreno negletti per qualche tempo dagli avoltoi;
e là s'impara ciò che l'agricoltura intensiva
può dare all'umanità.
Eccone alcuni esempi.
Nelle praterie dell'America (le quali
d'altronde danno miseri risaltati, da 7 a 12 ettolitri per ettaro
e spesso periodiche siccità le guastano) cinquecento
uomini, col solo lavoro di otto mesi, producono il nutrimento
annuo di cinquantamila persone. Tale risultato si ottiene mediante
una rilevante economia di mano d'opera. Su quelle vaste pianure
dove l'occhio si perde, aratura, raccolto e battitura sono
organizzati quasi militarmente; nessun inutile andirivieni, niuna
perdita di tempo; tutto si compie coll'esattezza di una parata.
Questo forma la grande coltivazione, la
coltivazione estensiva, quella che occupa il suolo quale esce
dalle mani della natura, senza curarsi di migliorarlo. Quando
sarà esaurito, lo si abbandonerà e si
cercherà altrove un'altra plaga vergine per sfruttarla alla
sua volta.
V'ha pure però la coltivazione
intensiva, cui le macchine vengono e verranno sempre più in
aiuto; essa mira sovratutto a ben coltivare uno spazio limitato, a
concimarlo, ad emendarlo, a concentrare il lavoro ed ottenere la
maggior rendita possibile. Questo modo di coltivazione s'allarga
ogni anno, e mentre nel mezzodì della Francia, e sui
fertili terreni dell'Ovest-Americano, si va lieti d'un raccolto
medio di 10 a 12 ettolitri nella grande coltivazione, si
raccolgono regolarmente 36 anche 50 e talvolta 56 ettolitri nel
Nord della Francia. Così è che il consumo annuo di
un uomo si ottiene sulla superficie di un dodicesimo di ettaro.
E più si dà
intensità alla coltivazione, «meno» si spende
lavoro per ottenere l'ettolitro di frumento.
La macchina sostituisce l'uomo nei lavori
preparatori, e si fa, una volta per sempre, tale miglioria del
suolo, quale in lavori di prosciugamento o di adattamento di
terreni sassosi, che ogni raccolto successivo sarà
raddoppiato. Talvolta, basta un'aratura profonda per ricavare da
un terreno mediocre raccolti eccellenti d'anno in anno, senza mai
concimarlo. L'esperienza ne è stata eseguita, durante venti
anni, a Rothamstead, vicino a Londra.
Non facciamo del romanzo agricolo.
Sostiamo a questa raccolta di 40 ettolitri, la quale non richiede
un terreno eccezionale, ma una semplice coltura razionale, e
vediamo ciò ch'essa c'insegna.
I 3.600.000 individui, dimoranti nei due
circondari di Senna e di Senna e Oise, consumano ogni anno per il
loro nutrimento un poco meno di 8 milioni di ettolitri di cereali,
specialmente di grano. Nella nostra ipotesi, occorrerebbe dunque
coltivare, per ottenere questo raccolto, 200.000 ettari sui
610.000 ch'essi possiedono.
È cosa evidente ch'essi non li
coltiverebbero alla vanga; ciò richiederebbe troppo tempo
(240 giornate di 5 ore per ettaro). Migliorerebbero piuttosto il
terreno una volta per sempre; prosciugherebbero i punti acquosi;
spianerebbero le ondulazioni del suolo, ne spazzerebbero via le
pietre - si dovessero pur consacrare a questo lavoro preparatorio
cinque milioni di giornate di 5 ore, - cioè una media di
venticinque giornate per ettaro.
Quindi si dissoderebbe coll'aratro a
vapore, ciò che importerebbe quattro giornate per ettaro,
ed altre quattro giornate sarebbero dedicate all'aratura
coll'aratro doppio. Non si farebbe uso di sementi prese a caso, ma
si vaglierebbero con l'aiuto di stacci a vapore, e non si
getterebbero ai quattro venti, ma si ripartirebbero in filari. E,
con tutto ciò, non si sarebbero ancora impiegate
venticinque giornate, di cinque ore, per ettaro, se il lavoro
viene eseguito in favorevoli condizioni. Ma che per tre o quattro
anni consecutivi, si impieghino quattro milioni di giornate ad una
buona coltivazione, e si potranno aver poscia raccolti di 40 e di
50 ettolitri coll'impiego di metà appena del tempo di
prima. La spesa si ridurrebbe quindi a quindici milioni di
giornate per provvedere il pane a questa popolazione di 3.600.000
abitanti. E tutti i lavori sarebbero così facili che ognuno
li compirebbe ancorchè non fosse munito di membra di
acciaio, nè vi si fosse per l'addietro esercitato.
L'iniziativa e la distribuzione generale dei lavori sarebbero date
dai conoscitori del suolo. Quanto al lavoro stesso, non un
parigino, non una parigina sono così fiacchi da non
giungere, dopo qualche ora di esercizio, a sorvegliare le
macchine, a contribuire ognuno per la sua parte, all'opera
agraria.
Ebbene, quando si pensa che nel caos
attuale, vi sono, all'infuori dei disoccupati dell'alta finanza,
pressochè centomila uomini respinti dal lavoro nei loro
mestieri, chiaro s'appalesa come la forza d'azione
«sciupata» nella nostra organizzazione attuale
basterebbe da sola a dare una coltivazione razionale, il pane
occorrente ai 3 o 4 milioni d'abitanti dei due circondari.
Lo si ripete, questo non è un
romanzo. E non si accennò neppure alla vera coltivazione
intensiva, la quale ci porge risultati ben più
sorprendenti. Non abbiamo parlato di quel grano (ottenuto in tre
anni dal signor Hallet), di cui un chicco solo trapiantato,
produsse una spica portante più di 1.000 grani, il che
permetterebbe, al bisogno, che una famiglia di cinque persone
ricavasse abbondante alimento sullo spazio di cento metri
quadrati. Noi invece abbiamo appena citato ciò che si
pratica già da molti affittaiuoli in Francia, in
Inghilterra, nel Belgio, nelle Fiandre, ecc., - e che fin da
domani potrebbe eseguirsi generalmente, appoggiandosi
all'esperienza e al sapere già acquisiti per la pratica.
Ma senza la rivoluzione ciò non
avverrà nè domani, nè poi, perchè i
detentori del suolo e del capitale non vi hanno alcun tornaconto,
e i contadini, che ve l'avrebbero, non hanno nè istruzione,
nè denaro, nè tempo per provvedere alla riuscita.
La società attuale non è
ancora a quest'altezza. Ma proclamino i parigini la Comune
anarchica, e vi giungeranno senza fallo, imperocchè essi
non commetteranno la sciocchezza di continuare a fabbricar
gingilli di lusso (che a Vienna, a Varsavia e a Berlino si
fabbricano con arte pari alla loro) e non si esporranno
così a rimaner senza pane.
D'altronde, il lavoro agricolo,
coll'aiuto delle macchine, sarà in breve la più
attraente e la più dilettevole di tutte le occupazioni.
Bando ai gioielli! Bando alle vesti da
bambola! Si vada a ritemprarsi nel lavoro dei campi, a cercarvi il
vigore, le impressioni della natura, «la gioia di
vivere», che si erano offuscate e perdute nei tetri
laboratori della città!
Nel medio evo i pascoli alpini, meglio
degli archibugi avevan permesso agli Svizzeri di emanciparsi dai
signori e dai re. L'agricoltura moderna permetterà alla
città insorta di affrancarsi dalle borghesie coalizzate.
III.
Abbiam visto in che modo i tre milioni e
mezzo di abitanti dei due circondarii, (Senna e Senna e Oise)
troverebbero largamente il pane necessario, col coltivare appena
il terzo del loro territorio. Passiamo ora al bestiame.
Gl'inglesi, forti mangiatori di carne, ne
consumano in media un po' meno di cento chilogrammi per ogni
individuo adulto e per anno; supposto che tutte le carni impiegate
siano di bue, ciò importa un po' meno di un terzo di bue.
Un bue per anno per cinque persone (i bimbi compresi), forma
già una razione sufficiente. Una popolazione di tre milioni
e mezzo d'individui consumerebbe adunque annualmente 700.000 capi
di bestiame.
Ebbene, al dì d'oggi, col sistema
del pascolo è d'uopo a poco dire, di riservare due milioni
di ettari al mantenimento di 660.000 capi di bestiame.
Eppure, con prati mediocremente irrigati
da acqua di sorgente (quali si fecero recentemente su parecchie
migliaia di ettari nel Sud-Ovest della Francia) bastano già
500.000 ettari. Ma colla coltivazione intensa seminando la
barbabietola e servendosene come alimento, non occorre più
che un quarto di tale spazio, cioè 125.000 ettari. Ma se si
ricorre al grano turco e, come fanno gli arabi, si adotta la sua
custodia nel silo, ossia nel suolo scavato, si ottiene tutto il
foraggio necessario sovra una superficie di 88.000 ettari.
Nei pressi di Milano, ove le acque delle
fogne sono utilizzate all'irrigazione dei prati, sovra una
superficie di 9.000 ettari si mantengono da 4 a 6 bestie a corna
per ogni ettaro; e sovra alcuni appezzamenti fecondissimi, si
giunge a raccogliere fino a 45 tonnellate di fieno sovra un
ettaro, sufficienti al mantenimento annuo di nove vacche da latte.
Tre ettari per ogni capo di bestiame in pastura, e nove buoi e
vacche sopra un ettaro, tali gli estremi dell'agricoltura moderna.
Nell'isola di Guernesey, sovra un totale
di 4.000 ettari utilizzati, la metà quasi (1.900 ettari)
è coperta di cereali e ortaglie; restano appena 2.100
ettari per le praterie e su questi 2.100 ettari si mantengono
1.480 cavalli, 7.260 capi di bestiame, 9.000 montoni e 4.200
maiali, il che corrisponde a più di tre capi di bestiame
per ettaro, senza tener conto dei cavalli, dei montoni e dei
porci. Inutile aggiungere che la fertilità del suolo
è «fatta» mediante ingrasso di feci e di
concimi chimici.
Ritornando ai nostri tre milioni e mezzo
di abitanti agglomerati in Parigi, si vede che la superficie
necessaria all'allevamento del bestiame diminuisce da 2.000.000 di
ettari ad 80.000. Ebbene, non soffermiamoci alle cifre minori;
prendiamo quelle della coltivazione intensiva ordinaria;
aggiungiamo largamente il terreno necessario al piccolo bestiame,
200.000, se si vuole, sui 410.000 ettari che ci rimangono, dopo
aver provveduto al pane necessario agli abitanti.
Siamo generosi, ed accordiamo cinque
milioni di giornate per mettere tale spazio di terreno in
produzione.
Dunque, dopo aver impiegato, durante
l'anno, venti milioni di giornate di lavoro, delle quali la
metà per miglioramenti permanenti, noi avremo assicurato il
pane e la carne, non compresa tutta la carne supplementare che si
può ottenere sotto forma di pollame, maiali da macello,
conigli, ecc., senza contare che una popolazione provvista di
eccellenti legumi e di frutta, consumerà molto meno carne
che l'Inglese, il quale supplisce col nutrimento animale alla
scarsità del suo regime vegetale. Però a che si
riducono per ogni abitante questi venti milioni di giornate di 5
ore? - A ben poco davvero. - Una popolazione di tre milioni e
mezzo ha, per lo meno 1.200.000 uomini adulti capaci di lavorare
ed altrettante donne. Ebbene, per assicurare a tutti pane e carne,
non occorreranno più di 17 giornate di lavoro per anno, per
gli uomini soli. Aggiungetevi tre milioni di giornate di lavoro
per avere il latte. Raddoppiatele, se vi piace. In tutto non si
raggiungono le 25 giornate di 5 ore, - un vero trastullo nei campi
- per provvedersi dei tre prodotti principali: pane, carne e
latte; questi tre prodotti i quali, dopo l'alloggio, formano la
principale preoccupazione quotidiana dei nove decimi
dell'umanità.
E pure, - non ci stanchiamo dal
ripeterlo, - questo non è un romanzo, Abbiamo raccontato
ciò che è, ciò che si fa già in grandi
proporzioni, ciò che fu sanzionato dalle esperienze
eseguite su vasta scala. L'agricoltura potrebbe «fin da
domani» essere riorganizzata su questi dati ove non vi si
opponessero le leggi della proprietà e la generale
ignoranza.
Il giorno in cui Parigi avrà
compreso che sapere ciò che si mangia e come lo si produce
è questione d'interesse pubblico; il giorno in cui ogni
individuo avrà capito che questa questione è di gran
lunga più importante delle discussioni del parlamento o dei
consigli municipali, in tal giorno la Rivoluzione sarà
fatta, Parigi prenderà le terre dei due dipartimenti e le
coltiverà. Ed allora, dopo aver dato, durante tutta la sua
esistenza per «acquistare» un nutrimento scarso e
cattivo, il Parigino lo produrrà da sè sotto le sue
mura, nel recinto delle fortezze (se esisteranno ancora) in poche
ore di lavoro piacevole e salubre.
E adesso passiamo ai frutti ed ai legumi.
Usciamo da Parigi e andiamo a visitare uno di quegli stabilimenti
di coltivazione orticola che fanno, a pochi chilometri dalle
accademie, prodigi ignorati dai dotti in economia. Fermiamoci ad
esempio dal signor Ponce, l'autore di un lavoro sull'orticoltura,
che non nasconde quanto la terra gli frutta ed anzi si compiace
nel raccontarlo diffusamente.
Il signor Ponce, e massimamente i suoi
operai, lavorano indefessamente, come negri. Sono in otto a
coltivare un po' più di un ettaro (undici decimi). Lavorano
di certo 12 e 15 ore per giorno, cioè tre volte più
di quanto abbisogna. Fossero in ventiquattro non sarebbero in
troppi, al che il signor Ponce ci risponderà probabilmente
che, poichè paga la somma spaventosa di 2.500 franchi per
anno di rendita e d'imposte per i suoi 11.000 metri quadrati di
terra, e 2.500 lire pel concime acquistato nelle caserme, egli
è costretto a sfruttare altri. «Sfruttato, io sfrutto
a mia volta», sarebbe probabilmente la sua risposta. Per
stabilirsi gli sono occorse 30.000 lire, delle quali certo
più della metà per contribuzioni ai baroni
fannulloni dell'industria. Insomma il suo stabilimento rappresenta
al più 3.000 giornate di lavoro, probabilmente molto meno.
Ma osserviamo i suoi raccolti: 10.000
chili di carote, 10.000 chili di cipolle, di radici ed altri
piccoli legumi, 6.000 teste di cavoli, 3.000 cavolfiori, 3.000
canestri di pomidori, 3.000 dozzine di frutti scelti, 154.000
teste d'insalata, in breve, un totale di 125.000 chilogrammi di
legumi e di frutti sullo spazio di un ettaro ed un decimo; 110
metri in lungo e 100 in largo, il che importa oltre «110
tonnellate di legumi per ettaro».
Ma un uomo non consuma più di 300
chili di legumi e di frutti in un anno, e l'ettaro dell'ortolano
dà legumi e frutti bastanti per servire riccamente la
tavola di 350 adulti pel corso di un anno. Così 24 persone
impiegate un anno intero alla coltivazione di un ettaro di
terreno, ma coll'opera di cinque ore per giorno appena, bastano
alla produzione dei legumi e frutti per 350 adulti, il che
corrisponde almeno a 500 individui.
In altre parole, coltivando come fa il
signor Ponce - e v'ha chi lo ha sorpassato - 350 adulti avrebbero
solo da impiegare poco più di 100 ore nell'anno (103) per
provvedere i legumi e frutti necessari a 500 individui. Osservisi
che siffatta produzione non è punto eccezionale. La si
ottiene sotto le mura di Parigi sovra una superficie di 900 ettari
da 5.000 ortolani. Il guaio è che questi ortolani sono
ridotti allo stato di bestie da soma per pagare «una rendita
media di duemila franchi per ogni ettaro».
Ma questi fatti, facili ad appurarsi da
chicchesia, non provano dessi che 7.000 ettari (sui 210.000 che ci
rimangono) basterebbero per fornire tutti i legumi possibili,
nonchè una copiosissima provvista di frutta, ai tre milioni
e mezzo di abitanti dei nostri due circondari?
In quanto alla quantità di lavoro
necessario per produrre questi frutti e questi legumi, essa
raggiungerebbe la cifra di 50 milioni di giornate di 5 ore (50
giornate per adulto maschio) se noi pigliassimo per termine di
misura il lavoro dell'ortolano. Ma vedremo tra poco questa
quantità ridursi ancora coi sistemi adottati a Jersey e a
Guernesey. Ricorderemo solo che l'operaio è forzato a
lavorare tanto, a cagione del dover produrre specialmente delle
primizie, il cui prezzo è favolosamente elevato, e i cui
metodi di coltivazione richiedono più lavoro di quanto
realmente non ne occorra. Privo di mezzi per spendere largamente
al suo installarsi, obbligato a pagare a caro prezzo i vetri, il
legname, il ferro ed il carbon fossile, egli chiede al concime il
calore artificiale che si ottiene a minor dispendio col carbon
fossile e la serra calda.
IV.
Gli ortolani, dicevamo, sono costretti a
ridursi allo stato di macchine e a rinunciare a tutte le gioie
della vita per raggiungere i loro sorprendenti raccolti. Ma questi
infaticabili zappatori, resero all'umanità un immenso
servizio coll'insegnarci a «fare» il terreno.
Lo fanno essi cogli strati di concime
già utilizzati per dare alle giovani piante il calore
necessario. Fanno il suolo in tanta abbondanza che sono costretti
di venderne qualche poco, altrimenti i loro giardini si
alzerebbero ogni anno di due o tre centimetri. Lo fanno sì
bene (ce lo insegna Barral, nel suo «Dizionario di
Agricoltura», all'articolo «Ortolani») che nei
contratti recenti, l'operaio stipula, «ch'egli
porterà seco il suo suolo», allo scader della sua
locazione. Il suolo trasportato sovra carri, coi mobili e le
impannate - ecco la risposta data dai coltivatori pratici alle
elucubrazioni di un Ricardo, il quale rappresentava la rendita
come un mezzo di pareggiare le naturali risorse del suolo.
«Il suolo vale ciò che l'uomo vale», tale
è la divisa dei giardinieri.
E pure gli ortolani di Parigi e di Rouen
faticano tre volte più dei loro fratelli di Guernesey e
d'Inghilterra per ottenere gli stessi risultati. Coll'applicazione
dell'industria all'agricoltura, questi ultimi, oltre a
«fare» il suolo, «fanno» anche il clima.
Infatti tutta la coltura orticola
è basata su questi due principi:
1° - Seminare, sotto impannate,
allevare le giovani piante in un terreno ubertoso, in uno spazio
limitato, ove sia facile di curarle e quindi di trapiantarle,
quando abbiano ben sviluppato le filamenta delle loro radici.
Fare, infine, ciò che si pratica per gli animali: curarli
mentre sono in tenera età.
2° - Per ottenere primizie, scaldare
la terra e l'aria, coprendo le piante con impannate e campane di
vetro, e producendo nel suolo un forte calore colla fermentazione
del concime.
Trapiantamento e temperatura più
alta di quella dell'aria, ecco l'essenza della coltivazione
orticola, appena il suolo è «fatto»
artificialmente.
Come l'abbiam visto, la prima di queste
due condizioni fu già praticata e richiede solo qualche
perfezionamento nei particolari. Per realizzare la seconda
trattasi di riscaldar l'aria e la terra sostituendo il concime
coll'acqua calda circolante in tubi di ferro fuso, sia nel suolo
sotto le impannate, sia nell'interno delle serre calde.
Ciò che già fu messo in
pratica. L'ortolano parigino chiede già al
«termosifone» il calore che prima chiedeva al concime.
E il giardiniere inglese costruisce la serra calda.
Una volta la serra calda era il lusso del
ricco; era riservata alle piante esotiche o d'ornamento. Oggi essa
si volgarizza. Ettari intieri sono coperti di vetro nelle isole di
Jersey e Guernesey, senza contare le migliaia di piccole serre che
si vedono a Guernesey in ogni piccola masseria, in ogni giardino.
Nei dintorni di Londra si cominciano a coprire di vetro campi
intieri, e migliaia di piccole serre calde si installano ogni anno
nei sobborghi.
Se ne costruiscono in ogni guisa, dalla
più superba coi muri di pietra, fino alla più
modesta con assi di pino e tetto di vetro, la quale, a dispetto di
tutte le sanguisughe capitaliste, non costa più di 4 o 5
lire il metro quadrato. Si riscaldano o no (basta il riparo, se
non si mira a produrre primizie), e vi raccolgono, se non uva e
fiori tropicali, patate, carote, piselli e fagiuoli freschi.
Questo è un emanciparsi dal clima.
Il lavoro faticoso degli strati non occorre più; si
economizza l'acquisto del concime che rincarisce in proporzione
delle maggiori domande, e si sopprime in parte il lavoro umano:
sette od otto uomini bastano a coltivare l'ettaro sotto vetro e
raccolgono quanto il signor Ponce. A Jersey, sette uomini, con un
lavoro minore di 60 ore per settimana, ottengono su spazi
minuscoli, raccolti che prima richiedevano ettari di terreno.
Si potrebbero dare, a questo proposito,
particolari sorprendenti. Limitiamoci ad un esempio. A Jersey, 34
uomini di fatica ed un giardiniere, coltivando poco più di
4 ettari sotto vetri (mettiamo 70 uomini col lavoro di 5 ore al
giorno) ottengono anno per anno i raccolti seguenti: 25.000 chili
di uva vendemmiata fina dal 1° maggio, 80.000 chili di
pomodori, 30.000 chili di patate in aprile, 6.000 chili di piselli
e 2.000 chili di fagiuoli freschi raccolti in maggio, cioè
143.000 chili di frutti e di legumi, senza contare un secondo
raccolto in certe serre, nè un'immensa serra per prodotti
di diletto, nè molte altre piccole coltivazioni in piena
terra fra le serre calde.
Tonnellate 143 di frutti primaticci!
Tanto da soddisfare ampiamente più di 1.500 persone per un
anno intiero; e ciò coll'impiego di 21.000 mezze giornate
di lavoro; cioè «210 ore per anno» date dalla
metà degli adulti.
Aggiungetevi l'estrazione di 1.000
tonnellate circa di carbone (è quanto si consuma
annualmente in quelle serre onde riscaldare 4 ettari); e,
l'estrazione media essendo in Inghilterra di tre tonnellate per
giorno di dieci ore e per operaio, ciò importa un lavoro
supplementare di sei o sette ore per anno per ognuno dei
cinquecento adulti.
Tutto sommato, ove la metà sola
degli adulti desse cinquanta mezze giornate per anno alla
coltivazione dei frutti e dei legumi «fuori stagione,»
tutti potrebbero mangiare a sazietà frutti e legumi di
lusso, quand'anche non si ottenessero se non in serra calda. E
tutti avrebbero, in pari tempo, quale secondo raccolto nelle
stesse serre, la maggior parte dei legumi soliti, i quali negli
stabilimenti pari a quello del signor Ponce, richiedono, l'abbiamo
visto, cinquanta giornate di lavoro.
Abbiamo rivolto la nostra attenzione alla
coltivazione di lusso. Ma abbiamo già avvertito che ormai
si tende a fare della serra calda una pura ortaglia sotto vetro. E
quando la si applica a questo uso, si ottengono coi ripari di
vetro semplicissimo, riscaldati leggermente durante tre mesi, dei
raccolti favolosi in legumi; per esempio 450 ettolitri di patate
su un ettaro, come primo raccolto alla fine di aprile. Dopo,
ripulito il suolo, si fanno crescere nuovi raccolti, dal maggio
alla fine di ottobre, in una temperatura pressochè
tropicale, dovuta al riparo di vetro.
Oggi per ottenere 450 ettolitri di patate
è d'uopo lavorare ogni anno una superficie di 20 ettari o
più, piantare e più tardi rincalzare le piante,
strappare le cattive erbe colla zappa, e così di seguito.
Si sa quanta fatica ciò costi. Per il riparo di vetro
s'impiegherà forse, in principio, una mezza giornata di
lavoro per metro quadrato; ma, tale opera compiuta, si economizza
la metà, se non i tre quarti del lavoro successivo.
Ecco dei «fatti», ecco i
risultati ottenuti, verificati, ormai noti, di cui ciascuno
può convincersi visitando quelle coltivazioni. E questi
fatti, non bastano essi per dar la misura di ciò che l'uomo
può ottenere dal suolo se lo coltiva e lo cura con
intelligenza?
V.
In tutti i nostri ragionamenti noi
abbiamo calcolato sulla scorta di precedenti già accettati
ed in parte messi in pratica. La coltivazione intensiva dei campi,
le pianure irrigate dagli scoli delle fogne, l'orticoltura,
l'ortaglia infine sotto vetro, sono realtà esistenti. Come
Leonzio di Lavergne l'aveva preveduto trent'anni fa, la tendenza
dell'agricoltura moderna consiste nel ridurre quanto è
possibile lo spazio coltivato, nel creare suolo e clima, nel
concentrare il lavoro e nel riunire tutte le condizioni necessarie
alla vita delle piante.
Questa tendenza è sorta dal
desiderio di realizzare larghi compensi sulla vendita delle
primizie. Ma dacchè i processi di coltivazione intensiva si
sono trovati, si generalizzano e si estendono ai legumi più
comuni, perchè permettono di procurarsi «maggior
copia» di prodotti con «minor» lavoro e maggior
sicurezza.
Infatti, dopo avere studiato i più
semplici ripari di vetro di Guernesey, noi affermiamo che, tutto
sommato, si spende «molto minor» lavoro per ottenere
sotto vetro, in aprile, delle patate, di quanto se ne spende per
averne il raccolto tre mesi dopo, all'aria aperta, vangando uno
spazio cinque volte più grande, irrigandolo, liberandolo
dalle cattive erbe, ecc. E la stessa cosa si verifica per gli
utensili e per le macchine. Si economizza sul lavoro, facendo uso
di un utensile o di una macchina, benchè occorra una spesa
preventiva per farne l'acquisto.
Ci mancano ancora cifre complete sulla
coltivazione sotto vetro dei legumi comuni. Essa è da poco
in uso, e non la si esperimenta che su piccola scala; però
possediamo delle cifre riguardanti la coltivazione, già da
trent'anni in esercizio, di un frutto di lusso, l'uva: e queste
cifre sono concludenti.
Nel nord dell'Inghilterra, sulla
frontiera scozzese, dove il carbone non costa che 4 lire per
tonnellata alla buca del pozzo, si coltiva da un pezzo l'uva in
serra calda. Trent'anni fa, queste uve, mature in gennaio, si
vendevano dall'agricoltore, al prezzo di 25 lire la libbra e si
rivendevano sui mercati a 50 lire, per la tavola di Napoleone III.
Oggi il medesimo produttore non le vende più di 3 lire la
libbra. Egli stesso ce lo apprende in un recente articolo di un
giornale d'agricoltura. Ciò proviene dal fatto che adesso
si spediscono tonnellate su tonnellate di uva a Londra e a Parigi.
Mercè il tenue prezzo del carbone, ed una coltivazione
intelligente, l'uva cresce in inverno al Nord e passa al
Mezzogiorno, con un movimento inverso a quello degli altri frutti
ordinari. In maggio le uve inglesi e quelle di Jersey sono vendute
dai giardinieri al prezzo di due lire per libbra; e anche questo
prezzo come quello di 50 lire di trent'anni fa, non si mantiene
che per la debolezza della concorrenza. In ottobre le uve
coltivate in quantità immensa nei dintorni di Londra, -
sempre sotto vetro, ma con un poco di riscaldamento artificiale -
si vendono allo stesso prezzo delle uve comprate a libbre nei
vigneti della Svizzera o del Reno, cioè per pochi soldi.
Prezzo di due terzi troppo elevato in confronto dell'eccessiva
rendita del suolo, delle spese d'installazione e di riscaldamento,
per le quali il giardiniere paga all'industriale ed
all'intermediario un canone eccessivo. Ciò spiegato si
può dire che non costa «quasi nulla» aver in
autunno delle uve sotto la latitudine e nel clima nebbioso di
Londra. In uno dei suoi sobborghi, ad esempio, un povero riparo di
vetro e di gesso, appoggiato ad una casetta, lungo tre metri su
due di larghezza, dà in ottobre, ogni anno, da tre anni,
quasi 50 libbre d'uva squisitissima. Il raccolto si fa sovra un
ceppo di vite di 10 anni(32), ed il riparo è così
meschino che vi piove sopra. Nella notte la temperatura uguaglia
la temperatura esterna. Evidente è che non lo si riscalda;
tanto varrebbe scaldare la via! E le cure da prodigare si
risolvono nel potare la vite, mezz'ora di lavoro all'anno; nel
portare una carrettata di concime al piede del ceppo piantato
nell'argilla fuori del riparo.
Se si computa, d'altra parte, le attente
cure riservate alla vigna sulle sponde del Reno o del Lemano, le
terrazze costruite in macigno sui declivi dei poggi, il trasporto
del concime e spesso della terra ad un'altezza di due o trecento
piedi, si giunge alla conclusione che, tutto sommato, la spesa del
lavoro necessario alla coltivazione della vigna è maggiore
in Svizzera e sulle rive del Reno che non sia sotto vetro nei
sobborghi di Londra.
Ciò parrebbe paradossale di primo
acchito, perchè si pensa generalmente che la vigna cresce
da sè nel mezzodì d'Europa e che l'opera del
viticultore nulla costa. Ma giardinieri e orticultori, lungi dallo
smentire, confermano le nostre affermazioni. «La
coltivazione più profittevole in Inghilterra è
quella della vigna», dice un giardiniere pratico, il
redattore del giornale di orticoltura. I prezzi d'altronde lo si
sa, hanno la loro eloquenza.
Traducendo questi fatti in linguaggio
comunista, noi possiamo affermare che l'uomo o la donna, che
toglieranno ai loro agi una «ventina d'ore per anno»
per dare alcune cure - in fondo dilettevolissime - a due o tre
ceppi di vite ricoperti di un semplice vetro, in qualsiasi clima
d'Europa, raccoglieranno tanta uva quanta se ne mangerà in
famiglia e fra amici. E ciò si applica non solo ai prodotti
della vite, ma a quelli di tutte le piante fruttifere acclimate.
Qualunque Comune praticherà in
grande i processi della piccola coltivazione e otterrà
tutti i legumi possibili, indigeni ed esotici, e tutti i frutti
desiderabili, senza impiegare più di alcune diecine di ore
per anno e per individuo.
Sono fatti facili a verificarsi in
qualunque momento. Basterebbe che un gruppo di lavoratori
sospendesse per qualche mese la produzione di alcuni oggetti di
lusso, e desse il suo tempo alla trasformazione di cento ettari
della pianura di Gennevilliers(33) in una serie di giardini ad
ortaggio, ognuno colla sua dipendenza di ripari di vetro scaldati,
per vivai e le giovani piante; ch'egli coprisse inoltre cinquanta
ettari di serre calde economiche, per ottener frutta, lasciando
ben inteso la cura dei particolari di organizzazione ai
giardinieri ed agli ortolani già innanzi nelle loro
esperienze.
Pigliando a base la media di Jersey, in
cui necessita un lavoro di 7 od 8 uomini per ettaro sotto vetro -
il che importa meno di 24.000 ore di lavoro all'anno - le opere da
farsi in questi 100 ettari piglierebbero in circa ogni anno
3.600.000 ore di lavoro. Cento giardinieri abili darebbero per
questo lavoro cinque ore per giorno, ed il rimanente sarebbe
eseguito dagli altri, i quali senza essere giardinieri di
mestiere, saprebbero servirsi della vanga, del rastello, della
inaffiatrice, ovvero sorveglierebbero i fornelli.
Questo lavoro frutterebbe, a poco dire, -
come abbiam visto nel precedente capitolo - quanto è di
necessità e di lusso in fatto di frutti e di legumi per
75.000 od anche 100.000 persone almeno. Ammetterete facilmente che
s'incontrino, fra questi, 36.000 adulti inclini al lavoro
dell'ortaglia. Ognuno avrebbe dunque da dedicare cento ore per
anno da ripartirsi su tutta l'annata. Queste ore di lavoro
sarebbero ore di ricreazione trascorse fra amici, coi ragazzi, in
stupendi giardini, più ameni probabilmente di quelli della
leggendaria Semiramide(34).
Ecco il bilancio delle fatiche da
compiere per mangiare a sazietà dei frutti di cui oggi ci
priviamo, e per avere in abbondanza tutti i legumi che la madre di
famiglia ripartisce con tanta parsimonia, quando le è
d'uopo misurare il soldo col quale si arricchisce colui che vive
di rendita ed il proprietario vampiro.
Ah! se l'umanità avesse solo la
coscienza di ciò che essa «può», e se
tale coscienza le desse forza «a volere»!
S'essa sapesse che la «codardia
dello spirito» è lo scoglio contro il quale tutte le
rivoluzioni fino ad oggi si sono infrante!
VI.
È facile percepire i nuovi
orizzonti che la prossima Rivoluzione Sociale dischiuderà.
Ogni volta che noi parliamo della
Rivoluzione, il lavoratore serio che ha visto tanti bambini privi
di nutrimento, aggrotta le ciglia e ci ripete ostinatamente: -
«E il pane? Non ne mancherà forse, se tutti vorranno
mangiarne sino a saziarsi? E se la campagna ignorante, eccitata
dalla reazione, affama la città, come fecero nel 1793 le
bande nere della Vandea e delle altre provincie francesi - che
cosa accadrà?».
Che la campagna si provi a farlo! Le
grandi città non avranno alcun bisogno d'essa. Infatti, in
che cosa s'impiegheranno quelle centinaia di migliaia di
lavoratori che oggi soffocano d'asfissia nei piccoli laboratori e
nelle manifatture, il giorno in cui saranno rivendicati a
libertà? Continueranno dessi, anche dopo la rivoluzione, a
rimanere rinchiusi nelle officine? Continueranno a fabbricare
ninnoli di lusso per l'esportazione, quando vedran forse il grano
esaurirsi, la carne farsi sempre più rara, i legumi sparire
senza essere riforniti?
Certamente no! Usciranno dalla
città e anderanno nei campi! Aiutati dalla macchina che
anche ai più deboli fra noi permetterà di arrecare
il nostro contributo all'opera sociale, essi porteranno la
rivoluzione nella coltivazione di un passato avvinto alla
schiavitù, come l'avran già portato e nelle
istituzioni e nelle idee.
Così, qua centinaia di ettari si
copriranno di ripari di vetro, e l'uomo e la donna dalle dita
delicate dedicheranno le loro cure intorno alle giovani piante.
Altrove, altre centinaia di ettari saranno lavorati dall'aratro a
vapore, ingrassati con concimi o arricchiti di uno strato
artificiale ottenuto per mezzo di roccie polverizzate. Le allegre
legioni di questi coltivatori di occasione faran sorgere su questi
campi una messe ricchissima; e nelle loro esperienze avran per
guida precipua, oltre a coloro che nell'agricoltura sono versati,
sovrattutto lo spirito grande e pratico di un popolo destatosi da
un lungo sonno, e illuminato e diretto da quel faro luminoso che
è la felicità universale.
Ed in due o tre mesi i raccolti
affrettati corrisponderanno ai bisogni più urgenti col
provvedere la nutrizione ad un popolo che, dopo tanti secoli
d'aspettativa, sarà finalmente in istato di satollarsi.
Di tanto in tanto il genio popolare,
genio di popolo che si ribella e conosce i suoi bisogni,
s'addentrerà nell'esperimento dei nuovi mezzi di
coltivazione già previsti e non richiedenti che il
battesimo dell'esperienza per generalizzarsi. Si
esperimenterà la luce - questo agente disconosciuto della
coltivazione, che fa maturare l'orzo in 45 giorni sotto la
latitudine di Yakoutsk; - concentrata od artificiale, la luce
sarà la rivale del calore per affrettare la crescenza delle
piante. Un Mouchot futuro inventerà la macchina guidatrice
dei raggi solari e li farà lavorare, senza che s'abbia da
ricercare nella profondità della terra il calore solare
immagazzinato nel carbon fossile. Si esperimenterà la
irrigazione del suolo con coltivazioni di micro-organismi, idea
tanto razionale, nata da ieri, per mezzo della quale si daranno al
suolo le piccole cellule viventi necessarie alle piante, sia per
alimentare le piccole radici, sia per decomporre e render
assimilabili le parti costitutive del suolo.
Si esperimenterà... ma non
spingiamoci troppo oltre; si giungerebbe alle regioni romanzesche.
Atteniamoci alla realtà dei fatti acquisiti. Coi processi
di coltivazione già in uso, applicati su vasta scala,
usciti fin d'ora vittoriosi nella lotta contro la concorrenza
mercantile, noi possiamo darci comodi e lusso, in compenso d'un
lavoro gradito. Un prossimo avvenire c'insegnerà quanto vi
ha di attuabile nelle future conquiste che le recenti scoperte
scientifiche ci fanno prevedere.
Limitiamoci per ora ad inaugurare la
nuova via consistente nello studio dei bisogni e nei mezzi di
conseguirli. Una sola cosa manca alla rivoluzione: l'arditezza
dell'iniziativa.
Abbrutiti dalle nostre istituzioni fin
dall'infanzia, asserviti al passato nell'età virile, fino
alla tomba, non osiamo quasi pensare. Un'idea novella si fa
strada? Prima di formarcene un'opinione, andiamo a consultare la
vecchia scienza di cent'anni fa per sapere ciò che i
maestri d'allora ne pensassero.
Se l'arditezza del pensiero e
l'iniziativa non faranno difetto, i viveri non verranno meno.
Fra tutte le più grandi giornate
della grande Rivoluzione, la più bella, la più
grande, che rimarrà per sempre impressa nelle menti, fu
quella in cui i federati, accorsi da ogni dove, lavorarono la
terra del Campo di Marte per preparare la festa.
In quel giorno la Francia fu
«una»; invasa dallo spirito nuovo, essa previde
l'avvenire nel lavoro in comune della terra.
E sarà ancora dal lavoro in comune
della terra che le società affrancate ritroveranno la loro
unità e cancelleranno gli odii, le oppressioni, dalle quali
furono divise.
Atta ormai a capire la
solidarietà, questa forza immensa che centuplica l'energia
e le forze creatrici dell'uomo camminerà alla conquista
dell'avvenire con tutto il vigore della giovinezza.
Non producendo più per compratori
sconosciuti, e ricercando nel suo seno stesso bisogni e piaceri da
soddisfare la società assicurerà largamente la vita
e l'agiatezza a ciascuno dei suoi membri, nello stesso tempo che
infonderà ad essi la soddisfazione morale che procura il
lavoro liberamente scelto e liberamente compiuto, e la gioia di
poter vivere senza dover la vita agli stenti degli altri. E tutti,
ispirati da un'audacia novella che il sentimento della
solidarietà susciterà in essi, procederanno alla
conquista degli squisiti godimenti del sapere e della creazione
artistica.
Una società così fatta non
dovrà temere nè discordie all'interno, nè
nemici all'esterno. Essa opporrà alle coalizioni del
passato il suo amore per l'ordine nuovo, l'iniziativa audace di
ciascuno e di tutti, e la forza che il risveglio del genio
renderà in essa gigantesca.
Dinanzi a questa forza irresistibile, i
«re congiurati» nulla potranno. Essi dovranno curvare
il capo, e aggiogarsi al carro dell'Umanità, sospinto verso
i nuovi orizzonti, che la Rivoluzione Sociale dischiude.
Note
(1) L'inno
imperiale russo: «Viva lo czar signore». Una volta per
tutte, ricordiamo al lettore di riportarsi col pensiero al tempo
in cui prefazioni e testo furono scritti. (N. dell'E.)
(2) I rosa-croce
(rose-croix) formavano in Francia una conventicola di mattoidi,
oscillanti tra il misticismo e la mistificazione, i quali hanno
costituito un ordine, o specie di nuova religione, sotto la
direzione del loro fondatore, lo scrittore Sar Peladan, uno strano
tipo di squilibrato, di pensatore e di scrittore, dotato
però d'ingegno vivace e brillante.
(3) Sakyamouni,
uno degli antichissimi sacerdoti del dio indiano Budda, del quale
si hanno libri e documenti sulla dottrina buddistica. N. d. T.
(4) Una vasta
località di Parigi dove s'innalzarono gli edifici della
Esposizione Universale del 1889, alla quale l'Autore allude. N. d.
T.
(5) Seguin,
francese, nato nel 1820, morto a New York, celebre medico
chirurgo, il quale si distinse specialmente per la cura di alcune
malattie mentali, e dell'idiotismo dei fanciulli in particolare;
Mayer Edoardo, tedesco del Württemberg, nato nel 1814,
ingegnere e scienziato, resosi celebre per la scoperta
dell'equivalente meccanico del calore; Grove Guglielmo, inglese,
elettricista, professore di fisica, che ha scoperto una potente
batteria elettrica la quale porta il suo nome. N. d. T.
(6) Watt, celebre
fisico scozzese del XVIII secolo, nato nel 1736, che fece molte
invenzioni tutte in rapporto colla forza motrice. N. d. T.
(7) Naturalmente,
come in tutto ciò che è barbarie, inciviltà,
regresso e reazione, il felice regno d'Italia occupava il primo
posto anche nella deficienza di produzione frumentaria. Infatti,
secondo le statistiche del Prof. Virgili (Statistica, ed. Hoepli,
1898, Milano) ecco la media di raccolto del frumento per ogni
ettaro, nei singoli Stati d'Europa: Italia, 10 ettolitri; Austria,
15; Francia, 16; Ungheria, 17; Germania, 18; Svezia, 19;
Inghilterra, 26; Danimarca, 26; Olanda, 27.
(8) I
«fellah» la classe più povera, più
abbietta ed inferiore dell'Egitto. Prototipo del proletariato,
dello sfruttato. N. d. T.
(9) Watrin,
direttore di una miniera di carbone, a Decazeville nel sud della
Francia, il quale opprimeva gli operai da lui dipendenti in modo
crudele. Nel 1886 in occasione di uno sciopero, gli operai
ribellatisi lo inseguirono fin entro alla sua casa, e afferratolo
di peso, lo gettarono dalla finestra. D'allora in Francia è
venuto in uso il verbo «watriner» sinonimo del verbo
«lynch» inglese, quando si allude ad atti di vendetta
popolare.
Clement Thomas, generale
dell'impero, che fu fucilato a Parigi dai Comunardi, insieme con
l'altro generale Lecomte, il 18 marzo 1871. Il popolo, che non
dimentica, volle vendicarsi della repressione feroce del 1848,
nella quale i due eroi gallonati gavazzarono nel sangue popolare.
N. d. T.
(10) Marx
distingue due valori, quello di uso e quello di scambio. Il primo
è basato sulle qualità proprie della merce stessa,
la quale è per quelle sue qualità destinata a
soddisfare il tale e non il tal'altro bisogno nostro. Il valore di
scambio, che per Marx è il vero valore propriamente detto,
è quello che ci permette di scambiare merci diverse fra di
loro in date proporzioni. La base del valore di scambio è
per Marx la quantità di lavoro umano richiesto per la
produzione. Se la quantità di lavoro che è stata
necessaria per fabbricare un paio di scarpe (scuoiamento
dell'animale, conciatura della pelle, lavoro del calzolaio, del
fabbricante di filo, chiodi, ecc.) è uguale, per esempio, a
quella che è stata necessaria per la fattura di un paio di
pantaloni (tosatura di lana, tessitura, lavoro del sarto, ecc.) le
due merci hanno uguale valore e sono teoricamente adatte allo
scambio. N. d. T.
(11) Ed è
logico. Poichè, quando gli strumenti di lavoro fossero di
proprietà comune, sarebbero i lavoratori che
retribuirebbero se stessi! Ciò che sarebbe assurdo. N. d.
T.
(12) La Svizzera
è il paese più progredito sotto questo rapporto.
Essa distribuisce biglietti di abbonamento per 15 giorni, un mese,
tre, sei e un anno a un prezzo relativo secondo la classe e la
durata, i quali permettono di viaggiare per tutto il tempo
dell'abbonamento, su tutte le linee ferroviarie svizzere, anche
per tutte le 24 ore del giorno, se si vuole. Il prezzo di questi
abbonamenti è mitissimo.
(13) Nel suo
opuscolo, «L'Individualismo nell'Anarchismo», Merlino
fa un'obbiezione di fatto, che a me pare non regga, a questo
concetto di Kropotkine. Infatti egli dice ironicamente che non vi
è alcuna ragione di far pagare il doppio, «tranne
quella che per far correre un treno mille leghe occorre un doppio
impiego di carbone, di lavoro, ecc., che non per le sole
cinquecento. Ma havvi forse qualche ragione per imporre ai
minatori, ai macchinisti un doppio lavoro?»
Io mi permetto di osservare che
ogni viaggiatore non ha e non potrà avere un treno speciale
a sua disposizione, e quindi ciascuno si servirà di quel
treno o di quei treni che percorreranno in permanenza un dato
tragitto, con un dato orario, indipendentemente dal numero dei
viaggiatori che portano. Quindi il macchinista non fa e non
farà alcun lavoro in più del suo lavoro normale. Per
la stessa ragione non vi sarà maggior sciupìo di
carbone della quantità solita; senza contare poi che la non
lontana applicazione dei motori elettrici risolverà in modo
molto semplice tale questione. N. d. T.
(14) Henry
George, illustre sociologo americano, morto nel 1897, di tendenze
democratiche socialiste. Fu candidato alla carica di Sindaco di
New York, presentandosi con programma indipendente. Ottenne 66.000
voti. Le sue opere principali Progresso e Povertà e
Problemi Sociali sono importantissime per la volgarizzazione delle
più ardue questioni sociali che in esse si contiene. Il suo
programma politico aveva come caposaldo l'adozione del tipo
d'imposta unica (single tax) che gravasse segnatamente sulle
proprietà fondiarie, di cui H. G. vagheggiava la
nazionalizzazione. N. d. T.
(15) È da
notarsi che l'Autore ha pubblicato la «Conquista del
Pane» nel 1892. N. d. T. ... ed una volta di più, si
vede che le rivoluzioni maturano con un ritmo molto più
lento del desiderato! (l'E.)
(16) Il grande
sciopero dei «docks» avvenuto nel 1887. N. d. T.
(17) Moneta di
carta messa in circolazione dalla Convenzione. Non aveva
però quasi alcun valore di fronte all'oro. N. d. T.
(18) Decreto del
30 Marzo; con questo decreto si condonavano le pigioni scadenti
nell'Ottobre 1870, nel Gennaio e nell'Aprile 1871. N. d. A.
(19)
Réclus calcola che nei soli prodotti alimentari, oggigiorno
stesso, con tutta l'enorme falange degli oziosi e dei disoccupati,
si ottengono 206 miliardi in più di sostanze alimentari, di
quelle che non occorrano per il consumo razionale ed anche
abbondante dell'umanità. Così per i prodotti
industriali si ha un'eccedenza, tra la produzione odierna e i
bisogni razionali, di 291 miliardi e 87 milioni di lire. Eppure
c'è chi muore di fame, di freddo, stenti, perchè la
borghesia sciupa, accumula, disperde, per capriccio malvagio ed
inutile, quanto renderebbe la vita comoda e agiata a tutta
l'umanità, anche nello stato attuale di cose. N. d. T.
(20) Si possono
dire già trovati. Le macchine compositrici automatiche, ad
elettricità, sono abbastanza comuni oramai in ogni luogo, e
compiono prodigi di celerità tipografica. N. d. T.
(21) L'autore del
più rinomato dizionario della lingua francese. N. d. T.
(22) Lo sappiamo
per mezzo dell'illustre dotto Playfair, che l'ha raccontato in
occasione della morte di Joule. N. d. A.
(23) Sembra che i
comunisti della Giovane Icaria abbiano compresa l'importanza della
libera scelta nei rapporti quotidiani, all'infuori del lavoro.
L'ideale dei comunisti religiosi è sempre stato il pasto in
comune; si è per mezzo appunto del pasto in comune che i
primi cristiani manifestavano la loro adesione al cristianesimo.
La comunione ne è ancora l'ultimo vestigio. I giovani
Icariani hanno voluto finirla con questa tradizione religiosa.
Essi pranzano in una sala comune, ma in piccole tavole separate,
alle quali si dispongono secondo le attrattive del momento. I
comunisti di Anama hanno ciascuno il loro alloggio, e mangiano in
casa loro, pur prendendo le loro provviste a volontà nei
magazzini del Comune. N. d. A.
Più recenti sono gli esempi
delle comunità agricole ebraiche in Palestina, vere
società pratiche del vivere anarchico. (l'Editore)
24 La frase tra
parentesi quadre manca dall'edizione di riferimento; è
stata ripresa dalla seguente edizione: PIETRO KROPOTKINE, La
conquista del pane, Terza edizione, Edizioni della rivista
Università Popolare, Via Carlo Poerio, 38, Milano, 1910
(?), Collana: Biblioteca "Germinal" vol. 3°. [nota per
l'edizione elettronica Manuzio]
(25) Si
chiamavano città hanseatiche, nel secolo XII, i comuni
liberi della Hansa scandinavo-germanica, i quali erano federati
tra loro liberamente per la protezione del commercio: (es.
Amburgo, Brema, Lubecca, ecc., chiamate anche città
libere). Per avere un'idea lucida ed esatta del funzionamento
economico, politico, sociale dei comuni liberi nel medioevo, i
lettori farebbero bene a leggere il magnifico studio dello stesso
Kropotkin: «L'Etat et son role historique», apparso
nei numeri 34, 38, 39, 40, 42, 45, 47 (secondo anno) e 1, 9 e 10
(anno terzo) dei «Temps Nouveaux» di Parigi. N. d. T.
(26) Una conferma
della superiorità indiscussa delle Croci Rosse private, e
create dal libero accordo, sulle burocratiche ambulanze militari,
la si ebbe nell'ultima guerra greco-turca (1897), alla quale lo
scrivente prese parte.
Tutte le ambulanze ed ospedali
militari greci furono assolutamente insufficienti; in tutti gli
scontri e battaglie non vi era modo d'imbattersi in un medico, in
una barella, in un infermiere militare. Il servizio di ambulanza,
prescritto burocraticamente sui quadri dell'esercito, non
trovò, nella sua obbligatorietà di servizio, il modo
di funzionare, sia pure insufficientemente. Fu assolutamente
negativo.
Viceversa, tutte le sezioni
internazionali della Croce Rossa, ed alcune prettamente private,
furono ammirevoli per zelo, abnegazione, coraggio, abilità.
Senza questo libero e spontaneo concorso della solidarietà
umana, i due terzi dei feriti greci sarebbero rimasti sul campo.
Quasi tutti i feriti delle legioni italiane furono ricoverati
nelle ambulanze private, lo stesso Cipriani compreso.
A Velestino e a Domokos le
ambulanze private furono le sole che organizzarono il servizio di
soccorso sul campo stesso di battaglia, di fronte al nemico.
Nonchè non esservi
rivalità fra le varie sezioni internazionali, vi fu invece
gara di abnegazione e di sacrificio, con grande vantaggio dei
poveri feriti. N. d. T.
(27) Il celebre
scopritore della cura antirabica. N. d. T.
(28) Veggasi:
«Les Prisons» di Kropotkin.
(29) Gli
anarchici spagnuoli, i quali si lasciano chiamare ancora
collettivisti, intendono con questa parola il possesso in comune
degli strumenti di lavoro, e «la libertà,» per
ogni gruppo, di ripartirne i prodotti a piacimento, - secondo i
principii comunisti, e di ogni altra specie. N. d. A.
(30) Notisi che
quando le nostre osservazioni furono pubblicate in Inghilterra,
non furono punto contraddette. Anzi furono confermate, e persino
oltrepassate dal direttore del «Giornale
d'orticoltura», che è un orticoltore pratico. Noi
siamo persuasi che anche gli orticoltori francesi ci daranno
ragione. N. d. A.
(31) Si consulti
la «Rivoluzione metrica delle imposte», di A. Toubeau,
due volumi, pubblicata da Guillaumin, nel 1880. (Non siamo punto
d'accordo colle conclusioni del Toubeau, ma il suo libro è
una vera enciclopedia coll'indicazione delle fonti atte a chiarire
ciò che si riesce ad ottenere dal suolo). - «La
coltivazione orticola», di M. Ponce, Parigi, 1869. -
«L'ortaglia Gressent», Parigi, 1885, opera eccellente
allo studio pratico. - «Fisiologia e coltivazione del
grano», di Risler, Parigi, 1886. - «Il grano, la sua
coltivazione intensiva ed estensiva», di Lecouteux, Parigi,
1883. - «La città chinese», di Eugenio Simon. -
«Il dizionario di agricoltura», di Barral, Hachette
editore. - «The Rothamstead experiments», di Wm.
Fream, Londra, 1888. Coltivazione senza concime, ecc., The Field
Office editore. - «Nineteenth Century», giugno 1888, e
«Forum», agosto 1890. N. d. A.
(32) La vite
stessa rappresenta le ricerche pazienti di due o tre generazioni
di giardinieri. Essa è una varietà di Amburgo,
ammirabilmente adattata agli inverni freddi. Ha bisogno del gelo
in inverno acciocchè il legno giunga a maturazione. N. d.
A.
(33) Borgata
eminentemente agricola nei dintorni di Parigi. N. d. T.
(34) Riassumendo
le cifre date sull'agricoltura, cifre provanti che gli abitanti
dei due circondari di Senna e Senna e Oise possono perfettamente
vivere sul loro territorio, non impiegando annualmente che
pochissimo tempo per ottenere il nutrimento, noi abbiamo:
Circondari di Senna e Senna e Oise:
Numero degli abitanti nel 1886...... 3.600.000
Superficie in ettari.................. 610.000
Numero medio degli abitanti per ettaro... 5,90
Superficie coltivata per nutrire gli abitanti (in ettari):
Frumenti e cereali....................................... 200.000
Praterie naturali e artificiali.......................... 200.000
Legumi e frutti, 7.000 a.................................. 10.000
Rimane per case, vie di comunicazioni, parchi, foreste... 200.000
Quantità di lavoro annuo necessaria per migliorare e
coltivare le superfici su-designate (in giornate di lavoro di 5
ore):
Grano (coltivazione e raccolto)............... 15.000.000
Praterie, latte, allevamento del bestiame..... 10.000.000
Coltivazione ortolana, frutti di lusso, ecc... 33.000.000
Imprevisto.................................... 12.000.000
Totale
............................. 70.000.000
Se si suppone che la metà
sola degli adulti validi (uomini e donne) voglia occuparsi di
agricoltura, si vede che i 70 milioni di giornate sono da
ripartirsi fra 1.200.000, il che dà «per anno
cinquantotto giornate di lavoro di cinque ore per ognuno dei
lavoratori.» N. d. A.