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     Carolina Invernizio
     I Misteri delle Soffitte.
    
    PARTE PRIMA
    
    
Dramma.
    
    I.
    
    Era la notte del giovedì grasso. Nessuno si ricordava di un inverno
    mite come quello, e il carnevale aveva uno sfogo inusitato.
    
    I ricchi se la spassavano nei palazzi; il popolo nelle osterie,
    sotto i portici, alla fiera, ai balli pubblici.
    
    I veglioni erano affollati e, come il solito, più di tutti si
    mostrava animato quello dello Scribe.
    
    Fra le maschere che avevano fatto il loro ingresso colà dopo la
    mezzanotte, vi era un domino femminile elegantissimo, troppo
    elegante, che stonava in quell'ambiente volgare.
    
    Veniva forse in cerca di un'avventura galante? Aveva un
    appuntamento?
    
    Una folla di studenti le fece cerchio.
    
    - Cerchi me, bella principessa? - gridò uno di essi, un giovane
    allampanato, giallo come un limone. - Io sono disposto a darti tutto
    il mio cuore.
    
    - Va' là, poeta da quattro soldi! La bella è in cerca di un
    Trovatore dei tempi antichi, che sappia difenderla dagli audaci,
    piegare il ginocchio dinanzi a lei, e forse gli mostrerà appena la
    punta del suo bel nasino. -
    
    Il domino, che fissava i suoi occhi grigi su quel gruppo di giovani
    e pareva studiasse la fisionomia di ognuno, disse con voce
    armoniosa:
    
    - Hai indovinato, mio caro, ed ecco su chi faccio cadere la mia
    scelta. -
    
    E posò la mano inguantata sulla spalla di un bel giovane dal volto
    leale, con occhi nerissimi e capelli biondi.
    
    Scoppiò un evviva assordante, e per qualche minuto attorno alla
    coppia venne eseguita una danza folle, sfrenata,
    
    Poi ognuno si sbandò per proprio conto, gridando:
    
    - Buona fortuna, Aldo! -
    
    Ma il giovane non pareva soddisfatto di quell'inattesa avventura
    galante. Tuttavia, volgendosi alla sua compagna, le chiese con
    accento gentile, dandole del voi:
    
    - Dove debbo condurvi, signora?
    
    - Fatemi fare un giro per il teatro, - rispose la maschera - poi
    conducetemi a casa vostra. -
    
    Lo studente sussultò.
    
    - A casa mia? - ripetè, come se non prestasse fede ai suoi orecchi.
    
    - Sì. Che ci trovate di strano? Non avete una casa, voi? Vivete
    forse in famiglia? -
    
    Aldo si era già rimesso.
    
    - No, - rispose - vivo solo. Ma sono povero, ed abito in una
    soffitta.
    
    - Che m'importa? -
    
    Aldo rivolse al domino uno sguardo, tra il diffidente ed il
    corrucciato.
    
    Ma l'ammirazione che destava nel pubblico la sua elegante compagna,
    finì col lusingare il suo amor proprio.
    
    Egli pensava:
    
    - Costei dev'essere molto bella, e sarei un pazzo se me la lasciassi
    sfuggire. Forse è una gran signora, che in questa notte di carnevale
    vuol soddisfare un morboso capriccio. Contentiamola; io nulla ci
    perdo; anzi, ho tutto da guadagnare in quest'avventura! -
    
    Prima di uscire dal teatro, Aldo passò nella guardaroba a prendere
    il suo soprabito.
    
    Aldo abitava sul corso San Maurizio.
    
    Egli e la sua compagna salirono le scale umide e sporche. Confusi
    rumori turbavano la sconosciuta. Erano pianti di bambini, bestemmie
    di uomini, grida soffocate di donne.
    
    - Che casa è mai questa? - chiese ella.
    
    - È una specie di alveare. - rispose Aldo - né può garbare a voi,
    avvezza forse ad una palazzina quieta, senza inquilini. In questa
    casa abitano molte famiglie, quasi tutte composte di onesti operai,
    che lavorano dall'alba alla sera, e solo alle feste alzano un po' il
    gomito e fanno chiasso. Però vi è di buono che nessuno si occupa dei
    fatti altrui, ognuno vive a sé, ed io mi trovo benissimo. -
    
    Avevano già salito cinque piani e si avviavano verso la stretta
    scala che conduceva alle soffitte.
    
    Il corridoio a destra e a sinistra sembrava interminabile.
    
    Aldo volse a sinistra, e dopo pochi passi sì trovò, a faccia a
    faccia con un uomo vestito da pierrot, col volto infarinato. Costui
    si trasse da un lato senza dire parola, e lo studente strinse il
    braccio della sua compagna, come per dirle che non aveva nulla da
    temere.
    
    Erano giunti dinanzi all'uscio della soffitta di Aldo. Egli accese
    un cerino, aprì con una chiave inglese e fece passare il domino.
    Quando, entrato egli pure, si voltò per chiudere, vide il pierrot
    quasi vicino all'uscio; ma, Aldo non parlò, per non spaventare la
    compagna, e chiusa la porta, tirò il catenaccio.
    
    Fatto ciò, accese un lume che era sul tavolino, indi si volse alla
    sconosciuta.
    
    Costei si era seduta sopra un divano e si guardava intorno con
    sorpresa.
    
    Tutto era modesto, di una pulitezza eccezionale. Le due finestre
    avevano cortine bianchissime, come la coperta del letto. Sul
    tavolino stavano i libri ben allineati; l'armadio aveva i battenti
    lucidi come specchi; un paravento cinese nascondeva il lavabo; la
    stufa di maiolica rendeva un delizioso tepore.
    
    - Siete alloggiato come un principe! - disse la sconosciuta.
    
    Aldo sorrise.
    
    - Io stesso - rispose - tengo in ordine la mia roba, rifaccio il
    letto, spazzo, pulisco dappertutto ogni giorno per conservare bene
    questi quattro mobili che mia madre ha comperati con molti
    sacrifizi. Perché io sono povero, signora, e non lo nascondo. Ma voi
    non siete venuta qui per sentire la mia storia. Perdonatemi. -
    
    Sedette accanto a lei, e con voce sommessa:
    
    - Perché non vi levate la maschera? - disse.
    
    Ella mormorò:
    
    - Lasciatemi, signore, ve ne supplico! -
    
    Poi si piegò, svenuta.
    
    Aldo ne fu spaventato. Per farle riavere il respiro, le tolse la
    maschera dal viso, e mandò un grido d'ammirazione. Com'era bella!
    
    A un tratto la sconosciuta aprì gli occhi, due occhi grigi ornati di
    lunghe ciglia nere, e disse con l'accento della più sincera
    disperazione:
    
    - Mio Dio, che cosa ho fatto? Perché sono venuta qui? -
    
    Aldo, stupito, rispose:
    
    - Ci siete venuta di vostra volontà, signora. Ma io credo di avervi
    usato tutto il rispetto che meritate.
    
    - No, non lo merito; ma voi siete buono, signore, e lo sarete
    ancora. Ah! la mia scelta è caduta bene, altrimenti sarei stata
    perduta per sempre! -
    
    Si passò una manina sulla fronte e con voce interrotta:
    
    - Se sapeste!... - proseguì. - Stasera ero come pazza: ho scoperto
    un tradimento che spezza tutta la mia vita di amore, di devozione,
    di fedeltà, e volendo calpestare l'onore di colui che mi tradisce,
    mi sono recata al veglione dello Scribe. Era mia intenzione di darmi
    al primo uomo che mi fosse piaciuto, qualunque fosse, per poter
    gridare oggi all'altro:
    
    - Anch'io ho avuto un amante! -
    
    «Ma all'uscire con voi dal teatro ero già esaurita dallo sforzo
    fatto; poi, nell'entrar qui, ho avuto vergogna di me ed ho perduto i
    sensi. -
    
    La giovane scoppiò in lacrime, nascondendo il bel volto sul divano.
    
    Aldo, commosso, le rivolse parole di conforto.
    
    La sconosciuta si era a poco a poco calmata; ella rialzò la testa,
    stese le mani al giovane, che le strinse fra le sue con viva
    simpatia.
    
    In quel momento un grido acuto, terribile, un grido di morte
    risvegliò tutti gli echi del casamento e fece balzare in piedi Aldo
    e la sua compagna.
    
    Al tempo stesso si udì uno sbattere di usci, voci che chiamavano
    aiuto, altre che gridavano:
    
    - All'assassino! -
    
    Aldo si slanciò fuori e la sconosciuta lo seguì con la lucerna
    accesa.
    
    E fu bene. A quel chiarore, lo studente vide il pierrot che gli
    passava dinanzi come una freccia, dirigendosi verso il pianerottolo
    per raggiungere la scala.
    
    E dietro a quegli una voce ansante gridava:
    
    - Fermatelo, è lui l'assassino! -
    
    Di un salto Aldo gli fu sopra, poi, aiutato da altri inquilini
    sopraggiunti, lo legò come un salame.
    
    - Bisogna ricondurlo nella stanza della sua vittima finchè giungano
    le guardie, - disse un uomo.
    
    - Chi ha assassinato? - chiese Aldo.
    
    - Giulietta, la poverina, così buona e onesta!
    
    - Ed è morta? - domandò la sconosciuta, che tutti guardavano con
    sorpresa, sembrando loro una strana apparizione,
    
    - Essa non dà più segni di vita; - rispose una donna canuta - è
    crivellata di ferite. Mio figlio è corso a chiamare il medico.
    
    - Andiamo a vederla; - soggiunse la sconosciuta - forse potremo
    soccorrerla. -
    
    Quando la giovane apparve, seguita da Aldo, sul limitare della
    soffitta dove era successo l'assassinio, tutti fecero largo.
    
    La soffitta era rischiarata dai molti lumi portati dagli inquilini,
    in un angolo gemeva l'assassino, steso a terra, tutto legato.
    
    Intorno al letto, dove era distesa l'assassinata, molte donne si
    accalcavano ansiose, tentando invano con gli asciugamani di
    arrestare il sangue che sgorgava copioso dal petto della vittima.
    
    L'assassinata era assai giovane, e nonostante il pallore cadaverico
    del volto, appariva sempre bellissima.
    
    Si capiva che era stata colpita mentre dormiva e, svegliata
    all'improvviso, aveva sostenuto una fiera lotta con l'assassino.
    
    Aveva ancora fra le mani contratte alcuni lembi dell'abito del
    pierrot.
    
    Ma ciò che più di tutto straziava, è che presso al letto
    dell'assassinata, inconscia del dramma terribile ivi successo,
    dormiva in una culla una bambina di forse due anni, bionda come la
    madre, bella come un amore.
    
    - Sarebbe bene toglierla di lì; - disse la sconosciuta ad Aldo - la
    porterò nella vostra stanza e veglierò su lei. -
    
    Sollevò la bimba senza svegliarla e, tenendola stretta al suo petto,
    si mosse per uscire da quella stanza.
    
    Ma in quell'istante entrò il medico. Dietro a lui venivano guardie,
    delegati, un ispettore, e una folla enorme che non si riusciva a
    tenere indietro. La signora non potè uscire dalla soffitta.
    
    II.
    
    La storia di Giulietta, detta la Bionda, era un romanzetto semplice,
    ma triste.
    
    Figlia di un antico militare decorato, passò l'infanzia e
    l'adolescenza in convento, protetta da alcune pie dame alla morte
    della mamma. Tornata a casa a quindici anni, essendo il padre
    vecchio, acciaccato, ella divenne il suo conforto, la sua guida.
    
    Siccome la meschina pensione del pover uomo non bastava a sopperire
    a tutte le spese, Giulietta si mise a ricamare per un negoziante,
    cui la madre superiora del convento l'aveva raccomandata.
    
    Scorsero due anni d'una vita abbastanza tranquilla.
    
    Giulietta ora buona quanto bella,
    
    Ebbe proposte di matrimonio, ma essa rispose che non si sarebbe
    accasata finchè vivesse suo padre.
    
    Un giorno, mentre lavorava, cantando allegramente, vennero ad
    avvertirla che il povero vecchio era stato colto da una sincope
    sulla via e l'avevano trasportato all'ospedale. Giulietta non doveva
    rivederlo che morto.
    
    La povera fanciulla pianse molto, ma a poco a poco il suo dolore si
    calmò ed ella potè riflettere alla sua situazione,
    
    La pensione del padre cessava. Giulietta doveva ormai vivere col suo
    lavoro.
    
    Fin da quel momento la sua vita fu ancora più modesta e più
    laboriosa.
    
    Usciva soltanto la domenica, recandosi al Valentino.
    
    Per certo, non le mancavano i corteggiatori, ma la bella bionda
    passava indifferente in mezzo a tutte le seduzioni.
    
    Tuttavia un giorno si notò che Giulietta era stata accompagnata fino
    sulla porta di casa da un bel giovane sui venticinque anni,
    dall'aria seria e distinta.
    
    D'allora in poi, quando essa usciva, il bel giovane era ad
    attenderla. A chi le domandò chi fosse costui, rispose:
    
    - È il mio fidanzato, un bravissimo giovane impiegato in una banca.
    Ci sposeremo presto. -
    
    Ai coniugi Pavin, suoi vicini più intimi, lo presentò perfino.
    
    Scorsero tre mesi: era d'inverno.
    
    Una sera, Lorenzo Pavin, tornando a casa, trovò la moglie Teresa
    molto inquieta.
    
    - Che hai? - le chiese stupito.
    
    - Sono due giorni che non vedo Giulietta, e ciò mi turba. Non è mai
    stata tanto senza venire da noi.
    
    - Perché non vai da lei?
    
    - Ho bussato poco fa al suo uscio, non ha aperto. -
    
    L'operaio si grattò la testa.
    
    - Tu mi metti una pulce negli orecchi; vado io stesso a vedere. -
    
    Uscì nel corridoio e si recò a bussare all'uscio della Bionda.
    Nessuno rispose.
    
    L'operaio non pose tempo in mezzo.
    
    Corse a prendere un ferro e con quello diè di leva all'uscio della
    soffitta di Giulietta. Si slanciò nella stanza, seguito da Teresa.
    
    La giovane era stesa sul letto e gemeva: aveva ingoiato del laudano;
    voleva morire.
    
    La moglie del falegname preparò subito un caffè carico, mentre il
    marito correva a chiamare un medico,
    
    Due ore dopo, Giulietta ora fuori di pericolo e raccontava
    piangendo:
    
    - Sono stata disgraziata o colpevole. Mi sono fidata di un uomo che
    mi ha ingannata. Lo amavo, e siccome mi giurava di sposarmi, mi
    lasciai trattare come se fossi già sua moglie. Ero felice, e non
    scorgevo l'abisso.
    
    «Quattro giorni fa, egli non venne all'ora solita; lo attesi
    inutilmente tutta la sera.
    
    «La mattina mi venne un pensiero: che fosse ammalato?
    
    «Risolvetti di andare a chiedere sue notizie nella casa dove
    abitava.
    
    «Non ero mai andata a casa sua, Perché mi diceva che stava in
    pensione da una vecchia signora, amica della sua famiglia, la quale
    si sarebbe scandalizzata se fossi andata a trovarlo.
    
    «Ma sapevo il nome della via e il numero della casa.
    
    «Vi giunsi in pochi minuti.
    
    «Entrai dal portinaio e chiesi:
    
    «- È in casa il signor Fabio Ribera?
    
    «- Non lo conosco; - mi rispose - non abita qui. -
    
    «Uscii di là con le gambe tremanti.
    
    «Eppure non pensavo ancora ad un tradimento.
    
    «Corsi subito in un piccolo quartiere che Fabio aveva affittato e
    ammobiliato per il nostro matrimonio.
    
    «Salii difilato al secondo piano, sonai alla porta di quel
    quartiere.
    
    «Comparve un giovinetto che io non conoscevo.
    
    «- Il signor Fabio Ribera? - chiesi.
    
    «- Vi siete sbagliata, bella ragazza: non abita qui.
    
    «- Ma come? Fabio è il padrone di quest'appartamento. -
    
    «Il giovinotto si mise a ridere.
    
    «- Lo sarà stato la settimana passata! - esclamò. - Adesso il
    proprietario sono io.... e mi dispiace che ho una visita, altrimenti
    sarei lietissimo di farvelo visitare. Ma se voleste venire
    domani.... -
    
    «Non volli sentir altro: fuggii col cuore stretto da un'orribile
    angoscia.
    
    «Quando fui nel vestibolo entrai in portineria.
    
    «Vi era una donna, e ciò mi diede coraggio.
    
    «- Scusate, - le dissi con voce ancora un po' alterata - il
    quartierino al secondo piano, primo uscio a destra, non era stato
    preso ed ammobiliato dal signor Fabio Ribera?- -
    
    «La portinaia mi guardava così fissamente, che sentii le guance
    avvamparmi.
    
    «- Il signor Fabio Ribera non è il giovane che venne più volte in
    questa casa con voi? - domandò,
    
    «Feci un cenno affermativo.
    
    «- Ebbene, - soggiunse la portinaia - se vi ha detto che il
    quartierino era suo, vi ha ingannata. Quel quartierino lo tiene in
    affitto una certa Clorinda, che lo cede a giorni, a settimane, a
    mesi, per galanti ritrovi. -
    
    «Se non caddi di piombo a terra fu un miracolo. Ero stordita.
    Nonostante volli tentare un ultimo colpo,
    
    «Stamani, dopo altri due giorni d'inutile attesa, mi sono recata
    alla banca dove Fabio mi aveva detto di essere impiegato.
    
    «Ma neppur là sanno chi sia Fabio Ribera.
    
    «Perciò, oppressa, disperata, quasi pazza, volevo morire.
    
    - Per fortuna, - esclamò Lorenzo - siamo stati in tempo a salvarvi!
    
    - Quel birbante, - soggiunse Teresa - non merita davvero il
    sacrifizio della vostra vita! Dimenticatelo, è forse meglio per voi:
    costui non si farà più vedere. -
    
    La moglie del falegname ebbe ragione.
    
    Giulietta passò molti giorni di angoscia, poi sembrò rassegnata e
    riprese a lavorare in compagnia dei suoi buoni vicini.
    
    Un giorno si accorse di essere incinta.
    
    Ella non si disperò.
    
    - Invece di morire, - disse - vivrò per la mia creatura: se non ho
    potuto divenire una buona moglie, sarò una buona madre. -
    
    Infatti, dato che ebbe alla luce la sua bimba, cui pose nome Gina,
    la giovane volle allattarla da sé, e da allora in poi si dedicò
    interamente a sua figlia.
    
    Ed ora quella madre così giovane, bella, onesta, veniva barbaramente
    assassinata!
    
    III.
    
    Mentre il medico visitava Giulietta, le guardie rialzavano
    bruscamente l'assassino, che volgeva all'intorno sguardi spauriti e
    balbettava:
    
    - Lasciatemi!... Non sono stato io!...
    
    - È stato lui! L'ho veduto uscire da questa soffitta quando sono
    accorsa al primo grido della povera Giulietta! - urlò Teresa.
    
    - Silenzio! - disse il medico.
    
    Egli era chinato sul corpo straziato di ferite, e, dopo alcuni
    minuti, si rialzò dicendo:
    
    - Non è ancora morta! Procurerò di richiamarla ai sensi. -
    
    Frattanto la sconosciuta rimaneva presso la culla, tenendo
    appoggiata al seno la bimba, che continuava a dormire.
    
    Il medico operò una prima e rapida fasciatura delle ferite, poi
    chiese dell'acqua con dell'aceto, e ne spruzzò il viso di Giulietta.
    
    Ella si mosse, aprì gli occhi. Il medico non si era ingannato:
    viveva.
    
    La sconosciuta non poteva più distogliere gli sguardi
    dall'assassinata.
    
    A un tratto gli occhi di Giulietta si rianimarono, la bocca le tremò
    convulsamente e lasciò sfuggire un grido rauco.
    
    - All'assassino!... Aiuto!... Prendetelo!... - disse con una voce
    che scosse tutti.
    
    Ad un cenno dell'ispettore le guardie trassero presso il letto il
    pierrot, che invano volgeva il capo per non incontrare gli sguardi
    dell'assassinata.
    
    - L'abbiamo arrestato, signorina! - disse l'ispettore. - Guardatelo:
    lo riconoscete? -
    
    Giulietta stese un braccio con un gesto che parve una maledizione.
    
    - Lo riconosco, è lui! - gridò. - Tenetelo, o mi colpirà ancora. Ed
    io.... non voglio morire.... -
    
    E cacciando un urlo che sgomentò tutti:
    
    - Mia figlia.... mia figlia.... la mia Gina....
    
    - È qui, non temete; - rispose la sconosciuta con voce dolcissima -
    ne avrò cura io. -
    
    Giulietta si volse al suono di quella voce, guardò la bella signora,
    poi si vide uno spettacolo singolare.
    
    La ferita si era rialzata bruscamente sul letto afferrandosi alla
    sconosciuta con tutte le sue forze, guardandola avidamente e
    rantolando:
    
    - Lei? Lei? Ma non sa...? -
    
    Uno sbocco di sangue sgorgò dalle labbra di Giulietta, che ricadde
    sul letto irrigidita.
    
    Questa volta il medico disse a voce alta;
    
    - È morta! -
    
    La sconosciuta vacillò, o sarebbe caduta con la bambina, se Aldo,
    che le era vicino, non l'avesse sorretta.
    
    - Andiamo nella mia stanza: - disse - è inutile rimanere qui ancora.
    -
    
    Ma l'ispettore osservava con sorpresa quella signora elegante e le
    disse:
    
    - Mi permetta una domanda, signora: conosceva la giovane che hanno
    assassinata?
    
    - No, - rispose la sconosciuta - l'ho veduta per la prima volta
    questa notte.
    
    - Allora come spiega le parole della poveretta, rivoltasi a lei come
    a persona che non le fosse ignota?
    
    - Non so spiegarle. -
    
    Aldo fremeva a quelle domande.
    
    L'ispettore proseguì:
    
    - Per certo, signora, ella non deve far parte degli inquilini di
    queste soffitte. Perché dunque si trova qui? -
    
    Questa volta Aldo non si contenne.
    
    Prima che la sconosciuta potesse rispondere, egli disse con voce
    sicura:
    
    - La signora è mia sorella, venuta a passare gli ultimi giorni di
    carnevale a Torino. Essa era nella mia stanza, quando abbiamo udite
    le grida di questa disgraziata e ci siamo slanciati fuori. Io stesso
    ho fermato l'assassino.
    
    - È vero, è vero! - dissero più voci.
    
    - Se volete le mie generalità, - soggiunse lo studente - vi sarà
    facile averle, Perché in questa casa tutti mi conoscono. Mi chiamo
    Aldo Pomigliano, sono studente ingegnere, di San Giorgio Canavese:
    ho i genitori viventi e quest'unica sorella maritata a Ivrea. Ed
    ora, permettete che ci ritiriamo. -
    
    La franchezza del giovane cancellò ogni diffidenza del funzionario
    di pubblica sicurezza, che disse:
    
    - Potete andare; ma forse avremo poi bisogno di voi.
    
    - Sarò sempre a disposizione dell'autorità.
    
    - E la bambina di quella disgraziata la tiene in custodia la
    signora?
    
    - Sì; - rispose la sconosciuta - non ho figli; le farò da madre. -
    
    Le comari fecero sentire un lusinghiero mormorio. Teresa si avvicinò
    alla sconosciuta.
    
    - Gina è la mia figlioccia; - disse con le lacrime agli occhi - se
    la signora lo permette, posso aiutarla a custodirla.
    
    - Ne parleremo domani! - disse con un mesto sorriso la sconosciuta.
    - Adesso; il meglio che si possa fare è di coricarla nel letto di
    mio fratello. -
    
    Pochi minuti dopo, Gina, avvolta in una calda coperta nel letto di
    Aldo, continuava a dormire il sonno degli angeli.
    
    L'assassino fu condotto via fra le imprecazioni di tutti.
    
    La povera salma dell'infelice Giulietta rimase vegliata da due
    guardie.
    
    La sconosciuta, coricata che ebbe la bambina, si rivolse verso lo
    studente esclamando:
    
    - Siete stato molto generoso con me! Non lo dimenticherò mai,
    sebbene la vostra generosità non impedisca che io sia perduta:
    domani si saprà, che non sono vostra sorella.
    
    - Tranquillatevi! Nessuno può smentirmi, Perché io ho veramente una
    sorella maritata a Ivrea, una sorella che mi adora, alla quale
    scriverò subito per narrarle l'accaduto; e potete star certa non ci
    tradirà. -
    
    La giovane, tornata a sedere sul divano, chiese a Aldo:
    
    - Voi pure avete creduto che io conoscessi l'assassinata?
    
    - Sì, - rispose egli. - La sorpresa che ha mostrato nel vedervi, le
    sue sconnesse parole, mi avevano fatto credere che la povera
    Giulietta sapesse chi siete.
    
    - Eppure, - disse la sconosciuta - vi giuro che io non vidi mai
    quella sventurata prima di questa notte. E voi, la conoscevate?
    
    - Come si conoscono i vicini. L'incontravo qualche volta per le
    scale: ci salutavamo, ma non ci parlavamo. Sapevo che lavorava e che
    aveva fama di onestissima, sebbene quella bambina fosso il frutto
    d'una colpa. A proposito; volete davvero occuparvi di
    quell'orfanella?
    
    - Sì, - rispose vivamente la sconosciuta, - Ma per riuscire, ho
    bisogno di voi.
    
    - Sono interamente ai vostri ordini.
    
    - Grazie! - mormorò commossa la giovane. - La poverina passerà
    dunque il resto di questa notte nel vostro letto: domattina la brava
    donna che si è offerta di custodirla avrà cura di lei; io sarò qui
    verso le nove, e combineremo insieme il modo di allevare quella
    creaturina, cui farò da madre.
    
    - Ed io le farò da padre! - esclamò Aldo.
    
    La sconosciuta si alzò, e avvicinatasi al letto, guardò a lungo la
    bella creaturina che dormiva, poi disse a Aldo:
    
    - Datemi il mio domino, la maschera; bisogna che io vada via.
    
    - Tornerete davvero alle nove? - chiese Aldo con voce tremante.
    
    Essa gli stese la mano, e rispose con un accento che non ammetteva
    dubbio:
    
    - Ve lo prometto.
    
    - Grazie! Intanto ditemi il vostro nome, il solo vostro nome di
    battesimo.
    
    - Speranza. -
    
    E senza aggiungere altro, la signora, infilato il domino, uscì.
    
    Aldo rimase immobile, col cuore in tumulto.
    
    Speranza si era già impadronita di tutta la sua anima.
    
    IV.
    
    Nessuno, del casamento operaio, conosceva neppure di vista il
    pierrot, nessuno l'aveva mai veduto con la povera Giulietta.
    
    Al primo e sommario interrogatorio, colui, non soltanto aveva
    respinto l'accusa di assassinio, ma non volle neppur dire il suo
    nome. Fu condotto in prigione, rivestito di altri abiti borghesi,
    lasciato solo, mentre si procedeva ad un'inchiesta sul conto
    dell'assassinata per scoprire la responsabilità dell'assassino.
    
    Il giudice istruttore incaricato dell'inchiesta, benché ancora
    giovane, passava per molto abile.
    
    Era il cavaliere Umberto Trani, uomo simpatico e distinto, che aveva
    molto acume e molto tatto.
    
    Egli si recò col cancelliere ed alcuni agenti in borghese alla
    soffitta, dove era stato commesso il delitto, e quando vide la
    vittima, fece un atto di stupore e pensò:
    
    - Strano! Mi sembra di aver veduto costei e di averle parlato; ma
    non ricordo né dove, né quando. -
    
    Il nome gli era ignoto.
    
    Dopo aver osservato le ferite che denotavano come la sventurata
    avesse dovuto lottare con un feroce assassino, le guardò le mani.
    
    Manine bianche, lunghe, affusolate; l'indice della mano sinistra
    portava le tracce del lavoro. Nella destra aveva una ferita
    leggiera, e, fra le unghie, pezzetti di stoffa bianca insanguinata.
    
    Fatte rapidamente quelle osservazioni, il giudice istruttore ordinò
    una verifica nella stanza, Il primo oggetto che gli cadde sotto gli
    occhi fu la culla.
    
    - Nel rapporto dell'ispettore ho letto infatti di una bambina.
    Dov'è? - chiese.
    
    L'ispettore che si trovava nella soffitta ed era rimasto fino allora
    silenzioso, rispose:
    
    - È affidata alle cure di una brava donna, che fu sua madrina.
    Peraltro il signor Aldo Pomigliano, studente ingegnere, colui che
    arrestò l'assassino, ha dichiarato che egli e sua sorella
    s'impegnano di allevare la figlia della morta,
    
    - Ne riparleremo; - disse Umberto Trani - proseguiamo le nostre
    indagini. -
    
    La soffitta aveva il puro necessario. Dentro un baule fu trovato
    biancheria, una scatola con oggetti d'oro di poco valore, una
    piccola somma e una scatola contenente un fascio di lettere.
    
    Il magistrato s'impossessò subito di queste.
    
    Poi diede ordine che il corpo fosse trasportato alla sala anatomica
    per l'autopsia, ed egli interrogò gli inquilini delle soffitte.
    
    Il primo a presentarsi fu il falegname Lorenzo Pavin, cui il
    magistrato così si rivolse:
    
    - Ditemi tutto quello che sapete.
    
    - Io non so altro che Giulietta era una giovane onesta, buona....
    
    - Onesta.... - interruppe il magistrato. - Mi sembra che una giovane
    divenuta madre senza avere un marito.....
    
    - Fu sedotta da un furfante! - soggiunse indignato l'operaio. - Oh!
    so io le lacrime versate dalla povera Giulietta!
    
    - Conoscevate costui?
    
    - Lo vidi due volte sole: era un bel giovane, elegante, di modi
    distinti....
    
    - Avete veduto l'assassino?
    
    - Sì, signore.
    
    - Non vi è sembrato che avesse qualche rassomiglianza col seduttore?
    -
    
    Il falegname rimase per un istante a bocca aperta, poi scosse il
    capo:
    
    - No, ecco, non mi pare, sebbene non potrei giurarlo; era così
    impiastricciato di biacca e di sangue!
    
    - Ebbene, ve lo faremo vedere ripulito; ma prima ditemi: vedeste
    ieri la vittima?
    
    - Sì, signore. Verso sera mia moglie ed lo venimmo qui per dare a
    Giulietta delle caramelle. La piccina era seduta su quel piccolo
    tappeto e si baloccava; la mamma lavorava.
    
    - La vostra soffitta è attigua a questa?
    
    - Sì, signore.
    
    - Non sentiste più tardi qualche voce d'uomo o il rumore d'una lite?
    
    - No, signore. Mia moglie ed io, dopo cena, ci coricammo e ci
    addormentammo subito, Fummo svegliati all'improvviso da un grido di
    aiuto.
    
    «- È Giulietta! - disse mia moglie saltando dal letto e infilandosi
    una sottana, mentre io accendevo il lume, e si slanciò fuori
    dell'uscio per bussare a quello della nostra vicina.
    
    «In quel momento ne uscì l'assassino vestito da pierrot.
    
    «Teresa si mise a urlare, e allora il signor Aldo acciuffò il
    miserabile.
    
    «Ecco tutto, signore. -
    
    Gli altri vicini non aggiunsero nuovi particolari a quelli dati da
    Lorenzo.
    
    Anche Aldo fu interrogato.
    
    - Voi pure abitate nelle soffitte? - gli domandò il magistrato.
    
    - Sì, signore, - egli rispose. - I miei mezzi non mi permettono di
    meglio. Mia madre e mia sorella fanno già abbastanza sacrifici per
    mantenermi qui agli studi.
    
    - Da quanto tempo abitate in questa casa?
    
    - Da quasi due anni.
    
    - Conoscevate Giulietta?
    
    - Conoscenza da vicini; ci salutavamo incontrandoci per le scale, e
    nulla più.
    
    - Ieri la vedeste?
    
    - No. Io passai quasi tutto il giorno fuori di casa, essendo giunta
    mia sorella che desiderava passare gli ultimi giorni di carnevale a
    Torino.
    
    - È maritata, vostra sorella?
    
    - Sì; a un benestante d'Ivrea: il signor Rivalta: - rispose con
    disinvoltura Aldo. - Ieri sera pranzai con lei all'albergo, poi
    siccome ella aveva desiderio di vedere un veglione, andammo a
    prendere un domino, ed io venni con lei a casa per cambiarmi
    d'abito,
    
    «Avevo finito di abbigliarmi, mia sorella stava per mettersi la
    maschera, allorché un grido giunse fino a noi. Mi slanciai per le
    scale e fu allora che arrestai l'assassino. -
    
    Il magistrato aveva ascoltato con molto interesse.
    
    - Dove si trova adesso vostra sorella? - domandò.
    
    - All'albergo a riposare, in preda all'emozione sofferta questa
    notte.
    
    - Mi hanno detto che essa vuole incaricarsi della bambina della
    vittima?
    
    - Sì, signore, se non vi è nulla in contrario. Benché non siamo
    ricchi, abbiamo preso a cuore la sorte di quella creaturina. Per
    adesso l'abbiamo affidata a Teresa, una brava donna, che l'ha tenuta
    a battesimo. Poi, appena mia sorella sarà tornata ad Ivrea ed avrà
    parlato con suo marito, la ritireranno con loro.
    
    - Faranno davvero un'opera di carità, della quale tutte le persone
    di cuore non potranno che elogiarli. -
    
    L'interrogatorio era finito. La soffitta fu chiusa coi suggelli, ed
    il giudice istruttore lasciò la casa, promettendo una ricompensa a
    chi gli recasse indizi sull'assassino.
    
    Umberto Trani condusse seco Lorenzo il falegname, cui Giulietta
    aveva presentato un giorno il proprio fidanzato. Il magistrato
    sperava che l'operaio lo riconoscesse nell'assassino.
    
    V.
    
    - Contessa, ecco il conte: scende di carrozza.
    
    - Bene, Celia; puoi ritirarti. -
    
    La contessa Bianca Rossano rimase sola nel suo gabinetto da
    toelette. Accigliata, nervosa, sedette sul divano, rimanendo
    assorta.
    
    Aveva il lungo accappatoio indossato nello scendere dal letto, e gli
    stupendi capelli neri sciolti sulle spalle.
    
    Un lieve bussare all'uscio la fece trasalire.
    
    - Avanti! - diss'ella.
    
    Un uomo entrò, vestito da viaggio. Appariva pallido o commosso, ma
    nei suoi occhi era un raggio d'intensa felicità.
    
    - Bianca! - esclamò stendendo le braccia. La contessa non fece gesto
    alcuno.
    
    - Siete voi? - disse con acconto glaciale. - Non vi aspettavo così
    presto!
    
    Egli rimase un istante come impietrito.
    
    Il conte Rossano era un bell'uomo sui trentacinque anni,
    distintissimo. I suoi sguardi, pieni di dolcezza, lampeggiavano
    quasi sinistramente nella commozione.
    
    Egli si slanciò verso la moglie, volle stringerla nelle sue braccia.
    
    - Bianca, angelo mio, è così che mi accogli al mio ritorno? -
    
    La giovane si svincolò.
    
    - Finiamo questa ignobile commedia! - disse guardandolo con
    alterezza. - Ormai ho scoperto che siete un miserabile.
    
    - Bianca! - gridò il conte, minaccioso.
    
    - Un miserabile! - ripetè essa. - Ah! credevate di aver preso per
    moglie un'idiota da sfruttare a vostro talento!... Ebbene, vi siete
    ingannato: voi non mi conoscete ancora, ma io vi conosco: guardate.
    -
    
    Si alzò, prese da una scatola di cristallo una lettera spiegazzata e
    la gettò con disprezzo sul viso di lui.
    
    Il conte divenne livido: aveva compreso tutto.
    
    Quella lettera, ricevuta una settimana prima, egli l'aveva ricercata
    invano, la credeva smarrita. Era la lettera di una donna e diceva:
    
    «Livio mio, ti attendo con ansia. Già da un anno sospiro un tale
    istante! Ah! Perché non ero io ricca come quella sciocca che hai
    sposata e che non è la donna fatta per te? Tu continui a giurarmi
    che non solo non ami tua moglie, ma che è un vero tormento per te il
    fingere una tenerezza che non senti. Ebbene, presso di me ti
    consolerai di tanta noia! Ricordi le nostre follie di un tempo? Mi
    lusingo che si rinnoveranno, che ti compenseranno delle nausee
    sofferte. Mi hai promesso un'intera settimana, una settimana di
    paradiso per entrambi. Mercoledì sera sarò alla stazione ad
    aspettarti e ritroverai il tuo nido come l'hai lasciato. Ti bacio
    lungamente con tutta l'anima.
    
    «Cinzia».
    
    Il conte, raccolto il foglio, balbettò:
    
    - Non so che cosa tu voglia dire!
    
    - Ah! - esclamò Bianca con violenza. - Ve lo spiegherò io. Quella
    lettera ha rotto fra noi qualsiasi rapporto: se non chiedo una
    riparazione, non è per vostro riguardo, ma per mio padre: non voglio
    che il povero vecchio soffra, sapendomi infelice. -
    
    Bianca tacque, vinta dall'emozione.
    
    Il conte si gettò ai suoi piedi.
    
    - Perdono, Bianca, perdono! Sì, sono stato colpevole, ma ti giuro
    che quella donna ha mentito, scrivendo così.
    
    - Basta! - gridò la contessa ritraendosi. - Non voglio scuse. A me
    poco importa ciò che colei scrive di me. Il fatto ignobile che nulla
    può cancellare, è di avermi inflitta l'offesa di un tradimento
    quotidiano; la vigliaccheria maggiore è di avermi fatto credere che
    partivate per assistere una zia morente. Ed io piansi, la sera della
    vostra partenza, pensando alla povera donna, pensando al vostro
    dolore. Invece, un'amante vile al pari di voi vi attendeva alla
    stazione, e chi sa le risate da voi fatte per avermi così ingannata!
    -
    
    Il conte si avvicinò a lei.
    
    - No, Bianca, no, non lo credere; sono stato colpevole, lo ripeto,
    ma non infame! -
    
    Cercò di stringerla fra le braccia, ma essa lo respinse con una
    forza di cui il marito non l'avrebbe creduta capace.
    
    - Mi fate nausea! - diss'ella.
    
    Il conte sussultò.
    
    - Bene! - disse con accento tragico. - Avete ragione; siate sicura
    che non cercherò più di avvicinarvi. -
    
    Ed uscì dal gabinetto.
    
    Rimasta sola, Bianca lasciò sfuggire un sospiro di sollievo:
    quell'uomo, ormai, le destava orrore. Seduta sulla poltrona, Bianca
    rivisse in un istante la vita passata.
    
    Figlia unica di ricchissimi possidenti del Monferrato, era stata
    adorata dai suoi genitori.
    
    Aveva un'istitutrice, una tedesca, anima eletta che si affezionò
    alla sua allieva e fu per lei quasi una madre.
    
    Bianca possedeva una bellezza affascinante, un'intelligenza
    superiore, che l'istruzione sviluppò meravigliosamente. Sembrava
    assai timida, ma se un nobile pensiero la esaltava, diveniva audace,
    pronta a sfidare qualsiasi pericolo.
    
    Fino ai quindici anni era vissuta felice.
    
    La morte della madre fu il primo dolore della sua vita.
    
    Erano scorsi due anni dalla morte della buona signora. Si era
    d'autunno, al tempo delle cacce. In una tenuta poco lontana da
    quella del padre di Bianca convennero gentiluomini torinesi, ospiti
    del marchese Passiflora, un gaudente, un prodigo, un gentiluomo
    tronfio di sé.
    
    Costui aveva chiesto Bianca in moglie, ma la giovane lo aveva
    rifiutato Perché non le piaceva.
    
    Mentre il marchese era a tavola cogli amici, cadde il discorso sul
    matrimonio, e ne furono dette di tutti i colori.
    
    - Io fui una sola volta in procinto di prendere moglie, un anno fa,
    - disse il marchese Passiflora - ma fui bellamente respinto.
    
    - La giovane era di difficile contentatura! - esclamò il conte Livio
    Rossano, arricciandosi i baffi.
    
    - Mi fu detto che quella giovane sogna un eroe dei tempi antichi, un
    uomo che non abbia la più piccola macchia amorosa nel suo passato,
    che sia vissuto sempre nell'azzurro, che si dedichi a lei sola per
    tutta la vita. -
    
    Il gaudente fu interrotto da uno scroscio di risa.
    
    - Merita almeno, la bella, un tal cavaliere? - chiese ancora
    Rossano.
    
    - Vi assicuro che un uomo si stimerebbe felice di divenire suo
    schiavo. Ha sedici anni o poco più, figura da ninfa, viso d'angelo,
    occhi brillanti come stelle, capelli neri e carnagione di latte e
    rosa. -
    
    Vi fu un nuovo scoppio di risa.
    
    - Passiflora, tu diventi poeta!
    
    - Lo diventereste anche voialtri, se la conosceste, tanto più se
    aggiungo che quell'ammirabile creatura porta in dote al fortunato
    che saprà conquistarla la bagattella di due milioni, ed alla morte
    di suo padre ne avrà altrettanti. -
    
    Vi fu un mormorìo d'ammirazione. Rossano trasalì.
    
    - Dove si trova questa maraviglia? - chiese un barone sbarbato.
    
    - È mia vicina, - rispose Passiflora - e se qualcuno desidera
    vederla, gli dirò che tutte le mattine si reca alla messa con
    l'istitutrice. -
    
    La mattina seguente vi era una partita di caccia. Tutti si alzarono
    prima dell'alba. Quando si trovarono riuniti nella sala a terreno
    della villa Passiflora, il marchese notò che mancava il conte
    Rossano.
    
    - Dov'è Livio? - chiese agli amici.
    
    - Livio non verrà; - rispose il barone - questa notte si è sentito
    male, e mi prega di scusarlo presso te. -
    
    Nessuno suppose che quella malattia fosse una finzione.
    
    In quella stessa mattina, verso le sette, Bianca usciva con
    l'istitutrice, avviandosi per un sentiero campestre che in meno di
    un quarto d'ora conduceva al paese.
    
    Essa respirava con delizia l'aria mattinale: mai la sua carnagione
    era apparsa più rosea e brillante.
    
    Ad un tratto i suoi sguardi e quelli dell'istitutrice furono
    attirati da una curiosa scena; un bel giovane, in abito elegante da
    mattina, stava quasi accovacciato sull'erba, tentando di persuadere
    una bimba che balbettava fra i singhiozzi:
    
    - La mamma mi batterà! -
    
    La voce del giovane salì chiara e fresca fino a Bianca.
    
    - No, carina, - diceva - la mamma non ti batterà, Perché io le dirò
    tutto. Via, alzati, torneremo insieme dallo speziale!
    
    - No, sono troppo in ritardo!
    
    - Più starai qui a piangere, più tarderai! -
    
    Bianca si era avvicinata: ella conosceva la bambina.
    
    - Mietta, che hai? - chiese.
    
    Al suono di quella voce, il giovane fu in piedi e salutò con la
    disinvoltura di un gentiluomo.
    
    - Essa piange - rispose - Perché ha rotto una boccetta di medicina
    che portava a casa.
    
    - Hai qualcuno ammalato, Mietta? - chiese ancora Bianca, dopo aver
    ricambiato il saluto del giovane.
    
    - Il vitello, - rispose la bambina - e la mamma mi aveva
    raccomandato di far presto. Io correvo con la boccetta in mano,
    quando sono caduta e si è rotta.
    
    - Ed io le proponevo di tornare dallo speziale, che poi l'avrei
    accompagnata a casa, - soggiunse lo sconosciuto.
    
    - Perché non accetti? - domandò l'istitutrice.
    
    - Perché non ho più i soldi per comprare la medicina. -
    
    Il giovane sorrise.
    
    - I soldi te li avrei dati io.
    
    - Non li voglio, Perché non lo conosco.
    
    - E da me li prendi, Mietta?
    
    - Oh! da lei, signorina Bianca, sì, e se dico alla mamma che l'ho
    incontrata, non mi sgriderà più! -
    
    La giovinetta sorrise, e mentre estraeva il portamonete, lo
    sconosciuto disse:
    
    - Ammiro la fierezza della piccina, come la sua fiducia in lei,
    signorina Bianca, angelo consolatore di queste terre! -
    
    L'istitutrice intervenne, mentre le guance della giovane si facevano
    di fuoco.
    
    - Il signore conosce la signorina?
    
    - Chi non la conosce, nei dintorni? - rispose lo sconosciuto. - Io
    vengo spesso da queste parti, ospite del marchese Passiflora: sono
    il conte Livio Rossano. E adesso, prego di perdonare la mia audacia,
    della quale Mietta e la bontà sua, signorina, hanno colpa. -
    
    E salutando di nuovo, s'allontanò.
    
    Sapeva però che il colpo era fatto e che già si trovava più vicino
    alla giovane, che se l'avesse accompagnata.
    
    Infatti il pensiero di Bianca era assorbito dall'immagine del conte
    Rossano, il cui volto le si era impresso nella mente in modo da non
    dimenticarlo più.
    
    Il giorno stesso, mentre essa passeggiava soletta per l'ombroso
    viale che conduceva al cancello della sua villa, vide dietro a
    quello il conte Livio Rossano, immobile a contemplarla. Ma
    incontrando lo sguardo di lei, egli si limitò a salutare e disparve
    subito.
    
    Fin da quel giorno Livio cercò tutti i mezzi per farsi vedere da
    lei, senza però osare di avvicinarla.
    
    Quella rispettosa adorazione conquistò interamente Bianca, che ormai
    si cullava nell'incanto di quell'amore da tutti ignorato.
    
    Erano cominciate le noiose piogge autunnali, che fecero fuggire
    dalla tenuta il marchese Passiflora ed i gentiluomini suoi amici. Ma
    il giorno della partenza di quegli scioperati, Mietta, venuta a
    portare un canestrino di mele a Bianca, introdotta nella stanza di
    questa, si tolse di sotto al grembiulino una lettera che aveva
    nascosta in tasca e gliela porse dicendo:
    
    - Questa è per lei. Gliela manda quel forestiero che voleva darmi i
    soldi per la medicina. - Bianca ringraziò la fanciulla, e appena fu
    sola, lesse la lettera.
    
    «Signorina, il mio ardire susciterà forse il vostro disprezzo,
    Perché avrei dovuto, prima che a voi, rivolgermi a vostro padre. Ma
    come affrontare un colloquio con lui prima di ottenerne il vostro
    permesso?
    
    «Perdonatemi, ma fin da quando vi ho veduta, sono pazzo d'amore per
    voi.
    
    «Voi avete risvegliato la mia anima addormentata, e vorrei rapirvi,
    trasportare in un mondo sconosciuto, dove nessuno potesse
    contendermi la felicità.
    
    «Ascoltatemi: la mia vita è stata finora triste, isolata: perdei mia
    madre troppo presto; mio padre non si è curato mai di me. Egli era
    uno dei viveurs dell'alta società torinese, e siccome ci
    somigliavamo perfettamente, giacché mio padre, colle risorse
    sapienti dell'arte e di un abile cameriere sembrava sempre giovane,
    quasi mio fratello maggiore, così una gran parte delle sue follie si
    attribuivano a me.
    
    «Io lo lasciai credere, tanto più, dopo la morte di mio padre,
    sembrandomi altrimenti di profanare la sua memoria, di mancargli di
    rispetto.
    
    «A voi sola confido questo segreto: a voi sola. Perché se finora non
    mi sono mai curato del giudizio del mondo, se ho portato con
    rassegnazione la mia croce, adesso non è più così. Da che vi amo,
    sento che non potrei sopportare il vostro disprezzo.
    
    «Peraltro, se domani vostro padre chiedesse chi sia il conte Livio
    Rossano e gli rispondessero: «un uomo viziato, un libertino che ha
    consumato nel giuoco e nelle donne quasi tutto il suo patrimonio»,
    io non potrei difendermi senza accusare il padre mio.
    
    «È orribile, credetelo, il soccombere sotto il peso delle calunnie.
    Vostro padre mi rifiuterebbe certo la vostra mano, e voi, Bianca,
    potreste, nel dubbio, respingermi.
    
    «Ecco perché al momento di partire ho voluto farvi la mia
    confessione, ho voluto dirvi che, anche respinto, calpestato, vi
    offrirò in olocausto tutti i miei dolori, ed esausto morirò col
    vostro nome sulle labbra.
    
    «Ma se voi, tocca dai miei segreti dolori, acconsentiste ad amarmi,
    ad essere mia moglie, io vi dovrei più che la vita, vi dovrei
    l'onore, Perché, innalzandomi a voi così pura, nessuno crederebbe
    più allo calunnie lanciate su me; accettando il mio nome, si vedrà
    che non è indegno di voi.
    
    «Bianca, questa è l'ora della mia vittoria o della mia sconfitta. Se
    dopo tutto quanto vi ho detto mi scriverete «venite», io saprò
    convincere vostro padre, saprò lottare da forte, per ottenere il
    diritto di farvi mia moglie.
    
    «Se nulla riceverò alla fine della settimana, qui a Torino, nel mio
    vecchio palazzo del corso Palestro, io vi amerò tuttavia, vi amerò
    da morto come da vivo, e sarò vostro nell'eternità.
    
    «Livio Rossano».
    
    Bianca non si accorse quanto vi fosse di artificioso in quella
    lettera. Nel candore della sua anima, credette a tutto quanto il
    conte aveva scritto. Come non amare quell'uomo che un'ingiustizia
    atroce rendeva responsabile delle follie del padre?
    
    Che importava se era rovinato? Non era essa ricca per entrambi?
    Livio dovrebbe tutto a lei, e sarebbero entrambi felici come
    nessun'altra coppia al mondo.
    
    Bianca non esitò: il giorno stesso scrisse la parola che il conte
    aspettava; «Venite».
    
    Intanto si recò dal padre, cui confessò tutto.
    
    Egli presentì un'insidia sotto quella lettera, e tremò.
    
    Una voce interna gli gridava:
    
    «Quell'uomo mente!»
    
    Ma come convincere sua figlia? A tutte le ragioni la giovinetta
    crollava la testa, dicendo:
    
    - Anche tu scagli la tua pietra contro lui, vittima innocente! Io
    l'amo, l'amo, e se tu rifiuti il tuo consenso al nostro matrimonio,
    non mi resta che morire! -
    
    Il padre fu vinto.
    
    Il conte Rossano non tardò a presentarsi. Egli ammaliò il padre come
    aveva fatto della figlia: la sua aria dignitosa, la sua melanconia
    dissiparono ogni sospetto.
    
    Un anno dopo, Bianca era sua moglie.
    
    Passarono i mesi d'inverno a Torino, il resto nella tenuta del padre
    di Bianca, che non volle muoversi dai suoi possessi per non rendersi
    fastidioso al genero e tenendo presso di sé l'istitutrice della
    figlia per la direzione della casa.
    
    L'anno seguente, col pretesto di alcuni affari, Livio si assentò
    spesso da casa, recandosi più specialmente a Milano; ma ogni giorno
    scriveva alla sposa, e quando tornava a lei si mostrava così
    premuroso, appassionato, che Bianca non ebbe mai il minimo sospetto.
    
    Quell'inverno le assenze del conte furono più frequenti. In ultimo
    trovò la scusa di una zia malaticcia, che non gli conveniva
    trascurare, Perché ricchissima, e della quale egli era il solo
    erede, almeno lo sperava.
    
    Il mercoledì grasso di quel carnevale Livio tornò a casa alla sera
    assai pallido, inquieto,
    
    - Che hai, amor mio? - chiese Bianca spaventata.
    
    - Mia zia sta malissimo e bisogna che io parta. -
    
    Il conte sembrava oltremodo turbato.
    
    - E dire - soggiunse - che non posso condurti meco, Perché, lo
    sai.... la zia voleva darmi per moglie la figlia d'una sua amica
    d'infanzia, e non perdona il mio matrimonio con un'altra! Ora è
    perfettamente riconciliata con me, ma la tua presenza le recherebbe
    dispiacere.
    
    - Oh! io non vorrei per tutto l'oro del mondo turbare una povera
    vecchia morente. Va'.... va' tu solo; io resterò qui a pregare per
    lei.
    
    - Tu sei un angelo! - esclamò il conte baciandola.
    
    Il giovedì mattina, mentre la cameriera spazzolava gli abiti del
    conte, vide un foglio cadere a terra e lo consegnò a Bianca, la
    quale, entrata nella sua camera, lesse la lettera ignobile che già
    conosciamo.
    
    Ciò che provasse in quel momento sarebbe impossibile analizzarlo.
    Era la rovina di tutte le sue illusioni, di tutta la sua felicità!
    
    Versò lacrime amare; ma era troppo intelligente per abbandonarsi
    alla disperazione; e colpita nell'anima, le venne l'idea di
    vendicarsi.
    
    Voleva far soffrire quel miserabile, calpestare sotto i piedi
    l'onore di lui, gettargli in faccia queste parole: «Anch'io ho
    un'amante!»
    
    Bianca sonò il campanello. Celia, devotissima a lei, accorse, ma
    rimase immota dallo stupore: il volto della contessa esprimeva la
    più energica determinazione: i suoi occhi scintillavano di
    arditezza.
    
    - Celia, vai a comprarmi un domino nero, elegantissimo, e una
    maschera: stasera vado al veglione, sola.
    
    - Mio Dio, se il conte lo sapesse...! -
    
    Bianca proruppe in una convulsa risata.
    
    - Mio marito si diverte senza me: è giusto che mi prenda la mia
    rivincita: leggi. -
    
    E le porse la lettera di Cinzia.
    
    Celia la percorse con un'indignazione impossibile ad esprimersi.
    
    - Che infamia, eh? - disse la contessa. - Come ha saputo
    abbindolarmi bene! Ma d'ora innanzi vedrà di che sono capace! Io non
    rivelerò nulla a mio padre per non dargli troppo dolore o Perché
    potrebbe dirmi: «Tu l'hai voluto!» Non chiederò la separazione, ma
    fin da quest'istante ho un solo desiderio: ricambiare il tradimento.
    Vai, dunque, ad eseguire i miei ordini senza che altri lo sappia; mi
    fido di te. -
    
    Celia obbedì. Ella avrebbe voluto accompagnare la padrona al
    veglione, ma Bianca rifiutò.
    
    Quando la servitù fu coricata, la contessa indossò il domino e uscì.
    
    La fidata cameriera sperava che Bianca, pentita del partito preso,
    ritornasse al palazzo prima di entrare al veglione. Per cui si mise
    ansiosa alla finestra, scrutando l'ombra del viale, intenta ad ogni
    rumore di carrozza.
    
    Le ore passavano e Bianca non tornava.
    
    Celia tremava.
    
    Ma a un tratto sentì il rumore di una vettura che si avvicinava.
    
    Si sporse dalla finestra e mormorò:
    
    - È lei.... è lei.... -
    
    Si precipitò ad aprire il portone, proprio al momento in cui Bianca
    pagava il vetturino.
    
    Bianca le battè una mano sulla spalla, dicendole con accento
    carezzevole:
    
    - Sono qui sana e salva, mia buona Celia. Andiamo su: ti racconterò
    tutto! -
    
    La povera donna sentì allargarsi il cuore.
    
    Quando Bianca si trovò nella propria camera, seduta presso il
    caminetto, raccontò alla sua fidata cameriera tutto quanto le era
    accaduto.
    
    La povera donna non perdeva una parola: essa fremé al racconto
    dell'assassinio di Giulietta, ne1 ascoltò trepidante i minimi
    particolari ed applaudì al buon cuore della sua padrona e dello
    studente, che volevano occuparsi dell'orfanella.
    
    Un'ora dopo, la contessa dormiva tranquilla nel suo letto.
    
    VI.
    
    Erano appena suonate la nove quando la contessa, vestita
    semplicemente di panno nero, bussava alla soffitta dello studente.
    
    Aldo le aprì e la riconobbe subito. Con un inchino rispettoso si
    ritrasse indietro per farla passare, ed appena l'uscio fu chiuso le
    prese le mani.
    
    - Quanto vi ringrazio, signora, di essere venuta! -
    
    Bianca si lasciò stringere le manine, ma fissando il giovane coi
    suoi occhi luminosi:
    
    - Signora? - ripetè. - Dimenticate che sono vostra sorella? -
    
    Aldo riprese tosto la sua disinvoltura.
    
    - È vero, Speranza; ma non osavo ricordarvelo temendo di offendervi.
    
    - Se pensassi che da voi potessi avere un'offesa, me ne andrei
    subito. Ho pienamente fiducia in.... mio fratello. -
    
    Vi era una tal semplicità, un tal candore nell'insieme della
    giovane, in ogni sua parola, che Aldo ne fu affascinato.
    
    - Grazie! - ripetè, portandosi questa volta le manine di lei alle
    labbra.
    
    Bianca arrossì un poco ma sedutasi sul divano chiese:
    
    - Ditemi che è successo dopo la mia partenza. -
    
    Egli le disse che la bimba, svegliatasi, chiamava la mamma, non
    voleva che la mamma. Teresa l'aveva portata nella sua soffitta, per
    calmarla.
    
    - Povera angioletta! - disse Bianca con le lacrime agli occhi. - Io
    desidero vivamente di abbracciarla.
    
    - Stamani non ve lo permetto, - rispose Aldo. - C'è nel casamento il
    giudice istruttore: Umberto Trani. -
    
    Bianca divenne pallidissima.
    
    - Io lo conosco! - balbettò. - Le cose s'imbrogliano....-
    
    Aldo la tranquillò:
    
    - No, no, tutto andrà bene! Peraltro, sarà meglio che non torniate
    qui prima che sia finita ogni inchiesta sul feroce assassinio. Io
    dirò che siete partita per Ivrea onde ottenere il consenso di vostro
    marito per adottare la piccina: mia sorella è già avvertita di tutto
    e mi scriverà in conseguenza. Mostrerò la sua lettera al giudice
    istruttore ed a Teresa.
    
    - Che penserà vostra sorella di me? - disse Bianca trepidante.
    
    - Quello che ne penso io stesso: - rispose lo studente - che siete
    degna della massima stima, del massimo rispetto. -
    
    Bianca era commossa.
    
    - Ma voi non conoscete di me che il nome che vi ho dato!
    
    - Mi è bastato vedervi per giudicarvi. Non vi chiedo i vostri
    segreti! per me siete Speranza, una cara sorella, e sono pronto a
    dare tutto il mio sangue per risparmiarvi una lacrima. State dunque
    tranquilla. Se non vi vedrò per qualche tempo, avrete mie lettere
    che vi terranno informata di tutto. Dove debbo scrivervi?
    
    - Scrivete fermo in posta, al nome di Celia Lari. È il nome della
    mia cameriera, una donna fidatissima, che si farebbe ammazzare per
    me. Ora me ne vado: baciate per me la bambina. E il cadavere della
    sua sventurata madre è ancora là?
    
    - No, l'hanno trasportato alla sala anatomica per l'autopsia. -
    
    Bianca ebbe un fremito.
    
    - Povera sventurata! E il suo assassino ha confessato?
    
    - No, egli nega; non ha voluto dire il suo nome; nessuno l'ha
    riconosciuto.
    
    - È strano! -
    
    Rimase un istante pensierosa, quindi chiese:
    
    - Non si potrebbe dare alla vittima onorevole sepoltura perché la
    sua bambina possa un giorno pregare sulla tomba di lei?
    
    - Ci abbiamo già pensato e sta girando nel casamento una
    sottoscrizione per l'acquisto di una fossa privata. Solo nelle
    soffitte, abitate da gente bisognosa, si sono raccolte sessanta
    lire.
    
    - Nobili cuori! Troveremo più tardi il mezzo di soccorrerli
    segretamente.
    
    - Quanto siete buona!
    
    - Cerco d'imitare.... mio fratello. Ma parleremo di tutto ciò più
    tardi. Eccovi intanto il mio obolo per la sottoscrizione. -
    
    Così dicendo si tolse di tasca un elegantissimo portafogli e ne levò
    due biglietti da cento lire. Aldo sussultò.
    
    - Non posso accettarli, Speranza! Un povero studente come me non
    potrebbe fare una tale offerta, e neppure mia sorella. Qual nome
    dovrei dunque mettere sulla lista?
    
    - Un incognito. -
    
    Bianca lo guardava stendendogli la manina. Egli la strinse nella sua
    e si sorrisero. Ma vi era una profonda commozione in quel sorriso.
    
    Poco dopo la contessa lasciava la soffitta,
    
    Il giorno seguente essa ebbe una lettera di Aldo, che le dava
    ragguagli sull'interrogatorio del giudice istruttore, sulla bambina,
    l'esortava a star quieta, non essendovi bisogno della sua
    testimonianza. Poi Aldo aggiungeva:
    
    «Quando sarà finito tutto questo, potrò rivedervi, Speranza? Nel
    dire il vostro nome, mi sento capace delle più nobili cose!
    
    «Voi mi avete fatto molto bene, sorella mia! Chi avrebbe mai detto
    che in una notte di carnevale avrei trovato la mia felicità?
    Peraltro, questa felicità, nata da un dolore, mi fa quasi paura. Ma
    non voglio pensarci adesso. Se la felicità non esiste sulla terra,
    noi la creeremo a forza di doveri, di lotte, di sacrifizi.»
    
    Bianca lesse più volte quella lettera, presa da un incanto nuovo,
    quasi una nuova luce sorgesse nella sua esistenza.
    
    Aldo le scrisse tutti i giorni, e Bianca già obliava il marito in
    quella pura ebbrezza dello spirito, quando il conte Rossano, di
    ritorno, la svegliò dal suo sogno.
    
    Ma allora tutta la sua anima si ribellò, il ricordo del tradimento
    risorse e la contessa ricevette il conte come abbiamo veduto.
    
    Rimasta sola nello spogliatoio, essa riandava il passato, allorchè
    Celia entrò.
    
    - Ho una lettera da consegnarle, - disse.
    
    - Dammela subito, Ho bisogno di respirare qualche cosa di puro. -
    
    Afferrò bramosa la lettera di Aldo, ma appena l'ebbe aperta, tornò
    pallidissima. Essa lesse ad alta voce:
    
    «Speranza, tutto il nostro piano si sfascia.
    
    «Ieri il giudice istruttore mi fece chiamare nel suo gabinetto e mi
    chiese, guardandomi fisso:
    
    «- Vostra sorella non è più tornata a Torino?
    
    «- No, signore, - risposi.
    
    «- Ebbene, telegrafatele che urge la sua presenza. -
    
    «Mi turbai, ma risposi:
    
    «- Bene! Telegraferò. -
    
    «Appena fui lungi dagli sguardi del giudice istruttore, ebbi un
    momento di disperazione.
    
    «Che è successo Perché il giudice istruttore mi abbia fatto tale
    intimazione?
    
    «Per certo, se telegrafassi a mia sorella, essa partirebbe subito;
    ma, una volta qui, la gente del casamento mi smentirebbe, Perché mia
    sorella non vi assomiglia affatto: è bionda come una spiga matura,
    piccola, grassa, tutto l'opposto di voi, insomma. C'è da diventare
    pazzi! Per me, non temo: sopporterei anche la prigionia, purchè
    foste salva; ma se avessero qualche indizio su voi, se il confessare
    che non vi conosco non bastasse a allontanare ogni pericolo? Se lo
    potete, venite senza indugio da me: io non mi muoverò di casa per
    attendervi. Voi non sapete in che stato mi trovo al pensiero di non
    aver potuto mantenere la mia promessa, salvarvi da una pubblicità.
    Non ragiono più, e se non vi vedessi, sento che commetterei qualche
    pazzia. Perdonatomi questa lettera insensata, ma voi avete il cuore
    troppo nobile per non comprendere lo stato d'animo del vostro
    sventuratissimo fratello.»
    
    - Povero Aldo! - mormorò Bianca, che si era rimessa dal primo moto
    di terrore. - Egli sarebbe capace di tutto per impedire a me un
    dolore: tocca a me, ora, a consolarlo.
    
    - Che intendete fare? - chiese Celia spaventata.
    
    Bianca si alzò, tranquilla.
    
    - Andrò dal giudice istruttore, - rispose. - Lo conosco, è un
    gentiluomo, non mi perderà, -
    
    Indi aggiunse con un gesto vago:
    
    - E poi, se mi perdesse, che m'importa, ora?
    
    - Contessa, - disse Celia - pensi a suo padre! -
    
    I bellissimi occhi di Bianca si velarono.
    
    - Hai ragione! - mormorò.
    
    E dopo un momento di silenzio:
    
    - Dammi il mio abito da mattina, - disse con vivacità, - Hai
    sentito? Aldo mi aspetta. Sta' sicura, non mi accadrà nulla di male!
    -
    
    Un quarto d'ora dopo, la contessa usciva.
    
    VII.
    
    L'assassino aveva subito un primo interrogatorio nel gabinetto del
    giudice istruttore, ma a tutte le domande di questi si rifiutò di
    rispondere, giurando che era innocente.
    
    Nel camiciotto del pierrot, nelle tasche dei calzoni nulla si era
    trovato che potesse stabilirne la identità.
    
    Ma il giudice istruttore, rileggendo i punti salienti
    dell'inchiesta, fu colpito da una osservazione che dapprima gli era
    sfuggita.
    
    Era il rapporto dell'ispettore e di un agente, i quali avevano
    osservato l'effetto prodotto dalla vista della sorella di Aldo
    Pomigliano sulla povera Giulietta, la quale pronunziò parole strane
    a suo riguardo:
    
    - Lei? Lei? Ma non sa....? -
    
    Dunque, costei conosceva la giovane, e forse lo studente stesso era
    stato in intimi rapporti colla sventurata.
    
    Assalito da questi sospetti, Umberto Trani fece chiamare
    l'ispettore, interrogandolo su questa circostanza.
    
    - Io dubito, - rispose l'ispettore - che quella signora sia sorella
    dello studente. Il signor Aldo Pomigliano non è ricco, e a furia di
    sacrifici riesce a sbarcare il lunario. Ora quella signora portava
    orecchini di brillanti di una grossezza maravigliosa, aveva le dita
    cariche di anelli di valore, un abito ricchissimo. A me pare che una
    provinciale non vestirebbe in tal guisa per recarsi a trovare un
    fratello povero nelle soffitte.
    
    - Avete ragione. Quello studente mi ha gabbato. Ma saprò fargli
    pagar cara la sua astuzia. Intanto vi ringrazio delle vostre
    informazioni. -
    
    Dopo un paio di giorni, il Trani fece chiamare Aldo, cui disse
    semplicemente che telegrafasse alla sorella di venire a Torino,
    avendo necessità di parlare con lei.
    
    Quando Aldo, sconvolto, era uscito dal gabinetto del giudice, vi
    entrò un agente per avvertirlo che Teresa, colei che teneva in
    custodia la bimba della vittima, veduto il ritratto che la questura
    aveva fatto fare all'assassino, l'aveva riconosciuto per il
    seduttore della povera Giulietta.
    
    Il magistrato si fregò le mani dalla soddisfazione.
    
    - Siamo in porto! - esclamò. - Le lettere della vittima ci danno il
    nome dell'assassino. -
    
    Ne prese una dal pacchetto che aveva sopra lo scrittoio, ne guardò
    la firma e fece un gesto di trionfo.
    
    - Fabio Ribera! Si vede che egli non supponeva che la sua vittima
    conservasse tutte le sue lettere. Ora sarà facile avere delle
    informazioni su lui; procuratemele. -
    
    La sera dello stesso giorno ebbe un esteso rapporto sull'assassino.
    
    Fabio Ribera era designato come un giovane onestissimo, commesso in
    un negozio di mode. Dieci giorni prima del fatto, aveva chiesto al
    principale di assentarsi per un mese, dovendo recarsi fuori di
    Torino per affari di famiglia. Per cui il principale lo credeva in
    viaggio.
    
    Nessuno poteva prestar fede all'accusa contro lui, tanto il suo
    tenore di vita era quieto. E poi, si sapeva che amava una buona
    fanciulla, commessa nello stesso negozio, e che dovevano presto
    sposarsi. Anzi, la giovane era persuasa che il suo Fabio si trovasse
    lungi da Torino, appunto per ritirare carte relative al loro
    matrimonio. Il giudice istruttore era pensieroso.
    
    - La matassa è più imbrogliata di quello che credevo! - diceva fra
    sé. - Se il rapporto dice il vero, quale sarebbe stato il movente
    dell'assassinio? Forse che Teresa, la moglie del falegname, si è
    ingannata credendo di riconoscerlo? Li metterò a confronto. -
    
    Il domani, verso le dieci, il prigioniero fu condotto nel gabinetto
    del magistrato.
    
    - Ebbene, persistete a negare di essere stato l'assassino di
    Giulietta, sebbene designato da lei stessa prima di morire? - gli
    domandò il magistrato.
    
    - Sì, signore.
    
    - Chiamate la teste! - disse il giudice al cancelliere. L'accusato
    si rivolse verso l'uscio di entrata e si trovò a faccia a faccia con
    Teresa.
    
    Ma egli non fece alcun gesto di sorpresa, come se si fosse trovato
    dinanzi ad una persona sconosciuta.
    
    Teresa, invece, dopo averlo guardato un momento, gridò con accento
    indignato:
    
    - Sì, lo riconosco, è lui, il birbante! È il fidanzato di Giulietta,
    colui che vidi spesso con la poverina!
    
    - V'ingannate! - rispose il giovane.
    
    - Ah! m'inganno? La vedremo, assassino!... Sei proprio tu: ti
    riconosco dal neo che hai sulla guancia. -
    
    Il giudice istruttore soggiunse:
    
    - Ormai è inutile che neghiate, Fabio Ribera! -
    
    Un tuffo di sangue salì al viso dell'accusato.
    
    - Sapete il mio nome? - balbettò.
    
    - Sappiamo tutto quanto vi riguarda, e le vostre lettere da voi
    firmate, scritte a quella povera infelice, sono qui ad attestare la
    vostra iniquità verso colei che, dopo essere stata vittima di
    un'infame seduzione, fu da voi assassinata! -
    
    L'accusato ascoltava come se non capisse.
    
    - Le mie lettere? Firmate da me?
    
    - Sì, da voi, guardate: non riconoscete la vostra calligrafia, la
    vostra firma? -
    
    Così dicendo, il giudice istruttore pose sotto gli occhi
    dell'accusato il foglio tolto poco prima dal pacchetto.
    
    Il giovane lo guardò, e subito cadde svenuto.
    
    Quello svenimento fu per il magistrato una prova luminosa della
    colpabilità del giovane.
    
    Fabio non tardò a rinvenire.
    
    Egli aveva cambiato interamente aspetto.
    
    Vi era in lui qualche cosa di risoluto, come se compiesse un dovere
    penoso dinanzi al quale non si indietreggia.
    
    - Sono pronto a rispondere a tutte le vostre interrogazioni! -
    disse.
    
    Un lampo di trionfo passò negli occhi del magistrato, che riunite
    alcune carte e fatto un segno al cancelliere, disse all'accusato:
    
    - Prima di tutto, il vostro nome e cognome?
    
    - Lo sapete: Fabio Ribera.
    
    - La vostra età?
    
    - Ventitrè anni.
    
    - Dove siete nato?
    
    - A Torino.
    
    - La vostra professione?
    
    - Commesso in un negozio di mode.
    
    - Confessate di aver colpito volontariamente, coll'intenzione di
    uccidere, l'operaia Giulietta Lovera, detta la Bionda?
    
    - Lo confesso.
    
    - Il vostro delitto è stato premeditato?
    
    - No. Giulietta stessa mi ci spinse.
    
    - In qual modo?
    
    - Un tempo Giulietta fu mia amante. Ma poi la incontrai due volte al
    ballo pubblico con un individuo che non volle dirmi chi fosse;
    incontrai lo stesso individuo una sera sulle scale della sua
    abitazione e fin da quel momento ruppi ogni relazione con lei.
    
    - Cioè, non vi faceste più vedere, senza spiegarle il motivo della
    rottura. Agiste da vile. Quando l'abbandonaste, sapevate di averla
    resa madre?
    
    - No; seppi un mese fa che essa aveva una bambina, ma non sono
    sicuro della mia paternità.
    
    - Calunniate la morta!
    
    - Ho tutto il diritto di fare questa supposizione, dal momento che
    Giulietta mi nascose il suo stato. E confrontando la data della
    nascita della piccina, è facile desumere che la giovane era già
    madre prima della nostra separazione.
    
    - Da quando la lasciaste, non la rivedeste più?
    
    - La vidi un mese fa. Non pensavo più a lei, vivevo tranquillo,
    quando una mattina nell'uscire di casa m'imbattei con Giulietta.
    Essa mi disse:
    
    «Venivo a cercarvi.
    
    «-Sono ai vostri ordini, - risposi.
    
    «Capivo che era inevitabile una spiegazione.
    
    «La condussi nel mio piccolo alloggio, le chiesi ciò che desiderava.
    
    «Giulietta mi rimproverò la mia condotta, insultandomi. E fu allora
    che mi rivelò la sua maternità,
    
    «Ma io a mia volta le risposi indignato che non la credevo, e allusi
    ad altri suoi sconosciuti amanti.
    
    «Giulietta andò su tutte le furie. Poi mi intimò di abbandonare la
    fanciulla che da tre mesi è mia fidanzata e che dovevo sposare dopo
    Pasqua. Le chiesi con qual diritto mi imponeva questo, ed aggiunsi
    che mai avrei acconsentito al suo volere.
    
    «Giulietta replicò:
    
    «- Lo farete, altrimenti andrò io stessa da quella giovane,
    mostrandole la vostra creatura. -
    
    «Ebbi paura. Io amo Ilda, e sono da lei riamato. Se Giulietta si
    fosse presentata davvero a lei, la giovinetta non avrebbe più voluto
    saperne di me.
    
    «La scongiurai di desistere dalla sua idea, le offersi perfino di
    passarle una pensione per la bambina.
    
    «Tutto fu inutile.
    
    «Se fra quindici giorni non ho prove sicure che l'avete abbandonata,
    - mi disse - penserò io ad allontanarvi da lei. -
    
    «Se ne andò, senza che io avessi la forza di trattenerla. -
    
    Il magistrato l'aveva ascoltato con aria severa.
    
    - Allora, - disse - concepiste il disegno di assassinarla?
    
    - No, - rispose Fabio. - Io provavo soltanto un rancore amaro contro
    Giulietta, cui scrissi supplicandola di risparmiarmi, soprattutto di
    risparmiare Ilda. Ma più io mi umiliavo, più Giulietta diveniva
    crudele.
    
    «Vi dò altri otto giorni di tempo, - rispose alle mie preghiere -
    spirati i quali sarò inesorabile! Se io non avrò il vostro anello di
    sposa, non l'avrà neppur l'altra; è giustizia. -
    
    «Ero furente, ma non pensavo di ucciderla. Volli avere un ultimo
    colloquio con lei, deliberato a suicidarmi se ella fosse
    inflessibile.
    
    «Scelsi, per recarmi da Giulietta, la sera di giovedì grasso, sicuro
    che una parte degli inquilini delle soffitte sarebbero assenti. Io
    tenevo ancora una chiave della stanza di Giulietta.
    
    «Non sapendo quello che potesse accadermi, avevo chiesto un permesso
    al mio principale, dicendo di assentarmi da Torino per andare a
    ritirare delle carte concernenti il mio matrimonio.
    
    «Passai parte della sera girovagando per le strade nel mio costume
    da pierrot.
    
    «Era quasi la mezzanotte quando mi decisi di arrischiare tutto, pure
    di non perdere Ilda.
    
    «Salii le scale, introdussi la chiave nella serratura e stavo per
    aprire, allorchè il rumore di gente che saliva le scale mi fece
    spengere il cerino e dirigere da quella parte.
    
    «Mi trovai a faccia a faccia col giovane che poi mi arrestò e che mi
    pento non avere strangolato. Egli teneva stretta al braccio una
    signora elegantissima, in domino nero.
    
    «La mia presenza li rese muti; forse ispirai loro paura. Il giovane
    si affrettò ad aprire il suo uscio, a introdurre la signora, e
    disparve con lei.
    
    «Allora entrai a mia volta nella soffitta di Giulietta, e accesi una
    candela.
    
    «La giovane dormiva.
    
    «Io la svegliai, chiamandola per nome.
    
    «Essa aprì gli occhi ed esclamò:
    
    «- Tu! Che vieni a far qui, a quest'ora? Come sei entrato?
    
    «- Colla chiave che mi desti un giorno tu stessa: domani scade il
    termine da te impostomi, e vengo per sapere se sei decisa a
    rovinarmi, a distogliere da me la fanciulla che amo.
    
    «- Miserabile! - esclamò. - Non mi rovinasti, tu? No, non ti
    risparmierò!... Voglio che Ilda ti disprezzi, ti odi! -
    
    «Perdetti la testa.
    
    «- E se io ti facessi tacere per sempre? - le dissi.
    
    - Tu?... Ma io chiamerò aiuto.... Assassino!... -
    
    «Alzava la voce; io non fui più padrone di me, e colpii, eccitato
    dalle grida di lei, cieco di furore, di rabbia.
    
    - E non pensaste all'innocente creatura che riposava tranquilla
    presso sua madre e che è vostra figlia? - disse il giudice
    istruttore.
    
    - Respingo in modo assoluto tale paternità.
    
    - Non vi pentite di aver uccisa la giovane che un giorno amaste?
    
    - No; essa mi ha spinto al delitto minacciandomi di farmi perdere
    l'amore di Ilda.
    
    - L'avete perduto lo stesso, macchiandovi le mani di sangue. Credete
    che, se quella giovinetta è onesta, possa amare un assassino? Voi le
    desterete orrore.
    
    - Non lo dite, non lo dite, o impazzo! -
    
    Ed il giovane, fino allora risoluto, quasi calmo, divenne tremante,
    agitato, i suoi occhi si empirono di lacrime, le sue mani si
    torcevano con violenza.
    
    A stento potè firmare il suo interrogatorio, così che la calligrafia
    apparve ben diversa da quella delle lettere. Ma il magistrato non vi
    pose mente, e se anche l'avesse osservato, non ne avrebbe fatto caso
    tanto la mano del giovane tremava.
    
    Fabio fu condotto via.
    
    Mentre egli usciva dal gabinetto del giudice istruttore, una signora
    elegante, che aveva consegnato allora un biglietto per il magistrato
    ed attendeva di essere ricevuta, trasalì nel vedere l'imputato.
    
    Eppure Bianca, giacché era lei, non conosceva l'assassino di
    Giulietta! Ma quel giovane pallido, di aspetto quasi femmineo, le
    ricordò vagamente suo marito.
    
    L'assassino, dal canto suo, sussultò alla vista di quella signora
    nella quale riconobbe il domino di quella notte funesta in cui aveva
    naufragato tutta la sua felicità.
    
    Bianca entrò nel gabinetto del giudice istruttore. Egli le andò
    incontro coi segni del più profondo rispetto.
    
    - Desiderate parlarmi? Posso esservi utile in qualche cosa, contessa
    Rossano?
    
    - Non contessa Rossano; - rispose Bianca con voce debole, ma ferma -
    sibbene la sorella di Aldo, il domino misterioso che si trovò
    presente alla morte della povera Giulietta assassinata! -
    
    VIII.
    
    Il conte Livio Rossano era stato colpito come da una mazzata sul
    capo per la scenata della moglie.
    
    Entrando nel proprio appartamento, stringeva ancora fra le dita
    convulse la lettera di Cinzia, Ah! se avesse avuto in quel momento
    l'amante nelle mani!
    
    Era irritato anche con la cameriera, ben supponendo che costei
    avesse trovato il biglietto e lo avesse consegnato alla contessa.
    
    - Quella pettegola mi ha sempre veduto di mal occhio! - pensava. -
    Le torcerei volentieri il collo.... Capisco che per Bianca quella
    lettera era crudele; ma credevo che tutto si sarebbe risolto con una
    crisi di lacrime; invece mi ha detto che le fo nausea! Basta, il
    meglio che io possa fare è di fingere un pentimento sincero, finchè
    lei stessa, commossa, mi stenda la mano. La sua collera non può
    durare, mi ama troppo! -
    
    Questo pensiero lo calmò.
    
    Non era la prima volta che il conte si trovava mischiato a drammi
    intimi, e sempre ne era uscito serenamente, grazie alla sua
    ipocrisia.
    
    Un commediante non avrebbe saputo fingere meglio l'emozione, il
    dolore, la passione, mentre nel suo interno rimaneva impassibile.
    
    Quando Livio Rossano aveva raccontato a Bianca la sua dolorosa
    storia, non aveva detto una sola parola vera. Egli assomigliava a
    sua madre morta, una donna bellissima, la quale ingannò il marito
    fino all'ultimo istante, senza che il disgraziato se ne accorgesse
    mai.
    
    Il conte Sebastiano Rossano, padre di Livio, era stato un galantuomo
    in tutta l'estensione del termine, un galantuomo che la moglie e poi
    il figlio sfruttarono fino alla morte.
    
    In passato la famiglia Rossano era stata potentissima, ricca; ma,
    come tante altre nobili famiglie piemontesi, aveva consumato quasi
    tutto il suo patrimonio per la redenzione della patria.
    
    Onde, colla sostanza esigua rimasta, il conte Sebastiano non avrebbe
    potuto vivere; ma, impegnato il suo piccolo capitale negli affari,
    ebbe tale fortuna, che in pochi anni riuscì ad ammassare un discreto
    patrimonio, e, se il figlio fosse stato come lui laborioso, le
    ricchezze di un tempo sarebbero rientrate nella casa.
    
    Ma Livio voleva godersi la vita, e, se pianse alla morte della
    madre, non versò una sola lacrima quando gli mancò il padre.
    
    Libero di sé, si diede allo più pazze orge, alle più volgari
    avventure e ne uscì in completa rovina.
    
    Fu in quel frattempo che, invitato dal marchese di Passiflora, sentì
    parlare della bellezza di Bianca e dei suoi milioni.
    
    Questi soprattutto gli ispirarono il desiderio di conquistare la
    giovane. E vi riuscì.
    
    Solamente il padre di Bianca, diffidando di Livio, stabilì nel
    contratto di matrimonio che la dote di Bianca fosse inalienabile,
    che il marito non potesse toccare la minima parte del capitale senza
    il consenso della moglie.
    
    Livio non fece opposizione, Perché sicuro dell'amore di Bianca aveva
    la certezza di piegarla ad ogni suo volere. Ma dopo l'accaduto pensò
    che se per sua colpa avveniva una separazione, perderebbe tutti i
    beni dotali.
    
    Livio provò un fremito di collera e di paura al tempo stesso a
    questo pensiero.
    
    Egli ormai non avrebbe più potuto rinunciare alla vita splendida che
    conduceva.
    
    Inoltre, se il conte non amava sua moglie, andava orgoglioso della
    bellezza di lei e ambiva a possederla.
    
    All'ora della colazione Livio passò nella saletta dove egli e Bianca
    erano soliti prendere i pasti, quando si trovavano soli.
    
    Era una saletta elegantissima, munita di tutto il confortabile,
    calda e profumata.
    
    Ma al primo entrare, vide una sola posata sulla tavola
    apparecchiata.
    
    Aggrottò le sopracciglia, ma vedendo entrar Celia, assunse
    un’espressione melanconica e domandò: - Mia moglie non viene a
    colazione?
    
    - La signora contessa - rispose Celia - è uscita. Ora suonerò,
    Perché lei sia servito.
    
    - Un momento, - soggiunse Livio. - Vorrei prima parlare con voi. Per
    colpa vostra mia moglie è in collera con me. Sono sicuro che voi
    stessa le consegnaste la lettera trovata nella mia tasca.
    
    - Sapevo forse che cosa fosse scritto in quel foglio? - disse Celia.
    - Credevo si trattasse semplicemente di un conto. Quantunque io la
    sappia lunga sul conto suo, caro signore, e conosca molti suoi
    intrighi, non lo avrei mai denunziato alla signora, non per riguardo
    a lei, ma alla contessa. -
    
    Livio trasalì. Tuttavia chiese:
    
    - Che sapete? Sentiamo.
    
    - Non ho bisogno di dirglielo; interroghi la sua coscienza.
    
    - La mia coscienza di nulla mi rimprovera: io sono vittima di
    calunnie! -
    
    Celia sbuffava.
    
    - La lascio, Perché ne direi troppe e non ho tempo da perdere con
    lei. -
    
    E suonando il campanello elettrico, disse al domestico accorso:
    
    - Servite il signor conte: la contessa tornerà più tardi. -
    
    Essa uscì dalla saletta lasciando Livio in preda ad una terribile
    agitazione.
    
    - Che può sapere costei? - pensava, - Avrei paura, adesso, io, che
    non ho mai saputo che sia timore? Celia me la pagherà! Ma non
    bisogna commettere imprudenze. -
    
    Dopo colazione, il conte indossò il soprabito, i guanti, prese il
    cappello ed uscì.
    
    In istrada consultò l'orologio.
    
    - Il tocco! - mormorò. - Se andassi da Fabio? A quest'ora deve
    trovarsi a casa! -
    
    Si recò in via Garibaldi, entrò in un portone, e senza fermarsi in
    portineria, salì le scale fino al quarto piano. Bussò ad una porta,
    su cui era incollato un biglietto da visita col nome di Fabio
    Ribera.
    
    Bussò due volte senza averne risposta. Livio fece un gesto di
    malumore.
    
    - Sarà andato dalla sua bella! - pensò, ridiscendendo le scale, - È
    strano che non mi abbia fatto saper nulla, come eravamo intesi. Se
    mi recassi da Ilda? Ma no, è meglio che ci vada stasera; sarò più
    sicuro di trovarli insieme. -
    
    Entrò in un caffè, dove chiese una bibita ed i giornali. Ne spiegò
    uno per passare il tempo e ad un tratto divenne pallido come un
    cadavere.
    
    Leggeva le seguenti righe:
    
    «Nulla ancora si è scoperto circa l'assassinio di Giulietta Lovera.
    L'uomo mascherato da pierrot, arrestato sul luogo la sera del
    giovedì grasso, il presunto assassino, si mantiene negativo ed
    ancora non si è potuto sapere il suo nome. Si dice che siano stati
    fatti altri arresti, ma per ora ci è duopo mantenere il silenzio
    onde non intralciare l'opera della giustizia.»
    
    Il conte chiamò il cameriere, cui disse:
    
    - Vorrei i numeri arretrati di questo giornale! - Un momento dopo il
    cameriere tornava con un fascio di giornali.
    
    Il conte cercò fra essi il numero del venerdì grasso e vi trovò
    tutti i ragguagli dell'assassinio.
    
    Il foglio tremava nelle sue mani.
    
    - Ed io non ho saputo nulla! - mormorò. - Ma come potevo credere
    Fabio capace di tanto? E si è fatto arrestare? Adesso è finita....
    non potrà negare a lungo.... si saprà il suo nome, e non se la
    caverà con poco. -
    
    Sembrava che quest'ultimo pensiero lo sollevasse, gli rendesse la
    calma.
    
    Quand'ebbe finito di leggere, chiese un altro caffè.
    
    - Bisogna che stasera vada da Ilda; - disse - da lei saprò tutto. -
    
    Tuttavia tornò al palazzo verso sera. La contessa era a casa, e
    quando si trovò a pranzo di fronte a lei gli parve di non averla mai
    veduta più bella.
    
    Infatti, Bianca aveva il volto animato, gli occhi brillanti, un
    fascino nuovo in tutta la persona.
    
    Anche Celia, che serviva a tavola, sembrava contenta.
    
    Livio invece si sentiva turbato e socchiudeva gli occhi per meglio
    guardare sua moglie; notò che questa non si curava affatto di lui e
    mangiava con appetito.
    
    Quando la tavola fu sparecchiata e Celia si ritirò, il conte,
    avvicinatosi a Bianca, con voce tenera le disse:
    
    - Siete sempre in collera con me?
    
    - Non dimentico! - rispose Bianca con fierezza. - Credevo che, dopo
    le vostre parole, non avreste più tentato un inutile avvicinamento.
    Ma giacché mi sono ingannata, vi dirò come intendo di regolare d'ora
    innanzi la mia vita, a meno che preferiate una separazione....
    
    - Separarmi da voi, Bianca? Non è possibile -
    
    Ella rimase impassibile, ma gli occhi che si fissavano su Livio
    avevano un'espressione strana, che lo spaventarono.
    
    «- Ciò avverrà, - dichiarò risoluta - se continuerete la parte
    ipocrita rappresentata fino ad ora. Alle corte, ecco ciò che ho
    deciso: voi sarete libero come se fossimo separati, pur continuando
    a godere le rendite che aveste finora, padronissimo di mantenere
    delle amanti qui od altrove, purchè rispettiate il tetto coniugale.
    
    - Bianca! -
    
    Ella proseguì:
    
    - Dal canto mio non avrò più nulla di comune con voi; se ci
    troveremo all'ora dei pasti, li faremo insieme come due estranei che
    s'incontrano in un albergo, serviti da Celia, la sola che sia a
    parte di ciò che avviene fra noi. -
    
    La fisionomia di Livio aveva assunto un'espressione tetra.
    
    - Accetto - diss'egli - Perché spero col tempo di farvi ricredere
    sul conto mio e di riacquistare quell'amore che senza colpa ho
    perduto. -
    
    Bianca non aggiunse altro e lasciò la stanza.
    
    Livio impallidì dalla collera, ma non tardò a rimettersi.
    
    - Al diavolo anche lei! - mormorò. - Alla fin fine che m'importa!
    Che io possa conquistare Ilda, e non rimpiangerò mia moglie! -
    
    Ormai sicuro che le rendite non gli sarebbero sfuggite, riacquistò
    tutta la sua baldanza ed uscì per recarsi dalla fidanzata di Fabio.
    
    Ilda abitava in un modesto appartamento a un quinto piano di via
    Santa Teresa. Era sola con sua madre, una vecchia infermiccia, che
    viveva di una piccola rendita lasciatale da una padrona presso la
    quale era stata a servizio per più di quarant'anni. Suo marito era
    stato cocchiere della stessa casa. Avevano avuto quell'unica figlia,
    che formava ormai tutto il tesoro della povera vecchia, la quale non
    aveva sperato, maritandosi a quarantadue anni, di diventare madre.
    Il padre di Ilda era morto quando la fanciulla compiva i sette anni,
    e la padrona consigliò la madre di mettere la figlia in un collegio
    di monache, finchè fosse in età di guadagnarsi la vita. La donna
    seguì il consiglio; ed Ilda rimase per oltre otto anni in collegio.
    Quando ne uscì, abile in tutti i lavori, trovò subito da occuparsi.
    Ma il guadagno era esiguo, per cui accettò un posto di commessa in
    un elegante magazzino di mode, e lavorò a casa la sera, accanto alla
    madre.
    
    Ilda era una bellissima giovinetta.
    
    Slanciata, elegante anche nel suo vestitino da pochi soldi, aveva
    una di quelle fisionomie che destano simpatia al primo vederle.
    Pallida, bruna, con gli occhi verde mare, aveva alcun che d'ardito e
    d'intelligente.
    
    Ilda amò Fabio teneramente. Non era bello, ma aveva un fascino sulla
    buona fanciulla.
    
    Fabio le aveva raccontato la sua semplice storia.
    
    Non aveva conosciuto i genitori. Una nobile dama si prese cura di
    lui, lo fece allevare, e venuta a morte quando egli compiva i dieci
    anni, un figlio di lei l'aveva surrogata in quell'opera di carità.
    Quell'uomo generoso lo aveva fatto studiare, per metterlo in grado
    di guadagnarsi la vita. Fabio non aveva avuto fino allora altro
    affetto che quello del gentiluomo, il quale lo trattava come un
    fratello e per il quale avrebbe dato a goccia a goccia tutto il suo
    sangue.
    
    Egli volle presentare ad Ilda il suo benefattore, che si mostrò con
    lei molto gentile, approvò la scelta di Fabio e promise di mobiliare
    a sue spese il quartiere per gli sposi.
    
    Ilda, commossa, lo ringraziò, ma quando, sola col fidanzato, questi
    le chiese quale impressione avesse avuto del suo benefattore, la
    giovane rispose:
    
    - Vuoi che te lo dica, Fabio? Se non sapessi che ha soltanto dodici
    anni più di te, lo direi tuo padre. Egli ti assomiglia molto. Avete
    eguale anche il colore degli occhi; ma il suo sguardo non è il tuo,
    non mi piace....
    
    - Di' la verità: non ti è rimasto molto simpatico?
    
    - No, ma devi perdonarmi. Vi sono persone che non piacciono a prima
    vista, e che, frequentandole, si finisce con l'amarle.
    
    - Hai ragione, Ilda mia, e vedrai che, conoscendo meglio il conte,
    lo adorerai, Perché è un cuor d'oro, un'anima elevata.
    
    - Ne sono persuasa. Ha moglie?
    
    - Sì, - rispose Fabio - ma io non la conosco, Perché non mi sono mai
    recato a casa del conte. Egli si occupa di me, viene qualche volta a
    trovarmi, desidera che ricorra a lui in qualsiasi circostanza, ma vi
    è troppa distanza sociale fra noi, Perché io frequenti la sua casa.
    Anzi, ti prego di non parlare del conte a nessuno. A te ho voluto
    dir tutto, a te ho voluto presentare il conte perché voglio che tu
    sia a parte di tutti i segreti della mia vita, che tu mi conosca
    interamente, come ormai credo di conoscere te, unico mio amore! -
    
    Ilda era troppo felice per non approvare la delicatezza del
    fidanzato.
    
    La loro felicità durava da qualche mese, il loro amore andava ognor
    crescendo.
    
    Ma la loro felicità durò poco.
    
    Fabio lasciò una sera Ilda dicendole che doveva partire per il paese
    natio a cagione di alcune carte relative al loro matrimonio.
    
    Ilda si accòrse che nel lasciarla egli aveva le lacrime agli occhi e
    ne fu spaventata.
    
    - Che hai?... Dimmi, che hai? Si direbbe che stia per accaderti
    sventura.
    
    - No, Ilda; sono triste Perché anche un breve distacco da te mi
    addolora; ma quando tornerò tutto sarà finito e nessuno ci separerà
    più.
    
    - Hai avvertito il conte della tua partenza? -
    
    Fabio sussultò.
    
    - Il conte è lontano da Torino con sua moglie. Dammi un bacio, Ilda,
    e addio.
    
    - No, a rivederci presto. -
    
    E soggiunse con un sorriso pieno di dolcezza:
    
    - Forse che non vorresti tornare, abbandonarmi? -
    
    Fabio la strinse fra le sue braccia.
    
    - Abbandonarti? - esclamò con veemenza. - È più facile che tu....
    
    - Io? - disse Ilda troncandogli la parola in bocca. - Ah! tu non mi
    conosci ancora. Ti ho giurato d'esser tua per sempre, e se qualche
    fatalità dovesse separarci, io manterrei lo stesso il mio
    giuramento. O tua, o di nessuno!
    
    - Grazie, Ilda, grazie! Ora parto più contento! -
    
    Ma i giorni scorsero ed Ilda più nulla sapeva di lui, né poteva
    comprendere quell'inesplicabile silenzio.
    
    Una sera, rincasando, trovò presso sua madre un delegato e due
    agenti che venivano a interrogarla sul fidanzato che si trovava in
    prigione accusato d'assassinio.
    
    Ilda si ribellò.
    
    - Fabio un assassino! - disse con veemenza. - Pazzo chi lo dice!
    
    - Egli stesso ha confessato!
    
    - È una menzogna! Perché avrebbe assassinato? A quale scopo?
    
    - Lo saprete, signorina, - disse il delegato - Perché verrete
    chiamata dal giudice istruttore. Intanto, abbiate pazienza, ma
    dobbiamo eseguire una perquisizione.
    
    - Una perquisizione in casa mia? Forse per trovare le prove del
    delitto? Mamma, li senti? -
    
    Ma la povera vecchia, fulminata da quella notizia e più ancora dalla
    presenza delle guardie, era svenuta. Allora Ilda non pensò più che a
    sua madre, e mentre gli agenti rovistavano inutilmente dappertutto,
    la fanciulla, inginocchiata presso la povera donna, la faceva
    rinvenire.
    
    - Mamma, rassicurati, - le disse quando la vecchia tornò in sé -
    Fabio è innocente. Lascia che quegli uomini facciano il loro dovere;
    noi non abbiamo nulla da temere, nulla da rimproverarci. -
    
    Il delegato guardò quel gruppo con rispetto.
    
    Egli credette bene intervenire.
    
    - La signorina ha ragione; - disse - lei deve stare tranquilla; ciò
    che noi abbiamo dovuto compiere è una semplice formalità. Del resto,
    è già finito, e ce ne andiamo. -
    
    Fece un cenno alle guardie ed uscirono.
    
    La vecchia mormorò:
    
    - Dio, che colpo! Ma tu dici bene, cara: Fabio non può essere un
    assassino!
    
    - Non lo è, credilo, c'è qualche sbaglio, e non tarderanno a
    saperlo. -
    
    Proprio in quella sera, il conte Livio Rossano, il protettore di
    Fabio, si recava dalla fanciulla, persuaso che ella conoscesse
    maggiori particolari sul delitto, di quelli appresi dal giornale.
    
    Quando la giovane, al suono del campanello, si recò ad aprire e si
    vide dinanzi il conte, lasciò sfuggire un grido di gioia.
    
    - Lo manda Dio! - esclamò. - Venga, signor conte: ora non temo più
    nulla. -
    
    Livio fece un gesto di stupore, assai bene simulato.
    
    - Che succede? - chiese con dolcezza, mentre seguiva la giovane
    nella stanza in cui era la povera vecchia. - Sono stato a casa di
    Fabio, e non l'ho trovato.
    
    - Fabio è stato arrestato, signor conte, - disse la madre di Ilda.
    
    Il conte si volse con impeto alla fanciulla.
    
    - Arrestato? - ripetè in tono interrogativo.
    
    - Sì, signor conte; - rispose Ilda - lo accusano di essere un
    assassino. -
    
    Livio si abbandonò su d'una sedia.
    
    - Ma lei non lo crede, non è vero? - esclamò con slancio la
    fanciulla. - Lei lo difenderà. -
    
    Invece di rispondere, il conte rimaneva pensieroso, turbato, e a un
    tratto, come parlasse a sé stesso:
    
    - Disgraziato! - mormorò. - Che abbia posto in opera la sua
    minaccia? Ma no, non è possibile! -
    
    Ilda era divenuta pallidissima.
    
    - Quale minaccia? Che sa lei, signor conte? - disse con ansia. - Oh!
    parli, parli!
    
    - Fanciulla, sedete qui vicina a me, - disse in tono quasi paterno -
    lasciate che prima io vi interroghi, Perché non ho più veduto Fabio
    da un mese, essendo assente da Torino.
    
    - Fabio me lo aveva detto, - rispose Ilda. - E dopo la sua assenza,
    signor conte, egli era divenuto triste, ma non ne feci molto caso,
    Perché era sempre amoroso e tenero con me. Solo quando mi disse di
    doversi assentare da Torino per le carte relative al nostro
    matrimonio, mi sorprese che egli piangesse, come se avessimo dovuto
    dividerci per sempre. Fin da quel momento non ebbi più sue nuove, e
    soltanto oggi sono venuti qui un delegato e due guardie per fare una
    perquisizione. -
    
    Il conte aveva appoggiato un gomito ad una tavola vicina e si
    sorreggeva la fronte fra le mani, ripetendo:
    
    - Disgraziato, disgraziato!
    
    - Ma dunque, anche lei lo crede colpevole? - disse la madre d'Ilda.
    
    - Per quanto atroce sia la verità, - disse il conte - con accento
    soffocato - sento che è mio dovere non lasciarvela ignorare. -
    
    E con voce tremante raccontò alle due donne press'a poco quanto
    abbiamo sentito raccontare dall'accusato circa i suoi amori con
    Giulietta, fino al giorno in cui l'antica amante l'aveva minacciato
    di mandare a monte il suo matrimonio se egli non rendeva la parola
    alla fanciulla amata.
    
    - Io trovai Fabio in quel giorno, - aggiunse il conte - ed egli mi
    confidò tutto. «Creda,» mi disse ad un tratto «piuttosto che perdere
    la mia Ilda, mi uccido od uccido Giulietta!» A poco a poco giunsi a
    calmarlo. Fabio mi promise di non tentar nulla contro lei, di
    rivolgersi piuttosto all'autorità; poi io fui costretto a partire e
    non seppi più altro. Ma adesso tutto mi fa temere che Fabio abbia
    posto in opera la sua idea. -
    
    La vecchia tremava di orrore.
    
    Ilda era rimasta dapprima affranta, dubitando di colui al quale era
    legata coi vincoli dell'amore e della fede; ma a mano a mano che il
    conte parlava, i suoi dubbi svanivano, e quando Livio ebbe finito,
    essa disse, fremente:
    
    - Fabio non può essere un infame! Egli si sarebbe ucciso prima di
    uccidere. Fabio avrebbe rinunziato piuttosto a me, che possedermi al
    prezzo di un delitto! -
    
    Il conte aveva trasalito.
    
    - L'amate molto, cara fanciulla! - disse. - Ma quest'amore renderà
    più vera l'accusa di essersi sbarazzato di quella donna per voi....
    e finiranno col ritenervi sua complice.
    
    - Che m'importa! - esclamò con fierezza la fanciulla. - Crede forse
    che io voglia rinnegarlo, Perché lo dicono colpevole?
    
    - Ma se Fabio confessasse il suo delitto? - osservò Livio.
    
    - Non lo crederei lo stesso; - interruppe la fanciulla - lo conosco
    troppo! Direi che si è sacrificato per qualcuno! -
    
    Livio aveva lasciato cadere i guanti che teneva in una mano e si
    chinò per raccoglierli.
    
    - Cara fanciulla, - disse poi - Fabio può andare con ragione
    orgoglioso del vostro amore, ed io vorrei che i giudici la
    pensassero come voi; ma essi, purtroppo, non ragionano col cuore.
    
    - Ma lei, signor conte, potrebbe recarsi dal giudice istruttore,
    fargli comprendere che Fabio non può essere colpevole.
    
    - Lo farei con tutto il cuore, ma la mia testimonianza aggraverebbe
    forse le cose, Perché in coscienza sarei costretto a rivelare quanto
    ho già detto a voi. Fabio stesso avrebbe dispiacere di vedermi
    immischiato in questa faccenda, e se io non sarò chiamato da lui,
    non muoverò un passo per non recargli danno. Anzi, se il giudice
    istruttore vi facesse chiamare, farete bene a non parlargli di me.
    
    - Non dubiti; - rispose freddamente la fanciulla - so il mio dovere.
    Fabio mi ha pregata più volte di non far parola di lei con alcuno ed
    io l'obbedisco. Se mi recherò dal giudice, sarà solo per difendere
    il mio fidanzato. -
    
    Il conte si alzò.
    
    - Mi permettete, - disse - coraggiosa fanciulla, che torni da voi
    per sapere vostre nuove e dirvi ciò che io stesso cercherò di
    apprendere su Fabio? Adesso che egli vi manca, è mio dovere vegliare
    su voi e vostra madre. -
    
    La fanciulla voleva rispondere: «Grazie, non s'incomodi!» ma la
    vecchia prese subito la parola.
    
    - Sì, venga, venga, signor conte; siamo due povere donne sole,
    abbandonate, ed io mi sento vicina a morire di spavento. -
    
    Ilda, chinando il capo, mormorò:
    
    - Se la mamma vuol così venga pure! -
    
    Ma quando Livio fu uscito, la fanciulla si gettò nelle braccia della
    vecchia singhiozzando.
    
    - Egli lascerà perdere Fabio, lo sento! - balbettò. - Il conte non è
    sincero! Io diffido di lui. -
    
    IX.
    
    Quando il cavalier Umberto Trani udì la dichiarazione della contessa
    Bianca Rossano, trasalì ed esaminò la giovine con un rapido sguardo,
    come se avesse avuto dinanzi una colpevole.
    
    Ma il bel volto di Bianca esprimeva tanto candore, che il magistrato
    le stese vivamente la mano e le disse;
    
    - Mi spiegherete, contessa....
    
    - Sono qui per dirvi tutto, Perché ho fiducia in voi e sono certa
    che col vostro aiuto potrò riuscire in tutto quello che desidero. -
    
    Ella sedette e con voce ferma e dolce fece il racconto della sua
    vita dal momento in cui conobbe il conte Livio Rossano fino al
    giorno in cui scoperse il suo tradimento. Parlò poi dell'incontro di
    Aldo, il quale, invece di approfittare del suo passo insensato, la
    rispettò come una sorella. E narrò tutto, tutto nei minimi
    particolari.
    
    Umberto Trani ascoltò la signora con attenzione. Quando essa ebbe
    finito, le disse:
    
    - Vi ringrazio della fiducia che mi dimostrate. Dal canto mio, farò
    tutto il possibile perché il vostro nome non venga pronunziato e si
    creda che il domino di quella notte era la sorella dello studente
    Aldo.
    
    - Grazie! Io ben sapevo che non invano mi sarei a voi rivolta.
    
    - Dovete però promettermi di non recarvi più in quella casa.
    
    - Non vi nascondo, - disse Bianca - che vi sono stata altre due
    volte, per intendermi col signor Aldo circa la bambina della povera
    Giulietta.
    
    - Badate che, recandovi a trovarla in quella casa, si finirebbe con
    lo scoprire che non siete la sorella di Aldo.
    
    - Ascoltatemi ancora, signore, giacché siete così buono. Stamani mi
    sono recata in quella casa Perché il signor Aldo, disperato, tremava
    per me, ed io volevo rassicurarlo, dirgli che sarei venuta io stessa
    da voi. Tuttavia, per precauzione, non salirò più quelle scale
    neppure per abbracciare la mia protetta; ed ecco ciò che ho
    combinato col signor Aldo. Sua sorella, che non ha figli ed alla
    quale il signor Pomigliano ha confidato tutto, è dispostissima a
    occuparsi della piccola orfana fino a tanto che io non potrò
    affidarla a mio padre ed alla mia istitutrice, oppure prenderla
    meco. Il cognato del signor Aldo verrà a Torino per prendere la
    bambina, dicendo che sua moglie non può muoversi Perché indisposta.
    Ma siccome Teresa, cui la bimba è affidata, potrebbe rifiutare, così
    voi ci aiuterete recandovi col signor Rivalta, il quale verrà prima
    qui per intendersi con voi, dalla moglie del falegname. -
    
    Umberto Trani aveva un cuore generoso, che si commuoveva facilmente
    quando ora convinto dell'innocenza della persona che a lui si
    affidava.
    
    Per cui, disse con un sorriso:
    
    - Voi mi farete fare tutto ciò che vorrete, anche a rischio di
    compromettermi. Ebbene: vi do la mia parola di gentiluomo che voi
    non sarete disturbata e che la bambina sarà consegnata da me stesso
    al signor Rivalta. -
    
    Gli occhi di Bianca rifulsero.
    
    - Quanto siete buono! - esclamò con ingenua espansione. - Ora non
    temo più nulla, Perché ho trovato anche in voi un vero amico. 
    
    Quando Bianca se ne fu andata, Umberto Trani rimase per alcuni
    secondi pensieroso.
    
    - Il conte Rossano non meritava un simile tesoro, - mormorò. - Io lo
    conosco bene; la sua apparenza di gentiluomo nasconde un'anima
    ignobile. -
    
    Ora, non rimaneva al magistrato che interrogare la fidanzata di
    Fabio.
    
    Egli la fece chiamare il giorno seguente alla visita di Bianca, e
    quando la giovinetta comparve nel suo gabinetto, fu non soltanto
    sorpreso dalla bellezza da lei, ma dall'espressione energica e leale
    che si leggeva nei suoi occhi.
    
    - Sapete perché vi ho fatta chiamare, signorina? - le chiese il
    magistrato.
    
    - Lo suppongo, - rispose Ilda. - Il mio fidanzato è accusato di
    assassinio. Ma la cosa è paradossale!
    
    - Eppure, lui stesso ha confessato....
    
    - Fabio ha mentito! - esclamò con slancio appassionato Ilda.
    
    - Eppure il fatto è evidente, Perché, quand'anche il giovane non
    avesse confessato, vi sono prove schiaccianti contro lui. Egli mentì
    chiedendo un permesso al suo principale per recarsi a cercare delle
    carte concernenti il vostro matrimonio. Invece, non è stato un
    giorno assente da questa città. E poi, perché si sarebbe trovato,
    nella notte del giovedì grasso, mascherato da pierrot, in quella
    casa, nella stanza dove avvenne l'assassinio? Come entrò in quella
    soffitta senza destare l'attenzione di alcuno? Perché una vicina
    della vittima l'avrebbe riconosciuto come l'antico amante della
    sventurata? -
    
    Ilda sussultò.
    
    - Davvero? - esclamò.
    
    - Sì, signorina. Infine, Perché egli avrebbe confessato? -
    
    Ilda fremeva.
    
    - La mia testa si perde, - mormorò-, - In questo delitto vi è un
    mistero che mi sfugge. Comunque, Fabio non può averlo commesso. Ah,
    se potessi parlare un istante con lui! -
    
    Era quello che il magistrato sperava.
    
    - Alla mia presenza? - chiese.
    
    - Magari! - rispose con vivacità la giovane, - Sono certa che
    dinanzi a me saprà scolparsi dalla terribile accusa.
    
    - Ebbene, aspettate un momento, signorina, e lo vedrete! -
    
    Umberto Trani diede gli ordini necessari.
    
    Poco dopo l'uscio sì schiuse e l'assassino entrò nel gabinetto, fra
    due guardie.
    
    Fabio non si aspettava di trovarvi la sua fidanzata.
    
    Alla vista di lei diventò pallidissimo; il suo volto espresse
    alternativamente la passione, il dolore, la sorpresa,
    l'inquietudine, l'angoscia.
    
    - Ilda! - balbettò l'infelice, stendendo le mani legate dalle
    manette.
    
    La fanciulla rimase calma, severa.
    
    - Prima di risponderti, - disse - voglio sapere se è vero che parlo
    con un assassino. -
    
    L'imputato trasalì, distolse gli occhi dalla fidanzata e rispose con
    un filo di voce:
    
    - Sì.... sono colpevole. -
    
    Ilda ebbe uno scoppio di sdegno.
    
    - Ma perché, - gridò - Perché uccidere una sventurata che era stata
    tua amante, che era madre? -
    
    L'agitazione di Fabio aumentava.
    
    - Essa m'impediva di sposarti! - balbettò.
    
    Ilda fece un gesto sdegnoso.
    
    - Alza gli occhi, guardami bene in faccia: tu menti, tu menti! -
    
    Un tremito convulso scoteva l'imputato.
    
    - Ho detto la verità!
    
    - Tu menti! - ripetè con accento vibrante Ilda. - Quella donna tu
    non la conoscevi nemmeno, ne sono sicura! Se tu sei un assassino,
    altri ti ha armata la mano, e ti ha spinto a commettere quel delitto
    per sbarazzarsi di colei che gli dava noia. -
    
    Questa volta Fabio sollevò il capo: le sue guance si erano
    infiammate, i suoi occhi scintillavano.
    
    - Non è vero, non la creda, signor giudice, - nessuno mi ha spinto a
    quel delitto, all'infuori della mia vittima. Io, io solo la
    uccisi....
    
    - Ebbene, io non ti credo, - esclamò l'eroica fanciulla - e ti giuro
    che un momento o l'altro scoprirò il vero assassino!
    
    - L'assassino sono io! - gridò il disgraziato, e cadde svenuto.
    
    Fabio fu portato via dal gabinetto, e Ilda, esausta, si lasciò
    cadere su di una seggiola, piangendo.
    
    - Mi sono mostrata crudele con lui; - mormorò - ma era necessario! -
    
    Il magistrato la guardava con simpatia.
    
    - Siete ancora persuasa ch'egli sia innocente?
    
    - Sì, signore, - rispose Ilda asciugando le lacrime.
    
    - Avete dunque indizi contro qualcuno?
    
    - Nessuno, signore; soltanto sono convinta nell'anima che egli è
    innocente e l'unica speranza che mi sostiene è di fare io stessa un
    giorno conoscere la sua innocenza. -
    
    Il magistrato scosse il capo senza rispondere, e quando la
    giovinetta si ritirò, Umberto Trani disse fra sé:
    
    - Costei vale la contessa Bianca. Due nobili cuori, due caratteri
    forti. Se tutte le donne somigliassero ad esse, anche gli uomini
    diverrebbero migliori! -
    
    X.
    
    L'istruttoria si chiuse senza incidenti. L'assassino era confesso.
    Si aspettava il processo.
    
    Nelle soffitte della casa dove abitò la povera Giulietta era un vero
    fermento. Quando si seppe che il cognato di Aldo era giunto da Ivrea
    per ritirare l'orfanella, molti inquilini corsero da Teresa per
    abbracciare ancora una volta la piccola Gina, e per vedere il marito
    di quella bellissima signora in domino, veduta nella tragica notte.
    
    Il signor Rivalta giunse in compagnia del giudice istruttore e di
    Aldo.
    
    Quando entrarono nella soffitta, Teresa teneva in braccio Gina, già
    pronta; presso a lei era il marito. Entrambi avevano gli occhi pieni
    di lacrime; la piccina invece sorrideva, guardando sorpresa tutta la
    gente che l'attorniava.
    
    Per alcuni giorni Gina aveva pianto, chiamando la mamma; ma a
    quell'età presto si dimentica, e dopo una settimana la bimba si
    trastullava allegramente con altre piccine pel corridoio.
    
    Il giudice istruttore sorrise a Teresa.
    
    - Sapete già, a quello che vedo, il motivo per cui siamo qui! -
    disse.
    
    - Sì, signore; - rispose Teresa - il signor Aldo ci avvertì ieri
    sera, e sebbene ci sentiamo spezzare il cuore nel separarci da
    questa creatura, pure comprendiamo ch'è pel suo bene.
    
    - Voi ragionate da quella savia donna che siete, e, credetelo, io
    stesso non avrei dato il permesso di togliervela, se non sapevo che
    veniva affidata a buone mani. Spero che la piccina non avrà
    difficoltà ad andare col signor Rivalta.
    
    - Vuoi venire con me? - chiese questi a Gina, mentre le porgeva una
    bambola, che aveva tolta dalla tasca del soprabito.
    
    - Sì, - rispose Gina tendendo le manine per afferrare la bambola.
    
    - Carina! - esclamò il signor Rivalta; e rivolto a Teresa soggiunse:
    - Mia moglie vi manda questa busta per ricompensarvi delle cure da
    voi avute in questo frattempo per la bambina. -
    
    Così dicendo aveva tratto dal grosso portafogli una busta che porse
    a Teresa.
    
    Ma questa rifiutò.
    
    - Non accetto, signore, Perché io tenni la bimba per affetto e non
    per interesse. Ringrazi la sua signora a nome mio, e le dica
    piuttosto che mi farà un regalo dandomi qualche volta nuove di Gina
    e permettendomi di recarmi una volta o l'altra a trovarla.
    
    - Vi vedremo con piacere, - rispose il signor Rivalta.
    
    Poco dopo, Aldo col cognato e la bambina, salutato il giudice
    istruttore che si trattenne ancora avendo da parlare a Lorenzo ed a
    sua moglie, salirono in una carrozza per recarsi alla stazione.
    
    Aldo guardò l'orologio.
    
    - Non c'è tempo da perdere: - disse - mancano venticinque minuti
    alla partenza del treno e Speranza sarà là ad aspettarci.
    
    - Sono ansioso di conoscere questa bella incognita, che non hai
    ancora saputo chi sia, - disse il signor Rivalta.
    
    - Perché non ho voluto saperlo; - rispose con calore il giovane - il
    mistero mi affascina. Ma Speranza è una gentildonna che merita ogni
    interesse. Al postutto, mi ha detto che oggi stesso ci rivelerà il
    suo nome e quanto la riguarda, Perché le parrebbe di mancare di
    fiducia in mia sorella, in te ed in me se continuasse a serbare il
    suo incognito. -
    
    Giunsero alla stazione. Gina, cullata dal moto della vettura, si era
    addormentata colla testina appoggiata al petto di Guglielmo. Questi
    scese con lei fra le braccia e vide tosto che Aldo, aperto l'altro
    sportello, si precipitava incontro ad una signora vestita di un
    elegantissimo abito da viaggio, accompagnata da una donna che
    portava una valigia.
    
    - Grazie, grazie di essere venuta! - disse Aldo.
    
    Bianca, giacché era lei, sorrise.
    
    - E la bambina?
    
    - Eccola con mio cognato; vieni, Guglielmo! -
    
    Seguì una breve presentazione. Intanto la donna che portava la
    valigia, guardando la piccola addormentata, esclamava:
    
    - Dio, come è bella!
    
    - Te l'avevo detto, Celia! - esclamò Bianca. - Ma presto: consegna
    la valigia al signor Aldo, e tu vattene: non abbiamo tempo da
    perdere. Ricordati i miei ordini.
    
    - Saranno eseguiti a puntino.
    
    - Aldo, va' a prendere i biglietti, o perderemo il treno! - disse
    Guglielmo.
    
    - I biglietti li ho già presi io, - esclamò Bianca - appunto per non
    perdere tempo! -
    
    Lo studente ammirò la squisita gentilezza della signora, né
    Guglielmo ebbe ragione di offendersi di quell'atto.
    
    Un momento dopo si trovavano tutti e quattro in un vagone di prima
    classe. Erano soli.
    
    Guglielmo depose sul divano la bambina, che continuava a dormire,
    Bianca sedette di faccia a lei e vicina a Aldo.
    
    Di fronte aveva Guglielmo, il quale ammirava la incognita che,
    sollevato il fitto velo, mostrava il suo bel volto.
    
    Avevano appena oltrepassata la stazione di Caluso, quando Gina si
    svegliò.
    
    Dapprima si guardò attorno quasi spaurita, ma veduto Guglielmo gli
    sorrise e gli stese le manine. Egli la sollevò per baciarla, poi
    mostrandole Bianca:
    
    - Conosci quella signora? - chiese.
    
    Gina scosse il biondo capo.
    
    - Chi è? - chiese.
    
    - Sono la tua mammina; - esclamò Bianca - vuoi venire in braccio a
    me? -
    
    Gina le si slanciò subito al collo, e la contessa la coprì di baci
    ripetendo:
    
    - Io sono la mamma, sai, carina, e questo signore è il babbo! -
    
    E le additava Aldo.
    
    La bambina passò nelle braccia del giovinotto e gli porse subito le
    labbra.
    
    Il viaggio fu lieto. Essi giunsero ad Ivrea quasi senza
    accorgersene.
    
    Il signor Rivalta abitava un po' fuori della città, non lungi dalla
    stazione, in un modesto fabbricato composto di un solo piano e di un
    pianterreno, con un vasto giardino ed un orto.
    
    Severina corse ad abbracciare Aldo, poi salutò la contessa Bianca,
    indi, sollevando Gina, esclamò:
    
    - Ecco la mia angioletta, la mia nipotina! -
    
    Un bel cane da caccia mandava latrati giulivi, festeggiando gli
    arrivati.
    
    Entrarono in casa, una casetta semplice, ma linda e ridente.
    
    La sorella di Aldo, Severina, non assomigliava al fratello che nel
    colore dei capelli e nel sorriso. Essa era piccola, piuttosto
    paffuta, coi colori di una mela-rosa. Ma da tutta la sua persona
    traspariva la bontà.
    
    Severina condusse Bianca nella camera che le aveva preparata, Perché
    la contessa aveva promesso di trattenersi un paio di giorni presso
    la famiglia Rivalta.
    
    Appena furono sole e Bianca si fu tolta il cappello, Severina
    l'abbracciò.
    
    - Come siete bella! - disse con ingenuo entusiasmo, - Ah! comprendo
    come vi si possa adorare: io sento di volervi molto bene, e saremo
    amiche, non è vero?
    
    - Più che amiche, sorelle! - esclamò Bianca ricambiando i suoi baci.
    
    Quando scesero si tenevano a braccetto.
    
    Severina lasciò Bianca con Aldo per vedere se tutto era in ordine
    per il pranzo. Guglielmo era andato a cambiarsi d'abito, e Gina si
    baloccava in giardino.
    
    - Che giornata incantevole! - disse la contessa. - Come mi sento
    felice in quest'atmosfera sana e affettuosa!
    
    Aldo la guardava con immensa tenerezza.
    
    - Perché non rimanete qui a lungo?
    
    - Perché non posso. -
    
    Una leggiera nube di tristezza era apparsa sulla sua fronte, ma
    tosto disparve.
    
    Il pranzo fu allegrissimo: Gina sorrideva a tutti, inviava baci
    sulla punta dei ditini a Bianca, ad Aldo chiamandoli babbo e mamma,
    e si sporgeva ogni tanto ad accarezzare Guglielmo e Severina, che le
    erano accanto e si occupavano continuamente di lei.
    
    Quando fu portato il caffè, Gina fu lasciata libera di correre in
    giardino, la donna di servizio si era ritirata in cucina a sbrigare
    le sue faccende, e gli altri rimasero liberi di discorrere.
    
    - Ecco il momento di dirvi tutto quanto mi concerne! - esclamò
    Bianca con un sospiro. - Vi prego di ascoltarmi. -
    
    Tutti le porsero orecchio.
    
    - Io sono la contessa Bianca Rossano....
    
    - Rossano? - interruppe Guglielmo. - Io ho conosciuto un conte
    Sebastiano Rossano, morto una diecina di anni fa!
    
    - Era il padre di mio marito, - disse Bianca.
    
    La fronte di Guglielmo si oscurò.
    
    - Ma allora, conosco anche vostro marito, il conte Livio.
    
    - Precisamente: Livio è il suo nome. -
    
    Guglielmo stava per riaprire la bocca, ma Severina glielo impedì.
    
    - Lascia che parli lei, - disse - e poi ci dirai tu come conosci
    persone di cui non mi parlasti mai.
    
    - Prima di continuare, - soggiunse Bianca - ditemi signor Rivalta: è
    vero che il padre di Livio fu un uomo dissoluto, perverso?
    
    - No! - rispose Guglielmo. - Il conte Sebastiano Rossano era il
    fiore dei gentiluomini. Povero conte! Egli fu abbeverato di
    dispiaceri e morì di crepacuore....
    
    - A cagione del figlio, non è vero? - proruppe Bianca, - Oh! ditemi
    tutto: sappiate che io sono una vittima del miserabile, cui mi trovo
    legata per sempre. -
    
    Aldo si sentì torcere il cuore.
    
    Spesso aveva pensato che quella nobile, pura creatura non doveva
    essere libera; ma l'idea che fosse unita ad un uomo ignobile, gli
    procurava un così acuto dolore, che gli pareva di morire.
    
    Guglielmo aveva rivolto uno sguardo di profonda compassione alla
    contessa.
    
    - Povera signora! - disse colla sua semplice franchezza. -
    M'immagino la vita che dovete condurre con lui. Egli è stato un
    figlio malvagio, non può essere un buon marito. Di lui io non so
    altro che, morti i suoi, condusse un'esistenza sfrenata, e in pochi
    anni divorò il patrimonio lasciatogli, la sostanza ammassata con
    sudori e lacrime dal padre. Sarei curioso di sapere in qual modo
    abbia trovato una moglie vostra pari.
    
    - Coll'inganno più vile! - rispose Bianca.
    
    E narrò tutta la sua vita, non nascondendo i recenti patti stabiliti
    col marito e come questi li avesse accettati, temendo di perdere le
    rendite di cui godeva. Assicurò inoltre che ormai si trovava libera
    di ogni sua volontà ed avrebbe potuto dedicarsi a Gina, recarsi
    sovente a trovarla. A questa punto Aldo le rivolse sguardi pieni
    d'amore e di riconoscenza.
    
    Le ore trascorsero in quelle intime confidenze: poi tutti sì
    alzarono da tavola per fare una passeggiata in giardino.
    
    Aldo doveva ripartire la stessa sera per Torino, ma prima di
    quell'ora potè trovarsi un istante da solo con Bianca. Essi erano
    assai commossi, guardandosi.
    
    - Prima di partire, - disse il giovane - volevo chiedervi,
    contessa....
    
    - Contessa? - interruppe vivamente Bianca. - Per voi, Aldo, sono e
    rimarrò sempre Speranza. -
    
    Un raggio di gioia brillò sul volto dello studente, che presa la
    mano di Bianca se la portò alle labbra.
    
    Bianca arrossì di gioia.
    
    - Che volevate dunque chiedermi prima di partire? - domandò.
    
    - I vostri ordini. -
    
    Ella rise come una bambina, fissandolo con occhi luminosi.
    
    - Eccoli. Prima di tutto dovete studiare, Perché non vorrei che per
    causa mia trascuraste le vostre lezioni.
    
    - Da che vi conosco sento ancor più il desiderio di applicarmi,
    Perché voglio che non abbiate mai nulla da rimproverare a vostro
    fratello.
    
    - Sono sicura che sarò sempre contenta di voi. Voi saprete
    innalzarvi nelle più eccelse sfere.
    
    - Con voi per amica mi sento davvero capace di tanto! -
    
    Un sorriso di Bianca fu la risposta.
    
    La sera, sola nella graziosa camera che le avevano destinata,
    Bianca, invece di coricarsi, sedette su di una poltrona e si pose a
    fantasticare. Come era passato rapido quel giorno! Come si sentiva
    lieta, sollevata!
    
    Ricordava l'ultimo saluto di Aldo, prima di recarsi alla stazione.
    
    - A rivederci, mia Speranza! -
    
    Sì, ella sarebbe la sua speranza, il suo raggio di sole, come egli
    lo era per lei.
    
    Nella semplicità della sua anima, Bianca non credeva di commettere
    una colpa abbandonandosi a quell'affetto puro, profondo, che nulla
    aveva di volgare.
    
    XI.
    
    Il giorno del processo di Fabio Ribera era giunto.
    
    L'udienza era fissata per le dieci, ma fino dal mattino la folla si
    pigiava alle porte dell'aula di giustizia.
    
    Ed appena quelle porte si aprirono, tutto il recinto riservato al
    pubblico fu pieno in un attimo.
    
    Nei posti riservati presero posto diverse signore e qualche
    titolato, fra cui il conte Livio Rossano. Più lungi, in compagnia di
    una signorina, sedeva la contessa Bianca.
    
    Entrò la Corte.
    
    Dopo le formalità preliminari, il presidente disse:
    
    - Introducete l'imputato. -
    
    Vi fu un mormorio di curiosità.
    
    Fabio comparve, vestito di nero, pallidissimo ma calmo.
    
    Egli volse uno sguardo tranquillo sulla folla curiosa, ma ad un
    tratto quello sguardo s'illuminò, un roseo colore gli si diffuse
    sulle guance.
    
    Forse aveva veduto qualcuno che conosceva, ma nessuno avrebbe potuto
    dire chi fosse la persona che destava in lui quella rapida
    commozione.
    
    Il silenzio nell'aula era perfetto.
    
    Declinate, a richiesta del presidente, le sue generalità, Fabio
    sedette finché il cancelliere non ebbe letto l'atto di accusa, che
    l'accusato ascoltò senza il minimo trasalimento, cogli occhi perduti
    come in un sogno, la fronte alta e fiera.
    
    Cessata la lettura, la voce del presidente annunziò
    l'interrogatorio.
    
    - Fabio Ribera, avete udito l'atto d'accusa? Che avete da
    rispondere?
    
    - Che i fatti sono quali io stesso ho confessati: mi riconosco
    colpevole. Nego peraltro d'aver premeditato il delitto e ripeto che
    la vittima stessa mi spinse a commetterlo. -
    
    Un mormorio di disapprovazione accolse queste parole.
    
    L'accusato rimase calmo e con fermezza narrò l'accaduto, come
    l'aveva raccontato al giudice istruttore, non commovendosi che al
    momento in cui parlò della fidanzata, della sua Ilda, non
    nascondendo la sua intensa passione per lei, le angosce del suo
    cuore, le sue atroci angosce all'idea di dover rinunziare per sempre
    a farla sua moglie.
    
    Il suo accento profondo scosse l'uditorio.
    
    Un uomo si era accigliato: il conte Livio Rossano.
    
    - Ora si comprende la causa del delitto! - diceva la gente. -
    Quell'Ilda gli ha fatto girare la testa, forse l'ha spinto ad
    uccidere quella sventurata. Lei sola dovrebbe trovarsi in quella
    gabbia! -
    
    L'interrogatorio era finito: incominciava la sfilata dei testimoni.
    
    Tutti furono concordi nell'affermare la rettitudine della povera
    Giulietta, tutti ebbero imprecazioni per l'assassino, parole di
    profondo compianto per la vittima.
    
    Quando il presidente dette ordine di introdurre la fidanzata di
    Fabio, vi fu un vivo sentimento di curiosità nel pubblico.
    
    Ma nessuna commozione poteva uguagliare quella dell'imputato e del
    conte Rossano.
    
    Livio, divenuto pallidissimo, fu còlto da un brivido dal capo alle
    piante.
    
    Fabio tremò convulsamente; i suoi occhi sbarrati, pieni di angoscia,
    seguirono la direzione degli occhi del pubblico.
    
    Ilda entrò.
    
    Il suo primo sguardo fu per l'imputato, sguardo d'amore, di pietà.
    
    Il cuore di Fabio ne fu squarciato.
    
    Poi ella girò gli occhi sul pubblico, impressionando anche i più
    indifferenti.
    
    Ilda si spiegò senza enfasi, ma con fermezza, raccontando la sua
    semplice storia, il suo incontro con Fabio, il loro casto amore,
    fino al momento della partenza del giovane per recarsi a cercare le
    carte riguardanti il loro matrimonio.
    
    Poi raccontò come avesse saputo del suo arresto e del delitto di cui
    l'accusavano.
    
    A questo punto, ergendo la bella e pallida testa, esclamò con voce
    sonora:
    
    - Il delitto è stato commesso: la mano del mio fidanzato l'ha
    compiuto, ma il vero colpevole non è lui. L'uomo che l'ha spinto a
    perdersi è forse in questa stessa aula ed assiste imperterrito alla
    condanna della vittima. Ebbene, colui che Fabio non vuole accusare,
    preferendo l'infamia, preferendo di rinunziare a me piuttosto che
    denunziarlo, colui che io non conosco, ma che intuisco chi sia,
    colui fu il vero amante della povera Giulietta, il suo seduttore.
    Teresa Pavin lo scambia col mio fidanzato, ma io lo ritroverò un
    giorno, lo giuro, e quel giorno il mio povero Fabio e la misera
    Giulietta saranno vendicati! -
    
    Questa dichiarazione produsse un effetto immenso, inaspettato. Ilda
    aveva ad un tratto conquistato il pubblico, che si abbandonò ad alta
    voce a mille commenti. L'imputato si piegò sulla panca e svenne.
    
    Lo trasportarono fuori dell'aula e l'udienza fu sospesa per alcuni
    momenti. Nessuno pose mente al conte Livio Rossano, che fino dalle
    prime parole della fanciulla era stato assalito da un tremito
    convulso ed i suoi denti mordevano rabbiosamente le labbra.
    
    E appena Ilda tacque, il conte lasciò la sala.
    
    L'udienza fu ripresa poco dopo.
    
    Fabio era tornato al suo posto, abbattutissimo.
    
    Gli fu chiesto quanto vi fosse di vero nelle parole della fidanzata,
    ed egli rispose debolmente:
    
    - Ella cerca di difendermi, ma non lo merito: io solo sono
    colpevole. Ho detto la verità. -
    
    Ilda ebbe un sorriso pieno di compassione.
    
    - Povero Fabio! - disse. - Credi che il tuo sacrifizio sia
    apprezzato da colui che armò la tua mano? Scommetto che il vile
    trema nel timore che tu venga assolto, Perché la tua condanna sarà
    la sua vita. Ah! potessi avere una sola prova contro lui! Ma la
    troverò. In quanto a me, Fabio, giuro su quel crocifisso che,
    colpevole o no, non cesserò mai di amarti, e puoi contare ora e
    sempre sul mio affetto. -
    
    Un singhiozzo strinse la gola dell'imputato, mentre i suoi occhi si
    empivano di lacrime.
    
    Nella sala vi fu un tentativo d'applausi.
    
    L'idea della fanciulla era stata accolta. Quanto ella aveva detto
    poteva esser vero.
    
    Incominciò l'interrogatorio a favore dell'imputato. Il suo
    principale, i commessi, diversi clienti del negozio, tutti
    attestarono dell'onestà di Fabio, della vita modesta che conduceva,
    del suo sviscerato amore per Ilda. Nessuno gli aveva conosciuto
    altre amanti: era rispettosissimo colle commesse e preferito dalle
    clienti per il suo contegno riservato.
    
    Fabio era commosso, agitato.
    
    Il suo principale lo salutò, dicendo ad alta voce:
    
    - A rivederci, Fabio: io pure, come la tua fidanzata, non ti credo
    il vero colpevole, e quando uscirai di prigione, troverai sempre il
    tuo posto presso di me, ti stenderò sempre la mano da amico. -
    
    Fabio si mise a piangere e balbettò a stento:
    
    - Grazie, grazie! Che Dio la ricompensi della sua bontà, che io non
    merito! -
    
    Continuò l'interrogatorio dei testimoni, ma non ebbero più
    importanza.
    
    Nella seduta pomeridiana ebbe luogo una requisitoria schiacciante
    per l'imputato.
    
    Ma la difesa, quantunque riconoscesse che tutte le prove erano
    contro l'accusato, volle difendere il giovane. Rivelò la
    dichiarazione della fidanzata, ed aggiunse abilmente che esistevano
    molti punti oscuri nella faccenda, e sperava che un giorno si
    facesse piena luce, benchè l'accusato si ostinasse a farsi credere
    il solo colpevole. Finì col dichiarare che Fabio Ribera poteva
    sostenere benissimo la sua colpa, i giurati condannarlo, ma che la
    sua convinzione e quella del pubblico sarebbe quella della
    coraggiosa Ilda: che l'imputato fosse una vittima.
    
    L'uditorio accolse con simpatia quella difesa, Perché Fabio si era
    conquistato l'interesse di tutti, e quando i giurati si ritirarono
    per deliberare, molti fecero voti perché la condanna fosse mite.
    
    La deliberazione non fu lunga. Il verdetto era affermativo, ma
    ammetteva le circostanze attenuanti.
    
    Fabio Ribera fu condannato a sei anni di reclusione.
    
    - Non avete nulla da dire? - chiese il presidente all'imputato.
    
    Questi si alzò, e con voce commossa rispose:
    
    - Ringrazio il signor presidente ed i giurati della loro clemenza:
    sono colpevole, ho assassinato, meritavo anch'io la morte. Ma
    cercherò di espiare il mio delitto col pentimento. -
    
    La commozione aveva invaso tutti, e mentre il pubblico usciva
    dall'aula, si abbandonava ancora a mille commenti.
    
    L'imputato era uscito dalla gabbia, ma prima di essere ricondotto in
    prigione s'incontrò nel corridoio con Ilda, che una persona pietosa
    aveva fatta passare colà.
    
    A quella vista, il povero giovane scoppiò in dirotto pianto, e
    mentre ella, con uno slancio spontaneo, gli gettava le braccia al
    collo, balbettò fra i singhiozzi:
    
    - Grazie, Ilda, angelo mio, posso morire adesso, che non avrei
    pagata abbastanza cara la felicità di sentirmi così amato da te!
    
    - Tu non devi morire, ma vivere per me, che ti aspetterò. Coraggio!
    Ne avrò anch'io! -
    
    Furono subito separati, ma essi avevano in quel momento un paradiso
    nel cuore, e l'ultimo sguardo che si ricambiarono valeva più d'un
    giuramento.
    
    In quell'istante stesso il conte usciva dalla Corte d'Assise, ed
    accendendo una sigaretta, mormorava fra sé:
    
    - Sei anni? Sono pochi, ma in questo frattempo cercherò il mezzo di
    sbarazzarmene per sempre e di ridurre Ilda ad ogni mio volere. -
    
    E salì in carrozza per tornare a casa.
    
    XII.
    
    La sera del verdetto il conte, che aveva pranzato con sua moglie,
    quando Bianca fu sul punto di alzarsi da tavola le disse con
    dolcezza:
    
    - Ho bisogno di parlarvi.
    
    - Allora andiamo nel salotto da fumo, - disse Bianca.
    
    Il conte la seguì, e appena soli le disse:
    
    - Questa vita non può durare.
    
    - Vorreste cambiarla? - chiese essa lentamente.
    
    - Sì, Perché questo genere di vita mi pesa. Ho tutti i doveri del
    marito, senza averne i diritti. Mi trovo di fronte ad una volontà
    inaudita. Ebbene, sono venuto ad una decisione, che voi stessa
    approverete.
    
    - Sentiamo, - disse Bianca.
    
    Livio si passò una mano sulla fronte, come per scacciarne un
    pensiero importuno, poi disse:
    
    - Ecco ciò che avrei deciso. Io figurerò di vivere sotto il vostro
    tetto, continuerò a tenere qui il mio appartamento, ma non faremo
    più vita comune, cioè non pranzerò più in casa, non vi accompagnerò
    più in società, al teatro, non avrò più le noie dei bagni, della
    villeggiatura: sarò completamente libero delle mie azioni, come lo
    sarete voi.
    
    - Accetto, - disse Bianca - Perché non vi nascondo che la vostra
    presenza mi è insoffribile. Avete altro da dirmi? - soggiunse.
    
    - Abbiamo da regolare la questione degli interessi. -
    
    Bianca ebbe un sorriso ironico.
    
    - È vero; - rispose - l'avevo dimenticato. Fate benissimo a
    ricordarla. Quanto volete? -
    
    - O cedermi subito metà della vostra dote, o passarmi quindicimila
    lire di reddito mensile. Per voi, le altre cinquemila basteranno.
    
    - Certamente! - soggiunse Bianca col suo accento ironico. - Non vi
    credevo così generoso.... col mio denaro. Ma sia pure. Io non
    intaccherò il capitale, Perché se vi dessi metà della mia dote, alla
    fine del mese sareste a domandarmi l'altra. Vi passerò il reddito
    che chiedete, e vi consegnerò stasera stessa la prima mesata.
    
    - Avrei bisogno di centomila lire, poi il patto è conchiuso. Vi
    basterà firmare questa carta. -
    
    Ella vinse l'ira che sentiva e disse freddamente:
    
    - Vediamo. -
    
    La lesse da cima a fondo, temendo un tranello. Quella carta era
    l'autorizzazione di vendere una cartella a lei intestata di
    cinquemila lire di rendita.
    
    - La firmerò, - disse - ma vi avverto che sarà l'ultima concessione.
    D'ora innanzi non avrete che il reddito fissato. Ma prima ch'io
    firmi, stabilite in iscritto i patti da voi fatti, e firmateli. E
    quella carta rimarrà presso di me.
    
    - Devo scriverla adesso?
    
    - Sì.
    
    - E se rifiutassi?
    
    - Io non firmerei questa. -
    
    Livio capì che Bianca non avrebbe ceduto. Fremeva dalla rabbia, ma
    si contenne.
    
    - Attendete un momento, ve la porterò subito.
    
    Livio uscì dal salotto, e poco dopo rientrò con una carta in mano.
    
    La contessa percorse rapidamente cogli occhi il foglio già firmato,
    poi disse:
    
    - Va bene. -
    
    Indi prese la penna e scrisse il suo nome sull'altra carta.
    
    - Grazie! - disse il conte.
    
    Bianca uscì dal salotto.
    
    Pochi momenti dopo, il conte, salito in carrozza, si fece condurre
    alla casa dove Ilda abitava.
    
    Livio aveva già fatto il suo piano e vi pensava salendo le scale che
    conducevano al modesto quartiere della fanciulla. Fu sorpreso di
    trovare l'uscio aperto, e inoltratosi alquanto, chiese:
    
    - È permesso? -
    
    Nessuno gli rispose, ma un rumore sommesso di voci e gemiti
    disperati lo fecero accorrere senza esitare nell'altra stanza.
    
    Il quadro che si offrì ai suoi occhi lo turbò profondamente.
    
    Distesa sopra il letto, immobile, irrigidita, era la madre di Ilda.
    Gettata quasi attraverso il corpo di lei, gemendo, chiamandola con
    accento disperato, era la giovinetta.
    
    Due donne tentavano di strapparla da quel letto: altre due donne
    parlavano in un angolo, sottovoce.
    
    Il conte si avvicinò a Ilda, e con accento commosso:
    
    - Che vi accade, signorina, per disperarvi così? -
    
    Il suono di quella voce fece scattare in piedi la giovinetta, che
    guardò il conte come smarrita, poi proruppe in pianto.
    
    - La mamma è morta! - balbettò. - La mamma è morta! -
    
    E di nuovo si gettò sul cadavere, dicendo con un accento straziante:
    
    - Perdonami, mamma adorata, apri gli occhi un solo momento, uno
    solo. -
    
    Il conte trasse le donne nella stanza vicina e disse con un accento
    che sembrava profondamente commosso:
    
    - Lasciamola sfogare, non la turbiamo; quando si sarà calmata, le
    parlerò, procurerò di confortarla. Del resto, quella morte era da
    aspettarsi: la povera donna si trovava così distrutta....
    
    - Davvero! Essa è morta di dolore, - disse una donna. - Povera Ilda!
    La madre morta, il fidanzato in prigione.... Merita proprio pietà!
    
    - Ed ogni riguardo, - soggiunse, il conte. - Però vi consiglio di
    non turbarla, di non lasciarvi vedere per qualche ora. Io rimarrò
    qui per ogni evento, ed al bisogno vi chiamerò. -
    
    Così, coi modi più gentili, Livio le mise fuori dell'uscio, che
    subito richiuse per tornare solo nella stanza della morta.
    
    Egli sedette in disparte e lasciò che la fanciulla continuasse a
    piangere. Quando, esausta, vacillante, essa cadde su di una
    seggiola, il conte le si avvicinò.
    
    - Signorina, coraggio: la disgrazia che vi colpisce è immensa, è la
    maggiore delle disgrazie. Perdere la mamma adorata, che è tanta
    parte di noi, è un dolore terribile. Io pure l'ho provato: quel
    giorno fu il più doloroso della mia esistenza. -
    
    Lacrime vere, cocenti, colarono dagli occhi di Livio. La fanciulla,
    che aveva alzato il capo a guardarlo, trasalì. Si era dunque
    ingannata sul conto di quel gentiluomo? Fabio aveva ragione, quando
    le diceva che era un'anima eletta?
    
    Livio proseguì:
    
    - Il solo conforto lo trovai nel ricordo del suo amore, delle sue
    virtù, al pensiero che essa dal Cielo avrebbe sempre vegliato su me.
    Pensate lo stesso, Ilda, Perché vostra madre era una santa, e dalla
    sua memoria attingerete quella forza che ora vi manca.
    
    - Il mio dolore è acuito dall'idea che anch'io contribuii alla sua
    morte, Perché, se non avessi conosciuto Fabio, se non l'avessi tanto
    amato....
    
    - Anche vostra madre ed io lo amavamo, - interruppe grave il conte -
    e se io sopportai con maggior forza il dolore da lui datomi
    rendendosi assassino, vostra madre, già debole, malata di cuore, si
    è accasciata ed ha sofferto atrocemente, non tanto per sé, quanto
    per voi. Poteva una madre rimanere insensibile al vostro dolore?
    Forse il suo affanno proveniva anche dalla vostra nobile esaltazione
    nel sostenerlo innocente. -
    
    Ilda parve richiamata bruscamente alla realtà.
    
    - Ma io lo credo ancora, e lo crederò sempre, e sempre cercherò
    colui che l'ha trascinato alla rovina.
    
    - Povera fanciulla, io non voglio distruggere la vostra illusione;
    ma se vi fosse un altro colpevole, Fabio non si sarebbe lasciato
    condannare, ben sapendo che la sua condanna gli farebbe perdere il
    vostro amore.
    
    - Ma io ho giurato di attenderlo, di non amare altri che lui, e
    manterrò il mio giuramento! - proruppe la giovane.
    
    Il conte Livio si morse le labbra, tuttavia rispose:
    
    - Ciò vi fa onore, Perché infine egli è stato colpevole appunto per
    possedervi.
    
    - Credete proprio che sia questo il motivo del suo delitto?
    
    - Lo credo. Se fosse altrimenti, io avrei speso il mio intiero
    patrimonio per far risplendere la sua innocenza. -
    
    La fanciulla rimase un momento perplessa, ma poi, sollevando il
    capo:
    
    - No, no.... - disse con indignazione - Fabio non sarebbe stato
    capace di un delitto così abominevole, se qualcuno non ve lo avesse
    spinto.
    
    - Sì, la sua vittima. -
    
    Ilda avrebbe replicato, ma i suoi sguardi caddero sul cadavere della
    madre.
    
    Allora gettò un grido e scattò in piedi.
    
    - Sono una cattiva creatura! - esclamò. - Io non devo pensare in
    questo momento che a lei, a lei sola! -
    
    E tornò ad abbracciarla.
    
    Il conte passò la notte in quella camera. Egli stesso si occupò del
    funerale e di tutte quelle formalità che accompagnano sempre la
    morte.
    
    E quando la povera vecchia venne portata al camposanto, Ilda la
    seguì in carrozza chiusa, sola col conte.
    
    Le vicine di casa della giovinetta incominciarono a malignare sul
    suo conto.
    
    Quel bel signore che non la lasciava più, aveva per lei mille
    premure, si incaricava di tutto, aveva per certo preso il posto di
    Fabio.
    
    Ilda visse per alcuni giorni come in un triste sogno.
    
    Ma quello stato non poteva durare a lungo.
    
    Una mattina il conte, recandosi come il solito da lei, vide che essa
    aveva ricuperato il predominio di sé stessa e nei suoi occhi
    brillava l'energia di prima.
    
    - Io non ho parole per ringraziarvi di tutto ciò che avete fatto per
    me e per la povera mamma, - diss'ella al conte con accento mesto e
    dignitoso - e spero di potere un giorno, col mio lavoro, rendervi il
    denaro sborsato in questa occasione.
    
    - Non ne parlate, Ilda, o mi farete arrossire! - interruppe
    vivamente il conte. - Voi non avete alcun obbligo verso me: è mio
    dovere assistervi, confortarvi, ora che siete sola al mondo. -
    
    Il bel volto di Ilda assunse un'espressione di scoramento.
    
    - Voi siete buono, signore, e vi ringrazio con tutta l'anima; ma
    adesso che mi sento meglio, penso che devo bastare da sola a me
    stessa: la vostra assiduità presso una povera fanciulla come me
    sarebbe male interpretata....
    
    - Che importa il mondo, quando abbiamo la coscienza tranquilla? -
    soggiunse il conte nobilmente, - Se vi fosse qui Fabio, egli stesso
    vi direbbe di accettare il mio appoggio: per mezzo del suo avvocato
    difensore mi rivolse la preghiera di non abbandonarvi, mi scongiurò
    di vegliare su voi.... e se sapesse che rifiutate di ricevermi come
    un amico sincero, sono certo che ne soffrirebbe. -
    
    Ilda si sentì commossa.
    
    - No, non rifiuto di ricevervi; ma voi, che siete un gentiluomo di
    senno e di cuore, dovete riflettere che una fanciulla sola, alla mia
    età, è sottoposta a calunnie, anche conducendo la vita più onesta,
    specialmente vedendo frequentare assiduamente la mia casa da un
    signore come voi....
    
    - Potrei essere il vostro tutore!
    
    - Siete troppo giovane.
    
    - Non sono così giovane come vi sembro, e vi ripeto che Fabio
    stesso....
    
    - Fabio - interruppe gravemente Ilda - crede che la mamma viva
    ancora, e certo, se lei ci fosse, vorrei che veniste tutti i giorni
    per parlare di quello sventurato.
    
    - Possiamo farlo egualmente, fanciulla mia, - soggiunse con accento
    paterno Livio - se voi farete tacere i vostri scrupoli e mi
    permetterete di venire qui se non tutti i giorni, almeno un paio di
    volte alla settimana.
    
    - Ebbene, accetto, - rispose Ilda - Perché mi parrebbe di essere
    un'ingrata se vi chiudessi addirittura l'uscio in faccia, dopo
    quanto faceste per me nel momento più doloroso della mia vita. -
    
    Le lacrime cadevano in gran copia dai suoi occhi.
    
    - Non vi alterate così, ve ne supplico! - esclamò Livio con un tono
    che sembrava profondamente commosso. - Finirete con l'ammalarvi!
    
    - Avete ragione, - rispose la fanciulla asciugandosi gli occhi, - Io
    ho bisogno di essere sana per lavorare.
    
    - Contate di tornare al solito magazzino?
    
    - Non so ancora, rifletterò. Mi sembra che colà, dove troverò vuoto
    il posto occupato dal mio Fabio, mi aspetti una sofferenza
    insopportabile.
    
    - Io vi consiglierei per vostro bene a rinunziare a quel posto.
    Perché non mettete un piccolo negozio di mode per conto vostro, del
    quale sareste padrona?
    
    - Perché mi manca il denaro, - rispose Ilda brevemente.
    
    - Ma io metto la mia borsa a vostra disposizione.
    
    - Ma io rifiuto, Perché ho già un debito assai grosso con voi, che
    forse non giungerò mai a pagare.
    
    - V'ingannate, Perché se il negozio andasse bene, potreste
    triplicare il capitale che vi offro in prestito. E intanto mi
    paghereste gl'interessi. -
    
    Ilda scosse il capo.
    
    - No, non accetto, - disse - anche perché non desidero di mettermi
    in vista dopo l'accaduto e per un riguardo a Fabio, al quale sono
    legata da un giuramento, che manterrò. Lasciatemi riflettere qualche
    giorno, e poi vi dirò quello che farò.
    
    - Come volete.
    
    - Oggi è mercoledì; tornate sabato sera, non prima.
    
    - Vi obbedirò. -
    
    Il conte era internamente irritato, ma salutò con garbo la ragazza
    ed uscì.
    
    Fremeva d'ira. Egli si era giurato di far sua quella giovane che,
    bella com'era, aveva scatenato in lui una passione sensuale. Alla
    moglie, non pensava più.
    
    Aveva preso un alloggio da scapolo elegantissimo, e colà viveva a
    modo suo.
    
    Egli fu nervoso, impaziente in quei tre giorni che non potè recarsi
    da Ilda. Gli sembrava di non averla mai tanto desiderata.
    
    Il sabato sera si recò dalla giovane e salite in fretta le scale
    sonò timidamente il campanello.
    
    Nessuno rispose. Sonò più forte: sempre silenzio. Un turbamento
    invincibile lo invase. Che era accaduto?
    
    Il conte scese lesto lesto le scale, entrò come una bomba dal
    portinaio, e domandò:
    
    - La signorina Ilda?
    
    - La signorina Ilda lasciò il suo alloggio ieri mattina, - rispose
    il portinaio - senza darci il suo nuovo indirizzo. Soltanto mi
    disse: «Se venisse un signore a chiedervi mie notizie, gli direte
    che le troverà in una lettera ferma in posta.»
    
    - Va bene, grazie! - disse il conte dando la mancia al portinaio e
    andandosene.
    
    Si recò alla posta a ritirare la lettera a lui diretta.
    
    L'aperse e lesse:
    
    «Signor conte, mi perdoni se ricambio male le sue premure, ma una
    volontà più forte della mia ragione mi spinge ad allontanarmi dalla
    casa dove conobbi al tempo stesso la felicità e la sventura, né
    desidero rivelare a lei o ad altri dove mi ritiro, Perché mi
    crederebbero pazza. Intanto le rimborso le 150 lire da lei spese per
    i funerali della mamma. La prego di perdonarmi se non accetto il suo
    appoggio, ma una fanciulla sola non deve avere per amico un signore
    ricco e giovane come lei. Non dimentico però i suoi benefizi e
    pregherò Dio che la ricambi con tanta felicità.
    
    «Mi creda sua devotissima e obbligatissima serva
    
    «Ilda.»
    
    Il conte, nella sua rabbia, fece una pallottola della lettera, la
    stracciò coi denti.
    
    Quella fanciulla si era presa giuoco di lui.
    
    Dove si era recata?
    
    - Stupida! - disse a denti stretti. - Credi forse che rinunzi a te?
    No, ti troverò, Perché ti amo e ti voglio! -
    
    E, a passi concitati, si diresse al circolo.
    
    PARTE SECONDA
Virtù d'amore.
    
    I.
    
    Sonavano le nove di sera, pioveva a dirotto.
    
    I commessi del magazzino dove era stato impiegato Fabio si erano già
    tutti ritirati, il facchino stava mettendo le bande alle vetrine del
    negozio, e il principale, dato uno sguardo ai conti della giornata,
    si accingeva a recarsi a cena, quando una giovane vestita a lutto,
    pallida, bellissima, entrò vivamente dirigendosi verso lui.
    
    - Signor Berardo! - balbettò con voce commossa.
    
    - Ilda, voi? Finalmente!... Siete guarita?
    
    - Sì, signore, e desidererei parlarle. Mi perdoni se vengo a
    quest'ora, ma desideravo che fosse solo per non essere veduta.
    
    - Aspettate un momento, entrate nel mio gabinetto; faccio terminare
    di chiudere, prendo le chiavi, mando via il facchino e sono da voi.
    -
    
    Ilda obbedì, e poco dopo il signor Berardo la raggiunse chiedendole
    con bontà:
    
    - Che avete da dirmi, Ilda? Che posso fare per voi?
    
    - Lei può farmi molto bene, signore; e poi, è l'unico cui possa
    confidarmi, senza timore che le mie parole vengano ripetute. -
    
    Il signor Berardo sorrise.
    
    - Vedo che mi conoscete bene. Orsù, dunque, coraggio!
    
    - Oh! ne ho, signore, nonostante la doppia sventura che mi ha
    colpita. Le scrissi, tempo fa, dicendole che poteva disporre del mio
    posto, perché io non mi sarei sentita la forza di rimanere nel luogo
    dove tutto mi ricordava Fabio. Aggiunsi inoltre che la morte
    improvvisa di mia madre aveva finito con l'abbattermi e che ero
    malata....
    
    - Sì, lo ricordo, ho la vostra lettera. Ebbene, ora volete tornare
    con noi? -
    
    Ilda scosse il capo.
    
    - No, signore: i motivi che mi impediscono di rimanere qui,
    sussistono sempre. E poi, io ho bisogno di molte ore di libertà per
    giungere allo scopo che mi sono prefissa: ritrovare colui che spinse
    Fabio ad un così esecrando delitto. -
    
    Il signor Berardo la guardò, commosso.
    
    - Vi auguro di riuscire. Intanto, che posso fare per voi?
    
    - Ascolti ancora un momento, abbia pazienza, non voglio nasconderle
    cosa alcuna. Dopo la morte di mia madre, io lasciai la casa dove
    dimoravo e mi recai ad abitare nella soffitta stessa
    dell'assassinata, senza dire chi fossi. Per non essere riconosciuta
    dagl'inquilini che assistettero al processo, porto di solito una
    parrucca bionda, mi tingo le guance col minio, metto sotto il
    corsetto un'imbottitura che mi ingrossa, e con lo stesso artificio
    ingrosso i miei fianchi.
    
    - Perché stasera non siete truccata così?
    
    - Perché non volevo farle brutta impressione. Ma d'ora innanzi ella
    mi rivedrà trasformata. Nella nuova casa ho assunto il nome di Laura
    Favre, che è quello d'una mia bisnonna, nata e morta ad Aosta. Ora
    io sono a pregarla di procurarmi del lavoro in casa, per guadagnarmi
    da vivere.
    
    - Il guadagno non sarà lauto.
    
    - Io non sono esigente: pochi soldi bastano a mantenermi.
    
    - Ma incontrerete delle spese per lo scopo che vi proponete.
    
    - Ho venduto una parte dei mobili della mia povera mamma e diversi
    oggetti d'oro, e ne ho ricavato trecento lire, metà dello quali
    restituii a persona che me le aveva prestate per i funerali della
    mamma.
    
    - Perché non vi siete rivolta a me?
    
    - Ero così stordita dai colpi ricevuti, da perdere la percezione
    delle cose. Quella persona mi offrì allora i suoi servigi, che non
    ricusai. Ma volli tosto sdebitarmene, Perché non ho fiducia in
    costui, benchè sia un gentiluomo. Così mi rimangono centocinquanta
    lire: un piccolo tesoro! -
    
    Il signor Berardo appariva commosso.
    
    - Un tesoro che finirà presto, - disse - benchè sappiate regolarvi.
    Però, ove foste in bisogno, ricordatevi di me. Intanto state certa
    che il vostro segreto sarà custodito; ora io scriverò il vostro
    nome, Laura Favre, fra le lavoranti in casa, e stasera stessa vi
    consegnerò una pezza di stoffa per farne camicette. Vi unirò gli
    ultimi figurini. Le misure per tali camicette già le conoscete.
    Invece di pagarvele un tanto l'una, come faccio di solito, vi
    passerò in complesso quattro lire al giorno, ed ogni sabato sera,
    quando saranno uscite le lavoranti, verrete a ritirare il vostro
    onorario. Non vi disturbate a venire a prendere e riportare il
    lavoro: vi manderò una piccola nuova, che non vi conosce. -
    
    Ilda l'ascoltava con le lacrime agli occhi.
    
    - Come è buono! In qual modo potrò dimostrarle la mia riconoscenza?
    
    - Col rimanere onesta, come siete stata fino ad ora. Inoltre, badate
    di non commettere imprudenze nel ricercare il colpevole.
    
    - Non dubiti! -
    
    Il colloquio durò ancora pochi minuti, poi Ilda si accomiatò dal
    generoso negoziante e, preso il suo lavoro, si diresse verso casa.
    
    Giunta nella soffitta, accese una lampada a petrolio, si svestì e
    indossò un vestitino semplice da casa, imbottito alle anche ed al
    corsetto, che ingrossò subito la sua svelta figura; sulle strette
    trecce nere pose una capigliatura, bionda, così bene accomodata che
    pareva vera, e che le cinse il capo come un diadema.
    
    Quella capigliatura dette un fascino nuovo alla sua bellezza.
    
    Si passò poi sul volto uno strato di veloutine e sulle guance un po'
    di minio.
    
    Quand'ebbe finito, sentì bussare all'uscio.
    
    - Signorina Laura! -
    
    Essa aprì: era Teresa, la moglie del falegname.
    
    - Uscite, signorina?
    
    - Sono tornata a casa adesso, Perché mi sono recata a prendere del
    lavoro, - rispose Ilda. - Piove forte.
    
    - Lo so, e siccome devo scendere per la cena prima che torni il mio
    uomo, vi pregherei di prestarmi l'ombrello.
    
    - Volentieri. -
    
    Uscita Teresa, Ilda si preparò anch'essa la cena.
    
    La giovane aveva tenuti i suoi mobili migliori, e nulla le mancava
    del necessario.
    
    Quando prese a pigione la soffitta, la portinaia non mancò di
    avvertirla che ivi era stato commesso un delitto, ma essa le disse:
    
    - Per me, non ho alcun timore: l'ombra di quella povera morta, che
    non ho conosciuta, non verrà a turbarmi, né, spero, mi accadrà ciò
    che accadde a lei. Io non ho amanti....
    
    - Neppure Giulietta ne aveva: era una ragazza onestissima, di buona
    famiglia. Ebbe dapprima la sfortuna d'imbattersi in un farabutto
    che, dopo averla resa madre, l'assassinò, per sposarne un'altra.
    
    - L'avete conosciuto, costui?
    
    - A dirle il vero, no: questo casamento è troppo grande per tener
    d'occhio tutti.
    
    - Si deve stare poco sicuri nelle stanze.
    
    - Oh! per questo le devo dire che in dieci anni che io sono qui, non
    è mai accaduto un furto.
    
    - Ho almeno dei buoni vicini?
    
    - Ottimi, e saranno felici di esserle utili. -
    
    Ilda pagò subito l'affitto di due mesi, ed il giorno dopo prendeva
    possesso della soffitta di Giulietta sotto il nome di Laura Favre.
    
    Non era trascorsa una settimana, che aveva già fatto amicizia colle
    vicine, cui disse che era orfana e lavorava per conto di un
    importante magazzino.
    
    - Un'altra Giulietta; - fu detto - ed ancora più bella!
    
    - Auguriamoci che non faccia la sua fine!
    
    Questi furono i discorsi delle comari; poi, nessuno si curò di lei
    più di quanto si usa fra vicini.
    
    Ilda aveva il suo piano ed a poco a poco l'avrebbe messo in
    esecuzione.
    
    Intanto si sentiva molto più libera in quella soffitta che nel
    quartierino dove la sua povera mamma era morta.
    
    Ilda aveva terminato la sua modesta cena, quando bussarono di nuovo
    all'uscio.
    
    - Sono io, sono Teresa, - disse una voce al di fuori.
    
    La giovane aprì subito.
    
    - Vi restituisco l'ombrello e vi ringrazio, - disse Teresa, - Ma
    Perché, invece di star qui sola sola, non venite a passare il resto
    della sera da noi? Faremo una partita a tombola; ci sarà anche
    un'altra giovane della vostra età, per scambiare quattro
    chiacchiere. Accettate?
    
    - Con tutto il cuore! - rispose Ilda, che voleva accaparrarsi la
    simpatia delle vicine.
    
    - Allora vi aspettiamo, - soggiunse Teresa. - Vado ad avvertire
    anche Vigia. -
    
    Ilda la seguì poco dopo.
    
    Alla tavola coperta di un tappeto rosso sedevano il falegname, un
    giovane in abito da operaio ed una giovane sui vent'anni, dal volto
    sfrontatello ma seducente, con una bocca incantevole e bellissimi
    denti.
    
    All'entrare di Ilda, tutti si alzarono, e dopo uno scambio di
    complimenti, le due ragazze sedettero vicino.
    
    Vigia assunse tosto un tono familiare.
    
    - Ho proprio piacere di conoscerti, - disse - Perché mi sei molto
    simpatica.
    
    - Ti ringrazio, - rispose Ilda con un sorriso. - Io pure sono lieta
    di trovare tante amabili persone. Alla mia età l'isolamento pesa
    molto.
    
    - Non avete parenti, in Torino? - chiese Teresa.
    
    - No; - rispose Ilda - mio padre e mia madre erano d'Aosta.
    
    - Che mestiere fai? - chiese Vigia.
    
    - Lavoro in casa per un magazzino di mode.
    
    - Anch'io sono sarta, ma stenterei parecchio se non avessi i miei
    genitori. Guadagnano poco anche loro, ma tutti insieme, si va
    avanti, E quando Nando mi avrà sposata.... -
    
    Così dicendo si rivolse al giovane, che sedeva alla sua destra, e
    battendogli una mano sulla spalla:
    
    - Via, di' anche tu qualche cosa, invece di guardarci a bocca
    aperta. -
    
    E ridendo soggiunse:
    
    - Vedi, Ilda, egli è più timido di me; ma in compenso è un buon
    ragazzo, guadagna una buona giornata, e sarò felice con lui.
    
    - Lo spero, - si affrettò a dire il giovane - benchè non sappia
    mostrarti abbastanza il mio amore. -
    
    Vigia continuava a ridere.
    
    - Tanto lo sai, non mi piacciono le sdolcinature. Quando per la
    strada incontro qualcuno di quei giovani inamidati, che rivolgono
    alle ragazze complimenti al latte e miele, mi sentirei la voglia di
    schiaffeggiarli, Perché so bene che ogni loro parola è una menzogna.
    
    - Avete ragione! - esclamò Teresa.
    
    - Se la povera Giulietta, - soggiunse Vigia - l'avesse pensata come
    me, invece di attaccarsi a quel tipo che poi l'assassinò, avrebbe
    sposato un onesto operaio e sarebbe ancora viva e felice.
    
    - Giulietta è la giovane che fu assassinata nella soffitta dove io
    abito? - chiese Ilda con accento di curiosità.
    
    - Precisamente, - rispose Vigia - ed hai avuto davvero un bel
    coraggio. Io non starei in quella stanza per tutto l'oro del mondo!
    Mi parrebbe di vedere tutte le notti quell'ombra sanguinosa, oppure
    che mi comparisse dinanzi l'assassino.
    
    - Era bella, quella ragazza? - domandò Ilda.
    
    - Un angelo! - esclamò il falegname.
    
    - E buona, onestissima! - soggiunse la moglie.
    
    Vigia alzò le spalle.
    
    - Io non voglio contestare i suoi meriti, ma dovete però convenire
    che, con tutte le sue buone qualità, era molto superba. Essa rifiutò
    ottimi partiti, Perché essendo bravi operai avevano le mani callose!
    E si attaccò a quel figuro, Perché lo credette un signore.
    
    - E non lo è? - chiese Ilda.
    
    - Ma che signore! È un semplice commesso di magazzino, se è proprio
    lui che l'ha sedotta.
    
    - Come, ne dubiteresti? - proruppe Teresa con impeto. - E lo dici a
    me, che ho veduto quell'intrigante, quell'assassino?
    
    - Non vi riscaldate! - soggiunse Vigia. - Io non voglio smentire la
    vostra asserzione, ma voi potreste giurare che l'assassino è
    veramente colui che Giulietta diceva suo fidanzato?
    
    - Ma sì, sì! - replicò Teresa con un turbamento che si sforzava di
    nascondere. - L'ho riconosciuto anche dal neo sulla guancia
    sinistra. -
    
    Ilda palpitava.
    
    Teresa proseguì:
    
    - Era biondo, di media statura. Infine, se non fosse stato lui,
    Perché avrebbe confessato il suo delitto?
    
    - Sì.... sì; so benissimo che la mia è una idea stramba. Non se ne
    parli più. Giuochiamo a tombola! -
    
    La veglia si protrasse fin verso le dieci. E quando Vigia si separò
    da Ilda, questa le chiese in tono calmo:
    
    - Dove vai a lavorare?
    
    - Sono stata fino a pochi giorni fa da una sarta qui vicino, ma ora
    che non c'è lavoro, ne profitto per completare il mio magro corredo.
    
    - Allora, vieni a lavorare con me: ci terremo compagnia e il tempo
    passerà meglio.
    
    - Accetto con tutta l'anima. -
    
    Le due giovani si baciarono cordialmente.
    
    Quella notte Ilda non dormì. Ella pensava:
    
    - Era biondo, e aveva un neo sulla guancia sinistra. Anche il conte
    Livio ha lo stesso neo! Ma no, ciò ch'io penso è insensato! Per
    quanto Fabio amasse il suo benefattore, non sarebbe giunto al punto
    di commettere per lui un assassinio. Eppure, per chi altri Fabio
    nutriva tanta devozione o tanto attaccamento? -
    
    E l'atroce dubbio diventava quasi certezza. In tali ansie, Ilda
    soffrì tutta la notte, e alzatasi all'alba si mise al lavoro.
    
    Alle otto Vigia bussò all'uscio.
    
    - Ti disturbo? È troppo presto?
    
    - No, no, vieni pure. -
    
    Per un poco parlarono di futilità. Vigia rideva sempre, mostrando i
    bianchi denti, ammirando i mobili della soffitta.
    
    - Tu sei arredata come una principessa; - disse infine - la tua
    stanza può stare a confronto con quella del signor Aldo.
    
    - Chi è?
    
    - Uno studente che abita qui vicino; un bel giovinotto, sebbene
    troppo serio....
    
    - Non l'ho ancora veduto; per ora non conosco che te, il tuo
    fidanzato e i coniugi Pavin. A proposito: ieri sera ti rimbeccavi
    con Teresa per il delitto commesso in questa stanza. Tu non credi
    dunque che l'assassino sia colui che è stato condannato? -
    
    Vigia si sfogò volentieri.
    
    - Io non nego che colui sia stato l'assassino; e sarebbe assurdo
    pensare altrimenti, dopo che egli stesso ha confessato. Dico
    soltanto che in quel delitto vi è un mistero; e se ti racconto in
    qual modo avvennero i fatti, sono certa che mi darai ragione.
    Ascolta: Giulietta era figlia di un militare in ritiro, aveva avuta
    una buona istruzione ed è forse per questo che sdegnava accasarsi
    con un operaio, Dopo la morte del padre dovette pensare a
    mantenersi. Lavorava per conto di un negoziante. Molti giovinotti
    del casamento le fecero la corte; ma erano operai e Giulietta li
    respinse. Voleva un signore ed un signore l'ha avuto.
    
    - Conoscevi il suo innamorato? - chiese Ilda.
    
    - Lo vidi una sola volta con lei, mentre l'accompagnava a casa. Io
    ero dietro alle loro spalle e rallentai il passo per non farmi
    scorgere. Ebbene, ti assicuro che non poteva essere un commesso; un
    giovane di negozio, specialmente nei giorni feriali, non veste con
    tanta eleganza, non porta guanti e bastoncino, come aveva il
    compagno di Giulietta.
    
    - Lo riconosceresti, vedendolo?
    
    - Sì, se lo vedessi per di dietro, con una donna: aveva un
    portamento signorile e chinava la testa verso Giulietta in un modo
    che non s'usa fra gli innamorati del nostro ceto. Ma per certo
    costui, quando ebbe ottenuto dalla ragazza ciò che volle, prese il
    volo. Nel casamento dicono che quel signore fosse il primo e il solo
    amante di Giulietta. Ma io credo invece che dopo costui, essa
    conoscesse il commesso, il quale le fece forse promesse che poi non
    voleva mantenere. Giulietta, scottata una volta, per non essere
    scottata la seconda l'avrà minacciato, e lui, per sbarazzarsene, la
    uccise. -
    
    Ilda, che si era rianimata al principio del discorso, cominciava a
    perdere ogni speranza.
    
    - Ah! tu credi che quel signore non entri nel delitto commesso?
    
    - No; dopo tre anni di abbandono, Perché ucciderla? Lo avrebbe fatto
    prima. E che l'assassino non sia il padre della bambina lo ha detto
    egli stesso in piena udienza, sebbene molti non lo abbiano creduto.
    Ma le circostanze del delitto hanno del romanzo e del mistero, -
    soggiunse Vigia. - Quella sera io ero a letto, quando mi svegliai
    udendo passi e grida nel corridoio. Mi alzai, m'infilai una sottana,
    e via, con la mamma a vedere che cosa accadeva.
    
    «Entrata in questa stanza, scorsi Giulietta distesa sul letto
    crivellata di ferite. L'assassino era tenuto da alcuni uomini. Ma
    ciò che mi stupì fu di vedere presso il letto di Giulietta, colla
    bambina della misera fra le braccia, una signora bellissima, adorna
    di gioielli, elegante, tanto da far restare a bocca aperta. Il
    signor Aldo disse che era sua sorella; ma io non lo credo: una
    signora con tutti quei brillanti non lascia il fratello in una
    soffitta. Dunque: primo mistero. -
    
    Ilda sorrise.
    
    - Sentiamo il secondo, Perché questo non mi sembra riguardi la
    morta, sibbene il signor Aldo. Quella signora sarà stata sua
    amante....
    
    - È ciò che ho pensato anch'io. Ma viene lo strano. Giulietta, colle
    cure del medico, si riebbe un momento, e veduta la signora, gettò un
    grido di terrore e disse:
    
    «- Lei? Lei? Ma non sa...? -
    
    «E ricadde morta. Dunque: secondo mistero.
    
    - Sì, ciò è strano. Ma quelle parole saranno state raccolte, la
    signora avrà dovuto comparire nel processo, e tu saprai adesso chi
    sia.
    
    - Niente affatto, ed ecco il terzo mistero. La signora non fu citata
    fra i testimoni, e nessuno l'ha più riveduta. Il signor Aldo disse
    che era partita per Ivrea e si trovava indisposta; inoltre, essendo
    venuto un pezzo grosso della magistratura a prendere la bambina con
    un signore che si qualificò come il cognato dello studente, tutti
    prestarono fede a quella storiella, all'infuori di me.
    
    - Che ne concludi?
    
    - Concludo che fra Giulietta e quella signora doveva esservi qualche
    segreto, e penso talvolta che l'assassino sia stato un mandatario
    della sconosciuta, che ora si è impadronita della bambina volendo
    forse sopprimerla come la madre. E mi confermo sempre più nella mia
    idea, Perché il signor Aldo, dopo aver promesso a Teresa Pavin di
    condurla ad Ivrea per vedere la bambina, ha detto che la sorella ed
    il cognato sono partiti per la Spagna a cagione di un'eredità
    conducendo seco Gina, che ormai considerano come loro figlia. -
    
    Ilda corrugò la fronte.
    
    - Il signor Aldo sarebbe dunque un complice?
    
    - Ne ho il sospetto, e ti confesso che mi era venuta la tentazione
    di spiarlo per sapere dove si reca quando si assenta per due o tre
    giorni.
    
    - Si assenta spesso?
    
    - Ogni quindici giorni; l'ho saputo da Teresa, alla quale ha dato ad
    intendere che egli fa dei piccoli viaggi per i suoi studi
    d'ingegneria.... Ma io credo che abbia altro scopo. Alla perfine ho
    pensato: che deve importare a me dei suoi intrighi? Perché
    immischiarmi nei suoi affari? Giulietta non era mia amica e non
    tocca a me vendicare la sua morte. Così lascio correre l'acqua per
    la sua china. Ed ora sarà meglio che discorriamo d'altro. -
    
    II.
    
    Lucia, colei che fu l'istitutrice di Bianca, stava leggendo il
    giornale favorito dal signor Moreno, padre della contessa Rossano,
    inchiodato da una settimana su di una poltrona dai dolori reumatici,
    quando una carrozza entrò nel vasto cortile della tenuta.
    
    Poco dopo Bianca abbracciava Lucia e il genitore.
    
    - Babbo, la tua lettera mi ha spaventata; che hai?
    
    - Dolori reumatici, come ti ho scritto nella speranza che tu venissi
    a abbracciarmi. Gli anni scorsi al principio di maggio eri già qui,
    e quest'anno lasciavi trascorrere quasi l'estate senza venire a
    vedermi! -
    
    Bianca aveva chinato il viso sul petto del padre per nascondere il
    suo rossore.
    
    - Che vuoi! Non è colpa mia. Livio non è mai libero.
    
    - Non è venuto con te?
    
    - Verrà fra qualche settimana. È molto occupato....
    
    - Ma che fa?... Orsù, me lo dirai più tardi, quando ti sarai
    riposata.
    
    - Non sono stanca, e appena avrò rinfrescato il viso tornerò da te.
    -
    
    E presa a braccetto l'istitutrice, si avviò con lei nella sua camera
    da fanciulla.
    
    Celia vi si trovava già e disfaceva le valigie.
    
    Bianca indossò un semplice abito da casa, poi tornò presso il padre.
    Appoggiò la bella testa alla spalla del vecchio, che era molto
    commosso.
    
    - Cara bambina, - diss'egli - Perché non posso averti sempre con me?
    Io non ho che te al mondo e ti amo tanto! Ma ho torto di lamentarmi,
    mentre tu sei così felice! -
    
    Bianca sussultò, e alzando il capo:
    
    - Sì, sono felice! - disse con semplicità.
    
    - Livio è sempre buono con te? -
    
    Ella non seppe mentire.
    
    - Io non pensavo a lui in questo momento, - disse.
    
    - A chi dunque? - chiese il padre con un sorriso.
    
    Bianca chinò gli splendidi occhi.
    
    - A te, a te solo!
    
    - Hai forse da lamentarti di tuo marito?
    
    - No, no.
    
    - Bianca, tu mi nascondi qualche cosa, lo sento!
    
    - L'amore immenso che mi porti, babbino, ti fa travedere. Io nulla
    ti nascondo, e ti accerto che sono felice. -
    
    Quest'ultima frase tranquillò il vecchio.
    
    Una mattina, mentre il signor Moreno dormiva ancora, Bianca, vestita
    di un semplice abito di campagna, uscì dalla tenuta e si mise per
    una strada ombrosa, che, serpeggiando, andava fino ad una chiesuola.
    
    La campagna era piena di profumi. Bianca passava per quella strada
    come una bianca apparizione.
    
    Essa aveva il cuore pieno di gioia.
    
    Aldo le scriveva ogni giorno, e le lettere di lui erano il punto
    luminoso della sua vita.
    
    Egli le parlava dei suoi studi, delle sue speranze di essere in
    quell'anno laureato, delle sue scappate ad Ivrea per vedere la loro
    bambina, le dava un minuto ragguaglio sulle famiglie che per mezzo
    di lei beneficava. E ad ogni frase scaturiva l'animo generoso del
    giovane, la sua fede ardente in lei, il suo immenso amore.
    
    Bianca sedette sopra una panchina, pensosa al suo amore. A un tratto
    una voce dietro di lei la fece volgere vivamente.
    
    - Contessa.... -
    
    Era il marchese di Passiflora che la salutava, colui che ella aveva
    un giorno respinto per marito e che era stato compagno d'orge di
    Livio col quale era ancora, in apparenza, amico.
    
    Bianca rese il saluto freddamente.
    
    Passiflora le sedette accanto.
    
    - Non speravo un così bell'incontro, - disse il marchese - tanto più
    che ieri vidi Livio a Torino.
    
    - Infatti mio marito è rimasto là, - rispose freddamente Bianca.
    
    - Fate male a lasciarlo solo! Egli vi sarà infedele! -
    
    Bianca alzò con alterezza il capo.
    
    - Voi offendete il vostro amico!
    
    - Lo pago colle medesime armi, - rispose il marchese. - Un
    malaugurato giorno Livio venne con altri compagni alle mie cacce.
    Alla fine di un pranzo, il discorso cadde sul matrimonio, ed io
    confessai che una sola volta fui in procinto di prendere moglie, ma
    che la fanciulla la quale aveva destato in me un amore infinito, mi
    aveva respinto Perché aspirava a un uomo che non avesse la più
    piccola macchia amorosa sul suo passato. Io, invece, ero stato un
    gaudente, un libertino. Voi sapete chi fosse quella fanciulla e come
    allora avesse ragione di credere che io non potevo essere un buon
    marito per lei. -
    
    Quest'ultima frase ora stata pronunziata con un accento di vera
    malinconia, che fece provare un senso di inquietudine a Bianca. Ma
    essa si dominò, e cercando di sorridere:
    
    - Voi forse esageravate i vostri difetti, - disse - ed io ero troppo
    bambina per giudicare gli uomini.
    
    - È giusto! E come succede sempre alle fanciulle inesperte, finiste
    col cadere in un abisso.
    
    - Marchese! - esclamò Bianca, facendo l'atto di alzarsi.
    
    Ma il gentiluomo frenò quello slancio, e con voce umile, commossa:
    
    - Perdonatemi, perdonatemi, - supplicò - e lasciatemi almeno finire!
    I miei amici vollero sapere chi era la fanciulla che amai, ed io
    dissi il vostro nome, facendo di voi un ritratto sublime, e
    aggiungendo che oltre alla bellezza, avreste portato in dote due
    milioni. -
    
    Bianca impallidì.
    
    - Quanto male mi faceste! - esclamò a suo malgrado, con accento di
    amarezza.
    
    - È vero, - soggiunse con aria mesta il marchese - lo compresi
    quando non ero più in tempo a porvi riparo. Livio, crivellato di
    debiti, scòrse in voi una tavola di salvezza, e abilissimo
    conquistatore, seppe affascinarvi. Io soffersi più di quello che
    possiate immaginare il giorno in cui vi vidi dinanzi all'altare con
    un uomo, che dopo essersi impossessato del vostro cuore vi avrebbe
    preso la vostra ricchezza né si sarebbe curato della vostra
    felicità. Io giudicavo freddamente Livio, Perché conoscevo quanto
    valeva. Eppure, vi giuro che se egli, pentito dei suoi trascorsi,
    fosse divenuto un buon marito sarei stato il primo a goderne. Ma non
    è così.... e voi sapete che dico il vero. -
    
    Bianca, fremente, si guardò intorno.
    
    - Tacete! Se qualcuno vi ascoltasse....
    
    - Non abbiate timore, nessuno può spiarci, qui. Ed io adesso voglio
    dirvi tutto. -
    
    Bianca lo guardò intensamente.
    
    - Livio è vostro amico! - mormorò.
    
    - Fu, un giorno, mio compagno di dissolutezze; - rispose il marchese
    - ma non ebbi mai amicizia per lui, ed ora lo disprezzo in modo
    assoluto, Perché capisco che corre alla rovina senza badare se voi
    stessa sarete travolta in quel turbine. Egli passa le notti alla
    tavola da giuoco, ed ha per amante una certa Cinzia, venuta da
    Milano, un'ex-ballerina, che egli conobbe per l'addietro. -
    
    Bianca fremeva. Il nome di Cinzia evocava il ricordo della lettera
    caduta dalle tasche dell'abito di Livio, della lettera che distrusse
    tutte le sue illusioni.
    
    - Tempo fa, - soggiunse Passiflora - lo rimproverai aspramente per
    la sua condotta, ma egli si mise a ridere, mi disse di curarmi dei
    fatti miei. Volevo dunque avvertire vostro padre di quanto
    succedeva.... -
    
    Bianca mandò un gridò di spavento, stese supplichevole le mani al
    gentiluomo.
    
    - Per pietà, - disse - risparmiate mio padre, che nulla sospetta,
    che mi crede sempre felice con Livio! -
    
    Passiflora la guardò commosso.
    
    - E voi sapevate...?
    
    - Sapevo già tutto quanto mi avete detto, - interruppe con voce
    soffocata. - Da lungo tempo la benda mi è caduta dagli occhi, e se
    non ho fatto uno scandalo, è stato per mio padre, che ne morrebbe di
    dolore.
    
    - Come potete sopportare l'oltraggio che Livio vi fa subire e che
    non tarderà ad essere noto a tutti? Costui, dopo avervi oltraggiata,
    vi rovinerà.
    
    - Livio non può toccar nulla della mia dote.
    
    - Egli farà dei debiti e finirà col minacciarvi, se non acconsentite
    a pagarli. Date retta a me, avvertite vostro padre finchè siete in
    tempo.
    
    - No, no! Conosco mio padre: egli ucciderebbe quel miserabile! Dopo
    tutto, io non soffro. Livio per me non esiste più; anche se lo
    vedessi nelle braccia di un'altra, mi tornerebbe indifferente. Non
    l'amo più, non lo stimo: lo disprezzo. Egli vive a suo modo, io mi
    occupo dei miei poveri, sono libera di andare e venire come mi pare,
    senza rendergli conto dei fatti miei e sono contentissima.
    
    - Contessa, il mondo è maligno; qualcuno potrebbe scusare la
    condotta di vostro marito vedendovi godere tanta libertà.... -
    
    Bianca l'interruppe con un moto altero.
    
    - Che importa a me il giudizio del mondo? - esclamò. - La mia
    coscienza nulla mi rimprovera....
    
    - Potrete sempre dire così, giovane e bella come siete? Contessa,
    ascoltate un amico sincero, che vi vuol bene: cercate di riunirvi a
    vostro marito.
    
    - Mai!
    
    - Accettate allora l'appoggio di un gentiluomo onesto che si
    dedicherà tutto a voi. Affidatevi completamente a me, Bianca, che
    tutto sacrificherei per assicurare la vostra felicità. -
    
    Passiflora si era chinato verso la giovane, ed ella sentì il suo
    alito ardente bruciarle le guance.
    
    Scattò in piedi con impeto, e fatto un passo indietro disse con voce
    glaciale:
    
    - Vi ringrazio, marchese, non accetto. Se dovessi chiedere
    l'appoggio di un uomo, sarebbe quello di mio padre; ma per ora basto
    a me stessa. Se siete un gentiluomo, non cercherete più di
    avvicinarmi e terrete segreto il nostro colloquio. -
    
    Passiflora, livido, si alzò a sua volta.
    
    - E se io andassi a raccontare ogni cosa a vostro padre?
    
    - Agireste da vile e vi crederei il degno compagno di Livio. -
    
    Bianca salutò Passiflora, rimasto come inchiodato al suo posto, e si
    allontanò di passo sicuro.
    
    III.
    
    Era una domenica mattina, una giornata splendida. Aldo, nella sua
    soffitta, stava preparando la valigia e canterellava. Aveva ragione
    di essere allegro. Il giorno prima, un biglietto di Bianca
    l'avvertiva che si recava a passare due giorni ad Ivrea.
    
    Aldo era ormai sicuro di avere conquistato il cuore di Bianca, che
    egli amava come poche anime elette sanno amare. Non sperava nulla,
    non desiderava nulla; mai una parola d'amore sarebbe sfuggita dalle
    sue labbra; ma sentiva che la sua anima era tutta di quella donna.
    
    Aldo chiuse la valigia, poi guardò l'orologio, mormorando:
    
    - Ho tempo di andare alla stazione a piedi. -
    
    Mentre usciva, non vide nel corridoio una donna velata che lo seguì.
    
    Alla stazione, messasi al finestrino accanto a lui, quella donna,
    che era Ilda, sentì che prendeva il biglietto per Ivrea e ne chiese
    uno per la stessa destinazione.
    
    Dopo i suoi colloqui con Vigia, Ilda non ebbe più altro pensiero che
    seguire i passi dello studente. Forse in tal modo scoprirebbe
    qualche mistero.
    
    Quando il treno giunse ad Ivrea, Ilda vide lo studente accolto da un
    gruppo di persone venute alla stazione ad attenderlo. Vi erano due
    signore, una bruna e una bionda, una bambina con lunghi riccioli
    biondi ed un bell'uomo, alto, sorridente, piacevole.
    
    Ilda osservò che Aldo baciò tutti, all'infuori della signora bruna,
    alla quale si era limitato a stringere la mano. Ma la bimba aveva
    afferrato il giovane per una falda dell'abito, dicendo con voce
    squillante:
    
    - Non baci anche la mammina?- -
    
    Lo studente si avvicinò tutto rosso alla signora bruna, che gli
    porse la fronte.
    
    Poi il gruppo si avviò all'uscita.
    
    Ilda rimase sconcertata. Tutta quella gente non aveva nulla di
    misterioso. Per certo costoro nulla avevano a che fare
    coll'assassinio di Giulietta, né Fabio poteva conoscerli. Ma la
    bimba della vittima dov'era? Quell'angioletta bionda, che
    chiacchierava con un cinguettìo d'uccello, camminando per mano allo
    studente, chiamò mammina la signora bruna; dunque non poteva essere
    la figlia di Giulietta! Che ne era stato di quella piccina? Era
    veramente in Ispagna con una sorella di Aldo?
    
    Ilda era uscita dalla stazione dietro al gruppo senza che nessuno le
    badasse. Li vide entrare in una casa poco distante, e quando furono
    spariti chiese a sé stessa:
    
    - Che fare? Tornare addietro? Nessun treno riparte adesso per
    Torino. Fingerò di essere una forestiera venuta a visitare questi
    dintorni per trovarvi una villetta da prendere in affitto, e intanto
    prenderò informazioni su Aldo. -
    
    Si avviò per una strada di campagna, e vide una contadina camminare
    per la stessa via. Le si avvicinò.
    
    - Scusate, - disse - vorrei farvi una domanda: c'è qualche famiglia
    nei dintorni che dia stanze in affitto e pensione per un mese o due?
    
    - Sì, signora; posso accompagnarla io stessa ad una trattoria di
    campagna, qui vicina, dove danno anche alloggio: un luogo pulito,
    frequentato da persone oneste.
    
    - Vi ringrazio. -
    
    Strada facendo continuarono a discorrere.
    
    - La signora non è mai stata da queste parti? - chiese la contadina.
    
    - Ci venni una volta, da bambina. La mia povera mamma conosceva
    molte persone di questi luoghi, fra cui la famiglia Pomigliano.
    
    - Ma non è d'Ivrea, è di San Giorgio Canavese: lo so, Perché mio
    marito aveva un fratello, in quel paese, manovale presso la famiglia
    Pomigliano.
    
    - Forse non sarà la stessa! - osservò Ilda.
    
    - Nella famiglia di cui parlo io, - proseguì la contadina - vi era
    una bella ragazza bionda, la signorina Severina, che si è maritata
    appunto qui in Ivrea, ed un ragazzo, il signor Aldo, ora studente a
    Torino.
    
    - Sì, sì! - esclamò Ilda. - Sono proprio i nomi che sentivo dire da
    mia madre. Essa mi diceva che erano buona gente.
    
    - Dica che è difficile trovarne migliore. I vecchi Pomigliano,
    marito e moglie, hanno lavorato e lavorano, si può dire, notte e
    giorno per mantenere il figlio agli studi, e coi loro risparmi hanno
    dato una buona dote alla Severina, che è un angelo di donna, sposata
    a un vero galantuomo. L'unico loro dispiacere era di non aver figli;
    ma ora una parente, rimasta vedova, ha affidato loro una bambina,
    che è un amore. Il signor Aldo, che adora la sorella, viene di
    quando in quando a trovarla. Se la signora vuol andare a trovarli,
    abitano in una bella casetta prossima alla stazione. -
    
    Erano giunte alla trattoria, una casetta modesta che aveva al primo
    piano una terrazza coperta di spesso fogliame, sotto cui non
    potevano filtrare i raggi del sole.
    
    Quivi erano preparate diverse tavole, come nel giardino sottostante,
    dove già si trovavano alcuni avventori. Ilda disse che pranzerebbe
    sulla terrazza.
    
    La contadina salutò Ilda, che le regalò due lire per il suo
    incomodo.
    
    - La giornata d'oggi mi costerà una bella somma, - pensava la
    giovane - e forse senza alcuna riuscita; ma non importa: non voglio
    trascurar nulla, per non aver rimorsi. -
    
    La padrona della trattoria, una donna cinquantenne, gioviale e
    simpatica, la condusse in una cameretta pulita, dalla cui finestra
    aperta si godeva una vista incantevole.
    
    - Le faremo subito il letto, signora, - disse - se vuol coricarsi.
    
    - No; mi sdraierò un poco sul divano, - rispose Ilda, che intanto si
    era tolto il cappello e mostrava il suo bel viso circondato da
    un'aureola bionda.
    
    La padrona del ristorante non potè rattenere un movimento
    d'ammirazione.
    
    - La signora viene per la prima volta da queste parti? - chiese.
    
    - No; vi fui da bambina, - disse Ilda - ed allora ero più felice di
    adesso, che mi trovo sola al mondo, vedova....
    
    - Così giovane e già vedova?
    
    - Sì, da pochi mesi.
    
    - Oh! povera signora!
    
    - Viaggio per svagarmi, e vorrei venire a villeggiare da queste
    parti.
    
    - Farebbe benissimo, Perché quest'anno si sta a maraviglia: abbiamo
    molti forestieri. Da ieri, alloggio il conte Rossano con la signora.
    -
    
    Ilda fece uno sforzo per non dimostrare la sua commozione.
    
    - Ah! sì? - disse semplicemente. - Di dove vengono?
    
    - Da Torino; la contessa ha voluto fermarsi al mio albergo, dove
    dice che passò i primi giorni della sua luna di miele. Anch'essi
    pranzano sulla terrazza. -
    
    La padrona dell'albergo lasciò Ilda dopo averle chiesto il nome che
    doveva segnare sul registro.
    
    - Vedova Laura Favre, - disse la giovane.
    
    E rimasta sola pensò:
    
    - Il conte Rossano qui? E con sua moglie? Conoscerò dunque quella
    contessa, che Fabio non ha mal veduta: sono stata ispirata bene
    venendo in questo luogo! Forse saprò cose utili per lo mie ricerche.
    -
    
    All'ora del pranzo ella si recò sulla terrazza, dove il conte
    Rossano era già colla sua compagna, una donna che attirava gli
    sguardi. Bruna, pallida, flessuosa, dagli occhi pieni di languore,
    aveva della silfide e della baccante ad un tempo. Ella parlava al
    conte ridendo, con un atteggiamento pieno di grazia voluttuosa. Ilda
    non poteva vedere il viso di Livio, Perché le volgeva le spalle.
    Però, ad alcune parole pronunziate sommessamente dalla compagna,
    egli si volse, ma non potè vedere di Ilda che l'opulenta chioma
    dorata: ella si era messa a sedere alla tavola apparecchiata per
    lei, dallo stesso lato, ma nell'ombra, e volgeva ad entrambi le
    spalle.
    
    Il conte non si curò più di quell'incognita e diè i suoi ordini ad
    un cameriere.
    
    Ilda cominciò a mangiare.
    
    Ad un tratto una frase in francese pronunziata dalla contessa
    attrasse l'attenzione della giovane. Ilda conosceva benissimo la
    lingua francese.
    
    - Insomma, non vi è più cosa alcuna che ti diverta? Rimpiangi forse
    tua moglie?
    
    - Chiudi la bocca su questo soggetto, - disse con tono brusco il
    conte - sai che mi irrita. Se non fosse per cagion tua, la contessa
    non avrebbe mai sospettato nulla. Ma io non penso a lei. -
    
    Ilda stupì. Dunque, quella non era la moglie del conte, sebbene egli
    la facesse passare per tale? Che dramma intimo era avvenuto in casa
    di Livio a cagione della donna che l'accompagnava?
    
    Un momento dopo la bella bruna riprendeva:
    
    - A chi pensi dunque? Se sei innamorato di qualche donna, parla:
    ormai con te sono avvezza a tutto! Già tu sei cambiato da quando
    passammo insieme gli ultimi giorni di carnevale; ti ricordi quella
    notte del giovedì grasso? Eri proprio insoffribile. E pensare che
    tua moglie a Torino piangeva di rabbia e di gelosia. Ah! ti avrei
    rimandato volentieri a lei! -
    
    Ilda ascoltava anelante. Dunque, il giovedì grasso di quell'anno il
    conte non si trovava a Torino. Ma Perché Fabio le aveva detto che il
    gentiluomo era partito colla moglie? Un turbine di pensieri la
    sconvolgeva.
    
    - Taci, Cinzia! - brontolò Livio.
    
    - No, voglio sfogarmi un poco, tanto qui nessuno per certo capisce
    il francese. Tu sei insoffribile, e non so Perché stia qui con te,
    invece di essere a Montecarlo a divertirmi. Sono una bestia, ma vi è
    in te qualche cosa che mi attira; forse i tuoi vizi. Non riderò....
    sì, tu sei l'uomo più vizioso che io abbia conosciuto; non hai
    cuore, non hai che i sensi, e scommetto che tu sogni già qualche
    nuovo intrigo con una seconda Giulietta....
    
    - Taci! - esclamò il conte con un accento così minaccioso, che
    Cinzia ammutolì.
    
    Vi fu silenzio. Al nome pronunziato da quella donna, Ilda divenne
    livida.
    
    Dunque, i suoi sospetti non erano infondati? Il conte aveva
    conosciuto Giulietta, e la sua mano armò quella di Fabio? Ma come
    averne le prove? Il conte, come pentito di aver trattato bruscamente
    la sua compagna, disse con voce tenera:
    
    - Cinzia, Perché rivangare vecchie storie? Se amassi un'altra,
    Perché ti avrei scritto di raggiungermi? Non sei tu forse per me più
    che un'amante, una camerata, cui posso intieramente confidarmi? Se
    oltre tutti i crucci che ho, tu pure mi tormenti, finisco col
    commettere qualche follìa. Sai bene che fin dal giorno in cui la tua
    lettera cadde nelle mani di mia moglie, la pace di casa se ne andò.
    
    - La contessa è una sciocca!
    
    - Lo credevo, mia cara; - interruppe il conte - invece è più furba
    di me e di te. Ella ha saputo mostrarsi inesorabile ed ha dettato i
    suoi patti. Mi ha bandito dal suo appartamento, mi ha lasciato
    libero di agire come voglio, assegnandomi quindicimila lire di
    rendita mensili, che mi verrebbero tolte se tentassi una
    riconciliazione.
    
    - Che vorresti di più?
    
    - Ho bisogno di denaro, - rispose con voce cupa il conte. - Ho
    perduto al giuoco duecentomila lire in poche sere, ho già impegnato
    la rendita di sei mesi....
    
    - Perché commetti simili pazzie?
    
    - Ne è causa una ragazza....
    
    - Oh! oh! Sapevo bene che gatta ci covava! Mi ricordo l'entusiasmo
    dimostrato al mio arrivo, le tue espansioni, le lacrime versate
    stringendomi fra le tue braccia, la gioia con cui accogliesti la
    proposta di lasciare per qualche tempo Torino. Pensai: «Livio ha
    qualche cosa da dimenticare.» E si tratta d'una ragazza?
    
    - Sì. Bella da fare impazzire. Essa mi è sfuggita quando credevo
    averla nelle mani.
    
    - È innamorata d'un altro?
    
    - D'un uomo che è in galera. -
    
    Ilda mordeva il tovagliuolo per non gridare.
    
    - Non hai un indizio dove costei sia nascosta?
    
    - No.
    
    - Che mestiere esercita?
    
    - È commessa in un negozio di mode.
    
    - Onesta?
    
    - Sì.
    
    - Bada, Livio, che a furia di sedurre fanciulle oneste tu finirai
    col lasciarci la pelle!
    
    - Questo potrebbe avvenire se m'innamorassi di una giovane che
    avesse un padre, un fratello, un amante. Ma io scelgo i miei tipi
    fra le orfane senza difesa.
    
    - Vi sono fanciulle che sanno difendersi da sé stesse, e lo prova
    colei che tu desideri, se ha saputo sfuggire alle tue grinfe.
    
    - Colei non ha mai sospettato il mio amore. Si è allontanata da me,
    Perché credeva che volessi intralciare il suo progetto, che è quello
    di far rifulgere l'innocenza dell'amante, che essa crede vittima di
    un errore giudiziario.
    
    - Sciocco, Perché non la secondavi?
    
    - Sì, ho fatto male; ma se la ritrovo, voglio cambiar tattica.
    Intanto, prima di ricercarla, mi occorre del denaro. Scriverò a mia
    moglie, che è ora presso suo padre, e la pregherò di tornare in
    città avendo bisogno di parlarle. Guai a lei se respingesse la mia
    richiesta!
    
    - Tu mi spaventi quando minacci, Perché so che non minacci invano! -
    
    Il colloquio prese poi una piega sentimentale.
    
    Ilda, incapace di resistere più a lungo, si recò nella propria
    camera.
    
    I suoi occhi brillavano di un'energia sovrumana.
    
    - Non ho perduto la mia giornata! - esclamò. - Dunque, non
    m'ingannavo: il conte conosceva Giulietta. Ma come provare che ha
    spinto Fabio a un assassinio? Ebbene, voglio riuscirvi e ci
    riuscirò! Se intanto avvertissi sua moglie del pericolo che
    corre?... Sì, ormai sono decisa; voglio mettermi in lotta con lui! -
    
    Assorbita da quest'idea, Ilda un quarto d'ora dopo si allontanava
    dall'albergo onde ripartire per Torino, non avendo ormai più
    interesse di rimanere ad Ivrea.
    
    IV.
    
    Nei primi momenti, Aldo e Bianca, felici di trovarsi insieme,
    dimenticarono tutti i guai.
    
    Dopo pranzo, Aldo chiese alla contessa:
    
    - Volete fare un giro in giardino?
    
    - Volentieri. -
    
    Uscirono in giardino: una brezzolina profumata, che soffiava
    attraverso gli alberi, accarezzò il viso di Bianca, che esclamò:
    
    - Come si sta bene qui! -
    
    In quel piccolo spazio soleggiato pareva loro di essere isolati dal
    mondo. Camminarono un poco in silenzio, attraversarono una spianata
    erbosa, entrarono in un chiosco coperto di foglie, sedettero sopra
    una panca e parlarono.
    
    - Caro Aldo, - disse Bianca - ho lasciato mio padre dicendogli che
    andavo a passare un paio di giorni con mio marito; ma in verità l'ho
    fatto Perché ho bisogno di voi, e nel presentimento che qualche cosa
    di grave mi debba accadere, qualche cosa che forse ci costringerà a
    non vederci per lungo tempo. -
    
    E Bianca raccontò il colloquio avuto col marchese Passiflora,
    aggiungendo:
    
    - Egli non mi perdona di averlo un giorno respinto, come non mi
    perdona di non volerlo accettare adesso come amico. Per certo
    avvertirà mio padre della condotta di Livio, oppure tenterà qualche
    altra cosa contro me. - Speranza, vi difenderò io!
    
    - So bene che siete buono, audace, generoso, e se non avessi mio
    padre, disprezzerei qualsiasi convenienza, andrei orgogliosa di
    presentarvi come mio amico e difensore. Ma bisogna ad ogni costo
    risparmiare quel povero vecchio, che mi crede felice, che di nulla
    dubita, nulla sospetta. -
    
    Bianca aveva le lacrime agli occhi.
    
    - Non vi turbate così; - disse lo studente - io veglierò senza dar
    ombra ad alcuno e impedirò al marchese Passiflora di fare qualsiasi
    passo contro voi. -
    
    Rimasero seduti l'uno accanto all'altra, Aldo circondandole la vita
    col braccio, Bianca colla testa appoggiata alla spalla di lui.
    
    - Speranza, io t'amo, tu l'hai compreso, - sussurrò il giovane - né
    ti offendano le mie parole! Il mio affetto è puro! Mi rimproveri di
    amarti?
    
    - Perché dovrei rimproverarti? - disse la contessa. - Io pure ti amo
    e vado orgogliosa di amarti. Nulla ormai può disgiungere le nostre
    anime. Amandoci, porteremo la nostra croce sorridendo, glorificando
    lo spirito nella esultanza d'amore. -
    
    Gli occhi di Aldo splendevano soavemente.
    
    - Cara, cara! - esclamò, e la baciò sui capelli.
    
    La voce squillante di Gina li riscosse.
    
    - Mammina, babbo, dove siete? -
    
    Un istante dopo il biondo folletto era nelle loro braccia.
    
    Nei due giorni in cui Aldo e Bianca rimasero presso i Rivalta, non
    uscirono mai di casa, trovando ogni gioia in quel giardinetto, in
    compagnia delle persone teneramente amate.
    
    Lo studente partì per il primo. Bianca fu accompagnata alla stazione
    da Guglielmo, Severina e la bimba.
    
    Già da tre giorni Bianca si trovava di nuovo presso il padre, quando
    una mattina Celia le disse, un po' turbata:
    
    - Signora contessa, potrebbe venire nella sala verde? Una signora
    desidera parlarle.- -
    
    L'impaccio della cameriera non sfuggì al signor Moreno, che era
    presente e che, subodorando qualche mistero in quella visita, quando
    Bianca fu uscita dal salotto, si avviò egli pure verso la sala
    verde.
    
    Il signor Moreno non titubò: egli si appiattò dietro la porta e
    sentì distintamente che all'entrare di sua figlia una voce di donna
    diceva con stupore:
    
    - Lei? Lei è la contessa Rossano?
    
    - Sì, io! - rispose Bianca, con tranquilla alterezza. - Perché
    questa sorpresa?
    
    - Perché se lei è la contessa Rossano, - disse lentamente Ilda,
    Perché era lei - è la stessa persona che cinque giorni fa si trovava
    ad Ivrea, presso i Rivalta. - Bianca rispose senza turbarsi:
    
    - Non lo nego. Ma a voi che importa? - chiese poi alteramente.
    
    Il volto di Ilda si era fatto cupo e minaccioso.
    
    - Allora è lei, - proruppe con impeto - che la notte del giovedì
    grasso si trovava nella casa dove assassinarono Giulietta Levera, è
    lei che il signor Aldo Pomigliano fece credere sua sorella, è lei
    che portò via la bambina, forse per sopprimerla un giorno come la
    madre! -
    
    Bianca era impallidita; ma pensando ad Aldo, riprese il suo contegno
    altero, e rispose con voce ferma:
    
    - Io dovrei respingere le vostre accuse, dirvi che mentite, almeno
    in parte; ma prima di abbassarmi a discolpe, vi chiederò a mia
    volta: «Con qual diritto siete venuta in casa mia ad insultarmi?» -
    
    Gli occhi di Ilda espressero una terribile esaltazione.
    
    - Vuole saperlo? - disse in tono violento. - Glielo dirò. Un uomo è
    stato condannato per avere ucciso quella povera giovane, un uomo che
    fino all'ultimo si è protestato il solo colpevole di quel delitto.
    Invece costui non è stato che il mandatario di un altro, o di
    un'altra, che aveva interesse a sbarazzarsi di quell'infelice.... e
    in tal modo ha sacrificato anche me, che amava, che doveva sposare
    in quei giorni. -
    
    La contessa ebbe una scossa: la sua voce quasi si raddolcì,
    chiedendo:
    
    - Voi siete dunque la fidanzata dell'assassino?
    
    - Non lo chiami così: egli è colpevole Perché l'hanno spinto su
    quella via.
    
    - E sospettate di me?
    
    - Sì; e giacché ho cominciato, voglio dirle tutto, Lei ha conosciuto
    il mio fidanzato.
    
    - Io?... No. -
    
    Ilda la guardò cogli occhi in fiamme.
    
    - Possibile? - disse. - Suo marito non le ha mai presentato Fabio
    Ribera?
    
    - Mio marito? - esclamò vivamente Bianca, con un accento che fece
    trasalire Ilda. - Come poteva conoscere il vostro fidanzato?
    
    - Vuol dunque farmi credere che il conte non le abbia mai detto come
    Fabio Ribera, un orfano fatto educare dalla defunta contessa
    Rossano, fu poi da lui continuamente assistito, tanto che Fabio
    nulla avrebbe fatto, senza averne prima il suo consenso?
    
    - Vi giuro che mio marito non mi ha mai fatto parola di costui, né
    credo che lo abbia spinto al delitto. -
    
    Ilda scoteva il capo.
    
    - Allora, se il conte non ha spinto Fabio a uccidere Giulietta, in
    qual modo lei si trovava quella notte nella soffitta
    dell'assassinata e Perché, quando costei la vide, la riconobbe ed
    esclamò: «Lei? Lei? Ma non sa?»
    
    - Io pure - rispose la contessa - spesso mi sono chiesta come mai
    quella sventurata avesse pronunziato quella frase. Ora vi dirò per
    quale concatenazione di cose io mi trovassi la notte del giovedì
    grasso in quella casa fatale. Sarò sincera con voi, Perché mi
    destate un senso arcano di fiducia. Mio marito era partito il giorno
    prima per Milano dicendomi che andava a trovare una parente
    moribonda. Invece la mattina del giovedì un biglietto dimenticato
    dal conte mi convinse che egli m'ingannava. Era andato a Milano per
    trovare un'amante.
    
    - Cinzia! - interruppe Ilda.
    
    Bianca sussultò.
    
    - Come lo sapete?
    
    - Glielo dirò poi: continui.
    
    - Voi, che avete amato ed amate, potete comprendere come rimanessi
    alla certezza del tradimento di mio marito. Allora, come pazza,
    commisi una follìa, della quale però non mi pento. -
    
    Qui la contessa raccontò come al veglione avesse avuto la fortuna
    d'imbattersi in Aldo; si diffuse a parlare della delicatezza, della
    generosità del giovane, poi descrisse in qual modo si era trovata
    nella soffitta della povera Giulietta e tutto ciò che era dopo
    avvenuto.
    
    - Se non mi sono divisa legalmente da mio marito, - concluse - è
    Perché ho un padre che mi adora e che morrebbe di dolore se venisse
    a conoscere tutto ciò. Ma col conte non ho più nulla di comune. Se
    mi reco ad Ivrea, è per vedere quella bambina, che amo come se fosse
    mia. Eccovi tutta la verità. Spero che adesso mi crederete.
    
    - Sì, - disse Ilda con umiltà - e le domando perdono di averla
    sospettata. Ella è una vittima del conte, come lo è stato il mio
    povero Fabio. Ed ora sono convinta più che mai che il conte, dopo
    aver sedotto Giulietta, spinse il suo protetto ad ucciderla, a
    sacrificarsi per lui....
    
    - Sarebbe orribile! - esclamò Bianca. - Come vi nacque questo
    sospetto?
    
    - Glielo dirò, signora contessa. Quando Fabio si assentò dicendomi
    che andava a prendere alcune carte per il nostro matrimonio, mi
    disse che il conte era partito con lui e che starebbero assenti
    qualche tempo. Perché questa doppia menzogna, mentre il povero
    giovane non aveva mai mentito? Perché, dopo il delitto, il conte non
    si presentò a far testimonianza del buon carattere del suo protetto?
    Perché Fabio non richiese mai di lui, non alluse alla sua relazione
    col conte? Il sospetto si insinuava nella mia anima. -
    
    Ilda narrò allora la morte di sua madre, le visite del  conte,
    che ella sfuggì recandosi ad abitare nella soffitta
    dell'assassinata, cambiando nome, trasformando la propria persona
    per non essere riconosciuta, onde raggiungere lo scopo che si era
    prefissa: scoprire il vero colpevole.
    
    - Così, - soggiunse - seppi della incognita che si ora trovata in
    quella notte nella soffitta della povera Giulietta. Chi era costei?
    Dissi a me stessa che lo studente doveva essere in relazione con
    quella donna, e mi proposi di seguirlo quando si assentava da
    Torino.
    
    «Per questo mi recai ad Ivrea, senza che lo studente sospettasse di
    essere seguito da me.
    
    «Io lo vidi alla stazione con tutti loro, e seguii il gruppo fino
    all'uscio di casa; chiesi poi informazioni su lui e sui coniugi
    Rivalta e me ne fecero mille elogi.
    
    «Non sapevo più che pensare, mi pareva di aver fatto quel viaggio
    inutilmente, quando, essendomi recata in un albergo per passarvi
    alcune ore, seppi che era ivi alloggiato il conte Rossano colla
    signora. -
    
    Bianca gettò un lieve grido,
    
    - Mio marito ad Ivrea, - esclamò - con una donna che fa passare per
    me?
    
    - Sì, quella Cinzia presso la quale egli si nascose a Milano, mentre
    a Torino veniva assassinata la povera Giulietta, - rispose Ilda.
    
    E con parole concitate ripetè il colloquio di Livio coll'amante.
    
    - Udite queste infami cose, - proseguì Ilda - deliberai di venire ad
    avvertire lei del pericolo che corre, ansiosa al tempo stesso di
    conoscerla. A Torino seppi dove si trovava e partii. Ora può
    immaginarsi la brusca sorpresa provata riconoscendo in lei la
    signora che si trovava ad Ivrea in compagnia del signor Aldo e degli
    altri. Il sospetto mi assalse di nuovo.
    
    - Vi comprendo, - esclamò Bianca con slancio - e non solo vi perdono
    di tutto cuore, ma vi ringrazio di esser venuta, Perché adesso mi
    unirò a voi per smascherare il colpevole, quand'anche il colpevole
    fosse mio marito! -
    
    Ilda apparve commossa.
    
    - No, signora contessa, - disse - non lo permetto. Lasci fare a me,
    che non ho alcun timore di lui, che disprezzo le sue minacce come il
    suo amore, che non ho, come lei, un padre che mi ami, che possa
    soffrire per cagion mia.
    
    - Questo padre ritroverà tutta la sua forza per difendere la figlia
    e vendicare le vittime di quel furfante, - disse la voce sonora del
    signor Moreno, comparso all'improvviso nella sala.
    
    Bianca si alzò gettando un grido di angoscia.
    
    Ma suo padre le stendeva le braccia, ed ella vi si gettò piangendo.
    
    Ilda, in piedi, pallidissima, non osava pronunziare parola.
    
    - Tu hai sentito tutto, padre mio? - domandò la contessa.
    
    - Tutto, Perché ebbi il presentimento che la visita della signorina
    mi rivelasse qualche mistero che ti riguardava. Bianca, tu facesti
    male a non aver fiducia in me; e voi, signorina, mi avete addolorato
    coi vostri sospetti sulla mia innocente creatura; ma adesso che so
    tutto, vi scuso e vi stendo la mano da amico. -
    
    Ilda aveva le lacrime agli occhi.
    
    - Io vi ringrazio, - esclamò - e vi giuro che d'ora innanzi non farò
    un passo senza consultarvi!
    
    - Ed io non ti nasconderò più nulla, - soggiunse Bianca - ed
    appoggiata a te, mi sentirò sicura. -
    
    Il signor Moreno la baciò sulla fronte, mentre stringeva la manina
    di Ilda.
    
    V.
    
    Il conte Livio era tornato a Torino di cattivissimo umore: ormai
    Cinzia l'annoiava, eppure non voleva sbarazzarsi di lei, forse
    Perché la giovane era la sola che avesse penetrati molti dei suoi
    segreti.
    
    Egli aveva ceduto all'amante il suo elegante quartierino da scapolo,
    non potendo per il momento sobbarcarsi troppe spese. Una settimana
    dopo il suo ritorno scrisse un biglietto alla contessa, per
    avvertirla che aveva necessità di parlarle.
    
    Livio era sicuro che sua moglie non gli avrebbe dato un rifiuto,
    onde la sera stessa disse allegramente a Cinzia:
    
    - Vedrai che fra qualche giorno potrò offrirti un appartamento
    migliore di questo, con mobili di palissandro, e comprarti quel
    fermaglio di brillanti che tanto desideri.
    
    - Sei sicuro che la contessa cederà alle tue minacce? - disse
    Cinzia.
    
    Livio si arricciò i baffi con aria spavalda.
    
    - Sicurissimo, - rispose - Perché Bianca ha troppa paura dello
    scandalo, a cagione di suo padre. Firmerà e tacerà! -
    
    Due giorni dopo, verso mezzogiorno, Livio, sempre in attesa della
    moglie, stava per mettersi a tavola nella sala da pranzo del proprio
    palazzo, allorchè un cameriere annunziò:
    
    - Il signor Moreno! -
    
    Se un fulmine fosse caduto ai piedi di Livio, non l'avrebbe
    maggiormente stordito.
    
    In un attimo pensò che Bianca avesse confidato tutto al padre, e
    fremette.
    
    Il suocero entrò, sorridente, disinvolto, esclamando:
    
    - Se ti trovo a pranzo, vuol dire che non c'è nulla di grave. Bianca
    ha avuto torto a spaventarsi! -
    
    Livio riacquistò subito la baldanza.
    
    Il signor Moreno nulla sapeva. Bianca non aveva parlato.
    
    Per cui si slanciò incontro al suocero, stendendogli le mani e
    dicendo con voce commossa:
    
    - Mi aspettavo così poco la tua venuta, che ne sono ancora stordito.
    Bianca non si sentirà male, spero?
    
    - No, no, rassicurati; è soltanto infreddata, ed io ho trovato
    imprudente che si mettesse in viaggio, tanto più che io stesso avevo
    bisogno di venire a Torino. -
    
    Mentre parlava, il conte gli teneva fissi gli occhi addosso, con
    aria di maraviglia.
    
    Il signor Moreno sembrava ringiovanito. La sua persona, per il
    solito un po' cascante, si raddrizzava come quella di un giovinotto.
    
    - Hai un aspetto magnifico, - disse il conte - e mi congratulo di
    vederti così bene. I tuoi dolori reumatici ti hanno lasciato?
    
    - Interamente. Ma giacché sono giunto in buon punto, non faccio
    complimenti, mi metto a tavola con te. -
    
    Livio diè l'ordine di mettere un'altra posata.
    
    Il signor Moreno sedette fregandosi le mani con aria soddisfatta e
    disse a Livio:
    
    - Scommetto che la tua lettera è stata semplicemente un tranello per
    far venire Bianca, sembrandoti abbastanza lungo il tempo senza lei.
    -
    
    Livio soffocò la rabbia che internamente lo divorava.
    
    - È vero; - rispose - a te non lo posso nascondere.
    
    - Io l'avevo indovinato; - soggiunse il signor Moreno - ma quella
    benedetta figliuola è così impressionabile, che ha subito creduto ti
    fosse accaduto qualche sventura. Basta, oggi stesso le scriverò per
    tranquillarla, Perché io debbo trattenermi a Torino. -
    
    Durante il pranzo, parlarono di cose futili, ma quando furono
    passati nel salottino da fumo, il signor Moreno, col sigaro fra le
    labbra, disse sorridendo:
    
    - Tu non immagini certo ciò che ho deliberato di fare. -
    
    Livio provò una vaga inquietudine.
    
    - Sentiamo, - disse con simulata allegria.
    
    - Vengo a stabilirmi presso di voi. Sono stanco di vivere lontano da
    mia figlia e di condurre una vita da orso. Io non vi darò noia,
    Perché ho la mia servitù, e se mangeremo tutti insieme, pagherò la
    mia pensione. Del resto, piena libertà da ambe le parti. Come
    capirai, Bianca è contenta della mia decisione. E tu?
    
    - Io pure, padre mio, - disse Livio con dolcezza.
    
    Poi, cambiando tono e fisionomia, avvicinatosi al suocero, disse con
    accento turbato:
    
    - Posso confidarti una cosa?
    
    - Per certo. Dove potresti trovare un confidente migliore di me?
    
    - Hai ragione. Ah! Perché prima di sobbarcarmi in false speculazioni
    non mi sono rivolto a te? -
    
    Il volto del signor Moreno non esprimeva alcuna diffidenza.
    
    - È vero! Bianca mi ha parlato alto alto di certi affari da te
    intrapresi. Ti sono forse andati male?
    
    - Purtroppo! - mormorò Livio con aria compunta. - Sono stato
    raggirato da un birbante che ha fatto rilucere dinanzi ai miei occhi
    una vera miniera d'oro, mentre portava via il mio.
    
    - Sei stato troppo ingenuo; non dovevi arrischiare del denaro in
    speculazioni sconosciute. Che bisogno ne avevi?
    
    - Arrossivo di dover tutto a mia moglie, e sognavo di diventar
    ricco, di elevare Bianca sopra una montagna d'oro. -
    
    La sua voce si era fatta convulsa.
    
    Il signor Moreno non perdeva la sua espressione bonaria.
    
    - Il tuo pensiero era lodevole; - disse - ma Bianca è ricca
    abbastanza per due. Quando io più non sarò, la montagna d'oro per
    lei si troverà inalzata. Intanto spero che la lezione ti avrà
    servito e non intraprenderai altri affari senza consultarmi. Quando
    Bianca, la settimana scorsa, venne a trovarti, a passare due giorni
    con te, le facesti parte della tua sconfitta?
    
    - No, non ne ebbi il coraggio, - disse il conte, che trasalì
    sentendo che Bianca si era allontanata dalla tenuta col pretesto di
    raggiungerlo.
    
    Dove si era recata?
    
    Il signor Moreno sorrise.
    
    - Capisco! Tu non hai pensato che al piacere di abbracciarla, -
    esclamò - e di rinnovare una breve luna di miele! So che conducesti
    Bianca ad Ivrea.
    
    - Chi te l'ha detto? - balbettò il conte, livido.
    
    - Bianca stessa, - rispose con bonomia il signor Moreno. - Le avevi
    proibito di farmene parte?
    
    - No, no. -
    
    Egli era spaventato di quanto sentiva, e chinava gli occhi dinanzi
    agli sguardi del signor Moreno, che rimaneva quieto, sorridente.
    
    - Basta! - disse questi con dolce accento. - Hai fatto bene a non
    turbare Bianca col racconto della tua sconfitta, alla quale
    rimedierò io stesso. A quanto ammonta la tua perdita? -
    
    Era il momento decisivo.
    
    Il conte mandò un sospiro, esitò un istante, poi rispose con voce
    debole:
    
    - A quattrocentomila lire! -
    
    Il signor Moreno non battè palpebra.
    
    - Dammi un calamaio ed una penna, - disse.
    
    Livio si affrettò ad obbedirlo.
    
    Il signor Moreno si tolse di tasca un libretto, ne staccò un foglio,
    vi scrisse alcune parole e porgendolo al genero:
    
    - Oggi stesso - disse - potrai presentarti dal mio banchiere a
    ritirare la somma che, m'immagino, non hai pagata.
    
    - No, padre mio.... mi ero reso garante.... firmai delle
    cambiali....
    
    - Bene, bene: non voglio saper nulla della trappola che ti avevano
    preparata; paga il tuo debito e non se ne parli più.
    
    - Come ringraziarti? -
    
    E l'ipocrita ruppe in pianto.
    
    Il signor Moreno si alzò, nervoso.
    
    - Se fai così, ti lascio! - disse. - Non occorrono queste scene fra
    noi! Se ti hanno giuocato un brutto tiro, il tuo onore è salvo, dal
    momento che io posso pagare. Via, asciuga quelle lacrime, vai a
    riscuotere il tuo chèque, mentre io mi ritiro a riposare nel mio
    appartamento. -
    
    Il conte volle accompagnarlo fino alla sua camera e diede ordine al
    suo domestico di mettersi a disposizione del suocero.
    
    Poi lasciò il palazzo, sollevato.
    
    L'arrivo del suocero l'aveva sconcertato, ma ormai aveva il cuore
    tranquillo. Peraltro non capiva come Bianca avesse potuto dire a suo
    padre di essere stata ad Ivrea. Che qualcuno l'avesse avvertita che
    egli viaggiava in compagnia di Cinzia facendola passare per moglie?
    
    Non volle più stare a riflettere, dal momento che sua moglie stessa
    lo sosteneva per non dispiacere al padre.
    
    Infatti, se il signor Moreno avesse avuto qualche dubbio sulle
    infedeltà di lui, non gli avrebbe dato quel denaro!
    
    Riscosso lo chèque, pagato un debito di giuoco, si trovò ancora in
    possesso di centocinquantamila lire.
    
    Allora si recò a comprare il fermaglio per Cinzia e, andato da lei,
    glielo presentò con aria trionfante.
    
    - Hai dunque vinto? - chiese ella ridendo.
    
    - Completamente; ma la partita è stata col suocero.
    
    - Come? Come? -
    
    E narrò l'arrivo del signor Moreno, il colloquio avuto con lui. -
    
    Cinzia aggrottava le ciglia.
    
    - Non rallegrarti troppo! - disse infine. - Io non ci vedo chiaro
    nella generosità del vecchio e nella sua determinazione di
    stabilirsi a Torino. Gatta ci cova: quell'allusione alla gita di sua
    figlia con te ad Ivrea mi sa di mistero. -
    
    Quando il conte tornò al palazzo trovò il suocero già alzato e di
    eccellente umore.
    
    - Che cosa c'è di spettacoli divertenti? - chiese al genero.
    
    Livio lo guardò stupito, tuttavia rispose:
    
    - Una compagnia di operette all'Alfieri.
    
    - Ebbene, andremo ad ammirarla. -
    
    Il conte cadeva dalle nuvole.
    
    Il suocero, così austero, tanto avverso alla società, cambiava ad un
    tratto di abitudini?
    
    Il signor Moreno pranzò con appetito, mostrandosi molto allegro,
    incitando il genero ad imitarlo.
    
    Quando giunsero all'Alfieri, il primo atto dell'operetta era quasi
    al termine.
    
    I due uomini presero posto nella seconda fila delle poltrone e
    dovettero passare innanzi ad una bellissima bruna, elegante, con un
    largo cappello alla moschettiera e grossi brillanti agli orecchi.
    
    Era Cinzia che, vedendo il suo amante con quel signore, trasalì,
    Perché comprese che era il suocero del conte.
    
    Livio non potè trattenere una smorfia vedendo la giovane, e la fissò
    con uno sguardo corrucciato, che ella ricambiò sdegnosamente.
    
    Il signor Moreno vide quello occhiate, e quando fu seduto, disse al
    genero:
    
    - Hai veduto quella bruna, nella nostra fila?
    
    - No, - rispose il conte con noncuranza.
    
    - E una bella donna; ma io conosco di meglio: un bocconcino da re:
    sedici anni o poco più, capelli neri, alta, ben fatta, occhi da far
    impazzire.
    
    - E dove hai trovata questa fenice?
    
    - Non te lo dirò: è il mio segreto; soltanto non ti nascondo che
    devo a quell'ammaliatrice la risoluzione di venire a Torino.
    
    - Tanto meglio! - pensò il conte. - Se egli commette delle follìe,
    saprà scusare le mie! -
    
    L'atto era finito, quando un giovane elegantissimo, dall'aria di
    buontempone, si avvicinò al conte, stendendogli la mano.
    
    - Buona sera, Livio: vieni stanotte al circolo?
    
    - No, - rispose bruscamente il conte, toccando appena la mano del
    giovane.
    
    Ma questi non si sgomentò, e senza badare che l'amico era in
    compagnia di un altro:
    
    - Dimmi, è vero che hai lasciato Cinzia? - chiese.
    
    Il conte, stizzito, chiese:
    
    - Chi è Cinzia? Non la conosco.
    
    - Ah! ah! si vede che sei in collera con lei. Ma scommetto che
    stasera rifarete la pace: non per niente l'hai seguita al teatro;
    guardala, com'è bella, con quel cappellone alla moschettiera!
    
    - Ti dico che sei pazzo! Non so di chi tu voglia parlare! -
    
    L'altro divenne subito serio, e togliendosi il cappello, con un'aria
    fra comica e sprezzante:
    
    - Scusate! - disse.
    
    E andò a sedere vicino a Cinzia.
    
    Livio, livido di rabbia, si volse al suocero:
    
    - È un imbecille, quel giovanotto!
    
    - Perché? - rispose calmo il signor Moreno. - Ti ha fatto delle
    domande naturalissime, e tu non dovevi prenderti soggezione di me e
    rispondere la verità. Io compatisco le debolezze altrui.
    
    - Ti assicuro che colui si è ingannato: io non conosco quella donna.
    
    - Meglio così! -
    
    E siccome l'orchestra aveva sonate le prime battute del secondo atto
    e il telone si era alzato, il signor Moreno si occupò a guardare la
    scena.
    
    Il conte e il suocero tornarono al palazzo insieme.
    
    Il signor Moreno si ritirò nel suo appartamento.
    
    Il conte, invece di coricarsi, era uscito novamente per recarsi ad
    un circolo, dove si giuocava tutta la notte.
    
    Ma non era il giuoco che ve lo attirava: voleva trovare l'amico che
    aveva osato parlargli di Cinzia in faccia al suocero.
    
    La sua presenza al circolo fu accolta da esclamazioni di gioia, ed
    il primo che il conte si vide dinanzi fu appunto il giovane che
    cercava.
    
    Allora, squadrandolo da capo a piedi:
    
    - Chi ti ha dato il diritto - disse - di farmi stasera quelle
    stupide domande al teatro?
    
    - Il diritto me lo sono arrogato io, - rispose l'altro - Perché
    credevo di rivolgermi al compagno che si era compiaciuto altra volta
    di raccontarmi le sue avventure amorose e non mi aveva nascosta la
    sua relazione con Cinzia, relazione che tutti conoscono, me ne
    appello a questi signori.
    
    - Ma questi signori ti diranno pure che bisogna essere imbecilli per
    venire a interrogarmi su tale relazione mentre mi trovavo in
    compagnia di mio suocero. -
    
    Un sonoro scoppio di risa risonò da tutte le parti. Il giovane
    rimase scombussolato, e con l'accento del più sincero cordoglio:
    
    - Scusami, amico; - disse - ti assicuro che se avessi potuto
    immaginare che quel signore era in tua compagnia, non ti avrei
    rivolte quelle domande stupide, come ben dici. Ma io ti credevo
    solo, e supponevo che per semplice dispetto tu non fossi vicino a
    Cinzia. -
    
    Livio parve esitare un istante, poi sorrise, e stendendo la mano al
    giovane:
    
    - Accetto le scuse, - esclamò - e non ne parliamo più! -
    
    Quella notte giocò, e la fortuna gli fu favorevole.
    
    Quando abbandonò il suo posto per tornare a casa, aveva trentamila
    lire di più.
    
    La mattina seguente, alzatosi verso le nove, seppe che il suocero
    era già uscito. Il vecchio tornò a mezzogiorno. Sembrava molto
    contento.
    
    Il conte fu proprio persuaso che il signor Moreno ignorasse
    totalmente la sua condotta verso la moglie, e nella sua fatuità
    credette che Bianca avesse spinto il padre a recarsi a Torino per
    potere, col suo mezzo, riconciliarsi con lui.
    
    Per cui, quando il suocero gli chiese se voleva accompagnarlo alla
    tenuta, accettò con entusiasmo.
    
    Si sentiva quasi felice all'idea di riavvicinarsi alla moglie.
    
    Avvertì con un biglietto Cinzia della sua assenza di qualche giorno
    e partì col signor Moreno.
    
    Quando arrivarono al castello, Bianca abbracciò il padre, quindi
    porse la mano al conte. Ma quella mano era così fredda, che gli fece
    capire come egli avesse sperato invano nell'indulgenza di lei.
    
    Tuttavia, trovandosi più tardi solo con Bianca, assunse un'aria
    compunta, piena di dolore e mormorò:
    
    - Signora, la visita improvvisa di vostro padre aveva aperto il mio
    cuore alla più dolce delle speranze: speravo che per lui, se non per
    me, avreste dimenticato e perdonato. -
    
    Ella lo fissò con uno sguardo pieno di disprezzo.
    
    - Dimenticare, perdonare? - ripetè. - Si può farlo per un uomo
    onesto che un istante di traviamento ha fatto deviare dalla retta
    via; ma per voi che avete mentito sempre, per voi che, calpestando
    ogni riserbo, aveste perfino la temerità di presentare come vostra
    moglie una sgualdrina non può esservi nel mio cuore che odio e
    repulsione. Evitate dunque di avvicinarmi se non volete che io mi
    ribelli e vi schiacci! -
    
    E voltategli le spalle, lasciò il conte quasi fuori di sé dalla
    rabbia.
    
    - Me la pagherà! - pensò, stringendo i pugni.
    
    E uscito dalla tenuta per non incontrarsi in quel momento col signor
    Moreno, diresse i suoi passi verso la villa del marchese Passiflora.
    Immerso nei suoi pensieri, il conte camminava con la testa china,
    quando una voce ironica lo fece trasalire. Era il marchese
    Passiflora.
    
    - Sempre pensieroso, sempre innamorato! - diceva.
    
    E stendendo la mano a Livio:
    
    - Ti sei dunque deciso a venire un po' in campagna? - soggiunse
    ridendo.
    
    Il conte si era rasserenato.
    
    - Sono venuto a riprendere la contessa, - rispose. - Ma ti assicuro
    che, sebbene giunto da poche ore, sono già annoiato. -
    
    Il marchese Passiflora lo prese a braccetto.
    
    - Capisco, birbante, rimpiangi Cinzia! Ma, bada, è pericoloso
    lasciar per lungo tempo sola una moglie come la tua. Essa potrebbe
    fare qualche scappatella, che suo padre non si curerebbe di tenerle
    dietro.
    
    - Per parlare così, tu devi sapere qualche cosa; ma bada, io ho
    troppa fiducia in mia moglie per nutrire il minimo sospetto contro
    lei, tanto più se fatto nascere da un uomo che non può dimenticare
    di essere stato respinto come marito. -
    
    Passiflora aveva tolto il suo braccio da quello del conte, e
    fermatosi su due piedi lo guardò fisso, seriamente.
    
    - È vero; - rispose - non posso dimenticare il rifiuto di quella
    giovinetta che mi avrebbe reso felice, come ho l'orgoglio di credere
    che sarei stato per lei il migliore dei mariti, e fremo pensando che
    quella felicità è toccata a te, che eri meno degno di ottenerla.
    
    - Marchese!
    
    - Non ti alterare, è la verità! Non credo di offenderti, Perché so
    quanto vali. Però il tuo trionfo non è durato a lungo. -
    
    Il conte impallidì.
    
    - Che ne sai tu?
    
    - Più di quello che credi, Perché tu e Bianca, da quel tempo, mi
    siete sempre stati a cuore. Essa non ha tardato a scoprire che il
    suo prescelto non valeva il rifiutato; e per consolarsi di veder
    distrutta la sua cara illusione, è andata in cerca di un altro. -
    
    Il conte gettò un grido di furore.
    
    - Marchese, voi insultate mia moglie e me ne renderete conto!
    
    - Quando vorrete, mio caro! - rispose senza scomporsi il marchese. -
    La contessa almeno mi sarà grata di averla sbarazzata di voi.
    
    - Non so che mi tenga dallo schiaffeggiarvi! -
    
    Passiflora si mise a ridere.
    
    - Ve lo dirò io, conte: la paura. Perché voi siete audace soltanto
    con le donne, di cui sapete benissimo sbarazzarvi quando ne siete
    stanco. -
    
    Queste ultime parole, dette a caso, ebbero un effetto fulminante sul
    conte. Egli indietreggiò livido, barcollante.
    
    Passiflora rideva sempre.
    
    - Vedete, caro conte, - soggiunse - che ho còlto nel segno. Ma
    rinfrancatevi, io non ho alcuna volontà di battermi con voi: lo
    farei soltanto se vostra moglie chiedesse il mio appoggio.
    Sfortunatamente Bianca mi odia, Perché mi crede vostro amico, mi
    giudica forse alla stessa stregua, e va in cerca di un puro ideale.
    -
    
    Il conte, furente, si riavvicinò al marchese.
    
    - Voi vorreste farmi credere che mia moglie ha un amante; - disse
    con voce alterata - ma non ci riuscirete.
    
    - Ne sono persuaso, - rispose il marchese con oltraggiosa
    disinvoltura. - Da questo lato vi torna più comodo fare il sordo. -
    
    Gli voltò le spalle e si allontanò.
    
    Livio ristette immobile, finchè non lo vide sparire fra un gruppo di
    alberi. Tuttavia mai il suo orgoglio aveva tanto sanguinato. Era
    stato insultato dal marchese, che forse narrerebbe la scena gettando
    il ridicolo su lui!
    
    Sua moglie aveva un amante?
    
    - Lo saprò, - disse con la gola stretta.
    
    VI.
    
    Mentre si svolgevano queste scene, Fabio scontava il suo delitto in
    prigione, rassegnato al suo destino. Egli lavorava
    nell'amministrazione delle carceri, dove sono ammessi i detenuti di
    ottima condotta, e così le sue giornate, sebbene monotone,
    trascorrevano abbastanza presto.
    
    Le notti erano terribili: nel silenzio della cella, Fabio si
    abbandonava a spaventevoli scoppi di dolore, di collera, di
    disperazione. Rivedeva la sua vittima, ricostruiva l'orribile scena
    di quella notte, si contorceva sotto accessi di convulsioni, fino a
    che cadeva inerte sul giaciglio ed un sonno pesante scendeva a
    lenire i suoi rimorsi, i suoi dolori.
    
    Poi, a poco a poco, anche quegli accessi si calmarono e le sue notti
    furono meno agitate.
    
    Quando pensava a Ilda, gli sembrava che tutto il sangue gli
    affluisse al cuore con violenza, trovava in sé un tesoro di energia
    sublime che gli faceva dimenticare il luogo dove si trovava, quanto
    era accaduto.
    
    Ah! se avesse potuto dire almeno a lei...!
    
    Ma no, egli avrebbe taciuto sempre: era necessario, lo doveva: una
    morta gliel'aveva imposto.
    
    Fabio parlava pochissimo coi suoi compagni di carcere, ma si
    mostrava così buono con tutti, che nessuno nutriva astio contro lui.
    
    I giorni, i mesi scorrevano.
    
    Per Natale quasi tutti i prigionieri ricevono qualche regalo.
    
    A Fabio pervennero diversi doni della fidanzata, del suo principale,
    e alcuni doni anonimi, ma che egli doveva ben sapere da chi gli
    pervenivano.
    
    Libri, oggetti, dolci, erano stati prima minutamente visitati, ma i
    pochi biglietti che li accompagnavano potevano essere consegnati al
    prigioniero.
    
    Quello di Ilda diceva:
    
    «Coraggio e speranza in Dio: lavoro per te, non ti dimentico, ti
    sono sempre vicina col cuore.»
    
    Il suo principale gli scrisse, inviandogli una scatola di dolci
    squisiti:
    
    «Perché tu veda che non sei dimenticato. Buon Natale!»
    
    E «Buon Natale!» stampato, ripeteva l'invio dei doni anonimi.
    
    Fabio pianse di gioia; distribuì i dolci fra i suoi compagni; per sé
    tenne soltanto un libro rilegato, Le mie prigioni di Silvio Pellico.
    Si mise sul cuore il biglietto di Ilda.
    
    Quella notte egli si addormentò col sorriso sulle labbra.
    
    Il giorno dopo, all'ora della ricreazione, incominciò la lettura
    delle Mie prigioni.
    
    Aveva già percorse alcune pagine, quando sussultò.
    
    Nelle interlinee di un foglio vi erano scritte delle parole in un
    carattere minutissimo.
    
    Lo scritto diceva:
    
    «Tu hai presunto troppo della fedeltà di Ilda: essa ha un amante che
    le ha regalato una palazzina, carrozza e cavalli ed è diventata una
    delle mantenute più in voga.
    
    «Ilda ha sprezzato l'appoggio del sincero amico che tu le lasciasti,
    ha riso di lui, l'ha perfino minacciato, sperando di farlo tacere.
    Ma ho voluto avvertirti, a costo di tutto, Perché mi si strazia il
    cuore nel vederti così ingannato. Io continuerò a vegliare su lei, e
    qualunque cosa succeda ti avvertirò. Intanto, se puoi, dimenticala:
    essa è indegna di te.
    
    «Tu hai avuto troppa fiducia in lei.»
    
    Fabio rimase come stupidito.
    
    Chiuse il libro e dopo poco tornò al lavoro, che disimpegnò
    macchinalmente.
    
    Quella sera, gettatosi bocconi sul pagliericcio, scoppiò in
    singhiozzi.
    
    Tradito, tradito da lei, che il giorno prima gli aveva scritto quel
    biglietto che teneva sul cuore.
    
    Eppure l'uomo che aveva vergate quelle parole, il conte Livio, il
    suo protettore, non poteva ingannarlo!
    
    Ma Perché Ilda gli scriveva: «Coraggio e speranza in Dio: lavoro per
    te, non ti dimentico, ti sono sempre vicina col cuore»?
    
    Per alcuni giorni Fabio ebbe nuovamente accessi di disperazione che
    sembrava dovessero renderlo pazzo; poi, un senso di stanchezza lo
    colse, ed egli continuò ad eseguire macchinalmente il suo lavoro; ma
    era pallido, accasciato.
    
    Per certo se il conte lo avesse veduto in quei giorni, avrebbe
    pensato che Fabio non uscirebbe più da quel carcere che cadavere.
    
    Ma anche Livio non si trovava sopra un letto di rose!
    
    Dopo la scena avvenuta col marchese Passiflora, il conte nascose il
    suo avvilimento e ingoiò tutto l'amaro versatogli dal marchese, col
    pensiero di vendicarsi un momento o l'altro di lui.
    
    Intanto il signor Moreno tutto disponeva per la propria partenza.
    
    - Ora sono tranquilla! - disse la buona Celia alla sua cara padrona.
    - Lei non ha più nulla da temere. Con suo padre vicino, il conte si
    guarderà bene dal recarle un dispiacere.
    
    - È vero; - rispose Bianca - ma d'ora innanzi non mi sarà più
    concesso di vedere Aldo ed abbracciare quella bambina: l'ho promesso
    a mio padre, e manterrò la mia promessa fino a quando il conte non
    verrà smascherato e tutto sarà finito fra noi.
    
    - Ma lei può scrivere al giovane ed avere notizie della bambina.
    
    - Questo sì; se il babbo me l'avesse proibito, ne sarei morta. -
    
    Il conte conservava la sua perfetta disinvoltura dinanzi al suocero
    e sembrava il migliore dei mariti.
    
    Al loro arrivo a Torino, il signor Moreno si stabilì nel suo
    appartamento, perfettamente libero, dove poteva tenere presso di sé
    Lucia ed il suo fidato cameriere. Egli fece fare una porticina
    segreta che metteva in comunicazione le sue stanze con quelle della
    figlia.
    
    Al conte Livio fu nascosta l'esistenza di quella porticina.
    
    Incominciava il dicembre.
    
    Verso le quattro, i portici erano affollati.
    
    Un giorno Livio, con alcuni amici, si era diretto verso Baratti....
    Camminavano chiacchierando, ridendo, ammirando le belle che
    passavano loro vicino.
    
    Dinanzi alla confetteria Baratti si fermarono in gruppo. In quel
    momento uno dei compagni di Livio disse ad alta voce: - Ecco la
    Cleo. Fortunato il mortale che la possiede! -
    
    Livio si volse e rimase trasecolato. La giovane che il suo compagno
    aveva chiamata Cleo era Ilda, la fidanzata di Fabio, la fanciulla
    che avrebbe voluto far sua a costo di un delitto.
    
    Ella appariva di una bellezza maravigliosa, vestita con eleganza
    suprema. Sotto il largo cappello a piume, i capelli nerissimi,
    divisi sulla fronte, le scendevano fino agli orecchi, ai quali
    scintillavano due brillanti di una grossezza straordinaria. Nulla di
    più voluttuoso del pallore del suo volto, dei suoi occhi bistrati,
    color verde-mare. Le labbra provocanti, di un rosso acceso,
    mettevano in mostra, nel sorriso, denti di una bianchezza lattea.
    
    Passò altera dinanzi al gruppo dei giovani, entrò da Baratti e non
    tardò ad uscirne, tenendo fra le dita inguantate un pacco di
    caramelle. Sali in un superbo coupè a due cavalli, che attendeva
    fuori dei portici.
    
    Tutto ciò era avvenuto in così breve tempo, che il conte credette di
    essere vittima di un'allucinazione, né si scosse che quando Ilda si
    fu allontanata.
    
    Allora si volse vivamente al compagno chiedendogli:
    
    - Chi è quella Cleo? Che fa? Come la conosci?
    
    - Ih! ih! quante domande! - rispose l'altro ridendo. - Ti ha dunque
    subito stregato, la bella ammaliatrice? Essa è mantenuta da un
    milionario incognito. Già da un mese frequenta i ritrovi eleganti, e
    so che molti vanno pazzi per lei, ma inutilmente. Il suo Creso, che
    qualcuno dice sia un russo, ha acquistato per lei una palazzina
    stupenda. La giovane ha preso il nome di Cleo, Perché per l'addietro
    fu protagonista di un dramma da Corte d'Assise. -
    
    Il conte aveva il cervello in fiamme; i suoi occhi lanciavano foschi
    lampi.
    
    Ilda si era presa giuoco di lui!
    
    Ilda era l'amante di un altro, mentre egli, per averla, avrebbe dato
    la vita!
    
    E Fabio ignorava tutto, passava i suoi giorni fiducioso nella
    fedeltà della fanciulla che l'aveva difeso con tanta passione!
    
    Ma egli l'avrebbe avvertito, anche per dargli così un colpo
    terribile, forse mortale. Sbarazzarsi di quell'uomo, il cui pensiero
    lo tormentava ogni notte, impadronirsi di Ilda, era in quell'istante
    il suo desiderio unico.
    
    Come fare?
    
    Dopo avere a lungo pensato, si recò quella stessa sera a casa di
    Cinzia.
    
    L'ex ballerina ed il conte si erano nuovamente divisi con tacito
    accordo: Cinzia, ripresa la propria libertà, si era stabilita a
    Torino, ed un negoziante di cereali aveva preso il posto di Livio.
    Però fra il conte e Cinzia rimaneva un'apparenza di amicizia:
    avevano stabilito che entrambi, all'occasione, si sarebbero
    scambievolmente aiutati.
    
    Livio trovò la giovane a casa e sola.
    
    Ella stava cenando, e veduta alla luce del gas, appariva
    seducentissima nell'abito rosa.
    
    - Che buon vento ti guida? - chiese stendendo la mano al conte.
    
    - Vorrei sapere se conosci una certa Cleo. -
    
    Cinzia fece un brusco movimento, guardò il conte con occhi
    fiammeggianti.
    
    - Se la conosco? - proruppe con accento d'odio. - È una mia rivale!
    Quando m'incontra mi guarda con aria di sfida, sorride con
    disprezzo.... Ah! se potessi schiacciarla! -
    
    Livio era ritornato calmo.
    
    - Te ne darò i mezzi io, - disse.
    
    - Se tu farai questo, - esclamò Cinzia con voce carezzevole - io ti
    obbedirò come una schiava! -
    
    Il conte, fissando i suoi occhi in quelli di lei, disse con voce
    bassa e fremente:
    
    - Ebbene, ascoltami.... -
    
    VII.
    
    Quando Ilda tornò a Torino, dopo essersi trattenuta due giorni alla
    tenuta di Bianca, non sembrava più la stessa di quando era partita.
    
    Un raggio di gioia brillava nei suoi occhi e dimostrava il suo
    contento. Dopo tante angosce, Ilda sentiva nel suo cuore alitare le
    più soavi speranze.
    
    Ella aveva trovato due buone creature che si sarebbero unite a lei
    per smascherare il conte, punirlo se era il vero colpevole,
    dischiudere, se possibile, le porte del carcere all'infelice che si
    sacrificava.
    
    Ilda aveva discusso molto col signor Moreno circa gli strani
    rapporti fra il conte e Fabio. Per certo fra loro esisteva un
    misterioso legame, che aveva reso l'uno lo schiavo sommesso
    dell'altro. Ma come scoprire tale mistero, che sarebbe la chiave di
    tutto?
    
    La giovane sperava di riuscirvi.
    
    Con Bianca ed il signor Moreno avevano ideato un piano per
    conseguire l'intento desiderato.
    
    Ilda, col fine discernimento della donna, aveva indovinato il puro
    amore di Bianca per lo studente Aldo, e pensava che quei due erano
    degni l'uno dell'altra.
    
    - Se non ci fosse il conte! - diceva fra sé e sé.
    
    Quella sera Ilda, a tarda ora, si recò a bussare alla soffitta di
    Aldo.
    
    Il giovane stava studiando.
    
    Tuttavia aprì. La vista di quella giovane, che egli aveva appena
    intraveduta due volte nel corridoio, lo sorprese.
    
    - Che desidera, signorina?
    
    - Ho una lettera da consegnarle. -
    
    L'aveva tratta dal corsetto e gliela porse.
    
    Il giovane riconobbe subito la calligrafia di Bianca.
    
    - Entri; si accomodi, la prego! - disse con premura.
    
    Aldo si assorbì nella sua lettura. La contessa gli faceva parte di
    tutto quanto era accaduto in quei giorni: della comparsa di Ilda,
    del colloquio con lei, dell'apparizione improvvisa del signor
    Moreno, del perdono di lui, e di tutto quanto avevano combinato
    insieme con la fidanzata di Fabio.
    
    «Noi saremo separati per lungo tempo, mio caro Aldo,» terminava la
    lettera «ma le nostre anime non si divideranno mai. L'avvenire sarà
    forse migliore del passato. Mettiti ad intera disposizione di Ilda:
    essa ti dirà qual parte dovrai assumere in ciò che abbiamo ideato;
    accettala, te ne prego. Ilda stessa ti presenterà a mio padre:
    ubbidiscilo in tutto e ti troverai contento.»
    
    Lo studente, terminata la lettura, alzò gli occhi su Ilda con
    tenerezza, e con accento familiare:
    
    - Siete voi, - disse - la fidanzata dell'uomo che assassinò la
    povera Giulietta? -
    
    Ilda rispose, grave:
    
    - Sono io; ma per certo non mi avreste riconosciuta sotto questo
    travestimento. È stato necessario per venir ad abitare nella camera
    dell'assassinata.
    
    - Avete avuto tanto coraggio?
    
    - Il mio amore per Fabio mi ha dato la forza e l'energia di tentar
    tutto per scoprire la verità.
    
    - Sospettate il conte Rossano?
    
    - Sì.
    
    - Ma l'assassinio fu veramente compiuto dal vostro fidanzato.
    
    - Il conte fu senza dubbio l'istigatore. -
    
    Aldo era pensieroso.
    
    - Perché non faceste il nome di lui all'udienza?
    
    - Fabio me l'aveva proibito.
    
    Lo studente trasalì.
    
    - Come? -
    
    La giovane raccontò dei rapporti del suo fidanzato col conte, come
    questi passasse per un benefattore, e si diffuse sulla riconoscenza
    di Fabio verso quell'uomo.
    
    Parlò quindi dell'offerte fattele dal conte quando il giovane fu
    condannato, della fuga di lei, della sua scoperta il giorno in cui
    si era recata ad Ivrea, di tutto ciò che aveva raccontato a Bianca.
    
    - Continuerete ad abitare la soffitta della povera Giulietta? -
    chiese Aldo, quando essa ebbe finito di parlare.
    
    - Sì, ma vi farò le mie apparizioni di quando in quando, dovendo
    d'ora innanzi vivere altrove. -
    
    I due s'intrattennero ancora a lungo.
    
    Quella sera Ilda rientrata nella sua soffitta dopo la mezzanotte,
    prima di coricarsi pregò fervorosamente, chiedendo a Dio di
    sostenerla nella lotta che stava per intraprendere.
    
    Quindici giorni dopo, sotto il nome di Cleo, essa prendeva possesso
    di una elegantissima palazzina, acquistata a suo nome dal signor
    Moreno.
    
    Tutti parlavano della eleganza, del lusso della nuova stella.
    
    Ogni sera la giovane scriveva un minuto ragguaglio di tutti gli
    avvenimenti della giornata, una specie di diario che veniva
    segretamente inviato a Bianca.
    
    Il giorno del suo incontro col conte Livio davanti alla pasticceria
    Baratti, Ilda tornò a casa agitata.
    
    Finalmente la lotta comincerebbe ed ella vi si apprestava con
    energia.
    
    La sera stessa il signor Moreno si recò da lei ed ebbero un lungo
    colloquio insieme.
    
    Ilda, fino dai primi giorni della sua nuova esistenza, si era
    incontrata con Cinzia, e la fissò con uno sguardo pieno di disprezzo
    o di sfida.
    
    Due giorni dopo l'incontro di Livio, Ilda se ne stava nel suo
    salotto, allorchè una cameriera le consegnò il biglietto di un
    visitatore.
    
    Ilda lesse: «Conte Livio Rossano.»
    
    - Introducilo subito nel salotto rosa, - disse alla cameriera.
    
    Ilda indossava un abito da casa che le stava a meraviglia. Aveva i
    capelli negligentemente annodati e trattenuti da un pettine di
    brillanti.
    
    Ella passò nel salotto, dove, in attesa di lei, il conte, pallido
    come un cadavere, esaminava lo splendore di quella stanza, un
    gioiello di buon gusto.
    
    Sentendo aprire un uscio, si volse e rattenne a stento un grido di
    ammirazione.
    
    Ilda appariva calma, sorridente.
    
    - Quale sorpresa, caro conte! - esclamò.
    
    - Che volete! Ho desiderato di accertarmi co' miei occhi se la Cleo
    che fa tanto parlare di sé a Torino eravate proprio voi, Ilda. Non
    volevo crederci.... mi pareva impossibile. Ma, disgraziata
    fanciulla, avete dunque dimenticato il povero Fabio, che per voi ha
    commesso un delitto? -
    
    Ilda si sdraiò su di una poltrona con atto civettuolo.
    
    Rideva, mostrando i denti bianchissimi.
    
    - Conte, smettete le prediche: le detesto. E poi, come potete farvi
    il difensore della virtù dopo le confidenze da voi fatte alla
    sedicente contessa che era in vostra compagnia in un albergo di
    Ivrea? -
    
    Il conte rimase a bocca aperta dallo stupore.
    
    - Orsù, giuochiamo a carte scoperte! - proseguì Ilda. - Non è lo
    scrupolo per il condannato che vi ha condotto da me, sibbene il
    dispetto di perdere la preda che agognavate. -
    
    Livio era in preda ad una grande confusione.
    
    La giovane continuava a ridere.
    
    - Osereste negare? - domandò.
    
    - Ebbene, no, non lo nego! - rispose risoluto il conte. - E, se
    avete udite le mie confidenze, saprete fino a qual punto vi ami.
    
    - Al punto di commettere voi pure un delitto.... Ah! ah!
    
    - Non ridete così; se sapeste che male mi fate! Potevo io mai
    pensare che voi, così onesta, che respingevate ogni mia proposta,
    che fuggiste da me....
    
    - Non ne indovinaste la cagione? - interruppe Ilda.
    
    - No; ditela, ditela, ve ne prego! -
    
    Ella inclinò vezzosamente la testa, ed i suoi occhi presero
    un'espressione di languore.
    
    - Io avevo indovinato il vostro amore; - esclamò - capivo che la
    condanna di Fabio aveva fatto nascere nel vostro cuore un'insensata
    speranza....
    
    - Perché insensata?
    
    - Perché mai mi sarei data al protettore del mio fidanzato! Voi
    siete l'unico uomo che non avrebbe mai potuto trionfare di me.
    
    - E me lo dite con tanta franchezza?
    
    - Perché mentire? Veramente io avevo risoluto di restar fedele a
    Fabio, ma dopo alcuni mesi di lotta con la miseria, vedendomi
    disprezzata dalla società che mi riteneva forse complice del
    condannato, convinta infine che Fabio era veramente colpevole,
    decisi di prendermi una rivincita su quelli stessi che mi
    disprezzavano, e siccome trovai, viaggiando, un'ottima occasione,
    non me la lasciai sfuggire. Come vedete, il mio protettore ha fatto
    le cose in grande. -
    
    Una collera tremenda contraeva il volto di Livio.
    
    - E se io ne avvertissi Fabio? -
    
    Ilda alzò con disprezzo le spalle.
    
    - Che m'importa? Io mi godrò la vita tuttavia!
    
    - Ilda, io non dirò nulla, ve lo prometto, Fabio ignorerà tutto, ma
    voi non sarete crudele con me. -
    
    Volle prenderle una mano, ma la giovane la ritrasse vivamente.
    
    - Giù le zampe, caro mio; se volete che continui a ricevervi e che
    la mia accoglienza sia amichevole, dovete stare al vostro posto,
    altrimenti, se verrete un'altra volta, troverete l'uscio chiuso.
    
    - Io non metterò più piede nella casa di un altro.
    
    - Questa è casa mia, sapete! - disse con alterezza Ilda. - Il mio
    protettore me l'ha regalata: potete mettervi a suo pari?
    
    - Sì, che lo posso! - gridò il conte. - Datemi una sola speranza, ed
    io metto ai vostri piedi tutte le mie ricchezze. -
    
    Ilda l'interruppe con uno scroscio di risa.
    
    - Le vostre ricchezze? - soggiunse. - Dimenticate, conte, di aver
    detto alla vostra sedicente contessa che vi trovavate al verde, che
    avevate bisogno di denaro per aver perduto duecentomila lire al
    giuoco ed impegnata la rendita di sei mesi? E minacciavate la vera
    contessa, che fortunatamente non poteva sentirvi, se non
    acconsentiva a pagare i vostri debiti! -
    
    Il conte era livido.
    
    - Ma dove eravate, voi, per sapere tutto questo?
    
    - Accanto alla vostra tavola, dove voi pranzavate in compagnia della
    sedicente contessa. Oh! voi credevate che nessuno, lì, capisse il
    francese; ma c'ero io, e udii tutto. -
    
    Il conte fremeva, ma Ilda era così adorabile, così provocante, che
    egli perdeva la testa.
    
    - Ilda, abbiate pietà di me! - balbettò.
    
    - Se vi sentisse Cinzia.... -
    
    E divenendo seria:
    
    - È inutile, - disse. - Forse, se non foste stato il protettore di
    Fabio, avrei potuto amarvi.
    
    - Io rinnego il mio protetto dal momento che si è reso indegno di
    me, - diss'egli con voce ansante.
    
    Ilda conservò il suo sorriso.
    
    - Che m'importa, adesso? - esclamò. - Io non sono libera, e,
    quand'anche lo fossi, vi fuggirei egualmente. -
    
    E stesa la mano ad un bottone del campanello, lo premè nervosamente.
    
    Prima che il conte avesse il tempo di rispondere, una cameriera
    apparve.
    
    Ilda era già in piedi, e con la massima disinvoltura:
    
    - Accompagna il signor conte, - disse. - Ah! dimenticavo avvertirvi
    che il giovedì sera ricevo gli amici; si fa un po' di musica, poi si
    cena. Sarete il benvenuto. -
    
    Il conte era stordito.
    
    - Non mancherò, - rispose macchinalmente.
    
    E seguì la cameriera, tutto fremente d'ira.
    
    Appena in istrada si disse:
    
    - Ilda si prende giuoco di me e di Fabio, che aveva piena fiducia in
    lei! Ma io l'avvertirò. -
    
    Poi soggiunse con accento più cupo:
    
    - Voglio conoscere il nababbo che la mantiene, ed agirò contro di
    lui per avere Ilda nelle mie mani. -
    
    VIII.
    
    Il marchese Passiflora non era ancora soddisfatto della lezione data
    a Livio: egli avrebbe voluto torturarlo, come egli era stato
    torturato, respinto da Bianca per la seconda volta.
    
    Il marchese era quasi sicuro che la contessa avesse qualche intrigo.
    Ma come scoprirlo?
    
    Passiflora aveva un cameriere intelligente, fedele, del quale poteva
    fidarsi.
    
    Pensò di servirsene per il suo intento.
    
    - Pietro, - gli disse - voglio darti una missione di fiducia.
    
    - Mi comandi, signor marchese.
    
    - Devi mettere a prova tutta la tua sagacia per scoprire il segreto
    di una signora.
    
    - Mi dica di chi si tratta, e stia tranquillo che fra pochi giorni
    saprò dirle tutto quanto riguarda quella signora.
    
    - Quella signora si chiama la contessa Bianca Rossano, ed abita
    verso il corso Palestro.
    
    - Conosco il palazzo.
    
    - Meglio così. Quando ti metterai all'opera?
    
    - Oggi stesso. -
    
    Passò una settimana, senza risultato.
    
    Finalmente una sera Pietro disse al padrone:
    
    - Signor marchese, sono quasi riuscito; ma vi è una piccola
    difficoltà.
    
    - Quale? Sentiamo.
    
    - Ho contratto relazione con una cameriera della contessa, una bella
    ragazza diciottenne, che mi crede innamorato di lei. Mi sono fatto
    credere un piccolo possidente, venuto a passare l'inverno a Torino,
    ed essa è felice. L'ho fatta chiacchierare, ed ho saputo che la
    contessa ha l'appartamento separato da quello del marito. In casa
    abita anche il padre della signora. La contessa si fa unicamente
    servire dalla cameriera Celia, e nessun'altra che questa l'avvicina.
    La mia ragazza, che odia Celia e la spia per coglierla in fallo, ha
    scoperto che due volte alla settimana essa va alla posta a ritirare
    delle lettere al suo indirizzo, ed ha veduto consegnare quelle
    lettere alla contessa. -
    
    Un lampo scaturì dagli occhi di Passiflora.
    
    - Bisognerebbe impadronirsi di una di quelle lettere! - esclamò.
    
    - Ci ho pensato anch'io, ma la ragazza non vuole arrischiarsi a
    ritirarla dalla posta, Perché ormai l'impiegato deve conoscere
    Celia. -
    
    Passiflora si era messo a camminare nervosamente per la stanza.
    
    - Eppure, è necessario avere una di quelle lettere! - disse ad un
    tratto soffermandosi dinanzi a Pietro. - Cerca, inventa qualche
    cosa, pur che riesca. Se ti fa duopo spendere del denaro, prendi. -
    
    Trasse dal portafogli due biglietti da mille e li porse a Pietro,
    che s'inchinò rispondendo:
    
    - Farò l'impossibile per servirla. -
    
    Una settimana dopo Pietro apparve con aria trionfante.
    
    - Ecco la lettera, signor marchese, ed ancora chiusa. -
    
    Passiflora l'aprì con diabolica soddisfazione e lesse:
    
    «Mia Speranza,
    
    «Più i giorni passano, più mi riesce doloroso il vivere separato da
    te; ma è necessario, per la lotta che si prepara e sarà grave.
    Abbiamo tutto combinato con Ilda; ma il mio compito non sarà facile
    come credevo, e il dibattito che ho sostenuto dentro me stesso è
    stato lungo, doloroso. Pensare che quell'uomo ignobile è tuo marito,
    è cosa orribile! Credi che ho dovuto lottare non poco per non
    lasciarmi vincere dallo spirito del male e non commettere un
    delitto!
    
    «Al contrario tuo padre ed Ilda stessa mi destano un tal rispetto,
    quasi uguale a quello che sento per te. Cari e nobili cuori tutti!
    
    «Bianca, quando ritorneranno quei brevi e rapidi istanti passati
    insieme con la nostra bambina? Dal giorno che tu sei partita, ella
    si è fatta triste triste, chiama sempre la sua mammina. E ieri
    l'altro, appena mi vide, mi corse incontro gridando: «Babbo, Perché
    non hai condotta con te la mamma?»
    
    «Avrei da dirti tante cose, amor mio, ma attendo di scrivertele
    domani, per poterti anche spiegare meglio la parte che mi sono
    assunta e che spero di eseguire a maraviglia. Un bacio sulla tua
    pura fronte, Perché si rassereni e speri.
    
    «Aldo.»
    
    Se un fulmine fosse caduto ai piedi di Passiflora, non gli avrebbe
    prodotto la terribile commozione che l'agitava dopo quella lettura.
    
    Ecco Perché Bianca aveva respinto il suo aiuto, la sua protezione!
    Come si era presa giuoco di lui!
    
    Ma ormai aveva un'arme nelle mani che poteva servirgli ad attirare
    Bianca, a piegarla ad ogni sua volontà. Se ella resisteva ancora, se
    ricusava di venire a patti con lui, egli informerebbe Livio di
    tutto.
    
    Così pensando, il marchese si mise a un tavolino e vergò queste
    righe:
    
    «Contessa,
    
    «Un grave pericolo minaccia voi e due persone che vi sono care! Aldo
    e la bambina. Questo pericolo io solo posso scongiurarlo. Vi prego
    di recarvi senza indugio da me, che per due giorni non mi muoverò da
    casa per attendervi. Spero che non ricuserete, altrimenti tutto
    sarebbe perduto.
    
    «Passiflora.»
    
    Aggiunse in un angolo del biglietto il proprio indirizzo colla data,
    poi lo chiuse in una busta, sulla quale scrisse: «Signora Celia
    Lari, fermo in posta» come era scritto sulla busta che conteneva la
    lettera dello studente.
    
    Ed uscì per impostarla egli stesso.
    
    Il domani egli disse al suo cameriere che poteva restarsene fuori
    tutta la giornata, e attese, solo, in casa, che la contessa vi si
    recasse.
    
    Fremeva di speranza e d'impazienza.
    
    A un tratto il suono del campanello lo scosse.
    
    Corse ad aprire, e subito svanì ogni sua speranza: gli stava dinanzi
    il signor Moreno.
    
    - Voi aspettavate mia figlia, - disse - e sono venuto io. Posso
    entrare?
    
    - Entrate, - rispose Passiflora con un gesto altero.
    
    E sollevata egli stesso una portiera, lo fece passare nel salotto,
    gli offrì una poltrona.
    
    - Grazie, posso parlare anche in piedi; avremo poco da dirci, -
    soggiunse in tono risoluto il signor Moreno.
    
    E guardando bene in faccia il marchese, soggiunse:
    
    - Che tranello volevate tendere a Bianca col vostro biglietto? -
    
    Passiflora si fece rosso ed una fiamma cupa brillò nei suoi occhi.
    
    - Un tranello? - ripetè senza chinare lo sguardo dinanzi a quello
    del signor Moreno. - Essa ha creduto così? O piuttosto ha voluto far
    credere a voi, mandandovi al suo posto, di non conoscere le persone
    che io le nominavo nel mio biglietto? -
    
    Il signor Moreno rimase calmo.
    
    - Mia figlia non ha bisogno di usare alcun sotterfugio con suo
    padre, signor marchese. Io conosco benissimo quelle persone. A voi
    domando piuttosto come le abbiate conosciute, e soprattutto
    desidererei sapere Perché la lettera diretta alla contessa era
    indirizzata ferma in posta alla cameriera Celia. -
    
    Passiflora fu imprudente.
    
    Togliendo dal suo portafogli la lettera di Aldo, disse con un
    sorriso freddo ed ironico:
    
    - L'ho imparato dall'amante di vostra figlia! -
    
    Uno schiaffo sonoro piombò sulle guance di Passiflora, seguito da
    queste parole:
    
    - Voi siete un miserabile, signor marchese, ed avete compiuto
    un'azione degna della galera! -
    
    Passiflora fece l'atto di slanciarsi sul signor Moreno, ma la
    riflessione lo trattenne.
    
    - Mi renderete ragione dell'insulto fattomi in casa mia e delle
    parole pronunziate! - disse con voce fremente.
    
    - Voi renderete ragione al tribunale di aver trafugato una lettera,
    facendola ritirare da chi è pronto a testimoniarlo! - ribattè il
    signor Moreno. - Un uomo d'onore non può battersi con un vile! -
    
    Passiflora fremeva.
    
    - Andate pure a denunziarmi; - disse con un sorriso atroce - ma
    domani tutta Torino saprà che se il conte Rossano è un libertino,
    sua moglie e suo suocero lo valgono. -
    
    Con atto violento il signor Moreno l'afferrò per il petto.
    
    - Datemi quella lettera, o vi schiaccio!
    
    - Non ve la darò, e siccome voi venite ad aggredirmi in casa mia, io
    schiaccerò voi! -
    
    E lottando rabbiosamente cercò di rovesciarlo.
    
    Allora ebbe luogo fra quei due una lotta feroce. Passiflora, reso
    forsennato dalla rabbia, cercava invano di abbattere il suo
    avversario, che, più calmo, tenace, respingeva il suo assalto.
    
    Ad un tratto un pugno dato da mano maestra piombò come una mazzata
    sul capo del marchese, lo stese supino a terra.
    
    Calmo, il signor Moreno tolse al gentiluomo, che sembrava morto, la
    lettera innocente eppure accusatrice; si riaggiustò gli abiti, si
    rimise il cappello caduto e se ne andò chiudendosi l'uscio alle
    spalle.
    
    A poco a poco il marchese si riebbe e allora un urlo gli sfuggì
    dalle labbra;
    
    - Mi vendicherò, mi vendicherò! -
    
    Mentre Passiflora imprecava come un forsennato, la porta si schiuse
    e rientrò il cameriere, chiedendo:
    
    - Sono tornato troppo presto? -
    
    Passiflora, a quelle parole, a quella vista, non si contenne più. Si
    slanciò sul disgraziato e lo sbattè contro il muro.
    
    - Anche tu mi hai giuocato, infame! - esclamò con gli occhi
    stralunati dal furore.
    
    Il cameriere tremava come una foglia.
    
    - Ma io.... signor marchese....
    
    - Taci, o ti chiudo la bocca per sempre! Sì, tu mi hai rubato il
    denaro per darlo ad una sgualdrina, che dopo averti consegnato la
    lettera, è andata a raccontar tutto al suo padrone.
    
    - Io non so nulla.... sono innocente....
    
    - Taci! - urlò di nuovo il marchese. - Se tu non le avessi detto il
    mio nome, io non sarei stato compromesso per causa tua. Via, via....
    che non ti veda mai più! -
    
    Il cameriere si avviò per uscire.
    
    Ma Passiflora, già ritornato in sé, comprese che nessuno più di quel
    domestico poteva in quel momento servirlo.
    
    E con voce cambiata:
    
    - Fermati! - disse.
    
    - Oh! signor marchese, adesso la riconosco.... Non potevo credere
    che lei mi scacciasse così, dopo averla servita sempre fedelmente.
    Le giuro che io non ho colpa in quanto mi dice, le giuro che io non
    ho pronunziato il suo nome, e non so come abbiano potuto scoprirlo,
    ma lo saprò.
    
    - Tu non farai alcun passo senza mio ordine, e mi obbedirai
    ciecamente se vuoi rientrare nelle mie grazie. -
    
    Il cameriere si lasciò cadere sulle ginocchia.
    
    - Mi comandi, farò tutto quello che lei vorrà, anche se mi
    comandasse un delitto.
    
    - Va bene, alzati; domani ti dirò quello che mi aspetto da te:
    adesso lasciami, vai a prepararmi una tazza di caffè! -
    
    IX.
    
    Era la sera di ricevimento in casa di Cleo, o piuttosto di Ilda.
    Luce e fiori a rifascio.
    
    Gli invitati dovevano giungere alle dieci.
    
    Erano le otto pomeridiane, e nello spogliatoio Ilda stava
    discorrendo con Aldo, che in abito da società aveva l'aspetto di un
    principe.
    
    Anche Ilda era affascinante nell'abito impero, adorna di perle e di
    brillanti.
    
    - Siete sicura che egli venga? - chiese il giovane gravemente.
    
    - Lo vedrete. Quell'uomo non abbandona la preda che agogna. Ma
    ricordate bene la vostra parte.
    
    - Credo che il pensiero della contessa basterà a rendermi superiore
    a me stesso. -
    
    Ilda guardò l'orologio e mormorò:
    
    - Il cavaliere Trani dovrebbe già essere qui. -
    
    In quel momento una cameriera apparve, portando sopra un vassoio
    d'argento un biglietto da visita.
    
    - È lui! - esclamò con vivacità Ilda. - Che entri, che entri subito!
    -
    
    Il cavaliere Umberto Trani apparve.
    
    Il magistrato, sorridente, stese la mano alla giovane, dicendo:
    
    - Vedo con piacere che mi trovo fra conoscenti. Veramente il vostro
    biglietto firmato Cleo non mi avrebbe fatto sospettare che si
    trattava di voi. Bravissima! Mi rallegro che non abbiate più quelle
    idee singolari che conquistarono il pubblico a vostro favore.
    
    - V'ingannate, signor Trani; - rispose Ilda - quelle idee sussistono
    sempre, ed è per ciò che mi vedete trasformata nella cortigiana Cleo
    e che trovate il signor Aldo in mia compagnia. -
    
    I due uomini si erano stretti scambievolmente la mano, ma alle
    parole di Ilda il cavalier Trani guardò i due giovani con serietà e
    stupore.
    
    - Mi spiegherete...? - disse.
    
    - Vi ho pregato di venire da me un'ora prima che giungano gli altri
    invitati appunto per parlarvi liberamente, - rispose Ilda. -
    Favorite sedere e vi spiegheremo subito tutto. -
    
    Il magistrato obbedì.
    
    - Parlerò io, signor Aldo, - soggiunse la giovane volgendosi allo
    studente, che fece un cenno affermativo. - Voi sapete, signor Trani,
    come io stia cercando colui che spinse il mio fidanzato a commettere
    un delitto?
    
    - E l'avete trovato?
    
    - Non ancora, ma ho degli indizi. Il signor Aldo, divenuto mio
    amico, come aiutò in quella notte funesta ad arrestare l'assassino,
    così mi aiuterà a scoprire colui che armò la mano del disgraziato.
    Per giungere a tale scopo io, povera commessa, sono divenuta la
    ricchissima cortigiana Cleo; Aldo, il nobile e povero studente,
    passerà per l'uomo che mi mantiene. -
    
    Lo sguardo del magistrato si fissava intensamente su Ilda.
    
    - Ed i mezzi, chi ve li procura?
    
    - Il signor Moreno, a nome della contessa Bianca Rossano sua figlia.
    Essa vuole ad ogni costo scoprire il mistero di quell'assassinio o
    piuttosto il segreto delle parole pronunziate dell'assassinata
    appena l'ebbe veduta. -
    
    Umberto Trani era divenuto pensieroso.
    
    - Ascoltatemi: - disse - io dovrei distogliervi da tali idee, tanto
    più che, se riusciste a scoprire più di quello che ho scoperto io,
    passerei per un magistrato da poco. Ma io ho cuore e coscienza, ed
    apprezzo il vostro nobile intento; per cui mi unisco a voi, pronto
    ad aiutarvi in tutto, pronto ad attestare di essermi ingannato, ma
    ancora in tempo a prendermi una rivincita.
    
    - Grazie, grazie! - dissero ad un tempo Aldo ed Ilda. - La contessa
    e noi non dubitammo un istante del vostro appoggio. -
    
    Umberto sorrise, orgoglioso di quello slancio sincero.
    
    - Ditemi dunque qual parte mi avete preparata e su chi cadono i
    vostri sospetti.
    
    - Su persona che voi conoscete e che vi sembrerà impossibile abbia
    avuto rapporti coll'assassino: il conte Rossano, - disse Ilda.
    
    Il magistrato trasalì.
    
    - Il conte non conosceva Fabio.
    
    - Fabio stesso lo presentò a me. -
    
    Umberto Trani divenne agitatissimo.
    
    - E voi me lo nascondeste?
    
    - Feci male, ma Fabio me l'aveva imposto; e se ora manco al
    giuramento fatto al mio fidanzato, è Perché mi sono persuasa che il
    conte non merita alcun riguardo. E dire che Fabio mi aveva
    raccomandata a lui. Ah! povero disgraziato! -
    
    La giovane raccontò al Trani quanto noi già sappiamo e concluse:
    
    - Del resto, sarà difficile smascherarlo. -
    
    Essa parlò ancora a lungo, senza che il magistrato la interrompesse.
    
    Una cameriera venne ad avvertire che i convitati cominciavano a
    giungere.
    
    - Bisogna che io prenda il mio posto di padrona di casa, - disse
    Ilda, volgendosi ai due uomini. - Voi rimanete pure ancora qui. Aldo
    conosce la casa e saprà indicarvi da quale parte passare quando
    vorrete fare la vostra comparsa nel salone. A rivederci. -
    
    Impossibile immaginare casa più ricca ed artistica di quella della
    bellissima cortigiana: una fila di stanze, splendidamente addobbate,
    fantasticamente illuminate, nel cui centro un salone circolare,
    adorno di arazzi. Lì stava la fata del luogo.
    
    I primi arrivati erano giovani dell'alta società, che accompagnavano
    due orizzontali assai note.
    
    Ilda le accolse con un gentile sorriso, e mentre esse si mostravano
    entusiaste di ciò che vedevano e la coprivano di elogi e di
    complimenti, la giovane indicò loro di sedere e mosse incontro ad
    altri venuti.
    
    Le sale non tardarono ad affollarsi: uomini distinti, alcuni
    appartenenti alla nobiltà, altri alla finanza, al commercio; non
    mancavano gli ufficiali, gli artisti, i letterati. Le donne erano in
    minor numero e sapevano contenersi bene. Ilda nel suo invito
    prometteva un po' di musica e il ballo; in ultimo la cena
    chiuderebbe il ricevimento.
    
    Ilda era la Regina della festa. Sorrideva a tutti, ma guardava
    impaziente l'entrata del salone, spiando l'arrivo del conte.
    
    Umberto Trani, che si aggirava pei salotti, si sentì dire a un
    tratto:
    
    - Anche voi, severo magistrato, in questo tempio della ricchezza e
    dell'amore? -
    
    Si voltò: era il marchese Passiflora, colà condotto da un amico.
    
    Il magistrato sorrise.
    
    - Tutti i luoghi sono buoni per me, per studiare i tipi....
    
    - .... dei delinquenti? - interruppe con uno scroscio di risa il
    marchese.
    
    - Perché no? Chi vi dice che qui non vi sia qualcuno che finisca i
    suoi giorni in prigione? Anche la padrona di casa fu mia cliente e
    corse il rischio di essere rinchiusa.
    
    - Come?
    
    - Ma sì; la bella Cleo non è altri che Ilda, l'eroina del processo
    di Fabio Ribera, l'assassino di Giulietta Lovera!
    
    - Chi la mantiene in questo lusso?
    
    - Quel giovinetto che ora le sta vicino e le parla: Aldo Pomigliano.
    -
    
    Passiflora sussultò.
    
    - Vi saluto, marchese, - disse il magistrato, che avendo veduto
    entrare il conte Rossano, subito si diresse verso Ilda.
    
    La giovane si era seduta al fianco di Aldo e lo guardava con amore.
    
    Parlavano sommesso e ridevano, non curandosi del pianista che molti
    ascoltavano in estasi.
    
    Ilda aveva veduto entrare il conte, che le si avvicinò per
    salutarla.
    
    - Vi ringrazio di esser venuto! - diss'ella.
    
    - Vi ringrazio io di ricevermi, signorina Ilda, - replicò il conte.
    
    - Chiamatemi Cleo: è adesso il mio nome, quantunque qui conoscano
    tutti o quasi tutti la mia storia. -
    
    Aldo, che frattanto fissava la giovane colle sopracciglia
    aggrottate, chiamò in tono imperioso:
    
    - Cleo! -
    
    Ella si voltò languidamente verso lui, chiedendogli:
    
    - Che volete, amico mio? -
    
    Aldo sussurrò alcune parole, che fecero scoppiare dalle risa la
    giovane.
    
    - Sentite, conte, sentite: - esclamò rivolgendosi a Livio, pallido,
    convulso per la gelosia - il signor Aldo Pomigliano, che vi
    presento, credeva nientemeno che voi foste il mio ex fidanzato,
    colui che è in galera! -
    
    Il conte rivolse uno sguardo feroce allo studente.
    
    - Signore! - disse in tono di minaccia.
    
    - Scusate; - interruppe Aldo, che appariva più sorpreso che confuso
    - ma voi avete col signor Ribera una rassomiglianza straordinaria;
    me ne appello al cavalier Trani -
    
    Il magistrato, che era poco distante, si volse vivamente chiedendo:
    
    - Che c'è? -
    
    E veduto il conte Rossano gli andò incontro stendendogli la mano.
    
    - Anche voi qui? - disse.
    
    - Sì; - rispose Ilda, che subito narrò il piccolo incidente, mentre
    Aldo ripeteva:
    
    - Me ne appello a voi: lo trovate somigliante al Ribera? -
    
    Umberto Trani guardò il conte e disse giovialmente:
    
    - Toh, è vero! Non lo avevo osservato. Avete perfino lo stesso neo
    sulla guancia sinistra! -
    
    In quel momento uno scroscio di applausi rimbombò nel salone,
    diretti al pianista.
    
    Ilda prese a braccetto Aldo e si allontanò.
    
    Umberto Trani ed il conte andarono a fumare nella galleria, che
    metteva in comunicazione le sale con le stanze di Ilda.
    
    - Chi avrebbe mai detto, - esclamò il Trani mentre accendeva
    un'avana - che quella modesta commessa sarebbe divenuta la bella
    Cleo, la mantenuta di colui che ne arrestò il fidanzato! -
    
    Livio sussultò.
    
    - Come? Il signor Aldo è colui del quale parlavano i giornali al
    tempo del processo? Ma, se non m'inganno, si diceva che era povero.
    
    - È vero; ma si dice che abbia avuto un'eredità. -
    
    I due uomini furono interrotti dall'entrata di una terza persona
    nella galleria.
    
    Era il marchese di Passiflora. Questi, riandando nella mente il
    contenuto della lettera che il signor Moreno era giunto a carpirgli,
    fu persuaso che Aldo, il protettore della bella Cleo, fosse l'amante
    della contessa Rossano e gli parve di aver trovato il modo di
    vendicarsi.
    
    Passiflora aveva veduto il conte Livio, e come se non ricordasse più
    l'affronto fattogli alla tenuta, gli andò incontro col sorriso sulle
    labbra.
    
    - Tu pure in casa della bella Cleo? - esclamò giovialmente. -
    Discolo! Queste scappate dovreste lasciarle fare agli scapoli, non è
    vero, cavaliere? -
    
    Così dicendo si rivolse ad Umberto Trani che conosceva.
    
    - Ho moglie anch'io; - rispose il magistrato - ma non credo di
    commettere adulterio passando un'ora in amabile compagnia, tanto più
    quando non si ha altro scopo che divertirsi.
    
    - Ciascuno ha il diritto di pensare come vuole. Livio, - soggiunse
    rivolto al conte - puoi star meco cinque minuti? Ho bisogno di
    parlarti. -
    
    Umberto Trani s'inchinò, allontanandosi.
    
    Allorchè il magistrato fu scomparso, il volto di Passiflora non
    espresse che una dolce melanconia, e prendendo a braccetto l'amico,
    gli disse:
    
    - Memore della nostra passata amicizia, io provo per te in questo
    momento tanta e sì profonda compassione, che ti domando perdono se
    un giorno fui quasi brutale con te. -
    
    Livio lo guardò con sorpresa.
    
    Passiflora si prendeva giuoco di lui?
    
    - Non ti comprendo! - esclamò. - Perché ti faccio compassione?
    
    - Possibile che tu non soffra? Possibile che non ti stia a cuore, se
    non l'affetto, almeno il denaro di tua moglie?
    
    - Che c'entrano adesso i denari della contessa con un supposto
    inganno? - domandò Livio a denti stretti.
    
    Un sorriso ironico increspò le labbra del marchese.
    
    - Povero illuso, bisognerà proprio che ti spieghi tutto! Mentre tu
    folleggi, altri prende il tuo posto. -
    
    Livio divenne livido.
    
    - Parla chiaro! - esclamò con voce rauca. - Queste tue reticenze mi
    uccidono. Che sai? -
    
    Il marchese lo trasse dietro un gruppo di fogliami, che li nascose
    intieramente.
    
    - Hai tu osservato bene il protettore della bella Cleo? - disse con
    voce che parve un sibilo.
    
    Agitato da una strana commozione, Livio rispose:
    
    - Sì; ebbene?
    
    - Sai di dove provengano quelle ricchezze, che gli servono a
    mantenere il lusso sfrontato che ci circonda?
    
    - No.
    
    - Il denaro che qui si spende è denaro di tua moglie, per
    conseguenza, tuo.
    
    - Tu menti! - gridò il conte.
    
    - Sapevo bene che non mi avresti creduto; - disse amaramente il
    marchese - eppure è la verità. Tu mi dirai Perché io cerchi di
    schiacciare in tal modo la contessa; ma sai che l'ho amata prima di
    te, ed ho avuto la debolezza di continuare ad amarla, sperando che
    il giorno in cui avesse aperti gli occhi sul conto tuo, sarebbe
    stata mia. Ebbene, il giorno venne in cui essa ti disprezzò; ma
    quando le offrii il mio appoggio mi respinse di nuovo. Allora, nella
    stessa guisa che avrei commesso un delitto per possederla, così
    avrei dato il mio sangue per vendicarmi del suo disprezzo. La feci
    spiare, ed ho scoperto che essa ha un amante, e che è madre di una
    creatura di lui. -
    
    Il conte cacciò un urlo, afferrando il braccio del marchese.
    
    - Non è vero; è una menzogna orribile la tua, e me ne renderai
    conto!
    
    - Quando vorrai; - disse con calma Passiflora - ma quand'anche tu mi
    uccidessi, non potrai distruggere quello che è! -
    
    Il conte passò a un tratto dal furore alla calma; i suoi lineamenti
    si distesero, e con accento cambiato:
    
    - Hai ragione! - disse al marchese. - Un duello fra noi non avrebbe
    alcuna utilità. Io voglio vendicarmi del mio odiato rivale, e tu mi
    aiuterai.
    
    - Ti ho avvertito e basta: ora tocca a te! -
    
    Un momento dopo i due uomini rientravano nel salone, disinvolti come
    se nulla fosse stato.
    
    X.
    
    Quando la contessa Bianca Rossano, aperta la busta che credeva
    contenesse la lettera di Aldo, trasse invece il biglietto del
    marchese Passiflora e lo lesse provò un'angoscia spaventevole ed
    ebbe appena la forza di suonare il campanello per chiamare la
    cameriera.
    
    Celia accorse, e vedendo la signora così abbattuta, chiese con
    sgomento:
    
    - Mio Dio, che è successo?
    
    - Sono stata tradita.
    
    - Per carità, si spieghi! Chi l'ha tradita?
    
    - Non lo so, ma tu forse potrai scoprirlo.
    
    - Mi dica che cosa devo fare: io sono pronta a tutto per lei.
    
    - Hai mai rivelato ad altri che le lettere a te indirizzate ferme in
    posta erano per me?
    
    - Giammai! - proruppe Celia in preda a un febbrile orgasmo, ma con
    l'accento della verità
    
    - Eppure, qualcuno l'ha saputo, ha fatto ritirare una di quelle
    lettere.
    
    - Impossibile! - gridò Celia. - L'impiegato postale non può
    consegnarle che a me....
    
    - La lettera che oggi hai ritirata e conteneva questo biglietto ti
    proverà il contrario: leggi. -
    
    Celia obbedì, lasciando sfuggire un'esclamazione di terrore.
    
    - Ma io non comprendo.... - balbettò. - Qui si parla di un pericolo
    del signor Aldo, della bambina... -
    
    Con un gesto la contessa l'interruppe.
    
    - Questo biglietto è un tranello; il marchese Passiflora nulla sa di
    quello che mi riguarda, e se ha indirizzata la lettera a te, per
    certo ne ebbe un'altra di Aldo tra le mani. -
    
    Celia crollava il capo.
    
    - Non posso crederci, contessa. Se me lo permette, vado subito alla
    posta, non potendo rimanere in questa incertezza.
    
    - Vai. -
    
    E Bianca attese che la sua cameriera le recasse la conferma di
    quanto credeva.
    
    Celia non stette assente più di mezz'ora. Quando tornò, il suo viso
    aveva un atteggiamento così addolorato, che Bianca ne fu commossa.
    
    - Ebbene, avevo ragione? - chiese la contessa sollevandosi sulla
    poltrona.
    
    - Sì; una miserabile si è presentata all'impiegato della posta con
    un mio biglietto, in cui pregavo di consegnare la lettera a me
    diretta, trovandomi ammalata.
    
    - Chi può essere colei?
    
    - Dai connotati ho capito che si tratta di Peretta, la
    sotto-cameriera. -
    
    Bianca fece un atto di sorpresa.
    
    - Ma essa sarà stata spinta da altri. Va' a dirle che ho bisogno di
    parlarle; ma, te ne prego, fa' che non sospetti di che si tratta.
    
    - L'obbedirò, benchè mi senta il desiderio di torcerle il collo. -
    
    Peretta comparì in compagnia di Celia.
    
    Era una bella ragazza, dall'aria un po' sfrontata.
    
    - La signora contessa ha bisogno di me? - chiese.
    
    - Sì; lasciaci, Celia. -
    
    Questa obbedì.
    
    - Ora dimmi: - domandò Bianca a Peretta - quanto ti hanno dato per
    ritirare dalla posta una lettera diretta a Celia?
    
    - Io non capisco.... - balbettò la ragazza.
    
    - È inutile che tu finga; so tutto, e se ricusi di parlare, questa
    sera stessa dormirai in prigione. -
    
    Peretta si abbandonò sopra una sedia.
    
    - Sono rovinata! - esclamò.
    
    - Se tu dirai la verità, nessuno ti farà del male e continuerò a
    tenerti al mio servizio.
    
    - Ebbene, tanto peggio per coloro che mi hanno messa nell'imbroglio.
    È verissimo: io ho ritirato dalla posta una lettera diretta a Celia,
    per istigazione e dietro il biglietto di un uomo che mi fa la corte.
    
    - Sai il suo nome?
    
    - No; da che gli consegnai la lettera non l'ho più veduto.
    
    - Ti ha parlato di me?
    
    - No, mai, lo giuro! Mi disse soltanto che voleva sapere gli
    intrighi di Celia, Perché io ebbi l'imprudenza di confidargli che
    l'avevo vista recarsi alla posta a ritirare delle lettere.
    
    - Va bene, puoi andartene; ma se vuoi rimanere al mio servizio, non
    agire più con una leggerezza che avrebbe potuto aprirti le porte
    d'una prigione, ove Celia fosse stata così cattiva da denunziarti.
    
    - Per carità, signora contessa, mi perdoni e preghi Celia di
    perdonarmi! -
    
    Ormai certa che si trattava di un tranello del marchese Passiflora,
    Bianca si confidò al padre.
    
    Sappiamo già quello che fece il signor Moreno in casa del marchese
    Passiflora.
    
    Bianca aspettava il padre in preda a mille tristi presentimenti.
    Quando egli fu di ritorno, le disse:
    
    - Tu avevi indovinato: il marchese ha commesso una vile azione; ma
    io sono giunto a strappargli questa lettera che, resa pubblica,
    sarebbe stata il tuo disonore e la mia morte. -
    
    Un'onda di sangue imporporò la fronte di Bianca, mentre i suoi occhi
    si velavano di lacrime.
    
    - Padre mio!
    
    - Hai avuto torto a permettere ad Aldo un linguaggio familiare, che
    potrebbe far credere ad una relazione colpevole. Basterebbero queste
    frasi per perderti! «Quando ritorneranno quei brevi e rapidi istanti
    passati insieme con la nostra bambina? Dal giorno che tu sei
    partita, ella si è fatta triste, triste, e chiama sempre la sua
    mammina. E ieri l'altro, appena mi vide, mi corse incontro,
    gridando: «Babbo, Perché non hai condotto teco la mamma?» Ora dimmi
    se questa lettera non sarebbe la tua condanna, il tuo disonore. Tuo
    marito avrebbe potuto con essa intentarti un processo d'adulterio,
    ed il colpevole sarebbe passato per vittima, avrebbe trionfato! -
    
    Bianca chinò il capo sul petto: sentiva che suo padre aveva ragione.
    
    - Per fortuna, - continuò il signor Moreno - il pericolo adesso è
    scomparso; ma il marchese Passiflora non è uomo da sopportare in
    pace l'umiliazione che gli ho fatta subire: bisogna guardarsi da
    lui. Intanto tu non devi più scrivere, né ricevere lettere dal
    signor Pomigliano: l'avvertirò io. -
    
    Bianca non replicò, ma uscito il padre diede in un pianto dirotto.
    Così le era tolta la gioia di intrattenersi per lettera con Aldo, di
    sapere le nuove di Gina, Perché essa era legata da una catena
    infrangibile.
    
    Celia, trovata la sua padrona piangente, fece sforzi straordinari
    per consolarla.
    
    - Non si disperi così; - le disse quando ne seppe la cagione - se
    non può più scrivere, andrò io a trovare il signor Aldo e le porterò
    sue nuove. -
    
    Bianca scosse il capo.
    
    - No, - rispose - sarebbe lo stesso che disobbedire a mio padre; ed
    egli soffre già troppo per cagion mia. -
    
    Il suo accesso di debolezza era passato ed ella si ripromise di
    attendere gli avvenimenti.
    
    Quella sera, prima di coricarsi, la contessa, inginocchiata,
    pregava:
    
    - Mio Dio, fate che Aldo non mi dimentichi, e se il pensare a lui è
    una colpa, fate tacere il mio cuore e non mi punite maggiormente,
    Signore! -
    
    *
* *
    
    Il conte Rossano, quando gl'invitati della bella Cleo si misero a
    cena, scomparve, senza salutare alcuno, dalla palazzina.
    Attraversato un salotto, aprì un uscio, e si trovò in un
    elegantissimo gabinetto, tappezzato di stoffa ricamata d'oro, dai
    mobili preziosi, paraventi, stuoie, giardiniere, e dal quale si
    accedeva nella camera da letto di Ilda.
    
    Il conte voleva avere quella sera stessa un colloquio da solo a solo
    con la giovane.
    
    La camera ed il gabinetto erano illuminati da lampade col globo
    velato, che proiettavano all'intorno una luce debolissima.
    
    Il conte cercò a suo agio il luogo per nascondersi e lo trovò in un
    vano comodissimo, nascosto da un drappeggio di velluto che scendeva
    fino sul tappeto. Dietro quel vano potè mettere una seggiola, onde
    starvi più comodo.
    
    Egli riandava gli avvenimenti di quella sera, e delle vampe di
    calore gli salivano al capo.
    
    Non gli pareva naturale l'osservazione di Aldo sulla sua somiglianza
    con Fabio Ribera.
    
    Ilda doveva aver detto della relazione che esisteva fra lui e
    l'assassino.... Fors'anche aveva supposto e confidato agli altri che
    l'istigatore di quel delitto doveva essere lui.
    
    E mormorava:
    
    - Insensata, tu non scoprirai nulla, né gli altri saranno più
    fortunati di te. L'assassino è Fabio; nessun mezzo, per quanto
    abile, varrà a strappargli di bocca la verità. Egli mi è troppo
    devoto! -
    
    Un sorriso diabolico sfiorava le sue labbra.
    
    PARTE TERZA
Il passato.
    
    I.
    
    Quarant'anni prima degli avvenimenti narrati, in una brutta sera
    d'autunno, nella camera da letto dell'avvocato Zeno Mestre, una
    delle figure più spiccate della magistratura torinese, si svolgeva
    una scena pietosa.
    
    L'avvocato, ancora in giovane età, agonizzava.
    
    Affranta dal dolore, lo assisteva la compagna adorata della sua
    vita, la signora Valeria, una gentildonna tutta cuore, ma di una
    debolezza di carattere eccessiva e di una timidità estrema, sebbene
    toccasse la quarantina.
    
    Quantunque il medico l'avesse avvertita che la malattia non lasciava
    speranza, ella sperava ancora.
    
    Che avrebbe ella fatto senza il marito, che era il solo appoggio
    alla sua debolezza, il solo che la incoraggiasse? Egli soprattutto
    era l'unico che avesse potere su Stefana, una giovinetta
    quindicenne, loro figlia, che, sotto un'apparenza d'angelo,
    nascondeva il più feroce egoismo e dominava la madre, che non aveva
    la forza d'opporsi alle sue volontà.
    
    Stefana ebbe le convulsioni quando seppe del pericolo del padre, e,
    come sua madre, vegliò tre notti, senza allontanarsi mai; sembrava
    che uno strappo spaventoso si fosse prodotto nel suo cuore al
    pensiero di quella perdita, ma in realtà i suoi occhi erano rimasti
    aridi, né aveva avuto un battito di più.
    
    Pensava che la morte del padre la privava di un despota contro il
    quale mai potè ribellarsi.
    
    Egli solo la teneva in soggezione.
    
    Sua madre, intanto, con la testa appoggiata al guanciale del
    morente, piangeva da far pietà. Dall'altra parte del letto stavano
    una suora ed una cameriera.
    
    Nella stanza non si udiva che il bisbiglìo della suora, il penoso
    respiro del morente, e di quando in quando un singhiozzo della
    signora Mestre.
    
    - Chi piange? - chiese ad un tratto il moribondo, volgendo
    penosamente la testa sul guanciale. - Valeria.... -
    
    Ella si asciugò in fretta gli occhi, si chinò a baciarlo.
    
    - Zeno.... Zeno mio!...
    
    - Povera cara, non voglio che tu pianga così. Sei qui sola?
    
    - No, Zeno; vi sono Stefana, suor Orsola e Concetta.
    
    - Di' loro che escano dalla camera, voglio rimanere solo con te. -
    
    Fu obbedito.
    
    Allora il moribondo, presa una mano della moglie:
    
    - Valeria, ascoltami: - disse - io muoio.... -
    
    Valeria balbettò:
    
    - No, no, non voglio che tu muoia, Zeno!
    
    - Bisogna rassegnarsi. Non disperarti così, te ne scongiuro, se vuoi
    vedermi chiudere gli occhi tranquillo! Valeria, se io rimpiango in
    quest'istante la vita, è per te, povera cara, Perché ti lascio con
    una figlia, dalla quale non sai farti obbedire e rispettare, e che
    ti procurerà molti dolori. -
    
    La madre ebbe uno slancio generoso.
    
    - Stefana ha buon cuore, - esclamò - l'ho compreso in questi giorni,
    in cui ha diviso i miei tormenti!
    
    - Non illuderti, Valeria: io ho letto nell'animo suo: nulla la
    commuove; mentre versa lacrime, rimane insensibile. Ho cercato di
    modificare il suo carattere, ma purtroppo non sono riuscito.
    Ricordalo, Valeria: frena quella fanciulla con mano di ferro, o tu
    verserai lacrime di sangue per cagion sua!
    
    - Zeno, Zeno, che farò senza te?
    
    - Devi vincere ad ogni costo la tua debolezza, che sarebbe la
    perdita di tua figlia e la tua: promettilo, Valeria, prometti di non
    piegarti più ai suoi capricci, di sorvegliare ogni suo atto, di
    soffocare ogni sua ribellione, e magari rinchiudila. Io ti lascio
    ricca, lo sai, e questa ricchezza può essere la rovina di tua
    figlia; per cui tu devi nascondergliela. Io ho scritto il testamento
    in modo che ella creda di avere appena una rendita bastante per
    vivere, come l'ha creduto finora. Una parte del nostro patrimonio
    l'ho affidata al notaro Vannucci, il mio unico amico, che sarà
    tutore di Stefana e ti aiuterà nel compito che ti lascio. Tu gli
    obbedirai come a me: egli ha ricevuto tutte le mie istruzioni, saprà
    guidarti, sostenerti.
    
    - Cessa, per pietà, cessa, o il mio povero cuore si spezza! -
    
    Egli posò la mano sul bruno capo che si curvava sul petto di lui.
    
    - Povero e caro angelo, noi ci rivedremo un giorno in Cielo. Intanto
    prometti di esaudire i miei voleri.
    
    - Sì, Zeno, sì, te lo giuro!
    
    - Grazie; ora sono contento. Puoi chiamare nostra figlia, intanto
    che manderai per il mio amico. -
    
    La sua respirazione si era fatta più ansante.
    
    Valeria si affrettò ad obbedirlo. Stefana apparve, col volto
    serafico, atteggiato al più profondo dolore.
    
    - Eccomi, babbo; - disse - che vuoi?
    
    - Voglio che in questo supremo momento tu mi giuri di rispettare tua
    madre, di obbedirla in tutto, di considerarla quale è veramente, la
    più santa delle madri, la più degna di essere amata. -
    
    Stefana gettò le braccia al collo di Valeria con un affetto che
    parve sincero.
    
    - Babbo, te lo giuro: se tu dovessi mancarmi, io non vivrò che per
    mia madre. -
    
    Valeria singhiozzava stringendo al petto la figlia.
    
    Il moribondo alzò la mano con un gesto solenne.
    
    - Dio ti ascolta, Stefana! Guai se tu mancassi al giuramento fatto
    al letto di morte di tuo padre! Saresti disgraziata per tutta la
    vita. Ma non voglio pensarci, e benedico Dio che mi ha colpito, se
    la mia morte può servire a cambiare il tuo cuore, i tuoi sentimenti.
    Come ho detto a tua madre, non lascio ricchezze. -
    
    Stefana sussultò, ma il suo volto non cambiò l'addolorata
    espressione.
    
    Il moribondo proseguì:
    
    - Ti lascio però un nome stimato, degli esempi di lavoro, di
    abnegazione, che non devi dimenticare. Stefana, ricordati di me: se
    qualche cattivo pensiero ti turbasse, confidati mentalmente a me,
    che cercherò di consolarti. Guardati dalle cattive azioni; al
    momento di commetterle, pensa che l'anima di tuo padre ti è vicina,
    ti guarda.... e tu non vorrai farlo soffrire nell'eternità. Ed ora
    dammi un bacio, Stefana, e tu pure, Valeria, e che Dio vi protegga,
    vi benedica entrambe! -
    
    La scena che ne seguì distrasse le ultime forze del moribondo.
    
    Un'ora dopo era morto, assistito anche dal suo vecchio amico, il
    notaro Vannucci, giunto in tempo per raccogliere le sue ultime
    raccomandazioni, il suo ultimo sospiro.
    
    Per alcune settimane si credette che la signora Mestre seguisse il
    marito; ma a poco a poco quella disperazione violenta, si cambiò in
    una tristezza raccolta, e Valeria comprese che il suo dovere era di
    vivere per la propria creatura.
    
    In questo frattempo Stefana, con la sua ipocrisia, era riuscita ad
    affascinare il tutore.
    
    Il notaro Vannucci aveva finito col pensare che il suo defunto amico
    si era ingannato sul conto della figlia. Quella ragazza sedicenne
    aveva una grande intelligenza ed una penetrazione che lo stupivano.
    In poche parole, Stefana, senza neppure che il vecchio notaro
    potesse sospettarlo, seppe in breve come suo padre l'avesse
    ingannata e come il patrimonio che possedeva fosse cento volte
    maggiore di quello che aveva creduto.
    
    Questa scoperta superò le sue speranze, ma non ne parlò con alcuno.
    
    L'anno del lutto passò tranquillo, sebbene per Stefana avesse la
    durata di un secolo.
    
    Il suo tutore era divenuto per lei un amico devoto, uno schiavo
    sommesso ad ogni suo desiderio. E siccome la signora Mestre era
    persuasa di adempiere alla volontà del marito affidandola a lui,
    lasciava che egli venisse a prenderla per condurla seco al
    passeggio, a pranzo in casa sua, al teatro.
    
    Egli abitava solo con una vecchia fantesca che voleva bene a Stefana
    Perché la fanciulla l'accarezzava e scherzava con lei.
    
    Una sera in cui il notaro aveva bevuto più del solito, eccitato
    dall'allegria di Stefana, dal suo calcolato cicaleccio, le rivelò il
    segreto del suo amico.
    
    La fanciulla aveva già un tale potere su sé stessa, che non dimostrò
    alcuna sorpresa. Soltanto disse:
    
    - Il babbo ha fatto benissimo ad affidare a voi la più gran parte
    del suo patrimonio, Perché la mamma non avrebbe saputo
    amministrarlo. Ma se per caso domani doveste mancare, questo
    patrimonio passerà ai vostri eredi? -
    
    Il notaro abbracciò la fanciulla ridendo.
    
    - Come sei bambina! - esclamò. - Credi che le cose non siano state
    fatte in regola? Tua madre nella sua cassaforte tiene la ricevuta
    del deposito, ed io nel mio testamento lascio a te, col patrimonio
    di tuo padre, anche il mio, non avendo eredi diretti. -
    
    Stefana gli gettò con impeto le braccia al collo.
    
    - Grazie! Ma Dio voglia che campiate cent'anni! -
    
    Invece, una settimana dopo il vecchio, che aveva cenato in casa
    Mestre, si sentì preso da brividi, e, coricatosi, non si svegliò
    più: la fantesca lo trovò morto la mattina dopo. Il medico, chiamato
    in fretta, disse trattarsi di una sincope fulminante.
    
    Stefana finse di disperarsi per quella morte, e la gente ammirò il
    suo cuore sensibile.
    
    Nessuno stupì che il notaro avesse lasciato tutta la sua sostanza a
    Stefana.
    
    Egli non aveva parenti.
    
    Da allora in poi, la signora Mestre divenne uno strumento docile a
    tutti i voleri della figliuola, pur senza accorgersi che Stefana
    comandava ed ella obbediva, tanta era la furberia della ragazza.
    
    Alcuni mesi dopo la morte del tutore, la vedova mise un piede di
    casa principesco, convinta che in tal modo troverebbe uno splendido
    partito per la figlia.
    
    Sogni ambiziosi, fatti nascere da Stefana, ottenebravano ormai la
    sua mente. La signora Mestre nulla vedeva di più bello, di più
    perfetto che sua figlia.
    
    Veramente, Stefana a diciotto anni era maravigliosa: non si poteva
    guardarla senza rimanerne affascinati. Ma se lo sguardo altrui fosse
    penetrato nel suo cuore, si sarebbe arretrato inorridito.
    
    Stefana pensava che il piacere fosse l'unico scopo della donna e il
    fare delle vittime l'unica sua ambizione.
    
    Frattanto non trovava marito, quantunque avesse all'intorno una vera
    folla di corteggiatori.
    
    Ma la bellezza stessa della fanciulla, la vita dispendiosa che
    conduceva, i sorrisi d'incoraggiamento con cui accoglieva tutte le
    dichiarazioni, spaventavano anche coloro che avrebbero voluto
    chiedere la sua mano. Si diceva che sarebbe stata una deliziosa
    amante, ma come moglie era troppo pericolosa.
    
    In questo frattempo le venne presentato il conte Sebastiano Rossano.
    Il gentiluomo non era più sul fiore dell'età ed aveva condotto fino
    allora una vita austera: centinaia di donne gli erano passate vicino
    senza destargli ombra d'amore; il lavoro e il dovere erano stati la
    sola sua occupazione, tanto che, coll'esiguo patrimonio lasciatogli
    dal padre, riuscì ad arricchirsi, grazie al suo assiduo lavoro.
    
    Egli era stato presentato da un amico a Stefana. Gli bastò vederla
    per amarla. Ma siccome il suo amore era tanto puro e profondo quanto
    entusiastico, prima ancora di rivelarlo a lei, la chiese in moglie
    alla madre.
    
    Stefana fu lusingata da quella domanda: il titolo di contessa le
    garbava.
    
    - Accetto; - disse alla madre - però desidero far prima i miei
    patti. -
    
    La sera stessa il conte si presentava alle due signore.
    
    - La mamma - gli disse Stefana con una voce armoniosa che risonò
    agli orecchi di Sebastiano come una melodia di paradiso - mi ha
    comunicato la vostra domanda, che mi ha fatto molto piacere. -
    
    Egli tremava come un fanciullo.
    
    - Posso dunque sperare? - chiese con voce alterata.
    
    - Sperate, - rispose Stefana con un incantevole sorriso - se pur vi
    adatterete a certe condizioni che io credo indispensabili. -
    
    Il conte non pensava che alla felicità di possedere quella divina
    creatura.
    
    - Qualunque sieno, - esclamò con slancio - io le accetto!
    
    - Siete molto buono, conte, e sento che vi amerò per tutta la vita.
    Ma ora lasciate che io vi dica quello che desidero. Quando sarò
    maritata, non voglio più abitar qui, ma avere una palazzina mia
    propria.
    
    - Ne ho appunto acquistata una, assai elegante; - rispose il conte -
    ma se non vi piace, la cambierò.
    
    - Vedremo. Voi siete molto ricco, signor conte?
    
    - Ho un reddito di centomila lire.
    
    - Altrettanto ha la mia figliuola, - disse la signora Mestre.
    
    Stefana battè le mani come una bambina.
    
    - Oh! allora vedrete come ci divertiremo. Avrò un palco al Regio, mi
    farò venire gli abiti da Londra; alla mattina andremo alla
    passeggiata a cavallo; nel pomeriggio, in carrozza. Riceverò, darò
    delle feste!
    
    - Farete tutto quello che vorrete.
    
    - Come siete amabile, quanto vi amo! Mi condurrete anche ai bagni,
    in campagna?
    
    - Sì, sì, Stefana! Io farò sempre la vostra volontà!
    
    - Allora non ho più altro da chiedervi, se non che affrettiate il
    nostro matrimonio. -
    
    Il matrimonio della giovane col conte Sebastiano Rossano fece
    rumore. Tutti i giornali ne parlarono ed i commenti nel mondo
    elegante furono infiniti. Alcuni non sapevano spiegarsi come
    Stefana, bella, ricchissima, vivace avesse acconsentito a sposare un
    uomo non più giovane e si mostrasse così raggiante di gioia.
    
    - Stefana è molto più saggia di quello che credete, - dicevano le
    mamme alle loro figlie. - Ella sarà felice. -
    
    II.
    
    Benchè Stefana fosse divenuta una di quelle celebrate signore il cui
    nome si vede spesso comparire nelle cronache dei giornali mondani,
    benchè fosse circondata di adoratori, tutti erano concordi nel dire
    che essa era onestissima, che adorava il marito e che niuno avrebbe
    preso nel suo cuore il posto occupato da lui.
    
    Il conte Sebastiano Rossano si felicitava ogni giorno della sua
    scelta.
    
    Nella immensità della sua ebbrezza, il conte non vedeva lo sperpero
    del denaro che si faceva in casa. Tutte le condizioni imposte da
    Stefana erano da lui scrupolosamente rispettate: qualunque desiderio
    della moglie era un ordine.
    
    La contessa divenne madre di un bel fanciullo, che fu chiamato
    Livio.
    
    Stefana amò suo figlio con una passione quasi selvaggia, e fu
    l'unico, vero amore della sua vita.
    
    Essa volle allattarlo, e così ebbe un appartamento per sé e per il
    bimbo: il conte riprese possesso del suo appartamento da scapolo,
    situato al lato opposto della palazzina.
    
    La contessa aveva fatto spese straordinarie per Livio. Il corredo
    era bello come quello d'un principe.
    
    La culla era costata diecimila lire.
    
    Oltre la cameriera della contessa, maritata al cocchiere, due
    persone, che già avevano servito Stefana quando era ragazza e si
    sarebbero fatte squartare per lei, due altre cameriere dovevano
    servire esclusivamente per il bambino.
    
    Un giorno il conte si accòrse che, andando di quel passo, in pochi
    anni il patrimonio suo e quello di Stefana sarebbe divorato. In tre
    anni aveva già dovuto alienare una parte del capitale Perché la
    rendita non bastava a far fronte a tutte le spese.
    
    Tuttavia il gentiluomo si guardò bene dal farne parola alla moglie.
    
    - Posso io pagare abbastanza la felicità che la mia adorata Stefana
    mi procura? - pensava. - Posso privarla di qualche cosa? No, no! Mi
    rimetterò a lavorare e procurerò che ella non sappia mai che spende
    troppo denaro e quale sacrificio io farò per lei allontanandomi
    spesso dal suo fianco. -
    
    Un giorno che il conte aveva tardato più del solito all'ora del
    pranzo, tornato a casa trovò Stefana triste, inquieta, che gli gettò
    piangendo le braccia al collo.
    
    - Perché quest'assenza? Dove sei stato? Non mi ami dunque più? -
    
    Il conte la coprì di baci.
    
    - Stefana, come puoi pensare così? Guardami, guardami bene: ho la
    faccia di un colpevole? -
    
    Stefana fissò i suoi splendidi occhi ammaliatori in quelli di lui.
    
    - No; - rispose - ma tu mi nascondi qualche cosa.
    
    - Sì, e faccio male, Perché non devo avere segreti per te. Le mie
    assenze hanno un giusto motivo: lavoro per te e per nostro figlio.
    
    - Come?
    
    - Non comprendi? Noi siamo ricchi, è vero, ma voglio che Livio lo
    sia ancora più; per cui mi sono rimesso agli affari.
    
    Stefana si strinse a lui con un grido di gioia.
    
    - Come sei buono! Quanto, quanto ti amo! -
    
    E l'inebriò di sorrisi, di carezze.
    
    Fin da quel momento, Stefana non si curò più delle assenze del
    marito, anzi, le desiderava.
    
    Era la stagione dei bagni, ed ella vi si recò col bambino e la
    madre, in una bella villa di Pegli, presa in affitto dal conte, che
    rimase a Torino, facendo ogni tanto una scappata colà per
    abbracciare la moglie e il figlio.
    
    Stefana aveva trovato a Pegli molti conoscenti. Alla sera ella
    riceveva amici e conoscenti, e vegliava fino a tarda ora.
    
    Una notte tutto taceva nella villa, quando la signora Mestre, che
    soffriva di cuore, essendosi messa alla finestra per respirare,
    sentì un rumore di passi in giardino ed al chiarore della luna vide
    sua figlia al braccio di un uomo. Si dirigevano verso un piccolo
    padiglione.
    
    Quantunque il turbamento le togliesse quasi il respiro, la signora
    Mestre lasciò la finestra, scese con precauzione in giardino e si
    avvicinò al padiglione, illuminato.
    
    Da una delle vetrate guardò nell'interno.
    
    Ciò che vide la povera donna dovette essere orribile, Perché
    indietreggiò con un grido di spavento e cadde distesa al suolo.
    
    La porta del padiglione non tardò a spalancarsi e Stefana si
    precipitò fuori, seguìta da un giovane quasi imberbe, che mostrava
    sul volto i segni dello spavento.
    
    - Che c'è? - chiese con voce soffocata.
    
    La contessa, veduto il corpo di sua madre, comprese tutto.
    
    Allora, calmissima, rivoltasi al giovane:
    
    - Vattene subito; - disse - tu non hai nulla da temere! -
    
    Egli disparve tosto, mentre Stefana si chinava sul corpo della
    madre, appoggiava il suo orecchio al cuore di lei.
    
    Quando comprese che era solo svenuta, sollevatala per le spalle la
    trascinò nel padiglione, la stese sull'agrippina.
    
    La signora Mestre non tardò a rinvenire, e veduta sua figlia gridò
    con disperato accento:
    
    - Sciagurata!... Sciagurata!... Hai dunque l'anima impastata di
    fango? Tradire il più onesto dogli uomini, tu, madre della sua
    creatura!...
    
    - Basta! - interruppe con impeto Stefana. - Non tediarmi. Perché
    venire a spiare i miei passi come una suocera?
    
    - Ed è così che rispondi a tua madre? Non provi rossore al pensiero
    dell'azione commessa? Non pensi che, invece di me, poteva esser qui
    tuo marito? -
    
    Stefana alzò con aria di disprezzo le spalle.
    
    - Credi che sia venuta ai bagni per far la balia al bambino?
    L'adoro, il bimbo, ma egli non deve essermi d'inciampo. Tu sei una
    mamma dalle idee antidiluviane! Io, invece, sono una donna moderna:
    voglio avere degli amanti, schiavi sommessi, pronti a versare tutto
    il loro sangue per me, e li avrò! Voglio essere ammirata, e in pari
    tempo creduta da tutti la donna più onesta del mondo! -
    
    La signora Mestre ascoltava terrorizzata quelle massime vergognose:
    tremava a verga a verga, anelante.
    
    - Disgraziata figliuola! - balbettò. - Dove hai imparato un simile
    modo di pensare e di parlare? Io ti ho dato solo esempi di virtù;
    tuo padre era l'uomo più onesto che esistesse, la tua istitutrice
    era una santa donna. E tu...? -
    
    L'infelice si mise a singhiozzare.
    
    - Oh! dimmi che vaneggi, che hai avuto un istante di follìa, -
    soggiunse con accento supplichevole - ma che ti penti, che il tuo
    cuore non è così traviato come vuoi farmi credere! Vieni meco a
    pregar Dio che ti perdoni: d'ora innanzi io non ti lascerò un solo
    istante! -
    
    Lo sguardo di Stefana divenne quasi feroce.
    
    - Credi che la tua presenza m'impedirebbe di fare il comodo mio? -
    interruppe con cinismo. - Ma non voglio infliggerti un tal
    supplizio, e scriverò a mio marito che l'aria di mare ti è nociva,
    che tornerai con lui a Torino, così non avrai più ragione di
    scandalizzarti. -
    
    Un singhiozzo sfuggì dalle labbra della sventurata; ella sentiva che
    se rimaneva lì ancora un istante non avrebbe più la forza di
    ritornare nella propria camera; onde fuggì barcollando, dopo aver
    gridato a sua figlia:
    
    - Che Dio ti perdoni! -
    
    L'infelice passò la notte in ginocchioni, chiamando in aiuto Dio e
    suo marito.
    
    La mattina dopo la cameriera, entrando in camera, trovò la signora
    stesa al suolo, immobile, morta.
    
    III.
    
    Stefana ebbe violente crisi di simulato dolore.
    
    Il conte Rossano, avvertito da un telegramma, accorse subito e
    circondò la moglie di delicate premure.
    
    La colonia dei bagnanti andò a iscriversi nel registro posto in una
    sala della villa, ma Stefana non ricevette alcuno.
    
    Il trasporto della defunta dalla villa alla stazione fu veramente
    commovente. Stefana, col figlio fra le braccia ed il conte accanto a
    lei, seguiva in vettura il carro funebre, coperto di corone, e prese
    posto nel vagone riservato, dove era stato messo il feretro. Al
    cimitero, ella volle assistere al seppellimento della salma.
    
    Per un anno, la contessa visse ritirata, non occupandosi che del suo
    Livio, inebriandosi al cicaleccio di lui, che non lasciava quasi mai
    la mammina.
    
    Poi Stefana ricominciò a frequentare la società, riprese la sua
    esistenza di piaceri.
    
    Livio, crescendo, le assomigliava non soltanto nel fisico, ma
    soprattutto nel morale: nulla aveva di suo padre, nulla! Il conte
    avrebbe voluto educarlo con una certa severità; ma come resistere
    alla moglie?
    
    - Abbiamo quest'unico figlio; - diceva Stefana - vuoi che ci muoia
    per il troppo studio? Lascialo sviluppare: per ora gli daremo una
    buona istitutrice, più tardi un ottimo precettore, che sceglierò io
    stessa. -
    
    Se Livio studiava poco, aveva in compenso una malizia innata e la
    profonda ipocrisia della madre. Era capacissimo di tormentare una
    bestia per il solo gusto di vederla soffrire, salvo poi, se
    compariva qualcuno, di piangere e disperarsi.
    
    Il conte lavorava da mane a sera; la moglie faceva sperpero di
    denaro.
    
    Un giorno la contessa s'intratteneva nel suo salotto con un
    ufficiale di cavalleria, che da lungo tempo le faceva la corte ed al
    quale essa aveva concesso un particolare colloquio.
    
    Mentre l'ufficiale, inginocchiato ai piedi di Stefana, le chiedeva
    pietà del suo soffrire, un uscio si spalancò con impeto e Livio, il
    quale allora aveva sette anni, si precipitò dentro, gridando:
    
    - Mamma, c'è il babbo! -
    
    La malizia di quel fanciullo gli fece comprendere che quel
    colloquio, sorpreso dal padre, poteva cagionare un grave dolore alla
    madre.
    
    E quando il conte entrò nel salotto, la contessa stava
    tranquillamente disegnando presso un tavolino: l'ufficiale era
    uscito da un altro uscio, guidato da Livio.
    
    Da questo si può comprendere l'educazione del fanciullo e come madre
    e figlio dovessero adorarsi e andare pienamente d'accordo.
    
    Un giorno il conte si recò all'estero a cagione del fallimento di
    una Casa commerciale, colla quale egli era cointeressato. La sua
    assenza doveva essere di pochi mesi, invece si prolungò oltre un
    anno.
    
    In questo frattempo la contessa Stefana parve rinunciare alla vita
    elegante, scapigliata. Non riceveva più, si mostrava di rado in
    carrozza al passeggio, e la sua salute sembrava alterata.
    
    Livio la sorprese sovente sdraiata su di una lunga poltrona,
    pallida, affranta, piangente.
    
    - Che hai, mamma, che hai? - le diceva coprendola di baci. - Il
    babbo ti ha dato qualche dispiacere?
    
    - No, angelo mio, no! Sono triste, senza sapere il Perché! -
    rispondeva la contessa.
    
    Ma Livio non era persuaso. Egli aveva allora dodici anni e sembrava
    un ragazzo educatissimo: sapeva stare in società, aveva tutta la
    grazia e il sorriso affascinante della mamma. Ma in fondo era
    vizioso, indolente, e non si approfondiva in cosa alcuna.
    
    Aveva i sensi precocemente sviluppati e l'aspetto di un arcangelo.
    
    Una mattina, quando stava per alzarsi, il cameriere gli consegnò una
    lettera della contessa.
    
    Livio ebbe un moto di sorpresa.
    
    - Dov'è la mamma? - domandò.
    
    - È partita! -
    
    Il fanciullo strappò febbrilmente la busta, e lesse:
    
    «Amor mio!
    
    «Ho bisogno di assentarmi dal palazzo, almeno per una settimana:
    lascio te, che sei un ometto, a guidare la casa. Se arrivasse tuo
    padre e altri chiedesse il motivo della mia assenza, rispondi che un
    dovere di gratitudine mi ha condotta presso la madre, ammalatissima,
    della mia cameriera, la quale parte con me. Conduco meco anche il
    cocchiere, suo marito. Mostrami in questa circostanza l'amore che mi
    porti, non facendo scene per la mia lontananza e scusando cogli
    altri la mia partenza. Ti adoro e ti bacio.»
    
    Livio rimase impassibile.
    
    E nelle due settimane che la contessa rimase assente, egli seppe
    tenere un contegno da vero ometto.
    
    Quando il conte arrivò, la contessa era già tornata. Egli trovò sua
    moglie assai pallida, come se uscisse da una malattia, e
    abbracciandola si scusò della sua lunga assenza.
    
    - D'ora innanzi, non starai tanto tempo lontano, non è vero? - gli
    disse Stefana stretta al collo di lui. - Quanto mi ha fatto soffrire
    questa separazione, benchè avessi meco mio figlio! -
    
    Il conte non si saziava di baciarla: era commosso della fedeltà di
    quella donna adorata.
    
    - In questo frattempo ho avuto anche un altro dispiacere: la mamma
    della mia cameriera, colei che mi ha portata in braccio piccina, è
    morta. Essa volle rivedermi prima di chiudere gli occhi per sempre.
    
    - Povera donna!
    
    - Mi recai da lei con la cameriera e il cocchiere, cui essa ha
    lasciato una casetta di campagna con alcune vigne, ed ho dovuto, con
    mio dispiacere, rinunziare a quei due fidi servitori, che ormai
    vogliono accudire ai loro beni. -
    
    Il conte non ebbe il minimo sospetto che tutta quella storia fosse
    una menzogna.
    
    Ma Livio, sebbene fanciullo, non credette alle parole della madre,
    cui disse:
    
    - Tu menti: hai un segreto per me, e non vuoi rivelarmelo.
    
    - Lo saprai più tardi; adesso sarebbe inutile, - rispose Stefana -
    ti prego di non insistere. -
    
    Gli anni scorsero.
    
    Stefana, come divorata da un pensiero tormentoso, si diede
    nuovamente alla pazza gioia.
    
    Il conte continuava la sua via di sacrificio, persuaso che la donna
    adorata meritava tutto il suo grande amore, tutta la sua devozione.
    
    Una notte la contessa si sentì colta da brividi ed ebbe ad un tratto
    il presentimento della sua prossima fine.
    
    Sentì agghiacciarsi di terrore: non voleva morire, senza fare una
    importante rivelazione a suo figlio.
    
    Con quella forza di volontà che aveva sempre distinto Stefana in
    tutte le pericolose circostanze della sua vita, scese dal letto,
    indossò una vestaglia, e barcollando si diresse nella camera del
    figlio.
    
    Questi, vedendola, si spaventò e chiese:
    
    - Mamma, che hai? Tu soffri?
    
    - Sì, caro; - rispose ella - sento in me qualche cosa che si spezza,
    ed ho paura di morire. -
    
    Egli la guardava convulso.
    
    - Perché ti sei alzata? Vuoi che ti riconduca a letto, che mandi per
    un medico?
    
    - No, più tardi; prima voglio rivelarti un segreto che da dieci anni
    mi pesa sul cuore. Ascoltami. -
    
    Ella sedette accanto al letto del figlio e prese a dire:
    
    - Ti ricordi come, dieci anni fa, mentre tuo padre si trovava in
    viaggio, io mi assentassi da casa?
    
    - Lo ricordo perfettamente, mamma; ho sempre impresso le
    raccomandazioni fattemi nella tua lettera, e sebbene bambino, non
    prestai fede quando dicesti che eri partita per riabbracciare una
    morente.
    
    - Avevi indovinato, Livio: io non mi allontanai da Torino; mi
    nascosi coi miei fidati servi in un piccolo appartamento già preso
    in affitto sotto il loro nome, ed in quell'appartamento diedi alla
    luce un bambino, che non porterà mai il nome tuo, né godrà del tuo
    patrimonio. Tuo fratello fu legalmente riconosciuto come figlio dei
    coniugi Ribera, che per me avrebbero fatto qualsiasi sacrifizio. Ora
    ti spiegherò i motivi che mi indussero a lasciar vivere quel
    fanciullo.
    
    «Se tuo padre fosse stato in quel tempo a Torino, non avrei potuto
    nascondergli il mio stato ed egli sarebbe stato felice d'avere un
    altro figlio, un altro erede.
    
    «Ma io non volevo: avrei odiato quel secondo fanciullo se prendeva
    posto in questa casa Perché tu solo regni nel mio cuore, nell'anima
    mia, tu solo fai parte di me. Se volli dare un nome a tuo fratello,
    lo feci Perché tu avessi più tardi un uomo da far agire a tuo
    talento, un uomo che ad un tuo cenno diverrà tuo schiavo e sul quale
    avrai un potere di vita e di morte. -
    
    Livio guardava sua madre credendo vaneggiasse. Ella comprese quello
    sguardo.
    
    - Tu pensi - soggiunse - che la febbre mi abbia dato al cervello,
    che io deliri: no, rassicurati, Livio, ho tutto il mio senno e te lo
    provo.
    
    «Fabio Ribera, tale è il nome di tuo fratello, fu dato a balia ad
    una donna che, come tutti, lo credette veramente figlio della mia
    cameriera.
    
    «L'anno seguente, i due coniugi lo presero in casa, e per quattro
    anni Fabio visse con loro, che lo facevano pregare ogni sera per me,
    dinanzi al mio ritratto, dicendogli che ero la sua benefattrice.
    
    «Volle disgrazia che quando Fabio compiva i cinque anni, la
    cameriera e suo marito fossero portati al camposanto. Ma la donna
    lasciava a suo figlio una lettera, che io stessa le dettai e che,
    unita ad un'altra scritta da me, consegnerai tu stesso a Fabio,
    quando avrà vent'anni.
    
    «Tu leggerai quelle lettere, che non sono suggellate, prima di
    consegnarle a Fabio.
    
    «Egli è ora in un collegio modesto il cui rettore mi assicura che
    non vi è allievo migliore di lui.
    
    - Vuol dire che non mi rassomiglia! - interruppe ridendo Livio.
    
    - Oh! tu per me hai tutte le perfezioni, e Fabio non avrebbe mai
    preso nel mio cuore il tuo posto. Peraltro, tu compirai l'opera mia
    verso lui, ne farai un buon operaio, e gli dirai che deve tutto a
    te, acciocchè sia pronto a qualsiasi sacrificio per amor tuo. Ora,
    caro, accompagnami nella mia camera; voglio consegnarti quelle
    lettere. -
    
    Livio, vestitosi in fretta, seguì la madre, che ebbe ancora la forza
    di aprire il serracarte e consegnare al figlio una piccola cassetta
    d'ebano, scongiurandolo di andare subito a nasconderla.
    
    Quando Livio ritornò, la contessa gli cadde fra le braccia,
    balbettando:
    
    - Chiama aiuto, mi sento morire! -
    
    Livio la trasportò sul letto, poi attraversò le stanze urlando,
    chiamando i domestici, destando tutti.
    
    - Presto, un medico! - gridava. - La mamma muore! -
    
    Il conte si precipitò nella camera della moglie.
    
    - Stefana, Stefana, che hai? - gridava, spaventato.
    
    La contessa non rispose. Aveva gli occhi fissi, immobili.
    
    A un tratto balbettò:
    
    - Aria.... aria.... soffoco.... Dio, Dio!... -
    
    Venne spalancata la finestra, mentre padre e figlio sostenevano
    Stefana per le spalle.
    
    Il medico giunse e recò alla contessa un sollievo momentaneo con
    iniezioni d'etere e con l'ossigeno; ma dichiarò il caso disperato:
    si trattava di una pericardite acuta.
    
    Poco dopo Stefana chiamò:
    
    - Sebastiano! -
    
    Il conte fu in un attimo vicino a lei, che l'attirò al suo petto per
    mormorare:
    
    - Muoio.... ama molto Livio.... per me.... -
    
    Il conte rispose con un lacerante singhiozzo.
    
    Troppo lungo sarebbe descrivere la scena dolorosa che ne seguì.
    
    Ma il medico aveva ragione: Stefana entrò in agonia, indi il suo
    cuore cessò di battere.
    
    Se il conte Sebastiano, colpito da quella morte improvvisa, sembrò
    impazzire, la disperazione di Livio non ebbe limiti. Nessuno
    riusciva a staccarlo dal cadavere della madre, che copriva di baci
    appassionati.
    
    Di fronte a quell'immenso dolore, il padre fece tacere il suo.
    
    Egli ricordava le ultime parole di Stefana e, avvicinatosi al
    figlio, lo sollevò, lo strinse fra le sue braccia, balbettando:
    
    - Piangi con me, Livio, piangi col tuo povero babbo, che ha pure il
    cuore spezzato! -
    
    Per la prima volta il giovane ebbe uno slancio sincero di
    riconoscenza, per la prima volta si tenne stretto al padre,
    confondendo le lacrime con quelle di lui.
    
    Per molte settimane padre e figlio vagarono per la palazzina come in
    attesa che la contessa Stefana comparisse.
    
    Essi passavano lunghe ore nella camera di lei, dove un ritratto ad
    olio di Stefana la riproduceva in tutto lo splendore della sua
    bellezza.
    
    Un giorno il conte, stringendo la mano al figlio, gli disse:
    
    - Io mi rimetterò agli affari: tu pure cerca un'occupazione: così
    potremo far tacere il nostro dolore. -
    
    Il giovane non rispose.
    
    Quel giorno stesso egli si chiuse nella sua camera ed aprì per la
    prima volta la cassetta d'ebano, consegnatagli dalla madre.
    
    Conteneva due lettere, in una busta non suggellata.
    
    La soprascritta di una di esse diceva: «A mio figlio.»
    
    Era vergata da una mano a lui sconosciuta e diceva:
    
    «Caro figlio,
    
    «Questa lettera che io ti scrivo in punto di morte non ti verrà
    consegnata che quando avrai compiuti vent'anni. Sarà dunque allora
    la voce di una morta che parlerà al tuo cuore, e tu devi ascoltarla.
    
    «Guai se tu non obbedissi a quella voce! Io non avrei più riposo
    nella tomba e tu saresti maledetto per tutta l'eternità!
    
    «Ascoltami, dunque. Dal momento che tu sarai un uomo, dedicherai
    tutta la tua esistenza alla contessa Stefana Rossano, tua
    benefattrice.
    
    «A lei tu devi tutto, ricordalo, e qualunque cosa ti imponesse,
    l'eseguirai: io stessa, tua madre, te lo comando. Sii colla tua
    benefattrice umile, devoto, rispettoso; pensa che a lei sola devi la
    tua istruzione, che essa sola ha sopperito a tutte le spese per
    allevarti, per fare di te un uomo onesto. La tua vita stessa non
    basterebbe a pagare il debito di riconoscenza che hai con lei.
    
    «Addio, figlio mio, addio! Ti bacio e ti benedico. Tua madre
    
    «Flavì Ribera.»
    
    L'altra lettera era scritta da Stefana. Livio lesse:
    
    «Mio buon Fabio,
    
    «Speravo di poter compiere il voto espressomi dalla tua povera mamma
    prima di morire: consegnarti una sua lettera, quando tu fossi un
    uomo. Ma io pure cedo innanzi tempo a quella legge fatale della
    natura, che non dovrebbe colpire le madri, finchè sono necessarie
    alle loro creature. Ho il presentimento che la mia fine si avvicini,
    e non voglio morire senza aggiungere alla lettera di tua madre la
    mia ultima raccomandazione. Le due lettere ti saranno consegnate da
    mio figlio.
    
    «Tu sai quanto io sia stata affezionata alla tua povera mamma, e
    come abbia adempiuto la promessa a lei fatta di vegliare su te. Ti
    ho voluto bene come se tu fossi mio figlio: ebbene, su mio figlio tu
    riverserai tutta la riconoscenza che nutri per me, tu obbedirai ad
    ogni sua volontà, farai ciò che egli ti ordinerà di fare: questo io
    desidero.
    
    «Appena avrò chiusi gli occhi, mio figlio, il conte Livio Rossano,
    diverrà il tuo benefattore.
    
    «Amalo molto in cambio di tutto quanto farà per te e di ciò che io
    feci alla tua povera mamma; cerca di provargli, fosse anche a costo
    della tua vita, la tua gratitudine; contribuisci, per quanto puoi,
    alla sua felicità.
    
    «Tu sei un ragazzo assennato, e quando avrai questa mia sarai un
    uomo capace di dare a due povere morte la maggiore soddisfazione che
    possono avere da te. E quando verrai a pregare sulla mia tomba, su
    quella di tua madre, noi riconosceremo il suono della tua voce, e se
    ci dirai di averci obbedite, riposeremo tranquille, benedicendoti.
    Se invece tu ci disobbedissi, tua madre ed io non troveremmo più
    pace nella tomba e tu saresti maledetto.
    
    «Ma tu sei buono, onesto, hai cuore, e ci ascolterai. Ti mando un
    bacio con tutta l'anima e ti benedico. La tua benefattrice
    
    «Contessa Stefana Rossano.»
    
    Livio stette per alcuni minuti con quella lettera fra le mani.
    
    - Cara mamma! - mormorò. - Essa ha pensato a me solo fino all'ultimo
    istante! Ebbene, per amor suo mi occuperò di Fabio, quando anche
    egli non mi giovasse a niente e dovesse procurarmi noie e spese. -
    
    Presa questa risoluzione, suggellò le due lettere, le mise nella
    cassettina, ed il giorno seguente, vestito a lutto, col volto
    atteggiato ad una grande mestizia, si presentava al collegio dove
    Fabio veniva educato.
    
    Appena diede il suo nome, venne introdotto nel gabinetto del
    direttore.
    
    Questi, un vecchio di modesto aspetto, dal volto spirante la più
    grande bontà, gli andò incontro premuroso e, con voce commossa:
    
    - Vi ringrazio, signor conte, - disse - dell'onore che mi fate colla
    vostra visita. Conosco la disgrazia che vi ha colpito, e ne soffro,
    come ne soffre il protetto dalla compianta signora contessa.
    
    - Io sono venuto espressamente per vederlo e parlargli, - rispose
    Livio. - La mia santa mamma ha amato quel ragazzo come un figlio, ed
    io crederei di mancare al mio dovere, se non prendessi il suo posto
    in quest'opera di carità.
    
    - Voi siete degno figlio della povera signora! - soggiunse il
    direttore. - Sono lieto di potervi dire che il ragazzo merita
    davvero tutta la vostra premura: è il migliore degli allievi nostri,
    e vi assicuro che i vostri benefizi non andranno perduti.
    
    - Meglio così! -
    
    Il direttore diede ordine Perché Fabio fosse chiamato.
    
    Il ragazzo non tardò a comparire nella sua uniforme del collegio.
    Era davvero un bel fanciullo, biondo, roseo, e Livio notò subito che
    gli assomigliava.
    
    Fabio, entrando, guardò prima con sorpresa Livio, poi grosse lacrime
    gli caddero dagli occhi, e congiungendo le mani con espressione
    commovente:
    
    - Non m'inganno: - balbettò - lei è il figlio della contessa, della
    mia benefattrice: le somiglia tanto! -
    
    E, prima che il conte potesse prevederlo, Fabio gli cadde ai piedi
    svenuto.
    
    - Vedete come è sensibile! - disse il direttore, mentre aiutava
    Livio a sollevare il ragazzo, a distenderlo sul divano. - Dal giorno
    in cui seppe della morte della contessa, non è stato più bene. -
    
    Egli fece portare dell'acqua e dell'aceto, ne inzuppò un fazzoletto,
    che pose sulla fronte del fanciullo.
    
    Fabio aprì gli occhi ed il suo primo sguardo fu per Livio.
    
    Allora si mise novamente a piangere.
    
    Il giovane conte lo sollevò, lo strinse al suo petto.
    
    - Piangi.... piangi! - gli disse. - Non verserai mai abbastanza
    lacrime per quella santa che ci ha lasciati. Io pure ho il cuore
    spezzato, io che ho perduto in lei la migliore delle madri. Sappi
    che ella non si dimenticò di te: mi raccomandò di non abbandonarti
    mai, e puoi star certo che il suo voto sarà esaudito.
    
    - Oh! signor conte, io non so esprimermi, ma se potesse leggere nel
    mio cuore, vedrebbe quanta devozione racchiude! La mia benefattrice
    mi parlava sempre di lei, ed io l'amavo senza conoscerlo; ora sento
    che sarei pronto a versare per lei tutto il mio sangue.
    
    - Grazie, Fabio; non dimenticherò mai le tue parole. -
    
    Calmata la piena degli affetti, Livio, con un accento quasi paterno
    domandò a Fabio dei suoi studi, delle sue aspirazioni.
    
    - Le mie aspirazioni non sono molto alte: - rispose mestamente il
    ragazzo - io vorrei compiere il corso commerciale per entrare come
    contabile in qualche magazzino, dove potessi guadagnarmi da vivere.
    L'unica mia ambizione è di rimanere a Torino per poter vedere di
    quando in quando lei. -
    
    Amare ed essere amato da Livio, serbare un culto profondo alla sua
    benefattrice, ecco ormai dove Fabio compendiava tutta la sua vita.
    
    - Tu sei proprio un bravo ragazzo! - disse Livio baciandolo sulla
    fronte. - Io vado orgoglioso di proteggerti, e puoi star certo che
    verrò spesso a trovarti. -
    
    Infatti non passava settimana senza che il contino si recasse al
    collegio, e se egli ne usciva commosso dai colloqui avuti con Fabio,
    il povero ragazzo contava quelle ore come le più felici della sua
    esistenza, che radicavano in lui profondamente il desiderio di
    dedicarsi al suo benefattore.
    
    IV.
    
    Passato l'anno del lutto, Livio menò vita scapigliata e dispendiosa.
    
    Il conte Sebastiano seppe presto dei disordini di suo figlio.
    
    Un giorno, durante il pranzo, egli osservò che Livio era molto
    turbato, per cui nell'alzarsi da tavola gli disse:
    
    - Ho da parlarti: andiamo nel salotto da fumo. -
    
    Il giovane divenne livido, ma rispose con abbastanza disinvoltura:
    
    - Sono ai tuoi ordini, babbo! -
    
    Seduti l'uno di faccia all'altro, il conte, guardando il figlio con
    espressione d'immenso amore, gli disse con accento pieno di paterna
    tenerezza:
    
    - Perché non hai fiducia in me, figlio mio? Io so che hai perduto al
    giuoco cinquantamila lire in una notte, e per pagarle ti sei messo
    in mano agli strozzini. -
    
    Il giovane stava per negare, ma comprese che avrebbe commesso una
    pazzia. Allora pensò bene di cadere alle ginocchia del padre, e
    mentre grosse e bugiarde lacrime comparivano nei suoi occhi:
    
    - È vero! - balbettò. - Perdono, padre mio, perdono: ti prometto di
    non toccare mai più una carta. Mai!
    
    - Va bene; alzati e siedi; non ti ho detto ancor tutto. -
    
    Il giovane sembrò attendere umilmente.
    
    - Mi hanno poi detto che mantieni una ballerina, una minorenne, cui
    hai regalato gioielli, carrozze e cavalli, come se tu fossi un
    milionario.... È vero? -
    
    Livio mostrò una certa audacia.
    
    - Sì, non lo nego! - rispose. - Ma suppongo che la povera mamma mi
    abbia lasciato un vistoso patrimonio. -
    
    Quell'allusione afflisse il conte Sebastiano. Per quanto grande
    fosse la sua adorazione per la defunta, non voleva che suo figlio si
    facesse delle illusioni.
    
    - La tua povera mamma non ha lasciato nulla, - rispose con tono
    grave - ed ho dovuto pagare molti suoi debiti Perché non venisse
    profanata la sua memoria. Non faccio un rimprovero a quella santa;
    essa non conosceva il valore del denaro. -
    
    Livio era alquanto scombussolato.
    
    - La mamma mi disse più volte che ti aveva portato in dote centomila
    lire di reddito.
    
    - È verissimo; ma stante la sua prodigalità, in pochi anni finì la
    sua dote e più della metà di ciò che io stesso possedevo. Col mio
    lavoro potei salvare il resto ed aumentare a poco a poco il
    patrimonio, riuscendo in tal modo a non turbare la tua povera mamma,
    a lasciarle continuare la sua esistenza di lusso. Ed è morta,
    ignorando tutti i sacrifizi da me fatti per lei. -
    
    Livio rimaneva a capo chino.
    
    Il conte proseguì:
    
    - Sarei però un cattivo padre se lasciassi percorrere a te la stessa
    china fatale, mentre ormai sei un uomo e puoi comprendere come
    l'esistenza non sia fatta di soli piaceri. Io ho sempre lavorato, e
    d'ora innanzi lavorerai anche tu. Pagherò tutti i debiti da te
    fatti, purchè tu mi prometta di nuovo di non più frequentare case da
    giuoco e di lasciare quella ballerina.
    
    - Te lo prometto; - disse Livio - d'ora innanzi mi lascerò guidare
    da te. -
    
    Livio mentiva come sempre. Tuttavia per qualche tempo sembrò
    tornasse savio. Pagati i debiti, lasciata l'amante, si mise al
    lavoro. Suo padre gli affidò la contabilità.
    
    Un giorno il conte affidò al figlio ventimila lire per fare un
    pagamento. Appena Livio ebbe quel denaro nelle mani, fece un
    viaggetto di piacere con una canzonettista, ed appena a Milano,
    telegrafò al padre:
    
    «Non ho resistito alla tentazione. Fai tu il pagamento. Tornerò
    presto.»
    
    E tornò infatti dopo una settimana, completamente al verde.
    
    Questa volta il conte Sebastiano ebbe per lui parole roventi di
    rimprovero. Suo figlio aveva abusato della sua fiducia; era
    doppiamente colpevole.
    
    Livio, invece di chiedergli perdono, si ribellò, mostrandosi quale
    veramente era: cinico, audace, vizioso. Voleva imporre al padre, ma
    non ci riuscì: il conte tenne duro, gli lesinò il denaro, gli disse
    che non avrebbe più riconosciuto alcun debito fatto da lui.
    
    Frattanto lo sventurato padre si sentiva morire di cordoglio.
    
    Una mattina il conte Sebastiano, còlto da grave malore, spirò in
    meno di un'ora.
    
    Livio era libero! Libero di divertirsi, di spendere, di godersi la
    vita, senza che alcuno controllasse le sue azioni.
    
    V.
    
    Fabio continuava con ardore gli studi, per rendersi sempre più degno
    del suo benefattore.
    
    Tutta l'adorazione che il fanciullo aveva provata per la contessa,
    si riversò su Livio. Per Fabio non vi era nulla al mondo di più
    bello, di più perfetto del giovane conte, il quale se ne compiaceva.
    
    Fabio era sui diciotto anni, allorchè un giorno Livio si recò ad
    avvertirlo che gli aveva trovato un buon posto di contabile in un
    grande magazzino di mode, dove avrebbe percepito per i primi mesi
    sessanta lire, che sarebbero andate crescendo fino a raggiungere la
    cifra di centocinquanta lire mensili.
    
    Fabio ne fu felice.
    
    Livio aveva preso, a nome di Fabio Ribera, due stanzette al quarto
    piano di un vasto casamento in via della Rocca, pagandone il primo
    semestre anticipato e le aveva fatte ammobiliare con una certa
    proprietà.
    
    Quando vi condusse Fabio, questi, versando lacrime di riconoscenza,
    cadde ai piedi di Livio e gli baciò affettuosamente le mani.
    
    Fabio Ribera si presentò al magazzino indicatogli da Livio e vi fu
    ben accolto.
    
    Il conte Rossano regolò la vita del giovane in modo che nessuno
    dubitasse dei rapporti esistenti fra loro. Egli, sapendo che in quel
    magazzino cercavano un contabile, offrì Fabio, dicendo che gli era
    stato raccomandato da un gentiluomo che ne aveva fatto i più grandi
    elogi. Così, fu accettato.
    
    Quando Livio capitava a fare qualche compra in quel magazzino, Fabio
    lo salutava con rispetto, ma nessuno avrebbe mai creduto che egli
    fosse in relazione col conte.
    
    Non passava però settimana senza che il conte dedicasse una sera al
    suo protetto.
    
    In questo frattempo Livio conobbe Giulietta Lovera.
    
    Una mattina che il conte bighellonava per le strade, giunto al corso
    San Maurizio si fermò a guardare una giovane vestita con semplicità
    ma di una bellezza più unica che rara.
    
    Il conte, affascinato, le si avvicinò, e con voce soave:
    
    - Perdonatemi, signorina, - disse - ma l'involto che portate è senza
    dubbio troppo pesante per voi. Permettete che io ve lo porti. -
    
    Giulietta guardò alla sfuggita quel giovane tanto gentile, e fattasi
    di fiamma rispose:
    
    - Ci sono avvezza, signore; e poi, non ho da fare che pochi passi;
    abito qui vicino; grazie! -
    
    E si allontanò in fretta.
    
    Livio le tenne dietro e la vide fermarsi presso la porta di un vasto
    casamento, dare una moneta ad un mendicante che le si era
    avvicinato, quindi sparire dentro il vestibolo.
    
    Livio si avvicinò a sua volta all'accattone, che subito gli si
    rivolse implorando:
    
    - Un po' di carità, per amor di Dio!
    
    - Vuoi guadagnarti dieci lire? - gli disse il conte.
    
    Il mendicante lo guardò con aria inebetita.
    
    - Dieci lire? - ripetè, credendo di sognare.
    
    - Sì, per rispondere ad una mia domanda.
    
    - Per dieci lire rispondo a cento! - esclamò l'altro aprendo la
    bocca ad un triviale sorriso.
    
    Livio trasse dal portafogli un biglietto da dieci, che fece vedere
    al mendicante; ma prima di darglielo domandò:
    
    - Chi era quella ragazza bionda che ti ha dato una moneta?
    
    - È una lavorante che abita nelle soffitte del casamento.
    
    - Ha famiglia?
    
    - No, signore, è sola; suo padre era un vecchio militare.
    
    - Di che vive, costei?
    
    - Lavora di bianco per un magazzino.
    
    - Avrà un amante, m'immagino!
    
    - No. Essa ha avuto delle proposte coi fiocchi, ma le ha rifiutate
    tutte. Qualche operaio l'ha chiesta in moglie, ma ha fatto fiasco:
    essa dice che vuole sposare un impiegato o un commesso, di cui le
    riesca innamorarsi. -
    
    Livio diè il biglietto da dieci e si allontanò.
    
    Ormai ne sapeva abbastanza sul conto di Giulietta e formò subito il
    suo piano.
    
    Egli cambiò i suoi abiti eleganti in abiti più modesti; acquistò un
    portafogli grande, di quelli che usano comunemente i giovani
    d'ufficio; prese in affitto una camera in via Montebello,
    qualificandosi per Fabio Ribera, impiegato di banca, e pose tutto il
    suo studio nello spiare l'uscita della giovane.
    
    Quattro giorni dopo il suo primo incontro con lei, verso sera, la
    vide uscire dal casamento sola, anche questa volta con un fagotto.
    Egli le si avvicinò, e Giulietta lo fissò con uno sguardo crucciato.
    
    - Signorina, ve ne prego, ascoltatemi; - diss'egli con voce commossa
    - io non ho più pace da che vi ho veduta, e desidero tanto di
    parlare con voi Perché somigliate moltissimo a una mia povera
    sorella, morta a sedici anni e che io ho tanto adorata. -
    
    L'impostore aveva le lacrime agli occhi.
    
    Giulietta si commosse; non aveva più ragione di offendersi, e con
    voce debole:
    
    - Mi dispiace di avervi, senza mia colpa, rinnovato un dolore! -
    balbettò.
    
    - Oh! signorina, voi invece mi avete procurata la felicità più
    grande che io potessi sognare. Non vi pare che sia un conforto
    ritrovare in una persona le sembianze adorate di un essere che è
    morto?
    
    - Avete ragione, signore! - rispose vivamente Giulietta. - Vedete,
    nel magazzino per il quale lavoro, un vecchio contabile mi ricorda
    il mio povero babbo; ebbene, quando lo vedo, provo una gioia
    sconosciuta, che egli neppure si immagina, e parlo sempre volentieri
    con lui.
    
    - Vedete dunque che io sono da compatire. Ma scusate se vi
    trattengo, mentre forse voi dovete recarvi al magazzino.
    
    - È vero.
    
    - Io non vi chiedo il permesso di accompagnarvi, Perché forse non me
    lo permettereste; però avrete tutta la mia riconoscenza se,
    incontrandovi qualche volta, non sdegnerete di scambiare una parola
    con me.... Se volete prendere informazioni sul conto mio, potete
    farlo: abito in una cameretta al terzo piano di quella casa che
    vedete là; il mio nome è Fabio Ribera, oriundo di un piccolo paese
    del Piemonte; sono solo al mondo ed impiegato in una banca. -
    
    Giulietta rispose con dolcezza:
    
    - Anch'io sono sola al mondo, signor Fabio. Mi chiamo Giulietta
    Lovera, vivo del mio lavoro, e nella mia povertà sto contenta.
    
    - Ebbene, giacché la nostra sorte si somiglia, noi saremo amici, non
    è vero? -
    
    Egli aveva un sembiante così onesto e sincero, che Giulietta gli
    stese la mano.
    
    - Oh! sì, - esclamò - con tutto il cuore! -
    
    Si separarono sorridendosi.
    
    Ormai Giulietta non pensava più che a quel falso Fabio, e il conte
    desiderava follemente Giulietta.
    
    - Ella sarà mia; - si diceva - cadrà a poco a poco, senza
    accorgersene. Che deliziosa amante avrò, allora! Come è bella! -
    
    Ciò non impediva al conte di tenere al tempo stesso relazione con
    Cinzia la ballerina, con la quale più volte si era bisticciato ma
    con la quale sempre si riconciliava, Perché i loro caratteri, i loro
    sentimenti erano presso a poco uguali.
    
    Cinzia non si peritava di tradirlo allegramente con altri: Livio le
    era spesso infedele; poi si raccontavano reciprocamente le loro
    avventure, ridendo alle spalle di chi avevano loro creduto.
    
    Questa volta però per Livio l'avventura era più seria. Quella
    bellissima fanciulla dai capelli d'oro gli stava a cuore più di
    quello che credesse; non si trattava del capriccio di un'ora, ma di
    un intrigo che doveva essere ben ponderato e condotto, Perché capiva
    che la più piccola imprudenza sarebbe bastata per far fuggire la
    preda.
    
    Il conte però non seppe tacere con Cinzia, e le si confidò.
    
    - Il tuo romanzetto m'interessa; - disse la bella ridendo - ma bada
    di non metterti in qualche impiccio. Le fanciulle oneste sono
    terribili dinanzi ad un tradimento: sta' in guardia! -
    
    Due giorni dopo, nel pomeriggio, Livio incontrò Giulietta, cui si
    avvicinò con le mani stese.
    
    - Vi recate al magazzino, signorina? - le domandò.
    
    - No, torno a casa.
    
    - Così presto? Con un pomeriggio tanto splendido? Se sapeste quanto
    fa bene camminare dopo essere stati seduti a lavorare per molte ore
    del giorno! Acconsentite che vi accompagni a fare una passeggiata
    sul viale? Andremo verso Po. -
    
    Giulietta non ebbe il coraggio di rifiutare.
    
    In quei due giorni non aveva fatto che pensare a lui, provando un
    vero benessere al pensiero che essa occupava il cuore del giovane
    col ricordo della sorella morta.
    
    Come diffidare di un uomo così gentile, rispettoso, che serbava
    tanto culto ad una morta?
    
    Gli occhi del giovane la fissavano con una tenerezza malinconica.
    
    Camminarono alquanto senza parlare. Poi Livio cominciò ad
    abbandonarsi a false confidenze. Compose un romanzetto della sua
    vita, dicendosi figlio di un uomo che aveva consumato tutto il
    patrimonio in bagordi, descrivendo le torture sofferte da sua madre,
    una santa, per allevare i suoi due figli, un maschio ed una femmina,
    buoni, onesti, amanti del lavoro.
    
    Giulietta, a sua volta, gli fece il semplice racconto della sua
    esistenza; gli disse come anch'essa vivesse di lavoro e ricordi,
    cercando di mantenersi sempre sulla via dell'onestà, che i suoi cari
    le avevano inculcata nell'anima.
    
    La sera era deliziosa. Nell'aria vi era una freschezza soave; non
    una nube velava il sereno orizzonte.
    
    I due giovani si erano seduti sopra una breve sporgenza, quasi in
    riva al Po. Non si dicevano più nulla, ma provavano un incanto
    nuovo, delizioso, e lasciarono scendere la notte senza quasi
    accorgersene.
    
    Fu la prima Giulietta a risvegliarsi da quel sogno.
    
    - Mio Dio, come si è fatto tardi! - esclamò scattando in piedi. -
    Che diranno i miei vicini non vedendomi ancora rientrare?...
    
    - Se vi faranno qualche osservazione, - mormorò con somma dolcezza
    Livio, prendendole una mano - direte che avete fatto una passeggiata
    col vostro fidanzato. -
    
    Giulietta impallidì e chinò gli occhi confusa.
    
    - Signor Fabio! -
    
    Egli le cinse con un braccio la vita, l'attirò dolcemente a sé.
    
    - Perché non unire i nostri destini? - le chiese con accento
    carezzevole all'orecchio. - Voi sarete l'angelo custode del mio
    modesto focolare, ed io benedirò ancora alla vita.... Dite,
    Giulietta: volete essere mia moglie?
    
    - Io sono povera, lo sapete, - balbettò.
    
    - Che importa? Neppur io sono ricco, ma ho qualche risparmio che mi
    permetterà di ammobiliare un piccolo nido. Alla banca guadagno
    centocinquanta lire al mese, e con una moglie come voi, la nostra
    casa diverrà un paradiso. Oh! non mi respingete: se rifiutate, io
    muoio, Perché vi amo tanto! -
    
    Commossa, Giulietta lo guardò.
    
    - Anch'io vi amo, - disse con quella franchezza che era il fondo del
    suo carattere - ed accetto con tutta l'anima! -
    
    Quella sera, tornata a casa, Giulietta pregò a lungo, ringraziando
    Dio della felicità che le concedeva e ripetendo mille volte con
    tenerezza il nome di Fabio.
    
    VI.
    
    Mentre succedevano queste scene, il vero Fabio Ribera disimpegnava
    con zelo il suo modesto ufficio, acquistandosi ogni giorno più la
    stima del principale.
    
    Fabio era sempre il primo al lavoro, l'ultimo ad uscire dal
    magazzino.
    
    Non chiedeva mai permessi, non andava mai al teatro.
    
    - Ma come passate le sere? - chiedevano gli altri commessi.
    
    - Studio, - rispondeva - Perché ho ancora molto da imparare.
    
    - Avete idea di cambiare posizione?
    
    - No, ma l'istruirsi giova sempre. -
    
    Fabio non aveva mai fatto allusione al conte: teneva per sé il suo
    dolce segreto. Le commesse, e non erano poche, gli rivolgevano
    occhiate incendiarie. Ma egli fingeva di non accorgersene. Solo una
    bimba pallida, dall'aspetto un po' sofferente, sebbene bellissima,
    aveva acquistata la sua simpatia.
    
    Era Ilda, che si trovava da poco tempo nel magazzino e che
    nonostante il fondo ardito del suo carattere rimaneva come impaurita
    dal contegno spesso insolente delle altre commesse. Era ancora così
    giovane! Aveva appena quindici anni, ed era stata educata in
    convento!
    
    Il tempo scorreva.
    
    Già da molte settimane il conte non era stato a trovar Fabio, tanto
    che questi cominciava ad essere inquieto, quando una sera Livio
    comparve con aria sorridente, ed abbracciando il giovane esclamò:
    
    - Credevi ti avessi dimenticato, non è vero?
    
    - No, ma temevo che foste ammalato.... e soffrivo.
    
    - Povero ragazzo! Invece io stavo benissimo, vivevo in piena luna di
    miele, avendo raggiunto il colmo della felicità. -
    
    Fabio lo guardava estatico.
    
    - Avete preso moglie?
    
    - No, mio caro, ma sono stato e sono l'amante della ragazza più
    adorabile che esista. Te la farò conoscere, né avrai mai veduto
    nulla di più bello e perfetto. -
    
    Il conte rimase con Fabio fino alla mezzanotte e promise di tornare
    presto.
    
    Ma scorsero due mesi senza che comparisse.
    
    Fabio deperiva: era diventato taciturno.
    
    Passava ore intiere col ritratto del conte fra le mani, e s'irritava
    contro la sconosciuta che si era impadronita del suo benefattore.
    
    Finalmente, non potendo più resistere alla smania che l'agitava,
    scrisse a Livio una lettera quasi supplichevole come faceva quando
    era ancora in collegio.
    
    «Mio benefattore,
    
    «Ogni giorno che passa è un nuovo tormento per me non vedendovi, e
    pensando che mi abbiate dimenticato.... So bene che io sono misera
    cosa, di cui avete ragione di non curarvi: io non posso offrirvi
    altro che la mia devozione; ma a voi costerebbe così poco ridonarmi
    la felicità! Mi basterebbe una vostra parola scritta, o vedervi per
    pochi minuti.
    
    «A momenti odio quasi colei che vi distacca da me. Oh! perdonatemi,
    perdonatemi, e non scacciatemi dalla vostra via, voi che avete avuto
    tanta bontà per me! Se io dovessi perdervi, morirei.
    
    «Il vostro schiavo devoto
    
    «Fabio Ribera.»
    
    Il giovane chiuse la lettera in una busta e la impostò; poi attese
    col cuore palpitante, come se dovesse ricevere la risposta o la
    visita di una donna adorata.
    
    La mattina seguente trovò in portineria un biglietto del conte al
    suo indirizzo. L'aprì e lesse:
    
    «Stasera, uscendo dal magazzino, vieni da me. Ti presenterai come
    commesso del mio sarto, senza dare il tuo nome: sarai subito
    introdotto.»
    
    Fabio, appena uscito dal magazzino, si avviò senz'altro
    all'abitazione del conte.
    
    Il domestico che gli aprì, sentito che era il commesso del sarto,
    gli disse:
    
    - Venite: il conte vi aspetta. -
    
    Gli fece attraversare alcune stanze elegantissime e, sollevata una
    portiera, picchiò ad un uscio chiuso.
    
    La voce di Livio disse:
    
    - Entrate. -
    
    Il domestico aprì per avvertire che era giunto il commesso che
    aspettava.
    
    - Ebbene, venga subito, - esclamò il conte - e bada bene che non ci
    sono più per alcuno!
    
    - Ho capito. -
    
    Fabio era entrato e rimaneva in atteggiamento umile, rispettoso.
    
    Ma quando il cameriere ebbe richiuso l'uscio, il giovane si slanciò
    ai piedi del suo benefattore, che non si era alzato dalla poltrona
    su cui stava seduto, e gli prese una mano coprendola di baci,
    balbettando:
    
    - Grazie, grazie di avermi concesso di vedervi: se sapeste quanto ho
    sofferto! -
    
    Livio sembrava lusingato da quell'omaggio affettuoso.
    
    - Povero Fabio! Ma alzati; ho da parlarti seriamente! -
    
    Il giovane obbedì: sedette di faccia al conte, come questi gli aveva
    indicato, e lo fissò avidamente.
    
    Allora si accòrse che la fisonomia di Livio non aveva più la
    freschezza di due mesi prima, né si mostrava raggiante di piacere.
    Una ruga gli attraversava la fronte, un sorriso pieno di amarezza
    gl'incurvava la bocca.
    
    - Siete stato ammalato? - chiese con segreta angoscia.
    
    - No, Fabio, rassicurati; ho soltanto avuto una disillusione. Ti
    parlai pure di una ragazza di cui mi ero innamorato...?
    
    - Sì; ebbene?
    
    - Ebbene, caro mio, quella ragazza si è presa giuoco di me, che ho
    fatto tante bestialità per cagion sua. Basta, ora tutto è finito! ma
    ne ho avuto uno strappo al cuore.
    
    - Miserabile sgualdrina! - esclamò Fabio. - Se la conoscessi, vorrei
    farle pagar caro il dispiacere che vi ha dato! -
    
    Livio assunse un tono dolce, commovente.
    
    - Ti ringrazio; ma è meglio non pensarci più. Parliamo piuttosto di
    te. Stai per compiere vent'anni, non è vero?
    
    - Sì, conte.
    
    - Io sono molto contento di te, ragazzo mio: hai superato tutte le
    mie aspettative e quelle di mia madre: sei un vero uomo. Vado
    orgoglioso di proteggerti, e sebbene tu non abbia ormai bisogno del
    mio aiuto, potrai in qualunque occasione rivolgerti a me.
    
    - Ah! vorrei poter dare io la mia vita per voi!
    
    - Può darsi benissimo che un giorno o l'altro abbia bisogno di te!
    
    - Venga quel giorno benedetto: mi vedrà alla prova.
    
    - Non ne dubito, mio buon Fabio; ma per ora mi basta solo il tuo
    affetto, la tua amicizia. E se ti ho fatto venir qui, invece di
    venire io da te, è stato per consegnarti una reliquia che non potevo
    darti prima. -
    
    E presa una cassettina d'ebano la porse a Fabio soggiungendo:
    
    - Qui dentro troverai due lettere che ti saranno più care di
    qualsiasi cosa al mondo: l'una di tua madre, l'altra della mia,
    lettere scritte da quelle sante pochi giorni prima di morire. Mia
    madre le affidò a me, pregandomi di consegnartele quando tu avessi
    vent'anni. -
    
    Fabio, tremante per la commozione, prese la cassettina e ringraziò
    Livio, che lo accomiatò stringendogli la mano con affetto.
    
    Poi il conte suonò il campanello, Perché il domestico accompagnasse
    il giovane commesso alla porta.
    
    Appena solo, un singolare sorriso dischiuse le labbra di Livio.
    
    - Com'è ingenuo! - pensava.
    
    Egli non aveva detto a Fabio la verità qual'era, circa i suoi amori
    con Giulietta.
    
    La fanciulla, affascinata dal libertino, aveva creduto a tutto
    quello che egli volle darle ad intendere.
    
    Per quasi un mese Livio si condusse con lei come il più timido degli
    uomini, facendo bei propositi per l'avvenire.
    
    - Come saremo felici! - le diceva. - Alla sera, tornando a casa,
    troverò la mia adorata mogliettina ad aspettarmi, a farmi
    dimenticare le cure dell'ufficio. Quando poi avremo un figlio.... -
    
    Giulietta tremava ed arrossiva.
    
    Livio sorrideva di quell'adorabile confusione.
    
    Giulietta si lasciava cullare da quelle promesse, accompagnate da
    sguardi teneri, da dolci sorrisi.
    
    Un giorno Livio le disse come avesse trovato un bell'appartamentino,
    che sembrava fatto per loro.
    
    - Voglio spendere tutti i miei risparmi per rendere il nido degno di
    te, - aggiunse con tenerezza. - A proposito: hai pensato alle carte
    occorrenti per il nostro matrimonio? -
    
    Giulietta provò una dolce commozione.
    
    - No, non ancora; - rispose debolmente - ma posso averle in
    settimana.
    
    - Brava! Le consegnerai a me, ed io provvederò per le pubblicazioni.
    -
    
    Ormai si vedevano ogni giorno, ed egli era salito più volte nella
    soffitta di Giulietta, dove ottenne qualche puro bacio.
    
    Una mattina che il conte andò a prenderla per fare una passeggiata
    prima di recarsi all'ufficio, come egli diceva, appena in istrada la
    prese allegramente a braccetto, esclamando:
    
    - Indovina un po' dove ti conduco?
    
    - Non so! - ella rispose guardandolo, raggiante di amore.
    
    - Ebbene, ti conduco a visitare il nostro nido, che ieri ultimarono.
    Voglio sentire il tuo parere. -
    
    Giulietta arrossì dalla gioia.
    
    Il quartierino in parola era al secondo piano, in fondo al cortile
    di un vasto casamento sulla piazza Vittorio Emanuele I.
    
    Livio aveva in tasca la chiave dell'appartamento, che era stato
    mobiliato in quei giorni. Entrarono in una piccola anticamera, un
    po' oscura, ma nella quale Giulietta scòrse subito una bella
    giardiniera piena di fiori.
    
    Livio aprì l'uscio a destra, che metteva in un graziosissimo salotto
    azzurro pallido.
    
    - È troppo bello per me! - esclamò Giulietta, confusa dal piacere.
    
    Dal salotto passarono nella camera da letto, spaziosa,
    elegantissima.
    
    La giovane credeva di sognare. Fabio aveva fatto tutte quelle spese
    per lei! Ancora poche settimane, ed ella sarebbe regina di
    quell'incantevole nido!
    
    Livio notava quella commozione, e la sua perfida anima ne gioiva.
    
    - Ti piace? - chiese con accento carezzevole, cingendole con un
    braccio la vita.
    
    Giulietta lo guardò colle lacrime negli occhi.
    
    - Oh! tanto, tanto; come sono felice!
    
    - Se tu sapessi quanto mi rendi contento! Ma vieni: non hai ancora
    veduto la nostra cucinetta. -
    
    Era graziosa anche quella, col fornello a gas, un armadio che
    conteneva tutto un servito per la tavola, un cestino di posaterie,
    diverse bottiglie di liquori.
    
    - Vedi, - disse Livio con tono dolcissimo - i giorni feriali potremo
    pranzare in cucina; le feste, voglio che ce le godiamo a tavola in
    salotto: non sei del mio parere?
    
    - Tutto quello che piace a te piace a me pure.
    
    - Sei un angelo! Intanto mi permetterai, mogliettina mia, che ti
    faccia gli onori di casa: ho preparato un piatto di biscottini ed
    una bottiglia di vecchio marsala. -
    
    Li tolse dall'armadio.
    
    Giulietta volle aiutarlo a ripulire due bicchieri, a portarli sul
    vassoio. Egli la seguì colla bottiglia e i dolci. Misero tutto sul
    tavolino del salotto, poi Livio tolse il cappellino alla fanciulla,
    dicendole che gl'impediva di ammirare i suoi splendidi capelli
    d'oro.
    
    Sedettero vicini, sul divano, dimentichi del mondo intero.
    
    Duo ore dopo, quando uscirono da quella casa, Giulietta non era più
    pura come vi era entrata.
    
    Non sapeva come fosse caduta, né poteva darne colpa a Livio.
    
    Egli nulla le aveva chiesto, non aveva preteso nulla, ma la voce
    fascinatrice di lui, le sue parole, l'avevano immersa in un'estasi,
    in cui non sapeva distinguere il sogno dalla realtà. E si era
    abbandonata senza riserva, incosciente, felice.
    
    Quando riprese possesso di sé, pianse a calde lacrime. Ma Livio
    seppe sopire il suo rimorso e farle coraggio.
    
    - Perché piangi? Tu hai ceduto al tuo cuore, come io ho obbedito al
    mio. Saremo tra pochi giorni marito e moglie. Chi potrebbe
    rimproverarci la nostra felicità? -
    
    Così soffocò i suoi ultimi scrupoli. Fin da quel momento Giulietta
    non seppe rifiutargli più nulla, visse in pieno idillio, attendendo
    il giorno in cui si sarebbero sposati.
    
    Ma il libertino, ottenuto il suo intento, già pensava di abbandonare
    la poveretta.
    
    Egli, riannodato con Cinzia, le raccontò ridendo la sua avventura
    sotto le spoglie di un commesso di banca, e le chiese consiglio per
    liberarsi della sedotta.
    
    - Colei non sa davvero chi tu sia? - chiese Cinzia.
    
    - No.
    
    - Le hai scritto?
    
    - Sì, ma firmavo le lettere col nome falso, quindi non ho nulla da
    temere da quel lato.
    
    - Ebbene, fai scomparire il commesso di banca, ritorna il conte
    Livio Rossano, ed accompagnami a Montecarlo senza rivedere colei. Se
    tornando a Torino tu la incontrassi, fingi di non conoscerla; se ti
    venisse incontro, dimostrale che si inganna.
    
    - Farò così. -
    
    Il giorno stesso portò via la sua piccola valigia dalla camera
    ammobiliata presa in affitto come commesso. Pagò inoltre alla
    padrona del quartiere che Giulietta credette ammobiliato per il loro
    matrimonio, il prezzo di quei giorni, ed alla sera partì con Cinzia
    per Montecarlo, senza curarsi della sventurata che abbandonava
    dietro di sé.
    
    Il conte per tre settimane fu di nuovo felicissimo con Cinzia,
    nonostante le perdite subite a Montecarlo.
    
    Ma la ballerina partì con un altro per la Russia, e Livio fece
    ritorno a Torino.
    
    Egli aveva dimenticato Giulietta.
    
    Peraltro, quasi presentisse che un giorno o l'altro Fabio Ribera
    potrebbe avere parte in quest'avventura, pensò di raggirarlo
    fingendosi abbandonato dalla giovane, e consegnandogli quelle due
    lettere che dovevano sempre più avvincerlo alla sua persona.
    
    Tuttavia nessun pensiero delittuoso era mai passato per la mente di
    Livio, che, datosi a nuovi capricci, continuò a dissipare il suo
    patrimonio, del quale stava per vedere il fondo.
    
    Fu allora che la sua buona stella lo unì a Bianca Moreno.
    
    VII.
    
    Come già sappiamo, la povera Giulietta, dopo l'abbandono
    dell'amante, tentò di suicidarsi; ma fu salvata. L'affettuosa
    premura dei vicini le rese poi il coraggio di vivere.
    
    Quando fu madre, allevò con amore la sua creatura, pur continuando a
    lavorare per guadagnarsi la vita.
    
    Il nome di Fabio Ribera non era più uscito dalle sue labbra, ma la
    giovane non lo dimenticava.
    
    Spesso, seduta accanto alla culla della sua creatura, il suo
    pensiero correva al bel giovane che aveva appassionatamente amato, o
    rileggeva le lettere di lui, e calde lacrime le scorrevano dagli
    occhi.
    
    Menzogna, l'amore! Menzogne, i giuramenti!
    
    Erano trascorsi tre anni.
    
    Una mattina, Giulietta, affidata Gina a Teresa Pavin, era uscita per
    riportare del lavoro.
    
    Giunta in via Garibaldi, una carrozza padronale si fermò vicina a
    lei. Ella si volse istintivamente a guardare chi scendeva, e
    credette ad un tratto di cadere a terra fulminata.
    
    Dalla vettura era sceso un bell'uomo, elegantissimo, che aveva i
    lineamenti di Fabio Ribera. Egli porse poi la mano ad una giovane di
    una bellezza maravigliosa, dicendole con una voce che la povera
    Giulietta riconobbe tosto:
    
    - Fa' adagio, Bianca! -
    
    La coppia entrò in un negozio, e Giulietta rimase immobile,
    stupidita, come fuori di sé.
    
    Fu scossa dalla voce dello staffiere, ch'era sceso dalla cassetta e
    che, vedendo quella bella ragazza, non si lasciò sfuggire
    l'occasione di farle un complimento.
    
    Giulietta, assalita da un'idea improvvisa, sorrise all'audace
    staffiere, esclamando:
    
    - La vostra padrona è più bella di me!
    
    - La signora contessa è bruna ed a me piacciono le bionde! - rispose
    lo staffiere.
    
    - Ah! è una contessa?
    
    - Meritereste d'esserlo anche voi!
    
    - Ed è suo marito, quel signore che l'accompagna?
    
    - Sì, è il conte Livio Rossano. -
    
    Che ella si fosse ingannata? Ma no, era lui, proprio lui!
    
    - Il conte Rossano? - ripetè sorridendo. - Ah! mi pare di averlo
    sentito nominare...
    
    - .... per aver corso molto la cavallina con belle ragazze pari
    vostro, - sussurrò in fretta e piano lo staffiere.
    
    Giulietta si sentì torcere il cuore; tuttavia soggiunse con aria
    maliziosa:
    
    - Ah! lo so.... Abita sul corso.... -
    
    Fingeva di cercare il nome, come se non lo ricordasse.
    
    - ....Palestro, - disse lo staffiere.
    
    - Sì.... sì, è proprio lui! - proruppe ridendo Giulietta. - E tal
    padrone, tal domestico. -
    
    Si allontanò, lasciando lo staffiere intontito.
    
    Ella camminava in fretta, con la testa in fiamme.
    
    - Ah! l'infame, - mormorava - era un conte, e si è finto un semplice
    commesso di banca! Il nome datomi era falso.... Ma lo smaschererò;
    forse sua moglie ignora tutto. Essa è bellissima ed ha il viso di
    buona. Se mi recassi da lei? Merita forse, quel miserabile, di
    essere un marito felice? -
    
    Giulietta si guardò bene dal far parola con alcuno di
    quell'incontro; ma formò subito il suo piano.
    
    Ella si recò sul corso Palestro, ed entrata da una lattivendola, le
    disse:
    
    - Scusate, abita qui vicino la contessa Bianca Rossano?
    
    - Precisamente: la servo io di latte. Che buona signora! È proprio
    un angelo!
    
    - Non sapete se cerca una cameriera?
    
    - Qualche tempo fa, sì, me lo disse Celia, la prima cameriera; ma
    credo che ora abbiano trovato.
    
    - Peccato! - disse Giulietta. - Sarei andata volentieri in quella
    casa, dove si deve star bene.
    
    - Per la contessa, sì. Ma il conte è una vecchia volpe! Ne ha fatte
    e ne fa di tutti i colori!
    
    - Buono a sapersi! Se è così, non invidio le cameriere di quella
    casa. -
    
    Giulietta salutò la lattivendola e se ne andò.
    
    Frattanto si propose di accertarsi che il conte Rossano e Fabio
    Ribera fossero veramente un solo uomo.
    
    La sera, affidata Gina a Teresa con un pretesto qualunque, si mise a
    spiare vicino al palazzo e ne vide uscire il conte. Gli tenne
    dietro. Quando fu giunto ad una svolta del viale, Giulietta gli si
    avvicinò, e battendogli sulla spalla:
    
    - Buona sera, Fabio Ribera! - disse a voce alta.
    
    Il conte si volse, pallido come un sudario.
    
    Riconobbe Giulietta, ma volle fingere la sorpresa.
    
    - Dite a me, signorina? - chiese con brusco accento.
    
    - Sì, non fare quell'aria stupida! - rispose Giulietta sollevando
    arditamente la bella testa. - Oh! so bene adesso che il mondo ti
    conosce per Livio Rossano; ma per me sei Fabio Ribera, commesso di
    una banca.... fallita. -
    
    E la giovane diede in una risata piena di sarcasmo, di amarezza, di
    disperazione.
    
    - Io non vi comprendo, signorina! - arrischiò il conte.
    
    - No? Ebbene, andrò a spiegarmi con tua moglie, e quando le avrò
    raccontato la mia storia e mostrato le tue lettere, sono certa che
    c'intenderemo. -
    
    Livio fremette, e con voce tremante, in preda alla più grande
    agitazione:
    
    - No, tu non lo farai, Giulietta! - balbettò.
    
    - Ah! mi riconosci, adesso? Ricordi ancora il mio nome?
    
    - Io non ti ho mai dimenticata, - diss'egli ritrovando a un tratto
    tutto il suo spirito, preparandosi a scolparsi. - Vieni, andiamo a
    casa tua, ti spiegherò tutto; vedrai che non sono colpevole come
    forse pensi. Le apparenze ingannano....
    
    - Davvero? Ebbene, a casa mia non riporrai più piede; ma conducimi
    dove vuoi, foss'anche in un luogo infame, come facesti quando ero
    ancora una fanciulla onesta, purchè possa una buona volta gettarti
    sul volto tutte le tue viltà. -
    
    Il conte era sulle spine, Perché la giovane andava alzando la voce.
    
    Ma fece uno sforzo su sé stesso e disse vivamente:
    
    - Ebbene, vieni. -
    
    Si mise a camminare rapidamente e Giulietta lo seguì.
    
    Giunsero ad una stazione di vetture.
    
    Il conte aprì lo sportello di una di esse, Perché la giovane vi
    salisse.
    
    Ella non si oppose.
    
    Livio si rivolse al vetturino, gli dette con voce ferma un
    indirizzo, poi salì accanto a Giulietta.
    
    Non scambiarono una parola fino a quando la vettura si fermò.
    
    Allora il conte disse alla giovane:
    
    - Aspettate un momento. -
    
    Saltò a terra e disparve nel vestibolo di un bel palazzo. Salì al
    terzo piano, sonò all'uscio di destra. Una giovane cameriera venne
    ad aprire.
    
    - È in casa la signora?
    
    - Sì. -
    
    Un uscio si schiuse e comparve Cinzia.
    
    - Oh! che piacere! - esclamò, facendo l'atto di saltargli al collo.
    
    Ma vedendolo pallido, colla fronte corrugata, ristette.
    
    - Che hai?
    
    - Andiamo nella tua camera: ho bisogno di dirti due parole in
    fretta. -
    
    Cinzia si affrettò ad introdurlo.
    
    - Che c'è dunque? Che ti succede?
    
    Il conte la informò di quanto accadeva, e soggiunse:
    
    - Bisogna assolutamente che io conceda a Giulietta il colloquio che
    mi chiede. Tu mi cederai il salotto, e te ne andrai con Rosetta.
    
    - Rosetta la manderò fuori, ma io, caro mio, rimarrò qui, Perché
    voglio sapere la parte che debbo fare. D'altronde, fra noi, lo sai,
    non devono esserci segreti.... Se rifiuti, conduci pure la tua
    colomba in altro luogo. -
    
    Il conte fremeva, ma fu costretto a cedere.
    
    Egli ridiscese di volo le scale e fece salire Giulietta in casa
    della ballerina.
    
    Appena entrato nel salotto, il conte gettò il cappello su di una
    poltrona e fece l'atto di inginocchiarsi dinanzi a Giulietta.
    
    Ma la giovane lo guardò con disprezzo.
    
    - È inutile che ricominciate l'ipocrita commedia! - disse. - Se la
    ingenua fanciulla vi cedette, la donna saprà mantenere la propria
    dignità.
    
    - Non mi sarà permesso di scolparmi?...
    
    - Scolparvi? Come lo potete? Sarei curiosa di saperlo. -
    
    Ella aveva assunto un tono beffardo, altero.
    
    Livio parlò dapprima a voce bassa, velata, ma che si fece a mano a
    mano più forte:
    
    - Sono stato un miserabile, un infame, non lo nego, ma l'amore che
    voi m'ispiraste al primo vedervi mi fece perdere la testa.
    
    - L'amore! - interruppe Giulietta ironica.
    
    - Sì, io vi amai al nostro primo incontro, ed avrei voluto
    presentarmi a voi sotto le mie vere spoglie. Ma seppi che il vostro
    sogno era di sposare un impiegato o un commesso, e per attirarvi a
    me v'ingannai, ma adorandovi come nessuna donna è stata adorata.
    
    - Ed è questa la vostra discolpa? - esclamò fremente di sdegno
    Giulietta, fissando sul conte gli occhi fiammeggianti. - Vi piacqui,
    e per passare il tempo ingannaste la povera operaia che nulla sapeva
    della vita, che non sospettava gl'intrighi dei vostri pari. Un
    giorno, stanco del vostro capriccio, mi abbandonaste, senza pensare
    che forse questa misera tradita era madre! -
    
    Il conte indietreggiò. Giulietta seguitò, animandosi:
    
    - La vostra infamia cangiò ad un tratto il mio amore in un profondo
    disprezzo, e l'uomo che doveva abbellire la mia vita divenne per me
    un oggetto d'odio, di terrore. Ma io pure ero stata colpevole, e non
    perdonavo a me stessa il mio fallo. Mi rinchiusi in una solitudine
    assoluta, accettai rassegnata la mia maternità, mi dedicai alla mia
    creatura, né mi curai di venire in cerca di voi. Vi avevo
    dimenticato, quando il caso volle che v'incontrassi.
    
    «Seppi allora come il sedicente Fabio Ribera non fosse che il conte
    Livio Rossano.
    
    «Seppi inoltre che la contessa vostra moglie ignora la vostra
    perversità, si crede adorata, mentre voi la ingannate con
    avventuriere.
    
    «Se mi avessero detto che eravate un buon marito, forse non mi sarei
    neppure curata di rivedervi; ma nel sapere che vi prendete giuoco
    anche della più onesta delle mogli, ho sentito di odiarvi come non
    vi avevo odiato per il vostro tradimento.
    
    «Ed ho trovato la mia vendetta.
    
    «Non è giusto che l'ipocrita abbia sempre a trionfare: io vi
    smaschererò dinanzi a vostra moglie. -
    
    Il pallido volto di Giulietta si era fatto di fuoco, i suoi occhi
    fiammeggiavano.
    
    Il conte la guardava, e gli pareva più bella così audace,
    minacciosa, che umile e tenera.
    
    - Fai pure, - disse - ma un giorno rimprovererai te stessa di avermi
    giudicato più colpevole di quello che sono.
    
    «Tu ignori, Giulietta, che cosa sia il mondo nel quale io vivo. Non
    scuso affatto la colpa commessa verso di te: ma ascoltami.
    
    «Io non potevo sposarti, Perché quando ti conobbi ero già rovinato,
    e per me, avvezzo allo splendore, alla ricchezza, la miseria è
    peggiore della morte.
    
    «Se fossi nato un povero operaio, anch'io forse sarei stato
    migliore. Ti amavo, ripeto, ma avevo in disgusto la povertà. E
    quest'orrore lo sentivo anche per te. Avrei voluto farti un trono
    d'oro, vederti regnare sopra tutte le altre donne. Ma se allora ti
    avessi detto tutto ciò, tu, fiera ed onesta, non mi avresti amato.
    Allora ricorsi all'unico mezzo che mi restava per legarti a me per
    sempre: farti mia, colla promessa che saresti mia moglie; e ci
    riuscii.
    
    «Ma credi che questo bastasse a saziare l'amore quasi feroce che mi
    avevi ispirato? No! Il mio sogno persisteva. Volli essere di nuovo
    ricco, e soltanto per te, e sposai una donna che non amavo, per
    avere i suoi milioni da offrirti. -
    
    Giulietta rivolse il capo con disgusto.
    
    - La vostra infamia mi stomaca! Potevate mai sperare che io
    divenissi la vostra amante, calpestando una donna che io rispetto
    per quanto disprezzo voi?
    
    - Credi forse che io non mi disprezzi? Eppure per te commetterei
    anche un delitto! Sì, sì: ad un tuo cenno mia moglie sparirà dal
    mondo, e noi potremo essere ancora felici con la nostra creatura. -
    
    Le si era avvicinato fremente.
    
    Giulietta lo respinse con orrore.
    
    - Sciagurato! - esclamò. - Se ancora avessi nutrito un atomo di
    tenerezza per voi, le vostre parole l'avrebbero distrutto. Povera
    contessa, caduta nelle vostre mani! Ma no, non è giusto che essa
    continui ad illudersi sul conto vostro; mi parrebbe di essere vostra
    complice se non la illuminassi! -
    
    Livio si morse a sangue le labbra.
    
    - L'avvertirai? - chiese fra i denti.
    
    - Sì! - rispose Giulietta freddamente.
    
    - A noi due, dunque! - esclamò Livio. - Io ti ho offerto la pace, e
    tu vuoi la guerra. Sia. Ti do tempo un mese a pensarci.
    
    - Non attenderò tanto per smascherarvi.
    
    - Giulietta! -
    
    Il volto di lui prese un'espressione così terribile, che la giovane
    credette fosse giunta l'ultima sua ora.
    
    Allora pensò alla sua bambina, che senza lei sarebbe rimasta sola al
    mondo. E tutta la sua energia cadde; una lacrima corse nei suoi
    occhi e balbettò:
    
    - Ebbene, no, non parlerò! -
    
    Il volto di Livio espresse il trionfo.
    
    Giulietta fuggì da quella casa come pazza.
    
    Livio non aveva fatto un moto per trattenerla, ma nei suoi occhi era
    un lampo sinistro.
    
    - Ella parlerà, ne sono sicuro! - pensava. - Ma io saprò chiuderle
    la bocca. -
    
    Una mano che gli batteva sulla spalla lo fece trasalire.
    
    Era quella di Cinzia.
    
    - Hai sentito? - chiese il conte sorridendo.
    
    Cinzia era più pallida del solito. La voce le uscì come un sibilo
    dalle labbra:
    
    - Ho sentito tutto, e ti dico una cosa sola: mi fai orrore! -
    
    VIII.
    
    Fabio Ribera era al colmo della felicità. Amava ed era amato. Ilda
    sarebbe presto sua moglie.
    
    La dolcezza infinita, la gravità melanconica di Fabio si affiatavano
    mirabilmente con la fierezza dei sentimenti di Ilda, il suo fascino
    incantevole. Una sera che il conte si era recato a trovare il suo
    protetto, si accòrse che un cambiamento era avvenuto in lui. Fabio
    sembrava più bello, aveva l'aria felice.
    
    Livio intuì subito la verità.
    
    - Sei innamorato! - gli disse sorridendo.
    
    Fabio arrossì e rispose:
    
    - È vero. Amo una fanciulla bella e buona, la quale mi corrisponde:
    è una commessa del magazzino dove mi avete impiegato. -
    
    Il conte fece una smorfia.
    
    - Una commessa? Una civettina che vorrà imbrogliarti. Fabio,
    ricordati come anch'io sia stato giocato da una fanciulla dal volto
    d'angelo.
    
    - Colei non aveva cuore! - interruppe Fabio. - Ma io sono certo
    della fedeltà di Ilda, del suo amore per me. -
    
    Il conte rideva.
    
    - Tu sei un ingenuo, e nulla conosci del mondo e della vita. È così
    facile, alla tua età, ingannarsi! Ma io che sono più vecchio di te e
    t'amo come un figlio, vedrò e giudicherò la tua prescelta. -
    
    Il volto di Fabio si era illuminato.
    
    - Quanto siete buono! Per certo, quando conoscerete Ilda,
    approverete la mia scelta.
    
    - Ebbene, avvertila che domenica sera mi condurrai con te.
    
    - Grazie, grazie! -
    
    Livio fu puntuale all'appuntamento.
    
    Egli rimase soggiogato dalla bellezza della fanciulla, e provò una
    gioia infernale al pensiero di tentarla, di contenderla al fratello.
    
    Ilda peraltro provò subito per il conte una ripugnanza istintiva,
    ebbe il presentimento che quel gentiluomo dal sorriso mendace le
    porterebbe disgrazia.
    
    Livio comprese che non riuscirebbe a vincere il cuore di quella
    fanciulla e provò una rabbia interna, che si guardò bene dal
    dimostrare, ma giurò a sé stesso che Ilda sarebbe sua.
    
    Il conte aveva quasi dimenticato le sue minacce a Giulietta,
    allorchè una mattina incontrò la sventurata vicino al suo palazzo.
    
    Ella, nel vederlo, divenne pallida, ma non abbassò gli occhi dinanzi
    allo sguardo di lui. Sembrava minacciarlo.
    
    Il conte le si avvicinò.
    
    - Di dove vieni? - le domandò con arroganza.
    
    - Parlate a me? - disse a voce alta Giulietta.
    
    Il conte cambiò subito espressione.
    
    - Scusate; - disse - vi avevo presa per la cameriera di mia moglie.
    -
    
    E si affrettò ad entrare nel palazzo. Il portinaio passeggiava sotto
    il vestibolo.
    
    - È stata qui una giovane bionda a chiedere della contessa? -
    domandò.
    
    - No, signor conte.
    
    - Bene: se venisse, dirai sempre che la contessa non riceve. -
    
    Livio non era tranquillo. Quel giorno pensò sempre a Giulietta, e la
    sera, mentre si recava dalla fidanzata di Fabio, si fermò di botto,
    dicendo:
    
    - Ho trovato! Toglierò di mezzo una donna che mi è divenuta odiosa,
    getterò tanto fango su Fabio, che Ilda non dovrà più provare che
    orrore per lui, e tutto andrà per il mio meglio! -
    
    La mattina seguente scrisse a Fabio:
    
    «Mio caro fanciullo,
    
    «Mentre scrivo queste parole, tremo dalla febbre, dal dolore....
    
    «Ieri ero felice: oggi tutto si rivolta contro me: e soffro tanto,
    che vorrei morire.
    
    «Non posso scriverti di più, mi si confonde la vista dal pianto;
    vieni stasera nel mio quartierino da scapolo, dove passammo insieme
    tante ore, ricordando la nostra cara morta. Di faccia al ritratto di
    lei troverò il coraggio di dirti tutto, di chiederti un sacrificio.
    
    «Colui che ti protegge e ti ama.»
    
    La sera, Fabio, pallido da far pietà, sonava con mano convulsa
    all'appartamento indicatogli dal conte. Livio vi si trovava da
    un'ora.
    
    Il gentiluomo sembrava invecchiato di vent'anni: i suoi occhi
    portavano le tracce delle lacrime versate.
    
    - Grazie di essere venuto! - balbettò vedendo Fabio.
    
    Questi gli disse:
    
    - Che cosa vi è accaduto? Ditemi tutto, e se la mia vita stessa è
    necessaria per sollevarvi, prendetela; è vostra. -
    
    Il conte gli gettò le braccia al collo, tenne la testa appoggiata
    alla guancia di lui, e per qualche minuto non seppe che pronunziare:
    
    - Fabio! Fabio! Fabio! -
    
    Poi si calmò alquanto, e sollevando la testa, proruppe con un
    tremito nella voce:
    
    - Ti ricordi, Fabio, di quella sciagurata che ebbi la follia di
    amare e m'ingannò vilmente?
    
    - Volete parlare di Giulietta Lovera? - interruppe il giovane.
    
    - Sì, di lei, il mio genio crudele, Ed io che non volevo credere ai
    presentimenti!... -
    
    Si passò la mano sulla fronte e proseguì:
    
    - Ero felice, non pensavo più a lei, da che ho sposato la donna che
    adoro e dalla quale sono adorato. Ma ora la mia felicità sta per
    distruggersi.... e più ci penso, meno so come porvi rimedio. E tutto
    per lei.... per Giulietta. -
    
    - Ma che pretende ancora, quella sciagurata? Che vuol fare? -
    
    Il conte rimase per un istante silenzioso, come affranto. Egli
    recitava la parte che si era prefisso con un'arte che avrebbe
    ingannato chiunque.
    
    - Te lo dirò! - rispose a voce bassa, soffocata. - Giulietta ha
    saputo che sono ammogliato, ricco, felice, ed è venuta a ricercarmi.
    Ella mi ha minacciato di presentarsi a mia moglie, di consegnarle
    delle lettere che ebbi la debolezza di scriverle, di raccontarle che
    io, dopo averla resa madre, l'abbandonai con una creatura.
    
    - Miserabile! - proruppe Fabio. - Come può inventare simili infamie?
    
    - Giulietta è capace di tutto.
    
    - Ebbene, avvertite voi stesso la contessa!
    
    - Oh! no.... mai! - esclamò con slancio il conte. - Dovrei
    confessarle di avere amato quella sciagurata, e Bianca non me lo
    perdonerebbe, Perché la cara bimba si è illusa di essere stata
    l'unico amore della mia vita ed io non voglio distruggere
    un'illusione che forma la sua felicità.
    
    - Volete che mi rechi io stesso da Giulietta, la induca a desistere
    dalle sue minacce?
    
    - Povero ragazzo! - interruppe il conte - ella ti riderebbe sul
    viso. Oh! se ci fosse ancora la mia povera mamma, saprebbe darmi un
    consiglio! -
    
    E volgendo i suoi sguardi sopra una fotografia della contessa
    Rossano, disse con accento lacerante:
    
    - Mamma, mamma, vieni tu in mio aiuto, ispira a me o a Fabio un
    mezzo per allontanare il pericolo! -
    
    Anche Fabio aveva rivolti gli occhi al ritratto della contessa, ed
    in quel momento ricordò la lettera da lei vergata prima di morire,
    come ricordò le supreme parole di sua madre.
    
    Entrambe quelle morte l'incitavano a sacrificare la sua vita, l'onor
    suo per il suo benefattore.
    
    Avrebbe egli esitato? Esse stesso gli inviarono una suprema
    ispirazione.
    
    - Il mezzo ci sarebbe, - disse - e, per quanto terribile, io stesso
    non esiterò a compierlo. -
    
    Rialzò il capo: gli sguardi dei due uomini s'incrociarono e parvero
    comprendersi.
    
    - Tu vorresti ucciderla? - disse Livio a voce bassa.
    
    Fabio rispose:
    
    - Sì.... sono disposto a commettere anche un delitto per rendervi la
    tranquillità.
    
    - No; è troppo! Sarebbe una vigliaccheria la mia se accettassi. Ma
    la tua risoluzione è buona: io stesso sopprimerò Giulietta. -
    
    Grosse lacrime sgorgarono dai suoi occhi, ma le asciugò rapidamente,
    come se arrossisse della sua debolezza.
    
    - Voi, esporvi al pericolo di essere arrestato, condannato come
    assassino? - proruppe con slancio Fabio. - E credete che io potrei
    permetterlo? A me solo tocca a sacrificarmi, e lo farò. Il vostro
    nome non deve neppur venire pronunziato. -
    
    Il conte volle dargli l'estremo colpo.
    
    - Non pensi a Ilda? - mormorò.
    
    Un lungo sospiro sfuggì dal petto di Fabio, una lacrima velò i suoi
    occhi; ma vincendosi subito:
    
    - Prima di Ilda ci siete voi, voi, cui tutto debbo! - esclamò. - Sì,
    lo ripeto, io solo terrò da voi lontana la disperazione. Voi
    partirete da Torino con vostra moglie acciocchè nessun sospetto
    possa sfiorarvi, e checchè accada, il vostro nome non uscirà dal mio
    labbro. -
    
    Fabio si era andato animando. Aveva l'esaltazione dello schiavo
    credente che tutto sacrificherebbe per il suo idolo. E l'idolo del
    povero commesso era il conte Livio. Ah! se avesse potuto leggere nel
    cuore di lui!
    
    Il conte non dubitava delle parole di Fabio; egli sentiva di tenere
    la sua vittima nelle mani.
    
    - Oh! Fabio, Fabio mio, dovrò dunque a te, a te solo la mia
    liberazione! -
    
    Egli si stringeva a Fabio, chiamandolo suo salvatore, affascinandolo
    con tenere parole, e consigliandogli quanto desiderava con una
    destrezza infinita.
    
    Fabio lasciò il conte a mezzanotte, e tornò a casa vacillando come
    un ubriaco.
    
    Quando fu solo nella propria camera, si sgomentò.
    
    Assassino! Sarebbe un assassino! E Ilda?
    
    Il pensiero della sua adorata gli produsse una vertigine.
    
    - Ella resterà libera, - mormorò - sarà felice con un altro! -
    
    In quella notte sognò la contessa Rossano e la madre. Le due morte
    uscivano dalla tomba per dirgli:
    
    - Compi il tuo dovere se non vuoi essere maledetto da noi. Quella
    donna non deve più vivere, è necessario che ella muoia per la
    felicità di Livio. -
    
    Fabio si alzò come ipnotizzato, Fin da quel momento la sua
    risoluzione fu presa. Alla sera, quando si trovò con Ilda, le parlò
    di un suo prossimo viaggio per alcune carte concernenti il loro
    matrimonio,
    
    La fanciulla non doveva aver sospetti.
    
    Fabio accomodò le cose in modo da non suscitare il minimo dubbio.
    
    Una volta lontano da Ilda, si sentì più calmo.
    
    Il conte gli aveva consegnato una chiave della soffitta di
    Giulietta, dandogli i consigli necessari per l'adempimento del truce
    misfatto.
    
    Il carnevale favorì l'assassino. La sera prima del delitto, durante
    un'assenza di Giulietta, Fabio potè penetrare nella soffitta della
    sventurata, studiarne la disposizione dei mobili, degli oggetti.
    
    La notte egli non dormì.
    
    Rilesse ancora una volta la lettera della madre e quella della
    contessa, e dopo averle baciate, le strappò a minutissimi pezzi.
    
    La mattina seguente acquistò gli abiti da pierrot; la sera pranzò
    macchinalmente, ingoiò due bicchierini di cognac.
    
    Era livido sotto la biacca che gl'impiastricciava il volto.
    
    Quando entrò, verso le undici, nel casamento abitato da Giulietta,
    aveva il cervello in fiamme e con la mano destra stringeva
    convulsamente un coltello, che teneva nella tasca dei calzoni.
    
    - La colpirò nel sonno, nessuno se ne accorgerà e avrò il tempo di
    allontanarmi tranquillamente. -
    
    Ma nell'avvicinarsi all'uscio della soffitta gli tremavano le gambe.
    
    Udì un rumore di voci e di passi: comparve lo studente Aldo, col
    misterioso domino.
    
    Fabio attese un istante, poi entrò risoluto nella soffitta di
    Giulietta: tenebre profonde.
    
    Egli accese un cerino e, veduta sulla tavola una candela, si
    accostò.
    
    Giulietta, svegliatasi ad un tratto, si sollevò sul letto
    terrorizzata.
    
    - Chi siete? Che volete? - chiese con voce soffocata.
    
    Di un salto Fabio le fu sopra.
    
    - Tacete! - disse a denti stretti.
    
    Ma Giulietta, che lo guardava cogli occhi spalancati, mandò
    un'esclamazione:
    
    - Assassino! Ti riconosco! Lasciami, o griderò a tutti che il conte
    Livio Rossano.... -
    
    La sventurata non finì.
    
    Il nome evocato fece tacere il senso di pietà sorto, a suo malgrado,
    nel petto di Fabio.
    
    Egli alzò la mano armata di coltello e colpì.
    
    Un grido sinistro echeggiò nella stanza: il colpo non aveva dato nel
    segno.
    
    Coi capelli irti, smarrito, ansante, Fabio alzò una seconda volta la
    mano.
    
    Allora avvenne una lotta terribile fra l'assassino e la vittima.
    
    Egli colpiva, colpiva sempre, e quando vide Giulietta cadere
    rantolante, si slanciò verso l'uscio, l'aprì.
    
    Ma una donna gli sbarrava il passo: Teresa.
    
    Il resto è noto.
    
    IX.
    
    Il conte Livio, nascosto nel salotto attiguo alla camera da letto di
    Ilda, aveva evocato il passato, provando una gioia strana nel
    ricordare la parte assunta verso Fabio, la sua vittima, che gli
    aveva fatto olocausto della vita, dell'onore.
    
    Mentre così rifletteva, Livio sentì un fruscìo di abiti e quasi
    tosto la voce di Ilda che diceva:
    
    - Marietta, tu puoi andare a dormire: il signor Aldo rimane qui a
    discorrere con me. Lascia aperta la vetrata della galleria, così lo
    farò uscire da quella parte, senza disturbare alcuno. Metti qui il
    soprabito ed il cappello.
    
    - Sì, signora. -
    
    Ilda e lo studente erano entrati nel salotto: l'uscio fu chiuso.
    
    - Perché non volete che mi ritiri? - chiese Aldo con dolcezza.
    
    - Perché temo per voi! - rispose Ilda. - Il cuore mi dice che il
    conte si è appostato fuori del palazzo per attendervi, e non voglio
    che vi allontaniate fino a giorno. -
    
    Si erano seduti vicini sul divano.
    
    Livio stringeva i denti per soffocare la rabbia interna che lo
    divorava.
    
    - Che ne pensate del conte? - chiese ad un tratto Ilda.
    
    - Penso che è innamorato di voi e che deve odiarmi, credendomi
    vostro amante.
    
    - Bisogna lasciarglielo credere; - soggiunse Ilda - è l'unico mezzo
    per giungere al punto che io e il signor Moreno desideriamo: fargli
    confessare che fu lui l'istigatore dell'assassinio della povera
    Giulietta.
    
    - E da questa confessione, che possiamo sperare? - esclamò Aldo, -
    Bianca sarà sempre avvinta a quel miserabile.
    
    - No; - rispose con voce cupa Ilda - se il mio sogno è di far
    comparire chiara l'innocenza di Fabio, il sogno del signor Moreno è
    di liberare la figlia dalle mani di un mostro. Egli ha deciso: o il
    conte si farà giustizia colle proprie mani, o il signor Moreno
    l'ucciderà.
    
    - Io solo voglio punirlo! - interruppe Aldo. - Lo provocherò a
    duello.
    
    - No, non dovete farlo, per Bianca; sapete quanto vi ama! -
    
    Un fremito agitò Livio dal capo alle piante.
    
    - Ed io l'adoro come si adora gli angeli del Cielo! - disse con
    esaltazione il giovane. - Per lei, sono pronto a soffrire tutto. Ora
    è necessario star divisi, Perché così vuole il signor Moreno, ma la
    mia vita, i miei pensieri sono tutti per lei. Ah! Perché non
    dovevamo conoscerci che in quella notte fatale dell'assassinio?
    
    - Era destino! - mormorò Ilda.
    
    Rimasero per un istante silenziosi.
    
    La giovane riprese la parola.
    
    - Se il conte potesse indovinare che suo suocero conosce tutte le
    sue infamie ed è sul punto di punirle! Se sapesse l'odio che io
    provo contro di lui!
    
    - Avete osservato il suo pallore, allorchè parlammo della sua
    rassomiglianza col condannato? - osservò Aldo. - Il signor Umberto
    Trani vuol riguardare tutti gli atti concernenti il passato di
    Fabio, per scoprire qualche nuovo punto che possa darci la chiave
    del mistero.
    
    - Comunque, - osservò Ilda - Fabio non smentirà la sua confessione,
    non accuserà mai il conte, dovessero sottoporlo a qualsiasi tortura.
    
    - Vi sarebbe forse un mezzo per farlo parlare, - disse Aldo. -
    Informarlo come il conte abbia tentato di sedurvi.
    
    - Bisognerà parlarne al signor Moreno. -
    
    Rimasero un altro poco in silenzio.
    
    - Voi siete stanca; - disse Aldo - andate a riposare. Io rimarrò qui
    ad attendere il giorno scrivendo, se vi compiacerete darmi un foglio
    ed una penna.
    
    - Venite: vi condurrò nella camera attigua alla mia dove troverete
    uno scrittoio con tutto l'occorrente. -
    
    Essi lasciarono il salotto.
    
    Il conte stringeva i pugni in una convulsione di rabbia. Ciò che
    aveva sentito gli sconvolgeva il cervello.
    
    Sentì degli usci che si aprivano, si chiudevano, poi il passo di
    Ilda strisciò sul tappeto della sua camera, quindi un lieve
    scricchiolio del letto fece capire al conte che la giovane si era
    coricata.
    
    Passò un'altra mezz'ora: più nessun rumore; tutti dormivano nella
    casa.
    
    Allora il conte lasciò il suo nascondiglio e si avvicinò all'uscio
    aperto della camera di Ilda.
    
    Al chiarore della lampada, egli scòrse la giovane stesa sul letto,
    in sottana e accappatoio. Dormiva, stanca della serata. Sul comodino
    scintillavano i gioielli di lei.
    
    Quei gioielli abbagliarono il conte e fecero sorgere nella sua testa
    un'idea, che volle mettere in esecuzione.
    
    Si appressò in punta di piedi al letto, poi, afferrato un
    asciugamano, con atto fulmineo ne coprì il capo della disgraziata.
    
    La vittima, svegliatasi, si dibatteva, ma non poteva sciogliersi da
    quel laccio, mandare un grido.
    
    Intanto Livio, chino su lei, le diceva con voce alterata:
    
    - Hai voluto trattenermi: peggio per te. Sei bella, mi seduci quanto
    Bianca, più di lei, e ti voglio! -
    
    Ilda faceva sforzi supremi per liberarsi da quella stretta, ma
    inutilmente: egli premè più forte le dita.
    
    Allora le braccia della sventurata, che si erano avvinte
    disperatamente a lui, caddero inerti sul letto; il corpo rimase
    immobile.
    
    Il conte credette di averla strangolata e la lasciò.
    
    Ilda non fece il minimo movimento. Livio non ebbe il coraggio di
    toglierle l'asciugamano dal viso.
    
    Vi era però qualche cosa in lui più potente ancora dello spavento:
    il calcolo abietto fatto poco prima. Egli afferrò i gioielli che
    erano sul comodino, e recatosi nel salotto vicino, prese il
    soprabito di Aldo e nascose i gioielli nelle sue tasche.
    
    Poi aprì la porta del salotto, entrò nella galleria lasciata aperta
    dalla cameriera, passò nelle sale deserte, e dall'anticamera scese
    in istrada senza incontrare alcuno.
    
    Una volta fuori respirò: era salvo. Tutto si rivolgeva contro Aldo.
    
    Egli si diresse al proprio palazzo, si coricò, e, affranto, non
    tardò a addormentarsi.
    
    Appena risvegliato, un pensiero dominò tutti gli altri: egli aveva
    ucciso Ilda. Ma l'idea che Aldo, l'amante di sua moglie, sarebbe
    accusato, fece tacere la sua angoscia.
    
    Il cameriere l'avvertì che la contessa e il suocero erano usciti
    assai presto.
    
    Che voleva dire quell'assenza della contessa col padre? Erano già
    stati avvertiti dell'avvenuto? Ilda era morta? Aldo, arrestato?
    
    - Vai a prendermi i giornali del mattino! - disse al cameriere.
    
    Ma non vi trovò nulla di ciò che desiderava sapere.
    
    Eppure in città erano ormai informati dell'avvenuto.
    
    Quando Aldo si era ritirato nella camera attigua a quella di Ilda,
    il suo pensiero fu di attendere il giorno scrivendo a Bianca le
    impressioni di quella notte.
    
    E cominciò:
    
    «Mia Bianca adorata,
    
    «Presso la camera di colei che tutti credono la mia amante, mentre
    attendo il momento propizio di ritirarmi, racconterò a te sola tutti
    gli eventi di questa notte.
    
    «Ho avuto bisogno di tutta la mia forza di volontà per apparire
    tranquillo allorchè comparve tuo marito, l'uomo che odio con tutta
    l'anima.»
    
    Aldo si fermò un istante di scrivere, Perché gli parve di udire un
    gemito.
    
    Stette un momento in ascolto e si convinse di essersi ingannato.
    Allora proseguì:
    
    «Tuttavia, pensando a te, ho eseguito la mia parte a maraviglia. Ma
    costui è troppo scaltro per tradirsi, e bisogna venire a qualche più
    violenta decisione. Mi dispiace che Ilda sarà la sacrificata, la
    vittima.»
    
    Aldo si fermò ancora, depose la penna e s'immerse in profonde
    riflessioni, le quali avevano un unico oggetto: Bianca.
    
    A un tratto un nuovo gemito, e questa volta distinto, lo fece
    balzare in piedi, porre la mano sulla gruccia dell'uscio che metteva
    nella camera di Ilda.
    
    Ma prima di aprire chiese a voce alta:
    
    - Signorina, avete bisogno di me? Non vi sentite bene? -
    
    Gli rispose un altro gemito rauco, affannoso. Allora non ebbe più
    esitazioni.
    
    Si slanciò nella camera della giovane,
    
    Ilda si dibatteva sul letto, cercando di togliersi l'asciugamano che
    ancora l'avvolgeva.
    
    Aldo cercò di aiutarla, ma la giovane lo respinse col gesto, e le
    sue grida si fecero più rauche ed acute. Nei suoi occhi stralunati
    apparve una tale espressione di spavento, che Aldo indietreggiò,
    allibito.
    
    - Ilda.... che avete? Che vi ho fatto? -
    
    Ella era riuscita con un ultimo sforzo a sciogliersi dal suo laccio
    ed a stendere la mano al cordone del campanello.
    
    Sembrava volesse parlare, ma dalla bocca spalancata non uscivano che
    gemiti.
    
    Ma alla violenta scampanellata era accorsa la cameriera.
    
    - Presto, soccorrete la vostra padrona che sta male! - disse il
    giovane.
    
    E cercò di aiutare la donna, ma si vide di nuovo respinto da Ilda,
    le cui pupille si fissarono ancora spaventate su lui; poi una nebbia
    le coprì, e la sventurata non vide più nulla.
    
    Era svenuta.
    
    - Presto, dell'aceto, dei sali.... - disse Aldo alla cameriera.
    
    Questa aveva scorto sul collo bianco d'Ilda i segni dello
    strangolamento, aveva veduto il gesto di orrore della sua padrona
    allorchè Aldo si era avvicinato per soccorrerla, onde guardò con
    diffidenza il giovane balbettando:
    
    - Vado subito a prenderli. -
    
    E corse via per avvertire i domestici dell'accaduto.
    
    Un momento dopo, tutti sapevano che Aldo aveva tentato di
    strangolare Ilda.
    
    Un domestico andò a cercare un medico: un altro ad avvertire il
    signor Moreno.
    
    Aldo intanto, con l'asciugamano stesso che aveva servito al conte
    per avvolgere il capo ed il collo della giovane, asciugò il gelido
    sudore e la schiuma, che la povera Ilda aveva agli angoli della
    bocca.
    
    Nel far ciò, vide egli pure su quel collo bianco i segni dello
    strangolamento.
    
    Possibile? Non sognava?
    
    E mentre nella sua mente si chiedeva se il conte fosse l'autore
    dell'ardito tentativo, diverse voci gli ferirono le orecchie:
    
    - Non lasciatelo uscire!
    
    - Non può essere che lui! -
    
    Aldo si volse. Nella stanza entravano due cameriere, la cuoca, due
    domestici.
    
    - Che succede, dunque? - chiese lo studente.
    
    - Nulla, signore; - rispose una delle cameriere fatta ardita - siamo
    venute per soccorrere la signora; lasci fare a noi. -
    
    E si avvicinò al letto, mentre i due domestici rimanevano di guardia
    all'uscio.
    
    Aldo non vedeva gli sguardi che si scambiavano i servitori.
    
    Ilda a poco a poco rinvenne, e la prima parola che pronunziò fu per
    chiamare il signor Moreno.
    
    - Fra poco sarà qui; l'abbiamo mandato ad avvertire; - disse una
    cameriera - ma c'è il signor Aldo.
    
    - Fatelo uscire; che io non lo veda! -
    
    Aldo credeva d'impazzire.
    
    - Ma Perché, Ilda, Perché? - chiese avvicinandosi al letto.
    
    Essa lo fissò con uno sguardo strano, terribile, e disse lentamente:
    
    - Siete più vile, più miserabile dell'altro; egli mi aveva almeno
    rispettata!
    
    - Ilda, non vi comprendo....
    
    - Siate maledetto, voi che rovinaste tutto il mio avvenire.... che
    mi toglieste più della vita.... Infame!... Infame!... Povera
    Bianca!... Il suo disprezzo sarà il vostro gastigo!... -
    
    E volse il capo sul guanciale per non più vederlo.
    
    Aldo non sapeva che pensare.
    
    Credeva di essere in preda ad un'allucinazione.
    
    Egli si strinse il capo con le mani e fuggì via.
    
    Ma nel salotto vicino i due domestici gli sbarrarono il passo.
    
    - Signore, lei non uscirà di qui finchè non sia giunto il signor
    Moreno: glielo impediremo!
    
    - Con quale diritto? - chiese Aldo.
    
    - Con quello di due galantuomini contro un assassino! -
    
    Aldo impallidì fece un passo indietro.
    
    - Assassino, io?
    
    - Sì, avete tentato di strangolare la signora.
    
    - Ma siete pazzi! -
    
    Aldo stava per commettere qualche atto insensato, allorchè giunsero
    il medico ed il signor Moreno.
    
    Il primo venne tosto introdotto nella camera di Ilda, mentre il
    signor Moreno si slanciava incontro al giovane, dicendo:
    
    - Grazie a Dio, vi trovo qui! Che storia mi sono venuti a raccontare
    sul vostro conto, di un tentato strangolamento verso Ilda?
    
    - È ciò che vanno ripetendo anche a me, e vi giuro, signor Moreno,
    che mi sembra di perdere la ragione.
    
    - Ma come possono essere sòrte tali voci?
    
    - Io vi dirò la verità, signor Moreno, persuaso che voi almeno mi
    crederete. -
    
    E volle raccontare ciò che era avvenuto, allorchè una cameriera
    corse ad avvertire il signor Moreno che Ilda chiedeva di lui.
    
    Il signor Moreno entrò nella camera di Ilda.
    
    La giovane era sempre spaventosamente pallida ed il medico, curvo su
    lei, esaminava attentamente le lividure del collo.
    
    - Sì, vi è stato un tentativo di strangolamento, per fortuna non
    riuscito! - disse.
    
    - Oh! meglio fossi morta. - dichiarò Ilda con un singhiozzo.
    
    E veduto il signor Moreno gli stese le mani, soggiungendo con voce
    rotta:
    
    - Guardate che hanno fatto di me! E non è tutto....
    
    - Io non comprendo, figlia mia: spiegatevi. Chi può essere il
    colpevole?
    
    - Il signor Pomigliano.
    
    - Lui?... Ma è assurdo! Egli si protesta innocente, ed io lo credo.
    
    - Non lo crederete più, quando vi racconterò ciò che è avvenuto:
    anche il medico può ascoltarmi, come Marietta, e raccogliere la mia
    deposizione. Voi sapete, signor Moreno, come stanotte io abbia data
    una festa ed il perché.
    
    - Lo so! - interruppe il gentiluomo. - E colui non ha accettato
    l'invito?
    
    - Sì, è venuto. Ma non si è trattenuto più di un'ora: ad un tratto è
    scomparso senza salutare alcuno. Io ho avuto paura che tendesse un
    agguato al signor Aldo, fuori del palazzo, terminata la festa, e ho
    trattenuto il signor Pomigliano, pregandolo di non uscire prima di
    giorno. Egli acconsentì. Ho mandato la cameriera a letto,
    trattenendo il signor Aldo che sarebbe rimasto a discorrere con me.
    Dopo aver discorso alquanto, lui, accorgendosi che ero stanca,
    abbattuta, mi ha pregata di coricarmi e ha detto che egli avrebbe
    atteso il giorno scrivendo. Allora l'ho fatto passare in quella
    stanza, ho chiuso l'uscio, e, spogliatami, mi sono sdraiata sul
    letto e addormentata. A un tratto mi sono svegliata sentendomi
    soffocare: avevo il viso avvolto in un asciugamano, due mani strette
    alla gola, mentre una voce mi diceva parole infami.
    
    - Era la voce del signor Aldo?
    
    - Sì, era la sua; e poi, nessun altro che lui poteva pronunziare
    certe parole. Volli liberarmi da quella stretta ma inutilmente, mi
    sentii mancare, non ricordo più altro.... e sono tornata in me....
    mentre il signor Aldo era intento a soccorrermi.
    
    - Ma se egli fosse stato colpevole, sarebbe fuggito, - disse il
    signor Moreno. - E poi, a qual fine vi avrebbe così imbavagliata?
    Bisognerebbe che fosse divenuto pazzo ad un tratto. -
    
    Ilda si torceva le mani.
    
    - Ma non capite, non capite.... Non è la mia vita che voleva, ma il
    mio onore....
    
    - No, - interruppe con forza il signor Moreno - non lo credo. Io
    ritengo invece che colui che credevate scomparso, si sia nascosto
    nella vostra camera e sia lui che abbia ordito l'orribile trama per
    perdere voi.... e l'altro. -
    
    Ilda trasalì, ma poi scosse il capo.
    
    - Non è possibile! - disse piano.
    
    - Lasciate almeno che il signor Aldo si giustifichi; non
    condannatelo prima di averlo ascoltato; egli ha il diritto di
    difendersi. -
    
    Ilda rimaneva perplessa. In quel momento si udirono diverse voci
    nella stanza vicina. Un servitore avvertì come fossero giunti un
    ispettore di questura e due delegati.
    
    - Chi li ha chiamati? - chiese il signor Moreno.
    
    - Non so, signore; ma ormai è noto a tutti che il signor Aldo ha
    tentato di strangolare la signora.
    
    Dunque, lo scandalo era inevitabile.
    
    I rappresentanti della giustizia vennero introdotti
    
    Aldo era con loro.
    
    Il giovane portava la testa alta.
    
    Ilda, tremante, fece la sua deposizione a voce così bassa, che
    appena si udì.
    
    - Voi dunque accusate il signor Aldo Pomigliano? - disse l'ispettore
    quando la giovane ebbe finito di parlare; e rivolto allo studente: -
    Che avete da rispondere?
    
    - Che la signora mi accusa a torto. Quando essa mi ha lasciato nella
    camera attigua, io mi sono messo a scrivere, e la mia anima era
    assai lontana di qui. Sognavo, scrivendo, quando ho udito un gemito.
    Accorso qui, ho veduto la signora che si dibatteva sul letto per
    togliersi un asciugamano che le avvolgeva il volto.
    
    «Stupito, mi sono avvicinato per soccorrerla, ma essa mi ha
    respinto, ha sonato il campanello per chiamare aiuto, e mi ha
    accusato di volere strangolarla.
    
    «Ebbene: giuro che la signora s'inganna, che io sono vittima della
    perfidia di un altro!
    
    - Io vi credo! - disse a voce alta il signor Moreno.
    
    L'ispettore, che aveva ascoltato freddamente, deliberò:
    
    - Visitiamo la stanza dove il signore afferma che stava scrivendo. -
    
    Ma appena entrati nella stanza vicina, Aldo, coi lineamenti
    stravolti, in preda ad una grande agitazione, si slanciò per
    prendere la lettera abbandonata sulla scrivania e che fra quelle
    commozioni aveva dimenticata.
    
    Ma l'ispettore lo fermò.
    
    - Un momento: - disse - quel foglio appartiene ormai alla giustizia.
    -
    
    Aldo, con voce stridente, gridava:
    
    - Voi non avete alcun diritto di ritenere quella lettera! -
    
    Il signor Moreno, che intuì come quel foglio fosse diretto a sua
    figlia, soggiunse con voce commossa:
    
    - Il signor Aldo ha ragione: quella lettera non può aver nulla che
    fare coll'accusa! -
    
    L'ispettore si volse al signor Moreno.
    
    - Come può saperlo lei? In ogni modo è inutile ogni protesta: il
    foglio non uscirà dalle nostre mani. -
    
    Aldo chinò il capo abbattuto. Che gl'importava adesso l'accusa
    formulata contro lui? Non pensava più che a Bianca, ch'egli aveva
    compromessa.
    
    Ma un altro tegolo stava per piombargli sul capo.
    
    La cameriera Marietta si era precipitata nella stanza dicendo che i
    gioielli della signora erano scomparsi.
    
    La signora se ne era accorta in quell'istante e dichiarava che il
    signor Aldo non poteva averli presi.
    
    - Meno male, - esclamò il giovane - che anche Ilda comincia a
    credere alla mia innocenza!
    
    - Vedremo! - soggiunse l'ispettore. - L'inchiesta non è ancora
    terminata.- -
    
    Poco dopo si recarono tutti nel salotto dove il giovane si era
    intrattenuto con Ilda.
    
    Entrando, l'ispettore scòrse il soprabito gettato sopra una
    poltrona.
    
    Lo sollevò, chiedendo:
    
    - A chi appartiene questo?
    
    - A me, signore, - rispose Aldo.
    
    L'ispettore lo frugò e ne trasse un astuccio di velluto rosso, che
    mostrò al giovane dicendo con tono brusco:
    
    - Questo è pure vostro? -
    
    Aldo trasalì, ma tenne la testa alta.
    
    - No, - rispose - e non capisco come si trovi nella tasca del mio
    soprabito.
    
    - Ve lo farò capire io: guardate.- -
    
    Aveva aperto l'astuccio, che conteneva uno splendido finimento di
    perle e brillanti.
    
    Il giovane gettò un urlo d'indignazione.
    
    - Questo è troppo! - esclamò. - I gioielli di Ilda nel mio
    soprabito? Chi è il miserabile che ve li ha posti?
    
    - Voi dovete saperlo meglio di tutti, signore!... - esclamò
    l'ispettore.
    
    - Ma dunque, credete che io sia un ladro, un assassino? - proruppe
    sempre più eccitato il giovane. - Avrei tentato di strangolare la
    giovane per impadronirmi dei suoi gioielli? Ma se ciò fosse, perché
    sarei rimasto qui, invece di fuggire?
    
    - Perché non avete potuto fare altrimenti! - rispose l'ispettore. -
    La vittima chiamava soccorso!
    
    - Oh! no, no, io sogno, impazzo! Perché avrei commesso tutto ciò?
    Ilda era amica mia.
    
    - Sì, l'amante del cuore! -
    
    Aldo sentì il sudore scorrergli sulla fronte.
    
    - È una spudorata menzogna, me ne appello al signor Moreno!
    
    - Il signor Pomigliano ha ragione! - rispose il vecchio gentiluomo
    rimasto fino allora silenzioso. - Se egli si trova in questa casa, è
    per ordine mio; io stesso lo misi al fianco della giovane, che per
    certo già si pente dell'accusa lanciata su lui. Sto io stesso
    garante dell'onestà del signor Aldo!
    
    - A noi non basta, signore! - interruppe con accento fermo
    l'ispettore. - Fino a prova contraria, per noi, il signore è
    colpevole!
    
    - Vi ripeto che un altro individuo è entrato qui, ha fatto il colpo!
    - ripetè il signor Moreno.
    
    - Non basta una vaga affermazione: diteci il nome di colui che
    accusate!
    
    - Vi giuro che domani lo saprete! -
    
    Un sorriso sfiorò le labbra dell'ispettore.
    
    - E sia; - rispose - comunque, fino a che non scaturirà fuori
    quell'altro, il signor Aldo rimarrà a nostra disposizione, verrà con
    noi! -
    
    Mezz'ora dopo, nonostante le proteste vivaci del signor Moreno e
    quelle di Ilda, che ormai temeva di aver accusato un innocente, il
    giovane venne condotto in questura, e di lì, dopo un breve
    interrogatorio, in prigione.
    
    Il vecchio gentiluomo si recò immediatamente dal Trani per
    raccontargli l'accaduto.
    
    Bianca, in questo frattempo, ignara di tutto, benchè avesse
    accompagnato il padre fino al palazzo di Ilda, si trovava colla
    istitutrice presso una pia signora, che doveva condurle a visitare
    un convento dove avrebbero trascorso la giornata.
    
    Il signor Moreno, che lo sapeva, ne gioì Perché voleva avere un
    colloquio da solo col genero.
    
    Tornato a casa, trovò Livio sorridente, quasi felice.
    
    - Ho bisogno di parlarti; - gli disse il suocero. - Vieni nella mia
    stanza. -
    
    Livio lo seguì.
    
    - Hai dunque qualche cosa di molto grave da comunicarmi?
    
    - Ne giudicherai! - rispose il signor Moreno colle sopracciglia
    aggrottate.
    
    Egli sedette di faccia a Livio, lo guardò fisso.
    
    - Dove hai passato la notte? - gli domandò.
    
    - In casa della bella Cleo, che dava una festa nel suo palazzo. Ma
    siccome mi uggivo, all'ora della cena sono tornato a casa.
    
    - Tu menti! - gridò con forza il signor Moreno. - Strappa una volta
    quella maschera d'ipocrisia che ti copre il volto, mostrati quale
    veramente sei: spudorato, cinico, vizioso, colpevole! Tu sei andato
    a quella festa Perché, innamorato di quella giovane che ti odia,
    volevi avvicinarla, sapere chi fosse che la manteneva in quel lusso.
    
    «Tu non hai lasciato la festa, ma ti sei nascosto nella sua camera
    per attendere il momento propizio di attentare al suo onore.
    
    «La sorte ti fu propizia. Tu non soltanto hai commesso il più vile
    dei delitti, ma hai fatto in modo che la tua vittima stessa,
    riavutasi, accusasse un innocente di ciò che tu solo avevi fatto.
    
    «Oseresti negare? -
    
    Livio lanciò una boccata di fumo verso il soffitto.
    
    - Non ne ho alcuna intenzione, - rispose - e ti ringrazio di avermi
    informato di ciò che bramavo sapere. Dunque, tutto è andato a
    seconda dei miei desideri e il risultato è davvero splendido! -
    
    Questa riflessione parve così brutale al signor Moreno, che scattò
    gridando:
    
    - Miserabile! Birbante! Farabutto, che a furia d'inganni riuscisti a
    sposare mia figlia per averne la dote! Griderò a tutti i tuoi
    delitti!
    
    - Davvero? E farai anche sapere che tua figlia, la tua onesta e
    ingenua figlia, è l'amante dello stesso uomo che ha tentato di
    assassinare la tua mantenuta per derubarla? -
    
    Sotto l'insulto sanguinoso rivolto alla sua adorata, il signor
    Moreno perdè il lume della ragione e fece per scagliarsi sul genero.
    
    Ma questi, più svelto di lui, aveva fatto un salto dietro la
    poltrona, e, togliendo una rivoltella dalla tasca, la puntò verso il
    suocero.
    
    - Sono armato, - disse - e non mi sarebbe difficile far credere al
    vostro suicidio, data la condotta di vostra figlia e gli eventi di
    stanotte. Ah! fu una vera fortuna che io potessi assistere,
    nascosto, al colloquio fra Ilda e il signor Pomigliano. Così sono
    informato della trama ordita contro me, e so adesso in qual modo
    possa difendermi. -
    
    Ci fu un istante di terribile silenzio.
    
    Il vecchio, annientato, dovette afferrarsi ad un mobile per non
    cadere.
    
    Il conte proseguì:
    
    - Perché agitarvi tanto? Discorriamo tranquillamente, dal momento
    che non ci sono più segreti fra noi. Ma forse conosco io più assai
    voi stesso, di quello che conosciate me. Voi mi giudicate da ciò che
    sentiste dire da vostra figlia o da altri: ebbene, si sono tutti
    ingannati. Voi mi accusate di aver sposata vostra figlia per denaro:
    è vero, Perché quando la conobbi ero rovinato; però, mi rimaneva
    ancora il titolo di nobiltà, ed una ricca borghese non è mai
    indifferente dinanzi ad una corona di contessa. Quanti bottegai
    arricchiti darebbero i loro milioni per divenire parenti sia pure di
    un nobile spiantato! Non voglio attribuire a voi tale debolezza: voi
    non cercavate che la felicità di vostra figlia. Ebbene, io potevo
    dargliela! Se Bianca era innamorata di me, io lo ero di lei, ed
    avrei continuato ad esserlo. Ma potevo pensare che una semplice
    scappata con una femmina volgare cambiasse l'amore di mia moglie in
    odio, mi facesse interdire dal suo appartamento per sempre? Ed
    intanto, la pura, la severa mia moglie aveva un amante che, più
    felice di me, la rese ancora madre.
    
    - Ah! è troppa infamia questa, non resisto più! - urlò il signor
    Moreno colla schiuma alle labbra.
    
    - Ma se voi stesso le avete tenuto di mano! - interruppe il conte, -
    Ne ho le prove: ho letto due lettere, sottratte proprio in questi
    giorni a mia moglie e che custodisco gelosamente. -
    
    Il signor Moreno si strinse il capo fra le mani: un rossore sinistro
    copriva il suo viso.
    
    - Sì, tutte le apparenze stanno contro me e contro Bianca: mentre
    voi siete il solo colpevole.
    
    - Io? Oh! questa è bellissima!
    
    - Sì, ascoltatemi a vostra volta.... Bianca vi amava, e quando
    scoprì il vostro inganno, uscì quasi di senno: la sera stessa del
    giorno in cui aveva trovato la lettera rivelatrice del vostro
    tradimento, esasperata, si mascherò e andò al veglione coll'idea di
    darsi al primo uomo che le fosse piaciuto.
    
    «Volle fortuna che s'imbattesse in Aldo Pomigliano, il quale la
    condusse nella propria soffitta, dove, appena giunta, ella tornò in
    sé e con accento disperato chiese al giovane che la rispettasse.
    Infatti, ella uscì da quella casa pura come vi era entrata.
    
    «Mentre ella ne usciva, udì un urlo straziante e delle grida:
    
    «- All'assassino! -
    
    «Bianca si trovava quella notte nelle soffitte della casa dove fu
    assassinata la povera Giulietta Lovera. Aldo arrestò l'assassino, e
    Bianca promise all'assassinata di fare da madre alla sua creatura.
    
    «Ora quell'innocente bambina, che è forse vostra, la credete frutto
    di un amore di mia figlia! -
    
    Livio aveva ascoltato con appassionata intenzione.
    
    - Il romanzo è completo, - disse - ma non spiega i rapporti che
    continuarono fra mia moglie e l'uomo che le scrive frasi d'amore,
    dicendole: «Quando passeremo ancora qualche ora felice, inebriante,
    insieme con la nostra bambina?» Inoltre non so comprendere come Ilda
    sia venuta a far parte della trama ordita contro me per farmi
    confessare un delitto che non ho commesso, e mi maraviglio che voi
    abbiate promesso ad Ilda i mezzi per schiacciarmi, dichiarando di
    volermi far giungere al punto di togliermi la vita colle stesse mie
    mani.
    
    - Sì, per punirvi di torturare mia figlia e per far giustizia
    dell'infelice che per cagion vostra espia in prigione un delitto da
    voi stesso commesso.
    
    - Ma dunque persistete a credere che io abbia spinto Fabio Ribera a
    commettere un assassinio? Quali sono le prove contro di me? Per
    quanto cerchiate, non ne troverete.
    
    - Perché dunque taceste anche col cavaliere Umberto Trani i vostri
    rapporti con Fabio?
    
    - Perché non volli vantarmi di una buona azione fatta in altri
    tempi. Ma ora non è più così: si tratta della mia difesa e mi
    difenderò con tutte le mie forze. Così schiaccerò tutti coloro che
    hanno cercato di perdermi. Intanto ho cominciato coll'uomo che mi ha
    tolta Bianca. -
    
    Il signor Moreno ebbe un brivido dal capo alle piante.
    
    - Io racconterò la verità.
    
    - Voi non direte nulla, - proruppe con forza il conte - voi non
    accuserete il marito di vostra figlia, che ormai prenderà su lei
    tutti i diritti che nessuno può contendergli. La legge stessa mi
    protegge, e per quanto cerchiate, non troverete alcuna prova contro
    me. Se poi voleste intentarmi una causa per separazione, mostrerò le
    lettere dell'onesto studente, citerò i testimoni degl'incontri dei
    due amanti, così Bianca sarà la sola disonorata. Ora che sapete come
    la penso, - soggiunse - sappiate regolarvi. -
    
    Il signor Moreno sobbalzò come frustato.
    
    - Io farò soltanto ciò che mi detta la coscienza: - rispose -
    difenderò con tutte le mie forze gli innocenti, né Dio permetterà
    che uno scellerato pari vostro trionfi. Ed ora toglietevi dalla mia
    presenza, Perché non potrei più a lungo sopportarvi senza commettere
    un delitto. -
    
    Il conte aprì l'uscio, ma prima di uscire esclamò al suocero:
    
    - Dite a Bianca che fin da questa sera riprendo tutti i miei diritti
    di marito. Sarà la sua espiazione! -
    
    E se ne andò, lasciando il vecchio annientato.
    
    X.
    
    Nonostante i passi fatti dal Trani, dal signor Moreno e dallo stesso
    conte Livio Rossano, lo scandalo riguardante il tentato
    strangolamento della bella Cleo scoppiò enorme.
    
    Alcuni giornali riportarono il fatto coi più strampalati commenti,
    fra i quali nessuno poteva discernere la verità.
    
    Ma una settimana dopo un articolo conteneva queste rivelazioni:
    
    «Si è scoperta la verità circa l'attentato contro la bella Cleo.
    
    «Per ben comprendere tutto l'intreccio, bisogna risalire ad un
    delitto commesso qualche anno fa, in cui ebbe tanta parte la
    bellissima Cleo, allora conosciuta sotto il semplice nome di Ilda.
    
    «Come a tutti è noto, la notte di un giovedì grasso un certo Fabio
    Ribera assassinava Giulietta Levera, dalla quale aveva avuto una
    bambina. Il movente del delitto era lo sbarazzarsi di quella donna
    per sposare Ilda.
    
    «L'assassino fu arrestato da uno studente: il signor Aldo
    Pomigliano, il quale in quella notte aveva seco una giovane di
    maravigliosa bellezza, che lo studente qualificò per una sua
    sorella.
    
    «Ora peraltro è stato scoperto dal sostituto procuratore Meralta che
    quella sedicente sorella era invece la contessa Bianca Rossano.
    
    «E qui entriamo in pieno romanzo.
    
    «La contessa Rossano, nata Bianca Moreno, sposò il conte Livio per
    amore, portandogli in dote due milioni in contanti.
    
    «Bianca Moreno, un'indole sensitiva, fanciulla ingenua, credeva che
    le persone da lei amate le fossero interamente devote.
    
    «Il marito era per lei come un secondo Dio.
    
    «Volle sventura che un giorno capitasse nelle mani della contessa
    una lettera di un'ex amante del conte, e presa da una collera
    violenta, credendosi tradita, pensò di vendicarsi.
    
    «La sera stessa si recò al veglione dello Scribe, e invitata da Aldo
    Pomigliano si lasciò condurre nella sua soffitta. Ma, ivi giunta,
    ella comprese il tristo passo che stava per fare e volle andarsene,
    quando alcune voci che urlavano «all'assassino», le fecero
    dimenticare la sua situazione e si slanciò con Aldo nella stanza
    della povera Giulietta.
    
    «Qui fa duopo aprire una parentesi. Se l'assassinata nei suoi ultimi
    momenti riconobbe la contessa Bianca, questa aveva pure riconosciuta
    l'infelice. È un altro romanzo che ha una sorgente quasi idillica,
    in cui lumeggia la virile figura del conte Livio, quella della sua
    defunta madre.
    
    «A Torino tutti conoscevano la bella contessa Rossano, madre di
    Livio: la sua carità era inesauribile.
    
    «La contessa Rossano aveva fra la servitù un cocchiere ed una
    cameriera che prediligeva. Costoro, venuti a morte, lasciarono un
    bambino di pochi anni, Fabio, che raccomandarono alla contessa
    Rossano. Questa si prese cura del fanciullo, e quando venne a morte
    essa pure, lasciò per legato al figlio di non abbandonare mai
    l'orfano Ribera. Così il conte, che aveva adorata la madre, eseguì
    con zelo e segretezza la missione affidatagli.
    
    «Egli tacque sempre con tutti la sua opera generosa e non ne menò
    mai vanto con alcuno.
    
    «Fabio Ribera divenne un uomo. Il conte lo fece impiegare presso un
    noto magazzino di mode, esortandolo per modestia a tacere i loro
    rapporti. Però il gentiluomo non mancava di recarsi a trovare più
    volte il suo protetto nel modesto alloggio di lui, ed il giovane gli
    confidò della relazione contratta con Giulietta Levera, del suo
    affetto per lei, del tradimento della giovane, del suo abbandono.
    
    «Intanto il conte Livio si era ammogliato. Se a tutti aveva taciuto
    di Fabio, ne parlò bensì a Bianca sua moglie, senza però estendersi
    troppo sui benefizi prodigati al giovane. Una mattina, mentre il
    conte e la contessa passeggiavano insieme, s'imbatterono con Fabio,
    che si trovava in compagnia di Giulietta. Fabio arrossì, salutò
    goffamente; Giulietta avviluppò con uno sguardo ardente la contessa,
    che dal canto suo guardò con sorpresa quella giovane, dai capelli
    d'oro.
    
    «Tutto ciò ebbe la durata di pochi secondi,
    
    «La coppia passò rapida ed il conte disse a sua moglie chi fosse il
    giovane, ma tacque su colei che l'accompagnava.
    
    Però la contessa non dimenticò più quel volto e lo ritrovò
    nell'assassinata Giulietta, la quale a sua volta riconobbe la
    contessa.
    
    «E quelle parole dette dalla sventurata: Lei? Lei, signora? Ma non
    sa.... volevano per certo significare: Non sa che il mio assassino è
    il beneficato da suo marito?
    
    «Ma la contessa nel suo spavento non comprese: ella lasciò che Aldo
    Pomigliano la facesse credere sua sorella, ritornò nella soffitta di
    lui colla bambina, ed il giovane, per attirarsi quella bellissima
    signora che ormai gli aveva sconvolto il cervello, s'incaricò di far
    allevare la piccina, della quale la contessa voleva essere la mamma
    ed Aldo il babbo.
    
    «Così l'orfana dell'assassinata divenne il legame fra quelle due
    persone che poche ore prima non si conoscevano, e fu cagione di
    tutta una trama ordita contro il conte Livio Rossano e l'ingenua
    contessa.
    
    «Nessuno ignora come la fidanzata di Fabio Ribera protestasse in
    piena udienza contro la condanna del giovane, giurasse di scoprire
    ella stessa il vero colpevole.
    
    «Ora, siccome Ilda conosceva i rapporti del suo fidanzato col conte,
    ideò che questi fosse l'istigatore dell'assassino. Due altre persone
    avevano interesse a sopprimere il conte: Aldo, perché sperava che,
    sbarazzatosi del gentiluomo, la contessa sarebbe sua; il signor
    Moreno, persuaso che il genero fosse un dissoluto e facesse
    l'infelicità di sua figlia. Costoro si accordarono per perderlo.
    
    «E la conclusione fu, che fra Ilda, divenuta miss Cleo, il conte
    Moreno ed Aldo, venne decretata la rovina del conte Livio. Ma il
    risultato non fu quale si aspettavano; l'inchiesta dimostrò
    l'innocenza di colui, su cui si voleva far cadere tutti i sospetti.
    
    «Il tentato strangolamento d'Ilda, il furto dei gioielli, fu una
    trama non riuscita per perdere il conte. Peraltro la bella Cleo, che
    credeva di dover fingere da vittima, stava per esserlo veramente,
    giacché Aldo voleva sopprimerla sul serio. Ella, sentendosi
    soffocare, chiese aiuto, e contribuì all'arresto del complice. Così
    Aldo Pomigliano comprenderà quanto fosse pazza l'impresa ideata e
    come non possa esservi felicità fondata sul delitto.»
    
    Il giorno seguente a queste strane rivelazioni, i giornali
    annuziavano la morte improvvisa del signor Moreno e la scomparsa di
    Ilda da Torino.
    
    Quindici giorni dopo si seppe che il conte e la contessa, riuniti,
    erano partiti per un lungo viaggio.
    
    Aldo Pomigliano attendeva in carcere il giorno del processo,
    disperandosi segretamente per la sorte di Bianca.
    
    Ed il solo, il vero colpevole, continuava a trionfare!
    
    PARTE QUARTA
Dramma fraterno.
    
    I.
    
    La villa Bianca, situata sulla collina di Moncalieri, in un'altura
    dominante le ville circostanti e lontana da tutte, era un vasto
    fabbricato, circondato da un parco grandissimo.
    
    Livio Rossano, compratala, vi si era stabilito colla moglie.
    
    Si diceva che tanto il conte quanto la contessa, dopo i dolorosi
    avvenimenti che avevano funestata la loro vita, sentivano la
    necessità della solitudine.
    
    Tornati da un viaggio che durò quasi due anni, si erano ritirati
    alla villa Bianca, e da tre anni che vi abitavano
    
    nessuno aveva ancora veduto la contessa: essa non riceveva, né
    voleva vedere alcuno.
    
    La servitù era stata cambiata. Celia fu rimandata al suo paese, e al
    fianco della contessa era una donna di fiducia di Livio: il conte
    non aveva preso cameriere, Perché diceva di attenderne uno che
    doveva venire da lontano e l'aveva servito altre volte con perfetta
    devozione. Anche la scelta della cuoca, del cocchiere, del
    giardiniere e degli altri domestici era stata fatta da lui. Tutti
    avevano ordini precisi, e guai se li avessero trasgrediti! Nessuno
    poteva penetrare negli appartamenti del conte e della contessa senza
    essere chiamato. Si sapeva che il conte e la contessa non mangiavano
    insieme, ma nessuno ne stupiva, Perché Bianca, per la sua salute
    malferma, aveva bisogno di un regime particolare. Del resto, se
    qualche volta si bisbigliava in cucina sui rapporti fra marito e
    moglie, quelle voci non uscivano al di fuori e nessuno avrebbe
    pensato a trasgredire gli ordini del conte.
    
    La contessa Bianca aveva ereditato dal padre un patrimonio colossale
    ed aveva lasciato piena procura al marito di amministrarla.
    
    Ed il conte non abusava di quella fiducia: si sapeva che non
    giuocava più, non si occupava più di altre donne che della propria.
    
    Eravamo sul finire di maggio. Verso il tramonto di un sabato, sulla
    lunga erta che conduceva alla villa, saliva penosamente un uomo sui
    trent'anni, con una valigia e un nodoso bastone. Era un individuo
    dalla faccia sparuta, circondata da barba folta e lunga, di un
    biondo cinereo. Il largo cappello di feltro nascondeva la
    capigliatura. Un fazzoletto di seta gli cingeva il collo.
    
    Egli si fermava ad ogni tratto per guardarsi attorno. Sulla sua
    bocca esangue errava un sorriso di soddisfazione. L'uomo era giunto
    quasi alla metà dell'erta, quando un altro individuo che veniva
    dalla villa gli si fece incontro correndo.
    
    - Fabio, Fabio, sei tu, finalmente! - esclamò. L'uomo, lasciando
    cadere valigia e bastone, stendeva le mani scarne, balbettando:
    
    - Voi? Voi, conte? Quanto siete buono! La gioia di rivedervi mi fa
    dimenticare tutto! -
    
    Barcollava. Livio, giacché era lui, lo trasse al suo petto e lo
    baciò.
    
    - Se tu sapessi come ti attendevo! - mormorò. - Io ho bisogno di
    avere un amico come te al fianco. Non credo più a nulla, all'infuori
    di te!
    
    - Tutta la mia vita vi è dedicata.... - rispose Fabio con voce
    alterata, tremante.
    
    - Grazie, ma ora cerca di rimetterti! Devi essere stanco; perdonami
    di averti fatto venire a piedi dalla stazione, ma non volevo dar
    sospetti.
    
    - Non sento più alcuna fatica vicino a voi! -
    
    E lo guardava, mentre camminavano vicini. Come gli parve
    invecchiato, benchè a prima vista questo cambiamento non lo avesse
    colpito!
    
    I due uomini erano giunti alla villa. Presso il cancello,
    attendevano un domestico ed il giardiniere.
    
    Il primo, ad un cenno di Livio, tolse dalle mani di Fabio la
    valigetta, l'altro salutò. Nessuno disse parola.
    
    Livio condusse Fabio nella camera che gli aveva destinata, divisa
    dalla sua da un breve corridoio. Era una bella camera spaziosa,
    tappezzata graziosamente di carta a fiorami. Ma ciò che commosse
    soprattutto Fabio fu di trovare a capo del letto due ritratti:
    quello della contessa Rossano e quello della presunta madre di
    Fabio.
    
    Il povero giovane rimase per un momento stordito, incapace di
    articolar parola; poi si volse al conte per ringraziarlo, e con una
    commozione mista a spavento, lo vide inginocchiarsi davanti a lui,
    lo sentì dirgli:
    
    - Io sono stato un infame con te, Fabio: ti ho disonorato, reso
    assassino; e tu, generoso, non ti smentisti mai, non mi
    accusasti.... Perdonami.... perdonami!... -
    
    Fabio lo rialzò con un grido.
    
    - Non parlate così: io sono cosa vostra: voi solo eravate padrone di
    disporre della mia vita, del mio onore. Io tutto avrei fatto per
    voi! -
    
    Livio lo strinse al suo petto.
    
    - Oh! mio solo amico! - mormorò singhiozzando.
    
    Livio volle che Fabio, appena rifocillatosi, si coricasse.
    
    La mattina dopo, Fabio dormiva ancora, quando il conte entrò nella
    sua camera.
    
    - Caro Fabio, - gli disse sedendosi accanto al letto - come sono
    contento di vederti! Ho tanto bisogno di discorrere con qualcuno che
    mi comprenda! -
    
    Egli chinò il capo sulla coperta, come se non potesse ritenere le
    lacrime.
    
    Fabio era commosso.
    
    - Sono stati molto cattivi con voi, ma hanno avuto la loro
    punizione! - disse con un tremito.
    
    Il conte alzò all'improvviso il capo mostrando il volto contratto.
    
    - Io ho sofferto più di tutti! - disse. - Ascoltami, voglio aprirti
    il mio cuore. Tu conosci ormai la trama ordita contro me, la lega
    formata fra il miserabile che ti arrestò e la tua perfida
    fidanzata.... Ma tu, l'ami ancora?
    
    - No: la odiai un istante, poi quell'odio si è spento, dando luogo
    al più profondo disprezzo. Essa è morta per me! -
    
    Rimasero un istante silenziosi, quindi il conte riprese lentamente:
    
    - La condanna di Aldo, la scomparsa di Ilda che seppe sottrarsi
    colla fuga all'arresto, la scoperta di tutti questi orribili
    intrighi, furono un colpo supremo per mio suocero. Una congestione
    lo fulminò. Ma come se questo non bastasse, sua figlia, la mia
    sventurata Bianca, smarrì la ragione. La sua pazzia non è terribile!
    Essa non strepita, non grida; ma se io mi avvicino, è presa da un
    fremito, il suo occhio spento s'illumina, il suo volto si contrae
    con un'espressione di spavento e di orrore. Bianca è persuasa che io
    le abbia assassinato il padre, e che ora voglia attentare alla
    stessa sua vita. Invano io la supplico di credere alla mia
    innocenza, invano le ho mostrato il rapporto del medico sulla morte
    del signor Moreno. Bianca non mi crede. -
    
    Fabio aveva l'animo straziato.
    
    - Non vi è speranza di guarigione? - mormorò.
    
    Il conte scosse il capo.
    
    - Ho tutto tentato, ma inutilmente! Dio solo potrebbe compiere un
    miracolo. Mi avevano suggerito di metterla in una casa di salute, ma
    non avrei la forza di separarmi da lei. Non ti nascondo che tanto
    qui come a Torino ignorano la pazzia di Bianca: la credono soltanto
    malaticcia. Io attendevo ansiosamente la tua venuta, Perché almeno
    di te posso fidarmi.
    
    - Oh! disponete pure della mia vita!
    
    - Ecco quello che desidero da te. Io ti presenterò alla servitù come
    il cameriere fidato che attendevo, al quale dovranno obbedire come a
    me stesso. Sarà necessario ti cambi il nome: ti chiamerò Martino. Tu
    stesso farai la pulizia della mia stanza e di quella della contessa,
    alla quale ti presenterò, dandoti tutte le mie istruzioni. Tu
    sorveglierai tutto e tutti, riportandomi i discorsi che udrai. Fra
    me e te parleremo in tedesco, lingua che nessun altro qui conosce.
    
    - Farò tutto quanto desiderate. -
    
    Il conte ebbe un nuovo impeto di espansione.
    
    - Ah! qual sollievo provo nell'aprirti tutto il mio cuore! Adesso tu
    mi aiuterai a sopportare la mia sventura. Venisse un giorno che
    Bianca guarisse!
    
    - Sperate, conte, sperate! -
    
    Lo stesso giorno Fabio, rivestito di nuovi abiti, coi capelli e la
    barba accuratamente aggiustati, venne presentato al servidorame come
    il cameriere di fiducia del conte, sotto il nome di Martino. Livio
    dette ordine che fosse obbedito come lui stesso.
    
    Quando ebbe finito colla servitù, il conte si rivolse a Fabio e gli
    disse:
    
    - Ed ora andiamo dalla contessa! -
    
    II.
    
    Bianca era irriconoscibile: pallida e magra come uno spettro. I suoi
    stupendi capelli neri le scendevano in trecce disordinate sulle
    spalle; gli occhi sembravano smisuratamente ingranditi, cerchiati di
    nero; le labbra scolorite mostravano, schiudendosi, gengive esangui;
    aveva il naso affilato come quello di un cadavere.
    
    Eppure in quella figura spettrale vi era ancora tanto fascino, che
    non si poteva mirarla senza sentirsene attirati!
    
    Come sappiamo, il conte Livio, il giorno stesso dell'arresto di
    Aldo, aveva detto al suocero che riprenderebbe tutti i suoi diritti
    sulla moglie, e il misero padre attese il ritorno di sua figlia per
    rivelarle tutto.
    
    Quando Bianca, tornata al palazzo, si recò nelle stanze del padre,
    fu spaventata dall'alterazione dei lineamenti di lui.
    
    - Che hai? - chiese agitata. - Ti senti male?
    
    - No, cara. Ma dammi il braccio: ti accompagno nella tua camera
    Perché ho da parlarti. -
    
    Ella si sentì terrorizzata come se avesse scoperto ai suoi piedi un
    abisso.
    
    Calmatala, il signor Moreno le narrò tutti gli avvenimenti della
    notte, e infine la minaccia del conte di riprendere i suoi diritti
    di marito.
    
    Bianca sembrava fulminata. Tutte quelle rivelazioni l'avevano
    schiacciata; ma il suo abbattimento non durò a lungo.
    
    Un grido d'orrore sfuggì dalla sua bocca, ed afferrandosi con
    angoscia al padre:
    
    - Tu non mi lascerai in sua balìa, non è vero? - esclamò. -
    Uccidimi, piuttosto, uccidimi!
    
    - Bianca! -
    
    Fu un tal grido pieno di strazio, che bastò a richiamare in sé la
    giovane.
    
    Ella si gettò ai piedi del padre.
    
    - Perdonami, perdonami: tutti questi dolori li devi a me; io sono
    stata la sola colpevole; ma non lotterò più,
    
    purchè tu ritorni tranquillo, non mi maledica!
    
    - Oh! maledirti, amor mio, mia gioia! - esclamò come delirante il
    padre, sollevandola. - Io vorrei salvarti a prezzo della vita! -
    
    Egli rimase quella notte presso sua figlia, coricato sul divano
    attiguo alla sua camera, attendendo il conte. Ma Livio non comparve,
    né lo videro il giorno seguente.
    
    - Eppure egli trama qualche cosa! - disse il signor Moreno alla
    figlia.
    
    Ella ormai pensava alla sorte di Aldo, di Aldo innocente, eppure
    accusato di tentato strangolamento e furto!
    
    - Io reco danno a tutti quelli che avvicino! - mormorò la
    sventurata.
    
    Da Celia seppero poi che Ilda era scomparsa da Torino, né il signor
    Moreno ebbe una sola riga che l'avvertisse di quella scomparsa.
    
    La sera, il signor Moreno si trovava da sua figlia, quando il conte
    apparve alla loro presenza.
    
    Bianca, scorgendolo, divenne cadaverica.
    
    Il conte era calmo, e con accento gentile:
    
    - Non temete, Bianca, - disse - non sono qui per farvi del male,
    quantunque voi ne abbiate fatto moltissimo a me. Vengo solo ad
    avvertirvi che sarete chiamata dal giudice istruttore con vostro
    padre.
    
    - Vi andremo, giacché è necessario, - rispose per la figlia il padre
    - e non nasconderemo la verità!
    
    - È quello che desidero!-soggiunse il conte inchinandosi e
    ritirandosi.
    
    - Mi fa più paura il vederlo così calmo, che se fosse in collera! -
    disse Bianca.
    
    - Egli è sicuro di sé, - rispose il signor Moreno - mentre noi,
    innocenti, abbiamo contro tali prove da renderci inquieti. Ti
    sentirai tu la forza di recarti dal giudice istruttore?
    
    - Sì, padre mio, Perché la mia coscienza di nulla mi rimprovera, e
    poi tu sarai con me. -
    
    Ma allorquando il signor Moreno tornò dall'interrogatorio, aveva le
    vene della fronte gonfie ed il viso di porpora, mentre Bianca
    appariva più livida di un cadavere.
    
    - Tutti proclamano la sua innocenza, tutti; - proruppe con un riso
    sibilante il vecchio quando fu nell'appartamento della figlia - noi
    soli siamo i colpevoli: io temo d'impazzire! -
    
    Fu la volta di Bianca di consolarlo, benchè essa pure avesse il
    cuore lacerato.
    
    Il conte non si lasciava più vedere dalla moglie e dal suocero;
    eppure si sapeva che passava molte ore nel suo appartamento. Che
    faceva?
    
    Dopo alcune notti passate insonni, il signor Moreno scrisse il suo
    testamento.
    
    Egli lasciava metà del suo patrimonio alla figlia, l'altra metà
    divisa in parti eguali fra Aldo Pomigliano, Ilda e la piccola Gina,
    la figlia di Giulietta Lovera, l'assassinata «e ciò per riparare
    un'enorme ingiustizia del mondo.» Vi erano inoltre due vistosi
    legati per miss Lucia e Celia.
    
    Mentre era intento a scrivere, fu bussato al suo uscio.
    
    - Chi è? - chiese il signor Moreno.
    
    - Io! - rispose il conte con voce tranquilla.
    
    Il vecchio fu subito in piedi, né pensò più al testamento che andava
    scrivendo. Si recò ad aprir l'uscio, chiuso per di dentro.
    
    Il signor Moreno indicò al genero da sedere e sedette egli pure.
    
    - Che avete da dirmi?
    
    - Vengo a dirvi che sopra un giornale molto diffuso della città è
    comparso un articolo che aggrava la condizione del vostro protetto,
    signor Pomigliano, e la vostra.
    
    - La mia? Che intendete dire, signor conte?
    
    - Leggete, ciò mi eviterà di rispondervi. -
    
    Gli porse il giornale in cui era segnato l'articolo: «Mistero
    svelato». Il signor Moreno lo afferrò con le dita convulse, e
    percorse avidamente il foglio cogli occhi.
    
    Immerso in quella lettura che gli infiammava il sangue nelle vene,
    gli dava le vertigini, non s'accorse che Livio s'era alzato,
    avvicinandosi allo scrittoio.
    
    Il conte aveva guardato macchinalmente il foglio sul quale il
    suocero stava poco prima scrivendo.
    
    Ma alcune parole gli corsero sotto gli occhi, facendolo
    rabbrividire. Allora si chinò, e cogli occhi dilatati da una rabbia
    interna, lesse quel testamento inaspettato e per lui terribile.
    
    Aveva appena finito, che una voce gridò alle sue orecchie:
    
    - È un'infamia, un'infamia!... -
    
    Il conte si volse di scatto, ed i due uomini si trovarono di fronte;
    il conte livido, ma in apparenza calmo, il signor Moreno congesto,
    con gli occhi striati di rosso, la bocca piena di schiuma.
    
    - Sì, è un'infamia! - ripetè Livio lentamente.
    
    - Miserabile, dite così, mentre voi stesso l'avete scritto, voi che
    ideaste tutto l'intrigo fra me, Aldo e gli altri!
    
    - Vorreste negare che sia la verità? Ma ecco qui una nuova, luminosa
    prova: il vostro testamento. -
    
    Il signor Moreno cacciò un urlo da belva.
    
    - Lasciate quel foglio, datemi quel foglio! -
    
    Livio lo sollevava al di sopra del suo capo.
    
    - Non sono così pazzo: questo sarà una nuova prova che dimostrerà
    sempre più la mia innocenza. -
    
    Un fiotto di sangue salì al cervello del signor Moreno, che non
    distingueva più nulla.
    
    - Ah! furfante, non mi sfiderete più a lungo! - rantolò.
    
    E a testa bassa, con un impeto terribile, fece per slanciarsi contro
    Livio; ma il conte saltò rapidamente di fianco, ed il vecchio,
    trascinato dal proprio slancio, cadde disteso bocconi, rimanendo
    immobile.
    
    Il conte si pose il foglio nella tasca interna del soprabito ed
    attese che il suocero si rialzasse.
    
    Il vecchio non si muoveva. Allora Livio si curvò su lui e fremette:
    il signor Moreno era morto.
    
    Il conte sonò con violenza il campanello, si mise a gridare aiuto.
    
    Accorsero i domestici, ed il conte spiegò loro come, mentre parlava
    col suocero, questi avesse ad un tratto stese le mani verso lui
    quasi per cercare un appoggio, ma egli non era giunto in tempo ad
    afferrarle, e il vecchio era caduto.
    
    - Bisogna trasportarlo sul letto, andar subito in cerca di un
    medico. -
    
    I suoi ordini vennero eseguiti.
    
    In quel mentre Bianca rientrava al palazzo con Lucia, e furono
    sorprese di trovare le porte spalancate e nessun domestico in
    anticamera.
    
    La contessa ebbe il presentimento di una sciagura e si slanciò verso
    l'appartamento del padre.
    
    Ma ad un tratto le si fece incontro il conte che le disse con le
    lacrime nella voce:
    
    - Bianca, te ne prego, non entrare là; vieni prima con me nel
    salotto! -
    
    Ella lo fissò cogli occhi stravolti.
    
    - Che c'è? Che succede?
    
    - Coraggio, Bianca, tuo padre.... -
    
    La contessa non lo lasciò finire: diede in un grido acutissimo e,
    respingendolo, volò nella camera del padre.
    
    Alcuni domestici erano nella stanza, ed il medico presso al letto si
    chinava ancora una volta verso il cadavere; poi, rialzandosi,
    confermò:
    
    - Morto! -
    
    Bianca lo vedeva bene, là disteso sul letto, immobile, ma il volto
    di suo padre conservava ancora il colore della vita, gli occhi
    stranamente aperti.
    
    No, non poteva essere morto, non era possibile!
    
    - Signore, vi ingannate, il babbo non è morto! L'ho lasciato due ore
    fa che stava benissimo.
    
    - Vi credo, signora, ma purtroppo non posso darvi alcuna speranza:
    il povero signore ha dovuto soccombere ad una congestione cerebrale
    fulminea, un accesso di sangue al cervello....
    
    - Prodotto da che cosa? - chiese macchinalmente Bianca, mentre i
    denti le stridevano.
    
    - Vi sono tante cause che possono condurre ad un tal risultato: un
    eccesso di collera, una profonda commozione, una fatica
    intellettuale. -
    
    Bianca non l'ascoltava più. Si era gettata sul cadavere del padre,
    lo copriva di baci e lacrime, ripetendo fra i singhiozzi:
    
    - No, tu non puoi avermi lasciata così sola.... sola!... Se tu sei
    morto, qualcuno ti ha ucciso! -
    
    Ad un tratto si raddrizzò, ed i suoi sguardi, incontrati quelli del
    conte, espressero il raccapriccio, mentre ella, stendendo il braccio
    verso lui:
    
    - Assassino, assassino! - gridò.
    
    - Poveretta, il dolore le sconvolge la ragione! - disse il medico.
    
    Il conte si era avvicinato.
    
    - Bianca, torna in te; tutti qui possono testimoniare se io ho colpa
    nella morte di tuo padre!
    
    - Sì.... voi l'avete ucciso.... via di qui.... la vostra presenza è
    un insulto alla vittima....
    
    - Ma che io debba dunque essere sempre sospettato da te? - disse con
    angoscia il conte, - Ah! se tuo padre potesse parlare ancora, egli
    ti griderebbe che io sono innocente: te lo giuro sul suo cadavere!
    
    - Non vi credo.... non vi credo!... -
    
    Il conte fu costretto a ritirarsi, celando, sotto un apparente
    dolore, la rabbia che lo divorava. Ma ormai sua moglie rimaneva in
    sua balìa, e, quel che più importava, il patrimonio del suocero non
    gli sfuggiva più.
    
    Bianca chiese il parere di altri medici, e tutti furono concordi
    nella diagnosi del male che aveva fulminato suo padre.
    
    Il conte fece chiamare alcune suore perché non abbandonassero la
    contessa e le facessero intendere che ella incolpava a torto il
    marito.
    
    Quando fu il momento di deporre il cadavere nella cassa, Bianca,
    afferrandosi alla fredda salma:
    
    - Voglio esser seppellita con lui! - diceva.
    
    Dovettero trarla via a forza, ed allora si dibattè in convulsioni,
    finchè cadde svenuta.
    
    Per qualche settimana si temette che soccombesse. Poi cominciò a
    riaversi, ma la sua mente era alquanto scossa.
    
    - Io pure - pensava - ho aiutato ad uccidere mio padre. Se non
    avessi commesso quella follia quando scopersi il tradimento di
    Livio, sarei stata sventurata, ma la mia coscienza di nulla mi
    avrebbe rimproverata: mio padre non sarebbe morto, né Aldo rovinato,
    né Ilda vagante per il mondo. Anch'io merito una punizione, né
    cercherò di sottrarmi colla morte al castigo che mi spetta! -
    
    E fu così. Bianca si ritenne legata alla vita per espiazione. Se
    alla vista del conte tremava come una foglia scossa dal vento, se lo
    fissava con gli occhi stralunati, ripetendo senza esaltazione che
    egli era stato l'assassino di suo padre, di Aldo, le stesse cose
    ripeteva a sé stessa, rodendosi dal rimorso di essersi mostrata
    cattiva figlia, di essersi incamminata in una via orribile, nella
    quale non calpestava che morti.
    
    Era una specie di pazzia la sua, una pazzia calma, commovente, che
    non richiedeva alcuna sorveglianza speciale.
    
    Il signor Moreno non aveva lasciato testamento, quindi Bianca
    diveniva la sola erede del padre.
    
    Il conte Livio, dietro consiglio del suo avvocato, si recò da Bianca
    onde ottenere da lei la procura per l'amministrazione del
    patrimonio.
    
    Il conte aveva posta al fianco di Bianca una donna che si era votata
    a lui per sempre, Perché con quel posto la salvava dalla miseria,
    dal disonore. Era una certa Milia Lezzani, una vedova che fu in
    procinto d'affogarsi per la fame volendo conservare la propria
    onestà. Milia credeva all'innocenza del conte, e promise che avrebbe
    cercato di trasfondere la sua convinzione nella povera contessa.
    
    Essa non era cattiva, sebbene avesse un'apparenza piuttosto burbera.
    Era una donna forte, robustissima, sui trent'anni: aveva un
    carattere integro, un'onestà senza limiti ed era di una segretezza a
    tutta prova. Il conte poteva fidarsi di lei.
    
    Bianca, ritornando alla vita, si era trovata costei al fianco, ma
    non chiese chi fosse.
    
    Quando il conte entrò dalla moglie con le carte inerenti alla
    procura che essa doveva firmare, Milia si trovava seduta presso la
    contessa.
    
    Livio le fece cenno di ritirarsi e si avvicinò a Bianca.
    
    A misura che il conte si avvicinava, essa cominciò a tremare, a
    battere i denti, il suo respiro divenne affannoso.
    
    - Bianca, puoi ascoltarmi? - chiese con dolcezza Livio.
    
    Ella trasalì a quella voce, e gridò con violenza:
    
    - Volete uccidermi, come faceste di mio padre? Ma io chiamerò aiuto!
    
    - Calmati, Bianca, io non voglio farti alcun male; vorrei soltanto
    che tu firmassi queste carte.
    
    - Firmerò tutto quello che volete; ma non uccidetemi.
    
    - Non ne ho alcuna intenzione. Lascia che io ti spieghi il contenuto
    di queste carte....
    
    - Non voglio saper nulla.... Firmerò, purchè andiate via! -
    
    E tremava sempre più forte.
    
    La firma, sebbene fatta con mano tremante, riuscì perfettamente
    leggibile.
    
    Il conte esultava.
    
    Pochi giorni dopo partivano per la Sicilia, d'onde poi tornarono per
    stabilirsi nella villa comprata dal conte ed alla quale Livio pose
    il nome di Bianca.
    
    Nei due anni che stettero assenti da Torino, i rapporti fra Bianca e
    suo marito non mutarono.
    
    Ma nella solitudine della villa il conte volle qualche volta dare
    sfogo al fiele che aveva nell'animo.
    
    Un giorno entrò nel salotto di Bianca, mentre questa dormiva su di
    una poltrona.
    
    Per una completa evoluzione del suo spirito, Livio provava ormai per
    Bianca una passione così violenta, come non l'aveva mai sentita per
    lei.
    
    Quel giorno il conte, vedendo la moglie che dormiva con un dolce
    sorriso sulle labbra, chiese a Milia, che sedeva poco lungi dalla
    contessa, lavorando:
    
    - Da quanto tempo riposa così?
    
    - Da quasi un'ora, - rispose la donna.
    
    - Chi c'è? - chiese in quel momento la contessa aprendo gli occhi.
    
    - Sono io, Bianca, - rispose il conte avvicinandosi a lei.
    
    - Indietro, indietro! - gridò la contessa, i cui lineamenti si
    sconvolsero, - Non voglio vedervi!
    
    - La sentite, Milia? - esclamò il conte con una lugubre risata. -
    Quella donna colpevole, che anche in questo istante sognava forse il
    suo amante, respinge il marito, che ha avuto la debolezza di
    perdonarla e di lasciar credere a tutti che ella era una vittima
    incosciente.
    
    - Assassino!
    
    - Ancora? Vuoi che ti ripeta ad alta voce le frasi d'amore da lui
    scritte, quelle lettere che io porto sempre con me? Oh! io le ho
    impresse nella mente, parola per parola; ascoltate, Milia!
    
    - No, per pietà, tacete! - supplicò Bianca rabbrividendo.
    
    - Hai tu pietà per me? Io sono stanco dei tuoi insulti, del tuo
    disprezzo! Sono tuo marito ed ho diritto di possederti! -
    
    Si chinò sfiorandole colle labbra i capelli.
    
    Bianca gettò un grido, respingendolo.
    
    - No, non sarà mai, mai! Vi odio, Perché avete ucciso mio padre,
    debbo a voi tutte le mie sventure! Lasciatemi.... lasciatemi!... -
    
    Livido, il conte seppe dominarsi, e indietreggiando disse con voce
    cupa:
    
    - Ti lascio, ma ritornerò ogni giorno per dirti che sei la più
    sprezzabile delle creature! -
    
    Appena si fu ritirato, Milia disse:
    
    - Senta, se fossi io suo marito, non avrei tanta pazienza! E bisogna
    dire che lei abbia un cuore ben duro per trattarlo così!
    
    - Voi non sapete.... - interruppe Bianca.
    
    Ma la vedova non la lasciò finire.
    
    - Io sto a quel che vedo, a quello che sento. Lei accusa suo marito
    di averle ucciso il padre, e tutti i medici hanno ripetuto che il
    povero signore è morto di un colpo.
    
    - Se il conte non gli avesse fatto salire il sangue al cervello, mio
    padre non sarebbe morto. Dio, che sa tutto, farà un giorno
    giustizia! - mormorò Bianca.
    
    Quelle scene si rinnovarono spesso, alterando sempre più la salute
    della contessa, accrescendo la passione morbosa di Livio.
    
    A Milia sembrava che, continuando in tal modo, un giorno o l'altro
    sarebbe avvenuta una lotta spaventosa.
    
    Pure vi fu un momento che quella situazione parve cambiata.
    
    Bianca non usciva più in escandescenze, e dinanzi al conte rimaneva
    calma e fredda come una morta.
    
    Così erano giunti al giorno dell'arrivo di Fabio e delle confidenze
    strazianti fatte dal conte al giovane prima d'introdurlo
    nell'appartamento della contessa.
    
    III.
    
    Bianca stava nella poltrona, presso la finestra aperta.
    
    Milia, fedele guardiana, lavorava all'uncinetto, a pochi passi da
    lei.
    
    Il rumore dell'uscio che si apriva fece volgere la donna; la
    contessa non si mosse.
    
    Livio, seguito da Fabio, le si avvicinò, e poichè la giovane non si
    muoveva, il conte la chiamò.
    
    - Bianca! -
    
    Ella si rivolse, e scorgendo uno sconosciuto in compagnia di suo
    marito, si mise a tremare come una foglia scossa dal vento.
    
    - Siete venuti ad uccidermi!... - balbettò.
    
    - No, Bianca, ritorna in te; - rispose dolcemente il conte - tu sai
    quanto la tua vita mi sia preziosa, quanto ti ami, nonostante
    l'atroce supplizio che mi fai subire ogni giorno. Io sono venuto per
    presentarti il cameriere fidato che d'ora innanzi aiuterà Milia
    nelle cure che ti sono necessarie. È un uomo di cuore, al quale
    potrai confidarti. -
    
    Bianca guardò Fabio, che provò un brivido.
    
    - Lo riconosco: - disse poi con voce singolare - l'ho veduto spesso
    nei miei sogni; ora me lo mettete al fianco per sbarazzarvi di me,
    come di Giulietta. -
    
    Fabio barcollò come colpito al petto: il conte divenne livido.
    
    - Non badarle, Martino: - disse con la solita dolcezza - ella non sa
    quel che dice. -
    
    La contessa chinò la testa sul petto, e socchiuse gli occhi.
    
    Un'ombra passò sul volto di Livio, poi i suoi occhi si inumidirono e
    fuggì quasi correndo nelle sue stanze.
    
    Fabio lo seguì.
    
    Il conte si era gettato su di una poltrona.
    
    - L'hai veduta? L'hai sentita? E credi che io possa resistere a
    lungo a tale supplizio? -
    
    La fisonomia di Fabio si era fatta grave.
    
    - Permettete, conte, che io vi dia un consiglio? Ebbene: dovreste
    vedere vostra moglie il meno che sia possibile, recarvi a Torino,
    distrarvi, o non presentarvi a lei se ella non vi fa chiamare.
    Vedrete che a poco a poco essa guarirà e tornerà ad amarvi. -
    
    Il conte ebbe un sorriso amaro.
    
    - Sai che bisognerebbe fare per guarirla? Ricondurle il suo amante.
    -
    
    Fabio impallidì.
    
    - Non lo credo, conte; - interruppe - non torturatevi l'animo con
    queste fantasie. La contessa non può avere un così vile pensiero. E
    poi, siete sicuro che colui sia stato suo amante?
    
    - Se lo sono? Tieni, leggi! -
    
    Ed il conte trasse dal portafogli una lettera che porse a Fabio.
    
    Egli la prese con mano tremante e lesse:
    
    «Mia adorata!
    
    «Quale giornata, quella di sabato! Non posso dimenticarla. Solo con
    te, colla tua testina appoggiata alla mia spalla, le mani nelle mie!
    Io avrei voluto morire così!
    
    «Cerco di studiare, ma ho la febbre e mi alzo ad ogni istante, non
    riuscendo a dominare la mia agitazione. Pensare che tu, mia Bianca
    adorata, sei lontana da me, vicina ad un marito che potrebbe far
    valere i suoi diritti, ad un uomo vizioso, infame, indegno di te!
    
    «È una situazione atroce, spaventevole la mia, o piuttosto la
    nostra. Quando finirà? Potremo strappare dal volto di quell'uomo la
    maschera d'ipocrisia che nasconde l'uomo senza vergogna ed indurlo a
    punirsi da sé stesso? Tuo padre l'ha promesso ed io ho fede in lui.
    
    «Quando ti rivedrò? Manda Celia ad avvertirmi; la vita mi è
    insopportabile senza un tuo sorriso, un tuo bacio. La nostra Gina ci
    aspetta. Io conto i giorni, le ore, i minuti che ci separano.
    Scrivimi. Ti amo! Ti amo!
    
    «Aldo.»
    
    Fabio fremeva, e quando rese la lettera al conte, il suo volto
    esprimeva un vero strazio.
    
    - E voi amate sempre vostra moglie?
    
    - Sì, l'amo.... ed è questo il mio torto.
    
    - Voi siete buono, generoso come un Dio e la vostra bontà avrà un
    giorno la ricompensa. Vostra moglie riconoscerà i suoi torti, si
    pentirà, e voi la riavrete purificata nelle vostre braccia.
    
    - Se tu dicessi il vero! Intanto farò quello che mi consigli, ed
    oggi stesso mi recherò a Torino, Perché adesso ho qui te e posso
    fidarmi. Nessun estraneo, sia uomo o donna, deve essere introdotto
    presso la contessa, nessuna lettera deve esserle consegnata.
    
    - Potate essere sicuro che ogni vostro ordine verrà eseguito a
    puntino.
    
    - Quando il dispensiere porterà i cibi per la contessa, li
    consegnerà a te, che a tua volta li passerai a Milia, e se questa
    scenderà per rifocillarsi o fare un giro nel parco, tu la supplirai
    presso mia moglie. -
    
    Il conte partì lo stesso giorno, senza avvertire altri, sicuro di
    Fabio come di sé stesso. Infatti Livio non poteva lasciare una
    persona più fidata nella villa.
    
    Fabio pranzò alla tavola dei domestici, accaparrandosi subito la
    simpatia di tutti per i suoi modi gentili, la bontà che traspariva
    dal suo sguardo, dalle sue parole.
    
    Quando Fabio risalì, passò nelle stanze della contessa, Perché Milia
    a sua volta potesse scendere, svagarsi un poco. Alla vedova era pure
    piaciuto il nuovo cameriere Martino, e capì che sarebbero andati
    perfettamente d'accordo.
    
    Quando Fabio aprì la porta del salottino della contessa, Bianca non
    fece il minimo movimento: continuò a guardare fissamente nel
    giardino. Egli sedette presso un tavolinetto da lavoro.
    
    A un tratto Bianca si rivolse, fece un gesto spaventato, e con voce
    rotta dall'angoscia:
    
    - Siete venuto ad uccidermi? - balbettò. - Egli è partito come
    l'altra volta per lasciarvi libero d'agire? -
    
    Fabio scosse dolcemente la testa.
    
    - State tranquilla, signora; - rispose - io non sono qui per farvi
    male e v'ingannate sul mio conto. Io mi chiamo Martino e sono un
    povero servo, devoto a voi ed al conte, pronto a dare la mia vita
    per rendervi la felicità.
    
    - Voi mentite! - esclamò Bianca. - Vi riconosco, sapete: siete
    l'assassino di Giulietta, l'uomo amato dalla povera Ilda, lo
    strumento cieco di mio marito! Quale malìa ha adoperato Livio per
    indurvi a commettere un delitto, per farvi sopportare lunghi anni di
    prigionia, per convincervi delle colpe di tanti innocenti?
    
    - Innocenti? Sì, voi pure avete l'apparenza dell'innocenza, e
    innocente vi crederei se non avessi letto la lettera del vostro
    amante! -
    
    Bianca aveva alzato il capo con un moto pieno di nobiltà ed
    alterezza: sembrava trasfigurata.
    
    - Del mio amante? - ripetè. - Che Dio vi perdoni questa parola, che
    per voi ed il conte ha un significato vergognoso, giacché non
    intendete l'amore se non accompagnato dal delirio dei sensi! -
    
    Fabio arrossì come un fanciullo.
    
    - Sbagliate, signora contessa! Voi chiamate puro un amore come il
    vostro, che permette ad un uomo di parlarvi di baci?
    
    - Sì, quelle lettere mi accusano, accusano Aldo; eppure, se vi fu
    uomo che abbia saputo rispettare una donna, fu lui; se vi fu donna
    che, calpestata, avvilita dal marito, abbia saputo portar alta la
    fronte, sono stata io! E con tutto ciò siamo i puniti, mentre il
    vero colpevole trionfa! Non lo nego: amo Aldo e ne sono amata, ma il
    nostro amore è al di sopra di tutte le iniquità umane e si libra
    presso all'altare di Dio. Può il nostro carnefice torturarci,
    coprirci d'infamia, dividerci: le nostre anime saranno sempre unite,
    i nostri cuori vicini, e la fiamma arderà sempre più sfolgorante,
    quanto più cercheranno di spengerla con atroci patimenti. Ripetete
    pure tutto questo al conte.
    
    - Non sono qui per fare la spia, signora contessa, ma saprò
    dimostrarvi come accusiate a torto vostro marito.
    
    - Sarebbe inutile; - interruppe Bianca col petto ansante, guardando
    con compassione il volto pallido ma soave di Fabio - voi non mi
    convincereste, come io non riuscirei a convincere voi, povera
    vittima delle vostre illusioni!
    
    - La sola, la vera vittima è vostro marito.
    
    - Lui? - proruppe con veemenza Bianca.
    
    Ma rimettendosi subito:
    
    - Già, che importa spiegarvi? - soggiunse. - Egli ve l'ha detto:
    sono una povera pazza. Infatti, ho la testa ed il cuore straziati,
    sconvolti, e voi non potete né dovete prestarmi fede, sebbene
    abbiate creduto a tutte le infamie che il conte ha inventate sulla
    sventurata Ilda. -
    
    Fabio sussultò.
    
    - Non mi parlate di colei! - proruppe con violenza. - Come potete
    chiamarla sventurata? -
    
    Un sorriso ironico sfiorò le labbra di Bianca.
    
    - La conoscete? - disse con strano accento. - Voi, il servo Martino,
    entrato ieri al servizio del conte? -
    
    Fabio arrossì, tremò: si era tradito senza volerlo.
    
    - Non badate a me; - soggiunse Bianca - non so nulla, sono una
    povera pazza! -
    
    Così dicendo incrociò le braccia sul petto, chinò il capo e riprese
    quella calma apparente, che al conte faceva più paura della collera.
    
    IV.
    
    Quando Guglielmo e Severina seppero dell'accusa contro Aldo, della
    sua entrata in prigione, credettero d'impazzire dal dolore.
    
    Una sera, al momento di coricarsi, i coniugi Rivalta sentirono
    bussare alla porta di strada.
    
    Era una signora alta, velata, avvolta in un mantello.
    
    - Chi cerca, signora? - disse Guglielmo che era andato ad aprire.
    
    - Cerco di lei, signor Rivalta: sono mandata da Aldo Pomigliano.
    
    - Entri, entri, la prego! -
    
    L'introdusse nella saletta, accese la lampada, e attraverso il velo
    che copriva il volto della signora scòrse delle sembianze
    giovanissime, leggiadre.
    
    Severina, sentendo una voce di donna, era frettolosamente scesa.
    Guglielmo le disse vivamente:
    
    - La signora viene da parte di tuo fratello.
    
    - Davvero? - proruppe Severina avvicinandosi alla sconosciuta. -
    L'ha veduto? Gli ha parlato?
    
    - No, signora; ma sono portatrice di una sua lettera, consegnatami
    dal cavaliere Umberto Trani. Eccola.
    
    - Leggila subito, Guglielmo! - esclamò la signora Rivalta. - E lei
    si accomodi, signora! -
    
    Le indicò il divano, poi corse vicino al marito per leggere, dietro
    le spalle di lui, la lettera del fratello. Aldo scriveva:
    
    «Caro Guglielmo,
    
    «Questa lettera ha due scopi: presentarti la giovane che te la
    consegnerà, rassicurarti sulla mia sorte e pregarti di rassicurare
    Severina. Mi trovo in prigione sotto un'orribile accusa in cui venne
    coinvolta anche la latrice della presente: ella, mercè l'opera di
    persona influente, è riuscita a fuggire ed è assolutamente
    necessario che tu la nasconda, la sottragga a tutte le ricerche che
    si faranno di lei. È la signorina Ilda Corato.»
    
    Guglielmo e Severina interruppero la lettura, guardando sbalorditi
    la giovane, che intanto si era sollevata il velo e fissava su di
    essi i suoi sguardi ammaliatori.
    
    - Ma non è lei - disse la signora Rivalta non potendo contenersi -
    che, come annunziavano i giornali, accusò mio fratello di aver
    tentato di strangolarla e di averla derubata? -
    
    Ilda doveva essere d'accordo con Aldo e con Umberto Trani, Perché
    rispose:
    
    - I giornali hanno riportato il falso: io accusai il vero autore del
    tentato assassinio e del furto, ma non vollero credermi Perché in
    quella notte Aldo era presso di me e gli trovarono nel soprabito i
    gioielli, che il vero ladro vi aveva posti. Il giudice istruttore,
    incaricato dell'inchiesta, disse che era tutta una commedia
    preparata da me e da suo fratello per perdere l'altro.
    
    - E non avete potuto dimostrare in alcun modo la vostra innocenza?
    
    - No, Perché tutte le prove erano contro noi. Ma lasciate che vi
    racconti tutto.
    
    - Prima terminiamo la lettera di Aldo! - osservò Severina.
    
    - Essa non è che il riassunto di quanto io debbo dirvi, - soggiunse
    Ilda.
    
    - Se è così, potremo leggerla anche dopo, - disse Guglielmo - e se
    la signorina non è stanca e vuol raccontare....
    
    - Dirò tutto. Il signor Aldo era già in prigione quando fu spiccato
    il mandato di cattura anche per me. Ora dovete sapere che fra il
    cavalier Meralta, magistrato che deve istruire questo processo, ed
    il cavalier Umberto Trani, che voi conoscete, esiste un sordo
    rancore, Perché il Trani aveva chiesto di fare l'inchiesta, e non
    solo venne escluso per i suoi rapporti d'amicizia col signor Moreno
    o come frequentatore della mia casa, ma lo accusarono di aver
    sottratto altra volta alla giustizia la contessa Rossano per
    favorire la gentildonna ed Aldo, nascondendo i loro rapporti al
    conte per odio contro lui.
    
    «Il Trani avrebbe potuto facilmente scolparsi di tali accuse; ma non
    lo fece per suoi motivi particolari e si limitò a dire che il tempo
    avrebbe dimostrato dove era la verità e dove la menzogna. Egli è
    convinto delle colpe del conte ed ha giurato di smascherarlo e di
    abbassare l'alterigia del suo collega, che momentaneamente trionfa.
    Il Trani si è dedicato interamente a questo scopo e dice che
    riuscirà. Intanto, per mezzo di un agente segreto, che gli è
    fidatissimo, ha potuto tenere corrispondenza con Aldo, al quale ha
    dato tutte le sue istruzioni. Così ha avuto questa lettera per voi
    ed ha potuto avvertirmi in tempo del mandato di cattura ed inviarmi
    qui, come il luogo, per ora, più sicuro per me.
    
    «Ho lasciato i miei bagagli in stazione ed in un baule tengo un
    travestimento completo da contadina della valle di Susa. Io so
    parlare il dialetto di quella vallata. Voi figurerete di avermi
    conosciuta a Susa, in una famiglia presso cui ero come serva. Direte
    che quei signori, recandosi fuori d'Italia, mi hanno raccomandata a
    voi, finchè non abbia trovato un altro servizio. Con questo
    travestimento potrò anche andare e tornare da Torino senza che
    nessuno badi a me. Il mio scopo, secondo l'istruzione di Aldo, è di
    avvicinarmi alla contessa Bianca, di poterle parlare, dirle che il
    signor Pomigliano le raccomanda di essere tranquilla, che il suo
    pensiero sarà sempre vicino a lei; ho pure un biglietto da
    consegnare alla contessa.
    
    - Però il mio povero fratello verrà condannato! - interruppe
    commossa Severina.
    
    - Temo di sì, - rispose schiettamente Ilda - Perché hanno troppo
    interesse di toglierlo di mezzo. Ma Aldo vi prega di non tentare
    alcun passo per sottrarlo alla sua sorte; dice che subirà la
    condanna senza ribellione, certo di avere un momento o l'altro una
    rivincita. Egli pensa più a Bianca che a sé: teme solo per lei. -
    
    Severina piangeva.
    
    - È un'anima nobile e grande, e un giorno trionferà per certo con la
    sua innocenza! - soggiunse Ilda.
    
    La giovane aveva ripreso tutta la sua energia di un tempo, e le sue
    parole finirono col consolare i coniugi Rivalta.
    
    Ilda fu alloggiata nella stanza dei forestieri, ma per due giorni né
    Gina, né la servetta di casa la videro. Il terzo giorno comparve nei
    suoi abiti di montanara, che la rendevano irriconoscibile.
    
    Gina fece subito amicizia con lei.
    
    Di lì a due giorni, Ilda seppe della morte del signor Moreno, e
    molto se ne afflisse. Per saperne la causa, volle andare a Torino e
    si recò direttamente a casa del Trani.
    
    Il magistrato stava per mettersi a tavola colla moglie ed i figli,
    quando gli fu annunziato che una giovane montanara chiedeva di
    essere ricevuta da lui avendo urgente bisogno di parlargli.
    
    Un po' sorpreso, Umberto diede ordine che fosse introdotta nel suo
    studio.
    
    - Che desiderate da me? - le chiese entrando.
    
    - Ospitalità per qualche giorno, - rispose Ilda.
    
    Al suono di quella voce, Umberto guardò la montanara, sbalordito.
    
    - Voi? Voi? - disse, stendendole la mano.
    
    Ilda raccontò perché era venuta a Torino: le lacrime offuscarono i
    suoi occhi ricordando il signor Moreno e Bianca.
    
    Anche il signor Trani era molto commosso.
    
    - Quella morte ha recato a me pure una grande impressione! - disse.
    - Il signor Moreno ha avuto il colpo mentre si trovava nel proprio
    salotto solo col genero. Un domestico asserisce di aver sentito il
    povero signore gridare: «È un'infamia, un'infamia!»
    
    - E la contessa Bianca?
    
    - Vi parlerò più tardi di lei; adesso, senza complimenti, venite a
    pranzo con me, altrimenti la minestra si fredda.
    
    - Che dirà la vostra signora, vedendomi?
    
    - Mia moglie è la mia vera metà, a parte di tutti i miei segreti, e
    potete stare tranquilla sulla sua accoglienza; seguitemi. -
    
    Il magistrato condusse Ilda nella sala da pranzo, ed ammiccando alla
    moglie, che guardava stupita la bella e giovane montanara, disse a
    voce alta:
    
    - Guarda chi ti conduco, Norina! È la figlia del nostro fittavolo di
    Susa, che tu non conosci ancora; è venuta a Torino per una cura,
    giacché è anemica; suo padre me la raccomanda. Resterà qui con noi.
    
    - Sì, sì! - rispose sorridendo la buona moglie del cavalier Trani. -
    Sedete, bella ragazza, e ditemi come vi chiamate.
    
    - Catì.
    
    - Ebbene, Catì, state di buon umore e consideratevi come a casa
    vostra. -
    
    Diede ordine perché fosse portata un'altra posata, incoraggiò la
    giovane a mangiare, e durante il pranzo non parlarono che di cose
    indifferenti.
    
    I figli del magistrato non si mostrarono affatto curiosi. Finito il
    pranzo i fanciulli si recarono a passeggiare ed il Trani colla
    signora ed Ilda si ritrassero in un altro salotto. Questa volta
    Umberto presentò Ilda alla moglie e raccontò il vero motivo per cui
    era venuta a Torino.
    
    - La contessa Bianca - disse poi il magistrato alla sua ospite - è
    malata: i medici dicono che il dolore le ha alterata la ragione. Il
    conte si mostra premuroso con lei, forse Perché, non essendosi
    trovato il testamento, egli sa ormai che le ricchezze del signor
    Moreno vanno tutte di diritto a sua figlia. Il mio agente segreto è
    incaricato di riferirmi tutto quello che succede al palazzo: egli ha
    trovato una furba ausiliaria in una cameriera. Intanto debbo dirvi
    che Celia è arrestata.
    
    - Arrestata? Perché? - chiese con angoscia Ilda.
    
    - Perché si dice che facesse come voi parte della trama per
    sopprimere il conte.
    
    - Mi pento di non averlo fatto! - mormorò la giovane. - Era meglio
    che l'avessi ucciso, quel furfante! -
    
    Umberto scosse il capo.
    
    - Avreste fatto male, - disse - perché la sua morte non portava
    alcun vantaggio agli innocenti. No, no! Noi dobbiamo giungere ad
    accerchiarlo in modo che egli confessi le sue colpe. Ci riusciremo,
    sebbene la cosa non possa avvenire molto presto. Da chi però non
    abbiamo nulla da sperare, è da Fabio.
    
    - Se io gli scrivessi, gli raccontassi come sia stato vittima del
    conte? - osservò Ilda. - Ma in qual modo fargli pervenire la
    lettera?
    
    - Di questo m'incarico io, sebbene non abbia alcuna fiducia che egli
    si risolva a tradire il conte. Un uomo che diventa assassino per un
    altro, deve essere avvinto a quest'altro da tali obblighi, da tali
    segreti, che riuscirà difficile scoprire. Perché la semplice
    gratitudine non basta a spingere un essere a tal punto di devozione.
    Ho già preparato un'inchiesta a tal uopo: risalirò fino alla nascita
    di Fabio, troverò qualche vecchio servo della casa Rossano che
    serviva al tempo dei coniugi Ribera. Quando avrò in mano il bandolo
    di quella matassa, potrò dire di essere quasi in porto. -
    
    Ilda preparò la lettera, che fece leggere al magistrato, il quale la
    ritoccò in diversi punti, e, ricopiata, la tenne per farla pervenire
    al prigioniero.
    
    Intanto ogni giorno si aveva nuove della contessa Bianca, che su per
    giù erano le stesse; poi si seppe che il conte, licenziata tutta la
    servitù, aveva già dato gli ordini per la sua partenza con la
    moglie, con la quale diceva di essersi riconciliato.
    
    - Io non lo credo! - disse Ilda. - Il conte prepara qualche tranello
    per la contessa.
    
    - Egli è troppo furbo per compromettersi ora che tutto gli va a
    seconda! - osservò il magistrato. - Forse la contessa, stanca di
    lottare, ha finito col sottomettersi.
    
    - Sono persuasa che morirebbe prima di cedere! - interruppe Ilda. -
    Temo piuttosto che, fra tante scosse, abbia smarrita la ragione.
    
    - Io saprò quello che le succede, - soggiunse Umberto. - Bisogna
    però che agisca con gran prudenza per non suscitare dei sospetti nel
    conte. -
    
    Intanto fu informato che Livio era partito colla moglie per Napoli e
    di lì si sarebbe imbarcato per la Sicilia.
    
    Pochi giorni dopo il magistrato, tornando a casa, consegnò ad Ilda
    una busta, dicendole:
    
    - Non vi avevo avvertita che con Fabio a nulla saremmo riusciti?
    Giudicatene da quello che troverete qui dentro. -
    
    Ilda lesse il biglietto del prigioniero, che le scriveva,
    rimandandole la sua lettera senza averla aperta:
    
    «È inutile, signorina, che v'incomodiate a spedirmi lettere: esse
    non m'interessano affatto, e vi dareste una pena inutile, Perché vi
    sarebbero rimandate come questa. Potevo perdonare l'infedeltà, mi
    sarei rassegnato alla perdita del vostro amore ritenendola una
    giusta punizione al mio delitto: non vi perdono i bassi intrighi per
    perdere il mio benefattore, né mi rassegno di saperlo vilipeso da
    voi, che conoscevate i suoi rapporti con me, la bontà del suo animo,
    la generosità del suo cuore. Io non vi conosco più: l'Ilda di un
    tempo è morta: per me adesso siete un'estranea, una indifferente.
    
    «Fabio.»
    
    Il cavalier Trani, che osservava Ilda mentre leggeva, fu molto
    commosso dalla disperazione che sconvolgeva il suo bel viso.
    
    - Non me l'aspettavo! - esclamò l'infelice lasciando cadere il
    biglietto che il magistrato raccolse.
    
    Questi cacciò un grido di stupore ed esclamò:
    
    - È insensato come non ci abbia pensato subito! -
    
    La giovane rialzò il capo chiedendo:
    
    - A che cosa?
    
    - Questo biglietto è stato scritto proprio da Fabio, non è vero? Ne
    riconoscereste la calligrafia?
    
    - Perfettamente.
    
    - Aspettate un momento, - disse il Trani, agitato.
    
    Lasciò Ilda sola, ma non tardò a ritornare portando un pacchetto,
    dal quale trasse una lettera che svolse e confrontò col biglietto.
    
    - Ed io, stupido, che trascurai la cosa più importante! - disse
    bruscamente il magistrato. - Guardate, Ilda: vi sembra questa la
    calligrafia di Fabio?
    
    - Questa è la calligrafia del conte.
    
    - Ne siete sicura?
    
    - Sì, perché ho delle lettere scritte da lui.
    
    - E firmate col suo nome?
    
    - Certo.
    
    - Queste invece sono firmate «Fabio Ribera» e dirette alla povera
    Giulietta Lovera.
    
    - Ma dunque, non c'è alcun dubbio: - gridò Ilda - fu lui il
    seduttore, e fu lui che spinse Fabio ad assassinare quella
    sventurata!
    
    - Non solo, - interruppe il magistrato - ma Fabio riconobbe quelle
    lettere per sue, ragione per cui io non mi curai più di indagare.
    Vedete bene che un segreto grave esiste fra quei due uomini, di cui
    l'uno tutto sacrifica per l'altro. Ma da Fabio non lo sapremo mai,
    ve lo ripeto, perciò bisogna cercare un'altra via per giungere alla
    scoperta della verità. E voi mi aiuterete.
    
    - Con tutte le mie forze, dovessi rimetterci la pelle. - Nessuno,
    all'infuori della moglie del magistrato, seppe delle minuziose
    indagini fatte da Umberto Trani, assistito da Ilda, nel passato del
    conte e di Fabio.
    
    Intanto non trascuravano Bianca, Gina ed Aldo. Questi, durante il
    processo, pure protestandosi innocente non tentò di difendersi, per
    salvare l'onore di Bianca. Che gli importava la propria condanna, il
    proprio disonore, purchè Bianca non avesse a soffrire per cagion
    sua? Egli era sicuro dell'amore di lei: il Trani gli aveva promesso
    di vegliare sulla contessa: che il proprio destino, dunque, si
    compisse!
    
    Scontata la sua condanna, Aldo era scomparso da Torino, e così Ilda
    ed i coniugi Rivalta, Gina e Celia avevano lasciato Ivrea. Nessuno
    sapeva dove fossero andati: qualcuno sussurrò che si erano imbarcati
    per l'America.
    
    Umberto Trani era a parte di quel segreto: egli solo avrebbe potuto
    dire dove si trovavano, ma si sarebbe ben guardato dal parlarne.
    
    Cercava che tutti dimenticassero, non pensassero più a quella storia
    d'intrighi, d'infamie, per poter agire.
    
    V.
    
    Livio si era recato a Torino per svagarsi, sicuro ormai che Bianca
    sarebbe scrupolosamente sorvegliata.
    
    Sotto i portici di piazza Castello, egli s'imbattè nel marchese
    Passiflora.
    
    Il gentiluomo conservava la sua fisonomia beffarda.
    
    - Chi non muore si rivede! - disse andando incontro al conte. - Sei
    proprio tu.... o la tua ombra?
    
    Il conte sorrise, e ricambiando la stretta dell'uomo dal quale si
    sentiva odiato e che detestava del pari, rispose quasi gaiamente:
    
    - Sono proprio io. Mi trovi molto cambiato? Ho avuto tanti guai!
    Basta, ora sono tranquillo ed ho fiducia nell'avvenire!
    
    - Meriti davvero un po' di felicità! Sei tornato a Torino colla
    contessa? -
    
    Livio scosse il capo.
    
    - Essa non vuole abbandonare la campagna, ed io non la dissuado,
    Perché la poveretta ha bisogno di solitudine. -
    
    I due uomini avevano preso a camminare.
    
    - Sento - disse il marchese - che sei diventato un marito modello;
    ed è tanto più meritevole da parte tua, avvezzo ai tripudi e col
    patrimonio che adesso possiedi. Perché deve aver lasciato un bel
    patrimonio, il vecchio Moreno!
    
    - Un altro paio di milioncini, dei quali mia moglie vuole che io sia
    il solo amministratore.
    
    - Capperi! La contessa non ha più alcuna prevenzione contro te,
    nonostante le tue scappatelle! Mi rallegro! A proposito, non
    lascerai così presto Torino, e vorrai stasera venire a pranzo da me.
    Troverai delle tue conoscenze; si farà una partita alle carte.
    
    - A casa tua? Ma non pranzavi al circolo e non vi passavi sovente
    anche la notte?
    
    - È vero, Perché mi trovavo solo. Ora, ho una compagna. Vedrai,
    vedrai.... Voglio lasciarti il piacere della sorpresa.... Vieni alle
    sette. Ti accomoda?
    
    - Perfettamente. -
    
    Alle sette in punto il conte entrò nel salone del marchese, dove era
    già riunita numerosa compagnia.
    
    Il marchese Passiflora gli andò incontro.
    
    - Ti ringrazio di non aver mancato! - disse. - Non si aspettava che
    te!
    
    - Mi dispiace d'avervi fatto attendere! -
    
    Strinse la mano al marchese, poi salutò tutti, lieto di ritrovare
    antichi compagni che si affrettarono a festeggiarlo.
    
    - Credevamo che tu fossi sparito dal mondo! - gli dicevano senza
    dissimulare un sorriso pieno di sottintesi.
    
    - Non è stata colpa mia. Il lutto, la malattia della contessa....
    
    - Come sta adesso? - chiesero alcuni con premura.
    
    - Assai meglio, ma non si risolve a lasciare la sua solitudine.
    
    - Permettete che mi congratuli con voi per la guarigione della
    contessa! - disse una voce alle sue spalle.
    
    Il conte si volse trasalendo e si trovò a faccia a faccia con
    Umberto Trani.
    
    - Grazie, cavaliere, per la vostra squisita gentilezza, - disse
    Livio con un sorriso oltremodo amabile. - Sì, la mia Bianca si è
    quasi completamente rimessa delle scosse subite. -
    
    Frattanto Livio gli stendeva la mano.
    
    Ma il magistrato non fu in tempo a stringerla, perché alla volta del
    conte tornava Passiflora, tenendo al braccio una donna.
    
    Livio indietreggiò.
    
    La compagna di Passiflora era Cinzia.
    
    Ella sorrise al conte, senza mostrare la minima commozione.
    
    Era più pallida del solito, ma conservava quegli occhi strani,
    incantatori, il sorriso voluttuoso, le movenze serpentine.
    
    - Finalmente, - esclamò, porgendo la mano a Livio - ecco un
    risuscitato! Non volevo credere a Passiflora quando venne a dirmi
    che eravate dei nostri.... Ne sono proprio contenta, Perché ero
    persuasa di non rivedervi più!
    
    - Io invece pensavo che vi avrei ritrovata presto o tardi, - rispose
    galantemente il conte - e sono tanto più lieto di rivedervi felice.
    
    - Oh! sì, lo sono! - mormorò Cinzia volgendo uno sguardo languido al
    marchese, che arrossì di piacere, mentre gli amici non nascondevano
    un maligno sorriso.
    
    - Signori, a tavola! - gridò la voce di un domestico.
    
    I commensali erano quattordici, fra cui cinque donne.
    
    Cinzia sedette in capo tavola, avendo alla sua destra il conte
    Livio, a sinistra il Trani, di faccia il marchese. Nessuno faceva le
    maraviglie di vedere in quella casa il magistrato, sapendolo amico
    di Passiflora ed amantissimo, almeno in apparenza, della società.
    
    Il pranzo era squisito, i vini scelti.
    
    Livio aveva ripreso il suo spirito, la sua gaiezza di un tempo.
    Riempiva ad ogni momento il bicchiere, che vuotava di un fiato;
    premeva dolcemente sotto la tavola il piede di Cinzia, raccontava
    aneddoti a bizzeffe, come se volesse ad ogni costo divertire gli
    altri.
    
    - È vero - gli chiese il Trani - che avete preso in affitto la villa
    Stenner?
    
    - È verissimo. A mia moglie piacque per la posizione.
    
    - Forse la contessa non sa come il precedente proprietario, il
    banchiere Stenner, fosse ivi assassinato! -
    
    Un mormorio corse lungo la tavola.
    
    - Siete in inganno, cavaliere; - soggiunse il conte -  lo
    Stenner si tolse da sé la vita, non potendo sopportare i tormenti di
    una malattia che da diversi anni l'affliggeva.
    
    - Se così vi hanno detto, è perché i parenti del morto facevano
    correre questa voce, onde sbarazzarsi di una tenuta che altrimenti
    non avrebbero trovato da vendere o da affittare. Ma io so benissimo
    come sono andate le cose.
    
    - Raccontate, raccontate! - esclamarono ad una voce i commensali.
    
    - Lo farei di buon grado, ma temo d'impressionare troppo l'odierno
    possessore della villa. -
    
    Il conte scoppiò in una risata.
    
    - Raccontate pure, non ho certo alcun timore. La villa è cintata e
    custodita, ed alla notte si sguinzaglia due mastini, coi quali
    nessuno vorrebbe far conoscenza.
    
    - Il banchiere Stenner non era meno prudente di voi. Egli era
    scapolo, ed io lo conobbi una sera in casa del prefetto. Era un
    bell'uomo, alto, asciutto, di apparenza fredda. Egli teneva casa in
    Torino, ma passava la più gran parte dell'anno nella sua villa. Si
    diceva che avesse una singolare passione per la cultura dei
    giardini, che amasse la solitudine della campagna. Teneva dei
    domestici che sembravano giganti, dei cani che intimorivano al solo
    guardarli.
    
    «Una mattina, uno dei domestici trovò sul ciglio di un fosso il
    cadavere di Stenner. Una palla in fronte l'aveva fulminato. Tutti
    accorsero sul luogo, vennero i carabinieri da Moncalieri, le
    autorità da Torino, i medici, fu telegrafato ai parenti e si sparse
    la voce che il banchiere si era suicidato.
    
    «Ma nessuno rinvenne la pistola colla quale si era tirato il colpo,
    nessuno sapeva capacitarsi come un uomo ricco a milioni potesse
    finire i suoi giorni in tal guisa: io solo scopersi la verità, ma
    era inutile ormai propalarla.
    
    - Perché? - chiese Cinzia sorridendo. - Era vostro dovere illuminare
    la giustizia.
    
    - Giustizia era già stata fatta del colpevole! - rispose in tono
    grave Umberto. - Il banchiere Stenner, benchè avesse un'apparenza
    piuttosto austera, era il più consumato dei libertini. Per lui nulla
    vi era di sacro: egli non rispettava né le mogli, né le figlie dei
    suoi dipendenti, e nessuna osava fiatare perché tutte lo temevano ed
    avevano timore di far perdere ai padri, ai mariti il loro posto.
    
    «Fra le sue vittime vi era la figlia di un'onesta vedova, che di
    nulla sospettava.
    
    «Jetta era una ragazza sedicenne, bella e pura come gli angeli. Per
    certo egli dovette usare delle pazienti astuzie per averla in suo
    possesso: come vi riuscisse, è un segreto; ma il fatto sta che un
    bel giorno l'attirò nel parco, e quando l'infelice ne uscì era
    disonorata. Di poi, licenziò dal suo servizio la ragazza e la madre
    di lei.
    
    «Jetta non ebbe il coraggio di rivelare subito la verità alla mamma.
    Peraltro, cominciò a deperire, e tre mesi dopo era in agonia. Solo
    prima di chiudere gli occhi Jetta disse tutto a sua madre.
    
    «La povera donna, baciato il cadavere della figlia, le sussurrò agli
    orecchi alcune parole che la morta sola sentì: «Riposa in pace, e
    sarai vendicata!»
    
    «Pochi giorni dopo il conte fu trovato nel parco con una palla nella
    testa.
    
    - Bisognava farlo soffrire di più! - urlò Cinzia.
    
    - È vero! - aggiunsero gli altri.
    
    - Che volete, - soggiunse il magistrato - certe vendette raffinate
    non sono conosciute nella classe alla quale apparteneva la povera
    madre.
    
    - Ma voi, come sapeste questa storia, che mi pare un po' assurda? -
    chiese Livio.
    
    - La seppi dalla bocca stessa dell'infelice madre.
    
    - E non la denunziaste?
    
    - L'avreste fatto voi?
    
    - Sì, perché in fondo quella donna era un'assassina!
    
    - E qual nome dareste all'assassinato? -
    
    Il conte alzò con noncuranza le spalle.
    
    - Quando un uomo - soggiunse il magistrato - abusando
    dell'innocenza, della fiducia d'una giovinetta, le ruba l'onore, se
    la vittima o chi per essa fa giustizia del don Giovanni, è nel suo
    diritto. No, non denunziai quella madre.... e la coscienza non mi
    rimprovera: feci il mio dovere.
    
    - Bravo, benissimo.... - gridarono tutte le donne.
    
    Passiflora, per tagliar corto alle discussioni che potevano sorgere,
    colmò il bicchiere di sciampagna, e, sollevandolo, disse gaiamente:
    
    - Alla salute di tutte queste belle! -
    
    Finito il pranzo, i commensali passarono in un'altra sala, dove
    erano preparati i liquori, il caffè, i sigari.
    
    Due porte di questa sala erano spalancate: una metteva nella stanza
    da giuoco, l'altra in una galleria a fiori.
    
    Alcune coppie si erano già avviate in quella galleria, ed il conte
    invitò Cinzia ad imitarle; ma in quel momento Passiflora si avvicinò
    dicendogli:
    
    - Aspettiamo te per fare una partita.
    
    - Un momento; vengo. -
    
    E mentre il marchese si allontanava per parlare con un altro, Livio
    disse rapidamente a Cinzia:
    
    - Bisogna che ti parli.
    
    - Anch'io, - rispose ella con voce oppressa.
    
    - Vieni al Trombetta. Ti attenderò tutta la mattina.
    
    - Alle nove ci sarò. -
    
    Cinzia si diresse verso il Trani, che entrava nella galleria.
    
    Livio si recò nella sala da giuoco.
    
    Alle due di notte, quando si ritirò, aveva perduto ventimila lire,
    ma poco glie ne importava.
    
    Al conte ormai non premeva che togliere Cinzia a Passiflora. E
    l'impresa gli pareva facile, Perché la cortigiana doveva amarlo
    ancora, a malgrado del modo poco gentile con cui l'aveva trattata.
    
    Egli era partito da Torino colla moglie senza più rivederla, senza
    dirle dove si sarebbe recato, senza lasciarle del denaro, quantunque
    sapesse che in quel momento Cinzia non si trovava in buone acque. E
    non si era mai più curato di sapere che fosse avvenuto di lei.
    
    Ora, avendola ritrovata con Passiflora, il conte, inasprito dalle
    ripulse della moglie, sentì rinascere con violenza il suo capriccio
    del passato, capriccio accresciuto dal desiderio di prendersi giuoco
    di Passiflora.
    
    Egli non potè dormire: alle sette era già alzato.
    
    Ma erano già passate le nove ed il conte, fremente di impazienza, di
    collera, passeggiava nervosamente per le stanze, quando il cameriere
    venne ad avvertirlo che una signora chiedeva di lui.
    
    Cinzia entrò: vestiva un abito scuro, semplice, elegantissimo.
    
    Il conte le andò incontro, stendendole la mano, dicendo a voce alta:
    
    - Buon giorno, cugina! -
    
    Ma appena il cameriere si fu ritirato, Livio chiuse l'uscio con la
    spranghetta e si volse a Cinzia per abbracciarla.
    
    La cortigiana disse con accento mordace:
    
    - Giù le zampe, mio caro! Non sono venuta qui per subire i tuoi
    amplessi, ma solo per sfogarmi! -
    
    Egli fece un gesto irato.
    
    - Se avevi l'intenzione di farmi una predica, - esclamò - potevi
    risparmiarti la pena di venire!
    
    - Ah! - esclamò Cinzia, che si era seduta sul divano. - Ti farebbe
    comodo, dopo avermi lasciata cinque anni fa, come un cane, senza
    neppur dirmi addio, riprendermi adesso che ti è tornato il capriccio
    e sei qui senza tua moglie! Ma ciò non fa comodo a me, e se sono
    venuta, è per dirti in faccia, da soli a soli, che sei un birbante,
    un mascalzone! Ed io ti amavo al punto di sacrificarti tutto, ed ho
    sempre taciuto sulle tue marachelle, che potevano mandarti
    all'Assise, come quel povero diavolo che vi si recò volontariamente
    per salvarti. -
    
    Il conte era divenuto cadaverico.
    
    - Cinzia, tu vaneggi!
    
    - Sai bene che no! Ma non importa, starò zitta su questo punto,
    Perché mi preme la pelle: volevo soltanto parlarti della tua
    ingratitudine verso me. Mentre tutto ti andava a seconda ed io
    stessa ti aiutavo perché tu riuscissi a trionfare, a schiacciare
    quella Cleo, che mi era rivale, tu pensavi già a sbarazzarti di me.
    
    - Non è vero, Cinzia!
    
    - Non è vero? Te lo provo, Tu sai che in quei giorni io mi trovavo
    in cattivissime acque: il mio protettore se ne era andato e tu mi
    lesinavi il denaro, perché ne avevi bisogno per riuscire a trionfare
    sui tuoi nemici. Però mi lusingavi dicendomi che, ottenuto il tuo
    intento, mi avresti fatto parte dei milioni del suocero, e mi
    avresti serbato una riconoscenza eterna. Parole! I nemici furono
    vinti, il suocero se ne è andato all'altro mondo, i milioni sono
    caduti nelle tue mani, e tu, senza una parola, un addio, fuggi colla
    moglie e ti rivedo dopo cinque anni!...
    
    Il conte aveva cambiato fisonomia.
    
    - Perdonami, Cinzia, perdonami....tu hai ragione; ma io aveva
    perduto la testa....
    
    - Vai a darlo ad intendere ad altri, non a me, che ti conosco....
    Non ti pareva vero di liberarti di me, ricco a milioni, con una
    moglie che tu stesso avevi resa pazza e non ti dava più noia.
    Intanto io sono rimasta con un pugno di mosche in mano e per
    soprappiù mi sono ammalata e sono stata condotta all'ospedale:
    all'ospedale, capisci, dove rimasi cinque mesi, e quando ne uscii,
    non avevo più nulla da vivere, ed ero così debole.... così
    debole.... Basta, non voglio tediarti col racconto delle sofferenze
    da me patite: ti dirò solo che ti maledivo mille volte al giorno e
    ti auguravo ogni male. Alfine, un'anima pietosa s'interessò di me e
    cominciai a star meglio. Ma ero stanca di far la vita della donna
    alla mercè del primo venuto, e volli mettermi a lavorare. La persona
    che si era interessata di me mi diede pure i mezzi per rilevare una
    rivendita di sali e tabacchi. E facevo degli affari. Fra i miei
    avventori era il marchese Passiflora, che s'intratteneva a
    discorrere volentieri con me. Egli mi confidò che era sua intenzione
    prendere in affitto un elegante appartamento, ammobiliarlo
    riccamente per ricevere ogni sera gli amici e le amiche, per
    giocare. Mi propose di entrare in società con lui: accettai. -
    
    Il conte ebbe un sorriso ironico.
    
    - E dividete i proventi della bisca, o ricevete anche i magistrati
    che assistono impassibili allo spoglio dei giocatori?
    
    - Vuoi parlare del cavaliere Trani? Ma egli non è più in servizio:
    già da qualche anno ha dato le sue dimissioni. -
    
    Livio provò un segreto sollievo. Cinzia riprese:
    
    - Io vado perfettamente d'accordo con Passiflora, e, grazie a lui,
    la mia situazione fra poco sarà cambiata, Perché diverrò sua moglie.
    
    - No, tu non lo sposerai! - disse con violenza il conte.
    
    - Perché? Sei tu che ti opponi? È grottesco: dopo avermi lasciata
    nella miseria, non curandoti di me per cinque anni.... Basta!
    finiamola: ora che mi sono sfogata, me ne torno a casa.
    
    - No, tu non andrai via così: voglio che tu ti calmi, che tu
    rifletta. Non mi dirai che ami Passiflora.... no, non lo credo. E
    Perché lo sposeresti? Per avere il suo nome? Bel nome! Tenutario di
    una bisca. Per i quattrini? È rovinato, e quello che oggi possedete
    insieme, non si fonda su basi solide. Che bell'avvenire ti
    attende!... E come può quell'uomo divertirti? No, non fa per te! -
    
    Cinzia tratteneva a stento le risa.
    
    - Avrei un bel vantaggio a cambiarlo con te! - disse.
    
    - Sì, che l'avresti! - interruppe con impeto il conte. - Prima di
    tutto, io sono adesso padrone di circa tre milioni, ed almeno la
    metà di questo denaro potremo godercela insieme. Bianca ormai non si
    muove dalla villa, ma io posso venire a passare con te almeno tre
    giorni della settimana, purchè sia sicuro di trovare la tua casa
    sempre aperta, il tuo cuore come per il passato, e che io possa
    confidarmi a te interamente. Non è vero che accetti la mia proposta?
    -
    
    Le s'inginocchiò dinanzi, le baciò le mani.
    
    Cinzia sembrava commossa.
    
    Egli si fece sempre più incalzante, perché voleva ad ogni costo
    supplantare Passiflora e perché il fascino che emanava da Cinzia
    tornava ad avvilupparlo.
    
    - Resta con me! - pregava con voce piena di lacrime. - Dimmi che
    cosa vuoi che io faccia per ottenerti ancora! -
    
    Cinzia si alzò.
    
    - Ebbene, avrai la mia risposta domattina.
    
    - E perché non adesso?
    
    - Perché voglio rifletterci. Addio! -
    
    Rimasto solo, il conte fu dapprima assalito da una collera violenta.
    
    Ma dovette contenerla, calmare i nervi e lo spirito. Sceso a fare
    colazione, poi lasciò l'albergo, stette fuori parte della giornata
    ed alla sera fu tentato di recarsi da Passiflora.
    
    Ma resistette alla tentazione; tornò all'albergo e si sentì molto
    triste, come forse non lo era mai stato nella sua vita.
    
    Pensò a sua moglie, e sentì che non avrebbe mai più riacquistato il
    suo amore: poteva ottenerla colla forza, ma non avrebbe più
    posseduto che un cadavere.
    
    Ebbe un moto di ribrezzo a quel pensiero.
    
    Nessuno lo amava al mondo, all'infuori di Fabio; ma quella stessa
    cieca affezione del misero, invece di tornargli di conforto,
    l'irritava, ricordandogli le sue orribili menzogne, il delitto fatto
    compire.
    
    Era malcontento di sé, di tutti, e passò anche quella notte senza
    chiuder occhio; si alzò di cattivo umore ed attese la risposta di
    Cinzia.
    
    Alle nove precise sentì battere all'uscio.
    
    - Avanti! - disse.
    
    Con un vivo battito di cuore vide entrare Cinzia col sorriso sulle
    labbra, gli occhi pieni di fiamme.
    
    - Vengo a portarti la risposta io stessa! - disse, porgendogli le
    labbra.
    
    Livio gettò un grido di gioia e la strinse al suo petto.
    
    Ma Cinzia si svincolò, e indietreggiando alquanto:
    
    - Adagio! - esclamò. - Prima dobbiamo fare i nostri patti! -
    
    VI.
    
    L'assenza del conte Livio dalla villa si prolungava, ma egli aveva
    scritto a Fabio dicendogli che alcuni interessi lo terrebbero
    lontano per qualche settimana. Gli raccomandava la contessa, e
    aggiungeva che se ella avesse mostrato desiderio di scendere nel
    parco a farvi una passeggiata, lui e Milia l'accompagnassero, non
    staccandosi mai dal suo fianco.
    
    Fabio nascose la lettera, quindi si recò dalla contessa per
    avvertirla che il conte non sarebbe tornato presto.
    
    Quella mattina Bianca sembrava rianimata: era uscita un momento sul
    balcone e si appoggiava alla balaustrata. Vestiva un abito azzurro
    pallido, stretto alla vita da una cintura d'argento: aveva due
    grosse trecce pendenti sulle spalle.
    
    Pareva una giovinetta.
    
    - Signora contessa.... - disse Fabio alle sue spalle.
    
    Ella sussultò e si rivolse.
    
    - Che volete? - chiese.
    
    - Vengo a dirvi che il signor conte mi ha scritto.
    
    - Che m'importa? - esclamò ella duramente.
    
    - Egli s'interessa molto della vostra salute, mi scongiura di avervi
    ogni riguardo, e mi dice che, se desideraste passeggiare nel
    parco....
    
    - Posso scendere nel parco? - interruppe vivamente Bianca con lo
    slancio di una bimba.
    
    - Sì; - rispose Fabio - Milia ed io vi accompagneremo. -
    
    Bianca non mise tempo in mezzo, e scese subito la scalinata; ma
    dovette fermarsi, ansante.
    
    Fabio le chiese con premura: - Posso offrirvi il braccio?
    
    - Voi?! -
    
    Era in quella esclamazione tanto disprezzo e tanto orrore, che Fabio
    indietreggiò come se l'avessero schiaffeggiato.
    
    Poi, chinando il capo, rispose:
    
    - Avete ragione: scusate! -
    
    E siccome Bianca aveva ripreso a camminare, la seguì.
    
    Egli aveva il cuore oppresso.
    
    Come mai era stato così audace da offrire il suo braccio alla
    contessa, lui, un servo, un assassino?
    
    Come Bianca doveva sprezzarlo!
    
    Ma anch'essa era stata colpevole, sebbene lo negasse; anch'essa
    aveva voluto commettere un delitto, associandosi con coloro che
    volevano sbarazzarsi del conte!
    
    Pure, nel contegno di lei, nella sua fisonomia, non era
    quell'impaccio di persona che, essendo colpevole, sta continuamente
    in guardia temendo di tradirsi. E neppure poteva dirsi pazza: il
    conte s'ingannava su questo.
    
    Fabio camminava colla testa china.
    
    Bianca, giunta ad una panchina, sedette.
    
    Fabio si appoggiò al tronco di un albero, non osando volgere lo
    sguardo sulla contessa.
    
    - Che bei fiori vedo su quel prato! - disse ad un tratto Bianca. -
    Se avessi la forza di correre, vorrei coglierli. -
    
    Fabio si allontanò e non tardò a tornare con un fascio di fiori, che
    depose sulla panca presso Bianca. Poi si appoggiò di nuovo
    all'albero.
    
    La contessa spinse coll'ombrellino il fascio di fiori che caddero in
    terra, quindi si alzò e si diresse verso casa.
    
    Fabio non disse parola, ma fremette e seguì Bianca con passo
    vacillante.
    
    La contessa, giunta nella sua camera, disse che aveva bisogno di
    riposo. Fabio si ritirò nella propria camera, e lasciatosi cadere su
    di una poltrona, vi rimase tutto compreso dal dolore.
    
    Egli non aveva mai provato tanta umiliazione nella sua vita.
    
    Neppure nella solitudine del carcere ebbe mai una visione così
    chiara dell'infame delitto da lui commesso!
    
    Dunque egli era un gran miserabile per avere sbarazzato il suo
    benefattore d'una donna che lo minacciava!
    
    E lui non aveva provato vergogna del suo delitto, pensando solo di
    pagare un debito di riconoscenza al suo benefattore!
    
    Ora tutto ciò gli appariva mostruoso!
    
    Il disprezzo di Bianca gli aveva aperto gli occhi: egli capì
    l'avversione che la contessa doveva provare per lui. Ilda sola, Ilda
    che egli aveva amata di un amore puro e buono, non si era peritata a
    difenderlo innanzi a tutti, gli aveva stesa la mano.
    
    Se Bianca avesse avuto ragione? Se il conte fosse il solo colpevole?
    
    Fabio gettò un grido che lo scosse, lo fece tornare in sé, e fu
    spaventato dei propri pensieri.
    
    Dove mai lo trascinava la contessa col suo disprezzo?
    
    Finiva col dubitare del proprio benefattore!
    
    - È così che obbedisco alla mia povera mamma e alla mia defunta
    benefattrice? - mormorò colle lacrime agli occhi, fissando il
    ritratto della bellissima contessa Rossano.
    
    Ma non tornò tranquillo: sentiva un cambiamento nel suo essere, e
    pregò Dio di liberarlo da quell'incubo, di aiutarlo nell'adempimento
    dei doveri prescrittigli dal conte.
    
    Poi gli parve di aver bestemmiato con tale preghiera.
    
    Si sentì soffocare e si alzò per aprire la finestra.
    
    Fabio respirò più sollevato.
    
    Nell'ora in cui Milia discese per desinare, egli tornò
    nell'appartamento della contessa.
    
    Le si avvicinò umilmente, e piegando un ginocchio:
    
    - Perdonatemi! - disse con voce tremante.
    
    Bianca alzò il capo e lo guardò, stupita.
    
    - Sì, perdonate il mio ardire di aver còlto quei fiori per voi! -
    soggiunse Fabio.
    
    Un mesto sorriso rischiarò il bel volto di Bianca.
    
    - Ho già dimenticato. - disse.
    
    Fabio si chinò colla fronte sino a terra, baciandole il lembo
    dell'abito. Quando si alzò, aveva gli occhi inondati di lacrime, ma
    sul volto era un'espressione di dolcezza così commovente, che Bianca
    ne fu mossa a pietà.
    
    Tuttavia rimase silenziosa, con gli occhi fissi nel vuoto, inerte.
    
    Fabio la guardava e stupiva di vederla così tranquilla, con
    quell'aureola di candore sulla fronte.
    
    Possibile che quella soave creatura avesse avuto un amante?
    
    Aveva pur letto la lettera di Aldo; ma il dubbio ormai si faceva
    strada nella sua mente.
    
    Ad un tratto si ricordò delle lettere scritte dal conte a Giulietta
    e firmate col suo nome: Fabio Ribera.
    
    Egli aveva saputo quel particolare quando fu interrogato dal giudice
    istruttore.
    
    Livio aveva dunque premeditato d'ingannare Giulietta, prendendo il
    nome di Fabio per sottrarsi ad ogni responsabilità.
    
    Ora non poteva Livio avere scritto quella lettera firmata Aldo, per
    dimostrare la colpa della moglie? E se un giorno, stanco di Bianca,
    gli proponesse di sopprimerla?
    
    - Oh! no, no, questo mai! - disse a voce alta, volgendo attorno gli
    occhi spaventati.
    
    Bianca l'udì, si rivolse verso lui.
    
    - Che avete, Martino? -
    
    Egli si scosse, divenne di fuoco.
    
    - Nulla.... contessa; - balbettò - il silenzio di questa stanza mi
    aveva assopito, e sognavo....
    
    - Che il conte voleva farvi commettere un altro delitto? -
    interruppe sorridendo Bianca.
    
    Fabio ebbe una gran vergogna di sé stesso.
    
    - No, no!
    
    - Quali sogni spaventevoli devono talvolta opprimervi! - proseguì la
    contessa. - Ditemi: non vi appare mai l'ombra di colei che uccideste
    per un altro? Non è venuta mai Giulietta a chiedervi conto della sua
    bambina? -
    
    Le labbra di Fabio tremavano convulsamente.
    
    - Non capisco, contessa, non so nulla, nulla! -
    
    Ella ebbe un sorriso di disprezzo.
    
    - Avete ragione, dimentico sempre che siete.... Martino. -
    
    Milia entrava e Fabio fuggì nel parco.
    
    Quando tornò, Bianca si accòrse che egli doveva aver pianto, Perché
    aveva gli occhi rossi.
    
    - Avete ordini da darmi, contessa? - chiese con voce alterata.
    
    - Sì, Martino! - rispose con dolcezza Bianca. - Se domattina il
    tempo è così bello preparatemi la poltrona a ruote: mi farete fare
    tutto il giro del parco. -
    
    Il volto di Fabio s'illuminò d'improvviso.
    
    - Sì, contessa.
    
    - Vi diletta leggere, Martino?
    
    - Sì, contessa.
    
    - Ebbene, prendete questo libro: vi piacerà. -
    
    Egli afferrò il libro con mano tremante, balbettò un ringraziamento.
    
    Quando se ne fu andato, Bianca disse a Milia:
    
    - Mettimi a letto, sono stanca, ma sto meglio.
    
    - Dio sia lodato! - esclamò la vedova.
    
    VII.
    
    Fabio, seduto nella sua camera, aperto il libro che Bianca gli aveva
    dato, leggeva:
    
    «Noi c'inchiniamo servilmente davanti ad un idolo di creta, facciamo
    talvolta per una creatura umana il sacrifizio del nostro dovere,
    della nostra anima, della nostra felicità eterna, mentre ci pare
    grave servire Dio immortale, creatore e dominatore di tutte le cose.
    
    «E che otterremo da una creatura mortale, che domani è polvere? Che
    avremo da quell'idolo di creta, che la semplice volontà di Dio
    basterebbe a rovesciare?
    
    «Un giorno verrà che l'apparente trionfo farà sembrare più grande
    ancora la giustizia di Dio, mentre le lacrime degli innocenti
    faranno esaltare ancor più la sua misericordia.
    
    «L'ora verrà in cui tutte le pene cesseranno. E sarà quando l'uomo,
    comprendendo le sue colpe, si umilierà dinanzi a Dio, implorerà il
    suo perdono. Dio è sempre pronto a salvare chi si pente. Egli
    accoglie il peccatore pentito, gli addita la via del Cielo! Oh! la
    dolcezza della parola divina in un'anima abbattuta! Quand'anche
    tutto il mondo ci mancasse, Dio ci resta sempre....»
    
    Fabio, angosciato, con un sentimento nuovo nel cuore, che lo
    torturava e lo consolava ad un tempo, cadde sulle ginocchia, e
    mentre lacrime cocenti cadevano dai suoi occhi, balbettava fra i
    singhiozzi:
    
    - Mio Dio, perdonatemi! Mio Dio, fate scaturire la luce, Perché io
    mi penta, Perché sia tutto vostro! Mio Dio, io ho fede in voi! -
    
    Così inginocchiato, Fabio ritornò sul suo passato, esaminò la sua
    vita. La giudicò miserabile! Egli non aveva avuto altro fine che
    accontentare il conte, senza neppur sapere se faceva bene o male.
    Aveva obbedito ciecamente come uno schiavo che si piega alla minima
    volontà del padrone, senza cercare se questa volontà è contraria
    alle sante leggi di un padrone più onnipotente.
    
    Oh! ricominciare una nuova vita, una vita utile a tanti innocenti!
    
    Mentre così pensava, la sua anima venne rapita da un'estasi mai
    provata, come avviene a tutti coloro cui la fede in Dio si rivela
    per la prima volta.
    
    La mattina seguente il sole era sorto radioso, ma più radiosa era
    l'anima di Fabio.
    
    Quando egli entrò nella camera della contessa per avvertirla che la
    poltrona era pronta per la passeggiata nel parco, apparve agli occhi
    di Bianca come un altro uomo. Sembrava che tutto il suo essere fosse
    cambiato.
    
    Bianca non lo interrogò, scese nel parco, sedette sulla poltrona, ed
    allora soltanto, rivolgendosi a lui, gli disse:
    
    - Andiamo: spingete. Voi, Milia, restate pur qui a riposarvi. -
    
    Fabio palpitò. La contessa non aveva dunque più orrore di lui?
    
    La poltrona scorreva dolcemente pei viali. La casa e Milia più non
    si vedevano, allorchè la contessa disse: - Riposatevi, Martino: io
    starò bene qui, all'ombra.
    
    Egli obbedì: trasse la poltrona dove gli alberi erano più folti, e
    si allontanò di qualche passo per non rendersi indiscreto.
    
    Ma Bianca lo chiamò.
    
    - Avete letto il libro che vi ho dato? Non avete nulla da dirmi? -
    
    Egli si gettò ai piedi della contessa.
    
    - Non osavo parlarvene, - disse - eppure ho il cuore pieno. Il
    vostro libro mi ha aperto gli occhi. Io credevo di seguire il bene e
    sono stato un malvagio. Non nego più.... sono Fabio Ribera,
    l'assassino di Giulietta Levera.
    
    - Lo so; - rispose Bianca con tristezza - ma so altresì che il conte
    è il maggior colpevole in tale delitto: egli solo vi spinse al male.
    -
    
    Fabio si strinse colle mani la fronte.
    
    - È proprio vero, contessa? L'anima mia si dibatte fra atroci dubbi.
    Ho chiesto a Dio d'illuminarmi. È possibile che l'uomo da me
    adorato, il mio benefattore sia colpevole?
    
    - Se era un uomo onesto non avrebbe armato la vostra mano per farvi
    commettere un delitto! Chi benefica un uomo per spingerlo al male, è
    un demonio! Ma se Dio ha toccato il vostro cuore, voi potete essere
    salvo. Fabio, vedete che io, pur trovandomi qui sola, inerme, non ho
    più paura di voi e vi stendo la mano da amica? Ebbene, ora io ho
    piena fiducia in voi, come dovete averla in me. Siamo qui soli,
    nessuno può ascoltare i nostri segreti: apritemi la vostra anima,
    come io vi aprirò la mia. Allora Dio, che ci ascolta, diraderà le
    tenebre dalla vostra mente, farà apparire agli occhi vostri la
    verità.
    
    - Avete ragione: confesso.... confesso tutto. Dio mi ispira. -
    
    In ginocchio sull'erba, dinanzi a quella creatura il cui volto soave
    pareva trasfigurato, Fabio fece il racconto di tutta la sua vita
    passata, nulla tacendo di quanto riguardava sé, la contessa Rossano,
    madre di Livio, ed il conte.
    
    Bianca ascoltò con intensa attenzione. Essa fu colpita più che altro
    dalla raccomandazione di Stefana fatta a Livio di non abbandonar mai
    l'orfanello.
    
    Ad un tratto nella mente della giovane subentrò una gran luce e
    tutto divenne per lei verità semplice ed evidente.
    
    Fabio, terminato il suo racconto, le disse:
    
    - Non sembra anche a voi, contessa, che un uomo, il quale mostrò
    tanta generosità verso il figlio di un povero servo, non può essere
    colpevole di quanto lo accusano?
    
    - Lo è più ancora di quanto m'immaginavo! - esclamò Bianca. - Fabio,
    non vi siete mai guardato allo specchio? Non vi ha mai detto alcuno
    della vostra strana rassomiglianza col conte? Ebbene, egli è per
    certo vostro fratello....
    
    - Impossibile! - esclamò Fabio. - Io sono iscritto sui libri dello
    Stato Civile come figlio dei coniugi Ribera.
    
    - Chi erano questi Ribera? - interruppe concitata Bianca. - Due
    servi devoti alla loro padrona. La contessa Stefana, e questo lo
    seppi dalla bocca stessa di Livio nei primi mesi del nostro
    matrimonio, in un momento di espansione, assomigliava perfettamente
    a lui nel carattere; era creduta una donna virtuosa, ed ingannava il
    mondo, come ingannava il marito. Non vi è dunque nulla di
    straordinario che, per nascondere una colpa, abbia avuto per
    complici i suoi fidati domestici. -
    
    I denti di Fabio sbattevano sulle sue labbra sbiancate.
    
    - Ed io sarei il frutto.... di quella colpa?
    
    - Lo giurerei. La contessa non ebbe il cuore di abbandonarvi e si
    occupò di voi, quando Dio vi privò di coloro che vi avevano dato il
    nome. Ma né la vostra finta madre, né la vera, ebbero il coraggio di
    rivelarvi la verità, neppure al letto di morte. Il conte, che sa
    tutto per certo, vi ha tenuto sempre al livello di un suo servo, e
    non basta: egli ha voluto fare di voi un assassino. Vi ha fatto
    credere che Giulietta era disonesta, che finiva col minacciarlo.
    Essa era invece una fanciulla onesta, che il conte aveva sedotta
    sotto il vostro nome e che abbandonò quando fu madre. Né tanto gli
    bastò: Livio, temendo di vedersi smascherato dalla disgraziata, armò
    la mano stessa del fratello. -
    
    Fabio ansava.
    
    - Dio mio! - mormorò con angoscia.
    
    Bianca continuò, come se quelle rivelazioni la sollevassero:
    
    - E sapete dov'era il conte, mentre voi compivate l'esecrabile
    delitto ed io mi dibattevo in spasimi morali atroci, nel mio palazzo
    a Torino?
    
    «Egli si godeva il carnevale a Milano, in compagnia di una certa
    Cinzia, una creatura spregevole al pari di lui e che doveva essere a
    parte di tutte le sue infamie.
    
    «Ma non basta. Istigandovi a colpire Giulietta, sbarazzandosi di lei
    e di voi col lasciarvi condannare, il conte aveva un altro scopo:
    quello d'impadronirsi della pura fanciulla da voi amata.... Ilda. -
    
    Fabio credette di morire.
    
    - Oh! questo non è vero, ditemi che non è vero! - balbettò con
    accento straziante.
    
    Bianca alzò il pallido viso trasfigurato.
    
    - Per la cara memoria di mio padre, vi giuro che è la verità! Ma
    perché meglio mi comprendiate, vi racconterò la mia storia, Perché
    ad essa si collega quella di altri innocenti: Aldo Pomigliano e la
    vostra fidanzata, Ilda. -
    
    Fabio ascoltò, col cuore in sussulto.
    
    Quando Bianca gli ebbe detto tutto, egli cadde sull'erba, rompendo
    in singhiozzi.
    
    Mezz'ora dopo Bianca tornava alla villa con Fabio, il quale partì il
    domani per Torino.
    
    VIII.
    
    Nei patti stabiliti da Cinzia col conte, la cortigiana si manifestò
    pratica e ponderata. Prima di tutto, non volle fare le cose con
    precipitazione: una rottura improvvisa con Passiflora avrebbe
    provocato spiegazioni, forse un duello; e Livio doveva evitare uno
    scandalo per riguardo alla moglie.
    
    Il conte avrebbe dunque continuato a frequentare la casa del
    marchese Passiflora, fingendo di esservi attirato dal giuoco, ma
    ogni mattina i due amanti si vedrebbero in qualche appartamento
    ammobiliato, dove Livio abiterebbe. Quando poi il marchese
    sollecitasse il matrimonio, Cinzia gli confesserebbe di voler
    riprendere la propria libertà.
    
    La cortigiana volle pure che Livio le giurasse che per qualche tempo
    non rivedrebbe la contessa, Perché essa era gelosa di lei.
    
    Il conte giurò tutto quanto essa volle, accettò tutti i patti che a
    Cinzia piacque fargli sottoscrivere e si dette subito attorno per
    trovare l'appartamento che desiderava.
    
    Egli ne prese uno al pianterreno, su di un corso deserto, in un
    palazzina abitata dai soli padroni, due vecchi negozianti in ritiro,
    che passavano quasi tutto l'anno in campagna.
    
    In quel momento la casa era vuota. Il conte non aveva nemmeno
    bisogno di passare innanzi al portinaio: aveva un'entrata
    particolare dal giardino.
    
    Due tappezzieri allestirono in pochi giorni il quartiere, ma il
    conte non prese alcun domestico. Si accordò col portinaio e la
    moglie di esso per la pulizia delle stanze e lì ricevette Cinzia
    quasi tutti i giorni.
    
    Una mattina il conte stava per uscire dall'albergo dove si recava a
    dormire ogni notte Perché tutti ignorassero il suo ritiro segreto,
    quando si trovò a faccia a faccia con Fabio.
    
    - Tu qui? - esclamò. - È successo qualche cosa a Bianca? -
    
    Fabio aveva la fisionomia tranquilla.
    
    - No, rassicuratevi; la contessa sta assai meglio; sono venuto a
    Torino per eseguire alcune sue commissioni; ma prima ho desiderato
    vedervi. -
    
    Il conte guardò l'orologio: erano le nove; aveva mezz'ora a sua
    disposizione.
    
    - Hai fatto benissimo! - rispose. - Vieni!
    
    Il conte rientrò nell'albergo, e condotto Fabio nel proprio
    appartamento:
    
    - Ebbene, che hai da dirmi? - gli chiese.
    
    - Volevo soltanto avvertirvi che la contessa va migliorando ogni
    giorno; non vaneggia più, non mi respinge quando le parlo di voi,
    anzi sembra ascoltarmi con molto interesse. Però ho dovuto
    trasgredire al vostro ordine e dirle che sono veramente Fabio
    Ribera. -
    
    Livio aggrottò le sopracciglia.
    
    - È stata un'imprudenza!
    
    - L'ho commessa nel vostro interesse, - rispose il giovane - Perché
    così ho potuto dimostrarle quanto s'ingannava sul vostro conto,
    parlandole di tutti i benefizi da voi ricevuti, giurandole che voi
    non prendeste alcuna parte nell'assassinio di Giulietta. Se ho fatto
    male, ve ne chiedo perdono! -
    
    Il conte gli sorrise con bontà.
    
    - Ti sono anzi grato della tua devozione. Ma che risponde Bianca
    sentendo perorare la mia causa?
    
    - Rimane pensosa. Ieri disse queste parole:
    
    «- Che io mi sia sempre ingannata sul conto di Livio? Che abbia
    avuto una benda sugli occhi? -
    
    «Non aggiunse altro, ma ieri sera mi chiese dolcemente se sarei
    venuto a Torino ad acquistarle alcuni libri e dei pezzi di musica,
    che desiderava. Mi affrettai a rispondere che ero lieto di
    compiacerla.
    
    «Io credo però che la contessa mi abbia inviato a Torino colla
    speranza che io vi veda e vi parli di lei; sarebbe dunque bene che
    ritornaste alla villa. -
    
    Il conte lo fissava con grande attenzione.
    
    - Dimmi la verità, Bianca stessa ti manda da me.
    
    - No, ve lo giuro!
    
    - Aspettiamo dunque che lei mandi a cercarmi! - esclamò sorridendo
    il conte, alzandosi. - Aspettiamo che la sua guarigione sia
    completa. In questo momento non potrei abbandonare Torino; ho qui
    affari che non ammettono dilazioni. Forse fra qualche settimana farò
    una scappata. Non parlare a Bianca di me; se t'interroga, dille che
    non mi hai veduto. -
    
    Fabio pure si era alzato.
    
    Capiva che Livio voleva sbarazzarsi di lui.
    
    La pendola sonava le dieci: Livio sussultò.
    
    - Ho un appuntamento; - disse - ti lascio; ci rivedremo alla villa.
    
    - Scendo con voi. - Appena in istrada, il conte, senza neppure
    stendere la mano a Fabio per la fretta, salì in una carrozza che
    stazionava dinanzi all'albergo, gridando forte al cocchiere:
    
    - Corso Grugliasco, e di corsa! -
    
    Fabio tenne dietro cogli occhi alla vettura, e quando la vide
    sparire il suo volto divenne triste e cupo. Dove correva il conte?
    Aveva dunque delle tresche, dei raggiri?
    
    Agitato, Fabio salì a sua volta in un fiacchere dando al vetturino
    l'indirizzo del cavaliere Umberto Trani.
    
    Il magistrato lo ricevette subito e sussultò nel vederlo.
    
    - Vengo da parte della contessa Bianca Rossano, che vi manda questa
    lettera, - disse Fabio.
    
    Umberto fece un brusco movimento.
    
    - La contessa Bianca? - ripetè. - L'avete veduta? Le avete parlato?
    
    - Sono al suo servizio fino dalla mia uscita di prigione.
    
    - Chi vi ha dato quel posto?
    
    - Il conte Livio, facendomi passare presso la servitù e presso la
    contessa stessa per un antico suo cameriere di nome Martino. Ma voi
    sarete meglio informato dalla lettera. -
    
    Il magistrato offrì una sedia a Fabio, e, sedutosi egli stesso allo
    scrittoio, lacerò la busta e lesse quanto Bianca gli scriveva.
    
    «Finalmente! Dio ha compiuto il miracolo: Fabio ha confessato tutto,
    si pente del suo delitto, è divenuto nostro alleato, nostro amico,
    disposto a tutto per conoscere il segreto della sua nascita, i
    legami che l'uniscono al conte, ed aiutarci a vendicare tanti poveri
    innocenti.»
    
    Il magistrato si fermò: i suoi occhi scintillavano di contento
    fissandosi sul volto di Fabio.
    
    - È vero ciò che mi scrive la contessa? - chiese Umberto.
    
    - È vero; - replicò Fabio senza sconcertarsi - solo vi aggiungo che
    alla buona signora si deve il miracolo; ella sola ha saputo
    mostrarmi il mio accecamento. Io sono stato molto colpevole,
    signore, e darei tutto il mio sangue per espiare.
    
    - Ed io vi aiuterò nella vostra opera di espiazione, - rispose il
    magistrato.
    
    E si rimise a leggere.
    
    Bianca gli faceva il racconto di quanto era accaduto fra lei e
    Fabio.
    
    - La nostra causa è vinta! - esclamò finalmente il Trani. - Ah! lo
    vedranno coloro che credevano di mettere anche me nel sacco!...
    Sapremo dimostrare chi è stato il solo colpevole! -
    
    Nascose la lettera nel portafogli, si fregò le mani, poi disse al
    giovane:
    
    - Adesso avvicinatevi e parliamo: le ricerche che volete fare per
    conoscere il legame che ha reso di voi, galantuomo, il complice di
    un gentiluomo altrettanto vile quanto miserabile, l'ho incominciate
    io stesso e con buon risultato. Ebbene, quello che la contessa
    Bianca suppone, è la verità: voi siete il secondo figlio della
    contessa Rossano. -
    
    Fabio arrossì, poi tornò pallido: tutto il suo corpo tremava dalla
    commozione.
    
    - Suo figlio? - ripetè, - E non mi ha dato il nome di mio padre?
    
    - Ascoltatemi, Fabio, e non credete che io oltraggi la memoria della
    donna che fu vostra madre: tutto quanto vi dirò, posso provarvelo.
    Oh! questa minuziosa investigazione del passato di una morta mi è
    costata non pochi sforzi, ma ci sono riuscito. -
    
    Infatti il magistrato narrò tutta la storia della contessa Stefana
    Rossano, del frutto del suo adulterio, delle dissolutezze di Livio,
    che fece poi vittima Giulietta, armando la mano di Fabio, e la
    povera contessa Bianca.
    
    - Ora, - concluse - il conte è di nuovo incapriccito di Cinzia, e
    forse finirà col proporvi di sopprimere anche sua moglie. -
    
    Un grido d'angoscia sfuggì dalla strozza di Fabio.
    
    - Non temete per la contessa Bianca; - soggiunse il magistrato - il
    conte ormai è nelle nostre mani: Cinzia è nostra alleata. Colei
    detesta il conte, e ambisce a divenir moglie del marchese
    Passiflora. Ora non fa che tenere a bada Livio, ed attende un mio
    cenno per fargli confessare tutto, mentre voi, io ed altri due
    testimoni, nascosti in una stanza attigua, ascolteremo la sua
    confessione. Potete trattenervi a Torino? Io mi accorderò stasera
    con Cinzia, e domani notte potrete sentir confermare dalla bocca
    stessa di vostro fratello quanto già sapete.
    
    - Ho promesso alla contessa Bianca di portarle stasera una vostra
    risposta, e non vorrei mancare.
    
    - Ebbene, andate. Ma domani verso quest'ora tornate da me, vi darò
    le mie istruzioni; noi non faremo scandali, ma il conte merita di
    essere punito. -
    
    IX.
    
    Nell'assenza di Fabio, la contessa Bianca non si mosse dalla sua
    camera.
    
    Erano circa le quattro del pomeriggio. La contessa, dopo aver
    desinato, sedette sul balcone, attendendo il ritorno di Fabio.
    
    Ella provava in cuore una dolce commozione ed aveva il vago
    presentimento che quel giorno dovesse essere per lei notevole.
    
    Mentre era così immersa nelle sue fantasticherie, fu sorpresa di
    sentire un arpeggio di chitarra, mentre una voce di bimba cantava la
    tenera e soave romanza:
    
    «Rondinella pellegrina Che ti posi sul verone....»
    
    Bianca provò una scossa indefinibile: ella chiamò Milia.
    
    - Non senti quel canto di bambina? - le chiese la contessa.
    
    - Sì, infatti.
    
    - Sai chi è che canta?
    
    - No, contessa, ma vado subito ad informarmi, se vi fa piacere.
    
    - Sì, va', va'! -
    
    Il dolce canto continuava; poi, ad un tratto, cessò. Alcuni minuti
    dopo Milia apparve con una bambina magra, vestita di nero, col capo
    coperto da un fazzoletto nero che gli scendeva sulla fronte e
    impediva di scorgere il colore dei capelli.
    
    La bimba inoltrava quasi tremando.
    
    - Contessa, - disse Milia con tono commosso - vi ho condotta la
    piccola cantante, certa che, se anche il conte ed il signor Martino
    lo sapessero, non mi sgriderebbero, come vorrete impetrare
    indulgenza per Pietro il giardiniere e sua moglie, che hanno
    commesso una mancanza.
    
    - Quale mancanza? - chiese Bianca.
    
    - È passata di qui una compagnia di sonatori girovaghi, dei quali fa
    parte questa bambina. Sono due donne ed un uomo: la più vecchia,
    quando è stata al cancello della villa, ha avuto uno svenimento. Il
    giardiniere e sua moglie, impietositi, li hanno ricettati nel
    padiglione del parco.
    
    - Hanno fatto benissimo! - interruppe concitata Bianca. - Vai subito
    a portare a quella povera gente quanto può loro occorrere. Intanto
    la piccina mi terrà compagnia. -
    
    Milia non vide alcun inconveniente nell'appagare il desiderio della
    contessa, e si affrettò ad allontanarsi, lieta di aver trovato anche
    per sé un passatempo, pur facendo una buona azione.
    
    Durante il discorso delle due donne, la bambina era rimasta
    silenziosa, cogli occhi bassi, in mezzo alla stanza.
    
    Appena uscita Milia, la contessa sedette su d'una poltrona, dicendo
    con dolcezza:
    
    - Avvicinati, mia cara, non temere! -
    
    Allora si vide una cosa inaudita. La bambina si tolse d'un lampo il
    fazzoletto che aveva in capo, lasciando sciogliere sulle spalle
    lunghi e folti ricci d'un biondo dorato.
    
    Poi d'un salto fu al collo della contessa, baciandola convulsamente,
    balbettando fra lacrime e singhiozzi:
    
    - Mammina.... la mia mammina.... finalmente.... finalmente.... t'ho
    ritrovata!... -
    
    Fu un vero miracolo se Bianca non cadde svenuta. Senza una parola,
    strinse convulsamente fra le braccia Gina, la figlia della povera
    Giulietta, e per un istante fu un vero delirio.
    
    - Sei tu, proprio tu, Gina mia? - balbettava la contessa.
    
    - Io, mammina cara; se tu sapessi quanto abbiamo fatto per
    avvicinarti senza che ci scoprissero! Ma ti dirò tutto, sai! E non
    temere: ora sono grande e saprò non tradirmi per restare vicino a
    te.
    
    - Cara, cara, tesoro adorato; ma aspetta un momento, chiuderemo
    l'uscio.
    
    - Non importa, mammina! - osservò giudiziosamente la bimba. - Non
    bisogna destar sospetti a quella donna che ti serve; sta'
    tranquilla, per un pezzo non verrà; il babbo saprà trattenerla! -
    
    La contessa sentì mancarsi il respiro: il suo cuore si mise a
    battere pazzamente.
    
    - Il babbo è qui con te? - mormorò.
    
    - Sì: povero babbo, ha sofferto tanto! Ma ci ha dato sempre speranza
    e coraggio. Egli ha pensato di trasformarci in sonatori
    ambulanti....
    
    - Ma chi sono le due donne che avete insieme? - chiese palpitante la
    contessa.
    
    - Una si chiama Ilda e mi tiene luogo della povera zia Severina, che
    è morta.... -
    
    Gli occhi di Bianca si empirono di lacrime.
    
    - Morta? Morta di dispiacere, non è vero? - mormorò, parlando più a
    sé stessa che a Gina.
    
    - Sì, mammina, ma anche morendo pensava a me, a te, e scongiurava il
    babbo di ricondurmi nelle tue braccia, e perdonava a tutti.
    
    - Povera e santa creatura! E suo marito?
    
    - Ha lasciato Ivrea, non potendo più vedersi nel paese dove è morta
    la zia. Non sappiamo dove sia andato.
    
    - E l'autore di tutte queste sventure dovrà restare impunito?
    
    - Il babbo dice che bisogna aver fede nella giustizia divina. -
    
    Quella semplice espressione di fiducia in Dio commosse profondamente
    Bianca.
    
    Gina la guardava con un sorriso estatico.
    
    - Mammina, se tu sapessi quanto ho pregato per te! Ed anche per il
    babbo, che non vedevo più.... Ma un giorno egli tornò. Era pallido
    pallido e tremava mentre mi stringeva fra le sue braccia. È tanto
    buono, il babbo, mammina! Oh, se tu potessi scendere un momento,
    vederlo, parlargli! -
    
    Bianca si scosse e con subitanea commozione:
    
    - Ebbene.... sì.... verrò.... lo debbo, lo voglio!...
    
    - Oh! mammina cara, quanto sei buona! Non temere: quella donna che
    ti serve non saprà nulla. Guarda! -
    
    Scivolò dalle ginocchia della contessa, riprese il suo fazzoletto e
    ne avvolse i dorati capelli.
    
    Poi, sorridendo di un sorriso angelico, stese la mano a Bianca,
    dicendo:
    
    - Volete venire, bella signora? -
    
    La fisonomia della contessa si era mutata. Ella era divenuta seria
    ed i suoi occhi brillarono stranamente.
    
    - Vengo! - rispose in tono risoluto, alzando il capo con fierezza. -
    Non sono io qui la padrona? Gina, cara bambina mia, conducimi da tuo
    padre. -
    
    Gina l'afferrò per la mano.
    
    In quel momento comparve Fabio. Egli era pallidissimo, ma calmo.
    
    Guardò con sorpresa la bimba vestita a lutto, che alla sua vista si
    rifugiò fra le gonne della contessa.
    
    - Ah! siete tornato a tempo, Martino! - disse Bianca senza
    scomporsi. - Vedete questa cara bambina? Essa fa parte di una
    compagnia di sonatori girovaghi che io ho permesso di ricoverare nel
    padiglione del parco. Ora, per aderire alle preghiere di questa
    bambina, stavo per scendere a visitare i suoi compagni.
    
    - Volete che vi accompagni, contessa?
    
    - Più tardi; prima ho bisogno di parlarvi. Va' tu sola, cara, -
    soggiunse volgendosi alla bambina - di' a tuo padre ed agli altri
    che tra poco sarò da loro, ed avverti la donna che mi serve che io
    sono qui col signor Martino e non ho bisogno per ora di lei.
    
    - Sì, contessa! - balbettò la bimba. - Mi permettete di
    abbracciarvi?
    
    - Con tutto il cuore! -
    
    E mentre Gina si stringeva al collo di Bianca, le sussurrò
    all'orecchio:
    
    - Quello è l'uomo cattivo che ti tiene chiusa qui, lontana da me?
    
    - No, tesoro; - rispose la contessa - quello è un uomo buono, che
    farà del bene anche a te! -
    
    E a voce alta:
    
    - Dai un bacio anche al signor Martino! - soggiunse.
    
    - Certamente, se lo vuole! - rispose pronta Gina.
    
    - Oh! lo voglio sicuro! - esclamò Fabio, commosso da quella
    spontanea ingenuità.
    
    E si chinò sorridendo, ricambiando il bacio purissimo. La fanciulla
    corse via tutta contenta.
    
    - Sapete chi sia quella bimba? - disse la contessa posando la mano
    sulla spalla di Fabio, che tremò a quel contatto.
    
    - No, - rispose con voce velata.
    
    - Ve lo dirò io: è la figlia di Giulietta Lovera. -
    
    Egli si rivolse alla contessa con un'espressione straziante.
    
    - Mio Dio.... ne siete sicura? Ed avete voluto che baciasse me....
    il miserabile che l'ha privata di sua madre?
    
    - Io non vi considero un assassino, e sono sicura che anche la
    povera Giulietta vi ha perdonato. -
    
    Fabio scoppiò in dirotto pianto.
    
    - No.... non me lo merito.... Ah! potessi spargere tutto il mio
    sangue per farla rivivere! -
    
    La contessa disse dolcemente:
    
    - giacché non è possibile, pensiamo alla sua bambina.
    
    - Oh! avete ragione.... sì, sì.... ditemi ciò che io posso fare per
    lei.... sono pronto a tutto.... a tutto....
    
    - Sedete, Fabio, ed ascoltatemi bene. Ormai posso confidarmi a voi.
    La figlia di Giulietta non è qui a caso: essa è venuta in compagnia
    di altri sventurati che attendono, soffrendo, il giorno della
    giustizia. -
    
    Fabio sussultò, spalancando gli occhi.
    
    - Chi sono? - chiese a bassa voce, tremando, Perché temeva
    d'indovinare.
    
    Bianca alzò la bella testa, che pareva cinta da un'aureola.
    
    - Ancora non li ho veduti, né ascoltati; - disse - ma li vedremo ed
    ascolteremo insieme, Oh! non temete, soggiunse dolcemente, vedendo
    Fabio impallidire - non voglio obbligarvi ad essere presente, né
    pronunzierò il vostro nome! Col vostro permesso farò venir qui
    quella gente: voi entrerete nella mia camera lasciando la portiera
    abbassata, e di lì potrete ascoltar tutto. Sarà senza dubbio una
    confessione penosa per me e per voi.
    
    - Non come quella che udrò domani sera, - interruppe Fabio.
    
    - Domani sera? Dove?
    
    - A Torino, in una casa dove mi condurrà il cavaliere Umberto Trani,
    del quale vi riporto la risposta alla vostra lettera.
    
    - Siete dunque andato da lui? - domandò con ansia febbrile la
    contessa.
    
    - Sì.
    
    - Ma allora avete veduto mio marito, e siete persuaso adesso che non
    fu calunniato?
    
    - Lo sono; ecco perché fino da questo istante io mi dedicherò tutto
    a redimere il male da me fatto. Comandate: se volete far venire
    quelle persone, sono pronto a sonare il campanello per dare gli
    ordini necessari.
    
    - Un momento: lasciate prima che io legga la lettera del cavalier
    Trani. -
    
    Fabio la guardava mentre essa leggeva, e andava pensando come suo
    fratello fosse stato vile, miserabile, a sacrificare, per i suoi
    infami vizi, quella soave creatura, così squisitamente educata.
    
    Per una completa evoluzione del suo spirito, Fabio provava ora per
    la contessa tanta stima e venerazione, quanto odio e disprezzo per
    il conte. Sentiva che, trovandosi di fronte a lui, avrebbe a mala
    pena contenuto la sua indignazione.
    
    Bianca, finito di leggere, stese la lettera a Fabio.
    
    - Ormai non esistono più segreti fra noi; - disse - leggete. -
    
    Egli sentì gonfiarsi gli occhi di lacrime.
    
    - Quanto siete buona! - mormorò. - Grazie! -
    
    Furono interrotti dal passo pesante di Milia nella stanza vicina.
    
    Fabio nascose la lettera in tasca, e mentre la vedova bussava
    all'uscio.
    
    - Avanti! - disse a voce alta.
    
    - Scusate se vi disturbo, - esclamò Milia entrando - ma non ho ben
    capito l'ordine di quella piccina, sembrandomi impossibile che la
    contessa non avesse bisogno di me!
    
    - Stavo per chiamarvi adesso, - disse Bianca. - La piccina ha
    eseguito benissimo la mia commissione, Perché il signor Martino
    desiderava parlare a me sola. -
    
    Milia si volse a Fabio.
    
    - Avete fatto un buon viaggio, Martino? Avete veduto il conte?
    
    - Sì. Mi ha detto che tornerà presto, e che intanto dobbiamo
    obbedire in tutto alla contessa.
    
    - Oh! per me non chiedo di meglio. Sono tanto lieta di vederla
    migliorata!
    
    - Ora, - interruppe Fabio - siccome la contessa desidera conoscere
    quei sonatori ambulanti ai quali ha fatto dar ricovero, andate a dir
    loro che li aspetta, e conduceteli in questo salotto. E non occorre
    che io e voi conosciamo le sventure di quei poveretti, dei quali la
    nostra padrona vuole occuparsi; per cui ci ritireremo entrambi,
    appena li avrete condotti qui. -
    
    Milia si ritirò.
    
    Fabio entrò nella camera della contessa, per consiglio della
    medesima.
    
    Bianca chiuse la vetrata del balcone ed attese seduta su di una
    poltrona. Era pallidissima. Stava dunque per rivedere Aldo, lo
    sventurato che aveva tanto sofferto per cagion sua!
    
    Gina entrò per la prima nel salotto e corse a lei per dirle:
    
    - Mammina, coraggio, non tradirti! -
    
    E ristette timida presso Bianca, mentre gli altri entravano a loro
    volta nel salotto, preceduti da Milia, che diceva:
    
    - Eccoli, signora contessa! -
    
    Bianca vide un uomo male in arnese, dai capelli lunghi e brizzolati,
    che teneva gli occhi bassi e rigirava fra le dita un largo cappello;
    una donna in sottana corta con un fazzoletto a colori avvolto
    intorno al capo, ed una vecchia che si reggeva su due bastoni e
    camminava curva, penosamente.
    
    - Avanti, avanti! - disse la contessa con voce che si sforzava di
    rendere ferma. - Milia, avvicina delle sedie, poi vattene. -
    
    Appena la donna fu uscita, Gina andò a chiudere l'uscio a chiave,
    mentre Aldo si affrettava a togliersi la parrucca, Ilda, il
    fazzoletto e la vecchia metteva in un angolo i bastoni, raddrizzava
    il corpo ancora robusto e andava a gettarsi ai piedi di Bianca,
    esclamando fra i singhiozzi:
    
    - Oh! la mia padrona, la mia padrona!... Finalmente vi rivedo!
    
    - Tu.... Celia.... tu?...
    
    - Io, sì, che mi sono disperata tanto per cagion vostra! Ma ora è
    passato tutto, Perché vi ho ritrovata, sono vicina a voi, posso
    parlarvi, contemplarvi ancora!
    
    - E noi, dunque? -
    
    E la contessa si trovò ad un tratto circondata da quelle quattro
    persone che l'adoravano.
    
    Dopo un lungo scambio di strette di mano, di frasi affettuose, la
    contessa volle che le raccontassero tutto ciò che era avvenuto dopo
    la loro separazione.
    
    - Incomincerò io, - disse Celia che aveva ripreso tutto l'ardire di
    una volta. - Voi già forse sapete, contessa, come io sia stata
    condannata per aver detto la verità su vostro marito. La condanna fu
    lieve, ma ingiusta. Basta: uscita di prigione, vostro marito mi
    diede lo sfratto. Allora mi recai ad Ivrea, e fui accolta in casa
    Rivalta, dove rimasi poco, volendo ad ogni costo sapere la sorte
    vostra. Ma voi eravate partita, ed io tornai al mio paese. Il signor
    Pomigliano fu quello che mi venne più tardi in aiuto, - concluse
    Celia. - Ed ora spetta a voi, Aldo, a parlare. -
    
    II giovane rimase concentrato alcuni minuti, poi disse con voce
    commossa:
    
    - Non parlerò dei miei dolori, Perché è facile intuirli. Ma tutte le
    mie torture fisiche e morali furono nulla in confronto all'idea di
    lasciarvi nelle mani di un uomo che su voi avrebbe fatto pesare la
    sua tirannica volontà.
    
    «Scontai l'ingiusta condanna, e sonata che fu l'ora della libertà,
    corsi in casa del Trani, dove trovai, colla più affettuosa
    accoglienza, Ilda, che tutti credevano rifugiata all'estero.
    
    «Appena mi vide, ella si gettò ai miei piedi, chiedendomi perdono,
    dicendosi cagione delle mie sventure.
    
    «Povera innocente, vittima al pari di me! La sollevai commosso, le
    dissi che il solo colpevole era il conte, che da lui solo erano
    venuti tutti i nostri dolori, le nostre vergogne, le nostre
    umiliazioni.... e che lui soltanto meritava di essere punito.
    
    «Basta: fra me ed Ilda combinammo di ritrovare le vostre tracce.
    
    «Ma una lettera di mio cognato mi chiamò ad Ivrea. Mia sorella,
    colpita al cuore dalla mia condanna, andava adagio adagio
    estinguendosi.
    
    «Mio cognato l'aveva condotta per qualche tempo in Isvizzera con
    Gina; però la mia povera sorella non volle fermarsi ivi a lungo e
    tornò ad Ivrea.
    
    «Ella aspettava il mio ritorno, e mio cognato sperava che la mia
    presenza contribuisse a renderle la salute.
    
    «Severina morì invece sei mesi dopo nelle mie braccia, e con una
    mano stretta in quella del marito.
    
    «L'ultimo suo pensiero fu per voi. -
    
    Aldo tacque un istante perché aveva delle lacrime nella voce. Bianca
    e gli altri pure piangevano.
    
    - Mio cognato, - continuò Aldo - che in pochi mesi era divenuto
    tutto bianco, colla faccia rugosa, la schiena curva come un vecchio,
    presso al letto di morte di Severina voleva suicidarsi.
    
    «Feci appena in tempo per strappargli l'arme dalle mani. Tuttavia
    egli partì dopo senza volermi dire dove si sarebbe recato.
    
    «Mi ritrovai solo con Gina, che mi chiedeva insistentemente di voi.
    
    «Allora sorse in me il progetto di ricercarvi, di avvicinarvi, in
    unione a tutti coloro che avrebbero voluto vendicarvi.
    
    «Mi recai con la bimba a Torino, spiegai il mio progetto al Trani.
    
    «Egli mi approvò.
    
    «Scrissi a Celia, ebbi un colloquio con Ilda, e pochi giorni dopo
    potevo dire a Gina:
    
    «- Non piangere: noi andremo in cerca della tua mammina. -
    
    «Avevamo deliberato di formare una compagnia di sonatori ambulanti,
    di percorrere l'Italia per seguire le vostre tracce.
    
    «Per mezzo del Trani, ci fu facile avere un passaporto in piena
    regola. Io passavo per il padre di Gina, orfana di madre, Ilda per
    mia sorella, Celia, una zia.
    
    «Ora non sto a descrivervi tutte le peripezie del nostro viaggio: vi
    dirò solo che, arrivati a Messina, una lettera del cavaliere Trani
    ci avvertiva che il conte aveva acquistata questa villa, e che qui
    si era ritirato con voi. E si diceva che, guarita dalla pazzia
    cagionata dai dolori sofferti, vi eravate riconciliata col marito.
    
    «Per quanto io soffrissi, era tale il desiderio di sacrificarmi per
    la vostra felicità, che vi perdonai di aver dimenticato le
    ingiustizie da me sopportate.
    
    «Avremmo dato tutti la vita per risparmiarvi un nuovo rammarico.
    
    «Però, se io perdonavo a voi, Ilda non perdonava all'uomo che le
    cagionò tanto male.
    
    «- Voglio assicurarmi che la lettera dica il vero! - esclamò. - Io
    non credo al pentimento di costui: ho idea che quella
    riconciliazione debba servire al conte per giungere al possesso di
    tutte le ricchezze della moglie, e ottenuto il suo scopo:
    sopprimerla. -
    
    «Allora scrivemmo al Trani per fargli parte dei nostri sospetti;
    egli ci rispose che ormai il conte era nelle sue mani, e ci pregava
    di tornare a Torino.
    
    «È inutile vi racconti adesso il colloquio che ebbi col Trani: ne
    capirete più tardi il risultato.
    
    «Egli però non sa che ci troviamo qui in questo momento, ma io non
    seppi resistere al desiderio di Gina, di Celia e di Ilda, che
    volevano ad ogni costo avvicinarvi, mentre io non osavo sperare
    tanta felicità.
    
    «Adesso siamo in attesa dei vostri ordini.
    
    - Un momento! - esclamò Ilda, che fino allora aveva taciuto. - Io
    debbo e voglio dire alla contessa quale sia il mio scopo
    nell'avvicinarmi a lei; ma prima, guardatemi bene, signora. -
    
    Ella si era avvicinata a Bianca, che fissò con compassione quel
    volto un giorno affascinante, ora alterato dal dolore, quegli occhi
    sinistramente fiammeggianti, quella bocca livida.
    
    - Il signor Aldo è un santo! - disse la giovane sedendo di fronte a
    Bianca. - Condannato ingiustamente, torturato, parla ancora di
    clemenza, di perdono. Io, no! Sarà una demenza la mia, ma non avrò
    pace finchè non schiaccerò sotto i miei piedi il miserabile, cagione
    di tante sventure! Mi ucciderò se non l'uccido, e sono donna da
    mantenere la mia parola!
    
    «Ho troppo sofferto per cagion sua, ho veduto troppo soffrire gli
    altri, innocenti al pari di me!
    
    «Ed è giusto questo?
    
    «Io sono adesso come una belva che va attorno alla gabbia
    nell'attesa di sbranare chi l'ha ridotta all'impotenza.
    
    «Egli deve venire qui, non è vero? Ed io qui resto.
    
    «Scommetto che non sarà solo; egli avrà seco l'uomo che ha già
    spinto ad assassinare una innocente; colui è sua vittima!
    
    «Fabio è uscito di prigione, ma nessuno sa dove si sia nascosto.
    
    «Nessuno lo sa? M'inganno! Il conte deve saperlo ed io ho il
    presentimento che verrà qui con lui per compiere qualche altro
    mostruoso delitto.
    
    «Ma non temete: ci sono io, io che strapperò finalmente la maschera
    all'infame Livio, che mostrerò a Fabio chi sia l'uomo al quale egli
    affidò un giorno la fidanzata.
    
    «Io non ho paura né dell'uno, né dell'altro: forte della mia
    innocenza, saprò far giustizia e lasciare a Fabio, che dubitò di me,
    un eterno rimorso.
    
    «Contessa, è vero che non ci allontanerete dalla villa?
    
    - No! - disse pronta Bianca. - Rimarrete tutti presso di me. È qui
    un uomo che il conte mi ha posto al fianco per sorvegliarmi; ma
    costui ormai è divenuto lo schiavo di ogni mia volontà. Egli vi
    assegnerà un appartamento in questa casa, eseguirà gli ordini che io
    darò. Tornate nel padiglione; anzi, vi accompagnerò io stessa per
    non dare sospetto alla servitù; voi sola, Ilda, rimanete qui ad
    aspettarmi: ho bisogno di parlarvi in particolare. -
    
    La contessa uscì, seguita da Gina, Celia ed Aldo.
    
    Ilda non li seguì.
    
    Essa si era abbandonata su di una poltrona e nascondendosi il volto
    fra le mani pianse silenziosamente.
    
    Ad un tratto la giovane fremette.
    
    Una voce dietro a lei, una voce piena di lacrime, diceva:
    
    - Ilda, se vuoi uccidere anche questo sciagurato che osò dubitare di
    te, eccomi pronto: non mi difenderò! -
    
    Fabio si gettò ai piedi della giovane.
    
    - Indietro, assassino! - esclamò. - Io non ti credo più; se ti trovi
    in questo luogo, è per commettere un altro delitto.
    
    - Io sono qui invece per salvarvi tutti e punire il nostro comune
    carnefice.
    
    - Ipocrisia, menzogna! - gridò Ilda. - Vattene, vattene! -
    
    Fabio si era alzato e la guardava con infinita tenerezza e pietà.
    
    Ilda, che se lo vedeva sempre dinanzi, fu presa da un impeto di
    furore.
    
    - Ma vattene dunque! Non capisci che la tua presenza mi è odiosa?
    
    - No, fermatevi, Fabio! - disse dolcemente la contessa che rientrava
    in quell'istante. - Ho bisogno che voi siate presente al colloquio
    che avrò con Ilda. -
    
    X.
    
    - Non vuoi prendere la rivincita? - chiese il marchese Passiflora a
    Livio, che aveva gettate le carte e si alzava dalla tavola da
    giuoco, dove perdeva.
    
    - No; - rispose il conte, fingendo di trattenere uno sbadiglio -
    sono stanco; me ne vado a letto. -
    
    Passiflora si mise a ridere.
    
    - Quando Cinzia tornerà dal suo breve viaggio, - soggiunse - sarà
    soddisfatta di sentire che durante la sua assenza i miei amici
    disertano le sale prima della mezzanotte. Ma spero sia questo il suo
    ultimo viaggio e che al suo ritorno possiamo incominciare le
    pubblicazioni per le nozze.
    
    - Te l'auguro! - disse il conte porgendo la mano al marchese.
    
    Una carrozza attendeva il conte alla porta.
    
    Egli vi salì e si fece condurre verso il corso Grugliasco.
    
    Già da tre giorni Cinzia aveva preso possesso del nido delizioso in
    cui prima non faceva che rare comparse. Ella si era fatta consegnare
    da Livio la chiave, dicendogli che là dentro voleva essere la sola
    padrona e non desiderava che egli ne profittasse per condurvi altre
    donne.
    
    Inoltre aveva voluto che Livio si recasse da Passiflora onde non
    dargli alcun sospetto fino al giorno decisivo della loro rottura.
    
    Il conte aveva ceduto a tutte le sue volontà, tanto più che non
    aveva il diritto di dubitare del suo amore, se la capricciosa
    rinunziava al marchese per lui.
    
    Egli scese dinanzi alla porticina segreta e pulsò il campanello
    elettrico.
    
    Un uomo che pareva un domestico comparve, facendo un inchino.
    
    - È il signor conte! Avanti, avanti! -
    
    Livio lo guardò con sorpresa: non aveva mai veduto quell'individuo.
    
    Tuttavia lo seguì senza esitare.
    
    Nell'anticamera il domestico gli tolse il soprabito, il cappello, il
    bastone, e stava per precederlo nel salotto, quando Cinzia apparve
    sorridente.
    
    Salutò il conte, indi, rivolta al domestico:
    
    - Puoi andartene; non abbiamo più bisogno di nulla. Vieni, amor mio!
    - disse al conte.
    
    Livio seguì Cinzia, che lo condusse fino ad un padiglione di lillà,
    posto in un angolo del giardino.
    
    Il padiglione era vivamente illuminato; nel mezzo era preparata una
    tavola per due, con piatti freddi, gelatine ed un numero abbastanza
    notevole di bottiglie in ghiaccio.
    
    Cinzia rideva come una bambina.
    
    - Sei contento della sorpresa? - disse. - Qui godremo di un fresco
    delizioso e di un profumo inebriante, mentre ceniamo: e saremo al
    tempo stesso nella più completa libertà, come isolati dal mondo
    intero.
    
    - Sì, è bellissimo e ti ringrazio del tuo gentil pensiero! - esclamò
    Livio. - Ma dimmi, chi è quel domestico venuto ad aprirmi?
    
    - È un cameriere della trattoria dove ho ordinato la cena: oggi ho
    avuto anche altri uomini in casa: tappezzieri, fiorai, Perché ho
    voluto cambiare le giardiniere e i mobili che non mi piacevano....
    Mi sgriderai?
    
    - Perché dovrei sgridarti? Ti ho dato carta bianca! Ma siedi qui;
    non mi hai ancora dato un bacio.
    
    - Aspetta; prima vado a vedere che non ci sia più alcuno. -
    
    Fuggì, ma ritornò dopo brevi istanti e gli si gettò fra le braccia,
    esclamando:
    
    - Siamo proprio soli.... soli.... Oh! che felicità!... -
    
    Livio se la strinse al petto con passione, ma Cinzia si svincolò.
    
    - Le sentimentalità a più tardi! - disse ridendo. - Prima ceniamo. -
    
    Al conte pareva di non averla mai vista più desiderabile.
    
    Sedette accanto a lei sopra un divano che la cortigiana aveva ivi
    fatto trasportare.
    
    Cinzia mangiò con appetito, o mentre mangiava volle sapere da Livio
    che cosa gli avesse detto il marchese.
    
    Livio le ripetè lo ultime frasi di lui.
    
    Cinzia rise a crepapelle.
    
    - Che imbecilli sono gli uomini! - esclamò.
    
    - Anche per me dici questo?
    
    - Perché no? - rispose la cortigiana, alzando le spalle con aria di
    sfida. - Ne faccio giudice te stesso. Mentre sei in possesso di una
    moglie bella, adorabile, stai qui a spasimare per una donna, che non
    vale la punta del suo dito mignolo.
    
    - Non dire così, né mi parlare di mia moglie; voglio te, te sola! -
    
    Ella divenne più audace.
    
    - Sì, me l'hai già ripetuto, salvo poi, se io domani lascio
    definitivamente il marchese per te, ad abbandonarmi dopo una
    settimana in mezzo ad una strada.
    
    - No, Cinzia, te lo giuro!
    
    - I tuoi giuramenti valgono poco. Che garanzia ne ho io?
    
    - Ma sarei qui, vicino a te, a supplicarti di essere mia, se non ti
    amassi? -
    
    Il riso di Cinzia si fece insolente.
    
    - Amarmi? - interruppe. - Questa parola in bocca tua è una
    bestemmia. Se la povera Giulietta Lovera non ti avesse prestato fede
    quando le giuravi altrettanto, tu, invece di farla sopprimere da
    quello stolido che credeva a tutte le tue menzogne, l'avresti
    adorata; se Bianca Moreno avesse riso alle fanfaluche che le
    raccontavi, sarebbe stata la moglie felice di un altro, e tu saresti
    con un impiccio di meno.
    
    - Taci, Cinzia, taci! - mormorò il conte.
    
    - No, voglio che tu capisca che a me non la darai ad intendere.
    
    - Ebbene, ammetti pure che quello che provo per te non sia amore, ma
    un delirio dei sensi; - proruppe eccitato Livio, bevendo molto vino
    generoso, mentre toccava appena i cibi - ma è certo che ho bisogno
    assoluto di te, né potrei adesso lasciarti. Con te sola posso
    sfogarmi liberamente, dire tutto quello che penso....
    
    - Cioè, quello che ti torna più comodo dire, - interruppe Cinzia - e
    tenermi invece nascosti gli eventi più importanti della tua vita.
    Così mi confidasti di esserti sbarazzato di Giulietta Lovera per
    mezzo di Fabio, ma non mi dicesti il segreto che ti lega a costui,
    qualche grave motivo, né mi raccontasti del famoso tranello che
    servì a perdere Aldo e la bella Cleo, mia rivale. E vuoi che creda
    di essere la tua prescelta? No! Più penso ai tuoi inganni, anche
    verso me, più mi cresce il desiderio di darti un addio per sempre e
    ritornare dal mio vecchio marchese, nel cui cuore leggo come in un
    libro aperto. E tu cercherai un'altra amante, chè delle donne non ne
    mancano, quando si ha le tasche piene, benchè quel denaro sia stato
    estorto in modo poco delicato a tua moglie.
    
    - Ma taci dunque! - gridò Livio in un impeto di collera e di
    passione, rovesciandola sul divano. - Vuoi dunque farmi impazzire? -
    
    La cortigiana disse con la più completa calma:
    
    - E tu vuoi il mio amore, mentre mi tratti da villano? Vuoi forse
    strangolarmi come facesti con Ilda, per violarla? -
    
    Il conte si raddrizzò con impeto.
    
    - Violarla? - ripetè. - Chi ti ha dato ad intendere tali stupide
    fandonie? Sì, l'avrei fatto, Perché era in mia balìa, se nella
    stanza attigua non vi fosse stato Aldo e non avessi avuto timore di
    essere sorpreso. Vuoi saper tutto? Te lo dirò, ma devi giurarmi di
    non far più parola del marchese Passiflora e di lasciare Torino con
    me. Sì, sono ricco, tu l'hai detto, e con questo denaro potremo
    viaggiare, divertirci, godere ancora la vita!
    
    - Non mi basta.
    
    - Che vuoi ancora?
    
    - Te lo dirò poi, quando avrai parlato. Ora confessati a me.... lo
    voglio.... te ne prego!
    
    - Maliarda! -
    
    Nel giardino il silenzio era perfetto.
    
    Il conte colmò un bicchiere di vino, e dopo averlo vuotato:
    
    - Ascoltami: - disse afferrando una mano di Cinzia - voglio
    contentarti, Perché tu sola mi sei stata fedele anche quando
    t'ingannavo, ed è forse per questo che torno con delirio a te, ora
    che non ho più altri che mi ami.
    
    - Non hai fatto la pace con tua moglie?
    
    - L'hai creduto? Ebbene, te lo giuro, Cinzia: dal giorno che Bianca
    trovò la tua lettera, prese a odiarmi, a disprezzarmi: né le
    preghiere, né le minacce poterono indurla ad amarmi ancora: sarebbe
    morta prima di cedermi.
    
    «Eppure un giorno mi amò! Ricordo ancora le prime felicità della
    nostra unione.
    
    «Ma non ne parliamo più: tutto è passato; fra me e Bianca vi è un
    muro di ghiaccio; se ella mi lascia amministrare il denaro
    ereditato, se vive in una completa solitudine, è Perché crede forse
    che l'uomo da lei amato sia morto.
    
    «Ed io l'odio, quell'Aldo, e vorrei averlo non solo infamato, ma
    ucciso!
    
    «Sì, io tesi quel tranello a lui e ad Ilda, ma ti giuro che in
    quella sera non ci pensavo.
    
    «Mi ero recato a casa di Ilda, o della bella Cleo, come tu la
    chiami, assalito da un desiderio ardente di conoscere l'uomo che
    essa aveva preferito a me.
    
    «Aldo Pomigliano mi venne indicato come l'amante della bella Cleo.
    
    «Chi era costui? Dove prendeva il denaro per mantenere il lusso
    della giovane?
    
    «Il marchese Passiflora s'incaricò di spiegarmelo. Egli mi disse che
    l'oro con cui Aldo pagava i capricci della cortigiana proveniva da
    mia moglie, di cui era l'amante.
    
    «Nel primo impeto del furore volevo correre nella sala,
    schiaffeggiare il giovane, ucciderlo; ma riflettendo meglio, pensai
    che lo scandalo sarebbe ricaduto su me, e volli trovare un altro
    mezzo per vendicarmi.
    
    «Ed il mezzo mi si offrì quella notte stessa. - Qui il conte
    raccontò a Cinzia la scena accaduta nella camera della bella Cleo.
    
    - Tu fosti fortunato! - esclamò Cinzia quando egli le ebbe detto
    tutto, e come fosse fuggito dalla casa d'Ilda senza incontrare
    alcuno. - La fortuna è degli audaci! Ora incomincio a credere che tu
    sia l'uomo che mi convenga.
    
    - Cinzia! - mormorò Livio appassionatamente, cercando attirarla a
    sé.
    
    - Un momento! - diss'ella svincolandosi. - Ancora non mi hai detto
    tutto. Chi è dunque Fabio, il complice, che fai agire a tuo talento,
    che preferisce disonorarsi al disonorarti?
    
    - Vuoi saperlo? Quell'uomo che ha fede in me come in Dio, è mio
    fratello. Siamo figli della stessa madre, ma egli è nato per essere
    il mio schiavo, io il padrone: la nostra sorte non sarà mai uguale:
    io potrei ucciderlo, egli mi adorerà fino alla morte.
    
    - Fabio sa di questo legame che esiste fra voi?
    
    - Sarei stato uno stupido se glielo avessi rivelato! Egli porta il
    nome di due vecchi servi di mia madre, che salvarono in tal modo
    l'onore della loro padrona. Fabio ignorerà sempre la verità, mi
    adora come suo benefattore, non ha altra volontà che la mia. -
    
    Cinzia gli disse lentamente:
    
    - Così, se tu dovessi sopprimere tua moglie, ti serviresti ancora di
    lui? -
    
    Il conte balbettò:
    
    - Sopprimere mia moglie? A che scopo? -
    
    Cinzia si mise a ridere.
    
    - E me lo domandi, mentre pretendi di amarmi? Se vuoi che io
    abbandoni Passiflora, ricominci la vita con te, devi cercare il
    mezzo di sopprimere tua moglie; così, liberi entrambi, ricominceremo
    la vita in due, non pensando più che ad adorarci. Vuoi? -
    
    Si era chinata verso lui, avvolgendolo del suo profumo.
    
    Livio fu inebriato.
    
    - Sì, - rispose - fa' conto che Bianca sia già morta. Ma questa
    volta Fabio sarà uno strumento incosciente: egli le verserà la morte
    in qualche bevanda, dove vi sarà della polvere che io gli consegnerò
    come un medicinale per guarirla. Sei contenta così?
    
    - Sei proprio l'uomo che io ho sempre sognato, l'unico che io possa
    amare! - esclamò Cinzia. - Vieni, rientriamo in casa. -
    
    Essi erano spariti, lasciando accesi i lumi nel padiglione.
    
    Allora sorsero, come dalla terra, cinque uomini vestiti di nero.
    
    Uno di essi disse:
    
    - Non una parola, finchè non ci troveremo a casa mia: andiamo, è
    tempo. -
    
    Si diresse verso la porticina segreta; gli altri lo seguirono in
    silenzio.
    
    L'uomo che aveva parlato era Umberto Trani.
    
    XI.
    
    Bianca ricominciava a godere della più pura felicità. Era circondata
    da persone fedeli, che tutto mettevano in opera Perché dimenticasse
    i suoi dolori.
    
    Aveva tanto bisogno di essere consolata. I sonatori ambulanti
    vennero alloggiati nella villa, e Fabio diede ordine che si avesse
    per essi ogni riguardo.
    
    Milia si avvide con sorpresa che il servo Martino si era molto
    interessato di quei girovaghi, ed aveva permesso che la piccola Gina
    dormisse nella stanza stessa della contessa.
    
    Ciò era molto strano. Ed il conte non compariva. Che voleva dir ciò?
    
    Fabio si era di nuovo assentato, ed al suo ritorno, dopo un lungo e
    segreto colloquio con la contessa, aveva licenziato alcuni
    domestici, mettendo ai loro posti Aldo e le sue compagne.
    
    Milia incominciava ad avere qualche sospetto.
    
    Di mano in mano che Bianca ricuperava le forze e la salute, le sue
    passeggiate nel parco si allungavano sempre più e si faceva spesso
    accompagnare dalle nuove cameriere, dal nuovo domestico.
    
    Ciò inasprì Milia, quantunque la contessa le avesse detto con molta
    dolcezza:
    
    - Tu non devi stancarti. Io sto benissimo, non ho più bisogno
    d'appoggio e sono sorvegliata lo stesso. La piccina mi tiene per
    mano e mi aiuta a cogliere i fiori: non desidero altro.
    
    - Ma io vorrei sapere se il conte è poi proprio contento che vi
    teniate attorno della gente, che egli non conosce! - rispose Milia.
    
    La contessa aggrottò lo sopracciglia.
    
    - Qui adesso la padrona sono io: - soggiunse - quando tornerà mio
    marito, agirà come egli crede. E tu sei abbastanza saggia ed onesta
    per comprendermi. -
    
    Milia però non era persuasa e si ripromise di sorvegliare, intuendo
    che tutti quei cambiamenti di persone nascondevano qualche segreto
    che il conte ignorava.
    
    Una sera che la contessa, rientrata in camera con la piccina, aveva
    fatto chiamare Aldo, che aveva assunto il nomignolo di Cantor,
    appunto perché cantava sempre qualche romanza accompagnandosi con la
    chitarra, Milia vide scendere furtivamente nel parco Martino con la
    più giovane della compagnia, la Moretta, come la chiamavano.
    
    La vedova intuì un intrigo amoroso.
    
    - Se scopro qualche cosa, questa volta ne avverto il conte, dovessi
    recarmi a Torino! - pensò. - Tutti questi pasticci mi sanno di
    marcio; sono certa che il padrone ignora tutto e Martino gli ruba il
    salario. -
    
    Si era tolta le scarpe, e seguì guardinga la coppia che non s'era
    accorta di lei.
    
    Fabio camminava accanto ad Ilda, senza parlare.
    
    La coppia camminò ancora un pezzo, quindi sedette sopra un sedile
    all'ombra di alcune piante.
    
    Milia, strisciando leggermente, giunse a poca distanza da loro e
    tese avidamente gli orecchi.
    
    - Ilda, - disse dolcemente Fabio con una voce che la vedova non
    avrebbe riconosciuta se non avesse saputo da chi veniva - ho voluto
    parlarti ancora prima di partire.
    
    - Il conte ti ha proprio chiamato?
    
    - Sì, egli mi dice che non può in questo momento lasciar Torino ed
    ha urgente necessità di vedermi: puoi immaginarti ciò che vuole da
    me.
    
    - Dunque, non è sazio d'infamie, non ha pietà di una povera martire
    che chiede solo di essere lasciata tranquilla? Non gli basta il
    denaro di lei: ne vuole la vita! né il suo cuore si è mosso un solo
    istante a pietà per te, e cerca ora di nuovo la tua mano per versare
    la morte alla sua vittima? E tu puoi ancora resistere di fronte a
    lui?
    
    - È necessario, Ilda, se vogliamo salvare la contessa, - disse
    lentamente Fabio. - Non temere: questa volta lui cadrà in trappola,
    ed io, suo fratello, sarò il suo giudice! Ilda, ho voluto vederti,
    Perché tu sei forte, e nessuno più di te può vegliare Perché alla
    povera donna nulla trapeli di quanto si trama attorno a lei. Le ho
    taciuta l'ultima parte della confessione del conte per timore di
    colpirla mortalmente: l'ho detto a te, Perché conosco la tua energia
    e so che non mi tradirai. E poi, adesso che tu mi hai perdonato,
    sento in me un coraggio che non ebbi mai, affronterò tutto. -
    
    La voce di Ilda si fece commossa.
    
    - Fui violenta e dura con te. - esclamò - ma avevo sofferto tanto!
    
    - Oh! mia Ilda!... -
    
    Stettero un momento silenziosi, tenendosi per mano.
    
    - Fabio, - disse ad un tratto Ilda - io vorrei chiederti un'altra
    cosa.
    
    - Parla, mia cara!
    
    - Dobbiamo fidarci di Milia, quella vedova che il conte ha messo al
    fianco della moglie? Ho sorpreso certi suoi sguardi che mi hanno
    dato da pensare. Ella sospetta di noi.
    
    - Milia - rispose gravemente Fabio - è una buona creatura, che serba
    riconoscenza al conte per averla salvata dalla miseria e non
    immagina certo di servire essa pure d'istrumento cieco ai voleri di
    un briccone. Essa può diventare pericolosa per noi non essendo a
    parte della verità. Per cui fa duopo allontanarla.
    
    - No, non mi allontanate, non mi allontanate; io sarò dei vostri, se
    è vero che il conte è un uomo cattivo! - esclamò Milia, non potendo
    contenersi, sorgendo ad un tratto dinanzi alla coppia sbalordita.
    
    - Sciagurata! Avevamo dunque ragione di dubitare di voi! - proruppe
    Fabio alzandosi con impeto. - Dove vi eravate nascosta? Che avete
    sentito?
    
    - Tutto.... - balbettò la vedova con voce appena intelligibile - ma
    ve lo giuro.... è stato a fin di bene....
    
    - Non vi crediamo, - interruppe Ilda - Perché, se così fosse,
    avreste interrogato lealmente il mio compagno o la contessa.... No,
    non possiamo fidarci di voi! -
    
    Milia ebbe una scossa nervosa.
    
    - Se io fossi una donna disonesta, se io volessi tradirvi, - disse -
    non vi chiederei di rimanere qui: mi sarei recata a Torino per
    avvertire il conte del tradimento che si prepara per lui. -
    
    Fabio ed Ilda si consultarono con un rapido sguardo, poi la giovane
    disse:
    
    - Ebbene, vogliamo prestarvi fede, ma se vorreste tradirci, non vi
    mancherebbe la punizione.
    
    - Sono sicura che non me la meriterò mai.
    
    - Ecco allora ciò che esigo da voi: - disse Fabio - fingerete colla
    contessa d'ignorare che essa corre un pericolo. Durante la mia
    assenza fate in modo che nessun estraneo l'avvicini ed entri nella
    villa. Se io tornassi in compagnia del conte, non parlate delle
    persone che ho accolte.
    
    - Il conte non verrà che quando sarà finito tutto, - interruppe Ilda
    - cioè, quando l'avvertiremo che la contessa non è più. -
    
    Milia soffocò un grido.
    
    - Mio Dio, credete proprio che il conte voglia farla sopprimere?
    
    - Sì; - rispose Fabio - ma Dio vuole altresì che la buona signora
    abbia intorno cuori devoti, persone che sapranno dare la propria
    vita per salvare la sua....
    
    - Io per la prima, - esclamò con slancio sincero Milia - verserei a
    goccia a goccia tutto il mio sangue per lei!
    
    - Vi credo. - disse Ilda stendendole la mano.
    
    Ritornarono in casa.
    
    La mattina seguente la posta recava una lettera di Livio alla
    contessa.
    
    Il conte le scriveva:
    
    «Mia adorata Bianca,
    
    «Dal mio e tuo fidato servo Martino ho saputo che tu vai
    migliorando, e puoi figurarti se ciò mi rallegra, mi fa benedire di
    essermi allontanato per qualche tempo da te: così al mio ritorno
    ritroverò la mia Bianca di una volta e ricominceremo insieme una
    vita nuova.
    
    «Però io rimango ancora per qualche settimana assente, farò un
    piccolo viaggio; ma siccome voglio mostrarti che non ti dimentico ti
    manderò per Fabio una cassettina, in cui troverai diversi oggetti
    per te, che potranno ricrearti nella tua solitudine e farti
    ricordare chi ti adora sempre.
    
    «Tuo aff.mo marito Livio.»
    
    Fabio, partito la mattina, tornò infatti la sera portando la
    cassettina datagli dal conte per la moglie.
    
    Quella cassettina conteneva gingilli giapponesi, scatole d'argento
    piene di confetti, boccettine di profumo ed una fiala di vetro
    azzurro, su cui ora stampato: «Elixir miracoloso di lunga vita per
    ridonare le forze, ringiovanire la mente, eccitare l'appetito.»
    
    - Il conte mi ha raccomandato questo elixir, - disse Fabio a Bianca.
    - Egli mi ha detto di versarne alcune gocce ogni sera nella limonata
    che prendete prima di andare a letto, ed ha aggiunto che in pochi
    giorni sarete guarita. -
    
    Un tremito assalì Bianca: un presentimento le attraversò lo spirito.
    
    - Questa fiala contiene del veleno! - esclamò.
    
    Fabio rimase calmo.
    
    - Io non lo so, contessa: - rispose - vi ripeto le parole e l'ordine
    datomi da vostro marito. Ma dal canto mio vi dico: conservate questa
    fiala, nascondetela fino al momento in cui vi dirò di adoperarla:
    tenendola nascosta, vedrete che compirà il miracolo di prolungare a
    voi la vita ed accorciarla a chi ve l'ha mandata. E giacché siamo
    qui uniti, aggiungo: l'ora della giustizia è sonata! -
    
    PARTE QUINTA
Il castigo del colpevole.
    
    I.
    
    Erano le due di notte.
    
    Il conte Livio Rossano usciva dalla casa di Passiflora, dove aveva
    vuotato il suo portafogli, perché la sorte gli era stata
    sfavorevole.
    
    Egli era di cattivissimo umore, mentre tornava a piedi all'albergo.
    
    Cinzia, dopo avere stretto un patto segreto con lui, era partita da
    Torino, ingiungendogli di rimaner lì per non dare sospetti, fino a
    che l'ostacolo che impediva la loro unione fosse stato tolto di
    mezzo per sempre. La cortigiana gli aveva bensì promesso di
    scrivergli, ma ancora non si era fatta viva, né da Fabio aveva avuto
    alcuna nuova sul risultato del miracoloso elixir, che doveva
    compiere la guarigione della contessa.
    
    Ciò lo rendeva nervosissimo, inquieto.
    
    Quella notte il cielo era oscuro, piovigginoso: nelle strade buie,
    deserte, tutto ora triste, silenzioso.
    
    Livio era giunto all'angolo di una strada deserta, allorchè un uomo
    di alta statura gli si fece dinanzi, balbettando con voce commossa:
    
    - Ho bisogno di parlarvi, signor conte! -
    
    Livio fece istintivamente un passo indietro.
    
    - Parlarmi a quest'ora? - esclamò. - Che cosa volete? Io non vi
    conosco.
    
    - Mi farò conoscere, conte. - interruppe l'altro togliendosi il
    cappello e mostrando un volto pallido, patito, con grand'occhi
    luccicanti, coronato da capelli bianchi come la neve. - Guardatemi
    bene. Io sono un uomo onesto, non vi ho mai fatto del male, ma voi
    mi condannaste ad una vita d'inferno, non pensando che io potessi un
    momento o l'altro cogliervi a vostra volta. -
    
    Livio l'osservava con stupore, non conoscendo affatto quei
    lineamenti.
    
    - Io credo, signore, - gli disse - che i fumi del vino vi abbiano
    dato al cervello, Perché più vi guardo, meno mi ricordo di avervi
    già veduto.
    
    - Il mio volto non vi è certo familiare, ma io non sono ubriaco né
    pazzo, conte; se non mi conoscete di figura, mi conoscete di nome:
    sono Guglielmo Rivalta, il cognato di Aldo Pomigliano.
    
    - Ah! - esclamò il conte, lieto di trovare qualcuno su cui sfogare i
    suoi nervi. - Capisco! Siete il galantuomo che aiutava lo studente
    galante a mangiare i denari di mia moglie.
    
    - Vile, miserabile! - urlò Guglielmo facendo l'atto di gettarsi su
    lui.
    
    Ma il conte aveva fatto un salto indietro, e con un rapido
    mulinello, girando il bastoncino, ne lasciò cadere il pomo di piombo
    sul capo scoperto dello sventurato che cadde di peso al suolo.
    
    Livio non stette ad osservare se fosse ferito o morto: nessuno aveva
    assistito a quella rapida scena, onde si allontanò lestamente,
    fischiando un'aria di operetta.
    
    L'avventura gli aveva calmato i nervi.
    
    Intanto Guglielmo, che per il colpo perdeva sangue dal capo, sotto
    la pioggia incominciava a rinvenire, quando sentì alcune voci che
    dicevano:
    
    - È ubriaco!
    
    - No, è ferito!
    
    - Bisogna trasportarlo all'ospedale!
    
    - Aspettate che cerchi alla meglio di fermargli il sangue! -
    
    Sotto la pressione della mano che gli fasciava il capo con un
    fazzoletto, Guglielmo si riebbe e disse:
    
    - Non è nulla, credo di potere alzarmi e andare a casa. -
    
    Gli uomini che si erano presi cura di lui, erano dei bravi operai,
    che a quell'ora già si recavano al lavoro.
    
    Essi si mostrarono lieti, sentendo che il ferito parlava.
    
    - Aspettate, signore, vi sosterremo e vi accompagneremo fino a casa.
    
    - Vi ringrazio, vi ringrazio mille volte! - disse Guglielmo. - Ma
    posso andar solo. Ho avuto uno svenimento, e nel cadere mi sono
    ferito. Ma ora sto bene. -
    
    E salutati gli operai si allontanò.
    
    Guglielmo Rivalta aveva preso alloggio nella casa stessa dove era
    stata assassinata la povera Giulietta, e non avrebbe neppure egli
    saputo dire il perché. Nel casamento avevano dimenticato il dramma
    accaduto. La soffitta abitata un giorno da Giulietta, quindi da
    Ilda, era stata presa in affitto da un venditore ambulante che vi
    depositava la sua merce.
    
    Guglielmo Rivalta aveva affittato una camera all'ultimo piano,
    qualificandosi sensale. Appena si trovò nella sua cameretta,
    Guglielmo si sfasciò la testa: il sangue non colava più. Egli empì
    una catinella d'acqua, si lavò, poi, fasciatosi di nuovo, si stese
    vestito sul letto, a meditare.
    
    Egli era sparito da Ivrea senza lasciar detto dove si recasse,
    Perché nessuno potesse dubitare dell'idea che si era messa in mente.
    
    Guglielmo voleva provocare il conte, costringerlo a battersi con
    lui, ucciderlo per vendicare tutte le vittime del miserabile e
    soprattutto il suo povero cognato, la sua adorata Severina e sé
    stesso.
    
    Il signor Rivalta era un valentissimo schermitore, per cui era
    sicuro del fatto suo, né gli sorgeva neppure il pensiero che in un
    duello potesse esser vinto.
    
    Aveva cercato a lungo il conte e l'aveva ritrovato per esserne quasi
    aggredito in quel modo!
    
    Guglielmo digrignò i denti, si morse le dita. Il suo odio contro
    Livio si esasperava.
    
    Vendicarsi, vendicare Severina, Aldo e tutti gl'innocenti! Ciò
    diventava un vero fanatismo nella mente di Guglielmo.
    
    Il giorno dopo uscì di casa e si diresse senz'altro verso l'albergo,
    dove sapeva che il conte alloggiava, per averlo già pedinato.
    
    - Si potrebbe parlare col conte Livio Rossano? - chiese gentilmente
    Guglielmo al segretario dell'albergo.
    
    - Il conte è partito per la sua villa di Moncalieri, - rispose. - Ha
    ricevuto un telegramma che lo chiamava colà: sembra che la contessa
    si sia improvvisamente aggravata. -
    
    Guglielmo si sentì venir freddo.
    
    - Stava male, la contessa?
    
    - Oh! da molto tempo non si muove più dalla villa: il conte non
    teneva neppur più casa a Torino; venendo qui per i suoi interessi,
    si tratteneva nel nostro albergo.
    
    - Lo so, e mi dispiace della nuova che mi dà; gli scriverò. -
    
    Allontanandosi, agitava nella sua mente terribili idee.
    
    - Anche lei, anche lei!... Ah! questo pone il colmo a tutte le sue
    iniquità. Ma sarà l'ultima, lo giuro! -
    
    Guglielmo salì in tranvai per recarsi a casa. Si mise nelle tasche
    della giacca una rivoltella carica a sei colpi, un paio di
    fazzoletti, il portafogli.
    
    Guglielmo non sapeva dove si trovasse la villa del conte, ma era
    sicuro che, giunto a Moncalieri, tutti gliel'avrebbero indicata.
    
    Era di domenica. Il signor Rivalta prese il tranvai che partiva
    almeno un'ora prima del treno, e arrivato a destinazione si fece
    indicare da un trattore la villa del conte. Era distante: un'ora di
    cammino; ma Guglielmo non si sgomentò.
    
    Giunto nei pressi della villa, si fermò e sedette.
    
    Come entrare là dentro?
    
    - Che stupido! - disse a un tratto. - Se la contessa è aggravata
    andrà bene il medico a curarla, le si chiamerà anche il prete.
    Ebbene, per mezzo di questi, io entrerò nella villa. -
    
    E soddisfatto della sua idea, si rialzò e camminò gesticolando,
    minacciando un fantasma invisibile.
    
    II.
    
    Cinzia non aveva lasciato Torino, ma compiuta la sua parte con Livio
    si era rifugiata di nuovo in casa del marchese Passiflora.
    
    Fu però assai sorpresa di non trovare nel gentiluomo
    quell'accoglienza che si aspettava per essere riuscita a smascherare
    il conte in faccia a coloro che lo volevano nelle mani.
    
    - Non sei contento di me? - gli chiese con audacia. - Bada che io
    ritorno da Livio e non gli nascondo che la mia è stata solo una
    commedia per perderlo.
    
    - Tu non andrai, - disse freddamente il marchese - se hai cara la
    tua vita: intanto non uscirai dalla tua camera, Perché se tu lo
    tentassi ti ucciderei! -
    
    Cinzia si morse a sangue le labbra.
    
    - A che giuoco giochiamo, vecchio mio? - esclamò. - Non sei tu forse
    che per il primo mi hai spinta a vendermi ai nemici del conte, non
    sei tu che mi hai allettata dicendomi che, compiuta un'impresa che
    avrebbe liberata la società di un birbante, mi avresti dato il tuo
    nome?
    
    - È verissimo.
    
    - E allora, Perché adesso sembri minacciarmi, invece di stendermi le
    braccia come meritavo?
    
    - Il perché lo saprai tra qualche giorno. Adesso, ti ripeto, sei mia
    prigioniera. Tu hai detto al conte che partivi per un viaggio, e
    deve crederlo.
    
    - E se io non accettassi la tua condizione?
    
    - Non discutiamo. Se tu tentassi di uscire dalla tua camera, ti
    farei saltare le cervella, salvo poi a fare altrettanto con le mie.
    Guarda! -
    
    Le mostrò una rivoltella che teneva in tasca, ed aggiunse in tono
    più mite:
    
    - Del resto, non è che una prigionia di pochi giorni, non ti
    mancherà nulla e ti servirò io stesso da carceriere. -
    
    Cinzia non replicò, ma provava una rabbia profonda, mista ad
    un'angoscia orribile per qualche cosa d'impreveduto, che non poteva
    definire.
    
    - È questa dunque la ricompensa per averti servito con tanto zelo?
    Senza di me, non avresti mai avuto il conte nelle mani.
    
    - Questo è vero, - rispose con calma il marchese. - E senza di lui
    non t'avrei così bene conosciuta come ora ti conosco. -
    
    Cinzia fu chiusa nella sua camera, ed il marchese, acceso un sigaro,
    si ritirò nel suo salotto, dove si mise a fumare nervosamente,
    camminando in su e in giù, gesticolando.
    
    Il marchese Passiflora, come sappiamo, aveva commesso un giorno una
    viltà, facendo ritirare dalla posta lettere dirette alla contessa,
    lettere che la condannavano, benchè pura ed innocente, scoprendo al
    conte il legame fra Aldo e la contessa.
    
    Inoltre Passiflora, trovatosi solo, senza affetti, si ora dedicato a
    Cinzia, che gli pareva creatura fatta proprio per lui.
    
    Col proporle di vivere insieme, il marchese aveva avuto lo scopo di
    conoscerla meglio, e la maliarda aveva saputo agire in modo, che
    egli si era innamorato di lei fino a sentire il bisogno di darle il
    suo nome, onde rialzarla ai propri occhi ed a quelli degli altri.
    
    E quando il Trani, rimasto suo amico, gli propose di servirsi di
    Cinzia per indurre il conte a confessione, il marchese dapprima
    rifiutò. Non era bastato a Livio di togliergli Bianca, e gli
    toglierebbe ora anche la sola compagna che gli abbisognava?
    
    Ed in uno sfogo di passione, di gelosia, disse al magistrato:
    
    - Cedergli Cinzia? Mai, mai! -
    
    Il Trani guardò l'amico con commiserazione, gli prese una mano, che
    tenne stretta nella sua.
    
    - Tu commettesti un giorno un'azione indegna dl te, - disse - ma
    puoi ancora ripararla, Perché in fondo sei un gentiluomo onesto, né
    vorrai macchiare il tuo onore per una donna indegna di te.
    
    - Tu calunni Cinzia! - gridò il marchese.
    
    - Ti proverò che ella si ride di te, che se l'intende di nuovo con
    Livio, - disse il Trani.
    
    Un fiotto di sangue salì al cervello di Passiflora, gli imporporò il
    viso.
    
    - È falso...., è falso!...
    
    - È la verità, e, per quanto possa offenderti, non voglio
    nascondertela. Tu credevi di prendere una rivincita sul conte,
    prendendogli la donna che fu sua amante. Orbene, il domani stesso, i
    due si ritrovarono insieme. Nel rivedersi, sentirono risvegliarsi
    con nuova forza gli istinti bestiali di una volta; ma siccome Cinzia
    teme di perderti, finge un profondo disprezzo pel conte. -
    
    Passiflora strinse i pugni.
    
    - Se ne fossi certo! - esclamò.
    
    - Che faresti? Vorresti imbrattare la tua mano di gentiluomo per un
    sgualdrina? Lascia quella parte al conte, che oramai ha perduto ogni
    senso di onore, e se ti resta ancora un atomo di affetto per la
    sventurata contessa che tu stesso contribuisti a calunniare, aiutaci
    a salvarla, a toglierla dalle mani del suo carnefice. -
    
    Non invano il magistrato aveva fatto appello all'onore del marchese.
    Tutti gli istinti cavallereschi si risollevarono ad un tratto in
    lui, lo fecero ridiventare padrone di sé stesso.
    
    Egli stese la mano ad Umberto.
    
    - Ebbene, sarò con te: spiegami quale sia il tuo progetto! -
    
    Umberto glielo disse. Passiflora ascoltò dapprima attentamente, poi
    ad un tratto interruppe:
    
    - Ma se tu affermi che Cinzia è d'accordo con Livio, non accetterà
    di tradirlo.
    
    - Lo farà; tu non conosci ancora bene quella donna: ella è venale e
    non vuol perderti. Tutti i giorni non le si offre l'occasione di
    divenire marchesa autentica. Io le farò la proposta, e vedrai che
    l'accoglierà con entusiasmo. Intanto domani la farò chiamare nel mio
    gabinetto, fingendo di volerle parlare da sola; tu sarai ad
    ascoltare.
    
    - Accetto, accetto e ti ringrazio! -
    
    Passiflora rimase così persuaso della perfidia e leggerezza di
    Cinzia.
    
    Quando il magistrato le propose di sedurre novamente il conte per
    fargli confessare i suoi delitti, Cinzia simulò scrupoli di
    delicatezza, disse che non si sarebbe mai prestata a simile
    commedia.
    
    Ma quando Umberto le dimostrò che egli non ignorava i misteriosi
    convegni di lei col conte nel nido del corso Grugliasco, Cinzia,
    spaventata, non potendo negare, balbettò con accento soffocato:
    
    - È vero, non ho saputo sottrarmi al fascino che mi attira verso
    Livio; ma, per pietà, non mi perdete con Passiflora: che egli nulla
    venga a sapere, ed io vi servirò in tutto quello che volete!
    
    - Il marchese stesso desidera di smascherare il conte, e dietro mia
    preghiera acconsente che voi l'attiriate nel tranello che io ho
    ideato: dalla mia bocca Passiflora non saprà nulla; ma guai a voi se
    ci tradirete col conte! -
    
    Cinzia aveva ripresa la sua audacia.
    
    - Potete fidarvi di me: ambisco troppo a divenire una marchesa
    autentica. -
    
    Passiflora ebbe il coraggio di non muoversi, di non tradire la sua
    presenza con un solo movimento; ma appena Cinzia fu partita, si
    slanciò presso l'amico esclamando:
    
    - Tu avevi ragione, io tenevo una benda sugli occhi per quella
    sgualdrina; ma ora è caduta e non macchierò il mio stemma per una
    tale femmina, come pure desidero rialzarmi agli occhi della contessa
    per ottenere un giorno il suo perdono. -
    
    Il marchese sentiva ormai troppa vergogna per quello che aveva
    fatto, ed avrebbe dato metà del suo sangue per rimediarvi.
    
    Cinzia non sapeva che la notte della confessione di Livio, anche
    Passiflora era fra coloro che ascoltavano. Il Trani l'aveva
    introdotto nella villa sotto un travestimento facendolo passare per
    un suo fidato agente, ed il marchese si era allontanato dopo gli
    altri, in preda ad un disgusto orribile per quella coppia colpevole,
    assalito da uno spasimo angoscioso nel sentire con quanta freddezza
    il conte accettava di sbarazzarsi della moglie.
    
    Allorchè Cinzia era ritornata a lui, fingendo con Livio di partire
    finchè tutto fosse finito, il marchese, ritenendo pericoloso che il
    conte sospettasse la presenza della cortigiana nella sua casa, e
    soprattutto Perché nessun ostacolo sorgesse ad impedire quanto il
    Trani aveva combinato, pensò di tenervela rinchiusa.
    
    Cinzia, prigioniera da due giorni, incominciava a trovare la cosa
    singolare, e si pentiva di aver preferito il marchese al conte, dal
    momento che questi, una volta libero di sua moglie, si dava
    completamente in sua balia.
    
    Dopo una settimana passata in alternative di speranze e timori,
    Cinzia non ne potè più.
    
    Ella voleva ad ogni costo uscire dalla sua reclusione.
    
    Picchiò, risoluta, all'uscio, decisa a farne saltare in aria la
    serratura od a chiedere aiuto dalla finestra se il marchese non
    compariva.
    
    Ma al primo clamore Passiflora accorse.
    
    - Che c'è? - chiese, - Che vuol dire un tal chiasso?
    
    - Vuol dire che sono stanca di rimanere qui! - esclamò Cinzia con
    accento rabbioso.
    
    - Se tu avessi avuto pazienza, questa sera stessa ti avrei liberata,
    - risposo Passiflora. - Ma non importa: sarà forse meglio
    anticipare, Perché è giunto il momento di una spiegazione importante
    fra noi. -
    
    Cinzia ristette indecisa, turbata, e senza rispondere si mise a
    sedere.
    
    Passiflora fece altrettanto e, senza alcun preambolo:
    
    - Sai dove si trova in questo momento il tuo amante? - chiese.
    
    Cinzia sussultò.
    
    - Il mio amante? - ripetè. - Vuoi forse parlare del conte? Vuoi
    prenderti giuoco di me? Sai bene che mi sono sacrificata a ritornare
    con lui per alcuni giorni onde compiacere te ed il tuo amico Trani.
    -
    
    Passiflora lasciò sfuggire una lugubre risata.
    
    - Ed i tuoi ritrovi anteriori erano pure fatti per compiacermi? -
    
    Cinzia si morse le labbra, ma non chinò per questo gli occhi.
    
    - Il tuo amico mi ha calunniata!
    
    - Lui? Egli non ha aperto bocca sul conto tuo: tu stessa ne parlasti
    trovandoti nel suo gabinetto, senza pensare che altri poteva
    ascoltarti.
    
    - Ebbene, se fosse vero? Forse che non vi ho dato il conte nelle
    mani, non vi ho serviti lealmente, mentre potevo tradirvi ed essere
    a quest'ora molto lungi di qui con lui?...
    
    - Ne convengo: tu hai mantenuto i tuoi patti e meriti una
    ricompensa. Per cui, invece di consegnarti alle guardie come
    complice del conte, ti condurrò io stesso fino a Genova, ti metterò
    a bordo di un bastimento che ti condurrà lontana dall'Italia....
    
    - Siete pazzo! - interruppe Cinzia. - Non partirò!
    
    - Preferisci dunque la prigione alla libertà? Perché, se tu rimani,
    sarai denunziata per aver preso parte all'assassinio di Giulietta
    Lovera, conoscendo fino da allora quello ed altri intrighi orditi
    dal conte, e di avere ultimamente istigato il conte a sbarazzarsi di
    sua moglie.
    
    - Non è vero! - gridò Cinzia.
    
    - Cinque testimoni, persone onorate, attesteranno come tu sola abbia
    spinto il conte Rossano a sbarazzarsi con un delitto di sua moglie.
    -
    
    Cinzia, còlta al laccio, gettò un grido di rabbia e disse:
    
    - Siete una massa di vigliacchi! -
    
    Il marchese, livido, trasse di tasca la rivoltella.
    
    Allora la sciagurata si vide perduta, e folle di terrore si gettò ai
    piedi del marchese.
    
    - Perdonami!... Perdonami!... Non mi uccidere!... Partirò. Farò
    quello che vorrai! -
    
    Gli occhi del marchese brillarono di una gioia sinistra.
    
    Nascose lentamente la rivoltella e trasse di tasca un foglio in cui
    era scritto che Cinzia si obbligava ad obbedirlo.
    
    - Ebbene, firma! - le disse.
    
    Cinzia obbedì.
    
    - Eccomi in tua balìa! - disse poi. - Non avrei mai pensato, il
    giorno in cui mi giuravi di amarmi, che tutto sarebbe finito così! -
    
    Ella lo fissava cogli occhi umidi di lacrime, e Passiflora, temendo
    di cederle, lasciò quella camera per andare a rinchiudersi nella
    propria.
    
    Gli occorrevano alcune ore per ricuperare tutta la sua fermezza onde
    giungere alla fine del suo compito.
    
    Ma quando ritornò da Cinzia, trovò la camera vuota. Aveva
    dimenticato di rinchiuderla, e la cortigiana ne aveva profittato per
    svignarsela.
    
    Passiflora si sfogò in invettive, quindi finì col calmarsi.
    
    Doveva avvertire Umberto di quella fuga? Sì, era necessario.
    
    E senz'altro, il marchese si recò dal cavaliere Trani per avvertirlo
    di quanto accadeva.
    
    Ma il magistrato aveva egli pure lasciato Torino.
    
    III.
    
    Nonostante tutto il suo cinismo, allorchè il conte Rossano ricevette
    il telegramma di Fabio che diceva: «Contessa improvvisamente
    aggravata, si teme catastrofe, urge vostra presenza», un livido
    pallore si stese sul suo volto.
    
    Egli partì subito; ma era molto turbato.
    
    A Moncalieri fece attaccare un calesse che avrebbe guidato egli
    stesso.
    
    Livio non desiderava che alcuno turbasse le sue riflessioni di
    quell'ora.
    
    Egli voleva formarsi tutto un piano prima di giungere alla villa.
    Tutti, compreso Fabio, dovevano credere al suo dolore, al suo
    strazio per la fine immatura di Bianca.
    
    Ad un tratto sussultò. La morte di Bianca lo lasciava padrone
    interamente del patrimonio di lei? Non poteva Bianca aver fatto
    testamento a favore di altri, lasciando a lui la sola legittima?
    Perché non aveva pensato prima a tutto ciò? Era stato pazzo,
    imprudente!
    
    - Purchè arrivi in tempo a rimediarvi! - mormorava fra i denti. -
    Sono stato così pazzo da cercare di toglierla dal mondo prima di
    aver sistemati i miei interessi. -
    
    Il conte sferzava adesso il cavallo per giungere più presto.
    Bisognava ad ogni costo che Bianca testasse a suo favore.
    
    Eccitato da quel pensiero, il conte proseguiva a frustare.
    
    Era giunto ad un sentiero, le cui pietre ruzzolavano sotto i passi
    del cavallo.
    
    Livio scese e condusse a mano l'animale.
    
    Egli fremeva d'impazienza.
    
    Finalmente giunse al cancello della villa: silenzio perfetto. Livio
    tirò con violenza il campanello.
    
    Il giardiniere corse ad aprire. Il conte gli domandò:
    
    - Ebbene, Lorenzo? La contessa è dunque peggiorata?
    
    - Oh! signore.... non avrò mai il coraggio di dirglielo.... no....
    no!... - esclamò il giardiniere.
    
    E ruppe in pianto.
    
    Livio divenne livido.
    
    - Parla.... lo voglio.... - balbettò con accento soffocato - la
    contessa.... mia moglie? -
    
    Lorenzo rispose con voce rotta:
    
    - E spirata.... questa mattina. -
    
    Un urlo, che parve avere squarciato il cuore del conte, sfuggì dalle
    sue labbra.
    
    - Morta!... Morta!... No! Dimmi che non è vero!...
    
    - Ahimè, signore.... se potessi farla rivivere, darei con piacere
    tutto il mio sangue! -
    
    Livio sembrò assalito da una specie di furore e corse verso la
    villa.
    
    Nel vestibolo vide alcuni domestici che l'osservavano, pallidi e
    inquieti. E ad un tratto gli si fece incontro Fabio, pallidissimo,
    ma calmo.
    
    - Perdonatemi, signor conte, - disse con voce commossa - se non sono
    venuto alla stazione; ma urgeva la mia presenza qui. Non so se ho
    fatto male, ma ho dato ordine che non fosse ancora avvertito alcuno
    della morte della contessa.
    
    - Hai fatto benissimo; - rispose a voce alta il conte, Perché tutti
    lo intendessero - fino a domani, proibisco a chiunque di
    parlarne..... Oh! mia Bianca, mia povera, amata Bianca! -
    
    Ruppe in singhiozzi e si afferrò al braccio di Fabio per sostenersi.
    
    - Coraggio, signor conte! - disse questi dolcemente. - Nessuno
    poteva prevedere una così rapida fine. Nessuno qui ha trascurato il
    suo dovere. Abbiamo avuto per la povera signora tutte le premure; si
    sperava nel miracoloso elixir da voi mandato e che non trascuravo di
    farle prendere ogni sera; eppure non è bastato! -
    
    Fabio s'interruppe, Perché piangeva.
    
    - Martino, accompagnami nella mia camera; - disse il conte - mi
    narrerai l'accaduto. Ora non avrei il coraggio di vederla. Chi
    veglia accanto a lei?
    
    - Milia, che non l'ha abbandonata mai.
    
    - Come siete stati buoni tutti! Io solo l'ho trascurata, almeno in
    apparenza, mentre non pensavo che a lei; andiamo, Martino! -
    
    Salì al proprio appartamento, e appena in camera gettò il cappello
    sul letto e si lasciò cadere su di una poltrona.
    
    - Signore, - disse Fabio - la povera contessa ha scritto una lettera
    per voi e mi ha pregato, qualche ora prima di morire, di
    consegnarvela. -
    
    Il conte apparve oltremodo agitato.
    
    - Una lettera per me? Dammela subito!
    
    - Vado a prenderla, conte! -
    
    Fabio uscì e tornò poco dopo con una lettera fra le mani.
    
    - Mentre leggete, - disse - io andrò a dare alcuni ordini necessari.
    -
    
    Fabio uscì di nuovo.
    
    Livio volse e rivolse la busta fra le mani, poi la strappò
    convulsamente da un lato, ne tolse il foglio che Bianca aveva
    scritto, e lesse:
    
    «Livio,
    
    «L'accostarsi della morte dà nuove facoltà all'intelletto, tanto che
    cogli occhi della mente si penetra nei cuori, si legge in essi ciò
    che hanno tenuto sempre nascosto.
    
    «Ed io leggo in quest'istante nel tuo cuore, ti vedo esultare nel
    trovarti alfine libero di colei, la cui perdita effettua i tuoi
    sogni di piacere e di ricchezza. Sei sceso alla bassezza,
    all'infamia, al delitto, per ottenere il tuo intento.
    
    «Ebbene, il mio denaro non l'avrai! L'assassino non pensa sempre a
    tutto. La carta che tu mi facesti firmare e ti dava
    l'amministrazione di tutti i miei beni, la dimenticasti nel partire
    ed io l'ho distrutta: la mia ricchezza è in salvo e passerà nelle
    mani di coloro che tu credevi di distruggere, e che invece
    sopravviveranno a te.
    
    «Una dichiarazione da me firmata ed unita alla boccetta che contiene
    ancora una parte dell'elixir miracoloso che tu m'inviasti, rivelerà
    la causa della mia morte, la spaventosa agonia cui mi condannasti e
    che nascosi gelosamente all'istrumento incosciente dei tuoi delitti,
    il quale senza saperlo mi ha versato il veleno, credendo con esso di
    ridarmi la vita.
    
    «La mia dichiarazione, unita alla boccetta, l'ho chiusa io stessa
    nella cassaforte della mia camera; ho appeso la chiave, attaccata ad
    un cordoncino, al mio collo, ed ho fatto giurare a Milia che, anche
    dopo morta, quella chiave non mi verrà tolta se non da colui che ho
    già designato perché venga a staccarla da me prima che io sia
    deposta nella bara.
    
    «Ho fatto altresì giurare a Fabio che, se io venissi a morte, egli
    solo ne veglierà il cadavere.
    
    «Ed ora che ho tutto disposto, ora che ho fatto giustizia del mio
    carnefice, verserò il triplo della dose che tu mi facevi mescere del
    tuo miracoloso elixir per finirla al più presto e perché al più
    presto tu sia punito.
    
    «Bianca.»
    
    Dire ciò che provasse il conte a quella lettura, sarebbe
    impossibile.
    
    Vinto.... era vinto, quando si credeva prossimo alla vittoria!
    
    Una rabbia fredda s'impadronì di lui. Egli sanò con violenza il
    campanello.
    
    Fabio accorse.
    
    - Tu hai mentito con me, - disse con voce sorda. - Da questa lettera
    apprendo che i miei nemici hanno potuto parlare alla contessa. -
    
    Fabio lo guardava, addolorato.
    
    - Io non vi comprendo, conte, - rispose. - Vi giuro che nessuno ha
    mai avvicinato la contessa all'infuori del medico che veniva qualche
    volta a visitarla e del parroco, Perché voi stesso avevate dato
    ordine di non rimandarli.- -
    
    Il conte andava calmandosi.
    
    - Io non capisco più nulla, - mormorò. - Bianca mi fa delle accuse,
    che io non merito. Essa non ha cessato di odiarmi fino alla tomba.
    
    - Odiarvi? Io credo che v'inganniate, conte. La contessa già da
    qualche tempo parlava con grande affetto di voi, mi diceva che se
    avesse seguito i vostri consigli si sarebbe trovata più tranquilla e
    felice, che non vi aveva apprezzato abbastanza. Ella stessa volle
    che vi telegrafassi perché si sentiva morire, e aggiunse che in quel
    supremo istante il vostro sublime affetto le appariva in tutto il
    suo splendore, ed apprezzando la mia devozione per voi e per lei, mi
    fece giurare che veglierei il suo cadavere. -
    
    Il conte fremeva, mentre Fabio parlava. Egli non poteva, né voleva
    mostrare al giovane la lettera della contessa. Fabio non doveva
    sapere che si era servito della sua mano per versarle il veleno.
    
    Ah! pazzo che era stato a non prender prima tutte le sue
    disposizioni!
    
    Un fremito di disperazione lo colse: lo spettro della miseria, del
    disonore, si drizzò davanti a lui.
    
    Ma siccome era energico, non tardò a riaversi da quella debolezza e
    formò subito nella sua mente un'ardita risoluzione.
    
    - Voglio crederti, - disse a Fabio - benchè questa lettera mi
    dimostri il contrario. Ma la mia povera Bianca deve averla scritta
    in un momento di esaltazione mentale. Ah! non mi perdonerò mai di
    non essere stato vicino a lei negli ultimi momenti! Dimmi, ha molto
    sofferto?
    
    - Moltissimo! - rispose Fabio. - Se voi foste stato qui, non avreste
    potuto resistere a quell'orribile agonia. E la contessa non voleva
    che si chiamasse il medico, né altri; diceva che l'unica medicina
    che l'avrebbe guarita, voi stesso gliel'avevate mandata. -
    
    Livio impallidì, si morse le labbra, e passandosi una mano sulla
    fronte:
    
    - Chiamami Milia! - disse.
    
    Fabio uscì subito per obbedirlo. Un momento dopo la vedova compariva
    dinanzi al conte.
    
    Ella aveva gli occhi gonfi di lacrime, ed alla vista del suo padrone
    scoppiò in pianto, balbettando:
    
    - Oh! signor conte, Perché non siete venuto prima? Mio Dio.... mio
    Dio, essa è morta chiamandovi, disperata! -
    
    Il conte la guardò con aria minacciosa.
    
    - Non è vero! Essa mi ha maledetto! E tu le tenesti mano per
    favorire i miei nemici, tu le conducesti qui il suo amante! -
    
    Milia indietreggiò spaurita.
    
    - Voi bestemmiate, conte! Da quando sono qui, la contessa è vissuta
    come una santa. Martino può attestarlo. Io posso giurarvi che era
    una donna veramente onesta, e se volete sapere la verità, prima di
    morire la contessa ha passato al suo collo un cordoncino con
    attaccata una chiave e mi ha detto:
    
    «- Giurami, Milia, che non mi lascerai togliere questa chiave che da
    una bambina, la quale si presenterà qui prima che io venga deposta
    nella bara e ti dirà: «Sono la figlia del conte Rossano e di
    Giulietta Lovera; la mia povera mamma fu assassinata innocente. A me
    sola spetta di consegnare questa chiave nelle mani di mio padre.» -
    
    Il conte sentì intorbidarsi gli occhi, fece un passo indietro, poi
    disse a Milia:
    
    - La contessa vaneggiava.
    
    - Essa era pienamente in sé, padrone, ed io attendo domattina quella
    bambina: se non verrà, allora voi avrete ragione, conte. Sono una
    donna onesta, e Dio mi punirebbe se non mantenessi il giuramento
    fatto ad una morente. Non venite, conte, a vedere la povera signora?
    
    - Verrò più tardi, lasciami! -
    
    Voleva essere solo per calmare il tumulto dei suoi pensieri,
    ritrovare la calma necessaria per non tradirsi in faccia ad alcuno.
    
    Ah! come era stato giuocato bene da quella morta, che egli aveva
    creduto di tenere nelle mani!
    
    Quale colpo supremo gli aveva preparato, facendogli consegnare
    quella chiave dalla figlia di Giulietta, dalla sua propria figlia!
    
    Livio non aveva viscere di padre. Il ricordo di quella bambina cui
    fece assassinare la madre, non lo commoveva, ma l'irritava.
    
    Come poteva la contessa averle parlato? Se la fanciulla era entrata
    nella villa, per certo vi era venuto anche Aldo Pomigliano!
    
    Egli cercava la verità senza trovarla, e continuava a digrignare i
    denti, a bestemmiare, a maledire.
    
    Poi tornò a calmarsi, e tutte le sue facoltà si concentrarono per
    avere le ricchezze di Bianca.
    
    Non un rimorso nell'anima del conte: solo il pensiero di salvarsi e
    ricuperare la fortuna che gli sfuggiva.
    
    Atteggiando il volto al più profondo dolore, egli si diresse
    all'appartamento di Bianca. Nel corridoio incontrò Fabio.
    
    - Dammi il braccio; - mormorò Livio - temo di non avere la forza di
    sopportare la vista di quella salma adorata.
    
    - Coraggio! - disse Fabio.
    
    Entrarono nella camera della contessa. Milia, che era presso al
    letto funebre, si chinò come se volesse aggiustare i guanciali della
    morta, quindi si trasse da parte.
    
    La camera era avvolta nell'oscurità: chiuse le persiane e le
    imposte; una sola lampada accesa gettava un incerto chiarore sul
    letto, dove il conte vide distesa sua moglie, vestita di bianco, con
    le trecce nere pendenti sull'abito, gli occhi chiusi.
    
    Egli osò appena guardarla: ebbe un brivido di paura, e staccatosi da
    Fabio cadde sulle ginocchia fingendo di singhiozzare disperatamente
    e gridando:
    
    - Mia povera Bianca, mia povera Bianca! -
    
    Fabio e Milia, ritti, immobili, muti, sembrava non osassero turbare
    quel dolore.
    
    Ad un tratto il conte si rialzò balbettando:
    
    - No, non posso resistere, non posso resistere: tornerò più tardi;
    se rimanessi qui adesso, impazzirei! -
    
    E fuggì da quella camera, si recò nel parco per essere solo a
    riflettere.
    
    Appena fu scomparso, Bianca aprì gli occhi, si sollevò alquanto,
    sorrise.
    
    - Credete al suo dolore? - chiese.
    
    - No, - risposero insieme Fabio e Milia.
    
    - Il conte non vi ha rivelato il contenuto della mia lettera?
    
    - No, - soggiunse Fabio - se ne è guardato bene; però non ha potuto
    nascondere i suoi fremiti di furore; ho visto nei suoi occhi passare
    dei lampi sanguigni.... e sono ormai persuaso che stanotte si
    tradirà.
    
    - Recatevi a sorvegliarlo, - disse dolcemente la contessa. - Non
    bisogna perderlo d'occhio un istante. Inoltre vi raccomando di farlo
    mangiare e soprattutto bere.
    
    - Fidatevi di me. -
    
    Il conte, in balìa dei propri pensieri, si mise a percorrere
    rabbiosamente i viali del parco, gesticolando; poi si gettò disteso
    sull'erba, e coi pugni chiusi sotto il mento, gli occhi torbidi, si
    diede ad organizzare nella sua testa tutto un piano tenebroso che
    quella notte stessa doveva avere uno svolgimento.
    
    - Fabio solo può aiutarmi, e mi aiuterà! - mormorò ad un tratto
    quasi ad alta voce.
    
    Riconfortato da questa riflessione si rialzò ed ebbe un brusco
    sussulto, trovandosi all'improvviso dinanzi il giovane, cui in quel
    momento pensava.
    
    - Tu qui? - disse Livio vivamente.
    
    Fabio appariva triste, commosso.
    
    - Andavo in cerca di voi, - rispose. - Vi avevo veduto così agitato!
    Ma ora ringrazio Dio di ritrovarvi più tranquillo! -
    
    Il conte gli prese una mano, gliela strinse affettuosamente.
    
    - La tua presenza mi rende il coraggio. Oh! ti ringrazio di essere
    venuto! Nessuno è più fedele di te e so che posso contare
    assolutamente sul tuo affetto.
    
    - Sì, conte; io non dimentico la lettera di vostra madre, la
    contessa Rossano, la mia benefattrice; ho sempre in mente le sue
    parole: «Su mio figlio riverserai tutta la riconoscenza che nutri
    per me, obbedirai ad ogni sua volontà, farai solo ciò ch'egli ti
    ordinerà di fare» ed io sono tutto vostro. -
    
    Un raggio di trionfo passò negli occhi di Livio.
    
    - Grazie, Fabio!... - esclamò. - Sei degno del mio amore!... -
    
    Ritornarono a casa a braccetto. Nel salotto particolare del conte
    era imbandita la tavola, e Livio volle che Fabio vi sedesse con lui.
    
    Il conte cominciò a mangiare macchinalmente, con aria triste, poi il
    suo appetito essendosi risvegliato, fece onore alle vivande e
    bevette più di quello che volesse, eccitandosi a poco a poco,
    incitando Fabio a fare lo stesso.
    
    - Sì, è una sventura per me la morte di Bianca; - disse empiendo un
    bicchiere di vecchio barolo - ma lei, poveretta, ha finito di
    soffrire. Col suo cervello debole, la sua salute scossa.... -
    
    Vuotò il bicchiere di un fiato e soggiunse:
    
    - Non poteva durare a lungo: aveva un temperamento troppo
    eccitabile. -
    
    Bevve di nuovo, e guardando fissamente Fabio:
    
    - Dunque, Bianca ti ha fatto giurare di passare la notte presso il
    suo cadavere?
    
    - Sì, conte, - rispose gravemente il giovane - ed io adempirò al mio
    giuramento. - Farai bene, io veglierò la cara salma con te. -
    
    Fabio lo guardò a sua volta negli occhi.
    
    - Voi, conte? Ne avrete la forza?
    
    - Tu sarai con me e mi darai coraggio. E poi avrò forse da chiederti
    un favore.
    
    - Qualunque sia, - rispose Fabio con dolcezza - sarete obbedito.
    Sono il vostro schiavo.
    
    - No, sei il mio amico, il mio solo e migliore amico. -
    
    Gli stese la mano, senza accorgersi che quella di Fabio ebbe un
    fremito nel toccarla.
    
    Poi il giovane disse:
    
    - Allora, se permettete, andrò a dare gli ordini opportuni Perché
    Milia vada a riposare ed i domestici si ritirino di buon'ora.
    
    - Va' pure, e fa' intendere che non voglio a nessun costo essere
    disturbato! -
    
    Fabio uscì, ed il conte, versatosi un altro bicchiere di barolo,
    disse sogghignando:
    
    - Oh! mamma cara, come fosti previdente nel procurarmi un tal
    fratello!... La tua colpa d'amore ha dato a me due volte la vita! -
    
    IV.
    
    Erano circa le dieci. Nella villa regnava il più perfetto silenzio.
    I domestici si erano coricati, così Milia, dopo avere scambiate
    poche parole con Fabio.
    
    Bianca, distesa sul letto, sembrava dormisse l'ultimo sonno.
    
    Quando il conte entrò con Fabio, questi disse:
    
    - Io temo che la vista del cadavere finisca col turbarvi e non
    possiate sopportarla; se me lo permettete, tiro le tende del letto.
    
    - Fai pure! - rispose il conte.
    
    Fabio si affrettò ad obbedire.
    
    Una sola lampada rischiarava la stanza.
    
    - Volete che accenda un altro lume? - chiese Fabio.
    
    - No, - rispose il conte - basta così.... Spingi piuttosto quella
    poltrona presso alla mia, Perché dobbiamo discorrere. -
    
    Fabio fece quanto egli desiderava.
    
    - Se ho voluto passare la notte qui con te, - cominciò il conte con
    voce cupa - è stato per rivelarti ciò che nessun altro deve sapere,
    per farti una confessione che ti strazierà il cuore, come ha
    straziato il mio. -
    
    Livio sembrò reprimere un singhiozzo.
    
    - Mio Dio, che è successo? - chiese Fabio. - Forse correte nuovi
    pericoli? Cercano ancora di farvi del male?
    
    - Sì, ed è quella morta, capisci, che si vendica di me, non
    perdonandomi di avere smascherato il suo amante; quella morta che mi
    ha odiato fino all'ultimo momento.
    
    - Se non foste voi che me lo diceste, non lo crederei, Perché, vi
    ripeto, la contessa in questi ultimi tempi sembrava cambiata a
    vostro riguardo.
    
    - Per meglio ingannarti! - interruppe il conte. - Tu, così ingenuo,
    fidente, non te ne accorgesti; ma io posso dirti che è riuscita a
    rivedere il suo amante, posso provarti che Bianca è morta per
    vendicarsi di me.
    
    - Morta per vendicarsi di voi? - ripete con accento di sorpresa
    Fabio. - Scusate, conte: non vi comprendo. -
    
    Il conte volse uno sguardo rapido al letto, come se temesse che la
    morta sorgesse a smentirlo; poi disse:
    
    - Tu credi che la morte di Bianca sia stata naturale? -
    
    Fabio finse di scattare sulla poltrona, stralunò gli occhi.
    
    - Ma non so, non capisco...! -
    
    Livio si chinò ancora più verso lui.
    
    - Mia moglie è morta avvelenata! - disse piano.
    
    Fabio gettò un grido.
    
    - Avvelenata? Come? Da chi?
    
    - Da sé stessa.
    
    - Un suicidio, dunque?
    
    - Sì, un suicidio, per perdermi. -
    
    Fabio era divenuto pensieroso.
    
    - Ma come ha potuto procurarsi il veleno?....
    
    - Ecco ciò che ignoro, ma un momento o l'altro lo scopriremo.
    
    - Ma voi, in qual modo indovinaste...?
    
    - Dalla lettera che tu mi consegnasti da parte della defunta,
    lettera che è tutta una minaccia, un insulto per me. Bianca mi dice
    che ha nascosto nella cassaforte il resto dell'elixir da me
    inviatole, con la dichiarazione che contiene del veleno.
    
    - Non è vero, però? - interruppe Fabio, mostrandosi agitato.
    
    Il conte alzò le spalle.
    
    - Non capisci che il veleno vi è stato posto da Bianca, la quale ha
    così dato sfogo al suo odio contro me! Ma se quella boccetta con
    quella dichiarazione venisse trovata, io sarei perduto. -
    
    Il viso di Fabio si era contratto.
    
    Egli volse uno sguardo disperato alla cassaforte.
    
    - Come fare? La chiave non è nella serratura, e noi non possiamo
    sforzare il mobile.
    
    - Io so dove si trova la chiave; - disse lentamente il conte -
    Bianca stessa me lo dice nella sua lettera. Ma ella è sicura che io
    non la toglierò mai dal posto dove si trova, e per questo mi affido
    a te. Sì, tu solo puoi rendermi un tale servizio, e me lo farai,
    altrimenti ne va del mio onore, della mia vita.
    
    - L'onore e la vita del vostro schiavo - disse Fabio - non hanno
    alcun valore, quando si tratta della vostra salvezza; io sono pronto
    a sacrificarli per voi. Ditemi dove si trova quella chiave.
    
    - Al collo della morta, - rispose il conte tremando - ed io non avrò
    mai il coraggio di togliergliela. -
    
    Fabio si passò una mano sulla fronte.
    
    - Sarebbe una profanazione, quasi un delitto!
    
    - Pensa che, diversamente, io sono perduto; ricordati la
    raccomandazione della tua benefattrice, la preghiera di tua madre. -
    
    Fabio scattò in piedi.
    
    - Avete ragione! - disse con accento risoluto. - Perdonatemi se ho
    esitato un istante. -
    
    Si diresse di passo fermo verso il letto funebre, ne tirò di nuovo
    le tende.
    
    Il conte, più livido del cadavere, seguiva ogni movimento del
    giovane, senza muoversi dal suo posto.
    
    Egli vide Fabio chinarsi verso la salma e ad un tratto
    indietreggiare con un grido, mentre la morta si sollevava sul letto,
    e con una voce che sembrava venisse di sotterra, pronunziava queste
    parole:
    
    - Non ti basta, Livio, di aver fatto di tuo fratello un assassino;
    vuoi che sia anche ladro? -
    
    Il conte tentò di rispondere, ma la voce gli spirò nella gola; fece
    per alzarsi, ma i suoi piedi ricusarono di muoversi e si ripiegò
    svenuto.
    
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . .
    
    Quando risensò, era nella propria camera e dinanzi a lui, colle
    braccia incrociate sul petto, stava Fabio.
    
    Ma il giovane non aveva più l'aspetto timido, sommesso, che il conte
    gli conosceva.
    
    Egli alzava fieramente la bella testa, ed i suoi occhi fissi su lui
    avevano un'espressione di freddo disprezzo.
    
    - Io sogno.... - mormorò Livio.
    
    - No, tu sei sveglio, Caino.... - rispose Fabio sordamente. -
    Guardami, guardami bene.... Sono io, Fabio.... tuo fratello! -
    
    Il conte ricominciava a riprendere la sua audacia.
    
    Si raddrizzò con violenza.
    
    - Mio fratello.... tu? Chi ti ha dato ad intendere simili menzogne?
    
    - Dimentichi la confessione fatta da te stesso alla tua degna amante
    Cinzia? - rispose Fabio ridivenendo ad un tratto calmo, ma di una
    calma terribile. - Io ero là ad ascoltarti, e non ero solo: altri
    raccolsero la tua confessione, mentre tu aprivi per la prima volta
    la tua anima alla donna che ti tradiva.
    
    - Tu menti! - ruggì il conte.
    
    - Ho le prove di quanto ti dico, e sono in mani sicure.
    
    - Ebbene, ammettendo che tu sia figlio di mia madre, tu sei un
    bastardo, e non pretenderai adesso di avere gli stessi diritti del
    figlio legittimo.... Dovresti ringraziare Dio se ti venne dato un
    nome! -
    
    Fabio vacillò sotto l'ingiuria, ma sollevando tosto con più fierezza
    la testa:
    
    - Sì, quel nome mi sarebbe bastato, - pronunziò - se tu non ti fossi
    compiaciuto di trascinarlo nel fango. Io non ti contendo i tuoi
    diritti, ma sono qui per chiederti conto di tutte le infamie che
    m'inducesti a commettere. Che facesti tu e mia madre del fanciullo
    che nella sua innocenza vi credeva suoi benefattori, del fanciullo
    che aveva lo stesso vostro sangue nelle vene? Un vile schiavo ed un
    sicario. Una povera fanciulla da te ingannata sotto il mio nome, ti
    dava noia per i tuoi progetti di matrimonio; tu armasti la mia mano
    per sbarazzarti di lei, facendola apparire un mostro di
    dissolutezza. Una buona creatura da me amata suscitò il tuo
    capriccio, e tu fosti lieto della mia condanna che la toglieva a me
    e la dava nelle tue mani. Avevi ideato di perderla. -
    
    - Non è vero! - urlò il conte.
    
    - Se essa è sfuggita al tuo oltraggio, - proseguì Fabio - non è
    stato per tua volontà. Un giovane onesto, che aveva raccolta tua
    figlia, che venerava la contessa come una santa, destò la tua
    invidia e te ne sbarazzasti, facendolo passare per ladro. Non parlo
    di tutte le altre tue vittime: tuo suocero, la signora Rivalta,
    morti di crepacuore. Vengo alla contessa. Non ti bastava di averle
    tolto il padre, cercasti di sopprimerla avvelenandola. Ed avevi
    scelto di nuovo me per versare la morte alla povera martire. Ma Dio
    era stanco delle tue infamie e permise che io aprissi gli occhi sul
    tuo conto e che la contessa fosse salva. -
    
    Un grido di rabbia sfuggì dalle labbra di Livio.
    
    - È dunque commedia la morte di Bianca? - esclamò.
    
    - Sì, commedia, per smascherarti interamente. Neppure davanti a
    quella donna che tu credevi cadavere avesti un lampo di rimorso per
    quello che volevi farmi commettere. Ebbene, vedi: benchè io sia
    povero, disprezzato, non abbia il nome che tu porti, mi sento più
    grande di te, né vorrei cambiare la mia posizione colla tua. Potrei
    ucciderti con le mie mani, ma non voglio fare la parte di Caino;
    eppure, se ti lasciassimo vivere, tu faresti ancora del male! -
    
    Quest'ultima frase riempì Livio di terrore. Egli si portò le mani in
    tasca, come se cercasse un'arme che non aveva, digrignò i denti e
    con voce spezzata:
    
    - Che vuoi dunque da me? - chiese. - Pensi che io voglia farmi
    saltare le cervella?
    
    - No, qualcuno ti suggerirà una morte meno violenta. -
    
    Fabio aprì l'uscio e chiamò a voce alta:
    
    - Gina! -
    
    La figlia di Giulietta Lovera comparve. Essa assomigliava così
    stranamente alla madre, che il conte indietreggiò terrorizzato, come
    se si fosse veduto sorgere dinanzi la sua vittima.
    
    La fanciulla vestiva di nero, ed il suo adorabile viso aveva una
    gravità che colpiva.
    
    Ella teneva nella mano destra una chiave, ed avvicinandosi al conte:
    
    - La mamma vi manda questa chiave, - disse, con una voce che scosse
    tutte le fibre del miserabile - Perché possiate aprire la cassaforte
    e prendere la boccetta di liquore che vi guarirà per sempre. -
    
    Livio non rispose, non stese la mano.
    
    Guardava quella fanciulla, e grosse gocce di sudore gli scorrevano
    sulla fronte.
    
    - Non la volete? - proseguì Gina. - Avete paura? Eppure la mamma mi
    ha detto che siete forte e terribile! Io vi temevo e vi odiavo senza
    conoscervi, ma ora che mi hanno detto che siete ammalato, non vi
    temo né vi odio più, e vi darò la medicina per guarire, così
    diverrete buono, vi pentirete del male fatto. -
    
    Il conte continuava a guardarla, e ad un tratto chiese bruscamente:
    
    - Come sei qui?
    
    - Dio mi ha guidata qui per salvare la mamma.
    
    - È dunque la contessa, la tua mamma? - ripetè il conte
    sogghignando.
    
    - Sì, la mammina del cuore; l'altra mamma.... me l'hanno uccisa, ma
    Dio punirà il suo assassino! -
    
    Il sogghigno del conte si accentuò.
    
    - Sai chi sia stato il suo assassino? Guardalo.... l'hai dinanzi a
    te. -
    
    E le indicò Fabio, che era divenuto livido.
    
    La fanciulla gettò un grido, poi, spinta da un'angoscia indicibile,
    si slanciò verso Fabio.
    
    - Non è vero! - esclamò, - Dimmelo tu! Quell'uomo cattivo ha mentito
    per far del male anche a te!
    
    - No, Gina; - rispose con gravità e tristezza il giovane -
    quell'uomo ha detto la verità: per obbedire a lui, io tolsi dal
    mondo la tua povera mamma. -
    
    Gina si mise a singhiozzare.
    
    Fabio le si inginocchiò vicino.
    
    - Io ho pianto a lacrime di sangue il delitto fattomi commettere da
    quell'uomo, - proseguì - ma la tua povera mamma apparve a me una
    notte, stendendomi la mano, dicendomi che mi avrebbe perdonato il
    giorno in cui il vero colpevole fosse punito. Io ti giuro, Gina, che
    quando colui sarà punito, mi ucciderò, e tu allora mi perdonerai
    come mi perdonerà tua madre. -
    
    La fanciulla esitò un istante, poi si slanciò al collo di Fabio.
    
    - Io non voglio che tu ti uccida; ti perdono, come ti perdonerà la
    mamma, ti vorrò bene come prima, Perché tu non sei colpevole;
    l'assassino è lui! -
    
    E volgendosi al conte:
    
    - Sì, siete voi, - soggiunse - doppiamente cattivo, Perché dopo che
    avete fatto ammazzare la mamma, accusate un altro: la mamma non vi
    perdonerà mai, come io non vi perdono: voi mi fate paura, io vorrei
    vedervi morto! -
    
    Gettò la chiave in terra e si avvinghiò di nuovo a Fabio.
    
    - Portami via, - mormorò supplichevole - non voglio vederlo! -
    
    Nello sguardo del conte passò un lampo di odio, ma Fabio e la
    bambina non se ne avvidero, Perché uscirono dalla stanza,
    lasciandolo solo.
    
    La collera di Livio, fino allora repressa, scoppiò terribile. Egli
    morse con rabbia disperata un fazzoletto che teneva nelle mani,
    imprecò, bestemmiò.
    
    - Anche lui contro di me! - diceva. - Caino! Mi ha chiamato Caino, e
    lo sarò! Anche Cinzia mi ha tradito! Miserabile! Se potessi averla
    fra le mani.... Ah! credono che io voglia prendere il veleno?
    Stupidi tutti! La vita mi preme troppo e voglio conservarla per
    vendicarmi! Ah! tutti sperano che io scompaia! Ebbene, non sarà
    questa la soluzione che vi aspettate! Io prenderò ancora la mia
    rivincita, e quale rivincita: lo vedrete! -
    
    Egli aprì un cassetto del suo scrittoio e ne trasse una rivoltella
    carica a sei colpi, che si mise in tasca.
    
    Poi raccolse da terra la chiave che vi aveva gettata Gina, e si
    avviò all'appartamento di sua moglie.
    
    Era sorto il giorno, ma nella villa il silenzio era perfetto.
    
    Il conte entrò nella camera di Bianca.
    
    Non vi era alcuno.
    
    Livio volse subito gli sguardi alla cassaforte, e quando vi giunse
    vicino, i suoi occhi si fecero ardenti.
    
    Egli mise la chiave nella serratura, aprì.
    
    Vide subito la boccetta dell'elixir, con accanto un foglio piegato.
    
    Ma prima di prenderlo il conte rovistò febbrilmente nella
    cassaforte, sperando di trovarvi dei valori, o i gioielli della
    contessa.
    
    La cassaforte era vuota.
    
    Un'onda di sangue gli salì al capo.
    
    - Nulla, più nulla! - gridò.
    
    Allora, con una rabbia impossibile a descriversi, strappò coi denti
    il foglio vergato da Bianca senza neppure leggerlo, e afferrata la
    boccetta, la scagliò a terra: il liquido si sparse sul pavimento.
    
    Poi, con una furia da pazzo, il conte si slanciò verso l'uscio.
    
    Ma sulla soglia stava la contessa Bianca, sorridendo con sanguinosa
    ironia.
    
    Il conte indietreggiò come fulminato. Egli non riconosceva quasi più
    sua moglie in quella donna dal volto animato, dagli occhi brillanti.
    
    Essa inoltrò di qualche passo e disse:
    
    - Sapevo bene che non avevate cuore né orgoglio, che la vostra anima
    è inaccessibile al pentimento, che nulla vi avrebbe commosso,
    neppure la vista della vostra innocente bambina. Inoltre, siete
    troppo vigliacco per uccidervi! -
    
    Ad ogni insulto di quella donna, il conte trasaliva; ma non era
    quello l'istante di porre in opera quanto aveva divisato. giacché
    sua moglie era là, egli l'avrebbe costretta a dargli tutto il
    denaro, a firmare ciò che voleva.
    
    - Venite voi dunque a darmi la morte? - domandò.
    
    Bianca fece un atto di altero disprezzo.
    
    - Non sono un'assassina! - . rispose, - E giacché siete tanto
    attaccato alla vita, nessuno qui ve la toglierà. Solo vi avverto
    che, dietro la vostra completa confessione, che cinque testimoni,
    compresi due magistrati, hanno accolta, voi non sfuggirete alla
    giustizia umana. È già stato spiccato l'ordine di arrestarvi, e solo
    dietro una mia preghiera, per non suscitare scandalo, hanno lasciato
    che prima venissi a proporvi io stessa il patto, che solo varrà a
    salvarvi.
    
    - E questo patto? - chiese egli con tono leggermente beffardo.
    
    - Voi lascerete subito l'Italia: vostro fratello stesso vi
    accompagnerà fino all'Havre, ed al momento del vostro imbarco per il
    nuovo mondo, vi consegnerà una somma bastante a sopperire al vostro
    viaggio, ai vostri primi bisogni. Dopo, cercherete di guadagnarvi la
    vita ed espiare, col lavoro, l'indegna vostra condotta passata. Per
    me sarete morto, Perché scriverete un biglietto, in cui direte che,
    stanco di un'esistenza torturata dai rimorsi, vi siete ucciso. -
    
    Il conte era ritornato calmo.
    
    - E questo biglietto devo lasciarlo a voi?
    
    - Sì.
    
    - Ebbene, sarete soddisfatta; datemi carta e calamaio, ed io lo
    scriverò subito per mostrarvi che non sono il vile che credete e che
    qualche cosa di buono è ancora in me. -
    
    Mentre Bianca obbediva, il conte si strinse il capo fra le dita
    convulse, e come parlando a sé stesso:
    
    - Sì, sono stato un grande colpevole! - disse in tono violento. -
    Non merito il perdono di alcuno! -
    
    La contessa era commossa: senza guardare il conte, si chinò a
    disporre sul tavolino la carta da lettere ed il calamaio.
    
    In quel momento sentì un soffio ardente alle sue spalle; si volse di
    scatto e si trovò dinanzi il marito, livido, con gli sguardi
    scintillanti di selvaggia energia, la mano armata della rivoltella.
    
    - Credevi di trionfare, - esclamò Livio con un'esaltazione che andò
    crescendo - credevi di liberarti per sempre di me, di avermi nelle
    tue mani vinto, umiliato! Invece sei tu nelle mie: quella carta
    servirà a te stessa per scrivere che metà della tua sostanza mi
    appartiene interamente. Vedi che sono discreto; ma se tu esiti a
    scrivere, io ti uccido! -
    
    La contessa, alla vista della rivoltella, aveva provato un brivido
    di terrore, ma subito riprese la sua calma, Perché vide sollevarsi
    il panneggiamento di un uscio ed apparire Fabio alterato,
    irriconoscibile per lo spavento.
    
    Egli inoltrava in punta di piedi dietro al fratello: ma all'istante
    di afferrare il braccio che teneva la rivoltella, un movimento lo
    tradì.
    
    Livio si rivolse e gettò un grido di rabbia.
    
    - Ah! tu stavi a spiarmi? - urlò furente. - Vattene, vattene, o non
    rispondo più di me!
    
    - Colpisci dunque, Caino, colpisci! - esclamò Fabio presentando il
    petto al fratello.
    
    Bianca, presentendo il pericolo che il giovane correva, si gettò a
    sua volta sopra il conte per disarmarlo, ma non fu a tempo.
    
    Uno sparo rintronò, e Fabio, colpito alla spalla sinistra, cadde
    senza gettare un grido.
    
    - Assassino, fratricida! - urlò Bianca pazza dal terrore. - Aiuto!
    Aiuto! -
    
    Due uomini si precipitarono nella stanza: Aldo Pomigliano e Umberto
    Trani.
    
    Livio non li riconobbe: egli non era più un uomo, ma una belva.
    
    - Fatemi largo.... o ammazzo tutti! -
    
    Tre altri spari rintronarono nella stanza: fortunatamente i colpi
    andarono a vuoto.
    
    Ma Livio aveva ottenuto in tal modo il passo libero e si slanciò
    fuori, mentre gli altri non si occuparono più che di Fabio steso a
    terra, immerso nel sangue. Il conte scese, sempre correndo, nel
    parco, e si mise a percorrerlo come un forsennato, continuando a
    sparare colpi all'impazzata.
    
    Ma la rivoltella era ormai scarica; tuttavia egli continuava a fare
    scattare il grilletto, in preda a un delirio orribile, mentre le
    tenebre avvolgevano la sua mente.
    
    Alla svolta di un viale si fermò: un uomo gli era sorto dinanzi, un
    uomo armato egli pure di rivoltella.
    
    - Ah! finalmente ti ritrovo! Mi riconosci? - disse costui
    sbarrandogli il passo. - La Provvidenza mi ha scelto per porre un
    termine ai tuoi delitti: tu morrai per mano mia!
    
    - Non so chi siate! Indietro, o vi uccido io per il primo! - urlò a
    sua volta il conte.
    
    E spianò contro lui la rivoltella scarica.
    
    - Io morrò, ma vendicato! - rispose prontamente l'altro, lasciando a
    sua volta partire il colpo.
    
    Fu la cosa di un attimo. Un lampo brillò, un grido si intese, e il
    conte, colpito in pieno petto, cadde al suolo fulminato.
    
    L'uomo che aveva fatto giustizia era il signor Guglielmo Rivalta.
    
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . .
    
    Fabio apriva gli occhi alla vita dopo quindici giorni di alternativa
    fra speranze e timori.
    
    Egli si guardava attorno senza pronunziare parola.
    
    Una donna, col viso alterato dalle veglie e dal dolore, osservava
    quella prima manifestazione di vita con occhi inondati di pianto:
    era Ilda.
    
    Allorchè il medico, visitato il ferito, dichiarò che il caso era
    mortale e che soltanto un miracolo poteva salvare Fabio, Ilda
    esclamò con passione:
    
    - Io compirò il miracolo! Io lo salverò! -
    
    E non lasciandosi vincere dal dolore, curò Fabio giorno e notte.
    
    Egli era sempre in preda al delirio ed evocava ad alta voce le scene
    più orribili della sua esistenza, quelle che più erano rimaste
    impresse nella sua mente.
    
    Invano Ilda cercava di calmare quel delirio con delle pezze
    ghiacciate.
    
    Fabio si dibatteva, faceva degli sforzi, come se volesse difendersi
    da un nemico invisibile, respingeva la mano amica, pronta a
    salvarlo.
    
    E batteva l'aria con le braccia, cercava di gettarsi dal letto,
    quindi vi ricadeva spossato, mentre le lacrime inondavano il volto
    di Ilda.
    
    Di quando in quando Fabio sembrava riconoscerla, poi tornava a
    delirare, consumando così le sue forze, mentre Ilda pregava Dio che
    prendesse la sua vita, ma salvasse Fabio.
    
    Ma Dio, senza volere tanto sacrifizio da lei, le rendeva l'uomo
    redento dal dolore, dal pentimento!
    
    Lo sguardo di Fabio, dopo aver vagato a lungo qua e là, si fermò ad
    un tratto, per la prima volta con un lampo di intelligenza, su Ilda,
    e per la prima volta sembrò che la vedesse.
    
    - Tu? - mormorò. - Tu, mia adorata? Perché vicina a me? -
    
    Ilda non seppe resistere; chinandosi verso lui, mormorò con voce
    commossa:
    
    - Per salvarti. -
    
    Fabio fece un brusco movimento.
    
    - Per salvarmi? Forse che corro qualche pericolo?
    
    - No; ma sei stato molto malato. Ora, però, grazie a Dio, tutto è
    passato: tu sei guarito....
    
    - Per merito tuo, non è vero? -
    
    Ilda sorrise: Fabio le stese la mano; ma spossato da quel breve
    sforzo, richiuse gli occhi e si addormentò.
    
    Dormì per molte ore, né Ilda si mosse dal suo posto.
    
    Quando il medico giunse, Fabio dormiva sempre, né lo svegliò,
    assicurando Ilda che quel riposo tranquillo era vita per lui.
    
    - Quando si sveglierà, - disse - comprenderà tutto e potrà dirsi
    completamente guarito. -
    
    La contessa Bianca, Aldo e Gina entrarono nella camera per
    assicurarsi coi loro occhi del miglioramento di Fabio.
    
    Ed un sospiro di sollievo sfuggì dai loro petti.
    
    Allorchè Fabio riaperse di nuovo gli occhi, era perfettamente in sé.
    
    Riconobbe Ilda e sorrise.
    
    - Ah! sei tu, sempre tu! - disse con voce debole. - Quanto sei stata
    buona con me, che ti ho disconosciuta! Dimmi: fui ferito gravemente?
    
    - Sì, ma oramai ogni pericolo è scomparso.
    
    - Mi trovo sempre alla villa Bianca?
    
    - Sempre. -
    
    Fabio si passò una mano scarna sulla fronte, e con voce leggermente
    alterata:
    
    - E mio fratello? - mormorò.
    
    - Non pensare a lui, adesso: quando sarai più forte ti dirò tutto.
    
    - Lascia almeno che ringrazi te, che mi hai dato una seconda vita. -
    
    Le stese le mani, l'attirò a se: le loro labbra s'incontrarono in un
    lungo bacio.
    
    Il domani egli era più forte, e, risvegliandosi, trovò al suo
    capezzale non solo Ilda, ma la contessa Bianca, Gina ed Aldo.
    
    Quante esclamazioni di gioia quando il convalescente li salutò tutti
    a nome, sorrise loro fissandoli con sguardi dolci e turbati!
    
    Per molti giorni nessuno ricordò a Fabio i fatti avvenuti; ma
    allorchè il giovane cominciò ad alzarsi, ruppero il silenzio che
    diveniva ormai penoso.
    
    Ilda lo informò di quanto accadde dopo la scena rapida e violenta
    fra lui ed il fratello, che aveva cercato di ucciderlo.
    
    Raccontò la fine del conte.
    
    La gente, però, non sapeva il vero; la notizia era stata diffusa dal
    Trani, dal Meralta e dal marchese di Passiflora: Livio Rossano si
    era suicidato.
    
    Un mandato di arresto era stato spiccato contro lui, dopo una
    confessione firmata da cinque testimoni, in cui il conte aveva
    rivelato delle perfidie che nessuno avrebbe mai immaginate.
    
    Così si seppe che l'assassinio di Giulietta Lovera era stato ordito
    e fatto consumare da lui onde sbarazzarsi della giovane che
    gl'impediva di contrarre il suo matrimonio con Bianca.
    
    Così pure si scoprì che il tentato strangolamento di Ilda ed il
    furto del quale venne accusato Aldo Pomigliano, erano stati
    perpetrati dallo stesso conte pe' suoi fini tenebrosi.
    
    Inoltre il conte stava per commettere un ultimo e più infame delitto
    cercando di avvelenare la moglie; ma la giustizia, avvertita in
    tempo, si era recata alla villa per arrestarlo.
    
    Nella colluttazione che aveva avuto luogo per impossessarsi di
    Livio, questi, perduta la testa, aveva tirato alcuni colpi di
    rivoltella, andati a vuoto, poi si era slanciato nel parco, ed ivi
    si era suicidato.
    
    Ilda aggiunse che Cinzia, arrestata, aveva confermato quei
    particolari, ed era stata tale l'impressione provata per la tragica
    fine del conte, che la sciagurata si trovava morente nell'infermeria
    delle carceri.
    
    La giovane concluse che nessuno aveva fatto parola della ferita
    riportata da Fabio, dei suoi legami col conte, né alcuno avrebbe
    avuto il minimo dubbio sul suicidio di lui, se una lettera di
    Guglielmo Rivalta, ricevuta dalla contessa Bianca, non avesse
    rivelato che lo sventurato aveva fatto giustizia del colpevole e si
    era poi ritirato in un convento a finire i suoi giorni, persuaso che
    Dio lo avrebbe perdonato e ricongiunto alla sua adorata Severina.
    
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . .
    
    Sei mesi dopo, la villa Bianca era di nuovo in vendita.
    
    Bianca Rossano si era ritirata nella tenuta di suo padre, e Fabio,
    marito felice di Ilda, era divenuto amministratore dei beni della
    contessa. Sua moglie era la più devota amica della giovane vedova.
    
    Gina non aveva più lasciata la sua cara mamma. Aldo invece aveva
    ripreso dimora a Torino, continuando i suoi studi ed i suoi
    esperimenti sopra un modello di macchina, che un giorno gli
    procurerebbe fama e fortuna.
    
    Il tempo scorreva tranquillo nella tenuta.
    
    Una volta alla settimana Aldo vi compariva, ed era una vera festa
    per tutti, ma specialmente per Bianca.
    
    Due anni scorsero così.
    
    Una mattina Bianca ricevette un telegramma che le fece battere il
    cuore a colpi precipitosi,
    
    Diceva; «Stasera sarò costì a prendere il premio del mio lavoro.
    Aldo.»
    
    Questo voleva dire che il disegno esposto della macchina inventata
    da Aldo aveva riportato un trionfo.
    
    Ed a questo trionfo era collegato il suo avvenire e quello della
    contessa.
    
    Perché egli non avrebbe mai aspirato alla mano di lei finchè non
    avesse potuto offrirle un nome degno di lei.
    
    Quando Aldo giunse alla tenuta, tutti erano ad aspettarlo.
    
    Egli fu condotto in casa quasi in trionfo; ma dopo cena, quando la
    notte fu calata, tutti si ritirarono, lasciando Bianca e il giovane
    soli.
    
    Ella sedeva accanto al balcone aperto; egli le si mise ai piedi.
    
    La luna brillava, inondandoli di un mite e soave chiarore.
    
    - Bianca, adorata! - sussurrò Aldo guardando la giovane che la
    felicità rendeva ancora più bella. - Ora sarai mia per sempre, non è
    vero? Nulla più ci dividerà! Ora anch'io ho uno stato da
    offrirti....
    
    - Credi forse che se tu non fossi riuscito avrei rinunciato a te? -
    rispose Bianca senza arrossire. - Io fui tua fino da quando mi
    considerasti come una sorella, e se adesso vado orgogliosa del tuo
    trionfo, è solo per te. Aldo, credi al mio amore?
    
    - Se ci credo! Ma è il tuo amore che mi ha dato la forza di
    soffrire, di lottare! E qual premio migliore posso ottenere che
    quello di farti mia per sempre! Bianca, io ti adoro, noi saremo
    felici, l'avvenire è nostro! -
    
    L'attirò a sé, senza che ella opponesse resistenza, e per la prima
    volta le loro labbra s'incontrarono in un lungo bacio d'amore.
    
    FINE.